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Autore: GioRavenlcaw_    07/05/2018    1 recensioni
Arya ha sedici anni e una vita tutt'altro che semplice. Dopo essere stata coinvolta in un incidente, subito un grave lutto ed essere caduta in uno stato di depressione sia fisica che psicologica, sua madre e i medici che l'hanno in cura, ritengono che per lei sia opportuno cambiare vita. E' così che finisce col trasferirsi da suo padre a Sidney, dove questi ha iniziato una nuova vita con la compagna e il figlio di lei.
Arya si sente fuori luogo ovunque si trovi e una nuova realtà non è quello che sperava per la sua vita. Ma l'incontro con un gruppo di ragazzi, l'aria dell'Australia, l'amicizia e l'amore faranno sì che rimetta in discussione la sua vita o quel che rimane di essa.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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PRIMA CHE INIZIATE A LEGGERE, CI TENEVO A INFORMARVI CHE E' PARECCHIO TEMPO CHE NON USO QUESTO SITO E CHE QUINDI SONO UN PO' ARRUGGINITA. ABBIATE PIETA' SE COMBINO QUALCHE DANNO.

VOLEVO POI FARE UNA PRECISAZIONE SULLA STORIA. "BLUE" E' UNA STORIA A CUI TENGO MOLTISSIMO E CHE HO INIZIATO A SCRIVERE TRE ANNI E MEZZO FA. E' GIA' STATA IN PARTE PUBBLICATA SULLA MIA PAGINA FACEBOOK (SU CUI TROVATE ANCHE ALTRE MIE STORIE PUBBLICATE QUI E IN ALTRI SITI) E SU WATTPAD. PURTROPPO CON QUEST'ULTIMO SITO HO AVUTO PARECCHI PROBLEMI NEGLI ULTIMI DUE ANNI ED E' PER QUESTO CHE HO DECISO DI PORTARVELA QUI, DOVE TUTTO E' INIZIATO. PER CHI L'AVESSE GIA' LETTA ALTROVE, CI TENEVO A INFORMARVI CHE HO ACCORCIATO I CAPITOLI E LI HO SPEZZATI PER RENDERLI MENO ABBONDANTI E SCORREVOLI. DETTO QUESTO, SPERO CHE LA STORIA VI PIACCIA E NON POSSO FARE ALTRO SE NON AUGURARVI UNA BUONA LETTURA :)






Guardo il riflesso di un paio di occhi verdi in uno specchio che odio. Guardo un paio d'occhi che non vedono nulla se non un viso stanco e smagrito. Che vedono due iridi che potrebbero brillare di luce propria come le stelle, invece sono cupi, cupi come l'anima che abita il corpo magro, pallido e rovinato della ragazza che si sta fissando in quello specchio.

Questo è il mio riflesso. Questa sono io. Sono io e mi odio. Mi odio come nessuno mi ha mai odiato. Mi fa schifo tutto di me. La mia faccia, i miei arti lunghi rovinati da me stessa, odio questi fianchi spigolosi che non saranno mai abbastanza magri, nemmeno quando di me non resteranno che ossa in una tomba e tutto questo odio finalmente se ne andrà via da me e tutto potrà finire.

Perché io in questa tomba, nella quiete che segue la tempesta che è la mia vita, ho cercato di andarci più di una volta. Ho cercato di porre fine alle mie sofferenze, ci ho provato. Ma me l'hanno impedito. E io lo detesto. Detesto i medici, gli assistenti sociali, detesto mia madre che mi ha bloccato la strada verso l'abisso perfetto troppe volte.

Sono stanca. Stanca di vivere in questo mondo abitato da uomini che non si accorgono del male che provocano, stanca di vivere senza persone di cui necessito la presenza. Sono stanca. Troppo stanca.

Vorrei che tutto ciò finisse e terminasse, vorrei solamente inghiottire un flacone di pillole e addormentarmi senza svegliarmi più.

Lo vorrei tanto. Dormire per sempre, senza più pensare, respirare, preoccuparsi degli altri.

Vorrei solamente andarmene. Vorrei solamente morire.

Tanto sarebbe dovuto accadere comunque. Perché non ora? Perché non adesso, in un corpo distrutto di sedicenne?

Tanto la mia intera esistenza si è spenta mesi fa, il giorno in cui sarei dovuta andarmene all'altro mondo e tanti saluti. Invece eccomi qui. Un cadavere che cammina.

