Soldati blu di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
SOLDATI
BLU
Capitolo 1
Il soldato Halloran si sistemò
la giubba dell'uniforme da fatica, poi immerse la redazza nel secchio
di liscivia diluita, la strizzò e cominciò con grande impegno a
strofinare il pavimento della camerata. Il suo intento era quello di
fare buona impressione: quella corvè era una delle meno pesanti,
perlomeno si stava all'ombra e relativamente al fresco, e magari, se
l'avesse svolta a regola d'arte, il sergente Keane avrebbe deciso di
assegnargliela ancora.
Ripassò lo spazzolone su una
macchia, insistendo fino a che non riuscì a scrostarla via, poi lo
immerse di nuovo nel secchio, lo lasciò gocciolare e si piegò per
spingerlo sotto la prima delle brande. Lavò con cura dappertutto,
poi sollevò per una delle maniglie la cassetta azzurra degli effetti
personali che si trovava ai piedi del letto e passò la redazza anche
lì sotto.
Stava lavorando da un po' quando
una voce lo fece sussultare: “Te la cavi bene a leccare i
pavimenti, Bonnie.”
Halloran si girò di scatto e si
trovò di fronte il soldato Perkins, sei piedi e otto pollici, famoso
per riuscire a sollevare l'incudine del fabbro con un braccio solo.
Fece un passo indietro.
L'altro gli rivolse un sorrisetto
e disse: “Se lecchi così bene lì sotto, chissà cosa saresti in
grado di fare con il mio uccello.”
Halloran si limitò ad arretrare
di un altro passo. Fece guizzare lo sguardo tutt'intorno, ma erano
soli e in un'area lontana da porte e finestre.
“Non dici niente, Bonnie?”
“Non... non chiamarmi così.”
Un altro passo indietro.
Perkins lo incalzò, tranquillo
come un cacciatore che ormai ha la preda nel mirino. Gli prese di
mano lo spazzolone con un gesto quasi premuroso, e poi lo lasciò
cadere da una parte. “E perché? Sei carino come una ragazza.” Si
avvicinò ancora. “Una bella ragazza, naturalmente. Di quelle che
piacciono a me, biondine e delicate. A Fort Tadlock almeno qualche
puttana si rimediava, ma in questo posto di merda non ci sono da
fottere neanche le squaw. Ho pensato che potremmo arrangiarci fra di
noi.”
Halloran arretrò ancora, finendo
con le spalle contro il muro. “Non sono una ragazza,” si limitò
a balbettare. Deglutì a fatica, cercando di non ansimare troppo
vistosamente. “E non... lecco proprio nulla,” mormorò poi.
L'altro avanzò fino a che non fu
a un palmo da lui. “E invece so che lo fai,” sussurrò. Gli pose
due dita sotto il mento e gli fece alzare il viso. “Lo sanno tutti
perché sei qui. Gira voce che tu sia un piccolo esperto, in certe
cose.” Aderì a lui col corpo. Halloran sussultò sentendo la sua
erezione contro l'addome, e tentò di sgusciare via, ma Perkins fu
lesto ad appoggiare la mano sul muro, accanto alla sua testa. “Dove
vuoi andare, Bonnie?” lo canzonò. “Vuoi scappare via, hai
paura?”
“Per favore...”
“Per favore,” ripeté
l'altro, imitando il suo tono di voce. “Per favore... Così mi fai
eccitare ancora di più. Così mi viene voglia di sbatterti su quella
branda e strapparti i vestiti a uno a uno, e poi scoparti fino a che
non mi chiedi pietà.”
Di nuovo, Halloran cercò di
sottrarsi, ma Perkins gli appoggiò la mano libera sulla spalla. “Non
così in fretta, Bonnie,” ghignò. “È da maleducati andarsene in
questo modo, non ti pare?”
“Lasciami!”
Lo sguardo di Perkins si fece
minaccioso. “Allora vuoi farmi innervosire, Bonnie? Vuoi che
diventi cattivo? Ti piace così?”
“Lasciami stare, ti ho detto!”
rispose angosciato l'altro, puntandogli le mani contro il petto in un
infruttuoso tentativo allontanarlo.
In quel momento echeggiò una
voce imperiosa: “Halloran! Dannato moccioso scansafatiche, dove
accidenti ti sei imboscato?”
Perkins si irrigidì, poi
brontolò un'imprecazione. “Non finisce qui,” gli promise, ma
l'altro non rispose nemmeno: in un attimo si sottrasse alla sua
presa, poi corse fuori rapido come un coniglio che è riuscito a
liberarsi da una trappola.
La luce forte dell'esterno gli
fece sbattere le palpebre. Con il sole che c'era, guardare le mura
imbiancate a calce di Fort Hope faceva addirittura male agli occhi.
“Che accidenti combinavi, là
dentro? Dormivi?” lo apostrofò Keane. “È un po' che non sento
strofinare.”
Il ragazzo si mise sull'attenti.
“No, sergente.”
“Hai finito, almeno?”
Halloran deglutì. “No,
sergente.”
Keane lo fissò come se avesse
voluto incenerirlo. “Pezzo di impiastro buono a nulla,” ringhiò,
“Credi di essere venuto qui in villeggiatura? Magari per fare i
bagni di sole come certi damerini di Boston?”
“No, sergente.”
“Fila fuori, specie di idiota.
Alla torretta est hanno giusto bisogno di un paio di braccia in più.”
Il ragazzo corse via senza
farselo ripetere. Non sapeva se Keane fosse intervenuto perché aveva
sentito qualcosa o se fosse semplicemente passato di lì per caso,
tuttavia persino un servizio massacrante come la torretta, ovvero
scarrozzare travi di legno e secchi di malta sotto il sole a picco,
gli parve un sollievo, paragonato a quello che aveva appena
rischiato.
Raggiunse un gruppo di soldati
che si affaccendavano a torso nudo intorno a un'impalcatura allestita
contro una delle torri di vedetta. Il tetto era parzialmente
crollato, e da esso spuntavano i monconi anneriti di travi consumate
dal fuoco.
“Ehi, ragazzi, c'è Bonnie!”
esclamò uno di essi vedendolo arrivare.
Gli altri risposero con una
risata.
“Vieni qua, Bonnie, abbiamo
giusto bisogno di due mani delicate per fare la malta!”
Il ragazzo si avvicinò in
silenzio, sapeva già per esperienza che se avesse provato a far
presente che il suo nome non era Bonnie sarebbe stato seppellito di
lazzi e risate. Andò presso la buca della calce, e il soldato Hayner
gli passò un badile. “Impasta bene,” gli raccomandò. “Falla
liscia e compatta come la merda di Big Joe. Non vogliamo che la
prossima volta quei musi rossi bastardi ci tirino giù anche i muri.”
“Apache figli di puttana,”
giunse dall'alto dell'impalcatura. “Sai dove gliele ficcherei, le
loro frecce incendiarie del cazzo? Però accese!”
Ci fu qualche risata.
Halloran cominciò a rivoltare la
malta, che era grumosa e pesante, e si attaccava con tenacia al
badile. Ben presto fu in un bagno di sudore, la tela ruvida
dell'uniforme gli graffiava la pelle, e il sole cocente lo
costringeva a tenere lo sguardo rivolto a terra. Si asciugò la
fronte con la manica, e per non pensare ai suoi guai cominciò a
prestare orecchio alle chiacchiere degli altri.
“Se ti beccano, quei bastardi
ti tagliano a pezzi ancora vivo,” disse Tacker. Calò con fare
significativo l'accetta su una trave, creandovi una profonda
intaccatura.
“Ehi, sta' attento,” grugnì
Hayner, “con quel legno ci dobbiamo fare il tetto.”
“Per tua norma e regola, io
tagliavo tronchi quando tu ancora andavi a scuola.”
“E per tua
norma e regola, io a scuola non ci sono mai andato.”
“Dev'essere per quello che
anche Big Joe legge meglio di te!”
Seguì una salva di risate.
“Ehi, Bonnie!” giunse dopo un
po' dall'alto del ponteggio, “Hai finito con quella malta? Sembra
che stai rimestando lo stufato della domenica!”
Il ragazzo emise un sospiro.
“Sissignore.”
“Beh, allora porta su un
secchio, datti una mossa!”
Sotto lo sguardo critico di
Hayner, Halloran riempì un mastello con parte dell'impasto che era
riuscito faticosamente a ottenere, poi andò all'impalcatura e
cominciò a salire adagio, tenendosi con una mano e reggendo il
pesante contenitore con l'altra.
Quando raggiunse la piattaforma
della torretta, trovò il soldato Rosat in piedi su una cassa
rovesciata, intento a sistemare una delle quattro colonne in muratura
che sostenevano il tetto. “Muoviti,” gli disse questi.
“Vengo.”
L'altro fece una risatina. “Eh,
verrei volentieri anch'io. Dentro una bella figa, magari.”
Il ragazzo lo fissò incerto,
temendo che stesse per ripetersi la scena della camerata, ma dopo la
battuta Rosat sembrava di nuovo concentrato nel suo lavoro.
Gli lasciò il secchio di calce
vicino alla cassa e se ne tornò giù più rapidamente possibile.
Fu solo a pomeriggio inoltrato
che il caporale Maybrey, al comando della squadra addetta al
ripristino della torre est, ordinò una pausa.
Tutti i soldati abbandonarono
l'impalcatura e si raccolsero all'ombra del muro di cinta, sedendosi
chi per terra e chi su un abbeveratoio rovesciato. Quelli che
l'avevano ancora addosso si tolsero la giubba, e lasciarono che
l'aria li rinfrescasse.
Girò un secchio d’acqua con
dentro un mestolo, e a turno tutti bevvero.
“Che caldo,” si lamentò
Rosat, che si stava togliendo di dosso gli schizzi di calce con uno
straccio umido. “Non lo sentono quegli stronzi dei musi rossi?”
“Quelli vengono dall’inferno,”
replicò Tacker, “è normale che non lo sentono.” Fece una pausa,
poi in tono cupo proseguì: “Lo sapete cos’hanno fatto nella zona
di Fort Davis?”
Gli altri si scambiarono
un’occhiata. “No, che cosa?” volle sapere Hayner.
“Hanno catturato una ragazza,
se la sono tenuta al campo per qualche giorno, dandole da mangiare e
facendole credere che erano tutti grandi amiconi, poi a un certo
punto l’hanno presa, l’hanno spogliata, l’hanno appesa per le
braccia e sotto i piedi le hanno acceso un fuoco. Intanto, la
colpivano con le lance e con dei rami incendiati.” Fece girare lo
sguardo sull’allibita platea, poi concluse: “L’hanno fatta
durare un bel po’, prima di ammazzarla, e più urlava, più si
divertivano.”
Al racconto seguì un lungo
silenzio. Infine, il caporale Maybrey commentò: “Selvaggi senza
Dio. Ha ragione il generale Sheridan: gli unici indiani buoni sono
quelli morti.” Si alzò in piedi, poi ammonì: “Ricordatevelo
sempre, ragazzi: tenete l’ultimo colpo per voi, se non volete fare
la stessa fine. E ora forza, tornate al lavoro.”
Rispose un coro di grugniti di
disappunto, ma i soldati si alzarono e tornarono intorno alle
impalcature.
Rosat andò su, e dopo un po’
Halloran riempì un altro secchio di malta e a sua volta si arrampicò
sulla malferma scaletta che portava alla torre. Trovò il commilitone
intento a scrutare l’orizzonte. Guardò a sua volta: con il sole
calante, le alture che circondavano il forte prendevano una tonalità
livida, mentre gli arbusti che le ricoprivano diventavano grovigli
neri. Sui crinali, dove arrivavano gli ultimi raggi, le pietre
avevano un caldo colore rossastro, screziato di miele e oro. Il cielo
aveva perso il bianco da vecchio lenzuolo che assumeva nella calura
del meriggio per diventare una sontuosa cappa di turchese cupo,
punteggiata qua e là delle prime stelle.
L’aria finalmente era fresca e
profumata di erbe selvatiche.
Rosat si voltò verso di lui e
disse: “Ancora non rientrano.”
“Dove sono andati?” chiese il
ragazzo.
L’altro si strinse nelle
spalle. “Giro largo. Dopo quello che è successo, bisogna far
vedere ai musi rossi che non scherziamo.”
“Vuoi dire fino al Sand Creek?”
“Anche oltre, penso. Secondo
me, torneranno che fa buio.” Fece una pausa, poi in tono lugubre
soggiunse: “Se tornano.”
Il ragazzo non rispose. Che con
gli Apache non fosse il caso di scherzare l’aveva imparato il primo
giorno della sua assegnazione a Fort Hope: era stato aggregato a una
pattuglia addetta al recupero di tre cadaveri. Sulle prime era
rimasto abbastanza tranquillo: aveva già visto qualche cadavere
nella sua vita, e non lo avevano particolarmente impressionato. Gente
che sembrava addormentata, più che altro, oppure corpi avvolti nei
sudari, mere sagome bianche che gli avevano suscitato solo una vaga,
triste curiosità.
La pattuglia era stata
un’esperienza del tutto diversa.
Non riusciva a ricordare se in
quell’occasione aveva più pianto o vomitato. Sapeva solo che aveva
fatto entrambe le cose fin quasi a soffocarsi.
Aveva visto corpi straziati, con
mutilazioni inimmaginabili. Sulle prime aveva addirittura fatto
fatica a capire che si trattava di esseri umani, poi aveva
riconosciuto qualche brandello insanguinato dei pantaloni azzurri con
la banda gialla, l’unica parte dell’equipaggiamento che gli
indiani non si erano portati via.
Ricordava solo che a un certo
punto qualcuno lo aveva spinto su un cavallo, e quando era tornato in
grado di capire cosa stava succedendo era già tra le mura bianche di
Fort Hope.
La voce di Rosat lo distrasse dai
suoi pensieri: “Eccoli là. E sembra che ci siano tutti.”
Il ragazzo guardò a sua volta e
vide stagliarsi contro il cielo che andava scurendosi una lunga fila
di cavalieri. “Meno male,” sospirò.
Dal basso giunse la voce di
Maybrey: “Cosa vedi, Rosat?”
“Ci sono tutti, caporale.”
Prima che il graduato avesse modo
di rispondere, qualcuno disse: “Allora si vede che si sono tenuti
lontani dagli Apache.” Seguì qualche risata.
Dopo un po’ arrivò un’altra
domanda: “C’è anche il Dixie?”
“Stanno rientrando tutti,
quindi sì, c’è anche
lui.”
Ci furono delle imprecazioni.
“Mai che i musi rossi ammazzino quello giusto,” grugnì qualcuno.
“Silenzio!” ordinò il
caporale.
Halloran corse giù e si diresse
verso il piazzale. “Dove vai, Bonnie?” gli gridò dietro
qualcuno, ma lui non ci fece nemmeno caso. Arrivò che stavano
aprendo il portone.
Il primo a entrare fu il sergente
Burt. Era coperto di polvere dalla testa ai piedi, tanto che
l’uniforme sembrava più grigiastra che blu. Il suo cavallo
trascinava gli zoccoli come se avesse avuto dei ferri fatti di
piombo. Dietro di lui, il resto della pattuglia non era in condizioni
migliori.
Solo l’ultimo della fila si
teneva dritto in sella, con la testa alta e lo sguardo fisso in
avanti. La cosa non lo stupì: conosceva quel soldato praticamente
solo di vista, ma sapeva dalle chiacchiere dei commilitoni che
nemmeno il sergente O’Rourke, che era il terrore di Fort Hope, era
mai riuscito a coglierlo in fallo una volta.
