Una sera a Parigi di germangirl (/viewuser.php?uid=228131)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Parigi è sempre una buona idea ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Il sorriso delle donne ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Una sera a Parigi ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Il calcolo delle probabilità ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Manovre di avvicinamento ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Caffè e macarons ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - A spasso per Parigi ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Le temps des cerises ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Un nuovo ingaggio ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Sottosopra ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Montmartre ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Una cena per farli innamorare ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - 31 maggio ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 - Parigi è sempre una buona idea ***
Nota
dell’autrice
Questa
ff è un crossover fra le vite di due attori da me molto
amati e alcuni
personaggi dei romanzi di Nicolas Barreau, dal quale ho preso in
prestito
anche il titolo e l’ambientazione. Se non avete mai letto
niente di Barreau e
avete un animo romantico, vi consiglio di non perdere tempo qui e
andare in
libreria a comprare un suo libro. Oppure potete continuare a leggere
questa
storia e, quando li incontrerete, capirete se vi piacciono o meno.
Intanto,
ringrazio come sempre il mio angelo custode per il suo supporto
incondizionato
e la sua deliziosa penna verde, che migliora sempre di gran lunga le
mie
sciocchezzuole.
E
grazie sin da ora a chi di voi mi regalerà il proprio tempo
e arriverà in fondo
a questo primo capitolo.
Un
abbraccio,
Deb
Capitolo
1 – Parigi è sempre una buona idea
Si
versò del caffè bollente in una tazzona
acquistata a
Disneyworld qualche anno prima, fece pochi passi e restò in
piedi davanti alla
finestra, a fissare il giardino spoglio e trascurato. Lo sguardo era
perso nel
vuoto, tanto da non accorgersi che il calore sprigionato dalla sua
bevanda
aveva cominciato ad appannare il vetro. Era una giornata di inizio
marzo insolitamente
fredda, ben al di sotto delle abituali temperature primaverili che
caratterizzavano il clima californiano anche nei mesi invernali.
Inutile
nasconderlo a chiunque, tantomeno a sé stesso.
Era
deluso.
Dal
punto di vista professionale, la sua carriera si era
arenata. Dopo la chiusura della serie che gli aveva dato
così tanto successo,
si era limitato a qualche cameo o a interpretare personaggi secondari
in altri
telefilm, la cui presenza si limitava a un arco di pochi episodi, o a
prestare
la propria voce in un paio di film di animazione o di videogiochi. Un
curriculum interessante solo per un nerd. Nulla a che vedere con il
ruolo di
protagonista principale di un tv show che aveva come titolo proprio il
nome del
suo personaggio.
Per
non parlare della sua vita privata. Non riusciva a
mantenere una relazione per più di qualche mese. I suoi
coetanei avevano figli che
frequentavano le scuole superiori e lui passava da una ragazza
all’altra, classico
sintomo della sindrome da Peter Pan. Non solo. Anche con gli altri
attori del
cast di quella famosa serie aveva perso i contatti. Non li sentiva da
mesi. Non
era stato in grado di coltivare dei rapporti di amicizia con persone
con cui
aveva condiviso la fatica e la soddisfazione di aver regalato al
pubblico un
prodotto di grande successo. Con cui aveva lavorato per anni, con dei
tour de
force che a volte arrivavano a 14 ore al giorno, dal lunedì
al sabato, per mesi
interi.
Girare
l’ultima stagione era stato particolarmente faticoso:
il clima sul set non assomigliava nemmeno lontanamente
all’atmosfera goliardica
e leggera dei primi anni. Certe scelte autoriali sulla sceneggiatura lo
avevano
lasciato piuttosto perplesso, ma la verità è che
qualcosa si era
irrimediabilmente rotto e lui per primo si era comportato in modo
indecoroso,
in particolare nei confronti della sua coprotagonista.
Inutile
raccontarsi delle balle: era stato un gran
bastardo. Uno stronzo di prima categoria.
Ripensandoci,
si vergognava ancora di certi suoi
atteggiamenti, di certi commenti acidi che non aveva risparmiato a
nessuno, ma
che aveva usato soprattutto per ferire lei, riuscendo appieno
nell’intento,
tanto da ridurla alle lacrime più di una volta. Ma adottare
quella strategia
gli era parsa l’unica soluzione per togliersela dalla mente e
dal cuore.
Visto
che non poteva averla, doveva odiarla. Era un’equazione
semplice.
Al
termine della settima stagione si era sposata con quel
suo connazionale che aveva un cognome impronunciabile e con cui stava
da una
vita. Aveva sempre saputo che era impegnata in una relazione stabile,
però
questo non gli aveva impedito di fantasticare che prima o poi le cose
fra loro
sarebbero cambiate. Poco dopo l’inizio dello show avevano
ceduto a quella
chimica irresistibile che si era creata fra loro sin dal primo incontro
ed
erano finiti a letto insieme, giusto per divertimento. E non solo una
volta. Ma
lei aveva troncato quella storia sul nascere ed era tornata da Kris. Da
parte
sua, in tutti quegli anni non si era certo votato alla
castità, anzi. Si era
sollazzato con una serie di compagne, spesso molto più
giovani di lui, dalle quali
si era fatto distrarre senza troppi problemi. Ma nessuna di loro era
riuscita a
distoglierlo dal suo chiodo fisso. Solo il rapporto con Krista era
durato più a
lungo del solito e gli aveva quasi fatto pensare di potersi liberare
del suo
fantasma, ma alla fine anche quello era naufragato.
E
adesso quella vita non gli bastava più. Aveva bisogno
di cambiare aria e di ritrovare lo slancio almeno nell’ambito
professionale. Ma
come fare? A quale fonte poteva attingere per recuperare la giusta
energia?
Tutto intorno a lui sembrava ricordargli il suo fallimento, come uomo e
come
attore. Doveva allontanarsi il più possibile dallo show
business. Doveva
partire da Los Angeles.
La
suoneria del cellulare lo distolse dal fluire mesto dei
pensieri nel quale era sprofondato. Si allontanò dalla
finestra, posò la tazza
sul mobile e prese il telefono dal divano sul quale lo aveva
abbandonato poco
prima, dopo aver fatto una partita a uno degli ultimi videogiochi che
aveva
installato. Tutta vita, insomma. Il display gli mostrò il
nome della persona
che lo stava chiamando.
“Ciao
mamma” rispose, cercando di adottare un tono
leggero. Non aveva voglia di contagiarla con la sua malinconia, di cui
si
vergognava anche un po’. Non voleva certo passare per una
donnicciola piagnucolosa!
“Ciao
Nate! Tutto bene?” lo salutò allegra la signora
Fillion.
“Certo,
voi? Papà sta bene?” si informò. Nei
mesi
precedenti qualche acciacco aveva costretto suo padre a prendere la
vita con
più tranquillità e a fare pace con
l’idea di non essere più un ragazzino.
Più
facile a dirsi che a farsi, conoscendo il tipo.
Infatti
la madre rispose: “Sì, è insopportabile
come
sempre! Il peggior paziente dell’intero pianeta
Terra…. Comunque, ti chiamavo
per sapere se per il tuo compleanno vieni da noi a Edmonton.”
Tre
settimane dopo avrebbe compiuto 46 anni. La rivelazione
lo colpì come un fulmine. Non che fosse un compleanno
importante, ma
rappresentava un altro passo che lo avvicinava ai 50. Oh my God. Mezzo
secolo.
Gli venne un capogiro all’idea. Un motivo in più
per fuggire. Doveva prendere
il primo aereo e andarsene da lì. Appena possibile. E il
più lontano possibile.
“Nate?
Ci sei ancora?” lo richiamò la madre, preoccupata
per il lungo silenzio.
“Sì…
scusami, avevo altro per la testa. No, non torno a
Edmonton. Pensavo di fare un viaggio, sai, di stare via qualche
settimana…. In
questo momento non ho grandi impegni, ne vorrei approfittare”
dichiarò sereno,
tentando di minimizzare il fatto che in quel periodo non aveva nessun
ingaggio.
“Ah,
be’, peccato, ci avrebbe fatto piacere festeggiare
con te” rispose sinceramente la donna. “Dove
vai?” gli chiese.
Giusto.
Ottima domanda. Molto appropriata. Se solo avesse
avuto una risposta…
“Non
lo so ancora, forse in Europa” buttò lì
senza troppa
convinzione. Il suo rimuginare lo aveva condotto solo alla decisione di
allontanarsi da LA e il pensiero di un giro nel vecchio continente
cominciò a
formarsi piano piano. Innanzitutto, oltre al coast-to-coast,
c’era anche un oceano di mezzo. Una distanza
ragionevole. E poi aveva voglia di qualcosa di diverso e le grandi
capitali
europee avrebbero rappresentato sicuramente una distrazione: buon cibo,
ottimo
vino e belle donne. All’improvviso si materializzò
nella sua mente il volto di
una persona che in Europa si sarebbe dedicata a visitare musei, ad
ammirare l’architettura
dei palazzi storici e a conoscere culture diverse dalla propria. Si
sforzò di
scacciare l’immagine di quel viso bellissimo, però
poi ebbe un’illuminazione e si
chiese: e se per una volta lo avesse fatto anche lui? Aveva detto di
aver
bisogno di cambiamenti, no? Ebbene, sarebbe andato nel vecchio
continente a
fare turismo culturale. Era deciso.
“Oh,
Nate, non sarà pericoloso?” gli domandò
la madre,
allarmata dalle notizie degli attentati nelle grandi città.
L’ISIS pareva aver
dichiarato guerra all’intera civiltà occidentale,
concentrandosi con
particolare efferatezza sulle capitali europee: Bruxelles, Parigi,
Berlino, Londra,
Stoccolma…
“Mamma,
non ti preoccupare. Non voglio che la paura mi
impedisca di viaggiare o di vivere. Ci siamo già passati con
l’11 settembre.
Non devono vincere loro” dichiarò convinto.
L’attacco alle Torri Gemelle
rappresentava una ferita ancora sanguinante per la memoria collettiva
americana,
se non addirittura dell’intera civiltà
occidentale. In particolare, ogni
cittadino statunitense ricordava alla perfezione cosa stava facendo
quel giorno
che aveva cambiato drasticamente il corso della storia. Ma dopo
l’iniziale
stordimento, portato dalla consapevolezza di non essere intoccabili
né
tantomeno invincibili, tutti avevano imparato ad affrontare la paura e
a
riprendere in mano le proprie esistenze. Tutti avevano superato una
specie di
disturbo post traumatico da stress nazionale.
Cookie
Fillion sospirò. Suo figlio aveva ragione, ma il
suo cuore di madre non le impedì di preoccuparsi per lui
“D’accordo. Hai già
pensato a un itinerario? Qual è la prima tappa? Mi hanno
detto che Parigi è
bellissima a primavera…”
Poche
sere prima aveva rivisto per l’ennesima volta in
televisione il film tratto dal bestseller di Dan Brown e
l’idea di visitare i
luoghi dove era ambientato in parte il “Codice Da
Vinci” gli parve subito allettante,
tanto che rispose: “Potresti avere ragione, mamma. Parigi
è sempre una buona
idea.” Poi la congedò e si sentì
pervaso da un’energia che non provava da tanto
tempo. Finalmente aveva un progetto a cui dedicare i propri pensieri.
Si
sedette alla scrivania, accese il laptop, si collegò a
internet e si mise a cercare
volo e albergo. La sua prima destinazione sarebbe stata la capitale
francese e
poi avrebbe deciso quali altri paesi visitare. Acquistò un
biglietto in
business di sola andata e si dedicò ai bagagli: meno di tre
giorni dopo si
sarebbe trovato sotto la Tour Eiffel.
Aprì
gli occhi ed ebbe bisogno di qualche secondo per
realizzare dove fosse. Doveva essersi appisolata subito dopo il
decollo. Non
c’era da sorprendersi: le ultime settimane di lavoro erano
state piuttosto
impegnative ed erano state precedute da un periodo emotivamente
faticoso. Tanto
per usare un eufemismo.
La
nuova sfida professionale, però, non sarebbe potuta
arrivare in un momento migliore. Le cose con Kris non andavano bene da
un po’ e
averlo trovato in un atteggiamento compromettente ed inequivocabile con
la sua
assistente, nel più abusato dei clichés, era
stato la classica ciliegina sulla
torta. Per sua fortuna, sarebbe dovuta partire alla fine della
settimana
successiva per la Bulgaria, dove avrebbe iniziato le riprese per
Absentia.
Tempismo perfetto. Entrambi sapevano di non avere molto da dirsi: la
crisi
andava avanti da troppo tempo e il loro allontanamento era ormai
irrecuperabile. Ma questo non significava che non ci stesse male: con
lui aveva
trascorso molti anni e certo non poteva cancellarlo con un clic. Per
tenere a
bada la nebulosa di sensazioni che le devastavano l’anima,
costituita da
rabbia, delusione e fallimento, si era gettata a capofitto nel lavoro:
avrebbe
dovuto interpretare Emily Byrne, un’agente dell’FBI
– ancora una volta una donna
forte, con un lavoro pericoloso – che scompare
improvvisamente mentre dà la
caccia a un famigerato serial killer di Boston, viene dichiarata morta
per poi
essere ritrovata in un rifugio nei boschi dopo sei anni, viva per
miracolo e
senza alcun ricordo di quel periodo. Tornata a casa, scopre che suo
marito nel
frattempo si è risposato e suo figlio, dunque, ha una nuova
mamma. Un inizio
senza dubbio interessante ed emotivamente molto impegnativo da
interpretare.
Appena aveva letto la sceneggiatura, il suo pensiero era andato alla
sparizione
di Rick Castle a un passo dall’altare. Inutile nasconderselo:
quella serie
avrebbe sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Una punta di
dolore però
la aggredì alla bocca dello stomaco e le fece aggrottare la
fronte: l’epilogo e
in generale l’intera ultima stagione l’avevano
fatta soffrire molto. Forse
avevano addirittura contribuito a mandare all’aria il suo
matrimonio: suo
marito (ancora non si era abituata all’idea di chiamarlo il
suo ex, sebbene
avessero già avviato le pratiche per la separazione) non
aveva capito quanto
stesse male per il clima gelido sul set e per l’atteggiamento
insopportabile
del suo coprotagonista e non aveva saputo starle vicino. Anzi, aveva
cercato di
distrarsi rivolgendosi altrove e rifugiandosi nelle braccia accoglienti
della
sua giovane assistente. Ma questo era un dettaglio di cui Stana era
venuta a
conoscenza solo in seguito e che le aveva rivelato il vero volto
dell’uomo che
aveva sposato.
Guardò
l’orologio e vide che era già passata
un’ora da
quando aveva lasciato la capitale bulgara. Le restavano ancora due ore
di
viaggio prima di arrivare a destinazione. Cambiò posizione
sul sedile del volo
low cost, non certo il massimo della comodità, e si mise a
guardare fuori dal
finestrino, mentre la mente ritornò alla conversazione avuta
il giorno prima.
“Bene,
signori. Ringrazio tutti voi per aver partecipato a questo incontro.
Era
necessario fare il punto della situazione prima di riprendere a girare
i
prossimi episodi. So che state dando il massimo e non ho parole per
dirvi
quanto sia importante per me che abbiate creduto in questo progetto.
Avete tre
settimane di stacco prima di ritrovarci per le prossime
riprese” dichiarò Oded
Ruskin, raccogliendo i propri appunti e spengendo il portatile. Attori,
tecnici
e autori si alzarono dal tavolino e si salutarono. Si era creato un
buon clima
fra loro in tempo breve e i saluti che si scambiarono erano sinceri e
affettuosi. Ruskin aveva ragione: tutti avevano riposto fiducia in una
serie tv,
dai tratti cupi e violenti, che sarebbe andata in onda su un canale a
pagamento, presente in molti paesi nel mondo, ma non certo con un
pubblico
paragonabile alle reti in chiaro.
Dopo
aver scambiato due parole con Matt Cirulnik, lo sceneggiatore, e aver
messo a
punto un paio di dettagli, il regista israeliano si rivolse alla sua
attrice
protagonista: “Stana, puoi fermarti un attimo?”
La
donna si voltò e cercò di sorridergli, ma ad
un’attenta osservazione si vedeva
che un velo di malinconia le offuscava i begli occhi verdi-nocciola.
Solitamente molto riservata, Oded le aveva ispirato fiducia sin dal
primo
incontro, tanto da aprirsi con lui e raccontargli di Kris.
“Che
programmi hai per questa pausa?” le chiese con un interesse
genuino.
“Ho
bisogno di riposarmi, di distrarmi e di riordinare le idee prima di
tornare a
indossare i panni di Emily” gli rispose in tutta
sincerità. “Non vado in
America, se era questo che volevi sapere. E non faccio nemmeno un salto
dalla
mia famiglia in Croazia. Troppi ricordi” aggiunse con un
sospiro. Vicino alla
città di origine dei suoi familiari aveva celebrato il
proprio matrimonio e non
se la sentiva di ritornare sulla… scena del crimine, tanto
per usare
un’espressione che avrebbe potuto pronunciare il suo
personaggio. Sia Emily che
Kate, a pensarci bene.
“Beh,
l’Europa è grande e ha molto da offrire! So che di
recente sei stata in Italia
per le riprese di Lost in Florence…” le
suggerì Ruskin.
“Se
è per quello, qualche anno fa il mio lavoro mi ha portato
anche a Parigi... ma
sai come funziona, quando si gira non c’è mai
tempo per guardarsi intorno,
immergersi in una cultura diversa, visitare un museo… ci
crederesti? Non ho mai
messo piede al Louvre! O al museo d’Orsay, e io adoro gli
impressionisti!”
affermò convinta.
“Cosa
ti impedisce di andarci adesso? Se ti piacciono i musei, a Parigi
avresti
l’imbarazzo della scelta. E poi tu parli anche francese,
no?”
E
così aveva prenotato un piccolo albergo senza pretese,
costituito da poche stanze che si affacciano su un cortile interno
arricchito
da un ippocastano (almeno così diceva il sito), aveva
preparato i bagagli e ora
si trovava sul volo che in tre ore l’avrebbe portata da Sofia
a Parigi. “Parigi
è sempre una buona idea” le aveva detto Ruskin
prima di salutarla.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 - Il sorriso delle donne ***
Capitolo
2 – Il sorriso delle donne
Era
atterrato a Parigi ormai da qualche giorno e la città
lo aveva accolto con un timido sole che aveva fatto capolino fra le
nubi
spesse. Non era la prima volta che si trovava lì: aveva
persino girato alcune
scene di un episodio della quinta stagione di Castle lungo la Senna. Ma
naturalmente quando si è in un posto per lavoro non si ha il
tempo per
andarsene in giro a fare turismo. All’inizio si era sentito
quasi spaesato:
quel luogo era davvero molto diverso dalle città americane.
Però adesso la
Ville Lumière cominciava a piacergli: finora si era limitato
a gironzolare
senza una meta precisa, semplicemente immergendosi nel dedalo dei
tortuosi
vicoli che non seguivano lo schema geometrico tipico di molte metropoli
statunitensi. Non sapevi cosa potevi trovare dietro ogni curva: un
negozio di
antiquariato, un bistrot con i tavoli di legno all’aperto, a
cui i francesi
stavano seduti a bere un café creme
o
a gustare un croissant o un croc monsieur, un palazzo con una lapide
che ricordava che proprio lì aveva vissuto qualche scrittore
o intellettuale
fondamentale per la storia nazionale o addirittura europea. Nomi che,
doveva
riconoscerlo, a lui non dicevano un bel niente. Certo, ogni tanto
doveva ricorrere
al navigatore sul cellulare per capire dove fosse e come ritornare in
hotel,
però l’atmosfera che respirava lo aveva
conquistato e gli aveva restituito un
po’ della gioia di vivere che non provava più da
mesi. Probabilmente era merito
anche delle prelibatezze che mangiava ogni sera nel piccolo ristorante
vicino
all’albergo in cui alloggiava. Anche nella scelta della
sistemazione aveva
deciso di seguire lo stile di quella persona innominabile. Non aveva
rinunciato
a viaggiare in business perché il volo da Los Angeles a
Parigi durava dodici
ore e con la sua stazza non sarebbe riuscito a sopravvivere in economy,
senza
nemmeno poter allungare le gambe. Insomma, ATP va bene, ma
c’è un limite a
tutto! Però aveva scovato un piccolo hotel nel Quartiere
Latino, poche camere
arredate con gusto e traboccanti di vero fascino parigino. Oltre a
questo,
l’alloggio offriva un petit
déjeuner
delizioso: baguettes appena
sfornate,
ancora calde e croccanti, marmellata di fragole fatta in casa, e quei
deliziosi
formaggi… ah sì, i francesi sapevano come godersi
la vita.
La
cosa che più lo aveva impensierito e rattristato erano
i numerosi soldati con giubbotto antiproiettile e armati di
mitragliatrice,
posizionati nelle vicinanze degli obiettivi considerati strategici per
gli
attacchi terroristici: davanti alla cattedrale di Notre Dame, lungo gli
Champs
Elysées, sotto la Tour Eiffel. Anche nel suo paese
d’origine, dopo i fatti
dell’11 settembre, il livello di allerta era cresciuto e di
conseguenza la
presenza delle forze dell’ordine, così come dei
controlli, era aumentata. Ma
vedere la culla della civiltà francese praticamente sotto
assedio lo fece
riflettere amaramente su dove sarebbe andato a finire il mondo.
Dopo
il lungo girovagare, decise che era arrivato il
momento di migliorare la sua cultura: avrebbe iniziato dal Museo
d’Orsay. Non
sembrava imponente come il Louvre, le cui dimensioni lo intimidivano un
po’,
anche se l’idea del mistero della Maddalena lo attirava forse
più della
Gioconda o della Nike di Samotracia (ah, sia lode a Dan Brown!) e
quindi sapeva
che prima o poi lo avrebbe dovuto visitare. E poi la suddetta
innominabile era
un’appassionata di impressionisti e quindi si disse che
valeva la pena capire
perché le piacessero tanto. Aveva visto qualcosa al MoMA, il
museo di arte
moderna a New York, ma era stata una visita frettolosa e non ricordava
molto.
Entrò
nell’ex stazione ferroviaria, creata per
l’Esposizione Universale del 1900 là dove in
precedenza sorgevano una caserma
di cavalleria e il vecchio Palazzo d’Orsay,
acquistò il biglietto, si munì
persino di audioguida e si accinse a iniziare la sua visita.
Passeggiando nelle
varie sale, ascoltò diligentemente le informazioni che gli
venivano fornite
nell’auricolare. Innumerevoli capolavori sfilarono davanti ai
suoi occhi: opere
di Manet, Monet, Cézanne, Renoir, Degas… insomma,
il gotha delle correnti
impressioniste e post-impressioniste. Quell’esplosione di
colori, di storie, di
tecniche pittoriche gli bombardò la mente e piano piano si
fece strada fino al
suo cuore. Giunto nell’area che ospitava i quadri di Van Gogh
si sedette su un
divanetto, provvidenzialmente messo a disposizione per i visitatori
affaticati,
e si tolse l’auricolare.
Era
esausto. A pensarci bene, questa sensazione era il fil
rouge delle sue giornate parigine:
arrivava alla sera con i piedi doloranti per il lungo camminare e le
gambe
stanche. Ma, per quanto paradossale, era una stanchezza corroborante,
che gli
faceva bene all’anima.
Si
accomodò meglio e prese un respiro profondo. Non
ricordava nemmeno più da quanto tempo si trovava in quel
museo. Il dipinto
appeso alla parete davanti a lui catturò la sua attenzione.
Era “la chiesa di
Auvers”. Si mise a osservare i tratti delle pennellate, la
scelta dei colori,
le linee che delimitavano la struttura dell’edificio
rappresentato, che si
stagliava contro il cielo… e nuovamente perse la cognizione
del tempo e dello
spazio. Il suo cervello registrò appena la presenza di qualcuno che si era seduto
accanto a lui.
“E’
affascinante, vero?” sentì dire in inglese dal suo
vicino di panca e quasi sussultò, visto che era
completamente immerso
nell’universo fantastico del pittore.
“Sì…
adesso capisco tante cose” commentò
sovrappensiero,
immaginando l’effetto che la visione di quell’opera
avrebbe avuto
sull’innominabile.
“Io
ci vengo spesso e ogni volta mi stupisce. Ho
ereditato questa passione da mia madre: lei adorava andare nei
musei” aggiunse
l’altro visitatore.
“Davvero?”
gli chiese Nathan, con genuino interesse.
Quello sconosciuto aveva un’aria intrigante e parlava inglese
perfettamente.
Doveva essere americano della East Coast e questa deduzione gli fece
rilasciare
un sospiro di sollievo. Gli serviva un po’ di pausa dallo
sforzo continuo di
esprimersi in francese. Essendo canadese, lo aveva studiato molto bene
a
scuola, ma era un po’ arrugginito perché ormai non
lo usava quasi più. Sapeva
però che l’innominabile avrebbe fatto di tutto per
adattarsi alla cultura del
paese che la ospitava e si sentì in dovere di utilizzare il
più possibile
quell’idioma.
“Quando
era di buon umore, oppure quando si sentiva
triste, quando voleva riflettere prima di una decisione importante o
quando le
succedeva qualcosa di brutto, lei mi portava in un museo. Ho visitato
tutti i
musei di New York: dal Guggenheim
al
MoMa, dal Metropolitan al Museum of Modern History. Mamma aveva un
sorriso
bellissimo” continuò lo sconosciuto, con un velo
di commozione a bagnargli gli
occhi. Nel sentire quella frase, i neuroni di Nathan gli inviarono
l’immagine
di un altro sorriso di cui era stato destinatario qualche volta, anche
a
prescindere dalle scene che avrebbero dovuto girare. Quando erano Stana
e
Nathan e non Kate e Rick. Dio, quanto gli mancava quel sorriso! Nel
frattempo,
l’altro interlocutore si schiarì la gola e disse:
“Oh, mi scusi. Non so perché
le sto raccontando queste cose. Non mi sono nemmeno presentato: sono
Robert
Shermann” e gli porse una mano con fare cordiale.
Nathan
gliela strinse con un sorriso sincero e gli
rispose: “Non si preoccupi. Piacere mio:
sono…”
“Oh,
lo so chi è lei. Sono a Parigi da qualche anno
perché ero venuto per un semestre a insegnare letteratura
inglese alla Sorbona,
un seminario su Shakespeare per la precisione, e poi mi sono innamorato
di una
francese, bisbetica ma adorabile. Anche lei è meravigliosa
quando sorride.
Insomma, sono rimasto qui in pianta stabile. Ma a New York guardavo
sempre la
sua serie in tv. Mia moglie invece non ama la televisione. Ho anche
provato a
farle vedere qualche episodio, ma preferisce leggere. Se non ricordo
male,
l’anno scorso c’è stata
l’ultima stagione, giusto?”
“Ehm…
sì” rispose Fillion. E non seppe
cos’altro
aggiungere. Brutta sensazione.
“Sa
che mio padre ha qualcosa in comune con il suo
personaggio?” disse Shermann.
“E’
uno scrittore?” si informò l’attore.
“Sì,
ma lui scrive libri per bambini. E mia moglie pensa
alle illustrazioni. E’ grazie a lei che ho scoperto che mio
padre non era mio
padre. Intendo che mio padre non era quello americano, ma è
francese. Oddio, mi
scusi, la sto tediando di nuovo con la mia storia personale, mentre lei
era qui
che si godeva Van Gogh”. L’uomo si alzò
e fece per congedarsi, però Nathan lo
richiamò: “Signor Shermann? Le andrebbe un
caffè?”
Robert
si voltò e gli sorrise: “Solo se mi chiama
Robert”
“Allora
io sono Nathan” rispose di rimando. “Ti ho
invitato a prendere un caffè ma non ho idea di dove sia un
buon locale” ammise
sorridendo.
“Se
hai finito con la visita, ce n’è uno non lontano
da
qui” gli propose il professore con un cenno della testa,
scuotendo in quel modo
i capelli ricci disordinati.
“Sì,
direi che per oggi basta. Non sono un grande amante
dei musei, anche se devo ammettere che esercitano davvero un grande
fascino”
dichiarò sinceramente.
“Posso
chiederti allora perché sei stato dieci minuti a
fissare Van Gogh?” si informò Robert.
“E’
una lunga storia…” glissò Nathan. Il
suo nuovo amico
gli sembrava un tipo simpatico, ma non era ancora pronto a raccontargli
i fatti
suoi.
L’esperto
di Shakespeare lo guardò e annuì.
“Andiamo, il
caffè ci aspetta. Hanno anche un’ottima tarte
tatin” aggiunse, conquistandosi così la
stima imperitura del suo nuovo
amico.
