Magna Mater

di _Maeve_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Elegia per Salvatore ***
Capitolo 2: *** Giardino, al mattino ***
Capitolo 3: *** Festa d'Estate ***
Capitolo 4: *** Promontori fenici ***
Capitolo 5: *** Mater, I ***
Capitolo 6: *** Storie vere ***



Capitolo 1
*** Elegia per Salvatore ***


mm


Magna Mater










Elegia per Salvatore


Il lenzuolo sta lì, disteso nel prato.
Dietro le porte chiuse delle stalle
si scarmiglia un belare cieco.
Sul prato che si rigonfia di polpa di lime
s'impiluccano insetti
colati impietosi da un sole vulcanico, e prima del prato
stanno lì le colline,in latteo silenzio
che filosofeggiano.
Salvatore lui pure c'è stato, prima del lenzuolo:
era disteso come un pastore
e non come adesso
come legno secco,stramazzato al suolo mentre
quattro pallide figure di umani, soli, dispongono di lui
come d'un segreto.
I campi che ha attorno lo guardano
ossessivi, fin su al limitare dei salici
 inghiottono, barbari;
distanti incommensurabili buchi neri
da oltremondi contenti, cinerei, spenti
che prosperano proprio sulla clausura di quella terra,
sul suo bavaglio di vergine madre
vestale; ecco che
la voce arrochita dai tempi
diventa una voce funerea:
sprofonda il pastore al di sotto del tartaro,
ricuce la faglia e poi tace,
e assai poco o nulla essa chiede.








Note (se credete)
Questo pomposo progetto era nella mia testa da un po', e ora, mi auguro in maniera non troppo presuntuosa, ha preso finalmente forma. Magna Mater è tutto (o quasi) ciò che ho scritto nell'introduzione, che ho lasciato volutamente semi-neutra per non trarre in inganno circa i toni che potrà assumere la poesia di volta in volta, tanto "cibeliani" quanto virginei - per cui rimando alle spiegazioni da dare di volta in volta, ho appuntato fin troppe cose che vi sembrerebbero esemplificazioni un po' troppo manualistiche e arroganti, persino per me, ma credo sia l'inevitabile conseguenza del fare dell'umile letteratura mentre si studia la Letteratura vera. Mi auguro comunque di essere stata, pur nella mia cripticità in qualche modo inevitabile, sufficientemente chiara (donde ancora una volta l'introduzione abbastanza lineare) e sufficientemente ottimista, e sufficientemente originale: gli echi sono sì, di nuovo, letterari, ma sono piegati per far da cornice a quelle sensazioni e a quelle frustrazioni che mi avete visto forse esprimere altrove, quel senso inappagato di appartenenza in cerca di un assoluto che non le compete. Ecco, questa è la la ricerca.
Elegia Per Salvatore è tratta da una storia vera, e non è finzione. E' il primo quadro di campagna che vi presento, e che disgraziatamente viene a configurarsi come una campagna nera, che nella propria luminosità abbagliante e selettiva piange i suoi morti dimenticati dalla civiltà (ed era poi questo il senso della triste vicenda) - ma, anche se la civiltà opaca e spenta (o è la natura a esserlo?) avesse voluto piangerli, siamo sicuri che lo avrebbe potuto fare? La campagna è anche questa: l'esclusione incolpevole, perchè siamo nati nel momento e nel posto sbagliati, o perché ci sono nati gli altri. Mi auguro che i versi siano abbastanza bilanciati.
Per il resto, se avrete dubbi o critiche, sarò qui, a monologare come sempre. Vorrei dirvi, al solito, tante cose, ma meglio fermarsi. A presto.

