What's Up?

di Susannah_Dean
(/viewuser.php?uid=1016557)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I said hey, what's going on? ***
Capitolo 2: *** I try all the time, in this insitution ***



Capitolo 1
*** I said hey, what's going on? ***


Il pavimento era freddo sotto la sua schiena.
Non aveva importanza, naturalmente, non quando il suo corpo era scosso a intervalli sempre più ravvicinati da ondate di contrazioni. Era difficile pensare a qualunque altra cosa, ora che era quasi giunto il momento.
Le sue mani afferrarono convulsamente le pieghe del vestito, strattonandolo così forte da rischiare di strapparlo. Avrebbe tanto voluto che ci fosse qualcuno con lei, per tenerle la mano e dirle che tutto sarebbe finito bene, che sarebbe stata abbastanza felice da dimenticare le pietre gelide su cui era sdraiata…
Qualcuno c’era. Anche nel silenzio delle rovine poteva sentire la voce che le sussurrava nell’orecchio, e le dita che le sfioravano le spalle nude.
- È quasi finita – bisbigliò la voce, suadente, quasi gentile. Le dita descrivevano pigri cerchi sulla sua pelle, mandandole brividi lungo la schiena. – Manca poco.
Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra serrate. No, avrebbe voluto urlare, alla voce e alle dita e a ciò che stava per mettere in moto, ma era troppo tardi. Era ora di spingere.
- Ancora pochi minuti e sarà finita, Tikal – continuò la voce, imperturbabile. Sembrava impossibile chiuderla fuori, come sembrava impossibile non associarla a ricordi sgradevoli, a pieni nudi su piastrelle sporche di sangue e a un rosso segnale di allarme, acceso e pulsante. – Sai che li troverò presto, tesoro. Lo sai.
Durò poco, per fortuna. Un’ultima spinta, e tutto fu passato. Davanti agli occhi le esplosero immagini nuove, strade, palazzi e persone che non aveva mai visto prima. Nonostante tutto, le apparve un sorriso sulle labbra. Era felice, anche se esausta.
Ma non c’era tempo per riposare. Lentamente, anche se senza esitazioni, si infilò una mano sotto le gambe, cercando.
- Ottimo lavoro – la lodò la voce. Nonostante il suo tono non fosse cambiato dall’inizio della faccenda, ora che tutto era finito si poteva avvertire un accenno di trepidazione. – E ora…
Finalmente aveva trovato ciò che stava cercando. La pistola brillò brevemente alla luce della luna mentre lei la estraeva dalle pieghe di stoffa e se la portava alla bocca, alzandosi a sedere per trovare una posizione più comoda.
- Che cosa stai facendo? – La voce era diventata più urgente, non più in grado di nascondere la sorpresa e la preoccupazione. – Fermati immediatamente! Questo non cambierà niente!
Una forza estranea cercò di costringerla a muoversi, ad abbassare le braccia e a sdraiarsi nuovamente a terra, ma non sarebbe stata abbastanza per fermarla, non adesso che riusciva a sentire il metallo freddo fra le labbra.
Dovette chiudere gli occhi, però. Se non lo avesse fatto, non sarebbe riuscita a concentrarsi sulle immagini più piacevoli di cui aveva bisogno, un volto, una casa in mezzo ai boschi.
Mi dispiace, pensò, rivolta a tutti e a nessuno.
- NO! – Urlò la voce.
Tikal premette il grilletto.
 
 
 
Albion, Maine.
 