La
prima tappa del soggiorno parigino di Stana era stata
dai suoi adorati impressionisti: appena toccato il suolo francese, si
era
precipitata al museo d’Orsay e aveva trascorso praticamente
un’intera giornata
a bearsi del “petit
déjeuner sur l’erbe”
di Manet, delle donne tahitiane di Gauguin, dei papaveri di Monet,
delle
ballerine di Degas, senza dimenticare i dipinti di quel genio di Van
Gogh. Nei
giorni successivi aveva fatto lunghe passeggiate attraverso
l’intrico dei
vicoli o costeggiando la Senna. A volte si cammina per andare da
qualche parte,
a volte si cammina e basta e lei proprio quello stava facendo: le
piaceva
girovagare senza meta, lasciandosi stupire dai segreti che la capitale
le
svelava piano piano. Una sera, infine, si era ritrovata davanti a un
piccolo
cinema chiamato Cinéma Paradis,
che
proiettava esclusivamente film francesi. Non era distante
dall’albergo in cui
alloggiava, e in cui ogni mattina – tempo permettendo
– faceva colazione
all’aperto sotto l’ippocastano. E ogni sera aveva
preso l’abitudine di
assistere alla proiezione accomodandosi sulle vecchie poltroncine di
velluto,
che chissà quante storie di vita avevano visto passare.
Presentandosi
per la terza sera consecutiva, la signora
della cassa la salutò con un sorriso sereno e sincero e,
anche se chiaramente
aveva riconosciuto l’attrice famosa, non le disse niente
né la disturbò per
chiederle un autografo. Stana gliene fu intimamente grata.
Quella
mattina, invece, camminando lungo rue de Dragon, a
pochi metri dalle chiese di Saint-Germain-de-Prés e
Saint-Sulpice, la sua
attenzione venne catturata dall’insegna di una cartoleria. Il
cartello infatti
diceva: Luna Luna – i biglietti dei
desideri di Rosalie. Si avvicinò alla vetrina e
rimase affascinata dalle
decorazioni delle cartoline, dei fermacarte, delle scatole
portaoggetti, delle
matite rivestite, dei taccuini e di tutti gli altri ammennicoli
esposti. I
disegni erano delicati e pieni di colori, seppure con una prevalenza
dei
diversi toni di azzurro. Non poté fare a meno di entrare.
La
campanella della porta annunciò il suo arrivo e un
cane addormentato in una cesta accanto all’ingresso
mugolò appena, a
manifestare il suo dissenso per essere stato svegliato dal suo
sacrosanto
riposo mattutino.
Il
negozio era piccolo ma grazioso. I vari oggetti in
vendita erano disposti con gran gusto e, osservandoli da vicino,
sembravano
decorati a mano.
La
ragazza al bancone la salutò cordialmente e Stana
trasalì e corrugò la fronte. Aveva due occhi
azzurri identici a quelli di
qualcuno che l’aveva fatta soffrire. Molto. Un qualcuno a cui
non pensava da
tanto tempo e che era convinta di aver relegato in un cassetto lontano
della
sua memoria, sepolto da tanti altri ricordi più importanti.
Ma evidentemente
non era così.
“Mi
scusi, non la volevo spaventare” disse Rosalie
Laurent, la proprietaria del negozio, che aveva percepito il disagio
della
cliente ma non riusciva a comprenderne il motivo. Tentò di
sistemarsi la lunga
treccia castana disordinata che le scendeva su un lato e le rivolse un
sorriso
incoraggiante.
“Oh,
sono desolata” disse Stana, scuotendo la testa per
scacciare anche fisicamente dalla memoria il volto che incorniciava
quei due
fari cobalto che lei conosceva bene.
“Nessun
problema. Posso aiutarla? Cercava qualcosa in
particolare?” le domandò Rosalie.
“Mmm…
lei può realizzare i desideri?” le chiese
sorridendo.
“No,
ma forse posso aiutarla a esprimerli” le rispose madame Laurent con sincerità.
“Attraverso le mie illustrazioni” aggiunse, a
mo’ di spiegazione. Poi la
osservò meglio: era un volto che aveva già visto,
ma non riusciva a capire
dove, né in quali circostanze. Parlava un ottimo francese,
ma aveva un accento
simile a quello di suo marito…. Sì, doveva essere
americana. Era una donna
bellissima, eppure i suoi occhi rivelavano una profonda malinconia. Il
suo
sguardo limpido celava indubbiamente una sofferenza.
“Oh,
sono opera sua?” le chiese l’attrice, con sincera
ammirazione.
Rosalie
annuì, poi le si avvicinò e disse, abbassando il
tono della voce con fare cospiratorio, anche se in negozio non
c’era nessuno
oltre a loro due e al cane acciambellato nella sua cesta: “Le
svelo un segreto:
per tanti anni, il giorno del mio compleanno, salivo in cima alla Tour
Eiffel e
gettavo dall’alto un bigliettino contenente un desiderio. Mi
prenderà per pazza,
ma alla fine quel desiderio si è realizzato!”
concluse con una risata
contagiosa.
Quella
donna francese le piaceva: aveva un bel modo di
fare e possedeva un talento notevole nel creare quelle illustrazioni.
“Bè,
mi faccia pensare bene a qual è il mio desiderio
più
grande. Tornerò appena avrò le idee
più chiare” dichiarò Stana e la
salutò,
uscendo dalla cartoleria.
Riprese
il suo girovagare e cominciò a riflettere.
Cosa
desiderava davvero?
Salvare
il suo matrimonio? No, era troppo ferita e quello
ormai era un capitolo chiuso, nel profondo del suo cuore lo sapeva bene.
Avere
successo nel suo lavoro? Sì, certamente, sarebbe
stata una grande soddisfazione se anche la nuova serie tv avesse
riscontrato il
favore di pubblico e critica.
Ma
era davvero questo il suo desiderio più grande? Le
sarebbe bastato?
All’improvviso
si ritrovò davanti a uno degli
innumerevoli ponti di Parigi. Questo però aveva una
caratteristica speciale: le
grate di ferro del parapetto erano ricoperte da migliaia di lucchetti,
scarabocchiati con un pennarello indelebile o finemente incisi. Pegni
di amore
eterno che tantissime coppie di innamorati si erano promessi, di fronte
alle
guglie di Notre Dame che svettavano sullo sfondo. E allora
capì che ciò che
desiderava davvero era proprio quello: il miracolo dell’amore
senza fine.
Quando aveva sposato Kris era convinta che il loro matrimonio sarebbe
durato
per sempre e invece così non era.
Rientrò
il più rapidamente possibile in albergo, si
chiuse nella sua camera e diede libero sfogo al dolore che aveva
affrontato con
grande compostezza fino a quel momento. Pianse fino ad addormentarsi.
Nota
dell’autrice
I
nostri beniamini iniziano a esplorare Parigi e le loro strade
incrociano quelle
di due nuovi personaggi. Robert Shermann e Rosalie Laurent escono dalla
penna
di Nicolas Barreau: io li ho solo presi in prestito! Anche il
Cinéma Paradis
appartiene a Barreau.
Grazie
per avermi dedicato il vostro tempo leggendo anche il secondo capitolo.
Un
abbraccio,
Deb
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 - Una sera a Parigi ***
Capitolo
3 – Una sera a Parigi
La
mattina successiva Stana si svegliò con un brutto mal
di testa, ma con il cuore paradossalmente più leggero. Tutte
quelle lacrime
l’avevano stremata, però almeno era riuscita a
sfogare la sofferenza che aveva
trattenuto negli ultimi mesi. Piangere le aveva fatto bene. Dovette
dare
ragione a Ruskin: Parigi è sempre una buona idea! Aprendo la
pesante tenda che
oscurava la finestra della sua camera, vide che fuori splendeva il sole
e lo
interpretò come il segnale a darsi una mossa e a trascorrere
le ore seguenti
all’aria aperta. Si vestì con un paio di jeans e
un maglioncino leggero, calzò
delle scarpe comode e scese a fare colazione, così da poter
prendere anche un
leggero antidolorifico per far sparire quella tremenda emicrania e
potersi
godere appieno anche quella giornata parigina.
Mélanie,
la ragazza alla reception, le consigliò di
visitare il Jardin du Luxembourg. Non era distante
dall’albergo e, osservando
con attenzione la cartina, scoprì che nelle vicinanze
c’era anche rue de
Dragon, dove si trovava quella cartoleria dei desideri.
Chissà, forse nel
pomeriggio avrebbe potuto farci un salto…
Arrivata
nel grande parco, le sue narici furono invase
dai profumi dei fiori e delle fronde degli alberi: la natura si stava
risvegliando con forza dal letargo invernale e ovunque esplodeva una
nuova
vitalità. Imboccò uno dei sentieri e lo percorse
a passo lento, con le mani in
tasca e la mente leggera. Si sforzò di lasciar fluire i suoi
pensieri senza
imporsi né una meta da raggiungere né un
argomento su cui riflettere. Il suo
girovagare la condusse al lago al centro del giardino, nel quale si
specchiava
il castello. Castle.
L’associazione
mentale fu immediata.
No,
non ci doveva proprio pensare.
Nemmeno
per idea.
Scosse
la testa per scacciare l’immagine di quel volto,
che ancora una volta si era intrufolato nei suoi pensieri, si sedette
su una
panchina e aprì la guida di Parigi, così da
decidere cosa visitare nei giorni
successivi. E così da tenere il cervello occupato con altro,
invece di
rimuginare su un certo coprotagonista che l’aveva fatta stare
tanto male
durante le riprese dell’ultima stagione.
Quel
gran bastardo.
Sfogliò
la Lonely Planet fino a trovare la sezione
dedicata ai dintorni della città, tentando senza successo di
concentrarsi su
quelle pagine: infatti, la sua mente venne attraversata di nuovo da un
paio di
occhi di zaffiro e una pericolosa mistura di rabbia e frustrazione le
chiuse la
gola. Una vampata di calore e un brivido gelido si scontrarono al
centro esatto
del suo petto, provocando un’improvvisa mareggiata.
Ancora
non riusciva a capacitarsi di come il loro
rapporto fosse degenerato fino a quel punto. Quando si erano conosciuti
per
girare il pilot, era scattata fra loro un’intesa
sorprendente, che andava ben
oltre la professionalità di entrambi. Certo, farsi
travolgere – più di una
volta – dagli ormoni non era stata una scelta saggia, ma le
sembrava che la
decisione di non finire più a letto insieme fosse stata
condivisa.
Intendiamoci, il sesso era andato alla grande, su quello niente da
eccepire.
Anzi. Però avevano dato la priorità al lavoro e
al bene della serie. Lei era
andata avanti, aveva scelto Kris e… già, e guarda
un po’ cosa ci aveva
guadagnato. Un bel paio di corna, ecco cosa. Anche lui però
aveva avuto un
sacco di altre storie, come nel suo stile. Ciononostante, erano
riusciti a
mantenere un rapporto di amicizia fino al termine della settima
stagione, o
almeno così le era sembrato, ma sin dal primo giorno di
riprese dell’ottava…bè,
apriti cielo. L’aveva trattata malissimo. Inveiva contro di
lei in particolare
e contro tutti in generale, tanto che le era diventato insopportabile
il solo
pensiero di andare sul set ogni giorno, lei che invece aveva sempre
amato il
suo lavoro. Quando era trapelata la notizia che non le avrebbero
rinnovato il
contratto per un’eventuale nona stagione, aveva tirato un
sospiro di sollievo.
Assurdo, vero? Ma non avrebbe resistito un altro anno accanto a lui.
Eppure…
accidenti, il Nathan che aveva conosciuto
all’inizio non assomigliava nemmeno lontanamente a quello
dell’ultimo periodo.
Pareva quasi che un alieno gli avesse mangiato il cervello! Si
ritrovò
inspiegabilmente a sorridere. Questa era una considerazione che avrebbe
fatto
un nerd come lui. Comunque, tornò seria e si chiese cosa gli
fosse capitato,
senza riuscire a darsi una risposta.
Guardò
l’orologio e decise di cercare un posto dove
mangiare al volo un’insalata, prima di recarsi ancora una
volta in quella
cartoleria. Voleva darsi un’altra chance per essere felice ed
esprimere un
desiderio con l’aiuto delle illustrazioni di Rosalie le parve
una buona idea.
Non
si riconosceva. Quando era entrato nel museo quella
mattina splendeva il sole e adesso che ne stava uscendo la piramide del
Louvre
illuminava il crepuscolo parigino, reso ancora più scuro da
nubi minacciose che
si addensavano sopra la sua testa. Aveva trascorso un’intera
giornata dentro un
museo, zigzagando fra le scolaresche ammassate davanti ai quadri
più famosi, ma
godendosi la visita. Non era da lui. Cosa gli stava succedendo? Un
alieno si
era impossessato del suo cervello? Erano gli effetti
dell’età che avanza? O
forse aveva ragione l’innominabile?
Scosse
il capo, tirò su il bavero della giacca per
ripararsi da un vento frizzante che si era sollevato nel frattempo e,
nonostante l’aria fredda, decise di fare due passi. Aveva
bisogno di stare
all’aperto e di rimuginare su ciò che aveva visto.
A un certo punto della
visita, la sua mente aveva ricevuto così tanti stimoli che
gli era parso quasi
di essere ubriaco. Oltre al sorriso enigmatico, universalmente
riconosciuto, della
Gioconda, aveva ammirato, fra le sculture, la Venere di Milo e Amore e
Psiche
di Canova, poi i numerosi dipinti, come la Vergine delle Rocce di
Leonardo, la
Merlettaia di Vermeer o i quadri di Raffaello, ma anche tutta la
sezione
dedicata agli Egizi e alle civiltà antiche. I ricordi delle
opere d’arte si
rincorrevano nel suo cervello e continuavano a fargli provare una
specie di
senso di ebbrezza. Si accorse solo in quel momento di non avere nemmeno
pranzato: forse più che lo stordimento da sindrome di
Stendhal, la sua era
fame! Guardò l’orologio e vide che erano le sette.
Era digiuno da oltre dieci
ore e urgeva correre ai ripari quanto prima. Dopo la piacevole
chiacchierata
davanti a una squisita tarte tatin,
il suo nuovo amico franco-americano gli aveva lasciato il numero del
cellulare
e gli aveva proposto di sentirsi nei giorni successivi per bere di
nuovo
qualcosa insieme o per andare a cena, ma non gli sembrava il caso di
contattarlo all’ultimo minuto, tanto più che era
felicemente sposato. Già,
Robert aveva una moglie adorabile, lui invece era solo.
Scacciò il senso di
solitudine e si avviò verso il bistrot
che aveva intravisto all’angolo. Si sarebbe consolato con un
gustoso coq au vin accompagnato da
un bicchiere
di vino rosso. Anche le sue papille gustative meritavano un trattamento
speciale.
La
visita alla cartoleria era stata deliziosa come il
giorno precedente. Una delle clienti di Rosalie le aveva decantato
ulteriormente il talento artistico della giovane disegnatrice,
rivelandole che
aveva illustrato una fiaba per bambini che era stata pubblicata qualche
anno
prima e che riscuoteva ancora un discreto successo editoriale. Quando
se n’era
andata, Rosalie si era scusata per l’invadenza di madame de Rougemont e, rimaste da sole,
avevano ripreso a
chiacchierare. Visto che quel pomeriggio in negozio era di turno la sua
assistente, la gentile madame
Morel,
la decoratrice le aveva offerto un the
à
la rose, preparato nel piccolo appartamento che aveva ancora
sopra il
negozio, nel quale però si limitava a lavorare, visto che
adesso abitava con il
marito nei pressi della Sorbona, e le aveva raccontato in breve quanto
era
stata importante quella storia per la sua felicità: grazie a
quella favola
aveva incontrato l’uomo della sua vita, seppure in modo
alquanto rocambolesco.
Stana le aveva detto del suo lavoro e della sua situazione
sentimentale, senza
entrare troppo nel dettaglio. Ma a volte è più
facile aprirsi con un estraneo
che con qualcuno che ci conosce fin troppo bene, perché non
è coinvolto in
prima persona né ha dei preconcetti. Rosalie dapprima si
scusò per non averla
riconosciuta subito, anche se le confessò che il giorno
prima si era chiesta
dove l’avesse già vista. Poi il suo animo
sensibile si commosse nel sentirla
parlare della fine del suo matrimonio, così le strinse la
mano con tenerezza e
le disse che pensava di avere il biglietto giusto per lei.
Frugò fra le carte
sparse sul grande tavolo da disegno, che occupava la maggior parte
dello spazio
nel piccolo appartamento, e le porse un cartoncino color crema, sul
quale erano
rappresentati un uomo e una donna che si tenevano per mano e volavano
sopra
Parigi, stringendo un palloncino a forma di cuore.
“Va’
dove ti porta il cuore, Stana. Bisogna sempre
fidarsi del cuore. Lui non sbaglia mai” le disse con
semplicità.
L’attrice
l’abbracciò di slancio per ringraziarla e le
promise che sarebbe tornata presto a trovarla e l’avrebbe
invitata a prendere
un café crème,
per ricambiare la sua
gentilezza. Quella ragazza le piaceva molto ed era felice di averla
conosciuta.
Scese la piccola scala a chiocciola che collegava
l’appartamentino al negozio,
salutò madame Morel e
uscì. Vista
l’ora e le nubi sempre più minacciose, si
affrettò a mangiare una cena leggera
in un bistrot e si avviò al suo consueto appuntamento serale
con il Cinéma Paradis.
Quella
sera, per il ciclo “les amours au
Paradis”, era in programma “Gli amanti
del Pont-Neuf”
di Leos Carax, un vecchio film degli anni 90 che raccontava una
drammatica
storia d’amore. Alla cassa non c’era la solita
signora, bensì un gentiluomo che
gli altri frequentatori del cinema sembravano conoscere bene e che
chiamavano
tutti per nome, Alain. Probabilmente erano degli spettatori abituali e
avevano
fatto amicizia con chi lavorava in quell’oasi di pace. Una
volta acquistato il
biglietto, scelse una delle ultime file, a destra dello schermo. La
platea non
era molto grande e si poteva godere di una buona visuale praticamente
da ogni
posizione. Si tolse la giacca, la piegò con cura, la mise
sulla poltroncina
accanto alla sua e si apprestò a un nuovo tuffo nel cinema
francese.
Dopo
aver cenato, Nathan uscì dal piccolo ristorante e riprese
a camminare. Aveva bevuto un bicchiere di vino per accompagnare quel
succoso
pollo che gli avevano servito e fare due passi lo avrebbe aiutato a
digerire e
a schiarirsi le idee. Inoltre, gli piaceva vedere la città
di notte, con le sue
innumerevoli luci e con quell’atmosfera onirica che certi
luoghi sembravano
emanare. Non a caso, si chiamava Ville
Lumière. “Questo posto è un
paradiso” si disse mentalmente, soddisfatto per
aver scelto di visitare proprio quella capitale. Non fece in tempo a
terminare
il pensiero che le cataratte del cielo si aprirono e diedero vita a un
fragoroso temporale. In breve, le poche auto che circolavano
cominciarono a
sollevare schizzi d’acqua che mischiati alla pioggia resero
impossibile
muoversi a piedi. Privo di ombrello, l’attore si mise in
cerca di un riparo
finché vide un cartello che indicava un cinema.
Cinéma
Paradis.
Ecco
il paradiso di cui aveva bisogno! Pagò il biglietto
e l’uomo alla cassa gli raccomandò caldamente di
non fare alcun rumore, visto
che il film era già iniziato da alcuni minuti.
Entrò con cautela e si sedette
sulla prima poltroncina che trovò, nell’ultima
fila a sinistra dello schermo.
La sala non era certo affollata, ma nell’ombra non
riuscì a distinguere chi
fossero gli altri spettatori. In ogni caso, non importava.
Ciò che contava è
che quello era un luogo caldo e asciutto. E guardare un film francese
non gli
avrebbe fatto male, a prescindere dalla trama. Magari avrebbe anche
potuto
imparare qualcosa.
Due
ore dopo, mentre scorrevano ancora i titoli di coda,
le luci si accesero e mostrarono la commozione che aveva rigato il
volto a più
di una spettatrice e anche a qualche spettatore. Tutti si affrettarono
però a
nascondere i fazzoletti e quel lato sentimentale di cui spesso le
persone si
vergognano, come se ci fosse qualcosa di male. Anche Nathan era rimasto
colpito
dalla tragica storia di Alex e di Michelle, ma aveva trattenuto le
lacrime.
Stana invece si asciugò gli occhi e si alzò per
indossare la giacca. Voltandosi
verso sinistra, il suo sguardo incrociò quello di Nathan che
a sua volta si
stava rivestendo. Entrambi rimasero pietrificati.
Nota
dell’autrice
Parigi
è una metropoli, ma quando il destino ci mette lo zampino
è impossibile non
incontrarsi!
Anche
Madame de Rougemont, madame Morel e Alain escono dalla penna di Nicolas
Barreau.
Grazie
per avermi dedicato il vostro tempo leggendo anche questo capitolo.
Spero di
trovarvi anche al prossimo!
Deb
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 - Il calcolo delle probabilità ***
Capitolo
4 – Il calcolo delle probabilità
No,
non poteva essere vero.
Quante
probabilità esistevano che si trovassero entrambi
proprio in quel piccolo cinema, nello stesso momento, seduti a pochi
metri di
distanza? Una su un miliardo? Una su un milione di miliardi? Il destino
sembrava possedere un senso dell’umorismo alquanto beffardo.
O forse il fato
stava cercando di mandare loro un segnale? Bè, qualunque
cosa fosse, il
risultato di quell’incontro di sguardi fu il gelo.
La
donna abbassò gli occhi e cercò di ricordare
quali
fossero i gesti necessari per indossare correttamente il soprabito e
uscire nel
modo più rapido possibile da quella situazione, prima che il
cuore le
scoppiasse in petto e il cervello le si annebbiasse del tutto.
Più facile a
dirsi che a farsi. Pareva infatti che il suo muscolo cardiaco avesse
deciso di
suicidarsi andando a sbattere ripetutamente contro la cassa toracica.
Dentro di
lei stava salendo una rabbia incontenibile nei confronti di
quell’essere che le
aveva procurato tanto dolore durante l’ultima stagione di una
serie tv che
aveva adorato. Era riuscito a guastare il ricordo di
un’avventura professionale
che le aveva regalato tante soddisfazioni, non solo per i
riconoscimenti
ricevuti, ma anche per l’affetto che le avevano dimostrato i
numerosi fan.
Inoltre, le aveva permesso di recitare al fianco di tante persone
meravigliose,
che avrebbero conservato sempre un posto speciale nella sua anima e con
le
quali era ancora in contatto: Tamala, Jon, Seamus e Juliana, Penny,
Molly e persino
Ruben, anche se il suo personaggio era morto tragicamente al termine
della
terza stagione. Per non parlare di Andrew e Terri Marlowe o di Rob
Bowman, che
con la loro creatività avevano dato il via alla magia.
Insomma,
tutte tranne lui, quello stronzo. Non avrebbe
più voluto avere nulla a che fare con un bastardo del genere.
Peccato
solo che il suddetto bastardo fosse proprio
accanto alla porta, pertanto sarebbe stato impossibile evitarlo, a meno
che non
si fosse dotati di teletrasporto. Se non altro, gli altri spettatori
sembravano
non aver fatto caso a quella corrente artica che si era creata nella
sala fra
un paio di occhi color del cielo e due iridi verdi-nocciola e sfilarono
uno
dopo l’altro verso l’uscita, abbandonando la poesia
del cinema per tornare alla
prosa della propria vita quotidiana, lasciandoli da soli.
Nathan
si riscosse dallo stordimento in cui era caduto,
afferrò la giacca e aspettò che lei si
avvicinasse. Lo stupore aveva
paralizzato anche lui e i suoi occhi sbarrati erano lo specchio di
quelli della
donna. Non aveva la più pallida idea di cosa dirle,
né sapeva cosa si sarebbe
dovuto aspettare da lei. Al termine dell’ottava stagione non
si erano nemmeno
salutati di persona, figuriamoci.
Ed
ora, eccoli qui, uno di fronte all’altra.
In
un cinema minuscolo.
In
un altro continente.
A
migliaia di chilometri da casa.
Prese
un profondo respiro e si apprestò ad affrontare
l’inevitabile incontro, mentre la strisciante sensazione di
disagio aumentava
con il passare dei secondi. La osservò con attenzione mentre
si avvicinava. Era
ancora più bella di quanto si ricordasse, accidenti.
“Ehm…
io…. Tu…” cercò di dirle, ma
non riuscì a trovare
le parole, come se avesse dimenticato come articolare i suoni e il suo
cervello
fosse andato in corto circuito per il sovraccarico di emozioni. Come
poteva
spiegarle ciò che provava e chiederle perdono per come
l’aveva trattata? Non
era preparato a questo. Non aveva nemmeno osato sperare di incrociare
di nuovo
la sua strada. Mai si sarebbe aspettato di trovarsela lì a
portata di
abbraccio. A portata di abbraccio? Sì, era proprio quello
che avrebbe voluto
fare, ma naturalmente sapeva che l’eventualità di
poterla solo sfiorare era
pressoché remota, figuriamoci tenerla fra le braccia tipo
per qualche minuto,
ora, giorno, mese, anno o addirittura l’eternità.
Stana
scosse la testa, distolse lo sguardo per evitare
che lui si accorgesse del tumulto che aveva dentro e sibilò:
“Non dire niente.
Noi due non abbiamo nulla da dirci.” Poi gli sfilò
davanti, il cuore dolente e
la gola stretta in una morsa. Ma nemmeno per idea si sarebbe mostrata
in
lacrime davanti a lui. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Non
più. Era
già stato abbastanza penoso avergli palesato la sua
vulnerabilità quando
lavoravano insieme. Non doveva più succedere.
“Aspetta.
Lascia che ti offra almeno un caffè…”
Nathan la
afferrò per un braccio, facendola voltare verso di lui.
“No,
sono stanca. Buonanotte” gli disse, senza mai
sollevare gli occhi. Perché diavolo non capiva che aveva
bisogno di stare da
sola? Che il solo pensiero di averlo davanti a sé le
riportava alla mente dei
ricordi dolorosi? Quell’uomo era un deficiente, un perfetto
idiota. Doveva
essere stato lobotomizzato. Non c’era altra spiegazione.
“Allora
domani? Quanto tempo vi fermate?” insistette,
usando il plurale perché era convinto che fosse a Parigi con
il marito, anche
se… un momento, quel Kris non si vedeva da nessuna parte.
“Domani
vado a Giverny alla Fondation Claude Monet” gli
rispose. Lo aveva letto sulla guida mentre si godeva
l’atmosfera e i profumi
primaverili al Jardin du Luxembourg quella stessa mattina e aveva
deciso che
non se lo sarebbe perso, visto che era facilmente raggiungibile in
treno da
Parigi e che proprio in quel luogo il pittore impressionista aveva
deviato il
corso del fiume Epte per creare il bacino delle ninfee che gli avrebbe
ispirato
l’ampia serie degli omonimi dipinti. Che poi, a pensarci
bene, perché mai si
sentiva in dovere di dargli delle spiegazioni? Ma in quel momento non
aveva né
il tempo né l’energia per darsi una risposta.
“Allora
dopodomani? Posso telefonarti? Ti prego…” la
implorò.
Stana
sospirò e annuì, poi si divincolò
dalla mano
dell’uomo che ancora le teneva il braccio e uscì
rapidamente dal cinema,
correndo sotto la pioggia e rimpiangendo, in modo del tutto
inspiegabile e
irrazionale, quel piacevole tepore che il tocco di lui le aveva
lasciato
sull’avambraccio. Aveva bisogno di allontanarsi il
più possibile da colui che
aveva rappresentato la fonte di tanto dolore e non aveva intenzione di
trattenersi un secondo di più. Anche se nella sua splendida
voce baritonale
aveva percepito una nota di malinconia e di sofferenza che non le
sarebbe
dispiaciuto approfondire. Insomma, dentro di lei si agitava un
guazzabuglio di
pensieri e sentimenti contrastanti per i quali non riusciva a trovare
una
spiegazione. Ci doveva essere qualcosa nell’aria di Parigi
che le annebbiava le
idee.
Appena
si ritrovò fra le quattro pareti della sua piccola
ma confortevole camera d’albergo, al sicuro dagli scrosci del
temporale, si recò
in bagno per asciugarsi i capelli e lo specchio le restituì
l’immagine
impietosa di un volto corrucciato e con il trucco, seppur leggero,
rovinosamente sbavato, sia per le lacrime versate durante la visione
del film
sia per la pioggia scrosciante. Averlo incontrato l’aveva
provata molto:
nonostante avesse tentato di toglierselo dalla testa e dal cuore,
quell’uomo
esercitava ancora un grande potere su di lei. Un momento, toglierselo
dal
cuore? E questa come le era venuta in mente? Chiuse gli occhi per
respingere
l’immagine di quel viso sorpreso e contrito, prese dei
respiri profondi per
cercare di calmarsi e cercò di concentrarsi sul programma
che aveva pianificato
per il giorno successivo. Amava tutti gli impressionisti e visitare i
luoghi
che avevano ispirato quei dipinti, fra cui il quadro delle Ninfee che
ricopriva
un’intera parete del MoMA di New York, le sembrava un sogno.
Si rifugiò
nell’arte e la usò come scappatoia per evitare di
riflettere sul significato di
quell’incontro.
In
un altro hotel nel Quartiere Latino, non molto
distante, Nathan stava pure peggio. Appena varcata la soglia della sua
stanza,
si tolse la giacca inzuppata dalla pioggia e crollò sulla
sedia accanto alla
graziosa scrivania di legno intagliato, prendendosi la testa fra le
mani.