Lui non dava confidenza a
nessuno, riservando a chiunque solo una distaccata cortesia, e gli
altri di sicuro non lo amavano.
“Qualcuno gli tolga quel
fottuto bastone dal culo,” brontolò infatti un soldato alle spalle
del ragazzo.
“Sempre con quel merdoso
atteggiamento da primo della classe,” replicò un altro. “Io
vorrei sapere chi cazzo crede di essere.”
“Ah, lascia perdere. Quello
stronzo pensa di stare ancora con il generale Lee.”
A voce più alta, un altro lo
apostrofò: “Ehi, Dixie, da quella parte per Gettysburg!”
Seguirono delle risate.
Halloran fissò l’oggetto di
quei lazzi. Inquadrato nei ranghi, il soldato non poteva ovviamente
reagire, tuttavia notò che aveva irrigidito ulteriormente la postura
e stretto le dita sulle redini.
“Che c’è, Dixie, ti mancano
i campi di cotone?” lo provocò qualcun altro.
Di nuovo, tutti risero.
“Silenzio!” sbraitò a quel
punto il sergente Burt. “Sembra di stare al circo, nella gabbia
delle scimmie!”
Le risate si affievolirono fino a
cessare, e gli unici rumori rimasero lo scalpiccio degli zoccoli e lo
scricchiolio dei finimenti di cuoio.
Halloran rimase fermo a seguire
con lo sguardo la colonna che si allontanava. Anche nella luce ormai
scarsa, si notava la differenza di postura tra il soldato che
chiamavano Dixie e gli altri. Considerò che non sapeva nemmeno il
suo vero nome, dal momento che anche i graduati si rivolgevano a lui
in quel modo.
In quel momento, una voce lo
riscosse: “Bonnie! Datti una mossa e vieni qui!”
Si voltò: il soldato Tacker lo
stava chiamando con ampi gesti. “Credi di aver finito? C’è da
sistemare la roba prima del rancio.”
Halloran lanciò un’ultima
occhiata alla colonna, poi corse via.
§
Il ragazzo sollevò il coperchio
della propria cassetta e ne estrasse la scatola di latta che
conteneva il lucido, la spazzola e uno straccio, poi si sedette sulla
branda, si sfilò gli stivali e cominciò a lucidarli.
Si sentiva tranquillo, perché
nessuno faceva caso a lui, e nessuno lo prendeva in giro chiamandolo
con l’umiliante soprannome di Bonnie, o lo provocava con allusioni
oscene.
I quattro veterani del plotone,
che in virtù della loro anzianità di servizio avevano diritto
all’uso del tavolino, stavano facendo una partita a poker. Altri
sistemavano il proprio equipaggiamento, chi sapeva farlo scriveva
lettere, per sé o per i commilitoni. Seduto sull’ultima branda
della fila, la faccia rivolta alla parete, il soldato che chiamavano
Dixie aveva steso sulla sua cassetta un telo più bianco di una
tovaglia da tè. Accanto a sé, sulla branda, aveva un flacone di
olio per armi, uno scovolo e uno straccio.
Prese la sua carabina, e per
prima cosa controllò che non avesse il colpo in canna.
Successivamente sbloccò il fermo sul calcio ed estrasse il
caricatore tubolare, che posò sul telo. Poi vi appoggiò anche
l’arma, prese lo straccio, lo spiegò, lo scosse, lo ripiegò
meticolosamente in quattro e lo imbevette di olio per armi. Mise
anche quello sulla cassa, la parte con l’olio verso l’alto, con
l’aria di chi posiziona un dessert particolarmente gustoso accanto
al proprio coperto.
“Ehi, Dixie!” urlò qualcuno
a questo punto. “Che fai con quell’altarino, vuoi dire messa?”
L’uomo rimase impassibile.
Prese la carabina, infilò lo scovolo nella canna e cominciò a farlo
andare su e giù.
“Sarà il suo modo di scopare,”
commentò qualcun altro, di nuovo senza ottenere la più piccola
reazione.
Il soldato continuò a pulire
l’arma come se i commilitoni semplicemente non esistessero. Oliò
accuratamente tutte le parti metalliche, le ripassò con un panno
pulito, quindi provò due o tre volte il meccanismo di estrazione,
fino a che esso non funzionò in modo perfettamente fluido.
Fatto questo riabbassò con
cautela il cane, inserì nuovamente il caricatore e la appese al
gancio accanto alla branda.
Quando la carabina fu al suo
posto, Halloran ebbe l’impressione di essere un bambino al quale di
colpo era stata sottratta la lanterna magica. Aveva visto pulire una
Spencer 1865 migliaia di volte, ma mai con quella solennità quasi
mistica.
Sbatté gli occhi e si accorse di
avere ancora lo stesso stivale fra le mani, ormai lucidissimo. Lo
posò e si alzò dalla branda, poi mosse qualche esitante passo verso
il commilitone. Si fermò occhieggiandolo speranzoso, ma l’altro
non diede segno di essersi accorto di lui.
Il ragazzo allora fece qualche
altro passo.
A quel punto il soldato alzò la
testa e lo fissò serio. Halloran lo fissò a sua volta, rendendosi
conto che non l'aveva mai fatto così da vicino: poteva avere sui
trentacinque anni, aveva la fronte alta e gli occhi chiari, e in
generale lineamenti fini, che gli parvero fuori posto in quella
camerata chiassosa. Lo sguardo era freddo, vagamente malinconico.
Il ragazzo si schiarì la gola,
di colpo stranamente intimidito, e disse: “Salve, io sono...”
“Halloran,” lo interruppe
l’altro con distacco. “So chi sei.”
Il più giovane si sentì
avvampare come se avesse appena fatto qualcosa di molto sconveniente.
Si schiarì di nuovo la gola e proseguì: “E… e tu sei…?”
“Finch.”
“Oh, ehm…” Halloran prese
il coraggio a quattro mani. “Finch, e poi?”
L’altro lo fissò dritto negli
occhi, poi rispose: “Non devi finire di lucidare gli stivali,
Halloran?” Il tono era quieto, distaccato.
Nonostante la pacatezza della
replica, il ragazzo arretrò come se avesse appena ricevuto un pugno.
Boccheggiò in cerca di una risposta, ma non riuscì a trovarla.
In quel momento, Hayner annunciò:
“Ragazzi, tra un po’ è il quindici.”
A quelle parole, Adams alzò la
testa dal mazzo di carte e brontolò: “Il solito uccellaccio del
malaugurio.”
“Prenditela con il calendario,
non con me,” replicò l’altro, stringendosi nelle spalle.
“Vaffanculo, mi stavo godendo
la partita, stavo anche spennando Hartwood. Ti sembra il caso di
tirare fuori certi argomenti?”
“Comunque il quindici arriva,”
replicò Hayner imperterrito, “E a qualcuno toccherà la corvè.”
“Ah, merda,” imprecò Rosat
dalla sua branda, sollevando lo sguardo da una consunta collezione di
fotografie osé. “A me non tocca di sicuro, io me la sono già
beccata il mese scorso.”
Tacker ghignò. “Ma certo, il
signore ha già dato. Dipende da quello che decide O’Rourke,
idiota. C’è gente che se l’è fatta tre volte di seguito.”
“Tre volte?” chiese qualcuno
dal fondo della camerata. “E ha portato a casa la pelle?”
“Puoi chiederglielo: è Charles
Maize del Plotone B. Vacci piano però, perché dopo l'ultima gli si
è un po' squinternata la testa.”
L’argomento riscuoteva il
generale interesse e dopo un po’ tutto il plotone, a parte Halloran
e Finch, era riunito intorno al tavolo da gioco. Le carte vennero
abbandonate.
“Io dico che quell’avamposto
andrebbe lasciato agli avvoltoi,” proclamò Hartwood con tono da
rivoluzionario. “È in mezzo al territorio degli Apache, non puoi
neanche andare a cagare senza portarti dietro il fucile, e devi
guardare anche sotto i sassi per vedere se c’è un muso rosso
nascosto. Ma che cazzo lo tengono a fare, dico io!”
“Per far vedere agli Indiani
che abbiamo le palle,” fu la risposta di Tacker. “Se no quei
bastardi ci pisciano in testa.”
“Veramente ci pisciano già in
testa,” brontolò Rosat.
La discussione andò avanti per
un po’. Alla fine Hayner impose il silenzio con un gesto, quindi in
tono solenne concluse: “E comunque, la faccenda è sempre la
solita: tra un po’ è il quindici. Parte la roba per Coyote Point,
e qualcuno dovrà andare a scortare il carico. Ma la domanda è: chi
sceglierà O'Rourke?”
“'Fanculo, me no di sicuro,”
brontolò Adams.
“E perché no? Chi sei, il più
bello?” Gli altri risero.
“Non ho preso punizioni.”
Raccolse le carte e le fissò intensamente, come a far capire che
desiderava riprendere la partita.
Hayner, imperterrito, disse: “Ah,
se bastasse non prendere punizioni, sarebbe facile. Anche se fossimo
tutti angioletti scesi dal cielo, in quindici una ventina di noi
dovrà partire.”
“Vaffanculo, Hayner,”
brontolò Rosat dalla sua branda, “Non si possono neanche guardare
le fotografie in pace, quando ci sei tu in giro.”
“Fatti delle seghe finché
puoi,” lo rimbeccò l'altro, “perché se gli Apache ti beccano,
la prima cosa che ti tagliano è il cazzo.”
§
Appoggiato al parapetto della
torre est, la carabina sulla spalla, Halloran scrutava nel buio. Era
una notte senza luna, e guardare fuori dava l’impressione di
fissare un sipario di velluto nero: non si vedeva niente, e si
immaginavano un sacco di cose.
Tese l’orecchio, ma l’unico
suono che si udiva era il frinire monotono di qualche insetto.
L’aria era immobile, come in
attesa di qualcosa.
Mosse qualche passo su e giù,
facendo scricchiolare le assi del pavimento. Nonostante i recenti
lavori di ripristino, nella postazione era rimasto un vago odore di
bruciato, che si mescolava con quello di resina e vernice delle travi
nuove.
Si sistemò meglio la cinghia del
fucile sulla spalla e si passò un dito nel colletto dell’uniforme,
che gli grattava la pelle delicata del collo. Di nuovo rivolse lo
sguardo al deserto, ma non percepì altro che quiete.
Alle sue spalle, la vita del
forte si svolgeva ordinata. Udì il richiamo di Adams dalla torre
nord, e girandosi verso l'edificio del comando scorse attraverso la
finestra aperta il maggiore Lane, che approfittando del fresco
lavorava nel suo studio.
Tornò ad appoggiarsi al
parapetto, sistemandosi come aveva visto fare ai veterani, in modo
che il fucile sulla spalla non gli pesasse troppo, e per un po'
rimase fermo, con lo sguardo che galleggiava nel velluto nero come
una barca alla deriva.
Ripensò al soldato Finch. Anche
lui in un certo senso era un sipario, dietro cui si indovinava
l'esistenza di molto altro. Nessuno a Fort Hope poteva vantare un
passato limpido, fare il soldato normalmente era l'unica alternativa
alla fame o alla galera, ma quel Finch gli dava un'impressione
strana: era come se al tempo stesso fosse nel suo elemento e fuori
posto, come un libro nello scaffale sbagliato.
Non riuscì ad andare oltre nei
suoi ragionamenti: udì dei passi pesanti sulle scale, e un attimo
dopo la voce di Adams annunciò: “Ti do il cambio, Bonnie.”
Il più giovane si limitò a uno
scarno: “Niente da segnalare.” Raccolse il cappello, si sistemò
per l'ennesima volta la cinghia della carabina sulla spalla e scese
per tornare in camerata.
Arrivò al piazzale, lo
attraversò e si diresse verso l'edificio delle camerate, già
pregustando il momento in cui avrebbe finalmente appeso al gancio
quel maledetto fucile e si sarebbe infilato sotto le coperte, per
godersi almeno qualche ora di sonno.
Era ancora immerso nei suoi
pensieri quando si sentì afferrare e trascinare indietro.
Istintivamente si divincolò, ma prima che potesse chiamare aiuto,
una mano pesante gli tappò la bocca. “Non ti agitare, Bonnie,”
gli sussurrò all'orecchio la voce di Perkins, “o dovrò farti
male.”
Il ragazzo si tese per cercare di
liberarsi, ma la presa dell'altro gli mozzava in respiro. Mugolò
come poteva.
“Sta' zitto,” ringhiò il
commilitone, stringendolo così forte che Halloran sentì le costole
scricchiolare, “non ci metto niente a tirarti il collo.”
Lo sbatté con le spalle contro
una parete e in un attimo gli fu addosso. “Ora farai il bravo con
me,” ansimò contro di lui, “farai quello che ti dico, e poi te
ne portai tornare dentro come se niente fosse.” Fece una breve
risata, poi soggiunse: “Non è quello che hai sempre fatto,
Bonnie?”
Spaventato e disgustato, Halloran
si divincolò di nuovo. “Lasciami!” inveì.
“Avanti, lo sappiamo tutti cosa
facevi prima di venire qui. Magari dopo ti do anche un quarto di
dollaro, eh? Così ti sembrerà di ritornare ai vecchi tempi.”
“Lasciami stare!” protestò
il ragazzo, ma prima che potesse aggiungere altro, un pugno
all'addome gli mozzò il respiro.
“Ti avevo detto di stare
zitto,” disse Perkins con il tono di un maestro che sgrida un
allievo un po' tardo. “Ora sarò costretto a farti davvero male.”
Il ragazzo sentì la sua grossa
mano circondargli il collo. La presa cominciò a stringersi, lenta e
inesorabile come una morsa. Gli afferrò il polso, ma era come
cercare di spostare una sbarra di ferro.
Aprì la bocca per gridare, ma
riuscì solo a emettere un specie di rantolo. Davanti agli occhi
cominciarono a comparirgli puntini luminosi.
A quel punto, qualcuno disse:
“Lascialo.” Era una voce distaccata, quasi cortese, nella quale
si indovinava però un'imperiosità inflessibile.
Senza abbandonare la presa,
Perkins si girò in quella direzione. In tono minaccioso chiese: “E
tu che cazzo vuoi, Dixie?”
Pacata, giunse la risposta:
“Voglio che tu lasci stare il ragazzo.”
L'altro sogghignò. “E se io
decidessi che non mi va?”
“Sarò costretto a farti male.”
Ci fu qualche secondo di silenzio
teso, poi Perkins emise una breve risata e si erse in tutta la sua
rispettabile mole. “Voglio proprio vedere come farai,” disse in
tono di scherno.
Un istante dopo, Halloran percepì
il rumore secco di carne che colpiva altra carne, e poi un gemito
soffocato. La mano che gli stava stingendo il collo scomparve, ed
egli si ritrovò seduto per terra ad ansimare a bocca aperta, con una
mano sulla gola e il corpo scosso da tremiti.
Il tramestio proseguì per un
po', infine udì la voce di Perkins che in tono minaccioso ammoniva:
“Non finisce qui.”
I suoi passi pesanti si
allontanarono nel buio.
Poi silenzio. Il ragazzo si
guardò intorno, ma non c'era più nessuno. “Finch?” chiamò con
voce sommessa.
Non gli giunse risposta.
Si alzò adagio, puntellandosi
alla parete, e di nuovo si passò la mano sul collo indolenzito.
“Finch, sei qui?” chiese. Attese quasi mezzo minuto, infine
avvilito mormorò: “Se n'è andato.”
