Una sera a Parigi

di germangirl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Parigi è sempre una buona idea ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Il sorriso delle donne ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Una sera a Parigi ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Il calcolo delle probabilità ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Manovre di avvicinamento ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Caffè e macarons ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - A spasso per Parigi ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Le temps des cerises ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Un nuovo ingaggio ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Sottosopra ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Montmartre ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Una cena per farli innamorare ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - 31 maggio ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Parigi è sempre una buona idea ***


Nota dell’autrice

Questa ff è un crossover fra le vite di due attori da me molto amati e alcuni personaggi dei romanzi di Nicolas Barreau, dal quale ho preso in prestito anche il titolo e l’ambientazione. Se non avete mai letto niente di Barreau e avete un animo romantico, vi consiglio di non perdere tempo qui e andare in libreria a comprare un suo libro. Oppure potete continuare a leggere questa storia e, quando li incontrerete, capirete se vi piacciono o meno.

Intanto, ringrazio come sempre il mio angelo custode per il suo supporto incondizionato e la sua deliziosa penna verde, che migliora sempre di gran lunga le mie sciocchezzuole.

E grazie sin da ora a chi di voi mi regalerà il proprio tempo e arriverà in fondo a questo primo capitolo.

Un abbraccio,

Deb

 

Capitolo 1 – Parigi è sempre una buona idea

Si versò del caffè bollente in una tazzona acquistata a Disneyworld qualche anno prima, fece pochi passi e restò in piedi davanti alla finestra, a fissare il giardino spoglio e trascurato. Lo sguardo era perso nel vuoto, tanto da non accorgersi che il calore sprigionato dalla sua bevanda aveva cominciato ad appannare il vetro. Era una giornata di inizio marzo insolitamente fredda, ben al di sotto delle abituali temperature primaverili che caratterizzavano il clima californiano anche nei mesi invernali.

Inutile nasconderlo a chiunque, tantomeno a sé stesso.

Era deluso.

Dal punto di vista professionale, la sua carriera si era arenata. Dopo la chiusura della serie che gli aveva dato così tanto successo, si era limitato a qualche cameo o a interpretare personaggi secondari in altri telefilm, la cui presenza si limitava a un arco di pochi episodi, o a prestare la propria voce in un paio di film di animazione o di videogiochi. Un curriculum interessante solo per un nerd. Nulla a che vedere con il ruolo di protagonista principale di un tv show che aveva come titolo proprio il nome del suo personaggio.

Per non parlare della sua vita privata. Non riusciva a mantenere una relazione per più di qualche mese. I suoi coetanei avevano figli che frequentavano le scuole superiori e lui passava da una ragazza all’altra, classico sintomo della sindrome da Peter Pan. Non solo. Anche con gli altri attori del cast di quella famosa serie aveva perso i contatti. Non li sentiva da mesi. Non era stato in grado di coltivare dei rapporti di amicizia con persone con cui aveva condiviso la fatica e la soddisfazione di aver regalato al pubblico un prodotto di grande successo. Con cui aveva lavorato per anni, con dei tour de force che a volte arrivavano a 14 ore al giorno, dal lunedì al sabato, per mesi interi.

Girare l’ultima stagione era stato particolarmente faticoso: il clima sul set non assomigliava nemmeno lontanamente all’atmosfera goliardica e leggera dei primi anni. Certe scelte autoriali sulla sceneggiatura lo avevano lasciato piuttosto perplesso, ma la verità è che qualcosa si era irrimediabilmente rotto e lui per primo si era comportato in modo indecoroso, in particolare nei confronti della sua coprotagonista.

Inutile raccontarsi delle balle: era stato un gran bastardo. Uno stronzo di prima categoria.

Ripensandoci, si vergognava ancora di certi suoi atteggiamenti, di certi commenti acidi che non aveva risparmiato a nessuno, ma che aveva usato soprattutto per ferire lei, riuscendo appieno nell’intento, tanto da ridurla alle lacrime più di una volta. Ma adottare quella strategia gli era parsa l’unica soluzione per togliersela dalla mente e dal cuore.

Visto che non poteva averla, doveva odiarla. Era un’equazione semplice.

Al termine della settima stagione si era sposata con quel suo connazionale che aveva un cognome impronunciabile e con cui stava da una vita. Aveva sempre saputo che era impegnata in una relazione stabile, però questo non gli aveva impedito di fantasticare che prima o poi le cose fra loro sarebbero cambiate. Poco dopo l’inizio dello show avevano ceduto a quella chimica irresistibile che si era creata fra loro sin dal primo incontro ed erano finiti a letto insieme, giusto per divertimento. E non solo una volta. Ma lei aveva troncato quella storia sul nascere ed era tornata da Kris. Da parte sua, in tutti quegli anni non si era certo votato alla castità, anzi. Si era sollazzato con una serie di compagne, spesso molto più giovani di lui, dalle quali si era fatto distrarre senza troppi problemi. Ma nessuna di loro era riuscita a distoglierlo dal suo chiodo fisso. Solo il rapporto con Krista era durato più a lungo del solito e gli aveva quasi fatto pensare di potersi liberare del suo fantasma, ma alla fine anche quello era naufragato.

E adesso quella vita non gli bastava più. Aveva bisogno di cambiare aria e di ritrovare lo slancio almeno nell’ambito professionale. Ma come fare? A quale fonte poteva attingere per recuperare la giusta energia? Tutto intorno a lui sembrava ricordargli il suo fallimento, come uomo e come attore. Doveva allontanarsi il più possibile dallo show business. Doveva partire da Los Angeles.

La suoneria del cellulare lo distolse dal fluire mesto dei pensieri nel quale era sprofondato. Si allontanò dalla finestra, posò la tazza sul mobile e prese il telefono dal divano sul quale lo aveva abbandonato poco prima, dopo aver fatto una partita a uno degli ultimi videogiochi che aveva installato. Tutta vita, insomma. Il display gli mostrò il nome della persona che lo stava chiamando.

“Ciao mamma” rispose, cercando di adottare un tono leggero. Non aveva voglia di contagiarla con la sua malinconia, di cui si vergognava anche un po’. Non voleva certo passare per una donnicciola piagnucolosa!

“Ciao Nate! Tutto bene?” lo salutò allegra la signora Fillion.

“Certo, voi? Papà sta bene?” si informò. Nei mesi precedenti qualche acciacco aveva costretto suo padre a prendere la vita con più tranquillità e a fare pace con l’idea di non essere più un ragazzino. Più facile a dirsi che a farsi, conoscendo il tipo.

Infatti la madre rispose: “Sì, è insopportabile come sempre! Il peggior paziente dell’intero pianeta Terra…. Comunque, ti chiamavo per sapere se per il tuo compleanno vieni da noi a Edmonton.”

Tre settimane dopo avrebbe compiuto 46 anni. La rivelazione lo colpì come un fulmine. Non che fosse un compleanno importante, ma rappresentava un altro passo che lo avvicinava ai 50. Oh my God. Mezzo secolo. Gli venne un capogiro all’idea. Un motivo in più per fuggire. Doveva prendere il primo aereo e andarsene da lì. Appena possibile. E il più lontano possibile.

“Nate? Ci sei ancora?” lo richiamò la madre, preoccupata per il lungo silenzio.

“Sì… scusami, avevo altro per la testa. No, non torno a Edmonton. Pensavo di fare un viaggio, sai, di stare via qualche settimana…. In questo momento non ho grandi impegni, ne vorrei approfittare” dichiarò sereno, tentando di minimizzare il fatto che in quel periodo non aveva nessun ingaggio.

“Ah, be’, peccato, ci avrebbe fatto piacere festeggiare con te” rispose sinceramente la donna. “Dove vai?” gli chiese.

Giusto. Ottima domanda. Molto appropriata. Se solo avesse avuto una risposta…

“Non lo so ancora, forse in Europa” buttò lì senza troppa convinzione. Il suo rimuginare lo aveva condotto solo alla decisione di allontanarsi da LA e il pensiero di un giro nel vecchio continente cominciò a formarsi piano piano. Innanzitutto, oltre al coast-to-coast, c’era anche un oceano di mezzo. Una distanza ragionevole. E poi aveva voglia di qualcosa di diverso e le grandi capitali europee avrebbero rappresentato sicuramente una distrazione: buon cibo, ottimo vino e belle donne. All’improvviso si materializzò nella sua mente il volto di una persona che in Europa si sarebbe dedicata a visitare musei, ad ammirare l’architettura dei palazzi storici e a conoscere culture diverse dalla propria. Si sforzò di scacciare l’immagine di quel viso bellissimo, però poi ebbe un’illuminazione e si chiese: e se per una volta lo avesse fatto anche lui? Aveva detto di aver bisogno di cambiamenti, no? Ebbene, sarebbe andato nel vecchio continente a fare turismo culturale. Era deciso.

“Oh, Nate, non sarà pericoloso?” gli domandò la madre, allarmata dalle notizie degli attentati nelle grandi città. L’ISIS pareva aver dichiarato guerra all’intera civiltà occidentale, concentrandosi con particolare efferatezza sulle capitali europee: Bruxelles, Parigi, Berlino, Londra, Stoccolma…

“Mamma, non ti preoccupare. Non voglio che la paura mi impedisca di viaggiare o di vivere. Ci siamo già passati con l’11 settembre. Non devono vincere loro” dichiarò convinto. L’attacco alle Torri Gemelle rappresentava una ferita ancora sanguinante per la memoria collettiva americana, se non addirittura dell’intera civiltà occidentale. In particolare, ogni cittadino statunitense ricordava alla perfezione cosa stava facendo quel giorno che aveva cambiato drasticamente il corso della storia. Ma dopo l’iniziale stordimento, portato dalla consapevolezza di non essere intoccabili né tantomeno invincibili, tutti avevano imparato ad affrontare la paura e a riprendere in mano le proprie esistenze. Tutti avevano superato una specie di disturbo post traumatico da stress nazionale.

Cookie Fillion sospirò. Suo figlio aveva ragione, ma il suo cuore di madre non le impedì di preoccuparsi per lui “D’accordo. Hai già pensato a un itinerario? Qual è la prima tappa? Mi hanno detto che Parigi è bellissima a primavera…”

Poche sere prima aveva rivisto per l’ennesima volta in televisione il film tratto dal bestseller di Dan Brown e l’idea di visitare i luoghi dove era ambientato in parte il “Codice Da Vinci” gli parve subito allettante, tanto che rispose: “Potresti avere ragione, mamma. Parigi è sempre una buona idea.” Poi la congedò e si sentì pervaso da un’energia che non provava da tanto tempo. Finalmente aveva un progetto a cui dedicare i propri pensieri. Si sedette alla scrivania, accese il laptop, si collegò a internet e si mise a cercare volo e albergo. La sua prima destinazione sarebbe stata la capitale francese e poi avrebbe deciso quali altri paesi visitare. Acquistò un biglietto in business di sola andata e si dedicò ai bagagli: meno di tre giorni dopo si sarebbe trovato sotto la Tour Eiffel.

 

Aprì gli occhi ed ebbe bisogno di qualche secondo per realizzare dove fosse. Doveva essersi appisolata subito dopo il decollo. Non c’era da sorprendersi: le ultime settimane di lavoro erano state piuttosto impegnative ed erano state precedute da un periodo emotivamente faticoso. Tanto per usare un eufemismo.

La nuova sfida professionale, però, non sarebbe potuta arrivare in un momento migliore. Le cose con Kris non andavano bene da un po’ e averlo trovato in un atteggiamento compromettente ed inequivocabile con la sua assistente, nel più abusato dei clichés, era stato la classica ciliegina sulla torta. Per sua fortuna, sarebbe dovuta partire alla fine della settimana successiva per la Bulgaria, dove avrebbe iniziato le riprese per Absentia. Tempismo perfetto. Entrambi sapevano di non avere molto da dirsi: la crisi andava avanti da troppo tempo e il loro allontanamento era ormai irrecuperabile. Ma questo non significava che non ci stesse male: con lui aveva trascorso molti anni e certo non poteva cancellarlo con un clic. Per tenere a bada la nebulosa di sensazioni che le devastavano l’anima, costituita da rabbia, delusione e fallimento, si era gettata a capofitto nel lavoro: avrebbe dovuto interpretare Emily Byrne, un’agente dell’FBI – ancora una volta una donna forte, con un lavoro pericoloso – che scompare improvvisamente mentre dà la caccia a un famigerato serial killer di Boston, viene dichiarata morta per poi essere ritrovata in un rifugio nei boschi dopo sei anni, viva per miracolo e senza alcun ricordo di quel periodo. Tornata a casa, scopre che suo marito nel frattempo si è risposato e suo figlio, dunque, ha una nuova mamma. Un inizio senza dubbio interessante ed emotivamente molto impegnativo da interpretare. Appena aveva letto la sceneggiatura, il suo pensiero era andato alla sparizione di Rick Castle a un passo dall’altare. Inutile nasconderselo: quella serie avrebbe sempre avuto un posto speciale nel suo cuore. Una punta di dolore però la aggredì alla bocca dello stomaco e le fece aggrottare la fronte: l’epilogo e in generale l’intera ultima stagione l’avevano fatta soffrire molto. Forse avevano addirittura contribuito a mandare all’aria il suo matrimonio: suo marito (ancora non si era abituata all’idea di chiamarlo il suo ex, sebbene avessero già avviato le pratiche per la separazione) non aveva capito quanto stesse male per il clima gelido sul set e per l’atteggiamento insopportabile del suo coprotagonista e non aveva saputo starle vicino. Anzi, aveva cercato di distrarsi rivolgendosi altrove e rifugiandosi nelle braccia accoglienti della sua giovane assistente. Ma questo era un dettaglio di cui Stana era venuta a conoscenza solo in seguito e che le aveva rivelato il vero volto dell’uomo che aveva sposato.

Guardò l’orologio e vide che era già passata un’ora da quando aveva lasciato la capitale bulgara. Le restavano ancora due ore di viaggio prima di arrivare a destinazione. Cambiò posizione sul sedile del volo low cost, non certo il massimo della comodità, e si mise a guardare fuori dal finestrino, mentre la mente ritornò alla conversazione avuta il giorno prima.

“Bene, signori. Ringrazio tutti voi per aver partecipato a questo incontro. Era necessario fare il punto della situazione prima di riprendere a girare i prossimi episodi. So che state dando il massimo e non ho parole per dirvi quanto sia importante per me che abbiate creduto in questo progetto. Avete tre settimane di stacco prima di ritrovarci per le prossime riprese” dichiarò Oded Ruskin, raccogliendo i propri appunti e spengendo il portatile. Attori, tecnici e autori si alzarono dal tavolino e si salutarono. Si era creato un buon clima fra loro in tempo breve e i saluti che si scambiarono erano sinceri e affettuosi. Ruskin aveva ragione: tutti avevano riposto fiducia in una serie tv, dai tratti cupi e violenti, che sarebbe andata in onda su un canale a pagamento, presente in molti paesi nel mondo, ma non certo con un pubblico paragonabile alle reti in chiaro.

Dopo aver scambiato due parole con Matt Cirulnik, lo sceneggiatore, e aver messo a punto un paio di dettagli, il regista israeliano si rivolse alla sua attrice protagonista: “Stana, puoi fermarti un attimo?”

La donna si voltò e cercò di sorridergli, ma ad un’attenta osservazione si vedeva che un velo di malinconia le offuscava i begli occhi verdi-nocciola. Solitamente molto riservata, Oded le aveva ispirato fiducia sin dal primo incontro, tanto da aprirsi con lui e raccontargli di Kris.

“Che programmi hai per questa pausa?” le chiese con un interesse genuino.

“Ho bisogno di riposarmi, di distrarmi e di riordinare le idee prima di tornare a indossare i panni di Emily” gli rispose in tutta sincerità. “Non vado in America, se era questo che volevi sapere. E non faccio nemmeno un salto dalla mia famiglia in Croazia. Troppi ricordi” aggiunse con un sospiro. Vicino alla città di origine dei suoi familiari aveva celebrato il proprio matrimonio e non se la sentiva di ritornare sulla… scena del crimine, tanto per usare un’espressione che avrebbe potuto pronunciare il suo personaggio. Sia Emily che Kate, a pensarci bene.

“Beh, l’Europa è grande e ha molto da offrire! So che di recente sei stata in Italia per le riprese di Lost in Florence…” le suggerì Ruskin.

“Se è per quello, qualche anno fa il mio lavoro mi ha portato anche a Parigi... ma sai come funziona, quando si gira non c’è mai tempo per guardarsi intorno, immergersi in una cultura diversa, visitare un museo… ci crederesti? Non ho mai messo piede al Louvre! O al museo d’Orsay, e io adoro gli impressionisti!” affermò convinta.

“Cosa ti impedisce di andarci adesso? Se ti piacciono i musei, a Parigi avresti l’imbarazzo della scelta. E poi tu parli anche francese, no?”

E così aveva prenotato un piccolo albergo senza pretese, costituito da poche stanze che si affacciano su un cortile interno arricchito da un ippocastano (almeno così diceva il sito), aveva preparato i bagagli e ora si trovava sul volo che in tre ore l’avrebbe portata da Sofia a Parigi. “Parigi è sempre una buona idea” le aveva detto Ruskin prima di salutarla.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Il sorriso delle donne ***


Capitolo 2 – Il sorriso delle donne

Era atterrato a Parigi ormai da qualche giorno e la città lo aveva accolto con un timido sole che aveva fatto capolino fra le nubi spesse. Non era la prima volta che si trovava lì: aveva persino girato alcune scene di un episodio della quinta stagione di Castle lungo la Senna. Ma naturalmente quando si è in un posto per lavoro non si ha il tempo per andarsene in giro a fare turismo. All’inizio si era sentito quasi spaesato: quel luogo era davvero molto diverso dalle città americane. Però adesso la Ville Lumière cominciava a piacergli: finora si era limitato a gironzolare senza una meta precisa, semplicemente immergendosi nel dedalo dei tortuosi vicoli che non seguivano lo schema geometrico tipico di molte metropoli statunitensi. Non sapevi cosa potevi trovare dietro ogni curva: un negozio di antiquariato, un bistrot con i tavoli di legno all’aperto, a cui i francesi stavano seduti a bere un café creme o a gustare un croissant o un croc monsieur, un palazzo con una lapide che ricordava che proprio lì aveva vissuto qualche scrittore o intellettuale fondamentale per la storia nazionale o addirittura europea. Nomi che, doveva riconoscerlo, a lui non dicevano un bel niente. Certo, ogni tanto doveva ricorrere al navigatore sul cellulare per capire dove fosse e come ritornare in hotel, però l’atmosfera che respirava lo aveva conquistato e gli aveva restituito un po’ della gioia di vivere che non provava più da mesi. Probabilmente era merito anche delle prelibatezze che mangiava ogni sera nel piccolo ristorante vicino all’albergo in cui alloggiava. Anche nella scelta della sistemazione aveva deciso di seguire lo stile di quella persona innominabile. Non aveva rinunciato a viaggiare in business perché il volo da Los Angeles a Parigi durava dodici ore e con la sua stazza non sarebbe riuscito a sopravvivere in economy, senza nemmeno poter allungare le gambe. Insomma, ATP va bene, ma c’è un limite a tutto! Però aveva scovato un piccolo hotel nel Quartiere Latino, poche camere arredate con gusto e traboccanti di vero fascino parigino. Oltre a questo, l’alloggio offriva un petit déjeuner delizioso: baguettes appena sfornate, ancora calde e croccanti, marmellata di fragole fatta in casa, e quei deliziosi formaggi… ah sì, i francesi sapevano come godersi la vita.

La cosa che più lo aveva impensierito e rattristato erano i numerosi soldati con giubbotto antiproiettile e armati di mitragliatrice, posizionati nelle vicinanze degli obiettivi considerati strategici per gli attacchi terroristici: davanti alla cattedrale di Notre Dame, lungo gli Champs Elysées, sotto la Tour Eiffel. Anche nel suo paese d’origine, dopo i fatti dell’11 settembre, il livello di allerta era cresciuto e di conseguenza la presenza delle forze dell’ordine, così come dei controlli, era aumentata. Ma vedere la culla della civiltà francese praticamente sotto assedio lo fece riflettere amaramente su dove sarebbe andato a finire il mondo.

Dopo il lungo girovagare, decise che era arrivato il momento di migliorare la sua cultura: avrebbe iniziato dal Museo d’Orsay. Non sembrava imponente come il Louvre, le cui dimensioni lo intimidivano un po’, anche se l’idea del mistero della Maddalena lo attirava forse più della Gioconda o della Nike di Samotracia (ah, sia lode a Dan Brown!) e quindi sapeva che prima o poi lo avrebbe dovuto visitare. E poi la suddetta innominabile era un’appassionata di impressionisti e quindi si disse che valeva la pena capire perché le piacessero tanto. Aveva visto qualcosa al MoMA, il museo di arte moderna a New York, ma era stata una visita frettolosa e non ricordava molto.

Entrò nell’ex stazione ferroviaria, creata per l’Esposizione Universale del 1900 là dove in precedenza sorgevano una caserma di cavalleria e il vecchio Palazzo d’Orsay, acquistò il biglietto, si munì persino di audioguida e si accinse a iniziare la sua visita. Passeggiando nelle varie sale, ascoltò diligentemente le informazioni che gli venivano fornite nell’auricolare. Innumerevoli capolavori sfilarono davanti ai suoi occhi: opere di Manet, Monet, Cézanne, Renoir, Degas… insomma, il gotha delle correnti impressioniste e post-impressioniste. Quell’esplosione di colori, di storie, di tecniche pittoriche gli bombardò la mente e piano piano si fece strada fino al suo cuore. Giunto nell’area che ospitava i quadri di Van Gogh si sedette su un divanetto, provvidenzialmente messo a disposizione per i visitatori affaticati, e si tolse l’auricolare.

Era esausto. A pensarci bene, questa sensazione era il fil rouge delle sue giornate parigine: arrivava alla sera con i piedi doloranti per il lungo camminare e le gambe stanche. Ma, per quanto paradossale, era una stanchezza corroborante, che gli faceva bene all’anima.

Si accomodò meglio e prese un respiro profondo. Non ricordava nemmeno più da quanto tempo si trovava in quel museo. Il dipinto appeso alla parete davanti a lui catturò la sua attenzione. Era “la chiesa di Auvers”. Si mise a osservare i tratti delle pennellate, la scelta dei colori, le linee che delimitavano la struttura dell’edificio rappresentato, che si stagliava contro il cielo… e nuovamente perse la cognizione del tempo e dello spazio. Il suo cervello registrò appena la presenza di  qualcuno che si era seduto accanto a lui.

“E’ affascinante, vero?” sentì dire in inglese dal suo vicino di panca e quasi sussultò, visto che era completamente immerso nell’universo fantastico del pittore.

“Sì… adesso capisco tante cose” commentò sovrappensiero, immaginando l’effetto che la visione di quell’opera avrebbe avuto sull’innominabile.

“Io ci vengo spesso e ogni volta mi stupisce. Ho ereditato questa passione da mia madre: lei adorava andare nei musei” aggiunse l’altro visitatore.

“Davvero?” gli chiese Nathan, con genuino interesse. Quello sconosciuto aveva un’aria intrigante e parlava inglese perfettamente. Doveva essere americano della East Coast e questa deduzione gli fece rilasciare un sospiro di sollievo. Gli serviva un po’ di pausa dallo sforzo continuo di esprimersi in francese. Essendo canadese, lo aveva studiato molto bene a scuola, ma era un po’ arrugginito perché ormai non lo usava quasi più. Sapeva però che l’innominabile avrebbe fatto di tutto per adattarsi alla cultura del paese che la ospitava e si sentì in dovere di utilizzare il più possibile quell’idioma.

“Quando era di buon umore, oppure quando si sentiva triste, quando voleva riflettere prima di una decisione importante o quando le succedeva qualcosa di brutto, lei mi portava in un museo. Ho visitato tutti i musei di New York: dal Guggenheim  al MoMa, dal Metropolitan al Museum of Modern History. Mamma aveva un sorriso bellissimo” continuò lo sconosciuto, con un velo di commozione a bagnargli gli occhi. Nel sentire quella frase, i neuroni di Nathan gli inviarono l’immagine di un altro sorriso di cui era stato destinatario qualche volta, anche a prescindere dalle scene che avrebbero dovuto girare. Quando erano Stana e Nathan e non Kate e Rick. Dio, quanto gli mancava quel sorriso! Nel frattempo, l’altro interlocutore si schiarì la gola e disse: “Oh, mi scusi. Non so perché le sto raccontando queste cose. Non mi sono nemmeno presentato: sono Robert Shermann” e gli porse una mano con fare cordiale.

Nathan gliela strinse con un sorriso sincero e gli rispose: “Non si preoccupi. Piacere mio: sono…”

“Oh, lo so chi è lei. Sono a Parigi da qualche anno perché ero venuto per un semestre a insegnare letteratura inglese alla Sorbona, un seminario su Shakespeare per la precisione, e poi mi sono innamorato di una francese, bisbetica ma adorabile. Anche lei è meravigliosa quando sorride. Insomma, sono rimasto qui in pianta stabile. Ma a New York guardavo sempre la sua serie in tv. Mia moglie invece non ama la televisione. Ho anche provato a farle vedere qualche episodio, ma preferisce leggere. Se non ricordo male, l’anno scorso c’è stata l’ultima stagione, giusto?”

“Ehm… sì” rispose Fillion. E non seppe cos’altro aggiungere. Brutta sensazione.

“Sa che mio padre ha qualcosa in comune con il suo personaggio?” disse Shermann.

“E’ uno scrittore?” si informò l’attore.

“Sì, ma lui scrive libri per bambini. E mia moglie pensa alle illustrazioni. E’ grazie a lei che ho scoperto che mio padre non era mio padre. Intendo che mio padre non era quello americano, ma è francese. Oddio, mi scusi, la sto tediando di nuovo con la mia storia personale, mentre lei era qui che si godeva Van Gogh”. L’uomo si alzò e fece per congedarsi, però Nathan lo richiamò: “Signor Shermann? Le andrebbe un caffè?”

Robert si voltò e gli sorrise: “Solo se mi chiama Robert”

“Allora io sono Nathan” rispose di rimando. “Ti ho invitato a prendere un caffè ma non ho idea di dove sia un buon locale” ammise sorridendo.

“Se hai finito con la visita, ce n’è uno non lontano da qui” gli propose il professore con un cenno della testa, scuotendo in quel modo i capelli ricci disordinati.

“Sì, direi che per oggi basta. Non sono un grande amante dei musei, anche se devo ammettere che esercitano davvero un grande fascino” dichiarò sinceramente.

“Posso chiederti allora perché sei stato dieci minuti a fissare Van Gogh?” si informò Robert.

“E’ una lunga storia…” glissò Nathan. Il suo nuovo amico gli sembrava un tipo simpatico, ma non era ancora pronto a raccontargli i fatti suoi.

L’esperto di Shakespeare lo guardò e annuì. “Andiamo, il caffè ci aspetta. Hanno anche un’ottima tarte tatin” aggiunse, conquistandosi così la stima imperitura del suo nuovo amico.