Shadow sentiva odore di pizza.
Il che non era preoccupante, di per sé. Anche in un buco di cittadina come Albion c’era la possibilità di mangiarsi una pizza. Peccato che in quel momento non ci fosse un cartone di pizza in vista, e che la caffetteria di fronte a cui era parcheggiato fornisse solo ciambelle e caffè scadente.
Caffè scadente che apparentemente Topaz aveva ordinato a litri, vista la dimensione dei bicchieri con cui stava salendo in macchina. Shadow le lanciò un’occhiata perplessa, inarcando un sopracciglio e dimenticando temporaneamente qualunque odore strano. – Vuoi veramente bere tutta quella robaccia?
Topaz alzò le spalle. – Sono ancora convinta che il giorno in cui non avremo preso abbastanza caffè ci toccherà fare qualche inseguimento in auto o partecipare a una sparatoria. Meglio essere pronti.
- Certo. Una sparatoria – replicò Shadow con sarcasmo, prendendo dalle sue mani la propria ciambella e il bicchierone che sembrava contenere meno caffè. – Hai troppa fiducia in questa città. Non credo succederà mai niente di così eccitante, qui.
- Bevi il tuo caffè e taci – brontolò l’altra, scartando la propria colazione.
Shadow obbedì, con un minuscolo sorriso sulle labbra. In fondo, era grato alla sua partner (e al caffè, nonostante il sapore orrendo) per la distrazione che gli stava fornendo. Era stata una nottata difficile.
Maria, infatti, lo aveva buttato giù dal letto poco dopo mezzanotte, e anche dopo che la situazione si era risolta l’agitazione gli aveva impedito di riaddormentarsi per ore. Quando finalmente era riuscito ad appisolarsi (nello stesso letto di Maria, con la mano nella sua, senza sapere per chi dei due fosse più rassicurante questa sistemazione), una serie di incubi lo aveva accompagnato fino al mattino, lasciandolo sudato e poco riposato al risveglio.
Non era una novità, per lui. Come vicesceriffo di una piccola cittadina, assisteva a scene poco piacevoli più di rado rispetto a un poliziotto di città, ma questo non significava che fosse tutto rose e fiori. E poi, naturalmente, si aggiungeva tutto quello che era successo prima. Era del tutto normale che certe brutte immagini lo assalissero durante il sonno.
Anche se quella notte erano state particolarmente brutte, e anzi, quando si era svegliato di soprassalto, poco prima dell’alba, convinto di aver sentito un colpo di pistola, si era sentito…strano. Come se qualunque cosa avesse cercato di afferrarlo nel suo ultimo sogno fosse ancora lì al suo fianco, con le mani tese, pronto a lanciarsi su di lui. Non che Shadow riuscisse a ricordarsi dell’esatto contenuto del sogno. Sforzandosi, riusciva a pensare solo a una sagoma femminile e a un gran freddo, legittimo, visto che Maria aveva deciso di rubargli quante più coperte possibili. E poi, lo sparo, quasi troppo reale per essere una proiezione di qualche vecchio ricordo.
Magari stava uscendo di testa. Un sacco di funzionari di polizia perdevano la sanità mentale. Certo, che accadesse a ventotto anni era un po’ prematuro, ma d’altronde lui ne aveva viste tante da sentirsi stanco come un ottantenne, a volte.
Scuotendosi da certe riflessioni sull’invecchiamento precoce, Shadow si voltò verso Topaz con l’intenzione di raccontarle gli eventi di quella notte. Non degli incubi, ovviamente, ma era abbastanza certo che la sua collega volesse sapere della nuova crisi di Maria. Topaz era una delle poche persone con cui poteva parlare liberamente (anche se farlo in un’auto della polizia mentre facevano colazione invece di compiere il proprio giro di controllo della città non era molto poetico), ed era veramente affezionata alla sua sorellina. Riusciva quasi a immaginare le invettive che la donna avrebbe lanciato contro il loro medico, contro la nuova medicina teoricamente infallibile su cui avevano riposto tante speranze e contro le ingiustizie della vita in generale.
Quando stava giusto aprendo la bocca per dirglielo, però, Shadow vide una donna.
Non aveva un volto familiare, il che era bizzarro di suo: ad Albion, tutti conoscevano tutti, e i turisti erano rari. Era più vecchia di lui, ma non di molto, ed era a piedi scalzi sul marciapiede, con indosso un abito bianco leggero, senza maniche. Anche quello sembrava fuori posto, visto che lì era ancora stagione da giacche a vento, e tirava un’arietta troppo fredda per quei vestiti estivi.
Ma la sconosciuta sembrava non accorgersene nemmeno. La stoffa dell’abito non pareva neanche muoversi al vento, e lo stesso si poteva dire dei suoi capelli, lunghi, di un forte rosso-arancione.
Il suo viso era una maschera impassibile, ma il suo sguardo era fisso su Shadow.
All’istante, il giovane sentì qualcosa scattare dentro di sé, come una forza inspiegabile che lo legava a quella donna. La conosci, gli sussurrava qualche angolo del suo cervello. E’ lei, è lei.
Ma Shadow era sicuro di non averla mai vista prima. E il suo aspetto lo turbava, così sbagliato al lato della strada, fuori dal loro finestrino. Stava per aprire la portiera, per uscire e chiederle se andasse tutto bene…
E poi la donna svanì nel nulla.
 