Sarei dovuta morire il 13 febbraio. Se fosse successo, ora sarei sotto terra, in una fredda bara di legno chiaro, coperta da un abito nero che prima del mio primo tentativo di suicidio avevo comprato per indossarlo una volta morta. Starei benissimo con quell'abito addosso in una bara rivestita da un soffice tessuto bianco. Ma il fatto che ora io stia qui a parlare della mia insulsa vita segnala il fatto che non indosso quel vestito e che non sono sdraiata con le mani giunte e con un rosario fra esse, che non mi trovo nella mia dimora eterna.

Infatti mi ritrovo qui, nel bagno angusto e troppo piccolo di casa mia in Alaska, appena uscita dalla doccia dove non funziona l'acqua calda da settimane.

Fisso i miei zigomi sporgenti mentre mi levo dalla testa l'asciugamano che nasconde i miei folti capelli lunghi.

Questi ricadono sulle mie spalle nude e sorrido appena nel vederne il colore.

I miei capelli sono di un blu elettrico e bagnato che risalta sulla pelle fredda e diafana.

Ecco, forse i capelli che ho ora sono l'unica cosa che di me mi piace. Li ho tinti senza il permesso di mia madre. Non mi importa. Il blu mi piace di più in confronto al biondo cenere naturale ereditato da mio padre.

Li asciugo con calma, con cura estrema e quando li guardo soffici e lucenti nello specchio, sento di essere ancora un po' amante di me stessa. Quel poco di cui ho bisogno per affrontare il viaggio che mi porterà a casa di mio padre, a Sidney, Australia.

I medici e tutti coloro che stanno cercando di tenermi ancora in vita, hanno pensato che cambiare aria per un po' mi possa fare bene. Io non sono della loro idea, ma non ho scelta. Partirò fra poche ore e l'idea di lasciare il freddo dell'Alaska mi fa stare ancora più male. Voglio essere a casa mia quando morirò e l'Australia non è la mia casa. Io devo rimanere qui. Ne ho bisogno anche se tutti sono così ostinati a farmi restare in questo posto chiamato mondo, ma non lo capiscono.

Prendo una pinzetta a forma di gufo e me la sistemo fra i capelli.

È un regalo. IL regalo. L'ultimo che mi ha fatto. L'ultimo che ho veramente amato prima di entrare in questo tunnel senza uscita.

Esco dal bagno e attraverso il piccolo e stretto corridoio che lo separa dalla mia stanza. Un buco con un letto scassato, un armadio graffiato e una carta da parati rosa strappata un po' ovunque.

Apro l'armadio e mi vesto.

Lo specchio rotto è ancora appeso nell'anta del guardaroba di pino e ancora una volta il fantasma di una ragazza in corsa per l'Inferno vi è riflesso dentro.

La crepa si forma proprio all'altezza del mio viso. Meglio così. Meglio non guardarlo troppo a lungo.

Mi stringo nella felpa grigia e osservo le gambe magre, ma non ancora abbastanza.

Poi chiudo di botto l'anta e torno in bagno. Mi chiudo a chiave.

Apro l'acqua del lavandino e della doccia al getto massimo e mi inginocchio a terra accanto al wc. Mi porto due dita alle labbra e me le infilo in gola. Vomito quel poco di acqua e di cibo ingoiato a forza quella mattina. Lo faccio tutti i giorni. Tutte le mattine, tutte le sere, in ogni momento in cui sento il bisogno di farlo.

E anche questo che quei bastardi dei medici stanno cercando di guarire. Mi alzo e tiro l'acqua. Mi avvicino al lavandino e mi risciacquo la bocca.

Poi cerco la bilancia che mia madre ha pensato bene di nascondere dietro al mobiletto del bagno che il suo nuovo compagno ha murato al muro.

Ci ho messo due notti a cercare di spostarlo quel poco affinché riuscissi a prendere quel dannato oggetto.

Lo prendo e appoggiò a terra la bilancia. Ci salgo sopra e aspettò di vedere comparire un numero che continua a diminuire ogni settimana ma non mi soddisfa mai.

Quei 47 chili mi fanno schifo.

Mesi fa sono arrivata a pesarne 38, poi un giorno mi hanno ritrovata svenuta nel bagno della scuola. È stato lì che tutti si sono accorti del mio male.

Mi hanno costretto a vivere in un posto orribile, un centro di recupero dove mi hanno torturata a mangiare quantità esorbitanti di cibo. Una volta mi sono anche rifiutata, ma avrei voluto tanto non farlo. Mia madre ha firmato un foglio in cui vi era il permesso di nutrirmi attraverso una specie di tubo.

