Blue.

di GioRavenlcaw_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


PRIMA CHE INIZIATE A LEGGERE, CI TENEVO A INFORMARVI CHE E' PARECCHIO TEMPO CHE NON USO QUESTO SITO E CHE QUINDI SONO UN PO' ARRUGGINITA. ABBIATE PIETA' SE COMBINO QUALCHE DANNO.

VOLEVO POI FARE UNA PRECISAZIONE SULLA STORIA. "BLUE" E' UNA STORIA A CUI TENGO MOLTISSIMO E CHE HO INIZIATO A SCRIVERE TRE ANNI E MEZZO FA. E' GIA' STATA IN PARTE PUBBLICATA SULLA MIA PAGINA FACEBOOK (SU CUI TROVATE ANCHE ALTRE MIE STORIE PUBBLICATE QUI E IN ALTRI SITI) E SU WATTPAD. PURTROPPO CON QUEST'ULTIMO SITO HO AVUTO PARECCHI PROBLEMI NEGLI ULTIMI DUE ANNI ED E' PER QUESTO CHE HO DECISO DI PORTARVELA QUI, DOVE TUTTO E' INIZIATO. PER CHI L'AVESSE GIA' LETTA ALTROVE, CI TENEVO A INFORMARVI CHE HO ACCORCIATO I CAPITOLI E LI HO SPEZZATI PER RENDERLI MENO ABBONDANTI E SCORREVOLI. DETTO QUESTO, SPERO CHE LA STORIA VI PIACCIA E NON POSSO FARE ALTRO SE NON AUGURARVI UNA BUONA LETTURA :)






Guardo il riflesso di un paio di occhi verdi in uno specchio che odio. Guardo un paio d'occhi che non vedono nulla se non un viso stanco e smagrito. Che vedono due iridi che potrebbero brillare di luce propria come le stelle, invece sono cupi, cupi come l'anima che abita il corpo magro, pallido e rovinato della ragazza che si sta fissando in quello specchio.

Questo è il mio riflesso. Questa sono io. Sono io e mi odio. Mi odio come nessuno mi ha mai odiato. Mi fa schifo tutto di me. La mia faccia, i miei arti lunghi rovinati da me stessa, odio questi fianchi spigolosi che non saranno mai abbastanza magri, nemmeno quando di me non resteranno che ossa in una tomba e tutto questo odio finalmente se ne andrà via da me e tutto potrà finire.

Perché io in questa tomba, nella quiete che segue la tempesta che è la mia vita, ho cercato di andarci più di una volta. Ho cercato di porre fine alle mie sofferenze, ci ho provato. Ma me l'hanno impedito. E io lo detesto. Detesto i medici, gli assistenti sociali, detesto mia madre che mi ha bloccato la strada verso l'abisso perfetto troppe volte.

Sono stanca. Stanca di vivere in questo mondo abitato da uomini che non si accorgono del male che provocano, stanca di vivere senza persone di cui necessito la presenza. Sono stanca. Troppo stanca.

Vorrei che tutto ciò finisse e terminasse, vorrei solamente inghiottire un flacone di pillole e addormentarmi senza svegliarmi più.

Lo vorrei tanto. Dormire per sempre, senza più pensare, respirare, preoccuparsi degli altri.

Vorrei solamente andarmene. Vorrei solamente morire.

Tanto sarebbe dovuto accadere comunque. Perché non ora? Perché non adesso, in un corpo distrutto di sedicenne?

Tanto la mia intera esistenza si è spenta mesi fa, il giorno in cui sarei dovuta andarmene all'altro mondo e tanti saluti. Invece eccomi qui. Un cadavere che cammina.

Sarei dovuta morire il 13 febbraio. Se fosse successo, ora sarei sotto terra, in una fredda bara di legno chiaro, coperta da un abito nero che prima del mio primo tentativo di suicidio avevo comprato per indossarlo una volta morta. Starei benissimo con quell'abito addosso in una bara rivestita da un soffice tessuto bianco. Ma il fatto che ora io stia qui a parlare della mia insulsa vita segnala il fatto che non indosso quel vestito e che non sono sdraiata con le mani giunte e con un rosario fra esse, che non mi trovo nella mia dimora eterna.

Infatti mi ritrovo qui, nel bagno angusto e troppo piccolo di casa mia in Alaska, appena uscita dalla doccia dove non funziona l'acqua calda da settimane.

Fisso i miei zigomi sporgenti mentre mi levo dalla testa l'asciugamano che nasconde i miei folti capelli lunghi.

Questi ricadono sulle mie spalle nude e sorrido appena nel vederne il colore.

I miei capelli sono di un blu elettrico e bagnato che risalta sulla pelle fredda e diafana.

Ecco, forse i capelli che ho ora sono l'unica cosa che di me mi piace. Li ho tinti senza il permesso di mia madre. Non mi importa. Il blu mi piace di più in confronto al biondo cenere naturale ereditato da mio padre.

Li asciugo con calma, con cura estrema e quando li guardo soffici e lucenti nello specchio, sento di essere ancora un po' amante di me stessa. Quel poco di cui ho bisogno per affrontare il viaggio che mi porterà a casa di mio padre, a Sidney, Australia.

I medici e tutti coloro che stanno cercando di tenermi ancora in vita, hanno pensato che cambiare aria per un po' mi possa fare bene. Io non sono della loro idea, ma non ho scelta. Partirò fra poche ore e l'idea di lasciare il freddo dell'Alaska mi fa stare ancora più male. Voglio essere a casa mia quando morirò e l'Australia non è la mia casa. Io devo rimanere qui. Ne ho bisogno anche se tutti sono così ostinati a farmi restare in questo posto chiamato mondo, ma non lo capiscono.

Prendo una pinzetta a forma di gufo e me la sistemo fra i capelli.

È un regalo. IL regalo. L'ultimo che mi ha fatto. L'ultimo che ho veramente amato prima di entrare in questo tunnel senza uscita.

Esco dal bagno e attraverso il piccolo e stretto corridoio che lo separa dalla mia stanza. Un buco con un letto scassato, un armadio graffiato e una carta da parati rosa strappata un po' ovunque.

