Reflecting Mirrors - L'inizio di Sinkarii Luna Nera (/viewuser.php?uid=1013761)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
1
«Ma
Whis!...»
«Beerus,
ti ho già detto di no
ben due volte, non farmelo ripetere ancora! Santo cielo,
cos’è tutta questa
insistenza? Comunque, io per te sono ancora il
“maestro” Whis. Ai tuoi diciotto
anni manca qualche mese».
Il
giovane dio alzò gli occhi al
cielo, sbuffando, senza capire quale differenza potesse fare qualche
mese in
più o in meno. «Seh, seh, me lo hai già
fatto notare più volte».
«“Sì”».
«Hm?»
«Si
dice “sì”» lo
rimproverò
l’angelo «Non “seh”».
«E
si dice “rompiscatole”, non
“maestro”!» ribatté Beerus,
senza riflettere.
Solo
quando sollevò lo sguardo e
notò l’aria mortalmente offesa di Whis
capì di aver fatto una
stupidaggine colossale.
«Tieni
tanto a girovagare in
questa benedetta foresta in piena notte, alla ricerca di neppure tu
sai bene
cosa, e solo perché ti è sembrato di riconoscere
una varietà di fiori che hai
visto nell’ultimo sogno che hai fatto? Benissimo, fallo
pure. »
disse Whis, facendo comparire
il proprio bastone «Da solo».
«C-che
cos… aspetta un secondo,
non mi puoi abbandonare qui!» esclamò Beerus
«Sai che non sono ancora bravo a
percepire l’aura altrui, non riuscirei a
ritrovarti!»
«Imparerai
a farlo, o imparerai
di nuovo un po’di umiltà»
sentenziò l’angelo «Sarà
sempre una lezione
preziosa».
«No,
dai, aspetta! Whis!»
Troppo
tardi: il maestro era
sparito in un lampo di luce, e ora lui era solo.
«Questo
dovrebbe essere
illegale… e per fortuna che dovrebbe provvedere a
me» borbottò il dio,
guardandosi attorno con aria spaesata.
La
foresta in cui si trovava era
estremamente grande, intricata
e fitta.
Vista dall’alto era come se la terra fosse coperta da
un’ampia trapunta verde
scuro, in certi punti squarciata da qualche strapiombo più o
meno visibile.
Non
avrebbe avuto senso andare a
infilarsi lì dentro, e Beerus non l’avrebbe fatto,
se non fosse stato per il sogno.
“Potrei
provare a vedere se Whis
è tornato nella cittadina in cui siamo stati fino a qualche
ora fa” pensò “Ma
non credo che mi renderebbe così facile trovarlo, e in ogni
caso non voglio
dargliela vinta. Nel sogno c’ero io che seguivo questo fiume,
c’era la salita
con le pietre, poi lo strapiombo con sopra quell’albero, e
l’altalena e…e poi
non lo so, perché quello là” alias Whis
“Mi ha svegliato!”
Era
determinato ad andare fino
in fondo a quella faccenda, maestro al seguito oppure no. Non temeva
quel che
avrebbe potuto incontrare nel bosco, perché non era soltanto
un ragazzo quasi
diciottenne: lui era Lord Beerus, Hakaishin del settimo Universo, una
divinità
in grado di distruggere qualunque cosa anche col semplice schiocco
delle dita, e a
breve il suo stesso maestro avrebbe iniziato
a obbedirgli e dargli del “lei”… cosa di
cui, a essere onesto, non vedeva
l’ora.
“A
quel punto non potrà più
sognarsi di ‘impartirmi una lezione’ abbandonandomi
da qualche parte” pensò con
soddisfazione, accingendosi a risalire lungo il fiume.
Se
non altro era stato piantato
in asso accanto a un punto di riferimento, e la strada non sarebbe
stata troppo
difficoltosa, anche perché nei punti particolarmente impervi
poteva sempre
volare. Se non lo faceva di già era perché il
maestro gli aveva consigliato di
camminare, correre e limitare il volo, o “si sarebbe
ritrovato presto a dover
chiedere in prestito i vestiti a Champa”. Volare consumava
energie, ma non
faceva lavorare i muscoli.
Non
che fosse un problema, non
gli dispiaceva camminare, non in quel posto. Anche il suo pianeta
natale era
pieno di boschi, da quel che ricordava: alberi, fiumi, e sassi
ricoperti di
muschi e licheni vagamente simili a quelli dove stava posando i piedi,
e si
respirava un’aria purissima.
“Forse
non è un caso che in
pianeti dall’ambiente simile vivano razze con delle
caratteristiche in comune”
rifletté “Anche i Lusan sono felini”.
Pelo
soffice, corto e sottile,
coda lunga e affusolata con tre punte di colore nero, e orecchie dalla
punta
nera anch’esse: quelli erano i tratti che tutti i Lusan
avevano in comune. Al
di là di questi -e una prevalenza di Lusan dal manto bianco-
bisognava comunque
riconoscere una certa varietà: non aveva visto un Lusan
uguale all’altro, se
non in casi di somiglianze tra parenti, e anche in quei casi non sempre
erano
palesi.
“Tengo a farti
notare che i Lusan non sono un popolo
avanzatissimo, Beerus, né sembra che tra loro ci siano
combattenti di potenza
degna di nota: nessuno di loro sa volare, né sono in grado
di controllare il
Ki. Questo potrebbe essere un pianeta passibile di
distruzione”.
Il
giovane dio emise un verso
seccato. Forse il suo maestro aveva ragione, ma quel pianeta gli
piaceva, e
aveva apprezzato anche la qualità del cibo che gli avevano
offerto, motivo per
cui aveva replicato con un deciso “E invece resta
dov’è!” alle parole di Whis.
“La
salita inizia a farsi molto
più dura” notò “Voglio
sperare che a breve troverò…”
«ah!
Eccola!» esultò.
Il
letto del fiume in quel punto
si faceva più roccioso, e guardando più in alto
poté vedere che le pietre si
ingrandivano man mano, creando un passaggio nel fiume fruibile da
coloro che
erano tanto abili da non aver paura di scivolare e cadere
nell’acqua. Era una
sorta di “scalinata” di rocce, tanto ben disposte
da far quasi pensare che la
sua presenza non fosse merito della natura, quanto piuttosto della mano
di
qualcuno.
Un
breve volo, e Beerus atterrò
senza esitazione sulla prima pietra, iniziando poi a saltare agilmente
dall’una
all’altra. Il maestro Whis non dava molto peso a quel che
lui vedeva nei suoi
sogni, ma il fiume era reale, la “scalinata” era
reale, e allora doveva esserlo
anche tutto il resto.
“Magari
quell’albero che ho
visto nel sogno era da frutto. Era un sogno profetico per dirmi che
avrei
trovato il frutto più buono dell’Universo, o
addirittura del Multiverso!” si
convinse “Lo -o li- mangerò tutti io, e a Whis non
ne lascerò neppure uno. Almeno impara!”
La
salita era molto lunga, ma
l’Hakaishin finì di percorrerla in brevissimo
tempo, esaltato all’idea di
“vendicarsi” di Whis. Notare di non essere ancora
arrivato a destinazione non
riuscì a demolire il suo entusiasmo, che anzi,
aumentò quando notò il tronco
cavo ricoperto di muschio posto in orizzontale tra una riva e
l’altra del
fiume: anche quello era un elemento presente del sogno, a ulteriore
conferma
che voler proseguire era stata la scelta giusta.
“Pregusto
già quel frutto,
dolce, succoso” pensò mentre avanzava alla svelta,
sfregandosi le mani “Saporito!”
Fu
a quel punto che le sue
sensibilissime orecchie captarono qualcosa di insolito, tanto da
spingerlo a
rallentare: una melodia suonata da qualcuno, o qualcosa.
“Non
sono solo in questa
foresta. Però anche questo suono mi è familiare.
Che fosse anch’esso nel mio
sogno, anche se non lo ricordo?” si chiese “Un
momento: non vorranno
appropriarsi del mio frutto?! No,
eh!” pensò, muovendosi rapidamente in direzione
della musica “Possono
dimenticarsene. Appartiene al Dio della Distruzione!”
La
luce dei due candidi
satelliti che ruotavano attorno al pianeta del Lusan iniziava a
diventare più
visibile, segno che la boscaglia andava diradandosi, e Beerus
cominciò ad
avvertire sulla pelle una piacevole brezza, ma al momento non gli
importava,
avendo in testa solo l’intenzione di non lasciare che
qualcuno rubasse il suo
cibo.
Era
tanto preso dall’idea che a
un certo punto, pur continuando a seguire la melodia, prese il sentiero
sbagliato. Saltò fuori dalla selva, pronto a dare battaglia,
su un piccolo promontorio
che dava su uno strapiombo di circa quindici metri.
Si guardò attorno. «Ho sbagliato
posto,
accidenti a… me…»
Sulla
sinistra, a neppure venti
metri di distanza, c’era un altro promontorio, decisamente
più grande di quello
in cui era finito lui. Sul promontorio c’era
l’albero del suo sogno, e lì, in
piedi sull’altalena oscillante, c’era una giovane
Lusan dal pelo candido.
Era
una ragazza alta, un po’troppo magrolina,
con indosso un abito leggero di
colore chiaro e lunghi
capelli argentei sciolti al vento. Nell’arco della giornata
il dio aveva posato
gli occhi su ragazze Lusan più formose, e per tale
motivo considerabili più belle, ma non abbastanza da sviare
la sua attenzione
dal cibo.
“Decisamente
non è un frutto”
pensò Beerus.
Poi
sorrise e si sedette perfino
a terra a gambe incrociate, senza smettere di guardarla.
Non
era un frutto, ma andava
bene ugualmente.
Per
diverso tempo rimase
immobile e preda di due profondi desideri distinti, ossia quello di
continuare
a osservarla nel suo ambiente naturale, senza avvicinarsi a rovinare
quell’atmosfera quasi onirica, e quello di prenderla per sé; non nel senso
sessuale del termine -non era quel pensiero
ad avere la priorità, nonostante la giovane età-
quanto piuttosto nel senso di
chi avendo sotto gli occhi la bellezza desidera essere il solo a
poterla
contemplare.
Forse
era un desiderio
egoistico, ma chi più di un dio poteva permettersi di essere
egoista?
Poi
successe: quando l’altalena
raggiunse il punto più alto, la ragazza lasciò la
presa sulle corde e scivolò
giù, precipitando nello strapiombo.
«Ma che accidenti?!-»
allibì Beerus.
Era
successo all’improvviso e
talmente in fretta che non era riuscito a reagire in tempi decenti, o
fare
qualsiasi altra cosa diversa da osservarla sparire oltre la soglia del
burrone,
del quale dalla sua angolazione non riusciva a vedere la parte
frontale.
Quando
riuscì a riscuotersi volò
subito in basso, sotto allo strapiombo, guardandosi attorno con aria
febbrile:
doveva essere caduta lì, doveva essere lì per
forza, nonostante l’altezza forse
non era morta sul colpo e c’erano possibilità di
fare qualcosa, forse poteva
ancora salvarla in qualche modo.
La
cercò ancora, e avrebbe
voluto chiamarla, ma non conosceva il suo nome, e comunque non era
detto che
potesse rispondere. Perché si era lanciata giù?!
Cosa le era passato per la
testa?!
«Eppure
devi essere qui, razza
di sconsiderata!» sbottò, facendosi largo tra i
cespugli «Perché non ti trovo?
Dove sei?!»
Niente
da fare, di lei non c’era
traccia; tutto quel che restava era il suono che l’aveva
attirato lì. Qualunque
cosa lo stesse producendo, era ancora attivo e vicino
all’altalena.
Strinse
i pugni, arrabbiato e
perplesso per la piega che aveva preso quella nottata, e
volò in alto,
intenzionato a recuperare almeno la fonte di quella melodia.
Fu
così che notò vari grossi
rami che sporgevano dalla parete rocciosa, e la presenza
dell’entrata di un
tunnel vicina a uno di essi.
«Ma
non mi dire» mormorò,
sporgendosi a guardare nell’entrata «Allora ti eri
resa conto di essere
osservata».
Era
innervosito a causa del
brutto momento appena passato, ma sorrise lo stesso: gli aveva fatto
prendere
un accidenti, ma probabilmente stava più che bene. Quella
giovane Lusan sembrava
essere un tipetto sfuggente.
“Ora
la cerco, la trovo, e
gliene dico quattro. Giocare simili scherzi a una divinità!
Ma guarda un
po’questa!...”
Prima
di infilarsi nel tunnel
però volle tener fede al suo proposito di recuperare la
fonte del suono, che
scoprì essere una piccola scatola di metallo da far
funzionare con qualche giro
di una levetta posta su un lato, e la infilò in una tasca
dei pantaloni: non
voleva presentarsi da lei a mani vuote.
Fatto
questo volò
all’imboccatura della via di fuga presa dalla ragazza, e vi
si addentrò senza
alcun timore. In quanto felino era in grado di vedere al buio, e
comunque lui
era l’ultimo che potesse aver paura di entrare in qualunque
posto.
“Un
tunnel palesemente non
naturale in mezzo a una foresta è una cosa ben
strana” pensò “Mi chiedo per
quanto si snodi. Sia come sia, non può essere andata troppo
lontana”.
Dovette
contraddirsi quando,
percorsi vari metri, trovò nientemeno che due binari, su uno
dei quali era
presente un carrello. Non sembravano di costruzione troppo recente, ma
era
evidente che fossero tuttora utilizzati da qualcuno -nello specifico,
quella
benedetta ragazza. Forse quella era l’uscita di una vecchia
miniera, o forse
era semplicemente una via di fuga da chissà quale luogo.
“Lo
chiederò a lei più tardi”.
Non
perse tempo a cercare di
mettere in funzione il carrello, anche se magari usarlo avrebbe potuto
rivelarsi divertente, e volò lungo la galleria al massimo
che la sua velocità
divina consentiva.
In
brevissimo tempo giunse a
destinazione, e uscendo dal tunnel si trovò a posare i piedi
su un verde e
folto prato fiorito.
Diede
un’occhiata all’orizzonte,
trovando un lago di media grandezza e, vicino a esso, un villaggio.
Aguzzò la
vista: gli edifici c’erano, ma della presenza di abitanti non
era affatto
sicuro. Non vedeva luci, non vedeva fumo salire dai comignoli,
né sentiva alcun
suono, o altro che suggerisse la presenza di qualcuno oltre a lui e,
immaginava, la ragazza.
Giunse
alla conclusione che quel
villaggio dovesse essere stato abbandonato da tempo per
chissà quale ragione, e
quando in seguito si avvicinò alle case l’ipotesi
del paese fantasma trovò
conferma.
“Non
è un luogo adatto per una
ragazza che va in giro da sola nel cuore della notte”
sentenziò Beerus.
C’era
un’atmosfera strana in
quel posto, che non gli piaceva granché, ma non riuscendo a
capire a cosa fosse
dovuta quella sensazione concluse che si trattava soltanto di
suggestione.
Proseguì lungo le vie deserte, osservando ogni edificio
-alcuni erano messi
bene, altri fatiscenti- intuendo che non dovevano essere molto
più recenti
dei binari che aveva visto in precedenza.
Giunse
in quella che un tempo
doveva essere stata la piazza principale del villaggio, si
fermò e fece un
sospiro. «Va bene, è tempo che io provi a
percepire la sua aura. Dev’essere qui
attorno, non può essere troppo complicato, e comunque devo
imparare a farlo per
bene, prima o poi».
Chiuse
gli occhi, cercando di
espandere la percezione sensoriale oltre i limiti fisici e di liberarsi
di ogni
pensiero come gli aveva detto di fare il maestro Whis, ma non riusciva
a
togliersi dalla mente l’immagine della Lusan
sull’altalena, la sua espressione
così seria, il suo…
Quasi
sobbalzò quando di colpo
iniziò ad avvertire l’aura della ragazza in modo
forte e chiaro. Era come seguire
un’unica fonte di luce in un sentiero buio.
Volse
lo sguardo, e subito
individuò il suo nascondiglio: il tetto
dell’edificio posto nella posizione più
alta in tutto il paese, che era anche il più grande. Forse
in passato era stato
la dimora di coloro che erano a capo del villaggio.
Sul
volto del dio comparve un
sogghigno soddisfatto. «Ti ho trovata».
Senza
perdere ulteriore tempo,
l’Hakaishin raggiunse la parte posteriore
dell’edificio. Dubitava fortemente
che lei avesse notato la sua presenza, o sarebbe scappata via
nuovamente, cosa
che non stava facendo. Non che ci fosse da stupirsi, perché
i due satelliti e
la miriade di stelle visibili avrebbero reso il guardare in basso
un’azione da
sciocchi.
Volò
di nuovo in alto e,
atterrato silenziosamente sul terrazzo, vide che la Lusan era intenta a
osservare il cielo, dandogli le spalle.
“Bene!
Ora devo solo… ehm… già,
adesso che l’ho trovata cosa faccio?”
pensò il giovane.
Solo
in quel momento si rese
conto di non avere la minima idea di come muoversi, e sì che
in condizioni normali
era tutto fuorché timido… sebbene il suo rapporto
col sesso femminile fosse
perlopiù limitato alle donne del luogo in cui il maestro
Whis lo portava a,
parole sue, “soddisfare i suoi istinti sessuali senza mettere
in mezzo sentimentalismi
poco utili a un Hakaishin”.
“No,
sul serio, con cosa
esordisco? Con un ‘ehilà, bella serata’?
Con ‘ciao, sono il Dio della
Distruzione Lord Beerus e ti ho seguita fin qui perché sono
anche il dio degli
stalker’? ‘Una ragazza come te non dovrebbe andare
in giro da sola a quest’ora
di notte’? No, così sembra che abbia brutte
intenzioni… ma allora cosa
accidenti devo dirle?! Forse devo limitarmi a dirle la
verità” decise.
«Dando
retta a un sogno
profetico ho camminato nella foresta convinto di trovare un frutto
buonissimo,
e invece ho trovato una Lusan in piedi su un’altalena. Come
la mettiamo?»
“Uccidetemi.
Vi prego”
pensò, dandosi del cretino.
La
ragazza sobbalzò, per poi
voltarsi velocemente a guardarlo. Si sarebbe aspettato
un’espressione spaventata,
e un po’lo era, ma sul suo volto vedeva più
stupore e curiosità che paura.
Beerus
alzò le mani. «Non voglio
farti del male» cercò di rassicurarla.
La
Lusan non si mosse, se non
per appoggiarsi contro la ringhiera di legno. «Lo
so».
Il
dio aggrottò la fronte,
alquanto sorpreso da quella risposta: tutto si sarebbe aspettato,
tranne un “lo
so”. «E come lo sai?»
«Penso
che se avessi voluto
farmene mi avresti già aggredita alle spalle, dal momento
che non ti avevo proprio
sentito arrivare» rispose lei «O avresti cercato di
farlo prima, quando eravamo
nella foresta. Però non sembravi averne
l’intenzione».
«Non
l’avevo» confermò Beerus
«Come non ce l’ho adesso. Dico davvero! Davvero
davvero! Ma davv-» “Smettila di
ripetere quella parola, pezzo d’idiota!” si impose
«Hai capito».
«Oh
sì» annuì la ragazza «Ho
capito davvero davvero. D’accordo: assodato che non vuoi
farmi del male, mi
chiedo sia mi hai trovata, sia il motivo per cui mi hai seguita fin
qui… e
anche come tu abbia fatto ad arrivare così in
fretta» aggiunse «Nonché il tuo
nome, ovviamente».
«Mi
chiamo Beerus. Anzi, per la
precisione io dovrei essere chiamato “Lord”
Beerus» specificò «Perché
vedi, io
sono… una persona importante. Molto importante».
Stava
per dirle che era
l’Hakaishin di quell’Universo, ma aveva cambiato
idea, temendo che per quella
sera fosse troppo. Le era arrivato alle spalle, non voleva rischiare
spaventarla ulteriormente, anche se lei sembrava avere nervi piuttosto
saldi.
«Io
mi chiamo Anise. Anzi, forse
anch’io dovrei essere chiamata “Lady”
perché, vedi» indicò il villaggio con
un
ampio gesto del braccio destro «Sono la regina indiscussa del
qui presente
regno di Vynumeer e dei suoi abitanti! Ossia io. Che oltretutto non
abito qui
per davvero».
“Anise”.
Beerus
lo trovava un bel nome.
Si lasciò scappare una mezza risata: il ghiaccio ormai era
definitivamente
rotto. «La vostra vita da regina dev’essere dura,
maestà! Con tutte queste
persone di cui occuparsi…»
«Lo
è, soprattutto quando hanno
voglia di biscotti alla cannella e in casa non ce
n’è neppure un grammo»
replicò Anise «Ma non divaghiamo: hai delle
domande cui devi rispondere, anche
se sei una persona molto importante. Perché mi hai seguita
fin qui?»
«Vuoi
la verità? L’ho fatto per
dirtene quattro!» esclamò, incrociando le braccia
davanti al petto «Lasciarsi
cadere in quel modo nello strapiombo è da imprudenti, se non
si è in grado di
volare. Ho pensato che fossi caduta e ti fossi fatta male, o peggio. Se
avevi
intuito che non volevo farti del male, perché accidenti lo
hai fatto?!»
«Perché
era piena notte, c’era
un ragazzo alieno sconosciuto che mi stava osservando, e sebbene avessi
intuito
l’assenza di brutte intenzioni ho deciso di allontanarmi per
sicurezza» ribatté
lei «Puoi biasimarmi?... non che sia servito a molto,
comunque, dal momento che
ora siamo entrambi qui».
«D’accordo.
Potevi evitare di
farmi pensare male, ma ammetto che sei scappata via per motivi
sensati» ammise
Beerus «L’altro motivo per cui ti ho seguita
comunque è questo» disse, e tirò
fuori dalla tasca la “scatola del suono”, come la
definiva lui «Te l’ho
riportata. Tieni».
«Grazie
per avermi riportato il
mio za sviranje, Lord
Beerus» disse
Anise con gentilezza, sorridendogli nel riprendersi l’oggetto.
«Avete
il permesso di chiamarmi
solo Beerus, maestà, e sappiate che è un onore
che non concedo a tutte le
regine. Anzi, al momento siete la sola alla quale abbia permesso
tanto!»
Lei
sorrise ancora. Era evidente
che pensasse che lui stesse scherzando, senza sapere che invece quella
che le
aveva appena detto era la pura verità.
«Addirittura… allora passiamo all’altra
mia domanda, Beerus: come mi hai trovata?»
«Quando
ti ho vista cadere sono
volato giù a cercarti, poi non trovandoti sono volato su
lungo la parete
rocciosa, ho visto il tunnel e-»
«Aspetta:
cosa significa che
“sei volato” su e giù?» lo
interruppe la Lusan, alquanto perplessa.
«Cosa
vuoi che significhi? Che
sono volato, no? Così!» esclamò
l’Hakaishin, alzandosi in volo davanti a lei.
Da
perplessa che era,
l’espressione di Anise divenne allibita. Vedendo
ciò, e ricordando che i Lusan
non volavano, Beerus temette di aver commesso
un’imperdonabile leggerezza.
«Ciò
conferma la
mia teoria, questo è un sogno» dichiarò
Anise «E tra un po’mi risveglierò nel
mio letto. Avrei dovuto capirlo già da quando hai parlato
del sogno profetico e
del frutto: quale persona si addentrerebbe nella foresta in piena notte
per
cercare un frutto dopo averlo sognato? Sarebbe stupido».
«Non
è affatto stupido!»
protestò Beerus «E comunque il frutto non
l’ho precisamente sognato, mi ero
soltanto convinto della sua presenza».
«Per
non parlare del fatto che
un ragazzo alieno sconosciuto che segue di notte una ragazza sola senza
avere
brutte intenzioni non si è mai visto»
continuò lei, imperterrita «Quindi
niente, può essere solo un sogno, il che rende il volo una
cosa plausibile».
«Ti
assicuro che non è un sogno,
Anise: è tutto vero, e io sono davvero in grado di volare.
Oggi io e il maestro
Whis siamo stati nella cittadina più vicina alla
foresta» le disse, atterrando
a poca distanza da lei «E mi è stato detto che
l’arrivo di alieni non è una
novità per voi Lusan. Non credo di essere il primo di essi in grado di volare ad aver
messo piede qui».
«Non
lo sei» ammise lei «Ma gli
arrivi di alieni non sono mai stati una quantità
spropositata, e il numero di
quelli in grado di volare è persino minore. Credo che la mia
sorpresa sia
dovuta a un insieme di cose, non ultimo il fatto che…
insomma, ti sei davvero
messo a vagare nella foresta per quella ragione?»
«Sì,
ti dico! Però devo
confessarlo: pur non avendo trovato il mio frutto, e pur essendomi
preso un accidente
per colpa di una Lusan finta suicida, mi ritengo piuttosto
soddisfatto».
Anise
fece spallucce. «Contento
tu. Comunque… il tuo maestro non si preoccupa per la tua
assenza?»
«È
lui che mi ha mollato da solo
nella foresta» sbuffò Beerus «In un modo
o nell’altro avrei ritrovato almeno la
strada per la cittadina, e credimi se ti dico che in generale non ho
nulla da
temere, ma il punto è che non è stato affatto un
bel gesto».
«Questo
però non vuol dire che
non si stia chiedendo dove sei finito, soprattutto se è
passato diverso tempo.
Se si aspettava che tornassi indietro potrebbe pensare male, non
vedendoti
tornare».
Quello
era forse un tentativo di
congedarlo? Perché? Sembrava star andando tutto bene!
Avevano rotto il ghiaccio
e stavano parlando tranquillamente, e una volta risolta la questione
del volo
non riusciva a capire cosa potesse aver fatto di sbagliato.
«Non
voglio mandarti via. Ho solo
pensato al tuo maestro, tutto qui».
Il
dio sgranò gli occhi. «Tu…
sei in grado di leggere nel pensiero?»
Anise
scosse la testa. «No. Tu
hai un viso molto espressivo, io ho collegato la faccia che hai fatto a
quello
che ho detto, ho riflettuto e ho concluso che potessi aver mal
interpretato le
mie parole. Ti sei ricomposto in fretta, ma non abbastanza».
Era
una faccenda strana, e
Beerus non era in grado di capire se gli facesse piacere oppure no; non
riuscendo a decidere, pensò che soprassedere fosse la cosa
migliore.
«Comprendo. In ogni caso, conosco abbastanza Whis da sapere
che non sta
impazzendo dalla preoccupazione, e non posso tornare alla cittadina.
Per te
sarà pure un’abitudine, ma io non intendo
lasciarti qui da sola. È da quando ho
messo piede in questo posto che ho addosso una sensazione
spiacevole» le
confessò, guardandosi attorno «Non so
perché».
«Eccone
un altro» sospirò Anise
«Ti sei fatto influenzare da quelle storie imbecilli che
girano a Ulthmeer
riguardo questo posto, vero?»
«Quali
storie?» le domandò
l’Hakaishin, ancor più guardingo.
«La
tua è solo suggestione»
minimizzò lei, senza rispondergli «Per il resto,
io sono cresciuta nella
cittadina in cui sei stato oggi -ossia Ulthmeer- e vengo qui da sola da
quando
avevo cinque anni: penso di potermi considerare abbastanza esperta del
luogo,
ormai».
Tralasciando
l’opinione di
Beerus sul fatto che a una piccola lince fosse permesso allontanarsi
così tanto
da casa -per chi non volava, la strada da Ulthmeer a Vynumeer era tanta- in completa solitudine, non era
affatto felice all’idea di lasciarla lì,
checché lei ne dicesse. «Ne sono
sicuro, ma questo per me non cambia le cose».
«Conosco
questo posto molto
meglio di quanto conosca te, visto che siamo poco più di due
estranei.
Probabilmente mi consideri una fanciulla in potenziale pericolo, stai
agendo di
conseguenza e in un certo senso è anche una cosa, diciamo,
carina… ma ti
assicuro che non ho bisogno di un baldo forestiero che mi protegga.
Chissà da cosa,
poi».
«Non
so neppure io da cosa, o
l’avrei già distrutto»
ribatté lui.
«Addirittura
distruggerlo? La
vedo difficile».
«Non
per me! Io… ah, e va bene!
Non volevo dirlo, non già questa sera, ma se lo faccio
magari prenderai
seriamente quel
che ti ho detto» fece una pausa «Oggi a Ulthmeer ho
visto che voi Lusan sapete cos’è
un Hakaishin…»
«Siamo
arretrati per varie
ragioni, inclusa l’ultima guerra, ma non siamo
così tanto “bestie” da non
sapere che esiste il Dio della Distruzione»
replicò lei.
«Sono
io, Anise. Io sono
l’Hakaishin di questo Universo».
La
Lusan lo fissò per qualche
istante, senza apparire troppo convinta. «Saresti un dio
piuttosto piccolo,
come età».
«Piccolo?!
Ho diciotto anni,
io!» protestò Beerus «E il mio maestro
dice che sono molto più forte di vari
miei colleghi più vecchi di me!»
«Colleghi?
Di Hakaishin ce ne è
solo uno».
«Uno
per Universo» la corresse
Beerus «Ce ne sono dodici. Questo è il
settimo».
«D’accordo,
credo di averne sentite
abbastanza per stasera. Perdonami, ma crederti mi risulta
difficile».
Il
dio sospirò nervosamente,
dicendosi che c’era da aspettarselo, e si guardò
attorno. «Dimmi un po’: quel costone
roccioso ti piace?» le chiese, indicandone uno a una certa
distanza dal lago.
Anise
lo guardò con aria
perplessa. «Sono rocce. Non mi fanno né caldo
né freddo. Forse impiccia un po’,
senza quello si vedrebbe il resto della foresta».
Beerus
tese un braccio davanti a
sé, col palmo della mano dritto. «Benissimo. Hakai».
Appena
finì di parlare, il
costone roccioso venne avvolto da un alone viola, per poi disgregarsi
sotto lo
sguardo attonito della ragazza.
Il
panorama era indubbiamente
migliorato.
«Va
bene» disse Anise, dopo
qualche istante di silenzio «Tu sei l’Hakaishin di
questo Universo, e io credo
di dovermi sedere da qualche parte… anzi, no, non ne ho
bisogno».
Era
una reazione normale, Beerus
ne era consapevole, ma se ne dispiacque ugualmente. «Volevo
solo che mi
credessi, non volevo spaventarti».
«Sono
un po’scossa per via del
tuo potere» disse lei «Ma tu sei la persona che eri
fino a un minuto fa. Se non
avevi brutte intenzioni prima, non dovresti averne neppure adesso.
Giusto?»
«Esatto!»
esclamò il dio, un po’sollevato
«Sono sempre quello del frutto, non dimenticarlo».
«Dimenticare
una stupidaggine
come questa è impossibile» sorrise la Lusan.
«Attenta
a come parlate, maestà:
vi state rivolgendo a un dio!» la rimproverò lui,
scherzosamente.
«Resta
comunque una stupidaggine».
«Ehi!... ad ogni modo, ora che sai che
sono un dio prenderai sul
serio quel che ho detto su questo posto? Non so
com’è gli altri giorni, ma al
momento percepisco qualcosa di strano. In caso contrario non
insisterei».
«Ti
credo, ma continuo a non
capire il motivo. Per non parlare del fatto che sono un
po’stanca, tra l’ora
tarda e tutto» aggiunse «Se non ci fossi tu,
probabilmente starei già dormendo
qui».
«Qui?»
«Nell’edificio
ho cuscini,
coperte e altro. In questa stagione spesso dormo fuori, sotto le
stelle, e… sai
cosa?» Anise sollevò lo sguardo «Se
è vero che il tuo maestro non si preoccupa,
puoi farmi compagnia».
Beerus
sgranò gli occhi, stupito
di quella proposta e felice sia della fiducia che gli era stata
concessa, sia del
fatto che lei non si fosse spaventata più di tanto sapendo
di avere a che fare
con un Hakaishin. «A me sta bene. Però sono un
po’stupito».
«Io
lo sono di più» ribatté lei,
scomparendo all’interno dell’edificio per poi
tornare fuori con due cuscini e
due coperte «Non ho mai amato molto la compagnia delle altre
persone. È uno dei
motivi per cui vivo da sola nella foresta. Tieni».
Beerus
prese un cuscino e una
coperta. «Credevo vivessi a Ulthmeer».
Lei
scosse la testa e si sdraiò
a terra, imbozzolandosi nella sua coperta. «Non
più. Oidhche gishery,
Beerus».
«Eh?»
«Significa
“buonanotte”. Se
saltasse fuori un mostro mentre dormo, tu distruggilo, mi
raccomando».
“No,
direi che nonostante tutto
non prenda ancora sul serio quel che ho detto su Vynumeer. O
beh” sospirò,
sdraiandosi accanto a lei “Magari è davvero
un’impressione sbagliata, se lei
viene qui da anni e non le è mai capitato nulla”.
«Contaci. Buonanotte, Anise».
La
terrazza non era comoda come
il morbidissimo letto cui Beerus era abituato, ma non passò
molto tempo prima
che entrambi si addormentassero, chi per la stanchezza, chi per la
tranquillità, o per entrambe le cose.
Lord
Beerus si risvegliò alle
undici del mattino successivo, immerso nella più totale
confusione post- sonno.
«Maestro
Whis, dov’è la mia
colazione?» bofonchiò, stropicciandosi gli occhi
«Non ricordavo che il
materasso fosse così duro…»
Fu
solo tastandolo che si rese
conto che il materasso non era tale, e a quel punto ricordò
di trovarsi su una
terrazza di legno in un villaggio fantasma insieme a una giovane Lusan
di nome
Anise.
Almeno
in teoria, perché di lei
non c’era traccia.
Si
alzò in piedi di scatto,
improvvisamente sveglissimo: addormentarsi era stato un errore, le era
sicuramente successo qualcosa, e-
Un
momento... non ricordava la
presenza di quei dodici frutti accanto a lui, e nemmeno quella di un
biglietto.
Si chinò a raccoglierlo, incuriosito.
Un
tributo al dio dei cercatori di frutta (poco abili).
Ti
regalo anche la coperta.
A.
«Ma
guarda un po’che insolente!»
commentò Beerus, intascando il biglietto senza riuscire a
evitare di sorridere.
Raccolse
uno dei frutti più
grossi, una grossa bacca rotonda di colore rosato, e
l’addentò.
«È buonissimooooooooo!»
esclamò, contento come una Pasqua «Lo dicevo
io, che in quella foresta c’era qualcosa di buono da
mangiare!»
Fu
proprio in quel momento che
Whis comparve accanto a lui senza alcun preavviso. «Sei
veramente un gran
testardo, lo sai? Hai preferito passare la notte
all’addiaccio, piuttosto che
darmi ascolto!»
«Esatto,
e ho anche trovato
quello che cercavo» sogghignò Beerus, passato il
momento di sorpresa,
sventolando una bacca davanti al volto dell’angelo
«Sono i frutti più dolci,
succosi e saporiti che abbia mai mangiato... e sono miei!»
dichiarò, usando la
coperta per infagottare i dieci rimasti «Tutti
miei!»
«È
ingeneroso da parte tua non
condividere il cibo con chi si prende cura di te» disse Whis.
«Certo,
perché dopo avermi
abbandonato te lo meriti proprio! Torniamo a casa, dai. Ho trovato
quello che
cercavo».
“E
anche qualcosa in più”.
Non
si era sentito di dire al suo maestro di aver incontrato una ragazza e
di aver voglia
di rivederla: sapeva che Whis voleva che lui si concentrasse sul suo
compito e
sugli allenamenti, e avendo appena conosciuto Anise riteneva prematuro
parlargli di lei, ma avrebbe trovato il modo di incontrarla ancora
senza che
Whis lo venisse a sapere… e lo avrebbe fatto molto presto.
Non
ci credo, l’ho iniziata sul
serio :”D
Ringrazio
tutti coloro che hanno
letto fin qui, e le persone che in “Reflecting
Mirrors” hanno mostrato
interesse per il qui presente prequel con questo Beerus giovanissimo e
all’inizio
piuttosto imbranato :”D
P.s.: se vi interessa vi lascio il link
della melodia della "scatola che suona" (perché
carillon era troppo semplice :"D)
Qui
sotto, un tentativo di
disegnare Anise sull’altalena (non sono in grado di fare gli
sfondi, quindi
niente, non li faccio :”D)
|
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Capitolo 2 *** 2 ***
RMI cap2
2
“Quando
si pensa a una divinità
si ha in mente qualcosa o qualcuno di grande, maestoso, forse anche
spaventoso;
insomma, tutto avrei pensato tranne che l’Hakaishin di questo
Universo fosse un
felide della mia stessa età.”
Anise
non si era dedicata ad aggiornare
il suo quaderno delle erbe, non quella volta. Ci aveva provato, ma era
servito
solo il tempo di aprirlo e prendere il carboncino in mano per capire
che non
era giornata. Nell’attesa che l’acqua per la tisana
bollisse si era messa
comunque a scarabocchiare su un foglio, fissando un punto nel vuoto e
ascoltando solo il rumore bianco prodotto dal suo cervello, e quando in
seguito
aveva abbassato gli occhi, sorpresa!... c’era disegnato un
dio.
Aveva
osservato con perplessità
il prodotto della sua stessa mano, inizialmente come se non le
appartenesse, in
seguito chiedendosi perché di tutto quel che poteva
disegnare era finita a
ritrarre proprio lui, per poi concludere che non c’era nulla
di strano: aveva
incontrato una divinità, era logico che ciò
l’avesse colpita, soprattutto dopo
aver visto in azione il suo potere distruttivo.
Ritenendo
opportuno lasciare che
i suoi pensieri venissero tutti quanti a galla -“Meglio
averlo su carta che in
testa”, si era detta- aveva scritto accanto al disegno quelle
poche righe, ma
non erano sufficienti. Pur sentendo distintamente l’acqua
bollire volle
aggiungerne altre, le ultime.
“Può
un Dio della Distruzione
ispirare tenerezza? Sembra di sì, a patto che si sia svitate
come la
sottoscritta.
Può essere che la gente di Ulthmeer avesse/abbia ragione a
definirmi tale, dopotutto.”
Ripose
rapidamente fogli e
carboncino, andò a spegnere il fuoco, e versò
l’acqua in due grosse tazze di
vetro nelle quali erano state già messe le giuste erbe
essiccate. Anise sapeva
che l’ospite che stava aspettando era estremamente puntuale:
le restavano circa
tre minuti di solitudine, troppo pochi per i suoi gusti, soprattutto
quando
rimuginava su qualcosa o, in quel caso, qualcuno.
“Avevo
capito che non voleva
farmi del male. Chi vuole aggredirti non si mette seduto a terra a
guardarti
sorridendo come se avesse trovato il tesoro di Rubedo”
pensò “Per essere un dio
si è comportato in modo piuttosto
‘normale’. Sembrava un ragazzo semplice,
gentile e simpatico al quale piace una ragazza, e all’inizio
era perfino un
po’impacciato. Se avesse voluto avrebbe potuto farmi di tutto
senza che io
potessi oppormi, ma questo pensiero non gli è neppure
passato per la testa.
Sembrava più preoccupato di cosa potessi pensare di lui e
del suo potere, il che
è incredibile: un dio che si preoccupa
dell’opinione di una mortale?” scosse la
testa “È più assurdo del fatto che
esistano ben dodici Universi. I riguardi che
ha avuto verso la mia opinione però mi hanno fatto capire
che non avevo nulla
da temere. Se esiste la figura dell’Hakaishin ci sono dei
motivi, ma questo non
fa di lui automaticamente una brutta persona, e il fatto che sia in
grado di
far sparire me o il mio pianeta in un attimo non vuol dire che debba
farlo per
forza”.
Terminò
la sua riflessione facendo
spallucce, dicendosi che ulteriori elucubrazioni erano inutili.
Probabilmente
non lo avrebbe più visto, e altrettanto probabilmente lui
l’aveva già
dimenticata: non vedeva alcuna ragione per cui Beerus avrebbe dovuto
pensare a
una Lusan solitaria, “regina” di un villaggio
fantasma. Sarebbe stata una cosa
più insensata perfino della proposta che lei gli aveva
fatto, quella di restare
a dormire con lei.
Anise
se ne sorprendeva ancora,
perché pur avendo trovato una ragione logica per avergliela
fatta -ossia l’aver
capito che quel dio testardo non se ne sarebbe andato in alcun caso-
avrebbe
mentito, se avesse detto che restare in sua compagnia le era
dispiaciuto.
Si
udirono tre colpi contro la porta
di legno, tanto forti che ad Anise parve che l’intera casa
potesse crollare per
colpa di essi. In verità era improbabile, pur essendo una
casa in legno e
pietra decisamente vecchia era
resistente, oltre che piuttosto grande per una persona sola, ma
ciò non
cambiava il pensiero della ragazza. «È aperto, lo
sai!» esclamò «Prima o poi
finirai col buttare giù tutto».
La
porta si aprì con un forte
cigolio, rivelando una figura tanto possente da non permettere alla
luce del
giorno di illuminare l’ingresso. «La porta va
cambiata comunque, è troppo
rovinata».
«No,
invece».
L’ospite
dovette addirittura
chinarsi un po’per riuscire a entrare. «Non sia mai
che ti senta dire “hai
ragione”, per carità».
«Callie,
se non hai ragione non
ce l’hai, non c’è molto da
dire».
In
pochi avrebbero avuto il
coraggio di parlare con quel tono a Calida, una Lusan beige dai corti
capelli
neri e lo sguardo duro, alta oltre due metri e dieci e il cui peso
superava i
cento chili -tutti di muscoli, andava detto. Anise però
sapeva di poterselo
permettere: Calida era la persona che l’aveva trovata e
tenuta con sé, una
figura che in virtù dei “soli” sedici
anni di differenza d’età Anise tendeva a
considerare una sorella maggiore.
«Non
so cosa serva ancora perché
tu cambi atteggiamento» ribatté la lince
più anziana, posando a terra
quattro grossi sacchi di tela marrone
«Non lo so davvero».
«E
io non so cosa serva ancora
perché tu smetta di portarmi tutta questa roba ogni
settimana. Non ne ho
bisogno» disse, aprendo il primo sacco che le
capitò tra le mani «Vestiti? Sul
serio?»
«Nel
resto dei sacchi c’è del
cibo» disse Calida, impassibile.
«Calida.
Callie. Io ti ringrazio per il
pensiero, davvero, ma sai benissimo
che tutto questo non mi serve. Vicino a Vynumeer ci sono ancora campi
di lino e
cotone, il clima è clemente, e io so tessere: guarda! Fuso,
conocchia,
arcolaio, telaio! Sono lì, nella stanza accanto, li puoi
vedere!» esclamò la
ragazza, indicando suddetta stanza «E per quanto riguarda il
cibo, ho un
orticello proprio qui fuori sul retro, nonché una serra.
Poi, farina? Zucchero?
Olio? Stesso discorso del cotone, e a Vynumeer ci sono un mulino e un
frantoio
che abbiamo rimesso in funzione io e te assieme, quella notte di undici
anni
fa».
«E
la carne, stordita? La
carne?» insistette l’altra, con la sua voce
vagamente mascolina «Saprai pure
tessere, ma non sai andare a caccia, e il risultato si vede. Sembri
più una
quindicenne adesso di quanto lo sembrassi tre anni fa».
«Sembrarlo
tre anni fa mi
avrebbe fatto comodo» ribatté freddamente la
giovane Lusan «Forse avrei evitato
di attirare certi tipi di attenzioni più o meno strane da
persone più o meno
inaspettate».
Calida
non ribatté, né la guardò
più in viso; si limitò a sedersi su un comodo
divanetto posto accanto a loro, e
a bere in silenzio la tisana di un colore verde simile a quello dei
suoi occhi.
Anise, dal canto suo, preferì bere la propria restando in
piedi.
Per
diverso tempo nessuna delle
due disse una parola, e quelli della foresta rimasero i soli rumori
udibili,
insieme a quello sordo prodotto da un piccolo pendolo posato su una
mensola.
A
spezzare il silenzio fu
Calida, dopo aver bevuto oltre metà tisana. «Vivi
qui da sola in mezzo alla
foresta, senza saper cacciare. Permetti che la cosa non mi
piaccia?»
«Sono
qui da due anni, sto
benissimo, e me la cavo egregiamente anche con poca carne. Se vuoi
proprio
portarmi qualcosa, porta le perline di vetro colorato».
«Anise,
ne hai già un’infinità!
Guardati attorno!» esclamò la donna, allargando le
braccia «Non ti bastano?»
In
effetti non aveva tutti i
torti: le tende appese alle finestre e all’ingresso di ogni
stanza della casa
erano fatte con fili di perline di vetro, dai lampadari a olio
pendevano drappi
di perline di vetro, i centrotavola erano in lana e perline di vetro e,
come se
tutto ciò non fosse bastato, sulle mensole c’erano
diversi contenitori colmi di
quelle perline. Perfino la collana che Anise portava quel giorno era
fatta di
perline di vetro!
«No!
Non mi bastano».
Calida
si massaggiò le tempie, con
un sospiro. «Vai a mettere a posto la carne che
c’è in quel sacco, è già
affumicata».
Anise
posò sul tavolino la tazza
di vetro ormai vuota e sollevò un lembo del tappeto colorato
che copriva il
pavimento, rivelando la presenza di una grossa botola.
«Passamelo».
L’altra
obbedì, e una volta
aperta la botola e preso il sacco Anise scese in basso tramite una
scala a
pioli. Anche quella specie di cantina, come il resto della casa, era
piuttosto
grande, e lei la sfruttava intelligentemente riponendovi tutto quel che
necessitava un luogo più fresco.
La
cosa più interessante di quel
posto però era una spessa porta di legno al capo opposto
della stanza, la quale
una volta aperta rivelava l’ingresso di una galleria
collegata a quella dei
binari, e di conseguenza a Vynumeer. Né Calida né
Anise avevano idea di chi
tanto tempo prima avesse costruito quella casa e/o chi vi avesse
vissuto, ma
chiunque fosse avrebbe sempre avuto l’imperitura ammirazione
della Lusan più
giovane.
«Allora,
Callie Ulthmeer-a ghekavary»
letteralmente, “capo di
Ulthmeer” «Che
aria tira nella tua
cittadina?» le domandò Anise quando, sistemata la
carne, tornò al piano terra.
Non
che le importasse granché
del posto in cui era cresciuta, per varie ragioni, ma sapeva che Calida
le
avrebbe parlato comunque di quel che era accaduto nella cittadina di
cui era
stata messa a capo due anni prima.
«Un
po’tesa» ammise Calida «Gli
abitanti non si sono ancora tranquillizzati da quando tre giorni fa
abbiamo
ricevuto una visita inaspettata. Mi credi se ti dico che il Dio della
Distruzione in persona, Lord Beerus, si è fatto vedere a
Ulthmeer?»
Non
soltanto Anise le credeva,
lo aveva perfino incontrato, ma decise di non rivelarlo: li riteneva
fatti
propri, neppure di grande importanza. «Davvero? Mi sorprende.
Cosa cercava
l’Hakaishin in un posto come Ulthmeer?»
«Cibo,
direi. Mi sembra di
averlo anche sentito parlare di un sogno, ma non sono troppo convinta.
Quello
di cui sono convinta, invece, è che lui e quel tal Whis che
lo accompagnava hanno divorato quel che mangerebbero venti persone in
un banchetto lungo due
settimane» disse la donna, contrariata «Se
però fosse stato quello a
convincerlo a non distruggere il nostro pianeta, ben venga. Ho sentito
Whis
definirlo “passibile di distruzione”, ma
fortunatamente per noi Lord Beerus era
di tutt’altra idea».
Anise
sollevò un sopracciglio.
«Prima mangia a scrocco e poi suggerisce a Lord Beerus di
distruggerci? Se
passa quello che mangia i simpatici, questo Whis può stare
tranquillo».
«Io
spero solo che non tornino qui
mai più. Ho già i miei problemi con la gentaglia
di Moriameer: giusto ieri, un paio di
gruppetti di Lusan provenienti da lì sono stati colti sul
fatto mentre
cercavano di bruciare i nostri campi. Sono fortunati che il Trattato
tra Città
sviluppato dopo l’ultima guerra mi imponesse di rispedirli a
casa vivi, o li
avrei mandati alla forca» affermò Calida
«Invece di limitarmi a far rompere
loro le ossa a suon di botte».
«Che
poi, perché Moriameer e Ulthmeer
sono ostili tra loro? O verso Kahzameer, o Thandrumeer, o le altre
città che mi
vengono in mente? Tutte contro tutte, e non credo che ci sia ancora
qualcuno
che ricordi la vera origine di questo odio. Su questa parte del pianeta
ci sono
risorse in abbondanza per accontentare tutti, quindi perché
farsi la guerra?
Solo gli stupidi si uccidono tra loro senza una vera ragione»
commentò Anise
«Quindi la stragrande maggioranza della nostra razza
dev’essere composta da
stupidi. Sai cosa, Calida? Messa così, riesco quasi a
comprendere quel
“passibile di distruzione”».
«Devi
smetterla con questi
discorsi strampalati» le intimò Calida, alzandosi
in piedi «Se adesso ti trovi
in questa situazione è dovuto anche a quelli, oltre che alla
tua fissa di stare
da sola e scappare a Vynumeer appena potevi. Non sai quante volte ho
rimpianto
di averti portat-»
«Oh,
Callie, per fortuna che ci
sei tu a ricordarmi perché non rimpiango Ulthmeer e i suoi
abitanti, e spero di
poter evitare vita natural durante di scendere di nuovo in
città. Una manica
d’invertebrati superstiziosi, ecco cosa siete: sì,
tu inclusa. Da giovane eri
più sveglia su questo punto, mentre ora, a trentaquattro
anni suonati, anche tu
ti fai spaventare dall’acqua calda di un lago».
«Continua
pura a ridere di noi,
se vuoi. Le conseguenze, tutte le
conseguenze, sono affar tuo!» ribatté
Calida «Me ne vado. Ci vediamo la
settimana prossima, Anise».
«Niente
carne, ma perline di
vetro» rispose la giovane «Quando
riuscirò a rimettere in funzione la vetreria
di Vynumeer, non te le chiederò più. Ah,
Calida!» la bloccò «Di’, in
uno dei
sacchi ci sono o no delle bottiglie di vino?»
«No.
Lo reggi peggio di chiunque
altro conosca».
«Di
due cose che vorrei, non me
ne porti neppure mezza» sospirò Anise
«Giuro che prima o poi riuscirò a far
crescere delle viti, qui o a Vynumeer, e a quel punto berrò
una botte intera di
vino. Non guardarmi in quel modo, sto scherzando».
«Bere
troppo vino porta al coma
etilico, poi alla morte» le ricordò Calida, con
fare severo.
«Bolory pet’ke bàsaich,
Callie: “tutti dobbiamo morire”»
replicò
l’altra, con uno strano sorriso.
La
Lusan più grande scosse la
testa. «Stando qui da sola il tuo male di vivere peggiora,
invece di
migliorare. Ogni tanto ho paura di venire qui e non trovarti, o di
trovarti, ma
morta».
Scorgendo
sincera preoccupazione
nello sguardo della sorella, quello di Anise si ammorbidì.
«Parlo di morte, ma
non la cerco. Ci vediamo la prossima settimana».
Un
ultimo sguardo e Calida se ne
andò, facendo scricchiolare il pavimento sotto il suo peso.
Anise
chiuse la porta alle sue
spalle, sentendosi colpevole del senso di sollievo provato: Calida era
l’unica
famiglia che avesse mai avuto, dunque le voleva bene, ma da tre anni a
quella
parte c’erano stati dei momenti -non durante
quell’incontro- in cui le loro
interazioni avevano assunto sfumature che non le erano piaciute troppo.
«O
beh… direi che sia ora di
fare qualcosa di utile» sentenziò Anise, passando
nella stanza accanto per
agguantare un lavoro a maglia lasciato a metà -precisamente
una coperta di lana
per la futura stagione fredda.
Per
il resto della giornata, non
pensò più ad altri che se stessa.
***
“Devo
trovare un modo per
risolvere questa cosa. Mi sembra di star diventando pazzo!”
Lord
Beerus aveva provato una
simile sensazione solo un’altra volta nell’arco
della sua breve vita, ossia
quando aveva assaggiato le praline del pianeta Swetts, quelle
deliziose,
inimitabili, meravigliose praline che superavano in bontà
perfino i frutti puff-puff.
Ricordava di averle avute in mente per giorni e giorni, dal mattino
fino alla
sera, arrivando perfino a sognarle di notte: ecco, al momento era nelle
stesse
condizioni, con la differenza che la causa di tutto era quella ragazza.
Non
avrebbe mai creduto che un
giorno il suo desiderio di rivedere qualcuno sarebbe stato forte
quanto quello di mangiare le praline del pianeta Swetts.
“Come
posso fare? Come?” pensò,
rigirandosi nel letto per l’ennesima volta in quella notte
che a lui sembrava
non voler finire mai “Se dicessi a Whis di portarmi ancora su
quel pianeta con
la scusa dei frutti dovremmo cercarli, e io non ho idea di dove
accidenti li abbia trovati Anise, quindi non saprei che pesci pigliare;
provare
a convincerlo a non seguirmi nella foresta sarebbe inutile, di certo
non mi
lascerebbe andare da solo, temendo che trovi frutti ancora
più buoni e non li
condivida con lui; infine, parlargli di lei sarebbe il modo per non
rivedere
mai più quel pianeta” rifletté
amaramente “Tralasciando il fatto che mi sembra
prematuro, so per certo che Whis non sarebbe felice che io vada a
incontrare
una ragazza per motivi diversi dal sesso, e se mentissi dicendogli di
volerla
incontrare per una simile ragione mi direbbe che per quello ci sono
già le
signorine da cui mi porta di solito”.
Per
quanto potesse pensarci su,
non trovava un modo per incontrarla che comprendesse il farsi portare
lì da
Whis. Perché, perché lui e Champa non erano nati
con qualche mese d’anticipo?!
In quel caso Whis sarebbe già stato il suo attendente,
avrebbe dovuto portarlo
sul pianeta dei Lusan senza “se” e senza
“ma”, e avrebbe anche dovuto accettare
senza
fare tante storie che
volesse incontrarsi con lei.
Peccato
che non sarebbe stato
così ancora per un pezzo, e lui dovesse ingegnarsi. Quel
desiderio di
rivederla, di parlarle e trascorrere del tempo insieme a lei per
poterla
conoscere non sembrava avere intenzione di scemare. Se mai il contrario!
“Assodato
che non posso farmi
portare lì da Whis, dovrei partire da solo. Posso
sopravvivere nello spazio
aperto, e se riuscissi a percepire la sua aura come ho fatto quella
sera dovrei
riuscire a trovare il suo pianeta senza perdermi” si disse
“Anche se è lontano,
praticamente al confine col sesto Universo. Già! Quanto mi
ci vorrebbe per
raggiungerlo? Calcolando che a Whis sono servite due ore, e la mia
velocità
massima è tre quarti della sua…”
Tre ore e mezza.
Tre benedette ore e mezza,
quella era la risposta al suo quesito.
“E
io per rivederla dovrei viaggiare
da solo? Per tutto quel
tempo?!” si disperò il dio,
lasciandosi sfuggire un
flebile lamento “Ma perché il suo pianeta non
poteva essere un po’più vicino?!
È lontano quanto il pianeta Swetts!”
Un
momento! Anche il pianeta
Sweets era al confine con l’Universo Sei, e non distava
neppure troppo da
quello in cui doveva andare: la stima era tra i cinque/sette minuti di
distanza
l’uno dall’altro, più o meno.
“Quindi
se andassi da lei potrei
anche fare un salto su Swetts e fare il pieno di frutti puff puff e
praline”
pensò, mentre un sogghigno iniziava a dispiegarsi lentamente
sul suo volto
“Senza che Whis ne sappia nulla, il che rende tutto ancor
più allettante!”
Il
sogghigno scomparve, mentre
si rendeva conto che c’era un problema ancor più
grande delle ore di viaggio:
come avrebbe fatto a fuggire senza che Whis se ne avvedesse?
«Possibile
che risolto un
problema se ne presenti subito un altro?!» gemette,
imbozzolandosi nelle
coperte -o meglio, nella coperta che gli era stata regalata da Anise.
Coperta.
Coperte,
lenzuola…
“Aspetta.
Aspetta- aspetta-
aspetta… forse ci sono!” pensò,
esultante “Il cambio delle lenzuola!”
Riordinò
e sistemò l’idea che
gli era venuta in mente, iniziando a pensare che potesse funzionare
davvero.
Per
prima cosa, l’indomani
stesso avrebbe chiesto a Whis di cambiare le sue lenzuola solo una
volta alla
settimana. Sarebbe stato un sacrificio, abituato com’era ad
averne di nuove
ogni santo giorno, ma perché il piano andasse in porto
avrebbe fatto anche
questo.
Nei
tre giorni che mancavano
alla fine di quella settimana, e in tutto l’arco della
successiva, si sarebbe
comportato normalmente, perché nulla avrebbe dovuto far
sospettare al maestro Whis che
la richiesta fatta fosse dovuta a qualcosa più di un
semplice capriccio.
In
quei dieci giorni si sarebbe
allenato più duramente del solito -anche nella speranza che
ciò lo aiutasse a
placare almeno un po’ l’urgenza del suo desiderio
di rivedere Anise-,
giustificando così la successiva richiesta di poter dormire
per sette giorni
interi.
In
quel frangente avrebbe
chiesto a Whis anche di cambiare le lenzuola, così da averle
pulite: in tal
modo, il suo maestro non sarebbe rientrato nella sua stanza prima di
una
settimana… e non avrebbe notato la sua assenza.
“Posso
lasciare un cuscino sotto
le coperte per sicurezza, ma poi sarà fatta. Sapendomi a
dormire non avrebbe
ragione di localizzare la mia aura, non dovrebbe accorgersi di nulla, e
io avrò
almeno cinque giorni pieni da poter passare sul pianeta dei Lusan. Ci
andrò,
dovessi anche passare le notti in quel posto inquietante dal nome
strano!”
Sorrise,
soddisfatto di aver
trovato una soluzione e fiero della propria intelligenza, e finalmente
sentì il
sonno iniziare a coglierlo.
“Potrei
passare su Swetts prima
di andare da lei. Mi ha portato dei frutti, quindi gliene
porterò anche io. I
frutti puff puff non mancano mai” pensò
“O magari porterò le praline, o entrambe
le cose. Farò così: prenderò due
sacchi, terrò da parte venti puff puff e venti
praline per lei, e il resto sarà la mia scorta per quei
cinque giorni!”
concluse.
Un’insinuazione
velenosa del suo
stesso cervello gli fece spalancare gli occhi, prosciugando la
soddisfazione
provata fino a quel momento: “Forse lei non ha tanta voglia
di rivedere
l’Hakaishin di questo Universo. Quella sera potrebbe non
averti mandato via
solo perché temeva di essere distrutta, non
perché apprezzava davvero la tua
compagnia”.
Beerus
era stato cresciuto da
Whis come un Hakaishin, conscio del proprio ruolo e delle relative
conseguenze che
aveva imparato ad accettare e sostenere egregiamente; però
restava sempre un
ragazzo di diciotto anni a cui, in quel caso, non sarebbe dispiaciuto
vivere
più tranquillamente il proprio interesse verso una ragazza
mortale.
“Di rado gli
Hakaishin riescono ad avere accanto qualcun
altro, oltre ai loro maestri e attendenti. Molte persone non
comprendono il
loro ruolo, e non riescono a far altro che averne paura; altre,
desiderose di
privilegi e ricchezza, vi si avvicinano solo per interesse -e capisci
anche tu
che ciò non porta a nulla di buono; altre ancora, invece,
riescono a superare
la paura in virtù dei sentimenti provati… ma a
lungo andare trovano
insostenibile la quantità di sangue sulle mani del partner,
e questo è uno dei
finali più dolorosi. Nella tua posizione, Beerus, si
dev’essere molto fortunati
per trovare qualcuno, e per come la penso sarebbe una fortuna solo
secondo
certi punti di vista”.
Scacciò
dai propri pensieri il
discorso che Whis gli aveva fatto tempo addietro. Al momento voleva
solo
conoscere meglio quella ragazza, perché aveva già
in mente certi discorsi,
applicabili a una relazione?
Anche
farsi tanti problemi era
prematuro.
Si
impose di svuotare la mente, cercare di dormire per davvero, e
limitarsi a
gestire una cosa alla volta a seconda di come si sarebbe messa la
situazione.
Era la cosa migliore che potesse fare.
Secondo capitolo:
c'è.
A voi eventuali commenti (:
Vi lascio un disegno di Calida. Probabilmente non è quel che
avreste voluto vedere, ma andava fatto ugualmente :"D
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Capitolo 3 *** 3 ***
RMI 3
3
“Devo
chiedere al maestro Whis
di focalizzare gli allenamenti sulla percezione dell’aura
altrui, perché non
posso continuare così!”
Erano
ormai venti minuti che
Lord Beerus stava girovagando invano nella foresta, in cerca di una
Lusan che
non riusciva proprio a trovare. Doveva essere vicina, per forza,
perché l’aveva localizzata lì quando
era ancora nella mesosfera del
pianeta;
peccato
che poi si fosse messo a
pensare ai frutti della volta precedente, avesse perso la
concentrazione, e ora
fosse talmente irritato per quel fatto da non riuscire a ritrovarne
abbastanza
per tornare a percepire l’aura di Anise.
«Che
nervi» borbottò «Non potevi
essere in città con gli altri Lusan, o in quel paese
fantasma che mi piace
poco? Dovevi proprio trovarti nel bel mezzo della foresta?!»
Le
sue orecchie captarono il
rumore dello scorrere di un fiume, che quando Beerus si
avvicinò capì essere il
fiume, quello dell’altra volta: aveva
riconosciuto il tronco cavo coperto di muschio.
Aver
trovato un punto di
riferimento era già qualcosa, perché se c'era il
tronco allora anche
l’altalena non era lontana.
“Sì,
ma chi mi dice che se ne
stia lì a oscillare tutto il giorno? O ancora, che decida di
andarci anche
oggi? Potrei finire ad aspettarla inutilmente per ore, e non
è proprio il caso.
Le cose sono due: cercare di nuovo di percepire la sua aura, o cercare
casa
sua. Se io dovessi tirare su una casa nella foresta, avrei mille
ragioni per
costruirla abbastanza vicina a un fiume” rifletté
“Forse dovrei provare a
vedere se ce n’è una vicina a questo E
all’altalena”.
Gli
parve una decisione sensata,
per cui decise di continuare a seguire il corso d’acqua. Per
fortuna gli
allenamenti, nonché la forza e
l’agilità posseduti
di natura, rendevano
semplice camminare lungo quelle vie impervie… anche con le
spalle gravate dal
peso di due grossi sacchi, uno colmo di praline, l’altro di
frutti puff-puff. Prima di arrivare a destinazione aveva fatto tappa a
Swetts, proprio come aveva deciso.
«Sarebbe
il colmo se dopo essere
riuscito a farla al maestro sprecassi una giornata o più
senza trovarla» disse
tra sé e sé.
Fino
a quando non aveva perso le
tracce dell’aura di Anise si era sentito fiero della propria
abilità e la
propria astuzia, ma ormai tutta quella soddisfazione si era dissolta, e
il suo buonumore si disgregava sempre più a ogni passo. La
pazienza
non era tra le virtù di Beerus, e quando c’era di
mezzo
una voglia di qualcosa
-che fosse di cibo o, in quel caso, di vedere qualcuno- lo era ancor
meno del
solito.
«Ma
se io adesso distruggessi
tutti gli alberi?» cominciò a borbottare
«Almeno vedere la casa sarebbe più
semplice! Un momento: cos’è questo
odore?»
Gli
alberi della foresta
trasformavano le raffiche di vento in una leggera brezza, ma
quest’ultima era
stata sufficiente per far arrivare alle sensibilissime narici del dio
due
profumi distinti: uno sembrava quello del bucato pulito, mentre
l’altro...
“Sembra
odore di
dolci, anzi, lo è senz’altro! Per la precisione
dolci con qualcosa”
aggiunse, annusando l’aria “Direi che
sia…”
“La vostra vita
da regina dev’essere dura, maestà! Con
tutte queste persone di cui occuparsi…”
“Lo è,
soprattutto quando hanno voglia di biscotti alla
cannella e in casa non ce n’è neppure un
grammo”.
«Cannella!...
CANNELLA!»
esultò l’Hakaishin,
lanciandosi di corsa in direzione di quel profumo « CANNELLAAAAAA!»
Non
aveva dubbi: grazie ai
biscotti alla cannella, l’aveva trovata.
«… CANNELLAAAAAA!»
Anise
osservò il bosco, alquanto
confusa.
Era
intenta a stendere il bucato
su un filo appeso tra un albero e un altro, quando le era sembrato di
sentire
qualcuno urlare qualcosa a una distanza relativamente breve rispetto al
punto
in cui si trovava lei. La prima volta non aveva capito di cosa si
trattasse,
forse troppo sorpresa per la presenza nella foresta di un essere in
grado di
parlare che non fosse lei stessa, ma dalla seconda in poi non aveva
avuto più
dubbi.
“Quale
cretino si aggirerebbe
mai nella foresta urlando ‘cannella’? E
perché, poi?” si chiese la ragazza
sollevando le sopracciglia in un’espressione di immensa
perplessità “Il peggio
è che pare proprio avvicinarsi a casa mia. Forse faccio
meglio a rientrare e
chiudermi in cantina”.
Posò
a terra il cesto di vimini
coi rimanenti dei panni da stendere, ma non fece in tempo a fare altro
perché, con
sua somma sorpresa, Lord Beerus saltò fuori da un cespuglio
a meno di venti
metri di distanza da lei.
“Lui,
qui?” pensò la
lince, alquanto sorpresa. Non si sarebbe aspettata di incontrare ancora
il Dio
della Distruzione, soprattutto di vederlo vicino a casa propria, e
tantomeno
intento a trasportare due sacchi contenenti chissà cosa.
Lo
vide guardarsi attorno con
fare concitato, fino a quando il suo sguardo si posò si di
lei; a quel punto
sul volto del dio comparve un gran sorriso, e lasciò cadere
a terra entrambi i
sacchi.
«Cannella!» esclamò,
indicandola.
«Veramente
mi chiamo Anise» fu
la prima risposta che le venne in mente, un po’anche per la
sorpresa che ancora
perdurava.
Beerus
le si avvicinò di qualche
passo. «Giravo nella foresta da venti minuti poi ho sentito
l’odore di dolci
alla cannella e mi sono ricordato che avevi parlato di biscotti alla
cannella e
che quindi ti piace la cannella e-» si fermò,
riprese fiato e schiarì la voce,
ritrovando un minimo di contegno; non che fosse molto utile ormai,
pensò con
una certa desolazione, visto che la figura da idiota era già
stata fatta. «Ciao.
Di solito non sembro tanto scemo».
Ecco
chi era il cretino urlante:
un cretino divino, che però al momento le sembrava
più che altro “carino”, dal
momento che si era ricordato quella sua frase buttata lì
riguardo i biscotti
alla cannella. «Ciao! Mi sorprende che tu sia qui, ma meglio
tu di un pazzo
scatenato che ce l’ha con la cannella. Di nuovo in cerca di
frutti?»
La
risposta sincera sarebbe
stata “No, cercavo proprio te, perché da ben dieci
giorni avevo una voglia
immensa di rivederti”, ma Beerus si disse che non sarebbe
stata molto
dignitosa. «No. Sì. Più o
meno» fece facepalm «Non so perché mi
sto comportando
in questa maniera, di solito non faccio così».
«Non
c’è motivo di essere
agitato. Mi fa piacere rivederti» disse lei, senza mentire.
Quelle
ultime quattro parole
furono sufficienti a calmare l’Hakaishin, che sorrise.
«Io… bene. Ne sono
lieto. Rispondendo alla tua domanda di prima, trovare i frutti
dell’altra volta
non mi dispiacerebbe, ma non è quello il motivo che mi ha
portato qui» le
confessò «O almeno, non è il motivo
principale».
Anise
avrebbe voluto chiedergli
quale fosse quest’ultimo, ma poi concluse che avrebbe solo
finito col metterlo
in imbarazzo, cosa che voleva evitare. Riteneva di aver intuito cosa
l’avesse
portato lì, perché anche in quel frangente
l’atteggiamento di Beerus le stava
inviando segnali piuttosto chiari, ma stentava ancora a credere di
poter aver
suscitato l’interesse di un dio. Un interesse di certo
superficiale,
passeggero, qualcosa di cui lui si sarebbe stufato in fretta -era una
divinità
immortale che girava per l’Universo, in fondo- ma che sempre
interesse era.
«Capisco. Devo dedurre che quindi anche il tuo maestro sia
qui in giro? Non ti
avrà abbandonato ancora, spero!»
«Eh…
a dire il vero potrei
essere più o meno
scappato via dal
mio pianeta. Da casa mia, insomma» aggiunse Beerus
«Ed essere venuto qui in
volo. Quindi no, il maestro Whis non
c’è».
Il
Dio della Distruzione era
fuggito di casa per venire sul suo pianeta! Quella era sicuramente la
cosa più
assurda di tutte. Anise si augurava soltanto di non finire in qualche
guaio causato dall’Hakaishin o dal suo maestro, che in quanto
tale doveva
per forza essere più forte di Beerus. «Facciamo
così: ora prendi quei sacchi,
vieni in casa, e mentre facciamo merenda mi spieghi cosa significa quel
“più o
meno scappato”. Ti va l’idea?»
«Sì!
Certo!» esclamò Beerus,
recuperando i sacchi. Forse le cose non erano iniziate come aveva
sperato, ma
sembravano procedere nella giusta direzione.
«Ottimo.
Mangeremo i biscotti
alla cannella, come già sai».
Solo
in quel momento,
guardandosi attorno, Beerus fece caso a particolari che prima
non aveva
notato affatto: i rami degli alberi più bassi e
più vicini alla casa erano
stati decorati con fili di perline di vetro, e su ceppi di alberi
tagliati
chissà quanti anni prima erano stati posati cristalli
colorati cui lui non
sapeva dare un nome.
Incuriosito, il dio si avvicinò a un ceppo su cui erano
stati messi sette grossi cristalli prismatici dalle sfumature
verdi e viola, disposti in un cerchio, attorno al quale era stata
incisa una serie di strani
simboli. «Di’, tu sei per caso una strega o cose
del genere?»
«Ovvio
che sono una strega»
rispose Anise, con la massima tranquillità.
«Ah…
davvero?» si stupì Beerus,
che non si aspettava proprio di avere a che fare con una di esse.
«Certo!
Ecco perché vivo da sola
nella foresta e frequento spaventosi villaggi fantasma. I miei
incantesimi sono
potentissimi, e sai qual è che mi riesce meglio?»
«Quale?»
«Trasformare
le divinità in
grosse bacche rotonde di colore rosato. Ti ricorda qualcosa?»
gli chiese, per
poi ridere di cuore vedendo l’espressione del dio.
«Beerus, sto scherzando! Non
sono in grado di fare incantesimi. Se mai la magia ha abitato questo
pianeta, è
morta molto tempo fa. Quei cristalli sono lì
perché allontanano la negatività,
e perché mi piacciono. Dai, andiamo in casa».
Beerus
fu tentato di ricambiare
lo scherzetto che lei gli aveva fatto, dandosi dello sciocco per aver
dimenticato che in ogni caso la magia dei mortali non aveva mai
effetto su un
Hakaishin, ma la tentazione svanì in fretta: desiderava che
Anise si sentisse a
proprio agio con lui, e se lo era abbastanza da scherzare
tranquillamente, meglio così. «Anche in
casa hai
tanti cristalli e perline di vetro?»
«Giudicherai
tu».
Beerus
la seguì
all’interno della casa. Era carina, il rivestimento in legno
delle pareti la
rendeva calda e accogliente… e soprattutto, ovunque
guardasse c’erano
cristalli, piccoli fasci di erbe e fiori profumati, bottiglie e
bottigliette
più o meno piene di chissà cosa, e perline di
vetro. Tante perline. Troppe!
«Allora,
Beerus?»
«Mi
avevano affidato un caso
molto bizzarro su cui investigare: il rapimento di tutte le perline di
vetro
dell’Universo. Oserei dire di averlo risolto! L’investiGattore
Beerus colpisce ancora!»
No,
si disse Anise, lei aveva
sicuramente capito male: non poteva averlo detto davvero.
Non
poteva.
…
E invece sì, lo aveva detto
davvero.
«“InvestiGattore”»
ripeté lei.
«Sì!»
Per
la seconda volta nell’arco
di poco tempo, la ragazza rise. Per Beerus fu bello, al punto da far
sorridere
anche lui.
«Puoi
accomodarti dove vuoi,
investiGattore» lo invitò «Sedie,
divanetti, poltroncine, qui i posti non
mancano. Fa abbastanza ridere, considerando il numero di persone che
viene a
trovarmi» commentò, spostando i biscotti dal
davanzale della finestra al tavolo
«Io faccio degli infusi. Hai preferenze particolari per il
gusto?»
«No,
se si tratta di assaggiare
cose nuove sono un tipo curioso, quindi mi fido» rispose lui
accomodandosi su
una poltroncina beige, munita anche di una
coperta e
due cuscini rivestiti di lana.
«Ottimo.
Nel frattempo spiegami
com’è che sei “più o
meno” scappato di casa, perché non mi è
molto chiaro»
disse lei, mentre metteva a bollire l’acqua «O
scappi, o non scappi».
«Sono
scappato, però il mio
maestro non lo sa» le spiegò «Lui pensa
che io stia dormendo, e che lo farò per
una settimana. Nei giorni precedenti mi sono allenato molto duramente,
quindi
mi ha detto di sì quando ho chiesto il permesso. Non si
accorgerà che non ci
sono, non dovendo cambiare le mie lenzuola non ha motivo di entrare
nella
mia stanza, e nemmeno di localizzare la mia aura, perché sa
che io sono lì, per
l’appunto!... e nel frattempo, io resterò
su questo pianeta».
“Tralasciando
il dormire per una
settimana intera e la questione dell’aura, mi sta dicendo che
a diciotto anni
si fa ancora cambiare le lenzuola dal suo maestro?”
pensò la lince, un
po’perplessa. «In tutto questo discorso ci sono un
paio di punti da chiarire,
ma ne parleremo dopo. Dove intendi dormire?»
«Non
so. Nella cittadina dove
sei cresciuta tu, magari, o da qualche altra parte. Anche il villaggio
fantasma
mi andrebbe bene, se sua maestà me lo consente. Posso
trovare tranquillamente
un posto dove stare» rispose Beerus.
«D’accordo,
se le cose stanno
così allora non mi preoccupo. Intendi venire a trovarmi
altre volte, in questi
giorni?» gli chiese, e sorrise.
«Se
alla strega non dispiace,
direi di sì» rispose lui.
«Puoi
stare tranquillo sul fatto
che non ti trasformerò in un frutto».
Qualche
minuto dopo bevvero i
loro infusi e, una volta aggiunto lo zucchero, Beerus
apprezzò
molto il
proprio. Quando Anise chiese delucidazioni sulla questione di aure e
dormite
lunghe, non si fece alcun problema a risponderle: la percezione delle
aure
consentiva di localizzare una persona anche a grande distanza,
nonché conoscerne livello di potenza e stato di
salute,
mentre fare pisolini di almeno
tre giorni era prerogativa della sua specie, che si era accentuata
quando aveva
ottenuto lo status di divinità.
«Quindi
tu non sei nato
dio, eri un mortale come me» si sorprese la ragazza.
«A
nascere divini sono i
Kaioshin, che appartengono tutti alla stessa razza» le
rivelò Beerus «Anche
negli altri Universi. Gli Hakaishin invece vengono sempre scelti tra i
mortali,
e infatti non ce n’è uno che sia simile
all’altro, di solito. Io e il mio
gemello Champa, Hakaishin del sesto Universo, costituiamo
un’eccezione. A dirla
tutta io costituisco un’eccezione anche per
l’età in cui il maestro Whis mi ha
preso con sé: avevo poco più di quattro anni, e
lui non aveva mai addestrato qualcuno
così giovane. La maestra di Champa invece lo aveva
già fatto, è
più vecchia di Whis, e ha addestrato più
Hakaishin».
«Quel
che mi hai detto è molto
interessante, e tu e Champa dovevate essere incredibili già
da piccoli, se
siete stati scelti entrambi come Hakaishin. A proposito: siete gemelli
omozigoti?»
«In
teoria sì, in pratica io mi
sono preso tutta la bellezza disponibile!» rispose
“gentilmente” Beerus «E
anche buona parte dell’intelligenza».
«Nonché
della modestia» commentò
la Lusan «Non andate troppo d’accordo,
vero?»
«È
rompiscatole per quanto è
grasso. Io non lo invito mai sul mio pianeta, ma lui viene sempre a
casa mia a
propormi questa o quella sfida, che finisce immancabilmente col
perdere» disse
il dio, alzando gli occhi al soffitto «È testardo
e non impara mai la lezione…
ma almeno posso ridere dei suoi tentativi falliti».
«Magari
vorrebbe un po’di
attenzione da te» ipotizzò Anise «Tu non
gliene dai, quindi lui cerca di
ottenerla rompendoti le scatole; se poi lo prendi in giro, forse
continua a sfidarti
sperando di vincere e ottenere così un minimo di stima da
parte tua. Secondo me
tra fratelli si dovrebbe cercare di andare d’accordo, a meno di casi estremi che lo rendano proprio
impossibile. Parlo così con
cognizione di causa, perché a Ulthmeer ho una sorella, e
neppure lei ha il
carattere più facile del mondo».
«Capisco
quel che vuoi dire, ma
se parli con cognizione di causa allora sai anche quanto possa
essere complicato andare
d’accordo » replicò Beerus,
evitando di pensare al fatto che sì, era
complicato, ma lui non ci provava neppure. «Una sorella a
Ulthmeer… ho visto
Lusan bianche, ma non mi sembra di ricordarne una che ti
somigli».
«Calida.
Pelo beige, capelli
corti e neri, occhi verdi, stazza di un armadio a due ante. Di muscoli,
non di ciccia» specificò.
«Cooome?! QUELLA?!»
allibì Beerus «Me la ricordo, ma non avrei mai
detto… aspetta, ma allora tua sorella è a capo
della cittadina!»
Anise
annuì. «Calida Ulthmeer-a
ghekavary, già. Beerus, tu però non mi
hai detto una cosa…»
«“Una
cosa”».
La
ragazza fece facepalm,
sebbene divertita anche da quell’uscita infelice.
«Non mi hai detto se ti sono
piaciuti i miei biscotti».
«Certo
che mi sono piaciuti,
moltissimo» affermò il dio «Per
curiosità, che tipo di farina hai usato? La
consistenza mi sembrava diversa da quella dei biscotti che ho mangiato
a
Ulthmeer».
«La
mia. Nel senso, quella che
produco io con il mulino di Vynumeer. Mi procuro da sola tutto quello
che posso:
gli ingredienti per il cibo, le erbe per le tisane, materiali da
costruzione e
per le riparazioni» indicò le pareti con un gesto
vago «O fibre tessili. La
lana per quei cuscini su cui sei seduto viene da animali che girano nei
dintorni di Vynumeer. Mi conoscono, quindi si lasciano tosare,
nonché mungere,
ma quella è un’altra storia» concluse
«O beh, immagino che a un dio tutto
questo sembri ridicolo, noioso o simili. Posso capire se-»
«No.
Davvero, no» la interruppe
Beerus «C’è il maestro Whis che fa tutte
le cose al posto mio perché è un suo
compito, questo è vero, ma quel che mi hai detto non
è né ridicolo né noioso,
te l’assicuro. Che diamine, se io sapessi almeno cucinare
Whis non potrebbe più
minacciare di farmi saltare i pasti se non gli do retta!... cosa che
potrebbe
accadere, se scoprisse che sono qui. Potrebbe accadere anche di
peggio» aggiunse, con aria
vagamente allarmata.
«Questo
pianeta deve proprio
sembrargli orribile» osservò lei.
«Non
è per questo. Il fatto
è che io, in quanto Hakaishin, non potrei viaggiare per il
cosmo senza di lui»
le spiegò «Quel che ho fatto va contro le regole,
ma non potevo agire
altrimenti. Il tuo pianeta non gli sembra orribile, ma non mi ci
avrebbe
portato, non per i
motivi che mi hanno
spinto a venire qui. Non li avrebbe approvati, e forse non li capirebbe
neppure.
Anche in futuro dovrò scappare ancora, e lo farò,
appena potrò».
I
mesi che sarebbero seguiti non
si prospettavano rosei, ma al momento Lord Beerus era decisissimo a
tornare su
quel pianeta a qualunque costo. Non gli importava delle tre ore e mezza
di
viaggio, non gli importava delle dormite perse, né la
prospettiva di
poter essere scoperto dal suo maestro era un deterrente abbastanza
forte. E
poi, lì vicino c’era anche il pianeta Swetts!
Si
trattava di resistere solo per
qualche mese, poi il suo maestro avrebbe dovuto obbedirgli, portarlo
lì che gli
piacesse o no, e a quel punto sarebbe stato tutto più
facile.
«Beerus,
questo è... imprudente»
disse Anise «Non voglio che ti metta nei guai col tuo maestro
solo per venire
qui, non sarebbe giusto. Questo pianeta di linci che litigano non vale
i
potenziali problemi che potresti avere».
Il
volto dell’Hakaishin divenne
estremamente serio. «Anise, la mia domanda è una
sola: vorresti rivedermi sì o
no?»
La
risposta sincera era “sì”. Era strano,
quasi assurdo se Anise pensava a quanto avesse sempre
preferito la solitudine, ma la compagnia di quella divinità
scombinata alla
ricerca di frutta e arrabbiata con la cannella le piaceva davvero.
Aveva riso
più in quel poco tempo che aveva passato con lui, di quanto
avesse fatto da tre
anni a quella parte. Si conoscevano ancora poco, ma l’
“alchimia” tra due
persone era qualcosa che si avvertiva subito, quando presente, e nel
loro caso era presente.
Peccato
che non contasse, non se
c’erano di mezzo regole più grandi di entrambi.
«Quel che voglio è che tu non
ti metta nei guai, te l’ho già detto».
«Ai
miei eventuali guai penserò io. La mia domanda era
un’altra: sì, o no?»
Se
avesse risposto onestamente lo
avrebbe messo a rischio, se invece avesse mentito c’era una
possibilità di far
arrabbiare quello che era sempre un Dio della Distruzione;
c’erano pro e contro
da entrambe le parti, e alla fine la ragazza optò per la
sincerità. «Mi
piacerebbe, sì».
«Allora
è deciso» concluse
Beerus.
«Magari
la prossima volta parti
più leggero. Quei sacchi dovevano essere un
bell’impiccio!»
«Giusto,
i sacchi del pianeta
Swetts!» esclamò il dio, correndo ad aprirli
«Ti avevo portato delle cose da
farti assaggiare. Ecco» prese una grossa manciata di praline,
una equivalente
di frutti puff-puff, e le mise entrambe sopra il tavolo
«Questi sono per te».
«Grazie!
Hai avuto un bel
pensiero» sorrise lei «Ma una divinità
non dovrebbe farsi portare i dolci,
piuttosto che portarli ad altri?»
«Una
divinità, in quanto tale,
fa quel che le pare» dichiarò Beerus, sorridendo
anch’egli.
Anise
assaggiò una pralina, e il
fu sapore tanto squisito da farle spalancare gli occhi azzurro scuro.
«Sono
deliziose! Se si tratta di cibo, hai ottimi gusti» si
complimentò, per poi
passare ad assaggiare un frutto «E questo non è da
meno. Hai detto che vengono
da un pianeta di nome Swetts?»
«Esatto»
confermò lui, felice di
vedere apprezzato il suo dono «È pieno di delizie
simili, e alla velocità cui
vado io è a soli dieci minuti di distanza da qui».
«Tornando
altre volte allora
hai la possibilità di andare anche su Swetts. A tal
proposito, quanto tempo hai
viaggiato per arrivare qui?» gli domandò la lince
«Il tuo pianeta dista molto
dal mio?»
«Un
pochino. Siamo al confine
con l’Universo Sei, per cui diciamo che da qui a casa mia
potrebbe esserci più
o meno metà Universo Sette in mezzo, ma non
importa» fece spallucce «Non
rischio di stancarmi durante il viaggio».
«Hai
viaggiato da solo per mezzo
Universo soltanto per venire su questo pianeta?»
«Sì,
ma non mi pento di nulla.
Sai cosa? Un giorno ti farò viaggiare insieme a
me!» esclamò Beerus,
profondamente convinto di quel che stava dicendo «Come prima
tappa ti porterò
su Swetts, e poi… non so, ovunque mi verrà in
mente. C’è così tanto da
scoprire, là fuori» indicò il cielo
fuori dalla finestra «Questo discorso non
vale solo per te, ma anche per me: siamo giovani, e
l’Universo è immenso.
Vedremo cose che probabilmente non immaginiamo neanche».
“Seeeh,
come no. Si stancherà
molto prima, soprattutto con tutti questi problemi di lontananza e
maestri contrari”
pensò Anise “Devo riconoscere che è
talmente entusiasta che fa venire voglia di
credergli, però è logico che le sue parole
lascino il tempo che trovano”. «Già.
L’Universo è immenso davvero, in fin dei
conti… a cosa stai pensando?»
«Voi
Lusan non volate, vero?» le
chiese l’Hakaishin «Neppure con qualche
veicolo».
«Purtroppo
è così» confermò la
ragazza «Se pensassimo più a svilupparci e meno a
litigare probabilmente
sarebbe diverso. Come mai questa domanda?»
«Io
posso farti volare. Vuoi
vedere com’è la tua foresta
dall’alto?»
Per
una volta, una delle poche
in tutta la sua breve vita di diciottenne, Anise rispose senza
riflettere,
guidata solo dal desiderio di fare un’esperienza che mai
avrebbe pensato di
poter vivere. «Sì».
«Bene!»
sorrise Beerus «Allora
andiamo».
«Però
prima metto un poncho, se
mai lassù dovesse fare freddo» disse la ragazza, e
ne recuperò uno color beige
buttato su una sedia vicina «Ecco».
Usciti
di casa, Beerus la invitò
a salire sulla sua schiena. «Metti le braccia attorno al mio
collo, io ti tengo
qui, sotto le ginocchia…ecco, esatto. Siamo pronti!
Tranquilla, giuro che non
ti farò cadere».
«Non
l’ho mai pensato».
Il
decollo non fu brusco, dal
momento che Beerus non voleva spaventarla in alcun modo, e
iniziò a salire di
quota più velocemente solo una volta toccati i cinque metri
di altezza dal
suolo. Non poteva vedere il viso della ragazza, ma per quanto la
stretta delle
sue braccia fosse salda non la sentì mai irrigidirsi per la
paura o la tensione,
ed era senz’altro positivo.
Arrivato
a svariate centinaia di
metri d’altezza da terra, decise di fermarsi.
«Ecco. Che effetto ti fa?» le
chiese, sentendo i battiti del suo cuore accelerare «Ti
spaventa?»
Spaventarla?
Come avrebbe
potuto?
Volava
sopra gruppi di nuvole
candide che quel giorno erano piuttosto basse, e stava guardando una
distesa di
verde sterminata, circondata e inframezzata da montagne e fiumi;
riusciva a
vedere più in lontananza i campi coltivati di varie sementi,
somiglianti a un
insieme di piastrelle dai colori caldi; stava vedendo la cittadina di
Ulthmeer,
che da lassù sembrava piccolissima, neppure fosse stata
composta di casette
giocattolo, e per la vicina Moriameer valeva lo stesso discorso.
Piccole
case, abitate da piccole
persone, con le loro piccole abitudini e le loro piccole opinioni:
nulla che
potesse raggiungerla, nulla che potesse avere anche solo un minuscolo
grammo di
importanza, non lassù.
Non
ricordava di aver mai
provato un tale senso di libertà in tutta la sua vita, di
essersi mai sentita
così serena o di essere stata così bene. Per lei
era meraviglioso, al punto da
non infastidirsi neppure sentendo una lacrima di commozione scivolare
lungo la
sua guancia.
«Provo
tante cose, Beerus, ma
non paura. È bellissimo».
«Mi
fa piacere sentirlo» disse,
molto soddisfatto: voleva impressionarla, e ci era riuscito.
«Dove vuoi che ti
porti? Basta che tu me lo dica e in un battito di ciglia saremo
all’altro capo
del pianeta. Posso farlo davvero, sai, sono un dio!»
«Io…
in effetti ho sempre avuto
un desiderio. Ricordo che quando ero piccola c’erano dei
Lusan molto vecchi che
raccontavano di una distesa d’acqua salata di cui non si vede
la fine, lontana
da qui, in quella direzione» indicò un punto a est
«Né io né gli altri sappiamo
se sia vero, perché per una ragione o l’altra non
ci siamo mai mossi da
Ulthmeer, la foresta e dintorni. Mi piacerebbe sapere se
c’è oppure
no».
«Non
so se sia salata, ma
l’acqua c’è eccome. L’ho vista
mentre mi avvicinavo al pianeta» le rivelò
«A questo
punto direi che la nostra destinazione sia decisa. Reggiti
forte!»
Anise
non se lo fece ripetere, e
per fortuna! La velocità con cui Beerus era partito stavolta
era tale da
costringerla a chiudere gli occhi a causa del vento.
Un attimo dopo, lo sentì
fermarsi.
«Eccoci».
«Siamo
davvero arrivati? Non mi
starai…» aprì gli occhi «No,
direi che non mi stessi prendendo in giro».
Lo
sguardo dell’incredula Lusan
abbracciava la vista di una cittadina dalla struttura simile a quella
di
Ulthmeer, ma affacciata su una distesa d’acqua salata che il
tramonto -già
visibile da quella parte del pianeta- rendeva di un luminoso color
rosso
dorato.
In
vita sua Anise non aveva mai
visto nulla di simile, non sarebbe neppure riuscita a immaginare tanta
bellezza, ed ora aveva tutto lì, davanti ai propri occhi,
sempre più vicino dal
momento che Beerus stava volando in cima a un promontorio erboso che
dava
sull’oceano.
«Non
lanciarti giù anche da qui,
mi raccomando» la avvertì Beerus, scendendo a
terra «Di certo ti prenderei al
volo, ma preferirei evitarlo».
Anise
non rispose e scese dalla
sua schiena, avvicinandosi al ciglio, ma non abbastanza da lasciar
pensare
male. Rimase in contemplazione per qualche momento, per poi voltarsi
verso di
lui. «Grazie» disse, e sorrise, piena di
felicità e di gratitudine.
«Per
così poco!» si schermì
Beerus.
«Non
è poco, non per me. Per me
è tantissimo, io… sono felice. Non hai idea di
quanto» aggiunse «Ed è merito
tuo».
La
gioia sul viso della ragazza
era evidente agli occhi di Beerus, esattamente quanto lo era stata la
sua
mancanza la prima sera che l’aveva vista
sull’altalena. Tuttavia, la cosa che
più lo colpì fu quell’
“è merito tuo”:
lui era un Hakaishin, non era abituato a vedere tanta gratitudine e
tanta gioia
negli occhi di chi lo guardava, tutt’altro! A dirla tutta era
la prima volta in
assoluto che succedeva una cosa simile, ed era bello. Che fosse
successa con
lei, poi, lo era persino di più.
Se
in quel momento avesse potuto
guardarsi allo specchio, si sarebbe reso conto che lui e Anise avevano
un’espressione assolutamente identica.
«Sono
felice che tu sia felice»
le rispose. Non era la frase più articolata, poetica o
corretta che potesse
dire, ma era senz’altro la più onesta, e comunque
Beerus non era mai stato tipo
da poesie -eccetto per il tentativo di un’ode al pollo
fritto, che non valeva
la pena ricordare. «Hai voglia di scendere in
città? Sicuramente ci saranno
piatti che non abbiamo mai provato».
Anise
ebbe un’esitazione, poi
ricordò due cose fondamentali: che era insieme al Dio della
Distruzione, e che
lì nessuno la conosceva. «Sì, direi che
sia una buona idea. Sono un po’curiosa
anche io».
Scesero
in città, e tennero fede
all’idea di Beerus di assaggiare cibi sconosciuti. Per Anise
fu incredibile
vederlo mangiare, perché non aveva mai visto nessuno
ingurgitare una simile
quantità di cibo senza fare neppure una piccola pausa, ma
quel che trovò ancora
più incredibile fu il trattamento ricevuto. Dalle sue parti
i forestieri non
erano ben accetti in alcuna città, lì invece
nessuno le aveva rivolto neppure
un’occhiataccia, e quando Beerus era riuscito a farsi
riconoscere quale
Hakaishin le avevano riservato la stessa deferenza che era stata
riservata a
lui.
Era
iniziata come una giornata
normale, e si era trasformata in una sorta di sogno a occhi aperti in
cui tutto
era possibile, ogni
suo desiderio era
realizzabile e tutto sembrava essere permesso.
Anise
si chiese più volte se
quel che stava accadendo fosse reale, ma dovette concludere di
sì: non sarebbe
mai riuscita a immaginare nulla del genere.
“Farò
meglio a godermelo finché
dura, e serbarne il ricordo in futuro” si disse.
Quando
il banchetto finì si era
fatto buio da un bel pezzo, e in quella cittadina portuale non
c’era
particolare vita notturna, ma per Anise era meglio così.
Trovò piacevole
passeggiare sul bagnasciuga, e affascinante il riflesso del cielo
notturno su
quello che Beerus aveva chiamato “oceano”.
«L’oceano
è molto bello… però è
un peccato pensare che tutta quest’acqua non sia
potabile» commentò la ragazza
«Sarebbe meglio se non fosse salata».
«Capisco
il tuo punto di vista,
però stando a quel che mi ha detto il mio maestro il livello
di sale nell’acqua
di oceani come questi influisce sul clima e sull’ambiente di
tutto il pianeta,
quindi non è così senza una ragione. Vorrei
poterti dire di più, ma lo studio
mi annoia» ammise Beerus «Quindi sto poco attento,
e ricordo meno di quanto
dovrei. Non hai idea della quantità di botte in testa che ho
preso dal maestro
Whis per questo motivo!»
«È
molto manesco?»
«Non
è che mi picchi a sangue,
ma non mi risparmia alcuno scappellotto, e credimi, sono terribili
quasi come
il modo in cui canta. Quasi. Terribile come quello non
c’è nulla».
«Se
lo dice l’Hakaishin, devo
credergli per forza» disse la Lusan, piuttosto divertita
«Ad ogni modo, so che
te l’ho già detto, ma ti ringrazio ancora per
questa bella giornata».
«Non
c’è bisogno che mi
ringrazi, è bella per te quanto lo è per me.
Domani
magari lo sarà altrettanto» buttò
lì,
piuttosto sicuro che lei fosse felice all’idea di rivederlo
anche
il
giorno dopo.
«Non
vedo perché non dovrebbe
esserlo» rispose Anise «Beerus, una cosa: se
intendi restare qui per qualche
giorno, puoi dormire in casa mia. C’è una camera
da letto per eventuali ospiti.
Dopo quel che hai fatto per me oggi, credo che offrirti un posto in
casa sia il
minimo».
Era
molto più di quanto lui
avesse osato sperare: nonostante tutto non aveva minimamente
considerato l’idea
di chiederle di ospitarlo in casa sua, né tantomeno che
fosse lei a proporlo. Se
mai avesse avuto dubbi sul fatto che Anise stesse veramente bene in sua
compagnia, a quel punto non ne avrebbe più avuti.
«Davvero?»
«Sì,
se a te sta bene».
«Sì!
Sì, certo che mi sta bene!
Cer-ehm, accetto con piacere, ti
ringrazio».
La
ragazza soffocò una risatina.
Era troppo carino nei momenti in cui cercava di darsi un
contegno… quando era già
troppo tardi. «Molto bene».
Quello,
forse, era l’inizio di
qualcosa di bello.
Capitolo
tre: c’è.
Bei
tempi, quelli in cui Anise si emozionava per l'oceano :"D
A
voi eventuali commenti!
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Capitolo 4 *** 4 ***
RMI4
4
«Questa
volta non potrà
battermi! Sono strasicuro che il pollo fritto dell’Universo
Sette non possa
minimamente competere con il nostro. Beerus può soltanto
sognarlo di notte!»
«Anche tu
faresti meglio a
limitarti a sognarlo di notte, invece di mangiarlo. Stai diventando
veramente
troppo grasso, Champa! In sette mesi sono stata costretta ad allargare
la tua
divisa per ben tre volte, ti rendi conto?»
C’erano
alcuni momenti in cui
Vados rimpiangeva di aver perso contro suo fratello Whis la partita a
morra
cinese che aveva stabilito chi dovesse prendere quale gemello.
“Chi perde
prende quello con la coda più corta”, avevano
deciso, e a perdere era stata
lei.
Doveva ammetterlo, i
primi tempi
Champa non le aveva dato troppi motivi di rammaricarsene: a quattro
anni era un
cucciolo carino e tenero, sempre entusiasta per ogni
attività proposta e
desideroso sia di imparare le arti marziali, sia di studiare,
soprattutto la
geometria; poi però i cambiamenti ormonali avevano fatto il
loro corso, e Vados
si era trovata ad avere a che fare con un adolescente insofferente,
pigro in
tutto e per tutto, le cui sole passioni erano il cibo spazzatura
e… ancora la
geometria.
Quella riguardante
le prorompenti forme
femminili di donne discinte ritratte in riviste di dubbio gusto.
«Tra
qualche mese non potrai più
parlarmi in questo modo!» sbottò Champa
«Potrò mangiare tutto quello che voglio
quando voglio, senza farlo di nascosto, e tu dovrai prepararmelo senza
rompermi
le scatole!»
Vados
sollevò un sopracciglio, e
fece una brusca frenata. «Io ti ho nutrito, lavato, vestito,
addestrato e istruito.
Il minimo che tu possa fare è
mostrare nei miei confronti il rispetto che mi devi, che tu abbia
diciotto anni
oppure no. Diventerò la tua attendente, non la tua schiava,
e se vedrò che stai
ingrassando continuerò a fartelo notare, come
continuerò a prepararti pasti
equilibrati. Spero di essere stata chiara».
«Sì,
maestra» mugugnò Champa,
resosi conto di essere uscito fuori dal seminato: far arrabbiare la
maestra
Vados era una pessima idea.
«Molto
bene. Ora direi sia il
caso di ripartire» disse l’angelo «Siamo
solo al confine tra Sesto e Settimo
Universo, restano ancora due ore di viaggio».
«Ma
davvero non c’è modo di
andare più veloci? Io di questo mi sorprendo
sempr… ehi!»
esclamò, allontanandosi da Vados «M-ma quello era
Beerus!»
«Hm?»
«Sì,
ti dico!
L’ho visto volare
in quella direzione, ne sono sicuro!» insistette Champa
«È appena passato, ed
era solo. Tu mi hai sempre detto che noi Hakaishin non possiamo andare
in giro senza il nostro angelo» aggiunse, con tono accusatore.