Raccolse la sua carabina, che nel
trambusto era caduta per terra, e si incamminò a testa bassa verso
le camerate.
§
Il poligono di tiro si trovava
appena fuori dal muro di cinta del forte, in un avvallamento naturale
delimitato da irregolari creste di roccia.
Nel fondo di quel catino
arroventato dal sole era stata ricavata una linea di tiro, con le
piazzole contrassegnate da piramidi di sassi poste a intervalli
regolari. A una distanza di circa cinquanta iarde da esse era stata
scavata una trincea che tagliava trasversalmente lo spiazzo, e oltre
quella si trovavano i bersagli, ovvero tavole di legno su cui erano
stati dipinti dei disegni a cerchi concentrici rossi e bianchi,
oppure delle rozze sagome di cavalieri in nero.
Un ginocchio nella polvere,
rintronato dall'eco degli spari contro le pareti della conca,
Halloran cercò di imbracciare la carabina più strettamente
possibile. Inquadrò il bersaglio nel mirino, inspirò lentamente,
trattenne il fiato per un paio di secondi e tirò il grilletto
cercando di non strappare. Il crepitare secco dello sparo gli fece
fischiare l'orecchio, e il rinculo dell'arma contro la spalla lo fece
mugolare di disappunto.
Dalla trincea si alzò lentamente
una bandierina rossa.
“Guarda nel mirino, idiota!”
abbaiò la voce di Keane alle sue spalle.
“Sì, sergente,” rispose
meccanicamente il ragazzo, quindi azionò la leva di eiezione e mise
un altro colpo in canna.
Sparò, e di nuovo si alzò la
bandierina rossa.
Halloran emise un sospiro, posò
l'arma accanto a sé e si asciugò il sudore dalla fronte con la
manica dell'uniforme.
La voce del sergente lo fece
letteralmente sussultare: “Che cazzo stai facendo? Raccogli subito
quella carabina.”
Il ragazzo si affrettò a
eseguire l'ordine. Si posizionò di nuovo l'arma contro la spalla,
mise il colpo in canna e cercò di rilassare i muscoli intorpiditi.
Inspirò ed espirò un paio di volte, facendo del suo meglio per
ignorare il caldo, il rumore e la scomodità, poi tirò il grilletto
più lentamente che poté.
Finalmente si alzò una
bandierina bianca.
Continuò a sparare fino a che il
sergente non gli ordinò di abbandonare la postazione. A quel punto
scaricò l'arma, se la mise a spall'arm e arretrò fino a una zona
all'ombra. Lì si sedette su un sasso e rimase a osservare gli altri.
Cercò con lo sguardo Finch: il
soldato era in una piazzola poco distante da quella che aveva
occupato lui. Teneva una posizione impeccabile, e imbracciava il
fucile come se non avesse mai fatto altro nella vita. Sparava con
calma, un colpo dopo l'altro, ripetendo sempre gli stessi misurati
movimenti, e ogni volta si alzava dal fossato la bandierina bianca.
Halloran appoggiò i gomiti sulle
cosce e il mento tra le mani, poi emise un sospiro. Erano passati
ormai tre giorni da quando Finch l'aveva difeso, ma non era ancora
riuscito a ringraziarlo per il suo aiuto.
Non che le occasioni fossero
mancate: sembrava piuttosto che fosse l'ombroso commilitone a non
voler avere a che fare con lui.
Di nuovo il sergente diede un
ordine, e la squadra che stava sparando si preparò ad abbandonare le
postazioni. Finch si alzò in piedi, si spazzolò con le mani
l'uniforme imbiancata di polvere, si mise il fucile in spalla e si
diresse calmo verso la zona d'ombra. Una volta lì, si sedette su un
sasso e si tolse il cappello, poi si passò una mano fra i capelli
chiari.
Halloran prese la propria
borraccia e gli si avvicinò cauto. Aspettò che l'altro rivolgesse
lo sguardo su di lui, poi gliela porse. “Vuoi bere?” gli chiese.
Finch aggrottò appena le
sopracciglia, il ragazzo stabilì che sembrava stupito, più che
irritato. Continuò a tendergli la borraccia.
Alla fine l'altro allungò una
mano e prese il recipiente. “Grazie,” gli disse, poi lo portò
alle labbra e bevve.
In quel momento si levarono
scomposti clamori dalle linee di tiro. “Guardate qua!” stava
gridando il soldato Tacker, “Più stretta di una vergine!”
Halloran si girò a vedere cosa
stavano facendo, poi tornò a voltarsi verso Finch. “Parlano della
tua rosata,” disse. Si accorse di sentirsi quasi in imbarazzo per
la trivialità del paragone.
Il sergente Keane raggiunse il
chiassoso gruppo. Osservò il bersaglio e sollevò meravigliato le
sopracciglia. “Chi ha fatto una cosa del genere?” volle sapere.
Tacker si erse tronfio: “Io.”
Fece girare lo sguardo tutt'intorno, come sfidando i presenti a
contraddirlo, e infine lo fissò su Finch. Questi si limitò a
rivolgergli uno sguardo indifferente.
“Io!” ripeté allora il
primo. “Ve l'avevo detto che oggi ero in gran forma!” Si
allontanò seguito da una torma di militari acclamanti.
Senza parole per lo stupore,
Halloran rivolse lo sguardo al gruppetto, e poi di nuovo a Finch.
Questi si limitò a restituirgli la borraccia, poi gli girò
leggermente le spalle, tirò fuori dalla tasca interna della giacca
un piccolo portadocumenti di cuoio decorato con un monogramma dorato,
ne estrasse delle carte scritte a mano e cominciò a sfogliarle
adagio, con la cautela affettuosa di chi tocca un oggetto molto
fragile e molto prezioso.
§
Halloran buttò giù l'ultimo
boccone di manzo salato e cercò di masticarlo il minimo necessario
per non farselo rimanere incastrato in gola, poi ci bevve dietro una
tazza d'acqua, ma gli rimase in bocca il sapore di rancido della
carne mal conservata. Emise un sospiro: l'unica cosa che rimpiangeva
della sua vita precedente era il mangiare, anche se probabilmente
persino quello che mangiavano gli Apache era meglio del rancio di
Fort Hope.
A un certo punto sentì qualcuno
dire: “Ehi,
Dixie, chi cazzo sei, la regina d'Inghilterra?”
Guardò verso il fondo della
tavolata, e vide Finch che sedeva come al solito dritto e composto.
Teneva i gomiti aderenti al corpo, e le posate in punta di dita.
Aveva addirittura il tovagliolo sulle ginocchia.
Un altro soldato gli disse
qualcosa, ma lui rimase perfettamente impassibile. Si forbì anzi la
bocca con gesto elegante, quindi ripiegò il tovagliolo e se lo mise
in tasca, poi appoggiò le posate sul piatto di latta come un conte
avrebbe appoggiato l’argenteria su un piatto di porcellana
finissima.
Il ragazzo raccolse la scodella
ammaccata, vi aggiunse la tazza d’acciaio e consegnò tutto al
cuciniere, quindi uscì dalla mensa. Stava calando la sera, e il
plotone era sparso qua e là a gruppetti. Alcuni fumavano e giocavano
a carte, altri chiacchieravano dell'imminente missione a Coyote
Point, facendo pronostici su chi sarebbe stato scelto per far parte
della scorta.
Vide uscire Finch, che come al
solito evitò il contatto con gli altri, si sedette vicino alla
finestra della fureria per sfruttarne la luce, e tirò fuori le sue
carte.
Il ragazzo rimase per un po' a
guardarlo incuriosito: l'uomo stava leggendo un foglio un po'
macchiato, con gli angoli consumati. Quando ebbe finito lo ripiegò
con cura e lo rimise nel portadocumenti. Successivamente tirò fuori
alcune fotografie e le scorse adagio, soffermandosi per qualche
secondo su ognuna di esse.
A quel punto, Halloran si mosse
verso di lui. L'altro alzò la testa e gli rivolse uno sguardo
interrogativo.
“Io...” Il ragazzo deglutì
senza sapere bene cosa dire. Si mosse esitante da un piede all'altro.
“Io, ecco...”
Finch continuava a guardarlo
serio.
Halloran fece per dire qualcosa,
ma si accorse che l’espressione dell’altro si era fatta
d’improvviso tesa. Si guardò intorno e vide che il cortile era
stranamente deserto.
“Vattene,” sibilò Finch, ma
non fece in tempo ad aggiungere altro: una figura poderosa uscì
dalle tenebre e gli si lanciò addosso, facendolo crollare al suolo.
Tutte le carte e le fotografie che aveva in mano si sparsero in giro.
I due rotolarono avvinghiati, poi
si rialzarono, e Halloran vide che l’aggressore era Perkins. Dal
buio però uscirono a dargli man forte altri due, della sua stessa
taglia.
Finch si mise in guardia, l’altro
si fece avanti con un diretto destro. Il primo riuscì a schivarlo,
ma uno degli altri due lo afferrò da dietro e lo sbilanciò,
costringendolo a rompere la sua posizione difensiva, cosa che permise
a Perkins di colpirlo con un pugno all’addome. Egli emise un gemito
soffocato, subito un altro gli fu addosso colpendolo con un gancio
alla mascella. Finch però riuscì ad allontanare Perkins con un
calcio, poi si scrollò di dosso il soldato che lo stava tenendo per
le braccia, si girò e lo colpì al mento con un montante, poi balzò
indietro, ma finì contro il terzo dei suoi aggressori, che gli passò
le braccia sotto le ascelle e gliele intrecciò dietro la nuca, poi
lo sbilanciò indietro con l’intenzione di bloccarlo. Finch si
abbassò, scivolando via dalla presa, quindi si girò fulmineo e
sferrò un gancio all’avversario, facendolo crollare al suolo.
Dopo il primo attimo di sorpresa,
Halloran cercò di dare man forte al commilitone, ma immediatamente
un pugno lo spedì gambe all’aria con la sensazione che gli fosse
crollata addosso una casa.
Si rialzò incerto, scrollando la
testa per cercare di recuperare la lucidità, e gli fu chiaro che la
sua unica speranza di far cessare lo scontro era cercare un graduato.
Corse all'edificio del comando.
“Sergente Keane!” cominciò a chiamare, prima ancora di averlo
raggiunto, “Sergente, dovete venire subito!”
L'uomo comparve sulla soglia in
maniche di camicia. “Che diavolo hai da sbraitare, Halloran?”
“Si stanno picchiando!” ansò
il ragazzo.
“Chi si
sta picchiando?”
“Il soldato Finch è stato...”
cominciò Halloran, ma l'altro in tono duro lo interruppe: “Sempre
quel maledetto Dixie, dannazione a lui.”
Prima che l'altro potesse
replicare, scomparve nella baracca, e ne uscì un attimo dopo col
berretto in testa, abbottonandosi la giubba. “Andiamo,” disse
conciso. “Portami da quel piantagrane.”
I quattro stavano ancora lottando
furiosamente. Finch era addossato a un muro, e gli altri tre gli si
accanivano contro. Gli unici suoni che si udivano erano il tramestio
dei piedi e il rumore delle percosse, accompagnato di tanto in tanto
da qualche gemito soffocato.
Il sergente fissò per qualche
secondo i contendenti con i pugni puntati sui fianchi, poi sbraitò:
“Per tutti i diavoli! Cosa accidenti sta succedendo qui?” Avanzò
di un paio di passi, poi proseguì: “Dixie! Specie di idiota, che
cazzo ti credi di fare?”
Ansanti e sanguinanti, gli uomini
si immobilizzarono. Perkins fece un passo indietro, poi disse: “Mi
ha aggredito, sergente. Mi ha chiamato sporco Yankee e poi mi è
saltato addosso.”
Il sottufficiale si voltò verso
Finch. “È vero quello che dice?” lo apostrofò in tono rude. Il
soldato si limitò a far girare sugli aggressori uno sguardo
sprezzante.
“Non rispondi, brutto idiota?”
L’altro continuò a tacere.
Il graduato annuì con l’aria
di chi non si sarebbe aspettato niente di diverso. “Ma certo,”
disse, “dovevo immaginarlo. Tutti così, voialtri del sud,
altezzosi come puttane d'alto bordo. Credete di essere ancora in
mezzo ai vostri campi di cotone, con gli schiavi negri e il mint
julep [1] ghiacciato da bere.” Poi, a voce più alta: “Per questa
notte finite tutti in cella di rigore, poi domani sarà il maggiore
Lane a decidere cosa fare di voi.”
“Ma sergente!” protestò con
fare indignato Maize, uno dei due che avevano dato man forte a
Perkins, “Noi siamo stati provocati!”
“E allora avreste dovuto
chiamare me, invece di picchiarvi come selvaggi.”
“Ma...”
“Tutti in cella, marsch!”
Halloran rimase fermo a fissare i
soldati che venivano spinti via, e quando fu di nuovo solo si guardò
intorno: le carte di Finch erano sparse dappertutto. Alcune erano
state calpestate, ed erano spiegazzate e sporche.
Si chinò e cominciò a
raccoglierle, ripiegò i fogli e sistemò le fotografie. Per una
sorta di strano pudore cercò di guardarle il meno possibile mentre
lo faceva, ma intravide comunque delle figure femminili in vaporosi
abiti di tulle e una villa tutta bianca con la facciata ornata di
colonne. C’era anche un uomo in uniforme, ritratto sullo sfondo
della bandiera confederata.
Ripose tutto nel portadocumenti,
che era di marocchino fine, anche se ormai rovinato e stinto. Guardò
l’elegante monogramma, ancora dorato in alcuni punti: CFH. La F
doveva essere quella di Finch, ma per cosa stavano le altre due
lettere?
Si infilò la piccola cartella
nella tasca interna della giacca e richiuse accuratamente i bottoni.
Si guardò intorno dopo averlo fatto, come per accertarsi che nessuno
l’avesse visto appropriarsi di quello strano tesoro, poi si diresse
rapido in camerata.
[1] Cocktail bevuto negli Stati
del sud, tradizionalmente fatto con ghiaccio tritato, bourbon,
rametti di menta fresca e zucchero. Si serve in un’apposita coppa
d’argento.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Signori e signore, eccoci qui con
la seconda parte delle (dis)avventure dei nostri eroi. Ringrazio
tutti coloro che mi hanno seguito, ricordato e preferito, ma anche
tutti coloro che hanno solo letto: sappiate che se una storia esiste,
è grazie a voi. Un ringraziamento speciale va a chi è stato così
cortese da lasciarmi il suo parere, ovvero mystery_koopa, John
Spangler, Saelde_und_Ehre, alessandroago_94, Star_Rover, queenjane,
fiore di girasole, Syila, Enchalott e PerseoeAndromeda.
Capitolo
2
Dalla
sua posizione in fondo alla colonna, Halloran si sporse sulla sella
per guardare cosa stava succedendo più avanti. La porta di Fort Hope
si spalancò con un lungo cigolio e al di là comparve una distesa
ondulata e arsa, sulla quale crescevano radi arbusti.
Il
cielo era ancora azzurro, e l'aria relativamente fresca. La poca
umidità della notte avrebbe impedito alla polvere alcalina di
alzarsi almeno nelle prime ore di marcia. Poi però si sarebbe
sollevata, circondando tutta la colonna, facendo bruciare gli occhi e
la bocca, costringendo a tenere il fazzoletto fin sopra il naso e il
cappello calcato in testa.