Apro l'armadio e mi vesto.

Lo specchio rotto è ancora appeso nell'anta del guardaroba di pino e ancora una volta il fantasma di una ragazza in corsa per l'Inferno vi è riflesso dentro.

La crepa si forma proprio all'altezza del mio viso. Meglio così. Meglio non guardarlo troppo a lungo.

Mi stringo nella felpa grigia e osservo le gambe magre, ma non ancora abbastanza.

Poi chiudo di botto l'anta e torno in bagno. Mi chiudo a chiave.

Apro l'acqua del lavandino e della doccia al getto massimo e mi inginocchio a terra accanto al wc. Mi porto due dita alle labbra e me le infilo in gola. Vomito quel poco di acqua e di cibo ingoiato a forza quella mattina. Lo faccio tutti i giorni. Tutte le mattine, tutte le sere, in ogni momento in cui sento il bisogno di farlo.

E anche questo che quei bastardi dei medici stanno cercando di guarire. Mi alzo e tiro l'acqua. Mi avvicino al lavandino e mi risciacquo la bocca.

Poi cerco la bilancia che mia madre ha pensato bene di nascondere dietro al mobiletto del bagno che il suo nuovo compagno ha murato al muro.

Ci ho messo due notti a cercare di spostarlo quel poco affinché riuscissi a prendere quel dannato oggetto.

Lo prendo e appoggiò a terra la bilancia. Ci salgo sopra e aspettò di vedere comparire un numero che continua a diminuire ogni settimana ma non mi soddisfa mai.

Quei 47 chili mi fanno schifo.

Mesi fa sono arrivata a pesarne 38, poi un giorno mi hanno ritrovata svenuta nel bagno della scuola. È stato lì che tutti si sono accorti del mio male.

Mi hanno costretto a vivere in un posto orribile, un centro di recupero dove mi hanno torturata a mangiare quantità esorbitanti di cibo. Una volta mi sono anche rifiutata, ma avrei voluto tanto non farlo. Mia madre ha firmato un foglio in cui vi era il permesso di nutrirmi attraverso una specie di tubo.

Alimentazione forzata. Ecco come la chiamano. Non la auguro a nessuno.

È stato uno di quei momenti in cui non desideravo altro che morire.

Rimetto la bilancia al suo posto ed esco dal bagno.

Sento qualcuno salire le scale e vedo mia madre, una donna di 48 anni, bellissima un tempo, ma che ora nasconde dietro un sorriso un dolore estremamente forte.

Dal “Giorno ingiusto”, così chiamo il 13 febbraio, la sua faccia era diventata un viso afflitto dal male, dalle lacrime, dalla stanchezza. È invecchiata troppo in fretta.

Ed io mi odio anche per questo.

<< Ciao. >> la saluto sorridendole appena.

Lei ricambia e viene a darmi un bacio sulla fronte.

<< Ciao tesoro mio, come stai oggi? >> mi domanda stringendo le mie esili spalle nella sua stretta forte.

<< Bene. Sto bene. >> mento.

<< Pronta per partire? Le tue valigie? >>

<< In camera. Vado a prenderle. >> dico.

Corro in camera e recupero il borsone giallo e blu con i vestiti che ho deciso di portarmi da mio padre e lo zaino verde scuro contenente i miei segreti.

Esco dalla mia stanza senza degnarla di uno sguardo. Quel posto contiene solo dispiaceri.

Sorrido a mia mamma che intanto mi ha raggiunto sulla porta, le passo il borsone e scendiamo le scale, usciamo sul piccolo giardino, fiorito solo in questi pochi mesi estivi.

Mamma apre il bagaglio della Dacia rosso scuro. Guardo un'ultima volta quella casa che mi ha accolto per tutta la mia vita e poi salgo in macchina e parto verso il piccolo aeroporto della mia città senza mai voltarmi indietro.
 
 
 
 
 
 
 
Sono sul secondo aereo. Il primo mi è servito per arrivare a Seattle. Ora sono diretta a Sidney. Non ci sarà più la terra sotto i miei piedi per un bel po' e io continuo a sperare in un guasto del motore o in un dirottamento che ci farà morire tutti. Almeno, una volta morta, non dovrò più subirmi gli sguardi languidi dello schifoso americano dai capelli scuri e unti seduto a pochi sedili da me.

Alzo un sopracciglio e mi infilò le cuffie. Guardo un film orrendo mentre volo verso un posto che odierò. Non ho idea di quante ore passano, so solo che mi sono addormentata con il cielo che iniziava a schiarirsi ed ora fuori è scuro.

Mi sistemo meglio sul sedile stirandomi e mi accorgo che un'assistente di volo mi ha messo addosso una coperta verde scuro con il logo della compagnia aerea. Mi piacciono le assistenti di volo. Sono persone che si preoccupano degli altri, anche se non sanno chi sono.

Mi guardo intorno e vedo che molta gente si sta svegliando come me e, come me, sembra un po' sperduta.

Dovremmo essere quasi arrivati. Il segnale luminoso che ci invita ad allacciarci le cinture di sicurezza per l'atterraggio e il messaggio che segue mi danno conferma che stiamo per atterrare sulla pista dell'aeroporto di Sidney.

Mi allacciò la cintura e intanto mi apro una gomma da masticare per evitare il terribile fischio d'orecchi che segna sempre un atterraggio.

Io intanto guardo fuori dal finestrino.

Luci di palazzi, macchine, locali e il deserto all'orizzonte mi danno una veduta notturna della mia nuova casa.

L'Australia. Io, abituata a distese innevate e al freddo polare dell'Alaska, ad andare a dormire con ancora il sole alto, in questo posto buio, circondato da distese di terra e dall'Oceano non c'entro proprio nulla.

Mi rassegno al fatto che non potrò più tornare nella mia casetta col piccolo giardino fiorito in estate, con la mia camera e il mio specchio rotto nell'armadio.

Non potrò tornarci. Se non da morta.

Vedo la pista di atterraggio avvicinarsi e con un colpo, il carrellino dell'aereo tocca terra e cominciamo a perdere velocità. Ci stiamo fermando. E con l'aereo mi sto fermando anche io.

