Komorebi

di Vavi_14
(/viewuser.php?uid=405550)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


banner



La luce che filtra tra le foglie degli alberi

I

 
 





Bianco e nero.
È così che Taehyung ha sempre vissuto, in bilico tra l’annullarsi e l’assorbire il mondo intero dentro di sé. Aveva appena otto anni quando qualcuno ha deciso per lui come avrebbe dovuto vivere la sua vita, quando “la diagnosi” lo ha bollato come creatura fragile e bisognosa di protezione; aveva otto anni quando una camera spoglia è divenuta il suo mondo e quello fuori ha smesso di esistere, convertendosi in una pallida ombra della sua immaginazione.
Taehyung ha una finestra, nella stanza, che affaccia su un cortile erboso decorato da rose bianche che suo padre si è premurato di coltivare e far crescere per lui. Intravede la strada, al di là del giardino, ma è un viale pedonale poco frequentato. A Taehyung non piace la confusione: può parlare con una persona per volta, due o tre al massimo, sentire troppe voci manda il suo cervello in tilt e gli fa venir voglia di interrompere la conversazione, infilare le cuffie e ascoltare la sua musica preferita, quella suonata al pianoforte. Taehyung ama le composizioni classiche, meglio se scritte per singoli strumenti, ama l’arte, la pittura soprattutto, avrebbe le pareti della camera tappezzate di quadri di Van Gogh, se solo tutto quel vorticare di colori, dopo un po’, non gli facesse salire la nausea.
Il vento lo fa sentire vivo, il sole lo può percepire, flebile, scaldargli la pelle bianca attraverso i vetri della casa; la pioggia invece, quella la odia. Tic-tac, tic-tac, picchietta ovunque, preme su ogni oggetto che incontra per farsi sentire, imprime la sua presenza indesiderata annacquando ogni cosa e lascia, al mattino, un odore acre che dà alla testa. Quand’era piccolo, Taehyung si nascondeva sotto al letto, supino, aspettando che l’irruente presenza delle gocce divenisse appena percepibile, sovrastata dal battito impazzito del suo cuore.
Qualcuno, all’inizio, aveva parlato di fobia. Di Panofobia, ad essere precisi. Qualcuno invece l’aveva definito un giudizio estremista e si era limitato a identificare Taehyung come un bambino empatico, ipersensibile e molto timido, proponendo training e terapie specifiche per trattare il suo caso. Bagianate, aveva commentato la nonna paterna, ma i genitori di Taehyung non avrebbero mai escluso alcuna possibilità se in gioco c’era la salute del loro unico figlio, così avevano teso le loro mani, di nuovo, ottenendo come ricompensa solo un ennesimo fallimento.
A Taehyung non era mai importato molto di essere etichettato, anzi, trovava che nessuna di quelle definizioni si addicesse alla propria natura: lui si considerava semplicemente inadatto, forse addirittura incapace di vivere in quel mondo. Ma, dopotutto, pensava Taehyung, sarebbe stato egoistico pensare che la Terra fosse davvero l’unico pianeta nel quale scorreva la vita, perciò si consolava immaginando universi paralleli e mondi di fantasia nei quali, anche uno come lui, avrebbe potuto trovare il suo posto. La amiche della nonna, però, erano simpatiche, e a Taehyung non dispiaceva ascoltare le loro teorie sul fatto che lo considerassero un messaggero divino, giunto sulla Terra per redimere gli esseri umani e ammalatosi presto a causa della loro attitudine alla violenza e al peccato. La nonna le definiva delle vecchie pazze e, dal canto suo, premeva affinché Taehyung fosse reinserito gradualmente nella vita comunitaria, che cercasse di condurre un’esistenza simile agli altri bambini; ma ad ogni suo tentativo Taehyung stava male, i genitori la rimproveravano, ed ecco che lui tornava chiuso lì dentro, lontano da tutto e da tutti, in quella sottile bolla di vetro creata appositamente per proteggerlo.
 
Il sabato pomeriggio Taehyung lo passa a sfogliare pagine antiche di libri che, da anni ormai, i suoi genitori custodiscono nella biblioteca di famiglia. Sono storie di elfi, di creature immaginarie, favole con lieto fine, biografie di una vita, scritte a caratteri piccoli e dalle curve gentili. Le immagini, se ci sono, hanno colori pastello e suggeriscono un senso di beatitudine. Qualche pagina è stata strappata, Taehyung lo sa, perché non può sopportare figure troppo scure o dal tratto deciso, né tantomeno leggere di violenza, guerre e cattiverie, il suo cuore – gli dicono- non reggerebbe.
«Ehi, scusa!»
Una voce acuta, fastidiosa, gli solletica le orecchie mentre è seduto a gambe incrociate sul proprio letto, intento a sottolineare, per l’ennesima volta, quella citazione dell’ultima pagina che gli dà i brividi ad ogni nuova lettura. Una signora un po’ bassa, magrolina e con le lenti tondi calate sul naso, si alza svelta dalla propria sedia per chiudere la finestra e attutire quel suono che potrebbe disturbare l’equilibrio di Taehyung, ma il ragazzo la ferma con un gesto, perché vuole almeno provare a dare un’occhiata: si sporge un poco e vede la sagoma di un bambino mentre muove le braccia per aria in modo scomposto e continua ad urlargli qualcosa che, al momento, non riesce a capire. Socchiude gli occhi, lo studia; non capisce come mai uno come lui possa trovarsi nei dintorni di casa Kim.
«Lo ha mai visto da queste parti?» Si rivolge all’educatrice, indicando l’oggetto dei suoi dubbi, ma prima che la signora possa negare, stroncando ogni curiosità di Taehyung sul nascere, la nonna fa il suo ingresso in camera, guadagnandosi un’occhiata sbieca da parte dell’altra.
«Credo sia il nuovo vicino» borbotta, mostrando appena i denti un po’ ingialliti. «Si sono trasferiti qui la scorsa settimana».
«E che vuole da noi, nonna?»
«Ehi! Me la posso riprendere la palla, sì o no?!»
Adesso quel grido diviene improvvisamente chiaro e Taehyung sussulta, guardando sua nonna in cerca d’aiuto.
«Riprendersi la palla, suppongo» commenta lei sorniona, accompagnando l’affermazione con un’alzata di spalle. «Ci penso io» aggiunge poi, lanciando all’educatrice un’occhiata poco simpatica.
«Si assicuri che non venga più a disturbare Taehyung» le predica dietro quella, mentre la nonna le fa un cenno poco convinto con la mano.
Lui osserva la schiena gobba della nonna farsi strada tra i cespugli appuntiti di rose, recuperare la palla e lanciarla dall’altro lato del piccolo cancello nero. Riesce a percepire un «Grazie» un po’ incerto da parte del bambino che, prima di allontanarsi, solleva il naso all’insù per incrociare di nuovo lo sguardo vuoto di Taehyung e poi, in un batter d’occhio, fugge via.
 
A vederlo, Taehyung sembrava un bambino fuori dall’ordinario. Gli occhi, dal taglio allungato e un poco curvo verso l’alto, erano grandi e belli, ma al loro interno la pupilla nera sembrava spenta, impenetrabile, quasi incapace di riflettere la luce. La linea del naso e le narici, perfettamente simmetriche, continuavano un percorso di straordinaria delicatezza seguendo l’arco di cupido del labbro superiore, non troppo pieno, né esageratamente sottile, e confluivano nel profilo un poco deciso della mascella e del collo slanciato. Osservandoli, pure quei lineamenti così irreali, parevano quasi sul punto di sgretolarsi ad un solo battito di ciglia. La pelle invece, vittima del troppo tempo trascorso al chiuso, aveva perso il tono ambrato per divenire fragile e biancastra.Taehyung non poteva affermare con certezza di temere perfino il suo riflesso, eppure aveva domandato a sua madre di rimuovere tutti gli specchi presenti in casa, perché ogni volta che si era guardato in quel vetro diabolico, vi aveva scorto qualcuno in cui non si riconosceva.
 
La seconda volta che aveva visto il bambino con la palla, l’educatrice non c’era. Gli era parso quasi un déjà-vu, osservarlo sbracciarsi affinché qualcuno gliela rendesse, ma Taehyung sapeva di non poterlo fare, non da solo almeno. Sarebbe bastata una folata di vento troppo forte, un raggio di sole più intenso degli altri, e la sua cagionevole salute ne avrebbe certamente risentito. E poi, si domandava, come mai quel bambino era tanto temerario da giocare nei dintorni del suo cortile? Conosceva bene l’opinione che i suoi coetanei avevano di lui: lo chiamavano il bambino di cristallo e anche i più curiosi si avvicinavano raramente a casa Kim, perché scoraggiati dai propri genitori, alcuni dei quali dubitavano perfino dell’esistenza di Taehyung, tanto pareva irreale la situazione in cui viveva.
Eppure, quell’ingenuo bambino rimaneva lì, con il naso all’insù e lo sguardo rivolto alla zazzera castana di Taehyung, immobile di fronte alla finestra.
«Vattene».
A Taehyung è stato insegnato che le persone possono essere cattive, se lo desiderano, e che uno come lui non può permettersi di fronteggiare troppo dolore tutto insieme, o rischierebbe di finire in mille pezzi; perciò, quando non sa come reagire, Taehyung cerca di preservare se stesso, allontanando la possibile fonte di disagio.
«Potresti lanciarmi la palla da questa parte, per favore? Se mamma scopre che l’ho persa di nuovo si arrabbia».
Stando chiuso lì dentro, Taehyung ha quasi scordato come ci si relaziona con i propri simili: avendo a che fare solo con persone adulte, alla fine si rischia di diventare come loro troppo presto, quando ancora non si è pronti.
«Possiamo giocare insieme se ti va».
Stavolta, il bambino ha abbassato il tono di voce e ha fatto spallucce, quasi intimidito.
Giocare insieme?
Ogni richiesta sembra utopia per Taehyung, allora perché non chiama qualcuno e chiede di cacciar via una volta per tutte quel bambino? Già sente l’ansia salirgli in gola e annodarsi bloccando il respiro, già sente il peso di tutto ciò che vorrebbe fare ma non gli è concesso, l’assurdità di quella conversazione che sta tenendo senza nemmeno sapere il perché.
«Sono malato, non posso uscire».
Finalmente si decide a dare una risposta: la più semplice, quella che tutti sanno accettare.
Il bimbo aggrotta un poco le sopracciglia, ma Taehyung non può vederlo. Rimane fermo per un po’, adocchia la palla da dietro le sbarre e fa spallucce.
«Va bene allora, me la verrò a riprendere quando sarai guarito. Così potremo giocarci insieme!»
Si infila le mani in tasca e fa un cenno di saluto, come se all’improvviso non gli importasse più così tanto di quel giocattolo. Taehyung sente gli occhi pizzicare a ha una gran voglia di urlargli contro che quella palla non la riavrà mai più perché lui non può guarire; chiude le tende bianche con uno scatto e torna ad adagiarsi sul giaciglio morbido, convincendosi già che niente di nuovo abbia intaccato le sue monotone giornate o i suoi pacati pensieri. Invece, le notti seguenti, il sonno di Taehyung è talmente disturbato che i suoi genitori decidono di somministrargli alcune medicine per farlo calmare: si tratta di gocce prescrittegli dal medico di famiglia qualche mese addietro, prima che la signora e il signor Kim decidessero di iniziare e il lungo e, almeno per il momento, deludente percorso di terapia per Taehyung.
Lui non parla in quei giorni, ha la febbre alta e un po’ di tosse, ma conosce bene il motivo che ha scatenato quella crisi. Lo confessa solo alla nonna, mentre è intenta a sostituire le gocce calmanti con qualche strano infuso naturale che ha preparato lei stessa, e ottiene una mezza strizzata d’occhi assieme al sorriso sghembo, forse più malinconico del solito, che da sempre riserva al suo unico nipote.
«È un buon segno, no?» sussurra, sistemando i cuscini dietro la schiena del ragazzo, affinché possa adagiarvi la schiena e mettersi seduto.
«Ma che dici nonna, no che non lo è».
«Lo sai che è già tornato due volte, vero Taehyungie?»
A quelle parole, Taehyung deglutisce rumorosamente e inizia a sudare freddo. Dentro gli incubi che hanno movimentato le sue notte, Taehyung ci ha visto sempre lui, quel bambino un po’ sbadato dallo sguardo curioso e vivace, ogni volta con in mano quella palla salterina, ogni volta con quella stessa domanda “Vuoi giocare con me?”, alla quale Taehyung provava a rispondere, ma senza successo.
«E che gli hai detto?»
Sono anni che il suo corpo non reagisce in modo così irruento ad uno stimolo esterno, Taehyung se ne rende conto. Probabilmente è perché sono anni che ogni stimolo viene troncato sul nascere prima che lui possa recepirlo.
«Gli ho ridato la palla e gli ho chiesto di non farsi vedere mai più in giro».
Il tono della nonna è talmente serio che Taehyung sgrana le palpebre, stringendo istintivamente un lembo del lenzuolo tra le nocche pallide. Rimane in silenzio, aspettando cosa non lo sa nemmeno lui, finché non lo vede arrivare, quel sorriso sghembo e dispettoso che alla nonna piace tanto fare.
«Nonna, è la verità?»
«Tu cosa vorresti sentirti dire, Taehyungie?
» 
La nonna si alza facendo leva sulle ginocchia, lasciando poi un bacio fugace sul capo del nipote.
«Beh, io non… non dovrei vederlo mai più. Quel bambino».
«Questo è quello che dice il tuo corpo, Taehyung. Ma la tua mente, quella funziona ancora bene».
Lui socchiude gli occhi, scivolando di nuovo sotto le coperte, al riparo. «Che significa, nonna?»
«Significa che stai lottando per riuscire a interagire con quel bambino. La tua mente lo sta facendo, Taehyungie. E se continui a combattere, ce la farai».
 