La
posizione di retroguardia, ovvero quella che era stata assegnata a
lui e a Finch, era naturalmente la peggiore, dal punto di vista della
polvere: si sarebbero presi quella spostata dal vento, ma anche
quella alzata dagli zoccoli degli animali e dalle ruote dei carri.
Emise
un sospiro: lui e Finch.
Il
taciturno soldato non sarebbe stato originariamente destinato alla
scorta dei carri per Coyote Point, ma era stato ritenuto responsabile
della rissa, e quella era la punizione.
Si
voltò verso l’uomo, che sedeva composto in sella, con le spalle
dritte e la consueta espressione impassibile. Il suo equipaggiamento
era come sempre perfetto: la coperta di lana grigia arrotolata
sull'arcione, il sacco con le razioni per sé e la biada per il
cavallo, la fondina della Colt 45, quella della carabina Spencer...
Trovò
stranamente rassicurante il fatto che la scazzottata con Perkins e
gli altri gli avesse lasciato qualche livido in faccia. Gli dava una
connotazione umana, in un certo senso.
Mentre
era assorto in quelle considerazioni vide arrivare il tenente
Weiland, un giovanotto fresco di nomina, probabilmente poco più
vecchio di lui. L’ufficiale si mise alla testa della colonna, poi
si voltò in direzione del sergente Burt. Questi lo raggiunse, e i
due confabularono brevemente, poi Weiland diede il segnale di
partenza.
L’unità
si mise in movimento.
La
polvere circondava la colonna come una specie di nebbia, il sole
ormai alto aveva sbiancato il cielo. A parte il rumore degli zoccoli
e il cigolio delle ruote dei carri, nell’aria c’era un silenzio
spettrale.
Halloran
si aggiustò il fazzoletto sul viso, poi si sfilò un guanto e si
strofinò gli occhi. Tossì un paio di volte. Abbassò lo sguardo
sulla borraccia, indeciso se bere o no, ma poi vi rinunciò: meglio
tenersi la bocca asciutta, piuttosto che rischiare di rimanere
senz’acqua in mezzo al deserto.
Sapeva
che c’erano punti di approvvigionamento lungo il percorso, anche
perché muli e cavalli non potevano certo accontentarsi del contenuto
di una borraccia, ma sapeva anche molto bene che era proprio lì
intorno, di solito, che si appostavano gli Apache.
A
quel pensiero si guardò intorno a disagio, poi si girò verso il
commilitone. A differenza sua, Finch non aveva né il fazzoletto sul
viso, né il cappello calcato sugli occhi. Cavalcava dritto e
composto come al solito, con lo sguardo fisso davanti a sé.
Lo
chiamò.
L’altro
si girò verso di lui. “Cosa c’è?”
“Tu
pensi che arriveranno gli Indiani?”
Finch
si guardò intorno, poi disse: “Non oggi.”
Halloran
fece scorrere a sua volta lo sguardo sul paesaggio. Pietre a perdita
d’occhio, qualche cactus, creste aguzze che si stagliavano contro
il cielo come i denti di una vecchia sega. “Non oggi?” ripeté,
in tono vagamente incerto.
“No,
siamo ancora troppo vicini al forte.”
Il
ragazzo annuì a disagio. Sapeva da solo che i dintorni non erano
sicuri, ma un conto era avere una generale impressione di pericolo, e
un conto era sentirsi confermare da un soldato esperto che
effettivamente il pericolo c’era.
Si
guardò intorno di nuovo, e vide passare in lontananza una delle
pattuglie di esploratori che giravano costantemente intorno alla
colonna. Si rivolse di nuovo a Finch e disse: “Se c’è qualcosa
di strano, loro se ne accorgeranno, non trovi?”
“Se
gli Apache non li fanno fuori prima.”
A
quel punto, Halloran preferì lasciar perdere la conversazione. Seguì
con lo sguardo il volo di un rapace, che tagliò l’orizzonte
lanciando un grido acuto, poi staccò dalla sella la borraccia e
bevve un sorso.
§
Il
soldato Tacker si mise in spalla il fucile, quindi disse: “Vedi di
non addormentarti, Bonnie.”
Ignorando
l’umiliante nomignolo, Halloran replicò: “Certo, per chi mi
prendi?”
“Per
uno che deve fare il primo turno di guardia con me, e magari mi deve
anche parare il culo se arrivano i musi rossi. Non voglio trovarmi un
tomahawk in mezzo alla schiena perché tu hai pensato di farti un
sonnellino approfittando del fresco.”
“Io
non mi addormento,” ribatté il ragazzo in tono risentito.
Così
parlando si spostarono ai margini del campo. “Tieni gli occhi
aperti,” gli raccomandò Tacker, “quei figli di puttana te li
trovi addosso quando meno te lo aspetti.”
“Finch
ha detto che stasera non arriveranno,” replicò il ragazzo, quasi
sentendosi fiero di poter sfoggiare quell’autorevole parere, “Siamo
ancora troppo vicini al forte.”
“Chi
l’ha detto?”
“Finch.”
“Il
Dixie? Ma quello viene dai campi di cotone, cosa vuoi che sappia di
Indiani?”
Il
ragazzo si girò a guardare l’accampamento da sopra la spalla.
Ormai era buio, e dal punto in cui si trovavano si coglieva solo il
bagliore dei fuochi. Trasportati dalla brezza, giungevano fin lì
l’eco delle conversazioni e l’odore dei cavalli, del fumo e del
lardo coi fagioli che era stato cotto per cena. Un po’ più lontano
si sentiva il raschiare lieve di chi stava lavando le stoviglie con
la sabbia di fiume.
Tornò
a voltarsi verso il deserto, e fece qualche passo avanti e indietro
cercando di abituare lo sguardo all’oscurità. Tutto sembrava
immobile, ma la cosa non lo rassicurava per nulla. L’unica cosa che
in qualche modo leniva l’ansia di trovarsi al di fuori del cerchio
di luce dei fuochi e lontano dai commilitoni era paradossalmente la
scarna rassicurazione che Finch gli aveva elargito: non
oggi.
Si
sistemò meglio la cinghia della carabina sulla spalla, poi si portò
la mano al petto, e palpò attraverso la stoffa dell’uniforme la
sagoma del portadocumenti in pelle. Sorrise fra sé e sé.
La
notte passò, ed effettivamente non successe nulla. Le prime luci
dell’alba sorpresero Halloran raggomitolato nella coperta,
infreddolito e con la sensazione di aver dormito un decimo di quello
che gli sarebbe servito.
Il
ragazzo si strofinò gli occhi, poi fece scorrere lo sguardo
sull’accampamento: i cavalli e i muli lasciavano ciondolare la
testa, e le uniche persone in piedi sembravano essere le sentinelle,
che ancora scrutavano verso pietraie deserte, colorate di indaco e
grigio nella foschia lattiginosa del primo mattino.
Percepì
un rumore a poca distanza, e istintivamente si girò in quella
direzione: vide Finch seduto su una pietra, già vestito, con gli
stivali lucidi. Teneva accanto a sé una tazza di latta piena a metà
d’acqua, e guardandosi in un piccolo specchio appoggiato su una
roccia, si stava insaponando la metà inferiore del viso.
Il
ragazzo, che aveva aperto la bocca per parlare, la richiuse senza
aver emesso un suono. Rimase a guardarlo sbalordito.
L’uomo
posò il pennello da barba, poi tirò fuori dal proprio
equipaggiamento un rasoio e cominciò a passarselo sulle guance con
gesti lenti e misurati, muovendo di volta in volta la testa per
facilitare il percorso della lama. Alla fine si passò un asciugamano
sul viso, pulì gli strumenti che aveva usato e li ripose nella
sacca, poi si alzò e si guardò intorno con una vaga aria di
disapprovazione.
Il
ragazzo si alzò a sua volta, attirando l’attenzione del
commilitone. “Buon giorno, Finch,” gli disse. “Avevi ragione
sugli Indiani.”
“Buon
giorno,” fu la laconica risposta.
Halloran
gli si avvicinò. Si infilò la mano nella tasca interna della giacca
e ne trasse la cartelletta di marocchino. “Ho qui qualcosa di tuo,”
disse porgendogliela.
L’altro
abbassò gli occhi sul portadocumenti, poi li rialzò fino a fissarli
in quelli del ragazzo. “Che significa?” chiese diffidente.
“Questo
è tuo,” ripeté cauto Halloran, sentendosi una specie di domatore
nella gabbia dei leoni.
Passarono
lunghi secondi, poi finalmente Finch allungò una mano e prese il
piccolo oggetto. Lo toccò constatando che conservava il suo
contenuto, e a quel punto alzò su di lui uno sguardo sollevato, ma
anche perplesso, di chi vuole capire bene come stiano le cose.
“Ho
raccolto tutto,” gli disse il ragazzo con un sorriso. “Non manca
niente.”
Seguì
un lungo silenzio.
Infine
l’altro annuì, di nuovo abbassò lo sguardo sulla cartelletta, poi
lo rialzò fino a incontrare il suo e chiese: “Ce l’hai un nome,
Halloran?”
“Rory.”
“Allora
grazie, Rory.”
Il
ragazzo sorrise. “Mi sembrava che ci tenessi.”
Finch
annuì. “Ci tengo molto,” confermò con un sospiro. Poi raddrizzò
la testa, si erse nella persona e solennemente gli tese la mano.
“Clarence Finch-Hatton,” si presentò.
Il
ragazzo gliela strinse. “Due cognomi?” non poté fare a meno di
chiedere. Se ne sentì vagamente intimidito: i nobili, per quanto ne
sapeva, avevano più di un cognome.
“Puoi
chiamarmi solo Finch.”
“O
anche Clarence?” azzardò Halloran.
L’altro
chinò la testa. “D’accordo, anche Clarence, se preferisci.”
“E
io sono Rory.”
Finch
si infilò in tasca il portadocumenti. “Grazie, Rory, davvero.”
Il
ragazzo lo fissò negli occhi. “Ero in debito: tu mi hai difeso. E
poi l’ho fatto perché ho visto che ci tenevi.”
Un’ombra
passò sul volto liscio di Finch. “È la cosa più preziosa che
ho,” ammise.
Halloran
lo fissò incerto, poi azzardò: “È la tua famiglia?”
“Lo
era.”
“Oh...”
Il ragazzo si sentì avvampare. “Scusa, io non volevo...” Tacque
imbarazzato.
L’altro
fece un gesto come per dire che non importava. “Fa niente,” disse
poi, “non potevi saperlo.” Si voltò verso il campo, quindi
soggiunse: “E adesso sarà meglio che cominciamo a muoverci, così
avremo tempo di controllare le armi prima della partenza.”
§
Finch
spinse il cavallo su un’altura e da lì rimase fermo a osservare i
dintorni. Alle sue spalle, Halloran fece a sua volta girare lo
sguardo sulla pianura. Il sole era alto, non tirava un filo d’aria.
Più
in basso, il convoglio avanzava lento sulla pista battuta, e il
ragazzo ebbe l’impressione che fin da quella distanza si
percepissero il rumore cigolante e l’odore di cavallo che si
portava dietro.
Rivolse
lo sguardo al compagno. Questi si voltò verso di lui e disse: “Tieni
gli occhi aperti.”
Il
più giovane gli restituì un’occhiata di apprensione. “Potrebbero
arrivare?”
“Sì.
Adesso sì. Ma credo che aspetteranno.”
“Perché?”
“Vorranno
vedere quanti siamo e quanto siamo agguerriti. Per questo, se li
incontriamo bisogna attaccarli nel modo più violento, e
possibilmente ucciderli tutti. Non che questo possa cambiare molto le
cose, in effetti, ma più si fanno l'idea che sappiamo difenderci,
meno sarà facile che assaltino il convoglio. Non amano le razzie
troppo faticose.”
Halloran
fece scorrere di nuovo lo sguardo sulla pianura, che gli parve più
che mai enorme e vuota. “Come facciamo?” chiese sconsolato.
Finch
non rispose. Spronò il cavallo e scese dall’altura, poi si
addentrò fra creste di roccia scavate dall’erosione. Gli zoccoli
dell’animale producevano soffici tonfi sul fondo di sabbia, la
calura era mitigata dalle zone d’ombra. In alcuni punti, le rocce
conservavano qualcosa dell’umidità notturna e alla loro base
spuntavano arbusti dalle foglie coriacee.
Procedettero
in quel modo per un po', poi a un certo punto Finch si girò sulla
sella e fece cenno di tacere, tirò le redini, smontò ed estrasse
adagio la carabina dal fodero.
Halloran
scese a sua volta, interrogandolo con lo sguardo.
Per
tutta risposta Finch gli consegnò le redini del suo cavallo e si
incamminò silenziosamente verso una fenditura tra le rocce.
Il
ragazzo rimase a guardare il punto in cui l’altro era sparito. Il
cuore gli batteva forte, e come sempre quando era teso, la bocca gli
si era fatta più secca della sabbia che c’era tutt’intorno.
Deglutì faticosamente e fece un passo avanti nella speranza di
vedere il commilitone.
Nel
silenzio che regnava ovunque sentì l’inconfondibile rumore
metallico della leva della Spencer che spingeva il colpo in canna.
In
quel momento, qualcosa gli piombò addosso. Percepì un odore come di
selvatico, o di strane erbe medicinali. Una voce sibilò qualcosa in
una lingua sconosciuta.
Il
ragazzo fece del suo meglio per divincolarsi, ma qualcuno lo stava
tenendo saldamente. Una mano secca e dura come vecchio legno gli
tappò la bocca. Egli tentò di nuovo di liberarsi, e percepì
qualcosa di freddo e affilato sul collo. Si irrigidì.
È
finita, pensò in un
lampo, e si dispiacque perché avrebbe deluso la fiducia che Clarence
aveva riposto in lui affidandogli il cavallo.
Poi
uno sparo lo fece sussultare, e chi lo teneva fermo smise di farlo.
Il
ragazzo si portò una mano alla gola, e barcollando appoggiò la
schiena alla parete di roccia, poi alzò lo sguardo su Finch, e lo
vide caricare di nuovo la carabina e puntarla nella sua direzione. Fu
attraversato da un lampo di terrore, e istintivamente si circondò la
testa con le braccia. Si udì un secondo sparo, e un altro corpo
cadde prono.
Il
ragazzo si voltò a guardarlo: capelli lunghi e neri, una fascia
colorata in testa, una sdrucita giacca blu ornata di piume e stringhe
di pelle, mocassini. Sentì il sangue abbandonargli la faccia.
“Apache,” mormorò.
Finch
non rispose. Scomparve di nuovo tra le rocce, e si udirono altre tre
detonazioni. Passò un’altra manciata di angosciosi secondi,
durante i quali Halloran fece del suo meglio per tenere calmi i
cavalli, poi l’uomo ricomparve. “Andiamo,” ordinò conciso.
Ancora
frastornato, il ragazzo si limitò a montare in sella e a spronare.
Raggiunsero
rapidamente il convoglio, che in allarme per gli spari si era già
contratto come un bruco disturbato. I soldati cavalcavano più
vicini, le rare chiacchiere avevano lasciato il posto a un silenzio
teso. Finch si portò alla testa della colonna, salutò militarmente
e rivolto all’ufficiale disse: “Signore, esploratori Apache a
mezzo miglio da qui. Ne ho uccisi tre, ma temo che un quarto sia
riuscito a scappare.”
Il
giovane ufficiale lo fissò con aria vagamente contrariata, poi
chiese: “Perché non avete ucciso anche l’ultimo, soldato?”
Lanciò una fugace occhiata al sergente Burt, Halloran ebbe quasi
l’impressione che stesse cercando la sua approvazione.
