Varulven - La moglie dell'alchimista

di TheLastMidnight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - La canzone del pazzo ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Bianco come la neve, rosso come il sangue ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - La canzone del pazzo ***


Capitolo I
 
La canzone del pazzo
 
 
 
The maiden she would to the cottage go
Linden trees quiver in the grove
So she took the path through the forest blue
She was carrying the fruit of love.
 
And when she reached the forest blue
Linden trees quiver in the grove
There she met with a gray wolf
She was carrying the fruit of love.
 
[Garmarna, Varulven]
 
 
 
       Tutte le cose più terribili a cui assistetti in vita mia, le vidi con la neve.
Nevicava la notte in cui venni al mondo, così mi raccontarono. Mia madre morì quella stessa notte.
Nevicava quella volta in cui mio padre, tagliando la legna nel bosco, per errore si piantò la scure in una gamba. E nevicava quando quindici dei migliori uomini di Dornennest vennero trovati massacrati alle soglie della Foresta.
Ironia della sorte, nevicava anche il giorno in cui mi sono sposata.
 
       Sono nata in un luogo dove l'inverno inizia alla metà di ottobre e giunge al termine solo a marzo inoltrato. La neve cominciava a cadere presto e copiosa, si depositava sul terreno mettendovi radici come le querce secolari della Foresta, si sedimentava e formava uno strato di ghiaccio che impiegava mesi a sciogliersi. Naturalmente molte piante, per non dire ogni tipo di coltivazione, morivano a causa del gelo, e alla fine di quei lunghi inverni c'era sempre qualcuno a Dornennest che non avrebbe visto l'estate successiva.
L'inverno portava con sé la neve, e la neve a sua volta portava la fame, la carestia, la malattia e la morte.
L'inverno era un generale spietato che non risparmiava nessuno, uomo, donna o bambino. E sin da piccoli ci era sempre stato insegnato a temerlo.
Ma d'altra parte, ai bambini di Dornennest veniva insegnato ad avere paura, di moltissime cose.
Della Foresta. Dei lupi. Degli spiriti maligni. Della Creatura. Persino della strega.
 
       La strega. Così la chiamavano tutti. Ma per me, lei era semplicemente nonna.
 
***
 
       Nevicava anche quella mattina; per l'esattezza, era la prima nevicata dell'anno, la nevicata che annunciava l'arrivo dell'inverno.
Me n'ero resa conto ancor prima di aprire gli occhi. La nonna sosteneva che io avessi sempre avuto una sensibilità particolare per i fenomeni naturali, sin da quand'ero bambina. Era un sesto senso, diceva lei, anche se era sempre molto vaga sul come questa mia presunta capacità funzionasse e cosa riguardasse con precisione. Io la pensavo diversamente da lei, non credevo di aver nessun potere nascosto o simili, ma lei era così convinta nelle sue affermazioni che con il tempo avevo smesso di contraddirla.
La mia stanza si trovava nella parte più alta della casa, appena sotto il tetto, in quella che mio padre doveva aver costruito con l'intento di farne una soffitta o un fienile. A otto anni, quando ero tornata a vivere in quella casa, riuscivo a starci in piedi; adesso, sebbene io non fossi alta, ero costretta a muovermi in essa strisciando e camminando carponi sul pavimento.
Non c'erano finestre a quell'altezza della casa, ma la mia sensazione – o sesto senso – sulla neve venne confermata quando vidi una lenta pioggerellina di fiocchi bianchi cadere sulle assi al centro della stanza. Alzai lo sguardo e vidi che la neve stava penetrando da un'apertura stretta e lunga fra le travi del soffitto e la paglia che lo ricopriva. Sospirai e scostai le coperte, strisciando dal giaciglio di paglia e stoffa fino ad arrivare all'apertura. Il tetto della casa era spiovente, e in quel punto era abbastanza alto da permettermi di restare in ginocchio. Provai a spostare la paglia in modo da chiudere l'apertura, ma i fili bagnati si strapparono fra le mie dita. Alla fine mi rassegnai a stracciare un abbondante lembo della tenda che separava la mia stanza da quella di mio padre e di Gudrun; l'arrotolai e lo conficcai nell'apertura fino a che non fu completamente tappata e la neve smise di penetrare dall'esterno.
Sulle assi la neve si era trasformata in una pozza d'acqua. Stavo per strappare un altro lembo della tenda, ma il pensiero di quante sberle mi avrebbe dato Gudrun quando si sarebbe accorta che avevo danneggiato qualcosa solo per asciugare dell'acqua, unito all'idea che, se avessi diminuito ancora la barriera che separava la soffitta dal primo piano allora non sarei più stata costretta solo a sentire i gemiti e i grugniti ma anche ad assistere all'intero spettacolo, mi fece desistere.
Sistemai meglio quella chiusura di fortuna che avevo applicato ed esplorai le parti circostanti a essa. Casa di mio padre non era molto diversa da quella di Dornennest: al villaggio, le uniche costruzioni in pietra erano la taverna, la chiesa e alcune dimore degli individui più importanti o ricchi – senza contare, naturalmente, il castello del Principe, ma quello era quasi un mondo a se stante –, mentre le altre erano tutte stamberghe tirate su con paglia e legno. Il nostro tetto aveva dato segni di cedimento già l'inverno precedente, ma dal momento che mio padre non se ne poteva occupare e il denaro per pagare qualcuno che lo facesse al posto suo non c'era, ci avevamo dovuto pensare io e Gudrun con i mezzi che avevamo a disposizione.
Il tutto si era risolto in una pantomima patetica in cui io mi ero arrampicata sul tetto grazie a una scala a pioli prestataci dalla nostra vicina di casa e ci ero rimasta tutto il pomeriggio; non avevo potuto fare molto se non rinforzare un po' le assi con altra paglia e chiodi e martello, e sostituirne un paio che erano marcite; il tutto con Gudrun a terra che mi urlava insulti al minimo errore e un capannello di persone che si era radunato là intorno sperando che io cadessi.
A Dornennest la morte non era una cosa nuova. Nessuno si stupiva se un vecchio tirava le cuoia, se un bambino moriva per la febbre o se la malattia o una pestilenza si portava via metà villaggio – come era accaduto l'anno precedente.
Ma la morte violenta di qualcuno aveva sempre il suo macabro fascino. E Liesel Holzhacker che si rompeva l'osso del collo cadendo dal tetto sarebbe stata una storiella divertente da raccontare per almeno tre settimane.
Comunque fosse, io e Gudrun non eravamo riuscite a riparare il tetto; ne avevamo solo ritardato il crollo. Avremmo dovuto trovare una soluzione al più presto, se volevamo evitare di venire sepolti vivi durante il sonno.
Faceva freddo.
Dedussi che la nevicata dovesse essere piuttosto abbondante, perché riuscivo a sentire i fiocchi che si accumulavano sulla paglia del tetto. Anche le assi del pavimento erano gelide. Da sempre, in qualsiasi stagione dell'anno, dormivo con addosso una camicia da notte; Gudrun me ne aveva cucito un paio, una di lana per l'autunno e l'inverno e una di panno per la primavera e l'estate; questo era stato quando avevo otto anni ed ero appena tornata a casa. Sebbene non fossi cresciuta tanto in altezza e nemmeno fossi ingrassata, con gli anni naturalmente si erano ristrette, e così io e Gudrun ci eravamo dedicate alla sublime arte dell'arrangiarci ancora una volta in modo da fissare il danno con il minor dispendio di soldi e mezzi possibile. Il risultato era che adesso la camicia da notte di lana aveva le maniche più lunghe ma in compenso mi lasciava scoperte le gambe dal ginocchio in giù.
Gattonai fino al materasso imbottito di paglia sistemato all'angolo della soffitta e mi ci sedetti; strofinai con forza le mani su e giù per le gambe in modo da all0ntanare per la pelle d'oca. La candela che avevo rubato la sera precedente era spenta, dritta accanto a due abbandonati fiammiferi consumati.
L'arrivo della prima neve non coincideva solo con la venuta dell'inverno, ma con il mio addio a quella stanza in soffitta per i mesi successivi. Dormire là dentro sarebbe stato impossibile, sarei di sicuro congelata, così Gudrun mi permetteva di sistemarmi un giaciglio di fronte al camino. Anche se il fuoco non era acceso, lì faceva comunque più caldo.
Camera mia era stata arrangiata al mio ritorno in modo da poter ospitare una bambina di otto anni, e non era mai cambiata sostanzialmente. In un agolo, dove il tetto era più basso, era sistemato il materasso imbottito di paglia e fieno, con due coperte e niente guanciale. Il resto dell'arredamento consisteva in un brocca d'acqua con un catino di legno e in un baule in cui erano sistemati i miei pochi vestiti. Non essendoci finestre l'unico spiraglio di luce proveniva dalla fessura fra le assi del pavimento e l'orlo della tenda che separava la soffitta dalla camera di mio padre e Gudrun, e per leggere ero obbligata a rubare di tanto in tanto una candela.
Gudrun diventava una belva quando qualcuno prendeva una candela senza il suo permesso. Una volta mi aveva scoperta e mi aveva tirato il mestolo con cui stava cucinando la minestra. Diceva che le candele non andavano sprecate per idiozie come leggere, come facevo io, che andavano conservate e centellinate per illuminare la cucina d'inverno, quando il sole calava presto, e che in ogni caso lei e mio padre non raccoglievano i soldi dagli alberi per comprarle. Non le davo torto, anzi. Ma spiegarle le mie ragioni sarebbe stato inutile: ci avevo già provato una volta, a dodici anni, e mi aveva tirato uno schiaffo così forte da farmi perdere l'equilibrio, gridandomi che non dovevo contraddirla. Adesso un ulteriore tentativo forse non mi avrebbe fruttato un ceffone, ma sapevo che Gudrun non avrebbe capito neanche se avesse voluto.
Gudrun era analfabeta, e se l'era sempre cavata nella vita anche senza saper leggere e scrivere. Era normale che lei la ritenesse una capacità inutile. E poi, se c'era una cosa che non tollerava di sentire erano discorsi anche solo lontanamente collegati allo studio e alla magia.
Così, l'unico modo che avevo per leggere i libri che la nonna mi dava era rubacchiare di tanto in tanto una candela. Gudrun le teneva in una cesta sulla mensola più alta sopra al camino, così che Kristin non potesse raggiungerla e rovesciarla. Non potevo prenderne una tutte le sere, altrimenti di sicuro sarei stata scoperta, ma una ogni tanto non destava i sospetti di nessuno.
La cosa buona del dormire giù in cucina, era che avrei potuto leggere fino a tardi senza preoccuparmi di risparmiare le candele.
Vidi che l'acqua nel catino era congelata. Ruppi il ghiaccio picchiandoci contro con le nocche, e mi lavai la faccia e le braccia con l'acqua gelida. Poi aprii il baule e iniziai a vestirmi. Sentivo dei rumori provenienti dal piano terra, alcune stoviglie che venivano spostate, il crepitio del fuoco e i versetti di Kristin.
Qualcosa, forse una pentola, cadde a terra con un gran fracasso. A esso seguì una sonora imprecazione da parte di Gudrun. Sospirai, e decisi che me la sarei presa più comoda nel vestirmi. Non avevo voglia di affrontare i malumori della mia matrigna troppo presto.
 
       Oltre alla soffitta, casa di mio padre aveva altri due piani. Il primo era il pianterreno, a cui si accedeva immediatamente dopo aver salito i tre scalini dell'ingresso e aver varcato la porta: era la stanza più grande della casa, la maggior parte della quale era occupata dal camino. Accanto a esso, Gudrun e io sistemavamo i ciocchi di legno per accendere il fuoco, e sopra al camino c'erano diverse mensole su cui erano posti i piatti, le pentole e gli arnesi da cucina con cui la mia matrigna si affaccendava per la gran parte della giornata. Sempre accanto a esso c'erano la zangola, una piccola tinozza di legno in cui lavavamo le stoviglie e diversi cesti di vimini, mentre il resto della stanza era occupato da un tavolo con due sgabelli e una pelliccia d'orso polverosa e mezza tarlata. Mio padre l'aveva comprata da uno dei commercianti che venivano a Dornennest ogni due settimane, su ordine di Gudrun, la quale voleva qualcosa su cui far giocare Kristin senza che si sporcasse sul pavimento. La mia matrigna aveva steso la pelle d'orso in un punto in cui non fosse troppo lontana dal camino, così che la bambina non patisse il freddo, ma neanche troppo vicina, per evitare che si bruciasse. Kristin sembrava stare molto bene, in quel perimetro di pelo. Sebbene stesse imparando a gattonare, raramente si spostava da lì – e se succedeva c'era sempre qualcuno che la riportava immediatamente indietro – e d'altra parte lì aveva tutti i suoi giocattoli. Non erano molti, solo una decina di cubetti di legno che avevo commissionato al falegname – e per i quali mi ero beccata un cretina spendacciona da parte di Gudrun – una bambolina che le avevo costruito con alcuni pezzi di stoffa che la moglie di mio padre aveva scartato dai suoi lavori di cucito, e una palla anch'essa di stoffa imbottita di paglia.
Sempre sulla pelle d'orso c'era la culla di Kristin – culla che peraltro stava diventando troppo piccola a mano a mano che la mia sorellastra cresceva. Completava il quadro l'unica finestra della casa, alta e ampia, protetta solo dal vetro e priva di tende, così che la luce del sole e della luna entrassero giorno e notte; accanto a essa, c'era una sedia che era di esclusiva proprietà di Gudrun, e sulla quale la mia matrigna si sedeva almeno due o tre ore al giorno per cucire e lavorare a maglia. Ai suoi piedi, infatti, c'era un cestino con all'interno gomitoli di lana, ferri da cucito e pezzi di stoffa. Di fronte alla sedia, c'era il regalo di nozze di mio padre per Gudrun: un arcolaio in legno di ciliegio.
In fondo alla cucina, protetta da sguardi indiscreti da un lungo telo fissato a dei ganci nel soffitto, c'era una tinozza di legno in cui versavamo l'acqua presa dal pozzo per fare il bagno.
Il secondo piano non era altro se non un terrazzo interno a cui si accedeva tramite una scala a pioli, ed era stato adibito a camera da letto. Non c'era nient'altro che un letto a due piazze che era stato prima dei miei genitori, e che ora mio padre condivideva con Gudrun.
Una seconda scala a pioli collegava la stanza matrimoniale alla soffitta dove io dormivo.
Non appena posi il piede sul pavimento della cucina, la punta del mio stivale destro venne colpita dalla pallina di Kristin. La bambina sgranò gli occhi, incantata dal movimento che la pallina aveva compiuto rotolando fino a me. La raccolsi e gliela rilanciai indietro in modo che finisse direttamente in mezzo alle sue gambe.
Kristin la prese e se la ficcò in bocca.
Mi avvicinai alla pelle d'orso. Kristin quel giorno indossava una camicina di lana con l'orlo fino ai polpacci e con le maniche troppo lunghe, tanto che le coprivano anche le mani. I piedini erano scalzi. Mi chinai accanto a lei e glieli tastai, scoprendoli gelati, allora recuperai un paio di calze dal cesto del cucito.
Gudrun era in piedi appoggiata contro al tavolo, mentre con un cucchiaio raschiava una poltiglia di latte e avena dal fondo di una scodella di legno.
- Che fai?- brontolò, a bocca piena. Teneva il capo chino, la fronte aggrottata e non mi guardava negli occhi mentre parlava; sì, era decisamente di cattivo umore.
- Ha i piedi gelati - spiegai, terminando di infilare le calze a Kristin. Mi rialzai.- Nevica.
- E secondo te non lo so?!- abbaiò Gudrun di rimando. Decisi che era meglio non aprire la bocca fino a che non fosse stata lei a interpellarmi. Fatto che, mi aspettavo, sarebbe avvenuto molto presto: con l'arrivo dell'inverno c'erano sempre parecchie cose da fare.
Gudrun gettò la scodella e il cucchiaio nell'acqua della tinozza, poi afferrò due ceste di vimini e le sbatté malamente sul tavolo. Mi avvicinai.
- Se stai aspettando la colazione, scordatela - borbottò.- Sono le sei e mezzo del mattino, se avessi voluto mangiare ti saresti dovuta alzare prima. Dai, muoviti!- mi tirò un cesto di vimini dritto nello stomaco; lo afferrai al volo prima che cadesse. Gudrun m'indicò anche un secchio rovesciato contro la gamba del tavolo.- C'è la vacca da mungere. E vedi di raccogliere anche le uova delle galline, oggi aspettano le consegne in quattro. Devi passare dalla vecchia Schreiner, dalla Schmied e da sua figlia e dalla moglie del giudice Richter. A proposito della moglie del giudice...prima di andare, passa dentro a prendere il burro. E chiedile se ne può comprare due pezzi, oggi, ci aiuterebbe.
- Va bene...
Gudrun mi squadrò da capo a piedi, con la sua solita espressione critica, ma non disse nulla. Sapevo cosa stava guardando, ma ormai ci ero abituata da anni.
- Guarda bene che oggi abbiamo parecchio da fare. Quindi se vuoi andare da...quella, sappi che prima finisci di fare il tuo lavoro, e poi puoi andare.
- Come al solito, no?- la risposta non dovette piacerle molto, ma evidentemente il malumore e la preoccupazione per l'arrivo dell'inverno erano così forti da sovrastare anche l'impulso di tirarmi qualcosa. Gudrun mi passò accanto come in genere passava accanto al vecchio Huey – rapida, sguardo fisso e falsamente indifferente – e andò a inginocchiarsi di fronte alla tinozza piena, cacciandoci dentro le braccia fino a sotto il gomito.
Kristin non aveva smesso di succhiare la pallina, ma aveva cambiato espressione. L'avevo vista seguire l'intera conversazione fra me e sua madre con attenzione, e adesso aveva puntato gli occhi castani al soffitto. Ebbi la sensazione che stesse ascoltando la neve cadere.
Mi riscossi.
- Dov'è papà?- chiesi, senza distogliere lo sguardo dalla bambina.
- Dove vuoi che sia?- grugnì Gudrun, e capii che non aveva voglia di affrontare l'argomento.
Mi sistemai la mantella sulle spalle, mi tirai il cappuccio sul capo e tolsi il chiavistello alla porta. Prima di uscire, lanciai un ultimo sguardo a Kristin: non aveva smesso di ascoltare la neve.
 
