Quelle camere d'albergo

di Melisanna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dietro le porte ***
Capitolo 2: *** Una veste di seta ***
Capitolo 3: *** Di paesi alieni e bisogni negati ***



Capitolo 1
*** Dietro le porte ***


Un grazie enorme a Melanto, per essersi presa la briga di betare la storia, nonostante i mei periodi intricatissim, la mia pignoleria e la mia dislessia ai massimi livelli. Sei una luce di salvezza in questo mondo oscuro!

Jun se ne andava sempre per primo. A volte si alzava e spariva mentre Kojiro stava ancora dormendo, lasciandolo a svegliarsi solo nel letto sfatto, con la testa pesante per il sonno pomeridiano, il sesso soddisfatto e il petto greve. A volte sgusciava via appena avevano finito, si rivestiva nella penombra mentre lui lo fissava da sotto le palpebre, osservando il suo corpo snello coprirsi di quegli abiti che lo allontanavano da lui, non più Jun e di nuovo Misugi.
Era così da due anni. Quasi tutte le settimane, non più di una volta, ma raramente meno. Mai quando erano in trasferta, ufficialmente perché il sesso non giovava alle prestazioni in campo di Kojiro, ufficiosamente perché farsi scoprire durante un’avventura omosessuale non avrebbe giovato al matrimonio di Jun.
Non gli aveva mai chiesto di trattenersi, di cenare insieme. Di dormire nello stesso letto fino al mattino. Sapeva di volerlo, così come sapeva che Jun avrebbe detto di no e non aveva voglia di sentire quella parola uscire dalle sue labbra. Non gli piaceva chiedere, tanto meno quando aveva già la risposta.
Si limitava a osservarlo, mentre si abbottonava lentamente la camicia, si infilava i pantaloni, si ravviava i capelli, osservandosi appena un secondo allo specchio per essere sicuro di essere perfetto. Ma tanto lui lo era sempre, perfetto.
Kojiro fissava il corpo atletico in controluce contro le persiane da cui filtrava un filo di luce pomeridiana, pensava che avrebbe voluto chiamarlo, dirgli di levarsi quella maledetta camicia e distendersi accanto a lui e fare sesso di nuovo, finché non fosse stata sera, perché, mentre si vestiva, era ancora più sensuale di quando si spogliava, con quelle mani dalle dita lunghe che spingevano i bottoni attraverso le asole uno a uno, tutti, anche quelli delle maniche, tranne i due più in alto, vicini al colletto – sempre tutti, tranne gli ultimi due, perfetta sintesi di eleganza classica e modernità – con i lembi della camicia che accarezzavano le gambe asciutte, perché si infilava sempre i pantaloni per ultimi; Kojiro era convinto che lo facesse per farsi guardare con ancor più famelico desiderio, sapendo quanto lui fosse preda del fascino delle sue gambe.
Sapeva che lui era preda del fascino delle sue gambe e aspettava allora fino all’ultimo prima di nasconderle sotto i pantaloni dal taglio perfetto – pantaloni che Kojiro non aveva mai posseduto, perché anche se adesso avrebbe potuto permetterseli, i negozi di lusso lo intimorivano, lo mettevano a disagio le commesse attraenti e ben vestite che sorridevano meccaniche e sta benissimo con questa, signore e sapeva perfettamente di non essere in grado di distinguere un capo di valore da un altro e quindi continuava a indossare gli stessi jeans e le stesse magliette e a dirsi che non gli importava cosa si metteva addosso. E quando  infine li indossava, quei pantaloni che Kojiro non si riusciva a permettere, Jun lo faceva con lentezza e cura, lasciando a lui il tempo di guardarlo e desiderarlo ancora, ogni minuto, ogni secondo, da sotto le ciglia, mentre infilava il bottone di corno nell’asola e tirava su la zip e chiudeva la fibbia della cintura di Armani. Mentre il sole pomeridiano disegnava su di lui geometrie di luce che ritagliavano un Jun diverso a ogni movimento, si legava le stringhe delle scarpe perfettamente lucidate di Ferragamo – Indossava solo scarpe italiane, solo scarpe di Ferragamo, solo scarpe perfettamente lucidate da qualcuno che avrebbe potuto essere Kojiro se qualcosa in passato, una singola cosa, fosse andata diversamente, se un pallone avesse rimbalzato male, se un ginocchio avesse ceduto, se si fosse ammalato il giorno sbagliato. E poi Jun non era più lì, Misugi si alzava e se ne andava, chiudendosi la porta della camera alle spalle.
Kojiro restava nel letto a fissare il filo di luce sul soffitto, il petto greve, il sesso soddisfatto, mentre un senso di vuoto si faceva largo in lui. Fissava quel filo di luce sul soffitto e sulle pareti, che solo poco prima aveva accarezzato Jun e che poi Misugi aveva spezzato con il suo passo fluido. Aspettava che evaporasse il torpore degli orgasmi, poi si alzava e si trascinava nel bagno impersonale e si lavava con un bagnoschiuma che non era suo e non era di Jun e odorava di albergo e di relazioni spezzate, si infilava una maglietta vecchia e vecchi jeans, perché non gli importava cosa indossava e, anche se gli fosse importato, non avrebbe saputo distinguere un capo di valore da un altro e i negozi di lusso lo intimorivano e lo mettevano a disagio le commesse attraenti con i loro sorrisi meccanici. Scivolava fuori dall’edificio, senza fermarsi dal portiere – era sempre Jun a occuparsi di tutto, perché sapeva come tenere un segreto – e si tuffava nelle strade, il collo del giubbotto alzato e un paio di occhiali scuri a separarlo dal mondo.
Anche quella sera indossava occhiali scuri, quando aveva sentito squillare il telefono. L’aveva sentito squillare già mentre faceva scattare la serratura e sollevò la cornetta mentre sfilava gli occhiali e cercava di adattare la vista alla confortevole oscurità dell’appartamento.
– Dov’eri, Hyuga? Cosa ti ho comprato un cellulare a fare se lo tieni spento? È tutto il pomeriggio che ti cerco, non mi aiuti così, lo sai? Già hai la fama, ampiamente meritata se vuoi il mio giudizio, di essere una grandissima testa di cazzo, se poi manco ti fai trovare, cosa ti aspetti? Non è che all’estero si taglino le vene per darti lavoro, sappilo. Faccio il possibile per presentarti nel modo migliore possibile, ma tu devi smetterla di comportarti da stellina.
Kojiro non ribatté. Dubitava che qualsiasi mirabolante offerta di ingaggio potesse venire influenzata da due o tre ore di attesa, ma Tadashi era un bravo manager e non aveva voglia di discutere.
– Ho fissato un tavolo stasera al Sushitomi alle 20.30. Fatti trovare all’ingresso un quarto d’ora prima, devo controllare che tu sia in condizioni presentabili. Ti ho fatto recapitare un abito a casa, lo trovi sulla sedia in camera, quella di fronte al letto. Ho usato le misure dell’ultima volta, dovrebbe andare bene. Ho già preparato tutto: camicia, calzini, cravatta. Le scarpe metti quelle di Hugo Boss che ti ho comprato il mese scorso e pettinati quei cazzo di capelli. Spero che tu non abbia le occhiaie, non hai le occhiaie vero?
– Non avevo le occhiaie l’ultima volta che ho controllato.
– Quanto tempo fa è stato?
– Mezz’ora fa.
– Ricontrolla.
Gettò una rapida occhiata allo specchio nel corridoio.
– Non ho le occhiaie.
– Va bene. Ti aspetto. Non fare scherzi. Ti ho inviato la mappa sul cellulare, quindi accendilo e vieni in taxi. Non mi importa se è caro, ti puoi permettere tutti i taxi che ti pare.
– Non farò scherzi, accenderò il cellulare, verrò in taxi. Altro?
Non fare scherzi.
– Non ne farò. Adesso posso sapere chi devo incontrare?
– No. Scaramanzia.
– Vaffanculo, Tadashi.
Dopo la cena. Se va bene avremo così tanti soldi che potremo andarcene dove cazzo ci pare, anche a fanculo. O in pensione. O almeno io potrò andarmene in pensione. Tu dovrai continuare a giocare finché reggi.
Mise giù, mentre un fremito gli scorreva dal braccio lungo la spina dorsale. La voce di Tadashi vibrava di eccitazione. Forse si trattava di qualcosa di davvero grosso, stavolta. Una squadra cinese, forse? O magari americana?
Accese il cellulare, che protestò subito vivacemente, sommergendolo di segnali di annunci di chiamate non risposte. Cinque erano di sua madre, due di Takahashi e una di Ken. Tadashi aveva telefonato ben dodici volte. Doveva averlo cercato per tutto il pomeriggio, tartassando anche tutti i suoi conoscenti. Tranne l’unico che avrebbe saputo dirgli dove si trovava. L’unico che avrebbe saputo dirgli dove si trovava, ma che non avrebbe potuto dirglielo, perché anche il suo cellulare era spento e la sua lingua era nella bocca di Kojiro e il suo corpo si inarcava sotto di lui.
In camera trovò adagiato su una sedia, un completo antracite di Armani, accompagnato da una camicia grigia di popeline, da una cravatta bordeaux con dei minuti disegni senape e un paio di calzini in tinta. C’era anche un paio di boxer aderenti. La fiducia del manager nel gusto di Hyuga era decisamente ridotta, probabilmente a ragione.
Si cambiò, cercando di imitare i gesti precisi che aveva osservato Jun compiere poco prima, ma quando si guardò allo specchio si vide stropicciato e rigido e desiderò che ci fosse lì Jun a stringergli la cravatta intorno al collo, a spianargli le pieghe della camicia, a sistemargli le spalle della giacca, con quei gesti precisi, che aveva visto compiergli poco prima, ma che lui non riusciva a imitare. O almeno Tadashi a dirgli che no, non sembrava un perfetto idiota. Armeggiò con il nodo della cravatta per qualche secondo, poi se la strappò dal collo con un gesto infastidito e la gettò sul letto. Tadashi si sarebbe accontentato del completo e della camicia.
Chiamò il taxi e, mentre lo aspettava, riesumò un borsello di pelle di Yamamoto che gli aveva regalato una delle sue ragazze in serie, qualche mese prima. Era un’Idol ed era convinta che Kojiro si sarebbe ricordato ancora il suo nome a mesi di distanza, invece Kojiro non se lo ricordava, ma si era ricordato quel borsello che era di pelle e di marca e a Tadashi sarebbe piaciuto e forse anche a Jun, se Jun avesse potuto vederlo.
Si infilò le scarpe e alle otto e dieci era davanti al ristorante, gli occhiali scuri a nasconderlo dal mondo. Tadashi arrivò nel momento esatto in cui l’orologio di Kojiro – era un orologio pesante, di Gucci, con un cinturino di metallo nichelato, anche quello l’aveva comprato Tadashi e l’aveva regolato lui stesso, perché, diceva, l’ora che a Kojiro doveva importare sapere era la sua, di Tadashi – segnava le otto e quindici. Scese dal taxi quasi al volo, la strada era trafficata e davanti al ristorante erano parcheggiate diverse macchine, tutte costose, blu o nere – quella zona di Shibuya era frequentata solo da uomini d’affari e politici, persone che hanno macchine costose, blu o nere. Parlava al cellulare, un Sony Xperia sottile come una carta di credito, un tagliente monolite nero. Kojiro non l’aveva mai visto senza il cellulare in mano, tranne quando si sedevano a un tavolo con dei clienti. Tadashi non sembrava sapere cosa fosse il riposo. Kojiro pensava che fosse per quello che si intendevano così bene, loro due. Per quello e perché Tadashi lo guardava con reverenza e imbarazzo, quando pensava che fosse distratto. L’aveva scelto tra i candidati che aveva a disposizione per lo sguardo che gli aveva rivolto al loro primo incontro e perché era stato professionale e brillante, nonostante quello sguardo. Aveva intuito che l’avrebbe coperto, sempre, qualsiasi cosa su di lui fosse dovuta trapelare, con tutta la sua cristallina efficienza.
Kojiro a volte si sentiva in colpa davanti all’omosessualità stereotipata di Tadashi, ai suoi bei vestiti, ai modi affettati. Si sentiva in colpa, per come sfruttava la sua attrazione per ottenerne la fedeltà incondizionata – era anche vero che Kojiro era un ottimo cliente e aveva fatto intascare al suo agente più soldi di chiunque altro, perciò forse lui non sfruttava Tadashi più di quanto Tadashi sfruttasse lui stesso, ma Tadashi lo faceva in modo pulito. Soprattutto, però, si vergognava dei suoi segreti e delle sue maschere. Si vergognava dei pomeriggi con Jun e delle ragazze in serie, come quella Idol che gli aveva regalato il borsello in pelle, il borsello che indossava in quel momento e che a Tadashi sarebbe piaciuto.
E Tadashi annuì con approvazione davanti al borsello, mentre spegneva il sottile Sony Experia, e lo faceva scivolare in una tasca degli aderenti pantaloni blu e si adombrò notando la mancanza della cravatta. Si strinse nelle spalle.
– Immagino che questo sia il massimo che posso ottenere da te, non è vero?
Gli raddrizzò il colletto e gli lisciò la giacca, come Kojiro si era immaginato che Jun avrebbe potuto fare e percepì il desiderio reverenziale e trattenuto in quelle mani che lo toccavano. Si chiese se Jun percepisse nello stesso modo il suo, se l’avesse percepito per tutti quegli anni in cui aveva seguito ogni suo movimento con una fame tormentosa, se lo percepisse adesso, che stringeva quella carne tra le dita quasi tutte le settimane, non più di una volta, ma raramente meno. Tadashi gli lisciò la giacca e Kojiro sentì come desiderasse prolungare quel contatto, eppure il gesto fu rapido e quasi schivo, il gesto schivo di chi è convinto che il proprio desiderio potrebbe venire considerato offensivo da chi si ha di fronte. Tadashi era acuto e pungente e pochi sfuggivano alle sue critiche sarcastiche, sembrava conoscere dettagli insospettabili della vita privata di chiunque, eppure era incapace di vedere oltre la maschera fragile di Kojiro, con cui passava buona parte del suo tempo. Il suo stesso desiderio lo rendeva cieco, come, quello di Kojiro, lo aveva reso cieco per anni davanti a Jun.
– Così puoi andare, sei quasi accettabile. Se non aprirai bocca, potremmo perfino cavarcela.
Kojiro si strinse nelle spalle con una smorfia e seguì Tadashi all’interno del locale.
Il Sushitomi era un locale tradizionale, anche se di lusso, con alcuni influssi fusion e la maggior parte delle sedute erano alla giapponese, Tadashi però aveva prenotato un tavolo in un separé con la sedie e la ragione fu presto evidente quando arrivarono i loro ospiti. Insieme alla traduttrice giapponese, c’era un occidentale dai capelli grigi che non avrebbe gradito dover stare inginocchiato sul pavimento per tutta la durata della cena.