Taehyung non era sceso in cortile per restituire il giocattolo al bambino, perché poi non era più stato necessario: lo aveva visto semplicemente tornare in quella zona, con un pallone nuovo di zecca e un sorriso storto  che gli tormentava le fossette sulle guance.
«Perché vai sempre in giro da solo? Non lo sai che è pericoloso?»
Taehyung interpreta quella sua iniziativa come uno scudo che la mente sta costruendo per cercare di aumentare le distanza tra lui e quel bambino. Intanto, però, si è affacciato alla finestra per sua volontà e gli ha rivolto la parola come conseguenza di una decisione che ha preso autonomamente.
Il bambino fa passare il pallone da un piede a un altro, ma lo perde subito e lo rincorre con uno sbuffo, per poi ricominciare da capo e ottenere ogni volta un palleggio in più.
«Qui è poco trafficato e poi sono vicino casa» si limita a rispondere, fingendosi indaffarato.
«Tu come ti chiami?»
Taehyung rimane spiazzato dalla scioltezza con cui quel ragazzino ha cambiato argomento senza preavviso. D’altronde diventa sempre molto nervoso quando gli si domandano cose personali. Ripensa alle parole della nonna, alle due settimane trascorse a letto e a quei pochi giorni in cui invece è stato in buona salute e, nonostante tutto, ha riportato alla mente l’immagine di quello stesso bambino che ora è in piedi davanti a lui, in carne ed ossa, pronto – forse - a creare un nuovo legame.
«Io sono Taehyung».
Tre semplici parole, le temeva come un salto nel vuoto, eppure ora gli sembrano più facili di un respiro.
Finalmente il bambino distoglie lo sguardo dal suo gioco e mostra a Taehyung una sola delle due fossette, assieme ad un timido sorriso. «Jungkook».
 
Ovviamente, nonostante i suoi otto anni, Jungkook aveva ben compreso che Taehyung non era mai stato un bambino come tutti gli altri e che di certo non era colpa dell’influenza se mai lo aveva visto mettere un solo piede fuori di casa. All’inizio si erano limitati a chiacchierare così, uno in basso e uno in alto: Jungkook non aveva amici in quella nuova città, era un bambino timido al quale non dispiaceva troppo giocare da solo; Taehyung sembrava, almeno per il momento, un perfetto compagno con cui trascorrere qualche ora il pomeriggio. Un po’ strano forse, a volte troppo distante, ma mai troppo invadente o chiacchierone: in qualche modo le loro giornate passavano, Taehyung raccontava a Jungkook le favole che tanto lo affascinavano nei momenti di lettura, Jungkook si lamentava della maestra di matematica che gli faceva sempre un sacco di brutti segni sul quaderno, al ché il più grande dei due tentava di fargli fare qualche calcolo a mente, ma Jungkook si ribellava sempre, piagnucolando che sarebbe tornato a casa se solo avesse sentito parlare ancora di numeri. In quelle rare occasioni, Jungkook aveva potuto scorgere, seppur appena accennato, un sorriso dolce incurvare anche le labbra apparentemente congelate di Taehyung. Non lo aveva mai visto da vicino, ma il suo volto gli era da subito sembrato diverso, quasi dipinto su tela, e a volte aveva distorto lo sguardo, intimidito da quei lineamenti tanto belli quanto straordinariamente austeri per un bambino di appena dieci anni.
«Dovresti sorridere più spesso, hyung» si era lasciato sfuggire una volta, rivolgendo subito dopo tutte le sue attenzioni alle proprie scarpe nuove, onde evitare di sembrare visibilmente imbarazzato.
Taehyung allora, forse per la prima volta, si era reso conto dell’estrema leggerezza in cui era sospeso il suo cuore in quell’esatto momento e dell’emozione genuina che si provava nel sentire le proprie labbra tirate in un sorriso e quelle della persona davanti a sé impegnate a fare lo stesso.
«Vuoi dire che lo faccio poco, Jungkookie?»
«Voglio dire che a volte mi spaventi, hyung. Senza offesa».
Un altro sorriso da parte di Taehyung, questa volta più aperto. Jungkook era riuscito a scorgere dei denti bianchi e perfettamente allineati: in quel momento ogni cosa si era  fermata e d’improvviso si era reso conto che – assurdamente – la chiave di tutto sarebbe potuta stare proprio lì, in quell’insolito sorriso rettangolare che scopriva la dentature e rendeva quel volto cristallizzato un volto umano, espressivo, vivo. E allora Jungkook, ancor prima di sapere il perché Taehyung era rinchiuso lì dentro, prima di voler sentire il vero motivo, aveva deciso che da quel giorno in poi avrebbe fatto di tutto per vedere la gioia dipinta sulle labbra di quello che, ormai, considerava già un vero amico.
 
Più gli incontri con Jungkook divenivano frequenti, più Taehyung era stato costretto ad inventarsi scuse con i genitori affinché non si preoccupassero troppo per lui e, nel peggiore dei casi, gli vietassero di continuare a incontrarlo, seppur dall’alto della propria camera. Nessun bambino aveva mai accettato veramente la dura esistenza di Taehyung, nessuno era mai stato in grado di conviverci senza rischiare d’impazzire. Taehyung poteva stare bene mesi interi, ma ad ogni stimolo incerto la crisi poteva essere dietro l’angolo, leggera o irruenta, breve o dannatamente lunga.
«Quindi hai paura di tutto?»
Jungkook ha sentito le spiegazioni di Taehyung almeno una ventina di volte, da quando si conoscono. «Ma di me non hai paura, giusto? Allora perché non posso salire a casa tua?»
«Non so cosa potrebbe succedere, Jungkook. Non sono a mio agio con persone estranee in casa».
«Ma io non sono un estraneo! Io sono tuo amico, hyung!»
Taehyung abbassa il capo, ecco che ritorna il groppo allo stomaco. Ecco che torna l’ansia, la paura, l’inadeguatezza. «Non… non so cosa ne pensano i miei genitori Jungkook, davvero, cerca di-».
«Ma perché non ci provi, almeno? Sei stato bene ultimamente, lo hai detto tu che da quando ci conosciamo hai avuto meno periodi negativi».
«Mi dispiace, non è così semplice… mi dispiace».
I muscoli delle braccia si muovono da soli, afferrano la maniglia della finestra e la richiudono soffocando i lamenti di Jungkook. Taehyung sente gli occhi pizzicare e si permette di indugiare ancora un po’ sul suo amico, lo sente borbottare, ode perfino qualche parola poco elegante che fino a pochi mesi prima non c’era nel vocabolario di Jungkook, ma in quel momento non può far altro che proteggere se stesso da quel legame che, come temeva, stava diventando più grande di lui.
«Lo stai facendo nuovo, Taehyungie».
«Nonna!»
Quasi gli prende un colpo, nel vederla seduta sul bordo del letto, occupata a cucire chissà qualche prezioso ornamento per casa Kim.
«Mi hai spaventato… perché stavi-»
«Capisco vhe non è facile».
«Non ce la farò mai, nonna. Appena mi ha detto che voleva salire a casa, ho temuto di collassare. Non posso farlo».
«Perché è qualcosa che sta intaccando il tuo equilibrio. È vero che col tempo la situazione è peggiorata. Le fobie sono aumentate, gli attacchi sono divenuti più frequenti, però lui ha ragione, Taehyungie. Non hai ancora una fobia di nome Jungkook, dico bene?»
Taehyung guarda la nonna, a bocca aperta. Quello che sta dicendo è assurdo, ma in fondo ha ragione. «Mamma e papà non saranno d’accordo».
«Ovviamente no» concorda la nonna, squadrandolo da sopra gli occhiali a mezzaluna. «Ma non occorre che lo sappiano adesso, giusto? Puoi sempre provare e vedere come va».
«Nonna io non voglio “provare”… questa cosa è più grande di me, devo smetterla adesso. Non voglio ferire nessuno».
«Hai ragione, non devi provare. Devi riuscirci. Questa è l’occasione che stavamo aspettando. Lo sappiamo entrambi che quelle terapie a cui ti sottopongono non servono a un fico secco, non è così che guarirai. Questa è la tua occasione, Taehyungie. L’unica che hai».