«Infatti
non potete» ribadì
Vados.
Era così,
eppure Beerus aveva
trovato il modo di trasgredire le regole. Per scrupolo aveva localizzato
la sua
aura, e sembrava proprio che Champa non si fosse sbagliato: Beerus era
lì, ai
confini del proprio Universo, ed era solo.
“Deve aver
giocato Whis in
qualche maniera… non so se per merito proprio, o per
demerito di mio fratello
minore” pensò la donna.
«Allora?
Era lui oppure no?!»
«Se ti
impegnassi maggiormente
negli esercizi della percezione dell’aura non avresti bisogno
di me per
saperlo. Ad ogni modo era proprio lui» confermò
Vados.
«Cosa
potrebbe mai cercare qui?»
rimuginò Champa «Un momento: Swetts! Sta
sicuramente andando su Swetts di nascosto
dal suo maestro, non c’è altra
spiegazione!»
«Sarebbe
stato plausibile, ma
no» lo contraddisse Vados «Ha già
superato il pianeta Swetts. Forse si è recato
anche lì, ma non è la sua destinazione
finale».
«Se non
è per il cibo di Swetts,
cos’è che potrebbe spingere Beerus a infrangere le
regole e farsi, uhm… COOOSA?!
Tre ore e mezza di viaggio?!»
si sbalordì il dio dopo un rapido calcolo «Maestra
Vados, dobbiamo
assolutamente scoprirlo, deve trattarsi di una qualche delizia
sconosciuta!
Dobbiamo seguirlo!»
«Non
è necessario seguirlo, è
sufficiente usare il mio bastone. Ecco» disse, creando con
esso una sfera
luminosa. Non si era fatta pregare perché era a sua volta
interessata a sapere
cosa stesse combinando Beerus, in modo da poterlo riferire a Whis -il
quale
meritava una bella tirata d’orecchie.
Inizialmente il
bastone mostrò
soltanto Beerus, con un pacchetto stretto dalla coda, atterrare su un
prato
fiorito; poi la visuale si ingrandì, e i due poterono
vederlo avvicinarsi a un
lago… o meglio, alla giovane felina bianca seduta in riva a
esso.
-
Sei arrivato!
-
In un mese e mezzo ho mai mancato un appuntamento,
Anise?
-
No, non lo hai mai fatto. Quanto puoi rimanere, questa volta?
- Più o meno una settimana.
Videro Beerus
prendere una mano
della ragazza tra le proprie e depositarvi un bacio, e lei
ricambiare quel gesto carezzandogli il volto. In tutto ciò
non c’era
assolutamente nulla di scabroso, però l’affetto
presente tra i due era evidente
perfino agli occhi di chi non era abituato a vedere simili scene.
«No,
aspetta: mi stai dicendo
che Beerus -Beerus!- si è fatto un viaggio così
lungo per incontrare una
ragazza?!» trasecolò Champa, ancor più
sbalordito di quanto fosse in precedenza
«È uno scherzo o cosa? Cioè, lo vedi?!
Non ha mai guardato in quel modo neppure
il profiterole del pianeta Swetts, e lui adora il profiterole del
pianeta
Swetts!... Vaaaados! GUARDA! Le ha
portato proprio quello, era nel pacchetto!»
esclamò, per poi coprirsi la bocca
con entrambe le mani «Che sta succedendo? Insomma, dovrei
credere che Beerus
abbia…»
Champa
ammutolì, esterrefatto.
Beerus aveva una ragazza, una compagnia femminile diversa dalle
signorine del
postribolo che conosceva bene anche lui, una ragazza che forse adorava
più del
profiterole!
Inaudito. Incredibile. Impossibile!
Eppure era la
verità, e poteva vederla
con i propri occhi.
Quando vide la
ragazza tirare
fuori dei biscotti da un cestino -alla cannella, sentì dire-
la sorpresa iniziò
a mutare in invidia: non solo Beerus era prestante e più
forte di lui, non solo
vinceva ogni sfida, oltre a tutto ciò aveva anche trovato
una ragazza carina
che lo accarezzava e cucinava dolci per lui! Quella era una vera
ingiustizia.
“Se io
provassi a rubargliela?”
pensò, per poi concludere che non valeva la pena impegnarsi
in quel senso; lei
era carina, ma troppo magra per i suoi gusti, e se era interessata a
Beerus
difficilmente lo avrebbe lasciato perdere per lui. “No, non
è il caso. E se la
rapissi e le facessi fare la cuoca a casa mia? La sua cucina
sarà sicuramente
migliore di quella di Vados!... no, neppure questa è una
grande idea: al
momento Beerus è più forte di me, e se per
disgrazia dovesse scoprire del
rapimento finirei col prenderle. Allora? Che fare?”
«Abbiamo
visto quel che serve»
concluse Vados, interrompendo le riflessioni dell’allievo
«È tempo di informare
Whis. Non so proprio come abbia potuto permettere che accadesse una
cosa del
genere, i sentimentalismi non sono mai una cosa buona per un Hakaishin,
e a
quest’età lo sono ancor meno».
«Avere una
compagna però ci è
permesso. Mi hai parlato tu delle figure di Iarim Neiē e Neiē
» obiettò Champa
«È un’eventualità prevista,
no?»
«È
troppo
presto» ribadì Vados
«C’è molto altro di più
importante a cui
pensare: studiare, allenarsi, compiere
il proprio dovere di Hakaishin, e nel tuo caso anche metterti a dieta.
Se ti
sta venendo voglia di cercare una compagna ufficiale, rinuncia. Non
è tempo di
trovarne una, né tantomeno di stringere con essa legami
vincolanti tramite
giuramenti pericolosi. Sarebbe una pessima idea anche con qualche
millennio di anni alle spalle. Gli Hakaishin stanno meglio da
soli».
“Io
guardando l’espressione di
Beerus direi il contrario” pensò il giovane dio,
pur evitando di esprimersi.
«Va bene».
Sollevata dal fatto
che Champa
sembrasse aver capito, Vados tornò a impugnare
più saldamente il bastone. «Ora
è il caso che informi Whis di-»
«Aspetta!»
la interruppe Champa,
il quale aveva appena avuto un’illuminazione «Non
dire nulla al maestro di
Beerus! Se manteniamo il silenzio, ma faccio sapere a Beerus che so
cosa sta
combinando, potrei ricattarlo!»
«Tuo
fratello sta infrangendo le
regole. Non c’è rivalità che
tenga» ribatté Vados.
«Se non
dici nulla a Whis, mi
metto d’impegno per perdere i chili che ho preso in questi
sette mesi» rilanciò
Champa «Mangerò senza proteste quello che mi preparerai,
sperando che pur
essendo cose ipocaloriche non facciano schifo come al solito,
farò movimento e
limiterò le bibite gassate».
Vados
esitò. «Dici sul serio?»
«Sì!
Non dire niente a tuo
fratello» la supplicò Champa «Tu vuoi
che io dimagrisca, e questa è la sola
occasione in cui posso riuscire ad avere un po’di vantaggio
su Beerus, ci
guadagniamo entrambi! Sii buona, maestra Vados! Ti prego -ti prego -ti preeeego!»
L’angelo
arrivò al punto di
mordicchiarsi il labbro inferiore, tanta era l’indecisione,
ma infine cedette,
con un lungo sospiro. «Tacerò. In fin dei conti il
mio compito è preoccuparmi
del benessere e delle azioni del mio Hakaishin, non di quello di Whis.
Quel che
accade al -o con- il suo allievo non mi riguarda, è a te che
devo pensare».
«EVVAIIIII!» esultò
Champa, per poi ghignare e sfregare le mani una
contro l’altra, soddisfatto «Lo
costringerò a perdere a ogni gioco in cui lo
sfiderò, e a cedermi le sue porzioni di cibo!»
«E la
dieta dove la mettiamo?»
«…per
poi consumare le calorie
in più grazie a un’adeguata quantità di
esercizio fisico» completò Champa «A
proposito, ora che facciamo? Beerus non è in casa,
è inutile andare sul suo
pianeta adesso. Se mai ritenteremo quando tornerà, tra
più o meno una settimana».
«Possiamo
andare su Swetts a
procurarci dei frutti puff puff… le cui calorie dovrai
smaltire con
dell’ulteriore allenamento, Champa» lo
avvisò.
«Ci
sto!»
Non si prospettavano
mesi
piacevoli da quel punto di vista, ma per rompere le scatole a Beerus
avrebbe
fatto questo e altro.
°°°Una
settimana dopo°°°
«Bravo, Beerus, bravissimo! Sono
veramente molto soddisfatto di te, mi rendi fiero di essere il tuo
maestro!»
La reale
soddisfazione di Whis
corrispondeva alla grandezza dell’entusiasmo con cui
l’aveva espressa, e anche
l’espressione del suo viso era degna di chi aveva trovato la
pietanza più buona
del Multiverso.
Dopo la
pubertà c’erano stati
svariati momenti in cui quel suo allievo tanto promettente
l’aveva fatto
tribolare non poco con la sua cocciutaggine e la sua
suscettibilità, non ultimo
quello che quasi due mesi prima lo aveva spinto ad abbandonarlo in
quella
foresta, ma quella fase sembrava essere passata: Beerus si stava
dimostrando
infaticabile negli allenamenti, determinato a migliorare nei pochi
aspetti in
cui era carente -tanto che ormai era in grado di percepire le aure alla
perfezione- e pronto a obbedirgli in tutto e per tutto.
Continuava a essere
un
po’svogliato nello studio delle materie teoriche, pur
essendosi curiosamente interessato
al modo in cui il livello di salinità degli oceani influiva
sul clima dei
pianeti, ma quello era un problema minore.
Vero, ultimamente
capitava
spesso che passasse giorni interi -massimo una settimana- a dormire, ma
ciò non
creava problemi, perché lavorava tanto duramente da fare in
un giorno i
progressi di quattro.
“Finalmente
l’Universo Sette ha
uno degli Hakaishin più forti del Multiverso, secondo solo a
quello
dell’undicesimo, se
è davvero secondo… e sono io che lo
sto addestrando” pensò l’angelo,
alquanto
contento “Sono io che l’ho cresciuto
così! Quanto sono stato bravo! Questo è il
mio Beerus!”
Un Beerus che non
solo lavorava
duro e gli obbediva, ma era anche di ottimo umore, il che era positivo
per
tutto e per tutti. La loro sinergia era sempre stata abbastanza buona,
momenti
di ribellione adolescenziale a parte, ma al momento era proprio alle
stelle, e
Whis non poteva esserne più lieto.
«Sono
felice di saperlo, maestro
Whis!» sorrise il dio.
Beerus considerava
quegli ultimi quasi due mesi uno dei periodi migliori della propria
vita, se non il migliore in
assoluto: stava diventando sempre più forte, stava
diventando sempre più abile
in molti campi, il rapporto col suo maestro era a dir poco ottimo -cosa
di cui
era sinceramente contento- e soprattutto aveva trovato una ragazza con
la
quale stava legando molto.
Quando lui e Anise erano lontani desiderava
ardentemente vederla ancora, quando erano insieme si sentiva
incredibilmente
felice, e quando era costretto ad andare via iniziava da subito ad
avvertirne la
mancanza; non avrebbe mai pensato di poter arrivare a sentirsi
così con -e per-
una persona.
In tutto
ciò, c’era una sola
minuscola ombra: non si erano mai baciati, nemmeno una volta. Non
perché lei
non gli piacesse abbastanza, ma per quella vocina malefica che gli
sussurrava:
“Se finissi col rovinare tutto? Tu non hai provato a
baciarla, ma nemmeno lei
lo ha fatto, quindi magari non vuole da te più di quel che
già avete”, e quel
che avevano era bello, troppo bello per perderlo facendo qualcosa di
stupido.
Quando Beerus
l’aveva vista
sull’altalena l’aveva desiderata per sé,
ma le cose tra loro si erano evolute
in una maniera imprevista, strana, a lui del tutto nuova; per cui, non
sapendo
come muoversi, aveva deciso di non muoversi affatto.
«Ritengo
che meriti un premio.
Hai voglia di andare a mangiare i migliori dolci del pianeta
Swetts?» propose
Whis, pensando di fare cosa gradita «Non andiamo
lì da diverso tempo, ormai».
Beerus aveva imposto
agli
indigeni di Swetts di non fare parola con nessuno delle sue visite, ma
se per
disgrazia qualcuno si fosse lasciato sfuggire per errore qualcosa col
suo
maestro sarebbe stata una catastrofe. Andò nel panico per un
attimo, cercando
una qualsiasi scusa per non partire ed evitare potenziali problemi, per
poi rendersi conto che
se avesse detto di non voler andare sarebbe sembrato molto
più che sospetto.
«Sì, certo, è una buona idea».
«Per un
attimo ti ho visto in
viso un’espressione che mi ha fatto pensare il
contrario» disse Whis, un
po’stupito.
«No, no,
era solo sorpresa! Di
solito mi porti lì in occasioni particolari, quindi era una
proposta che non mi
aspettavo, ma ovviamente sono molto felice all’idea di
andare».
«Capisco,
e ammetto che hai
ragione» annuì Whis, trovandola una risposta
plausibile «Ora direi di-»
Non concluse la
frase, perché
qualcosa -o meglio qualcuno- atterrò con violenza a poca
distanza da loro due,
sollevando un polverone immenso e facendo un gran baccano.
«Mai che
avvisino del loro
arrivo» sospirò Whis.
«Ti prego,
non dirmi che è quel
demente di Champa» brontolò Beerus, alzando gli
occhi al cielo.
«Sai,
è un po’triste che due
fratelli non riescano ad andare d’accordo»
commentò l’angelo.
«Non
è colpa mia se è un
rompiscatole!» ribatté il dio.
«Ehi! BEEERUSSS!... gli ospiti si
salutano, sai?»
Appunto. Champa era
arrivato da
neppure un minuto, ma già il sorrisetto stampato sul suo
viso grassoccio, il
sorrisetto di chi ha combinato qualcosa ai danni di qualcuno o
è in procinto di
farlo, aveva iniziato a dargli pesantemente sui nervi. «Non
sei un ospite, sei
un intruso, è divers- ma che accidenti fai?!»
sbottò, vedendo Champa mettere
un braccio attorno alle sue spalle.
«Suvvia,
non fare lo scontroso
come tuo solito» disse Champa, mentre il sorrisetto diventava
più largo «Il tuo
fratellino preferito ha portato dei dolci da farti assaggiare, anche se
sono
già convinto che ti piaceranno molto: biscotti alla
cannella!»
«Cannella?...»
«Cannella,
Beerus» annuì Champa,
che ormai sogghignava largamente «Cannella».
Quella visita
improvvisa non
poteva essere un caso, si disse Beerus, così come quei dolci
non potevano
essere un caso, e tantomeno poteva esserlo l’espressione del
suo gemello. Aveva
pensato che andare su Swetts con Whis potesse essere rischioso, ma il
vero
dramma era che Champa fosse venuto a conoscenza di quanto stava
accadendo.
Anzi, c’erano
possibilità persino peggiori: se lui
sapeva di Anise, allora quest’ultima era in pericolo. Champa
avrebbe potuto
fare qualunque cosa a lei e al pianeta dei Lusan, o forse lo aveva
già fatto, e
per come la pensava Beerus la colpa sarebbe stata soltanto sua. Se non
avesse
iniziato a frequentarla, non ci sarebbero state ragioni per cui Champa
potesse
interessarsi a lei.
«In cambio
però voglio il tuo
videogioco» continuò Champa
«Darksliders! Non mi-»
«Mi hai
colto in un giorno di particolare
buonumore» lo interruppe Beerus «E il maestro Whis
mi ha appena ricordato che
in quanto fratelli dovremmo cercare di andare d’accordo, per
cui sì, Champa, ti
presterò il mio videogioco. Dobbiamo andare a prenderlo
nella mia stanza».
«Bravissimo,
Beerus. Così si
parla!» approvò Whis.
«Fate le
scale a piedi!» si
raccomandò Vados «Champa deve far lavorare i
muscoli delle gambe».
I due angeli non si
curarono di
seguire i gemelli, uno perché non pensava fosse necessario,
l’altra perché non
voleva assistere a squallide scene di ricatto: il solo sapere che ci
sarebbero
state la rendeva già troppo coinvolta, per i suoi gusti.
Beerus e Champa si
allontanarono, raggiungendo velocemente l’interno del
palazzo. Curiosamente,
salirono metà della lunga rampa di scale che portava alla
stanza da letto di
Beerus senza proferire verbo.
A quel punto, Champa
fece una
risatina. «Vedo che hai già capito come funziona:
tu fai tutto quel che voglio,
e io non dico al tuo maestro di-»
Il giovane Hakaishin
non
riuscì a concludere il suo ricatto, perché
l’altro
scattò senza alcun preavviso e
lo sbatté contro la parete, stringendogli la gola in una
morsa
che si faceva
più stretta e dolorosa ogni millisecondo.
«B-Beer…
us!» annaspò Champa,
sentendo mancare il respiro. Cercò di liberarsi, ma non
ottenne null’altro che
una stretta ancora più ferrea. «Cos-»
«Se
dovessi scoprire che le hai
fatto del male, andrò nel tuo Universo e ne
distruggerò metà. È consuetudine
che ogni Hakaishin pensi ai pianeti del proprio, ma non
c’è una vera e
propria regola a riguardo. Potrei finire comunque nei guai? Forse,
soprattutto
perché dopo averlo fatto mi occuperei anche di te. Mi
importerebbe? No. Per
nulla».
Beerus furioso e
urlante era
pericoloso, Beerus furioso e con quella faccia impassibile lo era
infinitamente
di più. Quella non era la reazione che Champa si era
aspettato, com’era
evidente dal suo sguardo impaurito: si era aspettato da Beerus un misto
tra
rabbia e paura che dicesse qualcosa al suo maestro, non di essere
sbattuto
contro il muro e quasi strangolato.
L’idea di
ricattare suo fratello
era stata per lui poco più di uno dei loro soliti
“giocherelli”, non gli era
mai passato per la testa il pensiero che potesse degenerare a tal
punto, così
come in tutto ciò non aveva mai pensato di fare del male
alla ragazza. Rapirla
per fare un dispetto a Beerus sarebbe stato un conto ma, al
di fuori del suo compito di Hakaishin, anche lui riteneva
disonorevole fare del male a qualcuno che non si poteva difendere,
soprattutto
se donna. «N-non l’ho fatto non m-mi…
sono a-avvicinato! Per c-chi mi prendi?!»
«Per uno
che farebbe qualunque
cosa pur di recarmi danno» ribatté Beerus,
allentando leggermente la presa
«Ecco per chi».
«Non
t-toccherei una ragazza… p-per
questo! Mi conosci!... Beerus!»
Dopo qualche altro
tesissimo
istante, Beerus lasciò andare il fratello. «Meglio
per te che sia cos-»
Un pugno dritto sul
naso lo fece
volare lungo la restante parte di gradini, mandandolo a sbattere contro
il muro
accanto alla porta della sua stanza.
Quando si riebbe
dalla
momentanea confusione vide che il gemello era a un metro da lui, e si
massaggiava
le nocche della mano destra.
«Ti
sembrava il caso di
strangolarmi, razza di stronzo?!» sbottò Champa
«Tu sei completamente partito
di cervello! Volevo soltanto-»
«Qualunque
cosa tu possa volere,
ti proibisco di coinvolgerla» lo interruppe
l’altro, avvicinandosi di un passo «È
una ragazza normale, e tu devi lasciarla stare».
«Immaginavo
non avesse capacità
particolari, la maestra Vados mi ha detto che i Lusan del vostro
Universo non sanno neppure
controllare il Ki. Senti, non sono interessato a farle del
male» disse Champa,
sollevando gli occhi al soffitto «Volevo solo ricattarti con
“se tu non mi dai
il tal videogioco e la tua porzione di bistecca dico al tuo maestro che
hai la
ragazza e sei tanto innammmmorato”!»
Inevitabilmente,
Beerus arrossì.
«Chi ti dice che lo sia?!»
«Il fatto
che tu sia diventato
rosso come i miei pantaloni, signor “se la tocchi ti spacco
l’Universo”» ghignò
il gemello «Una settimana fa abbiamo visto che la guardavi
tutto adorante,
nemmeno fosse stata un dessert. A proposito, l’hai
assaggiata?» osò
domandargli, con un sorrisetto da pervertito.
Beerus si
voltò dandogli le
spalle, per nulla intenzionato a rispondere o a cedere alle sue
provocazioni.
«Non sono fatti tuoi, e tu stai abusando della mia poca
pazienza!»
«Ti dedico
una poesia: Beerus è
tanto innamorato, di casa è scappato, dalla fidanzatina
è andato e han fatto i
monelli in mezzo al prato!» declamò Champa.
«…
Tu non puoi essere mio
fratello, devono per forza averti raccolto da qualche parte»
borbottò, entrando
nella propria stanza: aveva detto davanti a Whis che avrebbe dato
Darksliders
in prestito, non poteva rimangiarsi la parola data.
«Probabilmente in una
stalla di maiali, vista la somiglianza».
«Guarda
che questa settimana ho
perso due etti! La maestra Vados ha acconsentito a stare zitta solo a
patto che
mi mettessi a dieta e facessi esercizio. Senti? Senti quanto sto
faticando, e
solo per coprire le tue fughe d’amore?» si
lagnò Champa, seguendolo.
«Per
tentare di ricattarmi,
vorrai dire. Non fare la vittima, perché non attacca!... ma
dove accidenti è
quel videogioco?» borbottò l’altro.
«Parlando
seriamente, non avrei
mai creduto che un giorno ti avrei visto tanto preso da qualcosa che
non fosse
cibo. Tu, che arrivi a tanto pur di vedere una ragazza? E le hai anche
portato
il profiterole!»
«Fammi
capire, tu nella tua vita
non hai niente di meglio da fare che spiarmi?! Fatti -gli -affari
-tuoi!»
scandì Beerus, irritato.
«L’ho
fatto solo una settimana
fa, quando sei andato da lei: io e Vados stavamo passando lì
accanto, e ti ho
visto. Già, immagino che per un po’ non potrai
scappare… e a proposito, perché
non hai detto di lei al tuo maestro?» gli chiese.
«Domanda
idiota, dovresti
arrivarci da solo. Whis e Vados ci portano da quelle signorine per le
stesse
ragioni, o sbaglio?... oh, eccolo!» sospirò, una
volta trovato il videogioco.
«Già,
continuerai a farti
portare lì?»
Beerus scosse la
testa. Non
aveva la minima intenzione di tornare in quel posto, non ora che
c’era Anise,
anche se non avevano ancora fatto nulla. «Tieni, ecco il
gioco, ora smetti di
rompere le scatole».
«Grazie,
carissimo» ghignò
Champa, intascando il gioco «Dimmi un’ultima cosa:
lei cucina bene?»
«Le sue
torte dolci e salate
sono le più buone di questo Universo»
vantò Beerus.
«Bene, ora
so dove andremo domani
io e la maestra Vados!»
No. Aveva
sicuramente sentito
male, pensò Beerus, quel demente non poteva averlo detto sul
serio. «Spiegati!»
«Se il suo
cibo è così buono,
devo assaggiarlo» disse il dio, facendo spallucce
«Voglio mangiare le sue torte
e vedere cos’ha di tanto speciale per averti cotto a
puntino… e dovrai fartelo
andare bene, perché tu domani sarai bloccato qui! Non le
farò del male, ma ti
avviso che la sedurrò col mio irresistibile
fascino» dichiarò, assumendo una
posa plastica che teoricamente sarebbe dovuta sembrare sexy
«Solo per farti dispetto, perché per i
miei gusti ha troppa poca carne addosso!»
Purtroppo era la
verità: se Champa aveva intenzione di andare sul
pianeta dei Lusan il giorno dopo, non
c’era nulla che potesse fare per fermarlo.
Riteneva che le sue minacce fossero state recepite e prese sul serio,
quindi
non sarebbe dovuto succedere nulla ad Anise, ma… se avesse
provato a fare
qualcosa di sconveniente? L’idea che lei potesse farsi
sedurre da Champa era
assurda, ma non voleva assolutamente che quel demente di suo fratello
le
mancasse di rispetto molestandola in qualche modo. «Champa-»
«Temi la
concorrenza?»
«Sì,
guarda! Immagino all’opera l’irresistibile
fascino sprigionato dai tuoi rotoli di ciccia. Una vera calamita, per
le
ragazze» lo prese in giro Beerus «Oppure proverai a
incantarla con gli
aggraziati movimenti di quella robaccia storta che ti ostini a definire
coda?»
«EHI! La mia coda non è
affatto storta!»
«Hai
ragione, è diversamente
dritta».
«Come tu
sei diversamente
intelligente» replicò Champa.
«E tu
diversamente magro!» ribatté
Beerus.
Champa gli si
avvicinò, con fare
minaccioso. «Io posso dimagrire quando voglio, mentre tu
resterai sempre un
povero scemo!»
«Se
è vero che puoi dimagrire
quando vuoi, perché sei ancora Champabomba
Cannoniere?!»
«Con la
tua ragazza fai tanto il
carino, ma fa’ che le dica come ti comporti con me e quanto
te la tiri con
tutti i nostri colleghi, dei quali non ce n’è uno
che ti sopporti, e vedrai
come ti manderà subito a quel paese anche lei!»
sbraitò Champa.
«Non osare-»
Lo sfociare di
quella
discussione in qualcosa di più serio venne interrotto grazie
all’arrivo
improvviso dei due angeli.
«Stavate
impiegando molto per
trovare quel videogioco» osservò Whis.
«Era
nascosto sotto un sacco di
roba» si giustificò Beerus, cercando di ritrovare
almeno una parvenza di calma.
«Ecco,
essere ordinato è una
cosa che dovresti ancora imparare, ma per come vanno le cose
nell’ultimo
periodo non dubito che lo farai. Tempo al tempo!» sorrise
l’angelo.
“Sorridi
ora, ché in un futuro
non troppo lontano potresti trovarti a fare il babysitter al figlio di
Beerus” pensò Vados.
Sentendo parlare Whis in termini più che entusiastici era
stata tentata più
volte di rivelargli che quel suo allievo che tanto apprezzava lo stava
prendendo per i fondelli da quasi due mesi, ma aveva taciuto: Champa
aveva
perso ben due etti!
«Beerus
oggi è proprio tanto
gentile, vedendomi deperito ha detto che stasera vuole darmi
metà di tutta la
sua cena!» esclamò Champa.
«Se anche
lo avesse detto
davvero, e non credo l’abbia fatto, non se ne
parla» lo disilluse Vados «Non
vorrai riprendere il doppio del peso che hai perso?»
«Sì
ma insomma però uffa»
borbottò l’Hakaishin.
Di norma Beerus
avrebbe riso per
il modo in cui veniva trattato Champa, ma in quell’occasione
era troppo
occupato a stare in pensiero per quel che sarebbe successo il giorno
dopo:
Champa le avrebbe detto chissà cosa, e dove
non c’erano verità da raccontarle avrebbe integrato con delle
bugie. Anise sapeva già che loro due non andavano
d’accordo,
ma cosa sarebbe successo se quel ciccione fosse riuscito a convincerla
che lui non
era una persona con cui valesse la pena avere a che fare?
“No. Ormai
sono quasi due mesi che
ci vediamo quando possiamo” cercò di
tranquillizzarsi “In questo lasso di tempo
siamo sempre stati bene sia quando eravamo insieme in casa, sia a
Vynumeer, sia
in giro per il pianeta… per non parlare del fatto che
ritenerla così facilmente
influenzabile sarebbe un insulto alla sua intelligenza".
Sperava di non sbagliarsi... e in fin dei conti, perché
avrebbe
dovuto avere torto? Lui e Anise in quel periodo avevano affrontato un
discorso secondo lui ben più gravoso, ossia quello del suo
ruolo
di Hakaishin e quel che comportava, e lei non aveva mostrato di avere
particolari problemi a riguardo.
Anise aveva compreso la necessità di equilibrare vita e
morte nell'Universo ancora
prima che lui dovesse spiegargliene i motivi, e soprattutto
non lo
riteneva un assassino, o un essere abominevole, o tutti gli altri
epiteti ai quali era stato costretto ad abituarsi da quando aveva
iniziato a occuparsi di pianeti passibili di distruzione. Tra essi
c'era anche "mostro", a dir la verità, ma quello gli
era noto anche prima di diventare un dio.
Certo, sentir parlare di interi pianeti spazzati via e vederlo fare
erano due cose diverse, ma Beerus pensava -sperava- che Anise non
avrebbe cambiato opinione, se mai avesse dovuto vederlo all'opera. Non
distruggeva pianeti a caso, se lo faceva c'erano valide ragioni... e
spesso a contare molto era anche l'opinione del maestro Whis.
"Cercherò di
restare
calmo, e se dovesse avere qualsiasi cosa da chiedermi quando la
rivedrò, le
risponderò con la massima onestà. Champa non
riuscirà a rovinare quel che si è
creato tra me e lei” concluse.
Capitolo 4: presente!
Tengo molto a
ringraziare tutte le anime buone che stanno seguendo questa storia,
rappresentate una forte spinta a proseguire :)
Nel prossimo capitolo dovrebbe esserci un disegno, se Beerus collabora
(ultimamente non ha voglia di lasciarsi disegnare. Forse non si ritrova
molto a essere coinvolto in una storia d'amore :"D).
Ultima riflessione: mi rendo conto che scegliere i generi nei quali
rientra una storia a volte è proprio complicato, quando ci
sono aspetti che rientrano (o rientreranno, nei capitoli futuri) in
più di tre di essi!
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Capitolo 5 *** 5 ***
RMI cap5
5
“Torta
infornata. Promemoria per me: devo rifare il burro,
perché è quasi finito”.
Anise
si tolse il grembiule, lanciandolo su una delle sedie
accanto al tavolo in cucina. Cosa c’era da fare, ora? Ah,
sì: doveva andare a
bagnare le sue piantine di spezie nella serra.
Ricordando
i momenti trascorsi con Beerus, che era stato
con lei fino a due giorni prima, sorrise. Non le era mai successo che
pensare a
una persona le infondesse serenità fino a tal punto
-né a
dire il vero la sua mente si era soffermata tanto spesso su qualcuno-
eppure eccola lì, a sperare di riuscire
presto a vederlo ancora.
Uscì
fuori, riempì un secchio con dell’acqua, e a quel
punto arrivò un pensiero che cancellò il sorriso:
non era una buona idea
affezionarsi troppo a lui. Non esistevano possibilità di
poter costruire
qualcosa di concreto, non tra un dio e una mortale. Lei era desinata a
invecchiare e morire, Beerus invece sarebbe vissuto in
eterno… ma poi, perché
pensare a un futuro così lontano? Non sarebbe durata fino ad
allora, perché
moltissime donne sarebbero passate sotto i suoi occhi, e ne
avrebbe
trovata più d’una che potesse dargli qualcosa in
più rispetto a lei.
“Non
che sia troppo difficile. Io non ho proprio nulla”
pensò
“Ah, no, dimenticavo, qualcosa c’è:
‘ho’ alle spalle un tentativo di
linciaggio. Linci lincianti una lince linciabile!”
Non
c’era proprio nulla da ridere -né lei si sentiva
allegra- ma la risata partì da sola, tanto forte che fu
costretta a posare a
terra il secchio, e assieme a essa arrivò anche quella
familiare sensazione di
malessere diffuso. Non era simile al dolore fisico, non era simile a
quello
dovuto alla febbre o a una qualunque malattia del corpo, non era simile
a niente che fosse in grado di descrivere.
Non inibiva le sue capacità di
ragionamento, ma il suo umore diventava strano: se in quei frangenti
qualcuno
avesse provato ad ammazzarla, si sarebbe fatta una risata e lo avrebbe
invitato
a essere rapido. Non era una supposizione, lo sapeva per certo,
perché due anni
prima era successo qualcosa di simile.
C’erano
momenti in cui, pur non avendo intenzione di
cercare la morte, iniziava rimuginare sul fatto che lei, come tutti gli
altri,
un giorno sarebbe diventata polvere e la sua esistenza sarebbe stata
dimenticata. Si chiedeva che senso avesse vivere, allora, che si
trattasse di
affrontare problemi, combattere guerre, o impegnarsi in lavori e
passatempi
come creare collane di perline. Non riusciva a trovare “La” ragione per farlo, a
meno di non considerare tale la morte stessa: i morti non creano
collane.
In
altre occasioni invece quel malessere scompariva, e la
vita le sembrava degna di essere vissuta. In quei momenti la sua
visione
cambiava, e ovunque guardasse trovava “La” ragione:
la trovava in un fiore mai visto
o nella soddisfazione di aver terminato un altro capo di abbigliamento,
nel
cielo di notte o nell’oceano di giorno, in una battuta
stupida o nel calore del
corpo di Beerus quando volavano insieme. Erano piccole cose, ma
sufficienti… e
quando c’era Beerus non faticava mai a trovarle. Le volte in
cui erano
riusciti a stare insieme in quei quasi due mesi, l’aveva
sempre fatta stare
molto più che bene.
“Quanto
devo essere stupida per lasciarmi 'prendere' tanto
da una persona che è già persa in partenza e con
la quale non c’è stato neppure
un bacio?” si chiese, recuperando il secchio per poi
raggiungere la serra “Se
Calida dovesse scoprirlo!...”
No,
non era il momento di pensare a quello, né a tutti gli
argomenti correlati. Certe cose andavano schiacciate nei più
reconditi meandri
del cervello e lasciate lì fino a quando loro stesse
dimenticavano di esistere.
Innaffiate
le piante, uscì dalla serra.
«Ciao!
Sono nuovo della zona, e tu sei il panorama più
carino che ho visto. Mi permetti di fare un tour del tuo
corpo?»
Per
un attimo Anise pensò di avere le allucinazioni,
perché
davanti a lei c’era un simil-Beerus sovrappeso e munito di
pantaloni rossi, accompagnato
da una donna con la pelle azzurrina e una palese espressione di biasimo
verso
il “saluto” appena ascoltato -sebbene non fosse
rivolto a lei.
Poi,
l’illuminazione: considerando l'aspetto, lo
sconosciuto poteva essere solo Champa, il gemello di Beerus, e la donna
che lo accompagnava doveva essere la maestra di questi, Vados.
“Mi
viene spontanea una battuta sul fatto che il tour
durerebbe molto poco, ma dato che è il fratello di Beerus,
nonché un Hakaishin,
gliela risparmio” pensò la ragazza, mantenendo la
calma. «Immagino di trovarmi
al cospetto del Dio della Distruzione del sesto
Universo…»
«Il
Dio della Maleducazione, sì. Io gli ho insegnato le
buone maniere, ma se non si comporta come uno zotico non è
contento» commentò
Vados, prima che Champa potesse proferire parola «In certi
momenti mi fa
vergognare».
Tanti
saluti all’entrata in scena ad effetto. Il viso del povero
dio era diventato rosso come i suoi pantaloni, e non sapeva bene dove
guardare.
«Era proprio necessario?!» sbottò.
«Ad
ogni modo, confermo: si trova alla presenza di Lord
Champa, Hakaishin del sesto Universo. Io sono Vados, la sua
maestra» proseguì
l’angelo, ignorandolo «E lei dev’essere
Lady Anise».
Com’erano
venuti a saperlo? Avrebbe indagato in seguito.
«Sì, sono io. È un piacere
conoscervi» disse, per educazione «Volete
accomodarvi in casa? Ho infornato da poco una torta salata, dovrebbe
essere
pronta tra circa mezz’ora».
Champa
rimase a fissarla per qualche istante, con un’aria
tanto perplessa da farlo sembrare quasi tenero. «Ma non ti fa
paura che io sia
qui?»
«Che
io sia spaventata o meno non cambierebbe molto: se
siete venuti qui con buone intenzioni non mi succederà
niente di male, se siete
venuti qui con cattive intenzioni non potrò fare
assolutamente niente per
oppormi. Con che intenzioni siete venuti?»
«Mangiare
la torta» rispose Champa, quasi meccanicamente.
«Bene».
Entrati
in casa, la prima cosa che notarono -come era
successo anche a Beerus- fu la massiccia presenza di perline.
«La
tana delle perline di vetro!» esclamò Champa,
guardandosi attorno.
«“La
tana delle perline di vetro”… mi piace, magari lo
scriverò su un cartello da appendere fuori. Potete sedervi
dove volete. Mentre
la torta cuoce, volete bere qualcosa? Vi avviso, al momento ho solo
acqua e
vino».
Champa
corse a occupare un divanetto, attirato da una
coperta rosso scuro. «Per me va bene il vino,
graz-»
«No
che non va bene, ha troppe calorie: tu, acqua. Io sono
a posto così, grazie» disse Vados, che scelse una
comoda seggiola imbottita.
«Allora…
cosa vi ha portati qui, a parte la torta?» domandò
loro Anise, dopo aver servito l’acqua a Champa «Il
vostro arrivo è del tutto
inaspettato, mi ha sorpresa».
«Io
sono qui anche perché volevo conoscere la
ragazza per la quale quel pigro di mio fratello è disposto a
farsi viaggi di
tre ore e mezza di nascosto dal suo maestro» disse Champa,
onesto.
«A
tal proposito, signorina» si intromise Vados «Mi
duole dirle che
spingere un Hakaishin a infrangere le regole non è un modo
di agire
consigliabile. Non che mi riguardi, non trattandosi del mio
allievo».
«Indipendentemente
dal rapporto che può esserci tra me e
Beerus, non credo di averlo spinto a infrangere le regole. Posso dire
in tutta
onestà di avergli fatto presente che il suo modo di agire
era piuttosto
imprudente» replicò Anise, con aria impassibile
«Io posso ricordargli che sta
tenendo un comportamento scorretto verso il suo maestro e verso le
regole che
gli sono imposte, ma non posso fare di più. Sono una
semplice mortale, non ho poteri: sarebbe
sensato per me ripetere a un Hakaishin cose che già sa, col
rischio di
esasperarlo? Non credo».
«Capisco
il suo punto di vista» rispose l’angelo, senza
trovare altro da aggiungere.
“E
Vados muta! Muuuta!”
pensò Champa, cercando di nascondere un sorrisetto
soddisfatto. «Hai fatto
bene, perché Beerus è un Hakaishin molto violento
che si esaspera per un
nonnulla. È permaloso, cattivo, tende a distruggere pianeti
a caso… e come se
non bastasse, cambia una ragazza al giorno!»
Certo,
come no! Aveva una tale esperienza con le ragazze da
aver necessitato ben due incontri per salutarla senza essere agitato.
«Sì, e
oltre a tutto questo ha anche dei momenti in cui si immerge nel
colorante verde,
si incolla del fogliame addosso e se ne va in giro nudo credendosi un
cespuglio
parlante».
Vados
fece una breve risatina. Sembrava che neppure la
lince lo prendesse troppo sul serio.
L’Hakaishin
sollevò un sopracciglio inesistente. «Non credi
alle parole di un dio?»
«Non
se il dio in questione non va molto d’accordo col suo
gemello».
«Quello
però non è colpa mia! È Beerus che si
crede chissà
chi solo perché è molto forte, quindi se la tira
tantissimo con chiunque»
sbuffò Champa «Non solo con me, anche con i nostri
colleghi, tutti più vecchi
di noi! Con te si comporta in modo amabile, ma non è
qualcosa che fa con
tutti».
Era
una rivelazione, stavolta visibilmente sincera, che la
stupiva molto meno del dovuto. In quei circa due mesi riteneva di aver
visto la
parte migliore -e forse più “vera”- di
Beerus, ma già dal loro secondo
incontro, precisamente quando lui le aveva parlato di Champa, era
riuscita a
capire che sapeva essere ben poco gentile. Tuttavia nessuno poteva
vantare di essere
perfetto, e per Anise i pregi di Beerus ne compensavano i difetti.
«Nulla che
non avessi intuito. Ci frequentiamo, quindi penso di conoscerlo almeno
un
pochino. Per quanto riguarda il comportamento coi vostri colleghi,
credo che
essendo uno dei due Hakaishin più giovani cerchi di fare la
voce grossa
sperando di farsi rispettare… è abbastanza
normale, soprattutto per un maschio».
«Io
dico che se la tira perché gli piace tirarsela, e
basta»
borbottò Champa.
«Scusate
un attimo, ma devo andare a controllare a che
punto è la torta» disse la ragazza, allontanandosi
verso la cucina «Inizio a
sentirne il profumo».
Rimasta
sola con Champa, Vados fece un sospiro. «Auguri».
«Per
cosa?» le chiese il dio, confuso.
«È
una strana ragazza. La sua reazione iniziale era dovuta
a considerazioni sensate, ma non è da tutti restare
così calmi in presenza di
un Hakaishin poco più che sconosciuto, quindi
“auguri” per Whis, se dovrà avere
a che fare con lei».
«Ma
non ha fatto nulla di male… a parte l’averti
zittita,
maestra» aggiunse poi Champa, cercando di non ridere.
«Appunto!
E cerca almeno di non mostrare la tua
soddisfazione in modo tanto sfacciato» lo
rimproverò.
«Tra
pochi minuti sarà tutto pronto!»
annunciò Anise, di
ritorno dalla cucina «Il forno a legna sta facendo il matto,
quest’oggi».
«Buono
a sapersi» commentò Vados «Sa, trovo
curioso che una
ragazza così giovane e senza poteri particolari viva qui da
sola in mezzo alla
foresta».
«Ho
varie ragioni per farlo, tra le quali il mio apprezzare
una sana solitudine e il non avere gran stima dei miei ex concittadini
superstiziosi e guerrafondai… i quali a loro volta non hanno
troppa stima della
sottoscritta, devo dirlo» ammise la ragazza
«Immagino siano cose che succedono,
se si frequenta spesso e volentieri un villaggio abbandonato pseudo
maledetto.
In ogni caso, per quanto la gente di Ulthmeer non sia nulla di speciale
devo
riconoscere che sa come si cucina. Mi è stato riferito
che Beerus e il suo
maestro hanno apprezzato molto i piatti tipici».
«Se
è così, più tardi dovremmo farci un
salto» disse
l’angelo. Per composta che fosse, la sua curiosità
verso nuove pietanze e la
sua golosità erano pari a quelle del fratello minore.
Nella
mezz’ora che seguì, la torta salata di Anise venne
apprezzata al punto che non ne rimase una briciola. La ragazza
l’aveva fatta
grandicella, prevedendo di mangiarla a pranzo e cena per almeno tre
giorni, ma conoscendo
l’appetito di un Hakaishin aveva capito che non sarebbe stato
così appena aveva
invitato a pranzo Champa e la sua maestra.
«Era
buonissima! Superba! Meravigliosa!» esclamò
Champa,
applaudendo perfino «Un capolavoro di torta!»
«Riconosco
che era deliziosa» si complimentò Vados.
«Non
come le tue: le tue sono torte senza burro, senza
zucchero o sale, senza uova! In breve, torte senza torta. Sentissi che
schifo»
aggiunse il dio, rivolto ad Anise… appena prima di buscare
uno scappellotto
sulla nuca da parte di Vados, tanto forte da lasciare il segno.
«Ahiahiahiaaaa!»
«Smetti
di dire sciocchezze! Non sono io che cucino male,
sei tu che non hai gusto. La vede, signorina Anise? La vede,
l’ingratitudine?
Io mi prodigo ogni giorno per preparargli pasti che non attentino
ulteriormente
alla sua linea già disastrosa, e lui è sempre a
dire questo: “Schifo, schifo,
schifo”!» si lamentò l’angelo,
con aria da povera vittima «Ogni giorno!»
«Io
dico “schifo-schifo”, tu
“grasso-grasso”, pari siamo»
borbottò Champa.
«In
ogni caso, direi sia tempo di andare a visitare le
città» disse Vados, alzandosi dalla seggiola
«Mi raccomando di non strafogarti
come tuo solito, e di non fare ulteriori paragoni tra la cucina locale
e la mia».
«Sì,
però Champa dovrebbe ancora smaltire le calorie della
torta» osservò Anise «E giustappunto io
dovrei recarmi al villaggio pseudo
maledetto del quale parlavo prima: muovendosi a piedi è
piuttosto lontano da
qui, e la strada è abbastanza impervia. Se lasciasse che
Champa mi accompagni
mentre lei si gode il tour delle cittadin-»
«Lo
farebbe davvero? Sarebbe disposta a far fare attività
fisica al mio allievo, e io avrei delle ore libere tutte per
me?» si mise una
mano sul cuore «Solo Re Zeno sa quanto ne avrei bisogno! A
volte il mio lavoro
è davvero snervante, mi creda, soprattutto quando si ha a
che fare con soggetti
recalcitranti. La sua proposta è stata talmente carina che
ho deciso di
accettarla!»
«Ma-»
«Niente
“ma”, Champa! Comportati bene con la signorina, e
soprattutto
cammina. Ne hai molto bisogno».
Dell’ultima
parola si riuscì a distinguere solo una vaga
eco, perché Vados l’aveva detta scomparendo in
fretta e furia.
«La
tua maestra con me è stata abbastanza educata ma, detto in modo molto schietto, mi
ero rotta
le scatole di sentirla fare commenti sulla tua forma fisica. Tra
l’altro non
sei veramente grasso, sei solo morbido» fu la prima cosa che
disse Anise «Mi
spiace aver tirato in ballo la storia delle calorie da consumare, ma
è la sola
maniera che mi sia venuta in mente per tentare di farla andare
altrove».
Champa
si stupì non poco nell’apprendere che era stata
una
mossa calcolata, e anche perché non era abituato ad avere
qualcuno che lo
“difendesse”, tanto più dalla sua
maestra. «Fare favori a me non ti farà
guadagnare punti con Beerus».
«L’ho
fatto perché certi atteggiamenti della tua maestra mi
ricordano quelli di mia sorella maggiore, la quale trova spesso di che
criticare. A volte è un po’pesante».
Anise
lo aveva fatto anche perché trovava somiglianze in
svariati aspetti tra Beerus e Champa, ma non lo disse, immaginando che
questi
non avrebbe gradito il paragone.
«È
per questo che vivi da sola anche se hai una sorella
maggiore?» le chiese il dio, rassicurato dalla risposta e
sinceramente
interessato. Per lui come per Beerus vivere da solo era inconcepibile,
perché
non sarebbe stato neppure in grado di lavare le stoviglie.
«No,
il carattere di Callie non c’entra granché. Ma
parliamo di cose serie: come sei venuto a sapere della mia esistenza?
Sinceramente non credo sia stato Beerus a dirtelo, visti i vostri
rapporti
sarebbe stata una mossa poco saggia. Devo presumere che tu e/o la tua
maestra
siate in grado di osservare da grande distanza ciò che fanno
le persone?»
«Eeeh…
in effetti è così» ammise Champa
«Ma lo abbiamo
fatto solo una volta, dopo aver visto Beerus volare nelle vicinanze del
pianeta. Ho sentito il tuo nome quando vi siete salutati…
lì per lì non credevo
neppure che quello fosse il vero Beerus, non guarda in quel modo
adorante
nemmeno i suoi cibi preferiti. Non so come tu ci sia riuscita, ma
è
completamente andato».
«Specifica
“andato”».
«Andato,
cotto, abbrustolito. Innammmorato
perso!» disse Champa sbattendo le ciglia con una
smorfia stupida, per poi ridere «Quando ieri sono andato a
casa sua l’ho preso
in giro tantissimo! Non per te, ma perché è la
prima volta che lo vedo così, e
non avrei mai pensato che potesse succedere. Beerus che ama qualcuno
oltre se
stesso e il cibo!...»
«Forse
parlare di amore è prematuro. È vero, io
mi
rendo conto che quando Beerus è qui mi sento bene»
ammise la ragazza «Penso di
poter dire che proviamo affetto l’uno per l’altra,
ma ci conosciamo da poco, io
non ho molto da offrire, non sono immortale come lui, e… a
dirla tutta non
capisco perché lo sto dicendo a te, che con tuo fratello non
vai neppure
d’accordo» fece facepalm «Forse
è perché questi pensieri mi ronzavano in testa
da prima».
«La
tua torta era buona e sei la prima persona che mi abbia
descritto in modo carino da quando sono ingrassato. Quel
“morbido” mi si confà
di più! Quindi ti dico questo: conosco abbastanza Beerus da
sapere che se
pensasse che hai poco da offrire non si farebbe mezzo Universo in volo
per
vederti» le fece notare Champa «E se tu
dovessi riuscire a
sopportarlo al punto di creare un rapporto “serio”,
potresti diventare immortale.
Non so come di preciso, ma so che il modo c’è,
perché noi Hakaishin abbiamo la
possibilità di scegliere una compagna per
l’eternità, chiamata
“Neiē”».
«Grazie
per avermelo detto» sorrise la Lusan «Anche se in
realtà non cambia molto le cose. È giovane, ha
l’eternità davanti: da parte sua
sarebbe folle da parte sua scegliere una compagna per
l’eternità adesso -o tra
due anni, o tra venti- e da parte mia sarebbe folle pensare che possa
accadere con me,
nonché egoista. Lo priverei di possibili
esperienze…»
«Seh!
Esperienze!» Champa alzò gli occhi al soffitto
«La
figura della Neiē sarà pure prevista, ma i nostri maestri
non fanno che
ripeterci che gli Hakaishin stanno meglio da soli,
tant’è che la nostra
esperienza con le donne si riduce a quelle del bordello. Sai
cos’è un bordello?
Sì?... ecco, quindi non priveresti nessuno di
alcunché. Poi non vedo come
Beerus potrebbe trovare un’altra persona disposta ad avere a
che fare con lui
senza essere minacciata di morte, è uno scassapalle che
cammina» aggiunse
“gentilmente” «È
più probabile che ti stufi tu di lui, che lui di
te».
Anise
gradiva il tentativo di confortarla, tanto più
perché
pur venendo da qualcuno appena conosciuto era sincero, ma continuava ad
avere
forti dubbi. «Tu sarai anche convinto di quello che dici,
però col tempo le
persone cambiano, i bisogni cambiano, e-»
«Non
quando tutti i giorni sono e sempre saranno uno uguale
all’altro» la interruppe l’Hakaishin,
facendo spallucce «Quindi se anche tu
apprezzi Beerus più del profiterole di Swetts non farti
problemi, ok? Hm… non
prenderlo come un insulto, ma sei un pochino strana» disse
poi «Perché pensi
troppo. A me al posto di Beerus non verrebbe in mente niente di quello
che hai
detto».
«Appunto,
qualcuno che pensi a certe cose ci deve essere»
replicò lei «Ci conosciamo da neppure due mesi. In
questo breve lasso di tempo
non può essere nato chissà cosa, non avrebbe
senso, ti pare? Non avrebbe senso»
ripeté «Nemmeno un po’».
Stava
cercando di convincere più se stessa che Champa, ma
al momento i fatti sembravano darle contro in tutto e per tutto. Era
davvero
possibile che in così poco tempo fosse nato qualcosa
più di un’infatuazione da
parte di Beerus?
Più
che altro però Anise iniziava a domandarsi che cosa
volesse lei, perché non
era più
sicura di nulla: la mortalità non era più un vero
ostacolo, e se le cose
stavano come diceva Champa poteva esserci la possibilità di
costruire per
davvero qualcosa, ma…
“Champa
chiacchiera, ma io ho soltanto una casa nella
foresta, un paio di ricette che Beerus apprezza, un villaggio
‘maledetto’,
perline di vetro e tanta ignoranza. Non sapevo nemmeno che
l’oceano si
chiamasse in quella maniera! Poi c’è anche tutto
il resto… io non vado bene per
costruire alcunché con nessuno” si disse
“Non col bagaglio che mi porto dietro.
Se c’è qualcosa più di
un’infatuazione, è tempo che io parli a Beerus di
un
paio di cose prima che lui perda altro tempo con una persona
sbagliata”
concluse.
«Se
non ha senso mi sa che devi spiegarlo a Beerus, perché ho
ragioni materiali di credere che lui invece un senso lo
veda!» ribatté
Champa, il cui collo era ancora indolenzito.
«Di
certo parlerò con lui appena riusciremo a vederci
ancora. Ora però direi di andare» disse la ragazza
«Per raggiungere Vynumeer a
piedi ci vuole un po’».
«Aspetta,
ma allora vuoi andarci sul serio?» gemette il dio
«Io credevo fosse una bugia a beneficio di Vados!»
«Ho
idea che prenderei uno scappellotto anche io, se non ti
facessi fare attività fisica come le ho detto. Non voglio
avere problemi anche
con lei, ha già detto “Auguri per Whis”,
mi basta e avanza» commentò.
«…
L’avevi sentita?»
«Non
parlava a voce alta, ma non sussurrava neppure.
Andiamo, su!»
***
“Champa
con me non è stato il rompiscatole descritto da
Beerus… a parte per l’entrata in scena un
po’infelice. Del resto non si può
pretendere che sappia parlare con una donna, se nel novantotto per
cento dei
casi lui e Beerus hanno a che fare con delle prostitute”.
Aveva
passato l’intero pomeriggio insieme all’Hakaishin
del
sesto Universo, e doveva ammettere che era stato in grado di migliorare
una
giornata altrimenti tendente al “pessima”.
Sì, era terribilmente lento nel
camminare -tanto che per arrivare a Vynumeer avevano impiegato il
triplo del
tempo necessario- ma a parte questo era una persona divertente, e vedendolo incuriosito lo
aveva persino
convinto ad aiutarla a fare il sapone. Champa era pigro, ma curioso
verso le
attività che non richiedevano fatica, e veloce a imparare.
Sembrava che Vados,
tornata dal suo tour mangereccio, avesse apprezzato la saponetta che il
suo
allievo aveva fatto per lei.
“Credo
che potrebbe essere davvero un tipo gradevole, se lo
facessero sentire utile e apprezzato. Prendere in giro e punzecchiare
di
continuo una persona sui suoi difetti, fisici e non, è
inutile e dannoso”.
Ormai
era quasi mezzanotte e mezza, quindi era il momento
di andare a dormire. Il mattino dopo intendeva svegliarsi presto per
andare a
Vynumeer e tentare seriamente di rimettere in funzione la vetreria:
Callie le
aveva portato un sacchetto di perline qualche settimana prima, ma erano
finite
tutte su un vestito.
A
tal proposito, bisognava dire che Beerus era sempre stato
bravissimo a “scomparire” quando arrivava Calida, e
Anise non aveva neppure
dovuto chiedergli di farlo: ci aveva pensato da solo, forse facendo
qualche
paragone alla propria situazione col suo maestro. Sarebbe stato
abbastanza
azzeccato, in effetti. Per quanto indipendente fosse, e per quanto
Calida non avesse mai alzato le mani su di lei, al momento la
giovane non
riusciva neppure a immaginare di parlarle di Beerus.
«Anise!...»
La
Lusan sobbalzò e aggrottò la fronte, pensando di
avere
le traveggole. Le era sembrato di sentire la voce di Beerus fuori dalla
porta,
ma era impossibile.
« ANISE!...»
"No,
mi sa che invece non ho le traveggole!" pensò la
ragazza, correndo ad aprire.
L’istante
dopo si trovò stretta da un paio di braccia viola
che ormai aveva imparato a conoscere bene, e a percepire un battito
cardiaco
forte quanto il suo.
«Stai
bene? Dimmi che stai bene! » esclamò
l’Hakaishin,
staccandosi dall’abbraccio soltanto per esaminare
attentamente le condizioni di
Anise «Se quel deficiente di Champa ha fatto qualcosa che non
doveva, giuro che io-»
«Beerus,
io sto bene» lo rassicurò, stringendogli entrambe
le mani «Tuo fratello non mi ha minacciata, non mi ha
toccata, né si è
comportato in modo sconveniente con me. A dirla tutta è
stato molto gentile e carino, ma non
in modo da lasciar pensare male».
«Allora
quell’idiota ha recepito il messaggio»
sospirò «Ho
passato la giornata intera col pensiero fisso di lui qui, tu tra le sue
grinfie, io bloccato sul mio pianeta, non potevo farcela ad aspettare
neppure
altri tre giorni, se ti fosse successo qualcosa!...»
«Guarda
che io sono una ragazza forte: so allacciarmi le
scarpe e tutto il resto» scherzò lei, nel
tentativo di calmarlo «È tutto a
posto. Entra in casa, dai» lo invitò
«Spiegami come sei riuscito a
sfuggire al tuo maestro così presto… e magari
anche il cambio d’abito!»
«Cos-
ah, questo» comprese il dio, guardandosi e ricordando
di essere in pigiama «Sono scappato poco dopo che Whis mi ha
mandato a letto.
Vuole che dorma dieci ore, quindi ho fatto un conto: sette ore se ne
vanno tra
andata e ritorno, se resto qui per massimo un’ora riesco
anche a farne due di
sonno. Bastano e avanzano. Dovevo vederti»
disse, accarezzandole una guancia «Dovevo».
Beerus
non fu in grado di decifrare l’espressione che fece
Anise sentendogli dire quelle parole: sembrava un po’felice,
ma anche triste, e
una persona non poteva sentirsi in entrambi i modi contemporaneamente.
Non gli
piacque, tanto che ricominciò a sentirsi inquieto.
«Fai
tutta questa fatica per la persona sbagliata» disse
lei «Io non vado bene per un dio, né per
nessuno».
Dopo
quella frase, l’inquietudine divenne la
sensazione di chi non ha più la terra sotto i piedi e non
è in grado di volare.
«Cosa vuoi dire?! Chi ti ha messo in testa… ah,
che domande! Quel bastardo di
Champa, ovvio! Lo strangolo, giuro che stavolta lo strangolo sul serio,
io-»
«Lui
non c’entra, e dire il vero mi ha tolto dalla mente un
paio di dubbi. Se dico che sono la persona sbagliata è
perché io ho un certo… bagaglio.
Credo sia tempo di parlarti di
un paio di cose» continuò «Se non
l’ho già fatto è perché sono
faccende che non
mi piace rievocare, e perché conoscendoci da poco credevo
fosse prematuro. Oggi
però Champa ha parlato di innamoramento. Tuo nei miei
confronti» specificò,
decidendo di essere diretta «Io non posso essere del tutto
sicura del fatto che
abbia o meno ragione, ma nel dubbio voglio dirti quel che
c’è da dire. Beerus,
ti sei mai chiesto perché io non ho mai manifestato il
desiderio di andare a
Ulthmeer? O perché sia Calida a venire qui ogni settimana, e
non io a scendere
giù da lei?»
Al
momento Beerus aveva le guance rosse come il fuoco e
nutriva il forte desiderio di massacrare Champa per la sua mancanza di
discrezione, ma si rendeva conto che era il caso di mettere tutto in
secondo
piano. Durante le volte in cui si erano visti, non aveva pensato di
indagare
ulteriormente sulle ragioni della vita solitaria di Anise; non essendo
sciocco aveva
capito che c’era sotto qualcosa di strano, ma piuttosto che
riempirla di
domande aveva preferito portarla da una parte all’altra del
pianeta, farla
sorridere e godere della sua compagnia. «A volte, ma non
volevo farti
pressione. Abbiamo tutti cose di cui non abbiamo voglia di
parlare».
«Ti
ringrazio per la delicatezza» disse la ragazza, con un
piccolo sorriso «È una storia abbastanza lunga ma
abbiamo poco tempo,
quindi tenterò di essere sintetica, anche se con
le sintesi
non me la cavo molto bene. Tanto capirai alla svelta perché
ti
dico che sono sbagliata».
«Quello
è un giudizio che eventualmente spetta a me»
ribatté Beerus,
serio.
La
lince fece una risata amara, gemella di quella a ora di pranzo.
«Certo,
è vero. Mettiti a sedere, intanto».
Beerus
obbedì. Quella situazione gli piaceva sempre meno. Per
l'Hakaishin era brutto nel vedere Anise così
“strana” quando, se fosse stato
per lui, avrebbe meritato soltanto di poter essere sempre felice e
serena. Non
sapeva cos’avesse da raccontargli, ma di certo non era bello,
e
gli dispiaceva pensare
che avesse passato pessimi
momenti.
«Sai
già che non ho mai amato molto la compagnia dei miei
concittadini. Anche da piccola mi interessava osservare attentamente i
tipi d’interazioni tra le persone, ma non di farne parte.
Somma
questo al fatto
che io fossi una trovatella che frequentava moltissimo il villaggio
maledetto, e
puoi capire perché la mia reputazione non fosse il massimo.
Vivevo
comunque abbastanza
tranquilla, perché Calida invece era -ed è-
estremamente rispettata. Andava a Vynumeer solo quando nessuno
poteva
vederla, e soprattutto ha
dei meriti di guerra» spiegò
«L’ultima
è finita quando lei aveva sette anni.
Callie è famosa per aver attirato una piccola armata di
Moriameer in una grotta
e aver fatto franare l’ingresso, lasciandoli morire
lì
dentro… ma sto
divagando. Dicevo, vivevo con Calida ed entrambe credevamo che le cose
non
sarebbero cambiate: lei aveva la sua carriera militare e una posizione
seconda
solo a quella del capo della cittadina, quindi poteva evitare di
sposarsi, e io
ero “quella strana”».
Beerus
non riusciva ancora a capire dove volesse andare a
parare, ma non prometteva nulla di buono. «Immagino che
invece vi sbagliaste».
«Prima
di Callie, l’Ulthmeer a-ghekavary
era un Lusan di nome Meskal. La sua famiglia era a capo
della cittadina da diverse generazioni, ma l’ultima guerra
l’ha decimata,
lasciando in vita solo lui» continuò Anise
«Era un
partito alquanto ambito, ma non
si era mai sposato. Calida diceva sempre che pensava soltanto a
battagliare e
divertirsi. Tuttavia, a trentasei anni ha ritenuto che fosse
ora di metter su famiglia» disse Lusan, mentre il suo volto
diventava inespressivo «Poteva
scegliere qualunque donna, perché la maggior parte di esse
lo
considerava
bello, Calida inclusa. Invece ha preferito una ragazzina di quindici
anni» si
indicò «Le nostre leggi lo consentono».
Se
ci furono cambiamenti nell’espressione del dio, Anise non
li vide. Si stava limitando ad ascoltare e osservare in silenzio, e lei
non
sapeva cosa pensare: di solito Beerus era così espressivo!
L’unica
cosa che potesse fare, a quel punto, era
proseguire.
«Non
avrei voluto cambiare vita, avrei voluto continuare a
starmene in giro per la città, la foresta e Vynumeer:
avrei potuto sostentarmi come faccio adesso. Non mi volevo
sposare, tantomeno con lui, perché Meskal non mi piaceva
affatto» disse dunque
«Ma con mia grande sorpresa, Calida ha iniziato a insistere
perché accettassi.
“Tu non combatti, quindi devi sposarti, è
un’occasione unica, soprattutto per
te che hai la fama di strana”, diceva, e alla fine ho ceduto.
Mi sono detta che
lei, essendo più grande, forse sapeva meglio di me qual era
il mio bene».
Ci
sarebbe stato altro da dire di quella giornata, di
quella sera, di Calida, ma decise di tacere. Era una cosa tra loro due,
e lei
cercava sempre di pensarci il meno possibile, quindi non
c’era ragione di dirla
a Beerus.
«Ho
sposato Meskal. Non posso dire che mi maltrattasse, perché
durante
il giorno lo vedevo giusto all’ora dei pasti, e di notte
tentava di mettermi
incinta, come qui ogni marito fa con la moglie. Non ho mai desiderato
che mi toccasse, ma eravamo sposati, e
dargli
figli era il mio dovere. Per fortuna non ci sono riuscita, e il giorno
in cui
ho compiuto sedici anni mi ha ripudiata pubblicamente. “Non
sei
buona né per
combattere né per figliare”, ha detto
poi»
ricordò la ragazza «Non aveva torto,
perché il mio ciclo non si fa vedere quasi mai, ma
io
gli ho risposto “Quello è perché tu a
letto sei un
disastro, le
poche volte che riesci a metterlo dove devi non
duri un minuto”. Credo si sia sentito più umiliato
di me,
anche perché non se lo aspettava. Lì gli ho
voltato le
spalle
e me ne sono andata, diretta a Vynumeer. Volevo stare da sola. La mia
reputazione
già poco bella era peggiorata: se una Lusan
non combatte, né sforna nuova carne da macello per le guerre
che
verranno, è inutile. È sbagliata. Questo
è il
pensiero comune».
Neppure
allora Beerus parlò, ma Anise poté notare che
aveva
stretto i pugni, e tremavano leggermente. Forse era arrabbiato per aver
perso
tempo dietro una ragazza che per l’appunto era sbagliata,
pensò.
Tuttavia
non era ancora finita e, credendo di aver già
rovinato tutto, la Lusan continuò a parlare.
«Il
momento in cui tutto è crollato davvero però
è
stato il
mattino seguente. Meskal è stato trovato morto in riva al
fiume» rivelò
«Attorno a lui
c’erano segni di lotta,
e chi l’ha ucciso lo ha fatto prendendogli la testa e
sbattendola
contro una
roccia fino a spappolare il cranio. Serve una certa forza, una
ragazzina
magrolina di sedici anni non può riuscire ad ammazzare
così un combattente
esperto e ben più grosso di lei, eppure per gli abitanti di
Ulthmeer ero io la
colpevole. Sono andata via dalla città» disse,
risparmiando a Beerus il
racconto del tentativo di linciaggio «Da allora vivo qui, in
questa casa che io
e Calida avevamo rimesso a posto anni prima di tutto questo disastro.
Potrei
entrare in visita a Ulthmeer, perché Callie ne è
diventata il capo in quanto vice del defunto Meskal, ma non lo faccio
volentieri. Ecco, ho finito»
concluse «Vedi? Sono sbagliata. Dovevo dirtelo subito, anche
se
così facendo
non avrei ancora idea di cosa significhi conoscere una persona che mi
piace
davvero, e mi fa stare bene al punto di sorridere anche solo
pensandola. È quel
che mi succede con te» confessò «Per
quel che
può valere, ormai».
Ancora
una volta Beerus non disse nulla, ma le si avvicinò
a grandi passi e la strinse in un forte abbraccio. Incredula, sul
momento Anise
non riuscì a muovere un muscolo.
«Mai più. Non
voglio più sentirti dire che sei sbagliata, che non vai
bene, e tutto quel che
ti hanno messo in testa quei maledetti. Tu non sei sbagliata, tu
sei… sei una
meraviglia, Anise!» esclamò, allontanandosi per
guardarla negli occhi «L’ho
pensato quando ti ho vista sull’altalena quella notte e ho
continuato a
pensarlo, arrivando al punto di fare complete follie per poterti vedere
ancora,
e non mi pento di niente: le vali tutte! Anzi, vali di
più» si corresse «Ne ero
convinto prima, a maggior ragione lo sono adesso».
Più
Beerus continuava a parlare, più Anise si sentiva liberata
da un peso sulle spalle che sì, era stata conscia di
portare, ma del quale non
aveva riconosciuto l’entità. Tale sollievo si
mescolò all’incredulità più
completa, a una gioia autentica ancor più grande della prima
volta in cui
Beerus l’aveva fatta volare, e a una sensazione che Anise non
aveva mai
conosciuto prima: la speranza. Una timida speranza che quello che lei
aveva
vissuto come un bel sogno, purtroppo destinato a finire, potesse essere
qualcosa di più. Qualcosa di reale. Se non pianse fu solo
perché riuscì
miracolosamente a imporsi sufficiente autocontrollo. «S -sei
sicuro di quello
che dici?»
«Totalmente».
Non
fu uno di loro in particolare a prendere l’iniziativa:
si avvicinarono l’uno all’altra contemporaneamente,
desiderosi soltanto di scambiarsi
il loro primo bacio… e finendo col darsi una testata
allucinante.
Mai
che le cose andassero come previsto!
«So
che hai la testa dura, ma solo adesso ho capito quanto»
scherzò la ragazza, massaggiandosi la fronte.
«La
tua è più dura della mia!»
ribatté Beerus, con lo stesso
tono «Ora però vieni qui».
C’erano
voluti quasi due mesi, ma finalmente il loro primo
bacio era arrivato.
Poi
un altro.
Poi
altri cento.
In
quel momento nelle loro menti non c’era spazio per
nient’altro che non fossero loro due e il loro piccolo mondo,
tutto racchiuso
in quella stanza: erano insieme, giovani, belli e innamorati. Non
c’era nulla
meglio di così.
Solo
diverso tempo dopo, nessuno dei due sapeva
precisamente quanto, gli occhi di Anise caddero
sull’orologio. «Beerus!»
«Sì?»
«È
ora! È passat- un’or- apprezzo i baci, ma fammi
parlare!» sorrise la Lusan «Due ore di
sonno sono già troppo poche. Devi andare».
«Devo
proprio?» sospirò il dio, con una smorfia.
«Se
non vuoi ricevere gli scappellotti del tuo maestro,
temo di sì. Non preoccuparti, in futuro avremo tutto il
tempo che vogliamo».
Raggiunsero
assieme la porta d’ingresso, poi Beerus prese
una mano di Anise tra le proprie e la baciò, come faceva
sempre sia quando
arrivava, sia quando era costretto ad andare via. «Tutto
il tempo che vogliamo,
letteralmente. Tornerò presto, Anise».
«Lo
so».
Un
ultimo bacio, poi Lord Beerus volò via.
Tutte
le carte erano in tavola, si erano finalmente
“trovati” per davvero; adesso era sua, e non
l’avrebbe mai lasciata andare.
L’avrebbe trattata come una dea, o
più precisamente come la
compagna di un dio, e non avrebbe lasciato che niente e nessuno si
mettesse tra
loro due: non quello che Anise aveva definito
“bagaglio”, non la mortalità, e
neppure Whis. Al suo compleanno mancavano meno di tre mesi, dopotutto.
Sentiva che il giorno dopo
avrebbe
fatto faville durante l’allenamento, anche con due sole ore di sonno.
Capitolo 5: eccolo.
La coppietta: anche!
A voi i commenti, se ne avete (:
Piccola nota di cui non importerà un accidenti a
nessuno: il
nome Meskal si pronuncia "Meskàl".
Il disegno qui sotto non necessita spiegazioni (:
|
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Capitolo 6 *** 6 ***
RMI cap6
6
Un
colpo, l’ennesimo di una lunghissima serie.
Un
grido, reso gorgogliante dal sangue che era risalito
lungo la gola.
«Kahzameer.
Thandrumeer.
Adrameer. Tre cittadine di un elenco piuttosto corposo. Mi chiedo
quand’è che
voi di Moriameer riuscirete a capire che dovete guardare altrove,
perché Ulthmeer
non è alla vostra portata».
Il
pavimento di pietra di quella stanza circolare priva di
finestre era sporco di sangue, solo in parte fresco. Al centro giaceva
una giovane
Lusan dal pelo grigio e i lineamenti un tempo delicati, deformati dalle
botte
e dall’estremo
dolore patito. Avrebbe chiesto pietà, se fosse riuscita ad
emettere altri suoni diversi da gemiti strozzati; avrebbe lanciato uno
sguardo
disperatamente supplicante, se avesse avuto ancora gli occhi per poter
vedere.
Calida
abbatté un piede sulla mano della sua vittima,
spappolando tendini, frantumando ossa.
Quella
sventurata Lusan di Moriameer non sarebbe morta in
quella stanza, come non erano morti i suoi compagni prima di lei: il
Trattato
tra Città imponeva a Calida di risparmiarla, ma forse
sarebbe stato un destino
migliore di quello che le era riservato. Cieca -strappare gli occhi era
la
“firma” di Calida- infinite ossa rotte, tessuti
danneggiati in maniera
irreparabile… un catorcio, buono solo da utilizzare come
concime o mangime per
certi animali.
Letteralmente.
Nella città di Moriameer non andavano per il
sottile con gli “inservibili”.
«Vi
credete furbi… tu ti credi furba, ma non lo sei»
continuò Calida, artigliando la gola della sua vittima per
poi sollevarla senza
alcuna fatica «Non quanto pensi. Tu credi che non lo sappia!
Credi che non lo
sappia, e dunque taci!»
Scagliò
la ragazza, inerme come una bambola di pezza, contro
la parete di fonte. Se il collo di quella povera disgraziata non si
spezzò,
purtroppo per lei, era perché la Ulthmeer a-ghekavary
aveva fin troppa esperienza in certi campi per poter sollevare qualcuno
dalle
sue miserie per errore.
«Neppure
adesso riesci a evitarlo, vero?» ringhiò, a voce
bassa, passandosi sul volto una mano sporca di sangue «Se
non finisci in mezzo a qualcosa di strano,
non sei contenta».
In
quella stanza erano solo in due, ma Calida non si stava
più rivolgendo alla sua vittima. Si
avvicinò a una sedia di legno e si sedette al contrario,
a gambe aperte, poggiando le braccia sullo schienale.
Ormai da quasi due mesi e mezzo vedeva Anise
particolarmente serena, anzi, avrebbe addirittura osato dire che fosse
contenta. Qualcuno che la conoscesse meno bene forse non si sarebbe
accorto di
nulla, ma Calida non era tra quelli che la conoscevano “meno
bene”.
All’inizio
non aveva dato molto peso alla cosa, limitandosi
a pensare che fosse meglio così: quando tempo prima le aveva
detto che temeva
di andare da lei e trovarla morta, non aveva mentito.
Poi
però aveva visto che il buonumore di Anise non scemava,
e non le era servito molto per capire che c’era sotto
qualcosa. Com’era scontato
non era riuscita a ottenere nulla facendo domande sul tono di
“oggi ti trovo
tranquilla/allegra, è dovuto a qualcosa?”,
perché se Anise non voleva dire
qualcosa non lo diceva, e infatti aveva dato mostra di non capire il
senso
della sua domanda.
Per
tale motivo, alla quarta settimana di buonumore, le
aveva portato una pianta di vite in un vaso. Anise era stata contenta
del regalo,
prevedibilmente era subito uscita di casa a trapiantare la vite nel
terreno, e
Calida aveva avuto campo libero.
Quella
delle perline di vetro non era la sola fissa di
Anise: da quando era stata in grado di tenere una matita in mano
tendeva a
scrivere e disegnare molto ogni giorno, come se avesse avuto bisogno di
“scaricare” i troppi pensieri da qualche parte, ed
era molto precisa nel datare
i propri lavori.
Calida non aveva impiegato molto a trovare il primo disegno di
Lord Beerus, con accanto il relativo commento di Anise stessa, e aveva
impiegato ancor meno per trovare un disegno della loro terra vista
dall’alto,
di una cittadina sconosciuta affacciata su una grande distesa
d’acqua, e altri
ancora.
Ecco
qual era la causa del buonumore: una divinità.
Un
maschio.
«Neppure
vivere sola nella foresta, neppure quello è
servito» mormorò, alzandosi dalla sedia per andare
verso la sua vittima «Non
vogliono lasciarti in pace. Non lo capiscono…»
Si
chinò, sollevò la testa dell’altra
lince, e la baciò
delicatamente su una tempia.
“Non
lo capiscono proprio, che tu sei mia”.
Dopo
quell’ultimo pensiero, la spinta ad agire trascinata
da pulsioni che non era in grado di frenare svanì di botto,
esattamente com’era
arrivata. Pur essendosi resa conto di quanto fosse stato malato quel
bacio
-come lo era stato tutto il resto- dato a una Lusan sconosciuta
diventata per
qualche minuto un “feticcio”, ritenne inutile
compensarlo con nuova violenza.
«Credo
sia abbastanza» sentenziò, uscendo dalla stanza
senza
degnare di un’occhiata la sua vittima. Ai due suoi uomini che
avevano atteso
obbedienti fuori dalla porta rivolse giusto un cenno del capo. Si era
sfogata,
ma non era ancora dell’umore giusto per interagire
maggiormente con loro.
Accecata
per un attimo dalla luce aranciata che entrava delle
molteplici finestre che rischiaravano il corridoio, Calida
desiderò tornare
nelle tenebre confortevoli della stanza circolare, ma non
c’era più nessuno da
“trattare”. Non le era rimasto altro da fare per
quel giorno: aveva sistemato
le questioni burocratiche già prima di dedicarsi agli
intrusi di Moriameer,
quindi la sua serata sarebbe stata completamente libera.
Uscì
nell’ampio cortile del campo d’addestramento dei
suoi
soldati, riempiendosi i polmoni di aria fresca mentre ascoltava i
rumori di
Lusan uomini e donne che si allenavano a combattere, preparandosi a
uccidere i
nemici che sarebbero venuti.
Il
campo di addestramento era l’edificio più grande
di
Ulthmeer, e all’occorrenza fungeva anche da prigione.
Bisognava dire che le
celle occupate erano ben poche, perché la gente di Ulthmeer
era troppo occupata
a lavorare o ad addestrarsi per aver voglia di commettere
crimini
minori. Per quelli più gravi invece c’era un
valido deterrente: la forca.
Se un
Lusan aveva voglia di creare problemi, faceva meglio a sfogare i suoi
impulsi
violenti in una delle città vicine -senza farsi cogliere sul
fatto, magari.
«Hogevor
Calida».
«Hogevor
Calida...»
«Hogevor
Calida!»
I
molteplici rispetti che le porsero i suoi soldati
-“Hogevor” era un titolo onorifico traducibile in
“capo” o “comandante” nella
lingua comune- la accompagnarono fino all’uscita del campo e
oltre, perché
anche i civili erano tenuti a salutare l’Ulthmeer a-ghekavary nello stesso modo.
Erano
passati solo due anni, ma i tempi in cui quel ruolo e
quel titolo erano riservati a Meskal le sembravano ben lontani, e non
le
mancavano. Quella posizione era sua, le spettava di diritto per il
semplice
fatto che era sempre stata convinta di essere la persona migliore per
ricoprirla. Lui era stato un capo più amato, ma lei era
più rispettata e più temuta.
Era
anche per quella ragione che si riteneva la persona
giusta per conquistare tutte le città vicine, diventandone
il capo: era quello
il suo sogno, unificare sotto di sé tutte le terre
conosciute. Peccato
che le mancassero i mezzi, perché l’esercito che
possedeva era in grado di difendere bene Ulthmeer da eventuali
attacchi, ma
Calida era consapevole di non poter portare con sé soldati
sufficienti per
conquistare un’altra città, non senza lasciare
scoperta la propria -finendo col
perderla, ovviamente.
“Se
solo quella leggenda fosse vera!…”
In
Calida albergavano tre lati: quello razionale, quello poco
savio, e infine quello della sognatrice. Benché fossero
sanguinosi, i suoi
erano sempre sogni, e a trentaquattro anni suonati non riusciva ancora
a
smettere di credere a quella vecchia leggenda.
Si
narrava che svariati millenni di anni prima, quando la
magia non era ancora morta sul pianeta, proprio lì in quelle
lande un Lusan dal
nome sconosciuto fosse venuto -chissà come- in possesso di
poteri al di là di
ogni immaginazione.
Tale
Lusan aveva abbandonato il proprio nome originario e
adottato quello di “Rubedo”, per poi ovviamente
partire alla conquista di tutto
quello che lo circondava. Dando retta alla leggenda, sembrava che
avesse
imperversato in quelle terre per un periodo di tempo abbastanza lungo
-raccogliendo anche un grande tesoro che aveva nascosto
chissà dove- fino a
quando i maghi di tutte le città si erano riuniti, riuscendo
a fermarlo proprio
nel luogo che lui aveva eletto a dimora: quello in cui adesso sorgeva
il villaggio
abbandonato di Vynumeer.
Si
diceva che i maghi avessero “rinchiuso” Rubedo
nella sua
corona, che avessero nascosto suddetto monile all’interno di
una
cassa
di metallo, e infine che avessero addirittura creato
il profondo lago di Vynumeer nel quale gettarla, per essere
sicuri
che nessuno l’avrebbe più recuperata. Purtroppo
per loro, pareva che prima
della propria sconfitta Rubedo avesse lanciato due maledizioni: una che
aveva
privato i maghi di ogni discendenza presente e futura, e
l’altra su tutte le
terre che aveva conquistato, condannandone le popolazioni a una perenne
discordia.
C’erano
molti aspetti incredibili in quella vicenda, ma
Calida aveva sempre sperato che quella corona esistesse davvero, ed era
per
tale motivo che fino a qualche anno prima si era recata spesso a
Vynumeer -di
nascosto, non essendo sciocca- sperando di riuscire prima o poi a
raggiungere
il fondo del lago, trovarla e prenderla per sé. Non si era
fatta spaventare
neppure dal calore delle acque di Vynumeer, iniziato un secolo e mezzo
prima
senza spiegazione e ragione principale della nomea di
“maledetto”, perché con
quel potere avrebbe potuto realizzare il proprio sogno, ma fino a quel
momento
non aveva mai trovato nulla… eccetto Anise.
La
versione ufficiale era che l’avesse trovata nella
foresta, ma quella non era la verità, perché
Calida l’aveva trovata in riva al
lago. Ai tempi aveva sedici anni, e aveva visto quella neonata lasciata
a se
stessa sopra un mucchietto di vestiti da adulti, alcuni di un uomo,
altri di
una donna. Si era avvicinata, stupita per quel ritrovamento inatteso e
anche
pronta a seppellire quella piccola Lusan, pensando fosse troppo
silenziosa per
essere ancora viva; quella neonata però aveva aperto gli
occhi appena aveva
percepito la sua presenza, e in quel momento Calida aveva deciso che
l’avrebbe
portata a casa e tenuta sempre con sé.
“Maschi
più o meno divini permettendo” pensò.
Dubitava
fortemente che l’Hakaishin di quell’Universo
potesse volere chissà cosa da Anise, al massimo poteva
esserne rimasto
affascinato, forse aveva anche voglia di fare sesso con lei qualche
volta, ma
nulla di più. Se le cose stavano così, il
buonsenso suggeriva che non ci fosse
molto di che preoccuparsi: Lord Beerus si sarebbe tolto di torno,
proprio come
una malattia acuta benigna a risoluzione spontanea.
Tutto
quel che doveva fare lei era aspettare, e tutto quel
che doveva fare Anise era cercare di ottenere da lui il più
possibile. Era un
dio, qualche beneficio nel frequentarlo doveva pur esserci, no?
Avrebbe
dovuto parlarne ad Anise già da un pezzo, lo
sapeva, ma non lo aveva fatto. Era stata bloccata dalla sia parte di
lei che di
sensato aveva ben poco -del cui influsso avevano pagato il prezzo
quella Lusan
di Moriameer e tutti i disgraziati venuti prima di lei da un mese e
mezzo a
quella parte- sia da quella razionale, che le aveva suggerito
“Non è il caso
che affronti l’argomento ora, le cose potrebbero degenerare
di nuovo, come tre anni fa”.
Era
successo solo una volta, la sera in cui l’aveva
convinta ad accettare la proposta di matrimonio, ma era stata una di
troppo. Quando
tempo prima Anise aveva parlato di “attenzioni
più o meno strane da persone più o meno
inaspettate” non era tanto
a quelle di Meskal che si era riferita, ma... alle
sue.
Calida non aveva intaccato l'illibatezza di Anise, ma aveva comunque
messo le mani sulla sua calda intimità; l'aveva toccata, lo
aveva fatto
in un modo in cui fino ad allora non le era mai passato per la
mente di fare,
e non perché Anise lo avesse voluto.
Non
poteva permettersi di farlo ancora: non condividevano neppure una
goccia di sangue, ma era stata lei a crescere Anise, quindi la mancanza
di
reale parentela non era un’attenuante, come il vino da loro
bevuto in
quell’occasione non era stato un vero alibi,
perché Calida lo reggeva
perfettamente.
La
Lusan non riusciva ancora a capire cosa fosse scattato
dentro di lei in quel momento, forse il desiderio di protezione si era
corrotto
diventando uno di possesso, o qualcosa del genere.
Anise era sempre stata “strana”,
ma neppure lei era mai stata troppo normale, e se ne rendeva conto
perfettamente; riteneva plausibile che la propria devianza avesse
corrotto un
sentimento in origine puro. La sola differenza era che la maggior parte
del suo
“essere strana” era accettato dalla loro
società, e Calida era più brava di Anise a
tenere nascosto ciò che invece non lo era.
“Mi
prenderò ancora del tempo” concluse “Per
il bene di
entrambe”.
***
«Ormai
mi hai portata qui svariate volte, e non mi sono
ancora abituata alla bellezza di questi luoghi visti
dall’alto, soprattutto al
tramonto. Onestamente però mi auguro di non abituarmi mai.
È bello che ogni
volta sia come la prima. Spettacoli come questo contribuiscono a
ricordarmi che
ci sono tante cose per cui la vita è degna di essere
vissuta».
Beerus
l’aveva portata più volte su quel monte, uno dei
più
alti vicino alle terre dove viveva Anise. Precisamente, quello che
avevano
eletto come “loro” posto era una rientranza della
parete rocciosa, abbastanza
vicino alla cima da consentire la vista di un panorama mozzafiato.
In
quell’occasione avevano portato con loro dei plaid, del
cibo e delle bevande, prevedendo di trattenersi lì un
po’più a lungo del
solito… e al momento formavano un bozzolo di felini e lana, standosene abbracciati e avvolti da tutte le coperte.
«Devo
preoccuparmi, se hai bisogno di qualcosa che te lo
ricordi?» le chiese lui, con aria seria.
La
ragazza scosse il capo. «No, non devi».
«Mi
dispiacerebbe se avessi brutti pensieri. Sarebbe
comprensibile se mi dicessi che ne hai avuti in passato, visto
che…» non finì
la frase «Adesso però le cose sono diverse,
giusto?»
Beerus
non giudicava male Anise per il suo passato, ma si
era ripromesso di impedire a chiunque di farle ancora del male o
imporle di
fare qualcosa di cui non fosse convinta, e di fare di tutto
perché fosse
felice e serena come meritava. Era sempre stato piuttosto attento e
delicato
con lei, e da quando si erano messi insieme lo era diventato perfino di
più.
«Lo
sono, decisamente. Ascoltami, voglio essere chiara: nonostante
i momenti di “umore strano” di cui ti ho parlato,
non ho mai avuto il pensiero
di togliermi la vita. Capisco che tu possa aver avuto qualche dubbio,
avendomi
vista saltare giù da un dirupo già dal nostro
primo incontro, però davvero, non
devi preoccuparti» sorrise, e si strinse di più a
lui per coccolarlo «Non
potrei stare meglio, Beerus, soprattutto quando sei qui con
me».
Anise
non era mai stata il tipo di persona che cercava
molto il contatto fisico, ma stando con Beerus aveva iniziato a pensare
che
forse era stato dovuto alla mancanza di occasioni valide, o meglio, di persone valide.
Aveva
accettato il contatto con Meskal solo perché
“doveva”, ma non l’aveva mai cercato,
mentre con Beerus era tutto diverso: non
solo le piaceva essere accarezzata, baciata e coccolata da lui, ma
aveva anche
il desiderio di ricambiare.
Era
qualcosa di per sé perfettamente naturale, ma a lei del
tutto nuovo, le piaceva molto… e in virtù di
tutto ciò credeva che anche fare
l’amore con lui sarebbe stato diverso da come lo ricordava,
più bello.
«Allora
dovrò trovare il modo di stare con te più spesso,
che ne dici?» sorrise il dio, soddisfatto della risposta.
«Non
credo che tu possa fare più di quel che fai, che
è già
moltissimo. Per non parlare del fatto che tu hai degli allenamenti da
seguire, dei
doveri divini cui adempiere, e… delle funzioni
lineari da capire!» gli ricordò Anise.
«Nooo,
speravo te ne fossi dimenticata!» gemette
l’Hakaishin.
«Suvvia,
quelle schede che ti dà il tuo maestro sono fatte
molto bene, dal nostro terzo incontro in poi sono riuscita a fare tutto
il tuo
programma di matematica, e sai bene che il mio livello di preparazione
era
elementare. Se ho capito io come si fanno le funzioni, a maggior
ragione puoi
riuscirci tu» sentenziò «Non sei certo
uno sciocco! Motivo per cui torneremo a
lavorarci su, una volta a casa».
«Vuoi
davvero passare la serata a fare matematica? Sicura
di non voler fare altro?» le chiese Beerus, baciandole il
collo.
«Sì,
ne sono sicura» ribatté lei, cercando invano di
contenere un brivido di piacere nel sentirlo scendere più in
basso. Per
l’appunto: adorava e desiderava terribilmente il contatto
fisico con lui, non
c’erano proprio dubbi in proposito… e sapeva anche
che Beerus se ne era
accorto.
«Ne
sei proprio convinta? Al cento per cento?» insistette
lui, accarezzandola mentre le baciava una clavicola «Io avevo
immaginato di
passare la serata così come stiamo facendo ora, ma davanti
al camino acceso e
con le praline a portata di mano, mentre leggiamo qualcuno di quei
fumetti che
ti ho portato».
«Il
programma è molto allettante» riconobbe la Lusan
«E
infatti intendo metterlo in pratica».
«Oh,
allora ti ho convinta!»
«…
dopo aver fatto matematica».
«Sì
ma a cosa mi serve saper fare le funzioni, se il mio
lavoro è distruggere pianeti?» si
lamentò Beerus «Io sono obbligato a studiare
e ne farei volentieri a meno, tu non sei obbligata e vuoi farlo! A
volte non ti
capisco».
«Mi
sarebbe piaciuto studiare e conoscere meglio il
mondo che mi circonda in tutti i suoi aspetti, ma non ho potuto, e
infatti non
sapevo neppure che l’oceano si chiamasse così.
Capire di essere una persona
ignorante non è piacevole» replicò lei
«Per questo ti dico: tu che hai modo di
farlo, studia».
Sul
momento il giovane dio non seppe neppure come
ribattere, perché non aveva mai considerato la questione da
un simile punto di
vista. Riflettendo ulteriormente, e capendo che Anise non aveva torto,
si sentì
perfino uno sciocco.
La
strinse saldamente al proprio petto e cominciò ad
accarezzarle i capelli. «Tu ti senti ignorante, io ora
mi sento cretino,
siamo comunque una coppia perfetta. Sai, nel mio palazzo
c’è una biblioteca che
mi è sempre sembrata infinita» le disse
«Hai la mia parola che un giorno non
troppo lontano te la mostrerò, insieme a tutto il resto.
Sono sicuro che il mio
pianeta ti piacerà, già solo per il fatto che il
cielo di giorno è sempre rosa
pallido, come molti dei tuoi abiti».
«Non
ho ancora visto quel cielo, ma credo di adorarlo».
«Ci
sono anche grandi prati erbosi, una foresta estesa come
quella in cui vivi -se non di più!- e un lago cui mi reco
piuttosto spesso. È
abitato» aggiunse «Ci vive una grossa creatura con
il collo lungo, che però non
si lascia avvicinare. Se devo dirtela tutta, nessuno degli animali
presenti ha
una gran voglia di avvicinarsi a me. Credo mi temano, anche se non ho
mai fatto
loro nulla di male… sai che novità»
fece spallucce «Chi non scapperebbe da un
Dio della Distruzione?»
«Io».
«Bugia!
Ti sei lanciata giù da un’altalena, pur di
sfuggirmi!»
le ricordò Beerus.
«Però
non sono scappata via perché sei l’Hakaishin di
questo Universo, non lo sapevo neppure» gli fece notare la
lince «Io sono
scappata via da un forestiero molto affascinante in cerca di
frutta».
«Solo
“molto affascinante”? Io avrei detto un
“forestiero magnifico”,
o “stupendo”, o
“divino”!»
«O
“divinamente imbranato”, ci sta anche
questo» lo prese
affettuosamente in giro lei.
«Ehi!
Offendere una divinità è un peccato mortale che
merita
una punizione severissima… a meno che la colpevole trovi il
modo di farsi
perdonare. Hai qualche idea?»
«Più
d’una. Alcune anche piuttosto osé!»
scherzò Anise,
curiosa di vedere quale sarebbe stata la reazione.
La
luce del tramonto era passata da un bel po’di tempo da
arancio a
rossa, eppure non bastò a mascherare il fatto che Beerus
fosse arrossito,
sentendo quella frase inaspettata. «Ehm.
Osé?»
«Dai,
stavo scherzando! Però… a parte tutto, tu ci hai
mai
pensato? Di fare l’amore con me, intendo».
Se
fosse stato possibile morire per il troppo arrossire,
l’Universo Sette avrebbe perso il suo Hakaishin. Se aveva
pensato di fare
l’amore con lei? Certo! Aveva diciotto anni, e grazie alle
visite al postribolo
ormai conosceva i piaceri del sesso piuttosto bene.
Tuttavia,
forse proprio perché nella sua esperienza il
sesso era stato correlato unicamente alle signorine di quel luogo, si
era fatto
strada in lui il pensiero che fare l’amore con Anise prima di
dare una vera
ufficialità alla loro storia
sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Sarebbe
stato come
metterla al livello di quelle lavoratrici -e lei, per Beerus, era ben
diversa
da loro.
Erano
pensieri assurdi, derivati da una totale inesperienza
a livello sentimentale, ma di fatto erano proprio quelli a frenare il
suo
desiderio… oltre alla storia personale di Anise, che per i
suoi gusti era già
stata spinta troppe volte a fare cose che non voleva davvero.
«Sarebbe
stato difficile non pensarci!» disse dunque il
dio, con un sorriso, sforzandosi di superare l’imbarazzo
«Ma non pensare che
sia soltanto desideroso di saltarti addosso, perché non
è così. Sto bene con te
quanto tu stai bene con me, e se non ne ho parlato prima è
stato anche perché
non volevo farti sentire “pressata” a fare
alcunché».
«Non
mi è mai passato per la mente che tu fossi interessato
solo al sesso, davvero» lo rassicurò lei
«Se volessi unicamente del sesso,
sarebbe folle da parte tua fare i salti mortali che fai per vedermi.
Poi, al di
là delle ragioni logiche, il modo in cui ti comporti con me
non potrebbe mai -e
dico mai- farmi pensare male. Ogni
volta che ti vedo ringrazio il cielo perché quella sera ero
sull’altalena, e
ringrazio anche la tua testardaggine nel seguirmi fino a
Vynumeer».
Quelle
parole rendevano Beerus felice come se gli avessero
annunciato una torta al cioccolato di sette strati riservata soltanto a
lui,
anzi, di più! Se Anise riusciva a dargli tutta quella
fiducia, allora lui si
stava comportando nel modo giusto. Le baciò la fronte.
«È bello sentirtelo
dire».
«Aggiungo
dell’altro: trovo molto dolce la delicatezza che
hai nel cercare di non farmi alcun tipo di pressione, ed è
vero che stiamo bene
così e che io non ho alcuna fretta… ma se un
giorno o una notte di queste
dovessimo sentirci particolarmente “presi”
l’uno dall’altra, e finissimo col
fare l’amore, ne sarei felice» disse candidamente
la ragazza «Quindi su questo
punto puoi tranquillizzarti del tutto, d’accordo?»
Beerus
annuì, conscio di essere arrossito di nuovo.
«D’accordo… ma perché stai
ridendo?»
«Perché
trovo tenero che tu arrossisca così tanto parlando
di certe cose, pur essendo più esperto di me».
Beerus
sgranò gli occhi per la sorpresa, perché non
avrebbe
mai immaginato che Anise sapesse del postribolo. «Cosa?! Tu
sai di… come?… ah,
ma che domande! Quel ciccione di Champa ha la bocca larga come tutto il
resto!»
«Ha
confermato un’ipotesi che mi era già venuta in
mente:
il tuo maestro non è felice all’idea che frequenti
una ragazza -in caso
contrario non verresti qui di nascosto- ma tu sei un diciottenne con
pulsioni
da diciottenne, quindi da qualche parte doveva pur fartele sfogare, e
quel
luogo era perfetto, perché
non implicava
la nascita di sentimenti di alcun tipo».
«Io
però non vado più lì, te lo giuro, non
ci metto più piede
da quando ti ho conosciuta!» le assicurò Beerus
«Sul serio!»
«E
io ti credo, quindi puoi calmarti» disse Anise, dandogli
un bacio su una guancia «Già, come hai
giustificato la cosa col tuo maestro, se
lo hai fatto?»
«Gli
ho detto che in questo periodo voglio dedicarmi agli
allenamenti senza distrarmi con altro, e lui essendone ben felice si
è guardato
bene dall'indagare ulteriormente. Comunque, tornando a
Champa» fece una smorfia
«Non sono felice che lui frequenti questo pianeta».
«Beerus,
ti ho già detto che è la sua maestra a portarlo
qui, quindi non potrebbe opporsi nemmeno volendo… come tu,
al posto suo, non
potresti opporti a Whis».
«Se
non lo vuole attorno, e posso capirla, può lasciarlo in
un gattile o metterlo a dormire per un paio di settimane!
Perché mollarlo a
te?! Non credo alla storia che sia Vados a volerlo portare qui,
è tutto un
losco complotto di Champa per poterti ronzare attorno, te lo dico io!
Quel
grassone infame!»
Negli
ultimi tempi si era venuta a creare una situazione
piuttosto imprevista, perché Vados aveva iniziato ad
approfittare della
“gentilezza” mostrata da Anise
la prima
volta, lasciandole Champa almeno un paio di volte ogni settimana. Aveva
detto
“Auguri per Whis”, ma poter passare qualche ora
senza il suo allievo era una
comodità cui non voleva rinunciare, specialmente avendo
visto che Champa
stando con Anise imparava sempre a fare qualcosina di nuovo, come
quella
saponetta di ottima qualità.
All’Hakaishin
del sesto Universo però piaceva stare con
qualcuno che non lo prendesse in giro, e Anise lo trovava gradevole,
quindi per
loro non c’erano problemi; ad averne qualcuno era Beerus, al
quale la lince aveva
parlato della questione appena aveva potuto.
«Guarda
che è stata la sua maestra in persona a dirmi il
contrario. Mi ha perfino offerto una cospicua quantità
d’oro, “Perché capisco
che il mio allievo possa non essere la migliore delle compagnie, ma mi
farebbe
proprio un piacere”» riferì Anise,
imitando la voce di Vados «E lo ha detto
davanti a Champa, che era alquanto a disagio. È stata una
scena
sgradevolissima, credimi».
«Vados
però non aveva torto, e tu quantomeno ci hai
guadagnato qualcosa» commentò il dio.
«Tu
pensi che io abbia preso quell’oro?» gli chiese la
ragazza, sollevando un sopracciglio «Nemmeno per idea. Le ho
detto, ovviamente
con tutta l’educazione del mondo, che sono autosufficiente al
punto di non aver
bisogno di comprare alcunché, e che non ho bisogno di essere
pagata per passare
del tempo con una persona che mi è simpatica».
«A
me continua a sembrare incredibile che quel rompiscatole
ti sia simpatico… sei troppo buona per questo
Universo!» sospirò, dandole un
bacio sulle labbra «Comunque, se dovesse comportarsi da
idiota voglio che tu me
lo dica. È tenuto a portarti rispetto».
«Finora
l’ha sempre fatto, posso assicurartelo» disse Anise
«E ho anche scoperto che ha un certo talento per lavorare il
vetro. L’ultima
volta ha fatto un vaso di vetro soffiato per la sua maestra, decorato
con dei
fiori che avevamo raccolto nel recarci a Vynumeer, ed era proprio
carino. A
modo suo, lui tiene a Vados… è un
po’triste pensare che non sia ricambiato».