 

La prima tappa del soggiorno parigino di Stana era stata dai suoi adorati impressionisti: appena toccato il suolo francese, si era precipitata al museo d’Orsay e aveva trascorso praticamente un’intera giornata a bearsi del “petit déjeuner sur l’erbe” di Manet, delle donne tahitiane di Gauguin, dei papaveri di Monet, delle ballerine di Degas, senza dimenticare i dipinti di quel genio di Van Gogh. Nei giorni successivi aveva fatto lunghe passeggiate attraverso l’intrico dei vicoli o costeggiando la Senna. A volte si cammina per andare da qualche parte, a volte si cammina e basta e lei proprio quello stava facendo: le piaceva girovagare senza meta, lasciandosi stupire dai segreti che la capitale le svelava piano piano. Una sera, infine, si era ritrovata davanti a un piccolo cinema chiamato Cinéma Paradis, che proiettava esclusivamente film francesi. Non era distante dall’albergo in cui alloggiava, e in cui ogni mattina – tempo permettendo – faceva colazione all’aperto sotto l’ippocastano. E ogni sera aveva preso l’abitudine di assistere alla proiezione accomodandosi sulle vecchie poltroncine di velluto, che chissà quante storie di vita avevano visto passare.

Presentandosi per la terza sera consecutiva, la signora della cassa la salutò con un sorriso sereno e sincero e, anche se chiaramente aveva riconosciuto l’attrice famosa, non le disse niente né la disturbò per chiederle un autografo. Stana gliene fu intimamente grata.

Quella mattina, invece, camminando lungo rue de Dragon, a pochi metri dalle chiese di Saint-Germain-de-Prés e Saint-Sulpice, la sua attenzione venne catturata dall’insegna di una cartoleria. Il cartello infatti diceva: Luna Luna – i biglietti dei desideri di Rosalie. Si avvicinò alla vetrina e rimase affascinata dalle decorazioni delle cartoline, dei fermacarte, delle scatole portaoggetti, delle matite rivestite, dei taccuini e di tutti gli altri ammennicoli esposti. I disegni erano delicati e pieni di colori, seppure con una prevalenza dei diversi toni di azzurro. Non poté fare a meno di entrare.

La campanella della porta annunciò il suo arrivo e un cane addormentato in una cesta accanto all’ingresso mugolò appena, a manifestare il suo dissenso per essere stato svegliato dal suo sacrosanto riposo mattutino.

Il negozio era piccolo ma grazioso. I vari oggetti in vendita erano disposti con gran gusto e, osservandoli da vicino, sembravano decorati a mano.

La ragazza al bancone la salutò cordialmente e Stana trasalì e corrugò la fronte. Aveva due occhi azzurri identici a quelli di qualcuno che l’aveva fatta soffrire. Molto. Un qualcuno a cui non pensava da tanto tempo e che era convinta di aver relegato in un cassetto lontano della sua memoria, sepolto da tanti altri ricordi più importanti. Ma evidentemente non era così.

“Mi scusi, non la volevo spaventare” disse Rosalie Laurent, la proprietaria del negozio, che aveva percepito il disagio della cliente ma non riusciva a comprenderne il motivo. Tentò di sistemarsi la lunga treccia castana disordinata che le scendeva su un lato e le rivolse un sorriso incoraggiante.

“Oh, sono desolata” disse Stana, scuotendo la testa per scacciare anche fisicamente dalla memoria il volto che incorniciava quei due fari cobalto che lei conosceva bene.

“Nessun problema. Posso aiutarla? Cercava qualcosa in particolare?” le domandò Rosalie.

“Mmm… lei può realizzare i desideri?” le chiese sorridendo.

“No, ma forse posso aiutarla a esprimerli” le rispose madame Laurent con sincerità. “Attraverso le mie illustrazioni” aggiunse, a mo’ di spiegazione. Poi la osservò meglio: era un volto che aveva già visto, ma non riusciva a capire dove, né in quali circostanze. Parlava un ottimo francese, ma aveva un accento simile a quello di suo marito…. Sì, doveva essere americana. Era una donna bellissima, eppure i suoi occhi rivelavano una profonda malinconia. Il suo sguardo limpido celava indubbiamente una sofferenza.

“Oh, sono opera sua?” le chiese l’attrice, con sincera ammirazione.

Rosalie annuì, poi le si avvicinò e disse, abbassando il tono della voce con fare cospiratorio, anche se in negozio non c’era nessuno oltre a loro due e al cane acciambellato nella sua cesta: “Le svelo un segreto: per tanti anni, il giorno del mio compleanno, salivo in cima alla Tour Eiffel e gettavo dall’alto un bigliettino contenente un desiderio. Mi prenderà per pazza, ma alla fine quel desiderio si è realizzato!” concluse con una risata contagiosa.

Quella donna francese le piaceva: aveva un bel modo di fare e possedeva un talento notevole nel creare quelle illustrazioni.

“Bè, mi faccia pensare bene a qual è il mio desiderio più grande. Tornerò appena avrò le idee più chiare” dichiarò Stana e la salutò, uscendo dalla cartoleria.

Riprese il suo girovagare e cominciò a riflettere.

Cosa desiderava davvero?

Salvare il suo matrimonio? No, era troppo ferita e quello ormai era un capitolo chiuso, nel profondo del suo cuore lo sapeva bene.

Avere successo nel suo lavoro? Sì, certamente, sarebbe stata una grande soddisfazione se anche la nuova serie tv avesse riscontrato il favore di pubblico e critica.

Ma era davvero questo il suo desiderio più grande? Le sarebbe bastato?

All’improvviso si ritrovò davanti a uno degli innumerevoli ponti di Parigi. Questo però aveva una caratteristica speciale: le grate di ferro del parapetto erano ricoperte da migliaia di lucchetti, scarabocchiati con un pennarello indelebile o finemente incisi. Pegni di amore eterno che tantissime coppie di innamorati si erano promessi, di fronte alle guglie di Notre Dame che svettavano sullo sfondo. E allora capì che ciò che desiderava davvero era proprio quello: il miracolo dell’amore senza fine. Quando aveva sposato Kris era convinta che il loro matrimonio sarebbe durato per sempre e invece così non era.

Rientrò il più rapidamente possibile in albergo, si chiuse nella sua camera e diede libero sfogo al dolore che aveva affrontato con grande compostezza fino a quel momento. Pianse fino ad addormentarsi.

 

Nota dell’autrice

I nostri beniamini iniziano a esplorare Parigi e le loro strade incrociano quelle di due nuovi personaggi. Robert Shermann e Rosalie Laurent escono dalla penna di Nicolas Barreau: io li ho solo presi in prestito! Anche il Cinéma Paradis appartiene a Barreau.

Grazie per avermi dedicato il vostro tempo leggendo anche il secondo capitolo.

Un abbraccio,

Deb

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Una sera a Parigi ***


Capitolo 3 – Una sera a Parigi

La mattina successiva Stana si svegliò con un brutto mal di testa, ma con il cuore paradossalmente più leggero. Tutte quelle lacrime l’avevano stremata, però almeno era riuscita a sfogare la sofferenza che aveva trattenuto negli ultimi mesi. Piangere le aveva fatto bene. Dovette dare ragione a Ruskin: Parigi è sempre una buona idea! Aprendo la pesante tenda che oscurava la finestra della sua camera, vide che fuori splendeva il sole e lo interpretò come il segnale a darsi una mossa e a trascorrere le ore seguenti all’aria aperta. Si vestì con un paio di jeans e un maglioncino leggero, calzò delle scarpe comode e scese a fare colazione, così da poter prendere anche un leggero antidolorifico per far sparire quella tremenda emicrania e potersi godere appieno anche quella giornata parigina.

Mélanie, la ragazza alla reception, le consigliò di visitare il Jardin du Luxembourg. Non era distante dall’albergo e, osservando con attenzione la cartina, scoprì che nelle vicinanze c’era anche rue de Dragon, dove si trovava quella cartoleria dei desideri. Chissà, forse nel pomeriggio avrebbe potuto farci un salto…

Arrivata nel grande parco, le sue narici furono invase dai profumi dei fiori e delle fronde degli alberi: la natura si stava risvegliando con forza dal letargo invernale e ovunque esplodeva una nuova vitalità. Imboccò uno dei sentieri e lo percorse a passo lento, con le mani in tasca e la mente leggera. Si sforzò di lasciar fluire i suoi pensieri senza imporsi né una meta da raggiungere né un argomento su cui riflettere. Il suo girovagare la condusse al lago al centro del giardino, nel quale si specchiava il castello. Castle. L’associazione mentale fu immediata.

No, non ci doveva proprio pensare.

Nemmeno per idea.

Scosse la testa per scacciare l’immagine di quel volto, che ancora una volta si era intrufolato nei suoi pensieri, si sedette su una panchina e aprì la guida di Parigi, così da decidere cosa visitare nei giorni successivi. E così da tenere il cervello occupato con altro, invece di rimuginare su un certo coprotagonista che l’aveva fatta stare tanto male durante le riprese dell’ultima stagione.

Quel gran bastardo.

Sfogliò la Lonely Planet fino a trovare la sezione dedicata ai dintorni della città, tentando senza successo di concentrarsi su quelle pagine: infatti, la sua mente venne attraversata di nuovo da un paio di occhi di zaffiro e una pericolosa mistura di rabbia e frustrazione le chiuse la gola. Una vampata di calore e un brivido gelido si scontrarono al centro esatto del suo petto, provocando un’improvvisa mareggiata.

Ancora non riusciva a capacitarsi di come il loro rapporto fosse degenerato fino a quel punto. Quando si erano conosciuti per girare il pilot, era scattata fra loro un’intesa sorprendente, che andava ben oltre la professionalità di entrambi. Certo, farsi travolgere – più di una volta – dagli ormoni non era stata una scelta saggia, ma le sembrava che la decisione di non finire più a letto insieme fosse stata condivisa. Intendiamoci, il sesso era andato alla grande, su quello niente da eccepire. Anzi. Però avevano dato la priorità al lavoro e al bene della serie. Lei era andata avanti, aveva scelto Kris e… già, e guarda un po’ cosa ci aveva guadagnato. Un bel paio di corna, ecco cosa. Anche lui però aveva avuto un sacco di altre storie, come nel suo stile. Ciononostante, erano riusciti a mantenere un rapporto di amicizia fino al termine della settima stagione, o almeno così le era sembrato, ma sin dal primo giorno di riprese dell’ottava…bè, apriti cielo. L’aveva trattata malissimo. Inveiva contro di lei in particolare e contro tutti in generale, tanto che le era diventato insopportabile il solo pensiero di andare sul set ogni giorno, lei che invece aveva sempre amato il suo lavoro. Quando era trapelata la notizia che non le avrebbero rinnovato il contratto per un’eventuale nona stagione, aveva tirato un sospiro di sollievo. Assurdo, vero? Ma non avrebbe resistito un altro anno accanto a lui.

Eppure… accidenti, il Nathan che aveva conosciuto all’inizio non assomigliava nemmeno lontanamente a quello dell’ultimo periodo. Pareva quasi che un alieno gli avesse mangiato il cervello! Si ritrovò inspiegabilmente a sorridere. Questa era una considerazione che avrebbe fatto un nerd come lui. Comunque, tornò seria e si chiese cosa gli fosse capitato, senza riuscire a darsi una risposta.

Guardò l’orologio e decise di cercare un posto dove mangiare al volo un’insalata, prima di recarsi ancora una volta in quella cartoleria. Voleva darsi un’altra chance per essere felice ed esprimere un desiderio con l’aiuto delle illustrazioni di Rosalie le parve una buona idea.

 

Non si riconosceva. Quando era entrato nel museo quella mattina splendeva il sole e adesso che ne stava uscendo la piramide del Louvre illuminava il crepuscolo parigino, reso ancora più scuro da nubi minacciose che si addensavano sopra la sua testa. Aveva trascorso un’intera giornata dentro un museo, zigzagando fra le scolaresche ammassate davanti ai quadri più famosi, ma godendosi la visita. Non era da lui. Cosa gli stava succedendo? Un alieno si era impossessato del suo cervello? Erano gli effetti dell’età che avanza? O forse aveva ragione l’innominabile?

Scosse il capo, tirò su il bavero della giacca per ripararsi da un vento frizzante che si era sollevato nel frattempo e, nonostante l’aria fredda, decise di fare due passi. Aveva bisogno di stare all’aperto e di rimuginare su ciò che aveva visto. A un certo punto della visita, la sua mente aveva ricevuto così tanti stimoli che gli era parso quasi di essere ubriaco. Oltre al sorriso enigmatico, universalmente riconosciuto, della Gioconda, aveva ammirato, fra le sculture, la Venere di Milo e Amore e Psiche di Canova, poi i numerosi dipinti, come la Vergine delle Rocce di Leonardo, la Merlettaia di Vermeer o i quadri di Raffaello, ma anche tutta la sezione dedicata agli Egizi e alle civiltà antiche. I ricordi delle opere d’arte si rincorrevano nel suo cervello e continuavano a fargli provare una specie di senso di ebbrezza. Si accorse solo in quel momento di non avere nemmeno pranzato: forse più che lo stordimento da sindrome di Stendhal, la sua era fame! Guardò l’orologio e vide che erano le sette. Era digiuno da oltre dieci ore e urgeva correre ai ripari quanto prima. Dopo la piacevole chiacchierata davanti a una squisita tarte tatin, il suo nuovo amico franco-americano gli aveva lasciato il numero del cellulare e gli aveva proposto di sentirsi nei giorni successivi per bere di nuovo qualcosa insieme o per andare a cena, ma non gli sembrava il caso di contattarlo all’ultimo minuto, tanto più che era felicemente sposato. Già, Robert aveva una moglie adorabile, lui invece era solo. Scacciò il senso di solitudine e si avviò verso il bistrot che aveva intravisto all’angolo. Si sarebbe consolato con un gustoso coq au vin accompagnato da un bicchiere di vino rosso. Anche le sue papille gustative meritavano un trattamento speciale.

 

La visita alla cartoleria era stata deliziosa come il giorno precedente. Una delle clienti di Rosalie le aveva decantato ulteriormente il talento artistico della giovane disegnatrice, rivelandole che aveva illustrato una fiaba per bambini che era stata pubblicata qualche anno prima e che riscuoteva ancora un discreto successo editoriale. Quando se n’era andata, Rosalie si era scusata per l’invadenza di madame de Rougemont e, rimaste da sole, avevano ripreso a chiacchierare. Visto che quel pomeriggio in negozio era di turno la sua assistente, la gentile madame Morel, la decoratrice le aveva offerto un the à la rose, preparato nel piccolo appartamento che aveva ancora sopra il negozio, nel quale però si limitava a lavorare, visto che adesso abitava con il marito nei pressi della Sorbona, e le aveva raccontato in breve quanto era stata importante quella storia per la sua felicità: grazie a quella favola aveva incontrato l’uomo della sua vita, seppure in modo alquanto rocambolesco. Stana le aveva detto del suo lavoro e della sua situazione sentimentale, senza entrare troppo nel dettaglio. Ma a volte è più facile aprirsi con un estraneo che con qualcuno che ci conosce fin troppo bene, perché non è coinvolto in prima persona né ha dei preconcetti. Rosalie dapprima si scusò per non averla riconosciuta subito, anche se le confessò che il giorno prima si era chiesta dove l’avesse già vista. Poi il suo animo sensibile si commosse nel sentirla parlare della fine del suo matrimonio, così le strinse la mano con tenerezza e le disse che pensava di avere il biglietto giusto per lei. Frugò fra le carte sparse sul grande tavolo da disegno, che occupava la maggior parte dello spazio nel piccolo appartamento, e le porse un cartoncino color crema, sul quale erano rappresentati un uomo e una donna che si tenevano per mano e volavano sopra Parigi, stringendo un palloncino a forma di cuore.

“Va’ dove ti porta il cuore, Stana. Bisogna sempre fidarsi del cuore. Lui non sbaglia mai” le disse con semplicità.

L’attrice l’abbracciò di slancio per ringraziarla e le promise che sarebbe tornata presto a trovarla e l’avrebbe invitata a prendere un café crème, per ricambiare la sua gentilezza. Quella ragazza le piaceva molto ed era felice di averla conosciuta. Scese la piccola scala a chiocciola che collegava l’appartamentino al negozio, salutò madame Morel e uscì. Vista l’ora e le nubi sempre più minacciose, si affrettò a mangiare una cena leggera in un bistrot e si avviò al suo consueto appuntamento serale con il Cinéma Paradis.

Quella sera, per il ciclo “les amours au Paradis”, era in programma “Gli amanti del Pont-Neuf” di Leos Carax, un vecchio film degli anni 90 che raccontava una drammatica storia d’amore. Alla cassa non c’era la solita signora, bensì un gentiluomo che gli altri frequentatori del cinema sembravano conoscere bene e che chiamavano tutti per nome, Alain. Probabilmente erano degli spettatori abituali e avevano fatto amicizia con chi lavorava in quell’oasi di pace. Una volta acquistato il biglietto, scelse una delle ultime file, a destra dello schermo. La platea non era molto grande e si poteva godere di una buona visuale praticamente da ogni posizione. Si tolse la giacca, la piegò con cura, la mise sulla poltroncina accanto alla sua e si apprestò a un nuovo tuffo nel cinema francese.

 

Dopo aver cenato, Nathan uscì dal piccolo ristorante e riprese a camminare. Aveva bevuto un bicchiere di vino per accompagnare quel succoso pollo che gli avevano servito e fare due passi lo avrebbe aiutato a digerire e a schiarirsi le idee. Inoltre, gli piaceva vedere la città di notte, con le sue innumerevoli luci e con quell’atmosfera onirica che certi luoghi sembravano emanare. Non a caso, si chiamava Ville Lumière. “Questo posto è un paradiso” si disse mentalmente, soddisfatto per aver scelto di visitare proprio quella capitale. Non fece in tempo a terminare il pensiero che le cataratte del cielo si aprirono e diedero vita a un fragoroso temporale. In breve, le poche auto che circolavano cominciarono a sollevare schizzi d’acqua che mischiati alla pioggia resero impossibile muoversi a piedi. Privo di ombrello, l’attore si mise in cerca di un riparo finché vide un cartello che indicava un cinema.

Cinéma Paradis.

Ecco il paradiso di cui aveva bisogno! Pagò il biglietto e l’uomo alla cassa gli raccomandò caldamente di non fare alcun rumore, visto che il film era già iniziato da alcuni minuti. Entrò con cautela e si sedette sulla prima poltroncina che trovò, nell’ultima fila a sinistra dello schermo. La sala non era certo affollata, ma nell’ombra non riuscì a distinguere chi fossero gli altri spettatori. In ogni caso, non importava. Ciò che contava è che quello era un luogo caldo e asciutto. E guardare un film francese non gli avrebbe fatto male, a prescindere dalla trama. Magari avrebbe anche potuto imparare qualcosa.

Due ore dopo, mentre scorrevano ancora i titoli di coda, le luci si accesero e mostrarono la commozione che aveva rigato il volto a più di una spettatrice e anche a qualche spettatore. Tutti si affrettarono però a nascondere i fazzoletti e quel lato sentimentale di cui spesso le persone si vergognano, come se ci fosse qualcosa di male. Anche Nathan era rimasto colpito dalla tragica storia di Alex e di Michelle, ma aveva trattenuto le lacrime. Stana invece si asciugò gli occhi e si alzò per indossare la giacca. Voltandosi verso sinistra, il suo sguardo incrociò quello di Nathan che a sua volta si stava rivestendo. Entrambi rimasero pietrificati.

 

Nota dell’autrice

Parigi è una metropoli, ma quando il destino ci mette lo zampino è impossibile non incontrarsi!

Anche Madame de Rougemont, madame Morel e Alain escono dalla penna di Nicolas Barreau.

Grazie per avermi dedicato il vostro tempo leggendo anche questo capitolo. Spero di trovarvi anche al prossimo!

Deb

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Il calcolo delle probabilità ***


Capitolo 4 – Il calcolo delle probabilità

No, non poteva essere vero.

Quante probabilità esistevano che si trovassero entrambi proprio in quel piccolo cinema, nello stesso momento, seduti a pochi metri di distanza? Una su un miliardo? Una su un milione di miliardi? Il destino sembrava possedere un senso dell’umorismo alquanto beffardo. O forse il fato stava cercando di mandare loro un segnale? Bè, qualunque cosa fosse, il risultato di quell’incontro di sguardi fu il gelo.

La donna abbassò gli occhi e cercò di ricordare quali fossero i gesti necessari per indossare correttamente il soprabito e uscire nel modo più rapido possibile da quella situazione, prima che il cuore le scoppiasse in petto e il cervello le si annebbiasse del tutto. Più facile a dirsi che a farsi. Pareva infatti che il suo muscolo cardiaco avesse deciso di suicidarsi andando a sbattere ripetutamente contro la cassa toracica. Dentro di lei stava salendo una rabbia incontenibile nei confronti di quell’essere che le aveva procurato tanto dolore durante l’ultima stagione di una serie tv che aveva adorato. Era riuscito a guastare il ricordo di un’avventura professionale che le aveva regalato tante soddisfazioni, non solo per i riconoscimenti ricevuti, ma anche per l’affetto che le avevano dimostrato i numerosi fan. Inoltre, le aveva permesso di recitare al fianco di tante persone meravigliose, che avrebbero conservato sempre un posto speciale nella sua anima e con le quali era ancora in contatto: Tamala, Jon, Seamus e Juliana, Penny, Molly e persino Ruben, anche se il suo personaggio era morto tragicamente al termine della terza stagione. Per non parlare di Andrew e Terri Marlowe o di Rob Bowman, che con la loro creatività avevano dato il via alla magia.

Insomma, tutte tranne lui, quello stronzo. Non avrebbe più voluto avere nulla a che fare con un bastardo del genere.

Peccato solo che il suddetto bastardo fosse proprio accanto alla porta, pertanto sarebbe stato impossibile evitarlo, a meno che non si fosse dotati di teletrasporto. Se non altro, gli altri spettatori sembravano non aver fatto caso a quella corrente artica che si era creata nella sala fra un paio di occhi color del cielo e due iridi verdi-nocciola e sfilarono uno dopo l’altro verso l’uscita, abbandonando la poesia del cinema per tornare alla prosa della propria vita quotidiana, lasciandoli da soli.

Nathan si riscosse dallo stordimento in cui era caduto, afferrò la giacca e aspettò che lei si avvicinasse. Lo stupore aveva paralizzato anche lui e i suoi occhi sbarrati erano lo specchio di quelli della donna. Non aveva la più pallida idea di cosa dirle, né sapeva cosa si sarebbe dovuto aspettare da lei. Al termine dell’ottava stagione non si erano nemmeno salutati di persona, figuriamoci.

Ed ora, eccoli qui, uno di fronte all’altra.

In un cinema minuscolo.

In un altro continente.

A migliaia di chilometri da casa.

Prese un profondo respiro e si apprestò ad affrontare l’inevitabile incontro, mentre la strisciante sensazione di disagio aumentava con il passare dei secondi. La osservò con attenzione mentre si avvicinava. Era ancora più bella di quanto si ricordasse, accidenti.

“Ehm… io…. Tu…” cercò di dirle, ma non riuscì a trovare le parole, come se avesse dimenticato come articolare i suoni e il suo cervello fosse andato in corto circuito per il sovraccarico di emozioni. Come poteva spiegarle ciò che provava e chiederle perdono per come l’aveva trattata? Non era preparato a questo. Non aveva nemmeno osato sperare di incrociare di nuovo la sua strada. Mai si sarebbe aspettato di trovarsela lì a portata di abbraccio. A portata di abbraccio? Sì, era proprio quello che avrebbe voluto fare, ma naturalmente sapeva che l’eventualità di poterla solo sfiorare era pressoché remota, figuriamoci tenerla fra le braccia tipo per qualche minuto, ora, giorno, mese, anno o addirittura l’eternità.

Stana scosse la testa, distolse lo sguardo per evitare che lui si accorgesse del tumulto che aveva dentro e sibilò: “Non dire niente. Noi due non abbiamo nulla da dirci.” Poi gli sfilò davanti, il cuore dolente e la gola stretta in una morsa. Ma nemmeno per idea si sarebbe mostrata in lacrime davanti a lui. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Non più. Era già stato abbastanza penoso avergli palesato la sua vulnerabilità quando lavoravano insieme. Non doveva più succedere.

“Aspetta. Lascia che ti offra almeno un caffè…” Nathan la afferrò per un braccio, facendola voltare verso di lui.

“No, sono stanca. Buonanotte” gli disse, senza mai sollevare gli occhi. Perché diavolo non capiva che aveva bisogno di stare da sola? Che il solo pensiero di averlo davanti a sé le riportava alla mente dei ricordi dolorosi? Quell’uomo era un deficiente, un perfetto idiota. Doveva essere stato lobotomizzato. Non c’era altra spiegazione.

“Allora domani? Quanto tempo vi fermate?” insistette, usando il plurale perché era convinto che fosse a Parigi con il marito, anche se… un momento, quel Kris non si vedeva da nessuna parte.

“Domani vado a Giverny alla Fondation Claude Monet” gli rispose. Lo aveva letto sulla guida mentre si godeva l’atmosfera e i profumi primaverili al Jardin du Luxembourg quella stessa mattina e aveva deciso che non se lo sarebbe perso, visto che era facilmente raggiungibile in treno da Parigi e che proprio in quel luogo il pittore impressionista aveva deviato il corso del fiume Epte per creare il bacino delle ninfee che gli avrebbe ispirato l’ampia serie degli omonimi dipinti. Che poi, a pensarci bene, perché mai si sentiva in dovere di dargli delle spiegazioni? Ma in quel momento non aveva né il tempo né l’energia per darsi una risposta.

“Allora dopodomani? Posso telefonarti? Ti prego…” la implorò.

Stana sospirò e annuì, poi si divincolò dalla mano dell’uomo che ancora le teneva il braccio e uscì rapidamente dal cinema, correndo sotto la pioggia e rimpiangendo, in modo del tutto inspiegabile e irrazionale, quel piacevole tepore che il tocco di lui le aveva lasciato sull’avambraccio. Aveva bisogno di allontanarsi il più possibile da colui che aveva rappresentato la fonte di tanto dolore e non aveva intenzione di trattenersi un secondo di più. Anche se nella sua splendida voce baritonale aveva percepito una nota di malinconia e di sofferenza che non le sarebbe dispiaciuto approfondire. Insomma, dentro di lei si agitava un guazzabuglio di pensieri e sentimenti contrastanti per i quali non riusciva a trovare una spiegazione. Ci doveva essere qualcosa nell’aria di Parigi che le annebbiava le idee.

Appena si ritrovò fra le quattro pareti della sua piccola ma confortevole camera d’albergo, al sicuro dagli scrosci del temporale, si recò in bagno per asciugarsi i capelli e lo specchio le restituì l’immagine impietosa di un volto corrucciato e con il trucco, seppur leggero, rovinosamente sbavato, sia per le lacrime versate durante la visione del film sia per la pioggia scrosciante. Averlo incontrato l’aveva provata molto: nonostante avesse tentato di toglierselo dalla testa e dal cuore, quell’uomo esercitava ancora un grande potere su di lei. Un momento, toglierselo dal cuore? E questa come le era venuta in mente? Chiuse gli occhi per respingere l’immagine di quel viso sorpreso e contrito, prese dei respiri profondi per cercare di calmarsi e cercò di concentrarsi sul programma che aveva pianificato per il giorno successivo. Amava tutti gli impressionisti e visitare i luoghi che avevano ispirato quei dipinti, fra cui il quadro delle Ninfee che ricopriva un’intera parete del MoMA di New York, le sembrava un sogno. Si rifugiò nell’arte e la usò come scappatoia per evitare di riflettere sul significato di quell’incontro.