Io, Arya Greywolf, 16 anni compiuti il 15 Gennaio, bulimica, anoressica e autolesionista, reduce di 2 tentativi di suicidio non andati a buon fine, sono a Sidney. E non mi piace per niente.
 
 
 


Arrivo in aeroporto all'uscita del mio imbarco, con lo zaino in spalla, i capelli blu appena tinti legati in una treccia fatta male sul lato.

Cerco con gli occhi l'uomo che dovrebbe venirmi a prendere come un pacco postale, senza troppa attenzione.

Poi lo riconosco dal cartello col mio nome e cognome scritto in orrenda grafia su un foglio bianco stropicciato.

Mio padre mi riconosce tra la folla e mi sorride.

Io mi avvicino a lui ma non ricambio il sorriso.

Quando mi vede avvicinarmi sballotta da una parte all'altra alcuni uomini e donne che gli urlano nomi non molto gradevoli.

Lui se ne frega e mi prende in braccio facendomi cadere lo zaino dalle spalle.

Meccanicamente gli porto le braccia al collo e mi aggrappo a lui intrecciando le gambe intorno alla sua vita.

Chiudo gli occhi e respiro il suo profumo dolce e pungente, il profumo che ha sempre avuto, il profumo che mi ha accompagnato nel lungo cammino che è la vita fino ai miei 14 anni, quando lui e mamma hanno divorziato.

Lui mi accarezza la schiena e lo sento rabbrividire quando al tatto riconosce le vertebre che si possono toccare perfettamente sulla mia spina dorsale.

Effetto collaterale dell'anoressia: posso vedere le mie ossa prima di morire.

Lo stringo più forte sperando che la smetta di pensare troppo alla mia schiena magra e lui lo fa. Sospiro sollevata.

<< Mi sei mancata Arya. >> mi sussurra mio padre all'orecchio.

Gli passo una mano sui capelli biondo cenere che gli ricadono sulle spalle e li tiro appena.

<< Anche tu papà. >> rispondo.

Lui mi stringe ancora un po' e poi mi rimette a terra. Sorride sfiorandomi i capelli.

<< Blu? >> domanda prendendo la treccia fra le mani.

<< Volevo cambiare. >> mi giustifico.

Lui soffoca una risata e annuisce.

Andiamo a recuperare il mio borsone e poi usciamo dall'aeroporto.

Il fuso orario mi mette un po' di mal di testa e mi scombussola un poco ma cerco di riprendermi.

Papà mi accompagna alla sua auto, una Volvo, e saliamo diretti nel traffico della Sidney notturna.

Io mi fisso le mani mentre papà guida puntando ogni tanto un'occhiata nella mia direzione.

Non lo vedo da quel giorno. Il giorno maledetto.

La macchina svolta a destra e imbocchiamo una strada con molte casette a schiera nella periferia della città. Abbasso il finestrino e annuso l'aria. Riesco a sentire l'odore del mare. Oh il mare. Forse sarà una delle poche cose che mi mancheranno quando morirò. Anzi, forse non ne sentirò così tanto la mancanza. In fondo, quando si muore non si sente più nulla.

Si muore e basta.

La Volvo di mio padre si ferma sul vialetto di una villetta a schiera più bella e grande. Spegne il motore, si slaccia la cintura e mi guarda cercando di sorridere.

<< Stai bene, Arya? >> mi domanda.

<< Sono solo un po'... sai, il cambio d'ora. Mi ci devo ancora abituare. >> rispondo.

Lui sorride e annuisce.

<< Si, capisco. Domani andrà un po' meglio vedrai. >> dice.

Usciamo dall'auto, prendiamo il mio bagaglio ed entriamo in casa.

È una casa bella, grande, accogliente. Odora di pace. So benissimo che a renderla tale non è mio padre ma la sua nuova compagna.

È suo figlio.

Il figlio che mi ha rimpiazzato, in un certo senso, nella vita quotidiana di mio padre.

È quel figlio è proprio e a pochi metri da me, seduto sul divano del salotto che si unisce all'entrata.

E mi sta fissando.

Deve avere uno o due anni in più di me. Si alza sorridendo un po' imbarazzato e si avvicina salutando mio padre con un “Ciao Ed!” e poi mi guarda gentile.

È più alto di me, non molto muscoloso ma nemmeno mingherlino, un tipo normale insomma, due paia di occhi chiari gli accendono il viso e sorrido divertita quando mi accorgo dei suoi capelli. Sono verdi. Un verde acceso, un verde mela.

Un bel colore.

Mi porge la mano e io gliela stringo sorridendo.

<< Ehm... Io sono Michael, il figliastro di tuo padre. Quindi potrei considerarti una sorellastra. >> dice divertito.

Lo guardo divertita.

<< Si, è il termine corretto. Puoi chiamarmi semplicemente Arya, comunque. >> rispondo.

Papà ci sorride e chiede a Michael di mostrarmi la mia camera.

Saliamo al primo piano della villetta e Michael mi conduce in un corridoio stretto con due stanze, una di fronte all'altra. Lui apre una porta in legno blu scuro col mio nome in lettere dorate scritto sopra.

Michael si accorge che sto fissando la scritta e sorride.

<< Mia madre ha pensato che ti sarebbe piaciuta una stanza fatta apposta per te. La cosa del nome sulla porta è una sua abitudine da molto tempo. Ti accorgerai che ogni stanza ha una scritta sulla porta. Non sapeva se ti piacesse una citazione in particolare e così ha messo il tuo nome. >>

<< E sulla tua che c'è scritto? >> domando.

Lui ride e con un cenno della testa mi indica la porta di fronte alla mia.

È sempre in legno, marrone scuro, colma di adesivi di gruppi rock e frasi di canzoni che non conosco. Poi in cima c'è un cartello rosso con una scritta bianca che recita “PERICOLO DI MORTE. VIETATO L'ACCESSO AGLI ADULTI.”

Soffoco una risata alla vista di quella scritta e scuoto la testa.

Michael fa spallucce e apre la porta della mia nuova camera.