Tadashi si inchinò profondamente e la traduttrice si inchinò profondamente. L’occidentale porse la mano che Tadashi si affrettò a stringere.
– Tadashi Nakamura, lieto di incontrarla di persona, signore.
 Kojiro accennò un inchino piegando il capo e strinse la mano che gli veniva porta, mentre l’uomo lo studiava attentamente attraverso gli occhiali dalla montatura di corno. Occhiali spessi, color tartaruga, dalle lenti quadrate, davano un’impressione di solida severità.
– Antonio Glessi – disse con voce chiara e profonda, continuando a trattenergli la mano, mentre lo scrutava e Kojiro pensò che dovesse essere il suo nome, quell’insieme di sillabe, perciò borbottò – Kojiro Hyuga –anche se l’uomo sicuramente lo sapeva e infatti si limitò ad annuire, come qualcuno che ha soltanto conferma di qualcosa che conosce bene.
– Levati gli occhiali – sibilò Tadashi mentre si avviavano al separé.
Kojiro li sfilò e li fece scivolare nel taschino della giacca. L’atmosfera della stanza cambiò leggermente e avvertì l’attenzione dei presenti volgersi nella sua direzione e alcuni sussurri eccitati attraversare la stanza, ma la clientela del Sushitomi era tutta di un certo livello e nessuno si azzardò a fissarlo insistentemente, né tanto meno a rivolgergli la parola.
Si sedettero al tavolo e l’uomo cominciò a parlare in una lingua aliena gesticolando espressivamente con le mani grandi e curate. Kojiro colse soltanto il proprio nome, ripetuto più volte e in modo molto più familiare di come qualsiasi giapponese si sarebbe azzardato a fare.
Poi la traduttrice iniziò a parlare e lo prese una sorta di vertigine.
Tornò a casa solo molto più tardi. Tadashi lo accompagnò fin lì, progettando, calcolando e analizzando per tutto il tempo. Kojiro si era accorto che la mancanza di entusiasmo con cui aveva reagito alla notizia aveva lasciato il suo manager spiazzato e vagamente seccato, ma era ancora troppo confuso per riuscire ad afferrare i propri sentimenti in proposito, tanto meno a esprimerli.
Tadashi gli strinse velocemente un braccio prima di salutarlo.
– Hyuga, non puoi farli aspettare, devi firmare entro la fine del mese. Non fare scherzi, è l’occasione della tua vita.
Indubbiamente lo era. Kojiro annuì vagamente e sparì nell’androne buio. Lo sguardo inquieto di Tadashi lo seguì, mentre si chiudeva il portone alle spalle. Salì le scale con la testa vuota, armeggiò con la serratura blindata e poi si trovò finalmente solo, nell’oscurità famigliare. Gettò su una sedia il cappotto e il borsello e si sfilò le scarpe.
Prese un bicchiere dalla vetrina del salotto e si versò del cognac da una bottiglia di cristallo che teneva sul tavolo di mogano. Non aveva mai veramente imparato ad apprezzare gli alcolici costosi, così come il cibo raffinato e i vestiti di lusso, ma quello glielo aveva fatto assaggiare Wakabayashi una volta che erano in trasferta, Wakabayashi che era un altro di quelli che avevano da sempre posseduto tutto quello che Kojiro non aveva mai avuto e ne conoscevano il valore. Gliel’aveva fatto assaggiare Wakabayashi, una volta che erano in trasferta in Francia e Kojiro l’aveva trovato eccezionalmente buono e ottimo per pensare. Così ne teneva sempre una bottiglia in casa, per momenti come quello, in cui avvertiva più che in altri la mancanza della sua famiglia rumorosa e caotica, dei compagni di squadra e, soprattutto, di Jun.
Affondò nella poltrona di pelle, nella penombra illuminata appena dai lampioni. Ruotava lentamente il bicchiere, facendo ondeggiare il liquido ambrato, che sembrava nero e opaco come vernice, accendendosi solo di brevi lampi dorati quando incrociava i tagli di luce gialla e bevve un breve sorso pensieroso.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno e quasi in automatico la mano corse al cellulare, ma era notte fonda e anche se Takeshi e Ken erano sempre disponibili per lui, chiamarli a quell’ora sarebbe stato fuori luogo. Chiamare Jun era, ovviamente, impraticabile. Kojiro si concesse qualche momento per visualizzare il silenzio placido della sua villa improvvisamente interrotto dagli squilli urgenti del telefono, sua moglie che apriva gli occhi e lo fissava interrogativa, mentre lui prendeva il cellulare e si spostava i capelli castani dal bel volto assonnato.
Tenne in mano il cellulare per qualche secondo, fissando la superficie liscia come per trovare una risposta. Poi digitò rapidamente un messaggio sintetico, sufficientemente anonimo da non poter essere considerato ambiguo.
Devo vederti prima della partita.
Rimase a soppesare le parole per un minuto, rigirandosele nella mente alla ricerca di un punto debole nella formulazione. Chi l’avesse eventualmente letto avrebbe pensato che si trattava di una questione relativa agli allenamenti? Non c’era margine di sospetto? Sembrava qualcosa di troppo personale? Premette invio. Finì il contenuto del bicchiere in un solo sorso, lasciò il bicchiere in cucina, sul ripiano del lavandino e se ne andò a letto, nervoso.
La risposta al messaggio lo aspettava la mattina, sotto forma di un indirizzo e una data. Kojiro sospirò con nervosismo. Avrebbe dovuto attendere due giorni prima di vederlo, ma Jun aveva ragione, come sempre, erano entrambi impegnati negli allenamenti martedì e mercoledì Kojiro doveva posare per la fastidiosissima campagna pubblicitaria di un dopo-barba. Ne avrebbe fatto volentieri a meno e se n’era dimenticato appena Tadashi aveva finito di dirglielo, ma Jun se ne ricordava. Ricordava sempre tutto.
Mandò un rapido messaggio a Takeshi e a Ken, lo mandò rapidamente e senza pensare, perché non doveva controllare di non far trapelare il proprio nervosismo, né il bisogno di parlare. Ken rispose dopo pochi minuti dandogli appuntamento per la sera seguente, Takeshi si aggregò la mattina dopo, scusandosi per il ritardo.
Li trovò entrambi già seduti a un tavolino, quando arrivò, che parlavano animatamente fra di loro. Ken gli rivolse il suo sorriso ampio, mentre Takeshi lo squadrò con un alone di preoccupazione intorno agli occhi scuri. Kojiro si sfilò gli occhiali, tra i mormorii a cui era ormai abituato e si sedette a gambe larghe, occupando come sempre un po’ più dello spazio che gli sarebbe stato dovuto. Non poteva farne a meno, la sua presenza si imponeva, con il fisico massiccio e i modi aggressivi spostava l’aria intorno a sé, costringendo gli altri a concedergli spazio.
– Allora? – Takeshi lo interrogò subito – Cosa è successo?
Ken si limitò a fissarlo da sopra la pinta di Weiss, ma Kojiro poteva sentire la domanda inespressa.
– Mi hanno fatto una proposta di ingaggio. Un’ottima proposta di ingaggio.
– Ma? – chiese Takeshi sospettoso.
– Non ho ancora deciso se accetterò.
– Per che squadra?
Kojiro strinse rapidamente i pugni prima di rispondere. Non era ancora venuto a patti con quell’enormità e formularla ad alta voce avrebbe corrisposto ad accettarla. Nel momento in cui avesse pronunciato quelle parole avrebbe dovuto confrontarsi con quella realtà.
– La Juventus Football Club.
Ci fu un attimo di silenzio. Il primo a romperlo fu Ken.
– Stai parlando della Juventus italiana?
– Sì.
– Quella di Torino? Con la divisa a righe bianche e nere?
– Sì e sì. Quante Juventus conosci?
Ci fu un altro attimo di silenzio.
– E che cazzo aspetti ad accettare? – Esplose Ken, con quell’entusiasmo che avrebbe voluto riuscire a manifestare anche Kojiro.
– Non so. Mi sembra assurdo. Che ci faccio io nella Juventus?
– Sei il miglior bomber del Giappone.
– Del Giappone. Già. C’è solo un altro giapponese in una squadra italiana di serie A, al momento.
– E questo ti preoccupa, veramente? Quanti zeri ci sono su quel contratto? – Le sopracciglia di Ken erano salite così in alto da sparire sotto i ciuffi scuri.
– O c’è qualcos’altro? – Chiese Takeshi investigativo – Non hai mai desiderato altro che andare lontano con il calcio.
Kojiro si scostò i capelli dalla fronte per prendere tempo.
– Forse non pensavo che sarei andato così lontano. Volevo solo essere il migliore qui, in Giappone. E non ci sono mai riuscito. – Una rapida occhiata a bloccare le proteste di Ken – Non veramente, sono solo uno veloce e forte e resistente. E ora mi ingaggiano per la Juventus. Non capisco che cazzo succede.
Ken e Takeshi sprofondarono di nuovo nel silenzio per qualche secondo, fissando l’interno dei loro bicchieri. Kojiro ne approfittò per alzare una mano, chiamare un cameriere e farsi portare una pinta di scura.
– Ci andrai comunque, vero? – Ken lo guardava confuso.
– Ci mancheresti – aggiunse Takeshi.
Kojiro inspirò. Sarebbe andato? Aveva sempre giocato a calcio per trovare il suo posto nel mondo, per sfuggire all’ostracismo della società verso chi non ha niente e non è nessuno. Aveva giocato per la sua famiglia e per i suoi compagni. Aveva giocato per riscattarsi dalla solitudine e dalla povertà. Non poteva fermarsi, poteva solo andare avanti, perché il pensiero di poter tornare indietro lo riempiva di paura.
Solo che non pensava che sarebbe stato così tanto avanti.
Non si era mai abituato ai vestiti di lusso, ai cibi raffinati e agli alcolici costosi, ma si era abituato al suo appartamento silenzioso, si era abituato all’affetto di Takeshi e di Ken, si era abituato all’adorazione di Tadashi e ai suoi commenti sarcastici, si era abituato a quei pomeriggi in albergo, quasi tutte le settimane, non più di una volta, raramente meno e a Jun che spingeva i bottoni nelle asole della camicia, mentre lui lo guardava da sotto le ciglia.
Non era sicuro di poter essere di nuovo solo, solo come uno straniero in un paese straniero, con gente che ti fissa con insistenza attraverso occhiali di corno, gesticola in modo espressivo e ti chiama per nome come se ti conoscesse da sempre.
Non poteva nemmeno continuare a collezionare ragazze in serie, come quella Idol che credeva che lui si sarebbe ricordato il suo nome, quando era solo annoiato dalla loro presenza e dalle loro voci acute. Non poteva continuare a contare le ore che lo separavano da un incontro con Jun e a giacere nel letto, fingendo di dormire, mentre lui si vestiva e se ne andava, lasciando un senso di vuoto a farsi largo in Kojiro.
– Immagino di sì, vero? – chiese, incerto su quello che avrebbe dovuto pensare.
– Andrai ovviamente, – assentì Ken –Non potresti farne a meno.
– Se vorrai – aggiunse Takeshi – Potresti anche non volere.
Kojiro annuì e bevve la sua birra e desiderò che Takeshi avesse detto qualcos’altro, perché le sue parole gli rendevano ancora più difficile prendere una decisione.
Il pomeriggio seguente ci fu il fastidiosissimo servizio per la pubblicità del dopo-barba che Kojiro sopportò con stoicismo e non solo perché Tadashi gli aveva intimato di essere cortese, ma anche perché aveva letto con cura il contratto. Sapeva quanto gli avrebbe fruttato quella giornata di lavoro e nella sua mente era troppo chiaro il ricordo di quando faticava a guadagnare poche centinaia di Yen, per non dare importanza agli zeri che si erano inanellati sotto i suoi occhi.
Tadashi volle controllare le foto personalmente e impose al fotografo di cancellare seduta stante quelle che riteneva non rendessero sufficiente giustizia a Kojiro. Era un bravo agente e Kojiro il suo cliente migliore, soprattutto adesso che stava per firmare un contratto con uno dei club più prestigiosi al mondo.
– Firmerai vero? – Fu l’ultima cosa che gli disse prima di salutarlo – Non fare scherzi, Hyuga, ti prego, non farli.
Kojiro lo fissò in tralice e si strinse nelle spalle.
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Quando entrò nella stanza Jun era già lì. Jun arrivava sempre prima, ed era Kojiro che faceva  sì che accadesse, perché non sopportava l’attesa. Non sopportava di trovarsi da solo nella stanza a chiedersi se sarebbe venuto anche quella volta, a fremere di timore ed eccitazione. Così ritardava sempre, in modo da entrare nella stanza quando Jun era già seduto sul letto con un libro in mano.
Quel giovedì pomeriggio, Jun non era seduto e non aveva un libro in mano. Era in piedi davanti alla finestra e guardava il mondo sottostante. Il sole del pomeriggio accendeva riflessi dorati nei suoi capelli castani e quando si voltò verso Kojiro i suoi occhi sembrarono trasparenti come vetro. Sorrise.
– Buonasera, Hyuga. Cosa…?
Kojiro non gli diede il tempo di completare la frase. Adesso aveva solo bisogno di sentire il suo corpo contro il proprio, di mordergli le labbra, di sentire i suoi ansiti di piacere. Aveva bisogno di scacciare ogni pensiero dalla mente con il sesso e il desiderio.
Avvertì per un momento Jun irrigidirsi, ma si riprese quasi subito dalla sorpresa e si spinse contro di lui. Kojiro gliene fu grato, come gli fu grato delle mani e della bocca che lo accarezzavano e lo stringevano e lo baciavano e lo mordevano, staccando una a una tutte le spine del suo cervello, finché di Kojiro non restò altro che un corpo elettrico e un frastuono di sangue nelle orecchie.
Quando Kojiro si fu rotolato sulla schiena e i pensieri cominciarono a tornare lentamente al loro posto, Jun si alzò e andò in bagno. Kojiro ascoltò lo scroscio della doccia diffondersi nella stanza e poi il ronzio dell’asciugacapelli. Jun tornò nella stanza dopo pochi minuti, fresco e perfetto come quando Kojiro l’aveva trovato in piedi, davanti alla finestra e cominciò a rivestirsi.
– Cosa c’è, Hyuga? Di cosa volevi parlarmi?
Era impossibile sfuggire a Misugi. La voglia di parlargli del contratto, però, aveva abbandonato Kojiro.
Si passò una mano sul volto, cercando di schiarirsi le idee e inarcò il corpo massiccio stirandosi.
– Sono stanco di questa storia – disse alla fine.
Jun lo guardò, abbottonandosi un polsino, con quel suo modo sensuale che spingeva sempre Kojiro a desiderare di chiedergli di tornare a letto.
– Vuoi che smettiamo di vederci? – chiese. Ma era una domanda retorica. Jun sapeva benissimo che lui non avrebbe mai desiderato smettere di vederlo. Solo l’idea lo faceva impazzire.