Alimentazione forzata. Ecco come la chiamano. Non la auguro a nessuno.

È stato uno di quei momenti in cui non desideravo altro che morire.

Rimetto la bilancia al suo posto ed esco dal bagno.

Sento qualcuno salire le scale e vedo mia madre, una donna di 48 anni, bellissima un tempo, ma che ora nasconde dietro un sorriso un dolore estremamente forte.

Dal “Giorno ingiusto”, così chiamo il 13 febbraio, la sua faccia era diventata un viso afflitto dal male, dalle lacrime, dalla stanchezza. È invecchiata troppo in fretta.

Ed io mi odio anche per questo.

<< Ciao. >> la saluto sorridendole appena.

Lei ricambia e viene a darmi un bacio sulla fronte.

<< Ciao tesoro mio, come stai oggi? >> mi domanda stringendo le mie esili spalle nella sua stretta forte.

<< Bene. Sto bene. >> mento.

<< Pronta per partire? Le tue valigie? >>

<< In camera. Vado a prenderle. >> dico.

Corro in camera e recupero il borsone giallo e blu con i vestiti che ho deciso di portarmi da mio padre e lo zaino verde scuro contenente i miei segreti.

Esco dalla mia stanza senza degnarla di uno sguardo. Quel posto contiene solo dispiaceri.

Sorrido a mia mamma che intanto mi ha raggiunto sulla porta, le passo il borsone e scendiamo le scale, usciamo sul piccolo giardino, fiorito solo in questi pochi mesi estivi.

Mamma apre il bagaglio della Dacia rosso scuro. Guardo un'ultima volta quella casa che mi ha accolto per tutta la mia vita e poi salgo in macchina e parto verso il piccolo aeroporto della mia città senza mai voltarmi indietro.
 
 
 
 
 
 
 
Sono sul secondo aereo. Il primo mi è servito per arrivare a Seattle. Ora sono diretta a Sidney. Non ci sarà più la terra sotto i miei piedi per un bel po' e io continuo a sperare in un guasto del motore o in un dirottamento che ci farà morire tutti. Almeno, una volta morta, non dovrò più subirmi gli sguardi languidi dello schifoso americano dai capelli scuri e unti seduto a pochi sedili da me.

Alzo un sopracciglio e mi infilò le cuffie. Guardo un film orrendo mentre volo verso un posto che odierò. Non ho idea di quante ore passano, so solo che mi sono addormentata con il cielo che iniziava a schiarirsi ed ora fuori è scuro.

Mi sistemo meglio sul sedile stirandomi e mi accorgo che un'assistente di volo mi ha messo addosso una coperta verde scuro con il logo della compagnia aerea. Mi piacciono le assistenti di volo. Sono persone che si preoccupano degli altri, anche se non sanno chi sono.

Mi guardo intorno e vedo che molta gente si sta svegliando come me e, come me, sembra un po' sperduta.

Dovremmo essere quasi arrivati. Il segnale luminoso che ci invita ad allacciarci le cinture di sicurezza per l'atterraggio e il messaggio che segue mi danno conferma che stiamo per atterrare sulla pista dell'aeroporto di Sidney.

Mi allacciò la cintura e intanto mi apro una gomma da masticare per evitare il terribile fischio d'orecchi che segna sempre un atterraggio.

Io intanto guardo fuori dal finestrino.

Luci di palazzi, macchine, locali e il deserto all'orizzonte mi danno una veduta notturna della mia nuova casa.

L'Australia. Io, abituata a distese innevate e al freddo polare dell'Alaska, ad andare a dormire con ancora il sole alto, in questo posto buio, circondato da distese di terra e dall'Oceano non c'entro proprio nulla.

Mi rassegno al fatto che non potrò più tornare nella mia casetta col piccolo giardino fiorito in estate, con la mia camera e il mio specchio rotto nell'armadio.

Non potrò tornarci. Se non da morta.

Vedo la pista di atterraggio avvicinarsi e con un colpo, il carrellino dell'aereo tocca terra e cominciamo a perdere velocità. Ci stiamo fermando. E con l'aereo mi sto fermando anche io.

Io, Arya Greywolf, 16 anni compiuti il 15 Gennaio, bulimica, anoressica e autolesionista, reduce di 2 tentativi di suicidio non andati a buon fine, sono a Sidney. E non mi piace per niente.
 
 
 


Arrivo in aeroporto all'uscita del mio imbarco, con lo zaino in spalla, i capelli blu appena tinti legati in una treccia fatta male sul lato.