L’entrata di Jungkook in casa Kim non era avvenuta esattamente secondo i piani. Jungkook era stato paziente: dopo il primo rifiuto di Taehyung avevano fatto pace ed era trascorso un altro mese, al termine del quale, però, Jungkook aveva deciso di agire di testa propria e - a postumi – Taehyung si era convinto che sotto ci fosse anche lo zampino di sua nonna.
Quando aveva sentito suonare il campanello, alle quattro del pomeriggio, Taehyung era entrato subito in allerta, conscio che a quell’ora non era prevista alcuna visita straordinaria in casa sua. Davanti alla porta, un po’ rannicchiato su sé stesso – quasi intimidito, aveva trovato un bambino più basso di lui, con indosso una maglia nera di qualche taglia più grande e dei jeans strappati sul ginocchio, dove una ferita di bicicletta ancora mostrava fiera una cicatrice in regalo. In quel preciso istante, il petto di Taehyung si era fermato e l’aria aveva momentaneamente smesso di circolare all’interno dei polmoni; ci era voluto un secondo prima che la nonna spuntasse dal nulla, sussurrando un “Oh Santo cielo!” e tirasse il piccolo Jungkook per un braccio, costringendolo a seguirla per tutto il lungo corridoio che confluiva nell’enorme sala da bagno. Anch’essa bianca.
«E-ehi» lo aveva sentito protestare Taehyung, dallo stipite dietro il quale si era prontamente nascosto una volta scampata la crisi respiratoria. «Dove mi porta? Chi è lei? Io sono venuto per-»
«Vedere Taehyungie?» aveva finito per lui la nonna, ignorando qualche altra lamentela proveniente dalle labbra del bambino. «È già un miracolo che ti abbia fatto entrare, marmocchio. Se pensi di incontrare mio nipote così sudicio, allora puoi anche andartene».
«C-cosa?»
Jungkook si stava innervosendo. Sapeva che incontrare il suo amico non sarebbe stato facile, ma non immaginava che addirittura avrebbe dovuto fare una doccia prima di poterlo vedere. «Ma io non ho vestiti di ricambio».
«Troverai degli abiti di Taehyung sul bordo della vasca» aveva concluso la nonna, lasciandolo andare solo sulla soglia della stanza. «Muoviti ad uscire, Taehyungie è paziente ma non avrete molto tempo». Il tutto aveva avuto il suo lieto fine con una sonora porta sbattuta ed un Jungkook sull’orlo di una crisi di pianto.
Venti minuti dopo, del più piccolo non c’era traccia. Taehyung non si era mosso, ma aveva rimproverato la nonna per esser stata così poco cordiale con Jungkook, senza nemmeno avergli spiegato il perché di tutta quella sceneggiata. Solo dopo il venticinquesimo minuto scoccato sull’orologio, il più grande si fa coraggio e va a bussare alla porta del bagno.
«Jungkook? Tutto… tutto bene?»
«No».
La voce che sente dall’altra parte dello stipite sembra instabile e incrinata dai singhiozzi. Taehyung vorrebbe solo non essere lì, in quel momento, ma nei giacigli del proprio letto per poter sprofondare tra le lenzuola senza mai più riemergere.
«Mi dispiace, io… avrei dovuto dirtelo».
«Cos’è, una presa in giro?» Stavolta si rivolge a lui con impeto, facendolo sussultare.
«Ho… bisogno di pulizia. La casa, gli oggetti, i vestiti, tutto qui dentro deve essere sterilizzato prima di entrare in contatto con me. Mi dispiace , lo so che-».
«E c’era bisogno di trattarmi così? Se solo me l’avessi detto, io-».
«Mi dispiace, mi dispiace, non arrabbiarti».
Taehyung si era portato le mani alle orecchie, attutendo con le palpebre chiuse l’inizio di quello che, forse, sarebbe potuto divenire un litigio. La voce alta gli faceva venire il mal di testa e vedere le persone discutere tra di loro riusciva a trasmettergli un senso di inquietudine e inadeguatezza che in alcun modo sapeva gestire. Si sentiva inutile, non capiva il perché di molte cattiverie e laddove percepiva un litigio, subito si difendeva per evitarne l’inizio, o cercava in ogni modo di far passare la colpa su sé stesso, anche quando non ne aveva alcuna.
Sente un sospiro lieve. «D’accordo. Ma questi vestiti sono ridicoli. Io non esco».
Lentamente Taehyung libera il proprio udito, appena in tempo per sentire la chiave girare nella serratura. Non udendo il classico cigolio della porta che si apre si fa egli stesso coraggio e, tirando giù la maniglia, rivela gradualmente un Jungkook completamente avvolto da una soffice camicia in lino puro, il cui tessuto scivola qua e là sulla pelle rosea del ragazzino, rivelando di tanto in tanto una spalla minuta che fuoriesce dal largo scollo a V. I pantaloni, di seta nera, contornano il tutto facendolo assomigliare molto ad un piguino capitato del posto sbagliato al momento sbagliato.
«P-perdonami» biascica Taehyung, coprendosi le labbra con una mano. «Dovevo chiedere alla nonna di prenderti qualcosa di più adat-»
«Tu stai ridendo» sentenzia Jungkook, incrociando le braccia e facendo svolazzare i polsini troppo lunghi.
«No, io-».
«Stai ridendo di me, hyung».
Sebbene ancora piuttosto su di giri per il modo in cui è stato trattato, Jungkook preferisce di gran lunga sentire quel suono leggero e così simile al riso provenire dalle corde vocali di Taehyung, piuttosto che vederlo rannicchiato dietro una colonna o all’interno della sua stanza, lontano dal cortile dove i balzi casuali della sua palla, all’improvviso, erano divenuti molto più che delle semplici coincidenze.
«Sei buffo» aveva finalmente accordato il più grande, beccandosi un’occhiata pessima di Jungkook, il quale si decide però a mostrare un mezzo sorriso sghembo prima di mettere un solo piede fuori la soglia del bagno. «Se mi prometti che non ci vedrà nessuno, allora va bene».
Taehyung si sposta per fargli strada, sbrigandosi ad annuire. «C’è solo la nonna, ma starà al piano di sopra. Noi possiamo stare qui».
Ancora un po’ titubante, col naso puntato all’insù verso soffitti ampi quasi quanto l’atrio del suo palazzo, Jungkook segue il più grande per il corridoio che li condurrà nuovamente al salone d’ingresso. «Allora, a cosa vogliamo giocare?»
«Giocare?»
Il più grande conosce l’etimologia della parola, e se volesse potrebbe anche recitare la definizione del vocabolario a memoria, ma in quanto ad esperienze, Taehyung non ha mai – davvero – sperimentato cosa voglia dire giocare in vita sua. Può raccontare le volte in cui ha dormito, in cui ha letto, studiato, o suonato il piano, ma quelle in cui ha giocato, purtroppo, nemmeno se le ricorda.
«Già, giocare» ripete Jungkook, senza fare troppo caso alla risposta dubbiosa dell’altro. «Qui sarebbe perfetto per nascondino. Conti tu o conto io?»
Il fruscio leggero dei piedi scalzi sulla moquette cessa e Taehyug osserva le iridi vive dell’amico con aria assente. «Cosa dovremmo contare?»
«Non hai mai giocato a nascondino?!»
«Cre… credo di no».
Lo sbuffo un po’ esasperato di Jungkook si perde nel suo riverbero tra le pareti ampie che li circondano. I colori tenui delle tinte ai muri danno agli interni un’illuminazione quasi fiabesca. O almeno, questo è ciò che Taehyung ha sempre pensato della sua casa. Per quanto riguarda Jungkook, beh, deve ammettere che il bianco gli suggerisce molto quell’aria asettica dell’ospedale dove è stato suo papà qualche mese prima.
«D’accordo allora, facciamo una prova. Io conto fino a venti senza guardare e tu ti vai a nascondere. Non ti devi far trovare, ma una volta scelto un nascondiglio, non puoi più muoverti da lì».
«E quando finisce questo gioco?»
«Quando ti trovo. Oppure se mi arrendo».
«Ma io sono avvantaggiato, non conosci casa mia».
Jungkook gonfia il petto, fingendo che quello non fosse affatto un problema. «Sono parecchio bravo a cercare, cominciamo».
Quando il più piccolo poggia la testa sugli avambracci e questi ultimi allo stipite, Taehyung sente i numeri scorrere velocemente e pensa che in fondo non sarà facile trovare un nascondiglio in così poco tempo. Si sente impacciato ed emozionato, non ha mai passato tanto tempo al piano inferiore dell’appartamento e quella è la prima volta che sperimenta un simile passatempo, per di più in compagnia di un altro bambino. Sceglie di rintanarsi dietro al pianoforte a coda del salotto, a pochi metri di distanza dalla tana; si accovaccia sentendo il cuore battere all’impazzata – ma non è un’agitazione negativa, anzi, Taehyung non si sentiva così felice da diverso tempo ormai.
«Sto arrivando!» trilla la voce di Jungkook, e l’altro fa quasi per rispondergli, prima di coprirsi la bocca con una mano e sghignazzare tra sé e sé di quella che si sarebbe potuta rivelare una svista decisiva. Da sotto lo sgabello, Taehyung scorge il più piccolo girovagare negli enormi atri delle stanze, guardare dietro i mobili e sotto il letto, ispezionare ogni stipite con estrema cura, lanciando ogni tanto occhiate veloci al luogo in cui ha appena contato fino a venti, proprio davanti la porta d’ingresso. Taehyung non capisce il perché di quel gesto, magari c’è una regola che Jungkook si è scordato di dirgli, ma rimane immobile al suo posto, quasi smette di respirare pur di non farsi trovare dal più piccolo. Trascorrono cinque minuti e Jungkook sta ancora vagando senza una meta ben precisa, Taehyung sussulta quando lo sente sbuffare – forse è passato troppo tempo, potrebbe essersi infastidito ed è ora che il più grande riveli la sua posizione – sta giusto per sporgersi al di là della coda quando si trova il naso di Jungkook a pochi centimetri dal volto, assieme a un’espressione soddisfatta che rivela una dentatura un po’ sporgente e due fossette ai lati delle guance.
«Trovato» dichiara con nonchalance, mentre l’altro cade all’indietro per la sorpresa, facendo precipitare a terra anche Jungkook a causa delle troppe risate. «Mi fai morire, hyung» gli rivela tra i sussulti, e il corpo di Taehyung congela per qualche istante, perché non è abituato a ricevere tutto quel buonumore in una sola volta. Osserva il petto di Jungkook fare su e giù, le dita dalle unghie corte e un po’ mangiucchiate poggiate sul ventre per limitarne gli spasmi e quelle rughe d’espressione appena accennate ai lati degli occhi, chiusi – quasi strizzati – ad accompagnare una delle espressioni più belle che Taehyung abbia mai visto. Senza nemmeno rendersene conto, sente un suono provenire dalla propria gola, poi un leggero sussulto delle spalle, e in un attimo si ritrova anche lui a ridere come Jungkook, il perché al momento nemmeno se lo ricorda, ma è così bello provare a lasciarsi andare senza aver paura che accada necessariamente qualcosa di brutto da un momento all’altro.
«E comunque non vale» soffia fuori il più piccolo, crollando con la testa sul pavimento e la braccia aperte, con i palmi verso l’alto. «Mi sono dimenticato di dirti che potevi fare tana».
 
Quella non fu l’ultima volta che Taehyung e Jungkook giocarono a nascondino. Con il compromesso di vestiti un po’ più comodi e adatti a lui, Jungkook tornò spesso a casa Kim, quando i genitori del più grande erano fuori per lavoro e Taehyung non doveva prendere lezioni dall’educatrice. La nonna aveva intravisto finalmente qualcosa, una chiave speciale che da sola sarebbe riuscita a sbloccare l’impossibile serratura del cuore di Taehyung. Il ragazzo mangiava con più appetito, dormiva più a lungo ed era meno cagionevole di salute: a volte capitava che si sentisse stanco, perché Jungkook – a differenza sua – aveva energie da vendere, e doveva rimanere a letto due giorni prima di poter rivedere l’amico, ma Taehyung lo considerava un prezzo esiguo da pagare visto ciò che poteva avere in cambio.
Certo, Taehyung non era così ingenuo da poter pensare che sarebbe riuscito a nascondere quegli incontri ai suoi genitori per sempre. D’altronde, quando anche loro avrebbero realizzato l’influenza positiva che vedere Jungkook aveva sulla sua patologia, sicuramente non avrebbero opposto resistenza, o almeno questo era ciò che a Taehyung piaceva pensare. In verità, la nonna si era proposta di parlarne a mamma e papà Kim appena ce ne sarebbe stata l’occasione, ma Taehyung non si sentiva ancora pronto, voleva prima imparare a percepire ogni singolo cambiamento nel proprio corpo, iniziare a gestire le emozioni e fortificarsi, in modo da non dare ai suoi genitori alcun motivo per impedirgli di frequentare Jungkook. In caso contrario, sarebbe stato un colpo troppo duro da reggere, per lui.
Con il passare dei mesi, il più piccolo aveva cominciato a portare degli oggetti, una volta erano delle carte da gioco, altre un album delle figurine, poi era arrivato con una consolle elettronica ma la nonna gli aveva impedito di usarla con Taehyung – indipendentemente da tutto, pensava fosse meglio che il più grande restasse fuori dall’universo dei videogiochi, probabilmente troppo estremo per lui. Taehyung aveva iniziato a conoscere una piccola fetta del mondo dal quale era sempre stato tagliato fuori e, tutto sommato, non gli era sembrato poi così male come gli era sempre stato descritto. Sapeva accettare le regole dei giochi, gli piaceva attaccare adesivi, anche se non ne capiva a fondo l’utilità, inoltre Jungkook pareva avere un talento innato per il disegno, per cui non erano rare le volte in cui si sedevano al tavolo e facevano a gara a chi disegnava meglio una rosa, o un suppellettile della casa. Taehyung amava conservare quei disegni in una cartellina: anche se il tratto di Jungkook era più deciso del suo, le immagini non lo disturbavano, anzi, aveva cominciato ad abituarvisi e a pensare che un giorno – forse - avrebbe potuto accogliere in casa anche quei vorticosi quadri colorati di Van Gogh che gli piacevano tanto. Teneva il materiale gelosamente custodito sotto il letto, a riparo da occhi indiscreti e da mani che avrebbero potuto strappare il frutto di tanto lavoro.
 