 
 
Spagonia, Italia.
 
- Queste dovrebbero essere le ultime – annunciò Gold con voce allegra, come se piazzargli in mano una pila di pizze da consegnare fosse una grande gioia.
Silver fece una smorfia. – Lo spero. Chi è che fa ancora pranzo alle due? Dovrebbe essere illegale.
Gold si allungò oltre il bancone a dargli un pizzicotto e lui si spostò per evitarla, mettendo a rischio il già precario equilibrio dei cartoni di pizza nelle sue mani. Riuscì a malapena a impedire che cadessero, ma ciò spinse Gold ad alzare gli occhi al cielo e ad allargare le braccia in un gesto teatrale. – Se ci riesci, caro fratello, prova a non far schiantare a terra gli ultimi guadagni della giornata.
Silver avrebbe tanto voluto farle un gestaccio, ma così facendo avrebbe fatto traballare di nuovo il carico, perciò si limitò a tirare fuori la lingua e a uscire con tutta la dignità di cui è capace una persona con le braccia cariche di pizze fumanti.
Non si trattenne, però, dal suonare il clacson mentre partiva per il giro di consegne. Così. Giusto per infastidire lei e tutti i vicini che a quell’ora stavano già facendo il pisolino dopo pranzo.
Avere clienti anche a quell’ora era una benedizione, lo sapeva. La pizzeria aveva bisogno di tutti i soldi possibili per restare aperta e nelle loro mani. E poi era tutta gente che abitava non troppo lontano, come si rese conto mentre, fermo al semaforo, controllava gli indirizzi sul telefono. Sarebbe tornato alla base in fretta, e poi forse avrebbe avuto un po’ di pace.
Era solo stanco, ecco. Lui e Gold lavoravano tutto il giorno, e anche se la sua sorellastra lo prendeva affettuosamente in giro e gli diceva di “seguire il suo sangue piemontese e fare pranzo a mezzogiorno”, spesso era semplicemente impossibile farlo. Anche mangiando solo un panino avrebbe faticato, visto che il traffico della pausa pranzo richiedeva due mani sul volante e tutta la sua concentrazione. Lo stereotipo degli italiani pirati della strada gli sembrava più vero ogni volta che si sedeva in macchina.
E poi si sentiva sulle spine. Gli era parso di sentire un colpo di pistola mentre aspettava che uno dei suoi carichi uscisse dal forno, e anche se Gold gli aveva giurato di non aver sentito nulla e che la loro non era una zona così malfamata, gli pareva di doversi guardare sempre alle spalle. Come se qualcuno lo stesse osservando, anche adesso, seduto sul sedile posteriore della sua auto disastrata.
Silver si arrischiò a lanciare un’occhiata nello specchietto retrovisore, mentre davanti a lui un uomo e una coppia di bambini attraversavano la strada. Era illogico, lo sapeva bene, e infatti alle sue spalle non c’era niente, solo la felpa che aveva lanciato su uno dei poggiatesta durante uno dei viaggi precedenti. Nonostante ciò, quella sensazione sgradevole non se ne andava.
Scosse la testa. Forse aveva guardato troppi episodi di Criminal Minds. Gold glielo diceva sempre di smetterla con quelle cavolate.
Quando tornò a posare lo sguardo sulla strada, però, si accorse che qualcuno lo stava guardando per davvero. Una donna, ferma a metà delle strisce pedonali.
Silver le fece cenno di attraversare, perché di sicuro non sarebbe partito investendola, ma gli si bloccò la mano a mezz’aria. C’era qualcosa, in quella tizia, che lo confondeva. Non muoveva un muscolo, e teneva gli occhi, di un azzurro penetrante, fissi su di lui, come a volergli scavare nel cervello. In più, indossava una specie di camicia da notte, ed era a piedi nudi sull’asfalto. Sembrava una pazza.
Devo chiamare i carabinieri, pensò. Poi, subito dopo: Non per lei. Mai per lei.
E infine, perché non gli era piaciuto il tono sicuro con cui si era espresso il suo cervello: Ma chi diavolo è, LEI?
Il suo battibecco interno fu interrotto dal suono di un clacson. Alcune auto si erano fermate dietro la sua. Strano: solo un momento fa non aveva avuto nessuno, dietro. Quanto tempo aveva perso, concentrato su quella donna che sembrava così fuori di testa.
Si voltò brevemente per abbassare il finestrino, così da poter fare un gesto di scusa a chi lo seguiva (o magari per indirizzare loro un bel dito medio, perché per chi lo avevano preso, per uno che investiva la gente sulle strisce?), ma quando guardò di nuovo davanti a sé la sconosciuta era sparita.
Solo che non aveva attraversato la strada. Un altro coro di clacson si era levato alle sue spalle, costringendolo a ripartire, ma mentre avanzava Silver girò lo sguardo di qua e di là, cercando di capire dove fosse andata, e non riuscì a vederla da nessuna parte. Era come se si fosse volatilizzata. O come se non fosse mai stata lì.
Ecco. Cosa aveva sempre detto, lui? Pranzare tardi era dannoso. Era probabile che gli fosse venuto un calo di zuccheri, mandandolo nella paranoia più completa.
Anche se Silver si ritrovò a pensare, mentre si affannava a ricordare dove dovesse andare: Ma i cali di zuccheri possono farti venire le allucinazioni?