 

In un altro hotel nel Quartiere Latino, non molto distante, Nathan stava pure peggio. Appena varcata la soglia della sua stanza, si tolse la giacca inzuppata dalla pioggia e crollò sulla sedia accanto alla graziosa scrivania di legno intagliato, prendendosi la testa fra le mani. Quell’incontro lo aveva sconvolto. L’aveva rivista dopo tanto tempo eppure il suo cuore aveva fatto le capriole appena i suoi occhi avevano incrociato quelli di lei. Scosse il capo: non aveva nessun diritto a pensare a lei, non dopo il modo in cui l’aveva trattata. E poi era pur sempre una donna sposata. Un momento, al cinema non c’era nessun marito accanto a lei. Ma questo non voleva dire nulla: magari quel Kris comecaspitasichiamadicognome aveva un impegno di lavoro e non gli era stato possibile accompagnarla. In ogni caso, Nathan le aveva strappato il permesso di poterla chiamare due giorni dopo. Era già qualcosa. Se non altro, avrebbe avuto l’opportunità di scusarsi per come si era comportato durante l’ultima stagione di Castle. Anche se, a pensarci bene, cosa le avrebbe detto? Che l’aveva trattata male perché in realtà si sarebbe voluto rotolare in un letto con lei fino a perdere i sensi e a non ricordarsi nemmeno il proprio nome? No davvero, questo era fuori discussione. Però, bè, se non altro le avrebbe chiesto perdono, senza dare troppe spiegazioni e sperando che lei accettasse le sue scuse. Gli sarebbe piaciuto invitarla a bere un café crème o una cioccolata calda e a mangiare quei macarons tutti colorati, magari in un bel locale parigino, con la giusta atmosfera. Voleva che almeno di quell’incontro serbasse un ricordo piacevole. In realtà, avrebbe voluto che lei conservasse un bel ricordo di tutto il periodo in cui avevano camminato parallelamente, perché lei inconsapevolmente gli aveva migliorato la vita. Ma temeva che per quello, ormai, fosse troppo tardi.

Meglio concentrarsi sul presente. Gli serviva un posto carino dove portarla, ma dove andare?

Un brivido di freddo lo scosse e gli fece comprendere che forse era il caso di farsi una bella doccia calda prima di pianificare altre mosse. Non aveva più quindici anni e la cervicale non lo avrebbe perdonato la mattina successiva. Si alzò dalla sedia e andò verso l’attaccapanni a cui aveva appeso la giacca. Frugando nella tasca per recuperare il cellulare e metterlo in carica, vide che oltre un’ora prima gli era arrivato un messaggio. Non se ne era accorto subito perché lo aveva lasciato in modalità silenziosa, come caldamente richiesto dal signore alla cassa del cinema. Sorrise quando vide il mittente: Robert gli chiedeva se l’indomani avesse tempo per bere qualcosa insieme. Ecco a chi avrebbe potuto rivolgersi per farsi consigliare il posto giusto dove invitare la sua… sua cosa? Non era sua per niente. Non era nemmeno più sua collega. Figuriamoci sua amica. E sua fidanzata o meglio amica di letto lo era stata troppo tempo fa. Bando alla malinconia, si disse, rispose a Robert confermandogli l’appuntamento per il giorno successivo fuori dalla Sorbona all’orario da lui proposto e si recò in bagno per quella doccia calda che sperava lo avrebbe rimesso in sesto. Stette a lungo sotto il getto fumante, confidando che gli regalasse un po’ di benessere e serenità, poi si asciugò con cura e si preparò a coricarsi, anche se sapeva bene che il suo sonno sarebbe stato turbato dall’immagine del bel volto corrucciato di Stana e dalla durezza che aveva percepito nella sua voce.

 

Come da copione, era riuscito ad addormentarsi solo alle prime luci dell’alba, dopo aver rimuginato a lungo sul significato di quell’incontro. Non era un tipo da masturbazioni mentali, però doveva riconoscere che era una strana coincidenza averla trovata in quel piccolo cinema in un'altra nazione, tanto distante da casa. Qualcuno gli aveva detto che le coincidenze non esistono e che in realtà si tratta di sincronicità. Quindi il suo cammino si era sincronizzato con quello di Stana. Figo! Già, ma perché? In ogni caso, si disse che era opportuno non lasciarsi scappare questa occasione, così che magari anche il suo karma e la sua carriera ne avrebbero beneficiato. Non conveniva lasciare niente di intentato. E lei era ancora bella da far paura, forse addirittura più di quanto ricordasse.

Visto che l’appuntamento con Robert era nel pomeriggio, quella mattina decise di visitare l’Art Ludique, il museo dedicato a fumetti, videogiochi, manga e film d’animazione: possedeva già una discreta collezione di questi oggetti ed era convinto di poter trovare qualche pezzo interessante anche a Parigi. La struttura stessa dell’edificio che ospitava il museo era avveniristica e dava l’impressione di accedere ad un’astronave. Già questo sarebbe bastato per convincerlo a investire il suo tempo in quell’impresa! Quando poi vide sul sito che in quelle settimane c’era persino una mostra dedicata ai supereroi della Marvel ebbe la certezza di aver preso la giusta decisione. La mente lo riportò al periodo in cui aveva girato Firefly, che, nonostante non avesse avuto un enorme successo, rimaneva l’avventura professionale in cui si era divertito di più, come aveva più volte dichiarato. Oltre al capitano Reynolds, però, le sue sinapsi gli presentarono l’immagine di Stana mentre indossava il costume del tenente Chloe di Nebula 9, nell’episodio di Castle ambientato nel mondo delle serie tv di fantascienza. A parte quell’orribile maschera che aveva messo per la scena finale, dovette ammettere che era sexy da morire con quell’abitino corto e le scarpe con i tacchi vertiginosi. A pensarci bene, quella donna era sexy da morire in tutti gli episodi che avevano girato, a prescindere dalla mise o dall’acconciatura. Scosse la testa e decise di allontanare la visione di lei con i capelli scompigliati da post-sesso, coperta solo dalla sua camicia nella scena di apertura della quinta stagione e si concentrò sui fumetti. Le ore successive scivolarono tranquille, immerso nel mondo fantascientifico che tanto amava. Qualche patito come lui lo riconobbe e gli chiese l’autografo, chiamandolo Mal. Evidentemente, non era l’unico rimasto affezionato al protagonista della serie ideata da Joss Whedon.

La mattinata lasciò il posto al pomeriggio e Nathan si avviò verso la Sorbona, così da incontrare Robert che lo aspettava seduto a un tavolino all’aperto. La giornata infatti era soleggiata e le temperature abbastanza miti da poter stare fuori senza congelare. La tempesta della sera prima sembrava non aver lasciato strascichi. Anzi, il cielo risplendeva di un azzurro intenso, come se fosse stato tirato a lucido per un’occasione speciale.

“Ciao amico!” lo salutò il professor Shermann, felice di poter usare quella formula così comune negli Stati Uniti ma praticamente assente nella cultura francese.

“Ciao Robert, come stai?” rispose Nathan, accomodandosi sulla sedia di vimini di fronte a lui.

“Cosa ti posso offrire?” gli chiese Robert, mentre faceva cenno alla cameriera affinché si avvicinasse per poter prendere il loro ordine.

“Un caffè andrà benissimo, ma se permetti vorrei pagare io questa volta perché avrei bisogno di un favore” dichiarò.

“Come vuoi. Adesso ordiniamo e poi mi dici in cosa posso aiutarti” replicò Robert, incuriosito dalle parole dell’attore.

La cameriera doveva averlo riconosciuto perché indugiò con lo sguardo su Nathan e trattenne a stento un sorrisino, ma si comportò in modo professionale, prese nota delle loro richieste e tornò pochi minuti dopo con due tazze di caffè. Nathan ne bevve un piccolo sorso, stupendosi ancora una volta della quantità decisamente inferiore rispetto allo standard americano, sollevò gli occhi e incrociò quelli di Robert che aspettavano impazienti.

“Ok, spara” gli disse Shermann senza troppi convenevoli.

“Ehm… voglio invitare una signora, ma la vorrei portare in un bel posto, sai… uno un po’ raffinato…. con una bella atmosfera” disse Nathan.

“Ehy amico, vedo che non perdi tempo. Due giorni fa mi hai detto che eri qui da solo e hai già fatto conquiste? Chapeau!” lo prese in giro Robert.

“Non si tratta di una conquista, ahimé…” rispose Nathan e per un attimo arricciò le labbra in una smorfia di dolore e delusione, ma si ricompose e continuò: “diciamo che è una vecchia conoscenza e ho qualcosa da farmi perdonare.”

Robert lo osservò con attenzione, senza dire niente e aspettando che fosse l’altro a continuare, rispettando la sua eventuale scelta di non aggiungere altri dettagli. Percepiva che quell’affermazione doveva celare una storia complicata, ma non erano ancora abbastanza in confidenza da poter entrare a gamba tesa e costringerlo a confessargli le sue malefatte, sebbene quella vicenda lo incuriosisse. Non riuscì però a trattenersi dal chiedergli, con un lampo divertito negli occhi: “Quanto l’hai combinata grossa? Sai, giusto per suggerirti il posto più adatto dove invitarla…”

Nathan colse al volo l’ironia della domanda e gli rispose sorridendo e spalancando le braccia: “Credimi, forse non basterebbe nemmeno prenotare l’intera sala di quel ristorante sulla Tour Eiffel, quello costosissimo… aspetta… non ricordo il nome…”

“Il Jules Verne?” suggerì Robert. Al cenno affermativo del capo di Nathan, il professore commentò: “Ahi ahi ahi, amico, qui la faccenda si fa complessa! Ma farò del mio meglio per esserti utile. Forse dovresti regalarle anche dei fiori e scriverle un bigliettino, sai? Alle donne piacciono queste cose. Oddio, le donne non sono sempre comprensibili, anzi, non le capisci quasi mai, ma questo l’ho imparato da mia moglie: lei ha una cartoleria in cui realizza e vende cartoncini decorati per tutte le occasioni!” dichiarò con orgoglio.

“Mmm… a quello non avevo pensato… intanto dimmi dove la potrei portare, poi magari facciamo un salto nel negozio di tua moglie, se non è troppo lontano” rispose sinceramente.

“OK… allora, ci sarebbe il ristorante La Coupole… è sempre affollato sia dai turisti che dai parigini… ha un bell’ambiente, con i lampadari art déco, sicuramente d’atmosfera, e fanno dei piatti di pesce da leccarsi i baffi” propose Robert.

“In realtà non credo di poterla invitare a cena, è qui con il marito” spiegò Nathan, a disagio.

“Non aggiungere altro, non lo voglio sapere” dichiarò Robert, sollevando una mano. Poi riprese con entusiasmo: “Andiamo più sul semplice, ok? Diciamo un locale, tipo un caffè letterario? Parigi è sempre stata la meta preferita di scrittori e artisti, in tutte le epoche, in particolare alla fine dell’Ottocento: si ritrovavano nei locali a bere, fumare e discutere di arte, politica e correnti letterarie.”

“Devi essere un bravo insegnante, amico” affermò Nathan, in modo genuino.

Shermann gli lanciò uno sguardo interrogativo e Fillion si affrettò ad aggiungere: “Si vede dal tuo modo di spiegare le cose! Comunque, un locale del genere è quello che fa per me: la signora in questione legge molto e ama l’arte, con una particolare predilezione per gli impressionisti”

Robert gli sorrise e continuò: “Bene, allora la puoi portare a Le Procope, il caffè più antico di Parigi e una vera istituzione per i francesi. Lo hanno frequentato i grandi filosofi che ai suoi tavoli hanno discusso dei massimi sistemi dell’universo, oltre a scrittori come Victor Hugo. Oppure Le Café de la Paix, dove andava spesso anche Hemingway. O ancora Le Café de Flore, il preferito di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir.”

“Wow, grazie amico, non ho che l’imbarazzo della scelta allora!” esclamò Nathan. Poi congiunse le mani sotto il mento ed espresse a voce alta il resto del suo ragionamento: “Devo solo capire dove alloggia, magari scelgo quello più vicino così lo possiamo raggiungere a piedi.”

“Forse non lo sai, ma anche a Parigi esistono i taxi” lo canzonò Robert.

“Molto divertente, Robert. Ma la signora in questione ha a cuore l’ambiente e preferisce usare i mezzi pubblici o addirittura andare in bici o a piedi” spiegò, facendo spallucce. Rispettava la sua scelta e il suo impegno, ma doveva ammettere che lui per primo era un convinto sostenitore della comodità e della pigrizia.

A quel punto, Robert si ricordò di aver letto da qualche parte del progetto ATP promosso da Stana Katic e il suo cervello fece immediatamente due più due. Un lampo gli illuminò lo sguardo e Nathan capì che il suo amico aveva compreso a chi si stava riferendo. Annuì e disse, quasi sussurrando: “Sì, è lei, ma non mi chiedere altro”

“No, amico, non ci crederai… Oddio, il mondo è davvero piccolo… chi l’avrebbe mai pensato… Quando lo racconto a Rosalie mi prenderà per pazzo…però effettivamente c’era un certo feeling, si vedeva bene…” farfugliò Robert, mentre l’attore lo guardava corrugando la fronte per cercare di decifrare quelle frasi sconclusionate messe insieme dal suo amico: sembrava che l’eloquenza per cui aveva elogiato il professore pochi minuti prima si fosse dileguata del tutto. Shermann si rese conto di aver esternato i suoi pensieri in modo ermetico, così si schiarì la gola per ricomporsi e gli disse: “Rosalie è mia moglie e mi ha detto che qualche giorno fa la signora di cui stiamo parlando è andata nel suo negozio e hanno fatto due chiacchiere, anzi, le ha addirittura preparato un tè.” Davanti allo sguardo stupito di Nathan aggiunse con fare cospiratorio: “E ti dico una cosa: puoi anche invitarla a cena.”

 

Nota dell’autrice

L’universo manda chiari segnali ai nostri protagonisti: i loro nuovi conoscenti parigini, guarda un po’, sono marito e moglie! Cos’altro avrà in serbo per loro il destino?

Spero di trovarvi anche al prossimo capitolo: intanto, grazie per avermi regalato il vostro tempo arrivando fino qui.

Deb

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Manovre di avvicinamento ***


Capitolo 5 – Manovre di avvicinamento

La giornata a Giverny era stata perfetta: si era tuffata nell’universo artistico di Monet e aveva rinchiuso in un angolino del suo cervello il ricordo dell’inaspettato (e sconvolgente) incontro della sera precedente. Oltre al musée des impressionismes e alle sue collezioni temporanee, aveva visitato la casa in cui l’impressionista aveva vissuto per molti anni, fino alla propria morte, e aveva passeggiato a lungo nel giardino, traboccante di emerocalle, rose, tulipani, glicini, gladioli, iris, salici piangenti e molte altre piante, che a pieno titolo gli avevano conferito il marchio di “jardin remarquable”. Le era piaciuto in particolare il delizioso laghetto, fonte di tanta ispirazione, aveva respirato la stessa aria e ammirato quegli stessi colori che avevano dato origine alla lunga serie dei dipinti delle ninfee. Nel bookshop del museo aveva acquistato uno splendido volume illustrato e adesso se ne stava sul letto, sprofondata nella lettura.

Quella sera niente cinema. Non voleva correre il rischio di ritrovarsi faccia a faccia con lui. Di fronte alle sue insistenze, gli aveva concesso di ricontattarla per prendere un caffè insieme, ma non era più sicura che fosse una buona idea. In ogni caso, non si sentiva ancora pronta per affrontarlo di nuovo.

Era rientrata in albergo nel tardo pomeriggio, dopo aver mangiato una baguette au jambon in una graziosa pasticceria poco distante, che si vantava di sfornare le migliori baguette di tutta la Francia, aveva fatto una lunga doccia calda e si era infilata il pigiama e i calzettoni, sedendosi poi sul letto e allungando le gambe. Le si prospettava una serata di totale relax e le andava bene così.

Il suono proveniente dal suo cellulare la informò di aver appena ricevuto un messaggio. Anche se si trattava di un albergo tutto sommato modesto, il segnale wi-fi era potente e le permetteva di comunicare via whatsapp con la sua famiglia e di mantenersi informata su ciò che accadeva nel mondo, leggendo i suoi giornali preferiti on-line. Quella mattina, appena sveglia, era stata anche tentata di curiosare sui siti di gossip o su twitter per raccogliere informazioni sul suo ex coprotagonista, ma aveva scosso la testa e si era preparata alla gita a Giverny, senza pensarci più.

Chiuse il libro su Monet, lo depose con cura sul letto – era davvero una splendida edizione e non voleva rovinarla in alcun modo – e aprì l’applicazione dei messaggi istantanei. Nello scorgere il mittente sentì salire la rabbia. La sua prima reazione fu di non aprire nemmeno il messaggio, per non dargli soddisfazione. Poi vide che si trattava di un’immagine e la curiosità ebbe il sopravvento. Ci cliccò sopra e riconobbe una ninfea, tratta da uno dei numerosi quadri del pittore di cui aveva appena visitato la dimora.

Aggrottò la fronte, sorpresa.

Da lui non se lo aspettava.

Non che lo ritenesse un bifolco, ma negli anni trascorsi insieme lui le aveva confessato di non essere un grande amante dell’arte, e adesso invece ecco che le aveva appena inviato un chiaro riferimento a Monet. Quindi la sera prima l’aveva ascoltata e aveva addirittura capito quale fosse l’artista? Mentre il suo cervello stava ancora cercando di darsi una risposta in merito, ecco che il cellulare suonò di nuovo. Le aveva mandato un altro messaggio. Un’altra immagine, per la precisione. Rappresentava il ponte giapponese che abbelliva lo stagno di Giverny.

OK, era ufficialmente perplessa.

Cosa significava tutto ciò? Non fece in tempo a darsi una risposta che le arrivò un terzo messaggio, questa volta contenente solo l’icona della tazza di caffè seguita da un punto interrogativo.

La donna sbuffò e mise il telefono sul letto, appoggiandolo dalla parte dello schermo, quasi a non volere nemmeno vedere l’arrivo di eventuali altri messaggi. Incrociò le braccia sul petto e cominciò a mordersi nervosamente il labbro inferiore, lasciando vagare lo sguardo per la stanza, come a cercare nella carta da parati a motivi damascati una soluzione ai suoi problemi. Da un lato era arrabbiata perché l’aveva già ricontattata e non voleva concedergli la soddisfazione di rispondergli subito, anche se con whatsapp non si poteva fingere di non aver aperto un messaggio. Dall’altro, stava con le orecchie tese, aspettando altre immagini o un testo un po’ più articolato. Inutile negarlo: quei tentativi di comunicazione avevano catturato la sua attenzione. Più di quanto fosse disposta a riconoscere anche a sé stessa.

Niente.

Dopo un paio di minuti di trepidante attesa, si decise a riprendere in mano il cellulare. Poi lo posò di nuovo, incapace di prendere una decisione. Tamburellò le dita sul copriletto, poi decise di intrecciarsi i capelli, giusto per avere qualcosa da fare con le mani. Trascorsero altri minuti. Infine sbuffò e afferrò il telefono. Gli rispose con un semplice punto interrogativo. Se lui voleva essere criptico, lei sarebbe stata al gioco.

 

Nel suo albergo, Nathan stava passeggiando nervosamente nella piccola camera, incappando ora nella sedia, ora nella scrivania o nell’angolo del letto. Non aveva resistito all’idea di ricontattare immediatamente Stana, ma non sapeva nemmeno cosa dirle a voce, quindi i messaggi gli erano sembrati un buon compromesso. Si era limitato alle immagini per evitare di commettere ulteriori danni, ma vista la mancata reazione della donna non sapeva come portare avanti la conversazione. Forse aveva sbagliato pittore? Continuava a confondere Monet e Manet… O forse non aveva scelto il quadro giusto? No, aveva fatto una breve ricerca su internet e il risultato era un ciclo monumentale di rappresentazioni di quelle isole galleggianti di ninfee in uno stagno, disseminate nei musei più importanti del mondo.

Altri due minuti, si disse. Se non risponde fra due minuti le scrivo di nuovo. Riprese il cellulare che aveva appoggiato sul piccolo scrittoio e lo fissò con intensità, quasi a volerlo ipnotizzare per convincerlo a dargli qualche cenno di vita.

Niente.

“Facciamo cinque minuti. Poi le mando un altro messaggio” pensò ad alta voce, come se quello fosse il risultato di una lunga ed estenuante trattativa fra sé e sé.

Quando stava per gettarlo sul letto, frustrato per l’inutile attesa, il telefono vibrò. Bene, aveva risposto! Ma, un momento, cosa gli aveva mandato? Un punto interrogativo? Lì per lì rimase spiazzato, però poi si disse che, se non altro, non lo aveva ignorato. Era un buon inizio. Il canale comunicativo era ancora aperto. Si sedette sul letto, appoggiò la schiena alla testiera, allungò le gambe, si sfregò le mani e si apprestò a portare avanti la conversazione. Quel barlume di entusiasmo lasciò presto spazio a un attimo di smarrimento. Cosa le poteva dire? Scorse l’elenco delle icone in cerca di ispirazione… gli serviva un’immagine che potesse trasmetterle quanto fosse dispiaciuto per come erano degenerate le cose fra loro, quanto gli mancasse, quanto pensasse ancora a lei, quanto l’avesse trovata bellissima la sera prima… un po’ troppi concetti da esprimere tutti insieme. Poi gli venne in mente quello che gli aveva detto Robert poche ore prima: pur essendo degli esseri spesso difficili da comprendere per gli uomini, le donne amano i fiori e i bigliettini. Non conosceva minimamente il linguaggio floreale, a parte le rose rosse, ma non era certo nella condizione di potergliele regalare. Si limitò pertanto a cercare l’emoji del bouquet. Per i cartoncini avrebbe dovuto aspettare. Quel pomeriggio non era riuscito ad andare alla cartoleria di Rosalie perché Robert aveva ricevuto una telefonata da un collega ed era dovuto scappare, subito dopo avergli raccontato brevemente dell’incontro di sua moglie con Stana. Gli aveva però fornito l’informazione più importante, ovvero che quel Kris era fuori dai giochi. Certo, questo significava che la sua ex coprotagonista non se la stava passando bene in quel momento. Ma a lui non sarebbe per niente dispiaciuto consolarla. Appena questo pensiero si formò nella sua mente, scosse la testa e si sarebbe volentieri preso a schiaffi da solo. Quello era il vecchio Nathan, che avrebbe approfittato della situazione per infilarsi nel letto della malcapitata di turno. Non voleva più essere così meschino.

“OK, o la va o la spacca” si disse e, con un ultimo attimo di incertezza, premette il tasto dell’invio e il bouquet partì.

 

Dei fiori.

Le aveva mandato dei fiori. Virtualmente, certo. Ma pur sempre dei fiori.

La faccenda si stava facendo sempre più inspiegabile. Che intenzioni aveva? Per un attimo le sembrò di essere tornata ai tempi del pilot, a quando loro due flirtavano continuamente. Un sorriso nostalgico le si dipinse sul volto. Non erano trascorsi molti anni, ma le cose erano cambiate così tanto da allora che le pareva di parlare di un’altra vita e di un’altra persona. Però i ricordi dolorosi dell’ultima stagione in cui avevano lavorato insieme spazzarono via quelle immagini idilliache e una nuvola nera e lugubre la avvolse. Era ancora profondamente arrabbiata con lui. Con quella specie di dottor Jekyll e Mr Hyde, capace di gesti gentili e di comportamenti bastardi. Ma era anche una donna ben educata, pertanto si sentì in dovere di ringraziarlo per i fiori e gli rispose con un lapidario grazie. Senza nemmeno un punto esclamativo, un emoji, nulla che potesse lasciar trapelare un qualsiasi coinvolgimento emotivo. Poi mise il cellulare sul letto e riprese il libro. Dopo aver realizzato di aver letto lo stesso paragrafo per la quarta volta, senza aver capito nulla di quello che c’era scritto, comprese che era inutile far finta di leggere: la sua mente non riusciva proprio a mantenere la concentrazione minima richiesta. Pur essendo furiosa con lui, non poteva negare di essere intrigata da quell’epistolario amoroso versione 2.0. Amoroso? Ma da dove caspita le era venuto fuori questo aggettivo? Scosse la testa e accese la televisione, tentando di concentrarsi sul programma in onda. Le ci vollero una trentina di secondi per capire che stava dedicando le sue energie a un’insulsa pubblicità di carta igienica. “Oddio, mi ci vuole una pausa” dichiarò ad alta voce. Poi si alzò e andò a prepararsi un tè con il bollitore di cui era dotata la sua camera. Se non altro, avrebbe avuto qualcosa con cui tenere occupate le mani.

 

“Solo grazie?” pensò l’uomo, deluso. Del resto, cos’altro si sarebbe potuto aspettare? Che un’icona di whatsapp fosse sufficiente a far sì che lei lo perdonasse e lo invitasse nel suo albergo a darsi alla pazza gioia e a soccombere al desiderio? L’immagine di uno dei loro incontri intimi, risalente ormai a tanti anni prima, lo fece partire per un viaggio lungo il viale dei ricordi, dal quale si riprese pochi secondi dopo. Bisognava passare all’azione. O se non altro era opportuno essere più chiari.

Spero che la giornata a Giverny sia stata piacevole. Mi permetto di disturbarti per invitarti a prendere un caffè insieme, come avevamo concordato.

“Ma che schifezza è? Basta solo che aggiunga distinti saluti e poi lo potrei inviare al general manager di un’azienda…” commentò ad alta voce. Cancellò l’intero testo. Aveva capito cosa non doveva scrivere e come non scriverlo, ora bastava solo trovare le parole giuste. Una bazzecola. Il cursore che lampeggiava sul display del cellulare faceva aumentare la sua ansia. “Oh, andiamo, Nate, sei un adulto. Datti una calmata e scrivi questo messaggio. Forza” si incitò. Poi aggiunse, con un sospiro sconsolato: “Oddio, sto parlando da solo come un pazzo….”

Un amico mi ha consigliato un café storico di Parigi. Ti andrebbe di farmi compagnia?

Questo poteva andare. Semplice, senza fronzoli, ma l’invito in un locale particolare poteva risultare allettante per una persona colta come lei, o almeno così sperava. Forse avrebbe potuto fare meglio, essere più convincente, scegliere parole più adatte, però in quel momento gli sembrò di non avere altre idee, così decise di mandarlo senza ulteriori indugi. E tenendo le dita incrociate.

 

Nota dell’autrice

Nell’era degli smartphone, l’epistolario amoroso si arricchisce di icone che tutti noi conosciamo e usiamo. Il canale comunicativo è stato ripristinato, ma Stana accetterà l’invito di Nathan? Pochi giorni di pazienza e lo saprete.

Grazie per avermi seguito fino qui!

Deb

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Caffè e macarons ***


Capitolo 6 – Caffè e macarons

Ancora non riusciva a spiegarsi in modo razionale cosa la avesse spinta ad accettare il suo invito, ma ormai era troppo tardi. Erano le quattro di pomeriggio e, come stabilito, si trovava davanti alla porta de Le Procope, una vera istituzione per i parigini. Le ampie finestre che si affacciavano sulla strada, seppur parzialmente coperte dai pesanti tendaggi, emanavano una luce calda che invitava i passanti ad entrare e a lasciarsi avvolgere dall’atmosfera rétro del locale. Per non parlare dei graziosi ombrelloni sulla terrazza del primo piano adornata dai vasi traboccanti di edere rigogliose: si immaginò quanto dovesse essere piacevole trascorrere qualche ora là sopra, in estate, a godersi un po’ di fresco. E naturalmente il menù esposto all’esterno e la vetrina dei prodotti di pasticceria promettevano leccornie dolci e salate in puro stile francese, volte a soddisfare la vista, l’olfatto e il gusto.