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Capitolo 2
*** Giardino, al mattino ***


giardino, al mattino



Giardino, al mattino


C'è una strana poesia.
Un cinguettio sciolto, da qualche parte,
nell'etere a coriandoli baby blue 
oltre il ficus non ancora affumicato
dallo squarcio nel mezzo del giorno -
è il mattino,e lo specchio dell'acqua
impastata di torba nel suo battistero;
la chiamano con voci di ninfa le conche dei vasi
esplodendo basilico in ciuffi
e la menta ostile -
e quinci piastrelle idilliche,
piovute dalla cancellata, a incipriata,
dove riesce a stormire il rosmarino.
E' chiaro, è il vento: sussulta il giardino,
Nausicaa ondeggiante,e sospira
l'anelito ctonio e azzurro del ventre
vorrebbe -  respira - che il cuore le si infittisse di selva
odorosa d'unguenti
di uno stesso giardino, alla sera.





Note
Ritorno a sei giorni dalla precedente, in un ritmo che spero possa consolidarsi. Questa poesia ha toni meno aspri della prima, è più uno "spaccato botanico" risultato di una sensazione reale, con qualche implicazione altra, che siete liberi di cogliere.  Ho cambiato qualcosa, rispetto a una prima stesura, consonanze "ideali" di termini e punteggiatura che desse meglio conto dell'ondeggiare dei versi. E nulla, piccola oasi in mezzo agli studi, che già mi porterebbero a scrivere di cose più atroci. Ma lasciamo questa qui, come una mini-sequenza descrittiva spiovente, per una natura che stavolta è urbanizzata, ma non meno dolce e nostalgica. Rin grazio tutti quelli che hanno letto.
A presto.



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Capitolo 3
*** Festa d'Estate ***


festa

Festa d'Estate


Il crepuscolo dell'eucalipto sta lì a verdeggiare nel buio
e dai finestrini scossi il profumo violento della savana
si sprigiona dalla spianata – non dorme mai.
Il borgo fa finta: finge le sue luminarie a ridosso degli architravi,
erra emergendo dalle viscere ascose della campagna come Atlantide,
sbaglia, inganna, giacché lui non è lì.
Ma sta nelle pietre. Sussurrano sulfuree quelle che mettono
alle case dei vecchi, con le loro facciate chiuse, le ringhiere disossate
(un tempo ci andava a giocare qualche bambino), le corti vacanti;
serpeggia nel reticolo di quelle vie pregno di storia estranea,
fino al castello, trionfo superbo della muratura.
Oh, di giorno si ritufferà nel Mediterraneo, nella caligine
da massacro, per ricordarmi quanto non sono in grado,
farà agguati dietro gli angoli torridi, di quelli che strozzano le spose in Agosto -
sempre, sempre arrivare il tramonto!e il bel manto
di un solo solitario nella vallata del cielo, che affusoli le dune
e la fatal quiete, e le parole; e riesca a non dire più niente,
fuorché pace.





Note
Poesia di più complessa gestazione della precedente, che era già bell'e pronta da prima che la trascrivessi (e no, non scrivo tutto a mano, per niente), e che risente di due indubbi fattori: 1) scrivere una raccolta senza un vero sviluppo narrativo - com'era quella di due Estati fa - che non annoi con insulse propaggini di sensazioni, e non perda mordente, non è semplice; 2) la poesia viene sempre diversa da come uno se la immaginava, a prescindere dagli schemi, e riesce sempre nel dire/non dire qualcosa di estraneo, fuori dal nostro controllo. Avevo infatti raccolto molte frasi gettate qua e là prima di descrivere questa esperienza (in effetti lo è), questa psiconarrazione un po' allucinata - ma mi auguro non troppo - , e ringrazio un amico per avermi 'prestato' l'immagine della casa della sua infanzia. Il resto è venuto da sè, in questa sera neanche troppo celatamente foscoliana (ma lo è diventata di sua sponte, giuro) che stavolta si oppone alla purezza del giorno, troppo accecante, troppo ossessivo, e si limita a respirare se stessa, sempre ammettendo che ci riesca, sempre sospesa al di fuori della storia che è estranea. Insomma, vi ho già detto fin troppo. Un ordine c'è, e non mi è sembrata neanche tanto simmetricamente (o anteticamente) distante da Giardino, al mattino. Unica nota veramente utile: fingere, errare, sbagliare, immaginateli in un climax di comune matrice etimologica sotto il segno del latino fallere, che è appunto sbagliare, (e quindi errare nel senso di divergere dalla retta via) , ma anche tradire, ingannare (Falsus è colui che dice e si comporta falsamente, e quindi inganna).
Ringrazio tutti quelli che leggono, comprese due gentili colleghe della cui presenza sono ben conscia. A presto. 