Beerus
stava per dire l’ennesima “gentilezza” su
suo
fratello e il fatto che fosse praticamente impossibile tenere a uno
come lui,
ma infine decise di lasciar perdere. «Quando dovrebbe
portarlo qui?»
«Domani,
credo. Te lo dico fin da ora, esattamente come
l’ho detto a lui: so che non andate d’accordo, ma
in casa mia non si litiga» lo
avvertì la Lusan «Se no potete dimenticarvi i
biscotti… e tu, anche i grattini
sotto il mento».
«Ma
è lui che mi provoca!» protestò Beerus
«Togliermi i
biscotti, e soprattutto i grattini, sarebbe crudele!... ah, ma cosa
vado
dicendo? Posso riaverli facilmente» disse, con un sogghigno
«Per convincerti mi
basta fartene qualcuno dietro le orecchie».
«Credi
che non sarei in grado di resistere?»
«Ne
sono convinto!» dichiarò l’Hakaishin.
«Mi
auguro che non litighiate, così da non dover scoprire
chi di noi due ha ragione» disse la ragazza. A ciò
seguì qualche istante di
silenzio, dopo il quale lei tornò a rivolgersi a Beerus.
«Posso farti una
domanda?»
«Anche
venti, Anise».
«Tu
mi hai detto che Whis e Vados vi hanno presi quando
avevate quattro anni, e che quindi vi hanno praticamente cresciuti
loro.
Sapendo questo, io a volte mi sono domandata… insomma, mi
sono domandata se tu
e Champa siate messi come me» disse, non riuscendo a trovare
parole migliori «A
livello di genitori, intendo. Ovviamente sei libero di dirmi che devo
farmi gli
affari miei, forse ho anche sbagliato a chiedertelo».
Beerus
si irrigidì leggermente. Quello non rientrava tra i
suoi argomenti di conversazione preferiti, ma doveva ammettere che la
curiosità
di Anise era legittima, soprattutto perché lei gli aveva
parlato della vita che
aveva condotto fino a tre anni prima. «Non hai sbagliato, e
in ogni caso non ti
risponderei mai così in malo modo»
esordì «Le persone che mi hanno generato
sono vive, o almeno lo erano fino a quattordici anni fa. Non so altro,
e non
vorrò mai saperlo».
Non
aveva detto molto, ma l’aveva fatto in termini che
rendevano molto chiara la sua situazione con i genitori. Anise si
dispiacque di
aver tirato fuori l’argomento. «Capisco».
«Sì.
Sì, tu effettivamente potresti capire davvero
quello che…» fece una pausa
«Quello che c’è da capire».
«Parlane
solo se te la senti davvero. Tu non vuoi farmi
pressioni, ma neppure io voglio farne a te» disse Anise, con
aria seria.
Beerus
era combattuto: di solito rifiutava di pensare a quella
breve parte della propria vita, non bella, e per fortuna conclusa da un
pezzo.
Poi
si disse che se era veramente conclusa, e non aveva più
potere su di lui, allora doveva dimostrarlo a se stesso parlandone con
la
persona più indicata con cui farlo. Anise si era fidata di
lui, il minimo che
potesse -anzi, volesse- fare era ricambiare. «Lo so. Io
però voglio
raccontartelo, perché ritengo sia giusto così, e
in ogni caso non ci metterò
molto».
«Abbiamo
tutto il tempo».
Il
dio le sorrise. Era un argomento difficile, ma forse con
lei tra le braccia poteva diventarlo un po’meno.
«Premetto che la mia razza non
è molto più avanzata della tua, e a livello di
poteri è messa più o meno allo
stesso modo. Ora, credo che tu abbia già intuito che per
essere stato scelto
come Hakaishin io debba aver dato prova di un potere formidabile.
L’ho
manifestato a circa quattro anni, un’età in cui
non potevo proprio controllarlo.
Ricordo che spesso facevo danni, motivo per cui la gente mi riteneva
pericoloso, e le persone che mi hanno messo al mondo non facevano
eccezione. Io
ero “il mostro”» disse «Me
l’hanno detto così tante volte che avevo finito
col
crederci. Idem Champa».
Lui
“il mostro”, lei “la strana”;
sentendo ciò, Anise
iniziò a pensare che il loro incontro fosse proprio un segno
del destino.
Immaginando che non avesse finito rimase in silenzio, esattamente come
Beerus
aveva fatto con lei.
«Non
accettavano granché la nostra presenza, ma il disastro
c’è stato quando Champa ha ucciso per errore un
nostro zio, che lo aveva preso
a calci per aver distrutto senza volerlo la sua stalla. A quel punto la
tolleranza nei nostri confronti è crollata
totalmente» continuò Beerus «Non
importava che fossimo bambini, eravamo solo dei mostri da eliminare.
Siamo
riusciti a scappare via, anche se ho dovuto uccidere varie
persone per riuscire a
salvare me e Champa, che in tutto questo non ha fatto che piangere e
gridare di
non averlo fatto apposta. Utilissimo, davvero»
borbottò, mentre lo sguardo
diventava assente «Ci siamo addentrati in una foresta non
troppo diversa da
quella in cui vivi tu, e siamo rimasti lì per un bel
po’di tempo. È stata dura,
soprattutto i primi tempi, anche perché Champa non mi
aiutava granché: non
faceva che piagnucolare di voler tornare a casa… come se
l’avessimo mai avuta,
una vera casa! Che idiota. Avremmo patito meno freddo e meno fame, se
si fosse
dato una svegliata».
Anise
non si sarebbe mai permessa di fare commenti, come
lui non ne aveva fatti quando era stata lei a raccontare, ma il
pensiero “una
vittima che se la prende con un’altra vittima” le
attraversò la testa in
molteplici momenti.
«Quando
sono arrivati il maestro Whis e sua sorella eravamo
allo stremo, per cui non avremmo potuto evitare di farci prendere
neppure
volendo.
Ricordo che Champa mi si era avvinghiato come edera, non voleva che ci
separassero. Io però ero un bambino, ed ero stanco,
talmente stanco di badare a me stesso e anche a lui
che mi sono addormentato appena Whis ha detto che si sarebbe occupato
di me, e
Vados di mio fratello. Mi sono risvegliato in quella che adesso
è la mia casa,
e da lì in poi ho iniziato a vivere sul serio. Ecco, ho
finito».
La
Lusan lo baciò, mentre gli accarezzava delicatamente la
nuca. «Se mai qualcuno dovesse darti nuovamente del mostro,
non ascoltarlo. Non
lo sei, non lo sei mai stato, e neppure il tuo compito di Hakaishin ti
rende
tale, almeno per come la penso io».
«E
il tuo pensiero su di me è il solo di cui mi
importi».
Mentre
la baciava, Beerus sentì che scegliendo di parlarle
aveva fatto in assoluto la cosa più giusta. Ogni volta che
pensava di non poter
stare meglio di come stava con lei -e grazie
a lei- veniva immancabilmente smentito; era una cosa
incredibile, ma anche
splendida.
Al
suo compleanno mancavano meno di due mesi e mezzo, e se
non vedeva l’ora che quel giorno arrivasse era anche
perché finalmente lui e
Anise sarebbero potuti uscire allo scoperto anche con Whis.
Non
si conoscevano da tanto, ma era innamorato perso di lei
al punto di esserne già sicuro: quella era la ragazza
giusta, la persona
giusta, non riusciva più a immaginare come sarebbe potuto
essere vivere senza
di lei, e non voleva neppure farlo. Non faticava a immaginare Anise al
proprio
fianco per l’eternità… e ciò
non lo
spaventava affatto, anzi!
Il
suo maestro gli aveva detto che un Hakaishin doveva
essere estremamente fortunato per trovare qualcuno, e lui, reso
totalmente
incapace di ragionare dall’enormità dei sentimenti
che provava, era
arciconvinto di aver già trovato il
“qualcuno” in questione e di essere il Dio
della Distruzione più fortunato che fosse mai esistito.
«Beerus…»
«Sì?»
«Hai
vinto, le funzioni lineari le facciamo domani».
Appunto: ogni volta che
pensava di
non poter stare meglio, veniva smentito.
Presto avrebbe ufficializzato tutto
con lei… molto presto.
Nel
caso possiate avere dei dubbi su quel che è successo tra
Calida
e Anise: sì, purtroppo quella sera è andata
proprio come
dovreste aver intuito. Non potevo né volevo scendere in
ulteriori dettagli, per quanto mi sarebbe stato consentito, vista la
totale mancanza di parentela (anche a livello legale) tra le due.
Mi auguro di aver "recuperato" un pochino con la parte seguente!
A voi i commenti, se ne avete (:
Qui
sotto, disegni ambientati nel passato:
- Baby Anise che viene sollevata dalle mani di Calida
- I piccoli Beerus e Champa una volta andati via dal loro villaggio
|
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Capitolo 7 *** 7 ***
RMIcap7
7
«Ancora?
Possibile che abbiate entrambi questa fissa?»
«Anise, il
fatto che due Hakaishin ti dicano le stesse cose
riguardo lo stesso luogo magari significa che non è una
fissa, ma un dato di
fatto!»
«Beerus
non mi aveva detto
di aver avuto sensazioni strane qui a Vynumeer, ma le volte in
cui
Vados è venuta a prendermi dopo che si era
fatto buio le ho avute anche io».
Anise non riusciva
proprio a capire cos’avessero entrambi
contro l'atmosfera di Vynumeer di notte. Lei ne aveva trascorse
innumerevoli in quel posto,
una più pacifica dell’altra, quindi continuava a
essere convinta che le
“sensazioni strane” di cui le parlavano Beerus e
Champa fossero dovute
semplicemente a fifoneria da villaggio fantasma. «Possiamo
tranquillamente
rimanere qui, quando farà notte! Guardatevi intorno: vi
sembra che questo posto
abbia qualcosa che non va?»
Per entrambi gli
Hakaishin la risposta onesta sarebbe stata
un “no”. Era una giornata splendida, il cielo era
terso, l’aria frizzantina, e
le basse rive del lago di Vynumeer, coperte da un sofficissimo manto di
erba
color smeraldo, erano punteggiate di fiori indaco coi quali Anise si
era
dilettata a fare coroncine. Non c’era proprio nulla di strano
o sbagliato in
quel luogo, eccetto...
«L’acqua
calda. Non è un’area geotermale, non
c’è una
ragione logica dietro il calore di quest’acqua»
sentenziò Beerus, indicando il
lago a poca distanza da loro tre.
«Sì,
però farci il bagno è bellissimo!»
esclamò Champa.
Beerus continuava a
non essere
molto felice all’idea che
suo fratello stesse da solo con Anise, o di poterselo trovare attorno
mentre
erano insieme -come in quell’occasione- ma infine si era reso
conto di non
poter fare granché se non accettare il tutto: come Anise
aveva
giustamente
osservato, suo fratello non avrebbe ottenuto nulla dicendo "no" a Vados
quando questa voleva portarlo lì. «Tralasciando
il fatto che non mi stai aiutando per nulla, mi stai dicendo che tu hai
fatto
il bagno in questo lago, presumibilmente con
lei?» domandò il dio al fratello, con
aria piuttosto minacciosa.
«Tranquillo,
avevo indossato quei capi che ho fatto
all’uncinetto tempo fa… per quanto non riesca
ancora a capire che senso abbia
farsi il bagno con dei vestiti addosso, se devo essere
onesta».
Era un discorso che
lei e Beerus avevano affrontato circa
un mese e mezzo dopo essersi conosciuti, quando lui l’aveva
raggiunta a
Vynumeer e lei si stava facendo il bagno nel lago, ovviamente nuda.
Inizialmente Anise
non era riuscita a capire come mai
Beerus avesse mostrato tanto imbarazzo, perché per i Lusan
durante la stagione
calda era perfettamente normale fare il bagno nudi nel fiume, e veder
girare
senza abiti le famiglie che vivevano appena fuori città non
era affatto strano;
tuttavia aveva compreso che Beerus essendo un alieno potesse avere un
diverso
senso del pudore, e aveva deciso di creare degli abiti che coprissero
almeno i
propri “caratteri femminili”.
«Capisco
il tuo punto di vista» disse Champa «Magari quindi
la prossima volt-»
«Tollero
il fatto che la tua maestra ti porti qui solo perché
né tu né io possiamo farci nulla, e
perché ad Anise per qualche oscuro motivo
piace la tua compagnia, ma se provi a restare nudo davanti a lei giuro
che ti
castro! Io -ti -castro!» lo avvertì il gemello
«Ci siamo capiti?»
«Non
essendo molto dotato teme il confronto, poverino» disse
Champa ad Anise, sogghignando.
A quel punto Beerus
saltò sopra a suo fratello, gettandolo
a terra e dando inizio a una piccola lotta tra gatti. «Non
temo la concorrenza
di nessuno, specialmente di un ciccione!»
«Io non
sono ciccione, sono morbido!» ribatté
l’altro,
dimenandosi talmente tanto da riuscire quasi a invertire le posizioni.
«Sì,
come un materasso, e altrettanto largo!»
«Tu sei
cattivo!» si lagnò Champa, senza rendersi conto
che
la loro lotta li aveva portati ancor più vicini
all’acqua di quanto fossero in
origine.
«…
ma magro!»
Nelle tre settimane
che erano passate da quando Beerus
aveva raccontato ad Anise la sua storia, erano riusciti a trascorrere
delle
giornate piacevoli anche nei momenti in cui si erano trovati tutti e
tre insieme. I
gemelli non facevano altro che punzecchiarsi continuamente, quello era
inevitabile, ma ciò non era mai sfociato in un litigio vero
e proprio, e non
erano mai venuti veramente alle
mani;
in tutto questo, Anise e le minacce di lasciarli senza cibo fungevano
efficacemente da cuscinetto.
«E
tu puzzi!»
«No,
sei tu che
puzzi!»
«Puzzate
entrambi, quindi buon bagno» disse Anise con un
sorrisetto, per poi dar loro una spinta facendoli finire entrambi in
acqua.
I due emisero
diverse esclamazioni di sorpresa, tentando
faticosamente di districare il groviglio di gambe, braccia e code,
mentre la
lince rideva di gusto.
«Siamo
tutti bagnati!» gemette Champa.
«Ma va,
genialone? Dimmi
qualcosa che non so!» ribatté Beerus, osservando
sconsolato il modo in cui i pantaloni suoi e di suo fratello si erano
appiccicati alle loro gambe «Siamo tutti
bagnati!...»
«Lo avevo
appena detto io!»
«Sì,
ma tu non conti niente! E tu non credere di passarla
liscia, An-»
«NON MI PRENDERETE MAI VIVAAAAA!...»
Beerus si
interruppe, accorgendosi che Anise si era data alla
fuga, e ormai era a svariati metri di distanza dalla riva.
Correva veloce…
«Vado, la
catturo e te la lancio» sogghignò Champa, per poi
volare fuori dall’acqua.
Ma non abbastanza veloce da poter sfuggire a delle
divinità.
Non che lei avesse mai sperato davvero di riuscirci, ovviamente,
sapendo con chi aveva a che fare.
«Non mi
avrete mai, ma -ciao, Champa» lo salutò Anise,
costretta a interrompere la propria fuga quando se lo trovò
davanti «Come ti va
la vita?»
«“Mi
va” bagnata!» rispose lui, per poi agguantarla e
sollevarla da terra.
«Ma se tu
mi mettessi giù e io per ricompensarti ti dessi un
biscotto in più, dopo?»
«No!»
«Due
biscotti?...»
«Non
funziona, mi spiace. Citando qualcuno: buon bagno!»
Essere lanciata in
alto -in direzione del lago- con la
stessa facilità con cui lei avrebbe lanciato un sassolino
minuscolo fu
un’esperienza breve e intensa, ma anche alquanto assurda.
Spesso i due fratelli
si comportavano quasi come persone normali, per cui le capitava di
dimenticare
quanta forza possedessero, tra le altre cose!
Beerus
intercettò il lancio quando Anise era già
arrivata
sopra il lago. «Presa».
La ragazza fece un
sospiro. «So benissimo che mi lascerai cadere
in acqua, quindi non ti darò la soddisfazione di sentirmi
dire “Grazie per il
salvataggio”».
«Lo hai
detto ugualmente!»
Come previsto,
Beerus la lasciò cadere. Il volo fu breve, e
l’acqua calda rese gradevole quel bagno improvviso fatto con
più vestiti del
solito.
A tal proposito, a quel punto tanto valeva togliersi l’abito
che aveva
addosso, avendo avuto la lungimiranza di indossare sotto a esso il due
pezzi
fatto all’uncinetto.
Quando ebbe finito
di spogliarsi e riemerse, vide entrambi
i fratelli volare a pelo dell’acqua, appena sopra di lei,
intenti a mostrarle
un ghigno assolutamente identico.
«Ed ecco
cosa succede agli stolti mortali che osano sfidare
delle divinità!» disse Beerus, con aria
soddisfatta.
«E
trallallì e trallallà»
replicò Anise, lanciandogli
addosso il vestito bagnato «Toglietevi quei pantaloni, che
ormai sono solo un
impiccio, e fatemi compagnia!»
«Non sono
sicuro che sia una buona ide-»
«BOMBAAAAA!!!»
Il tuffo improvviso
e violento che fece Champa dopo aver
tolto e lanciato via i propri pantaloni sollevò
un’onda altissima che investì Beerus in pieno,
come
se fino a un attimo prima non fosse stato già inzuppato.
L’Hakaishin del
settimo Universo, gocciolante, fece una
smorfia seccata. «Qualcuno è interessato a un
fratello scemo? Glielo vendo,
anzi, glielo regalo… a pezzi!» concluse,
guardandosi attorno.
Dov’erano
andati a finire Anise e Champa?
«Questo,
Beerus lo Stecchino non te lo può far fare!»
Udito ciò
il dio volse lo sguardo alla propria destra, e
vide Champa sfrecciare da una parte all’altra del lago con
Anise seduta a gambe
incrociate sopra la sua schiena. Sembrava che essere largo quasi come
un
materasso singolo fosse davvero utile a qualcosa, dopotutto!
«È
bellissimo!» esclamò la lince, ridendo.
Ancora una volta,
l’ennesima in quei tre mesi e una
settimana di conoscenza con Beerus, ringraziò il cielo per
essersi trovata
sull’altalena quella sera: quel fatto non le aveva portato
solo un ragazzo che
adorava -e che l’adorava a sua volta- per il quale provava
dei sentimenti
immensi, ma le aveva portato anche Champa, un amico molto
divertente col quale si sentiva a proprio agio.
Un missile viola
privo di pantaloni la investì,
portandola in acqua con sé mentre la baciava e la stringeva
tra le braccia.
«Non posso
essere la tua tavola da surf, ma posso fare ben
altro» disse Beerus, baciando Anise sulla fronte.
«Tra cui
spiegarmi per bene cosa sia il surf, prima o poi»
sorrise la ragazza.
«Lo
farò sicuramente!»
Impegnato
com’era a baciare la sua ragazza, Beerus commise
l’errore madornale di perdere d’occhio Champa, il
quale si stava avvicinando
per tentare chissà quale manovra subacquea. Gli era venuta
un’idea che reputava
geniale, e finì quasi a strozzarsi con l’acqua che
inghiottì per il troppo
ridacchiare.
«Quindi
rispondimi: resteremo qui almeno finché non sarà
arrivata la maestra di Champa, o no?» chiese Anise a Beerus,
strusciando il
naso contro il suo collo «Resteremo? Eh?»
Il dio stava suo
malgrado per cedere e risponderle di sì,
ma tutt’a un tratto avvertì uno strattone, e dopo
ciò iniziò a sentirsi più nudo del dovuto.
«Ehi,
Anise! Vai a dare un’occhiata alla fauna
sottomarina!» gridò Champa, già
allontanatosi di diversi metri, sventolando le
mutande del fratello «Quel poco che c’è
da vedere, s’intende».
«TI UCCIDO!» urlò
Beerus, furioso, imbarazzato e rosso in volto, coprendosi le parti
intime con
entrambe le mani «Ti uccido, ti riporto in vita e poi ti
uccido un’altra volta,
giuro!»
«Champa,
renditi conto che se ora tuo fratello finisce col cercare di
picchiarti non potrò dargli torto» disse Anise
« Facciamo così: io mi volto»
disse, dando le spalle a Beerus «In modo da non vedere nulla
di quel che
succederà. Caro Beerus, sei libero di andare a riprenderti
le tue mutande!»
“O-oh”
pensò Champa, cui la voglia di ridere era passata
vedendo Beerus scrocchiare le nocche delle mani con un ghigno malefico
sul viso.
L’attimo
dopo ebbe inizio la seconda parte della lotta tra
gatti, con Beerus che tentava con tutte le proprie forze di annegare
una volta
per tutte quel rompiscatole -oltre che di recuperare le mutande- e
Champa che
cercava disperatamente di difendersi, decisissimo a tenersi stretti
quegli slip
bianchi neppure fosse stata una questione di vita o di morte.
Anise intanto aveva
raggiunto una delle grosse rocce larghe
e piatte che sbucavano in diversi punti del lago, e si era stesa a
guardare
tranquillamente il cielo, perfettamente noncurante del bisticcio delle
due
divinità. Nonostante le minacce di morte non sembravano
esserci state le
avvisaglie di un litigio che potesse essere pericoloso per lei, per il
pianeta
o per uno dei due gemelli, per cui si trattava soltanto di aspettare.
«Molla le
mie mutande, ladro infame!» intimò Beerus al
gemello dopo dieci minuti di lotta, tentando di bloccarlo in una presa
di
sottomissione «Mollale, ho detto!»
«Non se ne
parla, caro fratellino!» sghignazzò Champa, una
volta riuscito ad afferrare Beerus per le orecchie e a immergergli la
testa
nell’acqua «E poi, a che ti servono? Non hai niente
che valga la pena coprire,
lì sott- EHI!»
«Chi di
mutanda ferisce, di mutanda perisce» dichiarò
Beerus, riemergendo dall’acqua stringendo in mano…
le mutande di Champa, ovviamente.
«Se le rivuoi indietro, rendimi le mie!»
«Non le
riavrai mai! Dovrai strapparle dalle mie fredde
mani morte! Hai capito? Dalle mie-»
«Ebbene?
Cosa state facendo?»
La voce di Vados, la
quale era giunta sul posto ben prima
del previsto, fece bloccare i gemelli come fossero stati due statue di
sale;
l’attimo dopo Beerus scomparve rapidamente
sott’acqua, lasciando andare le mutande
di Champa e raggiungendo il fondale
del lato opposto del lago.
Non c’era
motivo per cui Vados potesse aver intenzione di portarlo
via con la forza, ma quando arrivava la maestra di suo fratello Beerus
scompariva sempre dalla vista, per precauzione.
«Oserei
dire che stessero praticando allo stesso tempo nuoto
e lotta libera. Attività fisica seria, insomma»
disse Anise, alzandosi in piedi
sulla roccia.
Vados le si
avvicinò in volo, e atterrò a propria volta sul
sasso. «E c’è una ragione specifica per
la quale il mio allievo ha in mano
delle mutande maschili troppo piccole per essere sue?»
chiese, mentre Champa
cercava inutilmente di nasconderle.
«Perché
lui e Beerus sono fratelli e si divertono a farsi
scherzi».
L’angelo
sospirò. «Immagino sia così».
«Ehm…
maestra Vados, già che sei qui potresti fare
comparire un costume per me?» le chiese Champa, avvicinatosi
al masso.
«Non
è buona educazione restare nudo in presenza di una
signorina, se non sei in un postribolo… o se la signorina
non ha una relazione
con te!» lo riproverò lei, facendo comparire un
largo costume da bagno di
colore rosso che fece poi planare nelle mani del dio.
«Per me
non sarebbe un problema, noi Lusan non abbiamo certi
tabù» disse Anise, facendo spallucce «Ma
comprendo il diverso pudore altrui. Ad
ogni modo, noto che è tornata prima del solito».
«Sono
reduce da una zuppa di pesce assolutamente
terrificante che ho avuto la sfortuna di mangiare in un villaggio
all’altro capo
di questo pianeta» le spiegò Vados, fingendo
un’aria disperata «Sono andata via
in fretta e furia! Nel mentre mi sono accorta che senza volerlo mi
stavo
avvicinando a voi tre, e mi sono detta che tanto valeva dare
un’occhiata a quel
che stavate facendo… hm» guardò
l’acqua «Deduco che Beerus teme ancora che io
lo porti via con la forza».
«Ho
tentato di dirgli che, stando a quanto mi racconta il
suo allievo, in quel caso sarebbe totalmente inutile nascondersi, ma
non mi dà
ascolto. “Non si sa mai”, dice! A proposito, ora
che ci faccio caso è sparito
anche Champa».
«Sarà
andato a infastidire Beerus, come di consueto. Tutto
sommato è già tanto che non siano giunti al punto
a picchiarsi sul serio».
«In quel
caso immagino che il pianeta sarebbe stato in
pericolo» disse Anise.
«Non il
pianeta: l’intero Universo» la contraddisse Vados
«È per questo motivo che agli Hakaishin
è proibito combattere tra loro, eccetto
in casi e luoghi estremamente particolari. Oh, sembra che un gemello su
due sia
di ritorno».
«Maestra
Vados, devi venire a vedere una cosa che ha
trovato Beerus» esclamò Champa, appena riemerso,
indicando un punto in basso.
Vados
notò subito che il suo allievo era particolarmente
serio, il che era curioso. «Di cosa si tratta?»
«Nel lato
più profondo del lago c’è un tunnel
seminascosto
che porta in una grande grotta piena d’oro e pietre
preziose» disse il dio
«Però Beerus ha sentito che tutto quel tesoro ha
qualcosa che non va, e l’ho
sentito anche io... ma non capiamo bene cosa sia, quel che
“non va”!»
«In
pratica mi stai dicendo che il tesoro di Rubedo esiste
sul serio?!» allibì Anise.
Era incredibile, ma
sembrava proprio che la leggenda che
Calida le aveva raccontato milioni di volte fosse reale, o che almeno
lo fosse
nella parte che riguardava il tesoro.
Anise si ripromise
che gliene avrebbe parlato, il giorno in
cui l’avrebbe informata della sua relazione con Beerus:
c’era la possibilità
che Calida, venendo a sapere del tesoro, focalizzasse meno
l’attenzione sul
resto -nello specifico il fatto che da mesi frequentasse Beerus di
nascosto, e che questi fosse
diventato molto importante per lei.
«Sapeva
dell’esistenza di questo tesoro, dunque»
osservò
Vados.
«C’è
una leggenda che ne parla, mia sorella me la
raccontava sempre. Se c’è questo tesoro, voglio
vederlo!» esclamò la ragazza.
«Il tunnel
è a oltre sei metri e mezzo di profondità, non
puoi arrivare fin lì trattenendo il fiato, e comunque, come
ho detto, in
quell’oro c’è qualcosa che non
va» ribadì il dio «Potresti seguirci
solo se la
maestra Vados creasse una barriera intorno a te… come ha
proposto Beerus»
aggiunse.
«Posso
farlo senza alcun problema» annuì
l’angelo «Beerus è
rimasto nella grotta?»
«Credo sia
da tutt’altra parte del lago, al momento. Quello
scemo ha sempre paura che vedendolo ti venga in mente di riportarlo sul
suo
pianeta!» disse Champa, e alzò gli occhi al cielo
«Per fortuna al nostro
compleanno manca poco, ormai…»
Poco dopo, Vados
creò una barriera attorno a sé e ad Anise,
e tutti e tre si immersero.
Mentre
Champa conduceva le due al tunnel, la lince si
guardò
attorno: sembrava che in quel lago non ci fosse vita neppure a maggiore
profondità, o meglio, che non fosse presente alcun tipo di
fauna. La flora
subacquea, al contrario, cresceva rigogliosa in tutto il
fondale… e anche
attorno a innumerevoli resti di quelli che un tempo erano stati Lusan,
e che
ora erano ridotti a mucchi d’ossa più o meno
consumati.
«Ma che
accidenti?!...» allibì Anise, avvicinandosi a un
lato della barriera «Non sapevo che questo lago fosse una
specie di cimitero. Non a simili livelli, perlomeno».
La sfera del bastone
si illuminò, seguendo la volontà di
Vados, e lei guardò all’interno. «I
resti fossili più antichi risalgono a circa
diecimila anni fa. Sembra che ciò vada avanti da allora, con
un picco in rialzo
più o meno due secoli or sono, e uno in ribasso
cinquant'anni dopo. I più
recenti, dopo trent'anni di pausa, risalgono a diciotto anni fa, mese
più o mese meno».
«Un
maschio e una femmina, per caso?»
«Sì».
Dopo qualche momento
di totale immobilità passato con
un’espressione indecifrabile sul volto, Anise fece un cenno
di saluto in
direzione delle ossa. «Ciao papà, ciao mamma. Vi
trovo alquanto sciupati» disse, piano.
Per qualche istante
calò il silenzio più totale.
«Ormai
dovrebbe mancare poco al tunnel, giusto Champa?»
disse Vados, desiderosa di cambiare argomento e sempre più
convinta che quella
fosse una ragazza alquanto bizzarra.
«Sì…
manca poco» confermò il dio, che pur essendo
perplesso
e un po’inquietato da quel che aveva visto e sentito decise
di soprassedere.
Poco dopo
raggiunsero l’imboccatura del tunnel, che si
rivelò essere dritto e un po’in salita, e lo
percorsero rapidamente. Sbucarono
fuori in un’immensa caverna colma di licheni
luminosi di colore
rosato, i quali illuminavano l'intero ambiente, e di grandi
stalagmiti, tutte di forme bizzarre -in particolare una alla
loro sinistra, che sembrava una statua di Lusan rozzamente intagliata;
un bello
spettacolo, ma la quantità di oro e pietre preziose sparse
ovunque lo era
ancora di più.
Nella caverna non
c’era acqua, dunque per far respirare Anise non sarebbe stata
necessaria la barriera, ma Vados non diede mostra di volerla
togliere.
«Questa
volta sia tu che Beerus siete stati abili nell’uso
delle vostre percezioni: il “qualcosa che non va”
che avete sentito era una
maledizione molto antica e potente su ogni singola parte di questo
tesoro»
disse l’angelo «Su di voi ovviamente non ha alcun
effetto, ma se aveste portato
anche una sola pietra alla qui presente Lady Anise, l’avreste
privata di ogni
discendenza presente e futura».
«Allora
posso toccarlo senza problemi, sono già sterile
come quel tipo di posto pieno di sabbia… ah, sì,
ecco: sterile come un
deserto».
Prima i genitori in
fondo al lago, poi la sterilità, tutte
cose di cui Champa non sapeva nulla perché, a onor del vero,
lui e Anise non avevano mai
discusso di certi argomenti: quando erano soli -o con Beerus- tendevano
a
parlare di tutt’altro, per lo più di cose
divertenti e leggere. «Non lo
sapevamo. Mi spiace che sia venuto fuori il discorso».
«Non
potevate saperlo perché non ne avevo parlato, ma per
me questo non è un problema. Passiamo alle cose
serie» Anise indicò il tesoro
«Mia sorella sarebbe euforica, se sapesse di tutto questo.
È incredibile, non
sarei mai riuscita a immaginare altrettanto oro e pietre preziose tutte
insieme! Quelle poi somigliano un sacco alle mie perline di vetro,
anche la
dimensione è identica, e sono così tante!»
Vados
batté il bastone contro il fondo della barriera, e un
breve lampo di luce verde azzurra invase l’intera grotta.
Fatto ciò, fece
scomparire la barriera. «Ora può fare quello che
vuole, Lady Anise. Sebbene lei
si definisca sterile non c’è motivo di toccare un
tesoro maledetto, le pare?»
«La
ringrazio molto» disse la ragazza, con un sorriso
sincero, per poi catapultarsi dritta dalla miriade di piccole pietre
preziose
che aveva adocchiato. «Se queste non sono perline di adamandnery pinc, io non mi chiamo Anise!
Tralasciando il fatto che
con cinque di queste potrei comprare due volte la casa dove vive ora
mia
sorella, sono bellissime…»
Ecco, era quella
lì la Lusan che Champa aveva presto
imparato ad apprezzare, non l’altra, non quella che aveva
detto quella frase
assurda a degli scheletri che potevano essere dei suoi genitori.
Quell’Anise
lì era strana, e a Champa non piaceva vederla, preferiva
decisamente quella
normale. «Immaginavamo che ti sarebbero piaciute. Beerus te
le avrebbe portate
già da prima, se non avesse percepito la
maledizione».
«Già,
la maledizione… se c’è un tesoro con
una maledizione
identica a quella che Rubedo -secondo la leggenda- ha scagliato sui
maghi,
allora forse c’è in giro anche la sua corona, e
forse ha davvero il potere che
mia sorella desidera» ipotizzò la
ragazza, abbandonando gli adamandnery
per mettersi in cerca della reliquia «Dovrebbe essere contenuta in
una grossa cassa di metallo. Calida l’ha cercata per tutta la
vita».
«E lei
vorrebbe cercare quel potere per sua sorella, invece
che per sé?» le chiese Vados.
«Ho un
debito enorme nei suoi confronti, perché mi ha
salvato la vita due volte: una quand’ero neonata, trovandomi
e tenendomi con
sé, e l’altra due anni fa. Lei mi ha cresciuta, mi
ha protetta e mi ha insegnato
tanto. Le cose tra me e lei sono cambiate un po’da una certa
sera in avanti»
ossia quella in cui Calida l’aveva toccata «Ma
resta sempre e comunque la sola
famiglia che ho, nonostante tutto. Io su questo pianeta ho ed ho sempre
avuto solo
lei, le devo la vita, ed eventuali poteri non mi servirebbero affatto:
se
trovassi quella corona, sarebbe sua».
«Se hanno
chiuso quella corona in una cassa di metallo per
poi premurarsi di nasconderla così bene, forse è
meglio che non venga mai
trovata» obiettò l’angelo «Non
ci ha mai pensato?»
«Effettivamente
non hai tutti i torti, maestra» ammise
Champa «Cosa farebbe tua sorella di quel potere? È
già capo della città di Ulthmeer».
«Conquisterebbe
anche tutte le città vicine, naturalmente»
rispose Anise, mentre esplorava la caverna «Se ci riuscisse
sarebbe la fine di
tutte le guerre che funestano queste terre da tempo immemorabile. So
che
si sta parlando di una sorta di tirannide, ma non ci sono molte altre
soluzioni.
Alle città è stata data la possibilità
di esistere ognuna per conto proprio, ma
pur non avendo problemi di risorse si ostinano a farsi la guerra: detto
ciò, ti
sembra peggio che vengano governate tutte da una persona, o che si
continui in
eterno a spargere sangue in conflitti inutili?»
«E se sua
sorella diventasse capo delle città unite sarebbe
un vantaggio anche per lei, Lady Anise… sbaglio?»
insinuò Vados.
«Direi di
sì, che sbaglia. La mia intenzione sarebbe di
restare a vivere nella mia casa nella foresta in qualsiasi circostanza.
Che le
città abbiano un solo capo oppure no, non farebbe differenza
per me» ribatté la
ragazza «Ma Calida ha questo sogno,
quindi…»
«Mi sa che
resterà un sogno però, perché io in
questa caverna
non vedo casse di metallo» disse Champa, mentre osservava un adamandnery pinc alla luce dei licheni
«Vados,
tu ne vedi?».
Lei scosse la testa.
«Mi spiace informarla che questo
tesoro non comprende casse, Lady Anise».
«O beh, io
ci ho provato» disse la lince, facendo
spallucce.
Champa
indicò il tesoro. «Maestra Vados, portiamo tutto
in
casa di Anise. Lasciarlo qui non servirebbe a molto».
«No,
aspetta: al di là del fatto che in casa mia non ho
posto per tutta questa roba, siete stati tu e Beerus a trovare la
caverna»
obiettò Anise «Il tesoro di Rubedo spetta a voi
due, non a me!»
Vados rise, portando
una mano davanti alle labbra. «Posso
assicurarle che a degli Hakaishin non serve affatto».
«Tecnicamente
non serve neppure a me, sapete bene che sono
autosufficiente. Di tutto questo terrei solo gli adamandnery,
e giusto perché mi ricordano le mie perline, non per
il loro valore».
«Intanto
tiriamo fuori tutto da questa caverna, poi ne
farai quel che vuoi» concluse Champa «Sai, non
conosco molta gente che
considererebbe inutile un tesoro del genere, a meno di averne uno
più grande».
«Infatti
ce l’ho».
«Parli di
Beerus? Pessimi gusti a parte, quanta
sdolcinatezza!» esclamò il dio, per poi ridere
sguaiatamente «Argh! Mi si è
cariato un dente! C’è troppa
zuccherosità in questa caverna! Chiamate un
dentista! Muoio!» gemette, “morendo”
addosso ad Anise.
«A dir la
verità parlavo dell’insieme delle mie ricette, ma
ammetto che anche tu e Beerus costituite un grande tesoro. Per ragioni
diverse
uno dall’altro, ovviamente» aggiunse.
«Che
emozione!» esclamò Vados, fingendosi commossa
«Visto
il soggetto, non avrei mai potuto immaginare che qualcuno un giorno
avrebbe
definito il mio allievo con una parola diversa da
“rompiscatole”… figuriamoci
un tesoro!»
«EHI!» protestò
il dio «Quel che dici non è affatto gentile, lo
sai?! Anise invece è tanto
carina».
“Non
è 'tanto carina', se mai è 'tanto
strana'!” pensò Vados, mentre con una
magia del bastone immagazzinava tutto il tesoro all’interno
di esso.
Uscirono dalla
caverna senza passare nuovamente per il
tunnel -Vados aveva creato attorno a tutti e tre una barriera che
permetteva di
attraversare anche le zone solide- e una volta fuori si ritrovarono nel
punto
in cui fino a poco più di tre mesi prima era stato presente
il costone roccioso
distrutto da Beerus.
«Non
c’è da meravigliarsi che Calida non abbia mai
trovato
il tunnel, era semi nascosto e troppo in profondità
perché potesse riuscirci
senza immergersi a colpo sicuro» fu la prima cosa che disse
Anise.
«Anise, mi
sento un po’ a disagio a farti questa domanda
ma, insomma…» Champa esitò
«Riguardo quel che hai visto prima di trovare il
tunnel…»
«Calida mi
ha trovata sulle rive di questo lago, adagiata
su vestiti da uomo e da donna. Che i miei genitori fossero qui da
qualche parte
non è una novità, lo immaginavo da
tempo» disse la ragazza «E continueranno a
riposare nella tomba che hanno scelto. Il lago di Vynumeer è
un bel posto per
morire, dopotutto».
«Va
bene» rispose
l’Hakaishin, senza sapere cos’altro aggiungere.
L'ultima
frase del discorso di Anise lo aveva inquietato un po' ma, di nuovo,
decise di sorvolare sulla questione: dopo quel che Anise aveva visto
era normale che si lasciasse sfuggire parole poco allegre.
«Una cosa:
adesso in teoria non dovresti più avere quelle
sensazioni strane, quando è notte. Forse sentivi la
maledizione, ma ora la tua
maestra l’ha spezzata. Dovremmo dirlo anche a
Beerus… quando salterà fuori»
sospirò la Lusan, per poi voltarsi verso Vados
«Sul serio, non potrebbe
tranquillizzarlo personalmente sul fatto che non lo porterà
via? È assurdo che
sparisca così ogni volta».
«Potrei
anche farlo, ma non avendo voglia di cercarlo mi
sarebbe difficile, se non si palesa».
«BEEEERUSSSS! Sto
portando via la tua fidanzaaaaataaaa!»
urlò Champa «Se non vieni fuori
metto in pratica il mio piano originale: la rapisco e la porto a casa
mia, così
cucinerà solo per me!»
Anise
sollevò un sopracciglio. «Il tuo piano originale
era
questo? Seriamente?»
«Prima di
conoscerti sì» confessò lui
«Ma era rischioso,
perché se quello schizzato di Beerus lo avesse scoperto
avrebbe tentato di
massacrarmi di botte».
«NON PROVARCI
NEMMENO!» urlò Beerus, nascosto
chissà dove.
«Se non
deve provarci nemmeno, allora vieni fuori!» lo
incoraggiò Anise.
«Sebbene
tu stia infrangendo le regole non è mia intenzione
portarti via, o lo avrei già fatto da un pezzo, come ti
avranno già fatto
notare. Quel che fa un Hakaishin che non sia Champa, a me non
riguarda» affermò
Vados «Puoi smettere di nasconderti… ma se ti
vergogni per il modo in cui ti
stai prendendo gioco del tuo maestro, continua a farlo».
A quel punto Beerus
sbucò fuori da un piccolo ammasso di
roccia. Non aveva recuperato le mutande, ma in quel lasso di tempo
aveva
indossato almeno i pantaloni. Il resto degli abiti e accessori da
Hakaishin
invece, scarpe incluse, erano rimasti in casa di Anise già
dal mattino.
«Prendere in giro il maestro mi dispiace un po’, ma
non avevo molte alternative.
Comunque, il tesoro?...»
«Aveva una
maledizione che ora non c’è
più» lo informò
Anise.
Vados
materializzò una piramide di grosse scatole di legno,
ognuna con un cartello su cui era scritta la natura del contenuto.
«Ed è tutto
in queste scatole. Ho ritenuto fosse meglio suddividerlo in questo
modo».
«Devo dire
che i poteri di voi angeli sono incredibili»
disse Anise «Io però continuo a non avere posto
sufficiente in casa mia, non
per tutte queste casse. Eccettuate quelle con gli adamandnery,
dovrò lasciare il resto altrove».
«Cosa
intendi fare del tesoro? Ti è venuta qualche
idea?» le chiese Champa.
«Cosa vuoi
che faccia? È suo, quindi lo terrà tutto! Non
starai cercando di spillarle dell’oro? Ne
abbiamo già più che abbastanza!»
gli ricordò
Beerus, con un’occhiataccia.
«No che
non voglio spillarle dell’oro! Cosa vuoi che me ne
faccia?!» sbottò Champa, un po’offeso.
«Avendo
parlato di Calida mi è venuto in mente che in
futuro potrei dare tutto a lei, eccetto una cassa su tre di
perline» disse
Anise.
«Cosa?!
Perché?!» allibì Beerus.
«A me
tutto quell’oro non serve, e io non devo mandare
avanti una città, al contrario di lei» rispose la
ragazza «Per non parlare del
fatto che, lasciando per me un’intera cassa di adamandnery,
non resterei certo a mani vuote».
«Da qui ad
allora spero di riuscire a farti cambiare idea.
Non ti rimprovero per la generosità ma, anche senza il
tesoro, a tua sorella
non mancano i mezzi» le fece notare Beerus «La
decisione finale spetta a te, ma
sarebbe saggio riflettere con attenzione e senza avere fretta di
spargere oro
in giro… anche se in futuro avere dell'oro non ti
servirà».
«Spero che
sarò sempre autosufficiente».
«Non
è quella la
ragione per cui l’ho detto, ma va bene lo stesso»
concluse
Beerus, stringendo a sé la ragazza.
Se Vados non scosse
la testa con aria desolata fu soltanto
grazie al suo eroico autocontrollo. Quella frase, sommata al resto, a
suo
parere forniva un insieme di elementi sufficiente a prevedere che a
breve
Beerus avrebbe scelto Anise come Iarim Neiē; darle un titolo tanto
ufficiale
sarebbe stata una follia assoluta, dal momento che si conoscevano da
poco più
di tre mesi e lui non aveva ancora compiuto diciotto anni.
Vero, la Iarim Neiē
non era immortale, né l’Hakaishin era
vincolato a lei dal giuramento che se spezzato avrebbe portato entrambi
alla
morte… ma quel titolo presupponeva che tale
giuramento sarebbe stato
prestato in un futuro non troppo lontano.
Vados si sentiva un
po’combattuta: aveva detto a Champa
che, se si fosse impegnato a dimagrire, lei non avrebbe fatto la spia
con Whis
-e Champa in effetti aveva perso tre chili-, ed era anche vero che quel
che
faceva un Hakaishin non “suo” non la riguardava
affatto… ma lei e Whis avevano
un legame un po’più stretto rispetto al resto dei
loro fratelli, e visto il modo
in cui si erano messe le cose forse era il caso di avvisarlo, prima
che degenerassero sul serio.
Occorreva riflettere
attentamente sulla questione.
«Orbene,
io e Champa vi salutiamo» disse l’angelo.
«Ma no,
perché?! È presto!» protestò
il dio, non capendo il
motivo di quella partenza precoce.
Vados
recuperò i pantaloni e il resto del vestiario di
Champa, che era stato lanciato malamente sulla riva del lago.
«Presto o meno,
andremo a casa comunque. Arrivederci! Ci rivedremo tra qualche
giorno, Lady Anise».
Entrambi scomparvero
in un lampo bianco, lasciando soli Anise
e Beerus, i quali si scambiarono un’occhiata perplessa.
«Non
capisco il motivo di questa fretta improvvisa» disse
l’Hakaishin.
«Neppure
io. So soltanto
che non aveva dato mostra di
averla, prima di “Anche se in futuro avere dell'oro non ti
servirà”» osservò la lince
«Le due
cose potrebbero essere legate, sebbene io non abbia le idee troppo
chiare sul come e sul perché.
«Io men
che meno» sospirò Beerus «Ora troviamo
un posto a
queste casse, ti va?»
Ho finito col
dilungarmi molto più del previsto, ma tutto
sommato non mi dispiace. Cose che sarebbero dovute essere scritte qui,
verranno
messe nel prossimo capitolo.
Voglio fare un
piccolo appunto, se mai qualcuno avesse
qualche dubbio: per quanto la lealtà di Anise verso Calida
abbia i suoi motivi,
io non la condivido. I suoi pensieri a riguardo non sono i miei (:
Dal momento che non
si sa mai cosa porta il periodo
natalizio (soprattutto le visite di parenti più o meno
serpenti), c’è una
ridottissima possibilità che il prossimo capitolo possa
arrivare con qualche
giorno di ritardo. Non credo che succederà, ma nel dubbio vi
avviso!
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Capitolo 8 *** 8 ***
8
8
«Penultimo
giorno in cui posso rimanere qui, e cosa
succede? Piove».
«Poteva
andare peggio…»
«Non
provare a dire “poteva piovere”, Anise,
perché è
precisamente quel che sta succedendo!»
«Non
è la prima volta che capita, Beerus».
Fino
a quel momento era stata una bella giornata: sapendo
che quello non era uno dei giorni in cui arrivava Champa, la coppia
aveva
passato mezza giornata a divertirsi girovagando da una parte
all’altra del
pianeta.
Si
erano trattenuti per un tempo un po’più lungo in
quel
villaggio in riva all’oceano in cui si erano recati il giorno
del loro secondo
incontro, lasciandosi offrire pasti in diversi locali, passeggiando sul
bagnasciuga e lungo le vie del centro.
A
un certo punto Anise aveva notato un vestito lungo color
blu scuro esposto in un negozio, e aveva detto che se ne sarebbe cucito
uno
simile; tempo un minuto e una parola di Beerus, e il vestito blu era
finito in
mano sua come “dono alla compagna
dell’Hakaishin”.
“Ti
ringrazio
molto ma, Beerus, non avresti dovuto-”
“Ti
starà
meglio che a qualunque altra donna, e comunque… è
solo un vestito. Potrei darti
molto più di questo”.
“Non
ho bisogno
che tu mi dia nulla in questo senso, non ne avevo prima, e tantomeno ne
ho
adesso che possiedo casse piene di adamadnery
pinc. Non
sto con te per avere chissà cosa”.
“Ed
è proprio
per questa ragione che mi piace darti quello che desideri”.
Per
quanto la Lusan avesse apprezzato il pensiero
senz’altro molto dolce, dopo neppure venti minuti aveva
proposto di andare a Vynumeer
come facevano sempre -così da evitare il possibile ripetersi
di simili scene- e Beerus non si era fatto pregare.
Erano rimasti a
parlare tranquillamente in riva al lago per un bel po’, fino
a quando erano
stati sorpresi da un’inaspettata bomba d’acqua che
era riuscita a inzupparli
nonostante fossero corsi rapidamente a ripararsi.
Il
dio, bagnato fradicio, si chiuse alle spalle la porta di
quella che un tempo era stata la dimora del capo villaggio. «È
vero, ma non ci aveva mai colti di sorpresa
in questo modo! Questa settimana non ho fatto altro che bagnarmi: prima
quattro
giorni fa, quando abbiamo trovato il tesoro, e adesso-»
«“E
adesso”, invece di perdere tempo in proteste che non
faranno asciugare i tuoi abiti, accendiamo il camino» disse
Anise, armeggiando
con un lungo fiammifero preso da una scatolina di legno poggiata su una
mensola
«Così da far asciugare tutto».
«Pensare
che saremmo dovuti tornare a casa… già pregustavo
quella torta col ripieno di formaggio ed erbe aromatiche!»
sospirò il dio «Già,
dimmi che lievitando un po’più del previsto
l’impasto non si rovinerà! Sarebbe
una catastrofe assoluta!»
«Non
si rovinerà» lo tranquillizzò Anise,
una volta
riuscita ad accendere il fuoco «Ecco fatto. Vado a prendere
un paio di coperte
dal piano di sopra, così da poter avere qualcosa addosso una
volta che ci
saremo spogliati».
«…
spogliati?»
«Sì!
Così facendo i nostri vestiti si asciugheranno
più in
fretta» replicò lei, una volta imboccate le scale.
Rimasto
solo, Beerus iniziò a pensare che quel che stava
succedendo fosse un’istigazione a fare... quel che
si era ripromesso di non fare
prima di ufficializzare la sua relazione con Anise.
Pioggia, camino acceso e
pochi vestiti addosso: quella situazione sarebbe potuta essere degna di
un
qualche anime con momenti “romantici”.
Ricordò
i suoi sbuffi ogni volta che ne aveva visto uno, e
si rese conto che probabilmente non avrebbe più mostrato
simili segni di
insofferenza. Avendo iniziato a viverne di persona, aveva capito che
non c’era
nulla per cui sbuffare.
I
suoi riflessi estremamente sviluppati gli consentirono di
acchiappare al volo la coperta che Anise gli aveva lanciato, sebbene a
livello
cosciente non si fosse accorto del suo ritorno.
«A
cosa pensavi?» gli chiese la lince.
«Niente
di che» rispose l’Hakaishin
«Ehm… io mi volto dall’altra
parte, d’accordo? Così puoi toglierti i vestiti, e
posso farlo anche io» disse,
dandole le spalle.
«Va
bene».
«Va
bene» ripeté Beerus, accingendosi a togliere i
pantaloni.
In
teoria non sarebbe dovuta essere un’operazione difficile
-per riuscire a togliersi i pantaloni non serviva essere dei geni- in
pratica
invece ci stava mettendo una vita, perché il suo cervello
era concentrato su
tutt’altro.
I
fruscii dietro di lui significavano che Anise, come anticipato, si
stava spogliando a sua volta. Non che avesse molti capi da togliere
perché,
stando a quanto lei gli aveva detto, i Lusan non erano abituati a
portare
biancheria intima.
Probabilmente
era già nuda.
Riuscì
a togliersi i pantaloni, ma quel che non riuscì a
fare fu evitare di immaginare il corpo snello della sua ragazza
illuminato dai giochi
di luce creati dal fuoco. Immaginò come sarebbe stato
voltarsi ad ammirarlo, ad
accarezzarlo, baciarlo in ogni sua più piccola e delicata
parte, e poi- no, basta: si era
ripromesso di aspettare,
quindi così avrebbe fatto… anche se a lei non
aveva parlato dei motivi di
quell’attesa.
Tuttavia
fu proprio allora che, inaspettatamente, il dio
sentì le labbra soffici di Anise baciarlo con dolcezza sulla
nuca; ebbe giusto
il tempo di sgranare gli occhi per la sorpresa e poi, quando
sentì le mani
della ragazza accarezzargli delicatamente il petto, si trovò
a rabbrividire di
piacere.
Avvertì
il sorriso della lince sulla propria pelle mentre
lei passava a baciare il suo collo, partendo dalla mandibola e
scendendo pian
piano, così come aveva iniziato a far scendere anche le sue
mani in modo lento
e inesorabile: lasciati i pettorali, Anise era passata ad esplorare
doviziosamente i suoi addominali… e presto sarebbe arrivata
ben più in basso.
«Non
è la prima volta che ti vedo in intimo, e ho sempre
pensato che avessi un corpo più che perfetto, ma
ora… non so, è diverso dal
solito. È la prima volta in tutta la mia vita che provo
questa sensazione.
Credo sia il desiderio» sussurrò lei
«Adoro quando mi abbracci, adoro quando mi
baci, ma io vorrei di più. Anzi, voglio
di
più».
Anise
si strinse a lui. La sensazione del corpo caldo e
privo di indumenti della Lusan contro la sua schiena, unita a quei
baci, a quel
tocco delicato e al contempo esigente, e a quelle parole, lo stava
mandando fuori
di testa.
Desiderava
Anise esattamente quanto lei desiderava lui,
anzi, di più: tutto quel che Beerus avrebbe voluto fare in
quel momento sarebbe
stato voltarsi e accontentarla, baciarla e fare l’amore con
lei fino al giorno
dopo. Percepiva tensione in ogni fibra del proprio essere, dovuta a un
desiderio che diventava più pressante a ogni centimetro
percorso dalle mani e
dalle labbra di Anise. Era incredibile che riuscisse ancora a
trattenersi, lui
stesso non riusciva a capacitarsi di come ci stesse riuscendo in simili
condizioni!
«E
anche tu vuoi di più» aggiunse Anise, mentre una
delle
sue mani era ormai sul punto di raggiungere l’inguine
«Lo vedo bene».
«Io…
io non posso» riuscì a dire Beerus, con fatica.
«Perché?»
gli chiese la lince, tra un bacio e l’altro,
senza dare mostra di essere delusa o di rimproverarlo
«Cos’hai?»
«Non
sei come le donne con cui sono stato, e ho il pensiero
che fare con te quel che ho fatto con loro prima
che la nostra relazione diventi ufficiale sarebbe come
metterti al
loro livello, mancandoti di rispetto» disse tutto
d’un fiato «Ecco».
«Beerus,
ora voltati e guardami in faccia».
Il
dio obbedì, e a quel punto Anise iniziò ad
accarezzargli
il viso con entrambe le mani, stringendosi di nuovo a lui, per nulla
imbarazzata o disturbata nell’avvertire distintamente la sua
eccitazione.
«Non
mi mancheresti di rispetto. Io non mi sentirei una
prostituta se facessi l’amore con il ragazzo, anzi,
l’uomo, che amo» disse con
fermezza la ragazza «E se mi ricambi, non credo che tu in
seguito inizieresti a
vedermi come una di quelle lavoratrici».
«No,
questo non accadrebbe. Mai».
La
lince lo baciò, senza smettere mai con le carezze.
«Come
pensavo. Beerus, se c’è una qualsiasi altra
ragione per cui non te la senti
allora io non insisterò oltre, ma se è soltanto
perché temi di mancarmi di
rispetto, togliti dalla mente quest’idea assurda: lascia che
sia io, dei due,
quella che pensa troppo… anche se in questo momento ho
voglia di fare qualcosa
di diverso dal pensare».
Una
delle mani di Anise abbandonò il viso
dell’Hakaishin,
percorrendo l’intero torso per poi fermarsi
sull’inguine.
Per
il giovane Beerus, tranquillizzato dalle sue parole e già
preda di una voglia disperata di fare l’amore con lei, fu il
colpo di grazia:
si strappò letteralmente di dosso mutande che ormai
servivano a ben poco e
avvicinò il volto della ragazza al proprio, coinvolgendola
in un bacio talmente
passionale da poter essere definito quasi violento, mentre le sue mani
percorrevano ed esploravano avidamente quel corpo che fino ad allora si
era
solo limitato a desiderare di toccare in quel modo.
Si era trattenuto temendo
di mancarle di rispetto, o di spaventarla e di essere allontanato per
questo
-conoscendo buona parte della storia personale di Anise- ma con sua
somma gioia
sembrava proprio che su quel fronte non ci fossero problemi, anzi! In
quel
momento la Lusan non si stava limitando ad accogliere con gioia tutto
l’ardore
che le stava dimostrando, ma lo stava anche ricambiando in modo
altrettanto
appassionato… e fu Anise a trascinarlo sopra una coperta,
quella nella quale
lei avrebbe dovuto avvolgersi e che invece aveva steso a poca distanza
dal
camino.
Quella
loro prima volta insieme fecero l’amore a lungo,
sembravano non averne mai abbastanza; erano desiderosi di esprimere a
livello
fisico un’unione spirituale che, seppure si conoscessero
relativamente da poco,
era già molto forte.
Essere
una divinità e dunque pressoché
instancabile aveva
i suoi vantaggi, incluso poter accontentare la lince tutte le volte in
cui gli
chiese di farlo ancora, richieste che Beerus soddisfece con sommo
piacere di
tutti e due.
In
tutto ciò fece sempre in modo che lei si sentisse
coccolata, amata. A detta di Anise, il suo defunto marito non era mai
stato una
“bestia” con lei -o comunque aveva sempre fatto in
modo di non farle male
durante i rapporti- ma era precisa volontà di Beerus far
sì che lei percepisse
la differenza. Lui la percepiva: conosceva bene il sesso, ma fino ad
allora non
era mai stato così bello, al punto da sentirsi una cosa sola
con un’altra
persona.
Era
una definizione un po’smielata, sentendola anche solo
un giorno prima forse avrebbe alzato gli occhi al soffitto, ma rendeva
l’idea.
Quando
Anise fu troppo stanca per chiedergli di farlo
ancora, rimasero per diversi minuti abbracciati in silenzio; non il
silenzio di
chi non sa cosa dire, ma quello di chi non sente il bisogno di
aggiungere
alcuna parola a un momento di per sé perfetto.
Anise
in quei mesi trascorsi con lui era sempre stata bene,
e aveva già immaginato che fare l’amore con Beerus
sarebbe stato diverso da
com’era stato in passato, ma lui era perfino riuscito a
sorprenderla in
positivo. Aveva percepito nettamente la differenza, non solo per il
totale
coinvolgimento emotivo, ma anche a livello di piacere fisico: il suo
defunto
marito non le aveva mai procurato dolore, ma di certo non si era mai
trovata a
gridarne il nome.
Con
Beerus invece si era sentita… insaziabile.
Non soltanto guardando il suo corpo bagnato e seminudo
aveva provato l’autentico desiderio di fare l’amore
con lui, ma oltre a questo
una volta soddisfatta aveva anche avuto la voglia disperata di
continuare a
farlo a oltranza. Era
stato come recuperare in una sola volta tutto quel che
non aveva avuto nel corso degli anni, anche a livello affettivo.
Non
avrebbe mai creduto di poter provare qualcosa del
genere, non lei, sposata per un anno con un Lusan molto più
grande di lei che
non l’aveva mai amata, non lei, che era stata toccata per la
prima volta dalla
persona che l’aveva cresciuta -ossia Calida.
Anise
ricordava che, sapendo di doversi sposare, si era
detta che non voleva avere più problemi di quanti ne
comportasse l’idea di
dover fare sesso con qualcuno che non le piaceva affatto.
Si era detta: “chiudi
in una scatola quei ricordi alcolici e non lasciare che ti influenzino.
Non è
successo niente. Ricorda: non è
successo
niente. Affrontare la cosa in qualsiasi altro modo sarebbe
inutile, per te”.
Era
stato abbastanza efficace, in
seguito era riuscita a sostenere
adeguatamente l’anno di matrimonio e i relativi doveri, e il
fatto che Meskal
fosse sempre stato abbastanza delicato aveva contribuito a far
sì che il sesso
non diventasse problematico.
In
certi frangenti era utile avere un cervello che
“funzionava in modo strano”, come dicevano tutti:
in caso contrario forse non
avrebbe potuto apprezzare altrettanto quel che Beerus le aveva dato.
«Grazie»
disse piano Anise, baciando Beerus su una guancia.
L’Hakaishin
la strinse a sé ancor più saldamente,
accarezzandole i capelli. «Non devi ringraziarmi. Piuttosto,
come ti senti?»
«Tu
come ti senti?»
«Non
si risponde a una domanda con un’altra domanda, mia
signora!» la “rimproverò”
Beerus, sorridendo «Sul serio, come ti senti?»
«Felice»
rispose la ragazza, poggiando la testa sul petto
del dio «Molto felice».
«Anche
io».
Non
era riuscito a tener fede alla sua idea di aspettare, ma
tutto sommato era irrilevante. Quel che era accaduto non aveva prodotto
cambiamenti
nel suo intento di fare sul serio con lei, se mai il contrario. Ormai
Beerus
era deciso: le avrebbe chiesto di diventare la sua Iarim Neiē il giorno
stesso
del proprio compleanno.
«Devo
farti una domanda, perché mi è tornata in mente
una
cosa che hai detto poco fa: hai parlato di ufficializzare il nostro
legame,
giusto? Cosa intendevi?» gli chiese Anise, neppure fosse
stata in grado di
leggere il pensiero.
Superato
il primo momento di sorpresa, Beerus decise che
era il caso di parlarle della questione. «In questi mesi non
ti ho parlato
delle figure di Neiē e Iarim Neiē, giusto?»
«Tu
non l’hai fatto, altri sì. La prima diventa
un’immortale legata all’Hakaishin da un reciproco
giuramento vincolante, la
seconda è ancora mortale e non ha prestato giuramento
alcuno» disse Anise «In
altri termini, la prima è una sorta di moglie, e
l’altra una specie di
fidanzata ufficiale».
«Fammi
indovinare: te l’ha detto Champa Bocca Larga! Non
spettava a lui parlartene» borbottò Beerus.
«Mi
ha parlato della Neiē la prima volta che ci siamo
visti, e della Iarim Neiē in un’altra occasione. Capisco che
possa seccarti, ma
non essere arrabbiato con lui, non l’ha fatto con cattive
intenzioni».
Il
dio fece un lungo sospiro, pensando che ormai era andata
e quindi non era il caso di farla lunga, ma si ripromise di fare al
gemello uno
“sparticulo” alla prima occasione buona.
«Ho capito. Ad ogni modo, tornando al
discorso principale, quel che volevo dire è che desidero
darti un posto al mio
fianco che sia ufficiale per chiunque, angeli e altre
divinità incluse, e lo
farò appena potrò. Per fare il giuramento abbiamo
ancora tempo, ma intanto
voglio che diventi la mia Iarim Neiē. Questo è il mio
proposito».
«Sembri
molto convinto di quel che stai dicendo».
Era
indubbio che le intenzioni di Beerus fossero serie, e
Anise ne era molto felice, però… lo erano fin
troppo! Si conoscevano da neppure
tre mesi e mezzo, forse stavano prendendo tutto in maniera troppo
frettolosa, e
la logica le stava suggerendo che magari era il caso di procedere con
maggiore
cautela.
Lei
però amava moltissimo Beerus: quel ragazzo era splendido,
il modo in cui la faceva sentire lo era altrettanto, e sarebbe stata
fiera di
essere la sua compagna più o meno eterna. Anise lo
considerava speciale, e il
fatto che fosse un dio non c’entrava nulla: riteneva speciale
lui come
persona, non in quanto Hakaishin. Del resto come avrebbe potuto evitare
di innamorarsi
di un ragazzo mezzo matto che vagava nella foresta urlando
“cannella”?
Forse
doveva tranquillizzarsi. Per una volta magari poteva
decidere di ascoltare il cuore e non il cervello.
«Lo
sono eccome» confermò Beerus, con estrema
sicurezza
«Aspetta… tu forse non vuoi?» le chiese,
cercando di dissimulare un’espressione
un po’allarmata.
«Non
agitarti, certo che voglio. Come potrei non voler
diventare la Iarim Neiē del dio dei cercatori di frutta poco
abili?» disse la
lince, con un sorrisetto.
«Meriti
un premio per aver detto che sei d’accordo, e una
punizione per aver insinuato che non sia un buon cercatore di frutta.
Io ho
qualche idea che-»
«Fermo
lì!» lo bloccò la ragazza, pur
sorridendo
«Rimandiamo a stanotte, quando saremo entrambi nel mio letto.
Se adesso lo facciamo
un’altra volta non avrò abbastanza forze nemmeno
per fare la torta!»
«LA TORTA! È
vero!» esclamò Beerus «Ci credi che mi
ero dimenticato?»
«Ma
va? Addirittura?»
«Sai,
sono stato un po’ distratto» le ricordò
il dio, con
ovvio riferimento ai momenti d’intimità trascorsi
«Nonché intento ad assaggiare
dell’altro! Puoi
biasimarmi?»
«Direi
di no. Ci rivestiamo?»
«Temo
sia il momento di farlo! No, un momento: i tuoi
vestiti sono qui accanto al fuoco ad asciugare, ma i miei
pantaloni...» disse
lentamente, rendendosi conto che in tutto ciò i suoi
pantaloni erano rimasti in
un triste mucchietto troppo distante dal fuoco per non essere ancora
umido «E
le mutande…»
«Dammi
pure la colpa per i pantaloni, ma le mutande te le
sei strappate da solo».
«Nessun
maschio eterosessuale non se le sarebbe strappate,
al posto mio» ribatté Beerus, rassegnandosi a
recuperare e indossare solo i
pantaloni umidi.
«È
un complimento non da poco» commentò Anise,
piuttosto
divertita, nel rivestirsi «Torniamo a casa, dai».
Non
pioveva più, e il volo fino a casa fu molto breve.
Scoprirono
che l’impasto della torta era lievitato quattro
volte più del previsto, ma in fin dei conti era meglio
così: significava poter
fare una torta quattro volte più grande! Pioggia a parte,
che comunque aveva
portato benefici, sembrava proprio che quella giornata andasse sempre
meglio.
La torta, enorme e profumata, una volta fatta e cotta non
deluse le aspettative di nessuno dei due.
«Devo
proprio cucirti un paio di pantaloni di riserva, nel
caso ti servano di nuovo» disse la ragazza, mentre osservava
Beerus ingurgitare
la sesta fetta. A lei, che non mangiava molto se non c’erano
di mezzo i
biscotti alla cannella, ne era bastata una «Per quanto mi
auguri di no. Sta per
arrivare la stagione fredda, se ti bagnassi- no, niente, come non
detto: le
divinità non si ammalano!»
«Esatto.
Sai che non devi preoccuparti per me» disse
l’Hakaishin,
leccandosi le labbra «Ottima. Non c’è
cibo migliore del tuo».
Finito
di cenare passarono un paio d’ore immersi nella
lettura dei nuovi fumetti che Beerus aveva portato quand’era
arrivato: erano
del tipo “gente con poteri che si picchia duro a
vicenda” -dunque non erano il
genere preferito di Anise- ma lei aveva trovato molto dolce che Beerus
volesse
condividere quella sua passione, e tutto sommato avevano iniziato a non
dispiacerle.
A
proposito, doveva restituirgli il libro che le aveva
portato un paio di settimane prima, “Le regole degli scacchi
e come applicarle”.
Beerus glielo aveva presentato come esempio di libro noioso che il suo
maestro
aveva tentato di imporgli, ma lei aveva trovato interessante il gioco
di cui
parlava, al punto di essersi ripromessa di trovare qualcuno con cui
provare a
fare delle partite.
Tentò
nuovamente di chiederlo a Beerus, senza successo.
«Nemmeno una?...»
«Te
l’ho già spiegato, Anise: quel tipo di giochi non
è per
me, perché serve una pazienza che a me manca. Se
però vuoi giocare a nascondino
o braccio di ferro, fatti avanti!»
«La
tua forza mi impedirebbe di batterti a braccio di
ferro, e nel nascondino percepiresti la mia aura: vinceresti a
prescindere».
«Appunto!»
Anise
alzò gli occhi al soffitto, e nel riabbassare lo
sguardo fece caso all’ora segnata dalle lancette
dell’orologio appeso al muro.
«Si è fatto piuttosto tardi, quindi direi sia il
caso di andare… “a dormire”».
Dormire
era una delle attività solitamente più apprezzate
da Beerus… ma l’entusiasmo con cui
sollevò Anise portandola nella loro stanza,
sapendo benissimo che sarebbero andati “a dormire”
solo per modo di dire,
lasciava intendere che tutto sommato c’erano
attività che gradiva ancora di
più.
***
“So
che avremmo dovuto mangiare quella torta anche domani,
ma non è colpa mia se l’attività fisica
fa venire fame!” pensò Beerus,
alzandosi silenziosamente dal letto.
Erano
le due e mezza del mattino, e Anise si era
addormentata circa quaranta minuti prima, quando la stanchezza era
diventata
davvero troppa per riuscire ad andare avanti oltre. Beerus vedendola
felicemente
provata dall’esperienza si sarebbe fermato anche prima, ma la
lince non aveva
voluto saperne, e chi era lui per non accontentare quella che a breve
sarebbe
diventata la sua Iarim Neiē?
Ormai
al suo compleanno mancava poco più di un mese e
mezzo, Anise gli aveva già detto che intendeva accettare la
sua proposta; era
praticamente cosa fatta. Pensarci lo fece sorridere.
Aprì
la botola che conduceva al piano terra e saltò
giù,
senza curarsi di far scendere la scala a pioli.
Trovava
che gli accessi ai diversi piani della casa di
Anise fossero piuttosto buffi, con quelle botole. Di certo aiutavano a
risparmiare lo spazio che in caso contrario sarebbe stato occupato
dalle
scalinate, ma Beerus la riteneva comunque una bizzarria. Ovviamente
Anise non
ne era responsabile, dal momento che la casa era molto più
vecchia di lei.
“Calda
o fredda, questa torta è sempre deliziosa”
pensò,
raggiunta la cucina.
Prese
un coltello, ne tagliò un bel pezzo e lo addentò.
Per
l’appunto: deliziosa!
“Credo
che Anise mi capirà, se la finisco tut-”
Non
fece in tempo a completare il pensiero, perché
sentì un
forte colpo alla nuca, e il mondo divenne nero prima che potesse
chiedersi cosa
fosse successo.
***
A
Whis risultava ancora difficile credere che Beerus,
quell’allievo che negli ultimi tempi aveva iniziato ad
adorare, lo avesse preso
in giro per quasi tre mesi e mezzo… e accettare di essersi
fatto abbindolare in
quel modo da un pischello di diciott’anni non ancora compiuti
era ancora più arduo.
Guardò
il pischello in questione, ancora privo di sensi e
riverso sul letto: di tutti gli Hakaishin che aveva seguito, Beerus era
l’ultimo dal quale si sarebbe aspettato ripetute fughe,
soprattutto se fatte
per andare da una ragazza che viveva ai confini dell’Universo.
Una ragazza.
Beerus
si interessava al cibo, agli anime, ai video su GodTube,
ai fumetti e al combattimento. Il sesso fino a quel momento era stato
abbastanza secondario -tant’era che Champa, a detta di Vados,
frequentava il
postribolo ben più di Beerus- e di amore e ragazze fisse non
aveva parlato
proprio mai, se non quando lui gli aveva spiegato cos’erano
una Iarim Neiē e una
Neiē.
Whis
era arrabbiato con Beerus per quel che aveva fatto, ma
anche con se stesso per non aver pensato che quelle ripetute dormite
potessero
essere un modo per scappare di nascosto.
Solo
che… come avrebbe potuto intuirlo? Conoscendo il tipo,
come avrebbe potuto anche solo immaginare che un giorno sarebbe
successa una
cosa del genere? Era semplicemente impossibile, e quando Vados quattro
ore
prima lo aveva contattato per rivelarglielo le aveva persino riso in
faccia.
“Ohohohoh!
Che
tentativo di scherzo insensato. Il mio allievo è nella sua
camera da letto a
riposare da dopo l’ultimo sfiancante allenamento. Sta
diventando così forte da
aspettarmi che manifesti l’Ultra Istinto da un giorno
all’altro!”
“Dell’Ultra
Istinto per le fughe d’amore è già
provvisto. Tu pensi che stia scherzando, ma
guarda che io sono molto seria, e tu in questo frangente non sei stato
all’altezza.
Dico, non è mai successo neppure a Cus, e Cus è
la più giovane di tutti noi!”
“Sorella,
non
sei più divertente”.
“Fratello,
trovandoti attorno una Iarim Neiē -o peggio- ti divertirai ancora
meno”.
“Questa
è la
conferma: mi stai prendendo per il naso. Era già improbabile
che tu, sapendo da
tempo di queste presunte fughe, non mi avessi detto nulla…
ma questa, poi!”
“Da
qualche
giorno riflettevo su quel che sta succedendo, e ammetto che
inizialmente ero
per continuare a tacere: non è affar mio se non sei in grado
di tenere a freno
il tuo Hakaishin, e Champa ha perso peso come mi aveva promesso di fare
se
fossi stata zitta, ma il tuo allievo ha manifestato oggi stesso le
proprie
intenzioni alla ragazza… e ho voluto dirtelo”.
“Beerus
sta
dormendo, non
è fuggito e non ha una
ragazza!”
“Vai a
controllare in camera da letto, se non mi credi. Ti saluto”.
Scoprire
che Vados aveva ragione, e che lui si era fatto prendere in giro in
quel modo, era stata un’amara
sorpresa.
Non aveva neppure dato un’occhiata a quanto era accaduto in
quei tre mesi e mezzo, limitandosi a localizzare Beerus per poi partire
di gran
carriera alla volta del pianeta dei Lusan.
Giunto
sul posto due ore dopo, aveva realizzato anche quale potesse essere il
momento in cui Beerus aveva conosciuto la ragazza, ossia la
notte in cui lui, seccato, l’aveva abbandonato nella foresta.
Tutto
era derivato da un suo errore.
Vados
non aveva avuto torto nel dirgli che “non era stato
all’altezza”.
Con
quel pensiero a perseguitarlo era entrato in casa
passando attraverso le pareti, aveva tramortito Beerus e lo aveva
portato via
senza por tempo in mezzo, ripromettendosi di non tornare mai
più su quel
pianeta. Beerus non aveva bisogno di una ragazza, e tantomeno di una
Iarim
Neiē: il loro rapporto tra maestro e allievo -e in seguito tra
assistente e
assistito- sarebbe sempre dovuto essere l’unico e il solo che
avesse
importanza, e la sua sarebbe sempre dovuta essere l’unica
voce che Beerus
ascoltasse. All’Universo serviva una coppia ben assortita,
non un trio, e in
ogni caso scegliere una Iarim Neiē a quell’età era
una follia.
Doveva
stroncare tutto sul nascere prima che fosse veramente
troppo tardi, e doveva
riuscirci in quel mese e mezzo, perché dai
diciott’anni in poi avrebbe dovuto
per lo più limitarsi a obbedire a Beerus.
Un
Beerus che stava riprendendo conoscenza, illuso di
essere ancora sul pianeta dei Lusan e che fosse ancora tutto a posto.
«Hmmm…
dov’è la torta?»
«Temo
sia rimasta in casa della tua ragazza, Beerus».
Sentire
la voce del maestro causò al dio un brivido gelido
lungo la schiena; sgranò gli occhi e, improvvisamente
lucidissimo oltre che nel
panico, si rizzò a sedere. «M- maestro
Whis?...»
«Immagino
che al tuo risveglio avessi previsto di trovare
tutt’altra persona».
Whis
era composto come di consueto, ma Beerus riusciva a
vedere molto bene che era assai arrabbiato. Lo leggeva senza
difficoltà nel suo
sguardo color lavanda, che parlava molto chiaro, e diceva
“Sei in un Multiverso
di guai”. «Maestro, io posso spiegar-»
«Hai
infranto le regole. Sei scappato più volte dal
pianeta, oltretutto per incontrare una ragazza, e mi hai preso in giro
per tre
mesi e mezzo. Non credo ci sia molto da aggiungere o da spiegare, ne
convieni?»
Appunto.
Il suo maestro lo aveva scoperto, sapeva dove
andava e perché ci andava, e lo aveva riportato di forza a
casa: questo
significava che, com’era prevedibile, era totalmente
contrario. «Non avrei mai
voluto prenderti in giro, è solo che non ho visto altro modo
per… io… io non
pensavo-»
«“Non
pensavi”, ben detto! O comunque pensavi con parti del
corpo diverse dal cervello. Beerus, se sentivi il bisogno di fare sesso
più di
frequente bastava dirmelo e ti avrei portato più spesso nel
solito posto! Hai
fatto viaggi di…» fece un rapido calcolo
«Tre ore e mezza solo per questo? Ti
rendi conto di quanto sia folle tutto ciò?»
«Non
sono andato da lei per quella ragione!» esclamò il
dio, ora inalberato «Hai detto bene, se avessi voluto fare
sesso mi sarebbe
bastato farmi portare nel solito posto, ma non era quel che volevo da
lei! Anise
diventerà la mia Iarim Neiē!»
Triste
conferma del fatto che Vados non stesse scherzando.
Whis scosse la testa. «Non credo proprio. Beerus, tu sei
indubbiamente vittima
di quella che tra i mortali viene chiamata “una brutta
cotta”, o
“innamoramento”. Per quel che mi è dato
conoscere, pare che alla tua età sia un
tipico disturbo psicofisico… ma ti assicuro che è
transitorio».
«Transitorio
un
corno!» sbottò
Beerus, rizzandosi in
piedi «E non è affatto un “disturbo
psicofisico”!»
«Forse
definirlo “malattia” sarebbe più
corretto».
«Non
è una malattia, maledizione! Io la
amo!»
«Sciocchezze»
ribatté Whis, secco «La tua mente al momento
è confusa e annebbiata dagli squilibri chimici causati
dall’innamoramento, e da
quelli ormonali tipici degli adolescenti. Non è nulla di
grave o che si debba
prendere sul serio: un po’di distanza e vedrai che
passerà tutto, come fosse un
brutto sogno».
«D-distanza?»
«Esatto:
“distanza”. Beerus, non ti lascerò certo
andare
ancora da quella ragazza» disse l’angelo, mostrando
tutta la tranquillità
dell’Universo «Non so se tu credessi il contrario,
ma se è così ti sei preso in
giro da solo, più di quanto tu abbia preso in giro me negli
ultimi tempi».
Beerus
avrebbe dovuto aspettarselo, ma quel che aveva
sentito lo fece gelare lo stesso.
Non
sarebbe più potuto scappare, perché Whis
l’avrebbe
tenuto sotto stretta sorveglianza, e questo significava non poter
più andare
sul pianeta dei Lusan… e di conseguenza non poter
più vedere Anise. «Non
puoi farlo! NON PUOI!»
«A
me risulta di sì».
«
Whis, io devo vederla!» esclamò
l’Hakaishin in un tono
che oscillava tra la rabbia e la supplica, mentre afferrava le vesti
del
maestro «Ne ho bisogno! Perché non
capisci?!»
«Lascia
andare immediatamente il mio abito».
Beerus
staccò le mani dai vestiti di Whis come se si fosse
scottato, ma non intendeva demordere. «Lo so che sei
arrabbiato con me perché
ho fatto tutto di nascosto, ho sbagliato e su questo hai ragione, ma
non puoi
impedirmi di stare con lei! Per me è importante, soprattutto
adesso che…»
“Adesso
che” avevano fatto l’amore.
Un
pensiero attraversò la mente del dio, gettandolo nella
disperazione: cos’avrebbe pensato Anise vedendolo sparire
all’improvviso,
guarda caso proprio il giorno dopo la loro prima volta insieme?
Avrebbe
pensato di essere stata usata, avrebbe pensato che
tutte quelle belle parole e tutte quelle promesse valevano meno di una
perlina
di vetro, e lo avrebbe odiato in virtù di tutto
ciò.
Non
poteva succedere.
«Whis-»
Poi
però il suo cervello gli ricordò una cosa
fondamentale:
Anise non era una ragazza stupida. Era troppo attaccata a una sorella
che pur
essendo capo di una cittadina la lasciava relegata in una foresta, ma
quello
era un altro discorso.
Se
aveva imparato a conoscerlo anche solo un po’, avrebbe
intuito che la sua sparizione non era una cosa voluta da lui. La amava,
e
voleva pensare di essere riuscito a dimostrarglielo abbastanza
chiaramente da
far sì che Anise credesse in lui e nella sua buona fede.
«Anise
è intelligente. È riuscita a capire facilmente
tutto
quel che comporta il mio ruolo di Hakaishin, quindi capirà
che se non mi farò
vedere sarà per colpa tua» disse al maestro, con
decisione «E che non me ne
sono andato da casa sua di mia volontà. A breve io
compirò diciotto anni, e a
quel punto tu dovrai portarmi da lei quando lo vorrò, quindi
lascia che io
continui a vederla. Puoi rifiutarti di farlo solo per adesso, ma non
otterrai
assolutamente niente: tra un mese e mezzo io e lei staremo ancora
insieme e
diventerà la mia Iarim Neiē, che ti piaccia oppure
no».
Sebbene
un po’sorpreso da quel cambio di atteggiamento,
più
“adulto” e assai diverso dal panico semi disperato
presente fino a poco prima,
Whis mantenne la calma. «Lo ripeto di nuovo: non ti
porterò da lei. Un mese e
mezzo è lungo per una ragazza che presumo abbia
più o meno la tua età. Se non
la dimentichi tu, lo farà lei».
«Questo
non accadrà mai, e se tu non mi porterai da lei allora
io non mi allenerò più!»
Rieccolo,
il solito Beerus capriccioso che conosceva. Il
momento pseudo ragionevole era finito. «E io non ti
farò più da mangiare».
«Mi
arrangerò da solo, ho visto Anise cucinare un sacco di
volte!» ribatté Beerus, pur essendo consapevole
che probabilmente tutto quel
che avrebbe tirato fuori sarebbe stato immangiabile.
«Non
potrai utilizzare la cucina, né avrai altre
comodità.
Se non ti allenerai, andrai a vivere nel bosco e cercherai di cavartela
lì, tra
gli alberi» replicò Whis «Spoiler: non
troverai una ragazza pronta ad aprirti
la porta di casa propria. Altro spoiler: non provare a lasciare il
pianeta, non
potresti riuscirci neppure tentando miliardi di volte».
Niente
cibo, niente comodità, e una situazione
terribilmente simile a quella in cui si era trovato durante la sua
infanzia:
una punizione che lo privava di tutto quello che aveva sempre avuto da
quattordici anni a quella parte, e con una vaga nota di sadismo.
«Come sarebbe
a dire che devo andare nel… no, lo sai cosa? Lo
sai cosa?! Ci vado eccome, nel bosco! Parlare con gli alberi
è
più utile che parlare con te» borbottò
Beerus, agguantando una coperta «Tanto
tu non capisci nulla di me e di Anise, non puoi capire, e forse non
vuoi
nemmeno provare a farlo».
«Metti
giù la coperta, non avrai neppure quella, e non
c’è
nulla da capire: il problema è solo la tua testardaggine, ma
non durerà molto.
Ieri, prima di ricevere la "bella notizia", ho ordinato un profiterole
dal
pianeta Swetts. Arriverà alle cinque di oggi
pomeriggio» lo informò Whis «Lo
avevo comprato per fare un regalo a quello che fino a quattro ore fa
ritenevo
uno degli allievi migliori che abbia mai avuto… ma ho
sbagliato. Avrebbe avuto
senso se lo avessi comprato per l’allievo più
bugiardo. Ti ho cresciuto e
addestrato, e come mi ringrazi? Infrangi le regole e mi
inganni».
Beerus
teneva al suo maestro, perché questi gli aveva dato
quanto di più simile a una casa avesse mai avuto, e sentirsi
dire certe cose fu
come ricevere una coltellata particolarmente dolorosa e intrisa nel
senso di
colpa.
Non
avrebbe cambiato nulla di quei tre mesi e mezzo, perché
quel che lui e Anise avevano costruito in così breve tempo
era bellissimo e
troppo importante, e si era sentito soddisfatto della propria astuzia
per aver
gabbato Whis, però sapeva benissimo che quel che aveva fatto
era stata una
grandissima mancanza di rispetto nei confronti di qualcuno che gli
aveva dato tutto.
Lasciò
cadere la coperta e si diresse verso la porta.
Arrivato sulla soglia, si voltò a guardare
l’angelo. «Non mi avresti permesso
di conoscerla meglio, quindi non avevo scelta. Il profiterole mangialo
tu,
tanto in questi mesi io l’ho mangiato un mucchio di
volte!»
Detto
ciò corse via prima che il maestro potesse commentare
in qualsiasi modo quell’ultima frase che, se fosse stato
più sveglio, avrebbe
fatto a meno di dire.
“Non
solo ha mentito, ma ha anche divorato a mia insaputa
chissà quanti di quei buonissimi dolci! Questo è
quasi più grave del resto”
pensò Whis, con aria profondamente offesa “Non
riesco neppure a credere che si
sia mostrato poco interessato al profiterole. Beerus che rinuncia al
profiterole per una Lusan? Se non fosse impossibile penserei che
l’abbiano
sostituito con un clone malfatto. In ogni caso cederà molto
presto, ne sono
sicuro… tempo un giorno, massimo due, e tornerà
da me con lo stomaco che
brontola a supplicarmi di preparargli da mangiare”.
Prima
di uscire dalla camera da letto fece caso a un
particolare: non si era curato neppure di dare un’occhiata
alla ragazza che
aveva mandato fuori di testa il suo allievo.
Tirò
fuori il bastone, e decise di verificare se l’ipotesi
che Beerus l’avesse conosciuta nella foresta era corretta.
La
Lusan dal pelo bianco che Whis vide oscillare su
un’altalena non era più bella di tante altre che
lui e Beerus avevano visto
nella città di Vynumeer -troppo magrolina- ma riconosceva
che con la notte, le
due lune, la musica e i capelli argentei sciolti al vento potesse
risultare
affascinante agli occhi di altri felidi.
Di
certo lo era risultata agli occhi di
Beerus, che quella sera -da quanto stava
vedendo- era rimasto per un bel pezzo a guardarla col sorriso che
avrebbe
potuto avere vedendo una meringa gigante.
Si
ripromise di dare qualche altra occhiata a quant’era
accaduto in quei tre mesi e mezzo, anche se in teoria Beerus e quella
ragazza
non si sarebbero più visti. La vita eterna di un angelo a
volte era noiosa, e
in quei due giorni in cui Beerus sarebbe stato nel bosco avrebbe avuto
ancor
più tempo libero del solito.
“Promemoria per
me: escludere le
scene spinte. Non sono per nulla curioso di vederle”
pensò.
Sono
conscia di aver pubblicato qualche ora prima rispetto al solito, ma
siamo al 23 dicembre, e in questo periodo in casa mia si sa quando si
inizia a cucinare, ma non quando si finisce :"D
Non ho nulla da dire se non… “beccato”!
Ah, e mi auguro che
il mio primo tentativo di scrivere scene che vanno oltre un bacio non
sia stato
troppo penoso. Vero, da qualche
parte
si deve pur iniziare, ma spero di migliorare in futuro :”D
per il resto, a voi
eventuali commenti.
Auguro
a tutti buone feste (:
|
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Capitolo 9 *** 9 ***
RMIcap9
9
Quel
pomeriggio il cielo era limpido, senza neppure una
nuvola, ma se avesse rispecchiato l’umore di Anise sarebbe
stato plumbeo, e la
pioggia sarebbe scrosciata incessantemente fino a far straripare ogni
fiume e
ogni lago.
“Che
giornataccia. Non sarebbe dovuta essere così”.
Una
volta accovacciatasi su una poltrona diede un’ultima
occhiata al grosso pezzo di torta che fino a quel momento non aveva
fatto altro
che rigirarsi tra le mani, e infine decise di lanciarlo dritto tra le
fiamme
del camino acceso.
Prese
in mano l’attizzatoio e si mise a ravvivare con aria
assente il fuoco. Nonostante si stesse entrando nella stagione fredda
la
temperatura non era tanto bassa da dover mettere in funzione il camino
a
quell’ora del giorno, ma Anise aveva iniziato a sentire
freddo già dal mattino;
più precisamente da quando si era svegliata e non aveva
trovato Beerus al
piano terra, ma solo un pezzo di torta -cui mancava un grosso morso-
abbandonato sul pavimento.
Doveva
ammetterlo, inizialmente il suo cervello aveva
iniziato a produrre pessimi pensieri, del tipo: “hai fatto
talmente pena a
letto da farlo fuggire, non vai bene neppure per quello, sei sbagliata
in tutto
e per tutto e lo
sarai sempre. Credevi
davvero di poter essere la persona giusta per diventare la Iarim Neiē
di
chicchessia? Dzhavarut’yunner!”,
ma
era riuscita ad accantonarli imponendosi di continuare a credere a
qualsiasi
costo nell’amore che Beerus le aveva sempre mostrato, e
concentrandosi su quel
pezzo di torta.
Limitarsi
a mordere un pezzo di torta per poi abbandonarlo
sul pavimento non era da Beerus, e non c’era neppure la
possibilità che fosse
fuggito perché schifato dal cibo, dal momento che la sera
prima lo aveva
divorato come soleva fare. Qualcuno doveva averlo portato via con la
forza, ed
escludendo qualunque mortale, nonché Champa -era meno forte
di Beerus, e poi
perché avrebbe dovuto farlo?- la sola opzione sensata
restava quella degli
angeli.
Anise
era abbastanza convinta del fatto che non fosse stata
Vados, quanto piuttosto il nominatissimo maestro Whis,
ma c’era
da chiedersi come l’avesse scoperto. Era perfettamente
plausibile che potesse
essersi recato in camera del suo allievo con l’intento di
svegliarlo prima, o
per qualche altra ragione… d’altro canto
però c’era anche la possibilità che
Vados potesse aver fatto la spia, e c’erano vari elementi che
spingevano Anise
a ritenerla un’ipotesi plausibile. Fino ad allora Vados aveva
mantenuto il
silenzio, ma nel caso avesse visto e sentito Beerus proporle di
diventare la
sua Iarim Neiē poteva aver cambiato idea: il fatto che non fosse stata
fisicamente presente non contava, perché Champa le aveva
detto che gli angeli
potevano osservare fatti presenti e passati quando e come volevano.
Quelle
però erano solo speculazioni. Il solo dato di fatto
era che Beerus non fosse accanto a lei in quel momento e che, se le
cose
erano
andate come lei pensava, allora quel povero dio era nei guai.
Ad Anise
non
restava altro se non la speranza che Beerus, nel tentativo di battersi
per poterla
rivedere, non si infilasse in qualcosa di peggiore; lei intanto si
sarebbe
fatta dare notizie da Champa, se questi ne aveva, e per il resto si
sarebbe
limitata ad attendere il giorno del compleanno di Beerus. Avrebbe
concluso di
essere stata brutalmente piantata in asso solo se lui non si fosse
fatto vivo
da quel momento in poi.
Sentì
una grande mano posarsi sulla sua spalla, e la
sorpresa, la paura e l’istinto di difesa stavolta ebbero il
sopravvento sulla
logica di cui Anise andava tanto orgogliosa: senza pensare minimamente
a cosa
stesse facendo, o al giorno della settimana e all’ora, Anise
sollevò
l’attizzatoio ormai incandescente per colpire alla cieca un
avversario senza
nome e senza volto.
Lo
sconosciuto evitò facilmente il colpo, e impedì
alla giovane
di sferrarne altri, trattenendo con mano ferma la punta ricurva, rossastra
e
rovente di quell'arma impropria.
«Ho
bussato, ti ho chiamata, ma devo dedurre che non mi
avessi comunque sentita arrivare».
Solo
a quel punto Anise realizzò che lo
“sconosciuto” non
era affatto uno sconosciuto, ma sua sorella, giunta a visitarla come
ogni
settimana.
La
giovane lince cercò di ritrovare la calma, ma era
difficile farlo se manteneva lo sguardo fisso sulla mano di Calida, la
quale lasciò andare la punta dell’attizzatoio come
se nulla fosse, nonostante
mostrasse ovviamente una gran brutta ustione.
«C-Callie… non volevo cercare di colpirti,
non mi ero resa conto che fossi tu, mi dispia-»
«Col
tempo guarirà. Dovresti sapere che non mi dà
noia».
Anise
abbassò l’attizzatoio, e poi lo rimise a posto.
«Lo
so, ma vederlo continua sempre a farmi impressione, per non dire altro.
Vado a
prendere il composto per le ustioni che ho di là,
io… sì, ci vado».
Lasciò
la stanza più in fretta che poteva, sia perché
quell’ustione necessitava di soccorso immediato, sia
perché aveva bisogno di un
momento per scendere a patti per l'ennesima volta col fatto che Calida,
pur
percependo effettivamente il dolore, non veniva affatto disturbata da
esso. Era
una cosa alquanto bizzarra, e Anise non riusciva a
capire come fosse possibile riconoscere la sensazione di dolore senza
soffrirne, eppure per Calida le cose stavano proprio in quel modo.
Non
era nata
così, era iniziato tutto in tempi di guerra -quindi in
giovanissima età- dopo
un’occasione in cui aveva preso un bruttissimo colpo alla
testa, e le cose non
erano più cambiate.
Calida
però non sembrava esserne infastidita perché,
pur non soffrendone, riconoscendo la sensazione di dolore poteva anche
capire
quand’era il caso di
non spingere oltre il proprio fisico; per il resto, quella sua
caratteristica
riusciva a incutere una certa soggezione: come non temere una guerriera
Lusan
che, oltre a essere un armadio a due ante pieno di muscoli, non dava
mostra di
soffrire il dolore?
Trovato
il composto e delle bende la ragazza tornò
rapidamente da Calida, la quale stava provvedendo a pulire da sola la
ferita. La
stanza odorava di pelo e carne bruciati, motivo per cui Anise si
ripromise di
aprire le finestre appena sua sorella fosse andata via. «So
che non ti dà noia,
ma mi dispiace davvero. Avrei potuto finire per colpirti in pieno
volto!»
Calida
tese la mano ustionata, lasciando che Anise
provvedesse alla medicazione. «Sei troppo lenta per
riuscirci, non c’era
pericolo».
«Rimproverami
pure la lentezza, ma in questo caso è stata
una fortuna. Mi dispiace tantissimo» ripeté ancora
Anise «Ero totalmente persa
nei miei pensieri, oggi non è una bella
giornata…»
«Lo
avevo immaginato da quando sono entrata e ti ho vista
stare accovacciata in quella maniera. Deduco che tra te e Lord Beerus
ci sia
qualche problema».
Sentendo
quelle parole, la giovane Lusan si irrigidì
completamente. Per un istante si concesse persino di sperare che fosse
stata
un’allucinazione uditiva, o di aver sentito male, ma
purtroppo non era così e
ne era consapevole: Calida era venuta a sapere di Beerus, e che non
fosse stata
lei a dirglielo peggiorava ulteriormente le cose.
Col
cuore in gola, capì che non restava altro se non
sperare in una reazione ragionevole. «Da quanto lo
sai?» le chiese dunque,
rifiutandosi di guardare altro che non fossero le proprie azioni nel
medicarle
la mano.
«Due
mesi e mezzo».
«Cosa?! Lo sai da
tutto questo tempo e non hai detto nulla?!» allibì
Anise, trovando il coraggio di sollevare lo sguardo grazie alla
totale sorpresa.
«Come
tu frequenti un maschio da tutto questo tempo e non
mi hai detto nulla» replicò Calida, asciutta.
«Volevo
dirtelo. Giuro, volevo dirtelo davvero, ma non
sapevo come fare, non sapevo quali parole usare, e
non…» prese fiato «Io non
volevo avere problemi, d’accordo?»
«Non
volevi avere problemi più grossi dell’attirare
ripetutamente il Dio della Distruzione su questo pianeta, col rischio
di finire
per innervosirlo col tuo strano modo di fare e portarlo a distruggerci
tutti?
Sì, da questo punto di vista è
comprensibile».
«A
lui piaccio esattamente come sono, che venga su questo
pianeta una sola volta o un milione non è un problema, io
non volevo averne con te»
ribatté la ragazza «Non potevo
sapere se avresti reagito in modo ragionevole oppure-»
«“Oppure”
cosa? Ti ho mai picchiata? Ti ho mai messo le
mani addosso?»
«No,
non mi hai mai picchiata, ma riguardo il mettermi le
mani addosso dipende in quale senso intendi» rispose Anise,
con una certa
durezza.
Per
quanto potesse amare, rispettare ed essere leale alla
sola famiglia che possedesse, per quanto potesse e desiderasse riuscire
a
mettere completamente da parte quel che era accaduto tre anni prima, in
certi
momenti tornava inevitabilmente fuori. Anise aveva avuto delle buone
ragioni
per dubitare della possibile reazione di Calida e, per quanto potesse
aver
commesso un errore non parlandole subito di Beerus, non accettava di
prendersi
tutto il torto.
«Non
ci sono giustificazioni per quanto è successo quella
sera, è vero» disse Calida, dopo un lunghissimo
momento di silenzio «E non so
bene neppure io cosa mi sia passato per la testa in
quell’occasione. Il minimo
che potessi fare era impegnarmi a non ripetere l’errore, e ho
tenuto fede al
mio proposito».
«E
per tenere fede al proposito hai dovuto
“impegnarti”?»
«È
un semplice modo di dire, Anise, io non voglio toccarti
ancora in quel modo, non ho la minima intenzione di farlo, non ho
intenzione di
farti nulla. Sapevo della tua tresca
poco raccomandabile, ma nei due mesi e mezzo passati ti ho mai dato
l’impressione di avere pensieri sbagliati?» le
chiese Calida, conscia che la
risposta sarebbe stata un “no”, perché
faceva sempre in modo di sfogare
altrimenti quelle malsane pulsioni di possesso.
«No,
onestamente non me l’hai data affatto» ammise la
ragazza «Ma allora torno a domandarti perché non
mi hai detto nulla, e
soprattutto come hai scoperto della cosa».
«Non
ho detto nulla perché non spettava a me tirare fuori
l’argomento, e perché in ogni caso ero convinta
che l’interesse del “tuo” dio
sarebbe stato solo passeggero. È un Hakaishin, vaga qui e
là per tutto il
cosmo, quindi vedrà molte donne: fino a ieri toccava a te,
un domani chi lo
sa».
«All’inizio
ho pensato le stesse cose, ma sbagliavo.
Conosco Beerus meglio di te, e ormai so che non è
così. Non è questo tipo di
persona, e quel che prova per me è vero, è reale,
o non sarebbe mai riuscito a
convincermi del contrario. Calida, io non sono così stupida
da farmi
abbindolare in quel modo!»
«Anche
nel caso in cui si fosse davvero preso una cotta,
non sarà per sempre. Non può esserlo, anche se
entrambi magari credete
sinceramente il contrario. Lord Beerus è un
immortale» le ricordò Calida «Forse
da divinità quale è ha modo di rendere tale anche
te, ma prima o poi si stuferà
di vedere al proprio fianco sempre la stessa donna. Finirà
col piantarti in
asso, e allora cosa farai? Tornerai qui dopo, che so, mille anni? A far
cosa?»