Buttò le gambe giù dal materasso e si alzò, per fronteggiarlo.
– Sono stanco di vederti così. Stanco di vederti ogni volta in un albergo diverso, stanco di non poterti chiamare quando mi va, stanco di dover fingere tutto il tempo. Sono stanco di tornare tutte le sere in una casa vuota e di cercare di non guardarti quando siamo in campo.
Un fremito di eccitazione lo colse. Era un suicidio. Come gli era venuto in mente? Misugi non avrebbe mai accettato, non si sarebbero più visti, l’avrebbe perso. Eppure, come ogni volta che si trovava di fronte a una sfida, il suo spirito si infiammava e tanto più rischiava di perdere, tanto più si appassionava al gioco.
Jun lo giudicò con freddezza.
– Che ti succede, Hyuga? Sai benissimo come stanno le cose e ti è sempre andato bene fino ad ora. Ho una moglie.
– Non ti importa di tua moglie. Non ti importa davvero di tua moglie. Altrimenti non saresti qui.
Ora che aveva superato il confine che si erano tacitamente dati, le parole scorrevano più facilmente.
Jun sorrise divertito.
– Cosa sai di cosa mi importa, Hyuga? Ci vediamo solo in campo e qualche ora per scopare.
Senza quasi rendersene conto, Kojiro gli si fece più vicino, spostando l’aria intorno a sé, in quel modo che costringeva tutti a concedergli spazio. Tutti, ma non Jun, che parve quasi non accorgersi del movimento, o forse sì, se ne era accorto, ma non se ne interessava, perché Kojiro poteva spaventare gli altri, ma non lui.
– So cosa ti importa, so di te cose che non sa nessun altro. So che non sei mai così vivo come quando sei con me, quando ti levi quella facciata da principino perfetto. Scommetto che per tua moglie sei ancora un principino, non è vero? Non ti ha mai visto, lei, contorcerti negli orgasmi, sporco di sesso e di sudore, mentre ti mordi le dita, non t’ha mai visto con quei bei capelli ordinati incollati alla fronte. Non t’ha mai sentito gridare di piacere mentre ti scopo. Non sa quanto sei bravo a succhiarmelo, quanto ti piace lasciarmi senza fiato quando lo prendi in bocca e…
Kojiro si interruppe spiazzato dalle sue stesse parole, non parlava mai così tanto, non parlava mai così. Era convinto di non essere neanche in grado di metterle in fila, così tante parole.
Jun gli si accostò. – Mi piace quando parli in questo modo, Hyuga – mormorò – Mi hai quasi convito a rimandare la cena.
Un muscolo guizzò sulla mascella di Kojiro, mentre serrava i denti. – Non è di quello che stavo parlando.
– No, stavi parlando del fatto che vorresti che facessimo coming out da un giorno a un altro, io divorziassi e andassimo a vivere insieme. Sbaglio?
Rimase un attimo interdetto. Era di quello che stava parlando? Era quello che intendeva? Non ci aveva riflettuto, sapeva solo che non voleva ancora quelle camere d’albergo e guardare Jun mentre si rivestiva e scivolava via.
– S-sì – balbettò mentre sentiva il suo sguardo sfuggire agli occhi di Jun. Lo voleva?
– Ebbene e se anche io divorziassi? Tu saresti pronto a mollare tutto? Se anche mollassi il calcio, io potrei sempre gestire gli affari di famiglia. Ho una laurea in Economia e esperienza sul campo. Ma tu? Hai messo da parte abbastanza denaro in questi anni?
Kojiro sbatté le palpebre, confuso. Jun era sempre avanti a lui, quando si trattava di discutere.
– Non penserai veramente di poter continuare a fare il calciatore, dopo esserti dichiarato? Ti faranno a pezzi. Smetterai di giocare?
– Io… – Non l’aveva mai pensata in quei termini. Di coming out e di gusti sessuali.
– Sei disposto a rinunciare a giocare? Potrei persino essere ricco abbastanza per entrambi, ma tu vorresti veramente dipendere da me? Vorresti rinunciare a tutto quello che hai ottenuto fin ad adesso?
Jun lo fissò e Kojiro non rispose. Jun si voltò e si infilò i pantaloni e lui seppe di aver perso il momento.
– Andrò a giocare in Italia – disse in preda al panico, cercando di giocarsi l’ultima carta che gli restava – Là non ci conoscerebbe nessuno, guadagnerò bene.
Jun lo guardò da sopra la spalla mentre apriva la porta e Kojiro vide un’ombra di sorriso aleggiargli all’angolo della bocca. – Credi veramente che sarebbe diverso? Come sei ingenuo, Hyuga.
Kojirò rimase a guardare la porta che si chiudeva e poi cadde a sedere sul letto sfatto, improvvisamente privo di energie. Rimase immobile, a testa china, i capelli scuri, umidi di sudore che gli coprivano gli occhi.
Quindi allungò una mano a prendere i jeans che aveva gettato in terra prima. Frugò nelle tasche e prese il cellulare, meccanicamente, con la mente vuota.
– Hyuga! Non mi aspettavo…
– Digli che accetto. Firmo quando vogliono.
Sentì Tadashi che boccheggiava dall’altra parte del telefono.
– Che sorpresa! Cosa ti ha fatto decidere? Conoscendoti mi aspettavo che avresti continuato a fare storie fino all’ultimo per qualcuno dei tuoi capricci. Devo chiamarli subito e iniziare…
Kojiro chiuse la comunicazione e rimase solo. Di nuovo solo in quella stanza di albergo, con l’odore dolciastro del sesso che andava lentamente svanendo e Jun che se ne era andato, scivolando fuori dalla stanza con la sua camicia perfetta e il sorriso che aleggiava all’angolo della bocca.

 

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Capitolo 2
*** Una veste di seta ***


Grazie ancora a Melanto per essere stata una beta impeccabile: senza di lei non sarei mai arrivata alla fine. Questo capitolo è dedicato a Jun. Per il prossimo che sarà anche l'ultimo torneremo da Kojiro

I due segugi di Weimar gli si fecero incontro mentre apriva il cancello, vibrando eccitati sotto i manti grigi per la felicità di rivederlo. Lo accompagnarono lungo il vialetto, trottandogli intorno alle gambe e scoccandogli sguardi devoti con gli occhi ambrati.
Jun li salutò con una carezza sul capo, l’unica finestra illuminata della villa era quella della cucina. C’era solo la cuoca in casa. Yayoi doveva aver fatto tardi a lavoro e forse la tata aveva portato Midori al parco. Lottò brevemente con i due cani per impedir loro di seguirlo dentro casa e si infilò nel portone.
Si sfilò le scarpe e a piedi nudi percorse il lungo corridoio che portava nel suo studio. Solo quando si fu chiuso la porta della stanza alle spalle, si concesse di sospirare e di lasciare che la stanchezza gli piombasse addosso. Era stata una lunga giornata. Pescò dal frigo-bar un paio di bottiglie e il ghiaccio e si preparò un Martini cocktail – compiere quei gesti precisi e meccanici lo aiutava a rilassarsi – con molto gin e poco vermouth.
Con il bicchiere dallo stelo sottile in mano, si sedette alla scrivania, davanti al mcbook spento e lo fissò aggrottando la fronte liscia.
Kojiro – no, Hyuga, non Kojiro – si sbagliava: a lui importava di sua moglie. Le donne gli piacevano, non era come Hyuga che una volta, durante il sesso, gli aveva confessato che quando si scopava le sue soubrette doveva pensare tutto il tempo a lui, per farselo venire duro, perché in quei corpi molli non trovava attrattiva erotica. L’aveva detto mentre gli mordeva una spalla e gli ansimava in un orecchio e gli affondava le dita nei fianchi, annegando nel desiderio, con gli occhi come pozze nere. Ma Jun non era come lui, le donne gli piacevano. Quando aveva sposato Yayoi era stato sinceramente innamorato di lei e ancora provava piacere quando facevano all’amore. Gli piacevano i suoi piccoli seni, appena un po’ meno sodi dopo la gravidanza, gli piacevano la sua vita sottile e la sua pelle liscia e gli piaceva il modo con cui lo scrutava, con sguardi devoti come quelli dei due grandi segugi di Weimer che lo avevano accolto al cancello, vibrando di eccitazione.
Bevve un lungo sorso del liquido trasparente e mentre il calore dell’alcool gli si diffondeva nelle vene, sentì quell’insopportabile sobrietà, che lo affliggeva la maggior parte del tempo, allontanarsi.
Su questo Hyuga aveva ragione: anche dopo anni di matrimonio, Yayoi continuava a vederlo come un principe perfetto, a volte persino lo prendeva in giro con garbo, per il suo essere troppo cortese e generoso con tutti. Eppure non era né stupida né ingenua, si era laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti e già dal terzo anno aveva cominciato a lavorare come assistente di  un avvocato civile. Sul lavoro non si risparmiava mai, era precisa, feroce, testarda come un mastino e dotata di ottime intuizioni. Aveva imparato a giudicare i rapporti interpersonali con acume e una vena di sarcasmo, ma non rinunciava a perseguire con tenacia il suo personale ideale di giustizia. Tornava a casa la sera, nei suoi tailleur pastello di ottimo gusto e, mentre si sfilava le decolté di vernice, raccontava la sua giornata a Jun, ridendo di quelle mogli e di quei mariti che cercavano di nascondere le loro scappatelle persino davanti alla signora Harada, il suo capo, che sapeva perfettamente che stavano mentendo, così come perfettamente lo sapeva Yayoi.
–  Dovresti vedere come la guardano, quando gli dice che, se vogliono che li rappresenti, a lei devono dire la verità! – era la sua battuta preferita – Come cuccioli sorpresi a fare la pipì sul tappeto.
Cenavano insieme, inginocchiati uno di fronte all’altra sui tatami della sala da pranzo e Yayoi parlava animatamente tutto il tempo, arricciando il naso grazioso, mentre agitava le bacchette per sottolineare le parole e la luce si rifletteva sui grandi orecchini d’oro a forma di conchiglia, con un piccolo diamante all’apice, che Jun le aveva regalato per il primo anniversario di matrimonio.
– Quel grassone di Nakata, lo odio! Continua a guardarmi le gambe durante le udienze e devi sentire con che voce viscida mi propone di andare a cena insieme “perché ci sarebbero grandi opportunità” dice “nel mio studio, per una in gamba come te”. Ma chi ha bisogno delle sue opportunità, dico io? So io che tipo di opportunità ha in mente, quel maiale. Ma oggi gliel’abbiamo fatta pagare. La signora Harada ha pelato il suo cliente fino al midollo, risarcimenti morali e materiali, l’appartamento a Roppongi e la villa ad Asakusa, il 30% delle azioni dell’azienda, con possibilità di convertirle in denaro, gli alimenti e l’affidamento dei figli, ovviamente.  E ho trovato quasi tutti i documenti e le prove io! Non hai idea di quanto tempo ho passato a frugare in archivio e a pedinarlo. Pensa che avevano cercato di nascondermi la casa al mare… Che imbecilli, li ho beccati e ci siamo prese la percentuale anche su quella. Se l’è meritato quel bastardo,  sai che aveva due amanti? E con una ci aveva fatto anche un figlio! E tutte e tre credevano di essere la sua donna ufficiale. Come faceva a credere di potersela cavare?
Yayoi parlava animatamente, agitando le bacchette per sottolineare le sue parole e a Jun piaceva guardarla mentre lo faceva e pensare al sesso che avrebbero fatto dopo.
Eppure delle menzogne di Jun non si accorgeva mai, o forse non voleva accorgersene e preferiva vedere solo ciò che le piaceva e immaginarsi che fosse ancora il ragazzo di tanti anni prima, quel ragazzo così forte e così fragile. Yayoi aveva sempre cercato di difenderlo, prima da sé stesso e dal suo desiderio di giocare a calcio nonostante il cuore malato, poi dai suoi avversari e quindi dalla vita. Non aveva esitato nemmeno a giocare sporco, perché, anche da ragazzina, nonostante l’aria graziosa, Yayoi era già testarda come un mastino e dotata di ottime intuizioni, che adesso le stavano spianando la strada come avvocato. Aveva cercato di fargli vincere il campionato con meno sforzo possibile, rivelando a Tsubasa della sua malattia e Jun si era sempre chiesto quanta ingenuità e quanto calcolo ci fossero, dietro a quella rivelazione.
Yayoi gli rivolgeva sguardi adoranti come quelli dei due Weimar, ma al tempo stesso lo trattava come una veste di seta, da tenere chiusa in un cassetto perché sarebbe bastata una goccia d’acqua a rovinarla, da spolverare con delicatezza e avvolgere nella carta velina. Ogni volta che Jun aveva aperto gli occhi in ospedale, Yayoi era stata lì, pronta a qualsiasi sua richiesta. Aveva imparato a conoscere i ticchettii e i ronzii delle macchine a cui Jun era attaccato. Sapeva quando era tempo di cambiare la flebo e quando aveva bisogno del pappagallo. Aveva visto le cicatrici sul suo petto quando erano ancora lunghi squarci rossi, aveva aiutato a lavarlo, a vestirlo, persino ad accompagnarlo in bagno. Ogni settimana gli preparava le medicine dividendole a seconda dei giorni della settimana e a seconda degli orari a cui doveva assumerle e ogni sera controllava che non le avesse scordate.
Avevano abbastanza argomenti in comune da non venirsi mai a noia e si conoscevano da talmente tanto da capirsi senza parlare. Avevano i loro scherzi e ridicoli modi di dire di cui si sarebbero vergognati in pubblico, abitudini consolidate, calde e accoglienti come un batuffolo di lana,  e sciocchi litigi che si ripetevano sempre uguali sugli stessi argomenti e che terminavano con Yayoi che rideva in quel suo modo un po’ sguaiato, con la bocca aperta e i denti grandi che balenavano bianchi. Avevano il ricordo di Yayoi seduta accanto al letto di Jun ogni volta che lui apriva gli occhi in ospedale.
E avevano in comune Midori. A Jun si chiudeva la gola, solo all’idea di poter perdere Midori. L’aveva adorata fin dal primo momento in cui l’aveva vista e sapeva benissimo di essere succube di lei, ma non riusciva a fare a meno di viziarla. Rimaneva senza fiato ogni volta che la guardava, non riusciva a capacitarsi di aver potuto dar vita a qualcosa di così bello, a quelle mani così piccole, ma così perfette, che si aggrappavano ai suoi pantaloni o alla coda di uno dei Weimar, quando Midori cercava sostegno; a quegli occhi grandi e specchianti e a quella risata cristallina di pura gioia che le sgorgava dalla gola palpitante. A volte le appoggiava una mano sul capo, solo per il gusto di studiare con le dita quel cranio rotondo, coperto dai soffici capelli corvini, di tastarlo con la delicatezza che si ha per un vaso di ceramica, rimanendo ogni volta sorpreso dalla sua perfezione.