«Hyung, non puoi vivere per anni recluso in casa».
Jungkook, da quando lo aveva conosciuto, era sempre stato un ragazzo timido e introverso, ma la crescita lo aveva reso più caparbio e spesso non si faceva problemi a dire le cose come stavano.
Sono entrambi seduti al tavolo della cucina, mentre mangiano uno spuntino che la nonna ha appena preparato per entrambi.
«Quando è stata l’ultima crisi che hai avuto?»
Taehyung addenta il suo tramezzino con formaggio, guardando nel vuoto. «Tre mesi fa, perché ti eri scordato la tua borsa di Taekwondo in camera mia» lo rimbecca, cercando di rimuovere dalla memoria l’improvviso attacco d’asma che tutto quel sudiciume gli aveva provocato. In verità non si percepisce rimprovero nella sua voce, perché quando c’era di mezzo Jungkook, affrontare i momenti difficili non sembrava più un grande problema.
«Avanti, non sto dicendo di andare al parco, semplicemente usciamo un po’ nel tuo cortile».
«Non forzarmi».
«Non voglio farlo, è solo che-».
Taehyung ha cominciato a irrigidirsi e Jungkook si lascia sfuggire un sospiro. Poggia il tramezzino del piatto – nel suo ci sono anche prosciutto e maionese – e si volta a guardare l’amico, più deciso che mai a fargli comprendere il suo punto di vista.
«Ho portato qui tutto ciò che potevo, l’ho fatto apposta per avvicinare te a ciò che c’è lì fuori. Non è questo che hai sempre voluto? Iniziare a vivere come gli altri?»
«Io non potrò mai vivere come gli altri Jungkook, mettitelo in testa».
«Sì, invece!» replica l’altro alzando un po’ il tono di voce, ma lo ridimensiona subito quando scorge le sopracciglia di Taehyung crucciarsi per il suono troppo forte. «Ti ci vuole solo più tempo, ecco tutto» dichiara quasi sussurrando, più deciso che mai ad avere ragione.
All’inizio il più grande è quasi divertito da tutta quella ostinazione, eppure al contempo lo intristisce, perché sente di star privando Jungkook di qualcosa che per lui è naturale fare, e chissà che un giorno non glielo rinfacci abbandonandolo al suo destino: in fondo chi mai vorrebbe essere amico di una persona che non può uscire di casa?
«Hyung
Si sente chiamare dalla voce di Jungkook quando già ha portato entrambe le mani alle tempie, stroncato da quei pensieri distruttivi, la testa in fiamme per aver anche solo pensato ciò da cui i suoi genitori hanno sempre cercato di allontanarlo: la sofferenza.
«Hyung, rispondi! Che succede?»
Jungkook è inerme davanti alle crisi di Taehyung, spesso non ne capisce la causa e cercare di arginarle senza farsi prendere dal panico a sua volta è un’impresa titanica. Il più grande però lo sorprende e solleva il capo riemergendo dagli avambracci; ha un’espressione tremendamente sconfitta in volto, come se avesse appena combattuto contro qualcosa che sa avere la meglio su di lui quasi sempre.
«N-niente Jungkookie, ora sto bene» lo tranquillizza, massaggiandosi le tempie. «Dimmi solo una cosa». Non sa nemmeno lui dove ha trovato la forza per formulare quella domanda nella sua testa, ma prima o poi avrebbe dovuto saperlo o il dubbio lo avrebbe divorato lentamente sino a distruggerlo.
«Se non dovessi riuscire a scendere la scale di quel cortile».
«Ci riuscirai».
«Lasciami parlare. Se io fossi davvero inadatto per uscire in questo mondo, tu cosa faresti?»
Jungkook lo guarda con le guance piene di pane morbido, smette per un attimo di masticare, poi riprende, manda giù il boccone e si pulisce la bocca con un tovagliolo, riponendo le mani in grembo e voltandosi al contempo in direzione dell’amico. Cerca il suo sguardo, che rifugge subito dopo averlo ottenuto. Un’alzata di spalle e un piccolo sorriso, la risposta arriva con la stessa irruenza di un treno in corsa.
«Vorrà dire che continuerò a portare il mondo da te, hyung».
 
«Per quanto pensi possa durare questa situazione, Hyunae? »
L’anziana signora reagisce alla domanda della donna continuando a sbucciare una mela per Taehyung, premurandosi di togliere la buccia e odorando le proprie dita per accertarsi che non vi sia rimasto l’odore del mandarino che ha mangiato poco prima. L’ultima volta che le labbra del ragazzo erano venute a contatto con un agrume si erano gonfiate a tal punto da impedirgli di articolare correttamente le parole.
«Davvero credi che io e mio marito continueremo a far finta di niente in eterno?»
«A dire il vero, mi stavo chiedendo quando vi sareste decisi ad affrontare la questione con Taehyungie».
L’ultimo spicchio di mela è in cima alla piccola ciotola, quando la nonna si alza e raggiunge il lavabo per sciacquarsi le mani. Nel frattempo, sul gas sta bollendo un tegame di latte caldo.
«Affrontare?» ripete la donna, abbastanza infastidita dall’apparente indifferenza dell’altra. «Siamo stati fin troppo pazienti. Lo abbiamo fatto per lui, perché questa situazione sembrava farlo stare bene».
«Esatto» prorompe la nonna, controllando la temperatura della bevanda. «Lui sta bene».
«Ma quanto durerà?»
«Chi può saperlo. Ha davvero importanza?»
Il volto stanco della mamma di Taehyung mostra un fascino sciupato, di una donna che un tempo poteva vantare un’indicibile bellezza, ora tradita e quasi distrutta dalla sofferenza. Ma nel taglio a mandorla degli occhi, così grandi e simili a Taehyung, c’è forse ancora un barlume di speranza, qualcosa alla quale aggrapparsi disperatamente per far sì che la buia realtà non la inghiotta estinguendo anche il più piccolo raggio di luce.
«A Taehyung serve un’ancora sicura, non un attracco temporaneo».
«Jeon Jungkook è un’ancora sicura».
«Come fai a dirlo, non lo conosci nemmeno».
«Oh no, sei tu a non conoscerlo, Areum. Quel ragazzo ha da offrire molto più di quanto tu creda».
«Quel ragazzo è solo… un ragazzo. Non sa a cosa sta andando incontro».
«Sa che vuole essere amico di Taehyungie. Non basta questo?»
«Cosa succederà se un giorno litigheranno? Le amicizie non durano per sempre».
«Lo affronterà come sarà in grado di fare».
Il tono di voce della donna si fa improvvisamente più alto. «Lui non può affrontarlo» pronuncia con decisione, tentando invano di coprire un timbro vacillante.
«Ah sì? E cosa succederà quando io morirò?»
«Hyunae!»
«Dimmelo, avanti!»
«Perché dobbiamo parlarne adesso?».
«Perché non potrai proteggerlo per sempre, Areum! La vita è piena di sofferenza e la bolla di vetro che avete creato per lui prima o poi andrà in mille pezzi, che voi lo vogliate o no!»
«N-non lascerò che si sgretoli…»
«Anche io ho paura».
Una lacrima solitaria e veloce nel suo andare riga la guancia della donna, che per un istante lungo un eternità incrocia lo sguardo dell’altra, ugualmente preoccupato ma incredibilmente fermo e deciso.
«Ho paura per lui. Ma non dobbiamo lasciare che i nostri timori gli impediscano di vivere, Areum».
«Non posso guardarlo vivere così».
Areum si appropria della merenda che Hyunae ha preparato per Taehyung e, senza aggiungere altro, esce dalla cucina e prende le scale che portano in camera del ragazzo. La nonna la guarda salire e sospira, consapevole che, forse, nessuna buona parola verrà presa in considerazione da quei genitori così preoccupati per il proprio figlio da non voler vedere il reale stato delle cose. D’altronde sarebbe egoistico, da parte sua, considerarla una battaglia persa in partenza: avrebbe continuato a riporre la sua fiducia nelle potenzialità di Taehyung, nella sincerità di Jungkook e nella genuinità di un legame che, forse, sarebbe stata l’unica vera cura ad un male così intangibile.
 