       Prima che nascessi – così mi avevano raccontato – il padre di mio padre aveva costruito un porticato dietro la casa. Si trattava di una stamberga di sette metri per cinque in cui era riuscito a incastrare un recinto e un piccolo pollaio.
Entrai e chiusi la porta in modo che non entrasse il freddo. Scrollai la mantella per liberarmi dei fiocchi che si erano posati sopra.
Aprii le cellette delle galline e raccolsi le uova; quella mattina nel cestino ce ne furono solo sette. Poi posai il cesto a terra, presi lo sgabello che usavo tutte le mattine ed entrai nel recinto.
Fino a circa un anno prima avevamo tre mucche. Poi c'era stata la pestilenza, e solo una si era salvata.
Spinsi il secchio sotto le mammelle dell'animale e mi sedetti sullo sgabello. Le feci qualche carezza sullo stomaco per tranquillizzarla, poi iniziai a mungerla. Era un momento tranquillo, quello; sebbene molte persone potessero provare disgusto, a me piaceva. Mi faceva sentire rilassata e mi dava modo di riflettere.
Ripensai alla pestilenza. Molti dissero che si trattava di vaiolo, altri di colera e altri ancora di peste bubbonica. Io però avevo letto i libri di medicina della nonna, e avevo saputo sin dall'inizio che non si trattava di nessuna delle tre. Comunque fosse, agli abitanti di Dornennest non era mai importanto granché di dare a ogni cosa il proprio nome corretto. Per loro quella era una pestilenza, e come tale fu chiamata.
Venne, come ogni male, anche quella con l'inverno.
Era circa metà ottobre, la neve aveva iniziato a cadere già da due settimane, quando i primi animali cominciarono a morire. I primi tempi nessuno capì la gravità della cosa. Che una vacca o un asino morissero era sempre una disgrazia per i proprietari, ma non era un avvenimento così poco comune da destare sospetti.
La consapevolezza di un'epidemia cominciò a farsi strada al terzo mulo trovato morto nel giro di una settimana. Lo schema era sempre lo stesso: la bestia iniziava ad avere una brutta cera, il giorno dopo smetteva di mangiare, tre o quattro giorni a seguire stava palesemente male, e in capo a una settimana la trovavano morta nella stalla. Qualcuno, come mio padre o il povero cacciatore Jäger, avanzò anche l'ipotesi che si trattasse di omicidi, che qualcuno desse agli animali dei bocconi avvelenati come si faceva con i randagi, ma anche il medico di Dornennest – per quanto alla prova dei fatti si fosse sempre rivelato un perfetto incapace – aveva presto smentito questa teoria.
Era chiaro che fosse una malattia a uccidere gli animali. Peccato che tutti fossero troppo occupati a piangere la perdita del loro bestiame, per pensare che questo morbo avrebbe potuto colpire anche gli esseri umani.
Se ne accorsero quando ormai era troppo tardi.
Le persone cominciarono a morire come avevano fatto gli animali. I sintomi erano sempre gli stessi: la vittima accusava stanchezza, perdita di appetito; poi sopraggiungeva la febbre, la difficoltà a respirare, e infine la vittima iniziava a dormire sempre di più e sempre più a lungo, fino a trascorrere giorni interi senza svegliarsi mai, nemmeno per mangiare o espletare dei bisogni fisiologici. Sopravviveva una, due, al massimo tre settimane, e poi moriva così, nel sonno, senza essersi mai risvegliata.
La cosa si trascinò per mesi. Ricordai com'era Dornennest a quel tempo: un villaggio fantasma, l'ombra di se stesso, un agglomerato di case ammassate sotto un sole grigio e gelido e immerso in un silenzio mortale, rotto solo dai singhiozzi di chi rimaneva e dai lamenti di chi se ne andava. Il medico e il borgomastro cercarono di fare il possibile: abluzioni, trasfusioni di sangue, quarantene.
La nonna mi disse subito che tutto ciò non sarebbe servito a nulla, e a dire la verità anche io avevo avuto la stessa impressione. In effetti fu così. Le cure del dottore non servirono a nulla se non, forse, a ritardare la morte e a prolungare le sofferenze.
Nessuno sapeva a cosa fosse dovuta la malattia. Padre Abel, durante le sue prediche della domenica, sosteneva si trattasse di una punizione divina. Non sapevamo nemmeno se la pestilenza avesse colpito solo Dornennest o se si fosse estesa a tutto il regno – non arrivò mai nessun tipo di aiuto, e vedendo qual era la situazione anche i mercanti smisero di venire al villaggio.
Ma in fondo, com'era tipico di chi era nato e cresciuto a Dornennest e lì sarebbe morto, a nessuno importava veramente delle cause e delle spiegazioni. Tutti erano concentrati sulla disgrazia presente che stava dimezzando la popolazione del nostro villaggio.
E poi, così com'era arrivata – piano piano, silenziosa, graduale –, la pestilenza se ne andò.
Il borgomastro disse che era merito delle quarantene. Non so se avesse ragione, ma il dato di fatto fu che le vittime diminuirono fino a scomparire. Aumentò un poco il numero di chi si salvava, fino a che nessuno accusò più i sintomi della malattia.
Sarebbe azzardato dire che Dornennest tornò a vivere...ma almeno, tornò a respirare.
Anche se ciò che si lasciò alle spalle la pestilenza fu tutt'altro che piacevole...
Trasalii non appena venni raggiunta dal rumore secco di colpi contro il legno. Elsie, la mucca, emise un muggito di disapprovazione quando inavvertitamente le strinsi troppo forte la mammella.
- Scusa, scusa...- bisbigliai, e carezzai il dorso a Elsie.
Papà e Gudrun la chiamavano semplicemente la vacca, ma io avevo preso l'abitudine di riferirmi a lei con il suo nome, come se fosse stata un essere umano. La mia matrigna era andata in bestia, quando l'aveva scoperto. Sosteneva che agli animali non dovesse essere dato un nome, perché un nome creava legami e non era bene che qualcuno – specialmente un bambino – creasse un legame con qualcosa che un giorno, presto o tardi, si sarebbe trovato nel piatto.
Era stata Kristin a chiamarla così. Elsie era stata la sua prima parola. Un giorno, quando aveva sette mesi, ero andata con lei nella stalla a prendere le uova, tenendola in braccio. Lei aveva visto la mucca, le aveva puntato contro un ditino e aveva esclamato:- Elsie!
Ed Elsie era stata. Non avevo idea del perché Kristin avesse etichettato la mucca con quel nome, né dove lo avesse sentito, dato che si trattava di un nome proprio di persona ma non c'era nessun'altra Elise a Dornennest se non, appunto, la vacca.
Da parte mia, fingevo puntualmente d'ignorare la forte assonanza fra “Elsie” e “Liesel”.
I colpi si ripeterono altre due o tre volte. Tolsi il secchio da sotto Elsie e aprii il cancelletto del recinto, uscendo fuori.
- Dimmi, Gudrun. Cosa c'è?
- Gudrun? Il fatto che tu mi confonda con la tua matrigna mi offende, sappilo!
Riconobbi la voce, e ridacchiai. Le gridai di entrare.
La porta della stalla si spalancò lasciando entrare un freddo spiffero di vento e alcuni fiocchi di neve. Helene scivolò dentro con la grazia di una silfide, richiuse il battente appoggiandovi contro la schiena.
Si concesse qualche secondo per riprendere fiato, poi si staccò dalla porta e scrollò la neve dal lungo mantello marrone chiaro. Helene indossava un vestito con la gonna a balze bianca e marrone lunga fino alle caviglie, il corsetto marroncino e le maniche bianche a sbuffo. Sulle spalle portava un mantello con il cappuccio, e ai piedi aveva due magnifici stivali neri nuovi di zecca. Anche i guanti erano bellissimi, due manopole di lana, nere e che avevano l'aria di essere soffici e nuove di zecca tanto quanto gli stivali.
Helene si accorse che le stavo guardando e sorrise.
- Belli, vero? Sono un regalo di Albert.
- Ti stanno bene - mi complimentai, poi presi il tridente e infilzai un grosso agglomerato di fieno. Lo sollevai e lo posi nella mangiatoia di Elsie.- Come mai qui? E come mai così mattiniera? Lo so che di solito ronfi fino alle dieci passate - la canzonai.
- Mi ha svegliato la neve. Uno spiffero dalla finestra. Avevo detto a Fred di aggiustarla...
- Vedrai che adesso che è arrivato l'inverno lo farà.
- Lo spero, o morirermo congelati. Ho portato un po' di colazione, ti va di dividerla con me?- si avvicinò ed estrasse dalla tasca del grembiule del pane nero e un pezzetto di formaggio; li spezzò a metà entrambi e me ne porse una porzione.
L'accettai e la ringraziai. Il brontolio del mio stomaco stava diventando quasi imbarazzante. Non era la prima volta che restavo senza colazione, ed Helene lo sapeva. Gudrun imponeva delle regole ferree su tutto, in particolar modo sui pasti. Sosteneva che colazione, pranzo e cena fossero dei momenti sacri che tutta la famiglia doveva condividere insieme. Era sempre stata molto religiosa, ma dopo che lei e Kristin erano scampate alla pestilenza, questo sentimento si era esacerbato. Ormai pregava a qualsiasi ora del giorno, la domenica non si limitava più solo ad andare a messa ma si confessava ogni volta, e al momento dei pasti pretendeva la massima puntualità. Se tardavi anche solo di un minuto, beh, allora potevi scordarti di mangiare, loro avevano già ringraziato Nostro Signore e lei non ammetteva intrusioni.
In cuor mio sospettavo che fosse anche una tecnica per fare in modo che mio padre tornasse a casa in tempo almeno per i pasti e lei si dovesse risparmiare la vergogna di andarlo a recuperare.
Sgranocchiai un po' di pane e formaggio, quindi recuperai il sacchetto del mangime gettato in un angolo e cominciai a distribuirlo alle galline. Prima della pestilenza ne avevamo dieci, ne erano rimaste quattro.
- Come mai qui?- ripetei la domanda di poco prima.
Helene alzò le spalle con noncuranza, come a dire che non c'era un motivo preciso. Non ci credetti. La conoscevo letteralmente da una vita; sapevo che quando voleva comunicare qualcosa d'importante all'inizio ostentava sempre indifferenza, quasi ritenesse le sue informazioni di poco conto.
Stetti al gioco, e le domandai come stesse suo fratello.
- Oh, Fred? Benone. Un po' nervoso, ma sai com'è, quando arriva l'inverno e con quel che è successo l'anno scorso...- Helene si umettò le labbra carnose e screpolate. Tutte le ragazze di Dornennest, me compresa, le avevano sempre invidiato quella labbra. A dire la verità, Helene era la più invidiata e ammirata del villaggio per la sua bellezza.
Era stata eletta Regina di Maggio per cinque anni consecutivi, e alle feste del villaggio era sempre quella che più di tutte riceveva inviti a ballare. Helene aveva una bellezza contadina, molto lontana da quella esile e malaticcia delle nobildonne, ma per questo più apprezzata in un luogo come Dornennest, dove fra le qualità di una buona moglie vi era l'essere energica e robusta in modo da aiutare il marito in casa e nei lavori più faticosi, da sostenere numerose gravidanze e da partorire dei neonati sani e forti. Era alta, molto più alta di me e delle altre ragazze e donne del villaggio, con la vita sottile ma con i fianchi rotondi e un seno prosperoso, gambe lunghe e lisce, che Helene ungeva con olio e burro quando ne avanzava un poco in casa; i capelli erano biondi e le arrivavano fino alle reni, e anche a essi dedicava una gran cura, spazzolandoli a lungo ogni sera e intrecciandoli in occasione di ogni festa o la domenica per andare a messa; aveva gli occhi neri e il naso dritto, le guance magre ma non incavate, e il pallore della sua pelle non rimandava affatto alla sensazione di malattia, bensì conferiva delicatezza ai suoi tratti.
- Pensi che ricapiterà?- mi domandò all'improvviso; capii che si stava riferendo alla pestilenza. Stavolta fui io ad alzare le spalle, e risposi che non lo sapevo. Helene era molto suggestionabile e bastava poco perché si preoccupasse, quindi negli anni avevo imparato a mostrarmi spavalda ai suoi occhi anche quando in realtà morivo dalla paura.
Non sapevo se la pestilenza sarebbe tornata, e di certo non la volevo indietro. Pensai che avrei potuto chiedere alla nonna. Lei certe cose le sapeva...come o perché, mi era ancora oscuro, ma lei sapeva.
Ma non sarei potuta andare da lei se prima non avessi terminato le faccende a cui mi aveva assegnato Gudrun. Decisi che se volevo vedere la nonna, quel giorno, mi sarei dovuta dare una mossa.
 