 

Okaaaaaay gente! Non so cosa mi sia preso a buttare giù questa fanfiction MA sono sicura che sarà uno spasso. Vedremo insieme come andrà a finire.
Intanto che siamo qui: sì, tutti i personaggi sono umanizzati. Questa storia è ambientata nel mondo reale...o meglio, nel mondo di Sense8. Se avete visto la serie tv probabilmente capirete più in fretta dove vado a parare con il racconto. Se non l'avete vista, guardatela che è bellissima, farò del mio meglio per non rendere confusa la narrazione. Se dovessero esserci problemi, fatemelo sapere nelle recensioni (che spero saranno numerose!) e io vedrò cosa posso fare.
Cheers!
Suze

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** I try all the time, in this insitution ***


Onyx City, Illinois.
 
 
- Miss Rose? Si sente bene?
Amy trasalì, tornando improvvisamente in sé. Quanto tempo aveva perso a guardare fuori dalla finestra? Non era nemmeno una visione tale da restarne incantata: i vetri di tutte le finestre erano sporchi e pieni di crepe, e fuori era già calata la sera, rendendo difficile distinguere alcunché.
La persona che l’aveva richiamata all’ordine stava ancora aspettando una risposta. Amy si voltò e sorrise alla bambina che le stava davanti, ancora con indosso i vestiti da allenamento. – Certo, tesoro. Mi sono solo distratta un momento. E tu, perché sei ancora qui? E’ tardi.
La piccola fece spallucce. Si chiamava Cream: Amy lo ricordava bene, perché era una delle sue preferite. Aveva la stoffa per diventare una giocatrice formidabile, a meno che la sua estrema timidezza e una vaga sfiducia in sé stessa non si mettessero in mezzo e non la spingessero a lasciare la squadra. – Mia mamma finisce di lavorare tardi, stasera. Mister St. John ha detto che potevo restare ad aspettare qui.
Geoffrey St. John era l’altro allenatore della squadra delle bambine, e nella modesta opinione di Amy, aveva lo stesso quoziente intellettivo di un sedano bollito, oltre ad essere un vero pallone gonfiato. Lasciare una bambina di otto anni in uno spogliatoio vuoto (perché era poco credibile che avesse notato la propria collega indugiare dopo la doccia) era proprio nel suo stile. – Allora non ti dispiacerà se resto ad aspettare con te.
- Oh, no, miss Rose, non deve disturbarsi, posso…
Amy la zittì con un gesto. – Non si resta mai da soli in campo, ricordi la regola? E poi, puoi aiutarmi a fare il giro finale prima di chiudere.
Nonostante le sue deboli proteste, il sollievo era palese sul volto di Cream mentre la seguiva fuori dallo spogliatoio e la aiutava nelle ultime faccende. La ragazzina non spiccicava parola, ma non si allontanava mai troppo dalla sua allenatrice, e le stava alle calcagna mentre spegnevano le luci e raccoglievano tutti i pezzi di materiale dimenticati in giro.
Tutto sommato, anche Amy era contenta di avere qualcuno al proprio fianco. Anche se l’idea di quella bambina abbandonata a sé stessa la faceva infuriare (era probabile che non ci fosse nessuno ad aspettarla a casa, perciò Geoffrey non avrebbe potuto darle un passaggio comunque, ma quel maledetto se n’era semplicemente andato), era innegabile che tutto fosse più facile con due mani in più a disposizione. Essere l’ultima ad uscire dal campo significava dover chiudere e spegnere ogni cosa, ed era incredibile notare quanti oggetti potesse lasciarsi dietro per sbaglio una squadra dall’età media di undici anni.