 «Cantala ancora».
Le dita affusolate di Taehyung sembrano fatte apposta per comporre melodie. Le muove sui tasti ad occhi chiusi, quasi come se stesse dialogando in segreto con il piano, come se quei suoni fossero il risultato di un’intima intesa che solo lui può davvero comprendere. Jungkook ne è ipnotizzato, spesso si incanta a guardarlo suonare senza nemmeno apprezzare davvero la composizione, semplicemente gli piace seguire quei movimenti spediti e attenti, delicati e sinuosi, quando suona Taehyung sembra un’altra persona – non  è più il ragazzo fragile che si spezza con un soffio – è una fonte inestinguibile di energia, talento e, soprattutto, passione. L’amore che infonde in ogni suono generato dalle corde percosse dal martelletto è un fremito che si diffonde nel corpo e vi lascia un segno indelebile, un moto potente e irrefrenabile tanto da far tremare la pelle e lacrimare gli occhi. Una volta, Taehyung aveva suonato una composizione melodica, di quelle che si sentono anche in radio, e Jungkook, senza pensarci, aveva iniziato a canticchiare il testo; il più grande lo aveva seguito tentando di star dietro a parole che non aveva memorizzato, ma alla fine ne era uscito un bel duetto e da quel giorno Taehyung non aveva fatto altro che chiedere a Jungkook di cantare per lui. Diceva che il suo timbro di voce si sposava a meraviglia con il suono del piano, e che ascoltarlo riusciva a dargli un senso di pace. Jungkook aveva sempre preferito giocare a videogiochi o, nel caso fosse con Taehyung, svolgere attività che richiedessero l’impiego di energie, sia mentali che fisiche, ma di certo non esporre davanti all’altro un “talento” che non credeva affatto di avere e che, puntualmente, lo faceva sentire in imbarazzo.
«Hyung, è già la seconda volta che-»
«Cantala di nuovo».
E così Jungkook cantava, lo faceva per Taehyung e per quel suo sorriso che non gi abbandonava un secondo le labbra mentre lo accompagnava con il piano. Una volta la nonna li aveva sorpresi in salotto, una di quelle poche volte che, negli ultimi tempi, a Jungkook era stato permesso di salire in casa – visto l’aumento improvviso di lezioni, impegni, visite e quant’altro in cui Taehyug si era trovato invischiato. Sì perché i genitori non avevano deciso di impedire la sua amicizia con Jungkook, semplicemente avevano cercato di ridurla all’osso – allontanarli quasi – nel modo più brutale e subdolo possibile; a nessuno dei due era permesso replicare, perché spesso si trattava di impegni legati allo studio o alla salute del più grande, ma entrambi avevano capito che non a tutti andava a genio un legame come il loro. D’altronde avevano stretto i denti e tirato fuori le unghie per difendere quel poco che rimaneva loro, perché, per quanto esiguo potesse essere, non vi avrebbero rinunciato per nulla al mondo.
«Mia madre vuole che faccia un provino».
Jungkook lo butta fuori come se avesse appena sganciato una bomba a orologeria. Aveva parlato mentre Taehyung stava ancora suonando, nemmeno si era sforzato di finire la canzone, semplicemente voleva dirlo e lo aveva fatto, non importava se al momento sbagliato,
Taehyung allontana le dita dai tasti e le lascia cadere in grembo, riservando all’altro un’occhiata perplessa.
«Provino?»
«Per diventare idol»
Continuava a parlare con la testa bassa e a giocherellare con le proprie dita, sentendo lo sguardo dell’altro su di sé.
«Un idol è un artista musicale… un cantante pop rappresentato da un’agenzia» aveva preceduto il compagno prima che potesse chiedergli delucidazioni sull’argomento. Sapeva che in casa Kim non c’erano televisioni, ma circolavano solo alcuni giornali appositamente scelti affinché Taehyung potesse leggerli senza incappare in notizie indesiderate o inadatte a uno come lui.
«Ah… la nonna me ne ha parlato, qualche volta».
In verità gli aveva raccontato di un lontano cugino che aveva intrapreso la carriera di presentatore televisivo, ma Taehyung suppone che è un po’ la stessa cosa e decide di non scendere nei dettagli. D’altronde Jungkook ha una bella voce e trova che non ci sia niente di male a desiderare che anche altri possano ascoltarla. Nello stesso momento in cui lo pensa, però, Taehyung percepisce una strana sensazione di fastidio, quasi come se, in quel modo, potesse perdere per sempre il privilegio di suonare assieme a lui assecondando quel timbro che, in fondo, si era palesato proprio durante i loro duetti al pianoforte.
«Che… che c’è hyung?» Jungkook comprende che Taehyung è sovrappensiero ed inizia a preoccuparsi. «Lo sapevo che l’idea non ti sarebbe andata a genio, ma tanto neanche io voglio farlo, chi vuoi che mi prenderebbe con tutti i talenti che ci sono in giro» aveva biascicato in modo impacciato, riuscendo ad ottenere un flebile sorriso dal compagno più grande.
«Io penso invece che dovresti provarci». Ancora una volta, Taehyung aveva parlato senza realmente dire ciò che pensava. Non gli era mai capitato prima di conoscere Jungkook, in un certo senso si era trovato costretto a nascondere ciò che realmente provava – e questo gli provocava un enorme sforzo di volontà -, lo aveva fatto per il bene di Jungkook, perché, da un po’ di tempo a quella parte, aveva cominciato a vedere al di là di sé stesso, della propria salute e delle conseguenze che determinate scelte avrebbero avuto su di essa. Ma non lo aveva fatto per farsi del male, perché anche se quelle decisioni, spesse volte, lo facevano soffrire quando Jungkook non poteva vederlo, poi la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta attutiva ogni male e la sofferenza pareva essere valsa la pena. Taehyung, poco a poco, aveva cominciato a capire cosa significava essere amici, tenere ad una persona e desiderare solo il meglio per essa. Aveva scoperto di esser stato sempre un po’ egoista, concentrato com’era sui propri mali, perciò aveva voluto rimediare e, sebbene questo suo nuovo atteggiamento aveva determinato conseguenza dolorose a livello fisico e psicologico, Taehyung si ripeteva che lo avrebbe superato, per quella era l’unica cosa giusta da fare.
Jungkook alza finalmente le iridi, lievemente coperte da un ciuffo di capelli neri abbandonati sulla fronte, e incredulo le incrocia con quelle del più grande, straordinariamente luminose e, per quanto Jungkook riesca a percepirlo, intrise di tristezza.
«Non è quello che vuoi davvero, hyung» pronuncia semplicemente, senza mai interrompere il contatto visivo.
«È quello che voglio per te» è la risposta pronta dell’altro.
Jungkook scuote la testa. «Lo stai dicendo solo per farmi contento, ma guarda che a me non interessa veramente, io-»
«No, sei tu che lo stai dicendo per accontentarmi. Io non c’entro niente in tutto questo, è di te che stiamo parlando».
«E io non voglio».
«Bugiardo. Perché me l’hai detto, allora?»
«Beh ma che c’entra, ne stavamo parlando e… oh che importa, non farò quel provino e basta, chiusa la questione».
Taehyung si siede in modo da poterlo fronteggiare direttamente. «Io penso che invece tu voglia farlo, Jungkookie».
«Che ne sai» prorompe il più piccolo, iniziando ad innervosirsi. «Tutti pensate di sapere cosa voglio, ma la verità è che siete proprio fuori strada».
«Jungkook». Taehyung si è alzato in piedi e ha fatto due passi verso il più piccolo. È raro che sia lui a cercare la vicinanza, perciò Jungkook, d’istinto, si irrigidisce. «La tua voce è speciale».
Lascia trascorrere qualche istante, prima di parlare di nuovo, e il più piccolo è costretto ad abbassare lo sguardo, colto alla sprovvista da quel complimento.
«Tu hai un dono e sarebbe un peccato non condividerlo. Tua madre desidera solo il meglio per te, ne sono sicuro».
«È la mia voce e faccio quello che mi pare» aveva persino incrociato le braccia, tant’è che Taehyung si lascia sfuggire una mezza risatina.
«Se hai voluto condividere con me questa cosa, Jungkook, è perché in fondo lo vuoi anche tu. Ma hai paura che io non lo accetti».
«Non è così!»
«Ma io non sono nessuno per dirti cosa puoi o non puoi fare».
«Andrò a fare il provino se tu verrai con me».
«Cos-?»
«Anche tu hai una bella voce, allora lo faremo insieme».
«Jungkook, smettila di dire assurdità».
«Allora non ci andrò».
«Lo sai che non posso… non potrei nemmeno se lo volessi con tutte le mie forze. Ma tu… tu puoi».
Jungkook apre la bocca, pronto a replicare subito qualcosa di adatto, ma sfortunatamente non gli viene in mente nulla di appropriato. È sicuro che Taehyung, nel profondo, non sia così convinto di quel provino, ma al contempo percepisce l’autenticità delle sue parole, capisce che Taehyung non vuole privarlo di qualcosa che invece lui non potrà mai avere, perché è di un futuro che si sta parlando – qualcosa di importante, non di un esame qualsiasi. E in fondo, anche se non lo ammette, Jungkook ci ha pensato parecchio prima di riferirlo al più grande, e lo ha fatto perché un po’ ci credeva, in quell’opportunità, ma sentiva di aver bisogno di un’approvazione, un supporto che in quel momento solo Taehyung poteva dargli. Eppure, ora che lo ha ottenuto, sente di stare di nuovo punto e da capo, perché, ovviamente, il più grande desidera solo il meglio per lui.
«Ho sbagliato a chiedertelo» conclude, ancora su di giri. «Dovevo fare di testa mia e basta».
«No, invece» replica Taehyung, adesso ad un passo di distanza da Jungkook. «Io sono contento che tu me l’abbia chiesto. Ma adesso che sai la mia risposta, devi fare la cosa giusta, Jungkookie. Promettimi che ci penserai».
 Jungkook scoglie l’intreccio della proprie braccia e, inaspettatamente, si trova entrambe le mani chiuse nella presa flebile di quelle di Taehyung, il suo viso a pochi centimetri dal proprio. «Prometti?»
Rimane impietrito per qualche secondo, dopodiché sospira ed è solo quando vede comparire sul volto dell’altro un sorriso quadrato che si decide a rispondere. «Promesso».
 













Non vi ruberò molto tempo. Questa nacse in verità come una one shot, ma per questioni di miglior leggibilità è stata divisa in due parti, ci sarà spazio perciò nell’altro capitolo per chiarire eventuali dubbi. Vorrei solo RINGRAZIARVI per esservi avventurati in una fan fiction così strana, spero non vi risulti troppo astrusa o pesante da leggere. Spero inoltre che susciti anche in voi ciò che ha fatto provare a me, mentre la scrivevo.
Alla prossima, se vorrete. E ricordate che ogni opinione è bene accetta♥

PS. Il "sottotitolo" di questa storia è in realtà il significato della parola giapponese "Komorebi". ^^
 
Vavi


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


banner



La luce che filtra tra le foglie degli alberi

II

 