Quando Nathan glielo aveva proposto la sera precedente non aveva saputo dirgli di no. Essendo considerato da alcuni il più antico café d’Europa, nonché ritrovo dei letterati della città, in particolare nel Settecento e nell’Ottocento, era uno dei posti che aveva in programma di visitare, pertanto aveva colto al volo l’occasione. Inoltre, si trovava poco oltre il Jardin du Luxembourg, quindi lo avrebbe potuto raggiungere a piedi dall’albergo, attraversando il parco e godendo ancora una volta del risveglio primaverile della natura.

Non aveva idea di cosa sarebbe venuto fuori da quell’incontro. Aveva anche cercato di convincersi – con scarsi risultati – a non caricarlo di troppe aspettative. Era solo un caffè con un ex collega, mica un appuntamento con un erede al trono di una qualche monarchia europea discendente diretta da Carlo Magno, suvvia! Però al terzo cambio di abito, alla ricerca del look perfetto, fece pace con l’idea di essere in realtà molto nervosa al pensiero di rivederlo e giunse alla conclusione che Nathan avrebbe sempre occupato un posto speciale nella sua anima. Una fonte di piacere e di dolore al tempo stesso, forse. Ma di una cosa era sicura: lui non le sarebbe mai stato indifferente. Optò dunque per una combinazione semplice ma curata, costituita da un paio di pantaloni color miele e un dolcevita nero. Si applicò un trucco leggero e decise di lasciare i capelli sciolti sulle spalle. Il meteo era stato clemente in quei giorni, ma era pur sempre necessario indossare una giacca e un foulard per ripararsi da qualche spiffero improvviso.

Era la prima volta che usciva da sola con un uomo da quando lei e Kris si erano separati e, anche se continuava a ripetersi il mantra “è solo un innocuo incontro pomeridiano in un locale, senza alcun risvolto romantico o sentimentale”, la situazione la rendeva molto nervosa.

Prese un profondo respiro e spinse la porta del Procope. Mentre si stava guardando intorno, un cameriere in livrea e guanti bianchi le venne incontro e le chiese come poteva aiutarla. Il suo sguardo però aveva già individuato dove era seduto Nathan, il quale a sua volta stava tenendo d’occhio l’ingresso. Le fece cenno con la mano e si alzò dalla sedia per aspettarla.

Non ricordava come avesse trascorso la mattinata, né come fosse riuscito a resistere all’ansia sin dal momento in cui lei aveva accettato il suo invito la sera prima. Non sapeva nemmeno spiegarsi cosa lo avesse spinto a suggerirle proprio quel locale, fra i vari che gli aveva nominato il suo amico professore. A Robert aveva detto che avrebbe scelto un posto raggiungibile a piedi dall’albergo per rispetto all’anima ambientalista di Stana, ma alla fine non le aveva nemmeno chiesto dove alloggiava. Sperava di non aver combinato l’ennesimo guaio o di averla messa in difficoltà, costringendola ad attraversare l’intera città… Come se non bastasse, non aveva idea di cosa le avrebbe detto. Però quando la vide entrare, il cuore perse un battito e comprese di essere ancora profondamente coinvolto da quella donna. Come non gli era mai capitato in nessuna delle sue relazioni. Nemmeno con Krista, a cui peraltro aveva voluto molto bene e che gli aveva regalato una parvenza di famiglia, grazie al rapporto che era riuscito a sviluppare con il figlio che lei aveva avuto da un legame precedente, tanto da portarlo con sé ad alcuni eventi a cui aveva partecipato. Ma ormai gli sembrava che tutto questo appartenesse a un passato lontano e riguardasse una persona diversa.

Il cameriere aiutò Stana a sfilarsi la giacca, la accompagnò al tavolo e le spostò la sedia per farla accomodare, precedendo il gesto di Nathan e impedendogli di fare il cavaliere come avrebbe voluto. Poi consegnò loro i menù e sparì dalla loro vista.

“Ehm… ciao… grazie per essere venuta” la salutò con il suo timbro di voce baritonale che le risvegliava sempre qualcosa nel profondo e la avvolgeva come in un caloroso abbraccio.

“Grazie per avermi invitato” gli rispose, in modo forse troppo brusco e formale. Il nervosismo per quella situazione le aveva dipinto un’espressione corrucciata sul bel volto e rendeva impacciati i gesti di entrambi. 

Nathan le passò uno dei menù ed entrambi si immersero silenziosamente nella lettura, quasi avessero dovuto decifrare un testo scritto in un codice ignoto e dal quale dipendeva la salvezza dell’intero pianeta Terra. Anzi, facciamo dell’universo.

Troppo impegnati nel cercare di tenere a bada le proprie emozioni, né Stana né Nathan videro il cameriere avvicinarsi. “I signori hanno deciso?” chiese loro gentilmente, ma entrambi sobbalzarono sulle sedie dallo spavento, si guardarono negli occhi e non riuscirono a frenare un sorriso, che smorzò in qualche modo la tensione.

Senza distogliere lo sguardo da lei, Nathan domandò : “Ci può dare ancora qualche minuto?”

“Certamente, monsieur, tutto il tempo che desiderate” rispose in modo ossequioso e si dileguò all’istante, lasciandoli nuovamente soli.

“Non so tu, ma ti confesso che tutta questa situazione mi rende un po’ nervoso, tanto da non riuscire a capire nulla di quello che c’è scritto sul menù” dichiarò sinceramente Nathan. “Stana, io…”

“Non dire niente, non ancora” lo interruppe lei. L’uomo aggrottò la fronte, poi la donna sorrise e riprese: “Senti, concentriamoci su ciò che vogliamo ordinare e poi parliamo” Poi aggiunse, abbassando la voce con fare cospiratorio: “Quel cameriere dal passo felpato mi incute un po’ di soggezione. Non trovi?”

Gli occhi di Nathan risposero al suo sorriso ancora prima delle labbra. Ogni volta che le sue iridi azzurri incrociavano quelle verdi-castane della donna, si innamorava di lei un po’ di più. Annuì e le chiese: “Allora, cosa vorresti prendere? Mi hanno detto che i macarons à la framboise sono speciali… per quanto anche un pain au chocolat potrebbe essere interessante…” commentò con tono leggero, lasciando scorrere lo sguardo sul resto del menù.

“Mmmmh, il pain au chocolat è più adatto alla colazione. Meglio i macarons. Poi mi ispira molto questo café viennois…” disse la donna.

“Sì, hai ragione” convenne. “OK, allora vada per il café viennois e i macarons, magari ce ne facciamo portare di vario tipo, così facciamo un assaggio?” propose Nathan, sempre pronto a rendere onore alla pasticceria francese. L’argomento di conversazione futile permise loro di riprendere il controllo dell’ansia che aveva accompagnato entrambi a quell’incontro.

Non fecero in tempo a concordare cosa avrebbero ordinato che il cameriere invisibile si materializzò al loro tavolo, prese nota delle loro richieste e li lasciò di nuovo soli. L’agitazione si ripresentò, come una cappa pesante che schiacciò entrambi, tanto che nessuno dei due osava sollevare lo sguardo dalla preziosa tovaglia di fiandra.

Nathan si schiarì la gola e disse: “Senti, io… volevo solo dirti che… insomma, come stai?” Si era preparato un fantastico discorso nella sua mente, ma qualcosa evidentemente si doveva essere inceppato nel tragitto dal cervello alla bocca e le parole che erano uscite non assomigliavano nemmeno lontanamente a quello che le avrebbe voluto dire.

Stana sospirò: “Sto bene. E tu?” domandò, più per educazione che per reale interesse. Quella conversazione era stranamente formale, come se i due interlocutori fossero dei semplici conoscenti e non due persone che avevano camminato insieme per un lungo tempo, condividendo un progetto lavorativo importante e trascorrendo mesi l’uno accanto all’altra, per molte ore ogni giorno.

“Tutto bene” rispose, non sapendo in quale altro modo portare avanti il dialogo. Frustrato per la piega che stava prendendo quel pomeriggio, l’uomo esclamò di botto: “Sono stato al Louvre!”

“Sei andato al Louvre? Tu?!?!?” la donna non riuscì a mitigare il tono sorpreso. Poi, temendo di averlo offeso, cercò di rimediare: “No, aspetta… non mi fraintendere…”

“Tranquilla, il più stupito sono io!” ammise sinceramente Nathan. “Pensa che ho trascorso un’intera giornata dentro al museo. Dall’alba al tramonto. Non ho nemmeno pranzato. Ti giuro, non lo avrei mai pensato possibile!”

Stana sorrise di fronte alla sua espressione sconcertata. Le sue smorfie, le faccette e le battute che faceva durante le riprese erano uno dei motivi per cui era felice di recarsi sul set ogni giorno. Bè, tranne l’ultima stagione, si intende. Cercò di scacciare quel ricordo e mentre stava per aprire nuovamente bocca, lui riprese: “Ammetto però che pochi giorni prima di partire da Los Angeles avevo rivisto il film tratto dal bestseller di Dan Brown e… insomma… volevo osservare da vicino le opere di Da Vinci… pensavo addirittura di trovare l’Ultima Cena, ma poi mi sono informato meglio e so che è a Milano…”

“Sei diventato un esperto d’arte?” lo canzonò. “L’ho visto anche dalle immagini che mi hai mandato ieri”

“Non ho sbagliato pittore, vero?” le chiese, con un tono deliziosamente insicuro.

“No, assolutamente. Ho visitato proprio quel giardino che ha ispirato i quadri di cui mi hai inviato le foto” lo rassicurò. Poi gli chiese: “Che ci fai a Parigi, Nathan?”

Lui prese un profondo respiro e le confessò: “Non sto lavorando in questo periodo. Non ho avuto molti impegni da quando… sì, insomma, dopo Castle. Avevo bisogno di cambiare un po’ aria. E tu? Suppongo tu sia in pausa con le riprese di Absentia… ho visto che girate in Bulgaria”

“Sì, abbiamo uno stop di tre settimane e… bè, non avevo nessun motivo per tornare in America…” rispose, abbassando di nuovo lo sguardo per nascondergli le lacrime di dolore, solitudine, rabbia e frustrazione che le si formavano sempre negli occhi, ogni volta che pensava al suo matrimonio fallito.

A sua volta, Nathan non seppe cosa dirle. Stava per prenderle la mano, per poterle trasmettere almeno un po’ di conforto, quando il cameriere dal tempismo inopportuno si materializzò di nuovo al loro tavolo con un vassoio contenente le ordinazioni. Un’alzatina raccoglieva una profusione multicolore di macarons, dal verde pastello dei pasticcini al pistacchio al rosa di quelli al lampone, passando per il marrone dei dolcetti al cioccolato e terminando con l’avorio di quelli al gusto vaniglia, mentre le eleganti tazze in vetro dei café viennois mostravano la precisione dei vari strati di caffè, cioccolato e crema che costituivano quei capolavori del gusto.

Trascorsero oltre un’ora a chiacchierare del personaggio di Stana in Absentia, di quanto fosse impegnativo interpretarla, sia emotivamente sia fisicamente, viste le temperature rigide dell’inverno bulgaro. Ma come al solito si era gettata a capofitto nell’impresa e stava dando il meglio di sé. Discussero poi dei posti che avevano visitato entrambi a Parigi, della situazione politica in America dopo l’elezione del Presidente Trump, del surriscaldamento del pianeta Terra, dei film di animazione, di fisica quantistica, di architettura, degli impressionisti presenti al Musée d’Orsay, di architettura, del cinema europeo, di biologia molecolare, dei fiori che abbellivano il Jardin du Luxembourg, del disguido causato dalla consegna della busta sbagliata alla cerimonia degli Oscar di quell’anno, dei formaggi francesi e di quanto fosse inebriante il profumo delle baguette o dei croissant appena sfornati la mattina a colazione. Lasciarono il Procope all’imbrunire e si incamminarono verso l’albergo di Stana, continuando a parlare di tutto tranne di quello che era successo nell’ultimo anno che li aveva visti come coprotagonisti di una serie tv o della separazione da Kris. Si erano infilati in una bolla che separava e proteggeva entrambi dalla vita reale e nessuno dei due aveva voglia di uscirne.

Quando si trovarono davanti all’hotel, entrambi si resero conto che le ore erano trascorse furtivamente, senza che se ne accorgessero. Stana gli disse, un po’ imbarazzata: “Bè, Nathan, io sono arrivata…”

“Oh.. già” commentò. Non voleva ancora congedarsi da lei, ma non sapeva come prolungare quei momenti insieme. Sollevò lo sguardo e vide l’insegna. “Cosa significa maronnier?” le chiese, aggrappandosi a quel futile pretesto per continuare a starle accanto.

“Ippocastano. C’è un piccolo giardino sul retro dove faccio colazione ogni mattina e al centro c’è uno splendido albero” gli rispose sorridendo.

Non gli venne in mente altro da chiederle. Era giunto il momento della verità: doveva scusarsi con lei per il modo in cui l’aveva trattata e magari spiegarle anche il perché. Prese un respiro profondo e ancora una volta non seppe da dove cominciare, perché i suoi occhi si incatenarono a quelli della donna e i suoi meccanismi si incepparono, mentre pensieri e ricordi rimbalzavano nel cervello come biglie impazzite. Rimasero lì, in piedi, uno davanti all’altra, non sapendo bene se abbracciarsi, stringersi la mano, baciarsi appassionatamente o semplicemente andare ognuno per la propria strada. Baciarsi appassionatamente? Com’era possibile che quel pensiero si fosse formato nella mente di entrambi? Mentre Stana stava cercando di processare quell’istinto, Nathan le chiese a bruciapelo: “Ci vediamo domani? Una passeggiata insieme per vedere Parigi di giorno?”

Prima che il suo lato razionale la facesse riflettere sulla portata di quell’invito, gli rispose: “Certo, molto volentieri. Alle 9?”

La risposta positiva e immediata lo spiazzò, per cui impiegò qualche secondo a confermarle: “Alle 9 va benissimo” Dopodiché si ripresentò il problema dei saluti. Alla fine, in modo impacciato, si scambiarono un abbraccio veloce e si augurarono a vicenda sogni d’oro.

Appena arrivata nella sua stanza, Stana chiuse la porta e vi si appoggiò con la schiena, serrando gli occhi e cercando di rivivere con la memoria quello che era successo durante il pomeriggio. Le era sembrato di aver fatto un viaggio indietro nel tempo. Erano tornati ai primi anni della loro storia, a quando era facile e fantastico parlare di tutto e di nulla per ore, a quando flirtavano anche solo con uno sguardo. E poi tutto era finito, distrutto, raso al suolo, devastato come dopo un bombardamento a tappeto. Ed erano rimaste solo le macerie di quel rapporto meraviglioso che avevano condiviso all’inizio. Eppure… quel pomeriggio le aveva fatto credere che da quei rottami si potesse ricostruire qualcosa. O si stava solo illudendo? Non aveva voglia di cenare né di uscire a fare due passi, pertanto si mise comoda sul letto e prese il libro acquistato a Giverny. Ne scivolò fuori il bigliettino che le aveva regalato Rosalie pochi giorni prima. Osservò con attenzione i due innamorati che volavano su Parigi tenendosi per mano. La donna aveva lunghi capelli castani e lui un meraviglioso paio di occhi azzurri. Che l’universo stesse cercando di comunicarle qualcosa?

 

Nota dell’autrice

Lo so, sono un’inguaribile romantica… chi mi conosce da un po’ sa che il mio secondo nome è Pollyanna ;-)

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Grazie per avermi seguito fino qui!

Deb

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - A spasso per Parigi ***


Capitolo 7 – A spasso per Parigi

Alle 9 in punto era già davanti alla porta dell’Hotel du Marronier. In realtà era arrivato in zona almeno da una ventina di minuti, ma non voleva dare l’impressione di essere così disperato o voglioso di rivederla, quindi aveva finto di osservare con attenzione ogni porta, finestra, anfratto, cornicione, pietra o mattone degli edifici circostanti, sperando che nessuno degli abitanti lo prendesse per uno stalker o un terrorista in perlustrazione, alla ricerca del luogo perfetto per il prossimo attentato in nome dell’ISIS. Non sapeva nemmeno se fosse il caso di entrare in albergo e chiedere alla reception di madame Katic, pertanto optò per farsi trovare casualmente nelle vicinanze, appena lei avesse varcato la soglia.

Se possibile, era ancora più agitato del giorno prima. Le ore trascorse insieme avevano riacceso in lui la speranza di riportare quella donna nella sua vita a pieno titolo, ma gli avevano anche fatto comprendere che prima di poter anche solo ventilare l’ipotesi di conquistare il cuore di quella splendida creatura avrebbe dovuto supplicare il suo perdono per il modo meschino con cui l’aveva trattata. Se solo avesse saputo trovare il coraggio e le parole giuste…

Nel frattempo, Stana stava sbocconcellando un delizioso croissant, con lo sguardo fisso sul tavolo apparecchiato in modo semplice ma raffinato: madame Berger, la cui famiglia gestiva l’Hotel du Marronier da generazioni, poneva sempre grande attenzione ai dettagli e aveva resistito alla concorrenza delle altre strutture ricettive, più grandi e inserite nei circuiti più forti, affidandosi a una clientela affezionata e alla ricerca di un ambiente meno asettico e più accogliente. Le tazze e i piattini della colazione erano in ceramica, decorati con dei fiori di un rosa delicato. Le tovaglie di cotone immacolate avevano dei sobri ricami sui bordi e i tovaglioli inseriti nei cestini del pane parevano fatti apposta per esaltarne l’aroma. La proprietaria teneva in grande considerazione la qualità dei prodotti offerti ai propri ospiti: le marmellate provenivano da un negozio biologico del quartiere e dolci e croissant venivano consegnati quotidianamente da Jacques, il garzone della boulangerie all’angolo. L’insieme conferiva all’ambiente un’atmosfera elegante ma ospitale, nella quale Stana si era subito sentita a proprio agio.

Madame Katic, ça va?” le chiese Hélène, la cameriera che si occupava della colazione. Stana solitamente scambiava quattro chiacchiere con lei la mattina, ma quel giorno la sua aria meditabonda l’aveva allontanata dal pianeta Terra.

Oui, Hèlène, tout va bien. Sono solo un po’ distratta stamani” le rispose la donna, risvegliandosi dal torpore pensieroso nel quale era caduta e sorridendole.

Hélène la guardò con maggiore attenzione, come se avesse voluto sondarne l’anima. Si stava avvicinando alla sessantina e, facendo quel lavoro da tutta la vita, aveva incontrato migliaia di persone di ogni genere, provenienza, cultura ed estrazione. Questo le aveva permesso di sviluppare la capacità di leggere gli animi umani. Della donna seduta al tavolo, per esempio, aveva capito che c’era un dolore profondo che l’aveva colpita di recente, un lutto dal quale si stava riprendendo, perché comunque era dotata di uno spirito forte e combattivo. Ma doveva essere successo qualcosa il giorno prima, perché quella mattina sembrava scossa, anche se c’era un luccichio negli occhi che prometteva bene. Decise pertanto di non indagare ulteriormente e le chiese se desiderava ancora qualcosa da bere o da mangiare.

Non, merci, c’était tout très gourmand, mais ça suffit  Comment allez Vous, Hélène? Et Votre fille ?” le chiese con sincero interesse. Sua figlia Justine aveva sostenuto un colloquio di lavoro il giorno precedente presso un importante studio di commercialisti. Sorpresa che Stana se ne ricordasse, la cameriera le rispose che la ragazza aveva superato la prima selezione, ma che la faccenda era ancora lunga. Poi le augurò una buona giornata e nella sua mente aggiunse l’augurio silenzioso di seguire ciò che le aveva acceso quella luce nello sguardo.

Un’occhiata all’orologio le fece comprendere che era giunto il momento di apprestarsi ad uscire. Salì rapidamente in camera, terminò di prepararsi e scese di nuovo. Aveva il cuore in tumulto, come se fosse una liceale in attesa del ragazzo più figo della scuola che la accompagni al ballo di fine anno. Scosse la testa e si rimproverò ad alta voce: “Oh, andiamo, Stana, stai solo andando a fare due passi per la città con Nathan!” Per fortuna, era l’unica occupante dell’ascensore: quel soliloquio non era certo un segnale di sanità mentale.

Uscì dall’albergo e lo trovò dall’altro lato della strada. Il sorriso che si scambiarono cancellò in un attimo la lista delle ragioni per cui non presentarsi all’appuntamento che entrambi si erano inutilmente ripetuti. Ebbero la consapevolezza di trovarsi esattamente dove volevano essere.

“Buongiorno madame Katic, ha dormito bene?” le chiese Nathan, accennando persino un inchino.

“Buongiorno a Lei, monsieur Fillion, ho dormito benissimo e adesso sono pronta ad attraversare tutta Parigi a piedi. Pensa di poter tenere il mio passo?” Gli rispose in tono di sfida.

“La sua mancanza di fiducia nella mia resistenza fisica mi offende, mia cara signora. Sarò ben lieto di offrirle la cena se al termine di questa giornata sarò più stanco di lei” contrattaccò in modo giocoso, sperando di non aver esagerato: in fin dei conti, con quella specie di scommessa stava tentando di invitarla anche a cena.

On verra…” commentò lei cripticamente. Poi aggiunse con tono divertito: “Dove vogliamo andare?”

“Decidi tu, a me va bene qualsiasi cosa” le rispose. Dentro di sé avrebbe voluto aggiungere “purché stiamo insieme”, ma si fermò appena in tempo. Meglio non esagerare con le smancerie.

“Mmmhhh… per il momento c’è il sole quindi eviterei i musei. Che ne diresti di passeggiare lungo la Senna? C’è un’isoletta dietro Notre Dame dove non sono mai andata” gli propose.

“Aggiudicato!” rispose entusiasta, poi, con fare cavalleresco, le porse un braccio, affinché potesse camminare a braccetto con lui, e si avviarono. Attraversarono di nuovo il Jardin du Luxembourg e il Quartier Latin, i cui vicoli erano ancora sonnecchianti e privi della vivacità che li animava ogni sera. Nathan le disse che il suo albergo si trovava in una traversa della via che stavano percorrendo e gliene indicò l’insegna che si vedeva anche dal loro percorso. Non sembrava un hotel di lusso e questa considerazione colpì Stana: era una scelta non lui. Però poi fu distratta dalla visione degli altri edifici e non ci pensò più. Passarono vicino alla Sorbona e l’uomo pensò al suo amico Robert: più tardi gli avrebbe mandato un messaggio per salutarlo. Stana gli raccontò delle contestazioni studentesche del Sessantotto, che a Parigi si svilupparono proprio in quella zona, dove erano concentrate le maggiori istituzioni educative. Parlarono anche della chiesa di Saint Sulpice, uno dei luoghi del “Codice Da Vinci”, di cui lui era un grande fan.

Nathan si sentiva l’uomo più felice sulla faccia della terra. Stava andando in giro per Parigi accanto alla donna del suo cuore. Alla fine giunsero all’Ile-Saint-Louis: era una zona tranquilla, al di fuori dei circuiti turistici che inondavano di massa umana gli Champs Elysées, la place de Gaulle con l’Arc de Triomphe o la vicina Ile de la Cité, con la splendida cattedrale di Notre Dame, un gioiello architettonico meraviglioso eppure tristemente presidiato dall’esercito. Dopo aver ammirato alcuni palazzi nobiliari, decisero di fermarsi in un café a bere qualcosa e a riposare – nessuno dei due voleva ammetterlo, ma la lunga scarpinata cominciava a farsi sentire. Approfittando delle temperature tutto sommato piacevoli, si accomodarono ad un tavolino all’aperto e attesero il cameriere.

“Sembri conoscere molte cose su questa città, l’hai visitata altre volte?” le chiese, dopo aver sorseggiato il suo succo di frutta (da quando in qua Nathan Fillion si era trasformato in un salutista che ordinava succhi di frutta? Oh santo cielo, lui stesso ne fu così sorpreso da decidere di non porsi domande).

“Ci sono stata con la mia famiglia tantissimi anni fa: eravamo in Europa per fare visita ai nostri parenti in Croazia e avevamo colto l’occasione per fare una sosta in Francia. Ma ero ancora piccola e non ricordo molto. Poi ci sono tornata per For Lovers Only, ma sai com’è, quando si lavora non c’è mai troppo tempo libero. Ero riuscita comunque a ritagliarmi qualche ora per fare la turista…” gli rispose, evitando di guardarlo negli occhi ma lasciando vagare lo sguardo sui meravigliosi edifici di quell’angolo insolito di quiete, situato a due passi dal cuore della capitale francese.

Al sentire il titolo di quel film, il cervello di Nathan associò immediatamente il volto di Polish e un moto di gelosia si formò nel suo animo. Che poi, diciamocelo, che diritto aveva ad essere geloso di Stana? Nessuno. Anzi, doveva solo ringraziare il cielo che quella creatura straordinaria gli permettesse di trascorrere qualche ora alla sua presenza, visto come l’aveva trattata un anno prima. Già, ancora non si era scusato con lei…

Quel fluire di considerazioni fece scendere il silenzio fra i due, tanto che Stana smise di guardare l’architettura parigina e si concentrò sull’uomo seduto di fronte a lei, il quale a sua volta aveva lo sguardo perso verso un punto imprecisato del tavolo, come se fosse ad anni luce di distanza da quel luogo. Per la prima volta da tanto tempo, la donna si concesse il lusso di osservarlo con attenzione. Era invecchiato, indubbiamente: qualche ruga gli solcava la fronte e forse un paio di capelli bianchi spuntavano nel suo ciuffo biondo. Aveva anche messo su diversi chili rispetto a quando si erano incontrati a quel provino per il pilot, nove anni prima. Ma era ancora un uomo molto, molto affascinante. E c’era qualcosa nei suoi occhi che le sarebbe piaciuto approfondire. Un momento, era attratta da Nathan? No, non poteva essere. Loro due avevano un passato, un bel bagaglio pesante, e poi stava uscendo da un divorzio. Andiamo, l’inchiostro sui documenti era ancora fresco, non poteva certo impelagarsi in un’altra storia, non adesso, non ancora, non con lui… Ma era inutile proiettarsi questo film nella testa: lui non aveva sentimenti romantici per lei. Altrimenti non l’avrebbe trattata tanto male nell’ultimo periodo in cui avevano lavorato insieme.

Nathan parve risvegliarsi dal torpore in cui era sprofondato, scosse la testa come a voler scacciare un pensiero poco piacevole e incrociò lo sguardo della donna, che subito lo distolse, temendo di rivelargli una parte del suo cuore. Un passo che non era certo pronta a compiere.

Mentre stavano entrambi per aprire bocca, il cellulare di Stana squillò.

“Scusami, lo metto subito in modalità silenziosa” gli disse, mortificata, mentre rovistava nella borsa alla disperata ricerca del telefonino, che sembrava voler giocare a nascondino con lei.

“Non ti preoccupare, anzi, rispondi, potrebbe essere importante!” la esortò.

Quando finalmente lo individuò, al vedere il nome sul display, un sorriso le si disegnò sul volto. “Un attimo solo, Nate” gli disse alzandosi e allontanandosi dal tavolo per ritagliarsi un po’ di privacy e poter parlare al telefono in tranquillità, senza disturbare gli altri avventori del locale. Vicino al bar c’era un piccolo giardino con delle panchine: ne raggiunse una e si sedette.