E poi, era dal giorno prima che si sentiva più irrequieta del solito, con la testa leggera, come dopo essersi fumata uno spinello. Ma Amy non toccava niente del genere da anni, anche se Geoffrey l’aveva guardata dall’alto in basso col suo solito modo di fare, e Mina (l’unica vecchia compagna di squadra con cui si tenesse ancora in contatto) si era convinta che lei fosse ubriaca quando Amy le aveva scritto della donna fantasma.
Ma Amy l’aveva vista. Ne era sicura, anche se quella era sparita dal suo campo visivo in un battito di ciglia. L’avrebbe giurato, se qualcuno glielo avesse chiesto, come avrebbe giurato di essere perfettamente sobria in quel momento. Riusciva a ricordare ogni minimo dettaglio di quel momento, e quanto le fosse sembrata fuori posto quella donna, scalza e con la pelle più scura della sua, che mal si adattava ai suoi capelli chiari e agli occhi azzurri con cui l’aveva osservata. Gli ubriachi e i drogati non avevano una memoria così precisa, no?
O magari si stava confondendo, ed erano proprio alcol e sostanze stupefacenti a darti ricordi tanto nitidi e precisi. Ma anche se così fosse stato, era passato molto tempo dall’ultima volta che si era presa una sbronza come si deve. E non è detto che la mia vita sia migliorata, nel frattempo, si ritrovò a pensare, quasi involontariamente.
Doveva smettere di indugiare su quel tipo di pensieri. Doveva finire il suo lavoro, riconsegnare Cream a sua madre, tornare a casa e farsi una bella dormita. Non era il caso di rivangare sbornie lontane negli anni, o di riflettere su quanto le fosse sembrata familiare la donna che aveva allucinato.
In quel momento, però, accadde di nuovo. Mentre si chinava a raccogliere un guantone abbandonato a terra (visto lo stato pietoso in cui si trovava, doveva essere di una delle due sorelle, Lana e Lilly, che nonostante si fossero sentite ripetere mille volte quanto il materiale da softball fosse costoso insistevano a trattarlo come spazzatura), Amy si sentì riempire il petto da quella bizzarra, inquietante sensazione di familiarità che aveva provato osservando la sconosciuta. Le sembrava di aver appena aggiunto l’ultimo pezzo ad un puzzle abbandonato da anni.
E in un attimo, con la stessa rapidità e semplicità di un battito di ciglia, successe qualcosa.
All’improvviso, non stringeva più tra le mani un guantone distrutto. Le sue dita si muovevano sulla tastiera di un computer portatile, digitando parole in una lingua straniera che non riconosceva nemmeno, ma che leggendo sulla schermata riusciva a capire benissimo. Non era più in piedi, ma seduta ad una scrivania, e anche se fuori dalla finestra al suo fianco era notte fonda, la luce di una lampada da tavolo la accecava.
Durò pochi secondi, o forse un’eternità. Poi la scena davanti ai suoi occhi tornò normale, e lei si trovò confusa e senza fiato al suo posto, nel grande campo da gioco di Onyx City, con una bambina che cercava di farle una domanda che non riusciva a capire, come se le stessero fischiando le orecchie.
Merda, pensò, sbattendo le palpebre più e più volte, cercando di mettere a fuoco ciò che stava vedendo. Sto veramente diventando pazza.
 
 
Johannesburg, Sudafrica.
 