       Helene mi aspettò sui gradini di casa mentre io rientravo di corsa e prendevo il burro che Gudrun aveva preparato per la moglie del giudice, poi ci incamminammo insieme verso la piazza di Dornennest per portare a termine le consegne. Il campanile della chiesa batté le sette del mattino: era ancora presto, prima delle otto non mi avrebbe ricevuto nessuno, così ce la prendemmo comoda.
Helene non aveva bisogno di lavorare, a differenza mia. Suo fratello, Fred Kürschner, era un conciatore di pelli come lo era stato il padre; guadagnava abbastanza bene, ma se anche in due non avessero vissuto più che dignitosamente, il fidanzato di Helene avrebbe fatto qualsiasi cosa purché la sua promessa sposa non si sporcasse le mani, tanto più che aveva i mezzi per evitare che ciò accadesse.
Dornennest era silenziosa. Gli unici rumori che si sentivano erano il frusciare delle foglie mosse dal vento e lo stridore del violino scordato del vecchio Huey.
Ci imbattemmo in lui mentre ci avvicinavamo alla piazza del villaggio. Il vecchio Huey era seduto sui gradini di quella che era stata la casa degli Arbeiter, ma che dopo la morte dell'intera famiglia – padre, madre e sette figli – a causa della pestilenza era ridotta a una catapecchia disabitata. Il borgomastro si era premurato d'informare i mercanti che provenivano dalla città che c'era ancora un'abitazione rimasta senza proprietari, a Dornennest, ma ancora dopo mesi la stamberga degli Arbeiter era ancora disabitata.
- Albert dice che se non ci andrà ad abitare nessuno, la abbatteranno - mi aveva informata una volta Helene mentre ci passavamo accanto; io non avevo dubbi che sarebbe andata così: nessuno voleva venire a stare a Dornennest.
Per il momento, però, era la casa del vecchio Huey. Anche se lui non è che ci abitasse in senso proprio: si limitava a sostare sui gradini o, quando pioveva o faceva freddo, a dormire sotto al porticato. Era in quei momenti che mi dispiaceva che la casa degli Arbeiter venisse abitata da altri o, più probabilmente, abbattuta: almeno quel povero diavolo aveva un posto dove ripararsi.
La neve continuava a cadere, ma i fiocchi erano piccoli e misti ad acqua, e non tirava vento. Il vecchio Huey teneva il suo violino scordato incastrato fra la barba bianca e sporca e la scapola, e pizzicava le uniche due corde dello strumento. Canticchiava una nenia stonata.
Le gambe erano distese lungo i gradini, e coperte di neve.
Ci avvicinammo a lui, tenendoci però a debita distanza. Il vecchio Huey non era mai stato violento con noi ragazze, ma di tanto in tanto capitava che fracassasse una bottiglia sulla testa di qualcuno o che mordesse chi lo infastidiva. Ci rivolse un sorriso con soli due denti giallognoli, l'espressione assente e istupidita come sempre.
- Buongiorno, Huey...- salutò timidamente Helene; la cosa mi sorprese. In genere lei aveva paura del vecchio Huey, anche se non le aveva fatto niente. Rimasi a guardarla impietrita mentre estraeva dalla tasca del grembiule un altro pezzetto di pane e glielo porgeva con la punta delle dita. Lui l'afferrò con le sue mani lerce e dalle unghie annerite, poi prese a divorarlo come un lupo famelico che avesse appena catturato un cervo dopo settimane di caccia. Vidi che Helene tratteneva una smorfia, poi prese dal grembiule due monete e le lanciò a terra ai piedi del vecchio Huey.- Per comprarti qualcosa di caldo...- aggiunse timidamente, a mo' di giustificazione, ma lui ignorò il denaro. Non lo vide neanche. Si limitò a finire il tozzo di pane, poi ci guardò entrambe e scoppiò a riderci in faccia.
La risata fu più un grido, a dire il vero. Il vecchio Huey spalancò la bocca sdentata e cominciò a ridere a squarciagola. Helene trasalì e balzò all'indietro. Scivolò sulla neve e dovetti tenerla per un braccio per non che cadesse.
Il vecchio Huey andò avanti a ridere per trenta secondi buoni, poi prese a pestare i piedi a terra mentre batteva le mani a ritmo.
- Mantello rosso, finirai dritto in un fosso. Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso!- cominciò a cantilenare; prese il violino e ricominciò a pizzicare le due corde, con l'effetto che alla sua voce sdentata si aggiunse anche lo stridore dello strumento.- Mantello rosso, finirai dritto in un fosso. Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso! Mantello rosso, finirai dritto in un fosso. Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso...
Helene mi tirò a sua volta per un braccio.
- Andiamo!- m'incitò. Se anche avessi voluto oppormi non avrei potuto, perché Helene mi tirò così forte da farmi schiodare gli stivali dal terreno e costringermi a seguirla a passo di marcia in modo da lasciarci alle spalle il vecchio Huey.
Tuttavia, anche quando ci fummo allontanate riuscimmo ancora per un po' a udire quella cantilena alle nostre spalle.
- Mantello rosso, finirai dritto in un fosso...Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso...
Mi aggiustai la mantella sulle spalle.
- Perché gli hai dato il tozzo di pane e i soldi?- non era una novità in sé e per sé, ma lo era che a farlo fosse Helene. Il vecchio Huey viveva di carità, si sapeva: dormiva dove capitava, mangiava gli avanzi che la moglie dell'oste teneva in serbo per lui a fine giornata, poteva ubriacarsi a proprio piacimento quando i ragazzi del villaggio volevano prendersi gioco di lui e le pie donne di chiesa, come la moglie del giudice Richter, la sarta, la perpetua o come lo era stata la madre di Albert, puntualmente cucivano per lui abiti pesanti per l'inverno.
Helene non era mai stata fra queste pie donne. Non che fosse cattiva – anzi, nel limitato numero di persone che conoscevo, lei era forse quella con più buon cuore, un buon cuore che spesso le avevo invidiato per riuscire a vedere il bello e la purezza anche dove non ce n'erano –, ma il vecchio Huey le faceva paura.
Spesso mi capitava di pensare a lui come la vecchia quercia secolare che sorvegliava l'entrata alla Foresta: come lei, il vecchio Huey c'era sempre stato.
Nessuno sapeva come si chiamasse. Huey era il nome che gli era stato dato da Padre Abel, il nostro storico prete, e a cui lui rispondeva. Ed era sempre stato così: senza nome, senza casa, senza soldi, senza famiglia, sempre vecchio e sempre pazzo. Giravano diverse leggende su di lui: c'era chi diceva che avesse perso l'intera famiglia in un rogo e che fosse impazzito dal dolore, e chi invece sosteneva che fosse un ex soldato disertore dell'esercito dell'Imperatore, andato fuori di testa a causa degli orrori della guerra.
Non era uno di quei matti che però sono fondamentalmente innocui, comunque; il vecchio Huey non infastidiva mai nessuno per primo, ma se eri tu a infastidire lui, beh, allora potevi star certo che non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa. E non gli serviva essere ubriaco – anzi, quando beveva diventava docile come un cagnolino, tanto che gente come Fred Kürschner o Stefan Jäger spesso si prendeva gioco di lui facendolo ballare sui tavoli della taverna o lanciandogli un osso nella roggia perché si tuffasse a riprenderlo – già da sobrio e pur sdentato dava di quei morsi e tirava di quei pugni che mettevano al tappeto anche i giovani più robusti del villaggio.
Ma con le donne e i bambini no, non alzava un dito. Neanche se i monelli che giocavano nella piazza gli facevano le linguacce o gli tiravano i sassi. Al vecchio Huey piaceva stare con i bambini, giocare con loro e farli divertire.
Anni prima, quando io ed Helene avevamo entrambe quattro anni e stavamo giocando fuori da casa dei suoi genitori, il vecchio Huey si era avvicinato e aveva iniziato a farci delle boccacce per farci ridere. Io avevo riso a crepapelle, Helene invece era corsa a rifugiarsi fra le braccia di sua madre, che non aveva atteso un attimo per scacciare il mendicante a colpi di bastone.
A Helene il vecchio Huey faceva paura. Diceva di non sapere perché, la spaventava il fatto che non ci fosse con la testa e che non si sapesse nulla di lui. D'altra parte, non c'era da stupirsi: Helene, a differenza mia, aveva sempre avuto paura dell'ignoto, di ciò che non riusciva a toccare con mano.
- Albert mi ha consigliato di farlo - rispose, torturando un lembo del mantello fra le mani.- Ha detto che sarebbe opportuno che io cominciassi a...sai...mostrarmi gentile con le persone...assumere un comportamento appropriato alla mia posizione, ha detto così.
- Non ho capito. Che intende con comportamento appropriato?- la guardai.- Si riferisce alla tua posizione di sua fidanzata?
- Sì, all'incirca...credo che intendesse, mostrarmi pia e caritatevole, farmi vedere ben vestita a messa, fare delle visite di cortesia alla signora Richter e alla signora Dietrich. Sai...il genere di cose che faceva sua madre - aggiunse.- Te la ricordi, vero, la signora Herrmann?
- Certo che me la ricordo, ma...- di colpo, tutto mi fu chiaro. Collegai immediatamente tutte le informazioni, e il mio volto s'illuminò senza che potessi controllare l'espressione facciale.
Risi e diedi un'affettuosa gomitata a Helene.
- Ah, è così allora!- esclamai; Helene provò a schernirsi, ma io la presi sottobraccio e mi feci più vicina a lei.
Abbassammo entrambe la voce, continuando a camminare vicine.
- Era questo che eri venuta a dirmi, stamattina?- ridacchiai.
- Non proprio questo, ma comunque c'entra...
- Allora, è confermato?- le diedi un buffetto sul braccio.- Te l'ha chiesto?
- Non è che me l'ha proprio chiesto...- Helene era imbarazzata ma le leggevo nello sguardo che moriva dalla voglia di raccontarmi tutto.- Ha chiesto il permesso prima a suo padre e poi a mio fratello, e loro hanno detto di sì. E' successo domenica scorsa, dopo la messa. Sono tornata a casa e Fred mi ha comunicato la notizia, e mi ha chiesto se anche io ero d'accordo. Naturalmente ho risposto di sì.
- E poi? Che è successo?
- Beh, niente di che...il borgomastro ha invitato me e Fred a pranzo a casa sua e loro due e Albert hanno discusso dei preparativi del matrimonio. Voglio dire, non proprio dei preparativi, degli...aspetti pratici, ecco. Quando fare la cerimonia, quante persone invitare, e dove andremo ad abitare io e Albert dopo sposati...di certo non possiamo stare a casa mia, e il borgomastro vorrebbe che ci trasferissimo da lui...
- Quando vi sposate?
- Il marzo prossimo. Appena sarà finito l'inverno. E a questo proposito...- Helene rallentò il passo e mi guardò di sottecchi; era arrossita e si stava mordicchiando il labbro inferiore.- Ti andrebbe di accompagnarmi?
- Dove?
- All'altare. Voglio dire...non nel senso di accompagnarmi, ma...ecco, mi chiedevo se volessi farmi da damigella.
M'irrigidii e il sorriso mi si spense sulle labbra. Non riuscii a controllarmi. Sperai che Helene non se ne accorgesse, ma mi bastò guardarla per capire che se n'era accorta eccome. Raddrizzai le spalle.
- Albert lo sa?- gracchiai.
Helene sembrò sorpresa dalla domanda ancor più del mio comportamento. Mi fece un'infinita tenerezza. Quando dicevo che Helene aveva un buon cuore, intendevo dire anche che era profondamente ingenua. Tendeva a vedere il buono ovunque, anche dove non ce n'era, e questo spesso le impediva di cogliere il male.
O il pregiudizio.
Forse, mi dicevo spesso, era a causa del buon cuore di Helene che io e lei eravamo amiche. Lei era una delle poche persone che non cambiavano lato della strada quando m'incontravano, o che non dava troppo peso al fatto che fossi la nipote della strega. O che trovasse sinceramente carino il mio mantello rosso.
- No - rispose, perplessa.- Perché?
- Allora dovresti prima parlarne con lui - sentenziai, asciutta, sperando che il discorso si chiudesse lì, almeno per quel giorno. Helene forse non ci sarebbe arrivata mai da sola, ma ero sicura che una volta che Albert le avesse detto che non gradiva la mia presenza – soprattutto come damigella di sua moglie – al matrimonio, lei avrebbe messo da parte me per compiacere il fidanzato.
Eravamo amiche, ma conoscevo Helene: io venivo sempre dopo suo fratello Fred e dopo Albert, com'era giusto che fosse. Mi avrebbe messa da parte; ci sarei stata male, ma sapevo che era meglio per Helene, per la sua nuova posizione.
- Non capisco...- Helene ci era visibilmente rimasta male.
- Ho solo detto che prima di chiedermi una cosa così importante dovresti prima parlarne con Albert – tergiversai.- E' il tuo futuro marito, o no?
- Sì, ma lui mi ha detto che potevo invitare chi volevo...e che potevo scegliere io chi mi avrebbe fatto da damigella...
- Probabilmente perché pensava che l'avresti chiesto a qualcun altro...- mi morsi la lingua non appena mi lasciai scappare quelle parole, ma ormai era fatta. Mi maledissi mentalmente.
- E a chi?
- Non lo so...ad esempio, alla secondogenita degli Schmied, oppure alla figlia del giudice Richter...- buttai lì sul momento dei nomi scegliendoli fra la lista di ragazze nubili che sarebbero risultate gradite ad Albert e a suo padre. Anche se forse Hilda Richter non era la scelta migliore come damigella della sposa: il borgomastro aveva sperato fino all'ultimo che suo figlio chiedesse a lei di sposarlo, ed era rimasto un po' deluso quando Albert aveva proposto il matrimonio a Helene, che era sì la più bella ragazza di Dornennest ma era anche la figlia e sorella di un semplice conciatore; ritrovarsi la potenziale ex fidanzata del tuo futuro marito, grondante di bile, il giorno delle tue nozze, era forse la peggior maledizione che una sposa potesse ricevere.
- Ma Albert lo sa che noi e Hilda non siamo amiche, e nemmeno con Adalicia ci frequentiamo molto...
- Non credo che pensasse a me in ogni caso.
- Ma perché ti comporti così?
- Senti, non ti ho detto di no...ho solo detto che prima dovresti chiedere ad Albert se anche lui è d'accordo...!- sbuffai. Non mi andava di approfondire il discorso, non alle sette e mezza del mattino, non nel centro del villaggio e non con la neve. Comunque andasse ero sicura che Albert non sarebbe stato d'accordo, e se anche lui lo fosse stato per amore di Helene ci avrebbe pensato il borgomastro a opporsi con tutte le sue forze.
Volevo essere la damigella di Helene al suo matrimonio. Lo volevo con tutta me stessa. Ma non volevo rischiare di rovinare la reputazione della mia migliore amica solo per soddisfare il mio ego o solo per il gusto di sputare metaforicamente in faccia al borgomastro, a Padre Leonhard, al giudice a tutta Dornennest.
- Va bene...- mormorò Helene, chiaramente ferita dal mio mancato consenso entusiasta.
Mi dispiacque infinitamente per lei, ma pensai che era meglio così. Sin dal giorno – circa sei mesi prima – in cui Helene si era precipitata sotto casa mia saltellando per la felicità, con una foga tale che per lo spavento Gudrun aveva rovesciato a terra un intero bacile d'acqua, dicendomi che Albert Edel – sì, sì, proprio lui, il figlio del borgomastro!, come se a Dornennest ci fossero stati chissà quanti Albert Edel – l'aveva invitata a fare una passeggiata insieme dopo la messa della domenica, avevo avuto ben chiaro come sarebbe andata a finire.
Quel pensiero mi fece sentire ancora più in colpa. Sapevo che il tempo che mi restava da trascorrere con Helene era limitato, e che conoscendo come Albert e suo padre la pensassero su di me questo tempo sarebbe scaduto ancor prima di marzo. Non volevo che la mia amica fosse arrabbiata con me.
Pensai disperatamente a un modo per smorzare la tensione. Mi venne in aiuto il fatto che fossimo ormai giunte in prossimità della bottega del fornaio, e che il profumo che proveniva da essa fosse sempre in grado di stuzzicare lo stomaco di entrambe.
Inspirai a fondo e la scossi per un braccio.
- Mamma mia, lo senti?- esclamai.- Te lo ricordi?
Helene chiuse gli occhi e inspirò a sua volta.
- Focaccia con olio e rosmarino!- la riconobbe.- Certo che me la ricordo! Ce la comprava sempre la mamma quando uscivamo dalla chiesa la domenica...
- Quanto mi manca...
- Già, anche a me - non sapevo se si riferisse a sua madre o alla focaccia, ma non mi lasciai comunque sfuggire l'occasione.- Oggi Gudrun mi ha chiesto di vendere una doppia porzione di burro alla moglie del giudice...se accetta frego la mia matrigna e con i soldi ci compriamo due focacce...
- Oh no, non devi spendere i soldi della tua famiglia per me...!- provò a rifiutare, ma non avevo intenzione di permetterglielo. La presi a braccetto e mi feci più vicina a lei.
- Stai scherzando, spero? Gudrun si prende sempre tutto il denaro anche se la metà del lavoro lo faccio io...direi che per una volta una focaccia io e te ce la meritiamo. E poi, bisogna festeggiare la nuova arrivata...
- Chi?- Helene mi guardò confusa.- Gudrun aspetta un altro bambino, forse?
- No. Sto parlando di una nuova arrivata a Dornennest, la signora Helene Edel - forzai una risata, ma per fortuna quella di Helene che seguì suonò sincera.
Il campanile della chiesa batté le otto del mattino. Un brusio sommesso e qualche chiacchiericcio, unito al rumore delle persiane che si spalancavano, ci annunciò che il villaggio era ufficialmente sveglio.
La neve continuava a cadere.
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti, e grazie per aver letto fino a qui. Questa non è la prima storia che pubblico su EFP, ma è la prima che pubblico con un back-up account. Come avete potuto leggere dall'intro, si tratta di una rivisitazione che unisce due fiabe, Cappuccetto Rosso e La bella e la bestia – in particolare per quanto riguarda quest'ultima, cercherò di attenermi il più possibile alla versione originale e alla trasposizione cinematografica di Jean Cocteau del 1946, facendo solo qualche accenno al classico Disney del 1991.
Mi rendo conto che questo capitolo è un po' lento e forse anche un po' noioso, ma vi assicuro che tutto ciò che ho scritto qui – la pestilenza, la famiglia della protagonista, il villaggio – servirà in futuro. Nel prossimo capitolo ci sarà una presentazione un po' più puntuale di Dornennest, della protagonista e degli effetti che la pestilenza ha avuto sul villaggio, e si comincerà a entrare più nel vivo della situazione.
Nel frattempo, sarei molto felice se voleste lasciarmi un commento – so che si dovrebbe scrivere per piacere personale, ed è ciò che faccio: ma le critiche costruttive sono sempre ben accette e aiutano a migliorarsi, inoltre mi piacerebbe sapere se la storia vi può interessare e se volete che la continui.
Ciao a tutti e al prossimo capitolo.
Un bacio,
TheLastMidnight