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Capitolo 4
*** Promontori fenici ***


sfraghìs
Promontori fenici


Il pomeriggio che viene giù piovigginoso
casca plumbeo sui travertini – li arrossa come licheni -,
lasciando questo lucore mogano affogato nella valle
d'irrobustito caseggiato che guarda al vitreo Marte;
il posto pullula di spifferi, di brezze tenui e di vicoli
che si ergono e stanno lavici, pre-temporali,
assistono catoniani allo sconcerto ombroso delle meridiane
sollazzati dal canto del cucù,e ti contano le rughe, contano i tuoi denti,
finché tu non conti più;

sai c'è una celeste pienezza di diaframma
a spalancarmi il torace di boria vacanziera,
inalare quell'aria che smuove granitica questa statura
e si rifrange sugli occhi della gente, come se camminassi nell'acqua
distante, Leuconoe per le strade di Cartagine;
alla sera le tue labbra sapranno di amaranto, e di carpe diem,
e se d'amore si può esplodere sui roghi siamo esplosi,
se c'è altro dietro queste montagne, dietro le trecce delle bimbe,
e il ventoso movimento della vita che trascorre.






Note
A molta distanza dalla precedente e ad una settimana esatta dall'inizio ufficiale delle vacanze, ritorno con questa poesia numero quattro, che è una sorta di "sugello" (anche se la regola classica vuole che sia apposto alla fine)  alla suddetta vacanza, una connotazione alla sua denotazione, come un vistoso riempimento di significato; se preferite, semplicemente trasposizione di una bella sensazione di "galleggiamento" in belle sensazioni - le case, oggetto antropico elevato per meriti morali alla statura delle eterne cose naturali che osservano neutre lo scorrere del tempo, le vecchie case che son lì da una vita e pertanto rifulgono di questa vetusta solidità, come querce; queste vie che diventano sentieri epici e fenici solcati però dalla bella Leuconoe ("Didone che visse", scrissi qualche anno fa) , e quindi quasi location effettiva di una placida elegia amorosa. La poesia a onor del vero è di qualche giorno fa come concept e primi versi, perché qualche giorno fa pioveva, ma le trecce delle bimbe ci si sono giustapposte solo in serata. Insomma, è un gran respiro positivo, che mi auguro possa continuare - per la vita, intendo; la poesia è altra storia. Spero/ritengo di, dopo essere arrivata alla veneranda quota quattro, di intraprendere qualche lirica più vicina alla prima, per torni e ambientazione, com'era già nel progetto iniziale e nel programma di ispirazioni che ho steso. Ci sarà qualche poesia 'narrativa', in pratica, ma per ora beccatevi questa, che è appunto un sugello, più o meno riuscito, ma ci voleva, dato il tempo trascorso. Buone vacanze a tutti, e (spero) a presto.