Sally si stirò la schiena, facendo una smorfia nel sentire il distinto crack emesso dalle sue ossa. Non era possibile sentirsi così fiacchi prima di compiere trent’anni. Cos’era successo al suo fisico da atleta del liceo?
- Se resti sveglia ancora un po’, dovranno portarti in ufficio in barella – commentò una voce dallo schermo del computer. Sally riportò la sua attenzione a Nicole, che la fissava con aria di riprovazione.
- E se mi addormento, nessuno compilerà questi rapporti e farò prima a non presentarmi mai più in ufficio – replicò, accennando all’angolo dello schermo non occupato dalla videochiamata, dove quei malefici documenti la stavano ancora aspettando.
La sua fidanzata storse la bocca, poco convinta. – Sai come la penso su tutta questa faccenda.
- Lo so, lo so. – Era la stessa opinione che aveva anche Sally, in realtà. Ma era comunque impressionante come non fosse nemmeno più necessario specificare di quale faccenda stessero parlando. Dopotutto, ne avevano discusso abbastanza da sapere quale fosse la radice di tutti i problemi.
Eppure, eccole ancora lì, sempre nella stessa situazione.
Sally sbadigliò, senza badare a coprirsi la bocca con la mano. Dopotutto, Nicole l’aveva vista in situazioni molto più compromettenti di quella. – In ogni caso, non preoccuparti. Schiaccerò un pisolino prima di andare al lavoro.
- E’ meglio che tu lo faccia – disse l’altra, assumendo un tono scherzosamente esasperato. – Sai, dicono che stare svegli più di ventiquattr’ore di fila ti bruci il cervello.
- Temo che sia vero. Credo di aver avuto un’allucinazione da stanchezza, prima che tu mi chiamassi.
Era stata sorprendentemente realistica come allucinazione, anche. Il fatto che si fosse trovata in piedi vicino a un prato, con una piacevole brezza sulla pelle, dimostrava quanto lei volesse sfuggire alla sua situazione, chiusa in un appartamento nel caldo soffocante di Johannesburg.
Tuttavia, per quanto piacevole, un’allucinazione era sempre un segno di perdita di lucidità, e Sally aveva bisogno di tutta la lucidità possibile al momento. Un’oretta di sonno era d’obbligo.
- Stai facendo molti sogni ad occhi aperti in questi giorni, patat. Prima quella strana signora, poi questa allucinazione… - Nicole fece un sorriso malizioso. – Non è che mi vuoi lasciare e fuggire via? Magari con una bella donna più vecchia, coi capelli rossi?
Suo malgrado, Sally scoppiò a ridere. – Ti piacerebbe. Non riuscirai mai a liberarti di me. E anche se tu hai deciso di ignorare le mie spiegazioni, te l’ho già spiegato: non ho sognato un bel niente. Ho visto quella donna come ora vedo te.
Anche se il fatto che fosse apparsa dal nulla nel mezzo del suo ufficio lasciava spazio solo a due opzioni, i sogni o i fantasmi, e Sally Acorn non era il genere di persona che credeva ai fantasmi. Esistevano cose molto più razionali e concrete di cui preoccuparsi: il governo, suo padre, Elias.
I rapporti da finire di scrivere.
La giovane donna lanciò un’occhiata all’orologio del suo computer. Erano già passate le cinque: per poter completare il proprio lavoro e schiacciare anche un pisolino, avrebbe dovuto chiudere la chiamata in fretta. Anche se era l’ultima cosa che volesse fare. – E’ meglio che tu vada a letto, tesoro, altrimenti dovrò essere io a insultarti. Dev’essere quasi mezzanotte laggiù.
- Non avrai mai la soddisfazione di insultarmi. Sono una persona normale con dei ritmi di sonno normali, io. – Stavolta fu il turno di Nicole di sbadigliare. – Volevo solo dare la buonanotte a quella sgobbona della mia fidanzata prima di andare.
Sally sorrise, travolta da un’ondata di affetto nei confronti dell’altra. Non meritava una persona come Nicole, anche se non avrebbe mai osato ammetterlo di fronte a lei. Nicki le avrebbe distrutto un timpano tentando di convincerla ad avere più autostima. – Buonanotte. Prometto che andrò a dormire anch’io presto.
- Ci conto. – Nicole appoggiò la mano sul proprio lato dello schermo, spingendo Sally ad imitarla. – Ti amo.
- Ti amo anch’io. – Le loro mani sembravano ridicole messe così, piccola e rovinata quella di Sally, lunga e sottile quella di Nicole, ma Sally avrebbe dato qualsiasi cosa perché il vetro che le divideva non esistesse. Aveva bisogno della sua ragazza qui: erano invincibili insieme, non una ad Ottawa e l’altra nel cuore del Sudafrica.
Purtroppo, così stavano le cose, e dopo un paio di secondi la comunicazione si interruppe. Sally abbassò la mano e si concesse un momento per riprendersi, per cercare di scacciare l’espressione preoccupata di Nicole dal proprio cervello.
Funzionò solo a metà: a sostituirla non venne l’analisi di mercato su cui stava tentando di concentrarsi. Invece, le passò davanti l’immagine di suo padre (non puoi essere così impaurita, sei una donna adulta, non PUOI) e subito dopo, bizzarramente, quella della donna che aveva visto. Sognato. Qualunque cosa fosse accaduto.
Era strano, perché non ci aveva dato peso, sul momento. I suoi ritmi di lavoro erano molto intensi, ed era plausibile che quel giorno avesse saltato la pausa pranzo, come spesso accadeva. Sentirsi un po’ intontita, vedere persone che non c’erano…Tutto credibile, in fondo. Tantopiù che la donna le era sembrata familiare, anche se non riusciva a ricordare dove l’avesse vista prima.
E allora, perché ora che aveva iniziato a pensarci non riusciva a togliersi quella signora dalla testa?
Sally scosse la testa. Non c’era tempo: non c’era mai tempo per nulla, figurarsi una serie di allucinazioni date dalla carenza di riposo. Doveva mettersi al lavoro. Doveva finire quei rapporti e far sì che fossero scritti abbastanza bene da essere approvati senza correzioni.
Anche se sapeva che così non sarebbe mai stato.
 