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Bianco come la neve, rosso come il sangue ***


Capitolo II
 
Bianco come la neve, rosso come il sangue
 
 
 
Eyes black, big big paws
And it's poison, and it's blood
Big fire, big burn
Into the ashes of no return.
 
We took you right
From your mother's womb
Our temple, your tomb
Give me your hand
 
Not pawned
The poison is blood
 
[Fever Ray, The Wolf]
 
 
 
       Ero nata a Dornennest, lì avevo vissuto per diciannove anni e vivevo con la quieta e rassegnata certezza che lì sarei morta, andando a riempire un altro spazio fra le lapidi del cimitero dietro la nostra chiesa, litigandomi la terra e i vermi con gli altri cadaveri.
E in diciannove anni non avevo mai visto il villaggio muoversi per davvero.
Dornennest sorgeva in mezzo alla Foresta. Così come la pestilenza, anche la Foresta aveva quel nome perché a nessuno era mai interessato davvero scoprire come si chiamasse in realtà. Per noi tutti quella era semplicemente un mare infinito di verde che si estendeva a perdita d'occhio.
Quando io e Helene eravamo bambine – ero tornata a casa da circa un anno o poco più – ci eravamo unite a Fred, a Stefan Jäger e a suo fratello minore, insieme a un'altra manciata di ragazzini del villaggio per giocare a nascondino: non ricordo esattamente come andò, ma in qualche modo io, Helene e Adalicia Schmied eravamo riuscite a eludere la sorveglianza di Padre Abel e della sua perpetua e a intrufolarci in chiesa per nasconderci fra le panche; a quanto pare la nostra era stata un'idea coi fiocchi, perché dopo un'ora ancora a nessuno era venuto in mente di venirci a cercare lì, tanto che ci stavamo annoiando. A quel punto, io avevo aperto la porticina sull'altare che conduceva al campanile, e avevamo deciso di salire in cima; ci era sembrata una bella avventura, sul momento: ma Adalicia e la sua coscienza si erano bloccate al terzo gradino della scala a chiocciola, ed Helene mi aveva seguita fino a metà percorso prima che la stanchezza e la paura della punizione che sarebbe arrivata da Padre Abel e dai suoi genitori la inducessero a chiedermi di tornare indietro.
Io però volevo vedere cosa c'era sulla cima del campanile, e non l'avevo ascoltata.
Giunta in cima, ciò che vidi fu la Foresta.
Aggrappata allo stipite di una delle pareti del campanile, in piedi sulla balaustra di legno, con la fronte imperlata di sudore e il vento che mi scompigliava i capelli e faceva ondeggiare l'orlo della mia mantella rossa, dimenticai in un istante di essere sospesa a chissà quanti metri da terra, che un singolo passo falso avrebbe potuto precipitare di sotto, e rimasi a guardare per chissà quanto tempo quell'immensa distesa di alberi.
Era estate. Il cielo era limpido e non c'erano nuvole a offuscare l'orizzonte, eppure non riuscii a vedere oltre quella distesa di verde: le chiome degli alberi si estendevano per chilometri interi, senza arrestarsi, senza diradarsi mai. Non riuscii nemmeno a scorgere altre radure come quella in cui era stata edificata Dornennest, tantomeno altri villaggi, e neppure vidi la strada che i mercanti percorrevano ogni due settimane.
La Foresta era immensa, e se non avessi saputo dai racconti della nonna e da quelli dei commercianti forestieri che c'era altro, oltre a essa, nei miei nove anni avrei pensato che fosse infinita, che il mondo intero si riducesse alla sola Dornennest e che la Foresta fosse il suo cielo.
Un solo elemento estraneo spezzava l'armonia delle fronde verdeggianti: in lontananza, che svettavano sopra le chiome degli alberi, c'erano le torri del castello del Principe.
 