Non è molto grande, ha un letto ad una piazza e mezza con lenzuola blu e qualche pupazzo manga che lo addobbano, un comodino con una lampada bianca, un armadio con ante scorrevoli, un comò di legno antico restaurato e dipinto di blu e bianco. Per terra c'è un semplice tappeto grigio e una porta dà l'accesso ad un bagno con vasca e doccia e un lavandino molto moderni.

Non ho mai avuto un bagno tutto mio. Questa è la prima volta.

Guardo Michael che intanto si è seduto sul bordo del mio letto.

Mi sta fissando. Ma non come di solito fa la gente. La gente mi guarda perché sono magra, un magro malato. Lui invece ha un'aria incuriosita, quasi come se volesse farmi una domanda.

<< Grazie, per avermi mostrato la stanza. >> dico.

Lui fa di nuovo spallucce e nasconde le mani nelle tasche della felpa nera continuando a fissarmi.

Onestamente, non mi dà fastidio che lui mi fissi in quel modo. Ho visto tanti di quegli sguardi afflitti e in pena per me che vedere qualcuno che mi guarda con una certa curiosità mi fa stare un po' meglio.

Mi avvicino a lui alzando con la poca forza che ho il borsone e lo butto sul letto.

Lo apro e inizio a mettere a posto la mia roba sotto gli occhi attenti di Michael.

<< Quanti anni hai? >> mi domanda.

Io apro l'armadio e appendo i jeans mentre mi volto a guardarlo.

<< 16. Tu? >> domando.

<< 17 >> risponde.

Sorrido e lui ricambia.

<< Mi piacciono molto i tuoi capelli. >> dice poi.

<< Grazie, li ho tinti stamattina. Anche i tuoi sono belli. >> gli dico andando verso di lui per prendere delle t-shirt da riporre nell'armadio.

<< Grazie, sei gentile. Mia madre odia il fatto che io mi tinga i capelli con questi colori strani. >>

<< Tua testa, tue scelte. >> gli rispondo.

Accaldata, mi alzo le maniche della felpa scoprendo gli avambracci e mi scosto i capelli tinti dietro l'orecchio.

Torno verso l'armadio ma quando mi volto vedo che la testa di Michael è piegata in un gesto interrogativo e mi sta fissando le braccia.

Mi accorgo delle conseguenze del mio gesto e abbasso le maniche per coprire le cicatrici dei tagli da me stessa inflittami.

Lui si acciglia al mio gesto.

Finisco di svuotare il borsone e lo butto sotto il letto.

<< Sei stanca? >> mi chiede quando mi siedo accanto a lui sospirando.

Annuisco e lui sorride.

È un ragazzo gentile questo Michael.

<< Domani sarà una giornata dura a scuola. Il primo giorno non è mai facile. Tranquilla ci sarò io a darti una mano. Ma non pensare di chiedermi aiuto in matematica, faccio schifo in quella. >> dice facendomi ridere appena.

<< Tranquillo, io... sono più il tipo che non ama fare amicizie. Non attiro molto l'attenzione. >> rispondo.

Lui mi guarda corrugando la fronte.

<< Non puoi non avere amici a sedici anni. È una vita orribile quella senza amici. Insomma, è da suicidio. >> dice lui.

Io sorrido amareggiata da quella frase e mi rendo conto di quanto questo sia vero.



 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


La mattina seguente, mi sveglio ancora un po' intontita dal cambio d'ora, ma molto meno rispetto al giorno prima.
Mi faccio una doccia veloce, e mi vesto. Infine mi guardo allo specchio,
Pensavo che cambiare l'arma con cui mi uccido ogni giorno potesse funzionare a rendermi più felice, ma anche qui, il riflesso di me stessa non fa altro che farmi salire il vomito. Ed è proprio quello che faccio. Vomito, anche se non ho ancora messo nulla sotto i denti. Mi lavo i denti e mi sistemo la felpa larga sulle spalle.
Esco dalla mia camera e scendo le scale.
Appena arrivo in cucina sento l'odore dei pancake e delle uova strapazzate.
Un conato mi sale in gola ma cerco di trattenerlo perché non voglio vomitare. Non ancora almeno.
Una donna, più o meno dell'età di mio padre, mi vede e mi sorride.
<< Arya! Che piacere conoscerti! Io sono Hanna. >> dice abbracciandomi.
Ricambio un po' imbarazzata.
<< Piacere di conoscerti. >> dico dandole del tu.
Lei sorride e mi fa cenno di sedermi per fare colazione.
Hanna sa perfettamente della mia malattia eppure mi sta riempiendo il piatto di cibo che io devo mangiare assolutamente altrimenti mio padre mi trancia in due.
Lei mi fa domande di vario genere, ma la mia mente sta cercando di assimilare tutte le calorie dei cibi che Hanna mi sta mettendo nel piatto.
Pancakes al cioccolato, bacon, uova, biscotti, latte e succo d'arancia. Il mio stomaco sta iniziando a singhiozzare perché il solo pensiero che tutto ciò dovrà essere inghiottito e accumulato lo fa stare male.
Mi sale la nausea e così mi porto una mano alla bocca ordinando a me stessa che non devo, non posso correre in bagno di nuovo.
In quel momento arrivano a fare colazione anche mio padre e Michael. Entrambi mi salutano e io ricambio con un sorriso tirato.
La nausea si calma un poco ma appena mi accorgo che siamo tutti seduti a tavola ed è arrivato il momento di mangiare, inizio a sentirmi di nuovo lo stomaco sottosopra.
Respiro forte e facendomi coraggio prendo la forchetta tra le mani e raccolgo una minuscola quantità di uova.
Fisso la sostanza gialla e bianca che si avvicina alla mia bocca e in un attimo la sto masticando.
Il sapore è buono, ma il gusto del cibo che dovrò vedere fra poco nel wc mi fa stare male.
Prendo un sorso di succo e butto giù quella roba sotto gli occhi preoccupati di mio padre e di Hanna. Michael non sembra essersi accorto di nulla.
Hanna sospira e continua a guardarmi masticare e mandare giù a fatica neanche metà del cibo presente nel piatto. Dopo aver assaggiato tre forchettate di uova, due bocconcini minuscoli di pancake e un pezzetto microscopico di bacon, il mio stomaco inizia a ribellarsi.
Lo sento storcersi e fitte di dolore mi prendono l'addome.
Stringo gli occhi e bevo un altro po' di succo.
<< Arya, tutto ok? >> domanda mio padre.
Io annuisco ma lui sa benissimo quello che mi sta accadendo. Lui conosce i sintomi. Li conosce tutti fin troppo bene.
Hanna mi sorride e mi fa un grosso favore quando mi toglie il piatto da sotto gli occhi.
Le sorrido sussurrandole un “grazie”.
Michael invece sta ingurgitando il suo terzo pancake e nel piatto mancano le uova e il bacon presenti poco prima.
Distolgo lo sguardo e cerco di promettermi di non rimettere il cibo appena mangiato. Il mio stomaco smette di agitarsi e tutto va bene. Per ora.
Mio padre si accorge che mi sto trattenendo e mi sorride annuendo.
Lui vuole il mio bene. Vuole che io viva. Non vuole lasciarmi andare.
 