Calida
aveva l’inquietante capacità di dar voce sia ai
pensieri che Anise aveva avuto inizialmente, sia ai pensieri che si
affacciavano nella sua mente quando pensava a come sarebbe stato
diventare
immortale -entrambi tenuti a bada solo dall’amore che Beerus
le aveva sempre
mostrato, e che Anise a sua volta provava verso di lui. La ragazza si
mise di
nuovo a sedere davanti al camino. «Se continuaste ad
ammazzarvi in una guerra
dopo l’altra presumo che tornerei qui a ballare su un
mucchio d’ossa. Non
sarebbe male, questo posto è bellissimo, ma la gente
è orribile».
«Buffo:
hai da ridire sulle nostre guerre, e sbavi dietro
qualcuno che distrugge pianeti in cui vivono miliardi di
persone».
«Il
compito di Beerus è mantenere un necessario equilibrio
tra la vita e la morte in tutto l’Universo: questo ha un
senso. Le guerre tra
città invece non lo hanno affatto»
ribatté Anise.
«Tu
lo difendi, lui ti dà grattacapi. Non mi hai ancora
detto a cosa stavi pensando».
«A
darmi grattacapi non è lui. Senti, facciamo così:
visto
che sei qui e che ormai sai, ti
spiego un po’tutto».
Come
scelta poteva sembrare discutibile, ma Anise non aveva
altre persone dalla mente agile con cui poter parlare. Calida non era
troppo “a
posto”, come del resto nemmeno Anise riteneva di essere, ma
non era affatto
stupida.
Le
parlò di quel che aveva capito del rapporto tra angeli e
Hakaishin non maggiorenni -e dunque del perché Beerus si era
sempre mosso di
nascosto-, le disse l’indispensabile sul rapporto che
c’era tra lei e Beerus, le
spiegò del pezzo di torta trovato sul pavimento e di quel
che aveva pensato. Le
rivelò anche l’esistenza di altri Universi, con
altre divinità che avevano
sempre lo stesso ruolo, e di Champa.
«Fammi
capire: non intrallazzi con un solo Hakaishin, ma
addirittura con due? Sempre peggio» commentò
Calida, con aria cupa. Un maschio
divino a ronzarle attorno era già troppo, ma che fossero
addirittura due era
inconcepibile. Possibile che anche così, esiliata nella
foresta, attirasse guai
e maschi “di potere” come il miele attirava le
mosche?!
«Non
me lo sono cercato, e comunque a Champa piaccio solo
come persona, non in altri sensi. Quel che voglio da te però
è la conferma che
quel che ho pensato, ossia che il maestro di Beerus l’abbia
portato via, è
plausibile».
«Può
esserlo. Ho avuto a che fare con Lord Beerus solo una
volta, ma ricordo benissimo come si comporta quando mangia qualcosa che
gli
piace, e penso che difficilmente avrebbe lasciato la torta.
Ciò però non toglie
che un mese e mezzo sia molto lungo, e che il suo maestro ha
senz’altro modo di
convincerlo a non tornare».
«Sentire
questo per me non è molto consolante»
mormorò la
lince, guardando altrove.
«Anise,
tu e io siamo sole al mondo. Lo siamo sempre state»
disse Calida avvicinandosi alla Lusan più giovane
«Ricordalo: noi siamo e
sempre saremo tutto quello che abbiamo. Piaccia o meno, è
così. Questo non
potrà mai cambiare né per le azioni di un
mortale, né per le azioni di un dio».
Anise
non riusciva a capire se trovare una rassicurazione
in quelle parole che aveva sentito tante volte -conscia che Calida, pur
con i propri
difetti, non l’avrebbe mai abbandonata qualunque cosa fosse
successa- o
piuttosto se interpretarle quasi come una maledizione. La
lealtà che nonostante
tutto avrebbe sempre provato verso colei a cui doveva la vita
tornò infine a
farsi sentire, e Anise scelse la prima opzione. «Non
dimentico il nostro legame
familiare, ma se Beerus torna, e voglio credere che lo farà,
io intendo
continuare la mia storia con lui. Siine consapevole».
«Lo
so, e sei liberissima di fare come credi» replicò
l’altra «Ma in caso lui torni davvero cerca di
compiacerlo fino a quando si
stuferà, così da non farci ammazzare tutti. Se
poi riuscissi a ottenere qualche
vantaggio materiale sarebbe anche meglio. Non ho altro da aggiungere
sulla
questione, e non credo ti aspettassi parole diverse».
«No,
infatti. Ma lui non si stuferà».
Calida
scosse la testa, guardandola quasi con compassione.
«Una divinità che prova sentimenti per te e ti
porta con sé in giro per il
pianeta… ammetto che somiglia alle favole di quei libri che
conosciamo tutte e due
e che tu amavi, quand’eri più piccola».
«Come
sai che mi ha portata-»
«Ricordi
cos’avevamo concluso, leggendole? “Ogni favola che
si rispetti finisce in”…»
“Ogni
favola
che si rispetti finisce in tragedia”.
Quella
era la conclusione, come Anise ben ricordava.
«Questa è vita reale, non è una
favola».
«A
maggior ragione. Se certe storie nelle favole finiscono
in tragedia, nella vita reale finiscono in un completo disastro. Ti
saluto,
Anise» disse la donna, avviandosi verso la porta
d’ingresso «Mi raccomando:
testa sulle spalle».
«E
tu sta’ attenta alla mano ferita».
Calida
mosse tranquillamente la mano fasciata. «Anche ferita, questa
mano fa più male agli altri che a me».
La
Lusan dal pelo beige se ne andò, lasciando Anise sola
con i propri pensieri nella casa di pietra e legna.
“Se
certe storie nelle favole finiscono in tragedia, nella
vita reale finiscono in un completo disastro…”
No.
Non si sarebbe lasciata influenzare dalle parole di sua
sorella, dai suoi moniti, dal suo pessimismo cosmico. Anise grazie a
Beerus
era riuscita a trovare la felicità per la prima volta nella
propria vita, a
provare una serenità mai conosciuta prima, a cercare il
contatto fisico con
qualcuno, a desiderare di poter stare insieme a una persona, insieme a lui, in ogni momento della giornata.
Aveva
trovato tutto questo, aveva trovato anche la speranza
concreta che potesse durare ancora per moltissimo tempo, ed era la cosa
più
bella che avesse mai avuto: non se la sarebbe lasciata portare via da
nessuno,
per nulla al mondo.
Dopo
un lasso di tempo dalla lunghezza che Anise fu
incapace di definire, la porta d’ingresso si aprì.
Era Vados, che come di
consueto era giunta lì insieme a Champa per lasciarle
quest’ultimo.
«Ciao,
Nissie» la salutò il dio, che quel giorno non
sembrava particolarmente allegro.
«Buon
pomeriggio, Lady Anise. La porta era aperta».
«Come
lo è sempre. Ora so che lei era consapevole del fatto
che Beerus non è qui».
Vados
sollevò leggermente le sopracciglia. Non si era
aspettata che la ragazza passasse direttamente
“all’attacco”. «Cosa la spinge
a
fare tale affermazione?»
«Quando
sa che c’è qui Beerus, lei bussa sempre prima di
entrare. Stavolta non l’ha fatto, perché sapeva
benissimo che lui non è qui, e
che dunque non avrebbe potuto assistere a scene ambigue»
replicò la ragazza.
«Non
mi starà accusando di qualcosa, spero. Non sarebbe
molto carino» disse Vados, senza accorgersi
dell’occhiataccia di Champa, il
quale evidentemente sapeva qualcosa.
Anise
tuttavia se ne avvide eccome, e la prese come un
altro elemento a favore della sua ipotesi. «È lei
che ora ha parlato di accuse,
non io, ma ammetto di essermi fatta l’idea che sia stata
proprio lei a fare una
soffiata a suo fratello. Ho una teoria su come possano essere andate le
cose».
«Sul
serio? Può dirla» la invitò
l’angelo con tono
noncurante, sorridendo perfino «Sono quasi
incuriosita».
«Ricordo
distintamente il suo cambio di atteggiamento e il
modo in cui è andata via in fretta e furia qualche giorno
fa, quando Beerus ha
detto che in futuro l’oro del tesoro di Rubedo non mi sarebbe
servito» disse
Anise «Se gli Hakaishin sono incommensurabilmente ricchi,
allora è ovvio che
alla loro compagna più o meno eterna non serva avere un
patrimonio personale.
Io non avevo fatto questo collegamento, lei forse sì. Ha
passato qualche giorno
d’indecisione, presumo tenendo d’occhio Beerus a
distanza, e sentendolo parlare
di Iarim Neiē ha scelto di rivelare tutto a suo fratello, il quale
è venuto qui
e ha portato via Beerus con la forza. Ho trovato sul pavimento un pezzo
di
torta recante un morso di Beerus» continuò la
lince «E che lui si limiti a dare
un morso a un pezzo di torta per poi lasciarlo cadere è
qualcosa che non esiste
né in cielo né in terra».
Vados
non sorrideva più, e Champa si limitò a restare a
guardare il tutto il silenzio, alquanto stupito. Aveva sentito
distintamente la
sua maestra fare la spia con Whis: Vados aveva creduto che lui
dormisse, ma si
era risvegliato affamato e si era messo a cercare la sua scorta segreta
di
snack, e sentendola parlare si era concentrato al massimo per udire
bene tutto
il discorso. Si era ripromesso di parlarne ad Anise appena
l’avesse vista… ma
sembrava proprio che non ce ne fosse bisogno, dal momento che lei aveva
capito
tutto da sola.
«Se
è convinta di tutto ciò immagino che mi
riterrà una
persona brutta e cattiva» commentò Vados.
«La
ritengo un angelo che pensa come un angelo, si comporta
come un angelo, e ha fatto un favore a un suo simile. Se crede che
voglia
mettermi a urlarle contro, si sbaglia: sarebbe come prendermela con un
uccello solo
perché vola, e non otterrei nulla se non perdere la voce.
Per non parlare del
fatto che le sue azioni sono state così inutili che non
valgono neanche i miei
insulti» aggiunse Anise «Tra un mese e mezzo al
massimo io e Beerus saremo di
nuovo insieme, quindi la sua soffiata non sarà servita
proprio a nulla, come
tutte le possibili azioni di suo fratello. Detto ciò, vado a
fare un infuso per
tutti e tre: la prego di non andarsene, Vados, perché dopo
intendo chiederle una
cosa. Intanto accomodatevi pure dove volete».
Anise
andò a fare gli infusi senza lasciare a nessuno il
tempo di replicare.
«Questa
ragazza diventa più strana ogni volta che la vedo»
fu il commento di Vados dopo qualche minuto di silenzio. Si sentiva un
po’offesa nonostante in tutto il discorso di Anise non
fossero stati presenti
insulti diretti alla sua persona.
«Eccomi
qui» disse Anise, di ritorno dalla cucina con un
vassoio su cui erano poggiate tre tazze ben riempite di infuso caldo e
profumato «Scegliete pure la tazza che volete».
«Doveva
chiedermi qualcosa, giusto?» le ricordò
l’angelo,
prendendo una tazza.
«Sì.
Immagino che lei sappia giocare a scacchi».
«Certo»
confermò la donna, un po’perplessa.
«Beerus
mi aveva portato un libro, a suo dire noioso, in
cui c’erano tutte le regole. L’ho letto e avrei
voluto provare a fare una
partita con lui, ma per varie ragioni ha sempre rifiutato. Lei
giocherebbe con
me?»
Sentendo
quella domanda, Champa pensò per l’ennesima volta
che Anise fosse proprio “strana”- per quanto gli
piacesse come persona in ogni
caso. La tranquillità da lei mostrata era dovuta al fatto
che credesse
fermamente in Beerus, nella loro storia e alla serietà delle
sue intenzioni -si
capiva da quel che aveva detto prima a Vados- ma lo lasciava comunque
un
po’perplesso. Se lui avesse amato una persona, e avesse avuto
davanti a sé la
spia che con una soffiata li aveva separati, altro che chiederle di
giocare a
scacchi! Avrebbe fatto fuoco e fiamme! Sarebbe stato inutile, ma almeno
avrebbe
espresso la sua rabbia. «Perché vuoi giocare a
scacchi? Come gioco è
noiosissimo».
«Tu
sei capace, Champa?»
«È
una frana» sospirò Vados, rispondendo al posto di
Champa
«La sua richiesta comunque mi stupisce non poco, Lady Anise.
È una ragazza
veramente insolita».
«E
detto da una bella donna che è capace di far scomparire
un tesoro in un bastone, immagino non sia cosa da poco».
Vados
rimase ferma a osservarla per qualche secondo, per
poi sospirare. Grazie al bastone fece comparire una meravigliosa
scacchiera
fluttuante fatta interamente di cristallo. «Possiamo fare
qualche partita. Non
ha mai giocato, quindi le prime due volte può aiutarla
Champa, per quanto
imbranato sia».
«Non
sono così imbranato!» protestò il
ragazzo «Non ho mai
vinto, ma non sono imbranato!»
«Va
bene» disse Anise, sfiorando con delicatezza una
deliziosa torre di cristallo nero «Champa, ho dimenticato di
dire un’ultima
cosa riguardante il discorso precedente: se in questo mese e mezzo
dovessi
rivedere Beerus prima di me, potresti dirgli che lo aspetto?»
«Se
me lo permettono, sì» rispose
l’Hakaishin, con
un’occhiata in tralice alla sua maestra «Ma lo
faccio perché me lo hai chiesto
tu, non per quel cretino, sia chiaro!»
Anise
non fece commenti. Col tempo forse i rapporti tra i
gemelli sarebbero migliorati un pochino, ma quel che contava al momento
era
che, indipendentemente dalla ragione, Champa dicesse a Beerus quel che
doveva
dirgli se e quando ne avrebbe avuto l’occasione. Sapere che
lo aspettava lo
avrebbe aiutato ad affrontare il brutto momento che molto probabilmente
stava
vivendo e avrebbe vissuto…
°°°Diciotto
giorni dopo°°°
«Non
sono un bambino, non sono in quella foresta, sono a
casa mia. Non sono un bambino, non sono in quella foresta, sono a casa
mia».
Beerus,
seduto a terra, si passò una mano sul volto,
continuando a ripetere a se stesso quelle parole fino a riuscire a
convincersene… almeno fino al mattino successivo.
Erano
ormai diciotto giorni che vagava senza meta nel bosco
che ricopriva parte del suo pianeta, diciotto giorni in cui aveva
dormito sul
muschio, bevuto da un fiumiciattolo e mangiato le carni abbrustolite e
scondite
degli animali che aveva cacciato per nutrirsi. Sporco
-perché lavarsi solo con
acqua non serviva granché- e con i vestiti rovinati, Beerus
non somigliava più
molto a una divinità, quanto piuttosto al disgraziato
gattino che quattordici anni prima era stato costretto a scappare via
assieme al fratello.
«Non
sono un bambino. Non sono in quella foresta...»
Era
assurdo, ma ogni volta che riapriva gli occhi dopo una
notte di sonno aveva sempre l’impressione di essere tornato
piccolo, di essere
ancora nella foresta in cui lui e Champa erano sopravvissuti per un
indefinito
lasso di tempo, e che la vita comoda che aveva fatto da quando il
maestro Whis
l’aveva preso fosse stata solo un sogno.
Avrebbe
voluto dormire di più, per lui sarebbe dovuto
essere facile riuscire a fare un mese e mezzo di sonno ininterrotto, ma
in
quella situazione non ci riusciva. Aveva tentato disperatamente di
farlo in più occasioni, ma non aveva
ottenuto proprio nulla.
«Io
sono a casa mia!» esclamò, battendo un pugno
contro la
fronte come per imporsi di metterselo in testa una volta per tutte
«Sono- a-
casa- mia!»
Sollevò
lo sguardo verso l’alto, e il colore rosa pallido
del cielo lo fece sospirare.
Il
tormento dei risvegli nella foresta non bastava, no:
c’era anche quello riguardante Anise. Diciotto giorni di fila
senza poterla
vedere erano troppi, il desiderio di sentire ancora la sua voce e il
calore del
suo corpo iniziava a diventare dilaniante. Avrebbe dato tutto quel che
aveva
pur di poter tornare da lei.
Non
che in quel momento avesse molto, visto che Whis
gli aveva tolto tutto spedendolo nel bosco a fare il barbone
finché non avesse
ceduto.
Lui
però non intendeva farlo: sarebbe tornato da Whis solo
quando questi gli avrebbe concesso di incontrare Anise, non prima, e se
avesse
dovuto aspettare fino al giorno del suo diciottesimo compleanno, che
fosse! Lo
avrebbe fatto senz’altro.
“Poi
tornerai da lei e scoprirai che in questo mese e
mezzo, convinta che tu l’abbia solo usata per poi
abbandonarla, ha preso il
tesoro di Rubedo, si è fatta portare da Champa in quella
cittadina di mare, e
si è sposata col sarto che ha cucito quel vestito blu
scuro…”
Beerus
voleva credere che Anise avesse capito quel che era
successo e che lui non avrebbe mai voluto andarsene, ma quella paura di
perderla avvelenava sempre e comunque i suoi pensieri. Non voleva che
accadesse, non voleva che lei iniziasse a odiarlo e le loro strade si
dividessero solo perché erano stati scoperti nel momento
sbagliato. Lei era
quanto di più bello avesse mai avuto, non se la sarebbe
lasciata portare via
per nulla nell’Universo.
«Beerus…»
Ecco
il carissimo maestro Whis, che come ogni giorno veniva
puntualmente a parlargli mangiando con gran gusto uno qualunque dei
suoi piatti
preferiti. C’era anche quello, come se il resto della
punizione non fosse stato
sufficiente. Pur sapendo che l’angelo era dietro di lui,
Beerus non si voltò.
«Oggi cosa mangi? Frittelle con lo sciroppo del pianeta Acer?
Brioches ripiene di
marmellata di frutti puff- puff? Qualunque cosa sia, mi auguro che ti
vada di
traverso».
«Non
sto mangiando nulla, maleducato. Abbi almeno la creanza
di voltarti!»
«Perché?
Finché non mi lascerai rivedere Anise, io e te non
avremo nulla da dirci. Sono qui da diciotto giorni, ormai al mio
compleanno ne
mancano solo ventisette; se tu non acconsenti a portarmi da lei, io non
mi
muoverò di qui!» disse il dio, testardo.
Whis
si spostò, mettendosi in piedi davanti a Beerus.
«Ammetto che tutta questa situazione è
più seria di quanto avessi pensato, ma…
davvero, ti sembra che valga la pena affrontare tutto questo per una
ragazza?
Per quella lì, poi!»
«Si
chiama Anise, non “quella lì”! Sarai
pure il mio
maestro, ma lei diventerà la mia compagna, per cui non
mancarle di rispetto!»
gli intimò il dio, ora in piedi e piuttosto arrabbiato.
L’angelo
alzò gli occhi al cielo. «Beerus, quella ragazza
non c’entra proprio nulla con te, vuoi capirlo o no? Ha solo
diciotto anni e ha
già alle spalle un matrimonio finito, un’accusa di
omicidio e una specie di
esilio…»
«Sì,
e io ammazzo miliardi di persone per lavoro, quale
delle due cose ti sembra peggio?!» ribatté Beerus
«Quel che hai detto non è un
segreto per me, lo sapevo già, e non mi interessa affatto.
Non è colpa sua se
non può avere figli, non credo affatto che sia stata lei ad
uccidere il marito,
e comunque un trentaseienne che sposa una quindicenne solo per metterla
incinta
merita di fare esattamente la fine che ha fatto lui. Lei in tutto quel
che è
successo non ha colpe! Ed è una ragazza in gamba, ed
è intelligente, ed è-»
«Già,
ed è anche per questo che con te non c’entra
proprio
nulla» lo interruppe Whis.
«Che
vorresti dire?!»
«In
questi diciotto giorni, come avrai capito, ho dato
un’occhiata a quel che è successo nei tre mesi e
mezzo della vostra
frequentazione. Ho verificato anche se quel che ti ha raccontato di
sé
corrispondeva o meno alla verità, sai, non dovendo farti
allenare avevo molto
tempo libero» fece spallucce «Non l’ho
mai incontrata personalmente, ma posso
dire di conoscerla almeno un po’, e… capisco che
possa essere rimasta
affascinata dal fatto che sei una divinità, ma per il resto
non so proprio
cos’abbia spinto una ragazza del tutto indipendente -e in
grado di fare anni
del nostro programma di matematica in tre mesi e mezzo - a interessarsi
a
qualcuno che non è neppure in grado di rifarsi il letto da
solo».
«Perché
dici queste cose? Perché?!»
gridò Beerus, cercando di nascondere con la rabbia il
fatto di essere stato ferito da quelle parole.
Cosa
credeva, Whis, che lui non lo avesse mai pensato?
Credeva davvero che non si fosse reso conto di quanto lui e Anise
fossero agli
antipodi, in quel senso? Certo che lo aveva fatto, solo un cretino non
se ne
sarebbe accorto, ma Beerus si era imposto di non creare problemi che
non
esistevano. Anise sarebbe diventata la sua Iarim Neiē e poi la sua
Neiē, quindi
un giorno sarebbe vissuta con lui nel palazzo, venendo a sua volta
assistita da
Whis in tutto e per tutto: il divario tra la rispettiva indipendenza
-mancata,
nel caso di Beerus- non si sarebbe avvertito affatto.
«Perché
sono realista».
No,
per Beerus non era “realista”: per Beerus era solo
un grandissimo
bastardo che, accortosi di non star ottenendo nulla con quella
punizione, aveva
deciso di cercare e colpire nervi scoperti.
“Sta
dicendo un mucchio di idiozie! Non sarò in grado di
rifare un letto, ma nessuno potrebbe offrirle più di quanto
possa offrirle io!
Io sono Lord Beerus, il Dio della Distruzione! Potrei darle tutto il
suo
mondo, potrei darle
una galassia, potrei
darle l’intero dannatissimo Universo se lei me lo
chiedesse!” pensò.
Era
la verità, peccato però che Anise non lo amasse
per
quel che avrebbe potuto darle materialmente -come gli aveva detto
più volte- e
che lui, per il resto, non fosse stato neppure in grado di accontentare
la sua
richiesta di fare una partita a scacchi.
“Credeva
di non avere nulla da darmi, ma forse è l’esatto
contrario, e sono io che pur con la mia immortalità, pur con
tutta la mia
potenza e la mia ricchezza, non ho nulla da offrirle”
pensò, con una certa
amarezza “Non ho null… un momento, ma cosa vado a
pensare?! Anise non fa che
dirmi che non è mai stata così felice in tutta la
sua esistenza, e che ora lo è
grazie a me, quindi chi se ne importa se non so rifare un letto o non
mi
piacciono gli scacchi! Chi- se- ne-
importa!”
Per
un attimo le parole del suo maestro gli avevano fatto
venire dei dubbi, ma se li era fatti passare, perché Anise
era sempre stata
così chiara che lui non aveva motivo di averne.
La
voglia di rivederla divenne ancor più grande, cosa che
Beerus non credeva fosse possibile. Doveva stringerla ancora tra le
braccia,
doveva sentirle dire ancora una volta che la rendeva felice, doveva
assolutamente vederla sorridere.
Il
desiderio divenne un imperativo.
Whis
avrebbe cercato di impedirgli di fuggire, ma lui
doveva assolutamente provare a farlo lo stesso, perché non
ce la faceva più.
«Beerus,
è-»
Non
sentì ciò che voleva dirgli il suo maestro,
perché
all’improvviso si alzò in volo alla massima
velocità che gli era consentita;
era intenzionatissimo a raggiungere il pianeta dei Lusan, e al diavolo
Whis, al
diavolo le regole, al diavolo tutto!
«Tu
credi veramente di poter scappare? Sei ingenuo!»
Sentì
solo la voce del maestro, ma curiosamente non accadde
altro, e tutto quel che Beerus avvertì fu uno spostamento
d’aria. Non che gli
importasse: lui aveva in testa solo un pensiero, ed era quello di
raggiungere
Anise.
Ci
fu un nuovo spostamento d’aria, poi altri ancora, ma
Beerus non se ne curò. Ormai stava per raggiungere la
nebulosa che avvolgeva il
suo pianeta, una volta attraversata sarebbe stato nello spazio aperto.
Con
la coda dell’occhio riuscì a notare la mano di
Whis
-che non aveva desistito anche se fino a quel momento non sembrava aver
fatto
proprio nulla- avvicinarsi pericolosamente; Beerus se ne rese conto
solo a
stento, ma il suo braccio si mosse da solo, e riuscì a
bloccare il colpo.
«LASCIAMI IN PACE!»
urlò poi, voltandosi d’improvviso a tirare un
pugno.
Sentì
qualcosa fare uno strano “crack”, intravide del
liquido caldo e nero sulla propria mano, ma non se ne curò:
lui doveva andare, doveva
andare, doveva-
Di
colpo si trovò davanti agli occhi il gelido volto del
maestro Whis, e per un attimo gli parve di vedere un rivolo nero
scorrere da
una delle sue narici.
«Ora
tu vai a
dormire».
Com’era
accaduto diciotto giorni prima in casa di Anise,
sentì solo un forte colpo alla testa, poi tutto divenne buio.
***
«Io
non riuscivo a crederci, sorella, ma se quello non era
Ultra Istinto allora non so proprio cosa fosse. Evitava i miei colpi,
ed è
riuscito perfino a segnarne uno» disse Whis, indicandosi il
naso «Probabilmente
non si è neppure reso conto di quel che mi ha fatto, ma te
lo dico io: ha
manifestato l’Ultra Istinto!»
Whis
era ancora estremamente sorpreso, e non sapeva se
essere felice del risultato raggiunto dal suo allievo o arrabbiarsi per
il naso
fortemente incrinato. Al momento provava un bizzarro miscuglio delle
due cose,
e per fortuna aveva avuto modo di parlarne immediatamente con la
sorella che
preferiva.
«Ammetto
che dal modo in cui l’ho visto muoversi sembrasse
proprio quel che dici, ma manifestarlo una volta per caso e imparare a
utilizzarlo sono due cose differenti» gli fece notare Vados.
Proprio
quel giorno aveva acconsentito alla richiesta di
Champa di essere portato dal Beerus, giudicando che fosse passato
abbastanza
tempo e che quindi ci fosse una vaga speranza che la punizione inflitta
a
questi
potesse aver fatto effetto, ma il breve scontro aereo tra Whis e
l’Hakaishin
del settimo Universo l’aveva disillusa.
«È
vero, ma intanto il mio
allievo lo ha manifestato. Altri non possono dire lo stesso, sebbene
abbiano
tra le mani Hakaishin ben più vecchi. Sembra proprio che
questi diciotto giorni
in punizione gli abbiano fatto bene!»
«La
punizione, dici?»
«Cos’altro,
se no?»
Vados
gli rivolse un’occhiata di puro compatimento.
«Davvero continui a non voler affrontare la
questione?»
«Non
so di cosa tu stia parlando».
«Credo
che Champa, che come puoi ben notare è sparito, sia
andato a cercare di svegliare suo fratello per dirgli che la sua a breve Iarim Neiē continua ad
aspettarlo. Perché sì, continua a farlo, nel caso
te lo sia chiesto» disse
Vados.
«E
Champa, che detesta suo fratello, andrebbe a dirglielo?»
«Non
per fare un favore al tuo allievo. Se hai dato uno
sguardo a quanto è successo in questi mesi dovresti aver
capito che Champa considera
Anise un’amica. Riesce a stare assieme a Beerus senza
rischiare di distruggere
l’Universo, pensa un po’».
Whis
non replicò, perché avendo dato
un’occhiata al passato
sapeva benissimo che Vados aveva ragione -come spesso accadeva.
«Pensa un po’»
ripeté, atono.
Vados
posò una mano sulla spalla del fratello. «Whis, tu
sei perfettamente consapevole di quale sia la situazione. Il tuo
allievo non se
la toglierà dalla testa, Lady Anise lo attende e ti assicuro
che continuerà ad attenderlo,
e al diciottesimo compleanno dei gemelli manca meno di un mese. Mi
rendo conto
che è folle lasciare che ufficializzino la loro relazione,
ma al momento non
c’è molto altro da fare… e ricorda, una
Iarim Neiē non è per sempre».
«Una
Neiē però lo è, e se Beerus continua
così…»
«L’hai
detto: Beerus! Ma non si può giurare da soli.
Ascoltami, Lady Anise è una ragazza alquanto… particolare» disse Vados
«Però devo riconoscere che non è una
sciocca. Non ti ascolterebbe se provassi a dirle di lasciare Beerus, ma
ritengo
che un discorso ragionevole sul fatto che sia meglio procedere con
cautela
riguardo giuramenti vincolanti e similia verrebbe perfettamente
recepito».
Whis
fece un lungo sospiro. Vados aveva ragione ancora una
volta: Lady Anise c’era, Beerus non se la sarebbe tolta dai
pensieri tanto
presto, e a quel punto la sola cosa saggia da fare era parlarle e
mettere in
chiaro tutto quel che doveva essere messo in chiaro.
Ad
alcuni dei suoi fratelli più vecchi era successo, era
capitato che si fossero trovati ad affrontare una situazione simile e a
dover
“scendere a patti” con delle Iarim Neiē, ma non
avrebbe mai pensato che potesse
succedere proprio a lui, e proprio con Beerus come allievo.
«Ho capito, farò
quello che devo. Non
che abbia
alternative».
«Bravo».
«Senti,
come sai mi sono un po’informato su questa ragazza,
ma sei tu ad averla frequentata di più, per cui ti chiedo:
quando dici che è
“particolare”, in che senso lo intendi? E poi,
quant’è particolare
precisamente?»
Vados
esitò. «Non è una maleducata,
è sempre pronta a
offrire cibo e ottimi infusi… però se ha qualcosa
da dirti lo fa, e capita che
in certi contesti le sue reazioni siano un po’ inaspettate.
Ti faccio un
esempio: pur avendo capito che sono stata io a dirti di lei e Beerus,
deducendo
con precisione com’è andato il tutto da alcuni
dettagli, mi ha chiesto di
giocare a scacchi».
«Sempre
più utile rispetto all’insultarti»
commentò Whis,
senza sorridere.
«Più
o meno è quel che ha detto anche lei».
Whis,
non sapendo bene cosa pensare, si passò una mano sul
volto. Vedeva potenziali seccature all’orizzonte, seccature
ovunque.
«Ma
guarda tu quello… decide di farsi atterrare proprio
oggi» si sentì borbottare Champa, di ritorno dal
viaggio in camera del fratello.
Era stato
più o meno infruttuoso, ma andava
comunque detto che il giovane Hakaishin era riuscito a trovare il
modo di dire a Beerus quel che Anise gli aveva chiesto di dirgli: con
un
pennarello indelebile aveva scritto un “lei ti
aspetta” sul braccio del suo
povero gemello privo di conoscenza.
Dopo
avergli disegnato sul volto un paio di occhiali.
E
dei baffoni.
E
avergli scritto “TONTO”
sulla fronte.
E
un “CHAMPA
REGNA” sul petto.
Quando
si sarebbero rivisti, Beerus avrebbe di certo
tentato di ucciderlo.
«Ehi,
quando Beerus si sveglia potresti dirgli che ho preso
in prestito qualcuno dei suoi videogiochi?» chiese il dio a
Whis.
«Lo
farò» annuì l’angelo.
Del
resto, per quanto immaginasse bene le proteste e le
imprecazioni di Beerus verso il fratello, quella non era la
conversazione più
ostica che a breve si sarebbe a breve trovato
ad affrontare.
Traduzione di "Dzhavarut’yunner":
"fai pena".
La condizione di Calida (mi riferisco al suo bizzarro rapporto col
dolore) può insorgere realmente. Trattasi di un particolare
tipo
di asimbolia, "asimbolia al dolore". Se ne parla sia
qui
-> https://www.pazienti.it/malattie/asimbolia che in altri siti.
Ho pubblicato
qualche ora prima del previsto per la stessa ragione dell'altra volta:
prima si cucina per Natale... poi però c'è il
Capodanno!
Altro capitolo
in cui avrei voluto mettere più cose, ma che si
è allungato in modo imprevisto. La conversazione con Whis
dunque
è rimandata al prossimo.
Auguro buon
anno a tutti in anticipo (:
|
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Capitolo 10 *** 10 ***
RMIcap10
10
“Eppure
da quel che ho visto non
mi era sembrato che fosse una strega…”
pensò Whis, sfiorando con delicatezza
una composizione di cristalli ialini “Nonostante il fatto che
viva da sola in
una casa nella foresta sia piuttosto tipico”.
Tornò
a camminare lungo il
sentiero erboso, avvicinandosi man mano alla casa di Anise. A giudicare
dallo
stato dell’intera struttura, che pure era ben tenuta, doveva
essere ben più
vecchia di lei, oltre che più grande di diverse case che
aveva potuto vedere
mesi prima nella città di Ulthmeer.
La
carriola abbandonata accanto
alla porta d’ingresso invece era piuttosto nuova, e
c’era una forte probabilità
che fosse stata costruita proprio dalla ragazza. Notò su di
essa un velo di
polvere beige chiarissimo sul quale, curioso, passò un dito;
scoprì che era
farina, che doveva essere stata prodotta nell’arco della
mattinata.
Porta
e finestre erano tutte
chiuse, ma ora che era tanto vicino all’abitazione riusciva a
cogliere un
delizioso profumo di dolci, probabilmente qualcosa con in mezzo della
cannella.
Batté più volte le ciglia, e sul suo volto
apparve l’ombra del suo solito
sorriso: forse aveva scelto il giorno giusto -ossia il ventesimo da
quando
aveva scoperto l’inganno di Beerus.
Sollevò
una mano per bussare, ma
la porta si aprì prima che potesse farlo.
«Buon
pomeriggio. Presumo che
lei sia il maestro Whis… mi perdoni se sono meno
“presentabile” del dovuto»
disse Anise, indicando la coperta in cui era avvolta e i capelli
raccolti in
una treccia un po’ scompigliata «Al momento non
sono troppo in salute, e la
febbre mi fa sentire freddo. Prego, si accomodi».
Dopo
un attimo di esitazione
dovuto all’essere stato colto alla sprovvista,
l’angelo attraversò la soglia.
«È molto gentile, Lady Anise. Mi auguro che si
rimetta presto».
«La
ringrazio… anche se so
benissimo che in realtà non le importa della mia salute.
Posso offrirle dei
biscotti? Sono alla cannella, li ho sfornati dieci minuti fa. Intanto
si sieda
dove vuole».
“Non è
una maleducata, è sempre pronta a offrire cibo e
ottimi infusi… però se ha qualcosa da dirti lo
fa, e capita che in certi
contesti le sue reazioni siano un po’ inaspettate”.
Non
erano passati neppure due
minuti, eppure aveva già più o meno capito
cos’aveva cercato di spiegargli
Vados, e per il momento non era in grado di stabilire se la giovane
stesse
giocando in attacco o in difesa. Si sedette per puro caso sulla
seggiola che di
solito veniva scelta da sua sorella. «Li accetto volentieri.
Dice di non essere
troppo in salute, eppure ha abbastanza energia per produrre la farina!
Ho visto
la carriola qui fuori».
«Se
la farina finisce devo
produrne altra, febbre o non febbre: non posso farla comparire
magicamente»
replicò Anise, atona, posando su un tavolino il vassoio con i biscotti «Per
noi mortali funziona così».
«Capisco»
rispose l’altro,
sebbene la sua attenzione fosse ormai totalmente rivolta ai biscotti:
perfettamente rotondi, perfettamente dorati, l’odore che
emanavano era
semplicemente divino «Ora assaggio uno di questi biscotti,
hanno proprio
un’aria squisita! Anche la consistenza sembra proprio
ottima!» esclamò,
entusiasta, rompendone uno a metà «Ora lo
assaggio…»
L’attimo
stesso in cui Whis mise
in bocca metà biscotto, un’esplosione di piacere
proveniente dalle sue papille
gustative pervase tutto il suo essere. Con gli occhi luccicanti e
completamente
spalancati, e un’espressione felice ed estatica sul volto
femmineo, l’angelo
iniziò a oscillare da una parte all’altra
emettendo un gridolino entusiasta.
“È
un suo modo per esprimere gradimento,
o gli sta venendo un attacco di qualcosa?” si chiese la
lince, osservandolo in
silenzio con aria completamente impassibile.
«È deliziooooooosooooo!»
“D’accordo,
è un suo modo per
esprimere gradimento” pensò Anise “Spero
per lui che non faccia così anche
quando ha un orgasmo”.
«Sono
dolci ma non stucchevoli,
friabili ma solo al punto giusto, la quantità di cannella
è perfettamente
bilanciata, e la cottura è perfetta! Assolutamente
perfetta!» esclamò l’angelo,
infilandosene in bocca altri due «Sono squisiti!
Magnifici!»
«Anche
Beerus li apprezzerebbe,
soprattutto dopo diciotto giorni nel bosco a patire la fame».
Il
commento di Anise mutò
l’atmosfera anche per Whis, ricordandogli che non era venuto
lì solo per
mangiare, ma per fare qualcosa che non aveva la minima voglia di fare,
ossia
parlare con quella che a breve sarebbe diventata la Iarim Neiē nel suo
allievo.
«Devo dedurre che mia sorella Vados e il suo allievo siano
stati qui ieri, o
l’altro ieri nel pomeriggio».
«Deduzione
corretta, e io ho la
conferma che voi angeli abbiate un’ottima capacità
di ripresa. Il suo naso è
perfettamente guarito».
«Lei
e Champa parlate molto»
commentò Whis, che ormai non sorrideva più.
«Siamo
amici» disse la ragazza
«Lei dovrebbe saperlo: se si è informato
abbastanza sulla sottoscritta da
sapere che produco da sola la farina, e che dunque le tracce rimaste
sulla
carriola lì fuori non provengono da sacchi confezionati in
città, dev'essere a
conoscenza anche del resto».
«Non
mi dirà che dopo la
conversazione avuta con Champa ha immaginato un mio possibile arrivo e
l’ha
lasciata lì fuori di proposito, per indurmi a fare un
commento rivelatore a
riguardo?»
«No,
macché. Sta sopravvalutando
questa povera Lusan febbricitante, signor Whis…»
disse Anise, per poi muovere
di scatto un orecchio sentendo un leggero fischio provenire da una
delle stanze
attigue «L’acqua per l’infuso sta
bollendo, mi dia un attimo e sarò subito da
lei. A proposito, ne gradisce una tazza? È agli
agrumi».
«Va
benissimo, la ringrazio»
rispose lui, senza particolare entusiasmo; non per l’infuso,
che di certo
sarebbe stato molto buono, ma per il contesto generale.
Qualche
minuto dopo lui e Anise
si trovarono seduti uno davanti all’altra in silenzio, ognuno
con la propria
tazza piena d’infuso. Nessun sembrava avere troppa voglia di
parlare con
l’altro, ma sapevano che prima o poi uno dei due doveva pur
iniziare.
«Direi
di non aggiungere
ulteriori convenevoli» esordì Anise «Lei
deve aver capito che Beerus non si
dimenticherà di me in un mese e mezzo -come io ovviamente
non mi dimenticherò
di lui-, che gli intenti del suo allievo di rendermi la sua Iarim Neiē
sono
molto seri, e che nonostante la punizione non c’è
proprio speranza di fargli
cambiare idea: se avesse intravisto anche solo una minuscola
possibilità di
riuscirci non si sarebbe scomodato a venire qui da me, presumo per
stipulare un
accordo di “non belligeranza”… e/o di
“non intralcio”».
«O
forse sono qui per ucciderla
dopo aver mangiato e bevuto» disse l’angelo, con la
massima tranquillità.
«Se
avesse voluto uccidermi
sarei morta già da qualche giorno, ne sono certa. La invito
a mettere le carte
in tavola».
«Molto
bene» disse Whis, bevendo
qualche sorso di infuso «Io ritengo che quest’idea
di Beerus di renderla la sua
Iarim Neiē sia una completa follia, sebbene non irrimediabile.
È troppo presto
e, diciamocelo, lei e Beerus non c’entrate proprio nulla
l’uno con l’altra».
«Immagino
che il mio “bagaglio”
abbia influito non poco sulla sua opinione».
«Sì,
ma voglio spiegarle bene in
quale senso: avrà notato che Beerus è un
diciottenne che ha avuto esperienze da
diciottenne, mentre lei è una diciottenne, ma ha avuto
esperienze degne di una
trentenne/quarantenne particolarmente sfortunata -sebbene non sia stata
colpa
sua. Per non parlare del fatto che, guardi! Lei vive da sola, lui non
sa
neppure cuocersi un uovo!» le fece notare l’angelo
«Tutto ciò crea un abisso
tra lei e Beerus. Mi capisce?»
«Sì,
ma capisco anche che tra le
“esperienze da diciottenne” di Beerus
c’è l’avere miliardi di vite sulla
coscienza in virtù del suo ruolo di Hakaishin»
ribatté la Lusan «Le mie sono
state esperienze dure, ma sostenere un compito del genere non
è da meno. Beerus
ha avuto a che fare con la morte fin da piccolo, ed è sempre
stato perlopiù
temuto e odiato ovunque andasse, prima a causa del suo potere, poi
anche a
causa della sua posizione: a diciotto anni non è facile
trovare un equilibrio
che permetta di convivere con tutto questo, eppure lui ci sta
riuscendo. I suoi
pregi compensano i suoi difetti, è più maturo di
quello che sembra, e… non sa
cuocersi un uovo? Francamente me ne infischio».
«Immagino
sia facile
infischiarsene, sapendo che se in futuro diventasse la sua compagna
immortale
non sarebbe mai lei a dover cuocere le uova o a sbrigare le faccende di
casa»
obiettò Whis, pur avendo capito che non avrebbe mai potuto
“colpirla”
ricordandole che Beerus non era affatto indipendente.
«A
quello penserò se e quando
sarà il momento. Il presente e l’immediato futuro
non contemplano immortalità e
trasferimenti».
Sentendo
quelle parole, Whis
trattenne un sospiro di sollievo. «Lieto di trovarla
ragionevole da questo
punto di vista. Mi auguro che saprà convincere Beerus a
esserlo altrettanto».
«Qualunque
cosa io facessi in
quel caso sarebbe più efficace della punizione che gli ha
inflitto».
«Lady
Anise, Beerus non è il mio
primo Hakaishin. Mettere bocca sui miei metodi non è un buon
modo per dar vita
a un’alleanza fruttuosa, e mi sembra ovvio che io non potessi
lasciare che quel
che Beerus ha fatto fosse del tutto privo conseguenze».
«Se
la nostra dev'essere
un’alleanza ho tutto il diritto di esprimere la mia opinione
riguardo certe
cose» ribatté lei «Se tenerla in
considerazione o meno poi è affar suo. Io dico
che poteva chiuderlo in camera sua -senza fumetti, anime e videogiochi-
e, che
so, nutrirlo con pane e acqua: sarebbe stata sempre una punizione
pesante che
gli avrebbe impedito di rivedermi. Spedirlo nel bosco e fargli rivivere
quel
che ha vissuto quando era un bambino invece rasenta il sadismo, ed
è stato
anche completamente inutile. Se vuol mantenere un buon rapporto
maestro/allievo, non è questo il modo».
«Lady
Anise, le ho già detto che
non sono alla mia prima esperienza».
«E
io le credo, ma quel che ha
fatto resta inutile in ogni caso, o non saremmo qui a
chiacchierare».
«Ho
sottovalutato l’infatuazione
di un adolescente, nulla di più. Non pensavo che Beerus
potesse essere
veramente così sciocco da proporre di diventare la sua Iarim
Neiē alla prima
ragazza che ha copulato con lui senza essere pagata, mi
comprenda» replicò
Whis, asciutto.
Anise
bevve un sorso d’infuso.
«Comprendo. La consapevolezza che tutto è
scaturito dall’aver abbandonato
Beerus di notte in questa foresta dev’essere alquanto
irritante per lei».
La
ragazza aveva centrato il
punto, perché quel che a Whis seccava di più in
tutto ciò era proprio l’aver
commesso diversi errori che avevano causato la situazione attuale, e
anche che
i suoi tentativi di riparazione non fossero andati a buon fine -Ultra
Istinto a
parte, che era un immenso traguardo.
Anzi,
no, c’era qualcosa che era
ancor più seccante: il fatto che Anise lo avesse capito.
«Non quanto può
credere. Non è nulla di irrimediabile, come ho
già detto. Per quanto quella
della Iarim Neiē sia una posizione ufficiale, presenta ancora delle vie
d’uscita. Lady Anise, presumo le abbiano detto del giuramento
della Neiē,
giusto?»
«È
un giuramento reciproco e
vincolante, non è troppo diverso dal
matrimonio…»
«Le
hanno detto quali sono le
conseguenze se viene infranto?»
Anise
fu costretta a scuotere il
capo in un cenno di diniego.
«“Giuro
che non avrò mai altri
che te,
finché
avrò vita”» recitò
Whis «Fare un simile giuramento significherebbe dover restare
insieme in eterno
in qualsiasi caso, anche se arrivaste a odiarvi. Infrangerlo porterebbe
alla
morte di entrambi, senza possibilità di ritorno.
È un vincolo pericoloso».
Se
non le stava mentendo, e
Anise dubitava che fosse così perché non avrebbe
impiegato troppo a trovare conferme,
allora quel giuramento era pericoloso sul serio. «Si spieghi
più nei dettagli.
Mettiamo che Beerus, una volta fatto il giuramento, un giorno inizi a
provare
dei sentimenti per un’altra donna: in quel caso moriremmo
subito tutti e due? O
dovrebbe esserci un tradimento “fisico” di
qualunque genere, fatto per
l’appunto con l’intenzione di tradire?»
«La
seconda che ha detto, e non
avrei saputo spiegarmi meglio. Serve un’azione fisica fatta
con l’intento di
tradire. La morte di entrambi tuttavia sopraggiunge anche nel caso in
cui uno
dei due riesca a uccidere intenzionalmente l’altro»
aggiunse l’angelo.
«E
se per disgrazia fosse
qualcun altro a uccidere l’Hakaishin o la sua Neiē?»
«Morirebbe
solo l’Hakaishin o
la/il Neiē, ma c’è da dire che di solito il
sopravvissuto si uccide o si fa
uccidere a sua volta. In certi casi l’hanno fatto cercando
una dolce fuga dal
dolore, ricongiungendosi al compagno morto
nell’aldilà. Altri lo hanno fatto
per non restare da soli: “finché avrò
vita”
significa restare fedeli a un partner morto, quindi si sono detti che
tanto
valeva raggiungerlo. Che io sappia sono soltanto due gli Hakaishin che
hanno
avuto dei Neiē per un periodo lunghissimo, che sarebbe veramente potuto
essere
eterno: erano gli Hakaishin del quindicesimo e del tredicesimo
Universo».
«Sono
stati cancellati. Beerus
mi ha parlato di questa cosa, mi ha detto che avevano un…
come si chiama…
“Mortal Level” troppo basso».
«Quei
due Hakaishin hanno
pensato troppo all’amore e poco al dovere. Lady Anise, anche
come Iarim Neiē
sarà fondamentale che lei spinga Beerus a svolgere
diligentemente il suo
compito, e a continuare ad addestrarsi per diventare sempre
più forte» disse
l’angelo, in tono serio «Beerus ha un potenziale
come di rado se ne sono visti
in qualunque Universo, potrebbe diventare uno tra gli Hakaishin
più potenti che
siano mai esistiti, quindi lui dovrà continuare ad
ascoltarmi, e lei dovrà far
sì che questo accada».
«Eccoci
alla stipula del patto
di non intralcio».
«Lei
dovrà mitigare le
intemperanze e i momenti di ribellione di Beerus, spingendolo a fare
quel che
ho detto prima: svolgere il suo dovere di Hakaishin, allenarsi, e anche
studiare. Io a quel punto non intralcerò la vostra
relazione, avrete tempo
sufficiente per viverla, e…» sospirò
«Una volta che Beerus raggiungerà i
diciotto anni io diventerò il suo assistente, come sa, e se
diventerà la sua
Iarim Neiē sarò tenuto ad assistere anche lei.
Esclusivamente nei frangenti in
cui saremo tutti e tre insieme, ovvio» specificò
Whis «In breve, dovremo far
fronte comune senza mai mostrarci in disaccordo davanti a lui.
Dev’essere instradato e
plasmato nella giusta
maniera, e se due persone gli sussurreranno all’orecchio la
stessa cosa sarà
più propenso a farla».
«Se
si fosse fermato a “dovremo
far fronte comune” avrei trovato tutto piuttosto
ragionevole» disse Anise «Le
ultime frasi invece mi dicono che Beerus, così facendo,
sarebbe poco più di un larery
pupaidean» ossia un burattino,
nella lingua dei Lusan «nelle sue mani, e che io dovrei
aiutarla a non far
spezzare i fili».
«Quello
di convincersi di avere
un’autonomia che invece non esiste è il destino di
ogni Dio della Distruzione.
Cos’è, l’ho sorpresa?» chiese
ad Anise, notando la breve comparsa di
un’espressione un po’stupita «Si
aspettava che negassi? Nel nostro caso ritengo
che prenderci in giro sarebbe inutile. Gli Hakaishin si rivolgono a noi
per
qualunque cosa, che sia per mangiare, per andare da qualsiasi parte, o
per
decidere se finanziare o meno qualcuno. Diciotto anni o no, nella
stragrande
maggioranza dei casi la vera decisione
finale sull'una o l'altra questione non spetta a loro: dove non
possiamo o non
vogliamo imporci, li convinciamo, o almeno ci proviamo. Ora che sa come
stanno
le cose, se lei vuole veramente rimanere insieme a Beerus deve anche
accettare
l’idea di diventare un burattino a sua volta, o
l’assistente del burattinaio».
«Aveva
preparato questo discorso
prima di venire qui, vero?»
«A
dir la verità, no» la smentì
l’angelo «Il discorso che avevo preparato era
più imbottito di sentimentalismi
e incentrato sul benessere di Beerus, che pure è importante.
Non pensi che non
mi importi per nulla di lui, l’ho preso quando era un
cucciolo».
«Come
no… è così tanto
affezionato a Beerus da divertirsi a fargli rivivere traumi
infantili».
«Senta,
io non mi sono divertito
affatto. Mi creda se le dico che avrei preferito evitare tutto questo e
continuare ad avere con lui un fruttuoso e sereno rapporto tra maestro
e
allievo, ma Beerus si è messo in testa di seguire quello
scellerato piano di
fuga, e non è stato possibile. A tal proposito, la strategia
che gli ha
consigliato era d’una tale ingenuità che rasentava
quasi la totale stupidità».
«Quel
piano non era mio» smentì
la ragazza «Lo ha congegnato tutto da solo, e io gli ho
ripetuto spesso che era
molto peggio che rischioso, in quanto composto più di falle
che di sostanza».
«Davvero?
Se lo trovava
“composto più di falle che di sostanza”
allora perché, dall’alto del suo acume,
non ha trovato un’idea migliore?» le
domandò Whis, sollevando un sopracciglio.
«Semplice:
perché pur essendo un
piano ingenuo che rasentava la stupidità, il terzo soggetto
coinvolto ha
permesso che funzionasse fino a quando non ha ricevuto una soffiata
dalla
sorella. Con rispetto parlando».
Whis
preferì non fare commenti,
non volendo scadere in una volgarità che non gli apparteneva
affatto. Il suo
solo desiderio al momento -condiviso da Anise- era quello di concludere
una
conversazione faticosa. «Ovviamente. Noto che ha scelto un
approccio un po’più
diretto».
«Non
ci piacciamo molto, lo
sappiamo tutti e due, quindi credo sia bene cercare almeno di essere
sinceri
uno con l’altra» disse la Lusan «Dunque,
concluso il nostro patto di non
intralcio-»
«Allora
accetta di aiutarmi a
non far spezzare i fili?» la interruppe Whis.
«Ho
alternative?»
«No».
«Appunto.
Stavo dicendo:
concluso il nostro patto di non intralcio, quando mi lascerà
vedere Beerus?»
La
ragazza cercava di mantenere
una perfetta calma, ma Whis riuscì a captare il gran
desiderio di rivedere
Beerus dal tono con cui gli aveva rivolto quella domanda. Sebbene fosse
brava a
mantenere i nervi saldi, era sempre una persona innamorata
-nonché con la
febbre. «Se mi dà tutti i biscotti alla cannella
posso portarla da lui anche
subito. Sempre che con la febbre riesca a sostenere il viaggio di due
ore».
«Non
mi importa niente della
febbre, e ho fatto un bagno all’evkalipt
prima che lei arrivasse, quindi passerà entro
oggi» minimizzò Anise «Si prenda
questi benedetti biscotti alla cannella e mi porti da lui».
Whis
fece comparire il bastone,
e dopo un breve lampo di luce verde azzurra tutti i biscotti erano
impacchettati e pronti da portare via, e con essi anche
l’infuso, messo tutto
in un thermos. «Ohohoh, quanta fretta! Neppure fosse un
secolo che non vi
vedete. Fa quasi ridere».
«Non
mi stupisce che una persona
che ha Lulù come unica compagna non sia in grado di
capire» replicò Anise, con
la massima calma.
Mentre
uscivano dall’abitazione,
Whis le diede un’occhiata perplessa. «Non so cosa
possa averle detto Beerus, ma
io non conosco nessuna Lulù. Chi dovrebbe essere?»
«Lulù,
la mano che va su e giù».
«Mi
prenda a braccetto, Lady
Anise… ecco, ottimo. Ad ogni modo, ho la sensazione che
questa “Lulù che va su
e giù” riguardi qualcosa che ha a che fare con la
copula e argomenti affini. Ha
a che fare con la copula e argomenti affini?»
«Beh,
direi di sì».
«Allora
si vergogni» concluse
Whis, lanciandole un’occhiata di disappunto prima di battere
il bastone a terra
e sparire con lei in un lampo di luce bianca.
***
«Io lo uccido, quel deficiente!» ringhiò
Beerus, guardandosi allo specchio.
Si
era svegliato poco prima, e
all’inizio, non ricordando bene quant’era accaduto,
aveva creduto di essere
sempre nel bosco; poi però si era reso conto che quel che
stava sotto di lui,
qualunque cosa fosse, era veramente troppo morbido per essere muschio.
Quando
aveva aperto del tutto
gli occhi e si era guardato attorno si era reso conto di trovarsi nella
propria
camera da letto… o comunque in qualcosa che somigliava ad
essa. Le pareti di
roccia viva erano sempre le stesse, ma della statua del serpente dorato
si
vedeva sbucare solo la testa, al di sotto della quale era stato messo
il letto
-diventato il doppio più grande di quel che Beerus
ricordava: sembrava che il
maestro, per qualche oscura ragione, avesse spostato l’intero
arredamento al
piano terra. Beerus aveva notato anche che il pavimento ora era coperto
da vari
tappeti, e che qui e là erano state aperte finestre che
rendevano l’ambiente
molto più luminoso.
Vagando
nella stanza
aveva notato anche altre aggiunte di mobilio: un grosso armadio di
legno, un
paravento, un largo scrittoio anch’esso di legno, tutte
aggiunte di cui non
riusciva proprio a capire l’utilità. Poi aveva
visto lo specchio, la sola cosa
che potesse servire tra tutte quelle novità…
«Io
lo strangolo!» continuò il
dio, cercando senza successo di pulire le scritte e i disegni di
inchiostro
indelebile lasciate da Champa due giorni prima «Anzi, prima
gli stacco la coda
e gliela faccio ingoiare, poi gli strappo le orecchie e gliele infilo
su per
il-»
Si
bloccò, notando solo in quel
momento una scritta sul braccio sinistro che ben poco aveva a che
vedere con
tutte le altre: “lei ti aspetta”.
Osservò
per lunghi momenti
quella scritta senza dire o fare nulla, con la fervida speranza che
fosse vero,
che Anise avesse veramente capito cos’era successo e che lo
stesse davvero
aspettando… ma sì! Certo che era
così!, si disse poi, pensando che difficilmente
Champa gli avrebbe lasciato quel messaggio senza la richiesta precisa
di Anise.
Sapere
che lei non pensava di
essere stata usata e che lo aspettava fu un immenso sollievo per
Beerus. Ormai
al suo compleanno mancava meno di un mese, quindi lui e Anise sarebbero
stati
di nuovo insieme: si trattava “soltanto” di
continuare a portare pazienza…
anche se non sarebbe stato facile, perché il desiderio di
vederla che lo aveva
spinto a tentare una fuga disperata dal pianeta e dal maestro Whis non
si era
ancora sopito.
Già,
a proposito: dov’era Whis?
Era strano che non fosse con lui al suo risveglio, magari pronto a
mandarlo di
nuovo nel bosco. Cercò di percepire la sua aura, ma non ci
riuscì: sembrava che
non gli fosse possibile percepire le aure al di fuori di quella stanza,
ed era
una cosa ben più che strana. Doveva essere dovuto a un
incantesimo del suo
maestro, ma perché?
Guardò
di nuovo la scritta sul
braccio, e a quel punto venne assalito da un pensiero atroce:
“e se Whis,
vedendo che la punizione non sortiva effetti e letta la scritta sul
braccio,
avesse deciso di togliere mezzo il problema uccidendo Anise?”
Non
sarebbe stato il modo di
agire tipico di un angelo, a livello razionale lo sapeva bene, ma in
quel
momento il raziocinio di Beerus era andato in vacanza.
«WHIS!» urlò il dio,
in completo allarme, scaraventandosi contro la
porta in un infruttuoso tentativo di sfondarla «Se sei ancora
qui, non andare!
Non ti azzardare a farle del male, non ci provare, capito?! Lei non ha
fatto
nulla! WHIS!»
Colpì
con tutto quel che aveva
sia la porta che le pareti, e perfino il soffitto, ma ogni suo colpo
veniva
assorbito da un campo di forza verde azzurrino che inglobava tutta la
stanza e
che si mostrava soltanto nei momenti in cui tentava di intaccarlo.
«Se
le fai del male dovrai trovarti un
altro Hakaishin! MI HAI SENTITO?! DICO SUL
SERIO!» gridò
ancora, arrivato alla disperazione, battendo ripetutamente i pugni
contro la
porta -o meglio, contro la barriera «Whis! Whis!»
Dopo
l’ultimo potente -e
inutile- pugno alla barriera, Beerus poggiò mani e fronte
contro la porta.
L’abisso di sconforto in cui si sentiva precipitare era
grande quanto quello di
impotenza del quale aveva già toccato il fondo. Da fuori non
giungevano
risposte, non giungevano segni di vita in genere: Whis poteva essere
già andato
via, e Anise poteva essere già stata ridotta in pulviscolo
spaziale senza che
lui potesse fare assolutamente nulla per evitarlo.
Si
sentiva perfino peggio del
giorno in cui Champa era andato da Anise per la prima volta, con la
differenza
che in quel caso non sarebbe potuto scappare per andare da lei a
verificare
come stesse, né avrebbe potuto fare nulla per vendicarla:
era più forte di suo
fratello, ma contro il maestro Whis non aveva proprio speranze di
riuscire a
combinare alcunché.
Si
trascinò a letto e assunse
una posizione semi fetale, macerando in uno stato d’ansia che
nei suoi neppure
diciotto anni di vita aveva provato molto di rado. Si era preoccupato
così
tanto solo a quattro anni, per Champa, prima di capire che
quell’inutile
piagnucolone buono solo a lamentarsi di continuo non meritava neppure
un
briciolo di interesse da parte sua.
“Non
può ucciderla. Non può
farlo davvero, non deve farlo! Lei non merita di morire, e tantomeno di
farlo
solo perché mi sta aspettando! Whis non può
ucciderla solo per questa ragione,
non è giusto, e la colpa è di nuovo mia,
perché se io non le fossi stato
attorno…” pensò, stringendo le coperte
tra i pugni “o in alternativa potevo
fingere di essere pronto a lasciarla perdere, e poi il giorno del mio
compleanno… no, Whis avrebbe capito che lo prendevo in giro,
sarebbe stato
peggio. Ma cosa c’è peggio di questo? Se Anise
muore per questo motivo non sarò
mai in grado di perdonarmelo”.
Dopo
circa un quarto d’ora
passato a disperarsi e maledirsi, sentì il fievole cigolio
dei cardini della
porta che si stava aprendo. Parte di lui avrebbe voluto alzarsi
immediatamente,
ma l’altra, quella che lo teneva inchiodato nel letto, gli
causava un’angoscia
tale -quella di sentirsi dire da un momento all’altro
“Lei è passata a miglior
vita, Beerus, il problema non sussiste più”- che
non riusciva neppure ad alzare
lo sguardo.
Non
voleva vedere nulla, non
voleva sentire nulla, chiuse le palpebre e si coprì perfino
le orecchie con le
mani: non intendeva accettare la realtà che aveva attorno,
se in quella realtà
Anise non era contemplata.
Suo
malgrado gli parve di
cogliere un “Non sono io che l’ho ridotto
così, l’ultima volta che l’ho visto
sveglio mi ha incrinato il naso!”, ma non poteva esserne
certo, e non gli
importava neppure.
«Beerus…»
Qualcuno
era salito sul letto,
lo stava chiamando, e lui lo sentiva nonostante le orecchie coperte. La
voce
gli sembrava quella di Anise, ma lei non poteva essere lì:
poteva essere ancora
viva sul pianeta dei Lusan, o morta per colpa di Whis, ma non
lì con lui. Il
profumo di evkalipt che sentiva era
sicuramente uno scherzo beffardo del suo cervello.
«Apri
gli occhi, per favore…»
Non
meno beffardo dello scherzo
che gli stava giocando in quel momento, perché stava
sentendo le carezze
della sua ragazza sul viso, e in
seguito quando venne abbracciato da lei -o comunque da quella che il
suo
cervello lo stava inducendo a credere fosse lei- le avvertì anche sulla schiena.
«Apri
gli occhi, va tutto bene,
non è un sogno o un’allucinazione, io sono qui per
davvero! Beerus, sirel ym, aystegh an seo!»
Conosceva
il significato di sirel ym, ossia
“amore mio”, ma non
aveva mai sentito il resto di quelle parole che, tuttavia, suonavano
come dei
reali vocaboli nella lingua dei Lusan.
Se
lui non le aveva mai sentite,
il suo cervello non poteva riproporgliele… e se il suo
cervello non poteva
riproporgliele, allora c’era veramente una Lusan che gliele
stava dicendo.
Tolse
le mani dalle orecchie e
spalancò gli occhi di scatto, trovandosi a guardare quelli
azzurro cupo di
Anise.
«Aystegh an seo, sono qui» la
sentì ripetere ancora, mentre
l’abbraccio diventava più forte «E qui
rimarrò».
Non
sapeva come fosse possibile,
ma era tutto vero, meravigliosamente vero: Anise non era ridotta in
pulviscolo
spaziale, ed era proprio lì sul letto insieme a lui.
Le
braccia del dio si mossero da
sole, e la strinse a sé nascondendo il volto contro il collo
della ragazza. Il
sollievo che stava provando era indescrivibile, pari a quello di una
persona
che trova un’oasi dopo aver passato giorni dispersa nel
deserto.
Non
avrebbe più permesso a
niente e nessuno di dividerli, non avrebbe più passato del
tempo a temere di
poterla perdere o di averla già persa: giurò a se
stesso che l’avrebbe tenuta
accanto a sé più che avesse potuto, in modo di
sapere sempre come stava e di
essere pronto a proteggerla nel caso lei avesse bisogno.
Se
lo era già ripromesso in più
occasioni ma, di nuovo, Beerus si disse che non l’avrebbe mai
lasciata andare,
mai, in nessunissimo caso: chiunque
avesse voluto separarli sarebbe dovuto passare sul suo cadavere, e
uccidere il
Dio della Distruzione direttamente era
alquanto complicato.
Infilò
le dita di una mano tra i
capelli di Anise, continuando a stringerla a sé con
l’altra, e cominciò a
baciarla con l’intensità tipica di un ragazzo che
non rivedeva l’amata da -a
parer suo- lunghissimo tempo. Com’era riuscito a fare a meno
di quelle labbra,
di quel “sirel ym”
che gli stava
ancora sussurrando tra un bacio e l’altro, di quel corpo
premuto contro il suo?
Alla
gioia di averla nuovamente
tra le braccia si mescolò un’ondata di desiderio
allo stato puro, alla quale
Beerus non poteva né voleva resistere. Lasciò le
labbra della lince per andare
a baciarle il collo, le sue mani scesero a cercare l’orlo
della gonna di Anise,
e poi…
Una
secchiata d’acqua gelida lo
colpì con precisione chirurgica, bagnando soltanto lui -in
barba a ogni legge
della fisica- facendolo staccare da Anise con delle esclamazioni di
sorpresa.
«Ops.
Temo di aver perso la
presa sul secchio» disse Whis, che teneva tra le mani un
secchio di metallo
ormai vuoto.
«E
cosa diamine ci facevi qui
con un secchio in mano, si può sapere?!»
sbottò Beerus, bagnato fradicio, fulminando
il suo maestro con un’occhiataccia.
«“Grazie
per aver portato qui la
mia ragazza, maestro Whis”. Prego, Beerus, non
c’è di che. A chi ho insegnato
l’educazione, mi domando?» sospirò
l’angelo.
«Strano
che io sia asciutta, in
teoria quella secchiata avrebbe dovuto colpire anche me»
osservò Anise.
«Non
ha torto, ma lei ha la
febbre, dunque è una fortuna che non sia successo. Non
trova?»
«Hai
la febbre?!» esclamò il dio
«Ma certo, che idiota, eppure ho sentito benissimo
l’odore di evkalipt.
Avrei dovuto capirlo subito,
io-»
«Beerus,
passa. Non è niente, un
po’di febbre non mi ucciderà» sorrise la
Lusan «Non è importante. Quel che è
importante al momento è che tu ti tolga quel pigiama
bagnato, altrimenti verrà
la febbre anche a t- ah no, come non detto, dimentico sempre che le
divinità
non si ammalano».
«Tu
però sì, quindi infilati
sotto le coperte e non discutere» le intimò Beerus
«E magari nel mentre vi
degnerete di spiegarmi com’è possibile che
tu… insomma, tu eri totalmente
contrario» disse rivolto a Whis, iniziando a togliersi il
pigiama.
«Fermo
lì!» lo bloccò l’angelo
«C’è un paravento, utilizzalo».
«Ma
i Lusan non hanno problemi
con la nudità, e poi lei mi ha già
vist-»
«Paravento!» lo interruppe il
maestro, sollevando il bastone per
indicare l’oggetto.
Mettersi
a discutere con Whis in
modalità Censore Moralizzatore sarebbe stato inutile -forse
anche
controproducente- per cui, dopo un numero indefinito di sbuffi e
borbottii,
Beerus alzò gli occhi al soffitto, prese i suoi abiti e
andò a cambiarsi dietro
il paravento. «Ma che idiozia…»
«Ti
ho sentito!» lo riprese
Whis.
«Lo
so benissimo!» ribatté
Beerus, sfilandosi il pigiama e l’intimo «Allora?
Volete spiegarmi come stanno
le cose sì o no? Quando mi sono accorto di essere bloccato
qui e di non sentire
la tua aura, Whis, ho pensato… non eri molto contento del
fatto che io voglia
fare di lei la mia Iarim Neiē, per cui ho temuto che tu volessi,
insomma,
risolvere il “problema” in un modo che non mi
sarebbe piaciuto».
«Lo
hai pensato sul serio? Beerus,
credevo che mi conoscessi!» esclamò
l’angelo.
«Infatti,
non si sporcherebbe
mai le mani uccidendomi di persona» aggiunse Anise, con una
tranquillità un
po’fuori luogo.
Whis
tossicchiò. «In ogni caso,
i tuoi pensieri non sono stati molto sensati. Avresti dovuto capirlo
anche solo
vedendo il modo in cui ho modificato questo luogo: se avessi voluto
uccidere
Lady Anise, perché mai avrei dovuto rendere la tua stanza
una camera da letto
adatta a ospitare due persone? Ho anche raddoppiato le dimensioni del
letto,
buon cielo! Il mio intento era soltanto parlarle, dal momento che siete
entrambi così convinti della vostra relazione».
Beerus
iniziò a rivestirsi,
riconoscendo che il suo maestro non aveva tutti i torti. «Non
sono stato in
grado di ragionare lucidamente, lo riconosco, però ero preso
da altri pensieri.
Ripeto: per quel che sapevo io, tu non eri contento».
«È
vero, non era troppo felice,
ma dopo aver conversato con me ha cambiato opinione» disse
Anise «Abbiamo o no
trovato una buona intesa, signor Whis?»
«Oh
sì! Io e Lady Anise ci siamo
capiti alla perfezione, è innegabile» disse
l’interpellato, facendo comparire
il thermos contenente l’infuso agli agrumi.
«Visto?
Tu eri contrario, ma io
ero sicuro che una volta conosciuta ti sarebbe piaciuta quasi quanto
piace a
me» disse Beerus, ingenuamente soddisfatto, mentre indossava
i pantaloni.
«Gli
sono piaciuti anche i miei
biscotti alla cannella, durante il viaggio ha mangiato tutti quelli che
avevo
fatto».
«Tutti?! Maestro Whis, non me ne hai
lasciato neppure mezzo?!» si
indignò Beerus, affacciandosi da dietro il paravento.
«Tu
hai mangiato a mia insaputa
una quantità incalcolabile di dolci di Swetts, e non osare
negarlo, perché
l’hai ammesso tu stesso venti giorni or sono»
ribatté Whis «Quindi non hai
proprio il diritto di rimproverarmi!»
«Va
bene, ma-» sentendo un odore
familiare, Beerus uscì da dietro il paravento e
iniziò ad annusare l’aria
«Questo profumo… l’infuso agli
agrumi!» esclamò, indicando il thermos che
l’angelo teneva in mano «Non contento di esserti
preso i biscotti, stai anche
tracannando il suo infuso! Fammi almeno bere quello!»
«Spiacente,
è mio».
«Ma
i biscotti!...» protestò il
dio.
«Ma
i dolci di Swetts!...» lo
imitò Whis.
«“Ma”
facciamo che l’infuso lo
beve la povera lince malata, ossia io» concluse Anise,
togliendo il thermos
dalle mani di Whis «Voi due avete altro a cui pensare, ossia
al modo in cui
togliere quelle scritte dal corpo di Beerus! Ti trovo bellissimo sempre
e
comunque, ma quel “tonto” sulla fronte non ti dona
proprio. Champa è sempre il
solito…»
Beerus
si batté una mano sulla
fronte. «È vero! Me ne ero dimenticato. Appena lo
rivedo lo concio per le
feste, sta’ sicura!»
«Oh,
giusto: Champa mi ha detto
di dirti che ha preso in prestito alcuni dei tuoi
videogiochi» lo informò Whis.
«COSA?! Mi ha rubato i videogiochi?!»
urlò Beerus «Ma io lo uccido
sul serio! Lo distruggo! Lo faccio dimagrire a suon di botte!»
«Sì,
sì, lo uccidi sul serio,
intanto andiamo a fare il bagno» sospirò Whis,
spingendolo fuori dalla stanza.
«Già,
ma se dovevo fare il bagno
qual è stata l’utilità di cambiarmi
d’abito?»
Whis
fece spallucce. «Lo chiedi
a me? Sei tu che sei andato dietro il paravento con in mano i tuoi
abiti,
invece di una vestaglia».
«Seh,
vabbè. Anise, tu bevi
l’infuso e non muoverti da quel letto: non ti
lascerò andare via da qui prima
che la febbre sia passata del tutto» la avvisò
Beerus.
La
Lusan, per nulla dispiaciuta
all’idea, alzò le mani. «Va
benissimo».
«Non
preoccuparti, io torno
presto» disse il dio.
Whis
alzò gli occhi al cielo.
«Ma sentitelo, neppure stesse andando in guerra! Muoviti,
su!»
Beerus
finì per obbedire, col
senso di leggerezza provato da chi pensa di aver superato il peggio.
Whis, che
era l’ostacolo più grande, ora approvava Anise e
aveva anche predisposto la
camera da letto perché potesse accogliere due persone: era
fatta, era tutto a
posto… e il countdown dei giorni che mancavano al suo
compleanno, e dunque alla
proposta che avrebbe fatto ad Anise, era ufficialmente in corso.
E dopo venti
giorni, ce l'hanno fatta!
Stavolta non ho altro da dire, se non che mi auguro che il disegno qui
sotto non vi dispiaccia troppo -anche se è un po'stupido e
puerile- e che lascio a voi ogni eventuale
commento (:
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Capitolo 11 *** 11 ***
RMIcap11
11
Il cielo
è nero per colpa del
fumo, quello causato dal fuoco che ha reso irriconoscibile ogni mucchio
di
carne carbonizzata o piena di vesciche purulente che un tempo era stato
un -o
una- Lusan.
Non una singola
costruzione si è
salvata da quell’attacco furioso: quelle che un tempo erano
state parti della
ringhiera di un terrazzo si stanno letteralmente liquefacendo creando
pozzanghere ferrose rosso vivo; tale è il calore che
impedisce al metallo di
solidificarsi com’è sua natura.
Gli alberi, un
tempo rigogliosi,
sono ormai ridotti allo scheletro annerito e rattrappito di quel che
erano
stati, e i rami contorti sembrano dita di creature morenti che si
stagliano
verso il cielo pregando disperatamente aiuto a divinità
indifferenti e
sconosciute.
Di certo quelle
preghiere non
sono rivolte a Beerus, che avanza in quella devastazione che un tempo
veniva
chiamata “città di Ulthmeer” con un solo
pensiero in testa: deve trovare Anise.
È assurdo che sia a Ulthmeer -o meglio, quel che ne resta- e
Beerus non ha idea
di cosa faccia lì, non ha idea del perché lui
stesso sia lì, ma al momento non
gli interessa. L’imperativo è trovarla, e trovarla
viva.
Le speranze
però sono poche, dal
momento che non riesce a percepire neppure un’aura. Il quel
posto non sembra
esserci vita, non più.
Il giovane
però non intende
accettarlo, non riuscirebbe mai a perdonarsi: che razza di incapace
è un dio
che non riesce a proteggere la propria donna? A cosa serve essere il
più forte
dell’intero Universo, se ci si lascia portare via
ciò a cui si tiene di più?!
Dov’era
lui, mentre Ulthmeer
veniva distrutta?
Beerus non sa
rispondere a
questa domanda, perché non riesce a ricordarlo.
“Aystegh
tha mi a’, tha mi a’, khndrum yem!”
Anise…
quella è la sua voce, non
potrebbe mai sbagliarsi.
Beerus vola nella
sua direzione,
guidato da essa, con il cuore in gola: deve raggiungerla, deve farlo
prima che
sia tardi, è una letteralmente questione di vita o di morte.
Anise sta parlando
con qualcuno, e lui non ha idea di chi sia, ma quel “Sono io,
io, ti prego!”
non lascia presagire nulla di buono.
Ora la vede, ed
è come guardare
un fiore nato per caso in una landa devastata: il pelo candido
immacolato e i
vestiti lindi della ragazza sono in pesante contrasto con tutto il
resto,
tralasciando il fatto che teoricamente dovrebbe essere impossibile per
lei
resistere a un simile calore.
“Anise!
ANISE!”
La chiama, ma lei
non lo sente.
Continua a parlare con una possente figura avvolta in un’aura
nera e dorata,
nessuno che Beerus riesca a identificare.
Il dio cerca di
avvicinarsi
ulteriormente, vuole prenderla e portarla via da lì, ma non
ci riesce. Una
forza oscura lo trattiene, costringendolo a muoversi a rallentatore,
incurante
di ogni suo tentativo disperato di contrastarla.
“Allontanati!
Vai via da lì!” urla Beerus. Lui
è un Hakaishin, percepisce la voglia di
uccidere nelle altre persone, e al momento questa è presente
nello sconosciuto.
“Khndrum yem…”
“ANISE,
ALLONTANATI!”
urla ancora il dio. Normalmente anche solo la potenza di quel grido
sarebbe
bastata a spazzare via tutto, ma non stavolta. Beerus non sa spiegarsi
cosa sta
succedendo, ma in quella situazione è del tutto impotente.
Anise stavolta lo
sente e si
gira verso di lui, dando le spalle allo sconosciuto. “Beerus,
io devo provarci!
Mi ha sentita, forse mi riconosce, lo vedi?”
Una mano dello
sconosciuto si
alza, coperta da una lama nera lucente appena comparsa, e cala
sull’ignara
lince come la scure di un boia.
“ANISE!”
“Non
posso arrendermi ora, non
posso. Mi dispiace”.
“Anise,
scansati! ANISE!”
«ANISE!...»
Beerus
spalancò gli occhi, urlando il nome della sua
ragazza. Era stato un incubo, ma anche se ormai era sveglio non se ne
rendeva
conto. Non vedeva quel che lo circondava: davanti ai suoi occhi
c’era ancora
l’immagine di Anise che veniva letteralmente tagliata in due
in senso
verticale, e aveva nelle orecchie il tonfo sordo delle due
metà di lei che
cadevano a terra in una pozza di sangue, umori e deiezioni.
Cominciò
a calmarsi solo quando avvertì delle gentili
carezze sulla nuca, che poi si trasformarono in un abbraccio nel quale
Beerus,
dopo un attimo di rigidità, si lasciò andare
completamente, chiudendo persino
gli occhi. Era ancora un po’confuso, ma il suo corpo aveva
riconosciuto Anise
-un’Anise viva, sana e con lui nel suo palazzo- prima del suo
cervello.
«Va tutto
bene. Era solo un brutto incubo, io sto bene»
disse piano la ragazza.
Non era
così che Anise avrebbe voluto far iniziare la giornata
di Beerus. Si era ripromessa di destarsi a un’ora decente,
così da svegliare
anche lui in un modo particolarmente piacevole,
ma non era riuscita a tener fede al suo proposito -la sera prima doveva
essersi
stancata troppo, anche se per motivi assai gradevoli- ed era stato
Beerus a
svegliarla senza volerlo.
Anise lo aveva
sentito parlare e agitarsi nel sonno, preda
di un incubo che la riguardava, e sebbene avesse tentato di calmarlo
con delle
carezze non era servito affatto, anzi, era rapidamente peggiorato. A
quel punto
aveva tentato di svegliarlo, ma non ci era riuscita, e quando lo aveva
sentito
dire parole in lingua Lusan che non aveva imparato da lei -“Khndrum yem”- si era decisa a
chiamare
Whis; lui era di certo in piedi, essendo quasi mezzogiorno, e quella
faccenda
era troppo strana per i suoi gusti.
«Come le
avevo detto, Lady Anise, quando Beerus ha incubi
di questo genere non c’è modo di destarlo. Non si
può far altro che aspettare»
disse Whis, osservando la scena con aria imperturbabile.
«Quindi
era davvero un incubo pseudo profetico… e
sottolineo “pseudo”».
«Quest’abilità
di Beerus è imprecisa, ma non è una valida
ragione per prendere tutto sottogamba. Non so cos’abbia
visto, ma lei deve aver
fatto una fine orribile».
Anise
sollevò un sopracciglio, continuando a stringere Beerus
tra le braccia. «Immagino il tuo enorme dispiacere».
«Indipendentemente
dal mio dispiacere dovrei gestire quello
di Beerus, pardon, da oggi "Lord"
Beerus» si corresse Whis «Quindi la preferisco
viva, mi creda».
Beerus, che era
riuscito a calmarsi, aprì lentamente gli
occhi. «Voi… siete qui tutti e due?»
«Stavi
avendo un incubo strano e non riuscivo a svegliarti,
mi sono preoccupata e ho chiamato Whis. Sirel
ym, adesso stai bene?»
«Starò
meglio se mi giuri che da oggi in avanti non andrai
mai a Ulthmeer senza di me» rispose Beerus, afferrandola per
le braccia «Per
nessun motivo al mondo. Mai! Capito? Mai!»
«Beerus,
non andrei a Ulthmeer a prescindere» disse la
Lusan, cercando di mantenere la calma «Ma devi dirmi
cos’hai visto».
L’Hakaishin
scosse la testa. Non voleva ripensarci, e
tantomeno parlarne: l’avrebbe reso tutto ancora
più reale. «No. Ti ho detto che
non devi andare lì, e tu non ci andrai, ecco!»
«Sei
sconvolto, lo vedo, però credo che aiuterebbe dirmi
cos’hai sognato. In questo modo io potrei farti capire quanto
è improbabile, e
tu saresti più tranquillo».
Whis diede
un’occhiata a un orologio a clessidra. «Sono
tenuto a ricordarvi che è mezzogiorno e venti, e che Lord
Champa arriverà tra
massimo dieci minuti. A proposito, Lord Beerus, le faccio i miei auguri
di buon
compleanno!»
«Il suo
tempismo è eccezionale, signor Whis»
borbottò
Anise, alzando gli occhi al soffitto.
«Cosa, il
mio- oh. È vero, oggi è il mio
compleanno»
mormorò Beerus «Spero che non sia una brutta
giornata, anche se è iniziata
malissimo. Io…» guardò Anise, facendosi
forza «Ho sognato che qualcuno grosso,
avvolto in un’aura nera e oro, ti uccideva dopo aver
devastato Ulthmeer, e
probabilmente anche tutto il resto. Non so chi fosse questo
“qualcuno”, ma tu
lo conoscevi e pensavi che non fosse in sé. Cercavi di
parlargli, e io non
riuscivo a raggiungerti, ti ho urlato di allontanarti perché
sentivo che voleva
ucciderti, ma tu non mi hai dato ascolto. Non mi hai dato
ascolto…» ripeté, con
un filo di voce.
«Beerus,
dire che questo sogno è improbabile è poco.
Primo:
io non ho motivi per andare a Ulthmeer» iniziò a
elencare Anise «Secondo: noi
Lusan non abbiamo poteri di questo genere. Terzo: non sono
così cretina da
avvicinarmi tanto a qualcuno che non è in sé e
potrebbe uccidermi. Quarto: non
conosco nessuno per cui potrei fare una cosa del genere, o almeno,
nessuno con
le caratteristiche che hai descritto. Non poteva trattarsi di te, di
Champa
neppure perché quando te l’ho chiesto mi hai detto
che l’ “aura” di voi
Hakaishin è sempre sul viola, e Calida… rientra
nel secondo punto, perché non
ha poteri di alcun genere. Ritengo che tu possa stare
tranquillo».
«Ma-»
«Beerus,
non morirò né oggi né entro breve,
quindi cerca di
calmarti e di goderti la giornata. Come il signor Whis ha appena
ricordato,
oggi è il tuo compleanno. Ora sei un Hakaishin che ha
compiuto la maggior età. Ricordi
cosa significa?» sorrise la lince.
Certo che Beerus lo
ricordava! Significava che da quel
momento in avanti sarebbe stato lui a dare ordini, significava che Whis
avrebbe
dovuto obbedirgli e dargli del “lei” e,
soprattutto, che avrebbe potuto tener
fede al suo proposito di rendere Anise la sua Iarim Neiē…
finalmente!
Si conoscevano da
pochi mesi, ma non gli importava: aveva
l’impressione di aver atteso già troppo tempo per
darle la posizione ufficiale
che secondo lui meritava. Sarebbero stati una coppia agli occhi di
chiunque,
che fossero mortali, angeli o altre divinità. Una volta che
lei fosse diventata
la sua Iarim Neiē avrebbe potuto iniziare a portarla con sé
in giro per
l’Universo, o per gli Universi, e a ogni evento ufficiale.
Col tempo tutti
avrebbero saputo che si appartenevano l’un
l’altra… e che in futuro il loro
legame sarebbe diventato vincolante ed eterno, perché la
Iarim Neiē era “solo”
il primo passo lungo la strada che un giorno avrebbe condotto Anise a
diventare
la sua Neiē.
Beerus si
stiracchiò, decidendo di accantonare l’incubo in
favore di pensieri più piacevoli. «Come
dimenticarlo? A tal proposito, direi di
passare subito a-»
«Sul
serio? Vuole farle la proposta ora?» si intromise
Whis.
«Sì,
voglio farle la proposta ora, e se hai qualcosa in
contrario non mi interessa, perché… giààà!
Ora tu devi obbedire ai miei ordini!» sogghignò
Beerus «Da oggi in poi mi
divertirò tantissimo a farti fare tutte le cose
più stupide! Tipo girare su te
stesso saltando e strisciando su una gamba!»
«Sì,
e lui si “dimenticherà” di darti da
mangiare. Credo
che non ti convenga approfittare troppo della tua nuova
posizione» gli consigliò
Anise.
«Ma lui
deve obbedirmi!» si lagnò il dio.
«Beerus,
se mi ordinassi di girare su me stessa saltando e
strisciando su una gamba ti manderei a quel paese anche io…
tralasciando il
fatto che o strisci, o salti!»
«Ma
uffa» borbottò Beerus «Non è
giusto!»
Non vista, Anise
scambiò una breve occhiata con Whis. Nella
quasi mezz’ora in cui erano rimasti accanto a Beerus che si
agitava a causa
dell’incubo avevano avuto modo di scambiare due parole sul
modo in cui sarebbe
andata la giornata: entrambi avevano immaginato che Beerus, col
carattere che
aveva, avrebbe cercato di approfittarsi della sua nuova posizione, e
Whis le
aveva chiesto di contribuire a dissuaderlo. “Vorrei evitare
di dovergli tirare
uno scappellotto anche il giorno del suo compleanno”, aveva detto.
Anise
l’aveva ritenuta una cosa ragionevole, aveva detto
che avrebbe cercato di tenerlo a freno, ed era quel che stava facendo.
Whis
avrebbe potuto dire qualunque cosa di lei, ma non avrebbe potuto negare
che
fosse una donna di parola.
«Mi auguro
che abbia sufficiente discernimento e agisca
in modo degno delll’Hakaishin maggiorenne che è»
disse Whis «Mostrando un minimo di rispetto
per questo povero angelo e la fatica fatta per metterle in testa che
quindici
più diciotto non fa trentasei…»
«Non
è il momento per parlare delle mie abilità
matematiche!» sbottò Beerus «Whis, fai
comparire l’orecchino».
«Quale
orecchino?»
«Lo
sai!»
«Lord
Beerus, siamo nella sua camera da letto, lei e Lady
Anise siete entrambi in pigiama, le sembrano il momento e il luogo
giusto per
una proposta ufficiale? Se proprio deve farla abbia almeno un minimo di
decoro,
buon cielo!» esclamò Whis.
«A me
momento e luogo vanno benissimo» disse Anise «per
cui
possiamo farlo».
Beerus,
contentissimo nel sentirla desiderosa quanto lui di
procedere, fece cenno a Whis di sbrigarsi. «Orecchino!
Muoviti!»
Alla fine
l’angelo fu costretto a far comparire
l’orecchino, identico a quello di Lord Beerus, e a farlo
fluttuare accanto al
dio. Anise sarebbe diventata la Iarim Neiē di Beerus, e doveva farsene
una
ragione.
Intenzionato a non
dare a vedere quanto era emozionato,
Beerus strinse entrambe le mani di Anise. «Bene…
direi che ci siamo».
La lince sorrise,
emozionata quanto lui. «Direi di sì».
Pregando di non
impappinarsi, il ragazzo fece un respiro
profondo, poi iniziò a parlare. «Ocnaif
oim la olrerrocrep iredised. Emeisni àtinrete nu’
a àrrudnoc ic ehc onimmac nu
id ossap omirp li, Iarim Neiē?»
“Iarim
Neiē, il primo passo di un cammino che ci condurrà a
un’eternità insieme. Desideri percorrerlo al mio
fianco?”, questa era la
formula -in verità molto semplice- nella lingua suprema, sul
cui significato
Anise era già stata istruita… e anche sulla
risposta da dare.
«Ocnaif out la
olrerrocrep oredised» disse la ragazza, con
decisione.
A Beerus servirono
un paio di tentativi per riuscire a
prendere l’orecchino -sebbene questo fosse immobile- ma non
faticò a metterlo
all’orecchio destro di Anise. «Iarim
Neiē,
ataiccart euqnud è adarts aut al».
Un largo e sottile
anello luminoso si formò attorno ad
Anise, e scese rapidamente verso il basso. Gli abiti della lince
mutarono
aspetto, e pochi istanti dopo non indossava più un pigiama,
ma quella che d’ora
in poi sarebbe stata la sua “divisa” da Iarim Neiē.
Anise si guardò. «Ehi,
questo non me lo avevi detto».
«Perché
non lo sapevo» replicò Beerus, e la prese per la
vita per poi alzarsi in piedi sul letto, sollevandola in aria
«Sei bellissima!
Ammira, Whis: la Iarim Neiē dell’Hakaishin più
fortunato che sia mai esistito!
Ammira!» esclamò, alquanto euforico.
L’incubo sembrava essere stato accantonato
davvero, in favore della gioia pura derivata
dall’ufficializzazione del loro
legame.
Proprio in quel
momento però la porta della camera da letto
si spalancò di botto, e l’invasore -che emetteva
urla degne di quindici barbari
in berserk- sparò a Beerus ben quattro proiettili
di… vernice rossa.
«PAINTBAAALL!!!»
urlò Champa, perché di lui si trattava, agitando
un fucile da paintball, per
l’appunto «C’è un solo frutto
puff-puff sulla torta di compleanno, e chi vince
la partita se lo prende! Non te lo lascerò mangiare anche
quest’anno!»
Vados, entrata
silenziosamente dietro di lui, fece un lungo
sospiro. Lei aveva provato a far notare a Champa che irrompere urlando
e
sparando vernice nella camera da letto di una coppietta non era una
grande
idea, ma la risposta del giovane era stata “Va bene,
farò come dici e- EH! Ti
piacerebbe! Adesso sono io che
decido cosa fare!”.
Una vera causa persa.
Gocciolando vernice
rossa, Beerus guardò Anise, poi Champa,
e infine di nuovo Anise. «Se lo uccido hai qualcosa in
contrario?»
«Oooh, non
avevo notato i vestiti!» esclamò Champa, prima
che Anise potesse rispondere, avvicinandosi al letto «Stai
molto bene».
«Ti
ringrazio» sorrise lei.
«Peccato
solo che tu abbia scelto il gemello scemo!»
sghignazzò l’Hakaishin del sesto Universo.
Fu un errore,
perché a quelle parole Beerus si lanciò
letteralmente contro di lui con un urlo ancor più barbarico
di quello con
cui Champa aveva
fatto il suo ingresso,
dando inizio a una lotta “avvinghiata” che diede
forma a una vera e propria palla di
gatti… la quale finì col
rotolare fuori dalla porta, e poi giù per le scale.
«Oh! Anche
nel giorno del loro compleanno Lord Beerus e
Lord Champa non stanno lottando nel modo in cui rischierebbero di
distruggere
l’Universo, potrei quasi commuovermi!»
esclamò Vados «Questo è un vero
miglioramento».
«Lei non
li ha mai visti litigare sul serio, Lady Anise, ma
sono sicuro che un giorno o l’altro vedrà anche
questo… la scelta che ha
compiuto lo rende estremamente probabile» disse Whis.
«Mi auguro
che si sbagli».
«“Ti”»
la corresse Vados «Lei ora è la Iarim Neiē di Lord
Beerus, può darci del tu».
«Non lo
sapevo, grazie per avermelo fatto presente» disse
Anise, e raccolse da terra il fucile da paintball «Sul mio
pianeta esiste
un’arma che somiglia a questo attrezzo, ma funziona con una
pietra focaia, e
purtroppo spara cose diverse da palle di vernice. Invece di uccidersi a
vicenda
sarebbe molto meglio che le città giocassero a questo
“paintball”.
Probabilmente vincerebbe Calida».
«A
proposito, le ha poi dato parte del tesoro com’era
intenzionata a fare?» le chiese Vados.
«Non
ancora. Tra una cosa e l’altra non gliene ho neppure
parlato».
Lei e Calida non
avevano più parlato di alcun Hakaishin in
generale, se non in un’occasione, ossia quella in cui Anise
le aveva comunicato
che Whis aveva permesso a lei e Beerus di stare insieme. Sua sorella
non aveva
fatto particolari commenti, si era limitata a dirle di muoversi con
molta
attenzione sia con Beerus che con Whis, ed era finita lì.
Per Anise era stato
meglio così, perché non aveva chissà
quale desiderio di parlare a Calida della
sua vita di coppia, e aveva concluso che le avrebbe dato
l’oro come regalo di
compleanno.
«Direi che
dovremmo…» avviò a dire Whis, ma venne
interrotto dall’inizio di una scarica di onde
d’urto talmente potenti da far
tremare l’intero palazzo «Ecco, stavo per dire che
avremmo dovuto raggiungere
Lord Beerus e Lord Champa prima che iniziassero a litigare sul serio,
ma non abbiamo fatto in tempo».
Erano due
divinità, che le loro liti facessero tremare la
terra non era poi così strano. Anise fece un sospiro.
«Dove sono andati a
finire, quei due?»
Whis le
offrì il braccio, Anise
si appoggiò a lui, e un istante dopo arrivarono
in una delle terrazze, appena in
tempo per vedere i gemelli far scontrare i loro pugni in una battaglia
aerea.
«…se
mi dicono “circa mezzogiorno e mezzo” io arrivo a
quell’ora, non è colpa mia se tu sei pigro e ti
svegli tardi!» urlò Champa.
«Ma chi ti
ha detto di
sfondare la maledetta porta, EH?!
CHI?!»
urlò Beerus, di rimando «Io ho una Iarim Neiē,
potevamo star facendo cose, brutto
idiota!»
Champa rise
sguaiatamente. «Anise, prepara la tazza, che
qui c’è chi vuole pucciare il biscotto!»
«Non coinvol-»
«La mia
tazza per lui è sempre pronta, a essere mancata è
l’occasione!» rispose la Lusan.
Vados si
coprì il volto con una mano. «Almeno lei potrebbe
evitare di dar corda a certe indecenze, per l’amor del
cielo!»
«Non
sperarlo, sorella, è già tanto che a te non parli
di
Lulù» sospirò Whis.
«“Lulù”
chi?»
«Non
chiedere».
«Piantatela
di litigare e venite giù» disse Anise ai
gemelli «Dobbiamo fare questo gioco che si chiama paintball e
poi festeggiare
il vostro compleanno!»
«Nissie,
questo gioco non è per te» disse Champa, con aria
condiscendente «Non sei in grado di sparare a-»
Neppure il tempo di
finire la frase, e il dio si trovò
colpito in pieno petto da un proiettile di vernice rossa.
«Io non
sono in grado di combattere, non lo sono mai stata,
ed è proprio per questa ragione che Calida mi ha insegnato
come si spara» disse
Anise «Questo hrat’san è fatto in modo
diverso dai nostri, ma ha più
o meno lo stesso scopo. Whis, potresti creare per me un’arma
come questa che
però spari vernice rosa? So che contro due Hakaishin non ho
speranze, però
voglio giocare anche io… fino a quando si stuferanno e
andremo a mangiare!»
***
«Potresti
anche smetterla di fare l’offeso».
«No, non
la smetto affatto!»
La partita di
paintball era stata divertente e piuttosto
lunga per tutti e tre i contendenti. Tra le regole imposte dai due
angeli c’era
il divieto di localizzare le aure, e la partita si era tenuta nel
bosco, quindi
Anise si era nascosta immediatamente; i due fratelli avrebbero comunque
potuto
impegnarsi a cercarla per eliminarla subito dal gioco, ma proprio
sapendo che
non era alla loro altezza avevano deciso di lasciarla in campo e farla
divertire… e in breve tempo, a causa della loro
rivalità, si erano
dimenticati di lei!
Erano serviti del
tempo e una
complicata lotta, ma Beerus
era infine riuscito a colpire -e dunque eliminare- Champa, e solo
allora Whis gli aveva ricordato la presenza di un’altra
contendente.
Non aveva impiegato
molto tempo per trovare Anise -la quale
aveva dato mostra di non avere più una gran voglia di
nascondersi- e, certo che
lei si sarebbe arresa e di avere la vittoria in tasca, Beerus aveva
iniziato a
vantarsi della propria vittoria contro Champa. Aveva lasciato che lei
gli si
avvicinasse e si complimentasse con lui, si era lasciato baciare, ed
era stato
felice di sentirsi dire “Sirogh yem,
Beerus”
-ossia “Ti amo, Beerus”…
Peccato che subito
dopo Anise avesse sparato un proiettile
di vernice rosa contro il suo piede, completando la frase con un
“Però voglio
il frutto puff-puff”.
«Beerus…»
«No! Non
ti parlo più!» esclamò il dio,
incrociando le
braccia davanti al petto per poi voltarle le spalle.
Anise
cercò di trattenere una risata. «Sirel
ym, suvvia…»
«Ah, osi
anche chiamarmi “sirel ym”
dopo quello che hai fatto? Traditrice! Prima “sirogh
yem”, poi mi spari!... Iarim Neiē
infame, per te solo lame! E tu hai poco da ridere, Champa, hai perso
prima di
me!»
«Per
motivi diversi!» sghignazzò il fratello.
Beerus
agguantò due cosciotti di carne e riuscì non si
sa
come a infilarli entrambi in bocca, lanciando occhiate torve a
fidanzata e
gemello. Se c’era qualcosa che detestava più di
attendere, era perdere. Non gli
era capitato spesso, la penultima volta era stata circa tre
anni prima,
quando aveva perso a braccio di ferro contro l’Hakaishin
Quitela -ed era
convinto che questi avesse barato- durante la festa del quindicesimo
compleanno
suo e di Champa.
Ai tempi festeggiavano i compleanni sul pianeta di
quest’ultimo ed erano sempre stati presenti molti dei loro
colleghi più vecchi, cosa che aveva raccontato anche ad
Anise,
ma da tre anni a quella parte le
cose erano cambiate: in casa di Champa non c’erano
più
state feste di
compleanno, e suo fratello si limitava semplicemente ad andare da lui a
litigare e rimpinzarsi di cibo.
Ecco, una cosa fece
sentire Beerus un po’in colpa: a ogni
compleanno tendeva a fare abbuffate più insostenibili delle
consuete, e ad
addormentarsi due o tre giorni di seguito per smaltirle. Non lo faceva
di
proposito, dunque sapendo di avere Anise lì si era
ripromesso di non esagerare
con il cibo… ma l’irritazione causata
dall’aver perso lo aveva spinto a
divorare ancor più cibo rispetto agli altri anni, e sentiva
le palpebre farsi
già pesanti.
Dopo la torta
sarebbe crollato, ne era tristemente
consapevole.
«Siete
tutti e due pessimi soggetti» borbottò, una volta
finiti i cosciotti «E sappi che tu non la passerai liscia,
traditrice. Verrai
punita per quel che hai fatto!»
«Sì,
ma solo tra tre giorni, perché ti si chiudono già
gli
occhi» aggiunse Champa, continuando a ridacchiare impunemente.
«Dimmi,
che genere di punizione sarà?» chiese Anise a
Beerus, per nulla intimorita, carezzandogli languidamente
l’interno coscia. Il
tavolo e la tovaglia nascondevano il suo gesto, quindi avrebbe anche
potuto
fare ben altro, ma Champa era presente,
quindi non era nei suoi intenti.