 
Taehyung se ne sta sdraiato su un fianco, supino, le membra completamente abbandonate al tepore del materasso, gli arti rilassati, quasi apatici nella loro immobile permanenza. Osserva fuori dalla finestra senza realmente guardare: dovrebbe sentirsi ribollire di rabbia, perché ha appena litigato con l’educatrice. A Taehyung piaceva molto studiare storia, soprattutto le grandi personalità del passato, quelle che avevano guidato spedizioni importanti nelle guerre; stranamente, però, quando si arrivava al dunque molti dettagli venivano omessi e a Taehyung non era mai permesso capire le dinamiche di una guerra, studiare la vita in trincea o interessarsi di strategie militari. Tutti argomenti che gli sarebbe piaciuto approfondire – non senza un pizzico di timore – ma che puntualmente gli erano preclusi perché troppo pesanti, per lui, da digerire. Ma quel pomeriggio si era impuntato – la nonna era rimasta quasi a bocca aperta nel sentirlo alzare la voce – voleva ad ogni costo intraprendere quel passo in avanti e insomma, quale miglior modo per farlo se non attraverso la storia, una testimonianza indiretta nel quale lui non era coinvolto in prima persona? “Mi è proibito parlarle di queste cose” si era limitata a dire l’educatrice e Taehyung aveva replicato che ne avrebbe discusso coi suoi, ma quella era stata irremovibile e anzi, aveva minacciato di cambiar materia se solo Taehyung avesse continuato a insistere. Ed era stato proprio in quel momento, quando Taehyung aveva sentito in sé la spinta al cambiamento, dopo molti anni in cui aveva vissuto nella totale apatia, che aveva iniziato a capire quanto in realtà la resistenza non provenisse da lui, ma dalle persone che gli stavano attorno. E se tutta quella protezione avesse finito per peggiorare la situazione, invece che preservarlo dal dolore? Quella consapevolezza gli attanagliava il petto e la convinzione che, se avesse aspettato ancora, sarebbe stato troppo tardi, si faceva sempre più insistente. D’altronde negli ultimi giorni aveva manifestato una sorta d’insofferenza alla compagnia: non voleva vedere nessuno ad esclusione della nonna, e quando gli si imponeva la presenza di qualcuno finiva puntualmente per avere la nausea ed era costretto a sdraiarsi sul letto in camera sua. Ormai erano trascorse più di tre settimane dall’ultima volta che aveva visto Jungkook. Era passato qualche giorno prima sotto la sua finestra, scusandosi per non esser potuto venire negli unici giorni in cui Taehyung aveva dato la sua disponibilità – le gare di Takewondo e un rischio di debito in matematica lo avevano tenuto piuttosto occupato. Il più grande aveva risentito di quella mancanza, ma in fondo pensava fosse stato meglio così, perché i medicinali sperimentali che aveva provato nell’ultimo periodo stavano mettendo a dura prova le sue energie residue, facendolo dormire praticamente metà della giornata.
«Taehyungie» la voce roca e dolce della nonna si fa strada in quell’unico spiffero che dà accesso alla camera del ragazzo.
«Lasciami solo».
«Voglio solo accertarmi che tu stia bene».
«Sto bene».
«D’accordo».
Nell’aria si può udire solo il respiro stanco di Taehyung, fin quando è lui stesso a decidere di non lasciar morire lì la conversazione. «Nonna… aspetta». Si volta piano dal lato opposto, sperando che la donna non sia già scomparsa; sospira debolmente quando la trova ancora lì, sulla soglia della porta, con la schiena un po’ gobba e gli occhi vispi, come la ricorda da quand’è nato. Il viso è allungato ma le guance sono paffute e Taehyung ha sempre amato lasciarvi piccoli baci con lo schiocco. Senza aspettare che sia il ragazzo a chiederlo, la nonna socchiude la porta d’ingresso e fa qualche passo in direzione del letto, per poi sedersi al bordo e lasciare una carezza sui piedi scalzi di Taehyung.
«Stai iniziando a capire, vero?» gli sussurra, con un sorriso stanco.
Taehyung si alza a sedere, sottraendosi dal contatto con la nonna. Incrocia le gambe e si guarda i palmi delle mani, come se al loro interno potesse trovarvi chissà quali risposte.
«Perché non posso almeno provarci?» risponde con un’altra domanda, aggrottando le sopracciglia. «Ad essere normale».
«Tu non hai bisogno di essere normale» replica svelta la nonna. «Puoi essere molto più di normale».
Taehyung scuote la testa, guardando la donna con occhi imploranti. «Sai che intendo, nonna. Ogni tentativo che faccio viene messo a tacere. Cosa c’è veramente di sbagliato in me?»
«Non c’è proprio niente in te, Taehyungie. Siamo noi. È il mondo ad avere un problema, non tu».
Il ragazzo schiude le labbra per dire qualcosa, ma poco dopo cambia idea.
«Tu stai facendo del tuo meglio. Non devi rimproverarti nulla. Vedrai che col tempo, anche chi ti sta intorno inizierà a capire». Gli friziona con i polpastrelli le radici dei soffici ciuffi che gli ricadono sulla fronte. «Stai crescendo, Taehyung… stai cambiando. Presto ciò che ti circonda cambierà con te».
«E se le cose dovessero andar male? Se non dovesse funzionare?»
«Se questa è davvero la strada che senti di voler intraprendere, allora non devi temere. Sarà il tuo cuore a guidarti fino in fondo».
«Prima… prima avevo paura perché non riuscivo a guardare al futuro. Non ci vedevo niente lì in fondo, solo un buco nero. Adesso invece… c’è qualcosa».
«Qualcosa che ti dà sicurezza» rinforza la nonna, annuendo. «Qualcuno che ti tende la mano».
Alla parola qualcuno, gli occhi di Taehyung si illuminano, ma è un secondo, perché poi tornano bassi a fissare gli ornamenti del lenzuolo candido. La nonna, per tutta risposta, gli solleva il mento, stringendolo tra pollice e indice. «E questo qualcuno ha portato un regalo stamattina».
D’un tratto l’espressione di Taehyung si increspa sino a diventare un autentico punto interrogativo. «Che ho dovuto rifiutare per te, ovviamente».
«Cos-?»
«Jeon Jungkook, sì, hai capito bene. Si è presentato alla porta con un cucciolo di meticcio bianco. Se avesse aperto tua madre gli sarebbe preso un infarto».
«Un-un cane?!»
«Già, un cane! Che testa quel ragazzo, accidenti. Mi chiedo se a volte rifletta prima di fare le cose» scuoteva il capo a destra e a sinistra mentre parlava, ma non si era accorta del sorriso radioso che si era appena dipinto sul volto di Taehyung. «Che hai così da ridere?»
«Jungkook voleva regalarmi un cane!» ripete a sé stesso, quasi come facesse fatica a crederci. «Ho sempre voluto un cane».
«Taehyungie…»
«Lo so che non posso tenerlo, però… lui ci ha pensato. E non gliene ho mai nemmeno parlato».
La nonna gli riserva un’occhiata intenerita. «È o non è un tuo amico?»
Taehyung continua a sorridere, poi si sistema meglio sul letto per potersi sedere accanto alla nonna. «Era bello? Aveva il pelo morbido?».
La donna fa un buffo gesto con la mano. «Non è che io l’abbia guardato più di tanto. A pensarci bene, non sono stata nemmeno troppo gentile con Jungkook. Il fatto è che, suvvia… un cane!» lo aveva detto per l’ennesima volta, a metà tra il sentirsi in colpa per come aveva accolto quel regalo e l’incredulità della situazione in sé, fin quando aveva percepito il capo del ragazzo accoccolarsi sulla sua spalla e le dita fine di Taehyung incrociare le sue.
«Chissà che fine farà, povero cucciolo».
La nonna gli dà un bacio sulla fronte, poi parla con finta indifferenza. «Mi pare avesse detto qualcosa sul fatto che lo avrebbe tenuto lui, ma che rimaneva un regalo per te e se mai avessi voluto saresti potuto andarlo a prendere».
«Davvero?» Taehyung solleva di nuovo la testa, guardando la nonna, che annuisce.
«Allora va bene così. Quando Jungkook tornerà gli comunicherò il nome che ho scelto per lui».
«E quale sarebbe questo nome?»
Un altro sorriso fa capolino, mentre risponde. «Yeontan»
 
«Guarda, non ti sembra cresciuto?»
Jungkook si rivolge al più grande mentre con la mano destra tiene il guinzaglio del piccolo Yeontan, il quale scalpita per potersi muovere, magari correre in quel cortile che intravede davanti a sé ma al quale, al momento, non gli è permesso accedere. Taehyung aveva fatto passi da gigante negli ultimi mesi, e qualche volta si era recato presso il piccolo orticello che avevano in giardino; l’aria fredda e l’odore acre delle piante, però, gli aveva dato alla testa quasi subito, e ben presto aveva dovuto rinunciare all’impresa. Adesso, mentre li guarda dalla finestra, la voglia che ha di scendere per osservare da vicino quel cucciolo che considera già suo è tanta, ma le temperature sono davvero rigide e vorrebbe dire rischiare troppo.
«È vivace» commenta, scrutandolo dalla finestra di camera sua. La sciarpa e il cappello che ha indossato sembrano non bastare mai per ripararlo dall’aria gelida di Gennaio, anche se la finestra è aperta solo per metà, ciò che basta affinché possa sentire la voce di Jungkook,
«Non si ferma un attimo!» commenta l’altro, cercando di acchiappare la bestiolina con due mani per prenderla in braccio e mostrarla meglio all’amico. Quando ce l’ha in grembo il cagnolino si agita e comincia a leccargli la faccia, così Jungkook ride e tira la testa all’indietro, mormorando al cucciolo qualcosa che Taehyung non riesce a sentire.
«Quanto vorrei accarezzarlo» si lascia sfuggire il più grande, ma lo ha detto a bassa voce e non è sicuro che Jungkook possa averlo udito.
«Ricordati che quando te la senti puoi venirlo a prendere» grida quasi l’altro, cercando di sfuggire alle attenzioni di Yeontan.
Taehyung non può far altro che annuire nella consapevolezza che, probabilmente, quel giorno non sarebbe mai arrivato. Era felice però, come non lo era da tempo, perché sapeva di aver lasciato quel cucciolo in buone mani e anche se, in tutta certezza, lo avesse tenuto per sempre Jungkook, a lui sarebbe andato bene lo stesso, almeno – pensava – non si sarebbe mai dimenticato di Taehyung.
«Questo mercoledì sei libero?» gli dice poi, cambiando argomento. «Ho scritto un pezzo al pianoforte. Credo che faccia un po’ schifo, ma volevo fartelo sentire lo stesso».
Vede il più piccolo adagiare delicatamente il cane con la zampe per terra, dopodiché riesce a scorgerlo mentre si gratta la nuca. «Davvero hai scritto un pezzo, hyung
Adesso è Taehyung a percepire una lieve nota di imbarazzo. «Beh, ci ho provato».
«Certo che ci sono» aveva replicato allora Jungkook, mostrandogli un pollice alzato.
Taehyung, a quel punto, tira un silente sospiro di sollievo, visto che ultimamente incontrare Jungkook era diventato parecchio complicato. Non riesce però a trattenere per sé una questione della quale aveva parlato con la nonna: al massimo si sarebbe beccato una rispostaccia.
«Senti, Jungkookie… non è che ti sei fidanzato? Guarda che a me puoi dirlo».
In verità, prima che la nonna gli accennasse a questa possibilità, Taehyung non ci aveva mai riflettuto sul serio, anche perché lui stesso faceva fatica a comprendere la parola amore e ad applicarlo a due persone che non appartenessero alla stessa famiglia. Certo, sapeva che sua madre e suo padre si erano sposati per amore, ma non li aveva mai visti in atteggiamenti particolarmente affettuosi l’uno verso l’altra. L’amore ha tante sfaccettature, gli aveva spiegato la nonna, e non era detto che lo si dovesse per forza dimostrare apertamente. Ne avevano parlato a lungo, perché Taehyung voleva capire a tutti i costi, e alla fine era rimasto un po’ deluso, visto che ancora quella parola così semplice all’apparenza ma ebra di significato sembrava in qualche modo sfuggirgli nel senso più romantico del termine. Però, a pensarci bene, non gli sembrava una possibilità così remota: Jungkook aveva usato lo sport e la scuola come scusa per nascondere una relazione nuova della quale magari si vergognava a parlare. Certo, chiederglielo così apertamente non era stata forse un’ottima idea, visto il temperamento del più piccolo, ma ormai era fatta e non rimaneva che attendere la sua risposta.
«Fi-fidanzato?!» per un attimo gli sfugge il guinzaglio di mano ma si piega svelto per riprenderlo prima che Yeontan fugga da qualche parte lontano da lì. «Che vai farneticando, hyung». Vuole sembrare sicuro di sé, ma nel suo tono di voce è facile scorgere tentennamenti.
«Non ci sarebbe niente di male» continua Taehyung, ricordandosi le parole della nonna, la quale si era raccomandata di incoraggiare questa nuova tappa della crescita di Jungkook, se mai fosse stata veritiera.
«Non sono fidanzato!» replica indispettito l’altro. «Smettila di dirlo».
«Non hai nemmeno una persona che ti piace?»
Probabilmente Jungkook non si sarebbe mai aspettato un discorso del genere proprio dal più grande, e probabilmente nemmeno Taehyung avrebbe mai pensato di farglielo prima di quel tête-à-tête con sua nonna. Ora era semplicemente curioso, non si sarebbe arrabbiato con Jungkook anche se avesse scoperto che in passato gli aveva mentito per poter stare con un’altra persona, l’avrebbe capito – Jungkook era un ragazzo molto introverso, non gli piaceva raccontare i fatti propri.
«Giuro che non mi arrabbio».
«Ma mi arrabbio io se continui con questa storia».
Sembrava davvero infastidito da quel discorso, anche se faceva fatica a mantenere un’espressione almeno vagamente seria. Più che altro, pareva intento a celare come poteva la vergogna.
«D’accordo allora, scusami. Se non vuoi, non ne parleremo più».
Ci aveva provato almeno, ma non voleva di certo rischiare di litigare con lui per un questione simile. Dopo quell’affermazione JUngkook si era ammutolito e aveva continuato a guardare Yeontan mentre scorazzava lì intorno nella disperata speranza che il quasi padrone lo liberasse e lo lasciasse correre libero.
«Devo andare» dice poi, alzando le spalle e mantenendo basso lo sguardo.
Taehyung aveva sentito un groppo allo stomaco in quel momento, poiché sembrava che qualcosa si fosse momentaneamente incrinato tra i due.
«Jungkook, sei arrabbiato con me?» qualcosa dentro di sé gli urlava che doveva accertarsene, o quando l’altro se ne sarebbe andato non avrebbe fatto altro che rimuginarci su senza poterne venire a capo.
Il più piccolo sospira, ma Taehyung non può sentirlo, dopodiché alza lo sguardo verso di lui e l’espressione è già più rilassata. «No, hyung» dice solo, e la sua voce sembra morbida. «A mercoledì».
La risposta di Taehyung è un sorriso congelato, prima di chiudere in fretta e furia finestre e tapparelle. 