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Capitolo 5
*** Mater, I ***


mater I
Mater, I



Ha ancora un viso demetriesco:
stabat mater, dolorosa di sette figli
- il naso arcigno di chi è sceso nell'Ade
delle molteplici guerre, e dei lumi a petrolio;
il passato è una foto sbiancata dove rifulge lei bella
bella, quasi che la bellezza fosse un baluardo
in cui torcere i capelli e strozzarcisi, magari;
le gravitano attorno come tanti uccellacci che sibilano, sibilano
- sibili di terra straniera smozzicati fin ora tra le labbra,
l'arcano indugiare nel vuoto fisso di occhi che 'a forestiera
non piega a questi costumi di oggi così truci e selvaggi,
e a quell'amaralingua, che con la scusa vorrebbe impastàrciti;
sta lì nella sua rocca in penombra di grano, e la sala da ballo  
colorata d'Estate adesso è una stanza: ci latra un cane,
languisce l'Inverno, e figlia mia, come una madre...!
le mani rubate all'Inferno annaspano, artritiche,
cercando Persefone – e il senno è una terra straniera;
lei lo sa che son lì che aspettano, che l'hanno sempre aspettata,
tutti questi figli come tanti uccellacci e come gambi di piante
che soffochino la terra col nascere, e poi l'accusano di essere marcia.





Note
I numi tutelari della produttività e della 'vita vera' saranno contenti di questi tempi così disgraziatamente poco poetici, in cui le giornate sono fisicamente occupate e, fuor d'elucubrazione, le ispirazioni poetiche si riducono e si inseguono come queste comete post San Lorenzo in un cielo nuvoloso; da una parte dunque, sono contenta – se uno non ha tempo per pensarci, per 'ricamarci' sopra, vuol dire che va tutto bene, salvo qualche piccolo e sporadico pegno alla mia psiche sempre in cerca di passatempi freudiani - , d'altra parte avrei desiderato essere meno scostante a livello di scrittura, ma meglio tardi che mai, e soprattutto meglio assecondare l'ispirazione naturalmente, piuttosto che cavarla a forza fuori dai tubi della propria creatività come  oggetti estranei dai lavandini (?). Comunque, il pensiero a questa raccolta non è mancato nemmeno in questa abbondantissima settimana, e il progetti su questo quinto capitolo sono stati dei più diversi, fino a sboccare (com'era ovvio) in ciò che non avrei mai pensato, in un fuori programma su cui non sono stata più di un'ora.
Lasciandomi alle spalle pretese architetture interne un po' troppo aliene da me e dalla mia situazione presente (salvo l'aver rinominato il precedente capitolo, così già mi par meglio), ho deciso di dare libero sfogo o quasi all'inventiva del momento, cercando di farla collimare quantomeno col mio desiderio iniziale e programmatico di costruire, ove possibile e senza appesantire il tutto, il soggettivismo ecc ecc, una serie di ritratti più o meno estivi e più o meno ancorati sia ai miei schemi emotivi e poetici, che mi hanno accompagnato fin qui,  sia (direi soprattutto) all'idea di fondo della raccolta come da introduzione. In poche parole: dovevo iniziare in qualche modo, e questo è l'inizio. Sono abbastanza soddisfatta: il linguaggio è più semplice, più primo-novecentesco per certi aspetti (la conclusione è un'assonanza molto forzata, meglio dire che è un fulmen in clausola latino/pavesiano) , mi auguro mai banale. Mi auguro anche di aver saputo ben congegnare i rimandi interni nei versi: la figura di Demetra (scusate i neologismi), che stranamente fino a questo momento non mi era mai venuto di associare alla 'madre', assieme a questa Persefone vaga e inconscia, al tema dell'immigrazione che si mischia al folclore, disseminato qua e là, fino a giungere a un ripugno 'etnico-sociale' della comunità di non/finta accoglienza, la stessa che si sublima alla fine nelle immagini della vecchiaia e della malattia – sempre da interpretare, e volevo che questo fosse chiaro (paradossalmente) dal ritmo vagamente allucinato, ammutolito, che la poesia di tanto in tanto e più o meno simmetricamente assume.
Ora, di solito riservo queste note, come si vede, a una trattazione a metà fra il cinico (per ciò che riguarda le mie personali sensazioni metatestuali) e l'arido (come rischia di essere qualunque spiegazione che usi l'espressione ripugno etnico-sociale ) , perché il coinvolgimento circa la materia trattata lo riservo alla poesia, diciamo che ivi si esaurisce. Ma. Non è mai facile parlare di vecchiaia, di morte, di figli che soffochino le madri, delle colpe reciproche. E' sempre tutto un po' ambiguo come in poesia. Dovreste però sapere che quel 'figlia mia' mi è stato rivolto in circostanze dolci e tristi, e che questa mia inaspettata ultima è dedicata alla signora M.S, che è difficile che campi altri cent'anni, ma il mondo e la terra lo richiederebbero senz'altro. 
A presto.