Nathan adorava il sorriso di quella donna, gli sembrava che illuminasse tutto ciò che la circondava, ma avrebbe voluto essere lui il solo artefice di quella meraviglia. E invece chissà chi era ad averlo scatenato. Non quel Polish, accidenti. O magari il suo ex marito? Nah, non sembrava che si fossero lasciati di comune accordo, anzi, pareva proprio che ce l’avesse con lui. Mmmmmhh, stava continuando a sorridere… forse si trattava di qualche nuovo collega, conosciuto sul set di Absentia? Bè, non era un’ipotesi da escludere. Anche loro due si erano incontrati per lavoro. Sì, e guarda un po’ com’erano finiti… un momento, osservando il labiale capì che non stava parlando inglese… che Kris fosse tornato alla carica? Caspita, questa proprio non ci voleva.

Non la perse di vista un secondo, nemmeno fosse uno stalker paranoico. Ma appena la vide chiudere la telefonata e dirigersi di nuovo verso di lui, fece finta di essere in piena contemplazione del palazzo di fronte.

“Era mia madre” dichiarò.

“Ah, ok. Comunque non ti avevo chiesto nessuna spiegazione” le disse, cercando con scarsi risultati di contenere la gioia scaturita da quella rivelazione.

“Sì, certo” commentò, alzando gli occhi al cielo e trattenendo un sorriso. “Senti, cosa facciamo adesso?” gli chiese per cambiare discorso e per non mostrargli quanto le avesse fatto piacere lo sguardo geloso che le aveva rivolto durante tutta la telefonata. Le sembrava quasi che gli occhi di lui le avessero lasciato un segno sulla pelle.

Nathan osservò le nuvole minacciose che si stavano ammassando all’orizzonte. “Dovremmo trovare un luogo al chiuso, temo stia per piovere. Vuoi andare in qualche museo?” le suggerì.

“Che ne dici invece di Shakespeare and Company? Non è lontanissima da qui e mi farebbe davvero piacere visitarla. E’ un luogo mitico!” gli propose entusiasta.

“Ehm… OK…” rispose titubante.

“Nathan, non dirmi che non sai cos’è Shakespeare and Company! L’utopia socialista mascherata da libreria!” gli disse spalancando gli occhi per lo stupore.

“Mi hai beccato, non ho idea di cosa sia. Ma sono contento che sia tu ad aiutarmi a colmare questa lacuna. Dai, avviamoci prima che il tempo peggiori. Strada facendo mi parlerai della nostra destinazione, così che io possa arrivare preparato”

Fedele alla richiesta rivoltale dal suo compagno di viaggio, Stana gli raccontò di Sylvia Beach, che nel 1919 aveva fondato quello che poi sarebbe diventato il centro della cultura angloamericana a Parigi. Gli parlò della fine di quell’epoca, quando la libreria venne chiusa in seguito all’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale, e del secondo tentativo, portato avanti dieci anni dopo da George Whitman e poi da sua figlia. Parlarono di Joyce che usava quel luogo come proprio ufficio, della Beat Generation e della peculiarità della libreria, che offriva tuttora posti da dormire a scrittori squattrinati in cambio di alcune ore di lavoro fra gli scaffali, alla promessa di leggere un libro al giorno e di scrivere una pagina autobiografica sul diario del negozio, fedele al motto Be not inhospitable to strangers, lest they be angels in disguise. Nathan pendeva letteralmente dalle sue labbra. Adorava la sua cultura, l’entusiasmo che riversava in tutto ciò che faceva, la sua gioia di vivere.

Giunsero in rue de la Bucherie quando cominciava a scendere una deprimente pioggerellina e si rifugiarono nei locali della libreria. Si respirava letteratura in ogni angolo. Sfortunatamente non erano gli unici visitatori, ma dopo aver gironzolato un po’, trovarono un divanetto sul quale accomodarsi e immergersi nella lettura. Stana aveva ragione: era davvero un luogo mitico, nel quale il tempo sembrava essersi fermato. Guardandosi intorno, Nathan comprese il motivo per cui lei aveva spinto per visitarlo. Grazie all’influenza di quella donna, stava diventando un uomo migliore. Confortato da questa consapevolezza, aprì il libro che aveva preso e si dedicò a quello. A sua volta, Stana si sentiva in perfetta armonia con ciò che la circondava, incluso il suo ex collega seduto accanto a lei. Era stata felice di averlo trascinato in quel posto e di avergliene potuto raccontare la storia. E l’aveva stupita, piacevolmente, il sincero interesse che lui le aveva dimostrato. Questa nuova versione 2.0 di Nathan Fillion diventava sempre più intrigante. Anzi, fastidiosamente irresistibile. Mannaggia a lui.

Ad un certo punto, lo stomaco di Nathan iniziò a mandare segnali inequivocabili. Entrambi sollevarono lo sguardo dai propri volumi e si misero a ridere. Poi lui guardò l’orologio e si accorse, con grande sorpresa, che erano già le quattro del pomeriggio.

“Non so più se invitarti a pranzo, a prendere un caffè o a cena, a questo punto” le disse sottovoce, divertito e stupito da quanto fosse volato il tempo.

“Avevamo una scommessa in ballo, monsieur Fillion… deduco che tu stia ammettendo la sconfitta e che tu sia dunque più stanco di me?” gli rispose sussurrando con un lampo malizioso negli occhi e inarcando un sopracciglio.

“Oh, tu non sai quanta energia avrei ancora…” replicò in modo allusivo, tanto che a Stana si contrasse lo stomaco e non riuscì a non mordersi il labbro inferiore. Poi, felice di aver scatenato quella reazione, decise di ritornare nel terreno neutro dell’amicizia e continuò con quel suo tono di voce profondo: “Ma mio padre mi ha insegnato ad essere un gentiluomo e, in quanto tale, non posso permettere ad una bella signora di pagare. Mi faresti dunque l’onore di mangiare qualcosa con me, così che il mio stomaco non ci metta di nuovo in imbarazzo?”

Stana annuì sorridendo e, dopo essersi alzato, le porse la mano per aiutarla a sollevarsi dal divanetto. Restituirono i libri che avevano preso in prestito, pagarono quelli che avevano deciso di acquistare e uscirono dalla libreria, in cerca di un posto in cui rifocillarsi, stringendo ognuno la classica borsa di tela con il logo di Shakespeare and Company – kilometer zero Paris.

Per fortuna aveva smesso di piovere, così ne approfittarono per sgranchirsi un po’ le gambe e ingannare  il tempo prima di arrivare all’ora di cena. Avevano infatti optato per concedersi direttamente il pasto della sera, senza rovinarlo con qualche spuntino. Mentre camminavano in un confortevole silenzio, passarono davanti a un delizioso ristorante. L’insegna diceva “Le temps des cerises” e dalla finestra si potevano vedere dei tavoli graziosamente apparecchiati con le tovaglie a quadretti bianchi e rossi. Si scambiarono uno sguardo di approvazione e decisero immediatamente di entrare.

 

Nota dell’autrice

La passeggiata diurna per Parigi li porta a visitare altri luoghi speciali: spero che anche a voi il tour sia piaciuto! Il ristorante Le temps des cerises, in cui andremo nel prossimo capitolo, appartiene a Nicolas Barreau.

Grazie per avermi regalato il vostro tempo arrivando fino qui,

Deb

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Le temps des cerises ***


Capitolo 8 – Le temps des cerises

Vista l’ora, il locale era ancora deserto, ciononostante l’atmosfera che si respirava era molto accogliente e il profumo che giungeva dalla cucina troppo irresistibile per i loro stomaci affamati. La cameriera che stava finendo di sistemare i tavoli gli rivolse un sorriso gentile che si allargò ancora di più alla richiesta di Nathan se avevano posto per due. Aveva infatti capito che erano stranieri, ma la pronuncia quasi perfetta dell’uomo l’aveva messa subito di buonumore. Eh sì, da buona francese era sempre felice di vedere che gli ospiti si sforzavano di esprimersi nell’idioma nazionale. Li invitò pertanto ad accomodarsi dove volevano e, una volta scelto un tavolo un po’ appartato, portò loro i menù e sparì in cucina.

“Questo posto è adorabile!” commentò Stana guardandosi intorno e osservando con attento interesse l’allestimento della stanza.

“Ehm.. sì… vero. Adesso però pensiamo a nutrirci” rispose Nathan in modo pragmatico, senza sollevare lo sguardo dall’elenco, assai promettente, delle prelibatezze che quel piccolo ristorante sembrava poter offrire.

“Nate, così uccidi la poesia!” lo rimbrottò bonariamente la donna, ma quando anche il proprio stomaco volle intervenire nella diatriba dovette arrendersi e concentrarsi sul soddisfare i bisogni primari. Ci sarebbe stato tempo, più tardi, per studiare con attenzione il locale.

Dalla cucina uscì un’altra donna, che si avvicinò al loro tavolo e si presentò: “Buonasera, sono Aurélie Bredin e sono felice di darvi il benvenuto nel mio ristorante. Posso prendere la vostra ordinazione?”

“Per me une salade de chèvre chaude, per favore” chiese educatamente Stana.

“E per lei signore?” disse Aurélie rivolgendosi a Nathan. Quando lui sollevò lo sguardo verso di lei per comunicarle la sua scelta e i loro occhi si incrociarono, Aurélie trasalì e impallidì, come se avesse visto un fantasma.

Madame, tutto bene?” si informò Nathan, stupito da quella reazione.

“Sì, mi scusi, è che i suoi occhi e il suo sorriso mi ricordano una persona che pensavo di conoscere e invece era tutta una finzione. Sa, era uno scrittore inglese che aveva ambientato parte del suo romanzo in questo posto, poi invece è venuto fuori che a scrivere quel libro era stato un francese, però mi aveva fatto credere che la storia non fosse sua bensì di quell’inglese che invece era solo un dentista. Oh il vero autore è una persona deliziosa a dir la verità, l’ho persino sposato, però…” farfugliò Aurélie. Poi si schiarì la gola, consapevole di poter passare per una pazza che parla a vanvera e infastidisce i clienti, e continuò in modo professionale ma cortese: “Oh, scusatemi, non vi volevo tediare. Cosa desidera ordinare?”

“Prenderò il bœuf bourguignon, grazie” le rispose, corrugando la fronte e decidendo poi di non indagare oltre per non mettere in difficoltà quella poveretta. Anche se dovette ammettere che la storia che aveva accennato sembrava intrigante e non gli sarebbe dispiaciuto saperne di più.

“Posso portarvi del vino? Magari del rosso?” chiese la proprietaria del ristorante e, alla loro risposta affermativa, si congedò da loro e fuggì in cucina, dalla quale decise non sarebbe più uscita per almeno una settimana. Anzi, facciamo fino a Natale.

“Bè, hai sempre un grande effetto sulle donne” lo canzonò Stana appena madame Bredin si allontanò da loro.

“Non su tutte, per mia sfortuna…” rispose lui, evitando di guardarla negli occhi. “Piuttosto, affascinante la storia di quella libreria dove siamo stati oggi, vero?” continuò, spostando la conversazione su un argomento decisamente meno intimo e compromettente.

Chiacchierarono in modo amabile per qualche minuto, finché la cameriera, quella che stava sistemando i tavoli al loro arrivo, portò loro le pietanze ordinate e entrambi ci si tuffarono, intervallando i bocconi con grandi apprezzamenti per il cibo che stava deliziando le loro papille gustative. La cucina francese sapeva regalare grandi soddisfazioni, con i sapori avvolgenti delle sue salse, la spinta fornita dalle spezie e dalle erbe aromatiche e l’ottima qualità delle materie prime. Spazzolarono in breve tempo il contenuto dei loro piatti e optarono entrambi per una crêpe Suzette come dessert.

Un uomo uscì dalla cucina e si avvicinò al loro tavolo, presentandosi come Jacquie, il cuoco. Sbucciò a vivo le arance sotto i loro occhi, le tagliò a fette, aggiunse il Grand Marnier alle crepes e lasciò divampare le fiamme per qualche minuto nella padella di rame, con un grande effetto scenografico che colpiva sempre i clienti. Stana osservò rapita i gesti eleganti e sicuri di quella liturgia, mentre l’uomo al tavolo con lei si concentrò su quanto fosse diventato luminoso il volto della donna davanti a quel gioco e capì di essere ormai un caso disperato. Ci doveva essere qualcosa nell’aria di Parigi. Forse le sue particelle contenevano gli ingredienti segreti dell’amore? Qualunque fosse la ragione, di una cosa era ormai certo: era perdutamente e irrimediabilmente innamorato di lei.

Altri commensali raggiunsero il ristorante, ma trattandosi di un giorno feriale l’atmosfera rimase raccolta e piacevole: il servizio era impeccabile e l’ambiente era arredato con semplicità e raffinatezza. I piatti che avevano gustato, poi, erano stati davvero eccellenti. E non solo perché entrambi stavano morendo di fame! In breve terminarono la loro cena ed uscirono dal locale. Stana si offrì di pagare la sua parte, ma Nathan fu irremovibile: disse che suo padre non gliela avrebbe mai perdonata se non si fosse comportato da cavaliere. Ripresero a camminare nella direzione dell’hotel di Stana, ancora a braccetto come avevano fatto per gran parte della giornata, parlando del più e del meno, in un clima di grande serenità e complicità. Ripercorsero molti aneddoti avvenuti durante le riprese, passando da un “ti ricordi quella volta che Seamus….” a “e poi, quando stavamo girando quella scena, Jon e Tamala hanno cominciato a ridere e non c’è stato verso di portare avanti la registrazione…” Avevano lavorato insieme per tanti anni, come un gruppo affiatato e coeso. Esclusa l’ultima stagione, naturalmente. Lì tutto era precipitato. Al riemergere prepotente e doloroso di quel ricordo, Stana si fermò all’improvviso, gli si parò davanti e disse: “Perché non può essere sempre così?”

“Così come?” le chiese Nathan, perplesso, anche se temeva di aver capito benissimo a cosa si stesse riferendo.

“Perché non siamo riusciti a mantenere questo rapporto anche negli ultimi mesi in cui abbiamo lavorato insieme?” gli domandò a chiare lettere, non schiodando gli occhi da quelli dell’uomo. Quel tarlo le stava mangiando l’anima da troppo tempo e i giorni trascorsi insieme a Parigi, nei quali Nathan era stato meraviglioso nei suoi confronti, le avevano creato ancora più confusione, portandola a credere che lui avesse una pericolosissima, seppur affascinante, doppia personalità.

Nathan sospirò. Il momento tanto temuto era arrivato. Doveva dirle la verità. O almeno una parte. Glielo doveva. “Ehm… sì… hai ragione. E’ colpa mia, Stana, è solo colpa mia. Tu… non hai niente da recriminarti. Io, invece… lo so, sono stato un lurido bastardo… e non capisco come tu mi abbia permesso di starti accanto in questi giorni… però, credimi, sono felicissimo che tu sia stata così generosa con me... non pensavo che Parigi mi avrebbe regalato tanti momenti splendidi in tua compagnia… non me li meritavo proprio… ma vedi… io…”

Stana abbassò lo sguardo, infastidita da quel farneticare senza senso che lui le stava propinando e determinata a giungere in fondo a quella storia. Prese un respiro profondo e, senza sollevare la testa, gli domandò a bruciapelo: “Perché mi hai trattato così male?” Fece una piccola pausa, confidando in una reazione da parte dell’uomo, che invece rimase in silenzio, così riprese, tentando di controllare il tremito della voce: “Nate, accidenti, mi hai ferito! Nemmeno tu mi considerassi il tuo peggior nemico! Gli ultimi mesi sul set sono stati un inferno! Sai quante volte ho pianto per il modo in cui ti rivolgevi a me?”

“Mi… mi dispiace davvero… non posso rinnegare quello che è stato, ma non sono certo fiero di me. E’ che… tu eri… avevi tutto quello che volevo. Sul set tutti ti stimavano, ti eri appena sposata, la tua casa di produzione andava alla grande, avevi raggiunto tutti gli obiettivi e io invece… lo so, è stato un comportamento infantile. Mi mollerei un ceffone se servisse a qualcosa. Però, credimi, non sono più così, Stana. Io… non vorrei mai che tu stessi male per causa mia.” Con l’indice le sollevò il mento, cercando di incrociare il proprio sguardo con quello della donna di fronte a lui. Si trovavano in una strada poco illuminata, ma sperò con tutto il cuore di riuscire a farle vedere la sua, almeno parziale, sincerità. Non era ancora pronto, infatti, a dirle qual era la vera ragione per cui l’aveva trattata tanto duramente l’anno prima. “So di chiederti tanto, ma ti prego, prova a perdonare quell’imbecille e pensa all’uomo nuovo che hai davanti adesso. Quello che è persino andato al Louvre, e a cui è piaciuto tanto da starci dentro una giornata senza nemmeno accorgersene! Vorrà pur significare qualcosa, no?” aggiunse, per cercare di sdrammatizzare la situazione, spostando la mano fino ad accarezzarle teneramente una guancia. Facendo quel movimento, il pollice le sfiorò le labbra e si dovette imporre di non pensare neanche lontanamente a quanto dovesse essere meraviglioso poterla baciare.

Il tempo sembrò cristallizzarsi, mentre il cuore di entrambi batteva all’impazzata, da una parte alla ricerca di un immeritato perdono e dall’altra in bilico fra la voglia di credere al cambiamento e il dubbio che, un domani, lui avrebbe potuto infliggerle di nuovo quel dolore.

“Non lo so, Nathan… in questo momento non so cosa pensare. Non hai idea di come sia stato difficile portare a termine le riprese. E non era niente in confronto a quello che mi è successo dopo, con la storia di Kris… io… ho bisogno di tempo” sussurrò, abbassando di nuovo il volto.

L’uomo allontanò la mano dal viso di lei e sospirò, con un misto di delusione, tristezza e consapevolezza di non meritarsi altro che disprezzo per come erano andate le cose. Poi le disse: “Andiamo, ti accompagno in albergo”

Stana annuì e per il resto del tragitto nessuno dei due aprì bocca né sfiorò l’altro. Si salutarono con un cenno del capo, senza alcuna promessa di rivedersi il giorno successivo e senza augurarsi nemmeno buonanotte.

 

Dopo una notte di sonno agitato e inquieto, Stana decise di recarsi nel negozietto di Rosalie. Non sapeva perché sentisse il bisogno di aprirsi proprio con lei: in fin dei conti, avevano solo preso un tè insieme e chiacchierato per un po’ di tempo. Eppure, qualcosa dentro di lei le diceva che quella donna avrebbe potuto comprenderla e aiutarla a dipanare il groviglio di sensazioni che albergavano nel suo cuore.

Appena arrivata davanti al piccolo laboratorio dei desideri, Stana la scorse dietro il bancone, mentre serviva un cliente. La campanella della porta ne annunciò l’ingresso, sottolineato dal borbottio del cane accovacciato nella cesta proprio accanto all’uscio e Rosalie le rivolse un sorriso sorpreso ma sincero e accogliente, che la rassicurò: era nel posto giusto. Gironzolando nella minuscola cartoleria, Stana non volendo ascoltò parte della conversazione fra la sua nuova amica e l’acquirente.

“Allora, monsieur, come posso esserle d’aiuto?” gli chiese gentilmente la proprietaria del Luna Luna.

“Vede, madame… ho avuto un incarico professionale a Parigi, ma mia moglie è rimasta in Provenza insieme a nostra figlia Mathilde di due anni e a me mancano entrambe tantissimo… ci vediamo via Skype ogni giorno, ma comprenderà bene che non è la stessa cosa…” le spiegò brevemente.

Rosalie lo osservò per un breve momento e percepì la profonda nostalgia dell’uomo per la propria famiglia e la terra di origine. Nella sua mente si dipinse un paesaggio di lavanda, nel quale un uomo, una donna e una bambina correvano nel sole tenendosi per mano, mentre una nuvola nel cielo azzurro riportava “questa mattina mi sono svegliato e avrei voluto essere lì”, scritto con una delicata calligrafia in corsivo. Annuì a sé stessa e gli disse: “Sarà pronto domani, monsieur. Si fidi di me!”

Il cliente la guardò con attenzione e poi decise che valeva la pena riporre la propria fiducia in quella bella persona davanti a lui. Si congedò da lei e uscì dal negozio.

“Sono impressionata!” le disse Stana, con sincera ammirazione.

“Faccio solo il mio lavoro” le rispose Rosalie, modesta. Poi aggiunse: “Sono contenta di vederti, come stai?”

Stana prese un sospiro profondo e le rispose: “Posso dirti che non lo so? Vedi, io sono sempre stata una donna forte. Però… certi giorni proprio non ho voglia di essere una roccia.” Rosalie annuì e commentò: “La fragilità è un sacrosanto diritto, amica mia”. Approfittando della mancanza di clienti, Stana le raccontò degli ultimi giorni, dell’incontro fortuito al cinema, del delizioso pomeriggio al café Le Procope, di quanto fosse stato bello, naturale, piacevole, giusto chiacchierare per ore senza nemmeno rendersi conto del tempo che passava, dell’intera giornata che avevano trascorso insieme e di quello che lui le aveva detto la sera precedente. Ma le spiegò anche come erano andate le cose quando avevano lavorato insieme e le accennò anche alla storia che avevano avuto in passato. “Insomma, non vorrei continuare a rincorrere emozioni per poi finire a collezionare cicatrici” concluse con un sospiro addolorato.

Rosalie la ascoltò con pazienza e con autentico interesse, guardandola negli occhi per cercare di leggere anche quello che la sua amica non diceva a parole, per pudore o perché lei stessa non lo aveva ancora compreso. Al termine di quel fiume di ricordi e sensazioni, la proprietaria della cartoleria dei desideri le disse soltanto: “Se riconosci che è cambiato, lascia la rabbia dietro di te e concentrati sul presente”

Un debole sorriso spianò l’espressione corrucciata di Stana. Poi si rattristò di nuovo e disse: “Sai, Rosalie, una parte del mio cervello continua a ripetermi che non ci si può fidare di Nathan. E temo che in questo momento non ci sia da fidarsi tanto nemmeno di me stessa... la ferita per la separazione dal mio ormai ex marito è ancora troppo recente e io mi sento vulnerabile.”

La proprietaria della cartoleria annuì comprensiva, poi le chiese: “Cosa pensi di fare adesso? Lo rivedrai?”

L’attrice scrollò le spalle e rispose: “Non lo so. Non ci siamo dati nessun appuntamento. Ho ancora dieci giorni di vacanza prima di ritornare in Bulgaria per ricominciare le riprese, vorrei trascorrerli nel modo migliore, senza ulteriori fonti di stress…”

Una cliente interruppe la loro chiacchierata e prima che Stana se ne andasse, Rosalie scrisse il proprio numero di cellulare su un delizioso bigliettino azzurro ortensia e le ordinò: “Chiamami per qualsiasi cosa, ok? Anche solo per bere un café crème insieme. Mi farebbe piacere!”

L’attrice annuì, riconoscente, e la lasciò al suo lavoro.

 

Nota dell’autrice

Aurélie e Jacquie appartengono a Nicolas Barreau: io li ho solo presi in prestito, con tutto il ristorante, prelibatezze incluse! Per Stana e Nathan siamo a una (parziale) resa dei conti. Spero che continuerete a leggere per sapere come va a finire!

Grazie per avermi regalato il vostro tempo arrivando fino qui,

Deb

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Un nuovo ingaggio ***


Capitolo 9 – Un nuovo ingaggio

Tre giorni.

Era in silenzio stampa da tre giorni.

Non l’aveva più sentita da quella sera. Del resto, lei gli aveva detto di avere bisogno di tempo e lui non poteva far altro che concederglielo, nonostante non riuscisse a darsi pace per quello che era successo, ma consapevole di non avere nessun altro da considerare colpevole se non sé stesso e il suo comportamento dell’anno precedente. Con quel suo atteggiamento da gran bastardo aveva rovinato i rapporti con tutti gli altri membri del cast e aveva provocato troppo dolore nella sua coprotagonista per sperare che le cose con lei potessero prendere una piega diversa, anche se quei giorni trascorsi insieme a Parigi gli avevano fatto credere nella possibilità di un miracolo. Ma il passato non si cambia e prima o poi i nodi vengono al pettine.

Non aveva osato mandarle nemmeno un messaggio con un emoji. Non sapeva se ce ne fosse uno che potesse rappresentare il suo stato d’animo. Forse le due mani giunte, per pregarla di perdonarlo? No, troppo poco. Avrebbe avuto bisogno dell’icona di una faccina che si prende a schiaffoni da sola. O a sonori calci nel sedere, ben assestati.

Aveva provato anche a contattare Robert, ma il suo amico professore aveva un’importante conferenza su Shakespeare da preparare e in quei giorni non si poteva concedere nemmeno la pausa pranzo. Gli aveva però promesso che lo avrebbe invitato a cena da lui e da sua moglie appena terminato il convegno e lui aveva accettato con gratitudine quella proposta. Era felice di aver conosciuto una così bella persona ed era curioso di incontrare quella francesina testarda ma adorabile di cui Shermann gli aveva parlato. Gli impegni professionali del suo nuovo amico, però, gli avevano fatto prendere consapevolezza, ancora una volta, della sua condizione: mentre tutto il mondo aveva cose da fare, compiti da eseguire, obblighi e scadenze da rispettare, di fatto lui era un disoccupato. Un disoccupato di lusso, naturalmente, ma pur sempre un nullafacente. E la faccenda cominciava a inquietarlo.

Il primo giorno aveva girovagato per Parigi senza meta, rifiutandosi di prendere la metropolitana e camminando fino a stordirsi dalla stanchezza. Aveva cercato di apprezzare l’esplosione primaverile della natura rigogliosa presente nei parchi della città, nonostante un vento sferzante che gli faceva lacrimare gli occhi e dolere la testa, ma i suoi pensieri andavano tutti nella stessa direzione e gli impedivano di godere della meraviglia della Ville Lumière.

Il secondo giorno si era svegliato con una pioggerellina insistente che non invitava certo a uscire e aveva trascorso un po’ di tempo su internet, controllando la posta alla ricerca – infruttuosa – di eventuali contatti di lavoro o comunicazioni dal suo agente e curiosando sui profili social dei suoi ex colleghi e amici. Da quando era in Francia si era eclissato dai vari instagram, twitter e compagnia, e dovette ammettere di non sentirne poi la mancanza così tanto come pensava. Si era poi immerso nella lettura di “On the road”, il romanzo autobiografico di Kerouac che aveva acquistato a Shakespeare & Company. Crescendo con due genitori insegnanti, da bambino e da adolescente aveva letto tantissimi libri, ma da quando aveva iniziato a recitare, la carta stampata cui dedicava la sua attenzione era quella dei copioni, focalizzandosi sull’immedesimarsi in personaggi diversi da sé e sul memorizzare battute. Adesso invece gli era tornata la voglia di tuffarsi nel mondo della letteratura e partire sulle ali della fantasia. Proprio per l’importanza della cultura, trasmessagli dai genitori, era stato entusiasta del progetto Kids need to read, che aveva co-fondato anni prima. Quella giornata uggiosa gli permise di dedicare un po’ di tempo all’associazione, contattando alcune delle persone che la gestivano e ringraziandole per il prezioso supporto. Era sempre più convinto che l’istruzione fosse la chiave di volta per un mondo migliore e con la sua organizzazione no profit voleva contribuire, seppur minimamente, a questo ideale, fornendo libri alle scuole e alle istituzioni più disagiate, con un occhio particolare verso i ragazzi svantaggiati. Visto che l’anno dopo avrebbero festeggiato il decennale dell’attività, decise che, una volta rientrato negli Stati Uniti, avrebbe cominciato a studiare il modo più adatto per celebrare quel traguardo importante.