       Dornennest non si era mai mossa, mai in diciannove anni. Il borgomastro coglieva ogni occasione buona – solitamente le feste del villaggio – per tenere un discorso solenne in cui, in una maniera o nell'altra, riusciva sempre a infilare dentro la storia di come, anni e anni orsono – tutte le volte mi domandavo se il borgomastro Adolph Edel conoscesse effettivamente il significato di quell'avverbio –, il suo trisavolo giunse guidato dal destino con una carovana di altri pellegrini in quella radura isolata e protetta dai pericoli e dalle creature maligne della Foresta, un Paradiso terreno, un luogo di pace e prosperità dove aveva piantato radici. Ed era stato così che il primo Edel della storia del villaggio aveva guidato i suoi compagni nella costruzione di quell'agglomerato di catapecchie, gli aveva dato come nome “Dornennest” – significava nido di spine, ma questo il padre di Albert si premurava sempre di ometterlo – ed era diventato il primo borgomastro della storia.
Era sempre lo stesso discorso, e tanto per rendere le cose ancora più patetiche il padre di Albert non cambiava mai le parole. O l'intonazione. O la gestualità. Quando eravamo piccole, quello era uno dei giochi preferiti di Helene e me: quando avevamo il sentore che il borgomastro stesse per attaccare il suo solito monologo, sgattaiolavamo via dalla festa e andavamo a nasconderci sotto al palco rialzato dove Adolph Edel saliva ogni volta per pronunciare i suoi discorsi. Lì nessuno badava a noi, tutti impegnati com'erano ad ascoltare le parole del borgomastro. Allora, a turno, prendevamo in giro la scenetta del borgomastro copiando i suoi movimenti, muovendo le labbra all'unisono mentre facevamo il verso delle parole che pronunciava, e poi tappandoci la bocca a vicenda per non che l'intero villaggio sentisse i nostri risolini.
Fino a sei mesi prima io ed Helene ridevamo ancora, ogni volta che ricordavamo quegli episodi; da quando era diventata la fidanzata di Albert, però, non voleva più sentirne parlare. Ogni volta che portavo a galla il discorso per scherzarci su, lei subito cambiava argomento o rispondeva solo con un sorriso forzato e distante. Credevo che si vergognasse di aver preso in giro il suo futuro suocero, o che temesse che questo fatto venisse alle orecchie di Albert e lui se la prendesse a male.
Io trovavo abbastanza idiota che qualcuno si facesse del sangue cattivo per uno scherzo innocuo perpetrato da due bambine più di dieci anni prima, ma lei evidentemente no.
Io ed Helene decidemmo di costeggiare la roggia per arrivare alla piazza del villaggio. Sembrava che alla mia amica fosse tornato il buon umore, perché aveva cominciato a chiacchierare del regalo che le aveva fatto la signora Richter quando il borgomastro aveva informato suo marito delle nozze: una collana con un pendaglio dorato a forma di conchiglia.
- Hilda era verde d'invidia.
- Ah! C'era anche lei?- domandai.
- Già. Lei e sua madre sono venute a casa mia ieri sera a congratularsi - la punta di soddisfazione che avevo intravisto nello sguardo di Helene quando mi aveva raccontato dello scoppio di bile di Hilda Richter scomparve così com'era arrivata.- Pensi che se la sia presa?
- Hilda? Perché avrebbe dovuto prendersela per un regalo fatto a te?- conoscendo il soggetto di cui stavamo parlando questo era più che possibile, ma volevo che Helene esternasse i suoi pensieri.
- Non saprei, è che...sai, non molto tempo prima che Albert si dichiarasse a me girava quella voce...
- Se anche fosse, cosa te ne importa che se la sia presa? Che si roda il fegato.
- E' che vorrei mantenere dei buoni rapporti con tutti, se possibile - Helene mi guardò.- Anche con Hilda. Sebbene non siamo mai state amiche, suo padre è una persona importante. E la moglie di un borgomastro deve essere cordiale con tutti, no?
- Tanto una volta a casa avrà pestato i piedi come al suo solito, e per la fine della settimana il giudice gliene avrà regalate sette uguali alla tua - scrollai le spalle.- Quella si attacca alla collana perché sa che di quelle ne potrà avere a centinaia, mentre di Albert Edel ce n'è uno solo e non se l'è preso lei.
- A volte sai essere veramente perfida.
Stavamo per lasciare la zona più a sud del villaggio. La radura in cui sorgeva Dornennest era piana, non c'erano salite o irregolarità del terreno molto evidenti, tranne un pendio di mezzo metro in cui era stato scavato per farne una pozza d'acqua artificiale. La roggia era scura, verdastra, con l'acqua stagnante mossa appena dalla ruota del mulino. Il mugnaio e sua moglie erano stati fra le prime vittime della pestilenza, e adesso erano i loro tre figli maschi a mandare avanti il mulino. Era una struttura fatta di mattoni giallognoli e un po' scrostati. Un grosso gatto dal pelo grigio sonnecchiava sullo scalino d'ingresso.
Martin, il figlio di mezzo del defunto mugnaio, stava uscendo in quel momento dalla porta con due grossi sacchi di farina fra le braccia. Ci salutò con un grugnito e un cenno del capo, poi distolse subito lo sguardo. Martin Meyer era stato uno dei corteggiatori più accaniti di Helene; lo sapevano tutti anche se non si era mai dichiarato. Martin era sempre stato un ragazzo timido, e il suo fare la corte alla mia amica si riduceva a sguardi furtivi in chiesa o a un cenno del capo con le guance in fiamme.
Era stato uno dei tanti che si era ritrovato con il cuore infranto quando Helene era diventata la fidanzata ufficiale di Albert Edel.
Alcune donne stavano cominciando a riunirsi intorno alla roggia, portando ceste di panni sporchi. Quello era l'unico luogo di Dornennest dove si potessero lavare gli indumenti senza fare su e giù dal pozzo fino a casa per riempire le tinozze d'acqua. Io e Gudrun ci andavamo una volta a settimana, e sapevo con certezza che quello era il momento in cui tutte sciorinavano tutto ciò che sapevano sull'uno o sull'altro. Il pettegolezzo scorreva veloce come la corrente con cui era alimentata la roggia, quindi non mi stupii che, in mezzo alle lamentele per la neve, più di una donna si voltasse verso Helene e ridacchiasse.
La notizia del suo matrimonio doveva già essersi diffusa. Fra le donne, non a caso, scorsi anche Mathild e Truda Blicze, due sorelle che lavoravano come domestiche in casa del borgomastro Edel.
- Perché sarei perfida?- domandai, e intanto esaminavo la roggia; essa era stata scavata artificialmente, ma veniva alimentata da un corso d'acqua che, per quanto ne sapevamo tutti, era già esistente prima della fondazione di Dornennest: un fiumiciattolo che dalla roggia risaliva fino a costeggiare il mulino sulla sua parete ovest, dove era posta la ruota, e poi proseguiva fino a entrare nella Foresta e a sparirci dentro. La corrente proveniva seguendo un corso da nord a sud, segno che la principale fonte di alimentazione del fiume dovesse essere alla sua fine, oltre la Foresta. Nessuno, però, aveva mai provato a risalire le sue sponde per vedere da dove cominciasse.
L'acqua della roggia era ancora allo stato liquido, ma presto la neve l'avrebbe trasformata in una lastra di ghiaccio: se fosse stato abbastanza solido, pensai, avremmo potuto andare a pattinare.
- Per via di Hilda - Helene sembrava a disagio.- Anche lei era innamorata di Albert, così dicono. Deve aver sofferto molto quando lui non l'ha ricambiata.
- A parte che credo tu sia l'unica donna sulla faccia della terra a provare compassione per quella che voleva rubarle il fidanzato...- feci una smorfia.- Conosci Hilda tanto quanto me. Non so tu, ma io non penso fosse realmente interessata ad Albert. Lo voleva solo perché è il futuro borgomastro e lei è la figlia del giudice. Per lei l'amore nasce in base alla classe sociale. I ricchi si sposano fra ricchi e i poveri fra poveri, ecco come funziona nella sua testa.
- Non credo comunque che tu debba dire certe cose ad alta voce...- Helene abbassò lo sguardo e si strinse nel proprio mantello.- E poi non è del tutto sbagliato il modo di ragionare di Hilda...
Su quel punto dovetti ammettere che non aveva torto.
Dornennest non si era mai mossa nemmeno su quel fattore: una tacita regola voleva che le famiglie benestanti si imparentassero solo con quelle del loro rango. Per decenni i Richter avevano combinato matrimoni solo con gli Edel, o alla peggio con gli Händler. Effettivamente, era raro che a Dornennest ci fossero famiglie che, per matrimonio o consanguineità – o entrambi –, non fossero imparentate con altre.
I ricchi non si mescolavano con i poveri, e ai poveri andava bene così. La politica matrimoniale era la medesima anche per chi non possedeva molto denaro, con la differenza che i genitori di questa o quell'altra ragazza cercavano di elevare la propria condizione sociale facendo sposare la propria figlia con un giovane appena più ricco di altri, senza però sperare di maritarla all'interno di una delle famiglie più potenti: Helene mi aveva raccontato che lo stesso Fred Kürschner aveva seriamente preso in considerazione Martin Meyer come cognato, prima che Albert Edel – rompendo anni e anni di tradizione – proponesse il fidanzamento a sua sorella, ed era cosa risaputa che Adalicia Schmied sarebe convolata a nozze con Tihalt Hermann, dopo che sua sorella maggiore Serhilda ne aveva sposato il padre.
Il matrimonio di Helene avrebbe rappresentato una novità ben più succosa di un normale pettegolezzo: era la prima volta da tempo immemore che un ricco sposava una popolana.
Ci allontanammo dalla roggia, lasciando la zona più a sud di Dornennest; quella era considerata l'area più povera del villaggio, dove sorgevano, oltre al mulino e alla casa del mugnaio, anche casa mia, la catapecchia che era stata degli Arbeiter, la dimora del boia e di sua moglie e altre casupole di legno e paglia, quasi tutte dotate di una stalla o di un pollaio. Salendo per l'unico sentiero che Dornennest possedeva – non c'erano strade, solo spazi fra le case e le botteghe larghi abbastanza da farci passare un carro trainato da un asino o da un mulo – si giungeva alla piazza del villaggio. Passammo accanto a Fritzi, appoggiata a una delle travi di legno che sostenevano il porticato della sua casa.
La catapecchia di Fritzi era l'ultima abitazione che sanciva – più per senso comune che per un confine vero e proprio – la fine dell'area sud del villaggio. Nel momento in cui ci avvicinammo a lei, mi accorsi che Helene si era irrigidita e aveva rallentato il passo, quasi volesse fermarsi o tornare indietro. Malauguratamente se ne accorse anche Fritzi.
Sogghignò, scoprendo due file di denti dritti e bianchissimi. Avevo sentito spesso Serhilda Schmied Hermann – che aveva una dentatura che sembrava quella di una vecchia, dal momento che i denti che non erano mancanti erano cariati o ingialliti – che era quasi un peccato mortale che il sorriso più bello del villaggio appartenesse a una prostituta.
Fritzi Baumgart era come il vecchio Huey: come quest'ultimo era sempre stato solo, vecchio e pazzo, lei era sempre stata una prostituta. Non era poi molto matura – di certo non superava i trentacinque anni –, ma aveva cominciato a esercitare quella professione da giovanissima. Quando io, Helene, Adalicia e tutte le altre ragazze della nostra età eravamo bambine, Fritzi già riceveva gli uomini di Dornennest in casa sua. A differenza del vecchio Huey, però, tutti conoscevano la sua storia: fino a diciassette anni Fritzi era stata la figlia del bottaio di Dornennest, e nonostante sua madre fosse morta di parto insieme al suo fratellino minore, il denaro e la buona reputazione del padre le avevano procurato un'infanzia e una giovinezza abbastanza felice e agiata, e non le mancava altro se non un buon partito come consorte. Poi però una notte la bottega e la casa di mastro Baumgart erano state distrutte da un incendio – ancora oggi correva voce che non si fosse trattato di un ciocco di legno sfuggito dal camino, ma di una vendetta architettata da Edmund Jäger, corteggiatore respinto da Fritzi. Il bottaio e sua figlia si erano salvati, ma avevano perso tutto; mastro Baumgart era noto per essere un uomo orgoglioso: Padre Abel cercò di aiutare lui e Fritzi con della minestra calda la sera e le elemosina che raccoglieva in chiesa la domenica, ma quegli atti di carità erano come delle ferite di pugnale nella carne del bottaio.
Così, una mattina, lo trovarono impiccato a un ramo della quercia secolare che dava accesso alla Foresta.
Da quel giorno, Padre Abel non aveva più potuto – o voluto – accogliere sotto la sua ala protettiva la figlia di un suicida, né nessun giovane del villaggio, nemmeno Edmund Jäger, aveva voluto sposare Fritzi per il medesimo motivo, né darle una casa o un lavoro. Così, era diventata una prostituta.
Era l'unica donna di Dornennest a fare quel mestiere. Non sapevo se ne fosse contenta o no, ma se non lo era, di certo non lo dava a vedere. Fritzi non era bella quanto Helene, ma era affascinante. La nonna, fra i tanti libri che possedeva, ne aveva anche uno in cui venivano raccontati i miti e le leggende dell'antica Grecia: da bambina avevo imparato a leggere proprio su quel volume, ma oltre alle parole stampate che si rincorrevano una dietro l'altra, ad affascinarmi erano le immagini. Acquerelli che ritraevano statue raffiguranti dei ed eroi dipingevano sulle pagine ingiallite storie di ninfe trasformatesi in alberi per sfuggire alla lussuria di un dio, di giovani divinità rapite dalla propria madre in nome dell'amore di un signore dei morti, di ragazze punite per la loro bellezza e magicamente salvate da un misterioso principe che si coricava accanto a loro nel buio della notte. Fritzi non aveva né un profilo greco né le forme procaci e morbide delle giovani dee raffigurate nelle immagini, ma a me aveva sempre ricordato Psiche o Persefone, o la fatale Elena di Troia, anche se non saprei dire un motivo preciso.
Fritzi aveva un volto magro e un leggermente allungato, pallido come si confaceva a tutte le donne – sì, anche a quelle che vendevano se stesse –, ma con uno spruzzo rosato sulle guance, le labbra sottili e rosee, gli occhi marroni forse un po' troppo grandi ma che non sfiguravano insieme ai suoi zigomi alti, le sopracciglia scure e curate e la curva del naso che ricordava un'onda morbida. Il viso era incorniciato da una cascata di riccioli castani che Fritzi portava sempre sciolti sulle spalle, e mai coperti da un foulard o da una cuffietta, nemmeno nei mesi più freddi. Era alta, con un fisico sinuoso che ricordava quello di una sirena: vita stretta e fianchi rotondi, seno piccolo ma sodo che Fritzi tendeva sempre a mettere in mostra con abiti scollati, caviglie sottili. Credevo che a renderla bella fosse anche il suo modo di comportarsi: Fritzi non camminava; lei ancheggiava a testa alta, sprezzante dei pregiudizi e con un sorriso superiore e beffardo sulla bocca. Non era bella quanto Helene, certo, ma nessuna donna di Dornennest era carismatica e tentatrice come lei: chiunque si voltava quando lei passeggiava per le strade del villaggio, chiunque, anche il borgomastro e Padre Leonhard, che pure di fronte a tutti condannavano Fritzi e il suo lavoro.
Era una moda molto seguita, quella di Dornennest di etichettare qualcuno come buono o cattivo solo basandosi sul lavoro che faceva, su come si vestiva o su chi aveva sposato. Mastro Scharfrichter, il boia del villaggio, nonostante si limitasse a eseguire una sentenza emanata dal giudice, dal parroco e dal borgomastro – e il fatto che si ubriacasse ogni sera prima di un'esecuzione mi aveva sempre indotto a pensare che non lo facesse volentieri –, era trattato dal villaggio alla stregua di un assassino che aveva scelto di uccidere di propria spontanea volontà; il suo matrimonio con Zelma Pohl non aveva fatto altro che aumentare il sentimento di ostilità da parte del resto degli abitanti, e ora mastro Scharfrichter a malapena poteva mettere piede in chiesa la domenica.
Fritzi aveva avuto la stessa sorte quando era diventata una meretrice: Padre Abel l'aveva esclusa dalla comunità dopo il suicidio di mastro Baumgart, e con l'arrivo di Padre Leonhard era caduta dalla padella alla brace. Ma a lei non interessava nulla. Era palese: conoscevo Fritzi molto meglio di chiunque potesse sospettare, e mai l'avevo sentita lamentarsi per il suo destino sfortunato.
- Congratulazioni per il tuo matrimonio, madama Edel...!- ridacchiò, rivolta a Helene; la mia amica arrossì violentemente, e piantò lo sguardo sulla poltiglia di fango e neve ai nostri piedi. Fritzi sollevò un angolo della bocca in una strana smorfia, quasi un sorrisetto; poi si rivolse a me.
- Salutami la strega, Liesel.
Le risposi con un cenno del capo. Fritzi aveva i boccoli castani sciolti come al suo solito, nei quali si erano impigliati diversi fiocchi di neve. Ai piedi indossava degli stivali di cuoio lisi che le arrivavano fino alla caviglia, lasciando scoperta la parte del polpaccio dal collo delle scarpe fino all'orlo della gonna, appena sotto il ginocchio. Vidi che indossava un abito stretto color blu scuro, che doveva essere molto scollato come la maggior parte dei suoi vestiti, ma quel giorno Fritzi per ripararsi dal freddo era stretta in uno scialle di lana marroncino. Mi accorsi che non portava né calze né guanti.
Ci scambiammo un rapido sguardo d'intesa, poi Fritzi salì gli scalini di casa sua e andò ad appollaiarsi su una sedia a dondolo posta sotto il suo porticato, le gambe accavallate e in attesa dei primi clienti. Provai pena per lei: vestita in quel modo, senza calze né guanti, doveva congelare.
Helene mi tirò per la mantella.
- Come faceva lei a saperlo?- sibilò, ancora rossa in volto.- Del matrimonio.
Alzai le spalle.
- A Dornennest non puoi neanche starnutire che lo sa già mezzo villaggio. L'avrà sentito dire...- cercai di modulare il mio tono di voce in modo che suonasse il più naturale e sincera possibile; in realtà speravo che quella che avevo raccontato a Helene fosse la versione veritiera della storia, e non ci fosse altro sotto. Ad esempio, che Fritzi avesse appreso del matrimonio fra Helene ed Albert da Albert stesso. Magari in via del tutto confidenziale durante una...sessione privata.
Mi sentii malissimo quando realizzai che poteva essere un'ipotesi del tutto plausibile.
Sapevo che per Helene una simile eventualità era inconcepibile. Per lei era impensabile che Albert, o il borgomastro, o Fred potessero pagare Fritzi per trascorrere un'ora o due con lei fra le lenzuola del suo letto.
Nelle rare occasioni in cui si parlava di lei, Helene non sembrava neanche avere ben chiaro che cosa facesse Fritzi e che nel suo lavoro la presenza di uomini paganti era indispensabile. Ero arrivata a pensare che la mia amica credesse, alla peggio, che la clientela della ex signorina Baumgart consistesse solo nei mercanti che giungevano a Dornennest, e che questi mercanti fossero tutti senza eccezione celibi e alla ricerca al massimo di qualche coccola o tenerezza.
Il suo commento in merito era sempre e solo un povera Fritzi!, riferendosi al come fosse arrivata a esercitare quella professione. Helene non concepiva che una donna potesse guadagnarsi da vivere vendendo il suo corpo, e che fra gli uomini disposti a pagare ci fossero anche mariti o fidanzati di altre.
Sperai con tutto il cuore che il punto di vista corretto fosse il suo e non il mio. Mi era capitato spesso di vedere Fred Kürschner sgattaiolare furtivo, di sera, in casa di Fritzi Baumgart; e avevo visto mio padre fare la stessa cosa, un anno prima, quando Gudrun era incinta di Kristin, e sospettavo che di tanto in tanto lo facesse ancora. Molti uomini di Dornennest lo facevano; ma sperai che Albert Edel non fosse fra quelli: se Helene l'avesse scoperto, ne sarebbe uscita distrutta.
La mia risposta doveva averla in parte tranquillizzata, ma era ancora corrucciata: cercai di distrarla cominciando a chiacchierare del suo abito da sposa, chiedendole se avesse già deciso se indossare quello che era stato di sua madre o farsene cucire uno dalla sarta del villaggio. Helene mi rispose che avrebbe voluto un vestito nuovo, ma che Albert e suo padre insistevano perché indossasse quello appartenuto alla compianta signora Edel.
Parlare di quell'argomento dovette rasserenarla, e chiacchierò fino a che non giungemmo alla piazza del villaggio.
 