«…
terribile. Severissima. WHI-IIIIS, LA TORTA!»
gridò il dio, vagamente arrossito, mentre suo
fratello, avendo intuito che probabilmente stava succedendo qualcosa
sotto il
tavolo, rideva della grossa.
«Sta
arrivando, Lord Beerus, abbia un attimo di pazienza!
Ecco qui» disse l’angelo, entrando con Vados e una
torta alta dieci piani e un
singolo frutto puff-puff sulla cima.
«Ma non
c’è la panna» fu la prima cosa che disse
Champa.
«Visto?
Gliel’avevamo detto, che doveva mettere la panna»
disse Vados ad Anise.
«E io ho
risposto che mettere la panna sopra lo strato
esterno di crema sarebbe stato esagerato» ribatté
la ragazza.
Sentendo
ciò, il nervosismo di Beerus per aver perso
lasciò
il posto a sentimenti di altro genere. «L’hai fatta
tu?»
Lei
annuì. «Non sapevo cosa regalarvi, avete
già di tutto e
di più, quindi ho fatto la torta. È tutta
vostr-»
«Ma quanto
sei dolce!» esclamò Champa, avvicinatosi ad
Anise chissà quando, strusciando il capo contro un braccio
della ragazza
esattamente come avrebbe fatto un gatto comune «Sei
più dolce di questo dolce!»
«E tu sei
più morto di
qualunque morto, se non torni subito al tuo
posto» ringhiò Beerus,
minacciandolo con una sfera di energia viola all’altezza del
viso.
«No, eh!
Avete litigato abbastanza, voi due!» si intromise
la Lusan «Ora voi mangiate la torta, io mangio il mio frutto,
e non si
bisticcia».
«Prima
però dobbiamo fare la fotografia!» intervenne
Whis,
facendo comparire una macchina fotografica di bizzarra fattura.
Impostò
l’autoscatto e corse a mettersi dietro Beerus, mentre Vados
faceva lo stesso
con Champa «Guardate nell’obbiettivo e
sorridete!»
Anise non sapeva
cosa fosse una fotografia, né cosa fosse
l’obbiettivo, ma tutti guardavano in direzione di quel
bizzarro attrezzo, e lei,
quando Beerus la strinse sé, fece lo stesso. Un breve lampo
di luce la accecò,
e subito dopo vide il macchinario sputare fuori un quadrato bianco che
Whis si
fece volare in mano.
«Ecco qui.
Oh, per una volta posso dire “buona la
prima”!»
commentò Whis, soddisfatto, mostrando a tutti la fotografia.
Anise si
stupì molto nel vedere che sul quadrato bianco
erano comparsi tutti loro, come se qualcuno avesse fatto un ritratto
istantaneo
estremamente accurato, o avesse intrappolato quel frammento temporale
in un
pezzo di carta. «Sul mio pianeta cose come questa non
esistono».
Vados rise.
«Perché lei, la sua razza e il suo pianeta siete
arretrati, Lady Anise. Non conoscete le macchine fotografiche, non
siete in
grado di costruire mezzi per volare, non sapete cosa sia
l’energia elettrica,
seppure ormai essa sia una forma di energia
antiquata…»
«Io
però so cos’è la simpatia, al contrario
di qualcuno che non l’ha
mai imparato»
disse la ragazza a Vados, sorridendo dolcemente.
«E Vados
muta!» aggiunse Champa, sogghignando fino a quando
notò l’occhiataccia della sua assistente/maestra,
che gli fece passare ogni voglia di ridere.
Dopo ciò
tagliarono la torta in quattro parti
-due enormi per gli Hakaishin, altre due molto più piccole
per gli angeli- e in
breve tempo ne rimasero soltanto le briciole.
«Buonissima»
sentenziò Beerus, dopo un grosso sbadiglio
«Buona, molto buona… però ti
punirò lo stesso, Anise, non ti illudere».
«Un simile
affronto va vendicato!» sorrise la
ragazza, vedendolo in procinto di addormentarsi. Non era sorpresa,
perché lui
stesso qualche giorno prima le aveva parlato di quella sua abitudine e
le aveva
detto che avrebbe cercato di evitarlo, ma Anise non gli rimproverava di
non
avercela fatta. Lo baciò su una guancia. «Sirel
ym, yerjanik co-là-breith, buon
compleanno».
Beerus sorrise.
«Mi spiace solo non riuscire a-»
sbadigliò
di nuovo «Restare sveglio… Anise» disse,
con l’aria di chi si è improvvisamente
ricordato qualcosa «Promettimi che rimarrai lontana da
Ulthmeer a qualunque
costo, specie in questi giorni. Promettilo!»
Ancora
l’incubo, messo da parte ma non dimenticato. Anise
decise di accontentarlo. «Lo prometto».
Rassicurato, Beerus
chiuse gli occhi e si addormentò.
«Eccolo,
fa sempre così» disse Champa, alzando gli occhi al
soffitto «Io ho mangiato altrettanto, ma non ho la minima
voglia di dormire!»
«Lei e suo
fratello siete diversi» disse Whis, sollevando
Beerus con la magia «Pare che i festeggiamenti siano
terminati. Metto a letto
Lord Beerus e la porto a casa, Lady Anise».
La Lusan non glielo
aveva chiesto, ma evidentemente Whis
non era dell’idea di lasciare che restasse nel palazzo, e/o
di avere a che fare
con lei più del necessario. Nulla di male: per Anise valeva
esattamente lo
stesso discorso. «D’accordo».
«Non ti
scomodare. La portiamo a casa io e Vados» disse
Champa, ormai in piedi, mettendo un braccio attorno alla spalla della
ragazza
«Tanto siamo di strada!»
«La
ringrazio per la gentilezza, Lord Champa» sorrise Whis
«Fate buon viaggio».
Trovandola una cosa
ragionevole né Vados né Anise si
mostrarono contrarie all’idea di Champa, e poco dopo
partirono tutti e tre
insieme.
«Darmi un
passaggio
è molto carino da parte vostra. Mi
piacerebbe tanto poter percorrere distanze siderali così
facilmente» disse Anise, che per comodità si era
seduta
sopra le gambe incrociate
di Champa.
«Esiste un
veicolo con cui potresti farlo, assomiglia a un
cubo di vetro, se Whis volesse risparmiarsi viaggi potrebbe
dartelo» osservò il
dio «Comunque, a proposito del passaggio, ecco…
confesso che in realtà non ho
alcuna intenzione di riportarti a casa, non ora almeno».
«Cos…
come sarebbe? Dove vorresti portarmi?» si stupì
Anise. Per un attimo pensò addirittura che Champa volesse
rapirla o simili, del
resto le aveva confessato che inizialmente la sua idea era stata
proprio
quella, ma cercò di calmarsi, dicendosi che qualunque cosa
avesse in mente non
poteva volerle fare del male.
«Buona
domanda: dove vuole portarla?» chiese Vados, stupita
anch’ella.
«Alla
festa di compleanno. Quella vera!» sottolineò
Champa
«Anise, tu ricordi la prima volta in cui ci siamo incontrati?
Ti dissi che i
nostri colleghi più vecchi, per varie ragioni, non
sopportano Beerus».
La lince
annuì. «Ricordo. Aspetta:
in realtà le feste di compleanno in casa tua
si sono interrotte solo per Beerus, ho indovinato?»
«Non
guardarmi male, non è colpa mia se lui si è fatto
odiare, e ti assicuro che si è proprio impegnato a fondo!
Sono stato costretto
a fare così, o in casa mia non ci sarebbero stati
più compleanni degni di
questo nome» si difese Champa «E comunque continuo
a festeggiarlo anche insieme
a lui: faccio ben quattro ore di viaggio per andare da mio fratello,
nonostante sia uno stronzo di prima categoria! Una festa vera me la
merito!»
«Io
però non ci vengo. Sarebbe sleale nei confronti di
Beerus anche se non fossi la sua Iarim Neiē».
«Lady
Anise non ha tutti i torti» obiettò Vados.
«Abbiamo
già festeggiato insieme a lui, e questo è il mio
diciottesimo compleanno, per me è una cosa importante. Non
ti voglio portare a
casa mia per fare un torto a Beerus, Anise, io voglio soltanto che la
mia amica
sia alla mia festa» disse Champa, in totale onestà
«Non vedo niente di
sbagliato in questo. Se non parteciperai i prossimi anni potrò anche
accettarlo, ma voglio che tu sia presente almeno questa volta. Sono
immortale, ma
anch’io divento maggiorenne una volta sola».
«Ci sono
anche gli altri Hakaishin, e io non c'entro alcunché con
loro».
«Questa
è solo una scusa. Sei una Iarim Neiē, e fino a
questo momento hai avuto problemi ad avere a che fare con chicchessia,
mortali, divinità o angeli, quindi alla festa devi esserci
anche tu. Non c’è
niente di male» ripeté «E Beerus non
verrà mai a saperlo».
Anise non era molto
sicura su cosa fare. Se avesse accettato
si sarebbe sentita un sleale verso Beerus, ma se non avesse
accettato
avrebbe deluso un amico per cui provava affetto, il primo amico vero e
proprio
che avesse avuto. Si sentiva alquanto combattuta. «Non
so…»
«Allora
considerati rapita» concluse Champa «Io non ti ho
dato scelta, tu non hai colpe: discorso chiuso!»
Capendo di non poter
fare molto altro per opporsi, e che
probabilmente sarebbe stata portata nel sesto Universo anche se avesse
continuato a protestare, la ragazza si disse che a quel punto tanto
valeva dare
ascolto a Champa e mettere a tacere una coscienza che urlava
“Slealtà!”. In fin
dei conti stava soltanto andando alla festa di un amico, non a
prostituirsi o
ad ammazzare qualcuno, e non era colpa sua se Beerus si era fatto
-purtroppo-
odiare dai colleghi. Per non parlare del fatto che Beerus stava
dormendo,
dunque andare alla festa di Champa non avrebbe tolto del tempo a quello
che
avrebbero potuto passare insieme. «Va bene. Una cosa: Whis sa
di questa festa?»
«Certo che
no, e mi raccomando di non lasciarselo sfuggire!
Si offenderebbe molto con me se sapesse di essersi perso un rinfresco
di tale
portata» disse Vados «E i nostri rapporti sono
particolarmente
buoni, quindi preferirei evitarlo».
«Devo
ricordare a entrambi che potrebbe dare un’occhiata a
quel che sta succedendo, magari sperando che io in questi tre giorni
tradisca
Beerus, e dunque coglierci in fallo».
«Onestamente,
Lady Anise, credo che mio fratello Whis
preferisca non averla davanti agli occhi in alcun modo» disse
Vados «È la Iarim
Neiē che si è intromessa tra lui e il suo promettentissimo
allievo. Ogni
occasione è buona per fingere che lei non esista».
«Ecco,
finalmente posso dirlo senza ricevere bastonate in
testa: a volte sei schifosamente acida» disse Champa.
«La mia
non è acidità, trattasi di semplice
realismo»
ribatté l’angelo «A tal proposito, la
avverto che gli altri Hakaishin saranno
alquanto stupiti. Molti di loro non hanno mai visto una Iarim Neiē, e
nessuno
avrebbe mai creduto che Lord Beerus potesse trovarne una. Probabilmente
la
guarderanno come se fosse una creatura molto bizzarra».
«Sarà
una novità per me, in fin dei conti vengo
“guardata
come se fossi una creatura molto bizzarra” da soli diciotto
anni e mezza… che
lo faccia anche qualche divinità m’importa meno di
niente».
Vados non
replicò, e nelle successive ore di viaggio non
parlò molto. In compenso dovette sopportare i tentativi dei
due di creare
un’improbabile hit da spiaggia dal titolo “Mi hai
rapita”. Sarebbe stata
perfino più o meno orecchiabile, se le voci dei due cantanti
non avessero
ricordato i gemiti e i lamenti di un animale in agonia.
«Rapita
rapita/quale
azione ardita/ andiamo alla tua festa/ sono allibita!»
«Con
la mia
astutezza/ ho fatto una sveltezza/ perdona un po’la mia
indelicatezza…»
«Mi
hai
ra-pita!»
«Ti
domando
scusa se non t’ho avvertita/ho messo in pratica
l’idea appena è
comparita/fortunatamente non ti sei impaurita…»
«Mi
hai
ra-pita!»
Il solo motivo per
cui Vados evitò di farli schiantare a
terra una volta arrivati fu il fatto che Anise fosse una persona senza
alcun
potere, nonché una Iarim Neiē, e dunque non era il caso di
romperle tutte le
ossa… ma, guarda caso, li fece atterrare nella larga e bassa
piscina piena di
fiori acquatici posizionata accanto all’ingresso di uno dei
piani del palazzo
di Champa. «Ops».
«“Ops”
un corno! Sono tutto bagnato!» protestò Champa,
arrabbiato.
«Accanto
alla piscina termale ha i suoi amati getti d’aria
calda, potete asciugarvi con quelli» replicò
Vados, quieta.
«Se la
canzone non ti piaceva potevi dircelo e basta» disse
Anise, senza mostrare particolare irritazione
«Però questi fiori sono carini».
«Ma chi se
ne importa dei fiori!» sbottò il dio, rialzandosi
e tirando su Anise
di peso «Al calar del
sole ormai manca circa un’ora, quando farà buio
gli altri saranno qui, e noi
due siamo fradici!... ecco, ci mancava solo
questa…» borbottò poi, sentendo
alcune gocce di pioggia cadere sulla sua testa «Per fortuna
che la festa è
all’interno. Vados, noi andiamo ad asciugarci, tu pensa a
quel che resta da
sistemare».
Detto
ciò, intenzionato a raggiungere i summenzionati getti
d’aria calda, si alzò in volo con Anise senza dare
all’angelo il tempo di
rispondere.
Quello che la
ragazza poté ammirare prima che lei e Champa -che
se la stava prendendo comoda- entrassero nel palazzo fu un panorama
quasi del
tutto acquatico, molto diverso dai prati e la foresta attorno al
palazzo/albero
di Beerus: vedeva solo un’immensa distesa blu-grigio
punteggiata qui e là da
isolette più o meno grandi, quel giorno colpite dal vento
fortissimo, da onde
gigantesche e dai fulmini di una tempesta che lì era
già arrivata. Era tutto un
po’cupo, ma creava un contrasto affascinante con il colore
candido del palazzo
e la sua architettura delicata.
«Hai una
bella casa».
«Non per
merito mio, quando sono arrivato era già così. Da
qui non si vede, ma c’è un lato del palazzo che
è letteralmente a picco
sull’oceano, e un altro che invece dà su una
spiaggia di sabbia bianca. Al
momento però non è il caso di andarci»
disse Champa, svolazzando nell’androne
che li avrebbe portati alla piscina termale.
«Direi di
no».
Arrivati alla
piscina termale la Lusan notò che somigliava
molto a quella di Beerus, con la differenza che c’erano delle
sfere al posto
delle parti decorative cubiche. Champa le indicò due grosse
semisfere accanto
alla piscina, piene di grossi buchi, e le spiegò che per far
partire l’aria calda
dovevano semplicemente mettersi in piedi sopra di esse.
Una volta atterrati
la ragazza obbedì, e fu investita da un
numero indefinito di getti di aria calda che trovò
gradevolissimi. Ci volle più
o meno un quarto d’ora, ma tornarono entrambi perfettamente
asciutti.
«Cos’hai
da ridere?» chiese Anise a Champa.
«I tuoi
capelli sono un disastro, sono tutti gonfi!»
Lei fece spallucce.
«Mi farò una treccia. Mentre aspettiamo
l’arrivo dei tuoi colleghi mi porteresti a vedere la parte
del palazzo che dà a
picco sull’oceano?»
«Da questo
piano non vale la pena, non fa molto effetto.
Dovremmo volare più su!»
«O fare le
scale».
«Non il
giorno del mio compleanno» ribatté Champa,
prendendola di nuovo in braccio «Le scale sono il
male!»
Dopo pochi istanti
di volo Anise si trovò in una stanza il
cui unico arredamento era un immenso divano rotondo color rosso scuro,
messo lì
appositamente per poter ammirare il panorama. Al posto della parete che
dava
sull’esterno infatti c’era soltanto una serie di
colonne, che a un certo punto
si interrompeva lasciando spazio a una grande apertura non delimitata
da alcuna
ringhiera.
La Lusan volle
avvicinarsi un po’, per nulla spaventata
dalla tempesta -immaginò che la pioggia non entrasse nel
palazzo grazie a
qualche magia- o dall’altezza. Non aveva mai visto delle onde
tanto alte, ma
non temeva neppure quelle, anzi: a un certo punto le parve quasi che
quei
cavalloni grigio scuro avessero iniziato a chiamarla, e si fossero
fatti più furiosi
perché non potevano raggiungerla. Allungò una
mano, chiedendosi come potesse
essere venire sommersi da quelle acque, cullata dai placidi moti del
fondale
mentre in superficie imperversava la tormenta. Forse avrebbe provato la
stessa
sensazione di calda sicurezza di quando fuori da casa sua soffiava il
vento, e lei si metteva sotto le coperte.
Chissà
come sarebbe stato passare l’eternità
così.
A un certo punto
Champa la afferrò bruscamente per la vita,
la tirò indietro, e la mise a sedere sul divano.
«Il panorama è migliore visto da
qui, soprattutto per chi non vola» disse, con
un’espressione strana sul volto.
«Cos’hai?
Stavo solo guardando l’oceano»
«Sembravi
aver voglia di guardarlo più da vicino»
ribatté,
serio, il dio.
«Sono
giovane, ho un bell’aspetto, ho un autentico tesoro
che grazie a Whis adesso è nella mia cantina ingrandita, e
ci sono delle
persone che mi vogliono bene. Non vedo perché dovrei
farlo» disse Anise,
calmissima «Ma posso capire i tuoi dubbi. Avrai pensato che
la voglia di
suicidarsi e la maniera in cui farlo siano ereditari, ma non
preoccuparti… se
diamo retta agli incubi di Beerus, morirò a Ulthmeer per
mano di qualcun
altro».
«Sui suoi
incubi non
c’è da fare affidamento, e tu non
morirai!» sentenziò l’altro, una volta
seduto
accanto a lei «Né oggi qui, né
chissà
quando a Ulthmeer, né mai, perché tra un
po’di
tempo lascerai il tuo pianeta e
diventerai la Neiē del gemello scemo».
La Lusan
poggiò la testa su una spalla di Champa. «Parlare
di Neiē e di trasferimenti è un po’prematuro, non
ti pare? Diamo tempo al
tempo».
Rimasero fermi per
un pezzo ad ascoltare in silenzio il
rumore della pioggia e a osservare il cielo farsi sempre più
buio, e nessuno
dei due capì quanto tempo fosse passato fino a quando videro
sette scie
luminose attraversare il cielo.
«Credo che
i tuoi colleghi siano in arrivo, Champa» osservò
Anise, intrecciandosi rapidamente i capelli «Ma non sarebbero
dovuti essere
dieci?»
«Gli
Hakaishin di primo, quinto e dodicesimo Universo
avevano altri impegni, lo sapevo già. Credo che dovremmo
andare giù anche noi».
Champa la prese in
braccio per l’ennesima volta da quando
erano arrivati e, di nuovo, non
se la prese comoda: in un attimo raggiunsero un
salone grandissimo, zeppo di una quantità tale di cibarie da
poter sfamare
tutti gli abitanti di Ulthmeer per due mesi e addobbato a festa.
Tuttavia, pur
essendo stati veloci non erano riusciti
ad anticipare il resto degli Hakaishin, che erano tutti già
sul posto e intenti
a cicalecciare tra loro.
«Ecco il
festeggiato! Auguri! Centinaia di milioni di
questi giorni!» esclamò Vermoud, Hakaishin clown
dell’Universo Undici, per poi
applaudire insieme a tutti gli altri «È raro
festeggiare il diciottesimo
compleanno di un Hakaishin, e se Marcarita non me lo avesse
sconsigliato ti
avrei portato diciotto belle ragazze del mio Universo tutte…
per…»
Ci volle un
po’ perché Vermoud si accorgesse che Champa
aveva in braccio una ragazza, vestita con abiti bianchi e blu e una
cintura
candida che lasciava ben pochi dubbi sul suo ruolo.
Champa mise
giù Anise, la quale notò che la previsione di
Vados era azzeccata: tutti quanti, angeli inclusi, la stavano guardando
come se
fosse una creatura molto strana a causa dei vestiti che indossava.
«Ti sei
fatto una Iarim Neiē? Proprio tu? Khe-khe-khe!»
sghignazzò Quitela,
Hakaishin dell’Universo Quattro somigliante a un topo
«Ti facevo meno scemo».
«In
verità non sono la Iarim Neiē di Champa, come si
può
evincere facendo attenzione ai simboli della cintura che indosso. Il
mio nome è
Anise, sono una Lusan proveniente dal pianeta verde R2D242 del settimo
Universo, e sono la Iarim Neiē di Beerus, il quale per varie ragioni
-in primis
il non sapere di questa festa- non è presente. Io sono qui
in quanto amica di
Champa» aggiunse «E sono lieta di fare la vostra
conoscenza».
Ci fu un momento di
sorpresa che zittì completamente tutte
le divinità, che non sapevano se fosse più
assurdo il fatto che Beerus -Beerus!-
avesse una Iarim Neiē, o che
questa fosse amica di Champa e partecipasse alla festa conscia di non
poterne
parlare al compagno. Era una storia strana… talmente strana
che nessuno dei
presenti aveva voglia di pensarci su ulteriormente!
Meglio dedicarsi
agli arrosti, il cui odore era una favola.
«O beh,
buonasera anche a te. Mangiamo?» disse Liquir,
Hakaishin volpe dell’ottavo Universo. Il resto dei presenti
approvò la sua
proposta, e da quel momento in poi Anise non fu più al
centro dell’attenzione.
“E per
fortuna!” pensò, andando a sedersi su una poltrona
mentre guardava gli Hakaishin -Champa incluso- tuffarsi
sull’immenso buffet.
Accanto alla poltrona c’era un tavolino su cui erano stati
messi dei bicchieri
e una bottiglia di liquore fruttato, che la lince decise di assaggiare
e trovò
niente male.
Per diverso tempo
osservò
gli otto Hakaishin stando seduta
lì, senza interferire. In quel frangente le parve di essere
tornata indietro nel tempo, quando viveva ancora a Ulthmeer e faceva la
stessa cosa. Venire un po' "tagliata fuori" non sarebbe dovuto
essere piacevole per lei, ma il cervello di Anise funzionava in modo
diverso, e
dunque quel senso di familiarità con quanto stava accadendo
riuscì perfino a metterla a suo agio.
Distolse lo sguardo, osservando i decori della bottiglia di liquore.
“Devo
trovare il modo di farne una simile nella vetreria, quando torno a
casa” pensò.
«È
curioso che un maschio rude come Beerus abbia trovato
una Iarim Neiē dall’aspetto così delicato e
grazioso. Se tu fossi nata nel mio
Universo Due, quello dell’amore e della bellezza, saresti
potuta essere una delle
ancelle della creatura più bella del Multiverso, ossia io,
l’Hakaishin Helles!»
Anise si
voltò in direzione dell’unica donna in quel gruppo
di Hakaishin. L’aveva già notata in precedenza, e
aveva riconosciuto che fosse
di bell’aspetto, ma non le aveva attribuito una simile
vanità. «E invece sono
nata nell’Universo Sette, e sono soltanto una Iarim Neiē. Che
disdetta, essere
la tua ancella sarebbe stato un grande onore» disse Anise,
senza particolari
inflessioni nel tono di voce.
Helles non
capì l'ironia, dunque sorrise, soddisfatta. «Sono
lieta che la pensi così.
Se tu e Beerus doveste lasciarvi fammelo sapere: mangerai
anche tu il fiore di
loto che ti renderà parte della mia schiera di ancelle
immortali».
«Sarai
sicuramente la prima che chiamerò, contaci».
«Parlare
con te è proprio un piacere, sei così cara! Ora
però torno al buffet, prima che quei buzzurri spazzino via
tutto quanto. Tu non
vuoi mangiare nulla?»
«No, ho
abbondato con il cibo a ora di pranzo. Ero anche
insieme a Beerus, e Champa non mi aveva ancora detto nulla della
festa» le
spiegò Anise.
«Oh,
capisco. Non avrebbe potuto fare altrimenti, o il tuo
arrogante e maleducato compagno avrebbe rovinato la festa a tutti
quanti com’è
accaduto l’ultima volta. Sono un’Hakaishin, dunque
la lotta mi piace, ma se
partecipo a una festa -e
sottolineo
“festa”- non mi va che finisca in rissa, tutto per
cosa? Per aver perso una
partita a braccio di ferro!» sospirò la dea
«Il rozzo comportamento di Beerus è
stato d’inconcepibile bruttezza».
«Com’è
d’inconcepibile bruttezza, nonché poco
intelligente,
sparlare di un Hakaishin assente con la sua Iarim Neiē» disse
la Lusan, senza
scomporsi.
Helles
sollevò le sopracciglia, e per qualche istante non
disse più nulla. «Tutto sommato non sei
così bella» concluse poi, sollevando il
mento e allontanandosi.
Anise si
limitò a fare spallucce e versarsi un altro po’di
liquore. Dubitava che Helles si sarebbe più avvicinata a
lei, e trovava che
fosse una buona cosa. «L’unica Hakaishin donna
è una ddum falham»
ossia una zucca vuota «Che
tristezza…»
«È
il momento della
fotografia!» esclamò Cus, la bambina-angelo che
assisteva
l’Hakaishin dell’Universo Dieci, e gli
Hakaishin si raggrupparono in maniera ordinata, seppur borbottando un
po’.
«Lady Anise, venga qui anche lei! Si metta tra Lord Champa e
Lord
Liquir».
La Lusan
obbedì, portando con sé il bicchiere di liquore.
«Eccomi».
«Alcuni
angeli, tra cui il mio, hanno questa fissa delle
fotografie da qualche tempo. Speriamo tutti che passi presto»
le disse Liquir,
a mezza voce.
«Suvvia,
è una cosa carina…»
«Non
quando rifanno la foto ventiquattro volte perché il
risultato non li soddisfa».
«Sì,
questo è seccante» ammise Anise.
Grazie al cielo gli
angeli trovarono accettabile la
fotografia che venne fuori al tredicesimo
tentativo, e tutti quanti poterono tornare in
libertà. Champa però non
permise ad Anise di mettersi di nuovo a sedere in disparte, e dunque
venne
continuamente “ingabbiata” in una conversazione con
questo o quell’Hakaishin.
«Non ho
mai avuto motivo di visitare l’Universo Sette,
quindi dimmi, com’è la situazione sul tuo
pianeta?» chiese Vermoud ad Anise
«Data la frequentazione di Beerus e Champa immagino che si
mangi piuttosto
bene, ma non è quel che voglio sapere. Regna l'ordine? La
giustizia?»
«Non sono
troppo sicura di
come sia la situazione sul resto
del pianeta, ma nel luogo in cui vivo io ci sono diverse
città
che si divertono
a farsi la guerra da moltissimo tempo, e l’uso di
“divertono” non è casuale: ci
sono risorse per tutti, non c’è un reale motivo
per cui
debbano darsi
battaglia, eppure lo fanno. Immagino che la giustizia
regnerà
quando un leader
particolarmente forte, con un esercito altrettanto forte e mezzi
potenti, schiaccerà quelli delle altre
città».
«Hai un
concetto un
po’strano di giustizia. Quando qualcuno
più forte impone la propria volontà e/o le
proprie leggi
a persone più deboli, che
non sono dunque in grado di opporsi, si verifica un'ingiustizia
comunemente chiamata “tirannide”» le fece
notare
l’Hakaishin «Nel
mio Universo non esiste nulla di tutto ciò. Ho da poco
fondato
una squadra di
guerrieri dai poteri eccezionali, la primissima generazione di Pride
Troppers, che si occupano di
mantenere l’ordine che io desidero regni
nell’Universo
Undici. Se poi una loro azione non
basta per ristabilire la giustizia su un pianeta, epurandolo da
disordini o tirannie, io sono un Hakaishin, quindi... “hakai”. Non sono sicuro che tu
possa capire il discorso che ti ho fatto, o i miei ideali».
«Di sicuro
ho capito che il mio concetto di giustizia è identico
al tuo» replicò Anise.
«Perché
sarebbero identici, di grazia? Spiegati!» la
invitò Vermoud, con un sorrisetto di sufficienza.
«Per tua stessa ammissione hai creato una squadra di
“guerrieri dai poteri eccezionali” che si occupa di
mantenere il tipo di ordine
che tu
vuoi imporre agli abitanti del
tuo universo, e non credo che lo facciano lanciando in giro caramelle e
fiorellini. Hai anche aggiunto che se non si piegano alla tua idea di
giustizia li distruggi personalmente. Tu sei un Hakaishin, i Pride
Troppers sono molto potenti, quindi siete più forti di
chiunque altro, e imponete le vostre idee ai più
deboli» disse la ragazza «Lo trovo
sbagliato? No, creare un qualunque sistema per mantenere
l’ordine è necessario,
e distruggere pianeti è un tuo diritto. Tuttavia sono
dell’idea che le cose
vadano chiamate col loro nome: se quella di cui ho parlato io
è una tirannide,
anche la tua lo è. Se invece è giustizia, abbiamo
le stesse idee… ma le mie
sono meno ammantate di idealismo».
«E bla bla
bla!... Ti preferivo quando stavi muta in
disparte, tutte queste chiacchiere insulse mi rintronano le
orecchie» si
intromise Quitela «Ma la senti, Vermoud? Vorrebbe venire a
dire a te la sua
idea di giustizia, come se una ragazzina, che per di più
frequenta un demente
come Beerus, potesse veramente sapere quello che dice. Chi si somiglia
si
piglia, khe-khe-khe!»
Anise
portò una mano accanto a un orecchio, inclinandosi
leggermente verso il dio dell'Universo Quattro. «Come dici?
Non ti sento, da quassù» disse, alludendo
alla bassa statura dell’altro «Vermoud, se vuoi
possiamo riprendere il
discorso».
«Sarà
per
un’altra volta. Con permesso» si congedò
il dio, il
quale riteneva di aver sentito più che abbastanza.
Anise
passò le due ore che seguirono a parlare per lo
più
con Champa, Liquir -che era il terzo Hakaishin più giovane e
aveva “solo” un
centinaio d’anni più di lei- e con
Mosco… o meglio, con l’angelo di Mosco. Tra
tutti gli Hakaishin presenti forse era il più strano,
perché comunicava
soltanto con delle serie di “bip”, ma
ciò non la infastidiva. Quando partì la
musica concesse anche un ballo a lui e a Rumsshi, l’Hakaishin
del decimo
Universo. Non erano ballerini del calibro di Beerus, ma fu divertente.
Ciò
comunque non le impedì di defilarsi appena vide che la
maggior parte degli Hakaishin erano troppo distratti o, nel caso di
Champa,
troppo brilli per accorgersene. Anise non era abituata a relazionarsi
attivamente con un gruppo di persone così folto -secondo la
sua opinione lo
era- dunque, sentendo il bisogno di stare da sola per
“ricaricare le batterie”,
salì diverse rampe di scale in cerca della stanza con il
divano rotondo.
Le servirono ben tre
quarti d’ora per trovarla, ma alla
fine raggiunse il suo scopo. Si stravaccò sul divano ad
ammirare il cielo
notturno ormai sereno, dal colore molto simile a quello del suo
pianeta, e
l’oceano, ora privo di increspature. La tempesta si era
placata, ma il panorama
non aveva perso la sua bellezza.
Non era sicura di
cosa pensare riguardo quella serata. Si
era sentita un po’ un pesce fuor d’acqua, come
aveva immaginato, ma tutto
sommato sarebbe potuta andare molto peggio… o molto meglio,
se avesse dato
fuoco a Quitela.
Come di consueto, si
mise a rimuginare: quello era forse un
assaggio della vita da Neiē? Abituarsi al modo di fare ambiguo degli
angeli,
non combinare granché di utile tutto il giorno e tutti i
giorni, festeggiare
ricorrenze con persone che in realtà partecipavano solo e
soltanto per il cibo?
Anise non capiva nemmeno perché Champa tenesse a quelle
feste, se l'atmosfera era quella.
Poteva prendere in
considerazione di vivere un’eternità del
genere solo perché Beerus, coi suoi pregi e i suoi difetti,
era Beerus,
e lei lo amava. Se i sentimenti
che provava per lui fossero stati un po’ meno forti,
dubitava che avrebbe pensato seriamente all’idea di diventare
una
Neiē.
La vita che faceva
al momento era più impegnativa, ma
quantomeno non dipendeva da nessuno, si sentiva utile, e la compagnia
-fosse
quella di lei stessa o di Beerus e Champa- era sempre gradevole.
“Come ho detto a
Champa, tempo al
tempo” concluse “Tempo al tempo”.
Traduzioni
(dovrebbero
esserci tutte quelle che non sono state fatte nel corso del capitolo,
se me ne fossero sfuggite fatemelo sapere):
“Ocnaif
out la
olrerrocrep oredised”: “Desidero
percorrerlo al tuo fianco”
“Iarim Neiē,
ataiccart euqnud è adarts aut al”: “La tua strada
è tracciata, Iarim
Neiē”
Hrat’san: fucile
Come avete notato il
capitolo è più lungo del solito, ma
non ho voluto tagliarlo. Dal prossimo capitolo *dovrebbe*
esserci un
salto temporale di un anno circa.
Probabilmente
qualcuno di voi avrà trovato improbabile il
fatto che gli Hakaishin giochino a paintball, ma ehi, nel canon giocano
a
nascondino e morra cinese :”D… se ve lo state
chiedendo, la fotografia di
gruppo fatta dagli angeli al diciottesimo di Champa è quella
che Quitela
recupera in Reflecting Mirrors.
Ah, dimenticavo: da quanto ho capito, Vermoud/Belmod nel manga dovrebbe
essere piuttosto giovane, ma nell'anime non viene mai detto quale sia
la sua età, quindi mi sono avvalsa di questa mancanza di
informazioni per invecchiarlo un po'.
Grazie a tutti
coloro che stanno seguendo la storia, e
ringrazio ancor di più chi mi ha fatto conoscere il suo
parere (:
|
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Capitolo 12 *** 12 ***
RMIcap12
12
«So che tu
non puoi farci caso, ma è una nottata fredda,
una di quelle in cui ti saresti infilato nel letto di una qualche Lusan
dopo
aver bevuto. Se non fosse stato per me l’avresti fatto anche
dopo esserti
sposato. È piuttosto ironico che proprio tu, sempre pronto a
infilarlo dentro
qualunque buco o quasi, sia rimasto senza figli».
Normalmente i
cadaveri dei Lusan passati a miglior vita
venivano bruciati, e le ceneri venivano mescolate ad altre sostanze per
creare
dei fertilizzanti, ma per coloro che erano stati a capo di una
città non valeva
lo stesso discorso: i loro corpi venivano anch’essi bruciati,
ma le ceneri
venivano conservate in anfore che in seguito venivano sepolte in una
zona
adibita a cimitero.
Quel destino era
toccato anche a Meskal, precedente capo
della città di Ulthmeer e, al momento, silenzioso
interlocutore di Calida.
«Ormai
però è andata com’è andata:
tu sei qui, mentre io
comando la città al tuo posto e vivo una vita comoda in casa
tua. Mi hai
impedito di entrarvi dalla porta e io l’ho fatto dalla
finestra, come si suol
dire».
L’aria era
pungente, ma la gigantesca Lusan non sembrava
esserne infastidita, come non la infastidiva neppure il fatto che
quella fosse
una gishery dubh, una
“notte nera”,
ossia una normale notte mensile in cui le due lune non erano visibili,
e dunque
era tutto molto più buio.
«Ma non
è di questo che voglio parlare. Vedi, il fatto è
che la mia sanità mentale -di per sé poca- sembra
star andando lentamente e
inesorabilmente a puttane. Non perché sto parlando con delle
ceneri, è fuor di
dubbio che sia più interessante conversare con te ora che
sei morto» disse
Calida, e alzò gli occhi al cielo «Ma
perché i miei pensieri verso Anise
diventano sempre meno limpidi. Ogni volta che rompo le ossa a delle
Lusan giovani,
il mio cervello sostituisce le loro fattezze con quelle di Anise. Letteralmente. Io non la toccherei mai,
se penso di farle del male inorridisco, ma queste
“allucinazioni” diventano più
persistenti ogni giorno che passa. La colpa è del mio
cervello malato, questo
lo so, ma se non fosse stato per la sua relazione con Lord Beerus sono
certa
che quest’ultimo risvolto non si sarebbe
presentato» continuò «Credo che il mio
cervello dia ad Anise la colpa di essersi messa in una situazione in
cui io
sono impotente. Una colpa che in realtà non
ha. A livello razionale lo so bene, cosa credi?»
L’ululato
del vento tra gli alberi sarebbe potuta quasi
sembrare una risposta a qualcuno la cui follia fosse meno razionale, ma
non a
Calida. Aveva ucciso troppe persone per credere che i morti potessero
parlare.
«Lord
Beerus ne ha fatto la sua “Iarim Neiē”, la porta
perfino in giro con sé nel cosmo…
l’unico lato buono di ciò è che questo
loro
legame non comprenda un giuramento vincolante. Quando era sposata con
te ho
potuto intromettermi, ma con un dio non posso fare altrettanto. Io non posso proteggerla.
Se lui non la
trattasse degnamente, non potrei liberarmene come
invece ho fatto con te».
Erano passati due
anni, ma quella era la primissima
occasione in cui Calida diceva ad alta voce quel che aveva fatto.
Non era stato un
gruppo di Lusan di un’altra città a
uccidere Meskal, né ovviamente era stata Anise -al contrario
di quel che
credevano gli abitanti di Ulthmeer: a spaccare la testa
dell’ex Ulthmeer a-ghekavary era
stata proprio lei,
Calida.
Meskal aveva pochi
anni più di lei, e oltre a essere capo
figlio di capi si era distinto anch’egli per una certa
abilità in battaglia.
Aveva un bell’aspetto, ma non era precisamente un Lusan dai
modi eleganti,
anzi, era piuttosto “barbarico”
nell’ostentare la sua mascolinità… e
forse era
anche per quel motivo che moltissime donne di Ulthmeer avrebbero voluto
sposarlo.
Inclusa lei.
I meriti di guerra
di Calida, le sue
doti di lotta, le sue capacità
strategiche e il timore che incuteva il suo non soffrire il dolore
l’avevano
portata ben presto a diventare la vice di Meskal. In quel lungo periodo
della
sua vita, Calida se l’era passata bene: aveva una posizione
di potere e poteva
passare molto tempo vicino all’uomo che le piaceva, pensando
“conosce il mio
valore, quando si deciderà a prendere moglie sarò
una scelta che terrà in
considerazione”.
Peccato che Meskal
le mostrasse rispetto, che finisse
spesso ad ascoltarla e fare quel che lei gli consigliava, ma che mai, mai avesse manifestato interesse verso
di lei nel senso in cui Calida avrebbe voluto. Vero, era circa trenta
centimetri più alta di lui -e sì che Meskal era
altro un metro e
ottantacinque!- e aveva più muscoli, ma sarebbe stata una
ragione in più per
sposarla: i loro figli sarebbero venuti alti e forti, così
grossi che avrebbero
potuto conquistare il mondo.
Si era detta
“sicuramente penserà a queste cose, quando
deciderà di sposarsi sul serio”.
In seguito, quando
Meskal aveva compiuto trentasei anni,
Calida lo aveva sentito spesso accennare all’idea di
sistemarsi, e pur non
dandolo affatto a vedere aveva iniziato ad attendere per davvero una
proposta
che invece non arrivava mai.
Aveva smesso di
farlo quando l’aveva sentito parlare con un
amico.
“Calida,
dici? Spero che tu stia scherzando. Come vice ha
la mia stima, ma ha sempre quello sguardo… come se avesse
voglia di strapparti
gli occhi”.
“Mi
risulta che lo faccia davvero, sbaglio?”
“Appunto,
non potrei mai sposarmi con una così. Rimanga
tra me e te, ma quella lì a volte mi fa una paura fottuta.
Io con Callie
Mezz’Uomo? Non se ne parla proprio, e poi è troppo
vecchia”.
“Ha
pochi anni meno di te”.
“Proprio per
questo dico che è vecchia. E poi ultimamente
c’è già una Lusan che mi attira:
andrà rimessa in riga, ma posso riuscirci
facilmente, ed è sia molto bella, sia
giovanissima”.
Altre avrebbero
rivelato la propria presenza per prenderlo
a sprangate, ma non lei. Ovviamente non le era piaciuto sentirsi
chiamare
“Callie Mezz’Uomo”, ma aveva avuto la
conferma che Meskal, il capo della città,
era troppo spaventato da lei per dirle tutte quelle cose in faccia.
Non era quel che
avrebbe voluto, ma capiva bene che essere
temuta dal suo superiore le garantiva un certo ascendente su di lui, e
Calida
poteva accettare qualunque situazione, a patto che ne avesse il
controllo.
Poi però
aveva scoperto che la giovanissima Lusan di cui
Meskal aveva parlato era nientemeno che Anise, ed era stato in quel
momento che
le cose avevano preso una pessima piega.
Calida NON aveva
incolpato sua “sorella”. Anise non aveva chiesto di
nascere bella, né aveva mai
fatto alcunché per attirare l’attenzione di
chicchessia, a meno di voler
considerare -erroneamente!- il suo isolamento come un modo per farsi
notare;
dunque aveva spinto la Lusan più giovane ad accettare
la proposta perché, sulla carta,
quella di poter sposare Meskal era la migliore occasione che potesse
capitare
ad Anise.
Era “la
migliore occasione”, ma non quel che Calida aveva
progettato.
Quando la
possibilità che Anise si sposasse si era
concretizzata, aveva iniziato suo malgrado a sentirsi ribollire il
sangue nelle
vene: non per invidia, non perché avrebbe voluto essere al
posto di Anise -non
voleva più, non dopo aver capito quant’era
vigliacco il suo capo-, non perché
questa era bella e lei invece un
“Mezz’Uomo”, ma…
perché, di tutte le Lusan che
c’erano, Meskal aveva scelto proprio Anise? Perché
gliela stava portando via?
Perché voleva strapparla da lei, che l’aveva
salvata, l’aveva amata e
cresciuta?! Non era giusto. O meglio, oggettivamente era giusto che
Anise prima
o poi abbandonasse il nido, ma non era quel che Calida voleva.
Lei era… sua.
Quello era stato il pensiero malato che
quella sera maledetta l’aveva portata a toccarla come non
avrebbe mai dovuto
fare.
Per fortuna Anise
sembrava averle “perdonato” quel che
aveva fatto, forse in virtù del fatto che non avesse nessun
altro al mondo se
non lei. C’era un po’ di distanza in più
ma non avevano tagliato i ponti, e
Calida aveva potuto continuare a verificare che Anise venisse trattata
come lei
voleva.
Il matrimonio di
Anise era stato abbastanza tranquillo, e
poteva prendersi buona parte del merito: Calida sapeva che Meskal
avrebbe
voluto una moglie che gli obbedisse sempre e comunque senza mai
protestare, e
conoscendolo sapeva che in caso contrario avrebbe potuto reagire
piuttosto
male. Consapevole di fargli paura, lo aveva preso da parte poco dopo la
celebrazione del matrimonio.
“Io
ti ho dato Anise, ma capiamoci: devi trattarla come
se fosse fatta di cristallo. Voglio che tu sia delicato con lei, un
gentiluomo,
per quanto sei in grado di esserlo. Non prenderla mai a male parole,
non osare
mai tradirla e non azzardarti a metterle le mani addosso,
perché se per
disgrazia io venissi a sapere che hai fatto una qualsiasi di queste
cose -e ti
garantisco che verrei a saperlo, indipendentemente da quel che potresti
fare
per nasconderlo- potresti incorrere in conseguenze alquanto sgradevoli.
Non ho
mai mangiato degli occhi di Lusan, ma potrei cominciare. Detto
ciò, Meskal
Ulthmeer a-ghekavary, ti faccio i miei auguri di un lieto avvenire
insieme a
mia sorella”.
L’orgoglio
idiota di Meskal gli aveva impedito di parlare
con chiunque di quella minaccia e di quanto l’avesse
spaventato, esattamente
come Calida aveva previsto. L’orgoglio da solo poteva essere
dannoso, la sola
vigliaccheria anche, ma un uomo preda di entrambe le cose era
un’eccellente
pedina: manipolabile e silenziosa.
Anise e Meskal in
seguito non erano diventati una coppia
innamorata, o anche solo vagamente ben assortita, ma le cose erano
filate abbastanza
lisce per un anno intero. Il problema era che i figli legittimi da lui
tanto
desiderati non volevano proprio arrivare, per quanti tentativi potesse
fare, ed
era stato per quel motivo che Meskal aveva ripudiato pubblicamente
Anise.
Tutta la
lungimiranza di Calida non le aveva permesso di
prevedere che le cose sarebbero andate a finire in quel modo, non
pensava che
il vigliacco Meskal avrebbe osato tanto. Era il giorno del
sedicesimo compleanno di Anise. Il suo
sedicesimo compleanno. Lei
aveva trovato la faccia tosta di
rispondere in malo modo a Meskal denigrando la sua abilità
di amante, prima di
scappare veloce come il vento nella sua amata Vynumeer, ma non era
abbastanza,
non secondo Calida.
“Meskal,
ripudiare una moglie sterile era nei tuoi
diritti, e il modo in cui lei ha reagito è stato quasi
increscioso. Purtroppo
Anise non è molto brava a seguire le regole”.
“Quindi
siamo… insomma è tutto a posto ora, immagino.
Come sempre”.
“Come ho
detto, ripudiare una moglie sterile è un tuo diritto:
kopit lagh, bayts’ tha lagh. La legge è dura, ma
è legge”.
Lo aveva detto con
tale convinzione che Meskal si era
tranquillizzato. Calida si chiedeva ancora come fosse riuscita a
controllare e
nascondere così bene la voglia di ucciderlo, che era esplosa
nel suo cervello
come il colpo di un hrat’san,
di un
fucile: l’intera Ulthmeer aveva creduto che stesse dalla
parte “giusta”, ossia
quella del suo capo Meskal, e avesse classificato a sua volta la
sorella come
la povera pazza sterile che secondo loro era.
Non immaginavano che
la mente di Calida stava già
programmando l’omicidio di Meskal per quella sera stessa.
L’Ulthmeer
a-ghekavary
aveva l’abitudine di recarsi in riva al fiume un
giorno sì e uno
no, e quello era uno dei “giorni sì”.
“Mes”.
“Calida
tu… cosa fai qui?!”
“Nulla di
preoccupante, voglio soltanto ucciderti. Ah, e
ovviamente voglio anche mangiarti gli occhi”.
La lotta era stata
più breve di quanto Calida stessa si era
aspettata, forse perché lei aveva lasciato che la furia
rendesse i suoi colpi
ancor più devastanti di quanto fossero di solito. Meskal
l’aveva più volte
colpita allo stomaco e al petto, le aveva perfino incrinato un paio di
costole
ma… che problema poteva essere, per una Lusan che non
soffriva il dolore?
Quando lei aveva
rotto un ginocchio del suo capo, per lui
era stata la fine. Una volta atterrato, Calida si era lasciata
possedere
completamente dal raptus omicida, e lo aveva pestato fino a macellare
ogni centimetro
quadrato del suo corpo. Infine gli aveva strappato gli occhi: gli aveva
detto
che l’avrebbe fatto, nel caso lui non avesse trattato Anise
come meritava, e
aveva mantenuto la promessa.
Del resto era stata
lei a insegnare ad Anise che bisognava
essere donne di parola.
Quando era tornata
abbastanza lucida per capire che gli
occhi di un vigliacco avrebbero avuto un sapore poco interessante, e
dunque
aveva deciso di buttarli nel fiume, si era anche resa conto di aver
commesso
una leggerezza: togliere i bulbi oculari alle vittime era la sua firma. Lasciare una prova
così
evidente dopo essersi portata dietro dei vestiti puliti e dei guanti
meno
rovinati sarebbe stato stupido.
Aveva trascinato
Meskal -ancora aggrappato all’ultimo
alito di vita- fino a una grossa roccia bagnata dalle acque del fiume,
lo aveva
afferrato per la nuca e aveva iniziato a sbattere la testa del Lusan
contro il
sasso. Il rumore di un cranio che si spappolava le era sempre risultato
gradevole, ma in quell’occasione era stato come ascoltare la
melodia di uno za sviranje, di una
scatola del suono.
Una volta finito
aveva lasciato lì il cadavere, si era data
una breve lavata, aveva strappato e gettato i vestiti sporchi nella
corrente del
fiume e
indossato quelli puliti, e infine si era messa a riflettere su cosa
sarebbe
avvenuto il giorno dopo. Di certo gli abitanti di Ulthmeer avrebbero
accusato
Anise dell’omicidio appena commesso, sebbene chiunque usando
un po’di buonsenso
avrebbe potuto capire che lei non sarebbe mai riuscita a ucciderlo in
quel
modo, quindi il suo obiettivo era trovarsi nel posto giusto al momento
giusto
per acquisire il titolo di Ulthmeer a-ghekavary -che,
morto Meskal, era
suo- ed
evitare ad Anise il linciaggio.
Si era detta che
l’avrebbe
esiliata e mandata a vivere nella foresta,
facendo contenti tutti. Contenti gli abitanti di Ulthmeer, che non
avevano mai
accettato davvero Anise, le sue gite a Vynumeer e quel suo
“male di vivere”;
contenta Anise, la quale aveva detto più volte che avrebbe
vissuto più
volentieri nella casa in mezzo alla foresta piuttosto che in
città; e contenta
lei stessa, Calida, con la sua nuova posizione… e con una
“sorella” lontana
dagli sguardi di qualunque maschio. Nessuno avrebbe più
potuto cercare di
portargliela via.
Le cose si erano
svolte come aveva immaginato, eccetto per
un particolare: non si aspettava che Anise, accusata di omicidio appena
era
tornata da Vynumeer, reagisse come aveva fatto.
Calida era arrivata
sul posto appena in tempo per sentire
sua sorella ridere di gusto, questo per il dover -parole sue-
“morire a causa
di un branco di linci imbecilli che trova sensato il fatto che una
ragazzina
sia riuscita a ridurre in quel modo una bestia come Meskal, ceeerto. Infilate pure la mia testa in
quel cappio, sarà sempre meglio che stare a sentire le
vostre idiozie… e per il
resto, andate tutti a fanculo”.
Calida era riuscita
a evitare il peggio ad Anise, ma non si
era ancora tolta dalla testa quella risata, così densa di
tutta l’anormalità che
la Lusan più giovane si era sempre trascinata dietro, e di
cui non sarebbe mai
riuscita a liberarsi.
Anche nei momenti in
cui Calida l’aveva vista più serena
c’era sempre stato “qualcosa” nello
sguardo di Anise, come un demone in agguato
pronto a conficcare gli artigli nelle tenere carni di quella delicata
ragazza.
Calida poteva riconoscerlo: probabilmente era quello che aveva lei
stessa.
Che fosse stata lei
a trovarla, e proprio al villaggio maledetto di Vynumeer, forse
era stato un segno premonitore. Forse nessuna di loro due sarebbe mai
riuscita
a vivere una vita normale -per quanto ognuna a modo proprio potesse
tentare di
farlo- nessuna di loro due avrebbe mai trovato veramente pace.
Calida non riusciva
a immaginare un destino di pace né per
sé né per sua sorella, ed era per questa ragione
che, pur essendo agli
antipodi, la sentiva affine in un modo che nessuno avrebbe potuto mai
capire.
Tantomeno un morto e
un Hakaishin ragazzino.
«Credo di
non aver altro da dire, Mes, e a meno che le mie
allucinazioni peggiorino non credo mi rivedrai più. Mi
raccomando: cenere in
bocca su questo argomento, d’accordo? La mia poca
sanità mentale deve restare
un segreto. Già, ma cosa vado a dire? Come dice la canzone,
due persone possono
mantenere un segreto solo se una di loro è morta, e direi
che questo sia
proprio il nostro caso. Complimenti, da quando sei lì sotto
il tuo tempismo è
migliorato moltissimo».
Come se tutta quella
delirante conversazione non fosse mai
avvenuta, come se non avesse riportati a galla pessimi ricordi di
appena due
anni prima, Calida abbandonò il Cimitero dei Capi con tutta
la tranquillità
dell’Universo.
«“Abbiamo un segreto/
lo manterrai?/ giuri, non ti salverai/ meglio chiuderlo in una tomba/
in una
tomba insieme a te”…»
I Lusan erano bravi
a inventare e tramandare canzoncine
inquietanti, e Calida, intenta a canticchiare lungo il sentiero buio e
deserto,
trovava che quella fosse particolarmente appropriata.
«Nel silenzio della
morte/ non rivelerai cosa sai/ due nascondono il segreto/ solo se uno
è in una
tomba”».
***
«Vuole
distruggerci tutti!»
«Gli dica
di graziarci, per favore, la supplico…»
«Maledetto
bastardo!»
«Ti prego,
risparmiaci, ti prego!…»
«Mostro!
Schifosissimo mostro, crepa! CREPA!
Tu, insieme alla tua puttana!»
Beerus sapeva di
aver traccheggiato a sufficienza su quel
pianeta che, indipendentemente dalle suppliche e le maledizioni dei
suoi abitanti,
andava distrutto. Al di là dei risultati dei calcoli svolti
-corretti da Anise
un paio di volte- non aveva trovato un singolo motivo per risparmiarlo.
Verificò
che Anise fosse a braccetto con Whis, e a quel
punto lasciò cadere dalla mano destra una minuscola stilla
di energia.
«Abbiamo
finito».
Tutti e tre si
allontanarono velocemente, solo quel tanto
che bastava per poter assistere all’esplosione del pianeta
nella sua interezza.
I bagliori delle
crepe luminose rosso arancio che si
sparsero su tutto il globo si riflettevano sugli occhi gialli
del giovane Hakaishin. Non era certo la
prima volta che ammirava i frutti del
proprio lavoro, ma la distruzione di un pianeta era uno spettacolo
affascinante, che riusciva sempre a dargli un senso di appagamento.
Avere tra
le mani un potere tanto devastante, a patto di poterlo controllare come
faceva
lui, sarebbe stata una fonte di soddisfazione per chiunque, e Beerus
-che era
stato letteralmente cresciuto come una divinità
distruttrice- non faceva
eccezione.
Quello era il suo
mestiere, e quello era il modo che aveva
trovato per riuscire a convivere con la consapevolezza che la
quantità di
sangue sulle sue mani era aumentata ancora, e avrebbe continuato ad
aumentare
sempre e comunque fino a quando lui fosse vissuto. Aveva deciso di
concentrarsi
sui lati positivi e di non pensare a quelli negativi, ed era necessario
per
sostenere il peso di essere un Hakaishin. L’appagamento
provato non faceva di
lui un sadico, ne faceva solo un ragazzo che cercava di mantenere un
buon equilibrio
mentale senza farsi schiacciare da sensi di colpa che, se non venivano
messi
completamente da parte, avrebbero rischiato di dilaniarlo.
Con il tempo si
sarebbe abituato del tutto a quella
situazione, e probabilmente avrebbe perso molti degli scrupoli che ogni
tanto
facevano ancora capolino nel suo cervello, ma per il momento andava
bene così.
Il pianeta esplose
in una nube luminosa e piena di colori,
e fu allora che il dio avvertì la testa di Anise poggiarsi
sulla sua spalla.
«Andava fatto» disse dunque, in una sorta di
giustificazione che però non era
necessaria.
«Non ho
mai detto il contrario».
Beerus fece un
debole sorriso. «So che ormai è passato un
po’di tempo da quando ho iniziato a portarti con me in giro
per l’Universo, ma
forse non mi sono ancora abituato del tutto all’idea che tu
accetti senza
problemi cose come questa».
«Questo
è il tuo compito, e non distruggi pianeti a caso.
Qualcuno deve occuparsi di certe cose, e tu prendi il tuo mestiere con
molta
serietà: finché sarà così
-e non vedo perché le cose dovrebbero cambiare!- non
avrò mai nulla di cui rimproverarti, sirel
ym».
Sentendo
ciò il sorriso dell’Hakaishin si
allargò, e si
voltò per stringere tra le braccia e baciare la sua Iarim
Neiē. Grazie
all’orecchino che Anise portava all’orecchio destro
non aveva problemi a
sopravvivere nello spazio aperto -o a qualunque tipo di atmosfera- e ad
avere
un minimo di “stabilità” anche se non
era in grado di volare. «Me lo avevi già
detto, ma è sempre bello sentirlo. Ci sono momenti in cui mi
viene in mente che
un giorno il peso di quello che vedi possa schiacciarti».
«Sei tu a
portare questo peso, e se io posso darti anche
solo un minuscolo aiuto a sostenerlo ne sarò
felice… benché, a giudicare dalla
soddisfazione con cui guardavi il pianeta esplodere, sia certa che tu
potresti
gestirlo benissimo anche da solo» aggiunse la ragazza,
dandogli un piccolo
bacio sulla punta del naso appena prima di venire distratta da un breve
lampo
di luce bianca.
«“Coppia
Hakaishin/Iarim Neiē che si scambia tenerezze
mentre un pianeta esplode”: è una
rarità, nessuno dei miei fratelli potrebbe
mandarla al concorso, e se questa fotografia non vincerà
potrei anche
accorciare i miei capelli di un centimetro!» disse Whis,
rimirando la foto
appena scattata.
«Devi
smetterla con quelle fotografie, cominciano a
seccarmi non poco!» disse Beerus, seccato «Non vedo
l’ora che si tenga questo
benedetto concorso, così che tu la faccia finita. Andiamo a
casa, ormai sul
nostro pianeta sarà notte!»
Partirono in
direzione del pianeta di Beerus, e Anise pensò
che questi non aveva affatto torto: anche lei non vedeva
l’ora che Whis la
facesse finita con le fotografie. I rapporti tra lei e
Whis non erano cambiati di una virgola
in tutto il tempo che era passato, ma Whis doveva trovarla piuttosto
fotogenica, perché da quando aveva iniziato a fare foto per
il concorso la
rendeva spesso soggetto principale o parte dei suoi scatti.
Inizialmente né lei
né Beerus avevano avuto da ridire -Beerus era stato perfino
contento, perché
erano belle foto e lui avrebbe potuto averne delle copie- ma come dice
il
proverbio, il “troppo stroppia”!
«Lord
Beerus, non capisco proprio perché le mie foto la
infastidiscono» disse l’angelo «Non
è molto fotogenico, quindi non la coinvolgo
molto spesso…»
«Come
sarebbe a dire che “non sono
fotogenico”?!» protestò
Beerus, un po’piccato «Io sono la perfezione fatta
divinità!»
Anise
ridacchiò. «Lord Beerus, Hakaishin del settimo
Universo, uno strafigo depilato possente e oliato!...»
«Mi stai
prendendo in giro, quindi ora sono molto offeso e
non voglio più parlarti!» esclamò lui,
voltando la testa dall’altra parte.
Conscia che Beerus
non era arrabbiato sul serio, Anise
iniziò ad accarezzarlo sulla nuca. «Eppure dopo un
anno insieme dovresti sapere
che ti trovo bellissimo».
«Mpf».
Ridendo piano, la
ragazza si allungò per baciare un punto
preciso alla base del collo di Beerus. Aveva imparato piuttosto in
fretta i
posti dove lui amava particolarmente essere baciato o toccato, tanto da
essere
arrivata a pensare che ormai il corpo del suo compagno fosse per lei
privo di
segreti. «Su, fai il bravo dio invece del dio offeso,
altrimenti continuo, e
considerando che hai dei brividi di piacere solo per questo…
sai…»
«Suvvia,
abbiate un po’di contegno! Non è momento
né luogo
per l’intimità» intervenne Whis.
«Già!
Dal momento che Beerus dice di non volermi parlare,
posso approfittarne per farti una domanda che mi ronza in testa da un
po’?»
L’assistente
fece un sospiro. «Temo che finirò col
pentirmi, ma chieda pure».
«Come vi
riproducete voi angeli?»
Whis
arrossì leggermente. «Appunto, mi sono appena
pentito.
Di tutto quel che potevamo parlare, proprio un simile
argomento?»
«Whis, la
riproduzione è una cosa naturale, non
c’è nulla
di male a parlarne. Io nel tempo, e un po’anche grazie ai
libri, ai fumetti e
ai film che mi ha fatto vedere Beerus, ho formulato qualche teoria: la
prima
era che voi angeli vi riproduceste per scissione, ma non avrebbe avuto
molto
senso, perché sareste dovuti essere tutti uguali»
iniziò a elencare la lince «La
seconda invece era che foste ermafroditi e vi inseminaste da soli, ma a
quel
punto non sarebbe servita la presenza di una diversità di
genere nella vostra
razza -che invece c’è.
La terza
teoria invece è che ci sia un “angelo
capo” che depone delle uova facendole
uscire da non so quale buco e-»
«Quando un
angelo maschio vuole riprodursi cerca una
femmina con la quale avere uno o più coiti. Chiuso il
discorso».
«Oh, Whis
angelo monello!» esclamò Anise.
«Tu e
Champa dovete iniziare a frequentarvi di meno, perché
in un anno ti ha attaccato parte del suo disagio!»
commentò Beerus, facendo una
fatica bestiale per non mettersi a ridere.
«Perché,
tu non sei mai stato curioso di sapere come si
riproduce il qui presente Whis?»
«No, che
diamine, NO!»
esclamò il dio «Meno ne so, meglio sto!»
«Spero si
sia reso conto che le parole della sua Iarim Neiē
a volte scadono nell’indecenza».
«Io ho
fatto una domanda generica su un processo del tutto
naturale, dov’è il problema? Siete uno peggio
dell’altro, davvero» disse la
ragazza.
Beerus fece
un’espressione perplessa. «Mi risultava che tu
e io parlassimo tranquillamente di sesso, oltre a metterlo in
pratica».
«Dettaglio
che non era necessario aggiungere» sospirò Whis.
«Due
parole, Beerus: ciclo mestrual-»
«Lallallalalallà! Non
ti seeeento!» gridò
l’Hakaishin, tappandosi le orecchie.
Anise fece un grosso
facepalm. «Ecco, appunto. Ma è mai
possibile?»
«È
lei che lo ha traumatizzato» le fece notare Whis.
Anise
sollevò un sopracciglio. «Lo ho traumatizzato solo
perché gli ho spiegato in cosa consiste il ciclo mestruale?
Sul serio? La colpa
comunque è di chi avrebbe dovuto fargli una lezione
più approfondita sul
funzionamento del corpo femminile, ossia tu!»
«Lady
Anise, non tutte le femmine dell’Universo hanno il
ciclo, e le assicuro-»
«LALLALLALALALLÀ!»
«…
le assicuro che la dovuta lezione teorica di anatomia è
stata impartita a tempo debito» continuò Whis.
«Immagino:
“Il tuo organo riproduttivo è quella cosa che
hai in mezzo alle gambe, chiamata pene, mentre le femmine di solito
hanno un
organo chiamato vagina. Ora ti porto in un postribolo, così
vedrai come si
usano”!»
«Dovrebbe
ringraziarmi per avergli dato modo di fare
esperienza, se mai, o lei sarebbe rimasta all’asciutto. In
tutti i sensi»
replicò l’angelo.
«Avete
finito? Non si parla più di cose da donne, vero? Ne
ho avuto abbastanza per una vita intera» borbottò
Beerus, togliendo le mani
dalle orecchie «Per fortuna che quella cosa ti è
capitata solo una volta in
oltre un anno».
«Se dico
che sono sterile c’è una ragione».
Per Anise non era
eccessivamente spiacevole tirare fuori
l’argomento nonostante fosse stata proprio la sua
sterilità a causare la fine
del suo matrimonio e tutto il resto, ma Beerus, dimentico della
presunta
“offesa” di prima, volle comunque stringerla a
sé e farle i grattini dietro le
orecchie.
«È
incredibile come Anise, durante i primi venti secondi di
grattini, sia mentalmente assente. È troppo
carina» sorrise Beerus, sentendola
fare le fusa.
«Sarebbe
ancora più carina se evitasse di farmi domande
inopportune su come mi riproduco».
«Cosa vuoi
farci, Whis? Lo sai che è una lincina curiosa… e
se sul nostro pianeta è notte, allora è
l’anniversario del nostro primo
incontro! Mi sembra quasi incredibile che sia già passato un
anno da allora».
«Vorrà
dire “che sia passato solo
un anno”. Le sembrerà chissà cosa, ma
credo sia tempo di
iniziare a entrare nell’ottica che un anno con questa ragazza
rappresenta una
frazione di tempo infinitesimale, rispetto alla vita immortale cui lei
è
destinato» ribatté Whis.
«Non solo
io, anche lei. Diventerà la mia Neiē. Magari non
subito, ma accadrà presto».
«Questo
sarebbe avventato».
«Ma non ti
riguarderebbe affatto, perché scegliere una Neiē
è un mio diritto!»
Whis aveva sperato
che Beerus, avendo reso Anise la sua Iarim
Neiē, se ne sarebbe stato tranquillo per un bel pezzo. Nel corso dei
mesi che
erano passati era arrivato quasi a crederlo davvero, perché
Beerus non aveva
mai tirato fuori l’argomento “Neiē”, ma
sembrava essersi sbagliato di grosso.
«Farlo comporterebbe la creazione di un life-link, quindi non
corra. Lo dico
per il suo bene, Lord Beerus: dia tempo al tempo, non abbia fretta.
Conosce il
proverbio sulla gatta frettolosa che partorì i gattini
ciechi».
«Quali
gattini ciechi?» domandò Anise, che si era appena
ripresa dall’effetto dei grattini.
«Quelli di
un proverbio, “la gatta frettolosa partorì i
gattini ciechi”. Dovrebbe essere un invito a non fare certe
cose prima del
cosiddetto “dovuto”» rispose Beerus
«Ma non dare peso a quello che dice, perché
al momento ho sentito solo diverse stupidaggini».
Peccato che Anise
sapesse bene che difficilmente dalla
bocca di Whis uscivano stupidaggini, specialmente se lei non poteva
sentirle a
causa dei grattini, e ancor più se si trattava di inviti a
non fare le cose di
fretta. Ormai non c’erano molti argomenti di cui Whis potesse
dire una cosa del
genere, per cui c’era la possibilità che Beerus
avesse tirato fuori il discorso
“Neiē”.
Nel corso di
quell’anno non era capitato troppo spesso,
anche nei momenti passati completamente da soli, ma in effetti
c’erano stati
degli accenni a un futuro di quel tipo… un futuro di cui non
riusciva ancora a
convincersi al cento per cento.
Amava Beerus, e
pensava che fosse una persona meritevole?
Certo.
La sua vita attuale
nella foresta, con svariate cose da
fare ogni giorno, le piaceva? Certo.
Sarebbe stata in
grado di compiere una scelta, se si fosse
trattato di rinunciare
a Beerus o alle
proprie abitudini e i posti che amava, come Vynumeer? Al momento non ne
era
sicura.
“È
passato solo un anno, procedere con ancor meno cautela
di quanto Beerus e io abbiamo fatto finora sarebbe stupido. Meglio
godersi il
presente senza farsi eccessivi problemi sul futuro” concluse.
In breve tempo
raggiunsero e superarono la nebulosa che
avvolgeva il pianeta di Beerus. Una volta atterrati accanto al palazzo,
Whis
diede loro la buonanotte. «Vi raccomanderei di non fare
troppo tardi, perché
per domani è programmato un allenamento, Lord Beerus. Io
vado a coricarmi»
disse, dileguandosi dopo un piccolo e breve inchino del capo.
«Finalmente
soli, mh?» sorrise Anise, dopo aver dato un
bacio a Beerus.
«Eh
sì, finalmente soli! Proprio in tempo per
festeggiare».
«Festeggiare
cosa?» domandò la ragazza, perplessa.
Dinanzi a
quell’apparente dimenticanza, il dio rimase
perfino un po’male. «L’anniversario. Noi
due ci siamo incontrati un anno fa…»
«Ma il
nostro anniversario è doma- ah, è vero! Noi siamo
già a “domani”!»
esclamò la ragazza, e si batté una mano contro la
fronte «Non
mi sono ancora abituata al fatto che di pianeta in pianeta cambino
stagione,
ora e momento del giorno. Per fortuna che qui il tempo e
l’alternanza
notte/giorno sono abbastanza in sincrono con quelli del mio pianeta.
Non
pensare che mi sia dimenticata dell'anniversario, ovviamente mi
ricordavo,
però non mi ero resa
conto che fosse già arrivato. Mi
dispiace…»
«Tu per il
momento sei meno avvezza di me ai viaggi cosmici
e tutto quel che comportano, un po’di smarrimento
è normale, e se mi dici che
non ti eri dimenticata ti credo» la tranquillizzò
il dio.
«Mi
farò perdonare con una torta di otto piani, invece che
quattro!» dichiarò Anise «Mi piacerebbe
poterti regalare qualcosa di diverso
dal cibo, ma non saprei cosa-»
«E a me
sarebbe piaciuto poterti regalare dei gioielli, ma
tu “No, ne ho già tanti con le mie perline di
vetro”! Questo tralasciando il
fatto che potrei darti ben altro» aggiunse Beerus
«Tu sei la mia compagna, e se
tu lo volessi io potrei darti l’Universo, o -volendo pensare
più in piccolo-
renderti la padrona assoluta del tuo pianeta. Ti basterebbe una
parola».
«Il potere
non mi attira, Beerus, in nessun senso. Non mi
servono gioielli, non mi serve l’Universo, e non mi serve
nemmeno essere
padrona del mondo. Io sto bene così, vivo la mia piccola
vita nella mia casa in
mezzo alla foresta, o a Vynumeer. Non voglio altro… a parte
te, chiaro».
“Già,
devo anche ricordarmi di dare davvero il
tesoro di Rubedo a mia sorella, perché tra una cosa e
l’altra
in tutto il tempo che è passato non gliel’ho
ancora donato!” aggiunse
mentalmente.
«Lo so, me
lo hai ripetuto più volte. In ogni caso credo di
aver trovato un regalo che dovrebbe piacerti» disse Beerus,
prendendola in
braccio «Ora ti porto a vederlo».
Fecero un breve
volo, raggiungendo uno dei più alti rami
sporgenti del palazzo albero, tanto grande e largo che ci si sarebbe
potuta
costruire sopra una casa come quella di Anise… ma no, non
c’erano case, e a circa
tre metri dalla fine del ramo era stata posizionata una grande
altalena.
«Visto che
ti piace dondolare ho pensato che avresti gradito
poterlo fare anche qui, e possiamo anche andarci insieme, se uno di noi
va in
braccio all’altro. Però non potrai lanciarti
giù come fai con l’altra altal-»
La Lusan lo
interruppe con un bacio. «Grazie. È
un’idea
magnifica… possiamo andarci adesso?»
Beerus
annuì, e neppure un minuto dopo eccoli lì, in due
sull’altalena, a condividere la medesima sensazione di essere
irraggiungibili
da qualunque male dell’Universo.
Almeno per il
momento.
Hello!
Avevo iniziato a temere che questa settimana avrei ritardato a
pubblicare il capitolo, ma purtroppo per voi il rischio è
stato scongiurato da Callie che, bontà sua, aveva voglia di
raccontarvi come e perché ha ucciso Meskal. Ringraziate
quella bizzarra malata mentale, perché se questo capitolo
è stato pubblicato in tempo è merito suo! :"D
Proprio a proposito di Calida, la canzoncina che canta è la
traduzione di questa,
solo leggermente modificata.
Un altro appunto: la cosa dei calcoli non era campata per aria
perché, se non erro, un capitolo del manga mostra
Sidra intento a eseguire non so quali calcoli per capire se fosse
possibile evitare di distruggere un pianeta. Il Beerus del presente
ovviamente se ne strafrega di fare calcoli, questo lo so benissimo, gli
basta poco per decidere che è tempo di hakai :"D
ma attualmente ha diciotto anni, e magari si lasciava convincere a
farne, a causa dell'inesperienza.
Non ho altro da dire, per cui grazie a chi legge, grazie a chi legge e
recensisce, e... alla prossima!
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Capitolo 13 *** 13 ***
RMIcap13
13
«Tra
quanto hai
detto che arriverà il mio fratello scemo?»
«Appena
Whis gli
darà la libera uscita. Calcolando anche il
tempo che serve loro per arrivare qui da me, direi due ore e mezza.
Champino?»
«Sì?»
«Quegli
albumi
dovrebbero essere già montati a neve».
Il dio
sospirò,
diede un’occhiata alla ciotola sul tavolo e
iniziò a sbattere gli albumi più velocemente di
quanto avrebbe potuto fare
qualunque frullatore. «Sei una schiavista, Anise».
«Sei tu
che hai
voluto imparare come si fa la torta drakht»
replicò la ragazza «E
se sarai tu a lavorarci sopra magari
gli “spiriti della foresta” non si mangeranno mezzo
impasto crudo come l’ultima
volta, non credi?»
«Ehi! Stai
insinuando che lo abbia mangiato io?!»
Anise, per nulla
arrabbiata
con lui, fece una breve risata.
«Champa, l’impasto di questa torta è
molto liquido e tu avevi due baffi giallo
chiaro lunghi così, quindi non sono insinuazioni, sono
accuse precise!»
«Gli
spiriti della
foresta mi avevano incastrato!» cercò di
difendersi lui, pur sapendo benissimo di essere colpevole.
«Gli
albumi ora
vanno incorporati ai tuorli e lo zucchero
che hai montato prima, e sii delicato, se no si smonta tutto. Poi metti
la
farina, il lievito in polvere, e dopo ancora il burro sciolto. Al
lavoro,
schiavo!» scherzò la ragazza.
«Sì
però a me spetta la fetta più grossa, sia
chiaro!»
esclamò Champa, eseguendo gli ordini uno dopo
l’altro.
«Ricordati
che
quella torta andrà divisa in cinque parti,
perché è molto probabile che Vados si aspetti che
ne facciamo una, e dunque che
torni».
«Poteva
rimanere e
basta. Stando da solo con te mi diverto
più di quando c’è anche lei,
però non è molto carino accorgermi che non mi
vorrebbe attorno. So che non sono l’Hakaishin più
diligente, o il più sveglio,
o il più forte, o il più magro…
però non mi sembra di essere tanto peggio di
altri, no?»
«Certo che
non lo
sei, tu sei molto meglio di svariati tuoi
colleghi, e lo dico con cognizione di causa. Se penso a Quitela ho
ancora
voglia di dargli fuoco».
«Quello
è piuttosto normale, ma non invitarlo al mio
diciottesimo voleva dire fargli uno sgarbo, e non voglio problemi con
gli altri
Hakaishin. Quitela avrà pure barato a braccio di ferro per
vincere contro Beerus, ma
resta più forte di
me, e io purtroppo non sono mio fratello» disse Champa,
alzando gli
occhi al soffitto
«Dunque non posso farmi detestare da tutti -parecchio-
e decidere di fregarmene. Davvero, quando siete insieme e vedo come
si
comporta con te a volte ho il dubbio se sia davvero lui oppure no: di
solito è
più bravo ad abbandonare le persone che a star loro vicino,
se queste non
rispettano i suoi personalissimi canoni di
“valore”».
Anise aveva la
sensazione di
essere
finita in un discorso alquanto scivoloso, anche se non aveva detto o
fatto
nulla per incapparvi. «C’è qualcosa in
particolare che ti spinge a dirlo?»
Champa
esitò,
rendendosi conto che se avesse continuato a
parlare avrebbe finito per raccontarle di quel che era successo quando
lui e
Beerus erano piccoli, un argomento difficile per lui quanto lo era per
suo
fratello. Non era troppo sicuro di volerne parlare. «Vecchie
storie. Ma le cose
non sono cambiate da allora, credo che lui mi consideri sempre un
fallito».
«È
un
peccato che non riusciate a parlare di quelle vecchie
storie, o che difficilmente ci riuscireste senza saltarvi alla gola.
Litigate
per ogni minima cosa, ma in fondo tu vuoi bene a Beerus, e lui ne vuole
a te. È
difficile riuscire a odiare davvero un fratello, anche quando fa cose
che non
dovrebbe fare, e soprattutto se hai solo lui
nell’Universo».
«Ora parli
di me e
Beerus, o di te e tua sorella? Con tutto
il rispetto, se non sapessi di poterla scagliare dall’altra
parte del pianeta
con un buffetto potrebbe quasi, beh, non dico farmi paura,
ma…» Champa fece con
gesto con la mano che significava “quasi”
«L’atmosfera che c’era qui quando ci
siamo trovati tutti e tre insieme qualche giorno fa era un
po’strana».
«Non si
è comportata male».
«È
vero» ammise il dio, mentre rovesciava l’impasto
nello
stampo «Non ha detto o fatto niente di strano,
però c’era qualcosa che non
andava. Non sono così scemo da non notare quando
c’è tensione nell’aria. Sei
sicura che tra voi due vada tutto bene?»
Così come
Calida
non si era comportata male con Champa, non
lo aveva fatto neppure con lei. In tutto il tempo che era passato aveva
continuato a farle visita sempre lo stesso giorno della settimana e
sempre alla
stessa ora, a portarle sempre almeno un sacco pieno di qualcosa, a
chiederle se
tra lei e Beerus andava tutto bene -accontentandosi di
“Sì, è tutto a posto”
come risposta- e a farsi raccontare di quel che vedeva Anise nei suoi
viaggi in
giro per il cosmo, una curiosità che era legittima. Non
c’era nulla di strano
in tutto ciò.
Però
c’erano dei momenti -tipo quelli in cui lei dava le spalle
a Calida per occuparsi degli infusi, o andare a prendere qualcosa da
mangiare,
o simili- in cui Anise si sentiva quasi
“trapassare” dallo sguardo verdastro di
sua sorella, e avvertiva la stessa tensione che aveva colto Champa.
Non era una
sensazione
piacevole, soprattutto perché quando
si voltava cercando di coglierla in fallo la trovava immancabilmente
intenta a
fare o a guardare tutt’altro, e ai suoi
“C’è qualcosa che non va?” la
risposta
di Calida era sempre un tranquillissimo “Va tutto bene.
Perché?”.
Anise aveva perfino
iniziato
a pensare che fosse tutto solo
e soltanto nella propria testa, che fosse tutta
un’impressione, e che dunque le sue fossero
solo delle ingiustificate "manie di persecuzione", delle quali non
poteva
colpevolizzare altri che se stessa.
«Certo, va
tutto
bene. Vedi, Calida è abituata ad avere
tutto sotto controllo, ed è piuttosto… diciamo
“protettiva”, nei miei confronti.
Credo che trovi difficile accettare l’idea che io abbia
a che fare con
persone più forti di lei, e alle quali eventualmente non
potrebbe impedire di
fami del male».
«Io e
Beerus
però non vogliamo farti del male» disse
Champa, un po’confuso.
«Sì,
io
questo lo so, e credo che lo sappia anche lei. Solo
che un conto è sapere qualcosa, un altro convincersene!
Credo che le vada semplicemente
dato tempo, tutto qui» minimizzò Anise
«Non è nulla di preoccupante, Champa,
puoi stare tranquillo».
«La
conosci meglio
di me, quindi immagino di non poter far
altro che crederti. Già, le hai poi dato il
tesoro?»
Anise fece una
smorfia.
«È lì in cantina, eppure me ne
dimentico sempre. Sarà che da quando sono diventata una
Iarim Neiē ho poco
tempo per tante cose… ti rendi conto che
quest’anno non ho nemmeno raccolto il
grano?»
«E allora?
Basta
andare in una qualunque città e ci daranno
la farina gratis, e anche qualunque altra cosa di cui tu abbia bisogno,
ciò senza fare la
minima fatica. È
quello che vorrebbero tutti».
«Io
però ho come l’impressione di starmi... non so,
forse mi sto "perdendo"
un po’. Perché devo farmi dare gratis una cosa da
chicchessia, se posso
procurarmela da sola come ho sempre fatto? Perché dovrei
letteralmente rubare
il lavoro di qualcun altro? O ancora, perché dovrei andare a
comprare della
farina che sarebbe potuta servire a qualcuno che non è
in grado di farsela
da sé? Io sono del tutto autonoma, a me stessa provvedo da
sola, è questo che io
sono, è questo che io
faccio. Anzi, ormai è
diventato quasi un “facevo”» aggiunse,
senza particolare allegria.
«Dici
tutto questo
per del grano non raccolto? L’ho sempre
detto che tu pensi troppo. Tu resti sempre in grado di fare tutto
quello che
fai, non è che se non raccogli il grano diventi meno in
gamba, e poi sei una
Iarim Neiē» le ricordò il dio «Che si
presume in futuro diventi una Neiē, con
tutto quel che comporta. Sarà Whis a fare tutto al posto
tuo».
«Quest’idea
non mi va a genio, perché io e Whis non ci
piacciamo» disse la Lusan, schietta «Siamo civili
una con l’altro solo perché
nessuno dei due è tipo da comportarsi diversamente, ma
faremmo volentieri a
meno di frequentarci, se potessimo. Le cose erano così quasi
un anno fa, sono
così adesso, e credo che rimarrebbero così anche
tra centinaia di milioni di
anni, se dovessimo essere entrambi vivi».
«Beerus
cosa ne
pensa?» le chiese Champa, mentre infornava
la torta.
«Per
quanto ne sa
Beerus, tra me e Whis fila tutto liscio
come l’olio… a parte quando lo punzecchio
chiedendogli come si riproducono gli
angeli. Già, tu sapevi che si riproducono esattamente come
facciamo noi? Io
credevo che i piaceri carnali fossero cose troppo da
mortali per loro, e invece-»
«Vados moneeeeeeella!»
esclamò l’Hakaishin per poi scoppiare a ridere
come un cretino «Vai a vedere
che ha sequestrato le mie riviste porno per leggersele lei!
Però ci sono solo
donne…»
«Magari
avete dei
gusti in comune!» ipotizzò Anise, pur non
credendoci affatto.
«Ti rendi
conto
che ora per colpa tua ogni volta che la
guarderò la immaginerò intenta a fare cose
con una qualche donna?! Non che sia una brutta visione,
ma capiscimi!»
gemette Champa «Cambiamo argomento, va’. Prima
abbiamo parlato del tesoro, no?»
«Sì,
e
qualche tempo fa ti ho anche parlato della leggenda
che c’è dietro. C’è qualcosa
a riguardo che ti incuriosisce?»
Champa
annuì.
«Sì, i poteri che aveva questo Rubedo. Di
quelli non hai detto molto».
«Quel che
si sa
non entra molto nei dettagli. Sono cose
successe molto tempo fa, cose che io stessa consideravo inventate,
almeno fino
a quando non ho visto il tesoro e ho saputo della maledizione. Beh, in
virtù
dell’ultima cosa che ho detto -riguardo la maledizione- posso
affermare con
certezza che fosse un mago potente» disse Anise
«Tanto che per fermarlo, come
sai, fu necessario riunire tutti i maghi di tutte le città.
Si dice che fosse
in grado di volare, che scagliasse raggi luminosi dalle mani con i
quali poteva
distruggere una città in un secondo, che nessuna arma fosse
in grado di
abbatterlo, che potesse muovere le cose col pensiero, che potesse
controllare i
corpi delle persone e anche che potesse far nascere montagne come
funghi -ma
questa mi sembra un’idiozia pazzesca. Ah, giusto, ho
dimenticato un’ultima
cosa: si narra che se vai davanti a una superficie riflettente e
pronunci
“Rubedo” per tre volte, questi appaia e ti trascini
dentro suddetta superficie.
È una cosa ancora più idiota di quella delle
montagne!»
«Sai che
invece
potrebbe non essere così campata per aria?»
la contraddisse Champa, pensieroso «Se questo Rubedo aveva il
controllo della
Dimensione degli Specchi -o comunque poteva entrarne e uscirne a
piacimento-
potrebbe davvero averla usata per rapire le persone, e da lì
potrebbe essere nata
quest’ultima leggenda».
«Aspetta:
la
Dimensione degli Specchi? Esiste davvero una
cosa del genere?» si stupì Anise «Cosa
è di preciso? Un po’posso arrivare a
capirlo da sola, ma se tu hai qualche dettaglio in più sono
interessata a
saperlo. Tanto la torta deve cuocere per un’oretta, per cui
abbiamo tempo».
«Te la
faccio
breve: è un posto in cui si può entrare usando
ogni superficie riflettente che c’è sul pianeta.
La Dimensione degli Specchi le
mette tutte in comunicazione quindi, per esempio, potresti entrarci dal
vetro
di questo bicchiere» ne prese in mano uno «E uscire
da una pozzanghera dall’altra
parte del tuo mondo. Ecco, sì: c’è una
Dimensione degli Specchi per ogni
pianeta, non una sola che comprende tutte le superfici riflettenti
dell’Universo. Comunque la struttura non cambia
granché, è sempre incasinata,
solo che su alcuni pianeti è più grande e su
altri più piccola. Potrei
chiederti se hai capito, ma tanto lo so, che hai capito!»
Anise prese il
bicchiere
dalla mano di Champa, e lo
appoggiò sul tavolo. «Sì, è
tutto chiaro. Ora però ho un’altra
domanda».
«Spara».
«Immagino
che non
tutti abbiano modo di entrare in questa
Dimensione, ma tu sei un dio, quindi puoi farlo, giusto?»
L’Hakaishin
annuì. «Però ci sono stato solo una
volta,
perché non mi piace granché. Posso entrarne e
uscirne, ma
non ne ho il controllo. Gli angeli invece sì».
«C’è
qualcosa che questi benedetti angeli non siano in grado di
fare?» sospirò la lince, alzando gli occhi al
soffitto «La mia domanda vera
però era un’altra: anche se non ti piace, possiamo
entrare nella Dimensione
insieme?»
«No.
Assolutamente
no, non se ne parla» rifiutò Champa.
«E
dai…»
«No!
Sappiamo
tutti che sei una lincina curiosa, però non
ti porterò lì dentro. Alle Dimensioni degli
Specchi non piace avere estranei
che vagano dentro di loro, li attaccano» le spiegò
lui «Non sono un problema
per un angelo o per un dio, ma per un mortale senza poteri potrebbero
essere
letali. Io non voglio che ti succeda qualcosa, e questo non solo
perché Beerus
mi strangolerebbe».
«Questo
discorso
potrebbe valere se andassi lì dentro da
sola, ma io avevo proposto di entrare lì insieme a te, che
sei un Hakaishin. Non
potrebbe capitarmi niente di male, ne sono sicura» sorrise la
Lusan «Mi fido di
te e della tua potenza. Se ci sei tu, neppure il posto peggiore
dell’Universo
riuscirebbe a farmi paura».
Sembrava che Anise
avesse
più fiducia in lui di quanta ne
aveva lui stesso, cosa che lo fece vacillare dalla posizione di netto
rifiuto
che aveva preso. Forse aveva ragione lei, forse non avrebbe dovuto
farsi tutti
quei problemi: era l'Hakaishin del sesto Universo, e non lo era
diventato per
caso, nessun Hakaishin diventava tale per
caso. Era diventato un dio perché aveva un potere
abbastanza grande per
poter avere quel ruolo, e avrebbe dovuto lasciare che una banale
Dimensione
degli Specchi spingesse lui, una divinità, a rifiutare la
richiesta di
un’amica? Una simile idiozia non esisteva né in
cielo né in terra.
Anise voleva andare
nella
Dimensione degli Specchi? Bene,
allora ci sarebbero andati! Sarebbero entrati, le avrebbe mostrato
quant’era
confusionario quel posto, e ne sarebbero usciti: non c’era
altro da dire. «Ho
cambiato idea, ti porterò a vederla. Sali sulla mia schiena,
come fai con
Beerus… dovresti anche stare più
comoda!»
Anise, temendo che
potesse
nuovamente cambiare opinione, si
affrettò a obbedirgli. «Certo che sto comoda, tu
sei un Champino morbido. Sai
cosa? Devo inventare un dolcetto morbido e chiamarlo in quel modo,
“Champino”!»
«Sarebbe
il dolce
più buono dell’Universo. Passeremo dalla
finestra, tu tieniti forte, d’accordo? Si va!»
Per un attimo Anise,
nonostante quel che le era stato
detto, temette che sarebbero andati a sbattere contro il vetro, ma
dovette
rapidamente ricredersi.
Il caos di infiniti
specchi
vorticanti che si trovò davanti
era tanto confuso che il suo cervello impiegò qualche
istante prima di accettarlo. Anche ora che conosceva meglio il
proprio pianeta, e che ne
visitava di alieni, Anise non aveva mai visto nulla di anche solo
vagamente
simile.
Quel luogo, che
Champa aveva
quasi descritto come “vivente”
nella sua ostilità verso corpi estranei, sembrava pervaso da
un’agitazione
costante che spingeva specchi e frammenti di specchi a muoversi di
continuo, ad
aggregarsi formando strade, labirinti, o bizzarre e pazzesche
costruzioni prive
di senso alcuno, per poi disgregarsi o liquefarsi
subito dopo.
Un ambiente
così
confusionario poteva fare paura, e Anise
si sarebbe sentita un po’meno tranquilla se Champa non fosse
stato presente, ma
quel caos completo risultava comunque affascinante.
«Te
l’avevo detto che era un postaccio»
borbottò Champa,
volando agilmente tra quattro file di specchi che cercarono di
investirli «Non
rimarremo per molto, la Dimensione non ci vuole qui dentro».
Anise si strinse a
lui
più saldamente. «Ha già iniziato ad
attaccarci, o sbaglio?»
«Non
sbagli!» esclamò il dio, costretto a lasciare una
gamba di Anise per allontanare tre sfere che altrimenti li avrebbero
colpiti in
pieno «Non sbagli affatto!»
«CHAMPA!
A sinistra!»
gridò la ragazza, accorgendosi appena in tempo che da quella
direzione stavano
arrivando centinaia di sfere grandi come la sua testa.
Il dio
scagliò
contro lo sciame di sfere un raggio
energetico che le polverizzò tutte all’istante. «FUORI DALLE SCATOLE! Ecco,
così imparate a scherzare con un…
Hakaishin…»
Era quello il brutto
della
Dimensione degli Specchi: per
quante sue parti potessero venire distrutte si riformavano sempre e
comunque,
spesso più forti di prima… e non era insensato
dire che in un certo senso,
trovando resistenza, la Dimensione si “arrabbiava”
con coloro che osavano
entrarvi senza averne il controllo.
Motivo per cui i due
esploratori si trovarono
improvvisamente accerchiati da sfere e da prismi che neppure un secondo
dopo si
scagliarono loro addosso, intenzionati ad abbatterli una volta per
tutte.
Se Anise non fosse
stata sulla sua schiena non avrebbe avuto
problemi a contrastare anche attacchi molto più massicci, ma
di fatto lei
c’era, e Champa temeva che utilizzando colpi più
potenti avrebbe potuto finire
per fare del male anche a lei senza volerlo. Aveva diciotto anni -tra
qualche
mese diciannove, in verità- e per quanto fosse abile a
gestire il suo potere
distruttivo non poteva ancora dire di avere abbastanza esperienza da
sentirsi
totalmente sicuro di colpire solo quel che doveva colpire.
«Reggiti!
Stringi
le gambe attorno a me!» intimò Champa ad
Anise, per poi allargare le braccia e distruggere la prima ondata di
quei
“proiettili” semplicemente lasciando fluire verso
l’esterno il suo Ki altamente
distruttivo «Dobbiamo trovare un’uscita, la prima
che capita! Sapevo che non
era una buona idea entrare qui dentro!» esclamò,
cercando di volare altrove
senza essere colpito da altre ondate di sfere «Lo
sapevo!»
«Forse
avrei
dovuto darti retta!» ammise la ragazza,
guardandosi attorno. Gli attacchi della Dimensione degli Specchi non
cessavano,
anzi, stavano diventando sempre più martellanti a ogni
secondo, e abbassando lo
sguardo notò un altro pericolo in arrivo:
“tentacoli” che spuntavano da un'apertura rotonda e
nera, che ben presto li avrebbero raggiunti per trascinarli
giù, o per
immobilizzarli. «Vola in alto! IN
ALTO!»
«Non
pos-»
«VOLA
SU E
BASTA!»
Capendo che Anise
doveva
avere buone ragioni, Champa
schizzò in alto a una velocità superiore a quella
della luce, cercando
disperatamente di evitare scariche di proiettili che continuavano senza
sosta.
«Ma
cosa-!»
Da un punto
imprecisato
sopra di loro apparvero altri
filamenti che cercarono di catturarli, e lui riuscì a
evitarli con una brusca
frenata e una altrettanto brusca virata, per poi distruggerli. Si
guardò
attorno, alla disperata ricerca di un’uscita che non era in
grado di vedere,
perché adesso le sfere si erano disintegrate in frammenti
piccolissimi che
vorticavano attorno a lui e ad Anise, togliendo ogni
visibilità.
«Qui va
sempre
peggio!» si disperò il dio, distruggendo dei
prismi che avevano attraversato lo sciame di frammenti tentando di
colpirli.
«Distruggi
tutto
allora! Sei un Hakaishin, distruggi tutto,
anche se si riformano questo ci darebbe comunque un attimo di
tregua!»
«Potrei
finire a
distruggere anche te, lo capisci o no?!» gridò lui,
cercando di farsi strada
in mezzo ai frammenti di specchi.
«Non
succederebbe,
ne sono sicura, ti addestri da quando
hai quattro anni! Champa! Champ-»
L’Hakaishin,
troppo impegnato a respingere l’ennesima
ondata di “proiettili”, non fece caso che uno di
essi -proveniente da
tutt’altra direzione- aveva colpito Anise alla testa.
La Lusan
sentì le
sue braccia e le sue gambe diventare
molli, perse la presa attorno al collo e al corpo di Champa.
Precipitò senza
che le sue orecchie udissero altro se non un fischio acuto e penetrante
che in
realtà neanche c’era.
Era cosciente, ma
tutto
quanto -eccetto il dolore pulsante
alla testa- le sembrava curiosamente ovattato. Vide frammenti di
specchi
volarle dapprima attorno, poi verso l’alto, evidentemente
dopo aver deciso che
ormai era inutile perdere ulteriore tempo con lei. Un Dio della
Distruzione
doveva sembrare loro una vittima più appetibile.
La caduta sembrava
interminabile, e in un luogo come
quello, che sembrava non avere reali confini, un simile pensiero
diventava
ancora più valido. Spostò lo sguardo: una massa
brulicante di filamenti
argentati era pronta ad accoglierla, a inglobarla appena la sua caduta
fosse
terminata. Il moto di quell’agglomerato simil metallico le
riportò alla mente
le onde che avevano catturato la sua attenzione diverso tempo prima, il
giorno
del compleanno di Beerus, quando era andata a casa di Champa.
Se avesse dato retta
a
quest’ultimo avrebbe potuto evitare
una simile fine, ma Anise, fatalista anche dopo aver ricevuto un colpo
in
testa, pensò che forse era semplicemente destino.
Percepì
le cime
di quei filamenti sfiorarle il capo,
stringersi delicatamente attorno alla sua morbida gola, avviluppare il
suo
corpo. Non sapeva cosa stesse facendo Champa, probabilmente non si era
neppure
accorto che lei non era più sulla sua schiena, ma non gliene
faceva una colpa,
non gli faceva una colpa di nulla: era stata lei a voler entrare nella
Dimensione degli Specchi, era stata lei a convincerlo, quindi se
c’era una
colpevole questa era lei, lei soltanto.
In quel suo mondo
ovattato e
pieno di sensi di colpa,
formulò un solo pensiero veramente lucido: “Spero
che anche Beerus capisca che
non è colpa sua”.
«ANISE!...»
Champa, fino a un
attimo
prima troppo impegnato a dare
battaglia contro una dimensione intera, si era accorto da meno di un
secondo
che Anise non era più aggrappata a lui.
Spostò
concitatamente lo sguardo verso il basso, col cuore
in gola e pronto a schizzare giù a tutta velocità
per recuperarla, ma fece in
tempo a vedere soltanto le gambe scoperte della Lusan venire
inghiottite dalla
massa rabbiosa e luccicante in fondo a quell’inferno.
«Anise…»
Lui era un Hakaishin
ed era
sempre stato potente, ma era
sempre stato anche un’altra cosa: inetto.
Talmente inetto da
non
riuscire mai a battere suo fratello
in alcuna sfida, talmente inetto da non riuscire neppure a mantenere
una forma
fisica decente. Inetto, al punto che la sua maestra e assistente non
vedeva
l’ora di
mollarlo ad Anise per non doverlo vedere accanto a sé, al
punto che il suo
stesso gemello, quando avevano quattro anni e i loro maestri li stavano
separando, si era addormentato in braccio a Whis con tutta la
tranquillità del
mondo, sicuramente dovuta al sollievo di non dover più
provvedere a una cosa inutile come
lui.
Inetto, al punto di
non
essere riuscito a proteggere una
persona che lo aveva accolto in casa propria né per paura
né per tornaconto,
che non lo aveva mai preso in giro, che gli stava insegnando a cucinare
ricette
delle quali in realtà era gelosissima. Anise si era fidata
di lui, lo aveva
creduto una persona valida, e si era sbagliata: lui non era un Dio
della
Distruzione, era il Dio dell’Inettitudine.
“Non
potrebbe
capitarmi niente di male, ne sono sicura”.
Portò le
mani
alla fronte, col volto contorto dalla
disperazione e dalla rabbia contro se stesso, mentre il bagliore
violaceo di un
Ki che stava diventando incontenibile avvolgeva il suo corpo.
“Mi
fido di te e
della tua potenza…”
Scosse la testa,
maledicendosi mille volte per non essere
stato all’altezza -tanto per cambiare!- e iniziò a
chiedersi se era davvero
degno del proprio ruolo di Distruttore.
Qualunque colpo
tentato
dalla Dimensione degli Specchi, che
fossero frammenti taglienti, proiettili o tentacoli, ormai non riusciva
neppure
a raggiungerlo, infrangendosi contro un’aura distruttiva la
cui grandezza
stava aumentando esponenzialmente.
“Se
ci sei tu,
neppure il posto peggiore dell’Universo
riuscirebbe a farmi paura”.
Champa
sollevò lo
sguardo verso l’alto e allargò le
braccia.
Era un Hakaishin.
Non era
riuscito a proteggere la sua
amica, ma avrebbe distrutto quell’inferno nella sua
interezza, senza lasciare integro
nulla eccetto i resti di Anise. Non gli importava se tutto si sarebbe
riformato
subito dopo, quella Dimensione degli Specchi maledetta doveva pagare
per quel
che aveva fatto.
«Hakai».
Un bagliore viola
acceso
avvolse ogni singola parte della
Dimensione degli Specchi, che iniziò a disgregarsi
completamente. Era stato un hakai permeato
di disperazione ma
alquanto efficace, e pochi secondi dopo Champa vide solo nero puro
attorno a sé.