Chiuse gli occhi, colto da un dolore improvviso, all’idea di poter un giorno, per qualsiasi ragione, non poter più toccare Midori in quel modo e finì il Martini con un rapido sorso, che allontanò la realtà di un altro passo.
Gli piaceva stringere dolcemente fra le dita le orecchie di Midori e arricciarle come un fiore che si chiude, affascinato e stupito dalla loro consistenza gommosa e dalla superficie setosa, mentre lei si divincolava lanciando gridolini eccitati, infastidita da quelle attenzioni e al tempo stesso divertita. Quanto a Midori, manifestava nei suoi confronti l’amore appassionato di una bambina estroversa di tre anni per il proprio padre giovane, bello e cordiale. E a Jun sembrava che non sarebbe mai stato sazio dei suoi baci e dei suoi abbracci.
Avrebbe avuto bisogno di altro gin, ma la bottiglia era vuota e Yayoi sarebbe rientrata a breve e non voleva che lo sentisse puzzare d’alcool.  Non voleva che lo sentisse puzzare d’alcool e potesse scorgere un’incrinatura nella sua apparenza di principe perfetto e iniziasse a guardarlo con sospetto, con il cinismo e il sarcasmo con cui guardava a quei mariti e quelle mogli che cercavano di nascondere le loro scappatelle persino alla signora Harada e a lei, che avrebbero dovuto rappresentarli in tribunale e che avrebbero fatto loro ottenere risarcimenti morali e materiali, case e azioni e gli alimenti e l’affidamento dei figli.
Voleva continuare a cenare con lei e a passare le serate ad ascoltarla chiacchierare, mentre agitava le bacchette in aria per sottolineare le sue parole, voleva guardarla mentre contava una a una le sue pillole dividendole in mucchietti multicolori. E voleva poter baciare Midori ogni giorno prima di uscire e prima di metterla a letto.
Ma quella era stata una giornata lunga e difficile.
A lui piacevano le donne, piaceva Yayoi, era stato sinceramente innamorato di lei quando l’aveva sposata, eppure Hyuga era qualcosa di diverso. Kojiro – no, Hyuga, non Kojiro – aveva ragione anche su questo. Aveva ragione quando diceva che non era mai così vivo come durante quei loro incontri rubati. Jun aveva la sensazione che vedesse tutti i suoi lati peggiori, quelli sporchi e disgustosi, davanti ai quali chiunque altro si sarebbe voltato inorridito, ma non solo non si voltava, ne era affascinato. E così ogni volta Jun spingeva l’asticella del loro rapporto un po’ più in là, un po’ più in alto, solo per vedere quanto lontano sarebbe potuto arrivare, prima che il desiderio di Hyuga si spezzasse, sopraffatto dal giudizio e dall’orrore. Non riusciva a fare a meno di continuare a mettere alla prova sé stesso e l’altro e rimaneva ogni volta sconvolto, preso da una vertigine incredula, davanti alla passione che scatenava.
Aveva morso la carne bruna di Hyuga fino a farla sanguinare, lasciando segni dolenti disseminati sul suo corpo e aveva goduto leccando le gocce di sangue dolciastro, gli aveva affondato le unghie nella schiena e nel collo, scavando lunghe scie arrossate; si divertiva a domare la sua eccitazione, a impedirgli di sfogarla, fino a lasciarlo implorante e senza forze e ogni volta si inventava nuovi giochi in cui guidarlo. E Hyuga non si sottraeva mai, anzi, la sua dipendenza da Jun sembrava aumentare di volta in volta.
Una volta, nella foga dell’amplesso gli aveva stretto le mani intorno al collo, schiacciandogli la carotide, lasciandolo senza fiato, la bocca spalancata in una ricerca d’aria inutile e disperata e negli occhi di Hyuga la morte per alcuni brevi istanti si era fusa con il piacere e il suo orgasmo era salito ancora più violento del solito, mentre gli affondava le mani nei capelli, tirandoglieli quasi dolorosamente e inarcandosi sopra di lui, i muscoli potenti che si tendevano sotto la pelle scura in un parossismo di piacere, mentre Jun continuava a stringere, finché non l’aveva sentito fremere ed era crollato su di lui. Da allora Jun incedeva nel piacere di soffocarlo con violenza mentre lo portava all’orgasmo, anche se si era informato e sapeva, come Hyuga probabilmente non sapeva, che stringergli le mani intorno al collo, schiacciandogli la carotide, lasciandolo senza fiato, era pericoloso, ma la tentazione di vedere nei suoi occhi fondersi la morte con il piacere era troppo forte per resistere.
Non si era mai reso conto di quella vena di sottile sadismo che aleggiava in lui, ma Hyuga l’aveva tirata allo scoperto e si incastrava alla perfezione con il bisogno dell’altro di infliggersi dolore, per riuscire a provare piacere. Hyuga era incapace di godere di qualcosa che non aveva ottenuto attraverso la sofferenza; solo se lottava con le unghie e con i denti fino all’ultimo, solo se si sentiva dolorante in tutto il corpo, solo se non riceveva aiuto, attenzione, comprensione  da nessuno, sembrava accettare di essersi meritato qualcosa.
E Jun gli dava quello che voleva e nel darglielo provava un piacere che lo faceva vibrare fin nel profondo del suo essere, ma a farlo vibrare davvero non era tanto il lasciarsi andare a pratiche crudeli, non erano il sadismo e la violenza in sé, a farlo vibrare davvero era il fatto che Hyuga non si arrendesse mai, lottasse sempre fino all’ultimo, senza riguardo per la sua salute fragile, per la sua vita attaccata a un filo, per la sua bellezza eterea. Hyuga lottava come un toro nell’arena, ogni volta, fino all’ultimo e ogni volta, all’ultimo perdeva, si chinava, crollava davanti a Jun e godeva di quella sconfitta quanto Jun della vittoria. Per tutta la vita si era sentito addosso sguardi di ammirazione e di pietà; i suoi genitori, i compagni di squadra, l’allenatore e Yayoi, soprattutto Yayoi, lo trattavano come una veste di seta fragile e preziosa da tenere chiusa in un cassetto, avvolta nella carta velina, perché la polvere non la rovinasse.
Ma Hyuga no, Hyuga mai. Hyuga era un toro feroce e testardo e domarlo era il piacere più estremo a cui Jun riuscisse a pensare.
Squillò il campanello, subito prima che Jun decidesse che, tutto sommato, almeno un vermouth poteva concederselo. Alla porta lo aspettava la signorina Tadako con Midori, che sprizzava energia ed eccitazione, avvolta nel suo cappottino rosso fragola.
– Siamo stati allo zoo – esordì – Ho visto i lefanti! Sono grandi e grigi e hanno le orecchie grandi e il naso luuuungo, lungo. E ho visto i tigri.
Jun fu colto da un subitaneo singulto di affetto e di terrore e si inginocchiò per stringere Midori fra le braccia, con tutta la forza che aveva. La bambina continuò a cicalare allegramente
– I tigri hanno le trisce nere e arancioni. Mi piacciono i tigri. Anche i lioni mi piacciono, ma i lefanti mi piacciono più di tutto. Papà, mi fai male – si agitò un poco nell’abbraccio, mentre Jun le affondava il viso nell’angolo soffice e caldo tra la spalla e il collo. – Papà... – la voce si fece un poco interrogativa – Daiii, lasciami.
Jun si alzò lentamente, sorridendo, paziente e gentile come ci si aspettava da lui e incrociò uno sguardo sorpreso da parte della signorina Iwasaki.
– Signorina Iwasaki, grazie, come sempre lei è perfetta con Midori. La bambina si è molto divertita vedo e sicuramente è stato molto istruttivo per lei. Quanto le devo per  i biglietti?
Il viso rotondo della signorina Iwasaki si arrossò sulle guance. – Non importa, signor Misugi. È stato un piacere davvero, mi pagate già più che a sufficienza.
– Mi permetta allora, almeno di offrirle un tè. Chiamo la governante.
– La ringrazio, ma devo tornare a casa. Mi scusi, mi aspettano – la signorina Iwasaki si esibì in un inchino quasi a novanta gradi, la schiena perfettamente dritta, mentre il caschetto nero le nascondeva il viso.
– Ma certo, mi scusi per averla trattenuta. Buona serata.
– Buona serata, signor Misugi – alitò la signorina Iwasaki, gli occhi adoranti come quelli dei Weimar e Jun si lasciò quasi sfuggire un sospiro innervosito.
– Allora, Midori – disse sfilandole il cappotto – andiamo a vedere cos’ha preparato la signora Kato per cena?
– Mmmh, non ho fame. Voglio giocare, facciamo che sei un lefante, papà.
Jun sorrise – E tu cosa saresti? Una scimmietta?
– Ma no! Sono un Malà.
La guardò perplesso. Questa era nuova. – Cos’è un Malà?
– I Malà sono i re degli indiani, mettono delle stoffe in testa e hanno una spada e cavalcano i lefanti. Me l’ha detto la signorina Iwasaki – concluse soddisfatta.
– Ah, un Maragià, sei ambiziosa – Jun rise, amava la spavalderia di Midori e il suo lato battagliero e afferrandola per la vita se la mise a cavalcioni sulle spalle – Allora signor Maragià, dove andiamo? A invadere la cucina? Scommetto che potremmo trovare dei polipi di wurstel e magari un okonomiyaki appena pronto. E delle noccioline per un povero elefante.
– Fai il lefante, papà – lo rimproverò Midori severa – I lefanti hanno il naso lungo e non parlano.
Jun mimò una proboscide con il braccio sinistro mentre la sorreggeva con il destro e le fece il solletico sotto il mento.
Midori rise – Andiamo in cucina, lefante – ordinò.
Poco dopo Midori aveva deciso che, in effetti, aveva un po’ fame, ed era seduta davanti al tavolinetto della cucina mangiando pietanze graziosamente disposte in piccoli piatti. Aveva voluto sedere a gambe incrociate, perché la signorina Iwasaki le aveva detto che i Maragià siedono così e ogni tanto si agitava quando i piedi le si intorpidivano, ma non cambiava posizione nonostante le vive proteste della signora Kato.  Jun cercò, senza molta convinzione, di convincerla a sedersi in ginocchio, ma tutta la sceneggiata lo divertiva e cancellava poco a poco la giornata che era stata lunga e difficile.
Cancellava il tono appassionato della voce di Hyuga, il muscolo che guizzava sulla sua guancia, lo sguardo dolente con cui l’aveva seguito fuori dalla porta – con cui lo seguiva sempre, anche se fingeva di dormire, ma Jun sapeva che era sveglio e lo guardava.
Midori si agitava, mentre i piedi le si intorpidivano e spilluzzicava la cena, continuando a parlare di elefanti e Maragià, di tigri e di leoni e il ricordo di Hyuga svaniva lentamente, insieme al peso nel petto che si era portato dietro da quando era uscita dall’albergo.
Yayoi rientrò proprio mentre lui prendeva Midori in braccio per portala a dormire. Jun sentì la chiave girare nella serratura e la voce squillante della moglie che avvertiva di essere rientrata, lo scalpiccio davanti alla porta mentre si sfilava le sue decolté di Prada e poco dopo Yayoi era davanti a lui, stanca, ma sorridente.
– Ciao tesoro – mormorò, baciando Jun sulla guancia sinistra – E il mio topolino come sta?
– Non sono un topolio, mamma – protestò Midori, assonnata – Sono un Malà e questo è il mio lefante.
Midori guardò interrogativa Jun che si strinse nelle spalle – È stata allo zoo. Ora è un Maragià.
– Un Malà dell’India – si affrettò a specificare Midori.
– Ok, che fine hanno fatto i pirati? – chiese, accompagnandoli verso la camera della bambina.
– Quelli c’erano la settimana scorsa, non hai fatto attenzione – Jun mise Midori a sedere sul letto. – Allora Maragià, ora di dormire?
– Mh – Midori si contorse un po’ mentre le sfilava la maglietta – Non ho sonno – sbadigliò.
– Non era uno sbadiglio quello? – Yayoi ridacchiò e passò a Jun il pigiama di Midori – Credo proprio che per il Maragià sia arrivato il momento di andare a letto.
Dopo pochi minuti, i capelli neri della bambina erano sparsi sul cuscino, gli occhi chiusi e il respiro lieve e regolare. Yayoi e Jun sgattaiolarono fuori dalla camera.
– Allora, amore? Com’è andata la giornata? – chiese Yayoi, sfilandosi lo spillone che tratteneva i capelli castani in uno chignon.
– Bene, allenamento personale la mattina e nel pomeriggio ho sbrigato un po’ di burocrazia, niente di particolare. Tu, piuttosto? Come sta procedendo con la causa?
Yayoi fece una smorfia di disappunto – Mh, non so se riusciremo a uscirne bene questa volta, la signora Fujimoto è stata troppo imprudente. Ho le prove che il marito la tradiva regolarmente e con più donne, ma anche lei si è fatta le sue belle scappatelle e si è fatta beccare. Dovremo patteggiare.
– Te la caverai, come sempre.
– Oh, bè in qualche modo sì, immagino, ma non so ancora come… La signora Harada troverà qualcosa. Trova sempre qualcosa.
Si diressero verso la sala da pranzo, dove la signora Kato aveva apparecchiato sul tavolo più grande e aspettava solo il loro arrivo per servire.
Si sedettero l’uno di fronte all’altro e Jun guardò, come ogni sera, Yayoi che parlava animatamente, agitando le bacchette. Guardò le sue orecchie delicate, con gli orecchini d’oro a forma di conchiglia, che gli aveva regalato lui. Guardò il suo naso grazioso che si arricciava, ma non pensò al sesso che avrebbero fatto dopo, perché non aveva mai voglia di fare sesso con Yayoi dopo aver scopato con Hyuga. Forse perché si sentiva sporco, o forse perché si sentiva soddisfatto.
Yayoi era stanca e irritata dalla causa, che non stava andando come avevano sperato, la signora Fujimoto aveva mentito spesso e male e Yayoi disprezzava le persone che mentivano spesso e male, non era contenta di difenderla, ma non era comunque disposta a perdere la causa. Perciò probabilmente non avrebbe avuto voglia di fare sesso neanche lei e Jun ne era sollevato.
Quando andarono a letto scivolarono entrambi rapidamente in un sonno profondo. L’ultimo pensiero lucido di Jun fu che le sue menzogne non gli avevano mai impedito di dormire bene, forse perché era così marcio, fino in fondo all’anima, da non provare nemmeno senso di colpa, né verso Yayoi che dormiva nel suo letto e che era stata accanto a lui, quando giaceva in ospedale e in ogni momento della sua vita, né verso Hyuga che lo faceva sentire vero e vivo e che arrivava sempre in ritardo agli appuntamenti per non arrivare per primo e restava disteso fingendo di dormire, mentre lo seguiva con lo sguardo fuori dalla porta.
Nelle settimane seguenti Hyuga non si fece vivo e Jun non lo chiamò, perché sapeva che, dopo la discussione che avevano avuto, dopo che Hyuga l’aveva quasi implorato, per come può implorare uno come Hyuga, non poteva semplicemente alzare il telefono e chiamare.