Il
sergente annuì leggermente, sebbene non molto convinto.
Finch
mantenne un’espressione impenetrabile, e in tono neutro rispose:
“Temo che l’Indiano sia scappato, signore.”
“E
non l’avete inseguito?”
“Non
l’ho visto direttamente, signore, c’erano solo le orme di un
cavallo che si allontanava. Ho pensato fosse più importante riferire
dell’avvistamento.”
L’ufficiale
– poco più di un moccioso, parve a Halloran – sollevò le
sopracciglia come se non avesse mai sentito nulla di più strano.
“Avete pensato.
Nientemeno.” Poi, dopo una pausa: “Mi credete sordo, soldato? I
vostri spari, cinque, per la precisione, si sono uditi perfettamente.
Dato che non stiamo compiendo un’escursione venatoria, non è stato
particolarmente difficile immaginare cosa stesse succedendo.”
Finch
mantenne l’espressione della Sfinge.
“Potete
andare,” concesse dopo un po’ il tenente Weiland, con un gesto di
congedo degno del Re Sole, poi di nuovo si voltò verso il sergente,
che però questa volta rimase impassibile.
“Gli
Apache non attaccheranno,” si sentì allora in dovere di chiarire
l’ufficiale, “è scritto a chiare lettere in ogni manuale di
guerra contro i pellerossa. Hanno capito che non scherziamo, e quindi
staranno alla larga. È ben noto del resto che sono tronfi ma vili, e
attaccano solo in forte superiorità numerica.” Poi, visto che
Finch non si muoveva, in tono infastidito soggiunse: “Ho detto che
potete andare, soldato.”
Questi
salutò, e seguito da Halloran raggiunse il suo posto in fondo alla
colonna.
“Davvero
non attaccheranno?” chiese il ragazzo quando furono nuovamente nei
ranghi.
“Al
contrario: adesso la situazione comincia a farsi veramente
pericolosa. Sanno cosa trasportiamo, visto che il convoglio parte
ogni mese, e vorranno anche farcela pagare per quelli che ho fatto
fuori.”
Il
più giovane emise un sospiro e disse: “È colpa mia, vero? Forse,
se non mi fossi lasciato sorprendere in quel modo...”
Finch
alzò le spalle. “Questa è guerra, Rory. Prima o poi avrebbero
attaccato comunque.”
§
Il
campo venne allestito in un silenzio guardingo. Nonostante la
sicumera del tenente, il sergente Burt aveva organizzato doppi turni
di guardia, e lasciato sentinelle armate anche sui carri e intorno ai
cavalli. Nessuno era autorizzato ad allontanarsi dalla luce dei falò.
Seduto
sulla coperta ai margini della zona autorizzata, la carabina di
traverso sulle ginocchia e la Colt in cintura, Finch stava sfogliando
le sue carte.
Halloran
lo raggiunse. “Ciao Clarence,” lo salutò.
L’altro
alzò gli occhi. “Ciao Rory.”
“Posso
sedermi un po’ qui con te?” chiese il ragazzo. Poi, a mo’ di
giustificazione, soggiunse: “Ho paura di essere un po’ nervoso.”
Finch
si limitò a fargli posto sulla coperta.
Halloran
si accomodò accanto a lui. Per un po’ si limitò a sedere in
silenzio, seguendo con vaga apprensione i rumori del campo, poi
chiese: “Posso vedere le tue fotografie, Clarence?”
Il
più vecchio sembrò esitare per qualche istante, poi gli porse le
preziose immagini. Egli le prese con reverenza.
La
prima rappresentava una giovane donna snella e graziosa, dai capelli
raccolti in una pettinatura semplice, con un abito chiaro e un
ombrellino di pizzo. Il ragazzo si rivolse al compagno in una muta
richiesta di spiegazioni.
“Mia
sorella Eleanore,” disse Finch.
Comparve
poi una coppia matura, orgogliosamente in posa davanti a una villa
tutta bianca.
“Mia
madre e mio padre. Quella era la la casa padronale di Mon Repos, la
nostra tenuta.”
“È
davvero stupenda.”
“Lo
era,” lo corresse Finch. “È stata rasa al suolo dagli Unionisti,
durante la cosiddetta marcia verso il mare di Sherman. La tenuta,
centinaia di acri coltivati a tabacco e cotone, è stata
completamente devastata.”
Si
susseguirono altre immagini, donne, uomini, famiglie. C’erano anche
persone di colore. Per ognuna di esse Finch gli dava qualche sommaria
notizia: nessuno era vivo.
Alla
fine comparve la fotografia dell’uomo in uniforme, e Halloran non
poté trattenere un’esclamazione di sorpresa. “Ma questo sei tu,”
disse.
“Ero
nel Virginia Cavalleria,” fu la scarna risposta di Finch.
“Ma
sei… eri un maggiore.” Il ragazzo lo fissò come se lo vedesse
per la prima volta.
L’altro
rimase in silenzio così a lungo che Halloran pensò che non avrebbe
più parlato. Infine distolse lo sguardo e con voce incolore rispose:
“Ora non sono più niente.”
Il
ragazzo si voltò a fissarlo e dovette faticare per reprimere
l’impulso di abbracciarlo. “Sei il mio amico,” gli disse alla
fine in tono affettuoso. “Non sarà gran che, ma...”
“Lascia
stare,” lo interruppe Finch in tono duro. “Io porto l’uniforme
dell’esercito che ha ucciso la mia famiglia e distrutto la mia
casa. Non merito l’amicizia di nessuno.”
Si
alzò con un movimento busco, si mise la carabina in spalla e si
allontanò nel buio.
Halloran
d’istinto fece per seguirlo, ma poi ci rinunciò. Scorse ancora una
volta le fotografie dai bordi consumati, e dopo averle guardate tutte
si rese conto che l’unica che ritraeva una persona ancora in vita
era quella di Clarence. E poi considerò che non era nemmeno così
vero, perché anche il maggiore Finch-Hatton in un certo senso era
morto.
In
quel momento si udì un grido, e una delle sentinelle crollò a terra
con una freccia nella schiena.
Il
ragazzo si ficcò in tasca le fotografie, poi afferrò la carabina e
mentre cercava di capire cosa stava succedendo mise il colpo in
canna.
Cominciò
a sentire degli spari, vide cadere un altro soldato, sentì la voce
di Finch che gridava: “State lontano dai fuochi!”
D'istinto
si spostò obbedendogli e si appiattì contro la fiancata di uno dei
due carri. Vide arrivare delle figure silenziose, rapide, che si
portavano dietro una sinistra aura di pericolo. Senza pensare puntò
il fucile e fece fuoco, e una di esse cadde nella polvere e non si
mosse più. Ricaricò e si guardò intorno alla ricerca di un altro
bersaglio, chiedendosi nel frattempo dove fosse Clarence.
I
cavalli nitrirono, qualcuno urlò: “Non fateglieli prendere!” Si
udì un lamento, gli animali ondeggiarono, una freccia dalla punta
incendiata solcò l'aria come una specie di meteora e scomparve nel
buio.
Poi
un guerriero Apache emerse dalle tenebre e corse verso i carri, così
che Halloran se lo trovò proprio di fronte: non poteva avere più di
quindici o sedici anni, e aveva un'espressione a metà fra
esaltazione e paura. Il soldato pensò che fosse alla sua prima
scorribanda, e magari volesse dare buona prova di sé, ma al tempo
stesso fosse spaventato e spaesato esattamente come lo era lui.
Si
trovarono occhi negli occhi.
Per
un lungo istante nessuno dei due si mosse, poi l'Apache sollevò il
tomahawk per colpirlo. D'istinto, Halloran puntò la carabina e fece
fuoco, e il colpo a bruciapelo scaraventò a terra l'Indiano, che si
contorse con un lamento e poi rimase immobile.
Ansante,
il fucile ancora stretto fra le mani, il soldato vide arrivare un
secondo Apache. Questi era un guerriero dall'aspetto autorevole, con
molti trofei e ornamenti. Illuminato dal bagliore delle fiamme, il
suo volto scuro appariva solcato da rughe profonde. Gli occhi neri
dapprima lo trafissero feroci, poi si posarono sul corpo a terra, ed
egli mormorò qualcosa. Fece per inginocchiarsi, ma un altro
guerriero emerse dalle tenebre, lo prese per una spalla e gli disse
qualcosa, poi lo trascinò indietro. Il primo tentò inizialmente di
opporsi, e protestò indicando il corpo riverso, ma poi si lasciò
condurre via.
Rimasto
solo, Halloran sbatté gli occhi e pian piano rilassò le dita, che
stringevano ancora convulsamente il fucile. Inspirò adagio cercando
di dominare il tremito che l'aveva invaso.
Un
tocco sulla spalla lo fece sussultare.
“Calma,”
gli raccomandò la voce pacata di Finch.
Il
ragazzo si voltò verso di lui. Cercò di deglutire, ma gli pareva di
avere in gola una pietra.
“Se
ne sono andati,” gli disse l'altro, poi lo fissò aggrottando le
sopracciglia. “Sei ferito?”
Halloran
si limitò a scuotere la testa. Si sentiva lo sguardo vitreo del
morto piantato addosso.
Finch
abbassò a sua volta gli occhi sul corpo e disse: “Era più giovane
di te. Avrebbe fatto meglio a rimanere al campo con le squaw.”
“Clarence,
io...”
L'altro
gli circondò le spalle con un braccio. “Vieni via,” gli disse in
tono gentile, “vieni a bere un po' d'acqua.”
“Clarence,”
ripeté il ragazzo con voce incerta, abbandonandosi contro di lui con
un sospiro.
“Va
tutto bene, Rory.”
§
Halloran
riaprì gli occhi raggomitolato sotto una coperta. Accanto a lui,
Finch stava finendo di farsi la barba. Ferme ai margini del campo, le
sentinelle apparivano come sagome indistinte nella foschia dell'alba.
Sentì
delle voci. Si voltò in quella direzione e vide il tenente Weiland e
il sergente Burt che parlavano fra loro. L'ufficiale camminava
impettito, fissando con aria sprezzante i corpi degli Apache
allineati a terra, ma il sottufficiale aveva l'aria preoccupata.
Mentre
stava guardando i due, un tocco sui capelli lo distrasse. Si voltò e
incontrò lo sguardo di Finch. “Ieri sera sei proprio crollato,”
gli disse l'uomo con un sorriso.
“Scusami,”
rispose imbarazzato il ragazzo. Si rizzò a sedere, facendo scivolare
giù la coperta nel movimento, poi si voltò verso i pellerossa
morti. “Pensi che torneranno?” chiese.
“Sì.”
“Anche
se li abbiamo respinti?”
“L'unica
ambizione che ha un Apache è quella di diventare un grande guerriero
e un abile predone, e anche quel ragazzo che ti ha fatto tanta pena,
se avesse potuto ti avrebbe ammazzato senza un ripensamento.
Torneranno quando saranno in superiorità numerica.”
“E...
ci uccideranno tutti?”
“Perlomeno
ci proveranno,” rispose Finch con distacco. Si alzò in piedi e si
sistemò la già impeccabile uniforme.
A
quel punto, il sergente Burt da lontano disse: “Visto che sei già
pronto, Dixie, prendi un piccone e una pala e comincia a scavare un
buco per seppellire Adams e Miller.”
Impassibile
come sempre, Finch andò ai carri e si fece consegnare gli attrezzi,
poi si spostò accanto ai due caduti e cominciò a scavare.
“E
vedi di darti una mossa, Dixie!” urlò qualcuno. Si udirono delle
risate.
Halloran
guardò lui, poi guardò tutti gli altri, che si stavano mettendo in
fila per la colazione: Clarence non avrebbe fatto in tempo a mangiare
nulla.
Andò
all’equipaggiamento dell’amico e recuperò la tazza, poi prese
anche la propria e si diresse verso la cucina da campo.
Quando
fu il suo turno, il cuoco lo fissò stupito. “Due tazze, Bonnie?
Vuoi fare la scorta per dopo?”
“Una
è per Finch.”
“Davvero?
È il tuo nuovo amichetto?”
Gli
altri ridacchiarono. Halloran ritirò la testa fra le spalle, ma non
si mosse. “Il sergente gli ha ordinato di scavare la fossa,”
rispose a mo' di spiegazione.
“E
quindi?”
“Non
può venire a prendere il caffè, così glielo porto io.”
“Berrà
dell'acqua, Bonnie,” disse il cuoco. “Gli ordini sono chiari: i
soldati devono venire personalmente a prendere il rancio, non
vogliamo principini con la puzza sotto il naso che si fanno servire
dagli altri.”
“Clarence?”
Il
soldato smise di picconare il suolo arido, si raddrizzò e chiese:
“Che c'è, Rory?”
Il
ragazzo gli porse una tazza. “Per te,” disse semplicemente. “È
ancora caldo.”
L'altro
prese il recipiente, dal quale si levava un invitante odore di caffè.
“E tu?”
“Io
l'ho già bevuto.”
“Prendine
un po'.”
“Ma
no, davvero. Io l'ho bevuto prima.”
Finch
sorbì un sorso, poi passò la tazza al ragazzo. “Beviamo un po'
per uno.”
Il
più giovane sorrise. “E io poi ti aiuto a scavare, va bene?”
“Non
sei obbligato.”
“Lo
so che non lo sono, ma siamo amici, mi fa piacere aiutarti.”
Il
ragazzo si girò fugacemente verso i due caduti. Gli Indiani non
avevano avuto tempo di infierire sui corpi, per cui erano
relativamente integri. I volti erano lividi, uno dei due conservava
una strana espressione di costernato sbigottimento: sembrava che la
morte l’avesse colto di sorpresa, come uno scherzo di cattivo
gusto.
L’altro
invece aveva la bocca aperta, dalla quale righe di sangue secco si
perdevano lungo il collo. Da uno squarcio nel ventre gli intestini
protrudevano come serpenti grigiastri. Le prime mosche cominciavano
già a ronzargli intorno.
“Ti
fa impressione?” chiese Finch, notando che il suo sguardo non
riusciva a staccarsi dalla scena.
“Un
po’.”
“Li
conoscevi?”
“Adams
era del mio plotone.” Il ragazzo lo rivide mentre giocava a carte
con gli altri veterani. “Aveva una brutta sensazione prima di
partire.”
“Anche
una recluta con tre giorni di servizio avrebbe una brutta sensazione
all’idea di andare a Coyote Point.”
Nel
frattempo la tazza di caffè era finita. La appoggiarono da una parte
e ricominciarono a scavare il suolo arido. Dopo un po’, senza
smettere di lavorare il ragazzo chiese: “Tu hai paura, Clarence?”
“Di
cosa?”
“Degli
Apache.”
“Tengo
l’ultimo colpo per me.”
“Ma
non ti fa paura l’idea di morire?”
“Non
ho molto da perdere.”
Di
nuovo fra i due cadde il silenzio. Da lontano, qualcuno gridò:
“Bonnie, l’hai mai tenuto in mano un badile prima di adesso?”
Tra le risate generali, un altro rincarò: “O hai impugnato solo
dei cazzi, con quelle manine bianche?”
Halloran
ritirò la testa fra le spalle sentendosi avvampare.
“Ehi,
Bonnie!” gridò un altro, “Lo sai che a vederti così piegato in
avanti mi viene quasi voglia di farmi un giro?”
Di
nuovo la frase fu seguita da risate generali.
Alla
fine dovette intervenire Burt: “Non avete un accidente da fare,
branco di idioti?”