Volse febbrilmente
lo
sguardo qui e là, in cerca di quel
che restava di Anise, e riuscì a trovarla proprio mentre le
uscite iniziavano a
riformarsi. La raggiunse velocemente, la strinse a sé, e non
pensò neppure un
attimo all’ira che Beerus avrebbe riversato contro di lui:
pensava solo alla
sua amica, morta perché lui era un inetto.
Fu proprio
stringendola a
sé che, con suo sommo stupore,
riuscì ad accorgersi che Anise respirava ancora. No, non era
possibile, doveva
essere un’impressione, non poteva essere ancora viva
e… e il suo cuore batteva.
Anise era priva di
sensi ma
respirava, il suo cuore
batteva: era viva!
Senza perdere
ulteriore
tempo, e senza smettere di
stringerla sé, Champa imboccò l’uscita
più vicina. A guardarla sembrava
condurre in uno specchio d’acqua, ma non gli interessava
proprio bagnarsi,
qualunque cosa sarebbe stata meglio che restare in un inferno di
specchi che si
era già riformato per oltre tre quarti.
Sbucarono sotto la
superficie dell’acqua, ma anche solo la
temperatura di quest’ultima non lasciava molti dubbi su dove
si trovassero:
quello era il lago di Vynumeer, e Champa trovò conferma
della sua supposizione
appena volò fuori dall’acqua assieme ad Anise,
diretto a quella che un tempo
era stata la dimora del capovillaggio.
Giunto sul posto e
atterrato, aprì la porta con tanta
veemenza da finire quasi per strapparla dai cardini. Si diresse verso
il
camino, ovviamente spento, e poggiò Anise su un morbido
tappeto che era stato
messo lì davanti diverso tempo prima.
Ebbe modo di
esaminare
meglio Anise, e vide immediatamente
la ferita alla testa: dubitava che a colpirla fosse stata una sfera,
probabilmente era stata colpita di striscio da un proiettile
prismatico… ed era
una fortuna che questo non l’avesse colpita in pieno, o
sarebbe stata
spacciata.
Le palpebre di Anise
tremolarono, per poi aprirsi. «Dove…
dove…»
«Vynumeer.
Siamo
al sicuro. Mi dispiace per quel che è…»
avviò a dire, per poi interrompersi e passarsi una mano sul
volto. Non era il
momento per parlarle dei propri sensi di colpa, doveva cercare di
capire qual
era la gravità dei danni. «Riesci a toccarti la
punta del naso?»
«Toccarmi
la…»
«La punta
del
naso» ripeté Champa.
Il dolore alla testa
era
piuttosto acuto, ma la ragazza
obbedì. «Ecco».
Leggermente
sollevato nel
vedere che il colpo alla testa
riportato non aveva fatto danni sufficienti ad alterare le sue
percezioni, il
dio le chiese di seguire con lo sguardo i movimenti del suo dito
indice, altro
test che per fortuna ebbe esiti positivi. «Credo che il colpo
in testa che hai
preso non sia troppo grave…»
«Non sono
svenuta
per colpa di quello, sono stata cosciente
fino a quando quella specie di tentacoli argentati mi ha
inglobata» disse
Anise, cercando di mettersi a sedere.
«No, resta
giù, ora cerco un cuscino o… o qualcosa del
genere, non so-»
La porta principale
si
aprì, mostrando una sagoma
controluce alta e munita di bastone. «Lord Champa,
cos’è successo? Ho percepito
l’uso dell’energia di distruzione, ho quasi creduto
che avrebbe fatto a pezzi
il pianeta».
«Vados!
Non sono
mai stato tanto contento di vederti!»
esclamò il dio, correndo dal suo angelo
«È successo… Anise
è…» fece un respiro
profondo «Siamo andati nella Dimensione degli Specchi
e-»
«Lei da
solo in
una Dimensione degli Specchi, dopo esserci
stato in una sola altra occasione, e insieme a una indifesa Iarim Neiē
altrui?»
lo interruppe Vados, sollevando un sopracciglio ad altitudini di
completa
disapprovazione.
«Non ho
chiesto la
tua opinione sull’accaduto!» sbottò
Champa, di suo già abbastanza dispiaciuto e per nulla
bisognoso di avere
qualcuno a rendere i suoi sensi di colpa ancor più gravosi
«Se puoi curarla,
curala e basta».
Vados non
replicò, limitandosi ad avvicinarsi ad Anise.
Puntò il bastone contro il capo della lince.
«Forse sarebbe stato meglio se
avesse esplorato la Dimensione degli Specchi col suo compagno, avrebbe
corso
meno rischi».
Champa, non visto
dalle due,
strinse i pugni e abbassò lo
sguardo. Per l’appunto: era il gemello beta, lo sarebbe
sempre stato, e dopo
quell’esperienza anche Anise doveva essersene convinta. Non
si sarebbe più
fidata ad andare da alcuna parte assieme a lui, non da soli,
perché non era
stato in grado di proteggerla.
«Piuttosto
avrei
dovuto ascoltarlo quando mi ha detto “No,
non se ne parla”. La colpa è interamente
mia» replicò Anise, stringendo le
palpebre a causa del dolore «Ma c’è da
dire che avremmo potuto fare questa gita
in sicurezza, se tu non avessi tanta fretta di allontanarti dal tuo
Hakaishin
ogni volta che vieni qui».
«Credevo
preferiste rimanere da soli» disse Vados, dopo un
breve attimo di silenzio. Non si aspettava che la ragazza riuscisse a
ribattere
anche dopo aver ricevuto un colpo in testa «Lo faccio per
non essere
d’intralcio nelle vostre attività».
«Sì,
e
io sono un khoselov
mhuileid».
“Non sarai
un vero
e proprio mulo parlante come hai detto,
ma sicuramente hai la testa dura” pensò
l’angelo, avvolgendo la Lusan con un
bagliore verde azzurro che guarì rapidamente la sua ferita.
«Fatto».
Anise, ora in forma,
si
alzò in piedi. «Grazie. Ascoltate,
io direi di non parlare a Beerus di quel che è successo,
è andata a finire
bene, non c’è ragione di farlo agitare
inutilmente».
«Ecco,
sì, non dire niente né a Beerus né a
nessun altro, Vados»
aggiunse Champa.
«Mi spiace
dirvelo ma Lord Beerus, per quanto distante posse
essere, ha sicuramente percepito
il Ki di Lord Champa, esattamente come l’ho percepito
io» li disilluse Vados
«Per cui temo che-»
Vados non ebbe
neppure il
tempo di finire la frase, perché
la porta principale si aprì con violenza spaventosa, finendo
per davvero fuori
dai cardini.
«Si può sapere che stai facendo?!
EH?! Spiegati!»
intimò Beerus -che aveva terminato l’allenamento
oltre un’ora prima del previsto- al fratello.
«Ehm-»
«Ho
sentito il tuo
Ki da lontano, si può sapere cos- Anise,
cos’è successo?!» dimentico di Champa,
il dio si avvicinò rapidamente alla sua
Iarim Neiē «Il tuo vestito è tutto rotto e
bagnato, e anche quello di Champa è
bagnato, e…» si voltò verso Champa
«Spero per te che questo non sia dovuto a un
tuo comportamento inopportuno. Non avrai provato ad abusare
di-»
«EHI!
Hai
presente con chi stai parlando? Ormai dovresti sapere che non voglio
farle
niente di male, come ti viene in mente una cosa del genere?!»
sbottò Champa,
davvero offeso per quell’insinuazione. Non avrebbe mai fatto
del male ad Anise
di proposito, le voleva bene, e gli sembrava incredibile che Beerus
potesse
avere simili idee. Quando c'era di mezzo Anise non ragionava proprio!
«Va bene,
ma
allora come spieghi tutto questo?!» insistette
Beerus, rabbioso.
«Effettivamente
è una bizzarra situazione» commentò
Whis,
giunto sul posto assieme al suo Hakaishin «Sorella, tu ne sai
qualcosa?»
«È
stato il Coniglio Assassino di Caerbannomeer»
affermò
Anise, con tono grave.
Per fortuna Beerus
era
troppo impegnato a guardare lei per
accorgersi dell’espressione perplessa di Champa e Vados,
oltre a quella di
Whis. «Il cosa?...»
«Tu sai
che i
conigli che vivono nella foresta e dintorni
sono carnivori, e per questo un po’pericolosi
da cacciare. Te l’ho detto
qualche tempo fa» gli ricordò Anise «Ma
non credo di averti mai raccontato la
leggenda del Coniglio Assassino. Devi sapere che un tempo, quando la
magia non
era ancora morta su questo pianeta, un cacciatore della
città di Caerbannomeer
-che ora non esiste più- venne maledetto da una strega per
aver catturato e
ucciso il suo coniglio. La strega lo maledisse, trasformandolo in un
coniglio
immortale, e rese carnivori e dunque più pericolosi
i
conigli veri e propri.
Stando alla leggenda, il Coniglio Assassino di Caerbannomeer si aggira
nella
foresta e dintorni da allora, in cerca di sangue di
fanciulla… o meglio, si
aggirava, perché ormai è andato».
«Non puoi
pensare
che io creda a una stupidaggine del
genere» disse Beerus, diffidente.
Anise gli rivolse
uno
sguardo triste. Non le piaceva
mentire a Beerus, ma pur di evitare a Champa guai che non meritava
avrebbe
fatto questo e altro. «Sirel ym,
guarda come sono ridotta, non vorrai infierire dandomi della
bugiarda?»
«No, certo
che non
voglio infierire» disse subito Beerus,
prendendole il viso tra le mani «Però…
il Coniglio Assassino? Ma dai!»
«La
leggenda di
Rubedo era vera, perché non dovrebbe
esserlo questa, scusa?» intervenne Champa «Ne sono
testimone: quel dannato
coniglio era grosso così!» esclamò,
allargando le braccia più che poteva «Ci ha
attaccati in riva al lago cogliendoci di sorpresa!»
«Ci ha
buttati in
acqua e poi si è avventato su di me. Solo
che gli è andata male, ha avuto solo il tempo di rovinarmi
il vestito, perché
Champa gli ha fatto assaggiare l’ira di un Hakaishin e mi ha
salvato la vita.
Poi siamo venuti qui dentro, e dopo ancora è arrivata Vados,
la quale
ovviamente ha percepito il Ki di Champa. Ecco
com’è andata» concluse Anise.
«Non
potete
pretendere che creda a una cosa del genere,
dai! Su! Il Coniglio Assassino di Caerbannomeer!»
ripeté Beerus, non ancora
persuaso.
«Ma ti
diciamo che
c’era! Se avessimo voluto farci un bagno
non l’avremmo fatto con tutti i vestiti addosso, ti
pare?» insistette Champa. Non
aveva idea di come stesse riuscendo a rimanere serio e a ripetere una
simile
fola con tanta convinzione, ma forse c’entrava il fatto che
non aveva voglia di
farsi picchiare per aver permesso che Anise si facesse male.
«Se non è stato il
Coniglio Assassino di Caerbannomeer, come altro lo spieghi?»
“Beerus
non
sarà così ingenuo da credere a
un’idiozia del
genere, mi auguro” pensò Whis, il quale ovviamente
non credeva a una parola.
Non aveva idea di cosa potesse essere successo, ma certamente non
c’entrava
alcun coniglio, assassino o meno che fosse.
«Ma cosa
ne so
io?! So solo che questo è inverosimile!»
ribatté Beerus.
«Anche
l’esistenza di Rubedo era inverosimile ma, come ha
detto Champa, c’era un tesoro con tanto di maledizione e- la torta!» esclamò
Anise, battendosi una mano sulla fronte «Siamo
venuti qui a cercare fiorellini decorativi da mettere sulla torta e
l’abbiamo
lasciata in forno!»
«C’è
una torta in forno?!» esclamò
l’Hakaishin del settimo
Universo, per il quale il Coniglio Assassino di Caerbannomeer era
passato
improvvisamente in secondo piano.
«Credo sia
passata
meno di un’ora, non penso si sia
bruciata, se corriamo a casa possiamo ancora salvarla!»
dichiarò Champa «Se si
brucia è tutta colpa del dannato Coniglio
Assassino!»
«Hai detto
che
l’hai distrutto? Hai fatto bene! Benissimo!»
esclamò il gemello, prendendo in braccio Anise e
catapultandosi con lei fuori
dall’edificio «Salviamo la torta, presto!»
Anise trattenne un
sospiro
di sollievo: aveva tirato fuori
l’argomento giusto al momento giusto, e -fortunatamente per
Champa- il suo
compagno era un dolcissimo beag miamit, un
“piccolo ingenuo”. Non nell’accezione
veramente negativa del termine,
ovviamente: la lince non avrebbe mai pensato a Beerus in termini
spregiativi. «È
una torta drakht, una di quelle che
ti piace di più».
«L’ho
fatta io!» aggiunse Champa, affiancandoli.
«Ah,
allora mi
attira già meno» disse Beerus, con una
smorfia.
«Ha
seguito le mie
indicazioni alla lettera ed è stato
molto bravo. Tu quand’è che proverai a
cucinare?» lo punzecchiò Anise, con un
sorriso.
«Te
l’ho
già spiegato: io non cucino, io mangio!»
Whis, rimasto un
po’indietro assieme a Vados, scosse la
testa con un sospiro. «E invece sì, ci ha creduto
sul serio».
«O ha
smesso di
pensarci a causa della torta. Sia come sia,
se la sono cavata».
«Non
c’è alcun Coniglio Assassino di Caerbannomeer,
immagino…»
Vados
sollevò
entrambe le mani. «Lord Champa mi ha detto di
non parlare della questione con nessuno, e io non lo farò,
però nessuno ti impedisce
di dare un’occhiata al passato, fratello. In ogni caso se
cerchi qualcosa che
metta zizzania tra il tuo Hakaishin e la sua compagna,
rinuncia».
«Scherzi?
Non mi
permetterei mai».
«WHI-IS!
Allora, vieni con noi sì o no?!» gridò Beerus,
volato in alto.
«Arriviamo,
Lord
Beerus, arriviamo».
Stavolta non ho molto da dire se non che il coniglio assassino di cui
si parla è una vaga citazione del Coniglio
Assassino di Caerbannog, al quale per quanto ne so dovrebbe
essere stato fatto un tributo anche su Minecraft.
A voi i commenti, nel caso ne abbiate (:
|
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Capitolo 14 *** 14 ***
RMIcap14
Questa volta per varie
ragioni ho
ritenuto opportuno mettere le note in cima al capitolo.
Allora: avrete
sicuramente notato
il
cambio di rating, che ho deciso di fare giusto per sicurezza. La storia
perlopiù non è chissà quanto
sanguinosa, ma qui
c’è un po’più
brutalità del
solito, e anche se a me quel che c'è qui sotto non sembra
chissà cosa, nel dubbio…
A coloro che
leggeranno e che magari
avranno voglia di lasciare un commento, chiedo di farmi sapere se a
parer loro
sia il caso di mettere il tag “violenza” oppure no.
Sono molto indecisa!
Sinkarii passa e
chiude, buona
lettura (:
14
«No».
«No?»
«No! Tu
sai benissimo come la penso riguardo certe cose».
Il Trattato tra
Città, scricchiolante fin dalla
stipulazione, da qualche tempo minacciava di cedere sul serio, almeno
tra
Ulthmeer e Thandrumeer. Anise era consapevole di questo,
perché quando Calida
andava a casa sua le parlava di come gli assalti da parte di gruppi
delle varie
città, ma soprattutto di Thandrumeer, non le sembrassero
più imputabili a bande
di teste calde, quanto piuttosto tesi a indebolire Ulthmeer per poterla
attaccare e conquistare con più facilità.
«Anise,
abbiamo perso un
intero campo di coltivazioni, e
abbiamo colto sul fatto quelli che volevano distruggere le armerie
soltanto
perché sono riuscita a capire in tempo che
l’incendio dei
campi era solo un
diversivo. Io ho rispettato il Trattato, non ho mai mandato gruppi di
persone a
sabotare questa o l’altra cosa nella città di
chicchessia,
ma del capo di Thandrumeer non si può dire lo stesso.
Non ho la minima intenzione di far sì che la passi
liscia»
disse Calida, con
decisione «Ma non ho nemmeno un numero di persone sufficiente
a
fare quel che
vorrei. Non posso tentare la conquista o la distruzione della
città di Thandrumeer a meno che
lasci scoperta la mia, cosa che non voglio fare».
«D’accordo,
ammettiamo che Thandrumeer nella sua interezza
se la sia cercata» concesse Anise «Vuoi reagire?
Fallo, ma io non andrò su
altri pianeti a cercare armi per te, e in ogni caso non credo che il
mio
compagno me lo permetterebbe. Beerus non è tipo da fornire
armi aliene a una
fazione o all’altra in qualsivoglia conflitto. Popoli che
sono troppo impegnati a
combattersi tra loro invece di evolversi vengono distrutti, se
mai».
«Non
capirò mai questa tua contraddizione: disapprovi le
nostre guerre, e approvi la distruzione di pianeti interi. Si tratta
sempre di
gente che muore, non puoi dire che non è
così».
«Si tratta
sempre di gente che muore, ma per motivi
diversi» ribatté Anise «Eppure ricordo
di averti spiegato la faccenda del
Mortal Level, e cosa succede agli Universi che lo hanno troppo basso.
Se
volessi usare una metafora, direi che il lavoro di Beerus consiste nel
tagliare
i rami marci dell’albero in modo che questo possa continuare
a vivere! Le
guerre tra città invece a cosa servono?»
«Tu ora
ragioni a livello universale, ma ti faccio notare
che liberarci di Thandrumeer, ossia dell’unica
città che abbia veramente
compromesso la
stabilità del Trattato, servirebbe a riportare la pace.
Vedendo Thandrumeer
distrutta, Moriameer e le altre non si muoverebbero» disse
Calida «Con una
città in meno aumenterebbero le risorse per quelle che
rimangono e, lasciando
viva qualche femmina, entro qualche mese Ulthmeer avrebbe anche
dei cittadini in più. I più deboli vengono
distrutti perché i più forti possano
prosperare. Le guerre tra città, che tu
ami così poco, hanno esattamente lo stesso
scopo della distruzione
apportata dal tuo compagno, ma su scala ridotta. La verità
è questa. Che tu
voglia per forza vedere delle differenze per mantenere pulita la tua
coscienza
è un altro discorso».
«Non
cercherò armi aliene per te, qualunque cosa tu possa
dire».
«Lo avevo
già capito» ribatté la Lusan
più vecchia «Volevo
solo farti notare la completa incoerenza con cui affronti tutta la
questione. O
beh, vorrà dire che mi limiterò alla rappresaglia
che sicuramente il capo di
Thandrumeer già si aspetta, e che quella città
continuerà a essere una
seccatura che rischia di far crollare miseramente un
Trattato già
malmesso».
«Parli
come se Thandrumeer fosse la sola, quando invece mi
risulta che anche gruppi di altre città abbiano agito contro
la tua. Moriameer,
Kahzameer…» iniziò a elencare Anise
«A pensarci bene, se le cose continuano
così, tu e l’intera Ulthmeer potreste finire
abbastanza nei guai».
«Thandrumeer
è la
più grande e la più forte, è quella
che in un
certo senso "trascina" le
altre. Sono sicura che se dessi una dimostrazione di forza radendola al
suolo,
il resto non oserebbe più fare una mossa»
insistette
Calida «Ma non ho i mezzi. Accantonando la mia richiesta di
armi
aliene, io negli ultimi tempi ho avuto delle idee, tipo dei gunnaichean…»
«Qualche
cannone lo hanno tutte le città, Callie, non mi
sembra molto innovativo».
«Gunnaichean
a
retrocarica, con canna rigata» specificò Calida
«Se
ho ragione io, e sono
piuttosto sicura di averne, dei cannoni costruiti in questo modo
sarebbero più
precisi, i colpi arriverebbero più lontano, potrebbero
essere
caricati più
velocemente, e sarebbero anche più sicuri. Armi del genere
potrebbero aiutarmi non poco, in una battaglia contro Thandrumeer! Solo
che servirebbe del tempo sia
per modificarli, sia per costruirne altri oltre a quelli che
possiedo… e per modificare i vecchi, e/o fabbricarne
quanti io vorrei, servirebbe una
quantità di denaro spropositata. Il bilancio di Ulthmeer
è più che in attivo,
eppure non basta, non per muovermi in tempi brevi».
Quel discorso
servì a far tornare in mente ad Anise una
cosa fondamentale, una cosa che ormai giaceva in cantina da ben
più di un anno.
Anise non aveva mai
chiesto denaro a Beerus per sé o per
altri, e intendeva continuare così: non intendeva chiedergli
di finanziare
Calida, né di fare qualcosa che andava contro la sua etica
portandola a cercare
armi su altri pianeti.
Il suo compagno
sarebbe rimasto completamente fuori da
quelle faccende, perché sarebbe stata lei stessa a dare a
sua sorella il denaro
che serviva.
“Fin
dall’inizio avevo in mente di cederle il tesoro di
Rubedo come regalo di compleanno, che comunque sarà tra
pochi giorni. Nelle occasioni
precedenti ho finito per non darglielo, per una ragione o per
l’altra, ma posso
farlo adesso”.
Lei trovava
insensate le guerre tra città, le detestava, il
suo pensiero era sempre stato quello e non era cambiato; tuttavia, se
si
trattava di scegliere tra disinteressarsi completamente della vicenda e
lasciare Calida in potenziali guai, la giovane lince sentiva di avere
le mani
legate.
Se doveva esserci per forza una battaglia, o una guerra, allora voleva
che fosse sua sorella a vincere... e, soprattutto,
a restare in vita.
«Calida,
scendiamo giù in cantina».
Sebbene fosse un
po’perplessa, la grande Lusan non fece
domande, limitandosi a seguire Anise quando questa aprì la
botola e scese al
piano di sotto.
Anise
schioccò le dita, e nella cantina si accesero due
forti luci. Whis, ovviamente su ordine di Beerus, aveva fatto un bel
lavoro con
l’illuminazione. «Ecco».
«Non
ricordavo che questo posto fosse così grande e
luminoso, né così pieno di casse. Il tuo compagno
e il suo assistente si sono
dati da fare» commentò Calida «Cosa vuoi
mostrarmi?»
«Il tuo
regalo di compleanno anticipato. Prendi una
qualunque di quelle casse e aprila».
Calida dubitava che
lì dentro potessero esserci le armi
aliene non meglio specificate che tanto avrebbero potuto farle comodo,
ma si
diresse comunque verso le casse: un regalo di compleanno da parte di
Anise
sarebbe sempre stato gradito, anche se si fosse trattato di un cumulo
di sassi.
Quando
aprì la cassa però si rese conto che
all’interno di
essa c’era qualcosa di molto meglio, rispetto ai sassi.
«Penserei che tutto
questo oro ti sia stato donato dal tuo compagno, se tu non fossi tu.
Però tu sei tu, per
cui…» si voltò «Da dove
viene?»
«Vynumeer».
Sul volto della
lince più anziana apparve un’espressione di
assoluta incredulità. Tornò a guardare il tesoro,
poi ancora Anise, realizzando
qual era il significato di quel che le aveva appena detto.
«Aspetta: tu mi stai
dicendo che questo… insomma, io dovrei credere che
questo-»
«Sì!
Il tesoro di Rubedo esiste, ed è proprio in quelle
casse» confermò Anise «È
stato Beerus a trovarlo, in una grotta nascosta nella
parte più profonda del lago di Vynumeer, quella che fino a
neppure due anni fa
aveva accanto il costone roccioso. Arrivare laggiù senza
aiuti magici è
praticamente impossibile, ed è mimetizzata in modo tale da
rendere
perfettamente normale il fatto che tu non l’abbia mai
trovata, soprattutto
perché ti immergevi sempre di tardo pomeriggio, o quando il
sole era già
calato, o stava per spuntare».
Il tesoro di Rubedo
esisteva davvero. Era lì davanti a lei,
c’era, poteva vederlo, poteva toccarlo!
Ma non era
all’oro che Calida pensava, cercando di non
mostrare la quantità abnorme di entusiasmo e di speranza che
stava provando.
Ora che la Ulthmeer a-ghekavary
sapeva che le storie cui aveva sempre creduto non erano una leggenda,
perché
aveva davanti agli occhi la prova tangibile che era tutto
maledettamente vero,
aveva in mente una sola e unica cosa: l’antica cassa di
metallo che conteneva
una corona altrettanto antica e potente.
Se il tesoro
esisteva, allora doveva esistere anche la
corona di Rubedo, per forza, e con quella corona finalmente avrebbe
avuto tutto
il potere di cui aveva bisogno. Avrebbe potuto mandare al diavolo ogni
trattato
e conquistare tutte le città, sarebbe stato tutto suo: non
era più un sogno
quasi irrealizzabile, era a portata di mano, lo era per
davvero!
«Callie…
no».
Quelle due parole di
Anise per lei furono peggio di una
doccia fredda, e la speranza provata in quei pochi attimi si liquefece
come una
candela di cera. «Cosa significa
“no”?»
«Non
c’era. C’era l’oro, c’erano
degli adamadnery pinc,
c’era perfino una maledizione che Vados ha
spezzato, ma non c’erano casse di metallo né
corone. Io l’ho cercata, Champa
l’ha cercata, Vados anche, e se un dio e un angelo non sono
riusciti a
trovarla allora vuol dire solo una cosa: non c’era. Mi
dispiace».
Calida non disse
nulla, limitandosi a fissare tutte quelle
casse, sicuramente piene d’oro anch’esse.
Per un attimo ebbe
voglia di mettersi a urlare, di rompere
tutto quel che aveva attorno: com’era possibile che il tesoro
esistesse, che
fosse perfino maledetto, ma che non avessero trovato la corona?!
Assurdo.
Impossibile! Non avevano cercato bene, erano stati superficiali!
…o, peggio
ancora, Anise gliela stava nascondendo.
Forse Anise non
voleva darle quel potere, forse non le
bastava essere diventata la Iarim Neiē dell’Hakaishin del
loro Universo, forse
desiderava avere dei poteri tutti suoi e desiderava per sé
quella corona, la sua corona!
«Anise…»
cominciò a dire, per poi interrompersi.
No: che Anise
potesse volere del potere per sé era
un’idiozia, un comportamento simile esulava dal suo modo di
essere in modo
macroscopico. A quella piccola lince non interessava nulla che non
potesse fare
od ottenere con le proprie mani e le proprie forze, e Calida sapeva che
Anise
non era contro una possibile tirannia sulle città, se questa
avesse fatto
cessare i conflitti.
Se avesse trovato
quella corona gliel’avrebbe sicuramente
ceduta, non doveva avere dubbi. Pensò che forse non
l’avevano trovata perché
non era precisamente in quella grotta, ma nascosta da qualche parte
lì attorno;
si ripromise di chiederle ulteriori informazioni in futuro.
«Anise,
non ti nascondo di essere un po’dispiaciuta di
sapere che purtroppo la leggenda di Rubedo non era completamente
vera» disse
dunque Calida «Ma ti ringrazio per aver cercato la corona,
e… sii seria,
vorresti davvero dare a me tutto questo oro?»
«Io me ne
faccio ben poco, queste casse impicciano,
occupano spazio e basta».
La Lusan beige
alzò gli occhi al soffitto, e sospirò.
«A
volte mi domando se quando parli ti rendi conto di quello che dici. Non
ho mai
sentito nessuno dire di essere “impicciato” da
casse piene d’oro!»
«Calida,
io sono seria: volevo darti il tesoro come regalo
di compleanno, e a me non serve proprio a nulla. Tu invece hai dei
cannoni da
costruire» disse Anise «Sai che non capisco la vera
ragione dietro l’odio tra
città, sai che moralmente non appoggio guerre e battaglie
che trovo inutili, ma
se proprio devono avere luogo allora è meglio che sia tu a
uccidere loro, piuttosto
che loro a uccidere te. Non ti do armi, ma denaro: se lo usi per
vincere e vivere, mi sta
bene».
Per Calida era molto
ironico che proprio Anise stesse
finanziando una corsa agli armamenti, ancor più ironico del
compromesso che
aveva trovato per sentirsi a posto con la coscienza, quel
“non ti do armi, ma
denaro”. In ogni caso, pur rendendosi conto di
ciò, non sentiva la voglia di
riderci sopra: sapeva che Anise in quel frangente stava
andando contro
ogni fibra del proprio essere, e faceva questo solo e soltanto
perché voleva
aiutarla. Non c’era nulla di divertente, soprattutto
perché era perfettamente
consapevole di non meritarlo. «Immagino quanto ti stia
costando dire cose del
genere».
«Più
o meno quanto dev’essere costato a te venire a
chiedermi armi. La situazione è più seria di quel
che mi hai lasciato
intendere, vero?»
«Falso,
però ho intuìto che potrebbe diventarlo. Potrei
difendermi bene, ma non voglio limitarmi a questo. Io voglio che
capiscano cosa
succede a chi infrange il Trattato muovendosi contro la mia città»
dichiarò Calida «Se si fosse trattato di qualcosa
che
riguardava soltanto me non avrei chiesto aiuto, ma io devo fare
ciò che è
meglio per l’intera Ulthmeer, quindi che si fottano
l’orgoglio personale e il “faccio
da sola grazie”».
Anise non
poté far altro che concordare, e circa dieci
minuti più tardi entrambe le Lusan erano di nuovo al piano
di sopra sedute su
due poltrone, e due casse -più un bel sacchetto di adamadnery- erano pronti per essere
portati via. Secondo le stime
di Calida il valore di quegli oggetti bastava e avanzava per fare quel
che si
era prefissata, e in ogni caso era il massimo che potesse portare via
con sé da
sola e quel giorno stesso.
«Callie,
stavo pensando: durante la tua corsa agli
armamenti intendi comunque mettere in atto la rappresaglia che il capo
di
Thandrumeer si aspetta?»
«Per
forza. Domani manderò qualcuno a cercare di incendiare due o
tre campi, rimanendo più o meno in linea con quel che hanno
fatto loro. Con una
reazione immediata non penseranno che io stia preparando qualcosa di
più
grosso, e quando sarà il momento potrò coglierli
di sorpresa. Già…»
mormorò Calida «Avere il retro della
città protetto dalla montagna può essere un
vantaggio, in un assedio».
«Sarà!
Io ho sempre
pensato che sia stato stupido costruire Thandrumeer alle pendici di una
montagna: se un giorno dovesse franare, per loro sarebbe un
disastro».
«È
vero» annuì Calida, mentre sul suo volto compariva
un
lento e inquietante sorriso dovuto a un’idea appena sovvenuta
«Sarebbe un
disastro se i colpi simultanei di almeno dieci cannoni a lunga gittata
raggiungessero
le pareti rocciose causando una frana spaventosa che distrugga da sola
mezza Thandrumeer».
«Cal-»
La grande Lusan
scattò in avanti, bloccando la più piccola
-che dinanzi a quella mossa imprevista si era irrigidita- col proprio
peso. Le
accarezzò il viso, poi le diede un bacio sulla fronte.
«Non meriterei l’oro che
mi hai dato, né ti meriterei come mèinn
a
-aryun, come “musa di sangue”. Benedetto
il giorno in cui ti ho trovata in
riva a quel lago».
Anise rimase ferma e
in silenzio come un animale la cui prima
reazione, dinanzi a un predatore più grosso di lui,
è la fissità.
Pochi secondi dopo,
Calida non fece altro se non alzarsi
tranquillamente in piedi. «Con i preparativi per
l’attacco imminente non sono
sicura che la prossima settimana riuscirò a
passare».
«Io non ci
sarò. Oggi Beerus viene a prendermi, e starò via
per un paio di settimane, forse qualcosa di più»
disse la giovane Lusan.
Se Calida era
infastidita da quell’informazione, non lo
diede a vedere. «Allora ci rivedremo dopo che Thandrumeer
sarà stata distrutta…
e già ti anticipo che vorrò sapere ogni dettaglio
riguardo il tesoro. A presto,
Anise».
Calida se ne
andò via con casse e tutto, e Anise
rimase sola.
La giovane si
rannicchiò sulla poltrona, preda di una generale
sensazione di malessere i cui responsabili non erano il denaro regalato
e l’uso
cui era destinato, né aver dato senza volerlo
un’idea a sua sorella; in parte
concorrevano, sì, ma non erano la fonte principale.
“Mia
sorella mi ha accarezzato il viso e dato un bacio sulla
fronte, questo perché era grata per l’oro e per
l’idea che le ho dato involontariamente:
e quindi?” pensò “In gesti come questi
non c’è nulla di male. Quattro anni e
mezzo fa è successo quel che è successo, ma da
allora lei non ha più fatto
nulla di strano o di sbagliato nei miei confronti. Devo farla finita
con queste cose, devo smetterla”.
Si costrinse a
scendere dalla poltrona, dicendosi che era
tempo di calmarsi: Beerus sarebbe arrivato tra meno di
un’ora, e Anise voleva che lui
la trovasse perfettamente a posto. Non voleva sentirsi fare domande
riguardo
quel che poteva o non poteva essere successo, non in
quell’occasione, anche perché
riteneva che non avrebbe potuto rispondere nulla di diverso da
“Niente, sono
una stupida che reagisce male se sua sorella le dà un bacio
sulla fronte”.
Tutti quei giorni di
assenza da casa le erano sembrati un
po’troppi rispetto alle cose che riteneva di dover fare -per
esempio, l’olio
non si produceva da solo- ma forse quella sorta di
“vacanza” le avrebbe fatto
bene.
L’unica
cosa di cui in quel momento Anise aveva la certezza
era che non vedeva l’ora di gettarsi tra le braccia del suo
compagno. Il solo
pensiero riuscì persino a farla sorridere.
Alcuni avrebbero
potuto ritenere bizzarro il fatto che si
sentisse così serena e così al sicuro con un
Hakaishin, ma non era così che
Anise vedeva la questione. Per lei Beerus non “era”
un Hakaishin, per lei era
un ragazzo -sempre poco abile nel cercare la frutta- che
“faceva” l’Hakaishin:
erano due cose diverse.
“Credo che
ormai Calida sia a posto. Ha il denaro che le
serviva, forse posso evitare di preoccuparmi per lei. Se mai volessi
preoccuparmi per
qualcuno, dovrei farlo per quelli di Thandrumeer”.
°°°Poco
più di due settimane dopo,
nottetempo°°°
«Teine!»
All’ordine
di Calida, quattordici proiettili vennero
sparati simultaneamente da altrettanti cannoni.
«K’avorumy!»
Mentre i suoi uomini
ricaricavano i cannoni, come da lei
ordinato, la Ulthmeer a-ghekavary osservò
con soddisfazione la parabola compiuta dai proiettili, i quali come
previsto andarono a
schiantarsi brutalmente contro la friabile parete rocciosa della
montagna.
Portare a compimento
la costruzione dei nuovi cannoni e la
modifica dei vecchi aveva richiesto tempo, denaro ed energie, ma ne era
valsa
la pena: grazie a quelli avevano potuto colpire la montagna senza
avvicinarsi
tanto a Thandrumeer, e dunque senza rischiare di essere colpiti a loro
volta.
I rumori provenienti
dalla cittadina testimoniavano il
brusco risveglio degli abitanti, ma era tardi: la frana era
già in corso, e a
breve sarebbe peggiorata.
«Teine!»
Altri quattordici
colpi si abbatterono contro il versante
roccioso già parzialmente rotto e indebolito, dando il colpo
di grazia.
Calida vide distintamente una quantità indefinita di pezzi
di roccia grossi
come intere case, se non di più, staccarsi dalla montagna e
precipitare in
basso, spietati: una condanna a morte fatta di pietra, che non lasciava
scampo.
L’intero
gruppo di cento linci maschi e femmine della
città di Ulthmeer, estasiato dalla devastazione che stava
vedendo, una volta
finita la frana esultò senza alcun pudore per il successo
ottenuto senza
fatica.
«Cazzo se
questa è stata una grande idea!»
applaudì un
Lusan dal pelo nero «In pratica abbiamo già
vinto!»
«Abbiamo
un grosso vantaggio, Recte, ma tu e gli altri ricordate
di non cantare vittoria prima di averla ottenuta. Ora dobbiamo
abbattere le
mura da questo lato, perché immagino che nessuno abbia
voglia di entrare a
Thandrumeer passando in una breccia creata da una frana appena finita! K’avorumy!»
ordinò Calida, e i cannoni
vennero immediatamente caricati «Teine!»
I quattordici colpi
stavolta abbatterono le mura della
parte di città non distrutta dalla frana: era ora di andare.
Non avrebbero avuto
bisogno di utilizzare ancora i cannoni,
ma Calida lasciò qualcuno dei suoi uomini a sorvegliarli, e
fatto
ciò partì all’assalto di Thandrumeer
alla testa di tutta l’armata.
Aveva fatto
costruire più cannoni del previsto, e aveva passato
più tempo a studiare la
planimetria di Thandrumeer -ottenuta nel tempo tramite torture a
diversi
disgraziati- di quanto avesse immaginato, ma era stata la scelta
giusta: non
solo i cannoni avevano creato più danni di quanto le sue
previsioni più rosee
erano riuscite a concepire, ma oltretutto grazie ai suoi studi sapeva
che la
frana aveva devastato la parte di città in cui, tra le altre
cose,
c’erano le armerie.
Diversi Lusan
avevano almeno un’arma in casa, ma quelle da
fuoco non erano troppo diffuse tra i civili; tra la frana, e il fatto
che tutti
nella sua armata fossero dotati di armi da fuoco e da taglio, la
distruzione di
Thandrumeer e il massacro degli abitanti sarebbero dovuti avvenire
senza grossi problemi.
Calida e la sua
armata attraversarono di corsa ciò che
restava delle mura, eccitati dalle grida delle persone spaventate e
morenti e
dall’odore di sangue che già permeava
l’aria. Le urla di guerra dei Lusan di
Ulthmeer non riuscivano a coprire il rumore degli edifici che ancora
crollavano, né quelle di disperazione degli
abitanti di Thandrumeer, ma andavano ad aggiungersi
a quella gigantesca e assordante cacofonia.
«Moladh mèinn a
-aryun!» urlò Calida, sgozzando
rapidamente un Lusan di Thandrumeer che si
stava dando alla fuga «MOLADH
MÈINN A
-ARYUN!»
“Tributo
alla musa di sangue”: quello era il significato
delle sue parole, perché dedicava il massacro ad Anise, la
sua “musa di
sangue”, colei che -volendo o meno- le aveva ispirato
l’idea della frana, che
aveva portato tanta devastazione.
“Promemoria
per me: per fare quel che voglio fare dopo,
devono restarne in vita almeno cinquantadue” pensò
la Lusan, afferrando il
braccio di una lince fulva di mezza età che aveva tentato di
colpirla con un
pugnale. «Se sopravvivi al colpo, tu sarai la prima dei
cinquantadue»
sentenziò, mentre strappava di mano il pugnale
all’altra conficcandoglielo alla
base della schiena.
Calida
lasciò cadere l’avversaria e, ora affiancata da
due
dei suoi soldati, continuò la sua corsa omicida. Anche il
resto della sua
piccola armata stava imperversando in ogni via della città
che non era stata
distrutta dalla frana, senza risparmiare nessuno: che fossero uomini e
donne,
bambini o bambine, anziani o anziane, tutti quanti dovevano essere
uccisi… o
essere resi incapaci di nuocere per essere
“utilizzati” in seguito.
«Hogevor
Calida! Dietro di lei!»
L’avvertimento
del compagno d’arme fece
sì che Calida si scansasse appena in tempo per evitare un
colpo di fucile da parte di un Lusan che, seppur visibilmente
spaventato, aveva
voluto comunque tentare un attacco.
La Ulthmeer a-ghekavary
riuscì a scansare un altro proiettile, e una volta raggiunto
il ragazzo non
ebbe difficoltà a togliergli di mano il fucile.
«Se tu fossi nato a Ulthmeer
saresti stato uno dei miei- ah,
carino»
commentò, afferrando e fratturando il polso a una lince dai
tratti pressoché
identici a quelli del maschio «Bella strategia di riserva, se
tu non fossi
riuscito a uccidermi mi avresti distratto per permettere a tua sorella
di
pugnalarmi. È quasi un peccato dovervi uccidere»
disse, afferrando per la nuca
entrambi i fratelli e sollevandoli «Quasi».
Il rumore sordo dei
due crani che si scontravano e si
fracassavano uno contro l’altro risultò abbastanza
piacevole alle sue orecchie
e, lasciati cadere a terra i corpi dei due gemelli, tornò a
occuparsi della
propria armata e del resto degli abitanti della città.
Il massacro andò avanti per diverso tempo, tanto che quando
Calida trovò un momento per alzare gli occhi al cielo
notò che iniziava ad
albeggiare.
“È
proprio vero che il tempo vola, quando ci si diverte”
pensò. Avvistò Recte, il Lusan nero cui aveva
detto che non era una buona idea
cantare vittoria troppo presto, e si avvicinò.
«Come va qui?»
«Hogevor Calida,
giusto la cercavo. Ho saputo che il Thandrumeer a-ghekavary
è riuscito a scappare dalla città con tutta la
sua
famiglia» la informò il Lusan «Moglie,
fratelli, figli, nipoti… ventisette o
ventotto persone in tutto. Quelli che abbiamo catturato hanno parlato
di una
miniera esaurita, con due ingressi uno vicino
dall’altro».
«Ho
presente: ce ne è solo una, quella accanto al fiume.
Sei stato abile a procurarti queste informazioni, ti sei guadagnato due
adamadnery pinc. Hm… a
giudicare da quel
che vedo e che sento, sembra siamo a buon punto»
osservò Calida.
«Confermo.
Poco fa gli altri stavano iniziando a radunare i
sopravvissuti di questa città, e la maggior parte di questi,
seppure ancora vivi,
sono stati resi innocui. I cinquantadue da lei richiesti ci sono
già tutti».
«Più
alcune femmine in età da riproduzione, immagino…
bene»
disse, vedendo Recte annuire «Pensi di riuscire a gestire la
situazione con qualche
soldato in meno?»
«Sissignora.
Vuole andare a prendere il Thandrumeer a-ghekavary
nella miniera?»
«Voglio
occuparmi di lui e relativa famiglia» confermò la
Lusan «Ma non scenderemo nella miniera, sarebbe folle. Ho
tutt’altra idea… e il
quindicesimo uomo lasciato di guardia ai cannoni aveva degli esplosivi.
Ascolta, una
volta finito qui manda qualcuno a Ulthmeer a dare l’ordine di
issare i
cinquantadue agaibh»
ossia
croci a forma di “T” «Che ho fatto preparare. Di certo ricorderai che
vanno messi lungo la via che va da qui alla nostra città, ma
lo ripeto lo stesso. Tutto
chiaro?»
Recte stava per
confermare ma la vista di un Lusan armato
di spada, sbucato da un edificio semi distrutto, lo spinse a emettere
solo un
grido di avvertimento che tuttavia giunse troppo tardi.
Calida riuscì a
muoversi abbastanza in fretta da evitare di farsi trafiggere la
schiena,
all’altezza del cuore, ma la lama si infilò dritta
nella sua spalla destra.
«Questa
è una seccatura» commentò la lince,
senza
scomporsi, e l’impagabile espressione terrorizzata del Lusan
nel non vederla
soffrire il dolore, nonché quella piuttosto stupita di
Recte, la fecero
sorridere. «Eppure tu, che sei uno dei miei soldati, dovresti
sapere che io non
provo dolore».
«Lo
sapevo» disse Recte, dopo una breve esitazione «Ma
vederlo è diverso».
Calida estrasse la
spada dalla propria spalla e, come se
nulla fosse, decapitò il Lusan di Thandrumeer che
l’aveva ferita. «Capisco.
Orbene, io vado a radunare i soldati di cui ho parlato, e tu sai
già quali sono
i miei ordini».
«Verranno
eseguiti. Le… insomma, le serve aiuto? La ferita
sta sanguinando».
«Sto bene.
Ci rivedremo presto».
Nell’allontanarsi,
Calida
pulì sommariamente il taglio l’acqua di
una borraccia
che aveva con sé, mise sulla -e nella- ferita un
composto di erbe che l’avrebbe protetta da infezioni, e
fasciò il tutto con una
lunga benda che aveva in tasca.
Non soffrire il dolore non la rendeva
invulnerabile, dunque sapeva di dover essere previdente.
Radunò
dieci soldati e uscì dalla città insieme a essi.
Non
credeva che il capo della distrutta Thandrumeer e relativa famiglia
avessero a
disposizione chissà quali armi, né che avrebbero
provato a combattere, ma nel
dubbio era meglio portare diversi soldati con sé.
Affiancata dagli
altri, raggiunse rapidamente gli uomini
che aveva lasciato a guardia dei cannoni. «Dobbiamo portare
gli esplosivi alla
miniera esaurita di Thandrumeer, si trova vicino al fiume. La miniera
ha due
ingressi, e al suo interno sono nascosti il Thandrumeer a-ghekavary
e relativa famiglia. Noi faremo sì che restino lì
in
eterno».
Nessuno ebbe da
obiettare, e ben presto l’intero drappello
-Calida, i dieci soldati, più altri quattro scelti tra
quelli rimasti di
guardia durante l’assalto- raggiunse la miniera. Tutti quanti
poterono notare
fin da subito molteplici impronte piuttosto fresche, segno evidente che
coloro
che cercavano si trovavano veramente sul posto.
«Attendiamo
ordini, Hogevor
Calida» disse una soldatessa.
«Come
potete vedere,
l’ingresso principale e quello
secondario della miniera sono decisamente vicini tra loro, e la miniera
e il
fiume non sono distanti. Piazzeremo degli esplosivi che
romperanno l’argine del fiume e creeranno un percorso per
l’acqua che vada da
lì ai due ingressi» disse Calida
«Ingressi che poi
faremo crollare. Credetemi se vi dico che l’acqua
riuscirà
ugualmente a scorrere tra i detriti e
scendere giù nelle gallerie. Sono scappati via come dei
codardi
topi di fogna,
dunque la loro morte dev’essere adeguata: se non
sarà per
fame o per mancanza
d’aria, sarà per annegamento».
Calida stessa era
sempre stata brava con gli esplosivi,
dunque non restò a guardare né quando li
piazzarono né quando li fecero
brillare, facendo in modo che le esplosioni creassero uno scavo
particolarmente
profondo proprio davanti ai due ingressi, e l’acqua del
fiume, ben felice di
poter imboccare una via diversa dalla solita, deviò
immediatamente lungo il
percorso che era stato creato appositamente per lei.
«Ben
fatto, ora state pronti a lanciare l’esplosivo che
farà crollare la volta dei tunnel. Preparatevi ad accendere
le micce e -oh, ma
guarda un po’ chi si vede. Caro Ger, buongiorno e
addio» sorrise Calida nell’avvistare il capo di
Thandrumeer
-presumibilmente salito a vedere cosa stava succedendo-
in fondo al tunnel. Si voltò verso i soldati.
«Accendete e tirate».
Nessuno
capì quali furono le ultime parole del capo di
Thandrumeer prima che gli esplosivi venissero lanciati
all’interno degli
ingressi, facendoli collassare su se stessi, ma del resto a nessuno
importava
delle parole di un morto che camminava.
Avvistati
dei vecchi attrezzi da lavoro poco distanti dalla
miniera, venne presa la decisione di alzare e rinforzare gli argini del
canale
appena creato. Dall’interno dei tunnel ormai chiusi si
sentivano provenire
delle grida, ma nessun soldato ne fu impietosito, e da un certo momento in poi il
livello del canale non superò
più i nuovi argini creati, segno che stava riuscendo davvero
a fluire tra le
macerie.
Nel tornare a quel
che restava della città di Thandrumeer,
Calida poté verificare che gli ordini impartiti erano in
esecuzione: lungo l’antica
via da Thandrumeer a Ulthmeer riusciva già a scorgere sette agaibh -collegati da cinque corde- ai
quali erano già stati inchiodati sette sopravvissuti della
città distrutta.
Devastare Thandrumeer non era bastato, condannarne il capo
e relativa famiglia a una brutta morte non era stato sufficiente: i
cinquantadue che Calida aveva voluto risparmiare sarebbero stati
crocifissi
lungo tutta la strada.
Sarebbe stata
un’ ulteriore dimostrazione di forza, o di
una crudeltà abissale: due cose che spesso per gli abitanti
di quella florida
valle andavano a braccetto.
“Recte si
è dato un gran da fare. Potrei assegnargli una
casa più grande” pensò la lince.
«Hogevor Calida, lieto
del suo ritorno. Ho eseguito gli ordini, e mi sono anche permesso di
portare
avanti il lavoro» fu la prima cosa che disse il Lusan nero
quando la vide.
«Ho
notato. Hai fatto bene, sai che non amo perdere tempo.
Comunque, sappi che le informazioni che avevi carpito erano corrette, e
ora il
Thandrumeer a-ghekavary
e la sua famiglia sono un ricordo».
«Se non
fossi stato piuttosto sicuro della loro veridicità
non gliele avrei riferite» asserì il Lusan
«Non mi sarei mai perdonato una
missione fallimentare».
«Un’ultima
cosa: dal momento che siamo già passati alle
crocifissioni desumo che anche il resto dei sopravvissuti, anzi, delle sopravvissute, siano state portate in
città».
«Sissignora:
ventuno donne, tutte tra i quindici e i
venticinque anni. Tra qualche mese Ulthmeer avrà vari
cittadini in più!»
Calida
annuì. «Avremmo potuto permettercelo
già in
precedenza, ma ora che campi e miniere di Thandrumeer sono nostri
abbiamo una
quantità di risorse ancora maggiore, e sarà tutto
più semplice. Bene, a questo
punto direi che non rimanga altro da fare se non saccheggiare gli
edifici ancora
in piedi» disse a voce particolarmente alta, facendosi
così sentire anche da
altri suoi soldati «Prendete tutto quello che vi piace, ve lo
siete meritato!»
Esultando, i soldati
corsero a trasmettere l’ordine al
resto del gruppo: se c’era una cosa che amavano fare quanto
di massacrare, era
saccheggiare.
«Prima che
tu vada, Recte: quante perdite abbiamo avuto?»
domandò Calida.
«Sei. Non
so quale sia la sua opinione ma, se posso
permettermi di dire la mia, è un numero più che
accettabile. Eravamo meno di
cento persone contro una delle cittadine più grandi della
valle. Ci sono ottime
probabilità che scrivano una canzone su questa
cosa!»
«Concordo».
«Hogevor Calida,
mi permette una domanda?»
«Parla».
Il Lusan
indicò le croci in lontananza. «Perché
ha voluto
che gli agaibh fossero legati uno
all’altro con delle corde?»
Calida sorrise.
«Lo ho voluto perché, quando calerà
il sole, illumineremo tutta la via».
«Onestamente
non credo di comprendere».
«Non
preoccuparti, Recte, questa sera capirai tutto alla
perfezione».
Il soldato si
allontanò, e un pensiero colse Calida in
quell’attimo di distensione: si era appena resa conto di non
aver avuto alcuna
allucinazione riguardante Anise, e di aver visto i volti di coloro che
stava
effettivamente uccidendo, invece del suo.
“Forse mi
serviva solo un bagno di sangue” pensò
“Ad averlo
saputo prima…”
***
«Suvvia,
un po’ di contegno! Siamo quasi arrivati sul
pianeta dei Lusan, una volta che sarete in casa e in camera da letto
potrete
dare sfogo a tutti i vostri impulsi da diciannovenni -anzi, nel caso di
Lady
Anise quasi ventenni… abbiate un po’di
pazienza».
«Per
l’amor del cielo, parli come se io e Anise stessimo
facendo cose qui sul
posto!» sbottò
Lord Beerus, alzando gli occhi al cielo «Siamo vestiti, non
ci stiamo toccando
in posti ambigui, lei è in braccio a me e io ti sto dando le
spalle
aggrappandomi al tuo braccio solo con la coda, quindi non vedi niente
di
niente… non vedo come possa infastidirti, a meno che tu
abbia degli occhi
invisibili dietro la testa!»
«Il che,
trattandosi di un angelo, non è poi così
improbabile» aggiunse Anise.
Quelli trascorsi
assieme a Beerus erano stati dei bei
giorni, che le avevano giovato esattamente come aveva pensato. Si era
sentita
serena, felice di poter stare insieme al suo compagno, di poter
addormentarsi e
svegliarsi tra le sue braccia per tutti quei giorni di fila. Se fosse
stata il
tipo di persona che si lasciava guidare solo e soltanto dai sentimenti,
se
avesse preso in considerazione soltanto la loro relazione, avrebbe
potuto
tranquillamente desiderare un’eternità
così.
Peccato che invece
non fosse quel tipo di persona, e che i
dubbi che aveva sempre avuto su quella questione continuassero ogni
tanto a
fare capolino.
“Con il
tempo passeranno del tutto, e io non devo scegliere
adesso” pensò, tranquillizzandosi.
«No, non
ho gli occhi dietro la testa, e non posso vedere
quello che fate o non fate. Per fortuna» disse
l’angelo.
«Di tutti
i maestri che potevano capitarmi, proprio un
censore moralizzatore» borbottò Beerus.
«Un
censore moralizzatore che ti portava a prostitute... massima
coerenza» commentò Anise.
Whis
sollevò un sopracciglio sottile. «Proprio lei
viene a
parlarmi di coerenza?»
«Te
l’ho già spiegato: per quanto io odi quelle
stupide
guerre tra città, non sono il tipo di persona che si rifiuta
di dare una mano a una
persona cara» ribatté Anise «Non vi
avrei mai chiesto di aiutarmi a cercare
armi, so che a Beerus non piace essere coinvolto in cose simili e
dunque non
l’ho messo in mezzo, ma io ero già intenzionata a
dare il tesoro a mia sorella,
dunque l’ho fatto! Se poi lo ha usato, ed è
riuscita a togliere di mezzo una
città problematica che minacciava la stabilità
del Trattato, meglio così».
Whis aveva tirato
fuori quella questione quasi in maniera
casuale circa cinque giorni dopo la partenza, evidentemente dopo
essersi
intrattenuto facendosi un po’di affari altrui.
Anise non sapeva se l’avesse
fatto “perché sì” o in un
tentativo di minare la sua relazione con Beerus, del
resto lei e Whis continuavano a non piacersi, ma all’angelo
era andata
male: Anise aveva
già detto a Beerus di aver
dato il tesoro a Calida -e perché lo aveva fatto- durante la
prima occasione in
cui erano rimasti soli.
«Io per
Champa non lo avrei
fatto» disse Beerus «Anzi,
probabilmente avrei finanziato gli avversari! Però se le
azioni
di una singola
città rischiano di rompere una tregua già
traballante,
allora forse occuparsene non è un'idea campata per
aria…»
Beerus era sincero,
pensava davvero quel che stava dicendo,
ma ciò non significava che ne fosse contento. Non gli piaceva
l’idea che Anise fosse coinvolta in certe
cose, anche solo “marginalmente”: non trovava
giusto che lei andasse contro i
propri valori per aiutare Calida in una guerra che non approvava.
Vero, Calida non l’aveva costretta ad
accettare puntandole un fucile alla nuca, ma conoscendo Anise doveva
aver
immaginato che non sarebbe rimasta sorda alle sue richieste, e dal
punto di
vista di Beerus era pressoché la stessa cosa.
L’Hakaishin
poteva capire cos’aveva spinto la sua “quasi
cognata” a cercare l’aiuto di qualcuno che aveva
stretti contatti con una
divinità come lui, poteva quasi arrivare a dire che non
provarci sarebbe stato
da sciocchi, ma non gli piaceva ugualmente.
Non conosceva
granché
Calida, ma dopo quell’ultimo fatto
riteneva di aver visto abbastanza da poter concludere che la sua
compagnia non fosse buona per Anise, e lo aveva perfino detto
a
quest’ultima.
Risultato: aveva
capito che Anise, se c’era di mezzo
Calida, diventava sorda e cieca, nonché pronta a trovare
almeno una
giustificazione alle sue azioni.
Un altro buon motivo
per cercare di allontanarle, a suo
parere.
Neppure un minuto
dopo giunsero sul pianeta dei Lusan. La
casa di Anise era nascosta dalle fitte chiome degli alberi sotto di
loro,
dunque sarebbero potuti atterrare, ma qualcosa portato dal vento
attirò la loro
attenzione.
«Odore di
carne bruciata» sentenziò Beerus, con aria seria,
annusando l’aria «E non mi sembra quella di un buon
arrosto».
Whis
arricciò il naso. «Direi proprio di no…
a meno che i
Lusan che abitano la valle siano diventati cannibali».
«Ulthmeer
o Thandrumeer, questo è il dilemma»
mormorò
Anise.
«Vuoi
andare a vedere?» le chiese Beerus, dopo qualche
attimo di silenzio.
La giovane lince
esitò non poco, ma infine il desiderio di
sapere com’era andata, e dunque avere la conferma che sua
sorella fosse ancora
viva, la spinse ad annuire.
«Whis,
andiamo» ordinò Beerus.
Meno di un attimo
dopo il trio si trovò a osservare
dall’altro la città di Ulthmeer…
nonché le cinquantadue croci a forma di
“T”,
che grazie alle corde che le collegavano -e a un qualche liquido
infiammabile-
stavano prendendo fuoco una dopo l’altra, illuminando
progressivamente la via.
Beerus aveva
diciannove anni, e il suo compito di Hakaishin
lo aveva portato in zone di guerra o su pianeti più o meno
disastrati, ma era
la prima volta in assoluto che assisteva a un esempio di
crudeltà di tale
livello. La crocifissione era dolorosissima, ma morire bruciati dopo essere stati crocifissi era molto
peggio, e le urla di quei poveri disgraziati lo testimoniavano.
Man mano che le
croci continuavano a prendere fuoco, alle
loro grida di dolore e di paura se ne aggiunsero altre, ma erano grida
di
esultanza: quelle degli abitanti di Ulthmeer, che si beavano della
propria
barbarie, e che a un certo punto, quando il fuoco raggiunse
l’ultimo Lusan
crocifisso, iniziarono a urlare tutti la stessa parola.
Anzi, lo stesso nome.
“CALIDA!...
CALIDA!... CALIDA!...”
«Pare che
mia sorella abbia vinto» disse Anise, atona.
«Non ha
voglia di scendere a congratularsi con lei, Lady
Anise?» le chiese Whis.
All’apparenza
non c’era traccia di sarcasmo nella sua voce,
eppure entrambi i ragazzi riuscirono a coglierne la presenza nascosta.
Beerus
lanciò un’occhiataccia al suo attendente.
«Non dire un’altra parola e portaci
subito a casa».
«Come
desidera, signore».
Nella mente di Lord
Beerus si affacciarono due pensieri,
uno di fila all’altro: il primo fu “se non avessi
visto con i miei occhi che il
resto del pianeta è in pace, lo distruggerei seduta
stante”; il secondo invece
fu “devo portare Anise via di qui,
al più
presto”.
Originariamente non era
mia intenzione scrivere delle note anche in fondo al capitolo, ma ho
trovato una valida ragione :) Ringrazio
molto l'autrice del disegno di Anse! È una persona
davvero
deliziosa, e brava con il disegno tradizionale. Vi linko la sua pagina
Facebook,
>>> CaciottaPower
<<<
... Invece il disegno qui sotto è mio, finito un
po' in ritardo
rispetto al capitolo, ma meglio tardi che mai.
Come potete notare, non è nulla di che.
|
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Capitolo 15 *** 15 ***
RMIcap16
15
«Ferma con
la testa, mi raccomando».
«Più
ferma di così si muore, Callie».
«Lo dicevi
anche da piccola, poi però ti muovevi sempre,
perché il tuo sguardo veniva attirato dall’una o
l’altra cosa. Eri una piccola
lince curiosa già a quei tempi».
Le mani della Lusan
più vecchia stavano creando
un’acconciatura di trecce piuttosto elaborata con i capelli
di Anise, la quale
una volta tanto si sentiva davvero
a
proprio agio con sua sorella.
Da quando Anise
riusciva a ricordare i propri compleanni, non
c’era stata una singola volta in cui Calida avesse mancato di
intrecciarle i
capelli in quel modo. Era una piccola tradizione, un gesto che riusciva
a
riportarla all’infanzia, ai tempi in cui Calida era per lei il punto di riferimento, capace di
diventare alquanto violenta con altri ma, a modo proprio, sempre
abbastanza
“amorevole” con lei.
In quegli anni
Calida era la sola e unica persona della
quale Anise si fidasse, l’unica di cui fosse disposta ad
ascoltare l’opinione,
la figura che per lei era più importante di chiunque altro,
che le aveva
insegnato tante cose -incluso il
modo
in cui usare un fucile.
Anise era fiera della propria indipendenza, ma
dimenticare che era stata sua sorella a insegnarle tutto ciò
che serviva per
averla e per mantenerla sarebbe stato da ingrati, e lei non era
un’ingrata.
Avrebbe potuto sopportare di essere apostrofata con qualunque epiteto,
ma non
“ingrata” o, peggio ancora,
“sleale”.
Riconosceva tanti
difetti a Calida, c’erano diversi
aspetti di lei che le piacevano poco e probabilmente, per quanto
potesse aver
deciso di “passarci sopra”, non sarebbe mai
riuscita a dimenticare quel che era
successo tra loro due ormai quasi cinque anni prima… ma
sentiva di doverle
molto, ed era sempre sua sorella.
«Anche ora
che ho venti anni sono sempre una lince
curiosa».
«Una
curiosità però ce l’ho anche io, Anise:
c’è una
ragione particolare per cui anche quest’anno, come quello
passato, il tuo
compagno e relativo fratello accettano di festeggiare il tuo compleanno
su
questo “pianeta di barbari”?»
Anise
alzò gli occhi al soffitto. «Calida, cosa
pretendevi
che dicesse Beerus dopo aver visto cinquantadue Lusan crocifissi e bruciati?»
«Se non
riesco a capire i motivi e i contesti che portano a
determinate azioni, personalmente non ne parlo affatto»
ribatté l’altra «Se poi
un pischello Hakaishin -ripeto: Hakaishin!-
viene qui e ci chiama barbari perché abbiamo ucciso delle
persone, come minimo
mi viene da ridere».
«Beerus ha
una mentalità diversa dalla tua».
«Dalla nostra» la
corresse Calida «Non comprendi i motivi dietro le guerre tra
città, ma sai che
qui funziona così: più si dimostra di essere
sanguinari, meno rischi si corrono di veder presa di mira la
propria città -e i rischi ci sono sempre, per
ognuna di esse. Sebbene non ti piacciano certe cose, tu le capisci. Il
tuo
compagno invece uccide miliardi di persone alla volta, e quando glielo
si fa
notare risponde “Eh, ma io non le crocifiggo per poi dar loro
fuoco!”… facile
parlare quando si ha tanto potere da distruggere un pianeta con uno
schiocco di
dita e non si devono dare dimostrazioni di forza ad altri capi che non
vedono
l’ora di farti la pelle, nonché farsi la pelle a
vicenda».
«O di
sposarti» aggiunse Anise «Come quello di Kahzameer.
Dovrebbe avere solo un anno più di te, se non
erro».
La
brutalità mostrata da Calida nel radere al suolo
Thandrumeer aveva non soltanto portato le altre città ad
acquietarsi, ma anche un
paio di proposte di matrimonio dai capi di alcune di esse, a ulteriore
dimostrazione del fatto che nel tipo di società in cui
vivevano i Lusan della
valle c’era più di qualche problema di fondo.
«Peccato
che la sottoscritta non sia interessata a
sposarsi, per quanto attraente possa essere colui che chiede la mia
mano» replicò
Calida «C’è stato un tempo in cui non mi
sarebbe dispiaciuto avere dei figli
grossi e robusti, ma è passato. Non escludo che in un altro
momento possa
tornare a pensarci, ma non adesso».
«L’importante
è che non torni a pensarci dopo i
cinquant’anni, perché a quel punto sarà
troppo tardi. Io sono avvantaggiata:
non potendo avere figli a prescindere, non ho -né
avrò mai- modo di rimpiangere
di non averne fatti a causa della carriera» disse Anise,
senza traccia di
malinconia nella voce.
«Questa
tua incapacità di avere figli mi ha sempre lasciata
un po’perplessa, perché sì, il tuo
ciclo si presenta una volta al mille, ma si
presenta. Questo in teoria dovrebbe indicare che non sei del tutto
sterile… ma
sai cosa? Considerando il soggetto con cui ti sei accompagnata,
è meglio così»
commentò Calida, accingendosi a lavorare
all’ultima treccia «Il tuo Hakaishin
avrà tutti i pregi che ti pare, ma ragiona come il ragazzino
che è. Un
ragazzino egocentrico, per la precisione».
«Come puoi
dirlo? Vi conoscete a malapena!»
«Dunque
non è egocentrico?»
Anise
esitò un po’prima di rispondere, riflettendo
seriamente sulla domanda. «Non al punto da risultare
fastidioso o problematico,
e mi tiene molto in considerazione, come io faccio con lui e
com’è giusto che
sia».
«Finché
si è un coppia si dà considerazione
prevalentemente l’uno all’altra, ma con dei figli
cambierebbe tutto. Hai visto
cos’è successo a diverse coppie nella nostra
città: nato un figlio, ecco che
uno dei due genitori si è dedicato ad esso per la maggior
parte del tempo -si
sa, i neonati richiedono molte cure- ed ecco che l’altro si
è sentito
trascurato, andando a cercare attenzioni altrove».
«Non mi
risulta sia andata così per tutte le coppie che
hanno avuto figli» ribatté Anise.
«Hai
perfettamente ragione» annuì Calida
«Infatti le cose
sono andate a finire così solo nelle coppie in cui uno dei
due era più
egocentrico e meno maturo dell’altro. Le parole che ti sto
per dire non ti
serviranno mai, però ascoltale lo stesso: in base a quel che
tu e io abbiamo
visto succedere direi di poter concludere che sì, in una
relazione sana ed
equilibrata i figli possono essere un collante… ma se la
relazione non va più
che bene, e non si è entrambi “adulti” a
livello mentale, i figli diventano un acido».
«Terrò
a mente il consiglio» disse Anise «Anche se per
l’appunto parliamo di questioni molto campate per
aria».
«Mi
è anche venuta in mente una cosa: dal momento che la
maledizione che gravava sul tesoro di Rubedo provocava
sterilità, forse è la
causa dei tuoi problemi. Il tesoro era lì, accanto al lago,
e tu hai fatto il
bagno in quelle acque fin dalla più tenera età
ancor più spesso di quanto
l’abbia fatto io. Non sei mai venuta direttamente a contatto
col tesoro, e
dunque con la maledizione, ma non mi sembra strano che tu possa averne
subìto
l’influenza» ipotizzò, finendo di fare
la treccia «Acconciatura fatta».
«Grazie.
Comunque credo che l’ipotesi non sia così
improbabile» concesse Anise «Potrebbe veramente
essere dovuto a quello, e se fosse
così allora lo sarebbe anche il resto. Intendo… a
volte è come se Vynumeer ci
chiamasse, no? Ho sempre pensato che fosse un’impressione, ma
forse non lo era
affatto».
Calida capiva fin
troppo bene cosa intendeva dire sua
sorella. Negli anni passati era riuscita a mettere da parte il
desiderio di
tornare in quel posto grazie agli impegni da Ulthmeer- a
ghekavary, e anche ad “adeguare” il
proprio pensiero su Vynumeer
a quello del resto degli abitanti della città, ma la parte
di lei che aveva
continuato a credere alle leggende non le aveva mai permesso di
dimenticare
completamente quel posto… e dopo aver scoperto che il tesoro
di Rubedo era
reale, aveva persino iniziato a sognare Vynumeer durante la notte.
Il villaggio
maledetto e il lago avevano sempre esercitato
uno strano fascino su tutt’e due: entrambe per varie ragioni
erano legate a
quel luogo, ed entrambe ne avvertivano il richiamo.
«È un
dubbio legittimo, Anise. Da quando ho saputo del
tesoro lo sento anch’io» confessò la
Lusan beige «O meglio, ho ricominciato a
sentirlo più forte di prima».
«Forse
avrei dovuto rifiutarmi di disegnare per te la mappa
della grotta e del percorso per arrivare a essa…»
«No, in un
certo senso quella mappa mi aiuta a ricordarmi
che andare laggiù a cercare qualcosa che a tuo dire non
c’è sarebbe un’impresa
pressoché impossibile quanto priva di senso. Non hai trovato
quella corona,
quindi non c’è. Purtroppo è una cosa
molto semplice da capire» sospirò Calida
«Ma
torniamo al discorso principale, perché ci siamo perse per
strada: come mai
festeggi il tuo compleanno qui, quando il tuo compagno potrebbe
portarti
ovunque nell’Universo?»
«Beerus
avrebbe voluto che festeggiassimo da lui, Champa
invece ha proposto una festa in spiaggia a casa propria»
iniziò a spiegare Anise
«Non riuscendo a mettersi d’accordo si sono messi a
litigare sul serio, rischiando di
distruggere il pianeta, e
io alla fine ho detto “Festeggeremo qui
e BASTA, e questa sera
niente
torta per nessuno dei quattro”».
«Quattro?»
«I due
Hakaishin litigavano, ma i due angeli non sembravano
aver voglia di muoversi per fermarli subito, quindi neppure loro
meritavano la
torta. Logico, no?»
«Sì,
per quanto possa essere logico riuscire a “imporsi”
su
essersi superiori semplicemente privandoli di una torta. Meglio
così,
ovviamente» disse Calida, facendo spallucce «Ti
sarà utile anche in futuro».
«Sì,
soprattutto se diventerò la sua Neiē».
Parlare di barbarie,
bambini e maledizioni non era stato
sufficiente a cambiare l’atmosfera, ma questa mutò
del tutto appena Anise finì
di pronunciare quella frase.
Nessuna delle due
fece alcunché di strano o meno, ci fu
solo un cambio d’espressione sui volti di entrambe, seguito
da una breve
pausa di silenzio.
La Lusan
più vecchia si sedette. «La Neiē è
legata all’Hakaishin
da un giuramento eternamente vincolante che crea un life-link, se non
sbaglio».
«Non
sbagli».
«Lord
Beerus ti ha parlato della possibilità di prestare
questo giuramento?»
Anise
annuì. «Ne parlava anche prima, ma non
spessissimo, e
non aveva mai parlato di farlo in tempi brevi. Era sempre “un
giorno”, “prima o
poi”, “presto o tardi”, “tra
qualche anno”… ultimamente invece non solo ne
parla due giorni sì e uno no, ma lo fa come se intendesse
chiedermi di diventare la sua Neiē da un giorno all’altro. A
volte penso che se non lo ha già fatto è solo
perché Whis cerca di
dissuaderlo».
«Cerca di
dissuaderlo come farebbe qualunque persona di
retto senso! Prestare quel giuramento sarebbe una completa follia, cosa
succederebbe se poi uno di vuoi due si stufasse, o se le cose dovessero
iniziare
ad andare male per qualunque motivo?! Questa sua fretta di mettere la
propria
vita in balìa di un sentimento è proprio la
dimostrazione che ragiona come un
ragazzino sciocco, nonché la cosa più stupida che
chicchessia potrebbe fare, e
comunque siete troppo giovani!»
Lo sguardo della
giovane lince divenne più freddo. «Per
questo sono troppo giovane, per sposare Meskal a quindici anni invece
non lo
ero, mi pare logic-»
«Il
matrimonio con Meskal non creava un life-link, al
contrario di questo stramaledetto giuramento!» la interruppe
Calida, alzandosi
di nuovo in piedi «E Meskal non era un Hakaishin, ma un
povero stronzo al quale
ho minacciato di strappare gli occhi se avesse osato tradirti, alzare
anche
solo un dito su di te o recarti dolore in qualsiasi maniera! Credi che
le cose
tra voi sarebbero andate allo stesso modo, se non fosse stato per quel
mio
avvertimento? Ti rispondo io: NO!
Meskal era quello che era, però era il capo di Ulthmeer,
quello con lui era un
matrimonio conveniente, e io potevo tenerlo a bada. È
riuscito a cogliermi
impreparata solo all’ultimo, ma l’ha pagata molto
cara… rimpiango solo che
altri Lusan di chissà quale città siano arrivati
prima di me» disse, cercando
di sembrare naturale una volta resasi conto di aver praticamente
confessato
l’omicidio.
«È
bello venire a conoscenza di certe cose proprio nel
giorno del mio ventesimo compleanno, davvero una meraviglia»
mormorò Anise,
cupa.
Calida
sollevò un sopracciglio. «Vorresti dirmi che non
avevi intuito la mia ingerenza nel tuo matrimonio? Non ci credo
minimamente.
Non ti ho cresciuta come una stupida, anche tu sapevi abbastanza bene
com’era
fatto Meskal, e sapevi anche come sono fatta io».
Anise doveva
ammetterlo, la sua risposta onesta a “Vorresti
dirmi che non avevi intuito la mia ingerenza nel tuo
matrimonio?” sarebbe stata
un “Sì, lo avevo intuito”; i racconti di
Calida riguardanti Meskal le avevano
dipinto un certo tipo di persona, che però non si era mai
mostrata nel corso
del matrimonio, e ora conosceva precisamente il motivo. «Lo
sapevo, al punto
che a volte mi è venuto in mente che possa essere stata tu a
uccidere Meskal».
Le parole erano
uscite dalla sua bocca prima che riuscisse
a ponderarle, forse perché in quel momento di confessioni il
bisogno di tirare
fuori quel dubbio legittimo era riuscito a prevalere su tutto il resto.
«La voglia
di tener fede al mio avvertimento e ucciderlo
per averti ripudiata c’era, te
l’assicuro» disse Calida, riuscendo a incassare
tranquillamente il “colpo” «Mi piacerebbe
poter dire di essere la persona che
gli ha spappolato il cranio, sarebbe stato il minimo, ma purtroppo non
ho avuto
quella soddisfazione… per non parlare del fatto che
uccidendolo senza
assumermene la responsabilità avrei rischiato di crearti
problemi con il resto
dei cittadini».
«Quelli
che poi ho avuto ugualmente, e di cui in realtà gli
assassini di Meskal non sono colpevoli. La vera colpevole del tentativo
di
linciaggio che ho subìto è della mamma degli
idioti, che è sempre incinta e ha
popolato l’intera Ulthmeer con i propri figli».
«Dunque mi
credi quando ti dico di non averlo ucciso?»
Anise fece
spallucce. «Ti credo. Non ho molte alternative».
«Bene»
concluse Calida «Prima che io me ne vada, Anise,
torniamo un attimo al discorso principale: se il tuo compagno dovesse
uscirsene
di nuovo con quella stupida idea, tu non accettare. Lui avrà
fretta ma, come ho
detto in precedenza, io non ti ho cresciuta come una stupida, dunque tu
cerca
di temporeggiare. Se proprio avrai tanta voglia di diventare immortale
cerca -o
fai sì che lui cerchi- un altro modo, ma non fare quel
giuramento, perché non
ti conviene. In realtà non conviene a nessuno dei due, ma a
me della sorte di
Lord Beerus non importa affatto. Io ora devo andarmene, ma ti auguro
nuovamente
di passare un buon compleanno. A presto».
«A
presto».
Calida
andò via, e per fortuna l’atmosfera pesante che si
era creata se ne andò in buona parte assieme a lei.
Purtroppo Anise
doveva riconoscere che, come al solito, le
parole di sua sorella non erano prive di senso. Amava Beerus, ma doveva
anche ammettere
che sarebbe stato molto meglio se si fosse potuto trovare un modo per
diventare
immortale senza creare un life-link pericoloso per entrambi:
l’Hakaishin Helles
aveva parlato di fiori di loto che avevano reso le sue ancelle incapaci
di
invecchiare, nel settimo Universo doveva pur esserci qualcosa di simile!
“Però
non è detto che Beerus punti semplicemente a farmi
diventare immortale. Forse lui punta proprio al giuramento con tutti i
suoi
significati, perché si sente sicuro della nostra relazione
al punto di
volerle dare la massima ufficialità che è
concesso darle, e al punto di mettere
la sua vita nelle mie mani. Immaginando di vedere la questione in tale
maniera,
l’immortalità non diventa proprio
‘marginale’, ma… quasi!”
Beerus
però non le aveva ancora fatto la proposta, dunque
c’era ancora una quantità indefinita di tempo per
pensarci su. Forse la cosa
migliore da fare, almeno per quel giorno, era godersi il proprio
compleanno
senza farsi tanti problemi su cose che dovevano ancora succedere.
Andò
nella stanza accanto, e prese il vestito che Calida le
aveva portato come regalo di compleanno: leggero, lungo fino al
ginocchio e
dal corpetto decorato con una moltitudine di perline di vetro color
rosso sangue, lo stesso
della stoffa. Lei apprezzava di più i colori pastello, ma
trovava l’abito molto
bello, al punto che decise di indossarlo.
Quando ebbe finito
diede un’occhiata all’orologio, e a
giudicare dall’ora pensò che Beerus e Champa non
dovessero essere troppo
lontani. Probabilmente uno dei due sarebbe arrivato a minuti.
“Spero che
Beerus non faccia come l’anno passato… apprezzo
il pensiero, ma onestamente non saprei dove mettere un’altra
montagna di regali
alta cinque metri” pensò “Forse in
cantina, dal momento che le casse con l’oro
del tesoro di Rubedo non ci sono più”.
Avvistò
un lampo bianco fuori dalla finestra, segno che uno
dei due gemelli era arrivato, dunque sorrise e uscì
rapidamente di casa.
«Salve, Champino».
L’Hakaishin
l’avviluppò in un caloroso abbraccio.
«Tanti
auguri, Nissie».
«Ti
ringraz-»
«Ora sei
vecchia!» esclamò Champa, con un sogghigno
«Vecchieeeeetta! Inizierai
a lamentarti
dei reumatismi e delle strane abitudini di questa gioventù
bruciata! Veeeeecchia!»
«Lord
Champa, le ricordo che lei compirà vent’anni solo
tra
qualche mese, quindi definire “vecchia” Lady Anise
mi sembra alquanto privo di
senso. A proposito, Lady Anise, le porgo i miei auguri» disse
Vados, col tipico
sorriso di circostanza.
«Grazie».
«Ehi, poi
la torta l’ho fatta io per davvero! Proprio come
ti avevo promesso» disse Champa, con aria soddisfatta
«È venuta buonissima».
L’espressione
sul viso di Vados divenne dubbiosa. «Mah…
sarà!»
«Che vuol
dire “sarà”?!»
protestò il dio «Cos’ha che non va
la mia torta?!»
«Mi sta
davvero chiedendo cos’ha che non va? È di soli
quattro piani e tanto è riuscito a farla tutta storta, buon
cielo! Per non
parlare del fatto che le decorazioni di cioccolato sopra la panna
sembrano
essere state fatte da un pollo impazzito o qualcosa di simil-»
«BASTA!» la
interruppe Champa «Ho capito, va bene, la mia torta ti sembra
terribile, ma di
una cosa sono sicuro: è sempre mille volte meglio delle tue,
di torte, che se
va bene non hanno sapore, e se va male fanno schifo!»
«Lei
cresce, ma l’ingratitudine non cambia»
sospirò Vados.
«Ah, mai
stai zitta» sbuffò il giovane «Anise,
ovviamente
oltre alla torta ti ho portato un regalo» disse tirando fuori
dalla tasca dei
pantaloni qualcosa che somigliava molto a un grosso seme «Non
è una montagna di
pacchi alta cinque metri, ma spero che ti piaccia ugualmente».
«Sai bene
quanto io ami le piante, quindi certo che mi
piace!» sorrise la Lusan, prendendo in mano il seme
«È un bellissimo regalo.
Dimmi, cosa diventa quando cresce?»
«Possiamo
andare a Vynumeer, piantarlo, bagnarlo con
dell’acqua particolare -che ovviamente ho qui con
me» specificò Champa,
indicando l’altra tasca dei pantaloni «E potrai
vedere con i tuoi occhi cosa
diventa, se vuoi».
Ovviamente Anise
acconsentì, molto incuriosita, e in un
lampo arrivarono a Vynumeer.
Una volta che Vados
li ebbe rassicurati che lo spazio era
sufficiente, scelsero di piantare il seme al centro del grande prato
erboso
accanto al villaggio.
Champa diede ad
Anise una bottiglietta di vetro contenente
della strana acqua che emanava un bagliore rosato. «A te
l’onore! Una volta che
avrai finito avremo… quanti secondi, Vados?»
«Cinque»
disse l’angelo «Avremo cinque secondi per
allontanarci, una discreta quantità di tempo».
La ragazza
bagnò la terra smossa, e appena si furono
allontanati di svariati metri ecco che la pianta nacque: un piccolo e
delicato
stelo rosa scuro, munito di due singole foglie e di un fiore bianco.
«Non
è finita qui, tranquilla, adesso… ecco!
Comincia!»
esclamò il dio, indicando ad Anise la pianta.
Secondo dopo
secondo, quel minuscolo stelo si stava
trasformando in un albero mastodontico con grossi rami dai quali
sbucavano
lunghissimi tralci pieni di
fiori, tanto fitti da sembrare quasi
nuvole. Durante la crescita alcuni di questi tralci si tesero verso il
trio,
lasciando cadere dei succosi frutti argentei ai loro piedi.
«Direttamente
dal pianeta Ygg del Sesto Universo, ecco un
albero ddrasil!» sorrise Champa, raccogliendo un frutto
«Per gli indigeni
questi alberi sono sia fonte di nutrimento, sia un luogo in cui vivere.
Raggiungono un’altezza di centocinquanta metri o
giù di lì, e come puoi ben
vedere anche questo non fa eccezione. Gli alberi ddrasil sono alberi
“viventi”…
nel senso, più viventi del solito. Hanno un minimo di
coscienza, ecco, e- Anise?...»
«È fantastico!»
esclamò Anise, non spaventata dall’ essere stata
letteralmente rapita dai
tralci dell’albero e portata su un grosso ramo
«Adoro questo albero, è il
regalo più bello che potessi farmi!»
Il dio si
voltò verso Vados. «Te l’avevo detto che
l’albero
ddrasil era una buona idea, donna di poca fede!»
“Lo
è perché questa ragazza continua a essere sempre
strana, e crescendo non migliora” pensò
l’angelo. «Sembra proprio di
sì».
«Ehi!
È normale che l’albero mi offra di bere questo
liquido raccolto all’interno dei fiori?» chiese la
lince.
«Certo»
annuì Vados «Il nettare degli alberi ddrasil
è
molto dissetante e molto nutritivo, proprio quello che ci vuole per
lei».
«Voglio
berlo anche io!» esclamò Champa.
«Non credo
proprio che a lei l’albero lo darà, Lord Champa.
Temo che la veda fin troppo nutrito! Piuttosto, comincio a domandarmi
dove sia
suo fratello. È ben strano che non sia arrivato prima di
noi, non trova?»
«Non hai
torto, ma probabilmente si sarà solo svegliato
tardi» disse il giovane dio, alzando gli occhi al cielo
«Trattandosi di Anise
di solito è puntuale, ma si sa com’è
fatto, e sai cosa? Se arriva tardi è
meglio così, almeno potremo goderci i frutti del ddrasil in
santa pace!»
***
«È
tardi! TARDI!
Sto arrivando in ritardo al compleanno della mia Iarim Neiē, e la colpa
è tutta
tua! Te l’avevo detto che saremmo dovuti andare da lei
già l’altro ieri, i
regali li avevamo, ma tu “no, non se ne parla di perdere due
giorni di
allenamento”, figuriamoci!» sbraitò
Beerus «E ora-»
«Con tutto
il rispetto, le faccio notare che non sono stato
io a volermi fermare su dieci pianeti di fila durante il viaggio, in
cerca di
un altro “regalo perfetto” che non è
riuscito a trovare in ogni caso!» ribatté
Whis, secco.
«Se
fossimo partiti due giorni fa avremmo potuto
fermarci anche su venti pianeti, e
questo senza arrivare tardi! Magari il regalo perfetto era in uno di
quelli che
non abbiamo visitato, e noi non lo sapremo mai perché siamo
già in ritardo e
non abbiamo tempo di andarci!»
«Lord
Beerus».
«Sì,
Whis?»
«Spero che
si renda conto di star dando di matto».
L’Hakaishin
sospirò. «Sì, ovvio che mi rendo conto,
ma
l’idea di non essere riuscito a trovare un regalo per Anise
che mi convinca sul
serio mi manda in bestia, va bene?!»
«Presumo
che Lady Anise riuscirà ad apprezzare almeno un
regalo in questi quindici metri di
pacchi» sospirò l’attendente, senza
neppure voltarsi a dare una breve occhiata
al carico che si stava trascinando dietro.
«Li
apprezzerà tutti anche solo perché sono da parte
mia,
ma non è questo il punto! È il secondo anno di
fila in cui sono
costretto a puntare sulla quantità, e questo non mi piace
affatto. Io sono un
Hakaishin, lei è la mia Iarim Neiē: cos0a si potrebbe
pensare di un dio che non
riesce a soddisfare pienamente la sua compagna sul fronte
regali?» gemette,
passandosi le mani sul volto «È una cosa
vergognosa!»
«Avrebbe
potuto evitarsi tutto questo chiedendole cosa
voleva ricevere per il suo compleanno».
«L’ho
fatto! E lo sai cosa mi ha risposto? Mi ha risposto
“Beerus, non devi regalarmi nulla, o se proprio vuoi farlo
portami un mazzo di
fiori”! Un- mazzo- di- fiori!»
scandì
Beerus «Ti pare che un dio possa limitarsi a un mazzo di
fiori? Certo che
no!... perché non può essere interessata a soldi,
abiti e gioielli come tutte
le donne normali? Eh? Perché?!»
«Questo
è colpa sua, Lord Beerus: è stato lei a scegliere
una Iarim Neiē con tutt’altri interessi» gli
ricordò Whis «E mi risulta che
l’abbia scelta anche per questa ragione. Come si sul dire,
chi è causa del suo
mal pianga se stesso».
«Infatti
non ho mai detto che cambierei Anise con qualsiasi
altra donna, non mi passa neppure per l’anticamera del
cervello, dico solo che
quando si tratta di farle regali ho qualche difficoltà, ecco
tutto» replicò
Beerus «Certo, se come regalo le facessi anche la
propost-»
«Lord
Beerus, la prego, pensavo che ne avessimo già
discusso abbastanza» lo interruppe Whis «Non ha
ancora compiuto vent’anni, e il
giuramento che renderebbe Lady Anise la sua Neiē non è da
prendere sottogamba.
Non abbia fretta, perché non c’è
ragione di averne».
«Sì
che c’è, invece! Anise è la persona
giusta, ne sono
convinto, quindi perché dovrei aspettare ancora,
eh?!» insistette Beerus «Perché
non dovrei farla diventare la mia Neiē e portarla via da quella valle
di
barbari, nonché da quella pazza bastarda di sua
sorella?!»
«Se vuol
parlare a Lady Anise di certe cose e sperare di
avere almeno uno 0.5% di possibilità di successo, le
consiglio di adottare una
terminologia un po’più neutrale».
«Calida
non mi piace, io non piaccio a Calida, Anise lo sa
benissimo, quindi la neutralità può anche andare
a-»
«Lei sta
per dire “a quel paese”, immagino».
«…
sssì, Whis,
stavo per dire proprio quello, in modo meno edulcorato»
borbottò il dio.
«Lord
Beerus, deve tenere conto del fatto che Lady Anise è
molto leale alla sorella. Dirle che Lady Calida è una
“pazza bastarda” non sarebbe utile al
suo scopo, se mai sortirebbe l’effetto contrario»
lo avvertì Whis «Le
probabilità che Lady Anise decida di lasciare il proprio
pianeta non sono molto
alte, se aggiungesse anche questo…»
«Cosa vuol
dire che “le probabilità non sono molto
alte”?!»
allibì Beerus «Perché non dovrebbe
accettare di buon grado di trasferirsi? Il
mio palazzo le piace, ci sono svariati abiti ed effetti personali
pronti per
lei, c’è perfino un’altalena, e sarebbe
costantemente servita e riverita!
Niente più raccolta del grano, niente più
tosatura, filatura, tessitura,
mungitura, niente più
fatica! Le
basterebbe chiedere e le verrebbe dato, dovrebbe solo pensare a godersi
l’eternità assieme a me! Chi non vorrebbe una vita
del genere?!»
Whis scosse la
testa. «Debbo dire che pur conoscendo quella
ragazza da due anni non è riuscito a capirla per
nulla».
«Questo
cosa significa?! Certo che la conosco e la capisco,
Anise è la mia Iarim Neiē!»
«Ci
rifletta sopra: le sembra che una persona che dà tanta
importanza alla propria indipendenza e che ne è tanto
orgogliosa possa
accettare di buon grado l’idea di trovarsi senza far niente
da un giorno
all’altro, per di più con la prospettiva di
passare un’eternità in quella
maniera? Sul serio, Lord Beerus, le sembra una cosa
plausibile?»
«Se mi ama
davvero, sì!» rispose Beerus, ostinato
«Se mi
ama veramente farà quel giuramento e verrà via
con me, non ha niente da
perdere. Affetti? Il solo legame affettivo che ha sul suo pianeta
è meglio non
averlo! La carriera? Non ce l’ha! Quindi manderà a
quel paese Calida, mollerà
tutto quel poco che ha da “mollare”, e
vivrà una vita felice e agiata insieme
al sottoscritto: chiuso il discorso!»
«Temo che
le cose siano un po’più complicate di
così…»
«Non vedo
perché! Quel che ho detto ora è soltanto
l’evoluzione naturale del rapporto tra un Hakaishin e la sua
compagna, non
possiamo continuare a fare qua e là dal suo pianeta per
sempre, e poi Anise è…
è meravigliosa così come è, Whis, e io
non posso permettere che continuare ad
avere a che fare con sua sorella la “rovini”. Io
voglio solo il suo bene, non
desidero altro, e lei dovrebbe saperlo».
«Lei come
reagirebbe a parti invertite? Come reagirebbe se
fosse Lady Anise a chiderle di lasciare il suo palazzo, le sue
ricchezze e il suo
compito di Hakaishin per trasferirsi a vivere in pianta stabile nella
casa in
mezzo al bosco? Non sono sicuro che ne sarebbe felice» disse
l’angelo.
«Le due
cose non sono paragonabili, io avrei molto da perdere!
Amo quella casa in mezzo al bosco quanto la sua proprietaria, ma vuoi
mettere
con il mio palazzo?»
«Ecco:
Lady Anise è affezionata alla propria casa, alla
propria foresta e a quel villaggio abbandonato esattamente come lei
è affezionato
al suo palazzo e tutto il resto. Indubbiamente il valore economico
è molto
diverso» continuò Whis «Ma questi sono
discorsi che vanno al di là di ogni
logica, Lord Beerus».
«Se
è proprio tanto attaccata a Vynumeer, al lago, ai campi
e compagnia bella possiamo sempre portare via anche quelli e
trapiantarli sul
mio pianeta! Posso prendere l’intera foresta, se le piace,
includendo anche
casa sua, l’altalena accanto al dirupo, il dirupo stesso, il
Coniglio Assassino
di Caerbannomeer redivivo e tutto quello che vuole, ma io a breve la
porterò
via da quel posto, quant’è vero che mi chiamo
Beerus!»
«Lord
Beerus, suvvia, cerchi di calmarsi… non vorrà
arrivare così nervoso da Lady Anise? Ne sarebbe alquanto
dispiaciuta».
Beerus fece un
respiro profondo, sapendo che il suo
attendente aveva ragione. «Mi calmo, mi calmo. È
soltanto che vorrei farti
capire che i motivi dietro la mia cosiddetta
“fretta” sono fondati».
«Lei sa
che può portarla via dal pianeta senza renderla la
sua Neiē, vero? Ha già un life-link con il Kaioshin di
questo Universo, crearne
un altro, soprattutto a quest’età, sarebbe
pericoloso. Non metto in discussione
i sentimenti tra lei e Lady Anise, ma la prego di cercare di ragionare
in modo
più pratico: non deve correre così tanto, non
c’è bisogno. Per non parlare del
fatto che se c’è qualcuno che può
proteggere la propria compagna da
chicchessia, questo è senza dubbio il Dio della
Distruzione».
«Posso
proteggerla e lo farò, sempre!
Ma il giuramento-»
«Il mazzo
di fiori?»
L’Hakaishin
si zittì per qualche istante, confuso
dall’apparente insensatezza di quella domanda.
«… eh?»
«Il mazzo
di fiori. Sarebbe il colmo se in una montagna di
regali alta quindici metri l’unico a mancare fosse proprio
quello che Lady
Anise le ha chiesto».
Beerus
batté una mano contro la fronte. «Non ce
l’ho, no…
ma cosa mi ha detto il cervello?!»
«Questo me
lo domando anch’io da un paio d’anni a questa
parte, se la consola».
«Non te
l’ho chiesto!» sbottò il dio
«Sei in grado di
creare un bel mazzo di fiori?»
«Di quale
tipo e quale colore?»
«Quelle
che lei chiama varder,
non ricordo come si chiamino nella lingua comune. Un mazzo di
almeno
quaranta varder. Bianche»
specificò
Beerus «Sono le sue preferite».
«Un mazzo
di quarantadue rose bianche è in arrivo, signore».
Pochi secondi dopo
ecco che Beerus stringeva tra le mani un
mazzo di rose che avrebbe fatto la felicità di qualunque
donna cui piacesse
quel tipo di fiore. Fiori, montagna di doni alta quindici metri: forse
poteva
considerarsi a posto. «Mi sento già più
tranquillo. L’anno passato Champa le ha
fatto un regalo più azzeccato dei miei, ma questa volta se
lo scorda!»
«Lord
Champa ha regalato a Lady Anise un piccolo
macchinario che crea in pochi secondi file di perline di vetro di ogni
forma e
dimensione, se non ricordo male. Ha avuto proprio una bella idea, devo
riconoscerlo: quel regalo valeva per cento!»
«Già,
peccato che non abbia avuto anche la bella idea di
perdere la metà del peso e diventare un po’meno
inetto» disse Beerus, un po’piccato
«Tra quanto si arriva?»
«Dieci
secondi precisi, Lord Beerus!»
Ecco, quella era una
buona notizia. Ormai erano tre giorni
che lui e Anise non si vedevano perché “Durante i
tentativi di raggiungere
nuovamente l’Ultra Istinto non devono esserci distrazioni,
Lord Beerus!”,
quindi non stava più nella pelle all’idea di
rivederla. Settantadue ore erano
un lasso di tempo irrisorio, ma diventava infinito se passato lontano
da lei.
Non avrebbe mai rivelato a nessuno questa sua sensazione, ma di fatto
era
proprio quel che provava.
Poco dopo, lui e
Whis atterrarono sul prato erboso accanto
al villaggio di Vynumeer… ma c’era qualcosa che
non quadrava.
Per la precisione,
un albero alieno alto parecchi metri.
«Ooooh! Un albero
ddrasil proveniente dal pianeta Ygg del sesto Universo!»
sorrise Whis,
deliziato «Il suo nettare e i suoi frutti sono squisiti, una
gioia per il
palato, e oltre a questo è anche sublime a livello puramente
estetico!»
«Proprio
il regalo adatto a una ragazza che ama le piante, eh
Beerus?» gridò Champa, da un punto
indefinito nascosto tra rami, fiori e foglie dell’albero
«Non trovi che IO abbia
avuto una buona idea anche
quest’anno?»
Gli anni passavano,
ma a Beerus la voglia di picchiare
Champa non passava mai, soprattutto se questi iniziava a vantarsi delle
proprie
idee in occasioni in cui lui, invece, non ne aveva avute di veramente
buone.
Quello era il
compleanno di Anise, della sua
ragazza, quindi
trovare per lei il regalo più bello sarebbe spettato a lui,
ma anche quell’anno
non era riuscito nel compito, e aver fallito gli bruciava non poco.
«Senti un
po’, tu-»
«Vi
proibisco di litigare a causa dei miei regali!» lo
interruppe Anise, lanciandosi giù dal ramo con la
consapevolezza che i tralci
dell’albero ddrasil l’avrebbero acchiappata al volo
e posata delicatamente a
terra -e così fu. «Ti aspettavamo, senza di te la
festa non poteva cominciare».
Vederla contenta
riuscì a migliorare un po’ l’umore di
Beerus, che le porse il mazzo di rose. «Buon compleanno,
Anise. Questo è per
te. Non sarà un albero mastodontico, ma-»
«Varder bianche,
i miei fiori preferiti! Te ne sei ricordato» sorrise la
Lusan, con uno sguardo
dolcissimo che ben lasciava intendere quanto avesse apprezzato quel
regalo
«Grazie, sirel ym».
Il suo regalo era
stato “comune”, ma quella reazione
-nonché il bacio che Anise gli diede subito dopo- fece
capire a Beerus che
forse non aveva fallito del tutto. «Non devi ringraziarmi, tu
sei la mia
compagna… ed è per questa ragione che oltre al
mazzo di fiori ho portato anche
una montagna di regali alta quindici metri!»
«…
prego?»
«Quindici
metri e ventidue centimetri, per l’esattezza»
specificò Whis «Già, stavo quasi
dimenticando: auguri, Lady Anise».
«Grazie,
Whis».
«Il mio
regalo è uno, ma è alto centocinquantacinque
metri
precisi! DILETTANTEEEEE!»
urlò
Champa.
«No,
basta, io lo uccido» sentenziò Beerus,
scrocchiando le
nocche delle mani.
«Nessuno
ucciderà nessuno, perché abbiamo una torta da
mangiare. Voliamo lassù, dai!»
Raggiunto il grosso
ramo su cui Vados e Champa avevano
messo un tavolo e delle sedie, la prima cosa che disse Beerus
fu…
«Che
diamine è quella robaccia storta ricoperta di
panna?»
«EHI! Quella è la
torta di compleanno, non una robaccia storta, e l’ho fatta io
con le mie mani!»
si irritò Champa «Io almeno ci provo, a fare
qualcosa di utile!»
«Già,
peccato che ti riesca malissimo. È perfino più
storta
della tua coda, pensa un po’!»
«Ho
provveduto a fare una torta di riserva» bisbigliò
Whis
a Vados.
«Anche
io!» bisbigliò la donna.
«Ho detto
che qui non si litiga, e Champa è stato molto
carino a impegnarsi così per me» disse Anise,
mentre tagliava la prima fetta di
torta «Quindi non merita di essere preso in giro. Chi vuole
assaggiare la
prima-»
«Io no!» dissero
in coro Beerus e i due angeli.
«Malfidati
che non siete altro!» li rimproverò Anise, per poi
assaggiare la
torta «Ma è buonissima! Complimenti, è
venuta proprio bene».
Champa sorrise.
«Dici davvero?...»
«Assolutamente
sì!»
Vados fece comparire
una forchetta. «O beh, allora anche io
potrei-»
«E invece
no! Se vuoi mangiare una torta, mangia quella che
hai preparato “in segreto”» la
fermò Champa «Almeno impari a non fidarti delle
mie capacità culinarie. Nessuno di voi tre meriterebbe di
mangiarla!»