Qualcosa era cambiato e nessuno dei due poteva far finta di niente. Hyuga non avrebbe abbassato la testa un’altra volta. In qualche modo Jun era riuscito a trovare il limite oltre il quale non poteva spingersi senza che l’altro l’allontanasse, sopraffatto dal giudizio e dall’orrore e non l’aveva trovato mordendolo fino a farlo sanguinare, affondandogli le unghie nella schiena, frustrando la sua passione, mentre la faceva montare. Non l’aveva trovato schiacciandogli la carotide, lasciandolo senza fiato. L’aveva trovato quando Hyuga aveva messo da parte il proprio orgoglio taurino e aveva dato sfogo ai propri sentimenti e Jun l’aveva umiliato. Consapevolmente e convinto di star facendo la cosa migliore per entrambi, ma questo non cambiava la realtà. L’aveva umiliato e si era quasi divertito a farlo e Hyuga questo non l’avrebbe mai perdonato. Non avrebbe mai potuto fingere che non fosse successo niente.
Non sarebbero mai potuti tornare a quelle camere d’albergo, con i lenzuoli bianchi dai profumi anonimi, alle attese di Jun che leggeva pregustando il momento in cui Hyuga sarebbe entrato dalla porta, non sarebbero tornati a quel gioco sottile e crudele che Jun giocava mentre si rivestiva sotto lo sguardo di Hyuga che fingeva di dormire, ma che seguiva i suoi movimenti da sotto le ciglia.
Era finita e Jun poteva venirci a patti, anche se il desiderio di mordere quella carne bruna, di sentire le sue mani fra di capelli, di vedere i suoi occhi diventare nere pozze di desiderio era come un frustrante sottofondo alla sua vita quotidiana.
In campo, Hyuga lo ignorò con una freddezza che Jun giudicò quasi imprudente, perché troppo palese e spudorata, ma Hyuga era sempre talmente cupo e taciturno che nessuno fece caso alla differenza.
Poche settimane dopo, arrivò l’annuncio ufficiale dell’acquisto di Hyuga da parte della Juventus. Jun lo sapeva già, il manager gliene aveva parlato appena gli accordi tra le due squadre si erano conclusi, e aveva dovuto ammettere che Nakamura aveva fatto un ottimo lavoro, se era riuscito a piazzare Hyuga così bene. Il contratto era a dir poco favoloso per un bomber giapponese venuto su dal nulla. Nakamura era bravo e doveva aver lavorato sodo per Hyuga. Jun l’aveva incontrato spesso, ma gli era bastata la prima volta per capire; non faceva niente per nascondere la propria omosessualità, ma l’attrazione per Hyuga, quella, invece, cercava di celarla. Jun si era chiesto se Nakamura avesse capito, ma ne dubitava. La maschera di Hyuga funzionava bene. Quasi con tutti.
Con lui non aveva funzionato.
Non aveva capito subito. La maschera di Hyuga funzionava bene. A volte aveva incrociato il suo sguardo, a volte un contatto era durato forse più del necessario, ma Hyuga aveva sempre mantenuto il suo volto chiuso e impassibile e non aveva mai manifestato più interesse nei suoi confronti che in quelli di qualsiasi avversario o compagno di squadra.
Anzi, Jun, quasi ridacchiò al pensiero, talvolta sembrava così ossessionato da Oozora e Wakabayashi che, se avesse dovuto immaginarlo interessato a un uomo, avrebbe nominato uno dei due. Wakabayashi probabilmente, perché Oozora non sembrava poter seriamente essere oggetto di interesse sessuale di alcuno, a parte di Nakazawa.
Eppure, a volte, il dubbio si era affacciato alla sua mente. Era stato quando l’aveva incontrato insieme a una delle sue Idol dai capelli ossigenati, che la sua maschera si era incrinata. Hyuga era molto più bravo a nascondere attrazione e interesse, che noia e fastidio e ancora meno a fingere passione. E Jun aveva cominciato a chiedersi, perché Hyuga sentisse il bisogno di sbandierare quelle relazioni che palesemente avevano poco a che fare con lui, con il suo carattere chiuso e taciturno, con la sua insicurezza di fondo, la sua testardaggine feroce e il suo profondo e sincero bisogno di pochi affetti sicuri.
All’inizio aveva pensato a una donna sposata. Una relazione che Hyuga sentiva il bisogno di proteggere con le sue Idol dai capelli ossigenati. Però questo avrebbe richiesto tempo e attenzione e coinvolgimento sentimentale, mentre Hyuga si dedicava agli allenamenti con la solita strenua ostinazione, trattenendosi come sempre in campo molto più del dovuto e passando la maggior parte del tempo libero con Sawada e Wakashimazu e continuava ad andare in giro con vecchie t-shirt e jeans sdruciti, a parte quando doveva fare qualche apparizione ufficiale e, in quei casi, era Nakamura a scegliere i suoi vestiti. Jun riconosceva il gusto e conosceva le boutique da cui arrivavano i completi antracite di Armani e le camice di popeline. Hyuga non aveva cambiato neppure dopobarba e portava solo l’orologio che gli aveva regalato il suo manager.
No, decisamente, non c’erano i segni di un’importante figura femminile nella sua vita. Il segreto da coprire doveva essere un altro. E allora gli sguardi che si incrociavano e i contatti che duravano sempre un poco più del necessario avevano cominciato ad assumere un’altra sfumatura. Nella mente di Jun si era insinuato un dubbio e Jun aveva iniziato a pensarci con sempre maggior insistenza e si era scoperto a sua volta a guardare Hyuga, durante gli allenamenti, e a pensare che era bruno e alto e bello di una bellezza selvatica che istigava il desiderio di domarla.
Era solo un dubbio, ma Jun aveva avuto fortuna. Non si era mai privato di certi piaceri, da quando aveva imparato come ottenerli senza farsi scoprire, il che spesso comprendeva il passaggio di un discreto quantitativo di denaro da una mano all’altra. Faceva parte di un club ristretto e prestigioso, dalle pareti del quale non trapelava mai niente di ciò che accadeva all’interno.
In compenso, capitava che arrivassero notizie piccanti dall’esterno, da qualcuno che non era così ricco e potente o così abituato alla ricchezza e al potere da poter accedere a quei club da cui i segreti non trapelavano mai. Una delle frequentatrici, una donna oltre i cinquanta che indossava con naturalezza vestiti di lattice su un fisico asciutto e scolpito dalla palestra e scarpe di louboutin con stiletti omicidi,  si portava appresso, tirandolo per un guinzaglio che si agganciava con un moschettone a un collare di cuoio, un ragazzo castano e snello; era capitato che, una volta, la donna dai vestiti di lattice avesse trovato altra compagnia e avesse lasciato il ragazzo libero dal suo collare, libero di farsi servire un bicchiere di Moet Chandon e di attaccare discorso con Jun, con un sorriso divertito.
– Ken Uchida. Sai – aveva esordito, sollevando un sopracciglio – sono bi.
– Lo so – aveva risposto Jun, che lo sapeva, ma non era particolarmente interessato.
– Dicono che ci somigliamo molto, io e te.
– So anche questo – aveva risposto Jun, che lo sapeva, ma che trovava che le somiglianze fossero decisamente superficiali. Tanto per cominciare, lui non si sarebbe mai fatto infilare un collare di cuoio, né tanto meno portare al guinzaglio.
– Ero in un club un paio di settimane fa e mi ha rimorchiato uno. Mi ha dato un nome, ma – i denti bianchi balenarono e Jun pensò che, forse, aveva sottovalutato il ragazzo castano e snello che si faceva portare a giro al guinzaglio – ho capito subito che era falso. So chi era. Ho fatto finta di niente però, non capita spesso di portarsi a letto Kojiro Hyuga.
Jun rimase per un attimo paralizzato dalla sorpresa. Ken Uchida bevve dal suo bicchiere di Moet Chandon e rise soddisfatto – Non lo sapevi questo, vero? Chi l’avrebbe detto. Ed è bravo a letto, brutale, come piace a me. Ma quello si vede, no?
– Lo dirai ad altri?
– No, perché dovrei? Sei preoccupato per la squadra? Sai che bello scandalo. Ma non ci guadagnerei niente, comunque, non ho prove, Hyuga si può permettere avvocati e pr migliori dei miei. Non ne vale la pena. E poi è stata una bella scopata. Un’ottima scopata.
Jun si trovò a pensare che, in effetti, Hyuga doveva essere un’ottima scopata.
– E perché lo dici a me, allora? Perché lo conosco?
– No – una smorfia gli deformò il viso, mentre sbuffava – Non sarebbe divertente. No, la parte divertente, quella veramente divertente è un’altra. Sai come mi ha chiamato Hyuga mentre scopavamo? Questo è divertente, davvero.
Jun lo fissò quasi ipnotizzato, l’aveva sottovalutato davvero il ragazzo castano ed elegante. Sapeva come portare qualcuno al guinzaglio, anche senza agganciargli un collare di cuoio intorno al collo.
– Jun, mi ha chiamato – bevve un sorso di Moet Chandon, mentre un sorriso gli stirava gli angoli della bocca, un sorriso aguzzo – Te l’ho già detto che io e te ci somigliamo?
E così Jun aveva avuto fortuna e aveva levato la maschera a Hyuga. Aveva fatto sesso con Ken Uchida, che si era dimostrato capace di tenere la gente al guinzaglio, come compenso per averlo sottovalutato. Ken Uchida che, a un certo punto gli aveva afferrato forte la nuca con una mano e gli aveva sibilato in un orecchio – Stai pensando a come dev’essere stato quando l’ho fatto con lui, non è vero?  E Jun aveva dovuto ammettere che sì, in effetti ci stava pensando e che, anche se questo non l’aveva detto ad alta voce, era spaventosamente eccitante.
Da quel momento in poi cogliere i segnali era stato facile. La maschera di Hyuga funzionava, ma era pur sempre un maschera. Jun aveva cominciato a vedere cosa si agitava dietro le iridi scure, dietro la mascella serrata, dietro i cipigli nervosi.
Aveva cominciato a contare le volte che incrociava il suo sguardo, aveva cominciato a trovare modi per farsi toccare e per prolungare il contatto e aveva cominciato a osservare le reazioni di Hyuga. Aveva imparato a leggere la profondità della sua ossessione nei suoi occhi inespressivi, nel suo volto duro, nel suo bisogno costante di avvicinarlo e di fuggirlo. Quasi senza volere aveva cominciato a prendere parte a quel gioco, a fare stretching dove sapeva che Hyuga non poteva fare a meno di vederlo, sfilandosi le t-shirt sudate quando passava accanto a lui, trattenendosi per farsi la doccia negli spogliatoi della palestra. E aveva scoperto che quel gioco lo coinvolgeva molto più di quanto si sarebbe aspettato. Teneva Hyuga al guinzaglio, come la frequentatrice del club teneva Ken Uchida, snello e castano, e non aveva bisogno di un collare di cuoio per farlo.
Sapeva che una relazione sarebbe stata rischiosa, che venire scoperti sarebbe stato disastroso per entrambi, per il suo matrimonio e per la loro carriera, ma non poteva fare a meno di giocare, l’ossessione di Hyuga per lui era diventata a sua volta una droga per Jun.
Così alla fine Jun aveva ceduto al desiderio, sufficientemente sicuro di sé, da pensare di poter tenere tutta la faccenda sotto silenzio.
Aveva stuzzicato Hyuga fin quasi a farlo impazzire e, quando l’altro alla fine era crollato, confuso e impaurito, gli aveva fatto scoprire che poteva avere quello che desiderava e, in effetti, molto, molto di più.
Dopo quel pomeriggio Jun aveva dovuto ammettere di trovarsi in disaccordo con Ken Uchida: Hyuga non era un’ottima scopata, era la scopata fottutamente migliore che potesse immaginare.
 

 

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Capitolo 3
*** Di paesi alieni e bisogni negati ***


Grazie a Melantò per avermi continuato a betare fino alla fine con una cura e una pazienza da editor professionista. Grazie a tutti voi che state leggendo e commentanto. E grazie a Kojiro e Jun che sono stati disponibili a fare questo viaggio con me. Per ora li saluto qui, come e dove lo vedrete alla fine del capitolo, più in là... si vedrà!

Aprì la porta dell’appartamento insensatamente grande che Tadashi aveva comprato per lui. Le case in Italia erano tutte enormi, gli davano un senso di vertigine e lo facevano sentire ancora più solo. Tadashi si affacciò dalla cucina. – Come sono andati gli allenamenti? – chiese e Kojiro si accorse che cercava di nascondere la tensione sotto le parole. Il contratto di Kojiro era stato il suo grande colpo e le difficoltà che stava incontrando a integrarsi con la squadra lo preoccupavano anche più di quanto non preoccupassero Kojiro stesso.
Il fatto era che non si integrava bene con l’Italia, con quella gente che ti fissava con insistenza, parlava troppo e a voce troppo alta e ti chiamava per nome come se ti conoscesse da sempre. Improvvisamente non era più quello più alto, forte e potente, ma uno dei tanti e doveva stringere i denti e allenarsi ancora più di prima, per non sentirsi un dilettante accanto a quei giocatori provenienti da tutto il mondo. Ma anche allenarsi con quel suo masochistico piacere per la sofferenza non andava più bene improvvisamente. Improvvisamente quello che ci si aspettava da lui non era più che finisse gli allenamenti più tardi di tutti gli altri, grondante di sudore e con i muscoli doloranti. Il medico sportivo l’aveva sottoposto a una miriade di test, il cui unico scopo pareva farlo sentire umiliato e violato, come un toro pronto a essere mandato al macello. E da quei test era risultato mancante. Come un peccatore davanti al suo Dio.
Il medico sportivo – che aveva un nome liquido con troppe consonanti e parlava gesticolando con mani nodose ed espressive dalle lunghe dita, come sembrava che gesticolassero tutti in Italia o forse ancora di più e guardava Kojiro da sopra un naso lungo e aquilino, con occhi grigi che Kojiro avrebbe preferito fossero severi e invece erano cordiali e divertiti – il medico sportivo, insomma, gli aveva porto i suoi esami e gli aveva detto che non sapeva che allenamenti gli avessero fatto fare fino a quel momento, ma chiunque fosse stato il suo allenatore era un criminale, perché con quegli allenamenti Kojiro, a venticinque anni, si stava distruggendo, le sue articolazioni e i suoi tendini prossimi al punto di rottura.
– I piedi di un cinquantenne, hai almeno due fratture da sovraccarico trascurate, una ancora molto evidente, qui sulla spina calcaneare – aveva detto con gli occhi grigi che erano cordiali e divertiti, nonostante stesse dicendo a Kojiro che tutto quello che aveva fatto nella vita, l’aveva fatto nel modo sbagliato, indicando, con una delle sue lunghe dita, una chiazza grigia, su una delle lastre sul diafanoscopio – E un’altra qui, sul primo metatarso del piede destro. Stai cominciando a sviluppare un’artrosi precoce alle ginocchia a causa dell’erosione cartilaginea e hai tendinopatie più meno gravi su tutti i gangli articolari.