Quell’incontro lo aveva sconvolto. L’aveva rivista
dopo tanto tempo eppure il
suo cuore aveva fatto le capriole appena i suoi occhi avevano
incrociato quelli
di lei. Scosse il capo: non aveva nessun diritto a pensare a lei, non
dopo il
modo in cui l’aveva trattata. E poi era pur sempre una donna
sposata. Un
momento, al cinema non c’era nessun marito accanto a lei. Ma
questo non voleva
dire nulla: magari quel Kris comecaspitasichiamadicognome aveva un
impegno di
lavoro e non gli era stato possibile accompagnarla. In ogni caso,
Nathan le
aveva strappato il permesso di poterla chiamare due giorni dopo. Era
già
qualcosa. Se non altro, avrebbe avuto
l’opportunità di scusarsi per come si era
comportato durante l’ultima stagione di Castle. Anche se, a
pensarci bene, cosa
le avrebbe detto? Che l’aveva trattata male perché
in realtà si sarebbe voluto
rotolare in un letto con lei fino a perdere i sensi e a non ricordarsi
nemmeno
il proprio nome? No davvero, questo era fuori discussione.
Però, bè, se non
altro le avrebbe chiesto perdono, senza dare troppe spiegazioni e
sperando che
lei accettasse le sue scuse. Gli sarebbe piaciuto invitarla a bere un café crème o una
cioccolata calda e a
mangiare quei macarons tutti
colorati, magari in un bel locale parigino, con la giusta atmosfera.
Voleva che
almeno di quell’incontro serbasse un ricordo piacevole. In
realtà, avrebbe
voluto che lei conservasse un bel ricordo di tutto il periodo in cui
avevano
camminato parallelamente, perché lei inconsapevolmente gli
aveva migliorato la
vita. Ma temeva che per quello, ormai, fosse troppo tardi.
Meglio
concentrarsi sul presente. Gli serviva un posto
carino dove portarla, ma dove andare?
Un
brivido di freddo lo scosse e gli fece comprendere che
forse era il caso di farsi una bella doccia calda prima di pianificare
altre
mosse. Non aveva più quindici anni e la cervicale non lo
avrebbe perdonato la
mattina successiva. Si alzò dalla sedia e andò
verso l’attaccapanni a cui aveva
appeso la giacca. Frugando nella tasca per recuperare il cellulare e
metterlo
in carica, vide che oltre un’ora prima gli era arrivato un
messaggio. Non se ne
era accorto subito perché lo aveva lasciato in
modalità silenziosa, come
caldamente richiesto dal signore alla cassa del cinema. Sorrise quando
vide il
mittente: Robert gli chiedeva se l’indomani avesse tempo per
bere qualcosa
insieme. Ecco a chi avrebbe potuto rivolgersi per farsi consigliare il
posto
giusto dove invitare la sua… sua cosa? Non era sua per
niente. Non era nemmeno
più sua collega. Figuriamoci sua amica. E sua fidanzata o
meglio amica di letto
lo era stata troppo tempo fa. Bando alla malinconia, si disse, rispose
a Robert
confermandogli l’appuntamento per il giorno successivo fuori
dalla Sorbona
all’orario da lui proposto e si recò in bagno per
quella doccia calda che
sperava lo avrebbe rimesso in sesto. Stette a lungo sotto il getto
fumante,
confidando che gli regalasse un po’ di benessere e
serenità, poi si asciugò con
cura e si preparò a coricarsi, anche se sapeva bene che il
suo sonno sarebbe
stato turbato dall’immagine del bel volto corrucciato di
Stana e dalla durezza
che aveva percepito nella sua voce.
Come
da copione, era riuscito ad addormentarsi solo alle
prime luci dell’alba, dopo aver rimuginato a lungo sul
significato di
quell’incontro. Non era un tipo da masturbazioni mentali,
però doveva
riconoscere che era una strana coincidenza averla trovata in quel
piccolo
cinema in un'altra nazione, tanto distante da casa. Qualcuno gli aveva
detto
che le coincidenze non esistono e che in realtà si tratta di
sincronicità.
Quindi il suo cammino si era sincronizzato con quello di Stana. Figo!
Già, ma
perché? In ogni caso, si disse che era opportuno non
lasciarsi scappare questa
occasione, così che magari anche il suo karma e la sua
carriera ne avrebbero
beneficiato. Non conveniva lasciare niente di intentato. E lei era
ancora bella
da far paura, forse addirittura più di quanto ricordasse.
Visto
che l’appuntamento con Robert era nel pomeriggio,
quella mattina decise di visitare l’Art Ludique, il museo
dedicato a fumetti,
videogiochi, manga e film d’animazione: possedeva
già una discreta collezione
di questi oggetti ed era convinto di poter trovare qualche pezzo
interessante
anche a Parigi. La struttura stessa dell’edificio che
ospitava il museo era
avveniristica e dava l’impressione di accedere ad
un’astronave. Già questo
sarebbe bastato per convincerlo a investire il suo tempo in
quell’impresa!
Quando poi vide sul sito che in quelle settimane c’era
persino una mostra
dedicata ai supereroi della Marvel ebbe la certezza di aver preso la
giusta
decisione. La mente lo riportò al periodo in cui aveva
girato Firefly, che,
nonostante non avesse avuto un enorme successo, rimaneva
l’avventura
professionale in cui si era divertito di più, come aveva
più volte dichiarato.
Oltre al capitano Reynolds, però, le sue sinapsi gli
presentarono l’immagine di
Stana mentre indossava il costume del tenente Chloe di Nebula 9,
nell’episodio
di Castle ambientato nel mondo delle serie tv di fantascienza. A parte
quell’orribile maschera che aveva messo per la scena finale,
dovette ammettere
che era sexy da morire con quell’abitino corto e le scarpe
con i tacchi
vertiginosi. A pensarci bene, quella donna era sexy da morire in tutti
gli
episodi che avevano girato, a prescindere dalla mise o
dall’acconciatura.
Scosse la testa e decise di allontanare la visione di lei con i capelli
scompigliati da post-sesso, coperta solo dalla sua camicia nella scena
di
apertura della quinta stagione e si concentrò sui fumetti.
Le ore successive
scivolarono tranquille, immerso nel mondo fantascientifico che tanto
amava.
Qualche patito come lui lo riconobbe e gli chiese
l’autografo, chiamandolo Mal.
Evidentemente, non era l’unico rimasto affezionato al
protagonista della serie
ideata da Joss Whedon.
La
mattinata lasciò il posto al pomeriggio e Nathan si
avviò verso la Sorbona, così da incontrare Robert
che lo aspettava seduto a un
tavolino all’aperto. La giornata infatti era soleggiata e le
temperature
abbastanza miti da poter stare fuori senza congelare. La tempesta della
sera
prima sembrava non aver lasciato strascichi. Anzi, il cielo risplendeva
di un
azzurro intenso, come se fosse stato tirato a lucido per
un’occasione speciale.
“Ciao
amico!” lo salutò il professor Shermann, felice di
poter usare quella formula così comune negli Stati Uniti ma
praticamente
assente nella cultura francese.
“Ciao
Robert, come stai?” rispose Nathan, accomodandosi
sulla sedia di vimini di fronte a lui.
“Cosa
ti posso offrire?” gli chiese Robert, mentre faceva
cenno alla cameriera affinché si avvicinasse per poter
prendere il loro ordine.
“Un
caffè andrà benissimo, ma se permetti vorrei
pagare
io questa volta perché avrei bisogno di un favore”
dichiarò.
“Come
vuoi. Adesso ordiniamo e poi mi dici in cosa posso
aiutarti” replicò Robert, incuriosito dalle parole
dell’attore.
La
cameriera doveva averlo riconosciuto perché
indugiò
con lo sguardo su Nathan e trattenne a stento un sorrisino, ma si
comportò in
modo professionale, prese nota delle loro richieste e tornò
pochi minuti dopo
con due tazze di caffè. Nathan ne bevve un piccolo sorso,
stupendosi ancora una
volta della quantità decisamente inferiore rispetto allo
standard americano,
sollevò gli occhi e incrociò quelli di Robert che
aspettavano impazienti.
“Ok,
spara” gli disse Shermann senza troppi convenevoli.
“Ehm…
voglio invitare una signora, ma la vorrei portare
in un bel posto, sai… uno un po’
raffinato…. con una bella atmosfera” disse
Nathan.
“Ehy
amico, vedo che non perdi tempo. Due giorni fa mi
hai detto che eri qui da solo e hai già fatto conquiste? Chapeau!” lo prese in giro
Robert.
“Non
si tratta di una conquista, ahimé…”
rispose Nathan e
per un attimo arricciò le labbra in una smorfia di dolore e
delusione, ma si
ricompose e continuò: “diciamo che è
una vecchia conoscenza e ho qualcosa da
farmi perdonare.”
Robert
lo osservò con attenzione, senza dire niente e
aspettando che fosse l’altro a continuare, rispettando la sua
eventuale scelta
di non aggiungere altri dettagli. Percepiva che
quell’affermazione doveva
celare una storia complicata, ma non erano ancora abbastanza in
confidenza da
poter entrare a gamba tesa e costringerlo a confessargli le sue
malefatte,
sebbene quella vicenda lo incuriosisse. Non riuscì
però a trattenersi dal
chiedergli, con un lampo divertito negli occhi: “Quanto
l’hai combinata grossa?
Sai, giusto per suggerirti il posto più adatto dove
invitarla…”
Nathan
colse al volo l’ironia della domanda e gli rispose
sorridendo e spalancando le braccia: “Credimi, forse non
basterebbe nemmeno
prenotare l’intera sala di quel ristorante sulla Tour Eiffel,
quello
costosissimo… aspetta… non ricordo il
nome…”
“Il Jules Verne?”
suggerì Robert. Al
cenno affermativo del capo di Nathan, il
professore commentò: “Ahi ahi ahi, amico, qui la
faccenda si fa complessa! Ma
farò del mio meglio per esserti utile. Forse dovresti
regalarle anche dei fiori
e scriverle un bigliettino, sai? Alle donne piacciono queste cose.
Oddio, le
donne non sono sempre comprensibili, anzi, non le capisci quasi mai, ma
questo
l’ho imparato da mia moglie: lei ha una cartoleria in cui
realizza e vende
cartoncini decorati per tutte le occasioni!”
dichiarò con orgoglio.
“Mmm…
a quello non avevo pensato… intanto dimmi dove la
potrei portare, poi magari facciamo un salto nel negozio di tua moglie,
se non
è troppo lontano” rispose sinceramente.
“OK…
allora, ci sarebbe il ristorante La Coupole… è
sempre affollato sia dai turisti che dai parigini… ha un
bell’ambiente, con i
lampadari art déco, sicuramente d’atmosfera, e
fanno dei piatti di pesce da
leccarsi i baffi” propose Robert.
“In
realtà non credo di poterla invitare a cena, è
qui
con il marito” spiegò Nathan, a disagio.
“Non
aggiungere altro, non lo voglio sapere” dichiarò
Robert, sollevando una mano. Poi riprese con entusiasmo:
“Andiamo più sul
semplice, ok? Diciamo un locale, tipo un caffè letterario?
Parigi è sempre
stata la meta preferita di scrittori e artisti, in tutte le epoche, in
particolare alla fine dell’Ottocento: si ritrovavano nei
locali a bere, fumare
e discutere di arte, politica e correnti letterarie.”
“Devi
essere un bravo insegnante, amico” affermò Nathan,
in modo genuino.
Shermann
gli lanciò uno sguardo interrogativo e Fillion
si affrettò ad aggiungere: “Si vede dal tuo modo
di spiegare le cose! Comunque,
un locale del genere è quello che fa per me: la signora in
questione legge
molto e ama l’arte, con una particolare predilezione per gli
impressionisti”
Robert
gli sorrise e continuò: “Bene, allora la puoi
portare a Le Procope, il caffè più antico di
Parigi e una vera istituzione per
i francesi. Lo hanno frequentato i grandi filosofi che ai suoi tavoli
hanno
discusso dei massimi sistemi dell’universo, oltre a scrittori
come Victor Hugo.
Oppure Le Café de la Paix, dove andava spesso anche
Hemingway. O ancora Le Café
de Flore, il preferito di Jean Paul Sartre e Simone de
Beauvoir.”
“Wow,
grazie amico, non ho che l’imbarazzo della scelta
allora!” esclamò Nathan. Poi congiunse le mani
sotto il mento ed espresse a
voce alta il resto del suo ragionamento: “Devo solo capire
dove alloggia,
magari scelgo quello più vicino così lo possiamo
raggiungere a piedi.”
“Forse
non lo sai, ma anche a Parigi esistono i taxi” lo
canzonò Robert.
“Molto
divertente, Robert. Ma la signora in questione ha
a cuore l’ambiente e preferisce usare i mezzi pubblici o
addirittura andare in
bici o a piedi” spiegò, facendo spallucce.
Rispettava la sua scelta e il suo
impegno, ma doveva ammettere che lui per primo era un convinto
sostenitore
della comodità e della pigrizia.
A
quel punto, Robert si ricordò di aver letto da qualche
parte del progetto ATP promosso da Stana Katic e il suo cervello fece
immediatamente due più due. Un lampo gli illuminò
lo sguardo e Nathan capì che
il suo amico aveva compreso a chi si stava riferendo. Annuì
e disse, quasi
sussurrando: “Sì, è lei, ma non mi
chiedere altro”
“No,
amico, non ci crederai… Oddio, il mondo è davvero
piccolo… chi l’avrebbe mai pensato…
Quando lo racconto a Rosalie mi prenderà
per pazzo…però effettivamente c’era un
certo feeling, si vedeva bene…”
farfugliò Robert, mentre l’attore lo guardava
corrugando la fronte per cercare
di decifrare quelle frasi sconclusionate messe insieme dal suo amico:
sembrava
che l’eloquenza per cui aveva elogiato il professore pochi
minuti prima si
fosse dileguata del tutto. Shermann si rese conto di aver esternato i
suoi
pensieri in modo ermetico, così si schiarì la
gola per ricomporsi e gli disse:
“Rosalie è mia moglie e mi ha detto che qualche
giorno fa la signora di cui stiamo
parlando è andata nel suo negozio e hanno fatto due
chiacchiere, anzi, le ha
addirittura preparato un tè.” Davanti allo sguardo
stupito di Nathan aggiunse
con fare cospiratorio: “E ti dico una cosa: puoi anche
invitarla a cena.”
Nota
dell’autrice
L’universo
manda chiari segnali ai nostri protagonisti: i loro nuovi conoscenti
parigini,
guarda un po’, sono marito e moglie! Cos’altro
avrà in serbo per loro il
destino?
Spero
di trovarvi anche al prossimo capitolo: intanto, grazie per avermi
regalato il vostro
tempo arrivando fino qui.
Deb
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 - Manovre di avvicinamento ***
Capitolo
5 – Manovre di avvicinamento
La
giornata a Giverny era stata perfetta: si era tuffata
nell’universo artistico di Monet e aveva rinchiuso in un
angolino del suo
cervello il ricordo dell’inaspettato (e sconvolgente)
incontro della sera
precedente. Oltre al musée des
impressionismes e alle sue collezioni temporanee, aveva
visitato la casa in
cui l’impressionista aveva vissuto per molti anni, fino alla
propria morte, e
aveva passeggiato a lungo nel giardino, traboccante di emerocalle,
rose,
tulipani, glicini, gladioli, iris, salici piangenti e molte altre
piante, che a
pieno titolo gli avevano conferito il marchio di “jardin remarquable”. Le era
piaciuto in particolare il delizioso
laghetto, fonte di tanta ispirazione, aveva respirato la stessa aria e
ammirato
quegli stessi colori che avevano dato origine alla lunga serie dei
dipinti
delle ninfee. Nel bookshop del museo aveva acquistato uno splendido
volume
illustrato e adesso se ne stava sul letto, sprofondata nella lettura.
Quella
sera niente cinema. Non voleva correre il rischio
di ritrovarsi faccia a faccia con lui. Di fronte alle sue insistenze,
gli aveva
concesso di ricontattarla per prendere un caffè insieme, ma
non era più sicura
che fosse una buona idea. In ogni caso, non si sentiva ancora pronta
per
affrontarlo di nuovo.
Era
rientrata in albergo nel tardo pomeriggio, dopo aver
mangiato una baguette au jambon in
una graziosa pasticceria poco distante, che si vantava di sfornare le
migliori
baguette di tutta la Francia, aveva fatto una lunga doccia calda e si
era
infilata il pigiama e i calzettoni, sedendosi poi sul letto e
allungando le
gambe. Le si prospettava una serata di totale relax e le andava bene
così.
Il
suono proveniente dal suo cellulare la informò di aver
appena ricevuto un messaggio. Anche se si trattava di un albergo tutto
sommato
modesto, il segnale wi-fi era potente e le permetteva di comunicare via
whatsapp con la sua famiglia e di mantenersi informata su
ciò che accadeva nel
mondo, leggendo i suoi giornali preferiti on-line. Quella mattina,
appena
sveglia, era stata anche tentata di curiosare sui siti di gossip o su
twitter
per raccogliere informazioni sul suo ex coprotagonista, ma aveva scosso
la
testa e si era preparata alla gita a Giverny, senza pensarci
più.
Chiuse
il libro su Monet, lo depose con cura sul letto –
era davvero una splendida edizione e non voleva rovinarla in alcun modo
– e
aprì l’applicazione dei messaggi istantanei. Nello
scorgere il mittente sentì
salire la rabbia. La sua prima reazione fu di non aprire nemmeno il
messaggio,
per non dargli soddisfazione. Poi vide che si trattava di
un’immagine e la
curiosità ebbe il sopravvento. Ci cliccò sopra e
riconobbe una ninfea, tratta
da uno dei numerosi quadri del pittore di cui aveva appena visitato la
dimora.
Aggrottò
la fronte, sorpresa.
Da
lui non se lo aspettava.
Non
che lo ritenesse un bifolco, ma negli anni trascorsi
insieme lui le aveva confessato di non essere un grande amante
dell’arte, e
adesso invece ecco che le aveva appena inviato un chiaro riferimento a
Monet.
Quindi la sera prima l’aveva ascoltata e aveva addirittura
capito quale fosse
l’artista? Mentre il suo cervello stava ancora cercando di
darsi una risposta
in merito, ecco che il cellulare suonò di nuovo. Le aveva
mandato un altro
messaggio. Un’altra immagine, per la precisione.
Rappresentava il ponte
giapponese che abbelliva lo stagno di Giverny.
OK,
era ufficialmente perplessa.
Cosa
significava tutto ciò? Non fece in tempo a darsi una
risposta che le arrivò un terzo messaggio, questa volta
contenente solo l’icona
della tazza di caffè seguita da un punto interrogativo.
La
donna sbuffò e mise il telefono sul letto,
appoggiandolo dalla parte dello schermo, quasi a non volere nemmeno
vedere
l’arrivo di eventuali altri messaggi. Incrociò le
braccia sul petto e cominciò
a mordersi nervosamente il labbro inferiore, lasciando vagare lo
sguardo per la
stanza, come a cercare nella carta da parati a motivi damascati una
soluzione
ai suoi problemi. Da un lato era arrabbiata perché
l’aveva già ricontattata e
non voleva concedergli la soddisfazione di rispondergli subito, anche
se con
whatsapp non si poteva fingere di non aver aperto un messaggio.
Dall’altro,
stava con le orecchie tese, aspettando altre immagini o un testo un
po’ più
articolato. Inutile negarlo: quei tentativi di comunicazione avevano
catturato
la sua attenzione. Più di quanto fosse disposta a
riconoscere anche a sé
stessa.
Niente.
Dopo
un paio di minuti di trepidante attesa, si decise a
riprendere in mano il cellulare. Poi lo posò di nuovo,
incapace di prendere una
decisione. Tamburellò le dita sul copriletto, poi decise di
intrecciarsi i
capelli, giusto per avere qualcosa da fare con le mani. Trascorsero
altri
minuti. Infine sbuffò e afferrò il telefono. Gli
rispose con un semplice punto
interrogativo. Se lui voleva essere criptico, lei sarebbe stata al
gioco.
Nel
suo albergo, Nathan stava passeggiando nervosamente
nella piccola camera, incappando ora nella sedia, ora nella scrivania o
nell’angolo del letto. Non aveva resistito all’idea
di ricontattare
immediatamente Stana, ma non sapeva nemmeno cosa dirle a voce, quindi i
messaggi gli erano sembrati un buon compromesso. Si era limitato alle
immagini
per evitare di commettere ulteriori danni, ma vista la mancata reazione
della
donna non sapeva come portare avanti la conversazione. Forse aveva
sbagliato
pittore? Continuava a confondere Monet e Manet… O forse non
aveva scelto il
quadro giusto? No, aveva fatto una breve ricerca su internet e il
risultato era
un ciclo monumentale di rappresentazioni di quelle isole galleggianti
di ninfee
in uno stagno, disseminate nei musei più importanti del
mondo.
Altri
due minuti, si disse. Se non risponde fra due
minuti le scrivo di nuovo. Riprese il cellulare che aveva appoggiato
sul
piccolo scrittoio e lo fissò con intensità, quasi
a volerlo ipnotizzare per
convincerlo a dargli qualche cenno di vita.
Niente.
“Facciamo
cinque minuti. Poi le mando un altro messaggio”
pensò ad alta voce, come se quello fosse il risultato di una
lunga ed
estenuante trattativa fra sé e sé.
Quando
stava per gettarlo sul letto, frustrato per
l’inutile attesa, il telefono vibrò. Bene, aveva
risposto! Ma, un momento, cosa
gli aveva mandato? Un punto interrogativo? Lì per
lì rimase spiazzato, però poi
si disse che, se non altro, non lo aveva ignorato. Era un buon inizio.
Il canale
comunicativo era ancora aperto. Si sedette sul letto,
appoggiò la schiena alla
testiera, allungò le gambe, si sfregò le mani e
si apprestò a portare avanti la
conversazione. Quel barlume di entusiasmo lasciò presto
spazio a un attimo di
smarrimento. Cosa le poteva dire? Scorse l’elenco delle icone
in cerca di
ispirazione… gli serviva un’immagine che potesse
trasmetterle quanto fosse
dispiaciuto per come erano degenerate le cose fra loro, quanto gli
mancasse,
quanto pensasse ancora a lei, quanto l’avesse trovata
bellissima la sera prima…
un po’ troppi concetti da esprimere tutti insieme. Poi gli
venne in mente
quello che gli aveva detto Robert poche ore prima: pur essendo degli
esseri
spesso difficili da comprendere per gli uomini, le donne amano i fiori
e i
bigliettini. Non conosceva minimamente il linguaggio floreale, a parte
le rose
rosse, ma non era certo nella condizione di potergliele regalare. Si
limitò
pertanto a cercare l’emoji del bouquet. Per i cartoncini
avrebbe dovuto
aspettare. Quel pomeriggio non era riuscito ad andare alla cartoleria
di
Rosalie perché Robert aveva ricevuto una telefonata da un
collega ed era dovuto
scappare, subito dopo avergli raccontato brevemente
dell’incontro di sua moglie
con Stana. Gli aveva però fornito l’informazione
più importante, ovvero che
quel Kris era fuori dai giochi. Certo, questo significava che la sua ex
coprotagonista non se la stava passando bene in quel momento. Ma a lui
non
sarebbe per niente dispiaciuto consolarla. Appena questo pensiero si
formò
nella sua mente, scosse la testa e si sarebbe volentieri preso a
schiaffi da
solo. Quello era il vecchio Nathan, che avrebbe approfittato della
situazione
per infilarsi nel letto della malcapitata di turno. Non voleva
più essere così
meschino.
“OK,
o la va o la spacca” si disse e, con un ultimo
attimo di incertezza, premette il tasto dell’invio e il
bouquet partì.
Dei
fiori.
Le
aveva mandato dei fiori. Virtualmente, certo. Ma pur
sempre dei fiori.
La
faccenda si stava facendo sempre più inspiegabile. Che
intenzioni aveva? Per un attimo le sembrò di essere tornata
ai tempi del pilot,
a quando loro due flirtavano continuamente. Un sorriso nostalgico le si
dipinse
sul volto. Non erano trascorsi molti anni, ma le cose erano cambiate
così tanto
da allora che le pareva di parlare di un’altra vita e di
un’altra persona. Però
i ricordi dolorosi dell’ultima stagione in cui avevano
lavorato insieme
spazzarono via quelle immagini idilliache e una nuvola nera e lugubre
la
avvolse. Era ancora profondamente arrabbiata con lui. Con quella specie
di
dottor Jekyll e Mr Hyde, capace di gesti gentili e di comportamenti
bastardi.
Ma era anche una donna ben educata, pertanto si sentì in
dovere di ringraziarlo
per i fiori e gli rispose con un lapidario grazie. Senza nemmeno un
punto esclamativo,
un emoji, nulla che potesse lasciar trapelare un qualsiasi
coinvolgimento
emotivo. Poi mise il cellulare sul letto e riprese il libro. Dopo aver
realizzato di aver letto lo stesso paragrafo per la quarta volta, senza
aver
capito nulla di quello che c’era scritto, comprese che era
inutile far finta di
leggere: la sua mente non riusciva proprio a mantenere la
concentrazione minima
richiesta. Pur essendo furiosa con lui, non poteva negare di essere
intrigata
da quell’epistolario amoroso versione 2.0. Amoroso? Ma da
dove caspita le era
venuto fuori questo aggettivo? Scosse la testa e accese la televisione,
tentando di concentrarsi sul programma in onda. Le ci vollero una
trentina di
secondi per capire che stava dedicando le sue energie a
un’insulsa pubblicità
di carta igienica. “Oddio, mi ci vuole una pausa”
dichiarò ad alta voce. Poi si
alzò e andò a prepararsi un tè con il
bollitore di cui era dotata la sua
camera. Se non altro, avrebbe avuto qualcosa con cui tenere occupate le
mani.
“Solo
grazie?” pensò l’uomo, deluso. Del
resto, cos’altro
si sarebbe potuto aspettare? Che un’icona di whatsapp fosse
sufficiente a far
sì che lei lo perdonasse e lo invitasse nel suo albergo a
darsi alla pazza
gioia e a soccombere al desiderio? L’immagine di uno dei loro
incontri intimi,
risalente ormai a tanti anni prima, lo fece partire per un viaggio
lungo il
viale dei ricordi, dal quale si riprese pochi secondi dopo. Bisognava
passare
all’azione. O se non altro era opportuno essere
più chiari.
Spero
che la giornata a Giverny sia stata piacevole. Mi permetto di
disturbarti per
invitarti a prendere un caffè insieme, come avevamo
concordato.
“Ma
che schifezza è? Basta solo che aggiunga distinti
saluti e poi lo potrei inviare
al general manager di un’azienda…”
commentò ad alta voce. Cancellò
l’intero
testo. Aveva capito cosa non doveva scrivere e come non scriverlo, ora
bastava
solo trovare le parole giuste. Una bazzecola. Il cursore che
lampeggiava sul
display del cellulare faceva aumentare la sua ansia. “Oh,
andiamo, Nate, sei un
adulto. Datti una calmata e scrivi questo messaggio. Forza”
si incitò. Poi
aggiunse, con un sospiro sconsolato: “Oddio, sto parlando da
solo come un
pazzo….”
Un
amico mi ha consigliato un café storico di Parigi. Ti
andrebbe di farmi
compagnia?
Questo
poteva andare. Semplice, senza fronzoli, ma
l’invito in un locale particolare poteva risultare allettante
per una persona
colta come lei, o almeno così sperava. Forse avrebbe potuto
fare meglio, essere
più convincente, scegliere parole più adatte,
però in quel momento gli sembrò
di non avere altre idee, così decise di mandarlo senza
ulteriori indugi. E
tenendo le dita incrociate.
Nota
dell’autrice
Nell’era
degli smartphone, l’epistolario amoroso si arricchisce di
icone che tutti noi
conosciamo e usiamo. Il canale comunicativo è stato
ripristinato, ma Stana
accetterà l’invito di Nathan? Pochi giorni di
pazienza e lo saprete.
Grazie
per avermi seguito fino qui!
Deb
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 - Caffè e macarons ***
Capitolo
6 – Caffè e macarons
Ancora
non riusciva a spiegarsi in modo razionale cosa la
avesse spinta ad accettare il suo invito, ma ormai era troppo tardi.
Erano le
quattro di pomeriggio e, come stabilito, si trovava davanti alla porta
de Le Procope, una vera istituzione
per i
parigini. Le ampie finestre che si affacciavano sulla strada, seppur
parzialmente coperte dai pesanti tendaggi, emanavano una luce calda che
invitava i passanti ad entrare e a lasciarsi avvolgere
dall’atmosfera rétro del
locale. Per non parlare dei graziosi ombrelloni sulla terrazza del
primo piano
adornata dai vasi traboccanti di edere rigogliose: si
immaginò quanto dovesse
essere piacevole trascorrere qualche ora là sopra, in
estate, a godersi un po’
di fresco. E naturalmente il menù esposto
all’esterno e la vetrina dei prodotti
di pasticceria promettevano leccornie dolci e salate in puro stile
francese,
volte a soddisfare la vista, l’olfatto e il gusto.