 

- Signore? Li ha trovati?
L’uomo non diede segno di aver sentito. Rimase seduto dov’era, le mani appoggiate al tavolo, gli occhi chiusi. Dopo qualche secondo trascorso senza ricevere risposta, la persona che gli aveva posto la domanda uscì di nuovo, chiudendosi la porta alle spalle.
Solo allora l’uomo aprì gli occhi, ritrovandosi di nuovo nella spoglia sala da interrogatori in cui si era chiuso. Solo, fortunatamente. Senza nessuno attorno che gli ponesse domande idiote.
Nessuno di quei piccoli leccapiedi aveva un briciolo di cervello. Sembrava quasi che li scegliessero apposta. Anche se lui avesse trovato qualcosa, di certo non lo avrebbe riferito a loro, ma avrebbe portato le informazioni (edulcorate, spogliate di ogni elemento non strettamente necessario) ai loro capi.
O meglio, a quelli che credevano di essere al comando. Era circondato da un numero impressionante di imbecilli, dopotutto.
L’uomo inclinò leggermente la testa, lasciando che i lunghi capelli bianchi gli oscurassero parzialmente il volto. Era certo della presenza di telecamere nella stanza, e non era bene mostrare troppo di ciò che stava provando.
Anche perché, al momento, ciò che provava era più che altro rabbia. Il suicidio di Tikal aveva reso molto più difficile il suo compito, ed era stato così imprevedibile da fargli temere di aver perso il suo tocco.
Ma no, non era possibile. La sgualdrinella era stata fortunata, ecco tutto. E alla lunga, il suo sacrificio sarebbe stato inutile. C’erano altri mezzi per trovare ciò che loro stavano cercando.
C’era, nello specifico, un’altra persona con cui lui era rimasto in contatto, una persona che avrebbe certamente fatto di tutto per trovare i membri del nuovo cluster.
L’uomo si concesse un breve sorriso, protetto dagli sguardi avidi delle telecamere. Poi chiuse gli occhi e si rimise a cercare.
 

Eccoci di nuovo qui! Ho visto che il capitolo precedente ha incuriosito alcuni di voi, ma siccome sono un'autrice malvagia, non ci sono ancora risposte a certe domande...anzi, fioriscono altri misteri.
Spero in ogni caso che il capitolo vi piaccia e che, se trovate errori o volete commentare qualcosa, lasciate una recensione. A presto!
Suze

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3773494