Kojiro l’aveva guardato, senza sapere cosa rispondere. Se c’era una cosa che aveva imparato in tutti quegli anni era che il dolore era qualcosa che andava preso e fatto proprio e accettato come parte necessaria e integrante della vita e che preoccuparsene era da deboli, che l’essenziale era andare sempre avanti per sé stessi e per la squadra. Che non ci si poteva fermare, che essere ammalati o infortunati non era una scusa per rallentare, mai.
Jun non l’aveva mai fatto. Ed era una delle ragioni per cui Kojiro si era sempre sentito schiacciato da lui, perché per quanto lottasse, la forza di Jun non l’aveva mai avuta.
Il medico sportivo, dalle mani nodose ed espressive, aveva sospirato ed aveva appeso un’altra lastra al diafanoscopio. – La parte peggiore è questa. Hai una calcificazione avanzata del quadricipite sinistro.  Per arrivare a questo punto dev’essere il risultato di un infortunio avvenuto più di un anno fa. Per quale ragione non ti sei fatto visitare subito?
Kojiro rimase chiuso nel suo mutismo, non voleva neppure essere scontroso nei confronti del medico dalle mani espressive e dagli occhi cordiali, ma le sue domande si aprivano su abissi che lo lasciavano in preda alla vertigine. Abissi che sussurravano i suoi vuoti, le sue mancanze, il suo strenuo bisogno di essere il migliore, in ogni modo, ad ogni costo, perché ciò che era il massimo per gli altri non era abbastanza per lui e di punirsi, con la fatica e il dolore, fisico e mentale, perché il suo massimo non era mai abbastanza.
– Dovremo fare un’ecografia per avere una visione più chiara della situazione, ma la fisioterapia sarà lunga e non ti assicuro una ripresa completa
Kojiro non sapeva nemmeno di doversi riprendere. Il dolore, anzi i dolori, che avvertiva alla fine di ogni allenamento, di ogni partita, persino di ogni pomeriggio in quelle camere di albergo, le cui porte aveva chiuso per sempre, abbandonato, rifuggito, ma che non riusciva a dimenticare, erano parte integrante della sua vita, erano accolti come compagni benvenuti, presenze familiari.
Fisioterapista e personal trainer avevano completamente sconvolto le sue abitudini quotidiane, lasciandolo con una quantità di tempo libero che non sapeva come sfruttare, che lo faceva sentire perpetuamente a rischio di affogare. E l’allenatore – che era stato un tempo un calciatore che Kojiro aveva ammirato, sbirciando quel poco che poteva cogliere dai televisori nei bar, perché a casa sua, quando l’allenatore era ancora il calciatore che Kojiro ammirava, il televisore non c’era mai stato – l’allenatore, che Kojiro aveva ammirato, ma non riconosceva dietro la giacca Ralph Lauren e i Ray-Ban scuri, gli aveva imposto di lavorare meno sul potenziamento e più sulla tattica e Kojiro si era ritrovato a scuola, a cercare di imparare a memoria schemi che aveva sempre ignorato, perché lui era sempre stato quello che andava avanti – da solo o al massimo con Takeshi al suo fianco, che lo seguiva senza bisogno di spiegazioni – e tirava in porta, certo di fare gol, purché fosse abbastanza vicino.
Ora si trovava a giocare da mediano, perché l’allenatore trovava troppo grezzo il suo gioco di piedi e preferiva usare la sua testardaggine e la sua resistenza per rafforzare il centro. Quanto alle partite ufficiali, Kojiro continuava a restare in panchina. Restava in panchina, perché doveva riprendersi dagli infortuni, restava in panchina, perché non era all’altezza di quei giocatori internazionali che sembravano divertiti e imbarazzati al tempo stesso davanti a un giapponese che giocava a calcio. ‘Non sapevo che i giapponesi giocassero a calcio’ era la prima frase che gli diceva ogni nuova conoscenza, sembrava che nessuno resistesse, non solo a pensarlo, ma a dirlo. Sembrava che nessuno resistesse al bisogno di dire tutto quello che gli passava per la testa e Kojiro, tutto sommato, era contento di capire ancora poco di quella lingua piena di consonanti, melodiosa e straniera, perché così poteva scrollare la testa e passare oltre e non essere costretto a rispondere a quelle affermazioni, che trovava inconcludenti e vuote, senza sembrare troppo scostante e ombroso come lo rimproverava di essere Tadashi. Tadashi usava altre parole in verità – Sei una testa di cazzo Hyuga, una grandiosa testa di cazzo, un vero stronzo. Cerca di essere un minimo più cortese. Pensa agli zeri su quel contratto e sorridi. E fai quello che ti dicono.
– Dicono che non devo fare niente. Niente. Allenamenti tre volte a settimana e amichevoli la domenica, amichevoli in cui comunque starò in panchina. Che cazzo faccio tutto il resto del tempo?
– Esci, fatti degli amici, trovati delle ragazze da scopare. Ti adorano le ragazze. Ci hai fatto caso che ti adorano? Sei esotico, gli piaci. Trovati delle ragazze. Ma non metterle incinta, non voglio casini.
Perciò Kojiro usciva e camminava per quella città straniera, sotto un cielo a volte azzurro, ma spesso plumbeo e si domandava se era tutta così, l’Italia, e tutte quelle storie del sole e del mare e dell’arte fossero cazzate o se fosse solo che era capitato nella città più di merda di tutte. Per far felice Tadashi, un paio di volte, aveva lasciato che dei compagni di squadra lo portassero fuori, ma il loro stile di vita non era qualcosa che potesse condividere e neanche capire, il modo in cui si lasciavano sfuggire il denaro dalle mani come se non se ne accorgessero nemmeno, come se le banconote fossero davvero solo pezzi di carta e, anche se Kojiro poteva afferrare, a un livello puramente intellettuale, che se lo sarebbe potuto permettere anche lui di spendere duemila euro per una bottiglia di champagne senza battere ciglio, lo spettro della povertà aleggiava sempre intorno a lui, privandolo di qualsiasi piacere potesse provare, nel vedere il suo denaro svanire per cose di cui non sentiva il bisogno.
Le ragazze da scopare, invece, non le aveva trovate. Loro avevano trovato lui. Kojiro sapeva perfettamente che alle ragazze piaceva e in Italia si facevano molti meno problemi a farglielo capire che in Giappone, ma Kojiro si era sempre defilato. Jun era lontano, dall’altra parte del mondo e al di là del suo desiderio e lui non sentiva più il bisogno di avere uno schermo che nascondesse la sua ossessione agli occhi del mondo – ormai era seppellita talmente in profondità, sotto al rancore, al dolore e all’umiliazione da essere irraggiungibile, persino per lui. Non c’era più bisogno delle sue Idol da capelli ossigenati, perché la stampa italiana non era abbastanza interessata a lui e non ce n’era più bisogno, perché quel desiderio, che un tempo era sicuro gli si leggesse in faccia, adesso non era neanche più sicuro di provarlo.
Perciò Kojiro si era limitato a camminare per Torino, il cappuccio della felpa tirato su e gli occhiali scuri a nasconderlo dal mondo, finché Tadashi non aveva deciso che era suo dovere di manager rendere la sua vita più glamourous. Tadashi che si era trasferito in quell’attico insensatamente grande  – che aveva comprato lui stesso per Kojiro, con i soldi di Kojiro – nel momento in cui si era accorto di quanto lui, Kojiro, in quell’appartamento si sentisse solo e perduto. Tadashi che si assicurava che lui seguisse alla lettera le indicazioni del dietista, ma che faceva il possibile perché Kojiro mangiasse giapponese il più spesso possibile, perché Kojiro era cresciuto con il riso e il ramen e il misoshiro, con la zuppa del supermercato e i piatti a pochi yen delle bancarelle, non era come Wakabayashi o come Jun che erano a loro agio con la cucina occidentale e lo prendevano cordialmente in giro, o, forse, non così cordialmente, quando si trattava di Jun, forse cordialmente solo all’apparenza, perché tra loro non erano mai scherzi, ma sempre un gioco di forza, che era anche un gioco di desiderio e lussuria e forse amore, ma, prima di tutto, di forza. Tadashi si assicurava che sulla tavola di Kojiro non mancasse mai qualcosa che lo facesse sentire a casa, che addolcisse la nostalgia, la feroce, crudele mancanza dei suoi pochi amici e dei suoi molti fratelli. Tadashi che gli procurava gli sponsor, che riusciva a rivendere la sua immagine per quantità di denaro incomprensibili per Kojiro e che, a ogni pagamento, faceva arrivare un bonifico alla madre di Kojiro, senza che gli fosse chiesto niente. Tadashi aveva deciso che Kojiro si stavo rovinando il fegato, a vagabondare senza meta per Torino, con il cappuccio tirato su e gli occhiali scuri a tenere il mondo fuori.
– Devi essere in forma per lavorare, Hyuga, e passare il tempo a tenere il broncio non ti aiuta. E va bene che l’aria da tenebroso ti dona e che Gabbana ne va pazzo, ma chissenefrega di quella checca, sei un cazzo di calciatore, sei un testimonial, non sei un modello, quindi trovati qualcosa di divertente da fare e sorridi.
Ma Kojiro qualcosa di divertente da fare non aveva neanche idea di dove cominciare a cercarlo. E Tadashi, che come manager non si arrendeva mai davanti a niente, aveva deciso di dover essere lui a trovarlo, qualcosa di divertente, che facesse sorridere Kojiro e non gli facesse tenere il broncio tutto il tempo, così che fosse un buon calciatore e un buon testimonial e continuasse a guadagnare per entrambi. O forse Tadashi si accorgeva, come si accorgeva sempre di tutto, di quanto Kojiro si sentisse perduto e solo e confuso, al punto da non sapere neanche da dove cominciare, per sbrogliare quei sentimenti e capire cosa provava veramente e, per Tadashi, Kojiro era sì il suo miglior cliente, quello che moltiplicava come per magia il suo conto in banca, ma era anche l’uomo che guardava con reverenza e imbarazzo, quando pensava che Kojiro fosse distratto.
Così Kojiro si era improvvisamente trovato seduto in prima classe, accanto a business man con Mc e DELL e donne con abiti logati Gucci e YSL e Balenciaga, su treni italiani che avevano sedili di pelle ed erano chiamati “Alta-velocità”, ma arrivavano con almeno un’ora di ritardo. I primi mesi, il perenne ritardo dei mezzi di trasporto aveva sorpreso Kojiro, ma non aveva mai sorpreso Tadashi che, come sempre, sembrava sapere sempre tutto e aspettarsi sempre tutto e prendeva biglietti con largo anticipo e infilava in borsa riviste per sé e libri che era convinto Kojiro avrebbe apprezzato. E Kojiro quei libri li apprezzava. Per quanto i suoi venticinque anni li avesse dedicati alla fatica fisica e allo sport e ben poco allo studio, aveva scoperto che immergersi in un libro placava il nervosismo e l’ansia che lo accompagnavano in continuazione, dava un senso al suo movimento, che sembrava così caotico e scomposto, aiutava il suo spirito a trovare la calma. Leggeva classici soprattutto, il libro dei cinque anelli e il Genji Monogatari e il padiglione d’oro, che sembravano parlargli di quel suo perenne conflitto tra la ricerca della perfezione nella fatica fisica e la pace dell’anima e di come ricomporlo, ma aveva scoperto di apprezzare anche la letteratura occidentale, prima come trascinato da un mondo all’altro dalla lievità di Ishiguro, poi sopraffatto e ingoiato dalla grandezza di Dickens e Melville.
Così Kojiro sedeva sui sedili di pelle, mentre, al suo fianco, Tadashi non smetteva di lavorare, e lasciava che quelle parole di secoli passati alleggerissero la sua solitudine e placassero la sua confusione e, quando scendevano dal treno, Kojiro si trovava nell’Italia che si era aspettato prima di partire, quella del mare e del sole e delle opere d’arte e Tadashi lo guidava da una strada all’altra, da un museo all’altro, con la sicurezza di una guida professionista e lo lasciava passare ore a vagare per le sale dei Musei Vaticani o degli Uffizi o per Castel sant’Elmo o per le strade di Venezia o di Napoli, mentre Tadashi continuava a parlare al telefono, davanti al Front Office, con un Xperia nero e sottile come quello che aveva più di un anno prima, quando Kojiro aveva scoperto che la Juventus lo voleva comprare. Un monolite nero e sottile come quello di allora, ma che non era lo stesso, Kojiro lo sapeva. Sapeva  che Tadashi aveva cambiato almeno tre telefoni nel frattempo, se c’era qualcosa su cui Tadashi non si faceva problemi a spendere – Tadashi si faceva pochi problemi a spendere su quasi tutto, ma in particolare non se ne faceva su quello – era tutto ciò che poteva renderlo più rapido ed efficiente sul lavoro, perciò cambiava telefoni e computer con la velocità con cui altri, altri come era stato Kojiro un tempo, cambiavano calzini.
Kojiro si allenava, seguendo quegli allenamenti così diversi da quelli a cui era abituato e cercava di sorridere di più e non tenere il broncio, perché era un calciatore e un testimonial e non un modello e chissenefrega se Gabbana andava pazzo per la sua aria da tenebroso, anche se il contratto che Tadashi gli aveva fatto firmare con lui e il suo socio aveva sopra quasi altrettanti zeri di quello con la Juventus. Si sottoponeva alle sedute di fisioterapia, che erano l’unico momento in cui si sentiva quasi tornato alla normalità, la sua normalità, quella in cui soffrire fisicamente e mentalmente è quello che ci si aspetta e il dolore che gli provocava la fisioterapia gli riportava alla memoria ogni allenamento passato, ogni partita e persino quelle camere di albergo di cui aveva chiuso le porte per sempre; quelle camere d’albergo dai lenzuoli bianchi dai profumi anonimi e dai bagni impersonali e dai bagnoschiuma che odoravano di relazioni spezzate. Tornava la sera in quell’attico insensatamente grande e trovava Tadashi che lavorava e mentre lavorava non si scordava di controllare che il cuoco avesse preparato per Kojiro un pasto bilanciato, ma che non gli facesse sentire troppa nostalgia delle zuppe comprate al supermercato e dei piatti che acquistava per pochi yen alle bancarelle. Kojiro non riusciva a capacitarsi che qualcuno potesse cucinare per lui, tantomeno che qualcuno controllasse cosa gli veniva cucinato; se da una parte la presenza di Tadashi lo confortava, dall’altra non faceva che rendere i suoi abissi di vuoto, mancanze, senso di colpa, strenuo bisogno di essere migliore ancora più profondi. E, nei giorni di riposo, viaggiava e leggeva e lasciava che fosse Tadashi a organizzare tutto, sicuro che lo avrebbe fatto per il meglio.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Tadashi si affacciò dalla cucina chiedendo – Come sono andati gli allenamenti? – e Kojiro si accorse che cercava di nascondere la tensione sotto le parole.