       Quando dicevo che Dornennest non si era mai mossa, intendevo che le giornate si erano sempre ripetute l'una uguale all'altra per settimane, mesi e anni. La piazza del villaggio era l'emblema di questo movimento immobile.
Superando la casa di Fritzi Baumgart si accedeva a un passaggio sterrato due volte più largo della stradicciola precedente, costeggiato da altre abitazioni con le relative stalle e pollai, e alcune di esse avevano addirittura un cortiletto, sebbene non più grande del mio mantello e di quello di Helene stesi l'uno accanto all'altro. Salendo, l'erba e la terra lasciavano il posto all'acciottolato, e si accedeva al cuore di Dornennest, la sua piazza.
Quel giorno, l'intera pavimentazione era già stata ricoperta dalla neve. Faticammo non poco a farci strada fra le impronte lasciate dagli stivali degli abitanti e dalle ruote dei carri, mentre i fiocchi di ghiaccio accumulati sul terreno ci arrivavano fino alle caviglie.
- Comunque, mi piacerebbe un velo con lo strascico...- stava dicendo Helene un attimo prima che rischiassi di scivolare rovinosamente a causa del ghiaccio. Mi mantenni in equilibrio quasi per grazia ricevuta.
- Sono sicura che Albert avrà abbastanza denaro da potertelo regalare...- borbottai, mentre controllavo che le uova nel cestino non avessero riportato danni.
- Già. Sempre se non indosserò il vestito di sua madre...
- Perché? Non ti piace?
- Mi piace!- Helene rispose con una fretta tale che sembrava quasi le avessi domandato se avesse mai ucciso qualcuno, e volesse smentire al più presto.- E' che...preferirei indossare l'abito da sposa della mia mamma...
Gli occhi di Helene si velarono di tristezza.
I suoi genitori, Gerhard e Rudelle Kürschner, erano morti l'anno precedente a causa della pestilenza. Sebbene Rudelle fosse stata la balia a cui mio padre mi aveva affidato dopo essere rimasto vedovo, e sebbene fossi cresciuta attaccata alle sue gonne fino ai tre anni, non mi dispiacque per lei: l'avevo sempre considerata una donna cattiva e venale, che trattava tutti i bambini che le erano affidati – compresi i suoi figli – come bestioline pulciose buone solo a riempire le tasche del suo grembiule. Ma mi dispiacque per Gerhard, che era un pezzo di pane; e mi dispiacque che Helene e suo fratello Fred fossero rimasti da soli.
Fortunatamente, Fred Kürschner aveva preso in mano il mestiere da conciatore che prima svolgeva con suo padre, e lui ed Helene sembravano cavarsela abbastanza bene. Ma la mia amica soffriva ancora tantissimo per la perdita dei genitori, e il suo desiderio di indossare l'abito da sposa di Rudelle mi pareva più che legittimo.
Le sorrisi.
- Dillo ad Albert - suggerii.- Chiedigli di far rimettere a nuovo l'abito di tua madre, e di chiedere alla sarta di cucirti un velo con lo strascico...
- Ci penserò. Ma non vorrei che si offendesse...- Helene si mordicchiò il labbro inferiore.- Il vestito della signora Edel è molto più bello di...
Mi trattenni a stento dall'alzare gli occhi al cielo.
- Se non vuoi indossare l'abito da sposa di Petronilla Edel, nessuno ti punterà un pugnale alla gola per obbligarti - tagliai corto; non mi piaceva la piega che stava prendendo quel discorso: se Helene voleva mettersi l'abito di sua madre nel giorno più bello della sua vita, non dovevano essere le stupide convenzioni della famiglia del borgomastro a impedirglielo.
Le strinsi l'avambraccio.
- Hai da fare? Ti va di accompagnarmi a fare le consegne? Così poi ci compriamo quella focaccia all'olio e rosmarino che ti avevo promesso...
- Volentieri.
C'incamminammo insieme verso la casa della vedova Schreiner. Lei era una delle poche che potessero permettersi una dimora che desse sulla piazza, anziché al limitare della Foresta. Si riteneva, e non a torto, che costruire un'abitazione alle soglie della boscaglia fosse rischioso, perché non solo si sarebbe stati i primi a venire coinvolti in un incendio, nell'attacco di un branco di lupi o di qualche strano essere, ma anche perché qualora questa eventualità si fosse verificata, ci sarebbe voluto più tempo affinché qualcuno corresse in tuo aiuto. Purtroppo, erano in molti ad avere questa sfortuna: in parte perché Dornennest era circondata dalla Foresta, e in parte perché le case intorno alla piazza del villaggio erano già occupate dalle storiche famiglie che ci abitavano sin dalla notte dei tempi.
La piazza in sé non era grande: al centro vi era solo un pozzo in cui tutte le massaie e le loro figlie – e figliastre – attingevano più volte al giorno per procurarsi l'acqua con cui cucinare o riempire la tinozza per fare il bagno. Quella della roggia era troppo sudicia, e nessuno si sognava neanche di mettere piede oltre il muro di alberi per andarla a pescare nel fiume. Il pozzo andava più che bene...bisognava solo sperare che qualche bambino non ci finisse dentro giocando, o di non alzarci tutti la mattina e scoprire che dentro c'era il cadavere di un morto ammazzato, o che qualcuno aveva deciso di avvelenare l'acqua per farci fuori tutti.
L'area circostante al pozzo era totalmente sgombra, e l'acciottolato veniva lasciato libero per il passaggio delle bestie da soma, dei carri e delle donne che trasportavano cesti carichi di frutta, legna o pane. Nel pomeriggio i bambini di Dornennest – quelli che erano rimasti dopo la pestilenza – giocavano a pallone o a ruba bandiera, e dalle otto del mattino fino a mezzogiorno il piazzale era occupato dalle bancarelle dei commercianti. Una volta ogni due settimane, i mercanti provenienti dalla città ingombravano tutto lo spazio con i loro carri e le loro merci, ma durante gli altri giorni erano solo i bottegai di Dornennest a esporre i loro prodotti. Non tutti lo facevano, comunque; solo il verduraio e il fruttivendolo, e di tanto in tanto il fornaio, sfidavano la neve, coprendo la loro merce con un telo soprelevato al banco, retto da quattro bastoni piantati nella terra. Nella bella stagione anche mastro Blumenhändler e sua moglie esponevano i fiori e le piante del loro negozio, ma dopo quel che era accaduto l'anno precendente nessuno di noi sapeva quando e se avrebbe rivisto quei petali colorati.
Gli edifici che sorgevano intorno alla piazza erano per lo più negozi e botteghe: il porticato dove il fabbro batteva il ferro per tutto il giorno accanto a quello del vecchio mastro Alt, il falegname a cui avevo commissionato i cubetti con cui far giocare Kristin; la bottega del fioraio, quella della sarta, quella del conciatore di pelli che apparteneva al fratello di Helene, il negozio del macellaio e quello del fornaio, il fruttivendolo e il verduraio uno contro la parete dell'altro, l'orefice...tutti i proprietari di una bottega vivevano sopra la bottega stessa, spesso accedendo al piano superiore tramite una scala a pioli posta all'esterno.
Un po' nascosta, diversi metri più indietro rispetto ai negozi e munita di una scala in pietra, c'era la scuola, mentre a nord del pozzo sorgeva la taverna. Per il resto, solo tre famiglie potevano permettersi di possedere una dimora che si affacciasse sulla piazza, in pietra, comoda e sicura, senza avere per forza una bottega annessa: il giudice Richter, sua moglie e sua figlia, il medico e la sua consorte, e al centro, a sud del pozzo e proprio dirimpetto alla taverna, sorgeva la villa del borgomastro Edel.
Mi faceva specie pensare che presto Helene sarebbe andata ad abitare lì, e che un giorno l'avrei vista affacciarsi dal terrazzo in compagnia del futuro borgomastro. Provai a immaginarmela con addosso uno degli abiti della fu Petronilla Edel: quello blu scuro, con le maniche a sbuffo e i nastri neri annodati sull'orlo dell'ampia gonna.
Anche nella mia fantasia, faceva un effetto molto strano, un misto di contentezza e di ansia.
La casa della vedova Schreiner era in una dei viottoli laterali a cui la piazza dava accesso; la porta si trovava appena svoltato l'angolo, sulla destra. La Schreiner era una delle clienti più affezionate di Gudrun: mi comprò due uova e un fazzoletto con su ricamata un'ape. Prima di chiudere la porta non si dimenticò né di congratularsi con Helene per il suo matrimonio né di lanciare un'occhiata in tralice al mio mantello rosso.
- Lo sanno proprio tutti, eh?- pensai che se avesse continuato ad arrossire così, la mia amica sarebbe diventata un pollo arrosto entro la fine della mattinata.
Risposi con un grugnito incomprensibile.
Proseguimmo verso la seconda tappa, la villa dei Richter.
Quello era diventato il mio lavoro da quando avevo dieci anni. Non ero l'unica ragazza nubile di Dornennest, e non ero neanche l'unica ragazza nubile che lavorava. Ma ero l'unica che facesse un lavoro che di solito veniva relegato ai garzoni di bottega.
Facevo le consegne.
Gudrun aveva trovato quel lavoro per me quando si era stufata di dover pagare cinque monete al giorno al figlio maggiore degli Arbeiter, dal momento che lei aveva una casa da mandare avanti e non poteva starsene in giro tutto il giorno.
Mia madre era morta dandomi alla luce. Ero stata il frutto della sua prima gravidanza, e lei era stata la prima moglie di mio padre, la prima ad avergli dato la sua prima figlia. Spesso pensavo che se papà si fosse trovato nella medesima situazione con Kristin non avrebbe saputo ugualmente da che parte cominciare, ma che se ci fossi stata io, com'ero adesso, a diciannove anni e in grado di badare a me stessa, forse avrebbe preso un'altra decisione.
Non che io fossi chissà che tipo materno: non avevo mai avuto delle serie esperienze di cura con i bambini – la maggior parte dei ragazzini di Dornennest o mi schifava o mi prendeva in giro o mi stava alla larga a causa delle storie raccontate dai loro genitori, e nessuna madre mi avrebbe mai affidato il suo piccolo, sempre per via delle dicerie –, e non provavo neanche tanta tenerezza nell'osservare quegli atti che legano una madre a un figlio. Quando la mia sorellastra era appena nata, e Gudrun l'allattava al seno, io tendevo sempre a uscire di casa o a dedicarmi a qualcos'altro pur di non guardare; quella scena mi creava disagio, a tratti anche disgusto; immaginavo di trovarmi nella stessa situazione, e ogni volta rabbrividivo perché sapevo che, se mai mi fossi trovata ad allattare, avrei avuto la sensazione di trovarmi fra le braccia e attaccato al capezzolo un animaletto, un piccolo pipistrello che succhiava latte misto a sangue. A tutt'oggi prendevo in braccio Kristin, giocavo con lei con i cubetti e la pallina, la portavo con me nella stalla a trovare Elsie...ma in generale ci spendevo il minor tempo possibile, e in ogni caso era la mia matrigna che si occupava di lei, che le dava da mangiare, la lavava, si assicurava che non s'infilasse nel camino o che non prendesse i pidocchi.
Ma forse, pensavo, forse se mio padre avesse avuto un'altra figlia, prima di me, una figlia già grande che lo aiutasse a occuparsi della casa e di una neonata, allora non mi avrebbe mandata via.
Invece, così non era stato. Non ho mai creduto né volevo credere tutt'ora che per lui fosse stata una decisione semplice. In realtà, negli anni ero arrivata a capire che lui non aveva mai avuto una vera possibilità di scelta.
Mio padre aveva ventun anni quando era rimasto vedovo. Il suo matrimonio con mia madre aveva gettato scalpore a Dornennest, e non poteva né contare sull'appoggio dei suoi genitori – morti quando lui era solo un ragazzo – né sull'assistenza delle pie donne del villaggio o del prete, che avevano disapprovato fortemente le sue nozze e mai si sarebbero occupati di una neonata mezza zingara.
Così, dopo aver sepolto mia madre, mio padre decise di mandarmi da una balia. L'unica balia di Dornennest era Rudelle Kürschner, che non guardava in faccia nessuno, nemmeno a una mezza zingara, se la si pagava profumatamente, ed fu da lei che venni mandata.
Per gli anni successivi vidi mio padre solo di sfuggita. Veniva a casa Kürschner una volta al mese, per assicurarsi che fossi ancora viva e per consegnare a Rudelle il denaro necessario a mantenermi. Si fermava un'ora o poco più, e durante quel tempo mi prendeva in braccio e giocava con me, ma poi se ne andava di nuovo e lo rivedevo il mese successivo. Ricordavo chiaramente che a tre anni, nella mia mente, si alternavano le due etichette papà e quel signore gentile che viene a trovarmi.
La mia famiglia erano stati i coniugi Kürschner e i piccoli di cui Rudelle si occupava. E naturalmente Helene.
Eravamo sette bambini, compresi i due figli naturali di Gerhard, e con marito e moglie dividevamo uno spazio che era poco più grande della soffitta in cui dormivo. Rudelle era lurida, sia dentro che fuori: di lei ricordavo molto bene il volto grassoccio, il seno prorompente, gli unticci capelli biondi e la puzza di sudore che emanava. Non ho mai provato affetto nei suoi confronti, ed ero sicura che lei non ne provasse né per me né per gli altri bambini che le erano affidati. Ne accoglieva tanti perchè aveva molto latte e perché aveva fame di denaro, ma i soldi che avrebbe dovuto spendere per noi li spendeva in grembiuli, pentole, caffè e vino: quanto a noi, pranzo e cena prevedevano minestra di verdure per trecentossessantacinque giorni all'anno; dormivamo tutti nel letto di Fred ed Helene, ai piedi di quello dei padroni di casa, e l'unico bagno che avevamo era quello che ci procuravamo da noi sciacquandoci mani e faccia nell'acqua della roggia.
Fino ai tre anni tutti noi possedemmo solo un unico vestito – il mio e quello delle altre bambine consisteva in una casacca ricavata da dei sacchi di juta in cui Rudelle aveva tagliato tre fori per farci passare la testa e le braccia; non ricordavo granché la divisa dei maschietti, ma nella mia testa era stampata chiaramente l'immagine di Fred Kürschner con l'orlo dei pantaloni che gli lasciava scoperte le caviglie di un bel po' di centimetri –, niente scarpe, e braccia e gambe piene di geloni e lividi.
Rudelle era tanto sporca quanto manesca. Non sopportava i bambini; a quel tempo sia io che tutti gli altri eravamo troppo piccoli per capirlo, ma crescendo avevo collegato i puntini e avevo realizzato che il vero motivo per cui ci teneva in casa sua erano appunto solo i soldi, ma che se avesse potuto ci avrebbe gettati nel pozzo o affogati nella roggia come si faceva con i gattini neonati. Ci trovava fastidiosi da vedere, pesanti da accudire e insopportabili d'avere intorno, e ogni occasione era buona per rifilarci qualche castigo. Non si limitava solo a rimanere ferma nella sua posizione secondo cui i bambini andavano cresciuti ed educati a suon di pizzicotti, scapaccioni e tirate di capelli: le sue punizioni erano umilianti.
Più volte Henrik Pferd si era trovato a piedi scalzi nella neve per aver rovesciato l'acqua o il latte a terra; in un paio di occasioni, Rudelle aveva fatto mangiare a Bertha Arbeiter il suo stesso vomito dopo che aveva rigurgitato quella sbobba schifosa sul pavimento, e suo fratello Franz fino a cinque anni aveva fatto la pipì a letto per colpa di tutte le minacce di morte che riceveva.
Fred ed Helene erano esentati da questo tipo di trattamento, perché Rudelle era sì una donna cattiva, ma aveva un sacro timore di suo marito, e Gerhard non gliel'avrebbe fatta passare liscia se avesse scoperto dei lividi sulle braccia dei suoi figli.
Ero rimasta in quella casa fino ai tre anni. Poi la nonna era venuta a prendermi.
Infine, a otto anni, ero tornata a vivere nel luogo in cui ero nata, perché mio padre aveva deciso di risposarsi. Gudrun già allora faceva ciò che era il suo lavoro: raccoglieva le uova delle galline, preparava il burro, imbottigliava il latte delle mucche, cucinava biscotti e crostate e nel tempo che le avanzava dai doveri domestici lavorava a maglia cuffiette, guanti, scialli e camicette per neonati, ricamava fazzoletti e panciotti, rammendava la biancheria lisa e, se era fortunata, aiutava la sarta del paese nella preparazione di calze e sottovesti quando alla signora Näherin veniva commissionato un corredo da sposa.
Tutti i suoi lavori – sia quelli di cucito che quelli culinari – li vendeva agli altri cittadini di Dornennest.
Aveva un giro di clienti più che discreto, questo dovevo concederglielo. Gudrun era sempre stata benvoluta a Dornennest a causa della sua famiglia e della sua reputazione da santa, ma a parte quello era veramente brava a cucinare e a cucire – non avevo molto occhio per valutare criticamente un lavoro di ricamo, ma era dieci volte più abile di me, e per quanto riguardava il cibo...non avevo esperienza con il cucito, ma il palato ce l'avevo eccome –, e quasi tutti compravano volentieri da lei o le commissionavano qualche lavoro.
Inizialmente, per consegnare la merce a domicilio dei clienti si era affidata a Bertram Arbeiter, pagandogli cinque monete al giorno come compenso, e aveva continuato a farlo per i due anni successivi al mio ritorno.
Poi, una mattina – era novembre inoltrato, nevicava ininterrottamente da tre giorni e io avevo dieci anni – vedendomi bighellonare su e giù per la cucina, aveva abbandonato le stoviglie che stava lavando nella tinozza e si era alzata in piedi di scatto, guardando mio padre.
- Jakob, ditemi cosa ne pensate di questa mia idea - e mi aveva indicato con un dito; mio padre, seduto al tavolo e con l'aria un po' assonnata, aveva guardato prima lei e poi me.- Questa bambina non fa altro che ciondolare tutto il giorno. Sapete bene che non sono d'accordo sul fatto che visiti...quella e che impari certe cose, ma dal momento che è figlia vostra e voi non ci vedete nulla di male, non m'intrometto su questo punto. Ma direi che il tempo di giocare è finito. Non può starsene tutto il giorno a rincorrere un pallone o a nascondersi fra i cespugli con quella Kürschner e le figlie degli Schmied, non credete?
Aveva guardato papà in attesa che le chiedesse che cosa avesse intenzione di farmi fare, e lui non aveva tardato ad accontentarla. Gudrun si era rivolta verso di me con le mani piantate sui fianchi, ma aveva continuato a parlare con mio padre.
- Ci tocca dare cinque monete al giorno al discolo degli Arbeiter. I soldi non spuntano dalla terra come l'insalata, e io non posso consegnare la merce di persona. Ho troppo da fare qui in casa, e se avessi qualcuno che facesse le consegne al posto mio potrei risparmiare le cinque monete e accettare più commissioni. Le gambe le funzionano, e da quel che ho potuto vedere camminare non le pesa. Potremmo mandarci Liesel, a consegnare la merce. Non avremmo bisogno di pagarla e si renderebbe utile in casa.
Ebbi la sensazione che mio padre non l'avesse neanche ascoltata, ma le rispose comunque di sì, dandole carta bianca sull'intera faccenda.
E così, il giorno dopo, mi ero ritrovata ad arrancare in mezzo alla neve con un cestino ricolmo di roba fragile, e con la promessa di una doppia razione di zuppa se avessi svolto bene il mio lavoro, e la minaccia che prevedeva una dose di schiaffi da far svenire anche un cavallo se avessi fracassato anche un solo uovo.
Anch'io ero entrata a far parte di quel meccanismo claudicante: tutte le mattine uscivo per fare le consegne, tutti i giorni facevo sempre le stesse cose, vedevo le medesime persone, pronunciavo le solite frasi e udivo le ridondanti notizie e i noiosi pettegolezzi.
La ruota dell'immobilità di Dornennest non aveva smesso di girare.
 