Quando
Nathan glielo aveva proposto la sera precedente
non aveva saputo dirgli di no. Essendo considerato da alcuni il
più antico café
d’Europa, nonché ritrovo dei letterati della
città, in particolare nel
Settecento e nell’Ottocento, era uno dei posti che aveva in
programma di
visitare, pertanto aveva colto al volo l’occasione. Inoltre,
si trovava poco
oltre il Jardin du Luxembourg, quindi lo avrebbe potuto raggiungere a
piedi
dall’albergo, attraversando il parco e godendo ancora una
volta del risveglio
primaverile della natura.
Non
aveva idea di cosa sarebbe venuto fuori da
quell’incontro. Aveva anche cercato di convincersi
– con scarsi risultati – a
non caricarlo di troppe aspettative. Era solo un caffè con
un ex collega, mica
un appuntamento con un erede al trono di una qualche monarchia europea
discendente diretta da Carlo Magno, suvvia! Però al terzo
cambio di abito, alla
ricerca del look perfetto, fece pace con l’idea di essere in
realtà molto nervosa
al pensiero di rivederlo e giunse alla conclusione che Nathan avrebbe
sempre
occupato un posto speciale nella sua anima. Una fonte di piacere e di
dolore al
tempo stesso, forse. Ma di una cosa era sicura: lui non le sarebbe mai
stato
indifferente. Optò dunque per una combinazione semplice ma
curata, costituita
da un paio di pantaloni color miele e un dolcevita nero. Si
applicò un trucco
leggero e decise di lasciare i capelli sciolti sulle spalle. Il meteo
era stato
clemente in quei giorni, ma era pur sempre necessario indossare una
giacca e un
foulard per ripararsi da qualche spiffero improvviso.
Era
la prima volta che usciva da sola con un uomo da
quando lei e Kris si erano separati e, anche se continuava a ripetersi
il
mantra “è solo un innocuo incontro pomeridiano in
un locale, senza alcun
risvolto romantico o sentimentale”, la situazione la rendeva
molto nervosa.
Prese
un profondo respiro e spinse la porta del Procope.
Mentre si stava guardando
intorno, un cameriere in livrea e guanti bianchi le venne incontro e le
chiese
come poteva aiutarla. Il suo sguardo però aveva
già individuato dove era seduto
Nathan, il quale a sua volta stava tenendo d’occhio
l’ingresso. Le fece cenno
con la mano e si alzò dalla sedia per aspettarla.
Non
ricordava come avesse trascorso la mattinata, né come
fosse riuscito a resistere all’ansia sin dal momento in cui
lei aveva accettato
il suo invito la sera prima. Non sapeva nemmeno spiegarsi cosa lo
avesse spinto
a suggerirle proprio quel locale, fra i vari che gli aveva nominato il
suo
amico professore. A Robert aveva detto che avrebbe scelto un posto
raggiungibile a piedi dall’albergo per rispetto
all’anima ambientalista di
Stana, ma alla fine non le aveva nemmeno chiesto dove alloggiava.
Sperava di
non aver combinato l’ennesimo guaio o di averla messa in
difficoltà,
costringendola ad attraversare l’intera
città… Come se non bastasse, non aveva
idea di cosa le avrebbe detto. Però quando la vide entrare,
il cuore perse un
battito e comprese di essere ancora profondamente coinvolto da quella
donna.
Come non gli era mai capitato in nessuna delle sue relazioni. Nemmeno
con
Krista, a cui peraltro aveva voluto molto bene e che gli aveva regalato
una
parvenza di famiglia, grazie al rapporto che era riuscito a sviluppare
con il figlio
che lei aveva avuto da un legame precedente, tanto da portarlo con
sé ad alcuni
eventi a cui aveva partecipato. Ma ormai gli sembrava che tutto questo
appartenesse a un passato lontano e riguardasse una persona diversa.
Il
cameriere aiutò Stana a sfilarsi la giacca, la
accompagnò al tavolo e le spostò la sedia per
farla accomodare, precedendo il
gesto di Nathan e impedendogli di fare il cavaliere come avrebbe
voluto. Poi
consegnò loro i menù e sparì dalla
loro vista.
“Ehm…
ciao… grazie per essere venuta” la
salutò con il
suo timbro di voce baritonale che le risvegliava sempre qualcosa nel
profondo e
la avvolgeva come in un caloroso abbraccio.
“Grazie
per avermi invitato” gli rispose, in modo forse
troppo brusco e formale. Il nervosismo per quella situazione le aveva
dipinto
un’espressione corrucciata sul bel volto e rendeva impacciati
i gesti di
entrambi.
Nathan
le passò uno dei menù ed entrambi si immersero
silenziosamente nella lettura, quasi avessero dovuto decifrare un testo
scritto
in un codice ignoto e dal quale dipendeva la salvezza
dell’intero pianeta
Terra. Anzi, facciamo dell’universo.
Troppo
impegnati nel cercare di tenere a bada le proprie
emozioni, né Stana né Nathan videro il cameriere
avvicinarsi. “I signori hanno
deciso?” chiese loro gentilmente, ma entrambi sobbalzarono
sulle sedie dallo
spavento, si guardarono negli occhi e non riuscirono a frenare un
sorriso, che
smorzò in qualche modo la tensione.
Senza
distogliere lo sguardo da lei, Nathan domandò :
“Ci
può dare ancora qualche minuto?”
“Certamente,
monsieur,
tutto il tempo che desiderate” rispose in modo ossequioso e
si dileguò
all’istante, lasciandoli nuovamente soli.
“Non
so tu, ma ti confesso che tutta questa situazione mi
rende un po’ nervoso, tanto da non riuscire a capire nulla di
quello che c’è
scritto sul menù” dichiarò sinceramente
Nathan. “Stana, io…”
“Non
dire niente, non ancora” lo interruppe lei. L’uomo
aggrottò la fronte, poi la donna sorrise e riprese:
“Senti, concentriamoci su
ciò che vogliamo ordinare e poi parliamo” Poi
aggiunse, abbassando la voce con
fare cospiratorio: “Quel cameriere dal passo felpato mi
incute un po’ di
soggezione. Non trovi?”
Gli
occhi di Nathan risposero al suo sorriso ancora prima
delle labbra. Ogni volta che le sue iridi azzurri incrociavano quelle
verdi-castane della donna, si innamorava di lei un po’ di
più. Annuì e le
chiese: “Allora, cosa vorresti prendere? Mi hanno detto che i
macarons à la framboise
sono speciali…
per quanto anche un pain au chocolat
potrebbe essere interessante…” commentò
con tono leggero, lasciando scorrere lo
sguardo sul resto del menù.
“Mmmmh,
il pain au
chocolat è più adatto alla colazione.
Meglio i macarons. Poi mi ispira
molto questo café viennois…”
disse la donna.
“Sì,
hai ragione” convenne. “OK, allora vada per il café viennois e i macarons, magari ce ne facciamo portare
di vario tipo, così
facciamo un assaggio?” propose Nathan, sempre pronto a
rendere onore alla
pasticceria francese. L’argomento di conversazione futile
permise loro di
riprendere il controllo dell’ansia che aveva accompagnato
entrambi a
quell’incontro.
Non
fecero in tempo a concordare cosa avrebbero ordinato
che il cameriere invisibile si materializzò al loro tavolo,
prese nota delle
loro richieste e li lasciò di nuovo soli.
L’agitazione si ripresentò, come una
cappa pesante che schiacciò entrambi, tanto che nessuno dei
due osava sollevare
lo sguardo dalla preziosa tovaglia di fiandra.
Nathan
si schiarì la gola e disse: “Senti, io…
volevo
solo dirti che… insomma, come stai?” Si era
preparato un fantastico discorso
nella sua mente, ma qualcosa evidentemente si doveva essere inceppato
nel
tragitto dal cervello alla bocca e le parole che erano uscite non
assomigliavano nemmeno lontanamente a quello che le avrebbe voluto dire.
Stana
sospirò: “Sto bene. E tu?”
domandò, più per
educazione che per reale interesse. Quella conversazione era
stranamente
formale, come se i due interlocutori fossero dei semplici conoscenti e
non due
persone che avevano camminato insieme per un lungo tempo, condividendo
un
progetto lavorativo importante e trascorrendo mesi l’uno
accanto all’altra, per
molte ore ogni giorno.
“Tutto
bene” rispose, non sapendo in quale altro modo
portare avanti il dialogo. Frustrato per la piega che stava prendendo
quel
pomeriggio, l’uomo esclamò di botto:
“Sono stato al Louvre!”
“Sei
andato al Louvre? Tu?!?!?” la donna non riuscì a
mitigare il tono sorpreso. Poi, temendo di averlo offeso,
cercò di rimediare:
“No, aspetta… non mi
fraintendere…”
“Tranquilla,
il più stupito sono io!” ammise sinceramente
Nathan. “Pensa che ho trascorso un’intera giornata
dentro al museo. Dall’alba
al tramonto. Non ho nemmeno pranzato. Ti giuro, non lo avrei mai
pensato
possibile!”
Stana
sorrise di fronte alla sua espressione sconcertata.
Le sue smorfie, le faccette e le battute che faceva durante le riprese
erano
uno dei motivi per cui era felice di recarsi sul set ogni giorno.
Bè, tranne
l’ultima stagione, si intende. Cercò di scacciare
quel ricordo e mentre stava
per aprire nuovamente bocca, lui riprese: “Ammetto
però che pochi giorni prima
di partire da Los Angeles avevo rivisto il film tratto dal bestseller
di Dan
Brown e… insomma… volevo osservare da vicino le
opere di Da Vinci… pensavo
addirittura di trovare l’Ultima Cena, ma poi mi sono
informato meglio e so che
è a Milano…”
“Sei
diventato un esperto d’arte?” lo
canzonò. “L’ho
visto anche dalle immagini che mi hai mandato ieri”
“Non
ho sbagliato pittore, vero?” le chiese, con un tono
deliziosamente insicuro.
“No,
assolutamente. Ho visitato proprio quel giardino che
ha ispirato i quadri di cui mi hai inviato le foto” lo
rassicurò. Poi gli
chiese: “Che ci fai a Parigi, Nathan?”
Lui
prese un profondo respiro e le confessò: “Non sto
lavorando in questo periodo. Non ho avuto molti impegni da
quando… sì, insomma,
dopo Castle. Avevo bisogno di cambiare un po’ aria. E tu?
Suppongo tu sia in
pausa con le riprese di Absentia… ho visto che girate in
Bulgaria”
“Sì,
abbiamo uno stop di tre settimane e… bè, non
avevo
nessun motivo per tornare in America…” rispose,
abbassando di nuovo lo sguardo
per nascondergli le lacrime di dolore, solitudine, rabbia e
frustrazione che le
si formavano sempre negli occhi, ogni volta che pensava al suo
matrimonio
fallito.
A
sua volta, Nathan non seppe cosa dirle. Stava per
prenderle la mano, per poterle trasmettere almeno un po’ di
conforto, quando il
cameriere dal tempismo inopportuno si materializzò di nuovo
al loro tavolo con
un vassoio contenente le ordinazioni. Un’alzatina raccoglieva
una profusione
multicolore di macarons, dal verde
pastello dei pasticcini al pistacchio al rosa di quelli al lampone,
passando
per il marrone dei dolcetti al cioccolato e terminando con
l’avorio di quelli
al gusto vaniglia, mentre le eleganti tazze in vetro dei café
viennois mostravano la precisione dei vari strati di
caffè,
cioccolato e crema che costituivano quei capolavori del gusto.
Trascorsero
oltre un’ora a chiacchierare del personaggio
di Stana in Absentia, di quanto fosse impegnativo interpretarla, sia
emotivamente sia fisicamente, viste le temperature rigide
dell’inverno bulgaro.
Ma come al solito si era gettata a capofitto nell’impresa e
stava dando il
meglio di sé. Discussero poi dei posti che avevano visitato
entrambi a Parigi,
della situazione politica in America dopo l’elezione del
Presidente Trump, del
surriscaldamento del pianeta Terra, dei film di animazione, di fisica
quantistica, di architettura, degli impressionisti presenti al
Musée d’Orsay,
di architettura, del cinema europeo, di biologia molecolare, dei fiori
che
abbellivano il Jardin du Luxembourg, del disguido causato dalla
consegna della
busta sbagliata alla cerimonia degli Oscar di quell’anno, dei
formaggi francesi
e di quanto fosse inebriante il profumo delle baguette o dei croissant
appena
sfornati la mattina a colazione. Lasciarono il Procope
all’imbrunire e si incamminarono verso l’albergo di
Stana,
continuando a parlare di tutto tranne di quello che era successo
nell’ultimo
anno che li aveva visti come coprotagonisti di una serie tv o della
separazione
da Kris. Si erano infilati in una bolla che separava e proteggeva
entrambi
dalla vita reale e nessuno dei due aveva voglia di uscirne.
Quando
si trovarono davanti all’hotel, entrambi si resero
conto che le ore erano trascorse furtivamente, senza che se ne
accorgessero.
Stana gli disse, un po’ imbarazzata:
“Bè, Nathan, io sono
arrivata…”
“Oh..
già” commentò. Non voleva ancora
congedarsi da lei,
ma non sapeva come prolungare quei momenti insieme. Sollevò
lo sguardo e vide
l’insegna. “Cosa significa maronnier?”
le chiese, aggrappandosi a quel futile pretesto per continuare a starle
accanto.
“Ippocastano.
C’è un piccolo giardino sul retro dove
faccio colazione ogni mattina e al centro c’è uno
splendido albero” gli rispose
sorridendo.
Non
gli venne in mente altro da chiederle. Era giunto il
momento della verità: doveva scusarsi con lei per il modo in
cui l’aveva
trattata e magari spiegarle anche il perché. Prese un
respiro profondo e ancora
una volta non seppe da dove cominciare, perché i suoi occhi
si incatenarono a
quelli della donna e i suoi meccanismi si incepparono, mentre pensieri
e
ricordi rimbalzavano nel cervello come biglie impazzite. Rimasero
lì, in piedi,
uno davanti all’altra, non sapendo bene se abbracciarsi,
stringersi la mano,
baciarsi appassionatamente o semplicemente andare ognuno per la propria
strada.
Baciarsi appassionatamente? Com’era possibile che quel
pensiero si fosse
formato nella mente di entrambi? Mentre Stana stava cercando di
processare
quell’istinto, Nathan le chiese a bruciapelo: “Ci
vediamo domani? Una
passeggiata insieme per vedere Parigi di giorno?”
Prima
che il suo lato razionale la facesse riflettere
sulla portata di quell’invito, gli rispose: “Certo,
molto volentieri. Alle 9?”
La
risposta positiva e immediata lo spiazzò, per cui
impiegò qualche secondo a confermarle: “Alle 9 va
benissimo” Dopodiché si
ripresentò il problema dei saluti. Alla fine, in modo
impacciato, si
scambiarono un abbraccio veloce e si augurarono a vicenda sogni
d’oro.
Appena
arrivata nella sua stanza, Stana chiuse la porta e
vi si appoggiò con la schiena, serrando gli occhi e cercando
di rivivere con la
memoria quello che era successo durante il pomeriggio. Le era sembrato
di aver
fatto un viaggio indietro nel tempo. Erano tornati ai primi anni della
loro
storia, a quando era facile e fantastico parlare di tutto e di nulla
per ore, a
quando flirtavano anche solo con uno sguardo. E poi tutto era finito,
distrutto, raso al suolo, devastato come dopo un bombardamento a
tappeto. Ed
erano rimaste solo le macerie di quel rapporto meraviglioso che avevano
condiviso all’inizio. Eppure… quel pomeriggio le
aveva fatto credere che da
quei rottami si potesse ricostruire qualcosa. O si stava solo
illudendo? Non
aveva voglia di cenare né di uscire a fare due passi,
pertanto si mise comoda
sul letto e prese il libro acquistato a Giverny. Ne scivolò
fuori il
bigliettino che le aveva regalato Rosalie pochi giorni prima.
Osservò con
attenzione i due innamorati che volavano su Parigi tenendosi per mano.
La donna
aveva lunghi capelli castani e lui un meraviglioso paio di occhi
azzurri. Che
l’universo stesse cercando di comunicarle qualcosa?
Nota
dell’autrice
Lo
so, sono un’inguaribile romantica… chi mi conosce
da un po’ sa che il mio
secondo nome è Pollyanna ;-)
Spero
che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Grazie per avermi seguito
fino qui!
Deb
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 - A spasso per Parigi ***
Capitolo
7 – A spasso per Parigi
Alle
9 in punto era già davanti alla porta dell’Hotel du Marronier. In realtà
era
arrivato in zona almeno da una ventina di minuti, ma non voleva dare
l’impressione di essere così disperato o voglioso
di rivederla, quindi aveva
finto di osservare con attenzione ogni porta, finestra, anfratto,
cornicione,
pietra o mattone degli edifici circostanti, sperando che nessuno degli
abitanti
lo prendesse per uno stalker o un terrorista in perlustrazione, alla
ricerca
del luogo perfetto per il prossimo attentato in nome
dell’ISIS. Non sapeva
nemmeno se fosse il caso di entrare in albergo e chiedere alla
reception di madame Katic, pertanto
optò per farsi
trovare casualmente nelle vicinanze, appena lei avesse varcato la
soglia.
Se
possibile, era ancora più agitato del giorno prima. Le
ore trascorse insieme avevano riacceso in lui la speranza di riportare
quella
donna nella sua vita a pieno titolo, ma gli avevano anche fatto
comprendere che
prima di poter anche solo ventilare l’ipotesi di conquistare
il cuore di quella
splendida creatura avrebbe dovuto supplicare il suo perdono per il modo
meschino con cui l’aveva trattata. Se solo avesse saputo
trovare il coraggio e
le parole giuste…
Nel
frattempo, Stana stava sbocconcellando un delizioso
croissant, con lo sguardo fisso sul tavolo apparecchiato in modo
semplice ma
raffinato: madame Berger, la cui famiglia gestiva l’Hotel du Marronier da generazioni, poneva
sempre grande attenzione
ai dettagli e aveva resistito alla concorrenza delle altre strutture
ricettive,
più grandi e inserite nei circuiti più forti,
affidandosi a una clientela affezionata
e alla ricerca di un ambiente meno asettico e più
accogliente. Le tazze e i
piattini della colazione erano in ceramica, decorati con dei fiori di
un rosa
delicato. Le tovaglie di cotone immacolate avevano dei sobri ricami sui
bordi e
i tovaglioli inseriti nei cestini del pane parevano fatti apposta per
esaltarne
l’aroma. La proprietaria teneva in grande considerazione la
qualità dei
prodotti offerti ai propri ospiti: le marmellate provenivano da un
negozio
biologico del quartiere e dolci e croissant venivano consegnati
quotidianamente
da Jacques, il garzone della boulangerie
all’angolo. L’insieme conferiva
all’ambiente un’atmosfera elegante ma ospitale,
nella quale Stana si era subito sentita a proprio agio.
“Madame Katic, ça
va?” le chiese Hélène, la
cameriera che si occupava della colazione. Stana
solitamente scambiava quattro chiacchiere con lei la mattina, ma quel
giorno la
sua aria meditabonda l’aveva allontanata dal pianeta Terra.
“Oui,
Hèlène, tout va bien. Sono
solo un po’ distratta
stamani” le rispose la donna, risvegliandosi dal torpore
pensieroso nel quale
era caduta e sorridendole.
Hélène
la guardò con maggiore attenzione, come se avesse
voluto sondarne l’anima. Si stava avvicinando alla sessantina
e, facendo quel
lavoro da tutta la vita, aveva incontrato migliaia di persone di ogni
genere,
provenienza, cultura ed estrazione. Questo le aveva permesso di
sviluppare la
capacità di leggere gli animi umani. Della donna seduta al
tavolo, per esempio,
aveva capito che c’era un dolore profondo che
l’aveva colpita di recente, un
lutto dal quale si stava riprendendo, perché comunque era
dotata di uno spirito
forte e combattivo. Ma doveva essere successo qualcosa il giorno prima,
perché
quella mattina sembrava scossa, anche se c’era un luccichio
negli occhi che
prometteva bene. Decise pertanto di non indagare ulteriormente e le
chiese se
desiderava ancora qualcosa da bere o da mangiare.
“Non, merci,
c’était tout très gourmand, mais
ça suffit Comment
allez Vous, Hélène? Et
Votre fille ?”
le chiese con sincero interesse. Sua
figlia Justine aveva sostenuto un colloquio di lavoro il giorno
precedente
presso un importante studio di commercialisti. Sorpresa che Stana se ne
ricordasse, la cameriera le rispose che la ragazza aveva superato la
prima
selezione, ma che la faccenda era ancora lunga. Poi le
augurò una buona
giornata e nella sua mente aggiunse l’augurio silenzioso di
seguire ciò che le
aveva acceso quella luce nello sguardo.
Un’occhiata
all’orologio le fece comprendere che era
giunto il momento di apprestarsi ad uscire. Salì rapidamente
in camera, terminò
di prepararsi e scese di nuovo. Aveva il cuore in tumulto, come se
fosse una
liceale in attesa del ragazzo più figo della scuola che la
accompagni al ballo
di fine anno. Scosse la testa e si rimproverò ad alta voce:
“Oh, andiamo,
Stana, stai solo andando a fare due passi per la città con
Nathan!” Per
fortuna, era l’unica occupante dell’ascensore: quel
soliloquio non era certo un
segnale di sanità mentale.
Uscì
dall’albergo e lo trovò dall’altro lato
della
strada. Il sorriso che si scambiarono cancellò in un attimo
la lista delle
ragioni per cui non presentarsi all’appuntamento che entrambi
si erano
inutilmente ripetuti. Ebbero la consapevolezza di trovarsi esattamente
dove
volevano essere.
“Buongiorno
madame
Katic, ha dormito bene?” le chiese Nathan, accennando persino
un inchino.
“Buongiorno
a Lei, monsieur
Fillion, ho dormito benissimo e adesso sono pronta ad attraversare
tutta Parigi
a piedi. Pensa di poter tenere il mio passo?” Gli rispose in
tono di sfida.
“La
sua mancanza di fiducia nella mia resistenza fisica
mi offende, mia cara signora. Sarò ben lieto di offrirle la
cena se al termine
di questa giornata sarò più stanco di
lei” contrattaccò in modo giocoso,
sperando di non aver esagerato: in fin dei conti, con quella specie di
scommessa stava tentando di invitarla anche a cena.
“On verra…”
commentò lei cripticamente. Poi aggiunse con tono divertito:
“Dove vogliamo
andare?”
“Decidi
tu, a me va bene qualsiasi cosa” le rispose.
Dentro di sé avrebbe voluto aggiungere
“purché stiamo insieme”, ma si
fermò
appena in tempo. Meglio non esagerare con le smancerie.
“Mmmhhh…
per il momento c’è il sole quindi eviterei i
musei. Che ne diresti di passeggiare lungo la Senna?
C’è un’isoletta dietro
Notre Dame dove non sono mai andata” gli propose.
“Aggiudicato!”
rispose entusiasta, poi, con fare
cavalleresco, le porse un braccio, affinché potesse
camminare a braccetto con
lui, e si avviarono. Attraversarono di nuovo il Jardin du Luxembourg e
il
Quartier Latin, i cui vicoli erano ancora sonnecchianti e privi della
vivacità
che li animava ogni sera. Nathan le disse che il suo albergo si trovava
in una
traversa della via che stavano percorrendo e gliene indicò
l’insegna che si
vedeva anche dal loro percorso. Non sembrava un hotel di lusso e questa
considerazione colpì Stana: era una scelta non lui.
Però poi fu distratta dalla
visione degli altri edifici e non ci pensò più.
Passarono vicino alla Sorbona e
l’uomo pensò al suo amico Robert: più
tardi gli avrebbe mandato un messaggio
per salutarlo. Stana gli raccontò delle contestazioni
studentesche del
Sessantotto, che a Parigi si svilupparono proprio in quella zona, dove
erano
concentrate le maggiori istituzioni educative. Parlarono anche della
chiesa di
Saint Sulpice, uno dei luoghi del “Codice Da
Vinci”, di cui lui era un grande
fan.
Nathan
si sentiva l’uomo più felice sulla faccia della
terra. Stava andando in giro per Parigi accanto alla donna del suo
cuore. Alla
fine giunsero all’Ile-Saint-Louis: era una zona tranquilla,
al di fuori dei
circuiti turistici che inondavano di massa umana gli Champs
Elysées, la place
de Gaulle con l’Arc de Triomphe o la vicina Ile de la
Cité, con la splendida
cattedrale di Notre Dame, un gioiello architettonico meraviglioso
eppure tristemente
presidiato dall’esercito. Dopo aver ammirato alcuni palazzi
nobiliari, decisero
di fermarsi in un café a
bere
qualcosa e a riposare – nessuno dei due voleva ammetterlo, ma
la lunga
scarpinata cominciava a farsi sentire. Approfittando delle temperature
tutto
sommato piacevoli, si accomodarono ad un tavolino all’aperto
e attesero il
cameriere.
“Sembri
conoscere molte cose su questa città, l’hai
visitata altre volte?” le chiese, dopo aver sorseggiato il
suo succo di frutta
(da quando in qua Nathan Fillion si era trasformato in un salutista che
ordinava succhi di frutta? Oh santo cielo, lui stesso ne fu
così sorpreso da
decidere di non porsi domande).
“Ci
sono stata con la mia famiglia tantissimi anni fa:
eravamo in Europa per fare visita ai nostri parenti in Croazia e
avevamo colto
l’occasione per fare una sosta in Francia. Ma ero ancora
piccola e non ricordo
molto. Poi ci sono tornata per For Lovers Only, ma sai
com’è, quando si lavora
non c’è mai troppo tempo libero. Ero riuscita
comunque a ritagliarmi qualche
ora per fare la turista…” gli rispose, evitando di
guardarlo negli occhi ma
lasciando vagare lo sguardo sui meravigliosi edifici di
quell’angolo insolito
di quiete, situato a due passi dal cuore della capitale francese.
Al
sentire il titolo di quel film, il cervello di Nathan
associò immediatamente il volto di Polish e un moto di
gelosia si formò nel suo
animo. Che poi, diciamocelo, che diritto aveva ad essere geloso di
Stana?
Nessuno. Anzi, doveva solo ringraziare il cielo che quella creatura
straordinaria gli permettesse di trascorrere qualche ora alla sua
presenza,
visto come l’aveva trattata un anno prima. Già,
ancora non si era scusato con
lei…
Quel
fluire di considerazioni fece scendere il silenzio
fra i due, tanto che Stana smise di guardare l’architettura
parigina e si
concentrò sull’uomo seduto di fronte a lei, il
quale a sua volta aveva lo
sguardo perso verso un punto imprecisato del tavolo, come se fosse ad
anni luce
di distanza da quel luogo. Per la prima volta da tanto tempo, la donna
si
concesse il lusso di osservarlo con attenzione. Era invecchiato,
indubbiamente:
qualche ruga gli solcava la fronte e forse un paio di capelli bianchi
spuntavano nel suo ciuffo biondo. Aveva anche messo su diversi chili
rispetto a
quando si erano incontrati a quel provino per il pilot, nove anni
prima. Ma era
ancora un uomo molto, molto affascinante. E c’era qualcosa
nei suoi occhi che
le sarebbe piaciuto approfondire. Un momento, era attratta da Nathan?
No, non
poteva essere. Loro due avevano un passato, un bel bagaglio pesante, e
poi
stava uscendo da un divorzio. Andiamo, l’inchiostro sui
documenti era ancora
fresco, non poteva certo impelagarsi in un’altra storia, non
adesso, non
ancora, non con lui… Ma era inutile proiettarsi questo film
nella testa: lui
non aveva sentimenti romantici per lei. Altrimenti non
l’avrebbe trattata tanto
male nell’ultimo periodo in cui avevano lavorato insieme.
Nathan
parve risvegliarsi dal torpore in cui era
sprofondato, scosse la testa come a voler scacciare un pensiero poco
piacevole
e incrociò lo sguardo della donna, che subito lo distolse,
temendo di
rivelargli una parte del suo cuore. Un passo che non era certo pronta a
compiere.
Mentre
stavano entrambi per aprire bocca, il cellulare di
Stana squillò.
“Scusami,
lo metto subito in modalità silenziosa” gli
disse, mortificata, mentre rovistava nella borsa alla disperata ricerca
del
telefonino, che sembrava voler giocare a nascondino con lei.
“Non
ti preoccupare, anzi, rispondi, potrebbe essere
importante!” la esortò.
Quando
finalmente lo individuò, al vedere il nome sul
display, un sorriso le si disegnò sul volto. “Un
attimo solo, Nate” gli disse
alzandosi e allontanandosi dal tavolo per ritagliarsi un po’
di privacy e poter
parlare al telefono in tranquillità, senza disturbare gli
altri avventori del
locale. Vicino al bar c’era un piccolo giardino con delle
panchine: ne
raggiunse una e si sedette.