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Capitolo 6
*** Storie vere ***


magna mater storie vere
Storie vere



A  G.C


Mamma ha negli occhi un fuoco che brucia gelido
e sterile, incartapecorito come la sua faccia
ora che è vecchia, ora che la vita le è passata addosso
come un camion sull’asfalto.
Dietro un bagliore lapislazzulo stanno arti che si contorcono
e sere-fiammelle così, congelate nel trauma dell’orrido
- ripete sempre le stesse storie, bambini che muoiono
in preda alle febbri, è un ritornello rotto che suo fratello liquida presto,
certe cose non le vuole sentire. La bocca di vecchia le trema.
Cavare fuori la vita dal tronco svuotato – essiccato – di un pioppo
è pericoloso. E quei bambini che soffocano le assillano i sogni e
le tirano   via    i    suoi
con gli artigli di demonietti capricciosi e perfidi, ormai dimentichi,
vorrebbero agguantare morti balocchi. Mentre lei si prosciuga in un letto
in un paese in cui non esiste l’inverno.
Mamma mi stringe e mi spinge via come un miracolo
(c’era un marito un padre una volta ma tanto tutti la lasciano)
e io sono bruna, torrida, forte e reggo i suoi arti di marmo
e i suoi occhi di specchio, le cambio il letto
bagnato, in cui è sicura stavolta che il suo turno è arrivato.






Note
Contro ogni pronostico sono qui, complice forse un'insperata apertura di stagione, decisamente post-feste e fuori tempo massimo per i new year's proposals, se vogliamo essere poco indulgenti, ma comunque qui. Nel turbinio di spremuta autocoscienza che mi era preso tra ottobre e dicembre mi pareva che l'idea al fondo di Magna Mater fosse lontana da me, distante dai miei fanciulleschi propositi ctoni. E anche da uno stile che sentivo di dover cambiare e che mi preoccupavo di cambiare, in meglio. L'unica poesia che mi son decisa a pubblicare a dicembre forse è stata un'involuzione, ma forse anche ai grandi poeti erano congeniali, le involuzioni e i ripensamenti. Con la prima di Gennaio sono riuscita a sollevare me stessa dall'incubo del dovere, scrivendo per puro piacere e soddisfazione di scrivere. E poi ho pensato: Magna Mater. Non c'è scritto da nessuna parte che è una raccolta estiva. Le Storie Vere sono storie estive, indubbiamente, e sono andate a parare un po' dove non avevo previsto, riprendendo in automatico i temi dell'ultimo capitolo: donna - maternità - pazzia femminile come colpa. Non so perché tali temi mi attraggano. Semplice foga da bardo scalcagnato? Comunque, anche se forse non credo più alla Terra con l'abnegazione risorgimentale che avevo prima (e quindi non so se questa mia prova possa essere giudicata sottotono, messa lì per puntiglio, o non so come), penso che volerci scrivere  su basti, perché la poesia è (anche) uno spazio per recuperare vecchi ideali, per trasmutarli e calarli in nuove vesti, come disse qualcuno. Quindi stile 'rilassato'. E sinceramente mi piace.
Spero anche a chi segue la raccolta, un po'. Non giudicatemi troppo male. Nella vita reale non sono così pomposa.
A presto.


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