       Non ne avevo mai capito niente di architettura, ma da qualunque cosa avesse preso ispirazione il giudice Richter – il primo – per costruire la sua casa, beh, dovevo complimentarmi con lui per l'ottimo gusto, anche se forse era un po' pretenzioso.
Quel primo giorno d'inverno non avrei neanche saputo spiegare che diamine fosse il palladianesimo, per me quella del giudice Richter e della sua famiglia era solo una bella casa, e fine di ogni eventuale elucubrazione. Tuttavia, diversi mesi più tardi, scoprii quasi per caso un libro di architettura nella biblioteca di mio marito, e lo lessi tutto nel giro di un paio di settimane. A seguito di ciò, fui in grado di comprendere che la dimora del giudice era in stile palladiano, come dimostravano la forma delle finestre, gli abbaini e le colonne che sorreggevano la veranda sopraelevata, a cui si accedeva tramite tre gradini di marmo candido. Le colonne erano bianche, ma l'intera struttura era di mattoni rossi – fatta eccezione per il tetto, bianco anch'esso – sorprendentemente spogli della muffa che si attaccava alle pareti di ogni casa di Dornennest. Evidentemente, pensai quel giorno, il giudice e gentil consorte dovevano aver trovato qualcun altro che si occupasse di tenere in ordine il porticato – prima della pestilenza erano Helmutt Arbeiter e i suoi figli Bertram e Franz a farlo.
Naturalmente era a due piani, così come lo erano le dimore del borgomastro e del medico, ma la casa di quest'ultimo era di gran lunga più modesta delle prime due.
Helene mi aspettò ai piedi degli scalini, mentre io salii in veranda e bussai con il batacchio per tre volte. Avevo tutta l'intenzione di consegnare la merce alla governante dei Richter e andarmene per proseguire il mio giro, ma già dal tempo che c'impiegarono per aprire la porta compresi che la faccenda sarebbe andata per le lunghe.
Madama Richter teneva molto alla professionalità dei suoi dipendenti, o almeno che dessero l'impressione che quella fosse una casa perbene. Questo lo sapevano tutti, perché il povero Helmutt Arbeiter era famoso alla taverna per le sue imitazioni degli isterismi della padrona di casa ogni volta che qualcosa nella conduzione della quotidianità domestica non era di suo gradimento.
Bussai un'altra volta, ma dopo ben cinque minuti la porta restava ancora chiusa. Dall'interno della casa provenivano dei rumori di passi e oggetti spostati, segno che qualcuno doveva essere presente.
Mi volsi verso Helene, che si stava attorcigliando una ciocca di capelli intorno all'indice della mano sinistra.
- Forse c'è qualcosa che non va...- mormorò, e in quell'istante sentii la porta spalancarsi.
Mi voltai di nuovo per ritrovarmi faccia a faccia con una trafelata Felisberta Tiedeman. Aveva le guance grassocce rosse e la fronte imperlata di sudore e con appiccicati alcuni capelli sfuggiti da sotto la cuffietta bianca, che era slacciata sotto il mento e storta sul capo. Sembrava quasi che avesse corso.
Mi sembrò molto strano che fosse lei ad aprirmi. Felisberta Tiedeman era la cuoca dei Richter, non sarebbe spettato a lei aprire la porta di casa.
Fino a un anno prima, questo compito era di Hugo Diener, il marito della defunta sorella di Mathild e Truda Blicze, che lavorava come maggiordomo e valletto personale del giudice Richter; poi anche lui era morto nella pestilenza, e Madama Richter aveva dovuto subire l'umiliazione di mandare una delle cameriere donne ad aprire la porta.
A Felisberta uscirono gli occhi dalle orbite non appena mi riconobbe, e si fece un rapido segno della croce. Mi trattenni dallo sbuffare.
- Non abbiate paura, signora Tiedeman - gracchiai, con un'espressione e un tono di voce che sottintendevano un ma vattene all'Inferno! che speravo con tutto il cuore Felisberta cogliesse.- Consegno la merce alla vostra padrona e mi levo di torno.
- Madama Richter è di sopra, a letto. Con l'emicrania - aggiunse; la cosa non mi sorprese più di tanto: Josefa Richter era famosa a Dornennest per tre cose, la sua forte religiosità – non perdeva una messa –, il suo guardaroba aggiornato secondo la moda di Parigi – nessuno all'infuori di Madama Richter e di Hilda sapeva come diamine fosse un vestito secondo la moda di Parigi, per non parlare di conoscere l'esatta ubicazione di Parigi, ma a tutti piaceva riempirsi la bocca di quei concetti –, e la sua ipocondria.
Che fosse malata per finta o per davvero era una cosa che poco interessava al dottor Händler, quello che gli interessava era continuare a somministrarle rimedi inutili perché non guarisse mai del tutto, in modo che restasse la sua paziente fissa più affezionata.
La nonna mi aveva sempre insegnato ad avere rispetto per la medicina. Diceva che se non fosse stato per gli antibiotici la metà del mondo a quest'ora sarebbe stata a fare due chiacchiere con il Baron Samedi. Ma il fatto che rispettassi la medicina non significava che provassi lo stesso sentimento nei confronti del dottor Händler, che a Dornennest mancava solo mettesse radici ma che non era mai stato in grado di curare una sola malattia, neanche la più banale.
Forse era per la sua incapacità, o forse per vera ipocondria, fatto stava che Josefa Richter era sempre malata.
- Quando le persone si ammalano, le possibilità sono tre - sosteneva la nonna.- La prima, guariscono; la seconda, guariscono ma restano storpie; la terza, tirano le cuoia. Non esiste che una donna o un uomo stiano malati per così tanto tempo per poi tornare in salute non appena si prospetta una cena a casa del borgomastro o la competizione della figlia per il titolo di Regina di Maggio, e che diamine...!
Josefa Richter accusava sempre ogni tipo di malanno, da inspiegabili dolori al fianco, a fastidiosi mal di schiena, a non meglio specificati problemi ai nervi, a influenze, mal di gola, mal di stomaco e di reni, debolezze varie, ma l'emicrania era il suo preferito. Usciva di casa solo per andare a messa o per partecipare alle frequenti cene a casa del borgomastro Edel, e ogni domenica sul sagrato si sentiva solo la sua voce che elencava i malori e i dolori dell'intera settimana, naturalmente descritti con dovizia di particolari e contornati da aneddoti di questa o quell'altra morte atroce a causa della medesima malattia, o dal racconto di come quella brutta influenza sterminò un intero reggimento dell'Imperatore.
Tutte le donne di Dornennest, dalle borghesi alle popolane, si affollavano come stormi di uccelli intorno a lei ascoltando le sue lamentele e, se avevano sposato un uomo mediamente ricco – nessuna era al livello della famiglia Richter dopo la morte di Petronilla Edel, ma non avendo di meglio erano le uniche persone che Madama Josefa degnava della sua attenzione –, dandole consigli su come alleviare i suoi malesseri.
- Sono venuta per consegnare la merce - spiegai, con Felisberta che si era ritratta e che ora teneva il volto grassoccio incastrato fra lo stipite e il battente della porta, era chiaro che non vedesse l'ora di sbattermela in faccia.- Tre uova, un fazzoletto ricamato e una crostata. Madama Richter l'ha commissionata alla mia matrigna, insieme a due pezzi di burro. Potete prenderla voi?- avevo mentito sul burro, ma ero sicura che Felisberta, ignorante e credulona com'era, non avrebbe discusso; d'altra parte, sarebbe stato straordinario che Madama Richter mettesse a parte la servitù delle sue compere.
Prima della pestilenza, l'unica a sapere certe cose era la signora Haushälterin, la governate – nonché, si mormorava, una lontana cugina caduta in disgrazia della padrona di casa –, ma dopo che anche lei era morta l'anno precedente a causa dell'epidemia nessuno l'aveva sostituita, e Madama Richter gestiva praticamente da sola l'economia domestica.
- Assolutamente no!- Felisberta fece un salto all'indietro quando le porsi il cestino, quasi avessi avuto in mano una vipera.- No, io le tue porcherie non le prendo, mezza zingara!
Helene aveva salito i gradini che conducevano alla veranda, e ora mi stava a fianco, appena dietro la mia spalla sinistra.
- Non dovreste parlarle così, signora Tiedeman...- protestò debolmente.
- Signorina Kürschner!- Felisberta guardò Helene e poi di nuovo me, e si fece per la seconda volta il segno della croce.- Adalicia mi aveva detto che vi accompagnavate ancora a questa mezza zingara! Pazienza per quella discolaccia, ma voi non dovreste...
- Signora Tiedeman, Madama Richter ha richiesto alla mia matrigna questa merce, e lei ci ha speso tempo e fatica - tagliai corto.- O la prendete voi e mi date il denaro, o fate scendere la vostra padrona...!
- La padrona ha detto che non riesce ad alzarsi dal letto!- Felisberta parlava e intanto chiudeva la porta sempre di più, ed ebbi la sensazione che non l'avesse ancora fatto solo per rispetto verso Helene.- Torna domani, o dopodomani...
- Il burro sarà sciolto, le uova marce e la crostata da buttare. Chi li pagherà?
- Non è affar mio!- sbottò Felisberta.- Non è affar mio. Io roba da te non ne prendo, mezza zingara, sia mai che mi peschi qualche malocchio...!
- Che succede qui?
Dall'interno di casa Richter giunse una voce femminile, acuta, stizzita e leziosa al tempo stesso. Un agglomerato simile non si dimenticava tanto facilmente.
Felisberta guardò alle sue spalle, poi si scostò e fece un breve inchino in direzione di quelle che intravedevo essere le scale, senza però tenere la mano avvinghiata allo stipite della porta.
Ne approfittai per alzare gli occhi al cielo e lasciare che il mio fastidio si sfogasse in una smorfia e uno sbuffo.
Non avrei mai finito di stupirmi del fatto che Hilda Richter non avesse subito sostanziali cambiamenti da quando aveva otto anni ad adesso, che di anni ne aveva diciassette.
Da bambine giocava spesso con me, Helene e Adalicia, e già allora sembrava una bambola di porcellana. Era bassa di statura, fra me e lei passava solo qualche centimetro di differenza, ma grazie anche alle scarpe con i tacchi che poteva permettersi a differenza mia e delle altre ragazze, aveva la dannata capacità di squadrarti dall'alto in basso come se fossi stato un ragno, un ragno il cui scopo nella vita era quello di venire schiacciato da quelle stesse scarpe parigine. Hilda era magrolina, minuta, con la pelle pallida spruzzata sulle guance da del fondotinta rosato, gli occhi piccoli e azzurri e seminascosti dalle ciglia finte, le sopracciglia bionde e dalla curva perfetta. Era una bella ragazza, ma il suo viso non aveva perso i tratti infantili di quando era una bambina: le guance erano piene e tonde, la boccuccia aveva le labbra carnose e una forma a cuore – quando metteva il broncio, e lo faceva spesso, era un disastro, quelle labbra cariche di rossetto avevano l'aria di un bignè alla fragola sfatto – e il naso sottile e all'insù che la faceva somigliare a una zanzara o, appunto, a una bella bambolina francese.
Quando fece capolino sulla soglia della porta, indossava un abito color oro, con le maniche a sbuffo, la gonna stretta che terminava in un breve e morbido strascico e il corsetto aderente. I capelli lisci e biondi erano acconciati alla moda francese.
Qualunque altra bionda sarebbe stata da cani, lei invece sembrava una regina pronta a fare il suo trionfale ingresso in una sala da ballo.
- Che succede?- cinguettò ancora, rivolgendosi a Felisberta. La cuoca biascicò una spiegazione confusa, ma Hilda non l'ascoltò neanche.
- Che piacere vederti, Helene!- esclamò, fingendo di non vedermi.
Helene rispose con un imbarazzato buongiorno, ma io avevo già esaurito la mia pazienza. Mi feci avanti di un passo, e Hilda inarcò un sopracciglio.
- Sì, Liesel?- gracidò, accigliata.- Cosa vuoi?
- Che ritiri questa dannata merce, Hilda - feci una smorfia.- La tua cuoca non vuole prenderla.
- E perché mai?
- Non dovreste farlo neanche voi, signorina Richter!- metà della domanda di Hilda venne coperta dalle preghiere accorate della signora Tiedeman.- Porta male.
Hilda scrollò le spalle.
- Ma che stupidaggini!- fu il commento con cui liquidò le preoccupazioni di Felisberta, ma il fatto che Hilda non si lanciasse in dissertazioni su quanto fosse irragionevole che io o chiunque altro potessimo lanciare qualche malocchio – e Hilda Richter era una che amava parlare, se questo la faceva stare al centro dell'attenzione – mi fece capire che aveva detto così solo per salvare la faccia.
Hilda non aveva mai avuto paura di me, ma della nonna sì, sin da quand'era piccola. Anche lei condivideva la preoccupazione di Felisberta e della maggior parte degli abitanti di Dornennest sul fatto che io o la strega potessimo scagliare su di loro qualche sortilegio, ma non voleva ammetterlo perché, nella sua testa, questo avrebbe significato abbassarsi al livello di una contandinotta qualsiasi, come l'avevo sentita dire qualche anno prima.
In realtà, Hilda temeva la Foresta, la magia, e in generale tutto ciò che non si conformava a come secondo lei il mondo doveva girare, come si teme la peste. Non l'avrebbe confessato neanche sotto tortura, ma era così. Aveva paura della nonna, ma nei miei confronti provava solo antipatia.
Personalmente non avevo nulla contro Hilda. Non la trovavo simpatica, di certo avevo sempre saputo che non saremmo mai potute diventare amiche, mal tolleravo la sua superbia e la sua invidia, ma non avevo mai impugnato l'ascia di guerra nei suoi confronti. Da bambine giocavamo anche insieme – il giudice e Madama Richter avrebbero preferito che la loro figlia non si mischiasse ai mocciosi degli artigiani e dei contadini, ma dal momento che a Dornennest non c'era di meglio avevano acconsentito, poiché in caso contrario Hilda sarebbe stata completamente sola.
Per quel che mi riguardava, avremmo anche potuto mantenere un rapporto di civile cortesia. Lei, però, non era del mio stesso parere.
- Sai bene che sono solo superstizioni, Felisberta - aggiunse, con sussiego. Poi, a me:- Il cibo è pulito?
La domanda mi fece salire il sangue alla testa, ma mi controllai.
- Quando mai l'hai trovato sporco, Hilda?
- La settimana scorsa - rispose, secca, arricciando il nasino.- C'era un capello nel burro della tua matrigna.
- Hai preso in considerazione l'ipotesi che forse era uno dei tuoi o della tua servitù?- Gudrun aveva tanti difetti, ma non potevo accusarla di essere sciatta, disordinata o sporca. Casa di mio padre risplendeva come uno specchio, e quando non era impegnata a prendersi cura di Kristin, a cucinare o a ricamare, la mia matrigna non faceva altro che spolverare e strofinare ogni singolo angolo di spazio.
- Impossibile.
- Sulla base di cosa, lo affermi?
- Lo so e basta.
- Ti ringrazio per questa puntuale dimostrazione di possedere una mentalità altamente scientifica. Allora, la vuoi questa roba o no?
- Se maman l'ha commissionata, va bene - Hilda scrollò le spalle.- Ma riporta pure indietro il tuo burro.
- Ha commissionato anche quello!- ringhiai.
- Non è affar mio. Io non la tocco più, quella schifezza. E di' alla tua matrigna che dalla settimana prossima il suo burro non ci servirà più.
Il tono di voce con cui aveva pronunciato l'ultima frase stava a significare che non aveva intenzione di proseguire oltre con la discussione. Mi morsi l'interno della guancia e strinsi il manico del cestino con entrambe le mani: se avessi aperto la bocca l'avrei insultata e se non mi fossi controllata le avrei spaccato il cesto sulla testa.
Hilda se ne accorse e fece un sorrisetto; poi, rivolse la sua attenzione a un bersaglio per lei molto più interessante di me e delle mie consegne.
- Non indossi il regalo di maman, Helene.
La mia amica si portò una mano all'altezza del collo, come se si fosse resa conto solo in quel momento di non indossare il pendaglio a forma di conchiglia, e volesse scusarsi. Infatti, il tono con cui rispose a Hilda era simile a quello che usano i bambini per chiedere perdono ai genitori dopo una marachella.
- E' molto prezioso e raffinato - disse.- Mi...mi sentirei in colpa se dovessi perderlo...
- E fai bene. Due settimane fa maman l'ha comprato dai mercanti dalla città, e le hanno assicurato che l'avevano acquistato direttamente da una nobildonna decaduta che un tempo era stata dama di corte al seguito dell'Imperatrice...- spiegò, ed ebbi come la sensazione che ingrassasse di mezzo chilo ad ogni parola, talmente tanto si riempiva la bocca di orgoglio riflesso. Quel racconto pomposo mi fece capire che il pendaglio che Madama Richter aveva regalato a Helene doveva essere un falso: conoscevo i mercanti che venivano dalla città, non erano furfanti ma facevano il loro mestiere, e la maggior parte dei gioielli che vendevano erano dei falsi. Alle donne di Dornennest andava bene così – per loro bastava che un monile fosse bello e costasse poco, e queste caratteristiche le merci dei mercanti le avevano entrambe –, e i venditori inventavano sempre qualche storiella succosa per intrattenere le compratrici.
Ora che ci pensavo bene, anche Gudrun a casa aveva un medaglione con un pendaglio d'oro con incastonato un rubino, acquistato anni prima dai mercanti: Kristin un giorno se l'era ficcato in bocca e l'aveva piegato a metà.
Helene arrossì.
- Ti...ti ringrazio molto per il regalo, Hilda - lei non doveva aver capito che si trattava di un falso; e se anche così non fosse stato, probabilmente l'avrebbe ringraziata lo stesso.- Sono...sono lusingata che tu...
- Oh, cara, è il caso che ti ci abitui!- ridacchiò Hilda.- Sei o non sei la promessa sposa del futuro borgomastro? E, se vuoi davvero ringraziarmi...- a quel punto fece una cosa che lasciò interdette entrambe: superò la soglia dell'ingresso e prese Helene sottobraccio.- ...vieni dentro e unisciti a me. Felisberta ha appena preparato il té.
Helene si voltò verso di me, poi guardò ancora Hilda.
- Io non so se...
- Insisto!- Hilda la tirò dentro casa.- Tu...- mi guardò.- Porta la tua roba nelle cucine. L'entrata è sul retro, vicino alle stalle. Dirò a Viheke di pagarti.
E mi chiuse la porta in faccia.
Helene non si voltò più a guardarmi.
 