Il terzo giorno aveva inizialmente pensato di recarsi a Versailles per visitarne la splendida reggia e i bellissimi giardini, ma una segreta speranza che albergava nel suo cuore lo aveva fatto desistere: avrebbe tanto voluto andarci con lei. Aveva dunque ripiegato sul Centre Pompidou, di cui aveva ammirato non solo l’architettura, ma anche la parte dedicata alla fotografia e alle opere multimediali, e su un po’ di shopping. La sera della stessa giornata decise di ritornare al Cinema Paradis, con la vaga illusione di incontrarla di nuovo. Sapeva di non meritarsi niente, ma non riusciva a rinunciare all’opportunità di vederla ancora una volta. Confidava che il destino fosse dalla sua parte.

Giunto davanti al piccolo cinematografo, vide la locandina di “Sérenade à trois” di Ernst Lubitsch, un film americano ambientato a Parigi risalente agli anni Trenta del secolo scorso, con Gary Cooper e altri attori che non conosceva. Ne cercò la trama su internet e si preparò a un tuffo nel passato, tenendo le dita incrociate affinché anche a Stana fosse venuta la stessa idea.

Dopo aver acquistato il biglietto, si recò verso la platea e prese posto più o meno nella stessa poltroncina di velluto su cui si era seduto in occasione del loro primo incontro. Come molti attori, anche lui aveva le sue scaramanzie.

Durante l’ora e mezzo della pellicola si distrasse più volte, lasciando vagare lo sguardo nell’oscurità della sala, alla disperata ricerca del suo profilo, ma niente. Non c’era andata. Forse era rimasta in albergo… “Forza Nate, sii uomo: prendi il coraggio a due mani e chiamala” si incitò mentalmente. Era finito il tempo dell’autocommiserazione: ora bisognava agire. La doveva riconquistare.

Uscito dal cinema, si allontanò di qualche passo per avere un minimo di privacy, ripescò il cellulare dalla tasca del giaccone e trovò tre chiamate senza risposta di Paul. Del suo agente. Ne rimase così sorpreso che continuò a osservare il display inebetito per qualche secondo poi si scosse da quel torpore e incrociò le dita, sperando che non si trattasse solo di una telefonata di circostanza. Stava per selezionare il nome per richiamarlo quando Paul lo ricontattò per la quarta volta. Non fece in tempo a rispondere che venne invaso da un fiume in piena: “Nathan Christopher Fillion, dove caspita sei finito? Non pubblichi più foto o aggiornamenti sui tuoi profili, non rispondi nemmeno al telefono, benedetto uomo ti sei dato all’eremitaggio?”

“Ehy amico, calmati… sono appena uscito dal cinema” tentò di difendersi.

“Cos’è, vai al cinema all’ora di pranzo? Ma che cappero ti è successo? Ti sei trasformato in un vecchio pensionato?” sbraitò Paul.

“No, veramente qui sono le dieci e mezzo di sera… sono in Europa” spiegò Nathan.

“E cosa ci fai nel vecchio continente? Anzi, guarda, non me lo dire. Non lo voglio nemmeno sapere. Piuttosto, ascoltami bene. Ci sono novità, amico. Grandi novità. Un ruolo da protagonista in una nuova serie tv della ABC. Sarà una bomba!” esclamò eccitato l’agente.

“Fantastico, Paul! Di cosa si tratta?” chiese interessato l’attore. Finalmente le cose cominciavano a girare per il verso giusto!

“Ti mando maggiori dettagli via mail. Hai la possibilità di controllare la posta elettronica o sei sperduto in qualche paesino di campagna, magari in dolce compagnia?” domandò sarcastico prima di aggiungere: “Se serve, ti spedisco un piccione viaggiatore”.

“Sono in una grande capitale europea, Paul” precisò Nathan, tralasciando la parte relativa ad un’eventuale accompagnatrice e confidando che il suo agente fosse troppo impegnato a fargli fare soldi con nuovi ingaggi, e a pregustare la sua lauta percentuale,  per avere voglia di impicciarsi della sua vita privata.

“Si vabbè. Ti saluto, amico, ci sentiamo nei prossimi giorni. Fatti trovare quando ti chiamo!” gli intimò Paul. Era suo agente da tanti anni e sapeva fare bene il suo lavoro, ma non era certo la persona più empatica del mondo, né poteva considerarlo il suo migliore amico.

Conclusa la telefonata gli si aprì un sorriso sul volto. Finalmente aveva qualcosa da festeggiare. E c’era una sola persona con cui avrebbe voluto farlo. Ne cercò il numero in rubrica e la chiamò. Uno squillo, due squilli, tre squilli…. Al sesto squillo il nastro registrato della segreteria telefonica lo invitò a lasciare un messaggio. No, non voleva dirglielo così. Aveva bisogno di sentire la sua voce e possibilmente di vederla di persona. Il suo albergo non era lontano, pertanto decise di andare a cercarla lì. Non erano ancora le undici di sera e confidava che ci fosse qualcuno alla reception. Era un hotel modesto, ma si trovavano comunque nel centro di Parigi! Tirò su il bavero del giaccone per ripararsi dal freddo di cui non si era accorto fino a quel momento, troppo galvanizzato dalle notizie che gli aveva comunicato il suo agente, e si avviò verso l’Hotel du Marronnier.

Fortunatamente, un distinto signore era seduto dietro al bancone all’ingresso. Nathan sperò che Stana si fosse registrata con il proprio nome e non avesse seguito l’esempio del personaggio interpretato da Julia Roberts in quel film in cui recitava con Hugh Grant e in cui faceva l’attrice famosa che usava sempre i nomi dei cartoni animati per sviare la stampa. Si schiarì la gola e sfoggiando il suo miglior francese, disse: “Buonasera signore, vorrei sapere se è possibile parlare con la signora Katic”

Monsieur Dupont si alzò dalla sedia, lo osservò da sopra le lenti che usava per lavorare al computer, lo squadrò da capo a piedi e dovette convenire che tutto sommato quell’uomo di mezza età che aveva di fronte non doveva rappresentare un pericolo. “Mi dispiace, ma la signora non è rientrata stasera”

Deluso, Nathan si congedò da lui e uscì. Provò di nuovo a chiamarla ma niente. Anzi, questa volta il cellulare era proprio irraggiungibile. Ma non si sarebbe arreso. A costo di aspettarla fino all’alba, avrebbe parlato con lei.

Non lontano dall’albergo c’era una panchina. Vi si sedette e sperò di non congelare prima dell’arrivo di Stana.

 

Nel frattempo, in un grazioso ristorantino non molto distante da quella zona, Stana stava cenando in compagnia della sua nuova amica Rosalie. Si erano sentite quel giorno stesso, dopo che l’attrice aveva trascorso quelli precedenti dedicandosi ai dintorni della capitale, prevalentemente per evitare il rischio di imbattersi nell’uomo che le turbava i pensieri, e avevano concordato di uscire a cena insieme quella sera, dato che il marito di Rosalie era impegnato all’università e non sapeva quando sarebbe rientrato a casa.

“Robert adora il suo lavoro. E’ un vero appassionato di Shakespeare. Ho partecipato a una sua conferenza qualche tempo fa ed emana un fascino pazzesco mentre parla del suo autore preferito. Ha ereditato queste doti narrative dal padre naturale, sai?” le raccontò la proprietaria della deliziosa cartoleria.

“E tu sei follemente innamorata di lui” replicò Stana sorridendole. Poi aggiunse: “ti brillano gli occhi quando ne parli. Ti invidio, sai?”

Un velo di tristezza offuscò il suo sguardo. Anche lei una volta era stata follemente innamorata. Aveva amato l’uomo che aveva sposato e si era convinta di aver fatto la scelta più sensata, o almeno quella che tutti si aspettavano da lei. Ma la vita le aveva presentato un esito assai diverso ed ora eccola qui, nella capitale più romantica del mondo, da sola. Oddio, proprio da sola non era. E non si riferiva alla simpatica ragazza francese seduta davanti a lei, bensì al suo ex collega. Per il quale, a suo tempo, aveva perso la testa. In modo altrettanto folle.

Chèrie, arriverà anche per te un nuovo amore. Ricordati che quando si chiude una porta, si apre un portone!” esclamò convinta Rosalie. “Nel frattempo, che ne dici di concludere la nostra cena con una gustosissima crème brulée?” le propose. Poi aggiunse: “In barba alla dieta….” Un ricordo le attraversò la mente, provocandole una piccola fitta. Stana si accorse che qualche brutto pensiero doveva aver incrinato l’allegria della sua commensale, ma non sapeva se indagare o meno. Fu la stessa Rosalie a spiegarle: “Prima di Robert sono stata fidanzata con un fissato del fitness che ce l’aveva a morte con grassi, carboidrati e zuccheri e che sarebbe inorridito davanti a un dessert. Bè, mi ha tradito… se ci ripenso, mi fa ancora male”

“Però dopo hai incontrato il tuo bell’americano” le ricordò Stana, cercando di riportarle il sorriso. “Dovrai farmelo conoscere prima o poi!”

“Certo! Anzi, lasciamo passare la conferenza e poi vieni a cena da noi, che ne dici?” le propose.

Stana accettò di buon grado. Era felice di aver conosciuto una persona così carina come Rosalie e non vedeva l’ora di incontrarne il marito.

 

Nota dell’autrice

Un po’ di spazio ai pensieri di Nathan e alla grande novità sul fronte lavorativo.

Grazie a chi di voi legge la storia in silenzio e a chi mi regala un po’ del suo tempo per scrivere una recensione!

Deb

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Sottosopra ***


Capitolo 10 – Sottosopra

Era passata un’ora quando finalmente la vide scendere da una piccola utilitaria e salutare con un grande sorriso la persona che l’aveva accompagnata. Con quel buio non riuscì a vedere chi fosse, ma dall’affetto con cui si erano congedati dedusse che si doveva trattare di qualcuno di speciale per lei. Ancora una volta un morso di gelosia gli attanagliò lo stomaco, anche se dovette ricordarsi di non aver alcun diritto di essere possessivo nei suoi confronti.

Le si avvicinò e la raggiunse prima che entrasse nell’albergo. La chiamò: “Ehy, Stana…”

La donna sobbalzò al sentire il proprio nome: non si aspettava certo di trovarselo davanti a quell’ora di notte. “Nathan, mi hai fatto prendere un colpo! Che ci fai qui?” esclamò, portandosi una mano al petto, quasi a voler impedire che il cuore, battendo così forte per la paura, le saltasse fuori dalla cassa toracica.

“Sì, scusami, lo so, non è l’orario tipico delle visite di cortesia, ma mi è successa una cosa e te la volevo raccontare” le confessò, rendendosi conto solo in quel momento di che ora fosse veramente e della freddezza con cui si erano congedati al loro ultimo incontro. Raggiungerla in albergo era stata una pazzia, però cercò di trasmetterle con lo sguardo quanto fosse importante per lui poter condividere con lei la notizia che aveva ricevuto e incrociò mentalmente le dita affinché lei lo comprendesse.

Stana si prese qualche istante per osservarlo con attenzione e percepì quanto ci tenesse. Sospirò. “D’accordo, entriamo in albergo così evitiamo il congelamento” disse, facendogli strada.

Monsieur Dupont li vide attraversare l’ingresso e sollevò impercettibilmente un sopracciglio, seguendo i loro movimenti. La bella signora americana lo salutò educatamente come sempre e lui fece altrettanto. Sembrava a suo agio con quell’uomo, pertanto dedusse che non era necessario tenerli sotto controllo. Si accomodarono sul divanetto posto nella piccola sala di lettura situata oltre la reception. Era una stanza accogliente: l’arredamento era un po’ retrò e i libri messi a disposizione degli ospiti non erano certo i best-seller dell’ultimo momento, ma c’erano diversi volumi illustrati su Parigi e i classici della narrativa europea, sia in lingua originale che nella traduzione in francese, oltre ai capisaldi delle opere nazionali: testi teatrali di Molière, romanzi di Victor Hugo e di Marcel Proust, poesie di Baudelaire.

Stana si tolse la giacca e il foulard, sistemandosi più comodamente sul divano e gli rivolse uno sguardo interrogativo. I suoi occhi sapevano parlare in modo chiaro e inequivocabile, esprimendo interi concetti e profonde sensazioni senza dover far ricorso alla parola. Persino gli autori di Castle avevano sfruttato questa sua capacità con il celeberrimo look-look di Kate Beckett.

“Mi ha chiamato Paul, il mio agente” le disse. “Mi è stata offerta la parte del protagonista in una nuova serie” aggiunse, trattenendo a stento l’entusiasmo, anche se non riuscì a nascondere il luccichio nello sguardo.

Stana lo abbracciò d’impulso: “Oh Nate, sono così felice per te!” gli sussurrò in un orecchio, sfiorandolo con le labbra. Quel contatto così intimo provocò delle sensazioni sconvolgenti in entrambi, tanto che si staccarono immediatamente, come se si fossero avvicinati a una superficie incandescente. Ancora preda di quel profondo turbamento che lo aveva scosso fin nelle viscere, l’uomo riprese: “Appena ho saputo dell’offerta, la prima persona a cui lo volevo dire sei tu”

Quella dichiarazione sincera aumentò lo stato confusionario di Stana, che si rischiarò la gola e non sapendo come reagire si limitò a chiedergli: “Che ruolo dovrai interpretare?”

“Oh, non lo so ancora. Paul mi manderà maggiori informazioni via mail e mi chiamerà nei prossimi giorni. Parigi mi ha portato fortuna. Tu mi hai portato fortuna!” le disse entusiasta, prima di avvicinarsi a lei, prenderle il volto fra le mani e stamparle un bacio sulla bocca. Quel semplice sfiorare di labbra, durato solo un paio di secondi, lasciò entrambi disorientati.

“Ehm… ecco, adesso penso che sia proprio l’ora di andare… buonanotte, Stana” e con queste parole si alzò e si avviò alla porta. Passò davanti a Monsieur Dupont cui fece un cenno di saluto con la testa e la notte di Parigi lo inghiottì.

Si ritrovò nel suo albergo nel Quartiere Latino senza nemmeno sapere come ci fosse arrivato. Era ancora frastornato. L’istinto di baciarla lo aveva colto alla sprovvista, ma quel desiderio covava in lui da così tanto tempo che non aveva potuto fare altro se non soccombere all’impulso. Però poi non aveva saputo come comportarsi e se l’era filata, in modo impacciato e, siamo sinceri, per nulla dignitoso. Era stata un’uscita di scena davvero imbarazzante.

Si sedette sul letto e si passò le mani fra i capelli, mentre il cuore gli batteva all’impazzata. Aveva rovinato quel minimo che era riuscito a ricostruire. Poco ma sicuro. “Maledizione!” imprecò a voce bassa, sbattendo un pugno sul piumone. Cercò di escogitare qualcosa che gli permettesse di recuperare almeno il rapporto di amicizia, ma il fluire dei suoi pensieri venne interrotto dallo squillo del cellulare. Era Paul. Pur avendo ben altro per la testa, in quel momento non poteva certo permettersi di ignorare la sua chiamata.

 

Anche Stana aveva raggiunto in qualche modo la sua stanza, dopo essere rimasta pressoché pietrificata sul divanetto della sala di lettura per un tempo che non avrebbe saputo calcolare. Il gesto di lui l’aveva sconcertata.

Si sfilò gli abiti ed entrò nel box doccia, lasciando che l’acqua calda le bagnasse i capelli e le scorresse lungo il corpo, con la speranza che il getto portasse via anche la confusione che l’agitava. Ripercorse con la memoria ogni secondo di quella scena.

Avrebbe potuto impedirgli di baciarla?

Teoricamente sì.

Avrebbe voluto impedirgli di baciarla?

No.

No?!?!?

Macché no!

Sì. Certo che sì.

Razionalmente lo avrebbe voluto. Peccato che le sue labbra avessero deciso di gettare la razionalità alle ortiche, preferendo seguire l’istinto. In quel nanosecondo la sua idea di giusto e sbagliato si era liquefatta ed era sparita. Puff. Dissolta nell’etere. Per fortuna, Nathan se n’era andato prima che le venisse la tentazione di prendere l’iniziativa e baciarlo a sua volta.

Oddio, e questo pensiero da dove usciva fuori?

No no no no no, non se ne parlava nemmeno.

Prese un respiro profondo, versò il bagnoschiuma sulla spugna e si concentrò sulla doccia, mettendo da parte le emozioni che il ricordo di quel bacio aveva scatenato dentro di lei. Per esigenze di scena si erano baciati tante volte nel corso degli anni, ma stavolta era diverso. Era stato spontaneo, non c’era nessun copione da rispettare, né un regista che avesse detto loro come mettersi a favore di telecamera, né una troupe sullo sfondo. Ed era stato splendido. Naturale.

Scosse la testa e cercò di non pensarci più, dedicando la propria attenzione alla cura dei capelli, con shampoo, balsamo e persino una maschera ristrutturante. Tutto considerato, era stato solo la reazione istintiva a una bella notizia. Non ci doveva leggere altro.

Finita la doccia, indossò l’accappatoio, avvolse i capelli in una salvietta e recuperò il cellulare dalla borsa, per controllare i messaggi e chiamare i suoi genitori. Non si era accorta che si fosse scaricato, così collegò il caricabatteria alla rete elettrica e il display si rianimò, mostrandole le numerose chiamate perse da Nathan.

Corrugò la fronte: questo cambiava le cose.

Non era stato un impulso immediato.

L’aveva cercata più volte ed era andato fino al suo albergo per poter parlare con lei, a un orario fuori dalla grazia del cielo. Allora forse il suo gesto aveva significato qualcos’altro? Finì di asciugarsi, si applicò la sua crema idratante preferita, massaggiando con attenzione tutto il proprio corpo, e andò a dormire, mentre uno stormo di farfalle impazzite volava nel suo stomaco. Dopo quel bacio la pelle sembrava aver assunto un nuovo livello di sensibilità.

 

La mattina dopo si svegliò ancora sottosopra come se fosse appena uscita da una centrifuga: il suo sonno era stato popolato di immagini vivide ed inequivocabili che la vedevano protagonista di performance ad alto tasso erotico in compagnia di Nathan. La sua libido le stava lanciando dei segnali inconfondibili, che lei invece si ostinava a ignorare. Controllò il cellulare ma questa volta non c’erano né messaggi né chiamate da parte sua. Meditò un po’ sul da farsi, poi decise che quel giorno avrebbe visitato Montmartre, dopo aver fatto una rapida colazione, sbocconcellando un croissant senza gustarlo. Aveva risposto a monosillabi persino a Hélène, con cui di solito amava chiacchierare. Ma quel bacio aveva toccato qualche corda nel suo cuore e le vibrazioni che ne erano scaturite continuavano a riverberare in lei, trasportandola in un’altra dimensione.

La sera prima lei e Rosalie avevano parlato a lungo del film “Le fabuleux destin d’Amélie Poulain”, di cui entrambe adoravano la poesia e la tenera assurdità di alcune scene, e le era venuta voglia di ricercare i luoghi in cui era ambientato: prese la metropolitana e raggiunse il Café des 2 Moulins, il locale in cui lavorava la protagonista, annotandosi mentalmente di scovare anche il negozio di frutta e verdura del signor Collignon, oltre alla straordinaria basilica del Sacre Coeur. Il meteo era dalla sua parte: un cielo azzurro terso avrebbe fatto risaltare la pietra calcarea con cui era stato costruito il santuario, regalandole un’immagine meravigliosa da serbare con cura nei suoi ricordi.

La visita del quartiere richiese buona parte della giornata e contribuì a distrarla, anche se ogni tanto non riusciva a resistere alla tentazione di controllare il cellulare, senza alcun esito. Inutile negarlo: era contrariata che lui non l’avesse ancora chiamata. Forse per lui davvero non aveva significato nulla? A un certo punto però si disse che il Medioevo era passato da tempo e che avrebbe anche potuto prendere lei l’iniziativa e dissipare ogni dubbio sulle reali intenzioni di Nathan, così da evitare di proiettarsi dei film nella mente. Entrò in una piccola boulangerie, la cui fragranza di pane appena sfornato le sollecitò le narici, ordinò una baguette calda che le venne servita su un delizioso piatto di ceramica bianca bordato di blu e accompagnata dal burro bretone, e un café au lait. Scattò una foto a cibo e bevanda e gliela inviò con il messaggio “ti va di condividere per festeggiare il tuo nuovo ruolo?”

Il beep del cellulare lo informò di aver ricevuto un whatsapp. Si stropicciò gli occhi e guardò l’orologio. Quasi le tre del pomeriggio??? Com’era possibile? Ah sì, la telefonata con Paul era durata a lungo ed era stata seguita dalla lettura approfondita della sceneggiatura di “The Rookie”, nel quale avrebbe dovuto interpretare una recluta che decide di realizzare il suo sogno e diventare un agente di polizia, pur essendo molto più anziano degli altri commilitoni. L’entusiasmo iniziale aveva lasciato lo spazio a una depressione sempre crescente, man mano che si faceva strada nel suo cuore un’unica, devastante consapevolezza: gli avevano affidato quel ruolo perché era un uomo di mezza età. Aveva impiegato ore per analizzare il copione avanti e indietro, alla disperata ricerca di qualche indizio che indicasse un esito diverso, ma il risultato era sempre il solito: il suo personaggio era un vecchio.

Del resto, doveva fare pace con l’idea che il tempo passa per tutti. Tranne che per lei. Lei era bellissima, forse addirittura più di quando l’aveva incontrata la prima volta, quasi dieci anni prima. E le sue labbra erano ancora più morbide e dolci di quanto ricordasse. Per non parlare del suo profumo: gli era rimasto nelle narici. Un mix di shampoo, eau de toilette e un qualcosa di unicamente suo.

L’insieme delle sensazioni lo aveva lasciato così scombussolato che era riuscito a prendere sonno solo quando il sole era ormai sorto da tempo. Era precipitato in una specie di coma, dal quale lo aveva fatto emergere solo la suoneria del cellulare che gli annunciava l’arrivo di un messaggio.

Già, non aveva ancora visto chi gli aveva scritto!

Si tirò a sedere sul letto, prese il telefono e il cuore gli si riempì di gioia. Era di Stana! Lo aprì e sorrise, come un ebete. Non era arrabbiata con lui per quel bacio, anzi, aveva voglia di incontrarlo! Quell’invito lo rincuorò, anche se non era così sicuro che ci fosse un vero motivo per festeggiare. Anzi, sì che c’era una ragione per celebrare! Era stata lei a cercarlo! OK, animo: doveva raggiungerla. “Ciao splendore! Dove siete tu e quella fantastica baguette?” Premette invio e subito gli venne in mente che forse aveva esagerato con quel saluto… Per fortuna, la risposta non si fece attendere. L’emoji di una faccina imbarazzata che arrossisce precedeva le parole “A Montmartre, in una boulangerie di ispirazione bretone” e la sua posizione. Calcolò la distanza e il tempo richiesto, tramite l’apposita applicazione, e le rispose: “Fra mezzora sono lì. Aspettami, ti prego.”

 

Nota dell’autrice

Eh sì, le buone notizie vanno festeggiate con le persone che contano... 

Non so voi, ma io adoro “Il favoloso mondo di Amélie” e lo riguardo ogni volta che viene trasmesso in tv! Il giro per Montmartre continua anche nel prossimo capitolo ;-)

A presto e grazie per essere arrivati fino qui!

Deb

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Montmartre ***


Capitolo 11 – Montmartre

Esattamente mezzora più tardi lo vide entrare nella boulangerie. Nel frattempo aveva finito sia la baguette con quel delizioso burro salato che il café au lait – sarebbe stato un delitto farli freddare – ma era più che felice di condividere qualcos’altro con lui per festeggiare il suo nuovo incarico. Sapeva quanto potesse essere frustrante aspettare che il telefono squilli per annunciare una nuova opportunità di lavoro: nel loro ambiente, i tempi morti potevano protrarsi a lungo. Le era capitato all’inizio della carriera, ma tutto considerato dovette riconoscere di essere stata molto fortunata. Subito dopo Castle, in cui aveva recitato per otto anni, le era stata offerta la parte di Emily in Absentia, praticamente senza alcuna pausa. A questo proposito, le sue vacanze ormai erano agli sgoccioli e presto sarebbe dovuta ritornare in Bulgaria e indossare di nuovo i panni, molto impegnativi, del suo ultimo personaggio. Cosa sarebbe stato di loro due? Ma poi, era davvero sicura che ci fosse un “loro due”? Sospirò e si concentrò sul suo commensale, che nel frattempo l’aveva raggiunta al tavolo.

Gli occhi di Nathan indugiarono compiaciuti su di lei: indossava una camicetta avorio e un pullover con uno scollo a V color miele che metteva in risalto quei due fari verdi-castani che adorava. E gli sorrideva, con quel sorriso che lo faceva sciogliere come neve al sole e che ogni volta lo fulminava con una saetta in mezzo al petto.

Non sapendo come salutarla, visto che erano in un locale pubblico e visto quello che era successo la sera precedente, le sfiorò delicatamente un braccio e prese posto davanti a lei.

“Ehy, dov’è la baguette?” la apostrofò scherzando, ma la sua voce tradì una nota di malinconia.

Stana si prese un po’ di tempo per osservarlo bene e ciò che vide le fece aggrottare la fronte. Non aveva l’aspetto entusiasta di uno a cui è stato appena affidato un ruolo da protagonista in una nuova serie sulla ABC. Due profonde occhiaie tradivano un pessimo rapporto con il sonno. Un morso allo stomaco le ricordò che potevano essere dovute a una notte sfrenata in dolce compagnia. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Però volle scacciare quel pensiero e concentrarsi sul fatto inequivocabile che la aveva cercata più volte e persino aspettata in albergo per poter condividere con lei la bella notizia meno di 24 ore prima, quindi non ci poteva essere un’altra donna. Allora qual era il problema?

“Nate, tutto bene?” gli chiese, sinceramente preoccupata.

“Ehm… sì, più o meno… piuttosto, sono digiuno da ieri, ti dispiace se ordiniamo qualcosa da mangiare?” propose e, senza aspettare alcuna risposta, aprì il menù e si concentrò su quello. L’offerta gastronomica del locale rifletteva le origini bretoni del proprietario, con un tripudio di crepes e galettes, baguette accompagnate da burro salato e naturalmente il kouign-amann. L’uomo optò per una tipica galette di grano saraceno e si limitò ad un caffè, decidendo che il sidro, seppure tradizionale, non fosse la scelta più adatta a quell’ora.

Trascorsero i successivi quindici minuti a parlare di argomenti banali, con grande frustrazione di Stana che non riusciva a comprendere cosa diavolo gli fosse preso. Appena ebbe terminato il suo pasto, la donna propose una passeggiata nel quartiere ed uscirono.

Il sole stava tramontando e ciò regalava all’ambiente un’atmosfera fiabesca. Si ritrovarono davanti al Moulin de la Galette, immortalato in tanti quadri impressionisti, da Renoir a Toulouse-Lautrec, ma anche da Van Gogh e persino da Pablo Picasso. Anche se ormai era stato trasformato in un ristorante, era comunque strano vedere un mulino nel cuore di una metropoli. Ma Montmartre rappresentava un’oasi surreale in sé: c’era persino un vigneto che produceva un vino le cui bottiglie venivano invecchiate nelle cantine del municipio e dipinte da artisti famosi. Non era certo usuale trovare una collina coperta da viti al centro di una grande città. Non stupiva che tanti artisti, più o meno famosi, avessero soggiornato in quella zona e la frequentassero tuttora.