«E se per
questa volta li perdonassimo, Champa? Nessuno
resta senza torta il giorno del mio compleanno».
L’Hakaishin
del sesto Universo alzò gli occhi al cielo.
«Solo perché me lo hai chiesto tu!»
Tutti quanti presero
posto attorno al tavolo, e tutti
quanti gustarono la torta di Champa. Il buon cibo, la compagnia e la
bellezza
di quel gigantesco ramo fiorito su cui si trovavano resero il momento
piuttosto piacevole
per tutti quanti.
«Volevo
ringraziare tutti voi. Anche i miei compleanni
sono diventati più belli, da quando vi conosco»
disse Anise, una volta finito.
Beerus le mise un
braccio attorno alle spalle. «Non devi
ringraziarci, meriti questo e altro»
«Infatti!
Ehi, ma se poi scendessimo giù a fare il bagno?»
propose Champa «L’acqua del lago è
calda. Non è quella del mio palazzo, ma è
sempre una spiaggia!»
«A me sta
bene» approvò Anise «Tanto al villaggio
dovrei
avere uno dei miei costumi fatti all’uncinetto, quindi il
pudore altrui è
salvo».
“Immagino
che sotto questo vestito non ci sia niente, come
al solito” pensò Beerus, e fece ad Anise una
carezza lungo la schiena. La
voglia di averla tra le proprie braccia in tutt’altro luogo
era tanta, ma
avrebbe aspettato tranquillamente, così che i loro momenti
insieme da soli
diventassero il coronamento di una bella giornata. “A
proposito di vestiti, non
ricordo di aver mai visto quest’abito”.
«Vestito nuovo? È carino. Di un colore
un po’atipico per te, ma carino».
«È
un regalo di mia sorella».
Se Beerus avesse
avuto il pelo, questo si sarebbe drizzato
tutto solo sentendo quelle parole. «Ah. Capisco. Beh, allora
posso stare
tranquillo: se il rosso scuro ti piace, amerai i colori
dell’abito da Neiē».
«Direi che
possiamo andare a fare il bagno anche subito,
cosa ne dite?» si intromise Whis, per nulla intenzionato a
riprendere quel discorso pericoloso.
Anise
sollevò le sopracciglia. «Vuoi farlo anche
tu?»
«Cos…
ehm. Sì. Certo» confermò
l’angelo, facendosi
comparire addosso un costume da bagno intero nero e rosso scuro con
brache che
arrivavano al ginocchio. «Ho anche il costume, ved-»
«È
orribile!» si lamentò Beerus «Buttati
immediatamente nel
lago, almeno non devo vedere quel coso
vintage!»
«Lei
è un dio maleducato e senza gusto!»
Champa si sporse
verso Anise. «Ha detto “Neiē”, hai
sentito?» le sussurrò a un orecchio.
«Sì…
ho sentito».
Non so se qualcuno
l’ha vagamente intuìto, ma siamo in
procinto di entrare nella parte della storia in cui inizieranno i
problemi per
la coppietta.
Intanto ringrazio
chi ha seguito la storia fino a qui (:
grazie a chi ha letto, a chi ha lasciato una recensione, e a chi ha
voluto
dedicare ad Anise un disegno!
A proposito di
Anise, sono riuscita a trovare un po’di
tempo per fare un disegno MOLTO svelto (soprattutto la parte a
sinistra, mi sono concentrata solo sul vestito senza ombreggiare altro)
di acconciatura e vestito.
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Capitolo 16 *** 16 ***
RMIcap16
16
«Patta».
«Sicuro,
Whis?»
Accanto a una parete
dell’immenso acquario che circondava
quella sala del palazzo erano state fatte comparire una scacchiera di
cristallo
e due poltroncine volanti, sulle quali Anise e Whis erano seduti
-sarebbe stato corretto dire "accovacciati",
nel caso di Anise- già da diverso tempo. Erano alla terza
partita, ma quando
giocavano uno contro l’altro andavano sempre per le lunghe.
«Siamo in una
posizione morta: lei ha il re, io il re e un
alfiere. Sa bene quanto me che è patta».
«Quindi cosa
facciamo? Ricominciamo?»
«Se vuole. Non
c’è molto altro da fare» disse Whis,
mentre
i pezzi sulla scacchiera tornavano magicamente a posto
«Beerus dorme da un
giorno e mezzo… Lady Anise, si renda conto che lei ha
“distrutto” il mio
Distruttore».
«A dir la
verità quella notte è Beerus ad aver
piacevolmente “distrutto” me» lo
contraddisse Anise «Solo che poi lui ha
prolungato la dormita ben oltre il bisogno. In ogni caso immagino che
entro
stasera dovrebbe alzarsi».
«È una
fortuna che Lord Beerus non abbia faccende da
sbrigare, non trova? Pensi a come sarebbe la convivenza con qualcuno
pigro e dormiglione come lui,
se doveste mantenervi da soli».
«È un
discorso che mi suona familiare, Whis».
«Familiare, ma
sempre valido. Lord Champa perlomeno ha
imparato qualcosa, mi risulta che ora sia perfino in grado di ricucire
da solo
eventuali strappi sui suoi abiti, mentre Lord Beerus sa a stento
com’è fatto un
ago. Sarebbe folle chiedere a un Hakaishin di rinunciare a tutto per
andare a
vivere in una casa nel bosco, ma non credo che lei lo farà
mai, sapendo che si
troverebbe a lavorare per due».
«Avrei ancora una
cassa piena di adamadnery pinc, non
li ho dati tutti a mia sorella» replicò la Lusan
«Potremmo andare in una città vicino
all’oceano, comprare una casa grande, e anche
pagare qualche persona che se ne occupi».
«I mezzi non
mancano, ma so benissimo che lei non vuole,
perché le piacciono troppo il posto dove vive e fare tutto
da sola. In
considerazione di ciò-»
«Ed eccoti
arrivato dove volevi arrivare…»
«In considerazione
di ciò, sa che se resta con Lord Beerus
finirà a dover lasciare “quel poco che ha da
lasciare” e venire a vivere qui.
Io cerco di dissuaderlo, ma temo proprio che la proposta non
tarderà ad
arrivare».
«“Quel
poco che ho da lasciare”? Se permetti, il
“poco” di
cui parli sarebbe la mia vita, con tutti i suoi pregi e i suoi
difetti» disse
Anise, fredda «Sono le mie abitudini, i miei pochi affetti, i
luoghi in cui
sono cresciuta e/o che amo. A te che sei abituato ad altro
sembrerà poco, ma non
lo è affatto. Se sto prendendo in considerazione
l’idea di lasciarla, prima o
poi, è solo e soltanto perché amo
Beerus».
«Non se la prenda
con me, Lady Anise: quelle parole non le
sono piaciute, ma non sono uscite dalla mia bocca»
rivelò Whis «Le ha dette
Lord Beerus poco tempo fa, precisamente il giorno del suo compleanno.
Aveva una
certa voglia di aggiungere quella proposta alla montagna di
regali».
«So di non
piacerti e so e che vorresti poter tornare a
essere la sola persona a cui Beerus dia importanza, quindi in casi come
questo
mi risulta un po’difficile crederti… a parte per
la voglia di Beerus di farmi
la proposta, di quella non dubito. Spero che tu capisca».
«Ma certo, si
figuri!» minimizzò l’angelo, con un
cenno «Comunque
sono costretto ad ammettere una cosa, ossia che è stata in
grado di tener fede
all’accordo che abbiamo stretto il giorno in cui ci siamo
conosciuti. Nei
momenti in cui addestro Lord Beerus con lei presente è
sempre stata in grado di
dargli le giuste spinte, tant’è che ora Lord
Beerus riesce a colpirmi molto
spesso. Sembra che voler rendere la propria Iarim Neiē fiera della sua
potenza
lo spinga a fare grandi progressi».
«Nonostante questo
mi preferiresti ben lontana dal tuo
allievo».
«Non le sto
riconoscendo un’utilità, Lady Anise, riconosco
soltanto che non è stata dannosa. Credo che se non vi foste
conosciuti avrebbe
fatto altrettanti progressi, sarebbe bastato addestrarlo duramente
promettendogli i suoi cibi preferiti in caso di successo».
«Vuoi sapere una
cosa divertente? Da un paio d’anni a
questa parte, il suo cibo preferito sono io» disse la
ragazza, indicando in
basso «Se capisci cosa intendo».
L’angelo
sollevò un sopracciglio. «Se cerca di mettermi a
disagio parlando delle sue attività sessuali con il mio
allievo, sappia che ormai
sono abituato alla sua indecenza. Sono ben conscio che
l’accoppiamento-»
«E
attività correlate».
«…e attività
correlate siano una cosa perfettamente naturale, ma
è proprio necessario
parlarne? Io avendo un minimo di pudore non faccio mai allusioni
riguardo le
mie, di attività correlate».
Anise fece un sorriso
sornione. «Tu non hai neppure
attività alle quali alludere, se è per
questo».
«Le ho
già detto che questa strategia non funziona!»
«A me sembra il
contrario. Tu tenti di mettermi a disagio
facendo notare la mia presunta inutilità, io ricambio il
favore» disse la
lince, giocherellando con un pedone di cristallo bianco
«È un problema, per
te?»
«Abbiamo divagato
a sufficienza, torniamo al discorso
principale» tagliò corto Whis «Cercando
di dissuadere Lord Beerus, io faccio un
favore a tutti e tre. Lo faccio a Lord Beerus, perché creare
un life-link con
una Neiē, specie a quest’età, non gli serve
affatto; lo faccio a lei, che con
quel suo “prima o poi” mi fa capire che nei
riguardi del giuramento è un po’più
cauta di Lord Beerus -giustamente, devo dire… e lo faccio a
me stesso, per
tanti motivi. Lady Anise, quando Lord Beerus le farà quella
proposta deve
cercare di prendere tempo. Continui a comportarsi da persona
ragionevole qual è
in grado di essere».
“Sono
felice che Beerus
mi ami, e per voler mettere la sua vita nelle mie mani deve amarmi
molto, come
lo amo io, ma forse parlare di Neiē adesso
è eccessivo. Ci conosciamo da un paio d’anni,
forse prima di creare un life-link
ne servirebbe qualcuno in più” pensò
Anise. «Al di là di tutto, io devo ancora
capire perché a Beerus ultimamente sia venuta tutta questa
fretta».
«Suvvia, pretende
davvero che io le creda? Sono certo che
in realtà sappia benissimo da cosa deriva la fretta di Lord
Beerus, basta fare
due conti, e sicuramente lei li ha già fatti.
Avrà pure i suoi difetti, ma non
è una sciocca. Il “motivo” che ha messo
fretta a Beerus è color beige, di sesso
femminile, ha sedici anni più di lei…»
«E si chiama
Calida» completò la ragazza
«Giusto?»
Whis annuì.
«Lord Beerus era già stato in zone di guerra,
lei questo lo sa, ma non si era mai trovato di fronte a un livello di
brutalità
simile. Ciò che ha visto in quell’occasione non
gli è piaciuto, e non gli è
piaciuta nemmeno l’influenza che Lady Calida ha dimostrato di
avere su di lei.
Lady Anise, lei sapeva cos’avrebbe fatto sua sorella con il
tesoro, e pur
essendo “contro le guerre inutili” glielo ha donato
ugualmente: si è resa
complice di quel massacro, e l’ha fatto perché sua
sorella-»
«Vivesse.
Ve l’ho
spiegato più volte, credevo che Beerus avesse
capito».
«Capire una cosa
non significa approvarla. Lord Beerus ha
capito che lei, Lady Anise, è andata contro i suoi principi
per amor di Lady Calida,
e non vuole che una simile situazione si ripeta» le
spiegò l’angelo «Vuole
proteggerla e non vuole permettere a Lady Calida di rovinare
la persona
“meravigliosa” che lei, secondo Lord
Beerus, è».
«Non vedo come
potrebbe ripetersi, visto che Calida ha già
tutto il denaro che vuole» ribatté la ragazza
«Comunque, per quanto le
intenzioni di Beerus siano buone, io non ho bisogno di essere protetta
da niente
e nessuno».
«Certo, certo.
È una combattente tanto abile che sarebbe
tranquillamente in grado di impedire che una Lusan alta due metri e
dieci le
spezzi il collo».
«Calida non mi ha
mai dato neppure una sberla, anche quando
me la sarei meritata, quindi non vedo perché dovrebbe aver
voglia di spezzarmi
il collo. Per non parlare del fatto che da Beerus posso anche accettare
che si
sia “sconvolto”, ma da
te!...»
«Non mi sono
sconvolto» disse Whis «Ho visto cose ben
peggiori, ma posso capire il mio giovane Hakaishin. Se sua sorella
voleva dare
una barbarica dimostrazione di forza avrebbe potuto prendere i
prigionieri,
tagliar loro le teste e metterle su delle picche, sarebbe stata
ugualmente
efficace. Lady Anise, non riuscirà mai a giustificare la
crudeltà inutile di
sua sorella, per quanto possa provarci».
«Questo
però non vuol dire che riserverà anche a me lo
stesso trattamento» insistette Anise
«Dovrò cercare di farlo capire a Beerus.
Forse stiamo affrontando tutto questo nel modo sbagliato,
perché se la fretta è
causata dalla paura che Calida mi “rovini” allora
magari sarà sufficiente
tranquillizzarlo in tal senso. Certo che
però…» sospirò «Se
non era del tutto
tranquillo poteva dirmelo chiaramente, invece di partire in quarta col
giuramento».
«Magari
è troppo orgoglioso, o magari pensava che
l’avrebbe
capito da sola. Lei di solito è quella che capisce sempre
tutto, no? Peccato
che se si tratta di sua sorella tenda a chiudere occhi e
orecchie».
«So che Calida non
è una santa, credimi, lo so, ma
è la persona che mi ha
cresciuto: questo è quanto. Allora, facciamo
un’altra partita sì o no?»
***
“No, non
un’altra volta, non
un’altra volta…”
È passato del
tempo, ma ciò non
impedisce a Beerus di riconoscere luogo -Ulthmeer- e momento: sono
quelli in
cui Anise è morta orribilmente in un’altra
occasione, tagliata a metà da
un’entità malvagia quanto sconosciuta.
Si guarda attorno, senza
riuscire
a trovare differenze rispetto all’altra volta: vede le case e
i corpi bruciati,
vede la ringhiera semi liquefatta e la pozzanghera di ferro liquido e
incandescente da essa creata.
“Non di
nuovo” prega
l’Hakaishin. Strizza le palpebre e stringe i pugni,
portandoli poi contro le
tempie “Non un’altra volta, non voglio vederla
morire ancora!”
Scuote la testa un paio di
volte, poi apre gli occhi di botto: cosa diamine sta facendo?! Sa che
Anise è
in pericolo, e cosa fa? Se ne sta lì a lamentarsi, invece di
tentare di
salvarla!
Preda della più
totale vergogna
verso il proprio atteggiamento, Beerus vola nel luogo dove
l’altra volta ha
visto Anise parlare col suo assassino.
Non permetterà
che la uccida,
non stavolta.
“Aystegh tha mi
a’, tha mi
a’, khndrum yem!”
Beerus,
con lo stomaco stretto da una morsa nel rendersi conto che anche le
parole
usate da Anise sono le stesse, atterra di fianco a lei.
Ricorda
che l’altra volta Anise non gli ha dato ascolto, che non ha
voluto seguirlo, e
ricorda ancor meglio la fine che ha fatto, ma non lascerà
che
accada nuovamente. Non gli importa chi sia quel mostro coperto
dall’aura nera e oro, non gli
importa se Anise vuol cercare di salvare chicchessia, non vuole sentire
neppure
una parola da parte sua: gli importa solo e soltanto di proteggerla, di
salvarla, di non lasciare che gli venga strappata via nuovamente.
“ANDIAMO!
Andiamo via! Andia-”
Cerca
di afferrarle il polso, ma la sua mano passa attraverso il corpo di
Anise come
se lei fosse un fantasma, o se lo fosse lui stesso.
“No…”
mormora il dio, con gli occhi sbarrati “No, no, NO!”
L’altra
volta non era riuscito ad avvicinarsi abbastanza per portarla via, ma
quel che accade
stavolta è perfino peggio, perché Anise non lo
sente, non lo vede, e lui non
può toccarla: può solo restare lì a
guardare.
È un
Hakaishin, ma è del tutto impotente e del tutto incapace di
proteggerla.
“Khndrum
yem…”
Beerus
artiglia l’aria con una disperazione crescente e sempre
più violenta, urla il
nome della sua compagna fino a sentire dolore alla gola, cerca di
colpire il
“mostro” con tutte le tecniche che conosce -hakai
incluso- ma non serve
a niente. “Anise, allontanati! Allontanati!”
grida, sperando con ogni
fibra del suo corpo che le sue preghiere sortiscano un qualche effetto
“Vattene, vai via di qui, lascia perdere!”
“Tu
non puoi volermi fare del male. Non a me” afferma la Lusan,
sorda alle sue
grida, avvicinandosi all’entità malvagia
“Non per davvero”.
“Lascia
perdere, per favore, non posso vederti morire un’altra volta,
lascia perdere,
fuggi…” ripete Beerus con un filo di voce,
stringendo i pugni tremanti tanto
forte da sentire dolore “Anise, scappa
via…”
“A
tuo modo hai sempre cercato di proteggermi, sarebbe assurdo se ora
volessi
uccidermi. C’è una parte di te che mi riconosce,
vero? Non riuscirei a credere
il contrario, non da chi mi ha detto che ‘noi siamo e sempre
saremo tutto
quello che abbiamo’… lo ricordi?”
Sebbene
per Beerus il momento sia straziante, non può fare a meno di
chiedersi chi
potrebbe aver detto ad Anise una cosa del genere. Quella frase
suggerisce un
legame molto forte, ma non riesce a immaginare se stesso dire quelle
parole,
suonano troppo estranee nella sua bocca, e sa che suonerebbero
così anche in
bocca a Champa.
Non sa
chi sia avvolto da quella brutta aura nera e oro, ma quella
è un’ulteriore
conferma del fatto che né Champa né lui stesso
sono impazziti.
“Non
puoi volere davvero tutto questo. Hai desiderato tanto arrivare
dov’eri, quindi
perché distruggere tutto? Questo non è da te! Non
lasciare il controllo a
Rubedo, tu sei forte, tu puoi opporti!" esclama Anise,
avvicinandosi ancora
di più “Lascia… lascia che ti tolga
quella cosa dalla testa, intanto” mormora,
e solleva una mano, allungandola verso il mostro.
Beerus
ha l’impressione che il cuore stia per scoppiargli dentro il
petto, e osserva
impetrito le dita di Anise oltrepassare indenni l’aura nera e
oro.
Questa
si allontana perfino dalla mano della giovane, lasciando intravedere un
oggetto
nerastro che a Beerus sembra in tutto e per tutto una corona.
“Forse
servirà a qualcosa. Io non posso lasciarti in queste
condizioni” dice la
ragazza, mentre le dita arrivano a sfiorare la corona “Mi
rifiuto, non-“
Beerus
non grida in tempo un avvertimento che sarebbe stato totalmente
inutile, e una
lama nera, gemella di quella dell’altra volta, trafigge Anise
colpendola dritta
allo stomaco.
Il
dio urla ancora, tanto di rabbia cieca quanto per la disperazione; in
condizioni normali la quantità di energia che sta
rilasciando disintegrerebbe un
sistema solare, ma in quel momento e in quel luogo non ha alcun effetto
e,
resosi conto di ciò, Beerus crolla in ginocchio.
Non è
riuscito a salvarla neppure stavolta, è riuscito a fare
ancor meno di quanto abbia
fatto nell’altra occasione. Dilaniato dal dolore, ha in testa
solo una frase: “Tu
sapevi che dovevi portarla via da qui”.
Anise
emette un rantolo strozzato, e usa le sue ultime forze per stringere la
lama
con entrambe le mani, ferendosi le dita: un danno marginale, ormai.
Abbassa lo
sguardo per osservare la lama, e la pozzanghera rosso scuro ai propri
piedi.
“N-non sei tu… non sei… tu”.
“Anise”
sussurra Beerus, incapace di distogliere lo sguardo “Non sono
riuscito a
salvarti, non ce l’ho fatta neanche
stavolta…”
La
Lusan volge lo sguardo verso di lui. “Tu non potevi
salvarmi”.
Beerus
sobbalza per la sorpresa, e si alza in piedi di scatto.
“Quindi… quindi ora mi
senti!”
Mosso
dalla vana speranza di poterla salvare, cerca di afferrare il corpo
della sua
compagna per sfilarlo dalla lama, ma non ci riesce: non può
toccarla,
esattamente come non poteva toccarla fino a un minuto prima.
Anise
scuote la testa. «Non puoi fare niente, sirel ym. Tu
non potevi
salvarmi» ripete, per poi allargare le braccia e alzare il
volto a guardare il
cielo «Hrazhesht».
Il
dio non ha mai sentito Anise pronunciare quella parola prima di quel
momento,
eppure sa bene che significa “addio”.
Dalla
lama esplodono fiamme nere e oro che in un attimo avvolgono interamente
il
corpo di Anise.
Accade
in un attimo, eppure Beerus ha come l’impressione di vederlo
a rallentatore: le
fiamme avvolgono il torso, il collo, il volto.
L’ultima
immagine che resta impressa negli occhi del giovane Hakaishin
è quella delle
ciocche di capelli parzialmente bruciate che cadono come pioggia,
coprendo le col
loro argenteo splendore le tracce del sangue assorbito dalla terra.
Lord Beerus si
svegliò urlando,
esattamente com’era successo l’altra volta, e per
ragioni altrettanto valide.
Strinse quel che restava
delle
lenzuola -ridotte a brandelli nel sonno- e respirando affannosamente si
guardò
attorno. Aveva un solo e unico pensiero in testa, e quel pensiero
ovviamente
era Anise.
«D-dove
sei… Dove sei?!»
gridò, alzandosi velocemente dal letto.
Il suo sguardo
finì sul
calendario, e scoprendo di aver dormito quasi due giorni
andò nel panico. Forse
Whis aveva riportato a casa Anise, non sarebbe stato strano: era quel
che
faceva di solito, a meno che lui non ricordasse di dargli uno specifico
ordine
contrario.
Lupus in fabula, ecco che
l’angelo fece il suo ingresso nella stanza, attirato dalle
grida. «Lord Beerus,
l’ho sentita grid-»
«L’hai
riportata a casa?!» lo
interruppe l’Hakaishin, avvicinandosi di scatto a lui
«Hai riportato Anise sul
suo pianeta?! Rispondimi!»
«No, Lord Beerus,
Lady Anise è
ancora su questo pianeta… ed è perfettamente in
salute».
Il dio si lasciò
sfuggire un
sospiro di sollievo. «Bene».
Whis sollevò un
sopracciglio. «Tutta
questa preoccupazione mi sorprende. Ha forse avuto uno dei suoi
incubi?»
«Sono fatti
miei!» disse Beerus,
secco e ben poco educato.
«Vuol fare un
bagno? Le
servirebbe per rilassarsi».
Il giovane scosse la testa.
«Niente bagno, non adesso, ora voglio andare a cercare Anise.
È sull’altalena?»
«Naturalmente».
Il dio uscì dalla
stanza senza
cambiarsi d’abito né proferire ulteriore parola, e
raggiunse in fretta
l’altalena. Come Whis gli aveva anticipato, Anise era proprio
lì: viva, in
salute, oscillava col viso rivolto al cielo notturno.
Beerus poteva vedere
l’espressione di Anise, e trovandola serena rimase a
guardarla per oltre un
minuto, cercando in lei la pace che al momento non riusciva a trovare
dentro di
sé.
Il suo sogno lo stava
perseguitando, non riusciva a togliersi dalla mente quel “Non
potevi salvarmi”.
Al momento desiderava soltanto poter far sì che niente di
quel che aveva visto
diventasse reale, e c’era un solo piano d’azione
che riuscisse a concepire…
«Sono
un’Anise semplice» esordì
Beerus «Vedo un’altalena, ci salgo».
«Mai sentite
parole più vere.
Finalmente ti sei svegliato, dormiglione che non sei altro!»
sorrise la Lusan,
lasciando che l’altalena smettesse di oscillare.
«Ma se non ho
dormito neppure
due giorni pieni…»
Scesa
dall’altalena, Anise gli
diede una rapida occhiata. «Cos’hai?»
«Chi,
io?»
«E chi se no? Hai
un’aria strana»
disse la ragazza, accarezzandogli il viso «Hai riposato
bene?»
«È
tutto a posto, non
preoccuparti. Ricorda che il tuo compagno è un
Hakaishin!»
«Mi preoccuperei
anche se tu
avessi i poteri di tutti gli angeli messi insieme. Vieni qui»
mormorò lei, abbracciandolo
«Sei proprio sicuro che sia tutto a posto?»
Ricambiò
l’abbraccio, e per un
attimo pensò che forse avrebbe fatto meglio a parlarle
dell’incubo che aveva
avuto, ma cambiò rapidamente idea. Non c’era
motivo di metterla potenzialmente
in allarme: lui, quel giorno stesso, avrebbe impedito a quel sogno
profetico di
avverarsi. «Sì, puoi stare tranquilla.
Anise…»
«Dimmi».
Beerus sciolse
l’abbraccio, un
po’a malincuore, e mise le mani sopra le spalle di Anise.
«Io voglio che tu
diventi la mia Neiē».
«Lo so,
è da qualche tempo che
questo discorso viene fuori spesso, e a tal proposito vorrei parlare
di-»
«No, non hai
capito: io voglio
che tu diventi la mia Neiē oggi. Adesso! Subito!»
Anise si sentì
quasi stordita a
causa della sorpresa, come qualcuno che aveva ricevuto una botta in
testa
all’improvviso e da qualcuno inaspettato.
Era molto ironico che la
proposta -se “proposta” si poteva chiamare- di
Beerus giungesse proprio quel
giorno, proprio poche ore dopo che lei e Whis avevano discusso di come
e perché
sarebbe stato meglio rimandarla: un grande scherzo del destino, al
quale lei
doveva subito trovare modo di far fronte. «Sirel
ym, dopo questo
non puoi più venirmi a dire che va tutto bene. Cosa ti ha
causato questa fretta
improvvisa?»
«Niente! Voglio
solo che tu
diventi la mia Neiē. Hai detto tu stessa che questo discorso viene
fuori da
qualche tempo, quindi perché ti stupisci?»
«Ho detto anche
che volevo
parlar-»
«Anise, io ti
amo».
Era la prima volta in
assoluto
in quasi due anni che Anise sentiva Beerus dire una cosa del genere.
Non le era mai pesata la
mancanza di quelle parole, perché ormai aveva imparato a
conoscere il suo
compagno e sapeva che gli risultava più facile dimostrarle
amore con i fatti
che con chiacchiere sdolcinate, cosa che a lei andava benissimo.
Trovava che un
fatto valesse più di centinaia di parole vuote, e Beerus non
le aveva mai fatto
mancare oggettive dimostrazioni di immenso amore. «Ti amo
anche io, lo sai».
«Allora facciamo
quel
giuramento. Prometto che ti darò sempre tutto quello che
vorrai, che continuerò
a fare di tutto per renderti felice, che ti proteggerò
sempre. Diventa la mia
Neiē, resta qui con me in eterno!» esclamò,
prendendo tra le mani il viso della
ragazza «È questo il tuo posto!»
Anise per qualche istante
non
trovò le parole adatte a rispondere, e si limitò
ad accarezzare le mani del
compagno. «Beerus, così facendo creeremmo un
life-link» disse, dopo un po’ «Non
ti spaventa?»
L’Hakaishin scosse
la testa.
«Per nulla. Mi fido di te come di me stesso. Se un giorno
morirò, sono convinto
che non sarà perché tu o io infrangeremo il
nostro giuramento» affermò.
Entrambi abbassarono le
mani, e
Anise strinse quelle del compagno tra le proprie. «Saresti
pronto ad affidarmi
la tua vita…»
«Sì.
Anise… aitiv orva
ehcnif, et ehc ertla iam orva non ech oruig».
“Lo ha
fatto” fu tutto quel che
riuscì a pensare la Lusan, allibita “Lo ha fatto
sul serio!” pensò Anise.
«Giuro che non
avrò mai altre
che te, finché avrò vita» aggiunse
Beerus -stavolta in lingua comune, pur
sapendo che lei aveva capito perfettamente quanto aveva detto in
precedenza-
con un sorriso.
«Abbiamo solo
vent’anni» mormorò
Anise «E tu sei immortale».
«Non vedo il
problema, lo sarai
anche tu!» esclamò. L’incubo era stato
la molla che lo aveva spinto a decidere,
ma in fin dei conti lui aveva sempre avuto l’intenzione di
renderla la sua
Neiē, dunque l’entusiasmo e la felicità che
provava ora a una simile idea erano
genuini.
Anise non sapeva bene cosa
pensare:
Beerus aveva già giurato, senza ascoltare i suoi tentativi
di parlargli proprio
di quella questione, e ciò la metteva in una posizione molto
difficile. Lei lo
amava moltissimo, e pensava davvero che un giorno sarebbe diventata la
sua
Neiē, ma… un giorno, per
l’appunto.
Se Anise avesse dato ascolto
solo ai sentimenti che provava per Beerus avrebbe giurato
immediatamente a sua
volta, ma si trattava di un voto eternamente vincolante, si trattava
della
creazione di un life-link; non era qualcosa che si potesse fare
d’impulso,
trascinati dall’amore.
«Hm».
«Anise, devo
preoccuparmi?
Pensavo che volessimo farlo, ne avevamo parlato, insomma,
tu… non hai cambiato
idea, vero?»
La lince notò
dell’inquietudine
nel sorriso di Beerus, e se ne dispiacque. Non voleva che gli venissero
dubbi
sulla sincerità dei suoi sentimenti, non lo meritava.
«No, è solo… tu sei
proprio sicuro? Whis aveva detto di aspettare».
“Ah, ecco il
‘problema’, il mio
attendente che non si fa i fatti propri!” pensò
Beerus. Aveva detto a lui di
aspettare, quindi sicuramente lo aveva detto anche ad Anise -insieme a
chissà
cos’altro-: l’origine delle incertezze della sua
compagna era senz’altro quella
e, se le cose stavano così, lui non doveva far altro che
cercare di
rassicurarla. «Sì, ma ho io l’ultima
parola! Non importa se siamo giovani, io
non cambierò mai idea. So che la mia Neiē puoi essere solo
tu. Whis deve farsi
gli affari suoi, è una cosa che riguarda noi e quel che
vogliamo, non lui».
Anise sollevò lo
sguardo. «Io-»
Beerus non avrebbe mai
saputo
cos’era in procinto di dire Anise, perché Whis
-Whis il censore,
momentaneamente diventato “Whis il salvatore”-
comparve dietro di lui e lo
tramortì brutalmente con un colpo in testa, facendolo
crollare tra le braccia
di un’interdetta Lusan.
«Più
gli dico di aspettare a
fare qualcosa, più ha fretta di farla!
C’è ben poco peggio di un Hakaishin a
malapena ventenne. Per fortuna ha preso tempo, Lady Anise»
sospirò l’angelo,
sollevando l’Hakaishin grazie alla magia «Lei
è la sua Iarim Neiē. È già
abbastanza ufficiale così, per adesso. Concorda?»
I sentimenti erano quelli
che
erano, ma riconosceva che quella che avrebbe finito per commettere se
Whis non fosse
intervenuto restava una grossa imprudenza, e proprio per tale ragione
accolse
le parole dell’angelo con un misto tra senso di colpa e
sollievo. «Concordo.
Beerus però ha già giurato, conta?»
«Lui magari si
sentirà
vincolato, ma tecnicamente non lo è. Non è stato
reciproco».
«Capisco».
«Lady Anise,
immagino si renda
conto che la cosa non finirà qui. Lord Beerus si
riprenderà molto presto, e
quando lo farà tornerà alla carica» la
avvisò Whis «Non mi è dato sapere cosa
gli abbia fatto prendere la decisione di farle la proposta oggi, ma se
è
arrivato a tanto allora non è qualcosa che io possa
arginare, non più: dovrà
farlo lei. Cerchi di essere più decisa stavolta, o sia
"cattiva", se deve. Nonostante la conversazione
che abbiamo avuto nel primo pomeriggio, poco fa mi è
sembrata sul punto di
accantonare ogni buonsenso e giurare a sua volta».
«Era troppo
entusiasta all’idea
che io diventassi la sua compagna per l’eternità,
e ammetto che ha contagiato
anche me. So che non puoi capire certe cose, ma ti assicuro che
può diventare
difficile essere prudenti con qualcuno che si ama tanto. Io comunque ho
provato
a parlargli, ma non mi ha lasciata fare».
«Lord Beerus vuole
che lei
diventi la sua Neiē, quindi “deve” diventare la sua
Neiē» disse l’angelo «Finora
avete remato nella stessa direzione, come si suol dire, quindi il suo
egocentrismo non è stato un problema, ma
ora…» fece spallucce
«Chissà?»
«Sono sicura che
Beerus sarà
ragionevole, devo solo riuscire a parlare per bene con lui di questo
argomento.
Siamo un uomo e una donna di vent’anni, e io non voglio altro
se non chiedergli
di rallentare un po’, e magari di dirmi a
cos’è dovuta veramente questa
sua decisione improvvisa: non mi sembra nulla da cui potrebbe nascere
una
tragedia».
Whis fece un lungo sospiro.
«Lady Anise, ricorda la conversazione che abbiamo fatto il
giorno del nostro
primo incontro?»
«Sì».
«Ricorda
cos’ho detto riguardo
la differenza tra lei e Lord Beerus?»
«“Avrà
notato che Beerus è un diciottenne che
ha avuto esperienze da diciottenne, mentre lei è una
diciottenne, ma ha avuto
esperienze degne di una trentenne/quarantenne particolarmente
sfortunata. Tutto
ciò crea un abisso tra lei e Beerus. Mi capisce?”»
recitò Anise «Se non
erro si trattava di qualcosa del genere, con in mezzo anche un commento
sull’incapacità
di cuocere uova».
«Ho appena capito
perché Lord
Beerus non riesce mai a vincere quando giocate a carte, ma questo
è un altro
discorso. Ecco, Lady Anise: dal momento che si ricorda, sappia che le
mie
parole di allora sono tuttora valide. Avete un modo di ragionare troppo
diverso. Poi per carità, potrei anche sbagliarmi»
disse Whis, alzandosi in volo
insieme al povero Hakaishin privo di sensi «Come ho detto
prima… chissà! Io ora
metto a letto Lord Beerus, il quale non si sveglierà prima
di domattina. Forse
fa meglio ad andare a dormire a sua volta, Lady Anise,
perché ho come l’impressione
che per affrontare la giornata di domani le serviranno diverse energie.
Non per
la copula, temo».
«Vedi? A forza di
stare con me
hai imparato qualcosa, Whis monello!»
Whis non si curò
di risponderle,
e poco dopo Anise rimase sola con i propri pensieri.
“Sono sicura che
andrà tutto
bene. Perché non dovrebbe? Beerus mi ama, io lo amo
altrettanto, quindi domani riusciremo
a parlare e a intenderci senza grande sforzo. Sono sicura che
andrà così”.
Alla fine non sono riuscita
a
mettere tutto in un solo capitolo, dunque quel che avrei voluto
mostrare qui va
per la prossima volta (:
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Capitolo 17 *** 17 ***
17
17
Quando Beerus
aprì gli occhi e si rese conto di essere nel
proprio letto, inizialmente pensò che fosse solo
l’inizio di una giornata
perfettamente normale. Lui in pigiama, lenzuola morbide e profumate, e
la
sensazione del corpo caldo di Anise che premeva contro il suo.
Caldo e nudo,
a
giudicare da quel che le sue mani stavano sentendo -o meglio, non
stavano
sentendo-: a separare la sua compagna da lui non c’era nulla,
se non i propri
indumenti.
Improvvisamente sveglissimo,
ma per il momento dimentico di
tutto quel che era accaduto la sera prima, Beerus strinse a
sé Anise e cominciò
a baciarle il collo, mentre percorreva con carezze delicate quando
esigenti
ogni centimetro delle sue sensibili membra.
Era sempre un piacere
percepire il corpo della sua compagna
destarsi sotto il suo tocco: ormai conosceva fin troppo bene i modi in
cui ad
Anise piaceva essere stuzzicata, viziata, coccolata.
«Hm…
Beerus, di già?» bofonchiò Anise,
ancora assonnata ma,
come testimoniavano le sue fusa, ben felice di essere stata svegliata
in quel
modo.
«Ne sei
dispiaciuta?» fu la domanda retorica
dell’Hakaishin,
i cui baci partendo dal collo si stavano rapidamente spostando
più in basso.
«Solo se non ti
sbrighi ad arrivare dove devi arrivare»
disse Anise, rabbrividendo di piacere nel
sentire Beerus baciare il ventre, zona per lei particolarmente
ricettiva a
certi stimoli.
«Vorresti davvero
togliermi il piacere di gustarti un
po’alla volta? Ci sono squisitezze che vanno assaporate con
calma» replicò il
dio, rallentando di molto la sua discesa.
«Me ne
ricorderò quando saremo a parti... a parti
invertite!…» gemette, notando con piacere che le
mani del suo compagno erano
giunte a destinazione prima della bocca.
«Questo
è abbastanza, per ingannare l’attesa?»
«Non è
m-malissimo, no, ma… ma non farmi aspettare
troppo».
Beerus si concesse una bassa
risata, lieto che la sua
compagna desiderasse e apprezzasse così tanto il piacere che
era in grado di
darle. Erano molto intimi ormai da diverso tempo, ma ogni volta che
andavano a
letto insieme -ma anche nella vasca, o sul pavimento, o in mezzo al
prato, o su
tavoli, poltrone, divani…- era come la prima, e questo
valeva per entrambi.
Quando Anise
percepì il tocco delle labbra del suo compagno
esattamente dove lei l’aveva desiderato, si lasciò
andare a un sospiro di
sollievo per essere stata finalmente accontentata. Ancor meglio di
questo però
era la consapevolezza che quello, in realtà, non era neppure
l’inizio.
«Beerus…»
mormorò.
Era sempre così:
ogni volta che facevano l’amore, o -come
in quel caso- si dedicavano ad attività affini, si ritrovava
sempre a gemere e
godere senza alcun ritegno, e le piaceva.
Anise amava perdere il
controllo di sé in quei momenti,
amava come la faceva sentire, amava lui!
non aveva proprio idea di come avesse potuto farne a meno in passato,
né di
come avrebbe potuto farne a meno in futuro, e pochi minuti dopo eccola
lì, ad
artigliare le lenzuola come se ne andasse della propria vita mentre
gridava il
nome del suo compagno.
Non sarebbe riuscita a
trattenersi nemmeno se avesse
tentato di farlo, e non voleva farlo: sapeva bene quanto a Beerus
piacesse
sentirla esprimere la sua soddisfazione in modo così chiaro,
soprattutto
quando, come in quel caso, stava per raggiungere il culmine del piacere.
Un ultimo grido ed ecco che
Anise si abbandonò contro il
materasso, leggermente provata e con un’espressione che la
diceva lunga sul suo
appagamento… ma non era ancora abbastanza.
Beerus, soddisfatto del
proprio lavoro, si spostò per
tornare a guardare Anise negli occhi. «Non ne sono sicuro,
quindi te lo
domando: hai per caso detto il mio nome un paio di volt- ehi!»
rise, venendo colpito da una cuscinata.
«Meno chiacchiere,
più azione!» gli intimò Anise,
spingendolo contro il materasso e trovandosi così sopra di
lui. «Anzi, no:
faccio io».
«Ma-»
La ragazza tappò
la bocca di Beerus con una mano,
facendogli cenno di fare silenzio con l’altra. Sorrise.
«Faccio io».
Come accadeva praticamente
in ogni occasione in cui si
trovavano in quel letto, i due giovani goderono per diverso tempo della
rispettiva compagnia; anzi, sarebbe più esatto dire che
“goderono” e basta,
soprattutto perché Anise volle ricambiare Beerus di tutte le
attenzioni che le
aveva donato al risveglio.
«Darei tutto
l’oro che possiedo per poter passare così
tutte le mattine!» esclamò Beerus in seguito,
entusiasta e pienamente
soddisfatto.
«Addirittura tutto
il tuo oro?» sorrise Anise, stringendosi
a lui.
«Sissignora.
Il mio
oro per un risveglio simile tutte le mattine. Per
l’eternità».
Quelle ultime parole
cambiarono l’atmosfera: un attimo
prima era tutto splendido, e ora non era più così.
«Nulla dice che in
futuro le cose non andranno proprio
così, Beerus» disse Anise «Ma forse
dovremmo-»
«No, senti, se
vuoi tirare fuori nuovamente il fatto che
Whis ha detto di aspettare puoi anche evitarlo. Mi ha dato un colpo in
testa,
quel… quel!… ah, che se ne vada “a quel
paese”, come dice lui. Con Whis me la
vedrò più tardi!» concluse Beerus, con
un gesto seccato «Ora abbiamo un
giuramento da completare. Sì, lo so, non siamo vestiti, ma
basta che tu abbia
l’orecchino… sì, ce l’hai,
ottimo, allora-»
Anise, che ormai non
sorrideva più, si passò una mano sul
volto. «Non ora…»
Beerus impietrì,
e batté le palpebre: doveva certamente
aver sentito male, perché Anise non poteva aver detto di no.
Era impossibile,
giusto? Ma sì, certo che non lo aveva detto.
«Sì sì: ora. Ieri stavamo per
farlo, no? Quindi oggi finiamo».
Anise scosse la testa, con
aria un po’addolorata. «Beerus,
no. Non adesso».
Calò un silenzio
spaventoso, al punto che entrambi poterono
sentire in lontananza Whis che fischiettava allegramente - si presumeva
sotto
la doccia.
Non che delle docce di Whis
importasse qualcosa, al
momento.
«Cosa vorrebbe
dire “Non adesso”? Anise, tu… tu ieri
stavi
per giurare!» esclamò il dio, allibito
«Stavi per giurare, cosa ti ha fatto
cambiare idea?! Cosa?!
Io… è stato
Whis! È stato lui, vero?! Oltre ad avermi tramortito ti ha
anche riempito la
testa di Zeno solo sa cosa! Io lo uccido!»
sbraitò, catapultandosi giù dal letto
«Ora lo annego in quella
stramaledettissima doccia, quant’è vero che mi
chiamo Beerus, poi gli strappo i
capelli, ci faccio una corda, e lo impicco! Lo
IMPICCO!»
«Whis in
realtà c’entra solo fino a un certo punto, io non
ero molto convinta di volerlo fare» ammise Anise
«Non adesso, almen-»
«COSA?! Come sarebbe
a dire che “Non eri convinta”?! Io
credevo… Tu hai detto di amarmi, no?» si
riavvicinò al letto «Sirel
ym, sirogh yem e compagnia bella,
sbaglio?»
«Certo che ti
amo» disse Anise «Ma-»
«E
ALLORA PERCHÉ?!»
gridò il giovane «Se dici di amarmi, allora
perché non vuoi fare quel
giuramento?!»
Beerus aveva
l’espressione di qualcuno che aveva appena
visto crollare miseramente uno dei suoi più bei castelli in
aria. Fino a poco
prima sembrava tutto così bello, e fino al giorno prima
sembrava cosa fatta,
sembrava che il suo sogno di avere finalmente Anise lì, come
sue Neiē, fosse
sul punto di realizzarsi… ma ora quel sogno si era distrutto
come se lui stesso
l’avesse colpito con un hakai, e non riusciva a spiegarsi il
motivo.
«Non ho detto che
non voglio farlo in assoluto. Io ti amo,
e voglio diventare la tua Neiē» disse Anise, cercando di
mantenere la calma «Ho
soltanto detto che fare quel giuramento ora
è una cosa un po’azzardata, secondo me».
«Ieri ti andava
benissimo l’idea, o così mi sembrava! Se
non ti stava bene, allora perché non hai detto una
parola?!»
«Io chi ho
provato, ma tu sei partito in quarta con il
giuramento e non mi hai fatto mettere in fila neppure due parole a
riguar-»
«Perché
non vuoi diventare le mia Neiē?! PERCHÉ?!
Cosa…» fece un sospiro
passandosi la mano sul volto «Cosa ti manca?
Cos’è che volevi e non ti ho
dato?! Cos’è che non ho fatto?... o che ho fatto,
ma tu non volevi che io
facessi? Cosa?!»
«Beerus, ti rendi
conto che non mi stai facendo dire le
cose per bene neppure adesso? Per non parlare del fatto che neppure un
minuto
fa ti ho ribadito che voglio diventare la tua Neiē, quindi fammi
capire: io,
per chi ho parlato?»
«Ho sentito quello
che hai detto, non sono sordo! Ce le ho
le orecchie! GROSSE!»
esclamò, tirandosi
le suddette «Vedi?! Ed è proprio per questo motivo
che ho sentito che tu dici
di voler diventare la mia Neiē, ma non vuoi fare il giuramento! Notizia
dell’ultima ora: se non facciamo quel giuramento, non puoi
diventare la Neiē di
nessuno!»
«So perfettamente
come funziona, e infatti quel che stai
dicendo tu non c’entra proprio niente con quel che sto
dicendo io. Tu però non
hai la più pallida idea di cosa io stia parlando,
perché di “non ora” hai
sentito solo “no”, e tanto ti è bastato.
Non ragioni più».
«Quindi ora
oltre a rifiutarmi mi staresti dando anche dello stupido?!» urlò Beerus.
Anise era stupita per il
modo in cui stavano andando le
cose, e non in senso buono. Era veramente convinta che Beerus, magari
dopo un
po’di sorpresa o delusione iniziale, avrebbe reagito con la
maturità che si era
aspettata, senza fare tante storie per un nonnulla; uno scenario ben
diverso da
quel che invece si trovava davanti, con lui a sragionare completamente
mentre
le urlava contro.
Si conoscevano da due anni,
in tutto quel tempo non era mai
successo niente di simile e, a suo parere, Beerus le aveva dato spesso
prove di
una certa maturità: quell’atteggiamento assurdo
dunque giungeva totalmente
inaspettato.
«Tu non sei
stupido, solo che a quanto pare al momento le
tue facoltà di comprensione sono alterate da
un’ingiustificata dose di rabbia e
delusione in eccesso».
«Ora mi parli
anche come un maledetto libro stampato?! GUARDATI!
Guardati, lì nel letto, bella tranquilla mentre
io… io…»
«Beerus, cerca di
calmarti» disse Anise, alzandosi dal
letto per avvicinarsi a lui «Non è il caso di
reagire così male. Io non ti ho
detto di no, ti sto solo dicendo che sarebbe il caso di fare le cose
con un
po’più di prudenza. Noi ci conosciamo da due anni,
e questo è un giuramento
eternamente vincolante che crea un life-link. Un life-link!
Non è una cosa da poco, cerca di rendertene conto».
«Lo so che non
è una cosa da poco! Lo so! Ma se io sono
disposto a mettere la mia vita nelle tue mani, allora perché
tu non lo sei? Tu,
che dici di amarmi? Me lo hai detto anche poco fa, proprio
lì» indicò il letto
«Te lo sei dimenticata?!»
«Certo che no, e
ti ripeto che è esattamente come ti ho
detto, io ti amo… ma siamo anche giovani, siamo troppo
giovani per fare una
cosa del genere, e io-»
«Vuoi un altro
uomo? Pensi che in futuro vorrai lasciarmi
per un altro uomo?!» la interruppe Beerus.
«Ovvio che
no».
«Allora giura!
Dici di amarmi, quindi devi farlo!» esclamò,
con una nota di disperazione nella voce, stringendole le mani
«Fallo!»
«Anche tu dici di
amarmi» ribatté Anise «Quindi dovrai
aspettare ancora un po’, specie perché
io… sai, a volte ho qualche dubbio anche
sul puro e semplice diventare immortale. In futuro lo farò,
perché se vogliamo
rimanere insieme non c’è altra via, ma-»
«Mollo tutto»
sussurrò Beerus, con lo sguardo spiritato.
«…
cos’hai detto?»
«Mollo
tutto» ripeté il dio, prendendole il volto tra le
mani «Un Hakaishin può abdicare, e anche farlo
decidendo di rinunciare al dono
dell’immortalità. Una tua parola, e io mollo
tutto».
Quello non era uno dei
momenti migliori del giovane Beerus,
che stava sragionando completamente. Quasi non riusciva a
credere di averlo detto sul
serio, ma la sua lingua si era mossa da sola appena aveva sentito Anise
dire
quelle frasi, e quel che aveva detto non era affatto da lui. A Beerus
piaceva essere il Dio della Distruzione, e in condizioni normali si
sarebbe
schiaffeggiato da sé -giustamente!- anche solo per aver
pensato
di abbandonare il proprio ruolo di Hakaishin.
Quelle però non erano condizioni normali: non riusciva a
ragionare bene, vedeva immotivatamente "a rischio" la sua relazione ,
e ciò lo stava spingendo a dire e proporre cose a cui in
realtà non credeva affatto.
«Beerus-»
«Pur perdendo i
miei poteri di divinità manterrei quelli che
ho già di mio, e gli anni di addestramento non diverrebbero
inutili, quindi
potrei proteggerti da tutto. Potremmo vivere insieme nella tua casa nel
bosco,
insomma, tu sei indipendente, giusto? Da mangiare non ci mancherebbe
mai!
Oppure ci sono gli adamadnery pinc che non hai dato a tua sorella.
Prenderemmo la casa più grande di quella città
vicino all’oceano, assumeremmo
una trentina di persone che facciano tutto al posto nostro, e io
continuerei a
vivere praticamente come faccio ora. Potrei anche ordinare dolci da
Swetts
tutti i giorni, continuare a far arrivare via corriere i miei fumetti,
mettere
la rete internet…»
Anise pensò che
era incredibile il modo in cui tutto quel
che Whis le aveva detto nell’andar del tempo, inclusi gli
argomenti della loro
prima conversazione e gli avvertimenti della sera prima, si stesse
concretizzando proprio davanti ai suoi occhi.
«Non so come
dirtelo, Beerus, ma se mantenessi il tenore di
vita che hai attualmente finiremmo squattrinati in meno di dieci anni.
È così
che funziona quando ci sono uscite continue e nessuna entrata.
Finiremmo col
dover tornare a vivere nella mia casa nel bosco, e io non potrei
lavorare per
tutti e due. Dovresti imparare a fare qualcosa ma, ecco, fino a questo
momento
non mi sei sembrato molto portato per…»
“Vivere senza qualcuno che faccia tutto
al posto tuo” completò mentalmente, con dispiacere
«Certe cose. Per non parlare
del fatto che in ogni caso permetterti di rinunciare a tutto sarebbe
una
follia: tu sei Lord Beerus, tu sei l’Hakaishin di questo
Universo, ti meriti
questo titolo ed è giusto che tu lo mantenga».
«Mi ritieni un
incapace! È questo che pensi di me in
realtà, vero?!» sbottò
l’Hakaishin, con una certa amarezza «Mi dici sempre
che
ho tante qualità, ma in realtà pensi che sia
capace soltanto di mangiare,
dormire, combattere, fare sesso e distruggere pianeti!»
«Non ti trovo un
incapace, e sì, hai tante qualità: in caso
contrario non starei con te. Però devi ammettere che la vita
che potremmo
condurre non farebbe per te. Finiresti a rimpiangere tutto quel che hai
adesso,
finiresti per maledire il giorno in cui hai lasciato il tuo ruolo, e
poi finiresti
per maledire anche il giorno in cui mi hai incontrata» disse
Anise, con aria
seria «Tu sei abituato a un certo tipo di vita, a essere
servito e riverito,
quindi un giorno finiresti con l’odiarmi per averti strappato
a tutto questo».
«Non
è vero! Queste
sono solo delle scuse assurde per giustificare il fatto che in
realtà non mi
ami abbastanza, né per fare subito quel dannato giuramento,
né per accettare di
stare con me se io facessi l’immenso sacrificio di
ridiventare mortale!»
«Dici tu per primo
che sarebbe un “immenso sacrificio”, non
vedo come potrebbe andare a finire bene».
«Sei venuta a
parlarmi di soldi, Anise! Soldi!»
continuò Beerus, senza
ascoltarla.
La Lusan non sapeva proprio
come stesse riuscendo a
mantenere la calma in una simile situazione, col suo compagno che non
l’ascoltava e non faceva che accusarla di non amarla
abbastanza, quando invece
lei gli aveva soltanto chiesto del tempo in più che,
considerando gli ultimi
sviluppi, era necessario. «Alla gente non autosufficiente
servono un lavoro e
dei soldi per vivere. Si chiama “vita da comuni
mortali”».
Beerus, ancora preda di
rabbia e delusione, fece una risata
del tutto priva allegria. «Perché non dici le cose
come stanno, una buona
volta? Di’ che ti piace l’idea di stare con una
divinità strapiena d’oro, che
ti piace essere a tua volta servita e riverita in quanto mia Iarim
Neiē, e che
se io non fossi stato l’Hakaishin di questo Universo non mi
avresti nemmeno
guardato! Perlomeno le prostitute erano più
sincere!»
Era andato completamente
fuori di testa, non c’era altra
spiegazione. Anise non si capacitava di averlo sentito davvero dire
cose del
genere a lei, che non gli aveva chiesto mai nulla, a lei, che aveva
sempre
preferito fare le cose da sola piuttosto che essere "servita e
riverita", a lei,
che era la ragazza con cui lui aveva aspettato mesi prima di fare
l’amore
proprio perché non voleva farle pensare che la mettesse al
livello di una
lavoratrice del postribolo -un pensiero che Anise trovava tuttora privo
di
senso.
Forse la botta in testa di
Whis era stata molto più forte
del dovuto.
Anise avrebbe avuto voglia
di fare tante cose: di urlargli
che stava dicendo una stronzata dopo l’altra, di prenderlo a
schiaffi, di
mettersi a piangere, di pregarlo di tornare a ragionare
perché lui non poteva
pensare quelle cose, non le pensava, non
poteva pensarle sul serio, non voleva né riusciva
a crederci…
«Bene. Stando
così le cose, io non intendo ascoltare
neppure un’altra parola. Sappi che mi hai molto ferita, e che
tornerò a darti
considerazione solo se -ma spero sia più un
“quando”- riprenderai a usare il
cervello e ti scuserai con la sottoscritta per ognuna delle idiozie che
sono
uscite dalla tua bocca. Fino ad allora evita di cercarmi, di parlarmi o
di
tentare qualunque tipo di contatto. Buona giornata, Beerus».
Ma non fece nulla di tutto
questo, optando per una
soluzione più dignitosa: detto quel che doveva dire,
raccattò con rapidità
l’abito che aveva indossato il giorno precedente e
uscì dalla stanza,
allontanandosi da essa quasi di corsa.
“Sarà
ragionevole, dicevo. Reagirà con maturità,
dicevo.
Non ha motivi per dare di matto, dicevo...” pensò.
«Lady Anise, credo
che quel vestito le starebbe meglio
addosso, piuttosto che tra le mani» disse Whis, da poco
uscito dalla doccia,
con un viso l’espressione più serena
dell’Universo «Come va la giornata? Mi è
parso di sentire un vivace scambio d’opinioni».
In quel momento Anise
iniziò a capire il motivo per cui a
Calida piaceva strappare gli occhi delle persone. Poter sfrittellare
quei bei
bulbi oculari dall’iride lavanda le avrebbe fatto non poco
piacere. «Nulla più
di una piccola discussione, niente di cui tu debba preoccuparti, o che
ti
riguardi».
«Meglio
così allora. Lo sa, mi sarei aspettato da lei una
risposta un po’più... come dire,
“colorita”, alla mia domanda».
«Ho pensato che
troppe soddisfazioni in una sola mattinata
potrebbero esserti nocive» replicò Anise,
riuscendo perfino a stirare le labbra
in un sorriso alquanto falso «Non sia mai che tu esploda di
gioia nel senso
letterale del termine».
Entrambi in quel momento
sentirono distintamente il rumore
di una porta sbattuta, e in seguito un tonfo. Sicuramente Beerus aveva
usato
troppa forza e la porta era uscita dai cardini o, in
alternativa, suddetti erano
stati strappati via.
Né Anise
né Whis tuttavia videro il Dio della Distruzione,
il quale -arrabbiato e poco desideroso di avere a che fare con loro-
doveva
aver scelto di passare da un’altra parte.
«Dovrò
riparare la porta» commentò Whis.
«Credo di
sì».
«In certi momenti
lei possiede un autocontrollo che si
avvicina quasi al mio, Lady Anise».
«Tanto meglio,
visto e considerato che devo averne anche
per Beerus. Però non paragonarmi a te, Whis, non sei
qualcuno a cui vorrei
somigliare».
«Desidera che il
“qualcuno cui non vuol somigliare” la riporti
a casa, una volta che si sarà rivestita?»
Anise, dopo una piccola
esitazione, annuì. «Per una volta
ho tanta voglia di andarmene quanta ne hai tu che io me ne vada. Ogni
tanto
riusciamo a essere d’accordo su qualcosa,
dopotutto».
***
«Mi stavo facendo
portare da Beerus perché credevo foste
insieme, negli ultimi tempi sei più a casa sua che in casa
tua. Non mi
aspettavo di trovarti qui».
«Non me lo
aspettavo neppure io, Champa, ma sai come va…
cambi di programma».
Quando Champa quel
pomeriggio era arrivato in casa di Anise
-dicendo a Vados di tornare verso le sei di sera- l’aveva
trovata intenta a classificare
le foglie essiccate delle tisane “in un ordine che va da
quelle col gusto più
delicato a quelle col gusto più intenso. Utile,
no?”.
Per come la pensava lui no,
non era affatto utile,
soprattutto perché lei non lo aveva mi fatto fino a quel
momento. Sembrava più
che altro un modo come un altro per impegnare la mente con
qualcosa… e se a
questo si aggiungeva il semplice fatto di trovarla lì in un
momento imprevisto,
allora era sicuramente successo qualcosa di poco gradevole.
«Va tutto bene?»
«Certo. Sii
gentile, passami quel vasetto alla tua destra,
dovrebbe essere la miscela d’infuso con i fiori»
disse la ragazza tendendo una
mano verso di lui, in attesa.
Champa vide la mano di Anise
tremare leggermente, dunque la
strinse con la propria, capendo che doveva esserci veramente
qualcosa che non andava. «Cosa succede?»
«Niente».
«Non sono un
imbecille. Cosa succede?»
«Mi passi il
vasetto?» chiese di nuovo la lince, senza
voltarsi a guardarlo «Vorrei finire il lavoro entro
oggi».
«Ma chi se ne
importa delle tisane?! Non importa per
davvero nemmeno a te! Guardami!» esclamò il dio,
sollevandole il viso «Cos’è
successo?»
«Niente».
«Cos’ha
combinato il gemello scemo?» insistette Champa
«Perché qualcosa dev’esserci stato, o
non saresti qui e non ti staresti
rincitrullendo a catalogare tisane!»
«È
quello che voglio fare, e sarei felice se mi aiutassi. Io
e te siamo amici, giusto?»
«Sì!
Appunto per questa ragione voglio che tu mi parli di
quel che è successo. Io con te l’ho fatto, quando
ne ho avuto bisogno».
«Io
però non voglio parlare, anche perché non ho
molto da
dire. Voglio finire il lavoro» ripeté Anise, in
tono quasi meccanico «Mi aiuti,
Champino?»
L’Hakaishin non
disse nulla, ma la afferrò per la vita e la
sollevò di peso, per poi metterla a sedere sul divano,
sedersi di fianco a lei,
circondarla con la braccia e poggiare la propria testa sulla sua
spalla.
«Champa, ho da
fare. Lasciami».
«No».
«Ho da
fare» ribadì la ragazza.
«Non
più».
«Non puoi restare
così in eterno».
«A dire il vero
potrei, sono immortale» ribatté Champa
«A
cos’è che non vuoi pensare?
Cos’è capitato?»
«Non mi lascerai
andare finché non ti darò retta,
immagino».
«Immagini
bene» confermò lui.
Solo a quel punto Anise si
decise a voltarsi per guardarlo
negli occhi. «Io e Beerus abbiamo un po’discusso,
ma non è niente, capita in
tutte le coppie. Era ora che capitasse anche a noi, in un certo
senso».
«Immaginavo che
c’entrasse lo scemo, purtroppo» sospirò
Champa «Cos’ha fatto?»
«Parti
già col presupposto che sia stato lui a fare
qualcosa di sbagliato?»
«Di voi due lui
è quello con meno sale in zucca, quindi sì,
parto con questo presupposto» annuì il giovane
«Se proprio non vuoi darmi i
dettagli dimmi almeno cos’ha scatenato la discussione,
così so quanto devo
insultarlo in una scala da uno a dieci!»
«Te la faccio
breve: voleva che facessimo il giuramento che
mi avrebbe resa la sua Neiē, io gli ho chiesto di
“rallentare” perché per
quanto lo ami fare una cosa del genere adesso mi sembra imprudente, e
lui l’ha
presa… beh, non benissimo. Questo è
tutto» concluse Anise «Se… se ci penso
mi
viene quasi da piangere, sai? Fino a un attimo prima andava tutto
benissimo, e
dopo...» si interruppe «E dopo, ecco una Lusan che
la sta facendo tanto lunga per
un nonnulla. Tu non dovresti stare qui ad ascoltare i miei disagi, non
meritano
il tuo tempo. Mi lasci andare?»
Champa scosse la testa.
«Non finché non mi dici di
più».
Anise aveva immaginato che
la risposta sarebbe stata
quella, e in ogni caso doveva ammettere che in quella situazione non le
dispiaceva avere qualcuno vicino.
Non le andava molto di
parlare, perché aveva sempre la
sensazione di “lamentarsi troppo”, però
non sapeva nemmeno cos’altro fare. Le ore
che erano passate non avevano migliorato il suo umore, anzi, se
possibile era
ancor più amareggiata di quanto fosse quando era partita dal
pianeta di Beerus.
Le parole di
quest’ultimo le avevano fatto male, ed era
un’altra cosa per cui si biasimava: come aveva potuto
lasciarsi ferire così da
parole dette in un momento di rabbia? Beerus non l’aveva
accoltellata, non le
aveva sparato, non l’aveva presa a calci! Come poteva essere
diventata così
sciocca, debole e lamentosa?!
«Se io avessi
giurato senza farla tanto lunga sull’età,
sulla prudenza o l’imprudenza, sul life-link o non
linfe-link, non sarebbe
successo nulla. Io lo amo, forse dovevo… oppure…
oppure non dovevo» si
contraddisse la ragazza, evidentemente confusa «No, non
dovevo, perché se mi
vuole bene davvero allora è giusto che mi dia il tempo che
chi serve,
maledizione! Non gli ho chiesto chissà cosa, io non gli ho
mai chiesto niente…»
mormorò abbassando il capo, sul punto di cedere
«Mi sono sentita dire che se
non fosse stato l’Hakaishin di questo Universo non
l’avrei nemmeno guardato e
che “perlomeno le prostitute erano più
sincere”, ma io non gli ho mai chiesto
niente!»
Incredulo, Champa la
lasciò andare. «Al di là del fatto che
per dire una cosa del genere dev’essersi rincoglionito del
tutto, non capisco
che attinenza abbia col resto!»
«Perché
ho fatto l’errore di dirgli che ogni tanto ho dubbi
anche sull’immortalità di per sé, come
sai, ma gli avevo anche detto che in futuro mi adeguerò,
perché se
vogliamo puntare a stare veramente insieme in eterno c'è
solo questa via. Lui allora se
n’è uscito col dire che avrebbe mollato tutto,
immortalità inclusa, per venire
a vivere qui con me. Io gli ho detto che non era una buona
ide-»
«Lasciare il suo
ruolo sarebbe una pazzia! Non sa nemmeno
cucinare una torta e vorrebbe andare a vivere con chicchessia senza
Whis a fare
tutto? Ma per piacere, sarebbe come se volessi andarci io, o peggio,
perché io
adesso so cucinare qualcosina, al contrario di lui!»
esclamò Champa, per poi
fare facepalm «Ormai non ci sono dubbi, Beerus è
partito completamente di
cervello».
«Non dovevo
parlartene, ora penserai che volessi solo
qualcuno su cui riversare le mie “pene
d’amore”».
«Noi due siamo
amici. Lo siamo quando va tutto bene e lo
siamo quando va tutto un po’meno bene. Mi dispiacerebbe se tu
pensassi di non
potermi parlare».
«Mi
ricorderò. Grazie» disse Anise, con un debole
sorriso
«Ora però mi aiuti a catalogare le
tisane?»
«Ancora?!»
«Beh, ho
cominciato, non posso lasciare tutto in giro così.
Adesso mi sento anche meglio, grazie a te».
«Io te lo avevo
detto, che dovevi dirmi tutto subito, ma tu
“No, niente!”… ormai lo vedo, quando hai
qualcosa che non va» disse Champa,
facendo spallucce «Non sono uno stupido».
«No, infatti. Sei
la persona meno stupida che io conosca.
Mi sa che alla fin fine sei molto più sveglio di me, se devo
dirla tutta.
Champino?»
«Sì?»
«Le tisane. Io
dicevo sul serio!...»
***
Era una delle giornate
peggiori che gli fossero capitate da
due anni a quella parte, anzi, forse era la peggiore in assoluto.
Beerus era seduto su
ciò che restava di un albero tagliato,
a gambe incrociate, senza fare altro che non fosse pensare. Quel giorno
non
aveva neppure mangiato, non aveva neppure avvertito alcun senso di fame
-proprio lui, che solitamente era insaziabile!- e aveva perfino
maltrattato
Whis quando questi, ormai diverse ore prima, si era avvicinato per
ricordargli
che l’ora di pranzo era quasi arrivata. Mangiare sarebbe
stato inutile, non
sarebbe riuscito a godersi nemmeno un boccone, anche se Whis avesse
messo in
tavola il profiterole di Swetts.
Quel profiterole piaceva
tanto anche ad Anise.
“Cos’ho
sbagliato?”
Non si riferiva a
quant’era accaduto al mattino, perché
dopo tutte quelle ore -i soli stavano calando, ormai- aveva smaltito
sufficiente rabbia da capire che aveva commesso un errore dopo
l’altro; si
riferiva al fatto che Anise non avesse voluto fare il giuramento.
“Cosa le manca?
Cos’altro dovevo fare?!”
Non riusciva proprio a darsi
pace, a trovare una
spiegazione soddisfacente: forse non le aveva fatto abbastanza regali
il giorno
del suo compleanno? No, non poteva essere per quello, anzi, era
piuttosto
convinto che lei li avesse considerati anche troppi.
Forse non le aveva fatto
abbastanza coccole durante quei
due anni, o l’aveva annoiata nei momenti trascorsi insieme?
“O magari
è per il mio ruolo. Lei dice che non ha problemi,
ma può essere che si sia resa conto che in realtà
non vuole stare con qualcuno
che ha tanto sangue sulle mani…”
No, quella era
un’idiozia, anche perché Anise era abituata
a voler bene alle persone con “tanto sangue sulle
mani”. Ne voleva a quella
schizzata di sua sorella Calida, quindi non doveva dubitare che ne
volesse
anche a lui.
Forse… non aveva
fatto abbastanza per renderla felice?
“Questa mattina
non l’ho fatto senz’altro!”
Se ripensava a quel che le
aveva detto non riusciva quasi a
crederci, soprattutto perché in realtà non
pensava neppure mezza parola di
quelle che aveva pronunciato.
Come aveva potuto accusarla
di essere interessata solo alla
sua posizione e al suo oro? Come?!
Ad
lei non importava proprio nulla di certe cose, e lui lo sapeva
benissimo: Anise
aveva perfino dato via un tesoro, che diamine!
“Cosa
cazzo mi ha
detto il cervello?!” pensò, trattenendo
la voglia di tirarsi un pugno in
faccia.
Non avrebbe mai dovuto
urlarle contro in quel modo, non
avrebbe dovuto muoverle quelle accuse, e soprattutto avrebbe dovuto
risparmiarsi quel “Le prostitute almeno sono più
sincere”. Aveva osato
paragonarla a una di quelle lavoratrici, e già solo questo
era assolutamente
imperdonabile.
Le aveva mancato di rispetto
in modo orribile, a lei, alla sua
Iarim Neiē. Agire in tal
modo con la sua compagna non era un comportamento degno di un dio, e
neppure di
una qualsiasi persona decente.
“Ha detto che
l’ho ferita molto…”
Si alzò in volo
all’improvviso e, con un grido di rabbia
rivolta interamente contro se stesso, scagliò un colpo
energetico in aria,
finendo col distruggere uno dei pianeti satelliti che orbitavano
accanto al
suo.
La richiesta di posticipare
il giuramento era come un tarlo
nel suo cervello, perché nonostante lei avesse cercato di
dargli spiegazioni
non riusciva comunque a capirne i motivi, ma al momento la
consapevolezza che Anise
fosse “ferita” e che fosse stato lui a farle del
male era molto più
fastidiosa e dolorosa di qualunque altro pensiero.
Era proprio un Hakaishin
perfetto, si disse: riusciva a
distruggere tutto quel che toccava, incluso -forse- il suo rapporto con
la persona che amava.
“Io le avevo
promesso che non l’avrei mai fatta soffrire,
le avevo giurato che avrei sempre fatto di tutto perché
fosse serena, e l’ho
fatto neppure due anni fa. Non sono stato in grado di mantenere la
parola!”
Si nascose il volto con le
mani, perseguitato dal pensiero
di Anise che probabilmente stava piangendo per colpa sua. Era
un’immagine
insopportabile per lui, che desiderava soltanto proteggerla da tutto
quel che
poteva recarle danno: se aveva avuto fretta di fare il giuramento era
anche per
quel motivo, oltre che per amore.
Peccato solo che…
come poteva pretendere di proteggerla, se
era lui per primo a farla stare male?
“Chi mi dice che
stia male? Io le urlavo contro e lei non
ha fatto una piega! Forse è perché non le importa
niente…”
Era stato anche quello a
farlo innervosire e andare fuori
di testa fino a quel punto, vederla così tranquilla: lui non
si sarebbe
comportato in quel modo. Probabilmente al posto di Anise avrebbe urlato
a sua
volta, avrebbe sbraitato una valanga d’insulti e, sentendo
certe accuse,
avrebbe anche provato a tirare una sberla. Aveva picchiato e insultato
suo
fratello per molto meno, del resto.
“Forse proprio
vedendomi urlare in quel modo ha cercato di
mantenere la calma, dicendosi che uno dei due lo doveva pur fare. Io
non mi sei
comportato così, ma io non sono lei e-”
Sgranò gli occhi,
rendendosi conto di una cosa che lo fece
disperare ancor di più: tra poche ore sarebbe arrivata la
mezzanotte… e con
essa il secondo anniversario del loro primo incontro!
Quello sarebbe dovuto essere
un momento speciale, e lui cos’aveva
fatto? Aveva deciso di litigare con lei proprio il giorno precedente!
«Stupido, stupido,
STUPIDO!» sbottò Beerus tirando un
calcio al ceppo su cui era seduto fino a
poco prima, colpendolo tanto forte da sradicarlo e farlo volare
chissà dove.
Più tempo
passava, più aumentavano i suoi sensi di colpa
per averla trattata male. Non avrebbe mai dovuto farlo, e ora doveva
solo
sperare che lei avesse intenzione di perdonarlo.
Doveva assolutamente farle
sapere che non pensava nulla di
tutto quel che le aveva detto, che aveva capito quanto sarebbe stato
folle per
lui lasciare il proprio ruolo -sì, ci era arrivato- e che
lei aveva fatto bene
a dissuaderlo. Doveva anche dirle che non dubitava del fatto che lei lo
amasse,
pur essendo ancora preda di quel piccolo pensiero maligno, quel
“allora perché
ha voluto che rallentaste?”, che però sarebbe
sicuramente andato via col tempo.
***
«Ti ho portato i
dolci. Sono le praline che ti piacciono,
quelle di Swetts, vedi? Lo ammetto, ne ho mangiata qualcuna durante il
tragitto
perché ero a digiuno, ma non è questo che
importa. Ti ho portato anche le rose,
quelle bianche. Anche quelle ti piacciono tanto, giusto? E sono venti
cespugli!»
Ormai Beerus era fuori dalla
casa di Anise da cinque o sei
minuti, e in tutto quel tempo lei non gli aveva rivolto neppure una
parola: se
ne stava lì sulla soglia, fissandolo con
un’espressione impenetrabile e tenendo
le braccia conserte.
Non prometteva molto bene,
ma dopo quel che le aveva detto
al mattino era già tanto che avesse aperto la porta di casa.
«Non sembra
funzionare granché» commentò Whis.
«Finiscila!»
sibilò Beerus «Non mi stai aiutando per nulla!
Perché non vai a mangiare qualcosa in una qualche
città, come fai di solito?
Qui è buio, ma dall’altra parte del pianeta non lo
è! Che stress!...» sbuffò.
«Come
vuole!» disse l’angelo, alzando le mani
«Tornerò
quando qui farà mattina. Di questo passo finirà
col dover dormire proprio in
mezzo ai cespugli, ma mi ha congedato, dunque non mi riguarda. A
domani!»
Whis andò via, e
Beerus emise un verso seccato. «Menagramo
che non è altro. A volte lo sopporto poco, Anise. Tu
no?»
Di nuovo, dalla giovane non
giunse risposta.
«Ora che siamo
soli potresti anche parlarmi».
La Lusan si
appoggiò contro lo stipite della porta ma, di
nuovo, non disse alcunché.
Beerus fece qualche passo in
avanti. «Sai cos’ho portato,
oltre alle praline e ai cespugli di rose bianche? Il cervello bacato di
un
Hakaishin che ha mancato di rispetto alla propria compagna. Non dovevo
comportarmi in quel modo» disse, dopo una breve pausa
«Non dovevo dirti quelle
cose, soprattutto perché non le penso. Ho reagito male
perché… Anise, sai bene
quanto vorrei che tu diventassi la mia compagna per
l’eternità, e io mi ero
illuso che fosse cosa fatta! Questo non giustifica le accuse che ti ho
rivolto,
ma volevo farti capire perché l’ho presa peggio
del dovuto. Posso assicurarti
che non avevo la minima intenzione di ferirti. Ricordi quando ti dissi
“Sono
felice che tu sia felice”? Vale anche il contrario! Io sono a
posto solo se
anche tu lo sei. Mi dispiace per stamattina» disse,
sinceramente costernato.
«Hai detto che sei
a digiuno, praline a parte» disse la
ragazza, dopo una breve esitazione «Sbaglio?»
Oh, finalmente gli aveva
rivolto la parola! Era già un inizio,
e Beerus ne fu lieto. «Non sbagli. Non ho mangiato, non ero
dell’umore. Avevo
altro in mente».
Anise rientrò in
casa. «Vieni».
L’Hakaishin la
seguì, senza riuscire a trattenere un
sorriso speranzoso.
La vide prendere un
coltello, accingersi a tagliare una
delle sue buonissime torte salate, e a quel punto non fu più
in grado di
resistere: si avvicinò, nascose il viso tra i suoi capelli e
la strinse in un
caldo abbraccio. «Avevo iniziato a credere che non volessi
perdonarmi».
«Ce l’ho
ancora con te, non illuderti. Le tue scuse sono
sincere, le accetto e le apprezzo, ma credo che mi servirà
ancora qualche ora
perché mi passi del tutto. Quel che hai detto mi ha fatto
male».
«Lo so»
sussurrò il dio, stringendosi di più a lei
«Lo so,
purtroppo. Non capiterà ancora. Io voglio proteggerti, non
recarti danno».
«Ora
però devi dirmi la verità. Devi dirmi cosa ti ha
spinto a fare quel giuramento, al di là dei sentimenti,
perché io sono convinta
che tu non mi abbia detto tutto. Cos’hai visto,
cos’hai sentito?» domandò la
Lusan, voltandosi verso di lui «Cos’è
successo?»
«Io ho…
io ho sognato che tu morivi. Di nuovo» ammise,
serio e amareggiato nel ricordarlo «È successo
quando mi sono svegliato, prima
che ti raggiungessi sull’altalena. L’incubo era
molto simile a quello della
scorsa volta, dicevi perfino le stesse parole, almeno fino a un certo
punto… ma
poi è diventato perfino
più orribile
dell’altro, per diversi motivi. La sola cosa vagamente
positiva è che io sia
riuscito a vedere un particolare del tuo assassino -che tu, come nella
scorsa
occasione, mostravi di conoscere bene: chiunque fosse, aveva una
corona».
«E a te non
è venuto in mente di parlarmene? Beerus, se lo
avessi fatto avrei potuto rassicurarti» disse Anise,
accarezzandogli il viso
«Forse non saremmo neppure finiti a litigare!
Perché non me lo hai detto?»
«Perché
tu non mi avresti dato retta, mi avresti detto che
è impossibile e sarebbe finita lì. Io
però non riesco a togliermi dalla testa
che possa essere uno dei miei sogni profetici, e io non
voglio vederti morire! Anche per questa ragione volevo che
diventassi la mia Neiē, per portarti via da qui: se non sei su questo
pianeta,
non puoi morire a Ulthmeer!»
«Non potrei
comunque
morire a Ulthmeer, perché non ho
motivo di scendere giù in città. Devi stare
tranquillo,
non hai motivo di
temere per la mia vita» affermò la lince
«Anche
perché stiamo insieme molto
spesso, e capita sovente che nei giorni in cui non puoi venire qui sia
Champa a
farmi compagnia. È stato qui anche oggi, se vuoi saperlo.
È tuo fratello, è un amico ed è un
Hakaishin come
te: sono
sufficientemente protetta, no?»
«Forse»
borbottò Beerus, per nulla convinto «Anise,
un’ultima cosa: tu, nel mio incubo, hai ripetuto una frase
che ti aveva detto
il tuo assassino in passato. Me la ricordo bene, la frase era
“Noi siamo e sempre
saremo tutto quello che abbiamo”».
“Calida?...”
La Lusan sapeva benissimo a
chi apparteneva
quella frase, ma le risultava semplicemente impossibile credere che
Calida
potesse fare quel che aveva visto Beerus nel suo incubo. Nella scorsa
occasione
aveva parlato di Ulthmeer distrutta, e Calida non avrebbe avuto alcun
interesse
a distruggere la propria città.
Per
non parlare del fatto che Anise non riteneva possibile che sua sorella
potesse
aver voglia di ucciderla. Perché avrebbe dovuto? Non
c’era motivo! Era tutto
completamente assurdo, lo sarebbe stato anche se Calida avesse avuto il
potere
per fare quel che Beerus le aveva visto fare -e Calida non
aveva quel potere.
“Beerus
però ha visto che il mio assassino indossava una
corona, quindi forse… ah, macché. In quella
grotta non c’erano casse né corone,
l’ho visto benissimo. Questo incubo non ha senso”
concluse Anise “Lui è
soltanto rimasto impressionato da quelle croci infuocate: la leggenda
della
corona e la sua ferma intenzione di proteggermi a ogni costo hanno
fatto il
resto. Non c’è altra spiegazione
plausibile”.
«Io non la sento
bene in bocca a nessuno che conosca»
continuò Beerus «Non so tu…»
«Neppure
io» mentì la ragazza «Non ho proprio
idea di chi
potrebbe essere. Ad ogni modo, Beerus, lo sai che giorno è
domani?»
«Il secondo
anniversario del nostro primo incontro, lo so e ne sono felice,
ma non cambiare argomento! Quel che ho sognato non mi è
piaciuto e poi…
continuo anche a domandarmi se ho fatto abbastanza. Con te»
aggiunse Beerus «Io
sono veramente pronto a fare quel giuramento».
«Se io avessi
ascoltato solo i sentimenti avrei giurato a
mia volta senza esitazioni, te lo assicuro» disse Anise, poggiando le
mani contro il petto del compagno «Ma penso che simili
decisioni vadano ponderate molto attentamente,
perché una volta
prese non si può tornare indietro. Noi due ci amiamo, quindi
in futuro faremo
quel giuramento, però ciò non toglie che possiamo
fare le cose con calma e,
possibilmente, senza litigare di nuovo. Tu che dici?»
«Cosa dovrei
dirti? Certe cose si fanno in due. Mi passerà,
immagino» borbottò il dio, senza troppo entusiasmo.
«Non vedo
perché non dovrebbe, e sicuramente passerà
più in
fretta una volta che sarai a stomaco pieno. È la tua torta
salata preferita.
Ero arrabbiata con te, eppure ho finito per scegliere di fare questa
qui!»
«Hai sempre in
testa me, cara lincina» scherzò lui.
«Devo darti
ragione, ti ho sempre in mente, per una ragione
o l’altra. Ora mangia, su!»
Niente da dire, se non che spero di non aver deluso troppo nessuno. Ah,
una cosa: c'è la possibilità
(sottolineo dieci
volte questa parola) che la settimana prossima mi prenda una pausa,
come fa la Toei, e che dunque il capitolo 18 venga pubblicato dopo il 4
marzo. Vedrò un po'come si metteranno le cose!
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Capitolo 18 *** 18 ***
rmi18
18
«Quattro
pianeti dei sei che hai distrutto si potevano
salvare. Avevamo fatto dei calcoli».
«Come
se non sapessi benissimo che arrotondi i risultati
per eccesso in otto casi su dieci…»
«Non
ti permetto di fare insinuazioni sull’onestà dei
miei
calcoli. Quando mai mi sono messa a insistere perché
risparmiassi un pianeta che
non rientrava nei parametri? Dimmi di una sola volta in cui
l’ho fatto, Beerus,
mi basterebbe».
Il
dio alzò gli occhi al cielo. «Al momento non mi
vengono
in mente, Anise, ma ce ne sono sicuramente state!»
Era
un po’di tempo che Beerus, ogniqualvolta andavano tutti
e tre in giro per il cosmo, distruggeva come minimo uno o due pianeti,
indipendentemente dal fatto che meritassero sul serio tale destino
oppure no, e
questo era diventato un argomento di discussioni che nascevano mentre
tornavano
a casa -come in quel momento, in cui erano diretti verso il pianeta dei
Lusan-
e spesso proseguivano anche una volta giunti a destinazione.
Anise
aveva notato che questo cambiamento era iniziato
pochi mesi prima, poco dopo quel brutto litigio. In
quell’occasione le era
sembrato che lei e Beerus fossero riusciti a chiarirsi, Beerus le aveva
anche
detto che era tutto a posto e che sì, avrebbe aspettato il
tempo necessario
prima di tirare fuori di nuovo il discorso della Neiē, ma
c’era “qualcosa” tra
loro due che aveva iniziato a non essere più come doveva.
Non sapeva cosa
fosse, a volte cercava perfino di ripetersi che era solo
un’impressione, ma
questo suo tentativo di autoconvincimento diventava difficile da
portare a
termine, se Beerus decideva di distruggere un pianeta che non meritava
una
simile fine.
«Invece
no, ed è per questo che non ti tornano in mente:
non ce ne sono. Ultimamente ho quasi l’impressione che tu lo
faccia apposta»
disse la ragazza «Che ti sia messo di proposito a distruggere
pianeti che siano
salvabili e che non mi dispiacciono».
A
volte aveva quasi l’impressione che lo facesse per sfogo,
oltre che -forse- di proposito, ma non vedeva proprio cosa potesse
avere da sfogare.
In certi momenti le sorgeva il sospetto che c’entrasse sempre
il litigio e la
sua richiesta di ulteriore tempo, ma sarebbe stato semplicemente
assurdo: al di
là del fatto che quell’argomento non era qualcosa
che meritasse simili
“sceneggiate”, Beerus avrebbe potuto sfogarsi in
milioni di altri modi che non
comprendessero la distruzione di pianeti degni di essere lasciati
dov’erano.
«Questa
è una delle cose più sciocche che ti abbia
sentito
dire ultimamente» ribatté Beerus, seccato.
«Oh,
“una delle”.
Interessante».
«Era
per dire!» sbottò il dio «Anise, io sono
un Hakaishin.
Io sono il Dio della Distruzione. Devo farti lo spelling? H-a-k-a-i-s-h-i-n! Distruggere pianeti
è il mio compito, e tu
questo dovresti saperlo, dopo oltre due anni che stiamo
insieme!»
«Infatti
lo so benissimo, senza bisogno di fare lo
spelling: lo spelling si fa ai bambini piccoli per far capire loro le
cose, è a
questo che serve. C-a-p-i-t-o?»
ribatté lei, riservandosi un rimprovero mentale per essersi
abbassata a sua
volta a un simile livello.
«Mi
stai dando dell’immaturo, per caso?!»
«Ho
parlato in modo inappropriato, me ne scuso. Ascolta, io
non ho nulla contro il fatto che tu distrugga pianeti, nel
corso di questi
due anni lo hai fatto con criterio, ma mi sembra che il suddetto stia
venendo a
mancare. Fino a poco tempo fa mi davi retta, o meglio, davi retta ai
calcoli
che facevamo» si corresse la lince «Ora invece sto
iniziando a domandarmi cosa
li facciamo a fare, se poi fai di testa tua».
«In
effetti potremmo farne a meno, perché l’ultima
parola
spetta sempre e comunque a me. Sono io l’Hakaishin, non tu:
se non ti piace la
maniera in cui gestisco le cose puoi sempre provare a prendere il mio
posto».
«Ben
detto, Lord Beerus!» esclamò Whis, con voce
piuttosto
allegra.
Ascoltare una coppietta intenta a bisticciare di solito risultava un
po’noioso e stressante, ma non in quel caso
perché, se i due avessero
continuato a discutere, più l’angelo poteva
sperare che un giorno Beerus
lasciasse perdere quella benedetta ragazza.
«Non
che qualcuno abbia chiesto la tua opinione, Whis»
disse Anise, sollevando un sopracciglio. Quello era un altro motivo per
cui
detestava discutere con Beerus, perché sapeva benissimo che
Whis gongolava non
poco, in quelle occasioni.
«Dovresti
portare più rispetto nei suoi confronti» la
riprese Beerus.
«Parli
proprio tu, che fino a non molto tempo fa avevi
voglia di “impiccarlo con una corda fatta dei suoi stessi
capelli”? Io
perlomeno non ho mai detto una cosa del genere» “Mi
sono limitata a pensarla”
aggiunse mentalmente «Quindi ritengo che tu sia
l’ultimo ad avere il diritto di
farmi un tale appunto».
«Ultimamente
non fai altro che contraddirmi!» sbuffò il
dio.
«Non
è vero».
«Visto?
Visto?!
Mi contraddici! Ah, comunque -per rispondere a quel che hai detto
prima- non è
affatto vero che distruggo di proposito i pianeti che non ti
dispiacciono»
disse l’Hakaishin «Non sei il centro
dell’Universo, non gira tutto intorno a
te».
«Non
che io l’abbia mai voluto» ribatté lei
«E comunque non
gira neppure tutto intorno a te, anche se sei convinto del contrario.
Guarda
caso hai iniziato ad avere un atteggiamento diverso dal solito appena
mi sono
comportata in maniera diversa da quella che avresti voluto».
«Non
ho idea di quello a cui ti stai riferendo» replicò
Beerus, tra i denti «Ma poi ti sembra il caso di parlarne qui
e ora?!»
«Oh,
il problema è la presenza di Whis? Se pensi davvero
che non si faccia i fatti nostri quando siamo in casa tua, Beerus, sei
un beag miamit
peggiore di quanto credessi. Ascolta ogni parola, quando
discutiamo».
«Mi
hai dato dell’ingenuo?!»
«Già»
confermò la ragazza.
«Tali
accuse sono completamente infondate e m’indignano
alquanto!» esclamò Whis «Come se a me
importasse qualcosa dei vostri battibecchi…
per cortesia, non diciamo sciocchezze».
«Ceeerto, infatti
nei momenti in cui siamo da soli tu non lanci mai frecciatine del tipo
“Pare
proprio che Lord Beerus non tenga più la sua opinione in
gran considerazione,
ahimè, quel povero Pianeta Verde numero 176761 non meritava
proprio una simile
fine”. Pianeta Verde numero 176761: ti ricorda qualcosa,
Beerus?»
«No,
aspetta: tu ascolti veramente le nostre discussioni
quando siamo a casa?!» si arrabbiò il dio,
voltandosi verso l’attendente.
«Lady
Anise sta solo cercando di spostare la sua attenzione
dal vostro litigio alla mia presunta indiscrezione, non si faccia
abbindolare.
Io non ho mai detto nulla del genere, può cred-»
«Invece
no, non ti credo affatto, perché le parole che ha
riferito Anise stanno fin troppo bene in bocca a te! Se davvero quando
siamo a
palazzo ascolti le nostre discussioni, è mia precisa
volontà che tu smetta di
farlo!»
«Se
pensa che i vostri bisticci in generale non mi
riguardino, potrebbe evitare di discutere con lei davanti -o dietro- al
sottoscritto… e quando siamo a casa potrebbe evitare di
strillare come un
galletto inferocito».
«IO NON STRILLO
AFFATTO!» gridò Beerus.
«Ha
perfettamente ragione, infatti proprio ora ha
bisbigliato così piano che non ho capito una
parola».
«Piantala!
E comunque non avevo ancora finito: guai a te se
infastidirai di nuovo Anise!» aggiunse Beerus «Se
discutiamo, quando discutiamo
e su cosa lo facciamo non è affar tuo, e in ogni caso non
hai alcun diritto di lanciarle
frecciatine. Lei è la mia Iarim Neiē, credevo che ormai te
ne fossi fatto
una ragione. Sei tenuto a portarle rispetto esattamente come lei
è tenuta a
portarne a te!»
«Quel
che dice sarebbe più credibile se lei per primo le
portasse rispetto, Lord Beerus, cosa che ultimamente non sta facendo
molto
bene».
Beerus
ammutolì per un attimo, ma subito dopo si sentì
ancor più arrabbiato di prima. «Non è
uno dei miei momenti migliori, ma questo
non significa niente! Anise» disse poi, rivolto alla Lusan
«Tu hai il mio
rispetto, la mia stima e… e non solo. Ricordalo. Questo
è un periodo un
po’teso, ma ciò non vuol dire che sia cambiato
qualcosa-»
«Qui?»
lo interruppe Anise posandogli una mano sul petto,
all’altezza del cuore.
Beerus
annuì. «A volte non capisco nemmeno come e quando
iniziamo a litigare, so solo che ci ritroviamo ad alzare la
voce… o meglio, “mi
ritrovo”» disse, pianissimo, nella pia illusione
che Whis non si mettesse ad
ascoltarlo «Non mi piace litigare con te».
«Non
piace neppure a me. Forse non
succederebbe,
se mi dicessi cosa non va » replicò lei,
altrettanto piano «Dici che è tutto a posto,
però da come ti stai comportando non mi sembra che sia
così. Dici che sono la
tua compagna, giusto?»
«Certo
che lo sei!»
«Allora
parla con me, perché io sono qui apposta. Te lo
dico ogni volta, perché non mi dai ascolto?»
Era
la verità, Beerus lo riconosceva: non c’era volta
in
cui Anise non lo esortasse a parlarle di “qualunque cosa gli
passasse per la
testa”. Lo faceva perfino nei momenti in cui le discussioni
si facevano più
accese, cosa che lo faceva sentire dannatamente in colpa per il proprio
atteggiamento e che lo faceva arrabbiare perfino di
più… anche se tale rabbia
era rivolta verso se stesso.
Non
aveva mentito, odiava profondamente litigare con lei e
non gli piaceva affatto la situazione che si stava venendo a creare tra
loro
due; avrebbe soltanto voluto che le cose tra lui e Anise potessero
tornare
com’erano fino a pochi mesi prima, perché non
avevano litigato mai in due anni
-o almeno, mai sul serio- e ora ecco che finivano a discutere un giorno
sì e
quattro no. Certo, non erano mai litigate brutte come quella di tempo
prima,
non l’aveva più accusata di essere interessata
solo alla sua posizione
-piuttosto si sarebbe strappato la lingua con le proprie mani- ma ogni
volta in
cui si ritrovava ad alzare la voce con la sua compagna soffriva
esattamente
quanto lei: “Io sono a posto solo
se
anche tu lo sei”, le aveva detto, ed era la pura
verità.
«Io
parlerei, se avessi qualcosa da dire. Non c’è
nulla che
tu non sappia già».
Peccato
solo il malanimo che lo tormentava da quel
giuramento mancato non accennasse a lasciarlo in pace. Ad Anise diceva
sempre
che era tutto a posto -e per lo più era così- ma
arrivava sempre il momento in
cui quel maledetto tarlo tornava a farsi sentire: “se ti ama,
perché non giura?
Sei sicuro che lei ti ami abbastanza? Sei sicuro di essere
stato in grado di farti amare? Ricorda che non ci sei
riuscito neppure con i tuoi genitori, o con tuo fratello, né
con il tuo maestro,
che probabilmente non ti vuole bene davvero. Perché questa
povera ragazza
dovrebbe fare eccezione?”
Così
eccolo lì, a sfogare tutti quei cattivi pensieri
distruggendo anche pianeti che avrebbero meritato la salvezza. Era
stato
cresciuto per essere un Hakaishin, dunque era gratificante vedere con
quanta
facilità riusciva nel proprio compito, gli procurava
sollievo… almeno fino a
quando Anise gli ricordava che stava commettendo degli errori.
Era
una situazione molto complicata in cui Beerus si stava
rivelando il peggior nemico di se stesso, rifiutandosi per
testardaggine o
malinteso “orgoglio maschile” di parlare ad Anise
di tutto questo. In parte lo
trovava anche inutile, perché credeva che sentendo simili
ragionamenti lei
avrebbe avuto ancor meno voglia di diventare la Neiē di un dio stupido
e debole
-e chi se ne importava se a livello razionale sapeva benissimo che
Anise non
l’avrebbe mai visto come tale!
«Perché
sei così testardo, Beerus?»
Il
dio, che come sempre quando andavano in giro per l’Universo
aveva già Anise in braccio, la strinse a sé.
«È solo un periodo un po’teso,
come ho detto prima. Passerà».
«Passerebbe
anche prima, se parlassi con me come facevi
fino a poco tempo fa. Non so cosa tu stia pensando, perché
purtroppo non posso
leggerti nel pensiero, ma di qualunque cosa si tratti-»
«Anise,
è tutto a posto: io non parlo perché non ho nulla
da dire. Punto».
La
ragazza si lasciò sfuggire un sospiro di completa
rassegnazione, decidendo di restare in completo silenzio. A che pro
insistere
ancora, almeno per quel giorno, se tanto lui non intendeva ascoltarla?
Avrebbe
voluto capire cosa avesse, in modo poterlo aiutare, ma non poteva farlo
andando
alla cieca.
Una
cosa però era sicura: se tutto ciò derivava da
quel che
era successo tempo prima, di certo non era qualcosa che potesse
spronarla a
fare quel maledetto giuramento. Se ne sarebbe riparlato quando a Beerus
fosse
passata e fosse maturato un po’, di certo non prima,
perché assecondare simili
capricci e fare un giuramento vincolante di cui non era ancora convinta
-visto
il periodo lo era sempre meno, a dirla tutta- non sarebbe stato
corretto,
soprattutto nei confronti di se stessa.
“Io
vorrei tanto che tu avessi ragione, vorrei tanto che
questo fosse solo un ‘periodo teso’ come dici e che
passasse al più presto. Al
momento non c’è nulla che desideri di
più, ma dubito che le cose si
risolveranno per fatti propri, e io non posso fare tutto da sola. Non
faccio
magie, figurarsi se posso fare miracoli” pensò la
ragazza, nascondendo il viso contro
il collo di Beerus.
Nonostante
tutto le coccole non tardarono ad arrivare, cosa
che ad Anise non dispiacque per nulla. Lei e Beerus avevano iniziato ad
avere
qualche problema, ma tra le sue braccia continuava sempre a sentirsi
“a casa”,
ogni carezza alimentava il desiderio e la speranza di poter uscire da
quel
momento un po’ buio e, anche se la Lusan non poteva saperlo,
per il suo
compagno valeva lo stesso discorso.
«Anise»
bisbigliò l’Hakaishin dopo un po’
«Dici che Whis ha
ascoltato anche tutto quel che abbiamo detto sottovoce?»
«Certo
che l’ha fatto. Hai veramente dubbi?»
replicò la
ragazza, bisbigliando anch’ella.
«Non
ha più fatto commenti…»
«Non
vuol dire nulla. Se non mi credi possiamo sempre fare
una prova, sempre che tu non la ritenga
“irrispettosa”...» tossicchiò
«Whis
pettegolo».
Beerus
diede una breve occhiata all’angelo -attorno al cui
braccio era ancora attorcigliata la sua coda-: nessuna reazione.
«Whis impiccione!»
sussurrò.
Ancora
nulla.
«Whis
invadente» mormorò Anise.
«Whis
ficcanaso».
«Whis
suocera».
Beerus
soffocò una risata. «Io dico che non ci ascolta,
su,
è impossibile che-»
«Whis
monello con Lulù, la mano che va su e
giù!»
“Casualmente”
Whis fece una frenata talmente brusca da far
capottare in avanti entrambi i giovani, con molteplici esclamazioni di
sorpresa
da parte di questi ultimi.
«Si può sapere che
stai combinando?!» sbottò Beerus
all’indirizzo dell’angelo, stringendo a
sé
Anise.
«Mi
era sembrato di veder passare la leggendaria Taco Cometa,
ma temo proprio di essermi sbagliato» sospirò
l’attendente, con aria falsamente
costernata «Chiedo umilmente venia».
«Avevi
ragione, ci ascoltava eccome» borbottò il dio,
tornando ad agganciarsi a Whis dopo avergli lanciato
un’occhiataccia.
«Te
lo avevo detto, io».
«Ancora
con queste accuse? Ho soltanto intravisto la Taco
Cometa. È un avvistamento più unico che raro,
sapete?»
«Come
no, come no! Ti credo proprio!» sbuffò Beerus
«Ripartiamo!»
Una
volta ripartiti, Anise tornò ad appoggiarsi contro
Beerus. «Volevo chiederti una cosa…»
«Non
so cosa tu stia per chiedermi ma immagino già che non
mi piacerà. Hai l’espressione da “tipregotiprego”»
disse Beerus, sollevando un sopracciglio inesistente.
«Mi
rendo conto che forse non è il momento migliore,
ma… tu
sai che oggi è il compleanno di mia sorella, vero?»
Proprio
come aveva immaginato: Anise aveva tirato fuori
proprio Calida, che per lui era uno degli argomenti peggiori.
«Me lo hai detto,
hai anche voluto comprarle un regalo in uno dei pianeti che ho
distrutto.
Quindi?...»
«Mi
piacerebbe portarglielo. Dovremmo arrivare sul pianeta
prima di mezzanotte, no? Andiamo un attimo a casa sua, le do il regalo
e
andiamo subito via. Sai bene quanto “amo” Ulthmeer,
ma la
casa di Calida non è nel cuore della cittadina, e comunque
non
ci tratterremmo
molto».