Michael guida l'auto di sua madre verso la via che il giorno prima ho percorso con mio padre e ci immettiamo nel traffico mattutino di Sidney, diretti a scuola.
Michael parla della vita al liceo, della squadra di football, delle cheerleaders senza cervello e dei suoi tre migliori amici.
Dice anche che a scuola li rispettano, che sono popolari. Io non lo sono mai stata nella mia vecchia scuola. Almeno, non lo sono mai stata fino al giorno della mia quasi morte. La mia prima quasi morte.
<< Ti piaceranno i ragazzi vedrai, Ashton è mezzo pazzo, Calum invece è sempre pronto ad aiutarti. Luke invece... beh, lo vedrai. Non è il tipico ragazzo australiano. >>
<< Cioè? >> domando incuriosita.
Lui fa spallucce.
<< Beh, è un po' fuori di testa. Insomma, non è il ragazzo perfetto. >> risponde.
<< Un ragazzaccio. >> dico divertita.
Lui ride e annuisce.
<< Si, più o meno. Lo capirai, fidati. >>
 

Michael mi accompagna al mio armadietto e poi all'aula C12 per la mia prima lezione di storia. Lo ringrazio ed entro presentandomi al professor Molina, un uomo sulla cinquantina di origini messicane. Vedo un banco vuoto sul fondo dell'aula e mi ci siedo cercando di evitare le occhiate che i miei nuovi compagni di scuola mi stanno lanciando.
Mi siedo nel banco e guardo fuori dalla finestra il cortile del liceo che si sta svuotando.
La campanella suona e io cerco di stare attenta alla lezione senza addormentarmi.
Difficile, ma non impossibile.
Dopo circa un quarto d'ora la porta dell'aula si spalanca e un ragazzo alto e biondo entra in classe.
Lo guardo e ne rimango rapita. È bellissimo. Capelli biondi che spuntano da un cappellino grigio, occhi azzurri, di un azzurro limpido come il cielo, un'aria da strafottente ma affascinante e poi quel sorriso divertito sulle labbra rosa con un particolare che mi fa diventare matta.
Lo vedo sorridere alla sfuriata di Molina per il suo ritardo e i denti bianchi tirano il piercing al labbro che rende quel ragazzo assolutamente perfetto.
<< Hemmings, non dirmi che vuoi farti bocciare un'altra volta? Oh al diavolo! Siediti là e non dar fastidio, per questa volta farò finta di niente. >> dice il professore ritornando a spiegare.
<< Grazie Professore. >> dice il ragazzo venendo nella mia direzione.
Alza lo sguardo e incontra il mio. Sul suo volto scompare il sorriso e appare un'espressione incuriosita.
Mi sento salire il caldo sulle guance e abbasso gli occhi sul libro.
Il tipo si siede nel banco a pochi centimetri da me, si leva il cappellino e appoggia un libro malridotto sul banco senza nemmeno aprirlo.
Alzo appena gli occhi e riesco a leggere l'iniziale del suo nome sulla copertina.
L.
Poi lo guardo un'ultima volta e mi accorgo che anche lui mi sta fissando. Corruga le sopracciglia e mi percorre con gli occhi tutta la figura, dalla testa ai piedi.
Lo lascio fare e mi concentro sulla lezione.
Per tutto il tempo non mi ha staccato gli occhi di dosso.
 

Pausa pranzo. Un incubo. Ma non quanto dover mangiare a casa. A scuola almeno non ci sono genitori preoccupati per la tua salute e che ti obbligano a mangiare.
Entro in sala mensa dove incontro Michael che mi saluta raggiante e mi spara domande a raffica sulle mie prime impressioni riguardanti la scuola.
Io rispondo che è ok finora.
Ci avviciniamo al bancone self service e tutto il cibo presente mi mette in ansia. Michael mi sorride passandomi un vassoio con le posate.
Lo ringrazio e mi metto davanti a lui, appoggiando il vassoio sul pass di metallo.
<< Ti va di mangiare con me e i miei amici? >> mi domanda prendendo dell'insalata.
Osservo la scodella con la verdura verde acceso e decido di prenderla anche io, sapendo benissimo che il mio stomaco ne accetterà solo due foglie.
<< Si, mi farebbe piacere. >> rispondo a Michael sorridendo.
Lui prende poi delle patate fritte e un hamburger, io invece una bottiglia d'acqua e della macedonia di frutta.
Mi accorgo poi delle occhiate che il mio “fratellastro” mi sta mandando.
Indica il cibo che ho preso con la mano.
<< Mangi solo quello? Sai, a differenza di molte altre scuole, qui la mensa è fantastica! >> esclama.
Io rido e scuoto la testa.
<< Non ho molta fame. >> mi giustifico.
Lui aggrotta le sopracciglia ma lascia perdere. Poi mi fa cenno di seguirlo e ci avviciniamo ad un tavolo rotondo e rosso dove sono seduti tre ragazzi ai quali nessun altro studente osa avvicinarsi troppo.
Mi guardo intorno e mi accorgo che buona parte dei ragazzi e delle ragazze presenti mi stanno fissando.
Forse è perché sono con Michael o forse per il mio aspetto, ma lo stomaco ricomincia ad attorcigliarsi alla vista di quegli sguardi e la voglia di scappare e rinchiudermi in uno stanzino isolato e in disuso si fa presente nella mia testa.
 