I
soldati si dispersero mugugnando.
Dopo
un po’, Finch chiese: “Perché ti chiamano Bonnie?”
Il
ragazzo emise un sospiro. “Non ti piacerebbe saperlo.”
“Se
non vuoi dirmelo fa lo stesso.”
“No,
è che...” Halloran deglutì e fissò il compagno di sottecchi. “È
che se te lo dico, ho paura che poi non vorrai più avermi vicino.”
Finch
sollevò la testa dal lavoro e gli rivolse un pallido sorriso. “Tutti
quelli che sono qui hanno qualcosa da nascondere. Io ero un ufficiale
confederato, qual è la tua colpa?”
Il
ragazzo si morse il labbro inferiore, poi faticosamente mormorò:
“Io… andavo a letto con gli uomini per soldi.”
A
quella frase seguì un silenzio rotto solo dal raschiare delle pale
sulla terra secca. Quando esso si fece troppo pesante, timidamente
Halloran chiese: “Ora che l’hai saputo, preferisci che non ti
rivolga più la parola?”
Finch
sollevò lo sguardo fino a fissarlo nel suo. “Perché?”
“Magari
quello che ti ho appena detto ti fa schifo.”
L’altro
scosse la testa. “A me piace Bonnie. Mi fa pensare alla Bonnie
blue flag [1]. E
adesso aiutami a calare giù questi poveracci, per favore.”
La
colonna si mise in marcia poco dopo, lasciandosi dietro le tracce dei
fuochi di bivacco, i corpi degli Apache morti e una fossa poco
profonda, rozzamente ricoperta di pietre, dove riposavano i due
soldati. Qualcuno aveva tentato di porvi sopra una croce, ma il
sergente Burt l’aveva impedito, per evitare che gli Indiani le
profanassero.
Halloran,
ultimo della colonna, si girò sulla sella e guardò indietro. Al suo
fianco, Finch gli chiese: “Cosa fai?”
L’altro
si voltò di nuovo in avanti. “Nulla,” rispose chinando appena la
testa.
“Non
devi guardare indietro,” disse il più vecchio. “Fa solo male.”
“Scusa,
Clarence.”
“Guardare
indietro è come custodire un cimitero.”
Il
ragazzo sulle prime non replicò, poi, dopo qualche minuto,
timidamente osò chiedere: “Non stai parlando solo del campo che
abbiamo lasciato, vero?”
Finch
non rispose, ma chinò appena la testa e si aggiustò il cappello in
modo che la tesa gli ombreggiasse maggiormente il volto. “Io ci
provo, ma non sempre ci riesco,” disse poi.
In
quel momento udirono un cavallo avvicinarsi al galoppo, e un soldato
disse: “Finch: a rapporto dal sergente Burt.”
L'uomo
uscì dalla colonna, istintivamente il ragazzo gli tenne dietro.
Raggiunsero il sottufficiale. “Si può dire di te quello che si
vuole, Dxie,” disse questi quando Finch si fu avvicinato, “ma non
sei mai caduto da piccolo, e mi fido più di te che di tutti gli
altri messi insieme. Prenditi qualcuno e va a fare un giro qui
intorno.”
“Sì,
sergente,” rispose il soldato. Poi, rivolto al Ragazzo: “Vieni.”
Senza
attendere risposta, girò il cavallo e si diresse al piccolo galoppo
verso le alture che correvano a circa un miglio dalla pista.
Quando
si furono allontananti un po’, Halloran disse: “Perché hai
chiamato me?”
Finch
non rispose.
“Perché?”
insisté il ragazzo.
L’altro
si voltò a fissarlo. Gli parve bello e severo, come doveva essere
stato con l’uniforme da ufficiale. Le pupille strette per la luce
intensa facevano sembrare i suoi occhi ancora più chiari e
trasparenti, la sua postura era elegante e carica di dignità,
nonostante la sdrucita uniforme da soldato semplice che indossava.
“Ti
dispiace, per caso?” gli chiese.
“No,
ma...”
“Allora
procediamo. C’è troppa calma, voglio capire cosa sta succedendo.”
Raggiunsero
le alture, blocchi di arenaria rossa scavata dal vento, che si
ergevano da banchi di sabbia granulosa, che frusciava sotto gli
zoccoli dei cavalli.
Tra
le colonne di pietra il silenzio sembrava ancora più intenso, e per
i loro occhi, abituati alla luce che costringeva ad abbassare lo
sguardo, le zone d’ombra erano come pozzi oscuri che inghiottivano
i contorni delle cose.
Ogni
tanto spirava un vento lieve, che mormorava tra pareti di roccia
sinuose come stoffe.
Finch
procedeva adagio, guardandosi intorno e fermandosi di tanto in tanto.
Alla fine disse: “Bisogna salire.”
Rory
guardò in alto: le cuspidi color mattone svettavano contro un cielo
di smalto turchese. Un rapace enorme, con le ali spalancate e le
remiganti aperte come dita, descriveva ampi circoli sulle correnti
ascensionali.
Finch
richiamò la sua attenzione con un colpetto sulla coscia. Il ragazzo
si riscosse, e si accorse che era smontato da cavallo, e gli stava
porgendo le redini. “Io vedo se c’è un modo per andare su,”
gli disse. “Tu resta qui, e occhi aperti.”
Halloran
si limitò ad annuire. Smontò a sua volta, strinse in pugno le
redini di entrambi gli animali, poi cercò una rientranza della
roccia e vi si addossò con la schiena, in modo da scongiurare
attacchi alle spalle. Tese le orecchie, ma a parte il canto sommesso
del vento e il raro frusciare delle code dei cavalli, non si udiva
alcun suono. Persino i passi di Finch sembravano scomparsi nel nulla.
Poi
si accorse di un ticchettio irregolare che proveniva dall’alto.
Sollevò lo sguardo e vide un sassolino che cadeva rimbalzando contro
le pareti di roccia. Si obbligò a mantenere il silenzio: era Finch,
quello che si muoveva lassù, o un Apache? Il giorno prima se li era
trovati addosso all’improvviso, senza nemmeno accorgersi che
stavano arrivando. Rabbrividì al pensiero che se in quell’occasione
non fosse sopraggiunto Clarence, gli Indiani l’avrebbero ucciso.
Cadde
un secondo sassolino. Il ragazzo si arrischiò a sporgersi dalla
nicchia, e con sollievo colse un baluginare di blu e giallo, su in
alto.
“Rory!”
gli giunse asciutto il richiamo di Finch.
Il
ragazzo guardò di nuovo in su, cercando di individuarlo. “Dove
sei?”
“Rory,
lascia i cavalli e vieni a vedere.” Poi, forse notando la sua
titubanza: “Passa da dietro, c'è un percorso abbastanza facile.”
Quando,
sudato e impolverato di color mattone, il ragazzo arrivò alla
sommità dell'altura, l'altro era accovacciato e stava osservando
delle tracce sulla sabbia.
“Cosa
c'è?” chiese Halloran.
“Sono
stati qui. Probabilmente è da quando siamo partiti da Fort Hope che
ci stanno seguendo, e l'attacco di ieri sera è stato un modo per
capire quanto siamo forti.”
“E
quindi hanno deciso di andarsene?”
“No,
hanno fatto come i ratti: hanno mandato avanti un gruppetto per
vedere com'era la situazione, e adesso che l'hanno saputo, faranno
avanzare il grosso del gruppo.”
Il
ragazzo deglutì. “Questo vuol dire che arriveranno?”
“E
presto, anche. Forse addirittura oggi stesso.” Si mosse per
cominciare a scendere, poi proseguì: “Dobbiamo andare
immediatamente ad avvisare gli altri. Non so cosa sarà possibile
fare, così in campo aperto, ma perlomeno si potrà tentare di
organizzare una difesa.”
“Non
ci tengo a finire nelle mani degli Apache,” mormorò il ragazzo,
con la voce resa roca dalla mancanza di saliva.
“Tieni
l'ultimo colpo per te. Non pensare che quelle bestie si
impietosiscano perché sei giovane o perché sei carino: sei un
soldato blu e tanto basta.”
Erano
appena montati in sella quando nell'aria immobile si udì qualcosa
che assomigliava a un lontano crepitio.
Subito
Finch alzò la testa con uno scatto, e rimase in ascolto.
“Cosa
succede?” chiese Halloran, ma l'altro gli fece cenno di tacere.
Spinse il cavallo verso la pianura, e di nuovo rimase immobile ad
ascoltare. “Degli spari,” disse infine.
Rory
bevve un sorso dalla borraccia, poi faticosamente ripeté: “Degli
spari?”
Finch
annuì grave.
“Questo
significa che...”
“Che
sono arrivati.”
“Ma...”
Il ragazzo fissò smarrito il compagno, con l'aria di non sapere a
che santo votarsi. “Ma allora dobbiamo andare da loro, dobbiamo
aiutarli!” Fece per spronare il cavallo, ma l'altro lo fermò con
un gesto. “Dove vuoi andare, Rory?” gli chiese sconsolato, “Se
hanno attaccato, significa che saranno almeno il doppio dei nostri,
se non di più. Otterremmo solo di morire anche noi.”
Rory
rimase a fissarlo in silenzio.
“Non
credere che non ci abbia pensato, sai,” riprese allora l'uomo in
tono amaro. “Anzi, forse in altri tempi l'avrei anche fatto.” Si
interruppe.
“E
adesso, invece?” buttò lì il ragazzo, quando il silenzio si fece
troppo pesante.
“Adesso...
ho te.”
Halloran
sentì il cuore balzargli nel petto. “Che... che intendi dire?”
mormorò. Cercò il suo sguardo, ma l'altro lo manteneva
ostinatamente rivolto altrove.
“Voglio
dire che tu ti fidi di me, e avere la fiducia di qualcuno è una
grande responsabilità.”
Rory
portò il cavallo ad affiancarsi al suo, e in un sussurro chiese: “È
solo questo, Clarence?”
Finch
sollevò lo sguardo e lo fissò dritto nei suoi occhi. Rimase
immobile qualche istante, poi d'un tratto sembrò riscuotersi,
e quel momento carico di aspettativa svanì come una bolla di sapone.
Fece scorrere lo sguardo sull'orizzonte, poi disse: “Possiamo fare
una sola cosa per i nostri compagni: arrivare a Coyote Point e
chiedere aiuto.” Senza attendere risposta spronò il cavallo,
spingendolo al piccolo galoppo lungo le pendici delle formazioni
rocciose.
Rory
lo raggiunse, e per un po' procedettero affiancati. Il ragazzo
avrebbe voluto chiedergli in che modo gli uomini di Coyote Point, a
un giorno di marcia da lì, sarebbero potuti intervenire, ma la
risposta poteva darsela da solo: al massimo avrebbero attaccato
l'accampamento degli Apache, per liberare i disgraziati che non erano
riusciti a tirarsi un colpo in testa prima di essere catturati, o per
recuperare qualcosa di quello che gli Indiani avrebbero razziato.
Stavano
procedendo da un po' quando una freccia si piantò fra le zampe
anteriori del cavallo di Halloran, facendogli fare una mezza
impennata. D'istinto il ragazzo urlò: “Clarence!” Poi guardò in
alto e vide stagliarsi su una cresta di roccia un Apache armato di
arco.
“Clarence!”
ripeté, “Gli Indiani!”
Udì
uno sparo, si voltò verso il compagno e lo vide con la pistola
fumante in mano. Un Indiano fece per avventarglisi addosso, l'altro
sparò di nuovo, ma il primo lo trascinò giù da cavallo, e i due
rotolarono a terra avvinghiati. Vide baluginare la lama di un
coltello.
Nonostante
la paura, e l'angoscia di perdere il momento in cui tirarsi la famosa
ultima pallottola in testa, il suo primo impulso fu quello di
intervenire in suo aiuto, ma si trovava a fronteggiare altri due
guerrieri, e doveva intanto mantenersi a ridosso della parete
rocciosa, per sfuggire alle micidiali frecce che continuavano a
piovere dall'alto.
Qualcuno
lo afferrò per tirarlo giù da cavallo, il ragazzo fece arretrare
l’animale, una freccia lo sfiorò lasciandogli una striscia di
sangue su una gamba e in un istante di lucidità, lui si stupì di
non provare alcun dolore. Subito dopo sentì qualcuno afferrarlo, e
darsi la spinta per montare sul cavallo dietro di lui, si divincolò,
poi si udì una detonazione, l’Indiano si irrigidì e ricadde al
suolo.
“Rory,
vattene!” urlò Finch.
“No!”
gridò di rimando il ragazzo, poi spinse l’animale contro un Apache
stava prendendo di mira il commilitone, facendogli perdere
l’equilibrio. Questi però lo afferrò per il cinturone riuscendo a
disarcionarlo, Halloran rotolò con il guerriero addosso, riuscì a
estrarre la pistola, gli sparò, poi si rialzò in piedi ansante e si
guardò intorno: gli Indiani erano tutti morti, Finch era addossato
alla parete, ancora più pallido del solito. Si teneva una mano
premuta sulla spalla, e rivoli di sangue gli filtravano fra le dita.
“Clarence!”
urlò.
[1]
“The bonnie blue flag”, anche nota come “We are a band of
brothers”, è l’inno non ufficiale degli Stati Confederati, ed
era molto popolare tra soldati e cittadini.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Cari,
eccoci
alla conclusione di questa vicenda di soldati blu e indiani.
Ringrazio tutti quelli che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin
qui: chi mi ha letto, chi mi ha messo in qualche lista, ma in
particolare chi è stato così gentile da lasciarmi
un parere, ovvero
John Spangler, Enchalott, Saelde_und_Ehre, Syila, aelfgifu,
alessandroago_94, Star_Rover, mystery_koopa, fiore di girasole
e
queenjane.
Capitolo
3
Rory
rinfoderò la pistola e si precipitò verso il
compagno. “Clarence!”
ripeté angosciato. Lo aiutò a sedersi, poi
cominciò a sbottonargli
la giubba. “Fammi vedere,” gli disse.
L’altro
lasciava fare, cosa che al ragazzo parve più preoccupante di
qualsiasi altro sintomo. “Clarence,”
ripeté a bassa voce. Si
tolse il guanto e gli passò una mano sulla fronte coperta di
sudore
freddo.
“Sto
bene, Rory,” mormorò l’altro
socchiudendo gli occhi.
Il
ragazzo lo fissò preoccupato, poi rispose: “Certo,
starai bene,
non preoccuparti.” Nel frattempo gli aveva messo a nudo la
spalla
sinistra, sulla quale c’era una profonda ferita da punta,
proprio
sotto la clavicola. “Ora ti bendo e poi ci riposiamo un
po’,
d’accordo?”
“Non
possiamo riposarci.”
“Devi
riprendere fiato, Clarence. Non puoi cavalcare
così.”
L’altro
non rispose. Il ragazzo gli appoggiò sulla ferita una
compressa di
stoffa realizzata col fazzoletto che portava al collo, poi si
guardò
intorno alla ricerca del proprio cavallo, dato che nelle bisacce
della sella aveva bendaggi da campo, ma lo vide scomparire dietro uno
sperone di roccia. Subito si alzò per inseguirlo.
“Aspetta! Dove
vai?” gli disse, cercando di non spaventarlo con clamori
troppo
forti.
L’animale
non sembrava imbizzarrito o innervosito. Si muoveva tranquillo, come
chi sa perfettamente cosa fare. Ogni tanto si fermava e fiutava
l’aria con atteggiamento pensoso, dilatando le froge, poi
riprendeva il cammino. Halloran notò che il sentiero che
esso stava
percorrendo era già battuto da altre impronte di zoccoli.