La composizione l’aveva chiamata 4 o’clock. L’ora in cui solitamente Taehyung sobbalzava sul letto per aver avuto uno dei suoi incubi. Respirava a fondo col naso, tentando di regolarizzare il battito, poi guardava fuori le tende della finestra, verso il cortile di rose bianche e la luna che splendeva nel cielo, e si tranquillizzava. Aveva pensato semplicemente a quello, mentre, pian piano, le note nascevano dando vita ad un sound malinconico, quasi triste, ma incantevole nel suo essere straordinariamente evocativo. Quando Jungkook l’aveva sentita per la prima volta, i suoi occhi avevano versato due lacrime, che si era premurato di asciugare prima che Taehyung alzasse lo sguardo dal piano. Ma a lui era bastato percepire un cambiamento nel respiro del più piccolo per capire che, in qualche modo, la melodia composta aveva fatto il suo lavoro – trasmesso il messaggio di cui era portatrice.
«Ti piace?» aveva chiesto quasi in un sussurro, quando le dita affusolate avevano lasciato i tasti.
L’altro si era limitato ad annuire vigorosamente, incapace di formulare una frase di senso compiuto che non stimolasse di nuovo le sue ghiandole lacrimali. Allora Taehyung aveva sorriso, un sorriso dolce, e si era voltato in direzione dei tasti. «Posso suonarla di nuovo» aveva azzardato, dopo aver letto quel groviglio di sentimenti districarsi nelle iridi scure di Jungkook. Il più piccolo allora aveva annuito un’altra volta, promettendo a sé stesso che non si sarebbe lasciato sopraffare dalle emozioni, godendo appieno della melodia. In verità Taehyung l’aveva poi suonata tre volte, perché la quarta si era trovato Jungkook seduto affianco a lui con una sedia bassa rimediata dal soggiorno, intenzionato ad imparare almeno le prime quattro righe di spartito.
«Potresti scriverci una canzone su» era stato il suo commento, quando l’altro aveva mostrato una bella espressione giuliva per aver azzeccato le note iniziali. Lentamente, Taehyung aveva visto morire il sorriso sul volto di Jungkook e i suoi lineamenti assumere una configurazione indecifrabile. Si era ammutolito – prima non aveva fatto altro che borbottare su quanto le dita di Taehyung fossero sciolte rispetto alle sue, “due tronchetti d’albero” – e fissava il foglio con le note come se il suo sguardo potesse trapassarlo e guardare oltre; probabilmente avrebbe voluto scappare da lì il prima possibile, ma qualcosa lo teneva inchiodato a quella sedie e gli impediva di parlare. Il più grande si era voltato verso di lui con tutto il busto, conciliante. «Jungkook… cosa c’è che non va? Ho detto qualcosa di sbagliato?». Ultimamente Jungkook sembrava un po’ scostante, quasi sulle sue, e anche quei continui rifiuti che aveva giustificato a modo suo, forse non dipendevano davvero da una persona speciale che aveva conosciuto e che voleva tener nascosta. Semplicemente c’era dell’altro, qualcosa che non aveva avuto il coraggio di dirgli prima. Taehyung aveva cercato il suo sguardo e lo aveva ottenuto per un solo istante, ma questo non lo aveva fatto demordere.
«Jungkook, qualsiasi cosa sia, a me puoi dirla».
«Il fatto è che…»
Pur essendo molto vicini, Taeyhyung aveva faticato a sentire quel sussurro uscire dalle labbra di Jungkook. Il più piccolo stava ancora guardando altrove – si fissava le ginocchia – faceva di tutto pur di non dover trovare Taehyung, sentirlo realmente accanto a sé e completamente aperto a qualsiasi tipo di confessione.
«Ti… ti ricordi quel provino?»
«Certo che me lo ricordo».
Taehyung aveva dovuto attendere ancora affinché Jungkook continuasse il suo discorso.
«L’ho fatto… e mi hanno preso».
«E me lo dici così?» aveva esordito l’altro, spalancando le palpebre. «Jungkook, è una notizia magnifi-».
«Hyung tu non capisci, vero?»
Quell’affermazione era sembrata d’un tratto fredda, irruente. Aveva investito Taehyung come un colpo diretto allo stomaco. Non era stata una notizia che l’aveva colto impreparato – da quando ne avevano parlato Taehyung ci aveva riflettuto e si era fatto una sua idea in merito. Aveva immaginato Jungkook cantare davanti a milioni di persone, investito di luci e coperto di urli e applausi; seppur quasi estraneo al mondo dello spettacolo, Taehyung ci aveva provato, si era preparato all’eventualità e ora sembrava che quel suo training non fosse stato abbastanza, perché da come gli stava parlando Jungkook, forse c’era ancora qualcosa che gli sfuggiva.
Il più piccolo aveva gonfiato i polmoni, per poi lasciare che l’aria fluisse dal naso, prima di parlare. «Dovrò andare a vivere a Seoul, hyung. È lì che si trova l’agenzia che mi ha ingaggiato».
«Seoul?» aveva ripetuto Taehyung, come se non gli fosse stato chiaro il significato di ciò che l’altro aveva appena detto. Eppure gli sembrava di averci riflettuto abbastanza, considerato tutte le variabili in gioco – persino immaginato ciò che non aveva mai potuto vedere con i propri occhi, si era spinto più in là della sua stessa conoscenza e aveva accettato il risultato di quella ricerca certosina, raggiungendo una consapevolezza che lo faceva stare in pace con sé stesso. Ma in quel momento, quando Jungkook aveva pronunciato quell’unica – semplice – frase, quell’unico tassello mancante al puzzle che Taehyung, da solo, si era costruito, ecco che qualcosa di infinitamente grande era sembrato spezzarsi nel proprio petto e aveva fatto un rumore infernale, inebriando la testa e provocandogli le vertigini. Si era aggrappato con una mano alla tastiera del piano, facendo cozzare il suono di alcuni tasti, aveva visto le labbra di Jungkook aprirsi e richiudersi senza sosta, leggendo paura nei suoi occhi – avrebbe tanto voluto parlargli ma aveva un blocco all’altezza del cuore che gli impediva perfino di respirare. Nonostante la vista sfocata era riuscito a capire che Jungkook si era alzato e lo stava afferrando da sotto le ascelle, - probabilmente voleva portarlo sul divano – riuscendo poi a sollevarlo con una forza incredibile e a trasferirlo di peso su uno dei tanti cuscini bianchi che componevano il divano della sala principale. Taehyung però sembrava come in trance, neanche due scossoni che Jungkook gli aveva dato prendendolo per le spalle erano riusciti a farlo rinsavire. Non stava pensando, la sua mente era del tutto svuotata, arida, incapace di mettersi di nuovo in moto per dire qualcosa, qualsiasi cosa che riuscisse a tranquillizzare Jungkook ormai nel panico più totale. Sapeva che se non avesse reagito in qualche modo, il più piccolo sarebbe andato a chiamare la nonna, la quale, con ogni probabilità, lo avrebbe sicuramente allontanato da Taehyung, per evitare di peggiorare la situazione. Ma d’un tratto il più grande aveva sentito un soffio d’aria riuscire a passare tra i brandelli di ciò che era rimasto nel suo animo e si era impegnato con tutte le sue forze per farlo passare nella cassa toracica, permettendogli di fuoriuscire dal naso. Jungkook lo aveva visto gonfiare il petto e, finalmente,  ricominciare a respirare quasi con regolarità. Gli aveva afferrato una mano, gliel’aveva stretta – se Taehyung fosse stato in sé, sicuramente avrebbe sentito dolore - per poi parlare di nuovo.
«Hyung, ti prego, dì qualcosa».
«Mi.. dispiace».
Gli era costato una fatica immane pronunciare quei due vocaboli, ma quello che più desiderava al momento era scusarsi. Nonostante la situazione lo avesse fatto crollare, voleva in qualche modo chiedere perdono per il modo in cui il suo corpo aveva reagito – per il terrore che aveva visto in quei minuti attraversare le iridi di Jungkook, per quanto avesse provato a tenere sottocontrollo quelle crisi ma nessuno sforzo aveva dato il risultato sperato. Si era di nuovo trovato in balia delle sensazioni che il proprio corpo gli inviava, totalmente incapace di controllarle.
«Ti dispiace per cosa?»
Aveva visto un rivolo di sudore freddo rigare la tempia di Jungkook, da come respirava si capiva che era ancora molto agitato e faticava a seguire il discorso di Taehyung.
«Per essere come sono».
«Oh no, io… accidenti hyung, perché devi sempre darti la colpa per tutto».
«Perché è colpa mia. È colpa mia se non mi hai potuto dire fin da subito che avevi passato il provino, è colpa mia se avevi il timore di farlo perché non potevi prevedere la mia reazione. Sono tutto sbagliato, Jungkook, è questa la verità».
«No che non lo sei!»
«Il fatto è che ho voluto proseguire facendo di testa mia. Ti coinvolto in una sofferenza che non meriti di provare».
Jungkook continuava a guardarlo, stringendogli entrambe le mani – sperando che prima o poi ricambiasse, ma le sue dita erano molli, abbandonate, senza un briciolo di forza vitale all’interno. Il volto di Taehyung era girato da un lato, la frangia liscia gli ricadeva sugli occhi, assorbendo assieme alle ciglia l’accenno di un pianto.
«Che… che devo fare, hyung? Dimmelo, ti prego».
Si percepiva chiaramente quanto il più piccolo fosse in difficoltà nel gestire una situazione molto più grande di lui.
«Devi lasciare che le cose facciano il loro corso, Jungkookie. Non possiamo farci niente. Tu hai la tua vita… ed io ho la mia. Ho sempre saputo che un’esistenza così non sarebbe mai stata compatibile con una normale, ma ho voluto chiudere gli occhi e sbatterci la testa contro».
«Sono io che ho deciso di essere tuo amico» aveva buttato fuori Jungkook, quasi con rabbia. «Io ho scelto per me stesso e non mi pento di ciò che ho fatto. Non si tratta di compatibilità, hyung. Noi due siamo amici, è questo che conta».
Taehyung aveva sentito un battito in più scuotergli il petto, poi un altro e un altro ancora, si era aggrappato alla maglia all’altezza del proprio cuore, liberandosi dalla presa di Jungkook. Poteva essere una normale tachicardia – ne aveva avute tante prima di quel momento – ma allora perché gli sembrava di morire?
«Non sono capace di mantenere un’amicizia» aveva sussurrato, coprendosi il volto con una mano.
«Verrò a trovarti» Jungkook si era sentito sprofondare vedendo l’altro singhiozzare. «Ogni volta che potrò. Sarà difficile con il training, ma te lo prometto».
Taehyung era stato in grado di biascicare solo altre scuse, dopodiché Jungkook aveva sentito dei passi provenire dal piano di sopra e in breve tempo aveva visto la sagoma della nonna raggiungerli a passo concitato.
«Ragazzo, forse è meglio che tu vada adesso» aveva detto la donna accarezzando la spalla di Jungkook e tentando, allo stesso modo, di calmare Taehyung. «Non so cosa sia successo tra voi, ma credo che Taehyung abbia bisogno di restare solo».
«No, io non posso andarmene ora, lui-»
«Jungkook-sshi, per favore. È necessario».
«Taehyung!» l’aveva chiamato per nome, voleva che lo guardasse, che gli dedicasse anche solo un istante della sua attenzione. «Tu non vuoi che io me ne vada, vero? Per favore, dillo!»
Ma Taehyung non era stato in grado di aprire bocca; era scosso da singhiozzi silenti, rannicchiato su se stesso come se cercasse invano di proteggersi dal dolore.
«Ti accompagno alla porta» la nonna, con una mano dietro la schiena e l’espressione addolorata, lo aveva guidato verso l’uscita. Jungkook si era lasciato trascinare, ormai incapace di reagire, ma non aveva smesso di guardare lo hyung, in attesa anche di una sola risposta da parte sua. Poco prima di vedersi chiudere la porta in faccia ne aveva scorto il profilo e forse, per un secondo, aveva trovato il suo sguardo, ed era stato come guardare all’interno di un immenso buco nero.
 