Cerco con gli occhi l'uomo che dovrebbe venirmi a prendere come un pacco postale, senza troppa attenzione.

Poi lo riconosco dal cartello col mio nome e cognome scritto in orrenda grafia su un foglio bianco stropicciato.

Mio padre mi riconosce tra la folla e mi sorride.

Io mi avvicino a lui ma non ricambio il sorriso.

Quando mi vede avvicinarmi sballotta da una parte all'altra alcuni uomini e donne che gli urlano nomi non molto gradevoli.

Lui se ne frega e mi prende in braccio facendomi cadere lo zaino dalle spalle.

Meccanicamente gli porto le braccia al collo e mi aggrappo a lui intrecciando le gambe intorno alla sua vita.

Chiudo gli occhi e respiro il suo profumo dolce e pungente, il profumo che ha sempre avuto, il profumo che mi ha accompagnato nel lungo cammino che è la vita fino ai miei 14 anni, quando lui e mamma hanno divorziato.

Lui mi accarezza la schiena e lo sento rabbrividire quando al tatto riconosce le vertebre che si possono toccare perfettamente sulla mia spina dorsale.

Effetto collaterale dell'anoressia: posso vedere le mie ossa prima di morire.

Lo stringo più forte sperando che la smetta di pensare troppo alla mia schiena magra e lui lo fa. Sospiro sollevata.

<< Mi sei mancata Arya. >> mi sussurra mio padre all'orecchio.

Gli passo una mano sui capelli biondo cenere che gli ricadono sulle spalle e li tiro appena.

<< Anche tu papà. >> rispondo.

Lui mi stringe ancora un po' e poi mi rimette a terra. Sorride sfiorandomi i capelli.

<< Blu? >> domanda prendendo la treccia fra le mani.

<< Volevo cambiare. >> mi giustifico.

Lui soffoca una risata e annuisce.

Andiamo a recuperare il mio borsone e poi usciamo dall'aeroporto.

Il fuso orario mi mette un po' di mal di testa e mi scombussola un poco ma cerco di riprendermi.

Papà mi accompagna alla sua auto, una Volvo, e saliamo diretti nel traffico della Sidney notturna.

Io mi fisso le mani mentre papà guida puntando ogni tanto un'occhiata nella mia direzione.

Non lo vedo da quel giorno. Il giorno maledetto.

La macchina svolta a destra e imbocchiamo una strada con molte casette a schiera nella periferia della città. Abbasso il finestrino e annuso l'aria. Riesco a sentire l'odore del mare. Oh il mare. Forse sarà una delle poche cose che mi mancheranno quando morirò. Anzi, forse non ne sentirò così tanto la mancanza. In fondo, quando si muore non si sente più nulla.

Si muore e basta.

La Volvo di mio padre si ferma sul vialetto di una villetta a schiera più bella e grande. Spegne il motore, si slaccia la cintura e mi guarda cercando di sorridere.

<< Stai bene, Arya? >> mi domanda.

<< Sono solo un po'... sai, il cambio d'ora. Mi ci devo ancora abituare. >> rispondo.

Lui sorride e annuisce.

<< Si, capisco. Domani andrà un po' meglio vedrai. >> dice.

Usciamo dall'auto, prendiamo il mio bagaglio ed entriamo in casa.

È una casa bella, grande, accogliente. Odora di pace. So benissimo che a renderla tale non è mio padre ma la sua nuova compagna.

È suo figlio.

Il figlio che mi ha rimpiazzato, in un certo senso, nella vita quotidiana di mio padre.

È quel figlio è proprio e a pochi metri da me, seduto sul divano del salotto che si unisce all'entrata.

E mi sta fissando.

Deve avere uno o due anni in più di me. Si alza sorridendo un po' imbarazzato e si avvicina salutando mio padre con un “Ciao Ed!” e poi mi guarda gentile.

È più alto di me, non molto muscoloso ma nemmeno mingherlino, un tipo normale insomma, due paia di occhi chiari gli accendono il viso e sorrido divertita quando mi accorgo dei suoi capelli. Sono verdi. Un verde acceso, un verde mela.

Un bel colore.

Mi porge la mano e io gliela stringo sorridendo.

<< Ehm... Io sono Michael, il figliastro di tuo padre. Quindi potrei considerarti una sorellastra. >> dice divertito.

Lo guardo divertita.

<< Si, è il termine corretto. Puoi chiamarmi semplicemente Arya, comunque. >> rispondo.

Papà ci sorride e chiede a Michael di mostrarmi la mia camera.