Nathan
adorava il sorriso di quella donna, gli sembrava
che illuminasse tutto ciò che la circondava, ma avrebbe
voluto essere lui il
solo artefice di quella meraviglia. E invece chissà chi era
ad averlo
scatenato. Non quel Polish, accidenti. O magari il suo ex marito? Nah,
non
sembrava che si fossero lasciati di comune accordo, anzi, pareva
proprio che ce
l’avesse con lui. Mmmmmhh, stava continuando a
sorridere… forse si trattava di
qualche nuovo collega, conosciuto sul set di Absentia? Bè,
non era un’ipotesi
da escludere. Anche loro due si erano incontrati per lavoro.
Sì, e guarda un
po’ com’erano finiti… un momento,
osservando il labiale capì che non stava
parlando inglese… che Kris fosse tornato alla carica?
Caspita, questa proprio
non ci voleva.
Non
la perse di vista un secondo, nemmeno fosse uno
stalker paranoico. Ma appena la vide chiudere la telefonata e dirigersi
di
nuovo verso di lui, fece finta di essere in piena contemplazione del
palazzo di
fronte.
“Era
mia madre” dichiarò.
“Ah,
ok. Comunque non ti avevo chiesto nessuna
spiegazione” le disse, cercando con scarsi risultati di
contenere la gioia
scaturita da quella rivelazione.
“Sì,
certo” commentò, alzando gli occhi al cielo e
trattenendo un sorriso. “Senti, cosa facciamo
adesso?” gli chiese per cambiare
discorso e per non mostrargli quanto le avesse fatto piacere lo sguardo
geloso
che le aveva rivolto durante tutta la telefonata. Le sembrava quasi che
gli
occhi di lui le avessero lasciato un segno sulla pelle.
Nathan
osservò le nuvole minacciose che si stavano
ammassando all’orizzonte. “Dovremmo trovare un
luogo al chiuso, temo stia per
piovere. Vuoi andare in qualche museo?” le suggerì.
“Che
ne dici invece di Shakespeare and Company? Non è
lontanissima da qui e mi farebbe davvero piacere visitarla.
E’ un luogo
mitico!” gli propose entusiasta.
“Ehm…
OK…” rispose titubante.
“Nathan,
non dirmi che non sai cos’è Shakespeare and
Company! L’utopia socialista mascherata da
libreria!” gli disse spalancando gli
occhi per lo stupore.
“Mi
hai beccato, non ho idea di cosa sia. Ma sono
contento che sia tu ad aiutarmi a colmare questa lacuna. Dai, avviamoci
prima
che il tempo peggiori. Strada facendo mi parlerai della nostra
destinazione,
così che io possa arrivare preparato”
Fedele
alla richiesta rivoltale dal suo compagno di
viaggio, Stana gli raccontò di Sylvia Beach, che nel 1919
aveva fondato quello
che poi sarebbe diventato il centro della cultura angloamericana a
Parigi. Gli
parlò della fine di quell’epoca, quando la
libreria venne chiusa in seguito
all’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale, e
del secondo
tentativo, portato avanti dieci anni dopo da George Whitman e poi da
sua
figlia. Parlarono di Joyce che usava quel luogo come proprio ufficio,
della
Beat Generation e della peculiarità della libreria, che
offriva tuttora posti
da dormire a scrittori squattrinati in cambio di alcune ore di lavoro
fra gli
scaffali, alla promessa di leggere un libro al giorno e di scrivere una
pagina
autobiografica sul diario del negozio, fedele al motto Be
not inhospitable to strangers, lest they be angels in disguise.
Nathan pendeva letteralmente dalle sue labbra. Adorava la sua cultura,
l’entusiasmo che riversava in tutto ciò che
faceva, la sua gioia di vivere.
Giunsero
in rue de la Bucherie quando cominciava a
scendere una deprimente pioggerellina e si rifugiarono nei locali della
libreria. Si respirava letteratura in ogni angolo. Sfortunatamente non
erano
gli unici visitatori, ma dopo aver gironzolato un po’,
trovarono un divanetto
sul quale accomodarsi e immergersi nella lettura. Stana aveva ragione:
era
davvero un luogo mitico, nel quale il tempo sembrava essersi fermato.
Guardandosi intorno, Nathan comprese il motivo per cui lei aveva spinto
per
visitarlo. Grazie all’influenza di quella donna, stava
diventando un uomo
migliore. Confortato da questa consapevolezza, aprì il libro
che aveva preso e
si dedicò a quello. A sua volta, Stana si sentiva in
perfetta armonia con ciò
che la circondava, incluso il suo ex collega seduto accanto a lei. Era
stata
felice di averlo trascinato in quel posto e di avergliene potuto
raccontare la
storia. E l’aveva stupita, piacevolmente, il sincero
interesse che lui le aveva
dimostrato. Questa nuova versione 2.0 di Nathan Fillion diventava
sempre più
intrigante. Anzi, fastidiosamente irresistibile. Mannaggia a lui.
Ad
un certo punto, lo stomaco di Nathan iniziò a mandare
segnali inequivocabili. Entrambi sollevarono lo sguardo dai propri
volumi e si
misero a ridere. Poi lui guardò l’orologio e si
accorse, con grande sorpresa,
che erano già le quattro del pomeriggio.
“Non
so più se invitarti a pranzo, a prendere un caffè
o
a cena, a questo punto” le disse sottovoce, divertito e
stupito da quanto fosse
volato il tempo.
“Avevamo
una scommessa in ballo, monsieur
Fillion… deduco che tu stia ammettendo la sconfitta e che
tu sia dunque più stanco di me?” gli rispose
sussurrando con un lampo malizioso
negli occhi e inarcando un sopracciglio.
“Oh,
tu non sai quanta energia avrei ancora…”
replicò in
modo allusivo, tanto che a Stana si contrasse lo stomaco e non
riuscì a non
mordersi il labbro inferiore. Poi, felice di aver scatenato quella
reazione,
decise di ritornare nel terreno neutro dell’amicizia e
continuò con quel suo
tono di voce profondo: “Ma mio padre mi ha insegnato ad
essere un gentiluomo e,
in quanto tale, non posso permettere ad una bella signora di pagare. Mi
faresti
dunque l’onore di mangiare qualcosa con me, così
che il mio stomaco non ci
metta di nuovo in imbarazzo?”
Stana
annuì sorridendo e, dopo essersi alzato, le porse
la mano per aiutarla a sollevarsi dal divanetto. Restituirono i libri
che
avevano preso in prestito, pagarono quelli che avevano deciso di
acquistare e
uscirono dalla libreria, in cerca di un posto in cui rifocillarsi,
stringendo
ognuno la classica borsa di tela con il logo di Shakespeare
and Company – kilometer zero Paris.
Per
fortuna aveva smesso di piovere, così ne
approfittarono per sgranchirsi un po’ le gambe e ingannare il tempo prima di arrivare
all’ora di cena.
Avevano infatti optato per concedersi direttamente il pasto della sera,
senza
rovinarlo con qualche spuntino. Mentre camminavano in un confortevole
silenzio,
passarono davanti a un delizioso ristorante. L’insegna diceva
“Le temps des cerises”
e dalla finestra
si potevano vedere dei tavoli graziosamente apparecchiati con le
tovaglie a
quadretti bianchi e rossi. Si scambiarono uno sguardo di approvazione e
decisero immediatamente di entrare.
Nota
dell’autrice
La
passeggiata diurna per Parigi li porta a visitare altri luoghi
speciali: spero
che anche a voi il tour sia piaciuto! Il ristorante Le temps des
cerises, in
cui andremo nel prossimo capitolo, appartiene a Nicolas Barreau.
Grazie
per avermi regalato il vostro tempo arrivando fino qui,
Deb
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 - Le temps des cerises ***
Capitolo
8 – Le
temps des cerises
Vista
l’ora, il locale era ancora deserto, ciononostante
l’atmosfera che si respirava era molto accogliente e il
profumo che giungeva
dalla cucina troppo irresistibile per i loro stomaci affamati. La
cameriera che
stava finendo di sistemare i tavoli gli rivolse un sorriso gentile che
si
allargò ancora di più alla richiesta di Nathan se
avevano posto per due. Aveva
infatti capito che erano stranieri, ma la pronuncia quasi perfetta
dell’uomo
l’aveva messa subito di buonumore. Eh sì, da buona
francese era sempre felice
di vedere che gli ospiti si sforzavano di esprimersi
nell’idioma nazionale. Li
invitò pertanto ad accomodarsi dove volevano e, una volta
scelto un tavolo un
po’ appartato, portò loro i menù e
sparì in cucina.
“Questo
posto è adorabile!” commentò Stana
guardandosi
intorno e osservando con attento interesse l’allestimento
della stanza.
“Ehm..
sì… vero. Adesso però pensiamo a
nutrirci” rispose
Nathan in modo pragmatico, senza sollevare lo sguardo
dall’elenco, assai
promettente, delle prelibatezze che quel piccolo ristorante sembrava
poter
offrire.
“Nate,
così uccidi la poesia!” lo rimbrottò
bonariamente
la donna, ma quando anche il proprio stomaco volle intervenire nella
diatriba
dovette arrendersi e concentrarsi sul soddisfare i bisogni primari. Ci
sarebbe
stato tempo, più tardi, per studiare con attenzione il
locale.
Dalla
cucina uscì un’altra donna, che si
avvicinò al loro
tavolo e si presentò: “Buonasera, sono
Aurélie Bredin e sono felice di darvi il
benvenuto nel mio ristorante. Posso prendere la vostra
ordinazione?”
“Per
me une salade
de chèvre chaude, per favore” chiese
educatamente Stana.
“E
per lei signore?” disse Aurélie rivolgendosi a
Nathan.
Quando lui sollevò lo sguardo verso di lei per comunicarle
la sua scelta e i
loro occhi si incrociarono, Aurélie trasalì e
impallidì, come se avesse visto
un fantasma.
“Madame, tutto
bene?” si informò Nathan, stupito da quella
reazione.
“Sì,
mi scusi, è che i suoi occhi e il suo sorriso mi
ricordano una persona che pensavo di conoscere e invece era tutta una
finzione.
Sa, era uno scrittore inglese che aveva ambientato parte del suo
romanzo in
questo posto, poi invece è venuto fuori che a scrivere quel
libro era stato un
francese, però mi aveva fatto credere che la storia non
fosse sua bensì di
quell’inglese che invece era solo un dentista. Oh il vero
autore è una persona
deliziosa a dir la verità, l’ho persino sposato,
però…” farfugliò
Aurélie. Poi
si schiarì la gola, consapevole di poter passare per una
pazza che parla a
vanvera e infastidisce i clienti, e continuò in modo
professionale ma cortese:
“Oh, scusatemi, non vi volevo tediare. Cosa desidera
ordinare?”
“Prenderò
il bœuf
bourguignon, grazie” le rispose, corrugando la
fronte e decidendo poi di
non indagare oltre per non mettere in difficoltà quella
poveretta. Anche se
dovette ammettere che la storia che aveva accennato sembrava intrigante
e non
gli sarebbe dispiaciuto saperne di più.
“Posso
portarvi del vino? Magari del rosso?” chiese la
proprietaria del ristorante e, alla loro risposta affermativa, si
congedò da
loro e fuggì in cucina, dalla quale decise non sarebbe
più uscita per almeno
una settimana. Anzi, facciamo fino a Natale.
“Bè,
hai sempre un grande effetto sulle donne” lo
canzonò
Stana appena madame Bredin si
allontanò da loro.
“Non
su tutte, per mia sfortuna…” rispose lui, evitando
di guardarla negli occhi. “Piuttosto, affascinante la storia
di quella libreria
dove siamo stati oggi, vero?” continuò, spostando
la conversazione su un
argomento decisamente meno intimo e compromettente.
Chiacchierarono
in modo amabile per qualche minuto,
finché la cameriera, quella che stava sistemando i tavoli al
loro arrivo, portò
loro le pietanze ordinate e entrambi ci si tuffarono, intervallando i
bocconi
con grandi apprezzamenti per il cibo che stava deliziando le loro
papille
gustative. La cucina francese sapeva regalare grandi soddisfazioni, con
i
sapori avvolgenti delle sue salse, la spinta fornita dalle spezie e
dalle erbe
aromatiche e l’ottima qualità delle materie prime.
Spazzolarono in breve tempo
il contenuto dei loro piatti e optarono entrambi per una crêpe
Suzette come dessert.
Un
uomo uscì dalla cucina e si avvicinò al loro
tavolo,
presentandosi come Jacquie, il cuoco. Sbucciò a vivo le
arance sotto i loro
occhi, le tagliò a fette, aggiunse il Grand Marnier alle
crepes e lasciò
divampare le fiamme per qualche minuto nella padella di rame, con un
grande
effetto scenografico che colpiva sempre i clienti. Stana
osservò rapita i gesti
eleganti e sicuri di quella liturgia, mentre l’uomo al tavolo
con lei si
concentrò su quanto fosse diventato luminoso il volto della
donna davanti a
quel gioco e capì di essere ormai un caso disperato. Ci
doveva essere qualcosa
nell’aria di Parigi. Forse le sue particelle contenevano gli
ingredienti
segreti dell’amore? Qualunque fosse la ragione, di una cosa
era ormai certo:
era perdutamente e irrimediabilmente innamorato di lei.
Altri
commensali raggiunsero il ristorante, ma
trattandosi di un giorno feriale l’atmosfera rimase raccolta
e piacevole: il
servizio era impeccabile e l’ambiente era arredato con
semplicità e
raffinatezza. I piatti che avevano gustato, poi, erano stati davvero
eccellenti. E non solo perché entrambi stavano morendo di
fame! In breve
terminarono la loro cena ed uscirono dal locale. Stana si
offrì di pagare la
sua parte, ma Nathan fu irremovibile: disse che suo padre non gliela
avrebbe
mai perdonata se non si fosse comportato da cavaliere. Ripresero a
camminare
nella direzione dell’hotel di Stana, ancora a braccetto come
avevano fatto per
gran parte della giornata, parlando del più e del meno, in
un clima di grande
serenità e complicità. Ripercorsero molti
aneddoti avvenuti durante le riprese,
passando da un “ti ricordi quella volta che
Seamus….” a “e poi, quando stavamo
girando quella scena, Jon e Tamala hanno cominciato a ridere e non
c’è stato
verso di portare avanti la registrazione…” Avevano
lavorato insieme per tanti
anni, come un gruppo affiatato e coeso. Esclusa l’ultima
stagione,
naturalmente. Lì tutto era precipitato. Al riemergere
prepotente e doloroso di
quel ricordo, Stana si fermò all’improvviso, gli
si parò davanti e disse:
“Perché non può essere sempre
così?”
“Così
come?” le chiese Nathan, perplesso, anche se temeva
di aver capito benissimo a cosa si stesse riferendo.
“Perché
non siamo riusciti a mantenere questo rapporto
anche negli ultimi mesi in cui abbiamo lavorato insieme?” gli
domandò a chiare
lettere, non schiodando gli occhi da quelli dell’uomo. Quel
tarlo le stava
mangiando l’anima da troppo tempo e i giorni trascorsi
insieme a Parigi, nei
quali Nathan era stato meraviglioso nei suoi confronti, le avevano
creato
ancora più confusione, portandola a credere che lui avesse
una pericolosissima,
seppur affascinante, doppia personalità.
Nathan
sospirò. Il momento tanto temuto era arrivato. Doveva
dirle la verità. O almeno una parte. Glielo doveva.
“Ehm… sì… hai ragione.
E’
colpa mia, Stana, è solo colpa mia. Tu… non hai
niente da recriminarti. Io,
invece… lo so, sono stato un lurido bastardo… e
non capisco come tu mi abbia
permesso di starti accanto in questi giorni…
però, credimi, sono felicissimo
che tu sia stata così generosa con me... non pensavo che
Parigi mi avrebbe
regalato tanti momenti splendidi in tua compagnia… non me li
meritavo proprio…
ma vedi… io…”
Stana
abbassò lo sguardo, infastidita da quel farneticare
senza senso che lui le stava propinando e determinata a giungere in
fondo a
quella storia. Prese un respiro profondo e, senza sollevare la testa,
gli
domandò a bruciapelo: “Perché mi hai
trattato così male?” Fece una piccola pausa,
confidando in una reazione da parte dell’uomo, che invece
rimase in silenzio,
così riprese, tentando di controllare il tremito della voce:
“Nate, accidenti,
mi hai ferito! Nemmeno tu mi considerassi il tuo peggior nemico! Gli
ultimi
mesi sul set sono stati un inferno! Sai quante volte ho pianto per il
modo in
cui ti rivolgevi a me?”
“Mi…
mi dispiace davvero… non posso rinnegare quello che
è stato, ma non sono certo fiero di me. E’
che… tu eri… avevi
tutto quello che volevo. Sul set tutti ti stimavano, ti eri
appena sposata, la tua casa di produzione andava alla grande, avevi
raggiunto
tutti gli obiettivi e io invece… lo so, è stato
un comportamento infantile. Mi
mollerei un ceffone se servisse a qualcosa. Però, credimi,
non sono più così,
Stana. Io… non vorrei mai che tu stessi male per causa
mia.” Con l’indice le
sollevò il mento, cercando di incrociare il proprio sguardo
con quello della
donna di fronte a lui. Si trovavano in una strada poco illuminata, ma
sperò con
tutto il cuore di riuscire a farle vedere la sua, almeno parziale,
sincerità.
Non era ancora pronto, infatti, a dirle qual era la vera ragione per
cui
l’aveva trattata tanto duramente l’anno prima.
“So di chiederti tanto, ma ti
prego, prova a perdonare quell’imbecille e pensa
all’uomo nuovo che hai davanti
adesso. Quello che è persino andato al Louvre, e a cui
è piaciuto tanto da
starci dentro una giornata senza nemmeno accorgersene! Vorrà
pur significare
qualcosa, no?” aggiunse, per cercare di sdrammatizzare la
situazione, spostando
la mano fino ad accarezzarle teneramente una guancia. Facendo quel
movimento,
il pollice le sfiorò le labbra e si dovette imporre di non
pensare neanche
lontanamente a quanto dovesse essere meraviglioso poterla baciare.
Il
tempo sembrò cristallizzarsi, mentre il cuore di
entrambi batteva all’impazzata, da una parte alla ricerca di
un immeritato
perdono e dall’altra in bilico fra la voglia di credere al
cambiamento e il
dubbio che, un domani, lui avrebbe potuto infliggerle di nuovo quel
dolore.
“Non
lo so, Nathan… in questo momento non so cosa
pensare. Non hai idea di come sia stato difficile portare a termine le
riprese.
E non era niente in confronto a quello che mi è successo
dopo, con la storia di
Kris… io… ho bisogno di tempo”
sussurrò, abbassando di nuovo il volto.
L’uomo
allontanò la mano dal viso di lei e sospirò, con
un misto di delusione, tristezza e consapevolezza di non meritarsi
altro che
disprezzo per come erano andate le cose. Poi le disse:
“Andiamo, ti accompagno
in albergo”
Stana
annuì e per il resto del tragitto nessuno dei due
aprì bocca né sfiorò
l’altro. Si salutarono con un cenno del capo, senza alcuna
promessa di rivedersi il giorno successivo e senza augurarsi nemmeno
buonanotte.
Dopo
una notte di sonno agitato e inquieto, Stana decise
di recarsi nel negozietto di Rosalie. Non sapeva perché
sentisse il bisogno di
aprirsi proprio con lei: in fin dei conti, avevano solo preso un
tè insieme e
chiacchierato per un po’ di tempo. Eppure, qualcosa dentro di
lei le diceva che
quella donna avrebbe potuto comprenderla e aiutarla a dipanare il
groviglio di
sensazioni che albergavano nel suo cuore.
Appena
arrivata davanti al piccolo laboratorio dei
desideri, Stana la scorse dietro il bancone, mentre serviva un cliente.
La
campanella della porta ne annunciò l’ingresso,
sottolineato dal borbottio del
cane accovacciato nella cesta proprio accanto all’uscio e
Rosalie le rivolse un
sorriso sorpreso ma sincero e accogliente, che la rassicurò:
era nel posto
giusto. Gironzolando nella minuscola cartoleria, Stana non volendo
ascoltò
parte della conversazione fra la sua nuova amica e
l’acquirente.
“Allora,
monsieur,
come posso esserle d’aiuto?” gli chiese gentilmente
la proprietaria del Luna
Luna.
“Vede,
madame…
ho avuto un incarico professionale a Parigi, ma mia moglie è
rimasta in
Provenza insieme a nostra figlia Mathilde di due anni e a me mancano
entrambe
tantissimo… ci vediamo via Skype ogni giorno, ma
comprenderà bene che non è la
stessa cosa…” le spiegò brevemente.
Rosalie
lo osservò per un breve momento e percepì la
profonda nostalgia dell’uomo per la propria famiglia e la
terra di origine.
Nella sua mente si dipinse un paesaggio di lavanda, nel quale un uomo,
una
donna e una bambina correvano nel sole tenendosi per mano, mentre una
nuvola
nel cielo azzurro riportava “questa mattina mi sono svegliato
e avrei voluto
essere lì”, scritto con una delicata calligrafia
in corsivo. Annuì a sé stessa
e gli disse: “Sarà pronto domani, monsieur.
Si fidi di me!”
Il
cliente la guardò con attenzione e poi decise che
valeva la pena riporre la propria fiducia in quella bella persona
davanti a
lui. Si congedò da lei e uscì dal negozio.
“Sono
impressionata!” le disse Stana, con sincera
ammirazione.
“Faccio
solo il mio lavoro” le rispose Rosalie, modesta.
Poi aggiunse: “Sono contenta di vederti, come
stai?”
Stana
prese un sospiro profondo e le rispose: “Posso
dirti che non lo so? Vedi, io sono sempre stata una donna forte.
Però… certi
giorni proprio non ho voglia di essere una roccia.” Rosalie
annuì e commentò:
“La fragilità è un sacrosanto diritto,
amica mia”. Approfittando della mancanza
di clienti, Stana le raccontò degli ultimi giorni,
dell’incontro fortuito al
cinema, del delizioso pomeriggio al café
Le Procope, di quanto fosse stato
bello, naturale, piacevole, giusto
chiacchierare per ore senza nemmeno rendersi conto del tempo che
passava,
dell’intera giornata che avevano trascorso insieme e di
quello che lui le aveva
detto la sera precedente. Ma le spiegò anche come erano
andate le cose quando
avevano lavorato insieme e le accennò anche alla storia che
avevano avuto in
passato. “Insomma, non vorrei continuare a rincorrere
emozioni per poi finire a
collezionare cicatrici” concluse con un sospiro addolorato.
Rosalie
la ascoltò con pazienza e con autentico
interesse, guardandola negli occhi per cercare di leggere anche quello
che la
sua amica non diceva a parole, per pudore o perché lei
stessa non lo aveva
ancora compreso. Al termine di quel fiume di ricordi e sensazioni, la
proprietaria della cartoleria dei desideri le disse soltanto:
“Se riconosci che
è cambiato, lascia la rabbia dietro di te e concentrati sul
presente”
Un
debole sorriso spianò l’espressione corrucciata di
Stana. Poi si rattristò di nuovo e disse: “Sai,
Rosalie, una parte del mio
cervello continua a ripetermi che non ci si può fidare di
Nathan. E temo che in
questo momento non ci sia da fidarsi tanto nemmeno di me stessa... la
ferita
per la separazione dal mio ormai ex marito è ancora troppo
recente e io mi
sento vulnerabile.”
La
proprietaria della cartoleria annuì comprensiva, poi
le chiese: “Cosa pensi di fare adesso? Lo rivedrai?”
L’attrice
scrollò le spalle e rispose: “Non lo so. Non ci
siamo dati nessun appuntamento. Ho ancora dieci giorni di vacanza prima
di
ritornare in Bulgaria per ricominciare le riprese, vorrei trascorrerli
nel modo
migliore, senza ulteriori fonti di stress…”
Una
cliente interruppe la loro chiacchierata e prima che
Stana se ne andasse, Rosalie scrisse il proprio numero di cellulare su
un
delizioso bigliettino azzurro ortensia e le ordinò:
“Chiamami per qualsiasi
cosa, ok? Anche solo per bere un café
crème insieme. Mi farebbe piacere!”
L’attrice
annuì, riconoscente, e la lasciò al suo lavoro.
Nota
dell’autrice
Aurélie
e Jacquie appartengono a Nicolas Barreau: io li ho solo presi in
prestito, con
tutto il ristorante, prelibatezze incluse! Per Stana e Nathan siamo a
una
(parziale) resa dei conti. Spero che continuerete a leggere per sapere
come va
a finire!
Grazie
per avermi regalato il vostro tempo arrivando fino qui,
Deb
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 - Un nuovo ingaggio ***
Capitolo
9 – Un nuovo ingaggio
Tre
giorni.
Era
in silenzio stampa da tre giorni.
Non
l’aveva più sentita da quella sera. Del resto, lei
gli aveva detto di avere bisogno di tempo e lui non poteva far altro
che
concederglielo, nonostante non riuscisse a darsi pace per quello che
era
successo, ma consapevole di non avere nessun altro da considerare
colpevole se
non sé stesso e il suo comportamento dell’anno
precedente. Con quel suo
atteggiamento da gran bastardo aveva rovinato i rapporti con tutti gli
altri
membri del cast e aveva provocato troppo dolore nella sua
coprotagonista per
sperare che le cose con lei potessero prendere una piega diversa, anche
se quei
giorni trascorsi insieme a Parigi gli avevano fatto credere nella
possibilità
di un miracolo. Ma il passato non si cambia e prima o poi i nodi
vengono al
pettine.
Non
aveva osato mandarle nemmeno un messaggio con un
emoji. Non sapeva se ce ne fosse uno che potesse rappresentare il suo
stato
d’animo. Forse le due mani giunte, per pregarla di
perdonarlo? No, troppo poco.
Avrebbe avuto bisogno dell’icona di una faccina che si prende
a schiaffoni da
sola. O a sonori calci nel sedere, ben assestati.
Aveva
provato anche a contattare Robert, ma il suo amico
professore aveva un’importante conferenza su Shakespeare da
preparare e in quei
giorni non si poteva concedere nemmeno la pausa pranzo. Gli aveva
però promesso
che lo avrebbe invitato a cena da lui e da sua moglie appena terminato
il
convegno e lui aveva accettato con gratitudine quella proposta. Era
felice di
aver conosciuto una così bella persona ed era curioso di
incontrare quella
francesina testarda ma adorabile di cui Shermann gli aveva parlato. Gli
impegni
professionali del suo nuovo amico, però, gli avevano fatto
prendere
consapevolezza, ancora una volta, della sua condizione: mentre tutto il
mondo
aveva cose da fare, compiti da eseguire, obblighi e scadenze da
rispettare, di
fatto lui era un disoccupato. Un disoccupato di lusso, naturalmente, ma
pur
sempre un nullafacente. E la faccenda cominciava a inquietarlo.
Il
primo giorno aveva girovagato per Parigi senza meta,
rifiutandosi di prendere la metropolitana e camminando fino a stordirsi
dalla
stanchezza. Aveva cercato di apprezzare l’esplosione
primaverile della natura
rigogliosa presente nei parchi della città, nonostante un
vento sferzante che
gli faceva lacrimare gli occhi e dolere la testa, ma i suoi pensieri
andavano
tutti nella stessa direzione e gli impedivano di godere della
meraviglia della
Ville Lumière.
Il
secondo giorno si era svegliato con una pioggerellina
insistente che non invitava certo a uscire e aveva trascorso un
po’ di tempo su
internet, controllando la posta alla ricerca – infruttuosa
– di eventuali
contatti di lavoro o comunicazioni dal suo agente e curiosando sui
profili
social dei suoi ex colleghi e amici. Da quando era in Francia si era
eclissato
dai vari instagram, twitter e compagnia, e dovette ammettere di non
sentirne
poi la mancanza così tanto come pensava. Si era poi immerso
nella lettura di
“On the road”, il romanzo autobiografico di Kerouac
che aveva acquistato a
Shakespeare & Company. Crescendo con due genitori insegnanti,
da bambino e
da adolescente aveva letto tantissimi libri, ma da quando aveva
iniziato a
recitare, la carta stampata cui dedicava la sua attenzione era quella
dei copioni,
focalizzandosi sull’immedesimarsi in personaggi diversi da
sé e sul memorizzare
battute. Adesso invece gli era tornata la voglia di tuffarsi nel mondo
della
letteratura e partire sulle ali della fantasia. Proprio per
l’importanza della
cultura, trasmessagli dai genitori, era stato entusiasta del progetto
Kids need
to read, che aveva co-fondato anni prima. Quella giornata uggiosa gli
permise
di dedicare un po’ di tempo all’associazione,
contattando alcune delle persone
che la gestivano e ringraziandole per il prezioso supporto. Era sempre
più
convinto che l’istruzione fosse la chiave di volta per un
mondo migliore e con
la sua organizzazione no profit voleva contribuire, seppur minimamente,
a
questo ideale, fornendo libri alle scuole e alle istituzioni
più disagiate, con
un occhio particolare verso i ragazzi svantaggiati. Visto che
l’anno dopo
avrebbero festeggiato il decennale dell’attività,
decise che, una volta
rientrato negli Stati Uniti, avrebbe cominciato a studiare il modo
più adatto
per celebrare quel traguardo importante.