I medici gli hanno sempre detto che, durante le crisi, è necessario concentrarsi e pensare a qualcosa di bello, un ricordo o una semplice immagine che riesca a distrarre la mente dalla sofferenza corporea. Taehyung ci sta provando, con tutte le sue forze, ma ogni tentativo si trasforma in dolore fisico, ogni pensiero lo riporta a Jungkook e al fatto che – forse – non potrà più vederlo, e la sofferenza lo rende inerme, in balia di ciò che credeva di poter tenere a bada, di ciò che pensava stupidamente di aver superato attraverso il consolidamento di un legame speciale. Ma, da quel giorno in poi, Jungkook avrebbe vissuto un’esistenza diversa, lontana anni luce dalla sua, e per quanto la loro amicizia potesse esser forte, di sicuro non avrebbe resistito alla lontananza e ai limiti che Taehyung non poteva superare. Sente il cuscino sotto di sé sprofondare, la nausea salirgli e bruciare l’esofago – dovrebbe andare in bagno ma le gambe sono troppo pesanti per muoversi, così cerca di trattenerla, combatte con il proprio corpo per ottenere dei respiri regolari, tiene strette le ginocchia per non perdere il controllo dei propri arti e ancora piange, silenziosamente, sperando che quelle lacrime lo facciano sentire di nuovo vivo. Ma ora gli manca un motivo, il motore che lo spinge ad andare avanti sembra essere andato in avaria e nessun’altra possibilità vuole offrirsi come via d’uscita. Non vede più niente, Taehyung, è solo buio ciò che riflette la sua retina, un buio abissale nel quale si sente inghiottito, indifeso e troppo debole per pensare di ritrovare la luce. Ha chiesto alla nonna di lasciarlo solo, ed è effettivamente l’unica, debole essenza vitale che c’è in quella stanza. Percepisce un ticchettio e pensa sia il suo cuore, ma ben presto si rende conto che è un rumore proveniente da fuori – sta piovendo tanto e lui odia la pioggia. Ciò che avviene dopo è un automatismo: Taehyung si alza senza nemmeno rendersene conto, ma, invece di rintanarsi sotto il tavolo – come spesso faceva quando arrivavano i temporali -  si avvicina cautamente alla porta d’ingresso, quella da dove qualche minuto prima Jungkook era stato mandato via. Rimane lì, immobile, ancora in balia degli impulsi che gli manda il proprio corpo – fanno male, tanto, ma sembra che ci si stia abituando. Chiude gli occhi, ascolta ancora il rumore delle gocce che si infrangono sull’asfalto, il fruscio del vento che ne devia la traiettoria, sente le proprie mani tremare per la paura, ma ormai cos’altro ha da perdere? Ha vissuto una vita rinchiuso in una casa – la sua tana, il suo guscio protettivo – al riparo da tutto ciò che poteva ferirlo, al riparo da tutto ciò che è vita. Allunga una mano verso la maniglia, esita un poco, perché il cuore lo sta avvertendo che quello è un grande rischio, ma per la prima volta lo ignora, sicuro del suo intento, e dopo aver spalancato la porta, un passo dopo l’altro, è sui gradini che lo portano al cortile; scende ancora, guardando avanti, traballando, incespicando nei propri passi, fino ad arrivare lì, al centro del giardino, fino a sentire la pioggia bagnargli i capelli, i vestiti, le membra, e ora non sente più niente, c’è il vuoto dentro di lui – forse è così che si muore, pensa, guardando verso l’alto e affrontando di petto una delle sue più grandi paure. D’un tratto però sente il panico assalirlo, la vista annebbiarsi di nuovo e il corpo tremare per il freddo – il cuore batte più lentamente – sta forse per arrestare la sua corsa? - e tutto è di nuovo nero, fin quando un inaspettato calore lo avvolge donandogli respiro. Per un istante crede di aver messo fine ad una vita che gli è sempre stata stretta, ma nel riaprire gli occhi, tra le gocce di pioggia impigliate tra le ciglia, scorge un volto familiare, anch’esso fradicio e coperto da ciuffi di capelli neri attaccati alla fronte.
«Hyung… che cavolo stai facendo?»
Quella voce è l’unico appiglio che lo fa rinsavire – Jungkook è in ginocchio, di fronte a lui, non ha nessun ombrello con sé – gli tiene le braccia, forse prima lo ha stretto a sé, e lo guarda negli occhi, qualche lacrima nascosta dalla scorrere incessante delle gocce di pioggia.
«Io voglio vivere, Jungkook».
Finalmente, Taehyung ricambia lo sguardo e il dolore comincia a svanire, c’è solo freddo e qualche brivido che scuote il corpo. «Lo voglio più d’ogni altra cosa».
Sente Jungkook sospirare e vede le sue labbra muoversi mentre si scontrano con il forte getto d’acqua che è sopra di loro. «Allora vivi, hyung». Percepisce di nuovo quel calore e le braccia di Jungkook chiuse fermamente dietro la propria nuca. Alza lentamente le proprie per cercare di stringerlo a sua volta con la poca forza che gli è rimasta, ed è proprio quel contatto a far scorrere di nuovo sangue caldo nelle vene, a donargli un battito più tranquillo, a riportare le sue funzioni vitali alla normalità.
«E invece moriremo di freddo» commenta Jungkook dopo quel fugace abbraccio e gli scappa da ridere, o forse è un singhiozzo, non saprebbe dirlo con certezza.
Taehyung sorride a sua volta, anzi, è una vera risata quella che Jungkook può udire, debole e sottomessa al rumore forte delle gocce di pioggia. Fortunatamente, quasi in risposta ai loro timori, il vento sembra voler portar via le nuvole e scoprire lentamente una piccola fetta di cielo.
Il più piccolo si alza e aiuta l’altro a fare lo stesso. Per qualche istante i loro sguardi rifuggono altrove, ma uno starnuto di Jungkook li riporta entrambi alla realtà.
«Le cose cambieranno, adesso?» gli domanda cautamente, saggiando con una mano che sembra aver smesso di piovere.
Taehyung alza le spalle. «Non lo so, Jungkookie. Ma stai pur certo che rimedierò un biglietto in prima fila per la tua prima esibizione pubblica». Non sarebbe stato così facile, ma avrebbe fatto di tutto per far avverare quell’affermazione.
Un altro starnuto e la certezza di un malanno imminente accompagnano la risposta del più piccolo. «Un concerto? – lo aveva detto con l‘incredulità nella voce, ma si poteva percepire con nitidezza quanto quell’idea lo facesse sognare – Non corriamo troppo. Intanto, quando ci rivedremo, dovrai offrirmi una cena».
«Cosa? Perché?!»
«Non è questo che fanno gli hyung quando i propri dongsaeng si impegnano?» Schiva appena un calcetto debole di Taehyung, ridacchiando. L’aspetto tremendamente bagnato dell’altro, specchio del suo, lo fa però tornare serio. «Forse è meglio che adesso rientri in casa, hyung».
Il più grande si scosta i capelli dal volto, adocchiando i polsini gocciolanti della propria camicia. «Quando partirai, Jungkookie?» Il fatto che abbia deliberatamente ignorato la sua affermazione non sorprende il più piccolo, che risponde cautamente. «Tra una settimana. Senti hyung, pensi che Yeontan-»
«Certo. Rimarrà qui» finisce per lui Taehyung.
«Sei… sei sicuro? Altrimenti-»
«Voglio averlo con me» ripete il più grande, deciso più che mai ad ottener ragione. Non l’aveva posta come una possibilità, ci aveva voluto credere fin da subito, perché ormai si sentiva in grado di superare qualsiasi scoglio. «Credo mi stia salendo la febbre» considera poi con molta tranquillità, perché sente che è qualcosa di fisiologico, non dovuto alle sue solite crisi.
«E perché stai sorridendo? Uno non dovrebbe essere felice quando ha la febbre».
La considerazione di Jungkook non lo aveva nemmeno scalfito - abbassa la testa per nascondere un ennesimo sorriso, dopodiché decide di dar ascolto ai consigli dell’altro. «Credo di dover andare, adesso. Ci vediamo, allora?»
«Certo, hyung».
«Se ti dimenticherai di me, verrò a cercarti. Con Yeontan».
«Hyung, non mi dimenticherò di te».
«Tu tienilo a mente».
«Suona come una minaccia».
«E lo è, a tutti gli effetti».
«D’accordo, me ne ricorderò».
«Bravo».
La conversazione sarebbe finita lì, se solo Taehyung non si fosse voltato un istante prima di rientrare di nuovo in casa. Un po’ temeva il fatto di dover nuovamente mettere piede lì dentro, ma qualcosa gli suggeriva che niente sarebbe più stato come prima e quello scudo che per anni lo aveva protetto ora ce l’aveva addosso, proprio dentro di sé: era lui stesso.
«Vuoi… entrare a farti una doccia calda? Ti ammalerai se torni a casa così».
Un altro starnuto, seguito da una risata nervosa. «Credo di essermi già ammalato, hyung».
«Forza, non fartelo ripetere».
«Io gli abiti da pinguino non li metto».
«Non li metterai».
Vengono interrotti da una porta che si apre accompagnata da un’espressione di puro sconcerto da parte della nonna, che cerca invano di articolare le sillabe che formano il nome del nipote, per poi scendere i gradini in fretta e furia, agguantare Jungkook per un braccio e portarlo sotto la tettoia dell’appartamento. Li guarda tutti e due, poi molla uno schiaffo sulla guancia di uno e subito dopo lo fa con l’altro. I ragazzi rimangono muti, pietrificati, fin quando non si sentono stringere in un caldo abbraccio che sembra voler sancire, finalmente, l’inizio di qualcosa di nuovo per entrambi.





















 
Più che spiegare il significato di tutto ciò, io sarei molto lieta di sapere cosa tutto ciò ha significato per voi. Vorrei capire fino a che punto questa storia è riuscita ad entrarvi dentro e quali emozioni ha suscitato. Ovviamente qui c’è un lieto fine, forse chiamarla guarigione è ancora un po’ azzardato, ma ci avviciniamo di molto. So che è qualcosa di particolare e che può non essere gradito a tutti, perciò ringrazio di cuore chi ha inserito la storia nelle varie categorie e chi si è fermato a lasciare il proprio pensiero. Soprattutto per un lavoro del genere, avere un feedback di ritorno è per me importantissimo. Quindi grazie di cuore♥
Alla prossima allora,
 
Vavi


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3780088