“Adoro questo posto!” dichiarò Stana. “E’ tutto un pulsare di curiosità e un fremere di vita. Si respira arte ad ogni passo, non credi?” gli chiese, tentando di coinvolgerlo nella conversazione e di strapparlo al rimuginare nel quale sembrava sprofondato. Anche quella manovra però non ebbe successo.

Stufa dei suoi monosillabi e dello sguardo spento, gli si piazzò davanti, gli mise le mani sugli avambracci e gli disse: “OK, sputa il rospo. Cosa c’è che non va?”

Nathan si arrese, prese un respiro profondo e le disse: “Ho capito perché mi hanno dato quella parte”

“E quindi?” lo incitò lei.

“Sono vecchio” dichiarò, abbassando la testa e incurvando le spalle. Stana trattenne a stento un sorriso: uomini... Però lui sembrava profondamente angosciato e lei ne ebbe pietà. Nathan riprese la parola e le raccontò in breve quale sarebbe stato il suo ruolo. “La maggior parte degli altri attori ha la metà dei miei anni e il doppio della mia massa muscolare!” concluse affranto. La donna lo ascoltò con attenzione, poi girò la testa e vide una cosa che sicuramente gli avrebbe tirato su il morale. O almeno così sperava.

Il tramonto aveva lasciato spazio all’oscurità e un gioco di luci aveva trasformato la vetrata dell’edificio alle loro spalle in uno specchio. L’attrice lo prese per un braccio e lo fece voltare, così che entrambi scoprirono le proprie immagini riflesse in quello specchio improvvisato.

“Dimmi cosa vedi” gli ordinò con un sorriso incoraggiante.

“Vedo una ragazza bellissima e giovane accanto a un uomo imbolsito” rispose con un tono di voce triste.

“Sai invece cosa vedo io?” gli chiese. Lui scosse la testa. “Vedo una donna fortunata perché è al fianco di un signore molto affascinante. Anzi, direi irresistibile”

Le prese la mano, gliela strinse e se la portò alle labbra, senza distogliere lo sguardo dall’immagine di loro due sulla finestra e senza dire una parola. Poi, continuando a tenerla per mano, si voltò verso di lei e finalmente le sorrise, non solo con la bocca ma anche con gli occhi, per la prima volta da quando l’aveva raggiunta nella boulangerie quel pomeriggio. “Posso invitare questa donna fortunata a fare un giro sul bateau mouche? Lo so che è schifosamente turistico, ma è un’esperienza che non ho ancora fatto da quando sono a Parigi e non me ne voglio andare senza averla provata!”

Stana annuì, mentre la piacevole sensazione delle loro dita intrecciate frantumò in mille pezzi il macigno che aveva sul petto, sbriciolandolo completamente. Non era più arrabbiata con lui. Anzi, stare con lui era come andare in bicicletta: anche se cadi, appena ritrovi il coraggio di riprovarci diventa tutto naturale.

Saliti sul battello, si sedettero all’esterno sul pontile più alto. Spirava una brezza pungente, ma il paesaggio che scorreva ai loro occhi meritava quel piccolo sacrificio. Senza considerare che nessuno dei due si lamentò dell’opportunità di stare appiccicati l’uno all’altra per ripararsi dal vento freddo. Il bateau mouche oltrepassò Place de la Concorde e svelò l’imponenza del Louvre, per poi dirigersi verso le guglie della cattedrale di Notre Dame. Non si persero il museo d’Orsay con la sua architettura inconfondibile né, naturalmente, la Tour Eiffel sfavillante di luci. Da quel nuovo punto di vista, la Ville Lumière mostrò un’ulteriore sfaccettatura del suo fascino ai due attori, che ne assaporarono ogni goccia, immersi nella loro bolla. Entrambi sapevano che quella vacanza aveva i giorni contati e che poi sarebbero dovuti tornare alla vita normale, che li vedeva in due continenti diversi. Ma decisero di godersi solo il presente e ciò che di bello e inatteso aveva da offrire.

 

Nel frattempo, in un grazioso appartamento non lontano dalla Sorbonne il professor Shermann stava rientrando a casa dopo aver concluso la conferenza su Shakespeare. Varcò la soglia e le sue narici vennero invase dal profumo invitante del coq au vin che sua moglie Rosalie stava finendo di cucinare per loro. Si tolse la giacca, la appese all’attaccapanni nell’ingresso e rilasciò un sospirò di sollievo. Adorava il suo lavoro e non mai una volta si era pentito di averlo scelto a scapito del fiorente studio legale di famiglia in America, ma l’ultima settimana era stata particolarmente faticosa e l’adrenalina che lo aveva accompagnato fino a quel momento stava scemando per lasciare il posto a una stanchezza dolorosa, che si manifestava nelle spalle contratte e in un principio di mal di testa. La sua deliziosa consorte adorava ascoltare la musica mentre si dilettava in cucina e anche quella sera un CD che raccoglieva vecchi brani cantati da Charles Aznavour diffondeva un piacevole sottofondo in tutta la casa. In quel momento, in particolare, “Tous les visages de l’amour”, la versione in francese della celeberrima “She”, inondava di note ogni stanza.

Il bel professore si avvicinò alla moglie e la abbracciò da dietro, posandole un delicato bacio sul collo e assaporandone il tepore profumato. Rosalie sorrise e un brivido le percorse la spina dorsale: il contatto fisico con suo marito era ancora elettrico, come il primo giorno. “Com’è andata la conferenza?” gli chiese.

“Bene, l’audience era attenta e i relatori sono stati molto disponibili anche al termine dei loro interventi. Hanno risposto alle domande e si sono fermati a parlare con gli studenti…yawn…” rispose, non riuscendo a trattenere uno sbadiglio. Rosalie dette un’ultima mescolata al sugo affinché tutti gli aromi si fondessero insieme, poi abbassò il gas sotto il recipiente nel quale si stava cuocendo il pollo e si voltò nell’abbraccio del marito. Lo baciò a fior di labbra e stettero qualche secondo fronte contro fronte, a occhi chiusi. Robert era davvero esausto, ma sua moglie gli era mancata molto negli ultimi giorni: l’organizzazione della conferenza aveva assorbito ogni sua energia, praticamente giorno e notte. Non aveva nemmeno avuto il tempo per mandare un messaggio al suo nuovo amico americano. Chissà cosa stava combinando…

“Tesoro, che ne dici se invitiamo una mia amica a cena domani sera?” propose Rosalie appena il marito aprì gli occhi.

“In realtà anch’io avevo promesso a un amico di invitarlo a cena appena finita la conferenza…” aggiunse lui. Poi un lampo furbo gli balenò nello sguardo. Rosalie comprese al volo. Avevano parlato a lungo dei due attori che il destino gli aveva fatto incontrare in modo così rocambolesco. E anche se a Robert il ruolo di paraninfo non piaceva, per solidarietà maschile aveva deciso di stare dalla parte di Nathan e sostenerlo nel suo tentativo di riconquistare la bella Stana. Rosalie invece era combattuta: da una parte, il suo animo romantico avrebbe voluto un happy end per loro due, dall’altra le sembrava di tradire le confidenze della sua nuova amica, che aveva sofferto molto a causa di quell’uomo, ma a cui era profondamente legata, anche se forse non sapeva di esserlo.

L’amour gagne toujours” dichiarò Rosalie e prese il cellulare per mandare un messaggio a Stana, mentre suo marito faceva altrettanto, destinandolo però a Nathan. Omisero entrambi il piccolo, insignificante, trascurabile dettaglio che nessuno dei due sarebbe stato l’unico ospite a cena.

 

La gita sul bateau mouche era stata perfetta: le bellezze di Parigi di notte avevano catturato l’attenzione di entrambi, tanto che avevano scambiato solo poche parole, inebriandosi del fascino della Ville Lumière e della vicinanza l’uno dell’altra.

Anche se volevano evitare di pensarci, tutti e due erano dolorosamente consapevoli che la loro vacanza stava quasi per finire. L’agente di Nathan gli aveva intimato di rientrare a Los Angeles seduta stante, così da finalizzare i dettagli del suo nuovo impegno lavorativo e iniziare a calarsi nel personaggio. L’attore non aveva ancora perso la speranza di riuscire a strappargli il permesso di fermarsi a Parigi per altri due giorni, così da poter festeggiare il suo compleanno proprio nella capitale francese, e possibilmente in compagnia di Stana. A lei non lo aveva ancora chiesto e non osava nemmeno sperare che se lo ricordasse: negli ultimi anni, l’evento era passato in secondo piano o comunque lei non aveva partecipato alle uscite organizzate con gli altri colleghi per brindare alla sua salute. Confidava però nell’atmosfera speciale della capitale francese, unica nel suo genere, affinché quest’anno le cose potessero andare diversamente.

Scesero dal battello e si incamminarono verso l’albergo di Stana. Lei lo prese a braccetto e durante il tragitto chiacchierarono fitto fitto di tutto quello che avevano visto scorrere lungo la Senna, della cucina bretone, degli impressionisti e di tanti altri argomenti, senza mai affrontare la questione del bacio, né tantomeno cosa avrebbero fatto al termine della loro parentesi francese. Nathan non trovava il coraggio per dirle che da lì a poco più di 48 ore si sarebbe potuto trovare su un volo intercontinentale con destinazione Stati Uniti.

Giunti all’Hotel du Marronier, si fermarono l’uno di fronte all’altra. Lo sguardo di Nathan scese dagli occhi di Stana verso la sua bocca, indugiandovi forse più del dovuto, per poi salire di nuovo e incatenarsi alle sue iridi. A sua volta, la donna non poté fare a meno di inumidirsi le labbra con la lingua, gesto che non passò certo inosservato all’uomo, il quale alzò un sopracciglio e le fece un sorrisino, come a volerle chiedere il permesso di baciarla. Lei chinò leggermente la testa da un lato e rispose al sorriso di lui, avvicinandosi di qualche centimetro. Nathan sollevò una mano e le accarezzò delicatamente una guancia, per poi delineare con il pollice il contorno della bocca e attirarla verso di sé. Fu un bacio diverso da quello a stampo della sera precedente, sicuramente più passionale ma non ancora da fuochi d’artificio. Nathan aveva paura che, se non si fosse trattenuto, l’avrebbe presa lì, in mezzo alla strada, noncurante di eventuali spettatori. E lei non se lo meritava. In realtà, anche la nuova versione di sé che l’uomo stava costruendo non si meritava un epilogo simile. Da parte sua, Stana non era ancora pronta del tutto a imbarcarsi in una nuova storia. Ma il bacio le piacque, e anche molto. Si staccò da lui con difficoltà e quando entrambi aprirono gli occhi, lessero nel luccichio dello sguardo dell’altro il nascere di un sentimento nuovo.

“Buonanotte, splendore” le disse Nathan con voce sensuale, prima di deporle un bacio sulla fronte.

“Ciao, uomo affascinante” gli rispose. Poi gli voltò le spalle ed entrò nell’albergo. Monsieur Dupont, che anche quella sera era alla reception, non poté non notare l’espressione raggiante della bella signora americana.

 

Nota dell’autrice

Abbiamo fatto anche un salto in Bretagna, almeno dal punto di vista gastronomico ;-)

Il riavvicinamento fra i protagonisti prosegue e anche i loro amici si impegnano per raggiungere l’obiettivo!

Grazie mille per avermi regalato il vostro tempo leggendo anche questo capitolo.

Al prossimo,

Deb

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Una cena per farli innamorare ***


Capitolo 12 – Una cena per farli innamorare

Una volta entrata nella sua stanza, Stana si appoggiò alla porta e chiuse gli occhi, sospirando. Era stata indubbiamente una bella giornata: aveva visitato un quartiere di Parigi che trasudava arte, storia e voglia di vivere ad ogni passo. E aveva trascorso dei momenti meravigliosi in compagnia di Nathan. E poi quel bacio… il cuore fece una capriola nel petto e si ritrovò a sorridere da sola, senza alcun motivo. Dovette convenire che lui le piaceva ancora.

Oh, eccome se le piaceva.

Di nuovo.

Fin troppo.

Si tolse la giacca e la appoggiò sul letto, insieme alla borsa, da cui scivolò fuori il cellulare: non lo guardava da ore! Si era praticamente dimenticata di averlo. A ripensarci bene, nessuno dei due aveva scattato foto né selfie, come per un tacito accordo. Si erano totalmente isolati per godersi quei momenti, senza volerli condividere con nessuno. L’icona di whatsapp indicava che aveva ricevuto un messaggio, così ci cliccò sopra e vide che la sua amica Rosalie le aveva scritto, invitandola a cena per l’indomani. L’amicizia con quella ragazza francese era uno dei regali della sua trasferta a Parigi e non aveva intenzione di rinunciare a trascorrere un po’ di tempo con lei e a incontrare finalmente l’affascinante marito americano di cui era tanto innamorata. Però l’idea di non vedere Nathan per cena le fece provare uno strano dolore: era consapevole che presto si sarebbero dovuti separare e non sapeva in che termini sarebbero rimasti. A dirla tutta, non aveva proprio idea di come definire il rapporto che avevano.

Ex colleghi? Sì, ma non solo.

Amici? Ni. Gli amici non si baciano, non certo in quel modo.

Amanti? Non più. O forse era meglio dire non ancora? Da quando si era separata da Kris non aveva più sentito il desiderio di avvicinarsi a un uomo, forse perché temeva di non essere abbastanza bella, sensuale e desiderabile. In fin dei conti, il suo ex marito si era trovato un’altra con cui dare sfogo alla sua passione e questo le aveva insinuato dei dubbi sulla propria femminilità. Però quel bacio con Nate aveva alimentato di nuovo qualcosa dentro di lei, risvegliando un fuoco che probabilmente covava ancora sotto la cenere.

Decise comunque di accettare il gentile invito di Rosalie e poi avrebbe pensato a un modo per farsi perdonare da Nathan di dargli bidone per l’intera giornata: aveva infatti in programma di dedicare un po’ di tempo a studiare il copione degli episodi che avrebbe dovuto girare appena rientrata in Bulgaria.

Magari gli avrebbe potuto regalare dei fiori. Sì, avrebbe chiesto a Hélène, la cameriera che serviva la colazione e con cui aveva preso l’abitudine di scambiare qualche parola ogni mattina. Conosceva il quartiere come le sue tasche e le avrebbe di certo indicato un fioraio a cui rivolgersi. Rinfrancata dall’idea, si preparò per la notte e si addormentò in breve tempo.

 

In un albergo non lontano da lì, Nathan terminò la terza telefonata. Aveva lasciato il cellulare in modalità silenziosa per tutto il tempo trascorso con Stana e, da quando aveva riattivato il sonoro, non gli aveva dato tregua. Prima lo aveva cercato Paul, per rammentargli l’appuntamento tassativo con la produzione della nuova serie, poi sua madre e infine suo fratello. Ai familiari, che avevano notato un tono di voce assai più gioviale del solito, aveva solo confidato di avere buone notizie in ambito lavorativo, senza far alcun riferimento a Stana. Il rapporto che stava ricostruendo con lei era troppo prezioso per correre qualsiasi rischio.

Poggiando il cellulare sul comodino, si rese conto di aver ricevuto anche diversi messaggi. Li scorse velocemente: un paio erano di sua madre che aveva provato più volte a cercarlo senza successo, “benedetto figliolo mi farai venire un infarto”, uno era del suo amico Michael Trucco, che gli chiedeva dove diavolo fosse finito, visto che era scomparso da qualsiasi social, persino le nipoti gli avevano scritto per avere sue notizie. E poi ce n’era uno di Robert, che lo invitava a cena. Gli si aprì un sorriso sul volto. Il professor Shermann era una persona squisita ed era genuinamente felice di averlo incontrato. Chissà come gli era andata la conferenza su Shakespeare… gli avrebbe fatto davvero piacere andare a cena da lui e incontrare finalmente la splendida francesina che gli aveva catturato il cuore, ma l’idea di non vedere Stana per una sera gli adombrò lo sguardo. Gli rimaneva ormai poco tempo da trascorrere insieme a lei e ogni secondo aveva un valore inestimabile. D’altro canto, si sentiva in debito con Robert, che lo aveva aiutato a scegliere il locale giusto dove portare Stana, permettendogli di avvicinarsi di nuovo a lei. Decise dunque di accettare il suo invito, confidando di poter poi passare dalla donna dopo cena. L’attrice gli aveva infatti detto che l’indomani avrebbe dovuto dedicare la mattinata a leggere il copione dei nuovi episodi di Absentia che avrebbe iniziato a girare appena rientrata dalla pausa e a memorizzare i dialoghi, quindi non si sarebbero potuti vedere se non nel tardo pomeriggio.

 

Les fleurs de Pascaline, il negozio che le aveva consigliato Hélène, la accolse di buon mattino con un tripudio di colori e di profumi. I grandi vasi raccoglievano numerose varietà di fiori recisi, mentre le piante erano esposte su scaffali e fioriere, con grande attenzione all’impatto cromatico e olfattivo che avrebbero avuto sui clienti. Dopo aver salutato cordialmente la proprietaria, Stana la mise a conoscenza della sua richiesta: “Non conosco il linguaggio dei fiori, cosa potrei regalare a una persona per chiedere perdono?”

La donna la osservò con attenzione, poi un lampo le attraversò lo sguardo: l’aveva riconosciuta! Decise però di mantenere un approccio professionale e di rimandare la richiesta di un autografo solo dopo averla servita. Non capitava tutti i giorni di avere una famosa attrice americana come cliente, quindi si schiarì la voce e assunse il tono più competente che aveva: “Dunque, ci sono vari tipi di fiori. I giacinti indicano benevolenza e tentativo di riavvicinamento. Le violette sono perfette per dimostrare di aver imparato dai propri errori. I gigli invece significano perdonami e ricominciamo da capo…”

“Direi che i gigli potrebbero andare. Ma me ne serve solo uno…ecco, quello sarebbe perfetto” le rispose, indicando con un cenno della mano uno splendido giglio bianco screziato di porpora. “E visto che ci sono vorrei anche acquistare dei fiori per un’amica che mi ha invitato a cena” aggiunse.

“Che tipo è la sua amica?” si informò la fioraia.

“E’ una persona squisita ed è un’artista, quindi opterei per qualcosa di colorato” rispose con sicurezza.

“Un bouquet di margherite e fresie, che ne dice, signora Katic?” le propose Pascaline, rendendosi conto solo troppo tardi di averla chiamata per nome. Si sarebbe morsa la lingua, ma ormai il danno era fatto e tanto valeva approfittarne, così tirò fuori una serie di cartoncini: la fan aveva preso il posto della distaccata professionista.

Stana le sorrise e la ringraziò. Poi le firmò un autografo per sé, uno per la sorella, uno per la nipote, uno per la cugina e, già che c’era, persino uno per la figlia della signora che abitava sopra di lei, tutte fan appassionate di Castle. Infine concordò con lei di passare nel pomeriggio a ritirare il bouquet per Rosalie, così che fosse più fresco per la cena. Prese con sé solo il giglio e si avviò verso l’albergo di Nathan, sperando che avesse mantenuto la sua abitudine di essere un dormiglione mattutino. Le sarebbe piaciuto fargli una sorpresa. Nella peggiore delle ipotesi, avrebbe lasciato l’omaggio floreale alla reception per lui.

Attraversò i vicoli pieni di vita del Quartiere Latino e giunse al suo hotel, dove venne informata che il signor Fillion era appena uscito. Mannaggia. Nascose a stento la delusione, ma si limitò a farsi dare un bigliettino e una busta: gli avrebbe lasciato due righe, insieme al giglio.

Nate,

una cara amica di Parigi mi ha invitato a cena stasera e, visto che a breve dovrò tornare in Bulgaria, ho deciso di accettare. Mi dispiace non vederti oggi, ma sono sicura che troverò il modo di farmi perdonare, oltre all’omaggio floreale ;-)

Bacio,

S.

 

Poche ore più tardi, in un grazioso appartamento vicino alla Sorbonne, la cucina era in piena attività. Rosalie aveva optato per un menù semplice, ma curato: un’insalata come entrée, un arrosto di manzo con delle patate al forno e infine quello che considerava il suo piatto forte, ovvero un golosissimo e sensualissimo gateau au chocolat. Era felice che entrambi gli ospiti avessero accettato con gioia il suo invito, ma si sentiva un po’ in colpa per averli ingannati. Del resto, era fermamente convinta che quei due si meritassero un’altra occasione e aveva deciso di interpretare il ruolo di Cupido insieme a suo marito.

Apparecchiò per quattro con le stoviglie avorio impreziosite da un decoro di mazzetti di lavanda, mise un piccolo vaso di fiori al centro della tavola, poi andò in camera per cambiarsi d’abito e apprestarsi ad affrontare la serata. Indossò un vestito azzurro e raccolse i lunghi capelli in uno chignon. Quando suonò il campanello, scambiò uno sguardo con Robert, per comunicargli la sua ansia, ma lui le sorrise per rassicurarla. Poi lo spedì ad aprire la porta, tenendo le dita incrociate affinché tutto andasse nel modo migliore.

Il professor Shermann rimase pietrificato e a bocca spalancata per un paio di secondi, poi si riprese e disse: “Scusami. Eri bellissima a video, ma dal vivo mi hai lasciato letteralmente senza fiato! Vieni, sono Robert, il marito di Rosalie. Benvenuta a casa nostra!” Poi le rivolse un sorriso gentile e genuino e la invitò ad entrare con un cenno della mano.

Stana gli rispose, sorridendo a sua volta: “Grazie per avermi invitato! Questi sono per tua moglie, spero che le piacciano…” Gli disse, porgendogli il bouquet.

“Oh, Stana, sei un angelo, sono davvero deliziosi!” esclamò la destinataria dell’omaggio floreale, che nel frattempo li aveva raggiunti. La padrona di casa la abbracciò e le disse: “Sono così felice che tu sia qui! Dai, accomodati, pochi minuti e possiamo metterci a tavola”

Solo in quel momento l’attrice notò che erano previsti quattro commensali, aggrottò le sopracciglia ma non fece alcun commento in proposito. “Rosalie, hai bisogno di una mano in cucina?” si offrì.

“Molto volentieri! Devo solo preparare le ultime cose, ma almeno possiamo fare due chiacchiere fra donne e sparlare degli uomini” le rispose, strizzando l’occhiolino al marito che le aveva seguite in sala da pranzo.

“Tesoro, così mi ferisci fin nel profondo dell’anima!” si lamentò in modo giocosamente teatrale Robert, mentre si preoccupava di recuperare un vaso per sistemare la splendida composizione che l’altrettanto affascinante ospite gli aveva consegnato. Ebbe giusto il tempo di trovare un posto ai fiori che sentì il campanello suonare di nuovo. Trasalì ed esclamò: “Tranquille, vado io!” Poi fra sé e sé aggiunse: “Chi semina amore, raccoglie felicità… speriamo che Shakespeare avesse ragione!”

“Ehy, amico! Finalmente!” lo apostrofò Nathan, prima di abbracciarlo. “Grazie per l’invito” aggiunse.

“Grazie a te per averlo accettato! Vieni, entra” lo invitò Robert. Nathan gli porse una bottiglia e dichiarò: “Vi ho portato dello champagne per festeggiare!”

“Ti vedo di buonumore, deduco che tu abbia ricevuto buone notizie!” commentò felice Robert.

“Sì, un’ottima offerta di lavoro” poi, abbassando il tono, aggiunse. “E non solo…”

Nel frattempo, dalla cucina, Stana riconobbe immediatamente la sua voce e rimase a bocca aperta per lo stupore, mentre le guance arrossirono al ricordo del messaggio che lui le aveva mandato appena era rientrato in albergo, quando aveva trovato il giglio e la ferale notizia che non si sarebbero potuti vedere quella giornata. L’emoji della faccina in lacrime era seguita da “Ho già in mente vari modi in cui ti potresti far perdonare…” E non c’era bisogno di essere dei geni per capire a cosa si riferisse. La sua libido lo aveva compreso perfettamente. Oh, eccome se lo aveva capito! Le aveva persino fatto immaginare il tono profondo della sua voce mentre le diceva quelle parole. Rosalie si accorse subito della reazione di Stana e si affrettò a dirle: “Sì, è lui, mi dispiace, lo ha incontrato Robert in un museo diversi giorni fa, più o meno quando tu sei venuta in negozio per la prima volta, e hanno fatto amicizia. So che sei ancora arrabbiata con lui, però io penso, anzi, noi pensiamo che vi meritiate un’altra occasione, e poi è solo una cena…” Le rivolse un’occhiata implorante e si torse le mani in attesa di una sua risposta. Stana si mise a ridere.

All’udire il suono di quella risata, Nathan scoccò uno sguardo interrogativo a Robert, che gli restituì un sorrisino complice e aggiunse: “Mi ringrazierai dopo, amico. Però giocatela bene!” Benedetta solidarietà maschile!

Stana uscì dalla cucina portando l’insalatiera, seguita a ruota da una perplessa Rosalie che non riusciva a capacitarsi della reazione della sua amica. Appena vide Nathan, questi le sorrise e le disse: “Ecco perché non potevi uscire a cena con me stasera!” Gli occhi di entrambi rimasero incatenati per qualche secondo, immersi in una conversazione silenziosa eppure pregnante, del tutto ignari della presenza dei due padroni di casa, i quali a loro volta si fissarono confusi: questa proprio non se l’aspettavano. Avevano organizzato una cena per farli innamorare, ma quei due si erano innamorati senza il loro intervento. Di fronte all’assurdità esilarante della scena, che sembrava tratta da un film muto degli anni Trenta, Robert scoppiò a ridere e disse: “Bè, volevamo farvi una sorpresa ma vedo che l’avete fatta a noi. Forza, sediamoci a tavola e mangiamo: avrete modo di raccontarci come siamo arrivati a questo punto e di farvi perdonare per esservi presi gioco di noi!”

La battuta del professore spazzò via l’imbarazzo iniziale e l’armonia tornò fra i quattro commensali. Su richiesta di Nathan, Shermann raccontò della conferenza su Shakespeare e tutti pendettero dalle sue labbra: la sua oratoria era fantastica.

“Devi venire a trovare i miei, Robert! Ti adorerebbero e potresti chiacchierare con loro di letteratura e teatro per ore!” commentò Nate.

Stana invece condivise con loro la sua esperienza in Bulgaria, narrando quello che aveva imparato della cultura e della cucina bulgara. Discussero delle caratteristiche della serie che stava girando, decisamente più cupa e brutale di Castle. Poi parlarono del cinema indipendente, che racconta le storie più interessanti e permette di fare esperimenti e correre dei rischi, anche se non garantisce grandi profitti né stipendi milionari, come spesso capita a chi lavora nell’ambito della cultura. A questo proposito, Robert rivelò loro che quando aveva confidato alla sua ex di voler lasciare il lavoro di avvocato nel famoso studio legale di famiglia per accettare la proposta della Sorbona, lei gli aveva rinfacciato che i professori universitari sono dei morti di fame.

Poi Robert chiese sia a Stana che a Nathan cosa pensassero del finale di Castle. Entrambi concordarono che fosse un sogno, perché la vita vera non è sempre felice come noi vogliamo. Però era un regalo che i fan si meritavano, visto l’affetto con cui avevano seguito e supportato tutte le stagioni.

Non mancarono di parlare delle delicate illustrazioni di Rosalie e dei suoi clienti più affezionati, oltre alle richieste più inusuali che aveva ricevuto da quando aveva aperto il negozio, dalle più commoventi alle più ridicole. E naturalmente venne fuori anche il modo rocambolesco in cui lei e il marito si erano conosciuti, non tralasciando quanto fossero stati burrascosi i rapporti fra loro all’inizio, dal loro primo bacio sotto un ciliegio alla scenata che le aveva fatto Rachel, la ex fidanzata americana che aveva tentato inutilmente di riprendersi il professore, per arrivare a quando Robert aveva trascinato una riluttante Rosalie sul Pont des Arts e le aveva regalato un lucchetto in cui si leggeva Rosalie & Robert. Pour toujours.