Il
terzo giorno aveva inizialmente pensato di recarsi a
Versailles per visitarne la splendida reggia e i bellissimi giardini,
ma una
segreta speranza che albergava nel suo cuore lo aveva fatto desistere:
avrebbe
tanto voluto andarci con lei. Aveva dunque ripiegato sul Centre
Pompidou, di
cui aveva ammirato non solo l’architettura, ma anche la parte
dedicata alla
fotografia e alle opere multimediali, e su un po’ di
shopping. La sera della
stessa giornata decise di ritornare al Cinema
Paradis, con la vaga illusione di incontrarla di nuovo.
Sapeva di non
meritarsi niente, ma non riusciva a rinunciare
all’opportunità di vederla
ancora una volta. Confidava che il destino fosse dalla sua parte.
Giunto
davanti al piccolo cinematografo, vide la
locandina di “Sérenade
à trois” di
Ernst Lubitsch, un film americano ambientato a Parigi risalente agli
anni
Trenta del secolo scorso, con Gary Cooper e altri attori che non
conosceva. Ne
cercò la trama su internet e si preparò a un
tuffo nel passato, tenendo le dita
incrociate affinché anche a Stana fosse venuta la stessa
idea.
Dopo
aver acquistato il biglietto, si recò verso la
platea e prese posto più o meno nella stessa poltroncina di
velluto su cui si
era seduto in occasione del loro primo incontro. Come molti attori,
anche lui
aveva le sue scaramanzie.
Durante
l’ora e mezzo della pellicola si distrasse più
volte, lasciando vagare lo sguardo nell’oscurità
della sala, alla disperata
ricerca del suo profilo, ma niente. Non c’era andata. Forse
era rimasta in
albergo… “Forza Nate, sii uomo: prendi il coraggio
a due mani e chiamala” si
incitò mentalmente. Era finito il tempo
dell’autocommiserazione: ora bisognava
agire. La doveva riconquistare.
Uscito
dal cinema, si allontanò di qualche passo per avere
un minimo di privacy, ripescò il cellulare dalla tasca del
giaccone e trovò tre
chiamate senza risposta di Paul. Del suo agente. Ne rimase
così sorpreso che
continuò a osservare il display inebetito per qualche
secondo poi si scosse da
quel torpore e incrociò le dita, sperando che non si
trattasse solo di una
telefonata di circostanza. Stava per selezionare il nome per
richiamarlo quando
Paul lo ricontattò per la quarta volta. Non fece in tempo a
rispondere che
venne invaso da un fiume in piena: “Nathan Christopher
Fillion, dove caspita
sei finito? Non pubblichi più foto o aggiornamenti sui tuoi
profili, non
rispondi nemmeno al telefono, benedetto uomo ti sei dato
all’eremitaggio?”
“Ehy
amico, calmati… sono appena uscito dal cinema”
tentò
di difendersi.
“Cos’è,
vai al cinema all’ora di pranzo? Ma che cappero
ti è successo? Ti sei trasformato in un vecchio
pensionato?” sbraitò Paul.
“No,
veramente qui sono le dieci e mezzo di sera… sono in
Europa” spiegò Nathan.
“E
cosa ci fai nel vecchio continente? Anzi, guarda, non
me lo dire. Non lo voglio nemmeno sapere. Piuttosto, ascoltami bene. Ci
sono
novità, amico. Grandi novità. Un ruolo da
protagonista in una nuova serie tv
della ABC. Sarà una bomba!” esclamò
eccitato l’agente.
“Fantastico,
Paul! Di cosa si tratta?” chiese interessato
l’attore. Finalmente le cose cominciavano a girare per il
verso giusto!
“Ti
mando maggiori dettagli via mail. Hai la possibilità
di controllare la posta elettronica o sei sperduto in qualche paesino
di
campagna, magari in dolce compagnia?” domandò
sarcastico prima di aggiungere:
“Se serve, ti spedisco un piccione viaggiatore”.
“Sono
in una grande capitale europea, Paul” precisò
Nathan, tralasciando la parte relativa ad un’eventuale
accompagnatrice e
confidando che il suo agente fosse troppo impegnato a fargli fare soldi
con
nuovi ingaggi, e a pregustare la sua lauta percentuale,
per avere voglia di impicciarsi della sua
vita privata.
“Si
vabbè. Ti saluto, amico, ci sentiamo nei prossimi
giorni. Fatti trovare quando ti chiamo!” gli
intimò Paul. Era suo agente da
tanti anni e sapeva fare bene il suo lavoro, ma non era certo la
persona più
empatica del mondo, né poteva considerarlo il suo migliore
amico.
Conclusa
la telefonata gli si aprì un sorriso sul volto.
Finalmente aveva qualcosa da festeggiare. E c’era una sola
persona con cui
avrebbe voluto farlo. Ne cercò il numero in rubrica e la
chiamò. Uno squillo,
due squilli, tre squilli…. Al sesto squillo il nastro
registrato della
segreteria telefonica lo invitò a lasciare un messaggio. No,
non voleva
dirglielo così. Aveva bisogno di sentire la sua voce e
possibilmente di vederla
di persona. Il suo albergo non era lontano, pertanto decise di andare a
cercarla lì. Non erano ancora le undici di sera e confidava
che ci fosse
qualcuno alla reception. Era un hotel modesto, ma si trovavano comunque
nel
centro di Parigi! Tirò su il bavero del giaccone per
ripararsi dal freddo di
cui non si era accorto fino a quel momento, troppo galvanizzato dalle
notizie
che gli aveva comunicato il suo agente, e si avviò verso
l’Hotel du Marronnier.
Fortunatamente,
un distinto signore era seduto dietro al
bancone all’ingresso. Nathan sperò che Stana si
fosse registrata con il proprio
nome e non avesse seguito l’esempio del personaggio
interpretato da Julia
Roberts in quel film in cui recitava con Hugh Grant e in cui faceva
l’attrice
famosa che usava sempre i nomi dei cartoni animati per sviare la
stampa. Si
schiarì la gola e sfoggiando il suo miglior francese, disse:
“Buonasera
signore, vorrei sapere se è possibile parlare con la signora
Katic”
Monsieur
Dupont si alzò dalla sedia, lo osservò da sopra
le lenti che usava per lavorare al computer, lo squadrò da
capo a piedi e
dovette convenire che tutto sommato quell’uomo di mezza
età che aveva di fronte
non doveva rappresentare un pericolo. “Mi dispiace, ma la
signora non è
rientrata stasera”
Deluso,
Nathan si congedò da lui e uscì. Provò
di nuovo a
chiamarla ma niente. Anzi, questa volta il cellulare era proprio
irraggiungibile. Ma non si sarebbe arreso. A costo di aspettarla fino
all’alba,
avrebbe parlato con lei.
Non
lontano dall’albergo c’era una panchina. Vi si
sedette e sperò di non congelare prima dell’arrivo
di Stana.
Nel
frattempo, in un grazioso ristorantino non molto
distante da quella zona, Stana stava cenando in compagnia della sua
nuova amica
Rosalie. Si erano sentite quel giorno stesso, dopo che
l’attrice aveva
trascorso quelli precedenti dedicandosi ai dintorni della capitale,
prevalentemente per evitare il rischio di imbattersi
nell’uomo che le turbava i
pensieri, e avevano concordato di uscire a cena insieme quella sera,
dato che
il marito di Rosalie era impegnato all’università
e non sapeva quando sarebbe
rientrato a casa.
“Robert
adora il suo lavoro. E’ un vero appassionato di
Shakespeare. Ho partecipato a una sua conferenza qualche tempo fa ed
emana un
fascino pazzesco mentre parla del suo autore preferito. Ha ereditato
queste
doti narrative dal padre naturale, sai?” le
raccontò la proprietaria della
deliziosa cartoleria.
“E
tu sei follemente innamorata di lui” replicò Stana
sorridendole.
Poi aggiunse: “ti brillano gli occhi quando ne parli. Ti
invidio, sai?”
Un
velo di tristezza offuscò il suo sguardo. Anche lei
una volta era stata follemente innamorata. Aveva amato l’uomo
che aveva sposato
e si era convinta di aver fatto la scelta più sensata, o
almeno quella che
tutti si aspettavano da lei. Ma la vita le aveva presentato un esito
assai
diverso ed ora eccola qui, nella capitale più romantica del
mondo, da sola.
Oddio, proprio da sola non era. E non si riferiva alla simpatica
ragazza
francese seduta davanti a lei, bensì al suo ex collega. Per
il quale, a suo
tempo, aveva perso la testa. In modo altrettanto folle.
“Chèrie,
arriverà anche per te un nuovo amore. Ricordati che quando
si chiude una porta,
si apre un portone!” esclamò convinta Rosalie.
“Nel frattempo, che ne dici di
concludere la nostra cena con una gustosissima crème
brulée?” le propose. Poi aggiunse:
“In barba alla dieta….” Un
ricordo le attraversò la mente, provocandole una piccola
fitta. Stana si
accorse che qualche brutto pensiero doveva aver incrinato
l’allegria della sua
commensale, ma non sapeva se indagare o meno. Fu la stessa Rosalie a
spiegarle:
“Prima di Robert sono stata fidanzata con un fissato del
fitness che ce l’aveva
a morte con grassi, carboidrati e zuccheri e che sarebbe inorridito
davanti a
un dessert. Bè, mi ha tradito… se ci ripenso, mi
fa ancora male”
“Però
dopo hai incontrato il tuo bell’americano” le
ricordò Stana, cercando di riportarle il sorriso.
“Dovrai farmelo conoscere
prima o poi!”
“Certo!
Anzi, lasciamo passare la conferenza e poi vieni
a cena da noi, che ne dici?” le propose.
Stana
accettò di buon grado. Era felice di aver
conosciuto una persona così carina come Rosalie e non vedeva
l’ora di
incontrarne il marito.
Nota
dell’autrice
Un
po’ di spazio ai pensieri di Nathan e alla grande
novità sul fronte lavorativo.
Grazie
a chi di voi legge la storia in silenzio e a chi mi regala un
po’ del suo tempo
per scrivere una recensione!
Deb
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 - Sottosopra ***
Capitolo
10 – Sottosopra
Era
passata un’ora quando finalmente la vide scendere da
una piccola utilitaria e salutare con un grande sorriso la persona che
l’aveva
accompagnata. Con quel buio non riuscì a vedere chi fosse,
ma dall’affetto con
cui si erano congedati dedusse che si doveva trattare di qualcuno di
speciale
per lei. Ancora una volta un morso di gelosia gli attanagliò
lo stomaco, anche
se dovette ricordarsi di non aver alcun diritto di essere possessivo
nei suoi
confronti.
Le
si avvicinò e la raggiunse prima che entrasse
nell’albergo. La chiamò: “Ehy,
Stana…”
La
donna sobbalzò al sentire il proprio nome: non si
aspettava certo di trovarselo davanti a quell’ora di notte.
“Nathan, mi hai
fatto prendere un colpo! Che ci fai qui?” esclamò,
portandosi una mano al
petto, quasi a voler impedire che il cuore, battendo così
forte per la paura,
le saltasse fuori dalla cassa toracica.
“Sì,
scusami, lo so, non è l’orario tipico delle visite
di cortesia, ma mi è successa una cosa e te la volevo
raccontare” le confessò,
rendendosi conto solo in quel momento di che ora fosse veramente e
della
freddezza con cui si erano congedati al loro ultimo incontro.
Raggiungerla in
albergo era stata una pazzia, però cercò di
trasmetterle con lo sguardo quanto
fosse importante per lui poter condividere con lei la notizia che aveva
ricevuto e incrociò mentalmente le dita affinché
lei lo comprendesse.
Stana
si prese qualche istante per osservarlo con
attenzione e percepì quanto ci tenesse. Sospirò.
“D’accordo, entriamo in
albergo così evitiamo il congelamento” disse,
facendogli strada.
Monsieur
Dupont li vide attraversare l’ingresso e sollevò
impercettibilmente un
sopracciglio, seguendo i loro movimenti. La bella signora americana lo
salutò educatamente
come sempre e lui fece altrettanto. Sembrava a suo agio con
quell’uomo,
pertanto dedusse che non era necessario tenerli sotto controllo. Si
accomodarono sul divanetto posto nella piccola sala di lettura situata
oltre la
reception. Era una stanza accogliente: l’arredamento era un
po’ retrò e i libri
messi a disposizione degli ospiti non erano certo i best-seller
dell’ultimo
momento, ma c’erano diversi volumi illustrati su Parigi e i
classici della
narrativa europea, sia in lingua originale che nella traduzione in
francese,
oltre ai capisaldi delle opere nazionali: testi teatrali di
Molière, romanzi di
Victor Hugo e di Marcel Proust, poesie di Baudelaire.
Stana
si tolse la giacca e il foulard, sistemandosi più
comodamente sul divano e gli rivolse uno sguardo interrogativo. I suoi
occhi
sapevano parlare in modo chiaro e inequivocabile, esprimendo interi
concetti e
profonde sensazioni senza dover far ricorso alla parola. Persino gli
autori di
Castle avevano sfruttato questa sua capacità con il
celeberrimo look-look di Kate
Beckett.
“Mi
ha chiamato Paul, il mio agente” le disse. “Mi
è
stata offerta la parte del protagonista in una nuova serie”
aggiunse,
trattenendo a stento l’entusiasmo, anche se non
riuscì a nascondere il
luccichio nello sguardo.
Stana
lo abbracciò d’impulso: “Oh Nate, sono
così felice
per te!” gli sussurrò in un orecchio, sfiorandolo
con le labbra. Quel contatto
così intimo provocò delle sensazioni sconvolgenti
in entrambi, tanto che si
staccarono immediatamente, come se si fossero avvicinati a una
superficie
incandescente. Ancora preda di quel profondo turbamento che lo aveva
scosso fin
nelle viscere, l’uomo riprese: “Appena ho saputo
dell’offerta, la prima persona
a cui lo volevo dire sei tu”
Quella
dichiarazione sincera aumentò lo stato
confusionario di Stana, che si rischiarò la gola e non
sapendo come reagire si
limitò a chiedergli: “Che ruolo dovrai
interpretare?”
“Oh,
non lo so ancora. Paul mi manderà maggiori
informazioni via mail e mi chiamerà nei prossimi giorni.
Parigi mi ha portato
fortuna. Tu mi hai portato fortuna!” le disse entusiasta,
prima di avvicinarsi
a lei, prenderle il volto fra le mani e stamparle un bacio sulla bocca.
Quel
semplice sfiorare di labbra, durato solo un paio di secondi,
lasciò entrambi
disorientati.
“Ehm…
ecco, adesso penso che sia proprio l’ora di
andare…
buonanotte, Stana” e con queste parole si alzò e
si avviò alla porta. Passò
davanti a Monsieur Dupont cui fece
un
cenno di saluto con la testa e la notte di Parigi lo
inghiottì.
Si
ritrovò nel suo albergo nel Quartiere Latino senza nemmeno
sapere come ci fosse arrivato. Era ancora frastornato.
L’istinto di baciarla lo
aveva colto alla sprovvista, ma quel desiderio covava in lui da
così tanto
tempo che non aveva potuto fare altro se non soccombere
all’impulso. Però poi
non aveva saputo come comportarsi e se l’era filata, in modo
impacciato e,
siamo sinceri, per nulla dignitoso. Era stata un’uscita di
scena davvero
imbarazzante.
Si
sedette sul letto e si passò le mani fra i capelli,
mentre il cuore gli batteva all’impazzata. Aveva rovinato
quel minimo che era
riuscito a ricostruire. Poco ma sicuro.
“Maledizione!” imprecò a voce bassa,
sbattendo un pugno sul piumone. Cercò di escogitare qualcosa
che gli
permettesse di recuperare almeno il rapporto di amicizia, ma il fluire
dei suoi
pensieri venne interrotto dallo squillo del cellulare. Era Paul. Pur
avendo ben
altro per la testa, in quel momento non poteva certo permettersi di
ignorare la
sua chiamata.
Anche
Stana aveva raggiunto in qualche modo la sua
stanza, dopo essere rimasta pressoché pietrificata sul
divanetto della sala di
lettura per un tempo che non avrebbe saputo calcolare. Il gesto di lui
l’aveva
sconcertata.
Si
sfilò gli abiti ed entrò nel box doccia,
lasciando che
l’acqua calda le bagnasse i capelli e le scorresse lungo il
corpo, con la
speranza che il getto portasse via anche la confusione che
l’agitava.
Ripercorse con la memoria ogni secondo di quella scena.
Avrebbe
potuto impedirgli di baciarla?
Teoricamente
sì.
Avrebbe
voluto
impedirgli di baciarla?
No.
No?!?!?
Macché
no!
Sì.
Certo che sì.
Razionalmente
lo avrebbe voluto. Peccato che le sue
labbra avessero deciso di gettare la razionalità alle
ortiche, preferendo
seguire l’istinto. In quel nanosecondo la sua idea di giusto
e sbagliato si era
liquefatta ed era sparita. Puff. Dissolta nell’etere. Per
fortuna, Nathan se
n’era andato prima che le venisse la tentazione di prendere
l’iniziativa e
baciarlo a sua volta.
Oddio,
e questo pensiero da dove usciva fuori?
No
no no no no, non se ne parlava nemmeno.
Prese
un respiro profondo, versò il bagnoschiuma sulla
spugna e si concentrò sulla doccia, mettendo da parte le
emozioni che il
ricordo di quel bacio aveva scatenato dentro di lei. Per esigenze di
scena si
erano baciati tante volte nel corso degli anni, ma stavolta era
diverso. Era
stato spontaneo, non c’era nessun copione da rispettare,
né un regista che
avesse detto loro come mettersi a favore di telecamera, né
una troupe sullo
sfondo. Ed era stato splendido. Naturale.
Scosse
la testa e cercò di non pensarci più, dedicando
la
propria attenzione alla cura dei capelli, con shampoo, balsamo e
persino una
maschera ristrutturante. Tutto considerato, era stato solo la reazione
istintiva a una bella notizia. Non ci doveva leggere altro.
Finita
la doccia, indossò l’accappatoio, avvolse i
capelli in una salvietta e recuperò il cellulare dalla
borsa, per controllare i
messaggi e chiamare i suoi genitori. Non si era accorta che si fosse
scaricato,
così collegò il caricabatteria alla rete
elettrica e il display si rianimò,
mostrandole le numerose chiamate perse da Nathan.
Corrugò
la fronte: questo cambiava le cose.
Non
era stato un impulso immediato.
L’aveva
cercata più volte ed era andato fino al suo
albergo per poter parlare con lei, a un orario fuori dalla grazia del
cielo.
Allora forse il suo gesto aveva significato qualcos’altro?
Finì di asciugarsi,
si applicò la sua crema idratante preferita, massaggiando
con attenzione tutto
il proprio corpo, e andò a dormire, mentre uno stormo di
farfalle impazzite
volava nel suo stomaco. Dopo quel bacio la pelle sembrava aver assunto
un nuovo
livello di sensibilità.
La
mattina dopo si svegliò ancora sottosopra come se
fosse appena uscita da una centrifuga: il suo sonno era stato popolato
di
immagini vivide ed inequivocabili che la vedevano protagonista di
performance ad
alto tasso erotico in compagnia di Nathan. La sua libido le stava
lanciando dei
segnali inconfondibili, che lei invece si ostinava a ignorare.
Controllò il
cellulare ma questa volta non c’erano né messaggi
né chiamate da parte sua.
Meditò un po’ sul da farsi, poi decise che quel
giorno avrebbe visitato
Montmartre, dopo aver fatto una rapida colazione, sbocconcellando un
croissant
senza gustarlo. Aveva risposto a monosillabi persino a
Hélène, con cui di
solito amava chiacchierare. Ma quel bacio aveva toccato qualche corda
nel suo
cuore e le vibrazioni che ne erano scaturite continuavano a riverberare
in lei,
trasportandola in un’altra dimensione.
La
sera prima lei e Rosalie avevano parlato a lungo del
film “Le fabuleux destin
d’Amélie Poulain”,
di cui entrambe adoravano la poesia e la tenera assurdità di
alcune scene, e le
era venuta voglia di ricercare i luoghi in cui era ambientato: prese la
metropolitana e raggiunse il Café
des 2
Moulins, il locale in cui lavorava la protagonista,
annotandosi mentalmente
di scovare anche il negozio di frutta e verdura del signor Collignon,
oltre
alla straordinaria basilica del Sacre Coeur. Il meteo era dalla sua
parte: un
cielo azzurro terso avrebbe fatto risaltare la pietra calcarea con cui
era
stato costruito il santuario, regalandole un’immagine
meravigliosa da serbare
con cura nei suoi ricordi.
La
visita del quartiere richiese buona parte della
giornata e contribuì a distrarla, anche se ogni tanto non
riusciva a resistere
alla tentazione di controllare il cellulare, senza alcun esito. Inutile
negarlo: era contrariata che lui non l’avesse ancora
chiamata. Forse per lui
davvero non aveva significato nulla? A un certo punto però
si disse che il
Medioevo era passato da tempo e che avrebbe anche potuto prendere lei
l’iniziativa
e dissipare ogni dubbio sulle reali intenzioni di Nathan,
così da evitare di
proiettarsi dei film nella mente. Entrò in una piccola boulangerie, la cui fragranza di pane
appena sfornato le sollecitò
le narici, ordinò una baguette calda che le venne servita su
un delizioso
piatto di ceramica bianca bordato di blu e accompagnata dal burro
bretone, e un
café au lait.
Scattò una foto a cibo
e bevanda e gliela inviò con il messaggio “ti va
di condividere per festeggiare
il tuo nuovo ruolo?”
Il
beep del cellulare lo informò di aver ricevuto un
whatsapp. Si stropicciò gli occhi e guardò
l’orologio. Quasi le tre del
pomeriggio??? Com’era possibile? Ah sì, la
telefonata con Paul era durata a
lungo ed era stata seguita dalla lettura approfondita della
sceneggiatura di
“The Rookie”, nel quale avrebbe dovuto interpretare
una recluta che decide di
realizzare il suo sogno e diventare un agente di polizia, pur essendo
molto più
anziano degli altri commilitoni. L’entusiasmo iniziale aveva
lasciato lo spazio
a una depressione sempre crescente, man mano che si faceva strada nel
suo cuore
un’unica, devastante consapevolezza: gli avevano affidato
quel ruolo perché era
un uomo di mezza età. Aveva impiegato ore per analizzare il
copione avanti e
indietro, alla disperata ricerca di qualche indizio che indicasse un
esito
diverso, ma il risultato era sempre il solito: il suo personaggio era
un
vecchio.
Del
resto, doveva fare pace con l’idea che il tempo passa
per tutti. Tranne che per lei. Lei era bellissima, forse addirittura
più di
quando l’aveva incontrata la prima volta, quasi dieci anni
prima. E le sue
labbra erano ancora più morbide e dolci di quanto
ricordasse. Per non parlare
del suo profumo: gli era rimasto nelle narici. Un mix di shampoo, eau de toilette e un qualcosa di
unicamente suo.
L’insieme
delle sensazioni lo aveva lasciato così
scombussolato che era riuscito a prendere sonno solo quando il sole era
ormai
sorto da tempo. Era precipitato in una specie di coma, dal quale lo
aveva fatto
emergere solo la suoneria del cellulare che gli annunciava
l’arrivo di un
messaggio.
Già,
non aveva ancora visto chi gli aveva scritto!
Si
tirò a sedere sul letto, prese il telefono e il cuore
gli si riempì di gioia. Era di Stana! Lo aprì e
sorrise, come un ebete. Non era
arrabbiata con lui per quel bacio, anzi, aveva voglia di incontrarlo!
Quell’invito lo rincuorò, anche se non era
così sicuro che ci fosse un vero
motivo per festeggiare. Anzi, sì che c’era una
ragione per celebrare! Era stata
lei a cercarlo! OK, animo: doveva raggiungerla. “Ciao
splendore! Dove siete tu
e quella fantastica baguette?” Premette invio e subito gli
venne in mente che forse
aveva esagerato con quel saluto… Per fortuna, la risposta
non si fece
attendere. L’emoji di una faccina imbarazzata che arrossisce
precedeva le
parole “A Montmartre, in una boulangerie
di ispirazione bretone” e la sua posizione.
Calcolò la distanza e il tempo
richiesto, tramite l’apposita applicazione, e le rispose:
“Fra mezzora sono lì.
Aspettami, ti prego.”
Nota
dell’autrice
Eh
sì, le buone notizie vanno festeggiate con le persone che
contano...
Non
so voi, ma io adoro “Il favoloso mondo di
Amélie” e lo riguardo ogni volta che
viene trasmesso in tv! Il giro per Montmartre continua anche nel
prossimo
capitolo ;-)
A
presto e grazie per essere arrivati fino qui!
Deb
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 - Montmartre ***
Capitolo
11 – Montmartre
Esattamente
mezzora più tardi lo vide entrare nella boulangerie.
Nel frattempo aveva finito
sia la baguette con quel delizioso burro salato che il café
au lait – sarebbe stato un delitto farli freddare
– ma era più
che felice di condividere qualcos’altro con lui per
festeggiare il suo nuovo
incarico. Sapeva quanto potesse essere frustrante aspettare che il
telefono
squilli per annunciare una nuova opportunità di lavoro: nel
loro ambiente, i
tempi morti potevano protrarsi a lungo. Le era capitato
all’inizio della
carriera, ma tutto considerato dovette riconoscere di essere stata
molto
fortunata. Subito dopo Castle, in cui aveva recitato per otto anni, le
era
stata offerta la parte di Emily in Absentia, praticamente senza alcuna
pausa. A
questo proposito, le sue vacanze ormai erano agli sgoccioli e presto
sarebbe
dovuta ritornare in Bulgaria e indossare di nuovo i panni, molto
impegnativi,
del suo ultimo personaggio. Cosa sarebbe stato di loro due? Ma poi, era
davvero
sicura che ci fosse un “loro due”?
Sospirò e si concentrò sul suo commensale,
che nel frattempo l’aveva raggiunta al tavolo.
Gli
occhi di Nathan indugiarono compiaciuti su di lei:
indossava una camicetta avorio e un pullover con uno scollo a V color
miele che
metteva in risalto quei due fari verdi-castani che adorava. E gli
sorrideva,
con quel sorriso che lo faceva sciogliere come neve al sole e che ogni
volta lo
fulminava con una saetta in mezzo al petto.
Non
sapendo come salutarla, visto che erano in un locale
pubblico e visto quello che era successo la sera precedente, le
sfiorò
delicatamente un braccio e prese posto davanti a lei.
“Ehy,
dov’è la baguette?” la
apostrofò scherzando, ma la
sua voce tradì una nota di malinconia.
Stana
si prese un po’ di tempo per osservarlo bene e ciò
che vide le fece aggrottare la fronte. Non aveva l’aspetto
entusiasta di uno a cui
è stato appena affidato un ruolo da protagonista in una
nuova serie sulla ABC.
Due profonde occhiaie tradivano un pessimo rapporto con il sonno. Un
morso allo
stomaco le ricordò che potevano essere dovute a una notte
sfrenata in dolce
compagnia. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Però
volle scacciare quel
pensiero e concentrarsi sul fatto inequivocabile che la aveva cercata
più volte
e persino aspettata in albergo per poter condividere con lei la bella
notizia
meno di 24 ore prima, quindi non ci poteva essere un’altra
donna. Allora qual
era il problema?
“Nate,
tutto bene?” gli chiese, sinceramente preoccupata.
“Ehm…
sì, più o meno… piuttosto, sono
digiuno da ieri, ti
dispiace se ordiniamo qualcosa da mangiare?” propose e, senza
aspettare alcuna
risposta, aprì il menù e si concentrò
su quello. L’offerta gastronomica del
locale rifletteva le origini bretoni del proprietario, con un tripudio
di
crepes e galettes, baguette
accompagnate da burro salato e naturalmente il kouign-amann.
L’uomo optò per una tipica galette
di grano saraceno e si limitò ad un caffè,
decidendo che il
sidro, seppure tradizionale, non fosse la scelta più adatta
a quell’ora.
Trascorsero
i successivi quindici minuti a parlare di
argomenti banali, con grande frustrazione di Stana che non riusciva a
comprendere cosa diavolo gli fosse preso. Appena ebbe terminato il suo
pasto,
la donna propose una passeggiata nel quartiere ed uscirono.
Il
sole stava tramontando e ciò regalava all’ambiente
un’atmosfera fiabesca. Si ritrovarono davanti al Moulin de la
Galette,
immortalato in tanti quadri impressionisti, da Renoir a
Toulouse-Lautrec, ma
anche da Van Gogh e persino da Pablo Picasso. Anche se ormai era stato
trasformato in un ristorante, era comunque strano vedere un mulino nel
cuore di
una metropoli. Ma Montmartre rappresentava un’oasi surreale
in sé: c’era
persino un vigneto che produceva un vino le cui bottiglie venivano
invecchiate
nelle cantine del municipio e dipinte da artisti famosi. Non era certo
usuale
trovare una collina coperta da viti al centro di una grande
città. Non stupiva
che tanti artisti, più o meno famosi, avessero soggiornato
in quella zona e la
frequentassero tuttora.
“Adoro
questo posto!” dichiarò Stana.