“Cos’hai
trovato, una giumenta?” borbottò. Si
voltò indietro indeciso,
temendo di allontanarsi troppo dal compagno, ma preoccupato che il
cavallo decidesse di scappare via dimenticandosi dei suoi doveri.
Poi
la bestia si fermò e raspò la terra con lo
zoccolo. Fiutò di nuovo
l’aria, abbassò la testa e fiutò anche
il suolo, aggirò un
ultimo sperone di roccia e poi allungò il passo fino a un
piccolo
rigagnolo. Vi immerse il muso con uno sbuffo di soddisfazione e prese
a bere avidamente.
Rory
lo raggiunse, poi gli diede una pacca sulla spalla e disse:
“Sentivi
l’odore dell’acqua, vero?”
L’animale
continuò a dissetarsi senza prestargli attenzione. Il
ragazzo notò
poco lontano i segni di un bivacco, e nella cenere ancora calda
monconi d'osso bruciacchiati. Appoggiata da una parte c’era
una
lancia Apache. Si guardò intorno, ma tutto sembrava
tranquillo.
Concluse che quello era il rifugio degli Indiani che li avevano
attaccati.
“Beh,
andiamo a prendere l’altro cavallo,” disse fra
sé e sé. “Anche
lui vorrà bere. E Clarence, ovviamente. Quella ferita ha un
gran
bisogno di essere lavata. Gli Apache sporcano le punte delle frecce
con interiora putrefatte per far infettare le ferite, e scommetto che
lo fanno anche con le lame dei coltelli.”
Finch,
che sembrava addormentato ai piedi della parete di roccia, al suo
arrivo aprì gli occhi e lo fissò attento.
Il
ragazzo si avvicinò e si chinò accanto a lui. In
tono morbido, gli
chiese: “Ce la fai ad alzarti? Sembra che il mio cavallo
abbia
trovato dell’acqua. È un ra... come si chiamano
quei tizi che
trovano l'acqua con la bacchetta biforcuta?”
“Rabdomanti?”
“Sì,
quelli,” rispose subito il ragazzo, poi ripeté:
“Rabdomante.”
fece una pausa, annuì convinto. “Mi piace, ha un
suono solenne. Il
mio cavallo si chiamerebbe Hushpuppy, che ne dici se d'ora in poi lo
ribattezzo Rabdomante?”
Finch
tentò una risata, che però si
trasformò subito in una smorfia di
dolore.
Halloran
controllò il tampone di stoffa che gli aveva lasciato sulla
ferita:
da giallo che era, il fazzoletto era diventato di un rosso cupo,
più
intenso dove il sangue l’aveva impregnato maggiormente.
“Ora
andiamo, Clarence,” gli sussurrò all'orecchio. Si
piegò a
posargli un lieve bacio sulla tempia. L'altro non si ribellò.
“Ce
la fai?” gli chiese dopo un po', vedendo che non si muoveva.
Lo
prese per il braccio sano, lo aiutò ad alzarsi, lo strinse a
sé.
Finch si appoggiò a lui con un gemito.
“Ti
fa male?” chiese subito Halloran.
“Un
po'.”
“Dai,
ora ti lavo la ferita, e poi te la fascio. Sono bravo con le bende,
sai?”
“Davvero?”
“Uh-huh.
Bravissimo.”
“Dove
hai imparato?”
“Quando
ero piccolo e c'era la guerra, mia madre ha fatto per un po'
l'infermiera in un ospedale da campo.”
“Tu
eri lì con lei?”
“Beh,
sì. Dove vuoi che mi mettesse? Eravamo solo noi
due.”
“Quanti
anni avevi?”
“Una
decina. Aiutavo con le fasciature o altro, quando c’era
bisogno.”
Così
parlando, il ragazzo si incamminò verso il punto dove aveva
lasciato
il cavallo. L'altro cavallo, evidentemente addestrato a non
allontanarsi dal padrone, seguiva Finch anche senza bisogno di essere
condotto per le redini.
Quando
arrivarono a destinazione, Rory aiutò per prima cosa il
compagno a
sedersi a terra accanto al rigagnolo, con la schiena contro una
roccia, poi andò ad attingere un po' d'acqua, si
inginocchiò di
fianco a lui e gliela fece bere. “Come va?” gli
chiese.
“Sono
stato meglio.” Finch cercò senza successo di
raddrizzarsi, poi
proseguì: “Ma tu... dopo tutto quello che avrai
visto negli
ospedali, hai scelto lo stesso di fare il soldato?”
Il
ragazzo gli rivolse un sorriso amaro. “Diciamo che non ho
avuto
molta scelta, in realtà. O soldato o in prigione, e puoi
immaginare
cosa succede a quelli come me in prigione.”
Così
parlando, riprese il suo fazzoletto, lo lavò, lo
strizzò e cominciò
a pulire la ferita. Finch si irrigidì appena.
“Ti
faccio male?” chiese Rory preoccupato.
“Non
tanto.”
“Posso
continuare?”
L'altro
accennò di sì con la testa. Dopo un po' che il
ragazzo si occupava
del taglio, a bassa voce, in tono quasi esitante, gli chiese:
“Rory... a te piaceva?”
Halloran
si fermò. “Cosa?”
“Quello
che...” Clarence esitò, forse alla ricerca di
un’espressione che
non suonasse troppo cruda. Alla fine scelse: “Quello che
facevi per
vivere.”
Il
ragazzo ebbe l'impressione che fosse molto tempo che il compagno
stava rimuginando quella domanda. Ponderò se dirgli di
sì o di no,
cercò di immaginare cosa avrebbe comportato l’una
o l’altra
risposta. “Dipende,” rispose alla fine con
sincerità.
“Da
cosa?”
“Il
più delle volte lo facevo solo per tirare avanti, ma con
alcuni mi piaceva.” Deglutì: nel bene e nel male,
si rese conto
che ormai si era spinto troppo avanti per tornare indietro. Con voce
incerta aggiunse: “Con te mi piacerebbe.”
A
quella frase seguì un lungo silenzio, tanto che il ragazzo
si
convinse di aver osato troppo, e che la confidenza così
faticosamente raggiunta si fosse irrimediabilmente incrinata, poi
Finch in tono grave disse: “Mi fai onore.”
Rory
sentì il cuore saltare un battito. Lo fissò negli
occhi, cercando
ansiosamente nel suo sguardo una conferma di ciò che aveva
appena
udito. “Cosa?” mormorò con voce appena
udibile.
“Mi
fai onore,” ripeté Clarence con fermezza.
Il
ragazzo abbassò gli occhi sulla propria mano, che stringeva
ancora
il fazzoletto intriso di sangue. Senza accorgersene, aveva serrato le
dita così forte che rivoli rossi gli scomparivano
giù per la
manica.
“Ti
faccio… onore?” mormorò con voce
incerta. Si era sentito dire di
tutto, nella sua breve vita, ma mai nulla che avesse a che fare con
l’onore.
“Sei
un giovane leale e coraggioso, sarei stato orgoglioso di averti nel
mio squadrone.”
Il
ragazzo si rese conto che quello probabilmente era per l’uomo
il
complimento più grande che avrebbe potuto rivolgergli.
“E io...”
Alzò lo sguardo fino a incontrare il suo. Sbatté
gli occhi, che di
colpo si erano fatti umidi, e si accorse che un groppo in gola gli
rendeva difficile parlare. “Io sarei stato orgoglioso di
servire ai
tuoi ordini.”
L’altro
sollevò il braccio sano a cingergli le spalle, e lo
tirò verso di
sé. Egli si piegò appena in avanti, e gli
posò un bacio sulle
labbra, che a quel tocco fremettero.
Poi
si fece indietro e rimasero a guardarsi incerti, forse timorosi di
fare di più. Alla fine il ragazzo si passò una
mano sul viso
asciugandosi gli occhi, sorrise e disse: “Sarà
meglio che finisca
di sistemare la tua spalla, che ne dici?”
“Va
bene.”
Gli
sfiorò il petto con una carezza, sentì il suo
cuore battere forte e
involontariamente sorrise. Di nuovo pensò al passato: era
stato
scopato in ogni modo possibile, aveva concesso tutto di sé a
uomini
che poi non aveva mai più rivisto. Aveva preso cazzi,
brutalmente
parlando, di ogni genere. Ma l’unico che gli era entrato
veramente
nell’anima era Clarence Finch-Hatton, al quale aveva dato
solo un
bacio come quelli che si scambiano i ragazzini alla prima cotta.
§
Il
crepitare del piccolo fuoco era l’unico suono che si udiva
nella
gola. In alto, tra le cuspidi ormai nere dei monti, il cielo andava
tingendosi di indaco e cobalto, e qua e là cominciavano a
fare
capolino le prime stelle.
Illuminato
dai riflessi arancioni delle fiamme, il ragazzo sedeva quieto, lo
sguardo fisso su un piccolo recipiente di metallo nel quale
sobbollivano magre razioni militari di lardo e fagioli. Un
po’ di
pane raffermo si stava scaldando su una pietra.
Poco
lontano, avvolto nelle due coperte, Finch dormiva un sonno inquieto,
probabilmente gravato da incubi. Rory si alzò, gli
andò vicino. “Va
tutto bene, Clarence,” sussurrò accarezzandogli i
capelli. Gli
aggiustò le coperte e l’uomo parve calmarsi un
po’. Si chiese se
stesse sognando della guerra, o della sua casa distrutta dalle truppe
del generale Sherman.
Si
tastò la tasca, nella quale c’erano ancora le
fotografie di
Clarence, che lui aveva frettolosamente messo via quando gli Indiani
avevano attaccato l’accampamento.
Tornò
al suo posto accanto al fuoco, rimestò il pasto con una
forchetta,
poi le tirò fuori e di nuovo le scorse lentamente,
soffermandosi su
ognuna di esse. Era come se ormai conoscesse anche lui tutte quelle
persone: la sorella di Clarence, i suoi genitori, la sua governante
di colore, il suo cane di razza, il purosangue… E lui
stesso, in
uniforme, bello e severo, con lo sguardo rivolto verso
l’osservatore
in un’espressione che riusciva a essere al tempo stesso
indagatrice
e altera. Era più giovane, in quell’immagine, era
baldanzoso.
Aveva lo sguardo sereno e fiero, come chi è chiamato a
compiere un
dovere duro ma necessario.
Rimise
via le foto, raccolse le ginocchia contro il petto e vi
appoggiò
sopra il mento. Fissò di nuovo lo sguardo sul compagno. Il
baluginare mutevole delle fiamme lo faceva apparire e scomparire
nella penombra: ogni tanto il fuoco si rifletteva sui suoi capelli
biondi, oppure metteva in risalto la linea netta e decisa della
mascella, o il rilievo nervoso dei muscoli del collo.
Avrebbe
voluto abbandonare la cena al suo destino, andare a sdraiarsi accanto
a lui e stringerlo a sé. Immaginò il peso e il
calore di quel corpo
forte contro il suo e dovette distogliere lo sguardo mentre
un’ondata
di eccitazione lo attraversava come fluido elettrico.
Rimestò
di nuovo la cena. Non molto, obiettivamente, ma abbastanza per dar
loro un po’ di forze fino a Coyote Point. “Ammesso
che riusciamo
ad arrivarci,” disse a mezza voce, rivolgendosi ai due
cavalli, che
masticavano tranquilli col muso immerso nel sacco della biada.
Quella
pur sussurrata constatazione ebbe il potere di ridestare Finch, che
aprì gli occhi e si guardò intorno stranito.
“Che ore sono?”
chiese con voce roca.
Il
ragazzo si voltò verso di lui e rispose: “Non lo
so, non ho
l’orologio, però ormai è
buio.”
L’altro
fece per mettersi seduto, ma una fitta di dolore lo costrinse a
interrompere il movimento. “Perché mi hai lasciato
dormire?”
chiese comunque, guardandosi intorno come se faticasse a riconoscere
ciò che lo circondava.
“Ne
avevi bisogno,” rispose il ragazzo, “hai perso
molto sangue.”
“Non
c’è tempo di dormire.” Finch
sondò i dintorni, aggrottando le
sopracciglia nella luce ormai scarsa. “La mia
giubba?” chiese. Si
toccò la fasciatura. Cercò di muovere il braccio,
ma il volto gli
si contrasse in una smorfia di dolore. “Dobbiamo
andare,” disse
comunque.
“Siediti,
Clarence,” disse il più giovane. “Sai
anche tu che dieci minuti
in più o in meno non faranno poi quella
differenza.”
Finch
chinò la testa come per un rimprovero. “Se solo
non avessi dormito
così tanto...” mormorò, con lo sguardo
fisso sulla sabbia, che
alla luce delle fiamme prendeva una tonalità di ruggine
scura come
vecchio ferro dimenticato.
“Sei
ferito.”
L’altro
rialzò il capo con uno scatto. “E che
importa?” replicò, il
tono improvvisamente duro. “Che importa se sono ferito o
stanco,
quando la salvezza dei miei compagni dipende da me?”
“Se
non sei in grado di stare in sella perché sei troppo debole,
importa
eccome.”
Finch
non replicò, e si chiuse in un silenzio che a Rory parve
carico di
brutti ricordi.
Il
ragazzo lasciò passare qualche minuto, poi tolse dal fuoco
il
recipiente che aveva posto a scaldare, raccolse le fette di pane e lo
raggiunse. “Mangiamo qualcosa,” gli propose. Si
sedette accanto a
lui, sufficientemente vicino da sfiorarlo con la spalla, e si protese
a baciarlo piano sui capelli. Gli mise in mano un cucchiaio.
“Mangiamo,” ripeté.
“Io...”
“Non
dire che non ti va, l’ho fatto con le mie mani.”
Clarence
fece un pallido sorriso e rispose: “D’accordo,
mangiamo
qualcosa.” Piegò la testa fino a sfiorare quella
del ragazzo.
Quando
ebbero finito, Finch si guardò intorno e chiese:
“Dov’è la mia
giubba?”
“L’ho
lavata, era fradicia di sangue.”
“Dov’è?”
ripeté l’altro imperterrito.
Il
ragazzo gliela porse. “Sarà un po’
umida,” lo avvertì.
“Fa
niente.” Poi, dopo una pausa: “Aiutami a
indossarla, per favore.”
Rory
gliela fece passare sulla spalla ferita, stando attento a non
rovinare il bendaggio di fortuna che aveva improvvisato con la
propria camicia di ricambio. Guardò il cielo, che era ormai
nero, e
punteggiato delle prime stelle, poi chiese: “Vuoi partire
adesso?”
“Sarà
più difficile che ci vedano.”
Il
ragazzo fece girare uno sguardo tutt’intorno, come se temesse
di
veder spuntare degli Apache da un momento all’altro.
“C’è
pericolo?” gli chiese.
Finch
annuì. “Gli Indiani non sono stupidi, sanno che i
convogli mandano
in giro delle pattuglie a esplorare i dintorni. Benché solo
soldati
semplici, tu ed io abbiamo pur sempre due cavalli, due carabine, due
pistole, delle coperte e dei vestiti. È un buon
bottino.” Fece una
pausa, poi soggiunse: “Senza contare che vorranno evitare il
rischio di una spedizione punitiva.”
“Tu
dici che ci sarà una spedizione punitiva?”
“Fa
parte del gioco. Se riusciamo ad arrivare a Coyote Point e a dire che
hanno ucciso un bel po’ dei nostri e razziato tutti i
rifornimenti,
ci sarà la ritorsione.”