Saliamo al primo piano della villetta e Michael mi conduce in un corridoio stretto con due stanze, una di fronte all'altra. Lui apre una porta in legno blu scuro col mio nome in lettere dorate scritto sopra.

Michael si accorge che sto fissando la scritta e sorride.

<< Mia madre ha pensato che ti sarebbe piaciuta una stanza fatta apposta per te. La cosa del nome sulla porta è una sua abitudine da molto tempo. Ti accorgerai che ogni stanza ha una scritta sulla porta. Non sapeva se ti piacesse una citazione in particolare e così ha messo il tuo nome. >>

<< E sulla tua che c'è scritto? >> domando.

Lui ride e con un cenno della testa mi indica la porta di fronte alla mia.

È sempre in legno, marrone scuro, colma di adesivi di gruppi rock e frasi di canzoni che non conosco. Poi in cima c'è un cartello rosso con una scritta bianca che recita “PERICOLO DI MORTE. VIETATO L'ACCESSO AGLI ADULTI.”

Soffoco una risata alla vista di quella scritta e scuoto la testa.

Michael fa spallucce e apre la porta della mia nuova camera.

Non è molto grande, ha un letto ad una piazza e mezza con lenzuola blu e qualche pupazzo manga che lo addobbano, un comodino con una lampada bianca, un armadio con ante scorrevoli, un comò di legno antico restaurato e dipinto di blu e bianco. Per terra c'è un semplice tappeto grigio e una porta dà l'accesso ad un bagno con vasca e doccia e un lavandino molto moderni.

Non ho mai avuto un bagno tutto mio. Questa è la prima volta.

Guardo Michael che intanto si è seduto sul bordo del mio letto.

Mi sta fissando. Ma non come di solito fa la gente. La gente mi guarda perché sono magra, un magro malato. Lui invece ha un'aria incuriosita, quasi come se volesse farmi una domanda.

<< Grazie, per avermi mostrato la stanza. >> dico.

Lui fa di nuovo spallucce e nasconde le mani nelle tasche della felpa nera continuando a fissarmi.

Onestamente, non mi dà fastidio che lui mi fissi in quel modo. Ho visto tanti di quegli sguardi afflitti e in pena per me che vedere qualcuno che mi guarda con una certa curiosità mi fa stare un po' meglio.

Mi avvicino a lui alzando con la poca forza che ho il borsone e lo butto sul letto.

Lo apro e inizio a mettere a posto la mia roba sotto gli occhi attenti di Michael.

<< Quanti anni hai? >> mi domanda.

Io apro l'armadio e appendo i jeans mentre mi volto a guardarlo.

<< 16. Tu? >> domando.

<< 17 >> risponde.

Sorrido e lui ricambia.

<< Mi piacciono molto i tuoi capelli. >> dice poi.

<< Grazie, li ho tinti stamattina. Anche i tuoi sono belli. >> gli dico andando verso di lui per prendere delle t-shirt da riporre nell'armadio.

<< Grazie, sei gentile. Mia madre odia il fatto che io mi tinga i capelli con questi colori strani. >>

<< Tua testa, tue scelte. >> gli rispondo.

Accaldata, mi alzo le maniche della felpa scoprendo gli avambracci e mi scosto i capelli tinti dietro l'orecchio.

Torno verso l'armadio ma quando mi volto vedo che la testa di Michael è piegata in un gesto interrogativo e mi sta fissando le braccia.

Mi accorgo delle conseguenze del mio gesto e abbasso le maniche per coprire le cicatrici dei tagli da me stessa inflittami.

Lui si acciglia al mio gesto.

Finisco di svuotare il borsone e lo butto sotto il letto.

<< Sei stanca? >> mi chiede quando mi siedo accanto a lui sospirando.

Annuisco e lui sorride.

È un ragazzo gentile questo Michael.

<< Domani sarà una giornata dura a scuola. Il primo giorno non è mai facile. Tranquilla ci sarò io a darti una mano. Ma non pensare di chiedermi aiuto in matematica, faccio schifo in quella. >> dice facendomi ridere appena.

<< Tranquillo, io... sono più il tipo che non ama fare amicizie. Non attiro molto l'attenzione. >> rispondo.

Lui mi guarda corrugando la fronte.

<< Non puoi non avere amici a sedici anni. È una vita orribile quella senza amici. Insomma, è da suicidio. >> dice lui.

Io sorrido amareggiata da quella frase e mi rendo conto di quanto questo sia vero.



 
 
 
 
   
 
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