“E’ tutto un
pulsare di curiosità e un fremere di vita. Si respira arte
ad ogni passo, non
credi?” gli chiese, tentando di coinvolgerlo nella
conversazione e di
strapparlo al rimuginare nel quale sembrava sprofondato. Anche quella
manovra
però non ebbe successo.
Stufa
dei suoi monosillabi e dello sguardo spento, gli si
piazzò davanti, gli mise le mani sugli avambracci e gli
disse: “OK, sputa il
rospo. Cosa c’è che non va?”
Nathan
si arrese, prese un respiro profondo e le disse:
“Ho capito perché mi hanno dato quella
parte”
“E
quindi?” lo incitò lei.
“Sono
vecchio” dichiarò, abbassando la testa e
incurvando
le spalle. Stana trattenne a stento un sorriso: uomini...
Però lui sembrava
profondamente angosciato e lei ne ebbe pietà. Nathan riprese
la parola e le
raccontò in breve quale sarebbe stato il suo ruolo.
“La maggior parte degli
altri attori ha la metà dei miei anni e il doppio della mia
massa muscolare!”
concluse affranto. La donna lo ascoltò con attenzione, poi
girò la testa e vide
una cosa che sicuramente gli avrebbe tirato su il morale. O almeno
così
sperava.
Il
tramonto aveva lasciato spazio all’oscurità e un
gioco
di luci aveva trasformato la vetrata dell’edificio alle loro
spalle in uno
specchio. L’attrice lo prese per un braccio e lo fece
voltare, così che
entrambi scoprirono le proprie immagini riflesse in quello specchio
improvvisato.
“Dimmi
cosa vedi” gli ordinò con un sorriso
incoraggiante.
“Vedo
una ragazza bellissima e giovane accanto a un uomo
imbolsito” rispose con un tono di voce triste.
“Sai
invece cosa vedo io?” gli chiese. Lui scosse la
testa. “Vedo una donna fortunata perché
è al fianco di un signore molto
affascinante. Anzi, direi irresistibile”
Le
prese la mano, gliela strinse e se la portò alle
labbra, senza distogliere lo sguardo dall’immagine di loro
due sulla finestra e
senza dire una parola. Poi, continuando a tenerla per mano, si
voltò verso di
lei e finalmente le sorrise, non solo con la bocca ma anche con gli
occhi, per
la prima volta da quando l’aveva raggiunta nella boulangerie quel pomeriggio.
“Posso invitare questa donna fortunata
a fare un giro sul bateau mouche?
Lo
so che è schifosamente turistico, ma è
un’esperienza che non ho ancora fatto da
quando sono a Parigi e non me ne voglio andare senza averla
provata!”
Stana
annuì, mentre la piacevole sensazione delle loro
dita intrecciate frantumò in mille pezzi il macigno che
aveva sul petto,
sbriciolandolo completamente. Non era più arrabbiata con
lui. Anzi, stare con
lui era come andare in bicicletta: anche se cadi, appena ritrovi il
coraggio di
riprovarci diventa tutto naturale.
Saliti
sul battello, si sedettero all’esterno sul pontile
più alto. Spirava una brezza pungente, ma il paesaggio che
scorreva ai loro
occhi meritava quel piccolo sacrificio. Senza considerare che nessuno
dei due
si lamentò dell’opportunità di stare
appiccicati l’uno all’altra per ripararsi
dal vento freddo. Il bateau mouche
oltrepassò Place de la Concorde e svelò
l’imponenza del Louvre, per poi
dirigersi verso le guglie della cattedrale di Notre Dame. Non si
persero il
museo d’Orsay con la sua architettura inconfondibile
né, naturalmente, la Tour
Eiffel sfavillante di luci. Da quel nuovo punto di vista, la Ville
Lumière
mostrò un’ulteriore sfaccettatura del suo fascino
ai due attori, che ne
assaporarono ogni goccia, immersi nella loro bolla. Entrambi sapevano
che
quella vacanza aveva i giorni contati e che poi sarebbero dovuti
tornare alla
vita normale, che li vedeva in due continenti diversi. Ma decisero di
godersi
solo il presente e ciò che di bello e inatteso aveva da
offrire.
Nel
frattempo, in un grazioso appartamento non lontano
dalla Sorbonne il professor Shermann stava rientrando a casa dopo aver
concluso
la conferenza su Shakespeare. Varcò la soglia e le sue
narici vennero invase
dal profumo invitante del coq au vin
che sua moglie Rosalie stava finendo di cucinare per loro. Si tolse la
giacca,
la appese all’attaccapanni nell’ingresso e
rilasciò un sospirò di sollievo.
Adorava il suo lavoro e non mai una volta si era pentito di averlo
scelto a
scapito del fiorente studio legale di famiglia in America, ma
l’ultima
settimana era stata particolarmente faticosa e l’adrenalina
che lo aveva
accompagnato fino a quel momento stava scemando per lasciare il posto a
una
stanchezza dolorosa, che si manifestava nelle spalle contratte e in un
principio di mal di testa. La sua deliziosa consorte adorava ascoltare
la
musica mentre si dilettava in cucina e anche quella sera un CD che
raccoglieva
vecchi brani cantati da Charles Aznavour diffondeva un piacevole
sottofondo in
tutta la casa. In quel momento, in particolare, “Tous les
visages de l’amour”,
la versione in francese della celeberrima “She”,
inondava di note ogni stanza.
Il
bel professore si avvicinò alla moglie e la
abbracciò
da dietro, posandole un delicato bacio sul collo e assaporandone il
tepore
profumato. Rosalie sorrise e un brivido le percorse la spina dorsale:
il
contatto fisico con suo marito era ancora elettrico, come il primo
giorno.
“Com’è andata la conferenza?”
gli chiese.
“Bene,
l’audience era attenta e i relatori sono stati
molto disponibili anche al termine dei loro interventi. Hanno risposto
alle
domande e si sono fermati a parlare con gli
studenti…yawn…” rispose, non
riuscendo a trattenere uno sbadiglio. Rosalie dette un’ultima
mescolata al sugo
affinché tutti gli aromi si fondessero insieme, poi
abbassò il gas sotto il
recipiente nel quale si stava cuocendo il pollo e si voltò
nell’abbraccio del
marito. Lo baciò a fior di labbra e stettero qualche secondo
fronte contro
fronte, a occhi chiusi. Robert era davvero esausto, ma sua moglie gli
era
mancata molto negli ultimi giorni: l’organizzazione della
conferenza aveva
assorbito ogni sua energia, praticamente giorno e notte. Non aveva
nemmeno
avuto il tempo per mandare un messaggio al suo nuovo amico americano.
Chissà
cosa stava combinando…
“Tesoro,
che ne dici se invitiamo una mia amica a cena
domani sera?” propose Rosalie appena il marito
aprì gli occhi.
“In
realtà anch’io avevo promesso a un amico di
invitarlo
a cena appena finita la conferenza…” aggiunse lui.
Poi un lampo furbo gli
balenò nello sguardo. Rosalie comprese al volo. Avevano
parlato a lungo dei due
attori che il destino gli aveva fatto incontrare in modo
così rocambolesco. E
anche se a Robert il ruolo di paraninfo non piaceva, per
solidarietà maschile
aveva deciso di stare dalla parte di Nathan e sostenerlo nel suo
tentativo di
riconquistare la bella Stana. Rosalie invece era combattuta: da una
parte, il
suo animo romantico avrebbe voluto un happy end per loro due,
dall’altra le
sembrava di tradire le confidenze della sua nuova amica, che aveva
sofferto
molto a causa di quell’uomo, ma a cui era profondamente
legata, anche se forse
non sapeva di esserlo.
“L’amour gagne
toujours” dichiarò Rosalie e prese il
cellulare per mandare un messaggio a Stana,
mentre suo marito faceva altrettanto, destinandolo però a
Nathan. Omisero
entrambi il piccolo, insignificante, trascurabile dettaglio che nessuno
dei due
sarebbe stato l’unico ospite a cena.
La
gita sul bateau
mouche era stata perfetta: le bellezze di Parigi di notte
avevano catturato
l’attenzione di entrambi, tanto che avevano scambiato solo
poche parole,
inebriandosi del fascino della Ville Lumière e della
vicinanza l’uno
dell’altra.
Anche
se volevano evitare di pensarci, tutti e due erano
dolorosamente consapevoli che la loro vacanza stava quasi per finire.
L’agente
di Nathan gli aveva intimato di rientrare a Los Angeles seduta stante,
così da
finalizzare i dettagli del suo nuovo impegno lavorativo e iniziare a
calarsi
nel personaggio. L’attore non aveva ancora perso la speranza
di riuscire a strappargli
il permesso di fermarsi a Parigi per altri due giorni, così
da poter
festeggiare il suo compleanno proprio nella capitale francese, e
possibilmente
in compagnia di Stana. A lei non lo aveva ancora chiesto e non osava
nemmeno
sperare che se lo ricordasse: negli ultimi anni, l’evento era
passato in
secondo piano o comunque lei non aveva partecipato alle uscite
organizzate con
gli altri colleghi per brindare alla sua salute. Confidava
però nell’atmosfera
speciale della capitale francese, unica nel suo genere,
affinché quest’anno le
cose potessero andare diversamente.
Scesero
dal battello e si incamminarono verso l’albergo
di Stana. Lei lo prese a braccetto e durante il tragitto
chiacchierarono fitto
fitto di tutto quello che avevano visto scorrere lungo la Senna, della
cucina
bretone, degli impressionisti e di tanti altri argomenti, senza mai
affrontare
la questione del bacio, né tantomeno cosa avrebbero fatto al
termine della loro
parentesi francese. Nathan non trovava il coraggio per dirle che da
lì a poco
più di 48 ore si sarebbe potuto trovare su un volo
intercontinentale con
destinazione Stati Uniti.
Giunti
all’Hotel du
Marronier, si fermarono l’uno di fronte
all’altra. Lo sguardo di Nathan
scese dagli occhi di Stana verso la sua bocca, indugiandovi forse
più del
dovuto, per poi salire di nuovo e incatenarsi alle sue iridi. A sua
volta, la
donna non poté fare a meno di inumidirsi le labbra con la
lingua, gesto che non
passò certo inosservato all’uomo, il quale
alzò un sopracciglio e le fece un
sorrisino, come a volerle chiedere il permesso di baciarla. Lei
chinò
leggermente la testa da un lato e rispose al sorriso di lui,
avvicinandosi di
qualche centimetro. Nathan sollevò una mano e le
accarezzò delicatamente una
guancia, per poi delineare con il pollice il contorno della bocca e
attirarla
verso di sé. Fu un bacio diverso da quello a stampo della
sera precedente,
sicuramente più passionale ma non ancora da fuochi
d’artificio. Nathan aveva
paura che, se non si fosse trattenuto, l’avrebbe presa
lì, in mezzo alla
strada, noncurante di eventuali spettatori. E lei non se lo meritava.
In
realtà, anche la nuova versione di sé che
l’uomo stava costruendo non si
meritava un epilogo simile. Da parte sua, Stana non era ancora pronta
del tutto
a imbarcarsi in una nuova storia. Ma il bacio le piacque, e anche
molto. Si
staccò da lui con difficoltà e quando entrambi
aprirono gli occhi, lessero nel
luccichio dello sguardo dell’altro il nascere di un
sentimento nuovo.
“Buonanotte,
splendore” le disse Nathan con voce
sensuale, prima di deporle un bacio sulla fronte.
“Ciao,
uomo affascinante” gli rispose. Poi gli voltò le
spalle ed entrò nell’albergo. Monsieur
Dupont, che anche quella sera era alla reception, non poté
non notare
l’espressione raggiante della bella signora americana.
Nota
dell’autrice
Abbiamo
fatto anche un salto in Bretagna, almeno dal punto di vista
gastronomico ;-)
Il
riavvicinamento fra i protagonisti prosegue e anche i loro amici si
impegnano
per raggiungere l’obiettivo!
Grazie
mille per avermi regalato il vostro tempo leggendo anche questo
capitolo.
Al
prossimo,
Deb
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 - Una cena per farli innamorare ***
Capitolo
12 – Una cena per farli innamorare
Una
volta entrata nella sua stanza, Stana si appoggiò
alla porta e chiuse gli occhi, sospirando. Era stata indubbiamente una
bella
giornata: aveva visitato un quartiere di Parigi che trasudava arte,
storia e voglia
di vivere ad ogni passo. E aveva trascorso dei momenti meravigliosi in
compagnia di Nathan. E poi quel bacio… il cuore fece una
capriola nel petto e
si ritrovò a sorridere da sola, senza alcun motivo. Dovette
convenire che lui
le piaceva ancora.
Oh,
eccome se le piaceva.
Di
nuovo.
Fin
troppo.
Si
tolse la giacca e la appoggiò sul letto, insieme alla
borsa, da cui scivolò fuori il cellulare: non lo guardava da
ore! Si era
praticamente dimenticata di averlo. A ripensarci bene, nessuno dei due
aveva scattato
foto né selfie, come per un tacito accordo. Si erano
totalmente isolati per
godersi quei momenti, senza volerli condividere con nessuno.
L’icona di
whatsapp indicava che aveva ricevuto un messaggio, così ci
cliccò sopra e vide
che la sua amica Rosalie le aveva scritto, invitandola a cena per
l’indomani.
L’amicizia con quella ragazza francese era uno dei regali
della sua trasferta a
Parigi e non aveva intenzione di rinunciare a trascorrere un
po’ di tempo con
lei e a incontrare finalmente l’affascinante marito americano
di cui era tanto
innamorata. Però l’idea di non vedere Nathan per
cena le fece provare uno
strano dolore: era consapevole che presto si sarebbero dovuti separare
e non
sapeva in che termini sarebbero rimasti. A dirla tutta, non aveva
proprio idea
di come definire il rapporto che avevano.
Ex
colleghi? Sì, ma non solo.
Amici?
Ni. Gli amici non si baciano, non certo in quel
modo.
Amanti?
Non più. O forse era meglio dire non ancora? Da
quando si era separata da Kris non aveva più sentito il
desiderio di
avvicinarsi a un uomo, forse perché temeva di non essere
abbastanza bella,
sensuale e desiderabile. In fin dei conti, il suo ex marito si era
trovato
un’altra con cui dare sfogo alla sua passione e questo le
aveva insinuato dei
dubbi sulla propria femminilità. Però quel bacio
con Nate aveva alimentato di
nuovo qualcosa dentro di lei, risvegliando un fuoco che probabilmente
covava
ancora sotto la cenere.
Decise
comunque di accettare il gentile invito di Rosalie
e poi avrebbe pensato a un modo per farsi perdonare da Nathan di dargli
bidone
per l’intera giornata: aveva infatti in programma di dedicare
un po’ di tempo a
studiare il copione degli episodi che avrebbe dovuto girare appena
rientrata in
Bulgaria.
Magari
gli avrebbe potuto regalare dei fiori. Sì, avrebbe
chiesto a Hélène, la cameriera che serviva la
colazione e con cui aveva preso
l’abitudine di scambiare qualche parola ogni mattina.
Conosceva il quartiere
come le sue tasche e le avrebbe di certo indicato un fioraio a cui
rivolgersi.
Rinfrancata dall’idea, si preparò per la notte e
si addormentò in breve tempo.
In
un albergo non lontano da lì, Nathan terminò la
terza
telefonata. Aveva lasciato il cellulare in modalità
silenziosa per tutto il
tempo trascorso con Stana e, da quando aveva riattivato il sonoro, non
gli
aveva dato tregua. Prima lo aveva cercato Paul, per rammentargli
l’appuntamento
tassativo con la produzione della nuova serie, poi sua madre e infine
suo
fratello. Ai familiari, che avevano notato un tono di voce assai
più gioviale
del solito, aveva solo confidato di avere buone notizie in ambito
lavorativo,
senza far alcun riferimento a Stana. Il rapporto che stava ricostruendo
con lei
era troppo prezioso per correre qualsiasi rischio.
Poggiando
il cellulare sul comodino, si rese conto di
aver ricevuto anche diversi messaggi. Li scorse velocemente: un paio
erano di
sua madre che aveva provato più volte a cercarlo senza
successo, “benedetto
figliolo mi farai venire un infarto”, uno era del suo amico
Michael Trucco, che
gli chiedeva dove diavolo fosse finito, visto che era scomparso da
qualsiasi
social, persino le nipoti gli avevano scritto per avere sue notizie. E
poi ce
n’era uno di Robert, che lo invitava a cena. Gli si
aprì un sorriso sul volto.
Il professor Shermann era una persona squisita ed era genuinamente
felice di
averlo incontrato. Chissà come gli era andata la conferenza
su Shakespeare… gli
avrebbe fatto davvero piacere andare a cena da lui e incontrare
finalmente la
splendida francesina che gli aveva catturato il cuore, ma
l’idea di non vedere
Stana per una sera gli adombrò lo sguardo. Gli rimaneva
ormai poco tempo da
trascorrere insieme a lei e ogni secondo aveva un valore inestimabile.
D’altro
canto, si sentiva in debito con Robert, che lo aveva aiutato a
scegliere il
locale giusto dove portare Stana, permettendogli di avvicinarsi di
nuovo a lei.
Decise dunque di accettare il suo invito, confidando di poter poi
passare dalla
donna dopo cena. L’attrice gli aveva infatti detto che
l’indomani avrebbe
dovuto dedicare la mattinata a leggere il copione dei nuovi episodi di
Absentia
che avrebbe iniziato a girare appena rientrata dalla pausa e a
memorizzare i
dialoghi, quindi non si sarebbero potuti vedere se non nel tardo
pomeriggio.
Les
fleurs de Pascaline,
il negozio che le aveva consigliato Hélène,
la accolse di buon mattino con un tripudio di colori e di profumi. I
grandi
vasi raccoglievano numerose varietà di fiori recisi, mentre
le piante erano
esposte su scaffali e fioriere, con grande attenzione
all’impatto cromatico e
olfattivo che avrebbero avuto sui clienti. Dopo aver salutato
cordialmente la
proprietaria, Stana la mise a conoscenza della sua richiesta:
“Non conosco il
linguaggio dei fiori, cosa potrei regalare a una persona per chiedere
perdono?”
La
donna la osservò con attenzione, poi un lampo le
attraversò lo sguardo: l’aveva riconosciuta!
Decise però di mantenere un
approccio professionale e di rimandare la richiesta di un autografo
solo dopo
averla servita. Non capitava tutti i giorni di avere una famosa attrice
americana come cliente, quindi si schiarì la voce e assunse
il tono più
competente che aveva: “Dunque, ci sono vari tipi di fiori. I
giacinti indicano
benevolenza e tentativo di riavvicinamento. Le violette sono perfette
per
dimostrare di aver imparato dai propri errori. I gigli invece
significano
perdonami e ricominciamo da capo…”
“Direi
che i gigli potrebbero andare. Ma me ne serve solo
uno…ecco, quello sarebbe perfetto” le rispose,
indicando con un cenno della
mano uno splendido giglio bianco screziato di porpora. “E
visto che ci sono
vorrei anche acquistare dei fiori per un’amica che mi ha
invitato a cena”
aggiunse.
“Che
tipo è la sua amica?” si informò la
fioraia.
“E’
una persona squisita ed è un’artista, quindi
opterei
per qualcosa di colorato” rispose con sicurezza.
“Un
bouquet di margherite e fresie, che ne dice, signora
Katic?” le propose Pascaline, rendendosi conto solo troppo
tardi di averla
chiamata per nome. Si sarebbe morsa la lingua, ma ormai il danno era
fatto e
tanto valeva approfittarne, così tirò fuori una
serie di cartoncini: la fan
aveva preso il posto della distaccata professionista.
Stana
le sorrise e la ringraziò. Poi le firmò un
autografo per sé, uno per la sorella, uno per la nipote, uno
per la cugina e,
già che c’era, persino uno per la figlia della
signora che abitava sopra di
lei, tutte fan appassionate di Castle. Infine concordò con
lei di passare nel
pomeriggio a ritirare il bouquet per Rosalie, così che fosse
più fresco per la
cena. Prese con sé solo il giglio e si avviò
verso l’albergo di Nathan,
sperando che avesse mantenuto la sua abitudine di essere un dormiglione
mattutino. Le sarebbe piaciuto fargli una sorpresa. Nella peggiore
delle
ipotesi, avrebbe lasciato l’omaggio floreale alla reception
per lui.
Attraversò
i vicoli pieni di vita del Quartiere Latino e
giunse al suo hotel, dove venne informata che il signor Fillion era
appena
uscito. Mannaggia. Nascose a stento la delusione, ma si
limitò a farsi dare un
bigliettino e una busta: gli avrebbe lasciato due righe, insieme al
giglio.
Nate,
una
cara amica di Parigi mi ha invitato a cena stasera e, visto che a breve
dovrò
tornare in Bulgaria, ho deciso di accettare. Mi dispiace non vederti
oggi, ma
sono sicura che troverò il modo di farmi perdonare, oltre
all’omaggio floreale
;-)
Bacio,
S.
Poche
ore più tardi, in un grazioso appartamento vicino
alla Sorbonne, la cucina era in piena attività. Rosalie
aveva optato per un
menù semplice, ma curato: un’insalata come entrée,
un arrosto di manzo con delle patate al forno e infine quello che
considerava
il suo piatto forte, ovvero un golosissimo e sensualissimo gateau au chocolat. Era felice che
entrambi gli ospiti avessero
accettato con gioia il suo invito, ma si sentiva un po’ in
colpa per averli
ingannati. Del resto, era fermamente convinta che quei due si
meritassero
un’altra occasione e aveva deciso di interpretare il ruolo di
Cupido insieme a
suo marito.
Apparecchiò
per quattro con le stoviglie avorio
impreziosite da un decoro di mazzetti di lavanda, mise un piccolo vaso
di fiori
al centro della tavola, poi andò in camera per cambiarsi
d’abito e apprestarsi
ad affrontare la serata. Indossò un vestito azzurro e
raccolse i lunghi capelli
in uno chignon. Quando suonò il campanello,
scambiò uno sguardo con Robert, per
comunicargli la sua ansia, ma lui le sorrise per rassicurarla. Poi lo
spedì ad
aprire la porta, tenendo le dita incrociate affinché tutto
andasse nel modo
migliore.
Il
professor Shermann rimase pietrificato e a bocca
spalancata per un paio di secondi, poi si riprese e disse:
“Scusami. Eri bellissima
a video, ma dal vivo mi hai lasciato letteralmente senza fiato! Vieni,
sono
Robert, il marito di Rosalie. Benvenuta a casa nostra!” Poi
le rivolse un
sorriso gentile e genuino e la invitò ad entrare con un
cenno della mano.
Stana
gli rispose, sorridendo a sua volta: “Grazie per
avermi invitato! Questi sono per tua moglie, spero che le
piacciano…” Gli
disse, porgendogli il bouquet.
“Oh,
Stana, sei un angelo, sono davvero deliziosi!”
esclamò la destinataria dell’omaggio floreale, che
nel frattempo li aveva
raggiunti. La padrona di casa la abbracciò e le disse:
“Sono così felice che tu
sia qui! Dai, accomodati, pochi minuti e possiamo metterci a
tavola”
Solo
in quel momento l’attrice notò che erano previsti
quattro commensali, aggrottò le sopracciglia ma non fece
alcun commento in
proposito. “Rosalie, hai bisogno di una mano in
cucina?” si offrì.
“Molto
volentieri! Devo solo preparare le ultime cose, ma
almeno possiamo fare due chiacchiere fra donne e sparlare degli
uomini” le
rispose, strizzando l’occhiolino al marito che le aveva
seguite in sala da
pranzo.
“Tesoro,
così mi ferisci fin nel profondo
dell’anima!” si
lamentò in modo giocosamente teatrale Robert, mentre si
preoccupava di
recuperare un vaso per sistemare la splendida composizione che
l’altrettanto
affascinante ospite gli aveva consegnato. Ebbe giusto il tempo di
trovare un
posto ai fiori che sentì il campanello suonare di nuovo.
Trasalì ed esclamò:
“Tranquille, vado io!” Poi fra sé e
sé aggiunse: “Chi semina amore, raccoglie
felicità… speriamo che Shakespeare avesse
ragione!”
“Ehy,
amico! Finalmente!” lo apostrofò Nathan, prima di
abbracciarlo. “Grazie per l’invito”
aggiunse.
“Grazie
a te per averlo accettato! Vieni, entra” lo
invitò Robert. Nathan gli porse una bottiglia e
dichiarò: “Vi ho portato dello
champagne per festeggiare!”
“Ti
vedo di buonumore, deduco che tu abbia ricevuto buone
notizie!” commentò felice Robert.
“Sì,
un’ottima offerta di lavoro” poi, abbassando il
tono, aggiunse. “E non solo…”
Nel
frattempo, dalla cucina, Stana riconobbe
immediatamente la sua voce e rimase a bocca aperta per lo stupore,
mentre le
guance arrossirono al ricordo del messaggio che lui le aveva mandato
appena era
rientrato in albergo, quando aveva trovato il giglio e la ferale
notizia che
non si sarebbero potuti vedere quella giornata. L’emoji della
faccina in lacrime
era seguita da “Ho già in mente vari modi in cui
ti potresti far perdonare…” E
non c’era bisogno di essere dei geni per capire a cosa si
riferisse. La sua
libido lo aveva compreso perfettamente. Oh, eccome se lo aveva capito!
Le aveva
persino fatto immaginare il tono profondo della sua voce mentre le
diceva
quelle parole. Rosalie si accorse subito della reazione di Stana e si
affrettò
a dirle: “Sì, è lui, mi dispiace, lo ha
incontrato Robert in un museo diversi
giorni fa, più o meno quando tu sei venuta in negozio per la
prima volta, e
hanno fatto amicizia. So che sei ancora arrabbiata con lui,
però io penso,
anzi, noi pensiamo che vi meritiate un’altra occasione, e poi
è solo una cena…”
Le rivolse un’occhiata implorante e si torse le mani in
attesa di una sua
risposta. Stana si mise a ridere.
All’udire
il suono di quella risata, Nathan scoccò uno
sguardo interrogativo a Robert, che gli restituì un
sorrisino complice e
aggiunse: “Mi ringrazierai dopo, amico. Però
giocatela bene!” Benedetta
solidarietà maschile!
Stana
uscì dalla cucina portando l’insalatiera, seguita
a
ruota da una perplessa Rosalie che non riusciva a capacitarsi della
reazione
della sua amica. Appena vide Nathan, questi le sorrise e le disse:
“Ecco perché
non potevi uscire a cena con me stasera!” Gli occhi di
entrambi rimasero
incatenati per qualche secondo, immersi in una conversazione silenziosa
eppure
pregnante, del tutto ignari della presenza dei due padroni di casa, i
quali a
loro volta si fissarono confusi: questa proprio non se
l’aspettavano. Avevano
organizzato una cena per farli innamorare, ma quei due si erano
innamorati
senza il loro intervento. Di fronte all’assurdità
esilarante della scena, che
sembrava tratta da un film muto degli anni Trenta, Robert
scoppiò a ridere e
disse: “Bè, volevamo farvi una sorpresa ma vedo
che l’avete fatta a noi. Forza,
sediamoci a tavola e mangiamo: avrete modo di raccontarci come siamo
arrivati a
questo punto e di farvi perdonare per esservi presi gioco di
noi!”
La
battuta del professore spazzò via l’imbarazzo
iniziale
e l’armonia tornò fra i quattro commensali. Su
richiesta di Nathan, Shermann
raccontò della conferenza su Shakespeare e tutti pendettero
dalle sue labbra:
la sua oratoria era fantastica.
“Devi
venire a trovare i miei, Robert! Ti adorerebbero e
potresti chiacchierare con loro di letteratura e teatro per
ore!” commentò
Nate.
Stana
invece condivise con loro la sua esperienza in
Bulgaria, narrando quello che aveva imparato della cultura e della
cucina
bulgara. Discussero delle caratteristiche della serie che stava
girando,
decisamente più cupa e brutale di Castle. Poi parlarono del
cinema
indipendente, che racconta le storie più interessanti e
permette di fare
esperimenti e correre dei rischi, anche se non garantisce grandi
profitti né
stipendi milionari, come spesso capita a chi lavora
nell’ambito della cultura.
A questo proposito, Robert rivelò loro che quando aveva
confidato alla sua ex
di voler lasciare il lavoro di avvocato nel famoso studio legale di
famiglia
per accettare la proposta della Sorbona, lei gli aveva rinfacciato che
i
professori universitari sono dei morti di fame.
Poi
Robert chiese sia a Stana che a Nathan cosa
pensassero del finale di Castle. Entrambi concordarono che fosse un
sogno,
perché la vita vera non è sempre felice come noi
vogliamo. Però era un regalo
che i fan si meritavano, visto l’affetto con cui avevano
seguito e supportato
tutte le stagioni.