Luke's Pov:
 
Finisco di fumare la mia sigaretta e vado in mensa. Ash e Cal sono seduti al solito tavolo e mentre mi avvicino noto gli sguardi di molti studenti, in particolare ragazze, su di me.
Non mi interessa. Che mi fissino. Lo sanno chi sono e che non mi devono calpestare. Qui a scuola io sono il re e nessuno osa sfidare un re.
Calum mi vede e mi saluta.
Ricambio e mi siedo accanto a lui.
<< Allora, vedo che tutti temono ancora il grande Luke Hemmings. Sembrano abbastanza impauriti. >> dice Calum divertito indicando quelli che mi stanno ancora con gli occhi puntati addosso.
<< Si e mi piace. >> rispondo.
<< Alcune ragazze ti stanno mangiando con gli occhi, Luke. >> risponde Ashton ridacchiando.
<< Non ho tempo adesso per le ragazze. Domani sera c'è l'incontro, devo restare concentrato. >> dico.
Calum si acciglia e mi guarda disapprovando quello che ho appena detto.
<< Hai deciso di partecipare, allora. >>
Alzo gli occhi al cielo esasperato.
<< Si, ho deciso di partecipare. Che c'è Cal? Una volta amavi anche tu combattere, ricordi? >> dico ricordando i tempi in cui il mio amico faceva parte del giro.
<< Sai che non combatto più Luke. È inutile che tenti di persuadermi. >>
<< Oh Cal, andiamo! Anche Ashton si batte domani. Chissà forse troverà di nuovo il fegato per sfidarmi. >> dico puntando lo sguardo sul mio amico che mi fa una smorfia.
<< No, grazie. Il mio occhio nero mi è bastato. >> risponde facendomi ridere.
Calum continua a scuotere la testa. Lo odio quando fa così.
<< Che cazzo, Cal! Sembri mio padre! Perché detesti tanto il fatto dei combattimenti? >>
<< Li detesto da quando è successo quel che è successo. >> risponde cupo.
La sua risposta mi toglie dalla faccia il sorriso divertito e mi fa ripensare a quella sera. La sera in cui per la prima volta sul ring del fight club clandestino, è morto un ragazzo. Da allora nessuno è mai riuscito a battere il suo assassino. Io però ci riuscirò. Non domani, forse, ma ci riuscirò.
Giro la testa in cerca di Michael che sarebbe già dovuto essere qui con il cibo.
Lo vedo vicino al bancone della mensa. Che sta parlando con una ragazza dai capelli blu.
Si, quella dai capelli blu. È la ragazza nuova. Non ho idea di chi sia, ma durante l'ora di storia non ho fatto altro che fissarla. Ha un qualcosa di strano quella.
<< Ragazzi? >> chiamo i miei amici << chi è la ragazza con Mickey? >> chiedo indicandogliela con un cenno del capo.
<< Credo sia la figlia del compagno di sua madre. Mi aveva detto che sarebbe arrivata dall'Alaska ieri. >> dice Ashton tamburellando con le dita sul tavolo.
<< È carina. >> dice Calum sorridendo.
<< E sembra un cadavere. >> rispondo io in tono acido.
In effetti quella ragazza è di una magrezza spaventosa. Ha un viso incredibilmente pallido. Non sembra stare bene.
<< È solo magra, Luke. >> dice Ashton.
Io annuisco ma non mi convinco.
Li vedo avvicinarsi e Michael ci saluta allegro mentre la tipa dai capelli blu gli sta dietro con la testa bassa e gli occhi fissi sul suo vassoio.
<< Ehi Ragazzi! Vi presento Arya, la mia... quasi sorella. >> dice Michael << Arya, loro sono Ashton >> lui la saluta agitando in aria le bacchette della batteria e sorridendole << Calum... >> lui invece fa il simpatico << e Luke. >>
Alzo gli occhi e incontro i suoi. Li sbarra e sulle guance pallide appare un po' di colore. Sorrido sghembo per la sua reazione.
<< Noi ci siamo già incontrati a storia. >> dico mettendo le mani nelle tasche della felpa.
Lei annuisce e sorride imbarazzata.
<< Si, tu sei il ragazzo della sfuriata. >> dice facendo ridere i miei amici.
Alzo gli occhi al cielo.
<< Ma come Luke, ancora in ritardo? Stai certo che Molina ti segherà un'altra volta se continui così. >> dice Michael divertito.
Gli faccio la linguaccia e poi si siedono.
Lei è accanto a me e non posso fare a meno di notare quanto sia magra. Fa addirittura impressione. Però è bella. Straordinariamente bella, anche se davanti ai miei compagni e soprattutto davanti a lei non lo ammetterei mai.
Michael mi passa un hamburger e io lo prendo senza un grazie.
Calum mi rimprovera ancora per la mia maleducazione e ancora una volta mi sembra mio padre.
Addento il mio panino e poi sposto gli occhi sul piatto di Arya.
Sta girando a vuoto delle foglie di insalata senza la vera intenzione di mangiarle.
Aggrotto la fronte e lei si accorge che la sto guardando.
Subito rimedia a ciò che ho pensato prima e addenta un po' di verdura con una strana smorfia sul viso.
Nessuno a parte me fa caso al suo strano modo di approcciarsi con il cibo.
<< Allora Arya, ti piace Sidney? >> le chiede Calum dividendo un piatto di patatine con Michael e Ash.
Lei sorride appena e annuisce piano.
<< Sono arrivata solo ieri e, per ora, non mi dispiace. >>
<< Certo un bel cambiamento dall'Alaska, eh? >> dice Ashton.
Lei annuisce e mangia ancora una foglia di insalata.
<< Beh, che ne dici se stasera usciamo e ti facciamo conoscere Sidney? >> domanda Calum.
<< Si, saremo le tue guide al divertimento del giovedì sera australiano. Tu che dici Luke? >> chiede Michael allegro.
Io sbuffo e annuisco.
<< Quanto entusiasmo Hemmings. Non sforzarti troppo di sembrare felice dell'idea. >> mi dice Ashton.
<< Non mi sembra che miss capelli turchesi sia molto emozionata di uscire con noi. >> rispondo acido.
<< Luke! >> mi rimprovera Calum.
Lei mi guarda accigliata e scuote la testa.
<< In realtà sarei felice di uscire con mister “LukesonoaffettodamaniedigigantismoHemmings” e i suoi amici normali. >> fa lei mangiando ancora un po'.
Ashton ride mentre Michael e Calum cercano di trattenersi.
Io la guardo stringendo gli occhi a fessura.
<< Ma sentila! Io non sono affetto da gigantismo. >>
<< Noooooo >> dicono in coro i miei tre amici per poi infine scoppiare a ridere.
Quegli stronzi.
Scuoto la testa e guardo Arya negli occhi. Mi guarda anche lei e non perdo il contatto coi suoi occhi.
La nuova arrivata deve capire chi comanda e che nessuno prende in giro Luke Hemmings.
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Arya's pov:

 

La mattinata passa in fretta e il pomeriggio con essa.

A cena mangio un po' più del solito e cerco di trattenermi dal rovesciare tutto una volta finito. Ci riesco ma una costante ansia e nausea mi perseguitano.

Torno in camera mia seguita da Michael e mi avvicino all'armadio per scegliere cosa indossare.

<< Scusa Luke. >> dice all'improvviso Michael.

Io mi volto aggrottando le sopracciglia confusa.

<< Per la sua maleducazione. Sa essere molto acido. >> si spiega.

Io rido innervosita al ricordo di quell'arrogante biondino.

<< Sa essere molto stronzo. >> lo correggo scegliendo un paio di jeggins strappati.

<< Si, lui è.…te l'ho detto che non è molto normale. >> risponde Michael avvicinandosi a me e frugando fra i miei vestiti.

<< Fai pure eh? >> dico divertita.

Lui alza le spalle e mi passa una canottiera col pizzo nero sulla schiena.

<< Questa? >> domando alzando l'indumento per farglielo vedere.

Lui annuisce e io sospiro andando in bagno per cambiarmi.

Mi vesto veloce e mi lavo i denti. Do una pettinata veloce ai capelli mossi e li lascio cadere sulle spalle che ho pensato bene di coprire con una camicetta nera in jeans.

Mi trucco con un filo di eyeliner e mascara ed esco tornando in camera.

Michael appena mi vede e sorride e alza i pollici in segno di approvazione.

Ricambio il sorriso e mi infilo le vans nere.

Prendo la borsa e usciamo salutando papà e Hanna.

 

Dopo circa 10 minuti di tragitto in macchina, Michael parcheggia la macchina in un viale costeggiato da una parte da palazzi e dall'altra da un parco.

In lontananza si vede l'oceano.

Scendiamo dalla macchina e ci avviciniamo ad un palazzo con un portiere all'uscita.

<< Sera George. >> lo saluta Michael.

Il portiere, vestito di tutto punto con un completo verde scuro e un sorriso gentile sul viso, ricambia il saluto e apre la porta per farci entrare.

La hall del palazzo in cui siamo entrata sembra quella di un hotel di lusso a cinque stelle. Mi guardo intorno.

Pavimento in marmo bianco, un tavolo rotondo con un vaso di fiori gialli nel centro dell'entrata. Quadri moderni appesi alle pareti decorano i muri color crema. Michael ed io ci avviciniamo all'ascensore accanto al quale c'è una tastiera dove Michael inserisce un codice.

Lo fa con tanta disinvoltura che mi fa capire le tante volte che è stato qui.

<< Cos'è questo posto? >> domando entrando nell'ascensore.

Michael sorride divertito della mia curiosità e preme il pulsante che ci porta verso l'ultimo piano dell'edificio. L'attico.

<< Uno dei condomini della zona più ricca di Sidney. Siamo quasi alla fine del viale in cui alloggiano i più importanti personaggi della città. >> risponde Michael.

<< Ah >> dico.

Lui ride e poi fra noi regna il silenzio. Io fisso il numerino rosso in cima alle porte dell'ascensore aspettando che compaia il numero 75.

68...70...73...74...75.

L'ascensore si ferma dolcemente e le porte si aprono su una grande sala con un enorme divano nero in pelle e una enorme vetrata che si affaccia sullo spettacolare skyline notturno di Sidney e sull'oceano.

<< Wow >> mi esce dalle labbra. Michael si sfila il giubbotto in pelle e lo appoggia sullo schienale del divano.

<< Che ci facciamo qui? Chi vive in questo posto? >> domando avvicinandomi alla parete di vetro.

<< Io. >> riecheggia una voce nella sala.

Mi volto e Luke Hemmings compare da un corridoio insieme a Calum e Ashton.

Sul suo viso un sorrisetto divertito.

“Dio, quanto vorrei levargli quel sorrisetto scemo con un ceffone”

<< Ciao Arya! >> mi salutano gli altri due.

Io ricambio con un cenno della mano.

<< Sul serio vivi qui? >> domando una seconda volta.

Luke alza gli occhi al cielo irritato e mi si avvicina mentre Ash e Calum si siedono sul divano con Michael e iniziano a chiacchierare.

Luke mi guarda dando le spalle agli altri tre.

Mi mette in soggezione. Però i suoi occhi...

Scuoto la testa e inizio a guardare fuori.

<< Ti sorprende il fatto che io sia ricco? Non l'avresti mai detto vero? >> dice lui con una punta d'odio nella voce.

Lo guardo.

<< Ti ho solo chiesto se vivevi qui. Sai, da dove vengo io non ci sono molti diciassettenni che abitano in un attico con vista sull'oceano. >> rispondo schietta.

Lui ride e si passa una mano fra i capelli chiari.