– Non sono andati male – rispose, perché non erano andati male e perché Tadashi non aveva bisogno di preoccuparsi ulteriormente. Kojiro faceva fatica a integrarsi con la squadra e ancora più con l’Italia, con quel paese di gente che ti fissava con insistenza, parlava troppo e a voce troppo alta e ti chiamava per nome come se ti conoscesse da sempre e aveva un’idea dell’impegno e della dedizione che erano il contrario di quello a cui Kojiro era abituato, ma Kojiro non si era mai arreso nella sua vita. Non si era mai arreso alla fatica, allo sconforto, al dolore, non si sarebbe arreso davanti a una sfida che era esattamente l’opposto, anche se lo metteva molto più in difficoltà di quegli allenamenti che il medico sportivo, dagli occhi grigi cordiali e divertiti, aveva definito criminali.
– Ci sono un po’ di partite che dovresti vedere. Ti ho segnalato tutte le parti interessanti. Tra sei mesi c’è un’amichevole della nazionale contro la Cina e sarai in squadra.
– Guarderò le partite. Qualcuno in particolare?
– Ozora e Wakabayashi come sempre. Wakabayashi non sembra neanche essersi infortunato a questo giro, vediamo se resta in piedi fino ai mondiali, altrimenti ci sarà Wakashimazu e per te potrebbe essere anche meglio, almeno evitate di saltarvi alla gola, tra un tempo e l’altro. Guardati per bene Misaki e Matsuyama, hai bisogno di qualcuno che ti tenga il gioco e non puoi sperare di avere sempre in campo Sawada, loro due sono un ottimo supporto, sono quello che ti serve.
– Misaki è il gemello siamese di Ozora e Matsuyama mi detesta da quando avevamo dieci anni.
– Hyuga, lo so che sei una testa di cazzo, lo sappiamo entrambi, ma fai il professionista e non rompere. Guardati anche Misugi, è tornato in forma perfetta ed è furbo come un serpente a sonagli, stai sicuro che il regista sarà lui a questo giro e non Matsuyama.
Kojiro cercò di non pensare a cosa sarebbe stato, tornare a giocare accanto a Jun, dopo tutto quel tempo, dopo quelle camere d’albergo e quelle porte chiuse e poi si ritrovò a pensare se pensava qualcosa ancora di tutto quello, se c’era qualcosa che era rimasto, qualcosa che era sopravvissuto al rancore, al dolore e all’umiliazione. Se c’era ancora spazio per il desiderio e la passione. E forse no, non era rimasto più niente, persino il desiderio e la passione si erano spenti, sotto il peso di un bisogno più profondo, che Kojiro si portava dietro da sempre – da quando era un bambino a cui era stato chiesto di crescere troppo in fretta, un ragazzino che si doveva occupare di sua madre e i cui fratelli minori erano come figli – un bisogno, seppellito nei suoi abissi di vuoti, mancanze e sensi di colpa, di essere amato e di amare senza che quell’amore si diluisse fino a sparire nel senso del dovere. Jun aveva saputo smantellare un pezzo alla volta Il suo senso del dovere, la sua tenacia e la sua ostinazione che gli impedivano di godere di qualsiasi piacere che non fosse ottenuto a prezzo della sofferenza, aveva spalancato gli abissi che Kojiro teneva sprangati con la forza della sua taurina volontà e poi li aveva messi a tacere con la sua presenza. In quelle impersonali camere d’albergo, tra quelle lenzuola bianche dal profumo anonimo, Kojiro aveva trovato gli unici momenti di pace della sua vita, gli unici momenti di pace vera, non quella ottenuta sfiancandosi con gli allenamenti fino a smettere di pensare. Ma intanto gli abissi si erano spalancati e, quegli incontri, composti di dita lunghe che spingevano i bottoni nelle asole, di sole pomeridiano che disegnava geometriche ombre su un corpo asciutto, di bagnoschiuma che odoravano di albergo e relazioni spezzate, di corpi elettrici, sangue che pulsava e abbandoni sempre più dolorosi e solitudini incolmabili, non erano stati più sufficienti per Kojiro, perché ormai quel suo bisogno, perpetuamente represso, di calma e affetto e amore, non era più in grado di rinnegarlo.
Non era in grado di rinnegarlo nemmeno adesso, ma per quanto Jun l’avesse umiliato, una parte di Kojiro sapeva che quel giorno si era arreso volontariamente, che non avrebbe mai abbandonato la carriera per una relazione, che non poteva fare a meno di qualcosa per cui lottare, non poteva rinunciare a tendere alla perfezione, a cercare di essere il migliore e non avrebbe mai, per niente al mondo, permesso a qualcuno, persino a Jun che era sempre stato più ricco di quanto Kojiro potesse immaginare, di mantenerlo.
E aveva visto abbastanza del mondo per capire, dopo che Jun l’aveva costretto a farlo, che era impossibile separare il lavoro in campo e una vita sentimentale stabile. Se non eri famoso abbastanza ti facevano fuori anche solo per un sospetto di omosessualità, se eri abbastanza bravo e famoso, nessuno era disposto a credere nelle tue preferenze, anche se non facevi troppo per nasconderle, ma, un rapporto alla luce del sole con un altro uomo, non sarebbe stato perdonato a nessuno.
Guardò Jun giocare, come aveva chiesto Tadashi, e cercò di concentrarsi sul suo gioco di piedi, sui suoi schemi sempre più precisi, sul modo in cui comunicava con i compagni e non su quelle gambe asciutte che erano state il suo tormento, sulle gocce di sudore sul viso elegante, sui capelli castani incollati alla fronte, com’erano stati l’ultima volta che si erano incontrati in una camera d’albergo, una di quelle camere dalle lenzuola bianche le cui porte Kojiro aveva chiuso per l’ultima volta.
Lo guardò giocare e cercò di essere un professionista, come voleva Tadashi e come Tadashi lo riteneva veramente essere, nonostante gli dicesse che era una testa di cazzo. Guardò giocare Misaki e Izawa e Ozora e Wakabayashi e guardò Ken e Takeshi e ammirò il modo in cui erano migliorati, Takeshi soprattutto, modesto e mai appariscente, ma sempre presente in campo. Sempre presente in campo e fuori, il suo migliore amico, lui e Ken con il suo sorriso ampio e vederli giocare insieme, senza di lui, gli fece avvertire ancora di più la loro mancanza e la sua solitudine.
Kojiro mangiò il suo menu bilanciato, ma abbastanza simile a quello a cui era abituato da non sentire troppo la nostalgia; guardò le partite, cercando di essere professionale e non pensare, bevendo del cognac versato da una bottiglia di cristallo uguale a quella che si trovava nel suo appartamento di Tokyo, un bicchiere e poi due e forse tre, mentre Tadashi, seduto al tavolo da pranzo, ticchettava sulla tastiera del computer senza riposo. Tadashi non sembrava conoscere cosa fosse il riposo e per quello si intendevano così bene, loro due. Kojiro finì di guardare gli spezzoni di partita elencati da Tadashi e poi andò in bagno, il bagno insensatamente grande di quell’appartamento insensatamente grande, si spogliò e si infilò sotto la doccia e rimase, per un tempo che gli parve infinito, fermo, sotto l’acqua gelida che gli sferzava le spalle e il cranio. L’acqua e forse l’alcool si portarono via i pensieri e i ricordi e la nostalgia e la razionalità, lasciando un vuoto affamato.  E, quando Kojiro uscì dalla doccia, fece qualcosa che non avrebbe voluto, o forse non avrebbe dovuto o forse, che, semplicemente, non si sarebbe mai perdonato, anche se lo avesse voluto e avesse potuto.
Tornò nel soggiorno, in cui il ritmico ticchettio della tastiera del computer non si arrestava, ancora bagnato, l’acqua che lasciava una scia lucida sul parquet. Tadashi alzò alla testa e, per una frazione di secondo, giusto una frazione, perse il suo autocontrollo, quell’autocontrollo che non perdeva mai, davanti a Kojiro, bagnato e nudo e scalzo sul parquet e lo fissò come abbagliato, come Kojiro sapeva di aver fissato Jun, mentre l’altro si contorceva nell’orgasmo, gli occhi serrati e la bocca spalancata. Ma Tadashi sbatté le palpebre e recuperò il suo autocontrollo, molto più rapidamente di quanto avesse mai fatto Kojiro. – Che cazzo hai stasera, Hyuga? Ti ho lasciato bere un bicchiere di più e dai spettacolo. Forza, muoviti che ti porto a letto.
Ma Tadashi non aveva ancora finito di alzarsi in piedi e il suo autocontrollo era solo un’altra maschera, come lo era quella di Kojiro, come lo era stata quella di Jun, e Kojiro gli affondava le dita brune in una spalla, lasciando tracce bagnate sulla camicia candida e con l’altra mano gli stringeva la nuca e premeva le labbra contro le sue e cercava di colmare quel vuoto affamato, con l’odore e il contatto e il calore altrui. E Tadashi, ovviamente, gli lasciò prendere tutto quello che voleva, come Kojiro aveva sempre saputo che avrebbe fatto e Kojiro si prese tutto e la mattina dopo si sentì un ladro.
La mattina Kojiro si sentì un ladro, ma Tadashi non sentiva derubato. Kojiro lo trovò che parlava al cellulare, mentre controllava il cuoco che preparava la colazione esattamente come tutte le altre mattine. L’unica differenza fu che chiuse la telefonata un poco più bruscamente del solito e lasciò il cuoco a sé stesso per farsi incontro a Kojiro.
– È solo sesso, Hyuga. Sesso, ma potevi dirmelo prima. È il mio lavoro tenere i tuoi segreti, ma non posso tenerli se non me li racconti. – Lo studiò da sotto i ciuffi corvini che gli coprivano la fronte con occhi penetranti – Non mi dirai che cosa avevi in testa ieri sera, vero?
Hyuga lo guardò, lo guardò veramente, per la prima volta in anni di collaborazione e vide il fisico tonico e il volto squadrato e lo spazio ampio fra gli occhi e le sopracciglia folte e dritte che rendeva il suo sguardo aperto e sincero. Lo guardò e scosse la testa – Non è solo sesso. Sono stanco.
Tadashi voltò il capo, sfuggendo il suoi occhi, stringendo le labbra in una linea dura – Mi devi dare sempre problemi, vero? Ancora non so perché ho accettato di lavorare per te – Abbassò la testa, i capelli che gli nascondevano il volto – Va bene. Va bene, naturalmente. Ci penso io.
Rialzò la testa, lo sguardo di nuovo deciso e professionale.
– Tu non fare niente. Anzi no. Fai quello che ti dico io. E basta.
Kojiro fece spallucce, fare quello che diceva Tadashi era parte della sua quotidianità. Non sapeva perché aveva detto quello che aveva detto, il senso di colpa aveva un peso che non voleva ammettere, ma era vero che era stanco, era stanco da troppo tempo. Da quando si era chiuso dietro le spalle quelle porte d’albergo per l’ultima volta, o forse da quando le aveva aperte, o forse da ancora prima, dalle sue relazioni clandestine e le sue Idol dalle voci acute e i capelli ossigenati.
Kojiro non smise di sentirsi un ladro, ma lasciò che Tadashi organizzasse anche quell’aspetto della sua vita con la sua perfetta efficienza. Gli allenamenti e la dieta e la fisioterapia e le amichevoli la domenica, in cui a volte lo facevano finalmente giocare, e le partite di campionato, seduto in panchina, continuarono come prima e continuarono i viaggi in prima classe, sulle sedie di pelle di treni ad Alta-Velocità in perpetuo ritardo. Gli scaffali della libreria di Kojiro si continuarono a riempire e lui continuò ad aggirarsi per Torino con il cappuccio tirato su e gli occhiali scuri, ma Tadashi lo costrinse a frequentare qualche modella, qualche attricetta, famose a sufficienza perché non destasse stupore la loro presenza al fianco di un calciatore della Juventus e testimonial di Dolce & Gabbana, ma non abbastanza perché le riviste di gossip fossero interessate ad approfondire la loro relazione. Tadashi lo costringeva a frequentarle, ma mai per troppo tempo, mai per un tempo sufficiente, perché qualcuna lo potesse conoscere veramente, sempre che fosse possibile conoscerlo veramente e, in verità, erano più quelle che lo lasciavano loro, dopo un po’, stanche di essere tenute a distanza, del contrario.
– Diranno che è perché sei giapponese, cultura diversa e bla, bla, bla. Va bene così. Hanno troppa poca fantasia e troppa paura per immaginarsi qualcosa di diverso – diceva Tadashi, ogni volta che una di quelle donne senza nome spariva. Tadashi, invece, non spariva. Semplicemente c’era, in un modo che era diverso da prima solo per delle sfumature. Spengeva il telefono o smetteva di ticchettare sulla tastiera del computer, quando si accorgeva che Kojiro aveva bisogno di parlare e aspettava pazientemente che Kojiro commentasse gli allenamenti o leggesse ad alta voce un brano di un libro che gli stava piacendo e che, probabilmente, Tadashi conosceva, dato che tutti i suoi libri glieli procurava Tadashi stesso, oppure, nei rari, rarissimi momenti, in cui riusciva a cedere a una debolezza, ammettesse che gli mancavano Takeshi e Ken e la sua famiglia. Si sedeva con lui durante i pasti e mangiavano insieme e Tadashi sembrava capire sempre se Kojiro preferiva il silenzio o il suo chiacchiericcio sommesso e le sue battute sarcastiche. E a volte, quando erano soli e non stavano parlando di lavoro, Tadashi lo chiamava Kojiro.
E c’era il sesso, perché, anche se non era soltanto sesso, il sesso c’era e ogni volta Kojiro cercava di tenere fuori dalla mente le immagini fulminee di gambe asciutte e lunghe dita e di un volto elegante con gli occhi serrati nell’orgasmo e di un amante carismatico e sadico, davanti a cui anche la sua forza e la sua tenacia cedevano, perché sapeva sempre come domarlo, come contenere la sua eccitazione e impedirgli di sfogarla, finché Kojiro non cedeva, godendo di quella sottomissione. Kojiro cercava di tenere fuori le immagini e i ricordi e concentrarsi sull’uomo paziente e attento, caustico e intelligente, che cedeva al suo tocco in modo assolutamente non professionale e, quando un’immagine o un ricordo gli si presentava alla mente, si sentiva un ladro.
Tadashi gli fece ottenere quindici giorni di ferie per tornare in Giappone per il diploma di sua sorella.
– Una settimana è più che sufficiente – aveva protestato Kojiro.
– No, non è sufficiente. Credi che non ti veda, Hyuga? A me non importa, essere dall’altro capo del modo, ma tu deperisci dal bisogno di passare del tempo con la tua famiglia. Per non parlare di Wakashimazu e Sawada.