Tutti si complimentarono con la cuoca per l’ottima riuscita dei piatti e lei, scherzando, aggiunse: “E non avete ancora gustato il mio gateau au chocolat! Come dite voi americani? The best is yet to come! Mi daresti una mano, Stana?” E con questo, sparì in cucina portandosi dietro la sua amica. Stava morendo dalla curiosità di capire cosa fosse successo in quegli ultimi giorni fra quei due.

Appena raggiunta la loro destinazione, la bella decoratrice chiuse la porta e rivolse uno sguardo interrogativo a Stana, con il quale la invitava ad aprirsi con lei. “Guarda, non so nemmeno io cosa dirti” confessò l’attrice in tutta sincerità. “E’ tornato ad essere l’uomo per cui avevo preso una sbandata anni fa e con cui ho trascorso tanti momenti meravigliosi sul set. Però non so cosa pensare… in fin dei conti, il passato mi insegna che la nostra relazione non funziona”

Rosalie la osservò per qualche secondo e commentò: “La luce nei tuoi occhi però dice tutt’altro…” Poi le posò teneramente una mano sul braccio e le disse: “Credo che il tuo cuore abbia già scelto, anche se tu non lo sai. Quello forse era il momento sbagliato per voi, magari ora è quello giusto…”

Le due amiche si scambiarono un sorriso affettuoso. Rosalie aggiunse: “Qualunque cosa sia, adesso tocca al dolce. E a un po’ di bollicine!”

Rientrarono nella sala da pranzo e trovarono Robert e Nathan intenti a disquisire di musica, osservando la collezione dei CD che faceva bella mostra di sé sugli scaffali della moderna libreria bianca. Il professore mise su una raccolta di canzoni francesi e lo stereo diffuse le note della celeberrima La vie en rose. Poi raggiunse il resto della compagnia, che si era già seduta a tavola, e, su suggerimento della moglie, aprì la bottiglia di champagne e riempì i calici di tutti.

“Brindiamo alla magia di Parigi!” propose Robert. “Senza questa città, non avrei mai trovato la donna della mia vita. Dubita che di fuoco siano le stelle, dubita che si muova il sole, dubita che la verità sia menzogna, ma non dubitare mai del mio amore” aggiunse, citando Shakespeare e rivolgendo uno sguardo sognante alla sua bella moglie, i cui occhi si colmarono di lacrime di gioia.

“All’amore e all’amicizia” rincarò Rosalie, schiarendosi la gola per mascherare l’emozione che le parole di suo marito avevano provocato. Sapeva sempre come conquistarla, giorno dopo giorno, come se conoscesse gli ingredienti segreti della ricetta del vero e imperituro amore.

“E ai nuovi inizi” suggerì Nathan.

“A noi quattro” concluse Stana, levando il calice.

La cena multiculturale si concluse in bellezza con un brindisi sincero e sentito. Tutti e quattro si scambiarono abbracci affettuosi e promesse di rimanere in contatto. Nathan invitò i suoi amici francesi a raggiungerlo a Los Angeles al termine dell’anno accademico ed entrambi presero in seria considerazione quell’ipotesi, così da godersi una seconda luna di miele.

Appena si ritrovarono in strada, Stana e Nathan si guardarono e scoppiarono a ridere. “Che strana coincidenza…” dissero pressoché all’unisono. All’uomo tornò in mente l’idea della sincronicità e fu genuinamente felice che la sua vita si fosse in qualche modo sincronizzata con quella della sua ex coprotagonista e anche dei suoi nuovi amici francesi. Poi le porse il braccio e le chiese: “Mi concedi l’onore di accompagnarti in albergo?”

Stana annuì e si avviarono a piedi, godendosi la loro ultima passeggiata notturna nella Ville Lumière. Ripercorsero gli aneddoti emersi durante la cena, in cui avevano parlato un po’ in inglese e un po’ in francese, ridendo e scherzando su quello che si erano detti e su quanto fossero deliziosi i loro nuovi amici. Giunsero all’Hotel du Marronier fin troppo presto per i loro gusti.

“Ci siamo, eh?” gli disse lei, nervosamente, poi domandò: “Quando parti?”

“Domani in tarda mattinata” rispose sospirando. Il suo agente gli aveva intimato di anticipare il rientro e non aveva potuto rifiutare.

Stana guardò l’orologio, poi sollevò lo sguardo dapprima sulle labbra e infine sugli occhi di lui: “E’ mezzanotte passata, buon compleanno!” sussurrò, sorridendo. Si mise in punta di piedi e lo baciò.

Con il cuore che gli scoppiava di gioia all’idea che lei se ne fosse ricordata, Nathan non ci pensò due volte, prese la donna fra le sue braccia e, appena lei schiuse la bocca, approfondì il bacio, perdendosi nell’inconfondibile sapore di lei e di cioccolato. Rosalie aveva ragione: il meglio doveva ancora venire. Quando dovettero soccombere alla necessità di respirare, si staccarono e rimasero fronte contro fronte. “Ti chiederei di salire, ma…” iniziò Stana.

“No” la interruppe, poi si affrettò ad aggiungere: “Non mi fraintendere, Dio solo sa quanto vorrei. Sarebbe il più bel regalo di compleanno che potessi ricevere. Ma se salissi adesso non ti lascerei più andare. Non voglio fare l’amore con te sapendo che poi non ti vedrò più per mesi, non ce la farei”

La donna annuì. Poi dichiarò: “Le riprese dovrebbero terminare a fine maggio”

“Bene, allora diamoci un appuntamento” propose Nathan. “Il 31 maggio alle 16 nel parco della Huntington Library a Los Angeles”

“Vicino al tempio del giardino cinese” aggiunse Stana.

“Il 31 maggio alle 16 vicino al tempio del giardino cinese” ripeté Nathan. “Io ci sarò. E da lì vedremo cosa fare. Insieme. OK?” le stampò un bacio sulle labbra e la lasciò rientrare in albergo. Entrambi avevano un appuntamento a cui non sarebbero mancati.

 

Nota dell’autrice

Il soggiorno parigino è finito in bellezza con una cena che rappresenta l’epilogo della nascita di una nuova amicizia e della rinascita di un amore.

Spero che anche voi sarete con me nel prossimo e ultimo capitolo: vi aspetto nel parco della Huntington Library, vicino al tempio del giardino cinese!

Grazie mille per avermi regalato il vostro tempo arrivando fino qui.

Deb

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - 31 maggio ***


Capitolo 13 – 31 maggio

Si era rasato e pettinato con cura, lasciando però il ciuffo un po’ scarmigliato, così che sembrasse più casual e naturale. Aveva indossato dei pantaloni scuri e poi il dramma era iniziato. Si era cambiato la camicia almeno tre volte. Poi aveva optato per una polo, che aveva scartato a favore di una T-shirt. Poi invece era tornato all’idea di una camicia di un bel blu cobalto, che sapeva avrebbe messo in risalto il colore dei suoi occhi. Vista la temperatura quasi estiva, l’avrebbe portata con le maniche arrotolate fino ai gomiti. Non voleva lasciare niente di intentato. Ma era nervoso, come se fosse un adolescente al primo appuntamento con la ragazza dei suoi sogni, la cheerleader più carina della scuola, anzi, la reginetta del ballo di fine anno.

In quei due mesi si erano sentiti sporadicamente, solo qualche messaggio su whatsapp e qualche telefonata, troppo impegnati con i rispettivi lavori. Senza considerare che la differenza di fuso orario non aiutava di certo. Ciononostante, il sentimento che provava nei confronti della donna era cresciuto e gli aveva inondato il cuore. Voleva fortemente che questa volta le cose funzionassero con Stana: non gli interessava farsi trascinare da una fugace ed imprevedibile passione. Se fosse stato solo quello, non si sarebbe certo lasciato sfuggire l’occasione di portarsela a letto l’ultima sera a Parigi. Ma non voleva più essere quell’uomo. Ne aveva parlato con Michael Trucco, quando lui e la moglie Sandra lo avevano invitato a cena poco dopo il suo rientro dalla Francia. Era l’unico con cui si era confidato, oltre a suo fratello Jeff, il vero custode della sua anima. Gli aveva espresso la sua determinazione nel conquistare definitivamente il cuore di quella donna meravigliosa, rivelandogli la paura che lei, nel frattempo, avesse cambiato idea. Michael lo aveva ascoltato con attenzione e aveva sollevato il bicchiere alla sua salute: “Al nuovo Nathan, amico!” Poi, per non diventare troppo sentimentale, aveva aggiunto: “Che la forza sia con te” Ed entrambi avevano riso del riferimento alla celebre frase di Star Wars, di cui erano grandi fan.

Dal canto suo, in quel periodo Stana si era gettata a capofitto nelle riprese di Absentia, ansiosa di sfogare nel lavoro gli istinti repressi. Quello che aveva scoperto di sentire per lui le era esploso in mezzo al petto, aprendole una voragine nel cuore, ma una parte del suo cervello temeva che Nathan fosse tornato alle vecchie abitudini di inguaribile playboy e lei per prima si stava ancora leccando le ferite per il suo matrimonio fallito. Aveva deciso di andarci con i piedi di piombo. Parlando con Emily, la sua truccatrice, cui aveva confidato di aver incontrato una persona a Parigi, senza però fare nomi, questa le aveva regalato una perla di inestimabile saggezza. Le aveva detto che l’amore è un’emozione strana e ha pochissimo a che fare con il buonsenso. A volte si tratta di un sentimento profondo e rassicurante, una coperta calda in una notte d’inverno, mentre fuori imperversa una tempesta, altre volte è travolgente, incontrollabile. E l’unico modo per essere vivi era di lasciarsi andare a quell’impulso. “Me lo diceva sempre mia nonna. In realtà, era la seconda moglie di mio nonno, che aveva perso la madre delle sue figlie per una brutta malattia e poi durante la guerra aveva incontrato Margaret, vedova a sua volta. Era una donna molto saggia e aveva un grande cuore” le aveva raccontato Emily.

Alla fine, c’entrava sempre il muscolo cardiaco.

“Va’ dove ti porta il cuore”, le aveva detto Rosalie quando le aveva donato quel bigliettino che ritraeva un uomo e una donna che si tengono per mano e volano sopra la capitale francese, impugnando un palloncino a forma proprio di cuore. Una coppia che, guarda caso, poteva benissimo rappresentare lei e Nathan, lunghi capelli castani e occhi azzurri compresi.

Lei e Rosalie si erano sentite abbastanza di frequente in quei mesi e un weekend si erano persino date appuntamento a Sofia, per visitare insieme la capitale bulgara. Le due donne si erano trovate in perfetta sintonia e la loro amicizia si faceva sempre più profonda, tanto che avevano già concordato di rivedersi nel Principato di Monaco a metà giugno, in occasione del Festival de Télévision de Monte-Carlo, al quale Stana avrebbe presenziato per promuovere Absentia.

Ed ora doveva capire cosa sarebbe successo di lei e di Nathan. Era tornata negli Stati Uniti un paio di giorni prima, giusto il tempo di fare un salto dai familiari, incontrare il suo avvocato per le ultime pratiche del divorzio e riprendersi dal jet-lag. E quel pomeriggio alle 16, vicino al tempio del giardino cinese della Huntington Library, avrebbe compreso come stavano davvero le cose fra loro. Andò in camera per prepararsi all’incontro e accese la radio. Le note di La vie en rose si diffusero nella stanza. Sorrise alla coincidenza e si mise a canticchiare con la sua splendida voce di mezzosoprano. Il significato del testo le si palesò in tutta la sua portata: Quand il me prend dans ses bras, il me parle tout bas, je vois la vie en rose. Sì, il solo pensiero di stare fra le sue braccia e di udire il timbro profondo della sua voce le faceva vedere la vita tutta rosa. Poi la canzone parlava anche di notti d’amore a non finire e questo provocò uno sfarfallio nello stomaco. Era decisamente attratta da lui e non viveva l’intimità con un uomo da troppo tempo, tanto da chiedersi se ne sarebbe stata ancora capace. Sapeva che anche lui non vedeva l’ora di incontrarla. Il giorno prima le aveva inviato un whatsapp con la scritta “-1” e un emoji che le faceva l’occhiolino, al quale lei aveva risposto con la foto del tempio del giardino cinese, seguito dalla faccina che manda i baci. Quell’appuntamento era importante per entrambi e nessuno dei due voleva correre il rischio di rovinare con le parole qualsiasi cosa stessero costruendo, così erano ricorsi al loro epistolario amoroso versione 2.0, come a Parigi. Come quando tutto era ricominciato.

Indossò un paio di pantaloni chiari e una camicia di lino leggera, un abbigliamento sobrio ed elegante come nel suo stile, ma che sotto nascondeva un completino intimo sensuale e malizioso. Lo aveva comprato il giorno prima, appena uscita dallo studio dall’avvocato: aveva bisogno di coccolarsi un po’ dopo aver posto le ultime firme che sancivano la fine del suo matrimonio. Non era pentita della sua decisione, ma rappresentava comunque un fallimento di cui sapeva di essere almeno in parte responsabile.

Si morse il labbro inferiore e prese un profondo respiro. Inutile nasconderlo: l’idea di rivederlo la rendeva nervosa. Forse aveva caricato di troppe aspettative quell’incontro? Forse si era proiettata un film nella mente che in realtà lui non condivideva? Questi dubbi la accompagnarono fino all’ingresso del giardino.

Guardò l’orologio e si rese conto di essere in anticipo, segno inequivocabile di quanto non stesse più nella pelle. Gironzolò per qualche minuto in un’altra zona del parco, ammirando la cura con cui venivano manutenute le aiuole, gli arbusti e i grandi alberi. Era un pomeriggio di un giorno feriale e i giardini erano invasi da bambini che correvano, baby-sitter che li tenevano d’occhio, adulti che facevano jogging e gli immancabili turisti. Riparata da un paio di grandi occhiali da sole, si confuse con quella folla, tentando di tenere sotto controllo il suo cuore galoppante.

In preda all’ansia e con le farfalle che ormai avevano creato un vero e proprio ciclone nel suo stomaco, si avviò al luogo dell’appuntamento. Lo vide seduto su una panchina che si affacciava sullo stagno, in prossimità del tempio cinese. Il suo profilo si stagliava contro il verde della vegetazione. Era arrivato addirittura prima di lei! Aveva un paio di occhiali scuri e indossava una camicia cobalto. Stana si tolse le lenti e si concesse il lusso di osservarlo, mordicchiando le stanghette della montatura. Le era sempre piaciuto con quel colore: dava ai suoi meravigliosi occhi azzurri una sfumatura ancora più intensa, trasformandoli in un mare nel quale sarebbe potuta naufragare.

Nonostante stesse guardando da un’altra parte, come se una forza magnetica lo avesse attirato, appena lei entrò nel suo campo visivo Nathan si voltò nella sua direzione e sul viso gli si aprì un sorriso. Si affrettò ad alzarsi per andarle incontro, levandosi gli occhiali, e anche lei si mosse verso di lui, infilando i propri nello scollo della camicetta. In breve si ritrovarono l’uno di fronte all’altra, sopraffatti dalla gioia di rivedersi e dalla tensione di non sapere cosa fare, entrambi con uno sguardo imbambolato.

Stana sollevò una mano e gli sistemò il colletto della camicia, che non aveva alcun bisogno di essere sistemato, solo per l’inconfessabile piacere di toccarlo. Nathan le prese l’altra mano e cominciò a farle dei piccoli movimenti circolari con il pollice. L’avrebbe baciata appassionatamente in mezzo al giardino della Huntington Library, ma non gli sembrò il caso di dare scandalo. “Sei bellissima” non poté fare a meno di sussurrarle e poi la strinse a sé. Data la differenza di altezza, l’orecchio di Stana si fermò proprio sul cuore dell’uomo. Sotto il tessuto leggero dell’indumento, lo sentì battere all’impazzata e non ebbe più dubbi. Pur sapendo quanto lui fosse bravo come attore, certe cose non si potevano fingere: ci teneva quanto lei. Rimasero l’uno nelle braccia dell’altro per una manciata di secondi, poi la donna si allontanò quanto bastava per potergli dire, guardandolo dritto negli occhi: “Mi sei mancato”

 “Anche tu mi sei mancata! Ti va una passeggiata? O qualcosa da bere? Sarà la tensione, ma mi sento la gola secca” le confidò, facendole l’occhiolino. Stana annuì, lui la prese per mano e si avviarono verso l’uscita dell’orto botanico, dove c’era un chiosco che vendeva hot dog, bevande e gelati.

“Lo so, non è un locale chic…” si scusò Nathan, improvvisamente a disagio. Voleva che tutto fosse perfetto in quel momento.

“Hey, non ti preoccupare. Guarda dove siamo, è un ambiente spettacolare! Prendiamo un tè freddo e lo beviamo su quella panchina, quella laggiù sotto l’albero, che ne dici?” gli suggerì Stana, indicandogli con un cenno del capo una pianta imponente. Nathan annuì e, dopo aver pagato le bevande, si accomodarono sul sedile di legno, spalla contro spalla, con lo sguardo perso davanti a loro.

“Sai che qui ci sono le ninfee come a Giverny?” le disse, dopo aver bevuto un sorso di tè.

“Ti ricordi di Monet!” esclamò la donna, sorridendo.

“Io non dimentico mai niente. Mai. Nemmeno eventi accaduti anni fa” le rispose, abbassando di un’ottava il tono della voce e voltandosi verso di lei. L’occhiata che le lanciò non lasciava spazio a fraintendimenti, nemmeno ci fossero stati i sottotitoli scritti a caratteri cubitali. Intendeva proprio quello.

Stana arrossì fino alle orecchie. Lo sguardo di lui aveva un potere davvero spavaldo. Per un attimo, tentò di fare ordine ai pensieri e alle parole che le affollavano la testa, ma con scarsi risultati. Poi si schiarì la gola e gli propose: “Andiamo in un posto più tranquillo, così parliamo un po’?”

L’uomo annuì, non distogliendo mai i suoi fari azzurri dalle iridi verdi castane della donna. Le avrebbe voluto dire tante cose, ma in quel momento si limitò a cercare di trasmetterle in via telepatica tutto l’affetto che provava per lei.

E quanto la trovasse irresistibile.

E quanto avrebbe voluto dimostrarle ciò che sentiva.

Con un grande sforzo di volontà, voltò la testa, si alzò e le porse una mano per aiutarla, da vero gentiluomo. “Ho parcheggiato qui fuori” le disse semplicemente. Lei gli sorrise e lo prese a braccetto. “Andiamo da te?” gli chiese, sperando in una sua risposta affermativa. Viveva ancora nell’appartamento che aveva diviso con Kris e temeva che entrambi ci si sarebbero sentiti a disagio.

“Ben volentieri. E’ anche più vicino e non credo di resistere ancora a lungo senza poterti baciare come si deve” le rispose, strizzandole l’occhio e mantenendo quel timbro di voce profondo e dannatamente sensuale. Stana arrossì ancora di più, per quanto umanamente possibile. Il desiderio di stare insieme si fece sempre più urgente, tanto che, senza accorgersene, entrambi affrettarono il passo e in breve raggiunsero l’auto di Nathan.

L’universo doveva essere ancora una volta dalla loro parte, perché il traffico del pomeriggio fu stranamente scorrevole e in pochi minuti si trovarono davanti all’appartamento dell’attore. Non fecero in tempo a varcare la soglia che lui la prese fra le braccia, bloccandola fra il suo corpo imponente e la porta, in una specie di ripetizione dell’ultima scena della quarta stagione di Castle.

La tenerezza lasciò lo spazio alla passione e all’urgenza di trovarsi pelle contro pelle, liberi da ogni costrizione e da ogni vincolo o remora. Mani frementi sbottonarono camicie, aprirono cerniere e sganciarono un reggiseno, che volò in una zona imprecisata nel tragitto compreso fra l’ingresso e la camera da letto, seguito dalle scarpe e dal resto degli indumenti, perizoma e boxer compresi. Il sensuale completino di Victoria’s Secret ahimè non venne degnato di grande considerazione. Non ci fu più spazio per le parole e i dubbi: troppo impegnati a riscoprire il corpo l’una dell’altro con la vista, con il tatto, con il gusto, con l’olfatto. Tutti i sensi vennero sopraffatti da quell’unione tanto anelata e sognata da entrambi. Fecero l’amore in modo vorace, senza parlare, ma comunicando a chiare lettere con le proprie carezze, i baci, i morsi, i gemiti e i sospiri tutto ciò che provavano l’uno per l’altra.

Si ritrovarono sudati e ansimanti, dopo un tempo che nessuno dei due avrebbe saputo quantificare, con un sorriso di totale beatitudine stampato sul volto e la consapevolezza, sconvolgente, di quanto avevano appena fatto: avevano ormai superato il punto di non ritorno.

Ora che il suo istinto predatorio ormonale era stato saziato, Nathan si ritrovò completamente privo di forza. Si sdraiò sulla schiena, le passò un braccio sotto il collo e la strinse a sé, non riuscendo a resistere all’idea di averla lontana. Stana si accoccolò al suo fianco e gli chiese: “Fillion, non dovevamo parlare noi due?”

“Dammi un momento per recuperare e poi riprendiamo il discorso” le disse con una voce roca, che lo rese ancora più sexy agli occhi di Stana. Poi non riuscì a resistere e aggiunse: “Mi sembrava che il nostro linguaggio non verbale fosse stato molto, molto chiaro”

Si girò su un fianco e la baciò. “Ma sei hai bisogno, posso ripetere tutto, parola” bacio su una guancia “per” bacio sul naso “parola” bacio sulle labbra.

“Non ti distrarre, Nate. Ogni volta che apri bocca finisce che facciamo altro” lo riportò all’ordine.

“Non mi sembra che ti sia lamentata finora di quello che ti ho fatto ogni volta che ho aperto bocca” le disse, riprendendo l’esplorazione del corpo della donna, con mani, labbra e lingua. La sua battuta spinta doveva averle provocato una risata, perché lui percepì la vibrazione della sua pancia, mentre le lambiva l’ombelico, prima di riprendere il tragitto verso un punto che fece perdere alla donna qualsiasi cognizione di dove fosse e di cosa gli avesse chiesto. Si arrese all’evidenza: quell’uomo ci sapeva dannatamente fare. Ci sarebbe stato un altro momento per parlare.

 

Qualche ora più tardi, Nate si svegliò e, allungando la mano, si rese conto di essere da solo nel letto. Lì per lì temette di essersi sognato tutto: non sarebbe certo stata la prima volta, anzi, scene ad alto tasso erotico con loro due come protagonisti avevano popolato le sue notti in molteplici occasioni, e al risveglio si era ritrovato dolorosamente eccitato e frustrato. Poi l’odore di lei gli invase le narici e lo rasserenò: stavolta non era un’avventura onirica, aveva davvero avuto quella donna fra le sue braccia. Si alzò, si infilò i boxer che erano atterrati vicino alla porta della camera e partì alla ricerca di colei che lo aveva mandato in orbita poco tempo prima.

La trovò in piedi davanti alla finestra del salotto, mentre sorseggiava una bevanda e fissava il giardino rigoglioso, il cui verde contrastava con l’azzurro del cielo screziato dai colori del sole al tramonto. Solo pochi mesi prima c’era lui in quella stessa posizione, con uno stato d’animo ben diverso, e sicuramente non con quel fisico statuario. Si appoggiò allo stipite della porta e indugiò con lo sguardo sul corpo di lei, coperto dalla sua camicia color cobalto, soffermandosi in particolare sulle lunghissime gambe sinuose. La raggiunse e la abbracciò da dietro. Con il naso le spostò i capelli arruffati, poi si applicò con grande impegno a baciarle il collo, stringendola a sé.

Stana si abbandonò alle sue braccia e sorrise. “Hey” gli disse semplicemente, mentre le attenzioni che lui le riservava le provocarono dei brividi di intenso piacere che le inondarono tutto il corpo.

“Mi piace il modo in cui parliamo noi due” le rispose, continuando a lasciarle dei piccoli bacetti umidi dall’orecchio alla clavicola e viceversa. Le sue grandi mani si fecero strada fra un bottone e l’altro della camicia, per arrivare ad accarezzarle i seni i cui capezzoli inturgiditi si intravedevano dal tessuto leggero.

“Nate, se continui così non riusciremo a parlare nemmeno adesso” lo rimbrottò, poco convinta.

Le sue mani fecero dietro front e le sue labbra si ritirarono dalla pelle di Stana, non prima di averla mordicchiato nel punto in cui il collo incontra la spalla, provocandole un brivido che scorse lungo tutta la colonna vertebrale. “Ok, ok, faccio il bravo, parola di lupetto. Senti, preparo qualcosa da mangiare e parliamo seriamente. Del resto, non possiamo vivere solo d’amore” commentò con nonchalance, dopo aver girato i tacchi per avviarsi all’angolo cottura.

“Un momento, hai detto amore?” si informò lei, stupita da quella dichiarazione. Durante le loro effusioni nessuno dei due aveva manifestato verbalmente i propri sentimenti. Nathan rimase pietrificato dalla sua stessa rivelazione, poi si voltò verso di lei e la guardò intensamente. Non aveva nessuna intenzione di ritrattare. “Esatto, Stana Katic. L’ho detto davvero ad alta voce e sono pronto a ripeterlo. Io ti amo. Ti amavo anche l’anno scorso quando mi sono comportato come un bastardo: pensavo che odiandoti avrei sofferto meno. Mi sbagliavo…”

Gli occhi della donna si riempirono di lacrime di gioia, poi gli corse incontro e lo abbracciò con forza, cercandone le labbra con le proprie.

Lo baciò in modo diverso da come si erano baciati nelle ore precedenti, in cui era stata la lussuria a dettare legge.

Lo baciò con tutto l’amore puro, semplice e innegabile che provava per lui.

 

Nota dell’autrice

Eccoci al termine di questo viaggio. Prima di salutarvi definitivamente, vorrei dire grazie a chi ha letto la storia in silenzio, a chi ha messo la storia nelle preferite, nelle ricordate e nelle seguite e naturalmente un grazie speciale a blodi52 che ha commentato con affetto ogni singolo capitolo.

Grazie come sempre anche al mio angelo custode, che ha letto la storia in anteprima e mi ha aiutato a migliorarla.

Grazie – ça va sans dire – a Nicolas Barreau e ai suoi deliziosi romanzi, da cui ho preso spunto. In particolare, Aurélie Bredin e Jacquie, con il loro ristorante, provengono da “Gli ingredienti segreti dell’amore”. Alain Bonnard e il suo Cinéma Paradis sono il cuore di “Una sera a Parigi”. Robert Shermann e Rosalie Laurent sono i protagonisti di “Parigi è sempre una buona idea”. Margaret [Tilling], invece, è una delle voci narranti de “Il coro femminile di Chilbury”, uno splendido romanzo epistolare di Jennifer Ryan, che stavo leggendo durante la stesura di questa ff e mi è piaciuto così tanto che dovevo in qualche modo rendergli onore.

Non l’avevo ancora scritto, ma naturalmente questa è un’opera di fantasia. Ho il massimo rispetto per le scelte di vita dei due attori protagonisti e auguro loro tanta felicità, con chiunque essi la vogliano condividere.

Un abbraccio,

Deb

 

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