Non
mancarono di parlare delle delicate illustrazioni di
Rosalie e dei suoi clienti più affezionati, oltre alle
richieste più inusuali
che aveva ricevuto da quando aveva aperto il negozio, dalle
più commoventi alle
più ridicole. E naturalmente venne fuori anche il modo
rocambolesco in cui lei
e il marito si erano conosciuti, non tralasciando quanto fossero stati
burrascosi i rapporti fra loro all’inizio, dal loro primo
bacio sotto un
ciliegio alla scenata che le aveva fatto Rachel, la ex fidanzata
americana che
aveva tentato inutilmente di riprendersi il professore, per arrivare a
quando
Robert aveva trascinato una riluttante Rosalie sul Pont des Arts e le
aveva
regalato un lucchetto in cui si leggeva Rosalie
& Robert. Pour toujours.
Tutti
si complimentarono con la cuoca per l’ottima
riuscita dei piatti e lei, scherzando, aggiunse: “E non avete
ancora gustato il
mio gateau au chocolat! Come dite voi americani? The best is yet to
come! Mi
daresti una mano, Stana?” E con questo, sparì in
cucina portandosi dietro la
sua amica. Stava morendo dalla curiosità di capire cosa
fosse successo in
quegli ultimi giorni fra quei due.
Appena
raggiunta la loro destinazione, la bella
decoratrice chiuse la porta e rivolse uno sguardo interrogativo a
Stana, con il
quale la invitava ad aprirsi con lei. “Guarda, non so nemmeno
io cosa dirti”
confessò l’attrice in tutta sincerità.
“E’ tornato ad essere l’uomo per cui
avevo preso una sbandata anni fa e con cui ho trascorso tanti momenti
meravigliosi sul set. Però non so cosa pensare…
in fin dei conti, il passato mi
insegna che la nostra relazione non funziona”
Rosalie
la osservò per qualche secondo e commentò:
“La
luce nei tuoi occhi però dice
tutt’altro…” Poi le posò
teneramente una mano sul
braccio e le disse: “Credo che il tuo cuore abbia
già scelto, anche se tu non
lo sai. Quello forse era il momento sbagliato per voi, magari ora
è quello
giusto…”
Le
due amiche si scambiarono un sorriso affettuoso. Rosalie
aggiunse: “Qualunque cosa sia, adesso tocca al dolce. E a un
po’ di bollicine!”
Rientrarono
nella sala da pranzo e trovarono Robert e
Nathan intenti a disquisire di musica, osservando la collezione dei CD
che
faceva bella mostra di sé sugli scaffali della moderna
libreria bianca. Il
professore mise su una raccolta di canzoni francesi e lo stereo diffuse
le note
della celeberrima La vie en rose.
Poi
raggiunse il resto della compagnia, che si era già seduta a
tavola, e, su
suggerimento della moglie, aprì la bottiglia di champagne e
riempì i calici di
tutti.
“Brindiamo
alla magia di Parigi!” propose Robert. “Senza
questa città, non avrei mai trovato la donna della mia vita.
Dubita che di
fuoco siano le stelle, dubita che si muova il sole, dubita che la
verità sia
menzogna, ma non dubitare mai del mio amore” aggiunse,
citando Shakespeare e
rivolgendo uno sguardo sognante alla sua bella moglie, i cui occhi si
colmarono
di lacrime di gioia.
“All’amore
e all’amicizia” rincarò Rosalie,
schiarendosi
la gola per mascherare l’emozione che le parole di suo marito
avevano
provocato. Sapeva sempre come conquistarla, giorno dopo giorno, come se
conoscesse gli ingredienti segreti della ricetta del vero e imperituro
amore.
“E
ai nuovi inizi” suggerì Nathan.
“A
noi quattro” concluse Stana, levando il calice.
La
cena multiculturale si concluse in bellezza con un
brindisi sincero e sentito. Tutti e quattro si scambiarono abbracci
affettuosi
e promesse di rimanere in contatto. Nathan invitò i suoi
amici francesi a
raggiungerlo a Los Angeles al termine dell’anno accademico ed
entrambi presero
in seria considerazione quell’ipotesi, così da
godersi una seconda luna di
miele.
Appena
si ritrovarono in strada, Stana e Nathan si
guardarono e scoppiarono a ridere. “Che strana
coincidenza…” dissero pressoché
all’unisono. All’uomo tornò in mente
l’idea della sincronicità e fu genuinamente
felice che la sua vita si fosse in qualche modo sincronizzata con
quella della
sua ex coprotagonista e anche dei suoi nuovi amici francesi. Poi le
porse il
braccio e le chiese: “Mi concedi l’onore di
accompagnarti in albergo?”
Stana
annuì e si avviarono a piedi, godendosi la loro
ultima passeggiata notturna nella Ville Lumière.
Ripercorsero gli aneddoti
emersi durante la cena, in cui avevano parlato un po’ in
inglese e un po’ in
francese, ridendo e scherzando su quello che si erano detti e su quanto
fossero
deliziosi i loro nuovi amici. Giunsero all’Hotel
du Marronier fin troppo presto per i
loro gusti.
“Ci
siamo, eh?” gli disse lei, nervosamente, poi
domandò:
“Quando parti?”
“Domani
in tarda mattinata” rispose sospirando. Il suo
agente gli aveva intimato di anticipare il rientro e non aveva potuto
rifiutare.
Stana
guardò l’orologio, poi sollevò lo
sguardo dapprima
sulle labbra e infine sugli occhi di lui: “E’
mezzanotte passata, buon
compleanno!” sussurrò, sorridendo. Si mise in
punta di piedi e lo baciò.
Con
il cuore che gli scoppiava di gioia all’idea che lei
se ne fosse ricordata, Nathan non ci pensò due volte, prese
la donna fra le sue
braccia e, appena lei schiuse la bocca, approfondì il bacio,
perdendosi
nell’inconfondibile sapore di lei e di cioccolato. Rosalie
aveva ragione: il
meglio doveva ancora venire. Quando dovettero soccombere alla
necessità di
respirare, si staccarono e rimasero fronte contro fronte. “Ti
chiederei di
salire, ma…” iniziò Stana.
“No”
la interruppe, poi si affrettò ad aggiungere: “Non
mi fraintendere, Dio solo sa quanto vorrei. Sarebbe il più
bel regalo di
compleanno che potessi ricevere. Ma se salissi adesso non ti lascerei
più
andare. Non voglio fare l’amore con te sapendo che poi non ti
vedrò più per
mesi, non ce la farei”
La
donna annuì. Poi dichiarò: “Le riprese
dovrebbero
terminare a fine maggio”
“Bene,
allora diamoci un appuntamento” propose Nathan.
“Il 31 maggio alle 16 nel parco della Huntington Library a
Los Angeles”
“Vicino
al tempio del giardino cinese” aggiunse Stana.
“Il
31 maggio alle 16 vicino al tempio del giardino
cinese” ripeté Nathan. “Io ci
sarò. E da lì vedremo cosa fare. Insieme.
OK?” le
stampò un bacio sulle labbra e la lasciò
rientrare in albergo. Entrambi avevano
un appuntamento a cui non sarebbero mancati.
Nota
dell’autrice
Il
soggiorno parigino è finito in bellezza con una cena che
rappresenta l’epilogo della
nascita di una nuova amicizia e della rinascita di un amore.
Spero
che anche voi sarete con me nel prossimo e ultimo capitolo: vi aspetto
nel
parco della Huntington Library, vicino al tempio del giardino cinese!
Grazie
mille per avermi regalato il vostro tempo arrivando fino qui.
Deb
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 - 31 maggio ***
Capitolo
13 – 31 maggio
Si
era rasato e pettinato con cura, lasciando però il
ciuffo un po’ scarmigliato, così che sembrasse
più casual e naturale. Aveva
indossato dei pantaloni scuri e poi il dramma era iniziato. Si era
cambiato la
camicia almeno tre volte. Poi aveva optato per una polo, che aveva
scartato a
favore di una T-shirt. Poi invece era tornato all’idea di una
camicia di un bel
blu cobalto, che sapeva avrebbe messo in risalto il colore dei suoi
occhi.
Vista la temperatura quasi estiva, l’avrebbe portata con le
maniche arrotolate
fino ai gomiti. Non voleva lasciare niente di intentato. Ma era
nervoso, come
se fosse un adolescente al primo appuntamento con la ragazza dei suoi
sogni, la
cheerleader più carina della scuola, anzi, la reginetta del
ballo di fine anno.
In
quei due mesi si erano sentiti sporadicamente, solo
qualche messaggio su whatsapp e qualche telefonata, troppo impegnati
con i
rispettivi lavori. Senza considerare che la differenza di fuso orario
non
aiutava di certo. Ciononostante, il sentimento che provava nei
confronti della
donna era cresciuto e gli aveva inondato il cuore. Voleva fortemente
che questa
volta le cose funzionassero con Stana: non gli interessava farsi
trascinare da
una fugace ed imprevedibile passione. Se fosse stato solo quello, non
si
sarebbe certo lasciato sfuggire l’occasione di portarsela a
letto l’ultima sera
a Parigi. Ma non voleva più essere quell’uomo. Ne
aveva parlato con Michael
Trucco, quando lui e la moglie Sandra lo avevano invitato a cena poco
dopo il
suo rientro dalla Francia. Era l’unico con cui si era
confidato, oltre a suo
fratello Jeff, il vero custode della sua anima. Gli aveva espresso la
sua
determinazione nel conquistare definitivamente il cuore di quella donna
meravigliosa, rivelandogli la paura che lei, nel frattempo, avesse
cambiato
idea. Michael lo aveva ascoltato con attenzione e aveva sollevato il
bicchiere
alla sua salute: “Al nuovo Nathan, amico!” Poi, per
non diventare troppo
sentimentale, aveva aggiunto: “Che la forza sia con
te” Ed entrambi avevano
riso del riferimento alla celebre frase di Star Wars, di cui erano
grandi fan.
Dal
canto suo, in quel periodo Stana si era gettata a
capofitto nelle riprese di Absentia, ansiosa di sfogare nel lavoro gli
istinti
repressi. Quello che aveva scoperto di sentire per lui le era esploso
in mezzo
al petto, aprendole una voragine nel cuore, ma una parte del suo
cervello
temeva che Nathan fosse tornato alle vecchie abitudini di inguaribile
playboy e
lei per prima si stava ancora leccando le ferite per il suo matrimonio
fallito.
Aveva deciso di andarci con i piedi di piombo. Parlando con Emily, la
sua
truccatrice, cui aveva confidato di aver incontrato una persona a
Parigi, senza
però fare nomi, questa le aveva regalato una perla di
inestimabile saggezza. Le
aveva detto che l’amore è un’emozione
strana e ha pochissimo a che fare con il
buonsenso. A volte si tratta di un sentimento profondo e rassicurante,
una
coperta calda in una notte d’inverno, mentre fuori imperversa
una tempesta,
altre volte è travolgente, incontrollabile. E
l’unico modo per essere vivi era
di lasciarsi andare a quell’impulso. “Me lo diceva
sempre mia nonna. In realtà,
era la seconda moglie di mio nonno, che aveva perso la madre delle sue
figlie
per una brutta malattia e poi durante la guerra aveva incontrato
Margaret,
vedova a sua volta. Era una donna molto saggia e aveva un grande
cuore” le
aveva raccontato Emily.
Alla
fine, c’entrava sempre il muscolo cardiaco.
“Va’
dove ti porta il cuore”, le aveva detto Rosalie
quando le aveva donato quel bigliettino che ritraeva un uomo e una
donna che si
tengono per mano e volano sopra la capitale francese, impugnando un
palloncino
a forma proprio di cuore. Una coppia che, guarda caso, poteva benissimo
rappresentare lei e Nathan, lunghi capelli castani e occhi azzurri
compresi.
Lei
e Rosalie si erano sentite abbastanza di frequente in
quei mesi e un weekend si erano persino date appuntamento a Sofia, per
visitare
insieme la capitale bulgara. Le due donne si erano trovate in perfetta
sintonia
e la loro amicizia si faceva sempre più profonda, tanto che
avevano già
concordato di rivedersi nel Principato di Monaco a metà
giugno, in occasione
del Festival de
Télévision de Monte-Carlo,
al quale Stana avrebbe presenziato per promuovere Absentia.
Ed
ora doveva capire cosa sarebbe successo di lei e di
Nathan. Era tornata negli Stati Uniti un paio di giorni prima, giusto
il tempo
di fare un salto dai familiari, incontrare il suo avvocato per le
ultime
pratiche del divorzio e riprendersi dal jet-lag. E quel pomeriggio alle
16,
vicino al tempio del giardino cinese della Huntington Library, avrebbe
compreso
come stavano davvero le cose fra loro. Andò in camera per
prepararsi
all’incontro e accese la radio. Le note di La
vie en rose si diffusero nella stanza. Sorrise alla
coincidenza e si mise a
canticchiare con la sua splendida voce di mezzosoprano. Il significato
del
testo le si palesò in tutta la sua portata: Quand
il me prend dans ses bras, il me parle tout bas, je vois la vie en rose.
Sì,
il solo pensiero di stare fra le sue braccia e di udire il timbro
profondo della
sua voce le faceva vedere la vita tutta rosa. Poi la canzone parlava
anche di
notti d’amore a non finire e questo provocò uno
sfarfallio nello stomaco. Era
decisamente attratta da lui e non viveva
l’intimità con un uomo da troppo
tempo, tanto da chiedersi se ne sarebbe stata ancora capace. Sapeva che
anche
lui non vedeva l’ora di incontrarla. Il giorno prima le aveva
inviato un
whatsapp con la scritta “-1” e un emoji che le
faceva l’occhiolino, al quale
lei aveva risposto con la foto del tempio del giardino cinese, seguito
dalla
faccina che manda i baci. Quell’appuntamento era importante
per entrambi e
nessuno dei due voleva correre il rischio di rovinare con le parole
qualsiasi
cosa stessero costruendo, così erano ricorsi al loro
epistolario amoroso versione
2.0, come a Parigi. Come quando tutto era ricominciato.
Indossò
un paio di pantaloni chiari e una camicia di lino
leggera, un abbigliamento sobrio ed elegante come nel suo stile, ma che
sotto
nascondeva un completino intimo sensuale e malizioso. Lo aveva comprato
il
giorno prima, appena uscita dallo studio dall’avvocato: aveva
bisogno di
coccolarsi un po’ dopo aver posto le ultime firme che
sancivano la fine del suo
matrimonio. Non era pentita della sua decisione, ma rappresentava
comunque un
fallimento di cui sapeva di essere almeno in parte responsabile.
Si
morse il labbro inferiore e prese un profondo respiro.
Inutile nasconderlo: l’idea di rivederlo la rendeva nervosa.
Forse aveva
caricato di troppe aspettative quell’incontro? Forse si era
proiettata un film
nella mente che in realtà lui non condivideva? Questi dubbi
la accompagnarono
fino all’ingresso del giardino.
Guardò
l’orologio e si rese conto di essere in anticipo,
segno inequivocabile di quanto non stesse più nella pelle.
Gironzolò per
qualche minuto in un’altra zona del parco, ammirando la cura
con cui venivano
manutenute le aiuole, gli arbusti e i grandi alberi. Era un pomeriggio
di un
giorno feriale e i giardini erano invasi da bambini che correvano,
baby-sitter
che li tenevano d’occhio, adulti che facevano jogging e gli
immancabili
turisti. Riparata da un paio di grandi occhiali da sole, si confuse con
quella
folla, tentando di tenere sotto controllo il suo cuore galoppante.
In
preda all’ansia e con le farfalle che ormai avevano
creato un vero e proprio ciclone nel suo stomaco, si avviò
al luogo
dell’appuntamento. Lo vide seduto su una panchina che si
affacciava sullo
stagno, in prossimità del tempio cinese. Il suo profilo si
stagliava contro il
verde della vegetazione. Era arrivato addirittura prima di lei! Aveva
un paio
di occhiali scuri e indossava una camicia cobalto. Stana si tolse le
lenti e si
concesse il lusso di osservarlo, mordicchiando le stanghette della
montatura.
Le era sempre piaciuto con quel colore: dava ai suoi meravigliosi occhi
azzurri
una sfumatura ancora più intensa, trasformandoli in un mare
nel quale sarebbe
potuta naufragare.
Nonostante
stesse guardando da un’altra parte, come se
una forza magnetica lo avesse attirato, appena lei entrò nel
suo campo visivo
Nathan si voltò nella sua direzione e sul viso gli si
aprì un sorriso. Si
affrettò ad alzarsi per andarle incontro, levandosi gli
occhiali, e anche lei
si mosse verso di lui, infilando i propri nello scollo della camicetta.
In
breve si ritrovarono l’uno di fronte all’altra,
sopraffatti dalla gioia di
rivedersi e dalla tensione di non sapere cosa fare, entrambi con uno
sguardo
imbambolato.
Stana
sollevò una mano e gli sistemò il colletto della
camicia, che non aveva alcun bisogno di essere sistemato, solo per
l’inconfessabile
piacere di toccarlo. Nathan le prese l’altra mano e
cominciò a farle dei
piccoli movimenti circolari con il pollice. L’avrebbe baciata
appassionatamente
in mezzo al giardino della Huntington Library, ma non gli
sembrò il caso di
dare scandalo. “Sei bellissima” non poté
fare a meno di sussurrarle e poi la
strinse a sé. Data la differenza di altezza,
l’orecchio di Stana si fermò
proprio sul cuore dell’uomo. Sotto il tessuto leggero
dell’indumento, lo sentì
battere all’impazzata e non ebbe più dubbi. Pur
sapendo quanto lui fosse bravo
come attore, certe cose non si potevano fingere: ci teneva quanto lei.
Rimasero
l’uno nelle braccia dell’altro per una manciata di
secondi, poi la donna si
allontanò quanto bastava per potergli dire, guardandolo
dritto negli occhi: “Mi
sei mancato”
“Anche tu mi sei
mancata! Ti va una passeggiata? O qualcosa da bere? Sarà la
tensione, ma mi
sento la gola secca” le confidò, facendole
l’occhiolino. Stana annuì, lui la
prese per mano e si avviarono verso l’uscita
dell’orto botanico, dove c’era un
chiosco che vendeva hot dog, bevande e gelati.
“Lo
so, non è un locale chic…” si
scusò Nathan,
improvvisamente a disagio. Voleva che tutto fosse perfetto in quel
momento.
“Hey,
non ti preoccupare. Guarda dove siamo, è un
ambiente spettacolare! Prendiamo un tè freddo e lo beviamo
su quella panchina,
quella laggiù sotto l’albero, che ne
dici?” gli suggerì Stana, indicandogli con
un cenno del capo una pianta imponente. Nathan annuì e, dopo
aver pagato le
bevande, si accomodarono sul sedile di legno, spalla contro spalla, con
lo
sguardo perso davanti a loro.
“Sai
che qui ci sono le ninfee come a Giverny?” le disse,
dopo aver bevuto un sorso di tè.
“Ti
ricordi di Monet!” esclamò la donna, sorridendo.
“Io
non dimentico mai niente. Mai. Nemmeno eventi
accaduti anni fa” le rispose, abbassando di
un’ottava il tono della voce e
voltandosi verso di lei. L’occhiata che le lanciò
non lasciava spazio a
fraintendimenti, nemmeno ci fossero stati i sottotitoli scritti a
caratteri
cubitali. Intendeva proprio quello.
Stana
arrossì fino alle orecchie. Lo sguardo di lui aveva
un potere davvero spavaldo. Per un attimo, tentò di fare
ordine ai pensieri e
alle parole che le affollavano la testa, ma con scarsi risultati. Poi
si
schiarì la gola e gli propose: “Andiamo in un
posto più tranquillo, così
parliamo un po’?”
L’uomo
annuì, non distogliendo mai i suoi fari azzurri
dalle iridi verdi castane della donna. Le avrebbe voluto dire tante
cose, ma in
quel momento si limitò a cercare di trasmetterle in via
telepatica tutto
l’affetto che provava per lei.
E
quanto la trovasse irresistibile.
E
quanto avrebbe voluto dimostrarle ciò che sentiva.
Con
un grande sforzo di volontà, voltò la testa, si
alzò
e le porse una mano per aiutarla, da vero gentiluomo. “Ho
parcheggiato qui
fuori” le disse semplicemente. Lei gli sorrise e lo prese a
braccetto. “Andiamo
da te?” gli chiese, sperando in una sua risposta affermativa.
Viveva ancora
nell’appartamento che aveva diviso con Kris e temeva che
entrambi ci si
sarebbero sentiti a disagio.
“Ben
volentieri. E’ anche più vicino e non credo di
resistere ancora a lungo senza poterti baciare come si deve”
le rispose,
strizzandole l’occhio e mantenendo quel timbro di voce
profondo e dannatamente
sensuale. Stana arrossì ancora di più, per quanto
umanamente possibile. Il
desiderio di stare insieme si fece sempre più urgente, tanto
che, senza
accorgersene, entrambi affrettarono il passo e in breve raggiunsero
l’auto di
Nathan.
L’universo
doveva essere ancora una volta dalla loro
parte, perché il traffico del pomeriggio fu stranamente
scorrevole e in pochi
minuti si trovarono davanti all’appartamento
dell’attore. Non fecero in tempo a
varcare la soglia che lui la prese fra le braccia, bloccandola fra il
suo corpo
imponente e la porta, in una specie di ripetizione
dell’ultima scena della
quarta stagione di Castle.
La
tenerezza lasciò lo spazio alla passione e
all’urgenza
di trovarsi pelle contro pelle, liberi da ogni costrizione e da ogni
vincolo o
remora. Mani frementi sbottonarono camicie, aprirono cerniere e
sganciarono un
reggiseno, che volò in una zona imprecisata nel tragitto
compreso fra
l’ingresso e la camera da letto, seguito dalle scarpe e dal
resto degli
indumenti, perizoma e boxer compresi. Il sensuale completino di
Victoria’s
Secret ahimè non venne degnato di grande considerazione. Non
ci fu più spazio
per le parole e i dubbi: troppo impegnati a riscoprire il corpo
l’una
dell’altro con la vista, con il tatto, con il gusto, con
l’olfatto. Tutti i
sensi vennero sopraffatti da quell’unione tanto anelata e
sognata da entrambi.
Fecero l’amore in modo vorace, senza parlare, ma comunicando
a chiare lettere con
le proprie carezze, i baci, i morsi, i gemiti e i sospiri tutto
ciò che
provavano l’uno per l’altra.
Si
ritrovarono sudati e ansimanti, dopo un tempo che
nessuno dei due avrebbe saputo quantificare, con un sorriso di totale
beatitudine stampato sul volto e la consapevolezza, sconvolgente, di
quanto
avevano appena fatto: avevano ormai superato il punto di non ritorno.
Ora
che il suo istinto predatorio ormonale era stato
saziato, Nathan si ritrovò completamente privo di forza. Si
sdraiò sulla
schiena, le passò un braccio sotto il collo e la strinse a
sé, non riuscendo a
resistere all’idea di averla lontana. Stana si
accoccolò al suo fianco e gli
chiese: “Fillion, non dovevamo parlare noi due?”
“Dammi
un momento per recuperare e poi riprendiamo il
discorso” le disse con una voce roca, che lo rese ancora
più sexy agli occhi di
Stana. Poi non riuscì a resistere e aggiunse: “Mi
sembrava che il nostro
linguaggio non verbale fosse stato molto, molto chiaro”
Si
girò su un fianco e la baciò. “Ma sei
hai bisogno,
posso ripetere tutto, parola” bacio su una guancia
“per” bacio sul naso
“parola” bacio sulle labbra.
“Non
ti distrarre, Nate. Ogni volta che apri bocca
finisce che facciamo altro” lo riportò
all’ordine.
“Non
mi sembra che ti sia lamentata finora di quello che
ti ho fatto ogni volta che ho aperto bocca” le disse,
riprendendo
l’esplorazione del corpo della donna, con mani, labbra e
lingua. La sua battuta
spinta doveva averle provocato una risata, perché lui
percepì la vibrazione
della sua pancia, mentre le lambiva l’ombelico, prima di
riprendere il tragitto
verso un punto che fece perdere alla donna qualsiasi cognizione di dove
fosse e
di cosa gli avesse chiesto. Si arrese all’evidenza:
quell’uomo ci sapeva
dannatamente fare. Ci sarebbe stato un altro momento per parlare.
Qualche
ora più tardi, Nate si svegliò e, allungando la
mano, si rese conto di essere da solo nel letto. Lì per
lì temette di essersi
sognato tutto: non sarebbe certo stata la prima volta, anzi, scene ad
alto
tasso erotico con loro due come protagonisti avevano popolato le sue
notti in
molteplici occasioni, e al risveglio si era ritrovato dolorosamente
eccitato e
frustrato. Poi l’odore di lei gli invase le narici e lo
rasserenò: stavolta non
era un’avventura onirica, aveva davvero avuto quella donna
fra le sue braccia.
Si alzò, si infilò i boxer che erano atterrati
vicino alla porta della camera e
partì alla ricerca di colei che lo aveva mandato in orbita
poco tempo prima.
La
trovò in piedi davanti alla finestra del salotto,
mentre sorseggiava una bevanda e fissava il giardino rigoglioso, il cui
verde
contrastava con l’azzurro del cielo screziato dai colori del
sole al tramonto.
Solo pochi mesi prima c’era lui in quella stessa posizione,
con uno stato
d’animo ben diverso, e sicuramente non con quel fisico
statuario. Si appoggiò
allo stipite della porta e indugiò con lo sguardo sul corpo
di lei, coperto
dalla sua camicia color cobalto, soffermandosi in particolare sulle
lunghissime
gambe sinuose. La raggiunse e la abbracciò da dietro. Con il
naso le spostò i
capelli arruffati, poi si applicò con grande impegno a
baciarle il collo,
stringendola a sé.
Stana
si abbandonò alle sue braccia e sorrise.
“Hey” gli
disse semplicemente, mentre le attenzioni che lui le riservava le
provocarono
dei brividi di intenso piacere che le inondarono tutto il corpo.
“Mi
piace il modo in cui parliamo noi due” le rispose,
continuando a lasciarle dei piccoli bacetti umidi
dall’orecchio alla clavicola
e viceversa. Le sue grandi mani si fecero strada fra un bottone e
l’altro della
camicia, per arrivare ad accarezzarle i seni i cui capezzoli
inturgiditi si
intravedevano dal tessuto leggero.
“Nate,
se continui così non riusciremo a parlare nemmeno
adesso” lo rimbrottò, poco convinta.
Le
sue mani fecero dietro front e le sue labbra si
ritirarono dalla pelle di Stana, non prima di averla mordicchiato nel
punto in
cui il collo incontra la spalla, provocandole un brivido che scorse
lungo tutta
la colonna vertebrale. “Ok, ok, faccio il bravo, parola di
lupetto. Senti,
preparo qualcosa da mangiare e parliamo seriamente. Del resto, non
possiamo
vivere solo d’amore” commentò con
nonchalance, dopo aver girato i tacchi per
avviarsi all’angolo cottura.
“Un
momento, hai detto amore?” si informò lei, stupita
da
quella dichiarazione. Durante le loro effusioni nessuno dei due aveva
manifestato verbalmente i propri sentimenti. Nathan rimase pietrificato
dalla
sua stessa rivelazione, poi si voltò verso di lei e la
guardò intensamente. Non
aveva nessuna intenzione di ritrattare. “Esatto, Stana Katic.
L’ho detto
davvero ad alta voce e sono pronto a ripeterlo. Io ti amo. Ti amavo
anche
l’anno scorso quando mi sono comportato come un bastardo:
pensavo che odiandoti
avrei sofferto meno. Mi sbagliavo…”
Gli
occhi della donna si riempirono di lacrime di gioia,
poi gli corse incontro e lo abbracciò con forza, cercandone
le labbra con le
proprie.
Lo
baciò in modo diverso da come si erano baciati nelle
ore precedenti, in cui era stata la lussuria a dettare legge.
Lo
baciò con tutto l’amore puro, semplice e
innegabile
che provava per lui.
Nota
dell’autrice
Eccoci
al termine di questo viaggio. Prima di salutarvi definitivamente,
vorrei dire
grazie a chi ha letto la storia in silenzio, a chi ha messo la storia
nelle
preferite, nelle ricordate e nelle seguite e naturalmente un grazie
speciale a
blodi52 che ha commentato con affetto ogni singolo capitolo.
Grazie
come sempre anche al mio angelo custode, che ha letto la storia in
anteprima e
mi ha aiutato a migliorarla.
Grazie
– ça va sans dire – a Nicolas Barreau e
ai suoi deliziosi romanzi, da cui ho
preso spunto. In particolare, Aurélie Bredin e Jacquie, con
il loro ristorante,
provengono da “Gli ingredienti segreti
dell’amore”. Alain Bonnard e il suo
Cinéma Paradis sono il cuore di “Una sera a
Parigi”. Robert Shermann e Rosalie
Laurent sono i protagonisti di “Parigi è sempre
una buona idea”. Margaret
[Tilling], invece, è una delle voci narranti de
“Il coro femminile di
Chilbury”, uno splendido romanzo epistolare di Jennifer Ryan,
che stavo
leggendo durante la stesura di questa ff e mi è piaciuto
così tanto che dovevo
in qualche modo rendergli onore.
Non
l’avevo ancora scritto, ma naturalmente questa è
un’opera di fantasia. Ho il
massimo rispetto per le scelte di vita dei due attori protagonisti e
auguro
loro tanta felicità, con chiunque essi la vogliano
condividere.
Un
abbraccio,
Deb
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