– Posso stare benissimo da solo.
– Non essere idiota. È chiaro che non puoi e dato che sei socievole come un rinoceronte con le emorroidi, se non prendi fiato finirai per soffocare.
E naturalmente Kojiro sapeva perfettamente chi aveva ragione. Baciò il neo che Tadashi aveva alla base del collo, perché non sapeva come rispondere, né tanto meno come esprimere la sua gratitudine.
– Sono solo quindici giorni di ferie, non farla tanto lunga, quando torni ti farò trovare così tanto lavoro che rimpiangerai di essere partito.
Tadashi aveva ragione. Kojiro stava morendo per la fame di affetto e per la nostalgia e quindici giorni a casa di sua madre – che non era più la casa piccola e malandata che avevano quando lui era bambino, ma era comunque molto più piccola del suo attico a Torino – quindici giorni in compagnia dei suoi fratelli, quindici giorni in cui poté parlare faccia a faccia con Ken e Takeshi e uscire a bere con loro come se non fosse passato un giorno dalla sua partenza e giocare a calcio nel campetto di quartiere, come quando erano bambini, quindici giorni a Tokyo, a casa sua, senza persone che ti fissavano con insistenza e parlavano troppo a voce troppo alta e ti chiamavano per nome come se ti conoscessero da una vita e invece non sapevano niente di te, niente di chi eri veramente, erano ciò di cui Kojiro aveva bisogno.
Quando tornò, trovò Tadashi ad aspettarlo in aeroporto, come sempre impegnato in una telefonata, il Sony Xperia, il sottile monolite nero, che era nuovo e appena un po’ più grande del precedente, attaccato a un orecchio. Lo aspettava appoggiato contro una colonna, le gambe accavallate. Kojiro si trattenne a guardarlo, costringendosi a vedere il fisico tonico che aveva ignorato per anni e gli occhi espressivi, perché glielo doveva, perché si sentiva un ladro e perché Tadashi, paziente e attento, caustico e intelligente, non aveva gambe asciutte e un sadismo sottile, ma lo faceva sentire bene.
Tadashi si voltò e lo vide, si affrettò a chiudere la telefonata e sorrise. Sorrise di un bel sorriso aperto e sincero, un sorriso che Kojiro gli invidiava.
Quattro mesi dopo il medico sportivo dagli occhi grigi cordiali e divertiti, guardava gli esami di Kojiro da sopra il lungo naso adunco e sorrideva soddisfatto. – La fisioterapia è andata meglio del previsto, la calcificazione si è molto ridotta e le microfratture si sono saldate, ti resteranno i dolori quando viene l’umido, ma c’è poco da fare. Le tendinopatie nel complesso sono migliorate, ma non c’è da aspettarsi che guariscano mai del tutto. Meglio di così non si poteva fare.
Kojiro lo guardò senza sapere cosa dire, come sempre. Era positivo che non si potesse fare meglio di così o era destinato alla pensione?
– Puoi tornare in campo. Segui le tabelle di allenamento e non strafare, se tutto va bene puoi tranquillamente continuare a giocare per altri dieci o quindici anni. Ti aspetta un’artrosi precoce, ma faremo il possibile per ridurre i danni.
Il medico raccolse gli esami e porse la cartella clinica a Kojiro. – Tra due settimane parti per un’amichevole della nazionale giapponese, vero? In bocca al lupo.
– Crepi – disse Kojiro, sollevato che, per una volta, la risposta fosse semplice.
La risposta era semplice, ma le emozioni che gli provocava l’idea di tornare a giocare in nazionale, anche se solo per un’amichevole, lo erano molto meno. Aveva continuato a guardare le partite di Jun, cercando di essere professionale, di chiudere la mente a immagini e ricordi e aveva continuato a cercare di saziare il suo vuoto con l’odore e il contatto e il calore di Tadashi, ma l’idea di rivedere l’uomo, il cui pensiero l’aveva ossessionato fin dall’adolescenza, che aveva, baciato, morso, scopato così tante volte, lo turbava di un turbamento che si nascondeva nel ventre, stringendogli le viscere.
Durante il viaggio in aereo, Tadashi continuò a lavorare al computer, apparentemente inconsapevole del turbamento che si nascondeva nel ventre di Kojiro, stringendogli le viscere, ma mentre Kojiro fissava le nuvole fuori dal finestrino, sentì le ciocche setose di Tadashi sfiorargli la mandibola.
– Tra una decina d’anni sarai troppo vecchio per continuare a giocare e, con il carattere di merda che ti ritrovi, non esiste che tu faccia l’allenatore. Allora ti darò la vita che vuoi. Una casa tranquilla, una famiglia, bambini se li vuoi. Ci penso io.
Kojiro si voltò a guardarlo sorpreso, ma Tadashi si era già rimesso a lavorare e fissava lo schermo del computer come se non si fosse mai distratto.
Il primo giorno di ritiro, Kojiro scoprì con disappunto che la vista di Jun non era meno conturbante di quella che ricordava. L’altro era distante e padrone di sé stesso come sempre, aveva sempre gambe asciutte, al cui fascino Kojiro soccombeva e lunghe ciglia castane che ombreggiavano gli occhi luminosi. Kojiro si chiuse in un silenzio aggressivo, il battito del suo stesso cuore che gli rimbombava assordante nelle orecchie. Vide Tadashi discutere con Gamo mostrandogli la sua cartella clinica e le indicazioni del fisioterapista e dell’allenatore, osservò lo scambio che da lontano sembrava muto, ma doveva essere accalorato e poté immaginare facilmente Tadashi che minacciava di non lasciarlo giocare, se non fossero state seguite le indicazioni della squadra con cui aveva firmato un così vantaggioso contratto. Gamo chiamò Misugi a prendere parte alla disputa e Kojiro guardò il suo amante passato discutere con quello attuale del suo destino: uno pacato e rilassato, come sempre un principe perfetto davanti a tutti, l’altro educato e cordiale, ma altrettanto inamovibile di una quercia secolare. Gamo, più impaziente di entrambi, sbottò e li lasciò discutere fra loro, scaricando l’irritazione sui giocatori in campo. Tadashi e Misugi dopo un po’ si strinsero la mano e Misugi si fece incontro a Kojiro.
– Nakamura è ancora più ostinato di come lo ricordavo. Spero che tu lo paghi molto bene, perché non te lo meriti.
Kojiro rispose con appena un cenno del capo, chiedendosi se le parole di Jun sottintendessero altro. Jun era sempre avanti a lui, c’era sempre qualcosa nelle parole di Jun che si perdeva, qualcosa che gli sfuggiva o a cui arrivava troppo tardi.
– Sarà meglio che tenga d’occhio sia Gamo che te. Se ti rompi in allenamento ci aspetta una causa così stratosferica da mandare in bancarotta la nazionale.
Kojiro annuì di nuovo, incapace di parlare davanti a quell’uomo che ancora sapeva risvegliargli un turbamento nel ventre, un turbamento che gli stringeva le viscere.
Fu felice di potersi dedicare alla fatica fisica e alla concentrazione sul gioco, nonostante sapesse di avere addosso sia gli occhi di Tadashi che di Misugi e non riuscisse a non chiedersi quanto ci fosse di professionale e quanto di tutt’altro che professionale in quegli sguardi, perché nel suo, di sguardo, quando si posava sulle gambe asciutte di Misugi e sul suo profilo elegante o quando incontrava gli occhi intenti di Tadashi,  di professionale c’era ben poco.
Nonostante il nervosismo e gli sguardi che continuavano a seguirlo e il senso di oppressione che non lo abbandonava, i giorni del ritiro passarono rapidamente e la partita finì con un soddisfacente due a due, entrambi i gol del Giappone messi in rete da Kojiro, che si trovò a pensare, per la prima volta, che quegli allenamenti tre volte a settimana e quelle amichevoli la domenica e gli schemi che lo costringevano a imparare, tutto sommato non erano così male.
La sera Kojiro cenò con la squadra. Ascoltò Wakabayashi parlare di come si trovava in Germania, con più interesse di quanto avesse mai fatto prima, ora che anche lui viveva in una città aliena e distante; Ozora annunciò titubante il suo fidanzamento e, anche se Kojiro sapeva, come sapevano tutti, che era solo questione di tempo, lo invidiò per la facilità con cui poteva avere quello che a lui era precluso; Matsuyama cercò di provocarlo, deridendo il modo in cui Kojiro si lasciava dire cosa fare dal suo manager e la sua neonata attenzione agli infortuni, ma Kojiro si sentiva troppo in debito con Tadashi per lasciarsi trascinare in una discussione del genere. E comunque Tadashi aveva avuto ragione, Misaki e Matsuyama erano in grado di servire i palloni di cui Kojiro aveva bisogno per andare a rete e Kojiro era abbastanza professionale da ammetterlo. Con Ken e Takeshi, bevve, rise e si rilassò e il turbamento che si nascondeva nelle sue viscere si sciolse un poco. Misugi era seduto dall’altra parte del tavolo, che parlava tranquillamente con Izawa e lui e Kojro si ignorarono o finsero di ignorarsi per tutta la sera.
Rientrò in camera presto e preparò le valigie per ripartire l’indomani mattina. Era già pronto per andare a letto, quando sentì bussare alla porta. Sentì bussare e pensò che si trattasse di Ken o Takeshi che si erano dimenticati qualcosa, perciò non perse tempo neanche per infilarsi una t-shirt sopra i boxer. Così quando aprì la porta, era nudo, se non per i boxer e Jun era in piedi davanti a lui con gli occhi scuri e febbrili come non glieli aveva mai visti, se non quando facevano sesso.
– Posso entrare? – La voce controllata, ma che vibrava appena e forse Kojiro non era stato il solo a continuare a pensare a quelle camere d’albergo per tutti quei mesi, mesi in cui non si erano visti, né sentiti e Kojiro aveva pensato di aver chiuso quelle porte definitivamente.
Si sentì travolto dal rancore, dal dolore e dall’umiliazione che l’avevano perseguitato per quasi due anni, dal ricordo delle parole crudeli e tranquille che Jun gli aveva detto guardandolo negli occhi, dal ricordo delle sue stesse parole, dall’aver lasciato le sue debolezze venire allo scoperto, i suoi bisogni più profondi, quei bisogni che salivano dagli abissi che Jun aveva scoperchiato e poi rifiutato. Si sentì travolto dal rancore, dal dolore e dall’umiliazione e al tempo stesso dal desiderio e dalla passione, che Jun continuava a provocare in lui.
Jun che per gli altri era un principe dal cuore di cristallo, fragile e perfetto come un vaso della dinastia Ming, ma che per lui era un torero dalla spada di acciaio, suo tormento e sua estasi.
Fece appena un passo indietro, un passo che non era neanche un passo completo, era più un accenno di un passo, ma che per lui, che non arretrava mai, era la cosa più difficile che avesse fatto in vita sua, solo quanto bastava perché Jun avesse lo spazio per entrare e chiudersi la porta alle spalle. E poi le mani dalle dita lunghe erano tra i suoi capelli selvatici e le labbra soffici contro le sue e Kojiro era di nuovo solo un corpo elettrico e un frastuono di sangue nelle orecchie e il rancore e il dolore e l’umiliazione non erano dimenticati e neanche accantonati, ma erano solo alimento per il fuoco del desiderio.
Quando ebbero finito, Jun non si alzò subito, come aveva sempre fatto. Rimase sdraiato, un braccio inarcato sopra la testa, gli occhi castani che fissavano il soffitto come per cercare risposte alle sue domande, che forse erano anche le domande di Kojiro o forse no. E Kojiro lasciò che il pensiero tornasse al sesso che c’era appena stato e analizzò il piacere e il dolore, il rancore e l’affetto, l’umiliazione e il desiderio che si mescolavano in modo inestricabile e colse il filo di una malinconia che non aveva avvertito, finché le sensazioni avevano preso il sopravvento sui pensieri, una malinconia che aveva pervaso ogni secondo di quel sesso, che era stato così simile a quello che avevano condiviso per due anni, quasi tutte le settimane, non più di una volta, ma raramente meno, ma che era stato anche del tutto diverso.
– Non era mai successo durante un ritiro.
– No, ma non pensavo ci sarebbe stata un’altra occasione.
Continuarono entrambi a guardare altrove, come se il peso dello sguardo dell’altro fosse troppo da sopportare, per poter riuscire a parlare.
– Un’occasione per cosa?
– Non lo so. Non so tutto, non so quasi niente, ma so che mi sei mancato e non avevo il diritto di sentire la tua mancanza e che avevi ragione quando dicevi che è solo quando siamo insieme, che sono vivo fino in fondo.
Kojiro chiuse gli occhi e pensò che, forse, se non fosse stato lui, avrebbe pianto.
– So che non lascerò Yayoi e che non ci vedremo per chissà quanti mesi ancora e che tu non sei più mio da rivendicare. Prima era tutto, stasera è stato solo sesso e rabbia. E soprattutto è stato un addio.
E a quel punto Kojiro pensò che forse stava piangendo davvero, che aveva capito cos’era quella malinconia che aveva pervaso tutto, fin dall’inizio, da quando aveva visto Misugi sulla porta con gli occhi scuri e febbrili. Misugi, non più Jun, mai più Jun, perché non potevano tornare indietro, nessuno dei due. E c’era un uomo paziente e attento, caustico e intelligente, che non aveva gambe asciutte e un sadismo sottile, ma lo faceva sentire bene.
– Ti ho amato molto, avrei dovuto dirtelo prima, non sarebbe cambiato niente, ma sarebbe stato più onesto.
Kojiro voltò il viso dalla parte opposta, perché ora era sicuro di stare piangendo e non sapeva se erano lacrime di rimpianto o di sollievo e non voleva che Misugi lo vedesse.
Misugi si alzò e si vestì e non si riavviò i capelli, osservandosi allo specchio per assicurarsi di essere perfetto, come aveva sempre fatto, e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Kojro non lo osservò da sotto le ciglia, come aveva fatto per due lunghi anni, ma continuò a fissare la finestra e lasciò che quel turbamento, che si nascondeva nel suo ventre e gli stringeva le viscere, si sciogliesse in lacrime silenziose.
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La mattina dopo, nel ristorante dell’albergo, trovò Tadashi che lo aspettava, lavorando al computer – come sempre non sembrava conoscere riposo – e facendo colazione all’occidentale. Tadashi si era ambientato molto più rapidamente di lui.
Si girò a guardarlo e il suo sorriso ampio e sincero gli illuminò il viso – Tra ventiquattr’ore ti aspettano gli allenamenti. Sarai nel video promozionale del nuovo profumo di D&G, le riprese dureranno una settimana, per cui ci sarà un po’ da barcamenarsi e il Mister ti vuole in campo per la prossima partita di campionato. Pronto a partire?
Kojiro sorrise appena, di uno di quei suoi sorrisi rari e discreti e mentre rispondeva – Sì – per la prima volta dopo molto tempo, non si sentì un ladro.
 

 

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