<< Beh, ora ne conosci uno. Dovresti ritenerti fortunata. >>

Sospiro irritata dal suo comportamento.

Stronzo vanitoso.

<< Si. Che fortuna! >> dico sarcastica allontanandomi.

Lui sospira fra i denti.

<< Dovresti imparare a non rispondermi in questo modo, Arya Greenwood o come cavolo ti chiami. >> risponde lui seguendomi.

<< Greywolf. >> lo correggo voltandomi.

<< Si fa lo stesso. >> dice lui piano.

<< Presuntuoso. >> dico sottovoce.

Lui socchiude gli occhi.

Cazzo, mi ha sentita!

<< Come mi hai chiamato, scusa? >> domanda arrabbiato.

Io lo guardo sorridendo sfacciata.

<< Presuntuoso. Ecco cosa sei Hemmings, un ragazzino presuntuoso. >> gli dico alzando la voce e catturando l'attenzione degli altri tre ragazzi.

<< Che succede? >> domanda Calum aggrottando le sopracciglia.

Luke ridacchia e si prende tra i denti il piercing sul labbro inferiore.

<< Succede che miss perfezione mi dà dello stronzo presuntuoso. >>

<< In realtà stronzo non te l'ho detto, ma l'hai capito da solo. Bravo! >> rispondo facendolo imbufalire.

<< Ahaha simpatica! >> risponde appoggiando le mani sui fianchi.

<< Uuuh, calmiamoci eh ragazzi. >> ci dice Ashton venendo verso di noi e mettendo una mano sulle spalle di entrambi. << Che ne dite di cercare di non litigare? >> ci chiede.

<< Che vuoi da me? È lei che ha cominciato! >> risponde Luke guardando male l'amico.

Io strabuzzo gli occhi incredula.

<< Io?! Ma piantala! Sei tu quello che mi ha risposto male! Io ti ho solo fatto una domanda. >> dico incrociando le braccia al petto incazzata.

Lui mi punta gli occhi addosso con tanto odio da farmi ribaltare lo stomaco fino a farmi tornare la nausea.

Respiro forte cercando di controllarmi e non vomitargli sui piedi.

Anche se gli starebbe bene a questo bastardo un po' di vomito sulle scarpe nuove!

<< Sei incredibilmente antipatica! >> mi urla lui.

<< E tu sei un grandissimo stronzo! >> ribatto facendo ridere Michael e Ash.

Luke mi guarda a bocca aperta.

<< Incredibile! Sei... aaaah! Noi due non andremo mai d'accordo! >> dice lui alzando le braccia al cielo e allentandosi.

<< Si, sono d'accordo. >> rispondo andandomi a sedere sul divano.

<< Meglio ignorarci allora. >> dice lui seccato.

<< Bene! >> rispondo guardandolo.

Lui ricambia lo sguardo.

<< Bene! >> replica sedendosi su una poltrona poco distante.

Nessuno parla per alcuni secondi.

Poi Michael si tira su in piedi.

<< Allora, direi che dobbiamo riscaldare un po' l'ambiente. Che ne dite di una partitina a Guitar Hero? >> propone Michael sorridendo.

Ash e Cal annuiscono chiacchierando.

Luke ed io invece ce ne stiamo in silenzio a fulminarci con lo sguardo.

Odioso. Odioso Hemmings.

Poi vedo una espressione divertita sul viso e un risolino echeggiare in aria.

Piego la testa e vedo che mi sta ancora fissando.

<< Cosa c'è? Che hai da ridere? >> domando seccata.

Lui ridacchia e poi si morde il labbro.

<< Sai, quando ti incazzi sei proprio carina, nonostante il colorito cadaverico. >>

Quella risposta mi fa perdere anche quel poco di rossore che mi era salito in viso per la litigata e un altro pezzo di ghiaccio si era formato sul mio cuore.

La nausea e la voglia di crollare ancora ritornano in superficie.

La vista mi si annebbia a causa delle lacrime e il mio stomaco non ce la fa più.

Con la coda dell'occhio vedo Cal, Ashton e Michael giocare spensierati e invidio la loro voglia di vivere. Quella che io sto perdendo, anche adesso.

Guardo Luke negli occhi e la sua espressione divertita muta in una smorfia confusa e quasi preoccupata, oserei dire.

<< Posso usare un secondo il bagno? >> gli chiedo.

Lui annuisce.

<< Si, è.… è in fondo al corridoio. Vuoi che... >> Prima che finisca la frase io mi sono già alzata dal divano e sto percorrendo il corridoio.

Apro la porta, entro in bagno e mi chiudo a chiave, prima di buttarmi sul wc e buttare fuori da me tutto l'orrore di quel mio giorno vissuto in un corpo imperfetto.

Prendo un pezzo di carta e mi pulisco le labbra. Segue qualche conato ma non succede niente. Così mi alzo con le lacrime agli occhi e tiro l'acqua.

Poi mi avvicino al lavandino, mi sciacquo la bocca.

I miei occhi si fissano sul mio riflesso nello specchio. Ogni giorno mi vedo sempre più brutta e ogni giorno sento l'incredibile desiderio di farmi male fino a finirla per sempre.

Istintivamente una mano si fa largo nella tasca del giubbetto di jeans.

Estraggo la lametta che mi aiuta e mi distrugge contemporaneamente.

Alzo la manica della giacca e sospiro prima di premere la lametta sulla pelle chiara del mio avambraccio.

Stringo gli occhi. Fa male. Fa sempre male, ogni volta. Ma preferisco questo dolore a quello che mi infligge il mondo ogni giorno.

<< Ah. >> esclamo e getto la lametta insanguinata nel lavandino.

Mi porto una mano sul taglio e poi prendo un pezzo di carta e tampono finché il sangue non si ferma.

Getto la carta nel water e tiro l'acqua, poi ripulisco la lametta e mi lavo le mani.

Mi guardo un'ultima volta allo specchio. Ripongo il mio strumento, faccio scattare la serratura della porta e torno in salotto dagli altri fingendo un sorrido al quale credono quasi tutti. Tutti tranne Luke.

 

 

 

 

 

 

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