       Feci il giro della casa sentendomi il cuore pesante e un groppo alla gola.
Tentai di scrollarmi quelle spiacevoli sensazioni di dosso; non volevo confessarlo nemmeno a me stessa, ma ci ero rimasta male per il comportamento di Helene. Avevo sperato fino all'ultimo che rifiutasse l'invito di Hilda, o che almeno mi dicesse qualcosa come ti dispiace, Liesel? o ci vediamo più tardi!, invece non era successo nulla di tutto ciò.
Una parte di me sapeva che sarebbe successo. Che Helene avrebbe dovuto trascorrere sempre più tempo con gli Edel, i Richter e gli Händler, e meno con me, ora che stava per sposare il futuro borgomastro. Ma l'altra, quella che la nonna avrebbe definito senza spina dorsale, sperava che quel comportamento fosse un caso isolato.
Ad aumentare il mio malumore ci pensò la neve, che aumentò a dismisura: ora i fiocchi che cadevano sulla mia mantella rossa erano grossi quanto un'unghia, e i miei stivali affondavano del tutto. Mi tirai il cappuccio sul capo.
La porta che dava accesso alle cucine di casa Richter era separata da terra da altri scalini; questi però erano di legno e mezzi marci. Ne saltai uno spezzato a metà e bussai alla porta. Poco distante da essa c'erano le stalle, anche se in realtà era una scuderia: i Richter non possedevano bestie da soma come quasi tutti a Dornennest, bensì solo cavalli.
Tutti al villaggio conoscevano i cavalli dei Richter e i loro nomi: i due Percheron bianchi che trainavano la carrozza della famiglia si chiamavano Bandito e Fulmine, il castrato arabo di Madama Richter era stato battezzato Impeto e Hilda possedeva un albino con l'ignobile nome di Camelia; quanto al giudice, cavalcava un murgese dal manto nero che rispondeva al nome di Colonnello.
A occuparsi di loro, fino a un anno prima, era stato Oskar Bräutigam, un giovane orfano e scapolo che era molto bravo con i cavalli. Poi era morto a causa della pestilenza, e Viheke Schmied aveva colto l'occasione per far assumere al suo posto suo figlio Waldo, che di cavalli non capiva un accidente e che più volte il giudice aveva scoperto ubriaco e addormentato sulla paglia.
Il puzzo di animali, di sterco e di fieno si confondeva ai vapori emanati dal camino e dal profumo del cibo proveniente dalla cucina. Fu Viheke Schmied ad aprirmi la porta: ritirò la merce e mi pagò senza dire una parola e senza nemmeno guardarmi, e per tutto il tempo si tenne un lembo del grembiule premuto contro il lato sinistro della faccia.
La guardai di sottecchi, e capii cosa stesse cercando di nascondere: lo zigomo era violaceo e la guancia gonfia, e c'era un livido all'angolo delle labbra. Compresi che suo marito dovesse essere uscito di prigione.
- Grazie...- mormorai, mentre riponevo le monete nella tasca del vestito.- Come sta Adalicia?
- Fila via, mezza zingara!- sibilò Viheke, per poi rientrare e richiudere la porta con la rapidità di un ghepardo.
Mi ritrovai con la seconda porta in faccia della giornata.
- Beh, è stato un piacere...- borbottai, e scesi i gradini. Ballai un po' spostando il peso del corpo da un piede all'altro, indecisa sul da farsi. Gudrun se la sarebbe presa con me per la mancata vendita del burro, dovevo ancora passare da Serhilda Schmied...e non sapevo se avrei dovuto aspettare Helene oppure no. Anche se in fondo sentivo che non ci sarebbe stato modo di continuare la nostra passeggiata...senza contare che il dispiacere si stava pericolosamente mischiando a una punta di rancore. La voglia di piantarla in asso era tanta, se per caso aveva compreso che mi ero offeso questo le avrebbe dato la certezza definitiva...ma ancora, non me la sentivo.
Mentre mi dedicavo alle mie elucubrazioni, vidi Waldo Schmied – un ragazzone con due spalle larghe quanto il diametro di una quercia, i capelli rasati sulla nuca e lo sguardo bovino –, cotto di birra e da una nottata di bagordi, farsi strada verso le scuderie reggendo due secchi d'acqua.
Fu un attimo.
Waldo entrò nelle scuderie, e fu allora che lo sentii bestemmiare ad alta voce accompagnando il suono dei secchi che si rovesciavano e dell'acqua che si spargeva al suolo. Un secondo dopo, Waldo corse fuori dalla stalla, camminando all'indietro, e incespicò per la foga, finendo dritto nella neve.
Annaspò, gli occhi bovini sgranati e puntati in direzione delle scuderie. La mandibola gli tremava; boccheggiò come se avesse voluto dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscirono solo dei balbettii sconnessi.
Mi avvicinai.
- Va tutto bene?- domandai; non sembrava ubriaco, anzi, era palesemente sconvolto. Waldo mi guardò come se fossi stata uno spettro, poi puntò un dito in direzione della scuderia.
- Cosa c'è?- mossi qualche passo verso di lui e la stalla, cauta.
E la vidi: una scia di sangue rosso, puro e denso, si stava allargando sulla neve.
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti! Mi rendo conto che questo capitolo possa risultare noioso, ma dal prossimo la storia prenderà finalmente avvio. Questi capitoli “introduttivi” mi servono per presentare al meglio la situazione, e ogni personaggio e ogni cosa citata avrà un suo senso.
Ringrazio i 242 lettori silenziosi e Phoebe Moon per aver recensito e aver aggiunto questa storia alle seguite.
A presto! Un bacio,
 
TheLastMidnight

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