Halloran
non rispose. Quella era una strana guerra, che sembrava combattuta di
ritorsione in ritorsione. Indiani che attaccavano i convogli dei
pionieri, soldati che attaccavano gli accampamenti degli Indiani che
avevano attaccato i convogli, Indiani che attaccavano i forti dei
soldati che avevano attaccato gli accampamenti… e
così via.
“Finirà mai?” chiese, quasi rivolgendosi
a se stesso.
“Carica
le armi,” disse Finch per tutta risposta, “e
ricorda: tieni
l’ultimo colpo per te.”
§
Si
lasciarono alle spalle la fenditura tra le rocce e il rigagnolo dal
lieve mormorio ipnotico. Il fuoco ormai spento aveva smesso di donare
alle pareti di arenaria sfumature di miele e ambra, e davanti a loro
si estendeva la brulla immensità della pianura, blu-grigia
sotto la
luce fredda della luna.
“È
meglio che stiamo a ridosso delle montagne,” disse Finch,
“saremo
meno visibili.”
Si
misero in movimento.
Man
mano che i suoi occhi si abituavano all’oscurità,
il ragazzo
riusciva a cogliere sempre più particolari di ciò
che lo
circondava: vide una volpe schizzare fuori da dietro una roccia, e
afferrare qualcosa che emise un debole squittio, e vide la sagoma
scura di un rapace notturno che li scrutava dal ramo di un albero
secco.
Se
si concentrava, riusciva a cogliere mille suoni, dal richiamo basso
del gufo al frinire lontano degli insetti. L’aria era fresca,
e si
portava dietro il profumo amaro dell’enotera. Halloran si
sorprese
a scrutare il terreno alla ricerca delle sue corolle gialle.
La
catena che stavano costeggiando era una massa nera e frastagliata,
che ricordava un drago addormentato. Era incombente, nei suoi tratti
più impervi, e si addolciva, coprendosi addirittura di una
bassa
vegetazione, nelle zone che il vento aveva scavato maggiormente. Fra
le pietre erose di udiva a tratti il lontano mormorio
dell’acqua.
Il
ragazzo spronò il cavallo fino ad affiancarsi al compagno, e
a bassa
voce gli chiese: “Come va, Clarence?”
“Posso
farcela.”
“Ti
fa male la spalla?”
“Non
tanto.”
Per
un po’ proseguirono in silenzio, poi a un tratto Finch disse:
“Mi
piaceva la notte. Quando arrivava l’estate, a Mon Repos
fiorivano
le gardenie, e c’erano cascate di glicini e gelsomini:
l’aria era
così carica di profumi che stordiva.” Si
interruppe, il ragazzo lo
fissò, ma non osò dire nulla. Fu
l’altro che dopo un po’
riprese: “A Eleanor piaceva stare fuori, nelle notti
d’estate. Si
faceva portare una lanterna sul patio, e poi sedeva sulla sua
poltrona di vimini e ricamava o leggeva, e intanto ascoltava il canto
degli usignoli.” Di nuovo fece una pausa, a Rory parve di
vederlo
deglutire come quando si cerca di non piangere. Infine
proseguì:
“Quando sono arrivati, lei era sul patio che leggeva. Uno
sparo
pulito, in mezzo agli occhi. Penso che non si sia nemmeno accorta di
morire.”
Il
ragazzo ripensò alla fotografia della giovane donna
graziosa, con
l’abito chiaro e l’ombrellino di pizzo.
“Mi dispiace,”
mormorò.
L’altro
alzò le spalle. “Io ero al fronte,”
disse poi, “non ho potuto
fare niente, se non continuare a combattere.” Poi tacque, e
per un
po’ gli unici rumori che si udirono furono lo scalpiccio
degli
zoccoli e il tintinnare dei finimenti.
“Clarence?”
mormorò il ragazzo dopo un po’.
“Ma
è servito a poco,” concluse l’altro in
tono cupo. “Vedi dove
sono finito.”
“Clarence.”
Rory fece spostare il cavallo finché non furono a contatto
di
staffa, e poi protese una mano a toccare le sue, strette sulle
redini. “Per quello che può valere, io ti voglio
bene,” gli
disse.
L’altro
esitò qualche secondo, poi rispose:
“Anch’io te ne voglio,
Rory.”
L’alba
arrivò con una linea dorata sull’orizzonte, e con
pennellate di
rosa e viola sulle ondulazioni della pianura. Le rocce persero
l’aspetto di fantasmi neri e cominciarono a colorarsi di ocra
nel
cielo che andava impallidendo.
I
primi raggi del sole facevano brillare come gemme le rare gocce di
rugiada.
Finch
tirò le redini e si guardò intorno.
“Non siamo lontani,” disse
poi.
Il
ragazzo scrutò a sua volta la distesa brulla, che si
estendeva a
perdita d’occhio: niente faceva pensare che di lì
a poco avrebbero
trovato un fortino difeso da soldati blu.
“Qualche
miglio e ci siamo,” precisò l’altro.
“Come
fai a saperlo?”
“Ho
visto una mappa nell’ufficio di Lane, la catena che abbiamo
seguito
corre parallela alla pista. Se consideri che quando ci hanno
attaccati mancava più o meno un giorno di marcia a Coyote
Point,
direi che ormai dovremmo esserci.”
“Beh,
non sarà mai troppo presto,” commentò
il ragazzo, che con
l’aumentare della luce cominciava a sentirsi sempre
più
vulnerabile.
Ripresero
la marcia. L’aria era ancora fresca, ma già
risuonavano i richiami
dei primi uccelli diurni. Il sole basso sull’orizzonte
costringeva
a tenere il cappello calato sugli occhi.
Poteva
essere passata un’ora quando Finch d’improvviso
tirò le redini,
e prese a scrutare ansiosamente in lontananza. Halloran
guardò nella
stessa direzione, e si sentì gelare il sangue: qualcosa si
muoveva.
Si
voltò verso il compagno, e vide che aveva la sua stessa
espressione
tesa. “Apache?” mormorò.
“Andiamo,”
disse l’altro per tutta risposta.
Ripresero
la marcia. Già stanchi per il trasferimento notturno, i
cavalli
sbuffavano e inciampavano sulle pietre.
Halloran,
che ogni tanto si voltava indietro, vedeva le figure farsi sempre
più
grandi. “Clarence, cosa facciamo?” osò
chiedere dopo un po’.
“Possiamo
solo andare avanti, e pregare che Coyote Point non sia
lontano.”
Procedettero.
Gli Apache ormai li avevano individuati, e fin da quella distanza si
udivano flebili le roche grida di guerra con le quali si incitavano
l’un l’altro.
I
due cavalli erano coperti di sudore, ansimavano e sbuffavano
costretti a un’andatura che non sarebbero riusciti a
mantenere a
lungo.
All’orizzonte
comparve una sagoma scura, leggermente ammantata di foschia.
“Coyote
Point!” urlò il ragazzo. Il sibilo di una freccia
spense
immediatamente il suo entusiasmo: si girò e vide che la
banda di
guerrieri Apache si era avvicinata ulteriormente.
“Ormai
siamo a tiro,” disse Finch al suo fianco.
“Che
facciamo?”
Ci
fu qualche secondo di angoscioso silenzio, infine Clarence chiese:
“Rory, ti fidi di me?”
Il
ragazzo si voltò stupefatto verso di lui.
“Sì, certo,” gli
rispose di getto.
“Allora
devi fare esattamente quello che ti dico.”
L’altro
aggrottò le sopracciglia mentre una sorda sensazione di
angoscia lo
pervadeva. “Sarebbe a dire?”
“Mi
lasci la tua carabina e le munizioni, io mi metto su una roccia in
copertura e li tengo lontani. Tu intanto ti porti dietro il mio
cavallo e parti più veloce che puoi verso il forte. Appena
il tuo
cavallo non ce la fa più monti sul mio, vai a chiedere aiuto
e poi
torni qui, d’accordo?”
Rory
si sentì mancare la terra sotto i piedi. “Ma io
non voglio
lasciarti!” esclamò.
L’altro
gli rivolse uno sguardo duro e rispose: “Non abbiamo altra
scelta.
Gli Apache stanno arrivando, non ce la faremmo mai a raggiungere il
forte in queste condizioni, ci prenderebbero entrambi. Così
invece
hai una possibilità.”
“E
tu?”
“Io
li tengo a bada da qui.”
“Ma
Clarence...” Avrebbe voluto dirgli che non sarebbe andato da
nessuna parte senza di lui, che preferiva mille volte morire
piuttosto che abbandonarlo, che nessun guerriero Apache era in grado
di spaventarlo se aveva lui accanto, ma l’altro lo
incalzò: “Non
abbiamo molto tempo, Rory.”
Il
ragazzo sentì le lacrime pungergli gli occhi. “Non
voglio
lasciarti,” mormorò con voce rotta, ma
l’altro replicò: “Devi
andare, Rory. È la nostra unica
possibilità.”
E
Rory Halloran, soldato della cavalleria delle pianure, si
trovò a
galoppare, con le ultime energie del suo povero cavallo stanco e le
lacrime che gli annebbiavano la vista, verso la mole tozza del
fortino di Coyote Point.
§
Clarence
Finch-Hatton si sistemò nella nicchia sopraelevata che aveva
individuato nel fianco dell’altura, e controllò
che la copertura
dal basso fosse completa. La ferita gli doleva, ma era alla spalla
sinistra, non gli avrebbe dato fastidio per sparare. Con gesti
misurati appoggiò accanto a sé le due carabine
cariche. Sapeva che
non avrebbe avuto il tempo di ricaricarle. Si sporse a controllare il
numero di guerrieri in avvicinamento, quindi estrasse dal fodero
anche la Colt e la posò su una pietra poco lontano.
Inspirò
profondamente: provava per la prima volta dopo tanto tempo una
sensazione di pace interiore, di completezza. Era come se Dio gli
stesse offrendo la possibilità che dieci anni prima gli
aveva
negato.
“Non
ti prenderanno, Rory,” disse fra sé e
sé. Imbracciò la prima
delle carabine, si stese sulle pietre cercando di far sì che
il suo
corpo aderisse completamente a esse, strinse l’arma quasi con
tenerezza. Inquadrò nel mirino il primo degli Indiani e fece
fuoco.
L’uomo rotolò giù da cavallo.
Impassibile,
Finch azionò la leva di caricamento. Il bossolo rovente
schizzò via
e atterrò dietro le sue spalle con un tintinnio, il secondo
proiettile entrò nella camera di scoppio.
§
Il
cavallo letteralmente gemeva a ogni falcata, i fianchi erano coperti
di schiuma.
“Resisti!
Resisti!” implorava il ragazzo, con le lacrime che gli
scendevano
dagli occhi come linfa da una vite tagliata. “Ti prego,
resisti!”
La
pianura era diventata una macchia indistinta, il forte in
avvicinamento era un cubo scuro che da quella distanza sembrava quasi
un giocattolo per bambini.
“Resisti!”
urlò per l’ennesima volta, spronando
l’esausto animale.
Il
forte cominciò a delinearsi nei suoi contorni, comparvero
delle
torrette, spuntò una bandiera a stelle e strisce che
ondeggiava
pigra nella brezza del mattino. Individuò dei soldati.
“Aiutatemi!”
gridò. “Aiuto! Vi prego, aiuto!”
Agitò il braccio sopra la
testa.
Ormai
non sapeva più nemmeno cosa stava dicendo, implorava,
piangeva,
incitava il cavallo, si raccomandava a Dio e ai Santi, pregandoli di
risparmiare la vita di Clarence. Di prendersi la sua, se proprio
volevano, ma di lasciare in vita lui.
Riaprì
gli occhi circondato da una decina di soldati vocianti. Era sdraiato
per terra, non vedeva più il cavallo. Cercò di
alzarsi, ma qualcuno
lo spinse giù. Gli porsero una borraccia, lui si
divincolò e
l’acqua gli finì addosso.
“Aiutatemi!” ansimò. “Vi
prego,
dobbiamo andare subito! Il mio compagno è rimasto
indietro!”
I
militari si scambiarono occhiate perplesse.
“Indietro?” disse
qualcuno, “Allora è bell’e
morto.”
“No!”
L’urlo che uscì dalla gola del ragazzo fece
indietreggiare chi si
trovava più vicino. Halloran saltò in piedi.
“No!” ripeté
angosciato. “Non è morto! Dobbiamo andare ad
aiutarlo, vi dico!”
Arrivò
un graduato, che lo fissò perplesso e chiese: “Che
cosa succede,
soldato?”
“Il
mio compagno è rimasto indietro!”
ripeté per l’ennesima volta.
Si guardò intorno agitato, con la sensazione di essere
circondato da
immobili statue di cera. Perché nessuno voleva dargli
ascolto?
Perché non si precipitavano fuori a salvare Clarence?
“Aiutatemi!”
urlò, con la gola che ormai gli bruciava come fuoco.
L’altro
lo prese per le spalle e lo scrollò. “Adesso
calmati, soldato,”
gli ingiunse. “Cosa sta succedendo?”
“Gli
Apache ci stavano inseguendo. Il mio compagno è rimasto
indietro per
trattenerli, in modo da dare a me il tempo di arrivare qui. Ora
dobbiamo aiutarlo, vi prego!”
Al
concitato racconto, l’altro annuì grave.
Fissò il ragazzo negli
occhi, una strana lunga occhiata, poi ordinò: “Una
pattuglia con
me.”
“Fatemi
venire!” lo implorò Halloran.
Il
graduato gli diede un paio di pacche sulla schiena, come avrebbe
fatto per calmare un bambino in preda al panico. “Certo che
verrai,
giovanotto. Senza di te, come faremmo a trovarlo?”
Solo
quando fu in sella assieme agli altri rifletté su quello che
il
sottufficiale gli aveva detto: perché avevano bisogno di lui
per
trovare Clarence? Ovviamente il suo compagno si sarebbe presentato da
solo, alla vista delle uniformi blu.
§
I
guerrieri a terra erano più di dieci, degli altri non
c’era
traccia. Sulla zona regnava un silenzio assoluto.
Rory
si guardò intorno stranito, e quasi sussultò
quando il graduato gli
chiese: “Ebbene, dove si era nascosto il tuo
compagno?”
Era.
Con
mano tremante, il ragazzo indicò la rientranza fra le rocce.
“Beh,
andiamo a vedere,” disse l’altro.
Il
ragazzo smontò da cavallo. D’improvviso si accorse
di sentire male
in tutto il corpo, e di avere la testa pesante come dopo una sbronza.
Si mosse come in trance, incespicando. Sentì qualcuno
chiedere: “Che
fai, piangi?”
Si
imbatterono dapprima nel corpo di un guerriero raggomitolato, con due
buchi di pallottole nel petto, poi ne trovarono un altro colpito
all’addome.
Infine
c’era lui.
Clarence
Finch-Hatton stringeva ancora la pistola in pugno. Giaceva supino, il
volto aveva un’espressione serena, sembrava quasi che sulle
labbra
gli aleggiasse un vago sorriso. La ferita alla tempia quasi non si
notava: sembrava piuttosto che fosse addormentato, e immerso in un
bel sogno.
“Clarence,”
balbettò Rory con voce incolore.
“Andiamo,
prima che quelli tornino,” disse qualcuno.
Il
vento del mattino trasportava roche grida di guerra. Il ragazzo
sorrise fra sé e sé e mormorò:
“Forse ci rivedremo presto,
Clarence.”
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