Il
primo istinto di Beerus fu quello di risponderle con un
“NO”. Calida non
gli piaceva, gli
abitanti di Ulthmeer non gli piacevano -non solo per la barbarie, ma
anche per
il ruolo che avevano avuto nella storia personale di Anise- e
c’era sempre
l’incubo, quello in cui Anise moriva; come avrebbe potuto
acconsentire a
portarla lì? Come le era passato per la mente di
chiederglielo?!
Aprì
la bocca per darle un secco rifiuto, per poi
richiuderla immediatamente: lui e Anise erano appena usciti da una
discussione,
motivo per cui forse non era il caso di rischiare di iniziarne
un'altra. Magari
era meglio parlarne, invece di limitarsi a un “no”.
«Immagino che tu ci tenga
molto».
«Ho
mancato il suo compleanno per due anni di fila, quindi
almeno in quest’occasione mi piacerebbe poterle fare gli
auguri il giorno
giusto».
«Non
mi piace molto l’idea di andare a Ulthmeer».
«A
causa degli incubi che hai avuto?» domandò Anise.
Beerus,
dopo un istante di immobilità, annuì.
«Principalmente».
«Ci
sono diversi aspetti del primo incubo che lo rendono
irrealizzabile, per non parlare del fatto che insieme a me ci saresti
tu. Non
credo che possa succedermi qualcosa finché sei con me, non
lo permetteresti,
saresti in grado di proteggermi da qualsiasi cosa» disse la
Lusan, con molta
convinzione.
«Di
questo puoi essere certa» affermò Beerus
«Sono
l’Hakaishin di questo Universo!»
«Allora
l’Hakaishin di questo Universo può vegliare su di
me nei pochi minuti che passeremo da mia sorella, giusto?»
«Fregato»
commentò Whis a voce bassa -ma non abbastanza da
non poter essere udito.
«Hai
qualcosa da dire, Whis?!» sbottò Beerus.
«Ritengo
che non ci sia nulla di male a fare un salto a
casa di Lady Calida. Si tratta di consegnare un regalo di compleanno,
sarebbe
una visita rapida e indolore» disse l’angelo.
«Strano
che tu sia dalla mia parte. Devo allarmarmi?»
«Non
vedo perché, Lady Anise. Penso solo che non esistano
motivi validi per non accontentarla, nient’altro».
«Andiamo
da tua sorella, le portiamo il regalo e torniamo
alla casa nel bosco» acconsentì infine Beerus, per
nulla entusiasta «“Rapido e
indolore”, come dice Whis. Non so tu, ma io ho un certo
bisogno di rilassarmi
un po’… con te».
Anise
annuì. «Faremo presto, non preoccuparti».
***
«“Le
cose sono migliorate”, mi dicevo. “Sto
meglio”, mi
ripetevo. Ero quasi arrivata a convincermene… eh! Volevi,
Calida! Volevi!» disse la
grande Lusan,
scuotendo la testa «Qui le cose vanno sempre
peggio».
Calida
era tornata nuovamente a far visita alla tomba di
Meskal, perché la sua beata illusione di un miglioramento
era brutalmente
svanita.
Da
dopo l’attacco che aveva portato alla distruzione di
Thandrumeer, Calida non aveva avuto più quella sorta di
“allucinazioni”
riguardanti Anise. Il suo cervello malato non aveva più
sostituito i volti
delle persone con quello della giovane, dunque Calida aveva veramente
creduto
che quel lungo periodo di peggioramento della sua sanità
mentale fosse finito.
Si
era sbagliata.
Sentì
i passi strascicati della creatura -che in realtà non
era presente- avvicinarsi a lei, sentì l’odore di
carne in putrefazione farsi
sempre più penetrante; senza voltarsi, vide la testa di
quella cosa che era identica ad
Anise -pur non
essendo veramente lei- staccarsi per metà
dall’esile collo e ciondolare,
trattenuta da pochi lembi di pelle e pelo. Subito dopo, quando la
creatura era
ormai a pochi centimetri da lei, quel che restava di un braccio coperto
di
muffa e di mosche cadde a terra con un flebile tonfo.
«Appunto.
Sempre peggio» borbottò Calida stringendo i pugni
«Almeno tu che sei morto, Meskal, puoi vederla?
Puoi?»
No,
non poteva vederla, certo che no: quell’orrido
spettacolo era riservato solo a lei, o meglio, lo sarebbe stato se
Calida si fosse
degnata di voltarsi a guardarlo direttamente.
«Che
domande faccio? Eri metaforicamente cieco anche quando
eri in vita, figurarsi ora che sei morto e con gli occhi
strappati».
“Guardami”.
Calida
strinse le labbra, riducendo la bocca a una sottile fessura.
Sarebbe
stato molto meglio se quel delirio fosse stato
almeno un delirio silenzioso.
“Guarda quel
che mi hai fatto”.
«Io
non ti ho fatto questo. Io non voglio fare questo!»
sibilò la Lusan.
“Guarda quel
che mi hai fatto. Mi hai uccisa”.
«Tu
non sei Anise, tu non esisti neanche, sei solo uno
stramaledetto parto del mio cervello malato»
ringhiò la donna «Non l’ho uccisa!
Non l’ho mai fatto, non voglio farlo, né mai lo
farò! Mi hai sentita?!»
“Allora
perché
non me lo dici in faccia? Guardami, Callie. Voltati e ripetilo
guardandomi
negli occhi!”
Calida
scosse la testa. «Lasciami in pace!»
esclamò, con
una nota di disperazione nella voce.
Dita
umide e appiccicose afferrarono il suo mento,
costringendola a voltarsi e a guardare negli occhi la
creatura… o meglio, nelle
orbite cave che un tempo avevano contenuto degli occhi.
“Vero, non puoi
guardarmi negli occhi, perché me li hai strappati”.
La
Lusan sentì improvvisamente qualcosa nella sua mano
destra, l’aprì: erano due bulbi oculari
dall’iride azzurro scuro.
Con
un grido che era un misto tra la rabbia, l'angoscia e
una richiesta d’aiuto a qualunque demone oscuro potesse
volerla ascoltare,
Calida strinse la mano destra in un pugno e lo abbatté
contro la creatura con
tutta la forza che possedeva.
Ovviamente
colpì solo aria, e la visione svanì; Calida
però
avrebbe potuto giurare che le avesse sorriso, labbra incurvate
all’insù che
erano la promessa di un ritorno, del rinnovo di quel tormento.
«Io
non voglio ucciderla, io non voglio farle del male»
mormorò, mentre delle lacrime scivolavano lungo le sue
guance «Non voglio farle
del male, non ho mai voluto questo…»
Strinse
la proprie testa tra le mani, gridando ancora.
Sapeva di essere tutt’altro che una brava persona, sapeva di
meritare del male,
avrebbe potuto sostenere qualsiasi cosa, ma non questa, non se aveva a
che fare
con Anise.
Non
se era lei a
rischiare.
Tirò
fuori il suo pugnale. Aveva perso da tempo il conto di
quanti Lusan aveva ucciso con quello, ma non era un dettaglio
di cui al
momento le importasse qualcosa.
Sollevò
la testa, poggiò la lama gelida e affilata del
coltello contro la morbida gola, e quando la sentì iniziare
a incidere la carne
rivolse gli occhi verdastri verso il cielo.
“Perché?”
si chiese “Perché non poteva restare tutto
com’era?”
I
ricordi iniziarono ad assalirla, uno dopo l’altro: la
notte in cui aveva trovato Anise -una notte con due lune piene, proprio
come
quella attuale- sulla riva del lago di Vynumeer, i giorni passati a
insegnarle
a parlare, la tenerezza che aveva provato nel vederla trotterellare in
giro
quando aveva appena imparato a camminare, i libri che avevano letto
insieme, le
nottate passate a Vynumeer e a rimettere in sesto la casa nel bosco.
All’improvviso
venne travolta da un ricordo in particolare:
lei e un’Anise bambina erano sedute sul prato accanto alla
loro vecchia casa, e
il sole stava tramontando.
“Guarda Callie,
ho fatto una torre di sassi!”
“Magari in
futuro diventerai una brava costruttrice. Tu e
le tue opere arriverete così in alto da poter salutare
faccia a faccia i nostri
dèi”.
La
cosa divertente era che in effetti Anise era riuscita
davvero a salutare un dio faccia a faccia, ed era piaciuta talmente
tanto al
suddetto che adesso aveva intenzione di portarsela via.
«MAI!» sbottò
Calida, rinunciando di colpo ai suoi intenti suicidi e lanciando via il
pugnale.
Cosa
stava facendo? Stava davvero per uccidersi? Aveva
veramente pensato di farla finita “solo” per colpa
della propria pazzia?! Non
se ne parlava. Non avrebbe mai permesso al suo cervello malato di
vincerla:
avrebbe tenuto tutto sotto controllo. Lo aveva fatto prima quando era
più
semplice, quindi sarebbe riuscita a farlo anche ora che era diventato
più
difficile.
«Ammettilo
che ci hai sperato, stronzo» disse guardando la
tomba di Meskal, cui rivolse perfino un gestaccio «Non
è ancora tempo di venire
a cavarti gli occhi anche nell’aldilà».
Alzò
gli occhi al cielo in maniera del tutto casuale, e fu
proprio per quel motivo che vide un fascio di luce bianca atterrare in
lontananza,
proprio al centro della città di Ulthmeer.
Aveva
visto quella luce due sole occasioni, ma aveva
imparato benissimo cosa significava.
“Perché
mai Lord Beerus e il suo assistente sono a
Ulthmeer?!” pensò, mentre si fasciava rapidamente
la gola ferita.
Qualcosa
le diceva che faceva meglio a dimenticare il fatto
di essere completamente pazza e a tornare rapidamente in
città.
***
«Whis,
guarda che la casa di Callie non è al centro della
cittadina, è in cima a quella porzione di terreno rialzato,
laggiù» disse
Anise, indicando suddetto edificio.
«Pardon, ho sbagliato punto d'atterraggio.
Possiamo approfittarne per fare una breve passeggiata, non trovate?
È una così bella serata…
c’è perfino qualche abitante ancora in
giro».
Qualche
gruppo di Lusan ubriachi ad aggirarsi nella piazza
c’era sempre, ma il loro arrivo aveva causato anche il
risveglio di coloro che
vivevano lì attorno ed erano già andati a
dormire, nonché la curiosità di chi
era semplicemente rientrato in casa e si preparava ad andare a letto.
«Orbene,
direi di dirigerci verso casa di mia sorella»
disse Anise, mostrando totale tranquillità.
Era
qualche anno che Anise non si faceva viva in città,
eppure sembrava che gli abitanti non avessero dimenticato la sua
faccia:
diversi dei Lusan che erano usciti dalle proprie case avevano
già iniziato a
mormorare tra loro, lanciandole occhiate ben poco incoraggianti.
Non
importava che alla fine le accuse per la morte di
Meskal fossero cadute su un gruppo di Lusan di un’altra
città non meglio nota,
Anise sapeva benissimo che se non la linciavano era solo e soltanto
perché era
la sorella della Ulthmeer a-ghekavary;
sinceramente però l’opinione di quella manica
d’invertebrati ignoranti,
profondamente stupidi e superstiziosi aveva smesso di contare da un
pezzo,
perfino da prima che lei si sposasse.
«Sicuramente
la troveremo ancora sveglia. Credo di non aver
mai visto Calida andare a dormire prima di mezzanotte e
mezza» continuò la
ragazza, stiracchiandosi.
«C’è
un’atmosfera un po’tesa, non trova, Lord Beerus?
Quando siamo venuti qui qualche anno fa era un
po’diversa» osservò Whis, col
classico atteggiamento da “gnorri” che in
realtà sapeva benissimo cosa stava
succedendo e perché, mentre abbandonavano la piazza.
Peccato
che anche Beerus si fosse accorto benissimo della
cosiddetta “atmosfera tesa”, e che si fosse fatto
anch’egli un’idea piuttosto
precisa di quale potesse esserne la causa: era provvisto sia di
un’ottima
vista, sia di orecchie che gli permettevano di sentire fin troppo bene
cosa
mormoravano le persone attorno a loro.
“Ecco
la matta della foresta”.
“Non
doveva essere morta da un pezzo?”
“Povera
Hogevor
Calida, dev’essere triste per lei pensare di aver cresciuto
quella cosa”.
“Quella
è maledetta come il villaggio che le piace tanto”.
“La
Lusan più inutile della valle, oltre che essere una
spostata è pure sterile. È buona solo per
scopare, quella lì”.
«Beerus,
non vieni con noi?» lo esortò Anise, vedendolo
fermarsi di colpo.
Quando
l’Hakaishin iniziò a irradiare un’aura
viola
brillante e ad alzarsi lentamente in volo, solo quel tanto che bastava
per
arrivare a un’altezza in cui tutti potessero vederlo bene,
Anise capì che le
cose si stavano mettendo decisamente male.
«Ohibò,
temo che qualcosa o qualcuno qui abbia fatto
arrabbiare Lord Beerus. Forse la mia scelta di atterrare proprio qui al
centro
della città è stata un po’azzardata, ho
pensato solo a me stesso e alla mia
voglia di passeggiare… ma chi mai avrebbe potuto immaginare
che avrebbe dato
peso a certi mormorii?» sospirò l’angelo
«Soprattutto visto che a lei per prima
non importa».
Anise
guardò Beerus, poi Whis, e maledisse sia
quest’ultimo
che se stessa: ormai avrebbe dovuto sapere benissimo che
quell’angelo non
faceva mai niente per caso, niente.
«Beerus!...lascia
per-»
«No,
non lascio perdere affatto! ASCOLTATEMI!»
urlò il dio, con tanta forza da richiamare anche
l’attenzione di tutti gli abitanti che non avevano ancora
fatto caso alla sua
presenza «ISETS' INDZ!»
«Io
non gli ho insegnato quella parola» si stupì Anise.
«Da
qualche tempo Lord Beerus ha voluto aggiungere al resto
dei suoi studi anche quello della lingua dei Lusan, Lady
Anise» le rivelò Whis
«Voleva impararla per amor suo. È arrivato a un
buon livello».
«Ho
un paio di cose da dirvi» continuò Beerus,
cercando di
contenere la rabbia e il potere che pulsavano nelle sue vene in modo da
non
distruggere la città, o tutto il pianeta «E lo
farò nella vostra lingua, in
modo che anche il più stupido in questa orrenda
città di sudicie bestie
selvagge mi capisca…»
Quel
giorno Beerus era già nervoso per fatti propri, cosa
che se possibile lo rendeva ancor più suscettibile e
pericoloso del solito, ma
sentire chicchessia parlare di Anise nel modo in cui
l’avevano fatto quelle
linci gli avrebbe mandato il sangue alla testa a prescindere.
Erano
le persone che non avevano mai accolto quella
meraviglia di ragazza come avrebbero dovuto, erano le persone che
l’avevano
accusata di un omicidio che non poteva aver commesso, le stesse persone
per
colpa delle quali Anise viveva nella foresta -seppur piuttosto
felicemente- e
che, non paghe di tutto ciò, avevano l’ardire di
continuare a sparlarne e
guardarla storto.
Non
era qualcosa che Beerus potesse o volesse tollerare.
«Is
Lusan, Anise, tha e ym mhac, Hakaishin mahc. Viravorel Anise lachad
viravorel indz. Dìomhaire Anise lachiad dìomhaire
indz. Nà-bi thoirt diomhaire
Anise aylevs! AYLEVS!»
urlò
Beerus, in un tal modo che gli abitanti della
città presenti si strinsero gli uni agli altri come bambini
spauriti.
“Questa
Lusan, Anise, è la mia compagna, la compagna
dell'Hakaishin. Insultare Anise significa insultare me. Mancare di
rispetto ad
Anise significa mancare di rispetto a me. Non osate mancarle di
rispetto mai
più! MAI PIÙ!”
Che
fosse perché Anise non sapeva se allarmarsi enormemente
per l’espandersi di quell’aura di distruzione o
“commuoversi” per la strenua
difesa da parte di Beerus, o che fosse per la semplice sorpresa di
averlo sentito
parlare così bene la sua lingua, sta di fatto che la giovane
non riuscì a dire
una parola, né a fare qualcosa di diverso da fissare
impietrita il suo
compagno, che sembrava non aver ancora finito.
«Altrimenti…»
proseguì infatti Beerus, sollevando lentamente
una mano per poi puntare il dito contro una delle due lune.
«BEERUS! Hanno
afferrato il concetto!» gridò
Anise, che avendo intuito cosa lui aveva in mente di fare si era
riscossa dallo
stato di stupore in cui si trovava «Non
c’è bisogno, hanno capito! Beerus,
per favore, ascoltami!»
Anise
avrebbe potuto urlare fino a far esplodere i polmoni,
ma lui non l’avrebbe ascoltata in ogni caso: aveva deciso che
c’era bisogno di
essere “incisivo”, e nulla gli avrebbe fatto
cambiare idea.
Il
dio, continuando a guardare con aria assassina i Lusan
spaventati, sollevò due dita. «Hakai».
La
luna precedentemente indicata da Beerus venne avvolta da
un bagliore viola identico a quello che illuminava lo stesso Beerus,
poi iniziò
a disgregarsi rapidamente sotto gli occhi di tutti.
D’ora
in avanti le notti sul pianeta dei Lusan sarebbero
state molto più buie.
«Spero
di essere stato sufficientemente chiaro, e sappiate
che se non vi ho ancora distrutti dovete ringraziare solo Anise, troppo
buona
per volervi tutti morti come dovreste essere! Se fosse stato per me vi
avrei
spazzati via già da un pezzo, voi e l’intera
Ulthmeer, nonché tutte le altre
città in questa stramaledetta valle di pazzi bastardi
sanguinari! Avete
capito?! Vi avrei fatti fuori tutti! TUTTI!
Se avete dubbi su questo, guardate il cielo!»
Anise
si coprì il viso con una mano, resasi conto che le
cose erano sfuggite completamente dal suo controllo. Aveva apprezzato
che
Beerus avesse preso le sue difese -anche se a lei ormai dei mormorii di
Ulthmeer non importava più da un pezzo- e sapeva che
l’aveva fatto con le
migliori intenzioni del mondo… peccato che, ancora una
volta, il suo compagno
aveva dimostrato quanto non le desse minimamente ascolto.
«Tu
lo immaginavi, vero Whis? È per questo che sei
atterrato in piazza» disse piano la Lusan «Tu
immaginavi che sarebbe successa
una cosa del genere e che Beerus, come ultimamente fa spesso, non mi
avrebbe
ascoltata affatto, per quanto potessi pregarlo. O quantomeno speravi
proprio in
uno scenario del genere».
Whis
fece spallucce. «Io volevo solo passeggiare. Non è
colpa mia se Lord Beerus ha un carattere
“infiammabile”, e tantomeno del fatto
che non la ascolti più».
«Davachanut’yun yem!»
sibilò Anise, che nonostante la
sua “civiltà” stavolta non era proprio
riuscita a trattenersi da mandarlo a
quel paese -con parole un po’più forti.
L’attendente
sollevò le sopracciglia. «Ohibò, che
volgarità!»
«Questo
non migliora la tua posizione, sai? Ora oltre alla
“tizia strana probabile assassina dell’ex capo
della città” sei anche “quella
che ha attirato su questo pianeta le ire
dell’Hakaishin”».
Anise
si voltò, trovandosi davanti Calida, arrivata
chissà
quando. «Non sono io quella che lo ha fatto arrabbiare,
né gli ho detto io di
distruggere una delle nostre lune. Io a dire il vero gli ho detto di
non farlo!»
«L’ho
notato» replicò Calida «E ho anche
notato che non ti ha
dato retta. Buonasera, signor Whis».
«Buonasera
e buon compleanno, Lady Calida. Cercavamo
proprio lei, Lady Anise ha voluto portarle un regalo» disse
l’angelo, facendosi
comparire in mano un pacchetto infiocchettato «Ecco
qui».
«Ecco,
sì: la colpa di tutto questo in realtà
è proprio
tua!» esclamò Beerus, rivolto a Calida, mentre
atterrava «Fosse stato per me
non avrei mai permesso ad Anise di mettere piede in questo posto
orrendo».
«Mia
sorella non ha bisogno di chiedere permessi a
chicchessia. Se non le piace la mia città, Lord Beerus,
può sempre andare da
qualsiasi altra parte del pianeta» ribatté la
grande Lusan «O dalla parte
opposta di questo Universo, che sarebbe perfino meglio».
«Come osi-»
«Fatela
finita!» sbottò Anise, mettendosi tra i due
«Calida,
ti faccio i miei auguri di buon compleanno» disse, prendendo
il regalo dalle
mani di Whis per appiopparlo a Calida «Beerus, noi ora
andiamo a casa. Abbiamo tante cose
di cui discutere» aggiunse,
abbassando la voce.
«Sì,
è meglio che andiamo via, o finirò a distruggere
anche
qualcos’altro oltre alla luna!» sbottò
Beerus.
Non
poteva ancora sapere che i suoi progetti per la serata,
ossia di rilassarsi insieme ad Anise davanti al camino leggendo
fumetti, erano
miseramente andati distrutti insieme alla luna che, sordo ai richiami
della sua
compagna, aveva scelto di disintegrare.
Non
pensavo di riuscire ad aggiornare, stavolta, invece
sono riuscita a scrivere quel che volevo scrivere nei tempi previsti.
Ringrazio
tutti per il sostegno e lascio a voi eventuali commenti…
nonché un disegno che
si riferisce alla parte di capitolo in cui Calida ricorda momenti
decisamente
più SAVI felici.
Sì, mi
rendo conto che ha tante cose che non vanno, ma del resto non disegno
per mestiere, sono solo una povera donna che prova a usare
Mypaint :"D
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Capitolo 19 *** 19 ***
RMIcap19
19
«Sai che
io non ho talento per i videogiochi, Beerus, quindi
non puoi prendertela con me per aver perso. Gatto avvisato, mezzo
salvato».
«Mezzo
salvato un corno, Anise! Io contavo seriamente di
riuscire a vincere contro il boss finale, questa volta,
perché giocavamo in due!
Invece no! Dovevi proprio distrarti
a
guardare la montagnola di uova aliene perché
“Sembrano le mie perline di vetro”!»
esclamò il dio, imitando la voce della sua ragazza
« Non solo non sei brava con i
videogiochi, non ci provi neppure! Ho perso per colpa tua e delle tue
stupide
fissazioni!»
«Io
però te lo avevo detto, che non volevo giocare a quel
tuo videogioco. Se poi tu non mi dai retta e continui a insistere
prendendo le
persone per sfinimento non è colpa mia. Comunque, per quanto
la mia fissazione
per le perline di vetro possa essere stupida, non è mai
stupida quanto qualcuno
che si arrabbia per una sconfitta che era già
annunciata».
«Mi hai dato dello
stupido?!» si infuriò Beerus.
«Tu non
sarai stupido ma il tuo comportamento lo è
senz’altro. Nonché infantile».
In solo qualche mese
-mancava solo una settimana al
ventesimo compleanno dei gemelli- la relazione tra Anise e Beerus era
passata
da essere prospera e armoniosa a litigiosa e quasi stagnante. Ormai
c’era un battibecco
un giorno sì e due no, senza che servisse chissà
quale “tragedia” per
scatenarne uno.
«Io
sarò infantile ma quantomeno non sono un fissato, tu
invece con questa faccenda delle perline hai veramente rotto le
scatole!
Perline, perline e perline! Ormai
me
le sogno di notte, quelle stramaledette perline!»
sbottò l’Hakaishin «Le hai
messe perfino nella nostra camera da letto!»
«Sì,
forse è stato un errore, perché sembra proprio
che
qualcuna di esse ti sia entrata nelle orecchie e abbia raggiunto il
cervello
causando danni piuttosto rilevanti, motivo per cui non vale
più la pena stare
ad ascoltare il tuo ennesimo sproloquio» concluse Anise
«In realtà non valeva
la pena neanche all’inizio, perché immaginavo come
sarebbe finita, ma sono una
persona educata».
Il dio, con un
ringhio rabbioso, tirò un pugno contro una
parete, penetrandola come se fosse stata fatta di burro.
Odiava quella
situazione, la odiava con ogni fibra del proprio essere e avrebbe solo
desiderato che tornasse tutto magicamente a posto… ma quello
non sembrava
proprio il momento adatto perché tale miracolo potesse
accadere.
Non capiva come
avessero fatto lui e Anise ad arrivare a
quel punto, sapeva solo che improvvisamente c’era spesso un
“qualcosa” che lo
portava a dare inizio a discussioni inutili e sterili sul nulla: che
fosse una
parola sbagliata di Anise o un suo atteggiamento, fino ad arrivare
addirittura
a cose come quella delle perline, che non l’avevano mai
infastidito fino a quel
momento, né lo infastidivano per
davvero tuttora.
Non sapeva
perché avesse tirato fuori l’argomento, non
sapeva perché l’avesse attaccata anche su quello,
non sapeva neppure perché
l’avesse attaccata in generale: non era la prima volta che
Anise dimostrava la
sua scarsa abilità con i videogames -ed effettivamente lei
gli aveva ricordato
di non essere brava anche quando l’aveva invitata a giocare-
ma lui non se
l’era mai presa in quel modo.
«La tua
non è educazione, è una falsissima patina di
“civiltà” che serve a far passare me per
il cattivo della situazione! Ecco cosa
è!» ribatté Beerus.
«Non ho
bisogno di “patine” di alcun genere, Beerus, tu
riesci a passare per il cattivo della situazione anche senza il mio
aiuto».
Sicuramente, poi,
quelle frecciate non aiutavano a farlo
“sbollire”.
Prima Anise non
gliene aveva mai rivolte, neppure quando le discussioni si facevano
più accesse, ora invece sembrava avere un po’meno
remore; così, ecco che ogni
tanto partivano frecciate lanciate con una calma abissale, a volte
seguite da
silenzi altrettanto abissali, tutto sempre attraversato da una vena di
freddezza che lui, eccetto quando erano a letto insieme -che fosse per
dormire
o per altro- ormai avvertiva sempre e comunque.
«Dunque
è così, sarei IO
il cattivo! Certo, sicuro, come no! Io sono il cattivo Hakaishin Beerus
mentre
tu sei santa Anise, che sempre tanto gentile e tanto onesta
pare!» sbottò il
ragazzo.
«Ti rendi
conto che tutto questo è iniziato per colpa di un
videogioco, Beerus?»
«Sempre
posata e tranquilla, lei! » continuò lui,
imperterrito «Santa Anise che non perde mai la calma! Santa
Anise che è sempre pseudo ragionevole!»
«Una di
noi due deve pur esserlo» replicò la Lusan
«Rimpiango i tempi, invero neppure lontani, in cui lo eri
anche tu. Ti invito a
calmarti, Beerus».
Ecco, per
l’appunto: quella freddezza che lui, con sommo
dolore, tanta inquietudine e un po’di paura, a volte finiva
persino a
interpretare come una generale diminuzione di interesse di Anise nei
confronti
suoi e della loro relazione.
Era un Hakaishin e
non temeva niente, se non una cosa: perderla,
in qualunque senso. Il problema era che se le cose fossero continuate
così, se lui avesse
continuato a comportarsi in
quel modo, se lei avesse
continuato a
mostrare quell’
“impassibilità”, allora…
allora, forse…
“NO!” pensò,
impietrito alla sola idea “È solo un periodo
strano, sta andando per le lunghe
ma si tratta di questo e nient’altro! Passerà,
dobbiamo solo cercare di restare
insieme, passerà. Lei è la mia compagna, non
possiamo perderci! Però quando fa
così…”
«Anise, io
a volte mi chiedo se ti importa ancora per
davvero oppure no» borbottò, senza guardarla.
«Che
domanda è?»
«Lecita».
«Non sono
io quella dei due che ha dato addosso all’altro»
replicò Anise «Riconosco che potevo evitare di
farmi distrarre, ma non esiste
che te la prenda con me in quel modo per un videogioco, per quanto
competitivo
tu possa essere. Sai che faccio pena con quelle cose. Dovrei essere io
a
domandarmi se ti importa ancora per davvero o se ormai mi tieni con te
solo e
soltanto perché…» esitò
«Provi gusto a farmi scontare quel giuramento
mancato».
«COSA?! Tu pensi
davvero questo?!» allibì Beerus, con sguardo
ferito «No, Anise! No! No, ti
giuro io… io non vorrei “farti scontare”
nulla, per me non è cambiato niente,
io… non so cosa diamine sto facendo. Cosa stiamo
facendo. Non so neppure io perché finiamo a litigare
così, so solo che vorrei
tanto che queste discussioni cessassero, e che tu non fossi
più così-»
«“Così”
come?»
«Fredda.
Soprattutto da dopo quella sera a Ulthmeer. Ti
rendi conto che ora quando viaggiamo qui e là
nell’Universo tu stai sempre a
braccetto con Whis?!»
«Avremmo
dovuto farlo da prima: così facendo la tua coda
non deve più passare ore attorcigliata attorno al braccio di
Whis, Whis non
deve più viaggiare con una specie di grosso laccio
emostatico viola attorno al
braccio, io sto comoda e le tue gambe non devono più
sostenere il mio peso».
«Alle mie
gambe però piaceva sostenerlo, Anise. Mi piaceva
tanto».
La lince si
passò una mano sul viso. «Perché
dev’essere
così?» mormorò, con aria stanca e
triste «Perché inizi una discussione e due
minuti dopo te ne esci con cose come questa?»
Beerus, con aria
altrettanto triste e stanca, si mise
seduto accanto a lei. «Non lo so. Mi sembra di star
diventando matto. Io so
solo che tutta questa situazione mi innervosisce perché
vorrei che fosse tutto
diverso, solo che non riesco a cambiare le cose e mi innervosisco
ancora di
più, poi ti vedo così fredda e-»
«Ti
innervosisci ulteriormente» completò Anise.
«Io non
vorrei essere così teso e nervoso, io non vorrei
litigare, io non vorrei niente di tutto
questo!»
Anise avrebbe voluto
rispondere a Beerus con un “Allora fai
pace col cervello”, sarebbe stato anche comprensibile, eppure
non lo fece,
perché purtroppo capiva cosa significava desiderare di
comportarsi in un modo e
finire ad agire in maniera quasi opposta.
Pur non
giustificando l’atteggiamento del suo compagno,
riconosceva che a lei stessa stava capitando qualcosa di simile.
Lei non avrebbe
voluto essere fredda nei confronti di
Beerus, né avrebbe voluto trovarsi a lanciargli frecciatine:
avrebbe preferito
di gran lunga stringerlo tra le braccia, accarezzarlo e dirgli che era
tutto a
posto, che andava tutto bene, che lo amava, che erano insieme e che
sempre lo
sarebbero rimasti.
“Per me non è
cambiato niente”, diceva lui, ma valeva anche
per Anise. Continuava ad amarlo come il giorno in cui si era chiesta
chi fosse
il cretino che vagava nella foresta urlando
“cannella”, se non di più…
peccato
che non fosse più in grado di dimostrarlo -o che comunque
non lo fosse al
momento- e che di certo il doversi sempre calare nei panni di
“quella
ragionevole” non l’aiutava.
Non urlava, non
distruggeva mondi e non piangeva neppure,
ma non significava che stesse bene. Avere tanto da dare al suo compagno
e non
riuscirci era qualcosa che le spezzava il cuore.
«Credi
davvero che ogni tanto non abbia voglia di mettermi
a urlare anche io per le tue stesse ragioni, o che tutta questa
situazione mi
faccia piacere? A volte anche io vorrei mettermi a spaccare la parete a
suon di
pugni, anche a me a volte sembra di star diventando pazza
perché non riesco a
mettere in linea quel che provo, i miei pensieri e le mie azioni.
Confrontare
come siamo ora a com’eravamo solo fino a pochi mesi fa
è doloroso, per me»
disse la ragazza, con gli occhi lucidi «Potrei continuare
dicendo “Non puoi
capire quanto”, se non fossi sicura che invece per te
è esattamente lo stesso».
Beerus, incapace di
dire alcunché, annuì.
«Per
l’ultima volta…» la Lusan prese il viso
del compagno
tra le mani «Te lo chiedo per l’ultima volta e se
non mi risponderai non me lo
sentirai dire mai più: qual è la causa principale
di tutto questo? Da dove
viene tutto questo malanimo, se non è dovuto in modo
specifico alla mia richiesta
di ulteriore tempo? A quali dubbi non trovi risposta? Io voglio solo
aiutarti,
lo capisci o no?!»
Rimasero in silenzio
per quasi un minuto, prima che lui si
decidesse a parlare.
«È
solo un brutto periodo che si sta allungando più del
dovuto. Non c’è niente in cui tu possa
aiutarmi…»
Anise scosse la
testa, con un sorriso amaro, poggiando le
mani contro il petto del dio. I suoi futili tentativi, proprio
perché tali,
erano caduti nel vuoto ancora una volta: l’ultima.
«Non
c’è niente che possiamo fare»
continuò Beerus
«Dobbiamo solo aspettare che passi. Passerà. Se
rimaniamo insieme passerà».
«A questo
punto non posso far altro se non pregare che tu
abbia ragione, perché nel caso passi da sé, senza
un minimo d’impegno da parte
di tutti e due, dovremo gridare al miracolo».
«Non
“se”» la corresse il giovane
«Di’ “quando”. Io mi
impegno a crederci!»
Lo aveva detto con
tale convinzione che Anise capì quanto
lui fosse effettivamente sicuro del fatto che prima o poi restando
insieme sarebbe
passato tutto, vedeva quanto il suo compagno si stesse aggrappando a
quella
speranza con le unghie con i denti; sarebbe stato meglio se avesse
usato quella
determinazione per fare qualcosa di più concreto,
pensò perfino di farglielo
notare, per poi chiedersi “A che pro?”
Non
l’avrebbe ascoltata e, vista la sua decisione di
“crederci” e basta, sarebbe stato inutile da parte
di Anise fare qualcosa più
che “crederci” a sua volta; ci aveva già
provato e aveva capito che non poteva
risolvere alcunché da sola.
Di una cosa
però era sicura: non voleva perdere Beerus.
Nonostante i loro problemi attuali, nonostante le discussioni, le
incomprensioni e le tensioni, se pensava a una vita senza Beerus la
vedeva ben
peggiore di tutto quel che stavano passando.
«Non so se
conosci il detto di noi Lusan su come muoiono
coloro che vivono sperando. Io ci proverò, però
non so se posso riuscire
davvero a “crederci” e basta».
«Se tu
dovessi avere difficoltà, ci crederò io per tutti
e
due».
Anche nel caso in
cui Anise avesse voluto rispondere non
avrebbe fatto in tempo, perché un intruso fece il suo
rumoroso ingresso in
sala.
«STAVATE PARLANDO DI
MEEEEE?» esordì Champa.
«Che
diamine ci fai qui?!» sbuffò Beerus, contrariato
perché suo fratello era arrivato nel momento sbagliato. Non
che ce ne fosse uno
“giusto”, ma quel momento era ancor meno opportuno
del solito.
«Come
sarebbe a dire “che diamine” ci faccio qui?
C’è la
caccia al tesoro! Quella con in premio la montagna di
praline!» gli ricordò
Champa «Te ne eri davvero dimenticato?»
In verità
sia Beerus che Anise si erano dimenticati della
caccia al tesoro in programma per quel giorno, avevano
tutt’altro per la testa
e, nel caso di Beerus, anche zero voglia di partecipare a quel gioco.
Il premio
per l’eventuale vittoria sarebbero state le sue amate
praline, ma era talmente
nervoso che non sarebbe riuscito a godersele.
«Io
sì, me ne ero completamente dimenticata» ammise la
ragazza «Però non è un problema,
possiamo cominciare appena sarà tutto pronto».
«Io non ho
voglia» disse Beerus.
«Come
sarebbe? Non puoi “non avere
voglia”!» protestò
l’Hakaishin
del sesto Universo «Era in programma da una
settimana e mi
sembravi piuttosto entusiasta all’idea! Che ti
prende?!»
«Una
settimana fa è una settimana fa, oggi è oggi.
Giocate
tu e Anise, se l’idea vi piace tanto».
«Fammi capire: ho
fatto un viaggio di quattro ore per
nulla?!»
L’idea di giocare con Anise non gli dispiaceva,
però non
era tra loro due che c’era rivalità, non era lei
che voleva sfidare e cercare
di battere, cosa che Beerus avrebbe dovuto sapere benissimo.
Si poteva dire che
Champa vedesse quel rifiuto di giocare come poco meno di un tradimento
o come
l’ennesimo modo di “rifiutarlo”.
Beerus incrociò
le braccia davanti al petto. «Ti ricordo
che questa stupida caccia al tesoro è stata una tua idea, di certo non mia. Dovresti
sapere benissimo che meno ti
vedo, meglio sto».
«AH, È COSÌ?!»
sì arrabbiò Champa, nel vedere che i suoi
pensieri stavano trovando conferma.
«Esattamente!»
annuì l’altro.
«Beerus!»
esclamò Anise, con tono di rimprovero.
«Cosa?!
È la pura verità, come dovresti sapere benissimo:
se ho accettato di vederlo più spesso è solo e
soltanto perché tu trovi
piacevole la compagnia di questo grassone babbeo»
rincarò la dose Beerus «Per
qualche ragione a me ignota!»
«A
CHI HAI DATO
DEL GRASSONE BABBEO?!»
«A
TE!»
«Litigare
non serve a niente! Basta!» esclamò la Lusan,
mettendosi tra i due.
«Guarda
che io non sto facendo niente, ero soltanto venuto
qui per divertirmi con la caccia al tesoro, è lui quello che
ha iniziato a
insultarmi!» si difese Champa, indicando Beerus «La
colpa è sua! Mai che riesca
a essere gentile con me, anche se siamo fratelli!»
«Più
che un fratello tu sei un impiccio!» ribatté
Beerus
«Un grosso e grasso impiccio di nome Champa! Lo eri quando
avevamo quattro anni
e lo sei adesso!»
Per qualche attimo
calò un silenzio pesantissimo, in cui
Anise -ancora incredula per quel che aveva sentito dire al suo
compagno- si
chiese come le cose avessero potuto degenerare tanto in maniera
così rapida.
«E tu eri uno stronzo
allora come lo sei adesso!» gridò
Champa, ferito e imbestialito, stringendo i
pugni.
«Questo
“stronzo” forse
AVREBBE FATTO MEGLIO A LASCIARTI LÌ A CREPARE!»
urlò a sua volta Beerus
«Tanto sei utile solo a consumare l’aria!»
«Vuoi
farla finita sì o no?!» sbottò infine
Anise, ormai
incapace di trattenersi «Ti rendi conto della
gravità di quello che stai
dicendo?! È tuo fratello! Non ha fatto niente di male, non
ti ha nemmeno
provocato, non puoi prendertela con lui in questo modo solo
perché sei nervoso
per fatti tuoi!»
Ecco la ciliegina
sulla torta, come se la tensione tra loro
non fosse stata sufficiente ecco che Anise
si intrometteva nelle sue faccende con Champa, stando
dalla parte di
quest’ultimo, per di più.
«Certo, non sia
mai che tu mi dia ragione, perché mai
dovresti farlo? In fin dei conti sei “solo” la mia
compagna! Il rapporto tra me
e Champa non ti riguarda, se proprio vuoi metterti in mezzo almeno
fallo stando
dalla mia parte!»
Lui aveva soltanto detto di non avere voglia di fare quella
benedetta caccia al tesoro, non era forse legittimo? Era assurdo che
fosse
partito tutto da quello! Sembrava quasi che Anise lo facesse apposta,
che gli
desse contro di proposito anche se aveva detto che non aveva affatto
intenzione
di farlo passare per il “cattivo”, e il fatto che
fosse coinvolto anche Champa
peggiorava ulteriormente la situazione.
«Il fatto che sia
la tua compagna non significa che debba
appoggiarti anche quando sbagli» replicò la lince
«E tu stai facendo un errore
dietro l’altro».
«Oh,
“sto facendo un errore dietro l’altro”,
allora magari
adesso tirerai di nuovo in ballo la faccenda della luna, già
che ci siamo!
Rinfacciami un’altra volta quanto sono stato impulsivo e
irragionevole, dai!
Tanto qualunque cosa faccia non va più bene,
indipendentemente da quali sono i
motivi delle mie azioni, è tutto “un errore dietro
l’altro”, lo è anche quando
lo faccio per difendere te, razza
d’ingrata!»
«Non ti
azzardare a parlarle in quel modo» gli intimò
Champa, avvicinandosi a lui dopo aver fatto spostare Anise «Non ti azzardare».
«Primo: le
tue minacce sono ridicole, perché sono ben più
forte di te» disse Beerus, freddo, avvicinandosi a sua volta
«Secondo: non sono
affari tuoi. Terzo-».
«Terzo: se
continui così finirai per rimanere solo» lo
interruppe Champa «Perché uno stronzo come te, che
non è in grado di tenersi
strette neppure quelle poche persone che nonostante tutto riescono a
volergli
bene, non merita altro che questo! Nient’altro!
Mi hai capit-»
Champa non
riuscì a finire la frase, perché Beerus lo
colpì
dritto in faccia con un pugno, mandandolo a sbattere contro la parete
opposta.
«Questo
era per l’opinione non richiesta. Adesso raccatta i
cocci di quel poco di orgoglio da divinità che possiedi e
vattene» ingiunse
l’Hakaishin del settimo Universo al gemello, indicando la
porta «Non voglio più
vedere quel tuo faccione, mi sono spiegato?! Né qui,
né in casa della mia Iarim
Neiē. Non dovrai avvicinarti a lei mai più! MAI!
Hai capito?!»
«La Iarim
Neiē apre la porta di casa propria a chi vuole,
motivo per cui tuo fratello sarà sempre il
benvenuto» lo contraddisse Anise, gelida,
avvicinandosi a Champa «Io sono una persona estremamente
paziente e piuttosto
civile, il che è una delle ragioni per cui sopporto queste
tue “intemperanze”,
ma ti avverto che ti stai avvicinando pericolosamente al limite. Invece
di
limitarti a “crederci” -sai di cosa parlo- cerca di
rimettere in ordine le idee
e tornare a comportarti come il Beerus di cui sono diventata la Iarim
Neiē,
perché in momenti come questo ho l’impressione di
avere a che fare con un clone
fatto malissimo».
«No…»
bofonchiò Champa, rialzandosi da terra «Purtroppo
è
quello vero».
«Cos’è,
non vuoi tentare di rendermi il colpo?» lo
punzecchiò Beerus, come se non avesse neppure sentito le
parole di Anise
«Andiamo, gemello beta, cosa stai aspettando? Hai paura,
Champone?»
«BRUTTO-»
«Champa,
per favore, chiama Vados e andiamocene via di qui»
disse la Lusan, riuscendo miracolosamente a bloccare Champa prima che
saltasse
addosso a Beerus «Prima che questa sua sottospecie di follia
mi contagi e
finisca a dirgli cose poco carine».
Champa
annuì, capendo che Anise aveva ragione.
«Vados!»
gridò.
L’angelo
apparì immediatamente al suo fianco. «Possiamo
iniziare la caccia al tesoro, Lord Champa, è tutto
pronto».
«Niente
caccia al tesoro, ce ne andiamo. Tutti e tre»
aggiunse il dio, indicando Anise.
«In
fretta, magari» mormorò la ragazza.
“Sembra
che i guai tra i due innamorati si stiano moltiplicando.
Immagino che questo farà la gioia di Whis”
pensò Vados.
«Vorresti
andartene?! Con
lui?! AH! Questo è un tradimento bello e buono,
niente di più e niente di
meno! Anise, tu sei la mia Iarim Neiē» le ricordò
Beerus, indicandosi «La mia, non la sua! Ti è
chiaro sì o no?!»
«Mi
è perfettamente chiaro, non ti preoccupare. Ti
farò
sapere quando sarò pronta ad accettare le tue
scuse» disse Anise «Prima di quel
momento evita di presentarti davanti a me per qualsiasi motivo,
perché non ti
degnerei della minima considerazione. Io sono la Iarim Neiē di Beerus,
non la
proprietà dell’Hakaishin del settimo Universo:
ricordatelo, quando parleremo di
nuovo».
Non attesero
un’eventuale risposta di Beerus, preferendo
abbandonare la stanza e, in seguito, il pianeta.
«Va bene! ANDATE!»
urlò Beerus, pur sapendo che non potevano sentirlo
«Andatevene pure! Tornerete
da me strisciando!»
“Se non
fosse che probabilmente finirà col diventare matto
quando si renderà conto di aver commesso e detto una lunga
serie di
stupidaggini -nonché del fatto che nessuno dei due
tornerà strisciando- e che
purtroppo toccherà a me sopportare le sue paturnie e i suoi
disagi, potrei
quasi dirmi contento di vedere i due innamorati sempre più
divisi” sospirò Whis,
che ovviamente aveva spiato tutta la discussione, entrando nella stanza
dove si
trovava Beerus. «Mi è sembrato di sentire
grida-»
«…
S-T-R-I-S-C-I-A-N-D-O!»
«Oh,
allora avevo sentito bene» commentò Whis,
calmissimo
«Devo dedurre che Lady Anise sia andata via con Lord
Champa?»
«Si sono
alleati contro di me! Anise ce l’ha con me di suo,
mentre Champa sfrutta questa cosa per farle pena col suo essere un
brutto
ciccione inutile e idiota, mettendomela contro! Le cose vanno
già abbastanza
male, come faccio a risolverle se ci si mette di mezzo anche quella
carogna
infame?! Sapevo che dovevo lasciarlo morire quand’era
bambino! Lo sapevo!»
«Lord
Beerus, mi permetta di farle notare che quel che sta
dicendo di suo fratello non è affatto carino. Non
è colpa di Lord Champa se
Lady Anise ultimamente è meno, come dire… meno
comprensiva e affettuosa, forse?» disse
l’angelo, con aria pensierosa «O qualcosa di
simile».
«Sono
talmente arrabbiato che non so cosa fare, Whis!
Vorrei mettermi a dormire ma sono troppo nervoso per prendere sonno,
vorrei
mangiare ma ho lo stomaco chiuso, vorrei distruggere pianeti ma non ho
voglia
di andare in giro, non so cosa fare,
so solo che se non mi sfogo probabilmente finirò a
distruggere il palazzo senza
volerlo! Ecco!... che rabbia mi fanno, quei due!» aggiunse,
quasi ringhiando.
«Sa cosa
potremmo fare? Potremmo allenarci. La rabbia che
prova potrebbe essere utilizzata per diventare più forte,
Lord Beerus» propose
Whis.
«Eh, buona
idea!» approvò il dio «Almeno quando
rivedrò
quel gattaccio lardoso col cervello bacato potrò dargli un
pugno un faccia
ancora più forte!»
«Al di
là delle intenzioni, per me l’importante
è che si
alleni. Al di là del periodo teso, sono convinto che se Lady
Anise la vedrà
diventare ancora più forte e la vedrà
agire con più “polso”
riacquisirà la
stima che in parte ha perduto».
«Dici che
è per questo che ha chiesto tempo?» gli
domandò
Beerus, con lo sguardo improvvisamente triste e confuso
«Pensi che
lei mi trovi ancora "poco forte" in più di un senso e, di
conseguenza, mi ritenga ancora troppo immaturo
per potersi sentire “a posto” come mia
Neiē?»
“L’immaturità
c’entra, ma non nel senso in cui la intendi
tu” pensò l’attendente.
«Forse. Le ricordo che Lady Anise ha avuto un marito
molto più vecchio di lei, con la reputazione di ottimo
guerriero, nonché capo
di una città. Ovviamente tutto questo è ben poca
cosa rispetto al suo status di
divinità, Lord Beerus, ma chissà cosa passa per
la testa di quell’adorabile
ragazza!»
«Va’
a capirlo» borbottò l’Hakaishin,
mettendosi a sedere sul pavimento.
«Allora...» disse Whis dopo
qualche istante di silenzio «La ragionevolezza di Lady
Anise nel rifiutare la sua
proposta brucia ancora»
«Io non ce
l’ho con lei per aver chiesto dell’altro tempo, io
in realtà ce l’ho con me stesso» si
indicò «Perché evidentemente non riesco
a darle
quello che vuole davvero -di qualunque cosa si tratti- e sia il fatto
di non
essere abbastanza, sia quello di non capire dove ho sbagliato, mi
stanno
facendo… non lo so, non lo capisco neppure io, so solo che
i miei pensieri vanno sempre a finire lì. Oltre a questo ci
sono anche quei due
incubi, più ci allontaniamo più temo che un
giorno si realizzino,
perché io potrei non trovarmi nel
posto giusto al momento giusto!»
Beerus aveva appena
fatto quel che avrebbe dovuto fare mesi
prima con Anise, ossia parlare di quel che gli stava succedendo.
Peccato che lo
avesse fatto con la persona sbagliata.
“Promemoria
per me: accettare solo candidati Hakaishin
adulti. Spero che Beerus invecchiando diventi il classico Dio della
Distruzione
che pensa soltanto al cibo, al divertimento e a disintegrare i pianeti,
senza tutti
questi problemi assurdi e inutili” pensò Whis,
trattenendo un sospiro “Ovvio
che si stia comportando così, lui non abituato a pensare
così tanto. Pensare
troppo gli fa male e gli manda in tilt il cervello. Farebbe meglio a
lasciare
cose come questa a Lady Anise, piuttosto”.
«Non dici
niente, Whis?»
«Non ho
niente da dirle, Lord Beerus, a parte un “lo avevo
detto”. Se
non ero felice del fatto che
avesse trovato una ragazza fissa c’era un motivo, ossia che
non era il momento
adatto per averne una. Non lo è nemmeno adesso».
«Vuoi che
mandi a quel paese anche te?! Perché sappi che ci
sono vicino! Se il tuo consiglio è di lasciare la mia
compagna allora evita di
parlare oltre, perché da quell’orecchio non ci
sento. Anise è Anise. Io la
considero la mia Neiē anche se lei non ha ricambiato il giuramento e
anche se
ultimamente le cose vanno come vanno. Questo non cambierà
mai, non cambierebbe
neppure tra centinaia di milioni di anni» concluse Beerus
«Ora andiamo ad
allenarci, ho un sacco di rabbia da scaricare».
***
«Io
l’avevo capito da un pezzo, che non mi vuole bene. Oggi
se non altro ho avuto la conferma. Lui mi ritiene solo un impiccio, un
grosso e
grasso babbeo e un buono a nulla “utile solo a consumare
l’aria”. Io lo sapevo,
che mi avrebbe preferito morto… chissà da quanto
tempo aveva voglia di dirmelo».
Champa lungo la via
del ritorno aveva pensato di portare
Anise a casa con sé nel sesto Universo, perché
dopo quel che era successo con
Beerus aveva solo voglia di tornare nel proprio palazzo e di avere
vicino
qualcuno che gli volesse bene; capendo tutto ciò e
desiderando a sua volta la
compagnia di una persona amica, quando Champa le aveva proposto di
seguirlo nel
suo Universo lei aveva detto di sì.
Al momento dunque
erano seduti uno vicino all’altra, sopra
dei teli da bagno stesi sulla finissima sabbia bianca della spiaggia
che si
trovava a un lato del palazzo di Champa, a osservare i placidi
movimenti del
mare.
Ovviamente sarebbe stata
solo una cosa temporanea, quel che
bastava perché le acque si calmassero un pochino. o si
agitassero ulteriormente
nel caso in cui Beerus avesse preso per il verso sbagliato la
permanenza di
Anise in casa di Champa, se mai ne fosse venuto a conoscenza.
Sarebbe stato
abbastanza assurdo, perché non era la prima
volta che Champa la portava in casa propria -e Beerus, pur sapendolo,
si fidava
abbastanza di Anise da non essere veramente
geloso- ma ormai era diventato tutto un’incognita.
«Ti sei
accorto anche tu che ultimamente c’è qualcosa che
lo sta facendo, come dire, “svalvolare”. Sarebbe
utile sapere cosa lo sta
spingendo a comportarsi così, ma lui non vuole dirmelo e io
mi sono stufata di
chiederglielo. L’ho già fatto tante volte e non mi
ha mai risposto… comunque
sono piuttosto sicura che Beerus al momento non pensi davvero nemmeno
la metà
delle cose che gli escono di bocca in certe situazioni. Non credo sia
vero che
ti preferirebbe morto».
«Io invece dico di
sì, ci sono tante cose nel suo
atteggiamento verso di me che lo confermano».
«Sono
convinta che non è così, tu sei il suo fratello
gemello, deve volerti bene per forza. Poi cerca di tenere sempre
presente che tu svolgi bene il tuo compito di
Hakaishin, quindi non sei né un impiccio, né un
buono a nulla» disse la Lusan
con sicurezza, stringendolo tra le braccia proprio come lui aveva fatto
con lei
in momenti simili «Ovviamente non sei nemmeno un babbeo. Ti
trovo molto dolce e intelligente».
«Però
sono grasso» borbottò il dio, lasciandosi
docilmente
abbracciare.
«Sei solo
morbido».
«Ho preso
sei chili».
«Hai
un’eternità per perderne anche diciotto, se vuoi.
Comunque non sei il solo ad aver preso peso» gli fece notare
Anise, con una
smorfia «Da più o meno tre mesi a questa parte
sono ingrassata un po’anche io.
Ho messo su un po’di pancia e anche un po’di
fianchi. Mi sembra che si sia
anche ingrossato leggermente il seno, a dirla tutta, ma quello non mi
dispiace.
Idea: potremmo metterci a dieta insieme!»
«Macché
dieta, tu stai benissimo. Se qualcuno ti dice il
contrario non ascoltarlo» aggiunse Champa, riferendosi a
Beerus «Abbiamo già
appurato che non capisce niente di niente».
«A dirla
tutta ha notato anche lui questo cambiamento»
confessò Anise «Però mi ha fatto capire
molto chiaramente che gli piace parecchio, per
quanto questo possa sembrare assurdo. A suo dire ho anche cambiato
odore, però
quello è dovuto al bagnoschiuma. Di’,
com’è che siamo finiti a
parlare di me?»
«È
partito tutto dal fatto che io sono un grassone inutile
e stupido che perfino suo fratello vorrebbe vedere morto. Senti, io
sono
abituato a non andare d’accordo Beerus, ormai ci conosci da
oltre due anni e
sai come vanno le cose ogni volta che ci vediamo, ma stavolta mi
sembrava
diverso. Prima non aveva mai parlato di quel che è successo
quando eravamo
piccoli. Anise» la guardò «Non so se tu
sai... per com’è fatto Beerus, non sono
sicuro che ti abbia raccontato…»
«Lo ha
fatto. È successo un po'di tempo prima del vostro
diciottesimo
compleanno» lo smentì la Lusan.
«Davvero?»
si stupì Champa «Vi conoscevate da poco».
«In quel
frangente mi ha dato molta fiducia. Erano bei
tempi, darei via tutto quel poco che possiedo se servisse a far tornare
tutto
come allora… però ti prego, non parliamo di me e
lui. Adesso conti tu» sorrise
Anise «Dimmi tutto».
«Se sai
tutta la storia sai com’era la nostra situazione al
villaggio e cos’è che ha fatto precipitare tutto.
Non dubito che Beerus si sia
prodigato a rimarcare più volte il fatto che la colpa di
tutto sia esclusivamente
mia» disse il giovane, con un tono
d’accusa pieno di amarezza e rancore «“Se
tu
fossi stato più attento e avessi fatto a meno di uccidere
quel nostro zio, tutto
questo non sarebbe successo!”, neanche lo avessi fatto di
proposito! Io ero
piccolo, quello invece era un adulto che mi stava prendendo a calci,io
volevo
solo difendermi, non avevo la minima intenzione di ucciderlo! Lo
capirebbe
anche un imbecille, sbaglio?! Beerus invece no!»
sbottò.
Era la stessa storia
che Beerus le aveva raccontato un paio
d’anni prima, raccontata dal punto di vista
dell’altra vittima. Anise nella scorsa occasione si era
astenuta dal fare qualsiasi commento riguardo i comportamenti dei
due fratelli, dunque stavolta si ripromise di fare lo stesso.
«Ricordo
bene il modo in cui mi guardava quando eravamo nel
bosco» continuò Champa «Io…
io piangevo, spaventato, perché avrei soltanto
voluto poter tornare a casa. Ricordo le occhiate che mi rivolgeva, le
ho ancora
scolpite qui» si indicò la testa
«Eravamo piccoli entrambi ed eravamo nella
stessa situazione, eppure lui non ha avuto neppure un minimo di
comprensione
per me. Vedeva come stavo ma non mi ha dato neppure un briciolo di
conforto,
pensava solo a cercare il cibo e a tenere il fuoco acceso. Gli facevo
schifo
perché non ero un pezzo di ghiaccio come lui, che mentre
cercavamo di scappare
dal villaggio non ha esitato a far fuori le persone che ci hanno
attaccati. Allora
come adesso, Beerus non aveva rispetto né stima nei miei
confronti, tantomeno
affetto fraterno. Appena Vados e Whis ci hanno trovati, ci hanno detto
che si
sarebbero presi cura di noi e che ci avrebbero separati, lui si
è addormentato
in braccio al suo angelo con tutta la tranquillità del
mondo. Non vedeva l’ora
di liberarsi di me… quello stronzo!»
«La colpa
di tutto questo in realtà è
dell’ignoranza e
della paura che le persone tendono a manifestare quando sono in gruppo,
Champa…
o forse è colpa del destino stesso, che ha scelto di far
nascere due esseri
potentissimi in un luogo dove non sarebbero stati capiti. Sta di fatto
che è
stato un brutto momento per tutti e due»
disse Anise, accarezzando la testa del dio «Non lo
meritavate».
«Come il
fratello scemo non merita te, più o meno. Ho preso
un pugno in faccia ma, sappilo, rifarei tutto quel che ho fatto e
ripeterei
tutto quel che ho detto. Se io avessi una Iarim Neiē tanto dolce e
gentile non
le darei dell’ingrata, tra le altre cose!»
«Prima o
poi gli passerà. Io devo solo cercare di restare
in equilibrio tra il non prendermela a mia volta con lui -cosa non
facile- e il
mettere in chiaro che questo suo comportamento non mi sta bene, mentre
Beerus
deve solo cercare…»
«Di fare
pace col cervello. Nel caso ne abbia uno».
«…
di ritrovare un equilibrio senza il mio aiuto, dal
momento che non lo vuole» proseguì Anise
«Lui pur con i suoi difetti è una
bella persona, in caso contrario non lo amerei. Se riuscisse a tornare
“stabile” sarebbe meglio per me, per te e anche per
lui stesso».
«Hai
troppa pazienza» sospirò Champa «Io
comunque già te lo
dico, quest’anno col cavolo che vado a festeggiare il
compleanno da lui».
«Champa…»
«Niente
“Champa”. Non era una delle solite litigate, non mi
importa se ultimamente gli bruciano le chiappe per qualcosa o se non
pensava
davvero quel che ha detto. Meno mi vede e meglio sta? Non mi vuole in
casa sua?
Benissimo, lo accontenterò, e ti dico di più: se
fossi te, farei la stessa
cosa. Conoscendoti immagino che tu abbia intenzione di fare pace con
lui prima,
in modo da non lasciarlo solo a festeggiare come invece meriterebbe,
però se si
rendesse conto che un modo di fare sbagliato porta conseguenze
spiacevoli forse
si darebbe una calmata».
«O le cose
si inasprirebbero ancora di più. Penserebbe
“è
andata via con mio fratello dopo aver preso le sue parti e ora mi
abbandona il
giorno del mio compleanno, non mi vuole più
bene”».
«Se
l’è cercata lui» ribatté
l’Hakaishin.
«Una cosa
del genere potrebbe funzionare solo se non avesse
Whis a sussurrargli nell’orecchio. Si aggrappa a ogni minima
cosa pur di
metterci uno contro l’altra, stavolta non farà
certo eccezione».
«Se lo
scemo ti vuole bene veramente come dice non lo starà a
sentire, per quanto possa “sussurrare”…
sai, a volte mi chiedo se Vados farebbe lo
stesso» borbottò «E poi mi rispondo che
probabilmente sarebbe persino peggio di
suo fratello».
«Tu non
hai torto, solo che al momento Beerus non è
stabile, quindi potrebbe influenzarlo più facilmente
e… e forse ho fatto un
errore a venire qui» mormorò «Forse non
dovevo andare via, sono stata
impulsiva, ho fatto una mossa sbagliata».
«Non
è una partita a scacchi» disse Champa, un
po’perplesso.
«È
diventata una partita a scacchi da quando Whis ha saputo
che io e Beerus stavamo insieme. Solo che prima era una cosa
tranquilla, ora
invece è un campo di battaglia vero e proprio, Beerus
è diventato il premio in
palio e Whis si sta portando in vantaggio. Se non trovo un modo per
rimettermi
in pari, lui…» fece un respiro profondo
«Lasciamo perdere. Passiamo a qualcosa
di più piacevole tipo, che so, fare un bagno in
mare».
«Io
immaginando di annegare Beerus, tu immaginando di
annegare Whis» aggiunse Champa.
«Whis
annegato! Oddio,
sì!»
«Per far
godere le ragazze non ho nemmeno bisogno di
toccarle, sono un mito assoluto!» scherzò Champa.
«Io
l’ho sempre pensato. Champa?»
«Sì?»
«Ti voglio
bene».
Il giovane, felice e
intimamente commosso di nel sentirselo
dire, sorrise. «Anche io. Magari in un modo o
nell’altro le cose cominceranno
ad andare meglio in generale. Intanto cerchiamo di limitare lo stress,
mh?»
Anise
annuì. «Facciamo quel bagno in mare?»
Sono in ritardo di una settimana e me ne scuso ma... eccomi qui.
Ringrazio chi continua a seguirmi e lascio a voi ogni commento :)
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Capitolo 20 *** 20 ***
RMIcap20
20
“Devo
ancora farmi una ragione del fatto che ora in cielo
sia presente una sola luna. Quello è proprio uno
schizzato… e se lo penso io, è
schizzato veramente!”
Calida
non aveva realmente scelto di andare a Vynumeer
quella notte: a portarcela era stato “il richiamo”,
quello di cui lei e Anise
avevano discusso diversi mesi prima.
Era
innegabile che più la sua salute mentale peggiorava,
più il richiamo di Vynumeer diventava forte. In certi
momenti recarsi al lago
diventava quasi un bisogno fisiologico.
Anise
poteva dire quel che voleva, ma Calida si stava
convincendo del fatto che quello fosse un posto maledetto per davvero, di cui le persone
mentalmente più “fragili” -o
comunque con qualche tipo di problema- rischiavano di diventare vittime
anche
recandovisi in una sola occasione.
“Non
mi stupisce che i genitori di Anise siano finiti sul
fondale” pensò “Così come non
mi stupisco che la gente abbia abbandonato questo
posto anche a causa dell’alto tasso di suicidi”.
Lei
stessa era attirata da quello specchio d’acqua caldo,
immobile e nero come l’inchiostro, lei stessa aveva quella
dannata voglia di
fare un tuffo come tante volte ne aveva fatti, senza però
tornare su; tuttavia
sollevò una mano, facendo cenno di “no”
al nulla.
«Non
è peggio del vedere Anise in decomposizione che mi
accusa di averla uccisa. Se vuoi che mi unisca alla tua festa subacquea
insieme
a tutti gli altri Lusan che ti sei preso, allora devi impegnarti molto
di più».
A
proposito di Anise, quella benedetta ragazza era via da
quasi una settimana… ma ormai certe assenze non la stupivano
più. A
Calida capitava sempre più spesso di andare
a fare visita a una casa vuota.
Non
si curava più neppure di portare sacchi contenenti
chissà cosa, contrariamente a come faceva prima. Anise non
aveva più bisogno
che lei le portasse della carne, aveva ripreso tutto il peso perso dai
sedici
anni in poi.
Ultimamente
a dir la verità aveva preso anche qualche chilo
in più, ma poteva starci: non mancava moltissimo ai suoi
ventuno anni, appena
qualche mese, e la loro razza raggiungeva la maturità fisica
completa verso i ventidue.
Lasciò
ricadere la schiena sul manto erboso, e poco dopo
gli occhi si chiusero.
Calida
non era sicura su dove si
trovasse, perché quel luogo le era familiare e, al contempo,
un po’ “alieno”.
Sembrava
una città sconosciuta
ubicata nella valle in cui era nata e cresciuta, ma
l’architettura era più
avanzata, c’erano veicoli che non aveva mai visto in vita sua
e… era una specie
di astronave rudimentale, quella?
Ed
era un gruppo di persone,
quello che le era appena passato attraverso?
“Ah.
Spasvum yem…
“ti aspettavo”. Si dice così, se non
erro. La nostra lingua si è complicata un po’, in
diecimila anni”.
Quella
voce “vecchia” e maschile
sembrava rivolgersi proprio a lei ma, quando la Lusan si
guardò attorno, non
vide nessuno che desse segni di essersi accorto della sua presenza.
“Anche
se questo è solo un sogno
io non voglio parlare con qualcuno che non si mostra. Se mi aspettavi,
vieni a
dirmi in faccia il perché” intimò
Calida allo sconosciuto.
“Così
che tu possa cercare di
strapparmi gli occhi per aver invaso i tuoi sogni?”
“Ci
sono buone possibilità che
lo faccia” confermò la donna “Se poi
continui così diventeranno ottime.
Dimmi chi sei”.
“In
origine il mio nome era
Kamandi”.
Calida
si voltò nuovamente e
stavolta trovò davanti a sé un vecchio Lusan dal
manto nero, che somigliava
abbastanza a uno dei suoi soldati, Recte.
“Poi
però l’ho cambiato”
continuò il Lusan “Vedi, Hogevor
Calida, ‘Rubedo’ aveva un significato che si
confaceva molto di più alla mia
persona”.
Rubedo?
Quel Lusan vecchio,
storpio -gli mancava un braccio- malconcio e vestito come uno
straccione avrebbe
dovuto essere Rubedo?
“Immagino
che il significato di
quella parola dovesse essere ‘povero vecchio
storpio’ o qualcosa del genere. Non
puoi essere lui” sentenziò Calida “Io
conosco la leggenda, cosa credi? Rubedo
era un mago potente, aveva conquistato tutte le città della
valle e aveva
raccolto un’immane quantità di oro. Tu non hai il
fisico adatto, non puoi
nemmeno bere e grattarti il culo allo stesso tempo”.
“Il
tuo problema è proprio
questo: hai due bei paraocchi che ti impediscono di accettare le cose
come
stanno. Sai benissimo che sono io, ci conosciamo fin da quando eri
molto
piccola… e tu hai perfino cercato di abbandonarmi,
Calida”
aggiunse, in tono di rimprovero “Di ignorare il mio richiamo.
È una fortuna che
l’Hakaishin di questo Universo abbia iniziato a stare attorno
ad Anise e a
cercare di portartela via, o la tua mente non si sarebbe
‘aperta’ abbastanza da
potermi incontrare”.
“Non
è ‘apertura’, io la chiamo
in tutt’altro modo, e comunque nulla di tutto questo ti
riguarda” disse
freddamente la Lusan, cercando di afferrare la testa di Rubedo.
Purtroppo per
lei, anche in questo caso non riuscì a far altro se non
passargli attraverso.
“Anche
io li vedevo tutti morti,
proprio come tu vedi morta Anise” continuò lui,
imperterrito “Io li guardavo e
vedevo le loro membra disfarsi, vedevo i loro volti e le loro bocche
deformarsi
per il dolore, per la paura, per la consapevolezza di non avere alcuna
via di
scampo. Non era pazzia, era il loro destino e nulla di più.
Erano destinati a
essere uccisi da me”.
“Non
ucciderò mia sorella!”
ringhiò Calida.
“Certo
che non ucciderai tua
sorella, tu sei figlia unica”
minimizzò il Lusan, con un cenno della mano “Non
ti sei chiesta dove ti trovi?
Ammira, Calida: questa è la città dove io sono
nato. A quei tempi la magia non
era ancora morta, come puoi vedere” disse, indicando un
veicolo in alto nel
cielo “Eravamo tutti in pace, tutti felici, tutti sereni, il
sole splendeva,
gli uccellini cantavano... ”
“Immagino
che ci sia poco di
vero in tutto questo”.
“La
situazione tra le città a
quei tempi era sicuramente meno tesa della vostra pseudo tregua.
Diciamo che si
sopportavano molto più facilmente una con l’altra.
Il giovane Kamandi è nato in
questo contesto, in una famiglia di piccoli commercianti. Non eravamo
ricchi, non
eravamo poveri: una mezza via. Oh, quanto odio le mezze vie!”
sibilò,
visibilmente alterato.
Non
contento di esserle comparso
come un vecchio storpio, Rubedo le stava anche raccontando la patetica
storia
della propria vita, della quale a lei non importava un accidenti, non
più.
Calida
si era sempre figurata
Rubedo -il grande Rubedo, il pericoloso Rubedo- come un Lusan
più alto e grosso
di lei, con lunghi capelli che facevano “swish”,
ricche vesti e un’armatura
badass. Se lui fosse stato come l’aveva sempre immaginato, se
le sue fantasie
fossero state corrispondenti alla realtà, le cose sarebbero
state diverse…
peccato che invece si fosse trovata davanti un vecchio storpio vestito
di
stracci e dai capelli aggrovigliati.
Non
poteva far altro se non
sperare che fosse un sogno particolarmente articolato,
perché in caso contrario
sarebbe crollato un mito.
Il
suo mito.
“La costante della
mia esistenza è stata
questa: le mezze vie” continuò il vecchio
“La mia famiglia non era né ricca né
povera, né troppo né poco numerosa -avevo un
fratello e una sorella- e io ero
l’espressione massima di questa mediocrità. Non
solo ero il fratello mezzano,
neanche a farlo apposta, ma non riuscivo a eccellere in nulla. Il
ritornello
era sempre ‘Kamandi è bravo, ma…’,
c’era sempre un ‘ma’. Ero un bravo
commerciante, che non è mai andato in
passivo, ma non abbastanza da fare affari stratosferici; divenni un
bravo
combattente, che poteva vedersela con quattro Lusan più
grossi di lui contemporaneamente,
ma non abbastanza da evitare di farmi amputare un braccio una volta in
cui
erano sette; Cambiai ancora e divenni un bravo mago, ma non abbastanza
da
padroneggiare incantesimi straordinari. Io ero ambizioso, avrei voluto
molto di
più dalla vita, ma non potevo averlo: ero bravo in tutto ed
eccellente in
nulla. Capisci?”
“Nel
corso della mia vita mi
hanno chiamata in tanti modi, però non sono mai
stata mediocre com’eri tu”
disse Calida, con un’espressione dura sul viso
“Quindi no, immagino di non
poter capire”.
Lo
scenario attorno a loro
cambiò drasticamente: il cielo divenne nero, le case
iniziarono a prendere
fuoco e i Lusan a scappare per poi bruciare a loro volta.
“Mediocre…
è vero. Perfettamente
vero. Vero, vero” borbottò Rubedo, con uno sguardo
folle negli occhi di un
grigio tanto chiaro da sembrare quasi bianco “Io ero
mediocre. Da un certo
punto in avanti ho iniziato a patirne al punto tale da iniziare a
odiare tutti
quelli che avevo attorno e ad avere quelle visioni di cadaveri
ambulanti, tanto
da credere di essere impazzito. Poi però non sono stato
più mediocre” tese in
avanti il suo unico braccio, il sinistro, e aprì la mano
chiusa a pugno “Perché,
all’età di oltre quarant’anni, ho colto
l’occasione”.
Sul
palmo della mano del Lusan
comparve un piccolo esserino viola con vari tentacoli, grandi occhi
rossi e
un’antenna che terminava con un ciuffo bianco languginoso.
“Atagashi.
Si chiamava così. Quelli
della sua razza sono dei piccoli alieni di tipo parassitico”
spiegò Rubedo “Non
sembra nulla di che, vero? Non diresti mai che possono sterminare
intere
civiltà. Atagashi finì su questo pianeta ed
entrò in casa mia, attirato dalla
mia ‘malvagità’, come scoprì
in seguito. Come ho detto, io ero un bravo mago…
Atagashi voleva possedermi, ma si trovò posseduto. Non hai
idea di quel che
feci a questo esserino, Calida! Ovviamente non l’ho ucciso,
ho solo strappato
dal suo cervello ogni briciolo di coscienza e di ricordo e, una volta
capito
quali benefici avrei potuto trarne, mi sono 'fuso' con lui”
concluse, sollevando lo
sguardo verso l’alto.
In
alto nel cielo c’era un
essere che rifulgeva di un’aura i cui colori andavano dal
viola, al verde al
grigiastro -colori abbastanza tipici dei cadaveri, come quelli che
giacevano a
terra tutt’attorno a loro-, un essere che Calida riconobbe
come un Lusan le cui
fattezze si avvicinavano molto alle sue fantasie: alto tre metri,
ricoperto da un' armatura dorata, con lunghi capelli bianchi che si
disperdevano nell’etere e brillanti occhi cremisi.
“Sì,
se te lo stai chiedendo mi
ero costruito un braccio d’oro” disse Rubedo,
intercettando l’occhiata di
Calida “Ne ho accumulato talmente tanto che potevo
permettermelo. Da qui in
avanti la storia la sai, perché le leggende che conosci sono
tutte vere. Ho
ottenuto tutti i poteri di cui parlano e anche qualcuno in
più, sebbene il mio
preferito restasse il controllo sulla Dimensione degli Specchi -non sai
cos’è, immagino... ho conquistato le
città, ho accumulato l’oro che tu
al momento stai spendendo: tutti in
questa valle di straccioni conoscevano e temevano il mio nome! Rubedo,
Rubedo!”
“In
breve: tu mi stai dicendo
che la tua fama deriva per lo più da una botta di fortuna?
Niente scoperte
magiche sensazionali che ti hanno portato ad avere quel potere? Niente
creazione di manufatti incantati dopo anni di studi? Mi stai dicendo
che tu,
nella tua vita, sei riuscito a combinare qualcosa di concreto solo dopo i quarant’anni e solo
perché ti è
entrato in casa un alieno parassita? Ah!” sputò ai
piedi del vecchio “Patetico.
Pensare che ho passato una vita ad amare le leggende che ti
riguardavano,
perché nonostante la sconfitta finale avevi fatto quel che
vorrei fare io, mi
fa quasi vergognare di me stessa”.
Gli
occhi del Lusan divennero
rossi come quelli della sua controparte potenziata. “Io ho
saputo cogliere
l’occasione quando si è presentata. Se Atagashi si
fosse presentato in casa
tua, tu non avresti saputo fare altrettanto… complice il
fatto che la magia è
morta, ormai” disse, mentre sul suo volto appariva un ghigno
che occupava metà
faccia “Mi hanno sconfitto, ma hanno pagato un prezzo enorme.
Lanciai due
ultimi incantesimi, mosso dalla forza della disperazione, potenti come
non ero mai riuscito a lanciarne: con uno uccisi i
discendenti di ogni mago sul pianeta e impedii loro di averne di nuovi,
mentre
l’altro… conosci bene i suoi effetti, Calida
Ulthmeer a-ghekavary. È
questo il motivo per cui le città della valle si
odiano, è questo il motivo per cui versate sangue, nessun
altro! Non per
questioni d’ideali o economiche: puoi illuderti del
contrario, ma le guerre tra
città sono opera mia, dunque se tu hai messo quelle
cinquantadue croci
infuocate lungo la strada è per la maledizione del
‘povero, vecchio, storpio e
patetico’ Rubedo!”
“Sei
tu quello che si illude!
Nessuno di noi pensa a te quando uccide i Lusan di una città
nemica” ribatté
Calida “Tu non sei altro se non un morto che parla. Non sarei
mai dovuta venire
in quel dannato villaggio”.
“Hai
detto una cosa sbagliata e
una giusta. Quella sbagliata riguarda la mia morte. Non sono morto.
Sono
intrappolato in una corona che è chiusa in una cassa,
nascosta in una grotta
che è posta sotto il lago, proprio come dice la leggenda.
C’è un motivo se i
morti sono accumulati tutti sullo stesso punto del fondale…
e questo ci porta
alla cosa giusta che hai detto: sì, Vynumeer è un
villaggio ‘dannato’, o
meglio, lo è il lago. Io attiro nel lago le persone per
ucciderle, perché più
ne uccido più influenza acquisisco. Di solito sono persone
mentalmente fragili
o con qualche problema. È anche per questo che appena sono
diventato abbastanza
forte ho reso calde le sue acque, per aumentarne
l’attrattiva” spiegò a Calida
“Purtroppo ho ottenuto un po'l'effetto contrario, ma questo
è un dettaglio. Allo stesso tempo però cerco
anche di spingere suddette persone verso la mia
prigione, perché se prima di morire riuscissero almeno a
raggiungerla, ad
aprire la cassa e a gettare la corona in acqua mi farebbero un favore.
La mia
corona galleggia, sai”.
“A
che pro tutto questo? Se sei
rinchiuso in quella corona significa che non hai più un
corpo, dunque se anche
venisse trovata non potresti fare alcunché”.
“Io
non ho più un corpo, è vero.
Tu però ce l’hai, ed è perfetto per
raccogliere la mia corona, la mia eredità, il
mio potere” aggiunse il Lusan
“Anche questa parte della leggenda è
vera, Calida. Se trovi quella corona e la indossi, otterrai quel che
hai sempre
voluto: la valle sarà tua, il pianeta sarà tuo e,
chissà, magari riusciremmo a
conquistarne anche qualcuno di quelli vicini. Diventerai ancor
più grande di
quanto sia diventato io!”
“Stavo
per domandarti a cosa ti
gioverebbe, ma quel ‘riusciremmo’ mi fa capire che
dovrei condividere il mio
corpo con te” disse la donna “O comunque ospitare
la tua mente nella mia.
Sbaglio?”
“Non
sono un coinquilino
fastidioso, anche se le mie barzellette sono vecchie diecimila anni, e
noi due vogliamo
le stesse cose”.
“No”
disse Calida, con
decisione.
“Dov’è
il problema? Cosa temi?
Che cercherei di schiacciare la tua coscienza? Ritieni la tua mente
più debole
e patetica del ‘fantasma’ di un debole e patetico
storpio?”
“Non
temo nulla, tantomeno te.
Ho solo capito di non voler più avere a che fare con nulla
che ti riguardi,
perché l’ombra cenciosa di un povero fallito quale
sei non merita neppure un
briciolo del mio tempo o di credito. È proprio vero che le
leggende dovrebbero
restare tali” aggiunse la Lusan, con una smorfia di disprezzo
“Viste per quello
che sono perdono ogni attrattiva. Torna a grattarti il sedere con
l’unica mano che
hai, non seccarmi mai più e non infastidire minimamente
Anise, altrimenti le
dirò di spedire il suo fidanzato a trovare la tua corona per
distruggerla. Mi
hai capita, storpio?”
“Tu
sei convinta del contrario,
ma tornerai a cercarmi, Calida Ulthmeer a-ghekavary.
Tornerai eccome”.
«Calida?...»
Quando
la grande Lusan aprì gli occhi pensò che quella
di
Anise che la guardava perplessa fosse un’allucinazione; poi
però vide che non
si stava decomponendo, né la stava accusando di averle
strappato occhi che
erano ancora al proprio posto, dunque capì che sua
“sorella” era veramente lì.
«Ma tu guarda chi si rivede. Trovarti sul tuo pianeta natale
ultimamente è ben
strano».
«In
effetti sono tornata meno di un’ora fa, ma trovarti qui
a dormire accanto al lago è ancora più strano, se
permetti» ribatté Anise «Fino
a poco tempo fa mi rimproveravi perché vengo a Vynumeer
troppo spesso e ora…
eccoti qui!»
«Giustappunto:
evita questo posto il più possibile» la
avvertì Calida, rizzandosi a sedere «Questo lago
è fatto apposta per uccidere
le persone».
«Senti, non ricominciare con queste assurdità. Non
sono
dell’umore per ascoltarle» borbottò
Anise.
«Peccato
che le “assurdità” siano più
importanti di ogni
tuo qualsivoglia disagio amoroso. La leggenda di Rubedo è
vera, Anise!»
«Ma
va? C’era il suo tesoro qui sotto».
«È
tutta vera»
insistette la Lusan «Rubedo è ancora vivo,
è qui nella grotta sotto il lago,
rinchiuso nella sua corona. Me lo ha detto poco fa! È lui
che ci attira a
Vynumeer, è lui che per diventare più forte ha
spinto tutta quella gente a
gettarsi in acqua senza più riemergere. Vuole essere
liberato. Cerca un corpo
ospite».
«Callie,
i sogni “particolari” sono tipici di Beerus, che
è
una divinità. Noi due non siamo divinità, quindi
i sogni che facciamo sono solo
sogni, per quanto strani, bizzarri, assurdi e accurati possano essere.
Non nego
che il lago abbia un suo strano fascino, lo sai, ma... è
tutto qui» disse la
ragazza, facendo spallucce «Io in quella grotta ci sono stata
e, come ti ho già
detto, non ho trovato né casse né
corone».
«Avrei
dovuto immaginare che non avresti voluto ascoltarmi.
Forse le cose sarebbero diverse se avessi visto e sentito quel che ho
visto e
sentito io, ma non l’hai visto… non
l’hai visto» mormorò Calida.
«È
stato solo un sogno» ripeté Anise «Credo
che tu possa stare
tranquilla e, in ogni caso, ho almeno un Hakaishin pronto a proteggermi
da
qualunque cosa io non abbia le capacità di
affrontare».
«Una
volta quello era compito mio» disse la Lusan più
vecchia, con aria assente e un bel po’di amarezza.
«Tu
hai fatto quel che hai potuto» replicò Anise, dopo
una
breve esitazione «Perlopiù. Io non metto in
discussione le cose buone che hai
fatto per me, non le dimentico, però… sai, non
è troppo diverso da quando un
genitore lascia andare un figlio per la propria strada. Prima o poi
deve
rassegnarsi a farlo».
«Stai
per andartene, Anise?»
I
sentimenti con cui le aveva posto quella domanda erano
contrastanti: da un lato c’era il pensiero che una volta
lontana da quel
pianeta e da Vynumeer forse sarebbe stata più al sicuro,
mentre dall’altro non
voleva lasciarla andare.
Sì,
Anise aveva ragione, prima o poi avrebbe dovuto
lasciarla andare per la propria strada, ma Calida non riusciva ad
accettare che
questa potesse essere divisa dalla propria, non riusciva a rassegnarsi
del fatto
che un giorno la casa nella foresta sarebbe rimasta senza abitanti, non
riusciva ad accettare di poter vivere troppo lontana Anise…
e non riusciva ad
accettare che Anise potesse vivere troppo lontana da lei.
«Credo
di non essere mai stata tanto lontana dall’andarmene
quanto lo sono adesso» rispose la giovane, con aria seria.
Calida
sollevò le sopracciglia, un po’sorpresa.
«Problemi
con Lord Beerus? In questa settimana si è comportato
male?»
«In
questo lasso di tempo non l’ho proprio visto,
perché sono
stata a casa di Champa».
«Tutta
la settimana?»
Anise
annuì.
«Non
impari mai» borbottò Calida «Se hai
problemi con un Hakaishin, come
pensi di poter
gestire una bigamia?»
«Macché
bigamia! Io e Champa abbiamo avuto dei problemi con
la stessa persona, Champa voleva stare tranquillo con
un’amica, io volevo stare
tranquilla con un amico e così abbiamo fatto. Non
c’è alcunché di ambiguo tra
me e lui, te l’assicuro».
«Spero
per te che il tuo compagno la pensi allo stesso
modo, perché così facendo potresti aver
peggiorato le cose. Forse però non
sarebbe un male» osservò Calida «Se
fosse lui a decidere di lasciarti si
ridurrebbe il rischio di scatti d’ira e rappresaglie che
potrebbero coinvolgere
l’intero pianeta».
«Grazie
tante, proprio quel che avevo bisogno di sentirmi
dire in questo momento, soprattutto considerando che io mi sono
dichiarata
disposta ad accettare le sue scuse già due giorni fa! Due giorni! DUE!»
esclamò Anise
«E Beerus non si è fatto vedere
né sentire pur essendo lui nel
torto! Questa volta andrà a finire che ci lasceremo sul
serio, sei contenta adesso?! Che hai da guardarmi in quel
modo?!»
«Una
reazione così emotiva non è affatto da
te» disse
Calida, squadrandola da capo a piedi «Proprio per
nulla».
«Hai
ragione» ammise la ragazza, lasciandosi cadere sul
prato con un sospiro «Non è affatto da me.
Probabilmente è dovuto al fatto che
tutta questa situazione mi stressa più del
dovuto… non solo ho qualche
problemino con Beerus ma, essendo anche amica di Champa, mi trovo a
fare un
po’da cuscinetto tra loro due. Hanno un rapporto
terrificante».
«Sei
ingrassata, sei più emotiva del solito… hai
perfino
cambiato odore…»
«Mangio
più del dovuto, va bene, e per quanto riguarda
l’odore non sei la prima a notarlo, ma io solo ho cambiato
bagnoschiuma»
ribatté Anise.
«Dimmi
un po’, Anise: in questo periodo hai avuto qualche
fastidio? Tipo odori familiari che sono diventati insopportabili o, che
so,
nausee mattutine?»
No,
Anise non aveva avuto problemi con gli odori, però
negli ultimi tre mesi c’era stata qualche mattina in cui non
si era sentita
troppo bene. Lei aveva voluto imputare la cosa a malanni occasionali,
ai cibi che
assaggiava quando andava insieme a Beerus sull’uno o
l’altro pianeta e anche
allo stress, erano ipotesi perfettamente plausibili, e non riusciva a
capire
dove volesse andare a parare Calida.
O
meglio: non voleva
capirlo, perché la realtà dei fatti
ormai era piuttosto palese.
«Niente
nausee» mentì dunque «Né
problemi con gli odori.
Perché?»
«Meglio
così allora. Te l’ho chiesto perché se
in passato tu
non avessi dato prova di essere sterile penserei che sei
incinta».
“Incinta”.
Calida
aveva detto la parola magica, quella che lei non avrebbe mai voluto
sentir pronunciare.
Anise
serrò la mascella, cercando di regolare un respiro
che minacciava pericolosamente di iniziare ad andare in
iperventilazione, di
far allentare la stretta allo stomaco e di ignorare sia le pulsazioni
frenetiche del cuore che quella orrenda sensazione di oppressione al
petto.
Se
in quel momento avesse cercato di alzarsi in piedi molto
probabilmente le gambe non l’avrebbero retta, sia per il
tremore che cercava
disperatamente di controllare, sia perché si sentiva
“instabile” pur essendo
seduta.
“Incinta”.
Il
solo pensiero di associare se stessa a una gravidanza le
faceva impazzire, la stava facendo
impazzire già in quel momento, e vedere quanto
tremava la mano con cui si
era coperta il viso non la stava aiutando affatto.
Iniziò
a rabbrividire.
Non
poteva essere incinta. Non era ammissibile, non era
assolutamente possibile…
«Anise,
ho detto che “penserei” che sei incinta, non che lo
sei. Non c’è motivo di reagire in questo
modo» disse Calida, con sicurezza,
stringendole entrambe le mani «Va tutto bene».
No,
non andava tutto bene. Come poteva andare tutto bene se
aveva la sensazione di poter perdere il controllo di sé da
un momento
all’altro, esattamente come credeva di aver perso il
controllo della propria
intera esistenza?!
«Io
non sono incinta» balbettò la ragazza, stringendo
convulsamente le mani di Calida «Io sono sterile. Io non
posso avere figli. Non
sono incinta, non posso esserlo, non devo esserlo, non… non
è il momento. Non è
mai il momento, adesso però lo sarebbe ancora di meno,
io-»
«Fai
dei respiri profondi. Va tutto bene: non stai
impazzendo, non c’è nulla che ti impedisca di
respirare e non c’è ragione di
avere paura. Io ho solo avanzato un’ipotesi, ma hai
sicuramente ragione tu. Non
hai le nausee, sei sterile… sì. Non puoi essere
incinta» concluse Calida,
rifiutandosi di contemplare qualunque altra possibilità. una
gravidanza di
Anise avrebbe dato il colpo di grazia alla sua salute mentale, anzi,
forse
l’avrebbe data a quella di tutte e due. «Non sei
incinta».
«Voglio
andare a casa» disse Anise, con una nota di
disperazione nella voce «Voglio tornare a casa, nel
bosco».
«Se
ne hai bisogno posso farti salire sulla mia schiena,
non ho problemi».
Anise
si era voluta crogiolare nella sua beata convinzione di
essere sterile, si era voluta ripetere che i segni che lei, Beerus e
Champa
avevano notato fossero dovuti a tutt’altre ragioni, ma ormai
non riusciva più a
nascondere la testa sotto la sabbia come aveva fatto fino a quel
momento.
Era
costretta ad ammettere a se stessa che una gravidanza
era molto più che probabile, anche se continuava a chiedersi
come fosse potuto
accadere. Sì, l’
“attività” tra lei e Beerus era alquanto
intensa, ma in due
anni non era mai successo nulla; questo e la mancata gravidanza quando
era
stata sposata con Meskal le erano sembrate una garanzia sufficiente.
Sollevò
lo sguardo verso Calida e le bastò un’occhiata per
capire che parlarle di certe elucubrazioni non era una buona idea.
“Non
puoi essere incinta, non sei incinta”: non era stata
la banale ripetizione di quel che aveva detto lei stessa. Probabilmente
contraddirla avrebbe significato… non sapeva cosa. Non
voleva saperlo.
Se
era veramente incinta -ma perché si ostinava a dire
“se”? Certo che
lo era!- avrebbe
dovuto affrontare la questione senza contare sull’appoggio di
Calida.
Scosse
la testa. «No, ce la faccio. Ce la faccio. Mi serve
solo… dammi un minuto».
Meno
di un minuto dopo riuscì a ritrovare sufficiente
stabilità nelle gambe per rialzarsi e, complici i binari che
collegavano
Vynumeer all’uscita nella foresta, in meno di venti minuti
riuscirono a
raggiungere la casa di Anise.
«Adesso
sto meglio. Se ho avuto quel momento di crollo è
perché evidentemente non ho preso gli avvenimenti di quattro
anni e mezzo fa
bene quanto credevo» disse la ragazza, entrando in casa
«Pensavo di essermelo
lasciato alle spalle, ma a quanto pare la “pressione da
gravidanza” mi ha
segnata più del dovuto».
La
parte peggiore era che mentre parlava capiva anche di
non star mentendo.
Aveva
pensato di aver incassato in maniera più o meno
decente tutto quel che era successo, di esserne uscita quasi con
“indifferenza”…
Come
aveva potuto credere che -per quanto Meskal fosse
stato piuttosto delicato- essere martellata ogni mattina e ogni notte
per un
anno intero da un uomo che non aveva mai amato né stimato,
per di più col solo
e unico scopo di ottenere una gravidanza che non era mai arrivata,
potesse
averla lasciata senza conseguenze?
Come
aveva potuto credere di aver superato del
tutto il fatto di essere stata
ripudiata in pubblica piazza a causa della sua inadeguatezza come
donna, del
suo ventre “secco”?
Gravidanza,
gravidanza: quella parola non aveva fatto altro
che portarle stress, pressioni e dispiaceri, prima per il mancato
arrivo,
adesso perché giunta nel momento sbagliato.
Come
avrebbe potuto non aver paura di una bestia simile?
«Non
te ne faccio una colpa» cercò di tranquillizzarla
Calida «Ora siediti e cerca di rilassarti. Se vuoi posso
prepararti qualcosa da
bere, ricordo ancora come si fa».
«Non
c’è bisogno. A dire il vero la sola cosa di cui
abbia
voglia al momento è fare una lunga dormita. Qualunque cosa
sia successa prima a
Vynumeer mi ha tolto ogni energia, mi sento piuttosto
spossata» disse Anise,
sdraiandosi sul suo divano più comodo e avvolgendosi in una
coperta.
«Credo
sia stato un leggero attacco di panico, l’ho visto
succedere ad alcuni soldati nella loro prima battaglia. Tu
però lo hai avuto in
un momento e luogo più adatti, quindi nessuno ne ha
approfittato per ucciderti».
«Non
ti rispondo nemmeno, guarda» borbottò la giovane
«Calida, puoi tornare tranquillamente a Ulthmeer. Mi hai
aiutata quando ne ho
avuto bisogno e ti ringrazio, ma rimanere ancora qui sarebbe
inutile… io voglio
solo dormire, adesso».
Calida
fu costretta ad ammettere che in effetti tornare in
città sarebbe stato quasi un imperativo. Erano le dieci del
mattino passate, in
città probabilmente avevano già iniziato a
chiedersi che fine avesse fatto,
però non le piaceva l’idea di lasciare sola Anise.
«Sei sicura?»
«Hai
delle responsabilità, Calida».
«Anche
verso di te».
«Hai
già fatto quello che potevi per me. Torna in
città,
sarebbe inutile se tu rimanessi qui a fare la guardia a una lince che
dorme».
«Tornerò
domani stesso appena potrò» concluse Calida, un
po’ a malincuore «Tu riposa e riguardati,
Anise».
La
ragazza non rispose, limitandosi a stringersi di più
nella coperta e ad ascoltare prima il rumore della porta di ingresso
che si
chiudeva, poi i passi di sua sorella diventare man mano sempre
più distanti.
Appena
ebbe giudicato che Calida si era allontanata
abbastanza buttò all’aria la coperta, si
alzò e, con lo sguardo vacuo e il
passo vacillante, si diresse verso lo specchio da terra che si trovava
in una
delle stanze attigue. Mentre camminava si tolse di dosso il prendisole,
l’unico
indumento che indossava, lasciandolo cadere a terra.
Raggiunse
lo specchio, si guardò: come aveva potuto non
capire? La pancia non era grande e questo era normale
perché, ricordando da
quando erano iniziate le nausee e l’ingrossamento del seno,
probabilmente era
incinta da poco più di tre mesi… ma avrebbe
dovuto capirlo.
Avrebbe dovuto
capirlo.
Scattò
verso i suoi gomitoli e i suoi lavori a maglia
iniziati e non finiti, afferrò un ferro da calza e poi,
altrettanto
velocemente, tornò davanti allo specchio. Stentava quasi a
riconoscersi, in
quel momento: non aveva mai visto sul proprio viso
un’espressione così folle e
risoluta allo stesso tempo.
Sollevò
il ferro da calza, indecisa su quale fosse il modo
migliore di usarlo. Quando una Lusan era costretta per qualsiasi motivo
a
ricorrere a un aborto “meccanico” solitamente
andava da una mazèra -una
donna piuttosto anziana che
di solito seguiva le donne in gravidanza- che utilizzava uno strumento
non
troppo diverso da quello che lei aveva in mano, ma il rischio di
emorragie
interne era sempre altissimo, dunque tentare di fare una cosa simile da
sola
sarebbe stato un suicidio. Avrebbe avuto più
possibilità di sopravvivenza se si
fosse infilzata il ventre direttamente.
Un
attimo dopo si avvide di quanto stesse tremando la mano
che stringeva il ferro, motivo per cui se lo lasciò sfuggire
via dalle dita. In
quelle condizioni non sarebbe riuscita a combinare alcunché.
Doveva
tornare a ragionare.
«È
il figlio di un dio. Chi mi garantisce che riuscirei a
ucciderlo in questa maniera, anche se è così
piccolo?» mormorò.
Si
diresse in cucina, ricordando di avere segnata da
qualche parte la ricetta di una tisana che avrebbe potuto procurarle un
aborto,
ma anche in quel caso valeva lo stesso discorso: sbagliare una dose
anche solo
di poco l’avrebbe uccisa, mentre non c’era la
garanzia che quella tisana,
seppur preparata correttamente, potesse davvero avere qualche effetto
sul
figlio di un Hakaishin.
Il
figlio di Beerus.
Anise
non si era mai soffermata veramente su tale dettaglio
fino a quel momento: portava in grembo il figlio suo e di Beerus, Beerus, il suo compagno, una persona che
amava moltissimo.
Una
persona che al momento era alquanto instabile.
Un
ragazzo di quasi vent’anni che ultimamente mostrava
reazioni degne di un bambino e che di conseguenza non avrebbe mai
potuto
prendersi cura di un neonato.
“In una
relazione sana ed equilibrata i figli possono
essere un collante… ma se la relazione non va più
che bene, e non si è entrambi
“adulti” a livello mentale, i figli
diventano un
acido”.
Le
parole che Calida le aveva detto il giorno del suo
ventesimo compleanno le rimbombavano nella testa, e mai come in quel
momento le
erano sembrate tanto vere.
Dire
a Beerus della gravidanza lo avrebbe soltanto mandato
ancor più fuori di testa, perché lui non aveva
mai avuto velleità paterne… ma
c’era anche un’altra possibilità,
perfino peggiore, ossia che Beerus -dopo
l’incredulità iniziale- manifestasse la
volontà di tenerlo perché “Ormai nostro
figlio c’è ed è un miracolo che ci
sia”.
Sarebbe
stato un problema, perché lei non intendeva mettere
al mondo quella creatura in nessunissimo caso. Era troppo terrorizzata,
troppo
angosciata, troppo convinta che non fosse il momento giusto e che, in
ogni
caso, né lei né Beerus sarebbero stati
all’altezza. Non era neppure sicura che
sarebbe mai riuscita ad amare quell’esserino.
Non
sarebbe mai potuta finire bene, sia nel caso che Beerus
le imponesse di portare a termine la gravidanza, sia che lei abortisse
senza
che lui fosse d’accordo. Nel primo caso lei sarebbe finita a
odiarlo per quella
costrizione, mentre nel secondo sarebbe stato Beerus a odiare lei.
Informare
Beerus della questione sarebbe stata una mossa
sbagliata, non aveva dubbi, e più il tempo passava
più Anise vedeva diminuire
la quantità di possibili strade da percorrere…
finché, dopo essersi
accovacciata su una delle sedie della cucina, capì che alla
fin fine ce n’era
una soltanto.
Una
strada che non le piaceva per nulla e che andava ben
studiata prima di essere imboccata, chiamata “Whis”.
Quando
sentì due forti colpi contro la porta d’ingresso
non
poté evitare di sobbalzare per la sorpresa, per un attimo
temette perfino che
Calida fosse tornata indietro…
«Anise!»
Tuttavia,
quando sentì la voce di Beerus, la prima cosa che
pensò fu questa: “Avrei preferito che fosse
davvero Calida.
Stavolta non ho molto da dire, se non che è un miracolo che
abbia davvero aggiornato xD... anche se l'ho fatto con un capitolo che
si può riassumere in "tutto e niente" :"D, quindi niente, a
voi eventuali commenti.
Ah, dimenticavo: nel caso in cui qualcuno se lo sia domandato, sì, l'esserino con cui si è fuso Rubedo/Kamandi era della stessa razza di Watagash. Watagash. L'alienino viola che compare nella saga filler in cui Gohan si ritrova a fare l'attore (non ricordo il numero preciso degli episodi in questione, però dovremmo esserci capiti :"D)
Intanto ringrazio dal profondo del cuore chiunque stia seguendo la
storia ^__^
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Capitolo 21 *** 21 ***
RMIcap21
21
Quando Beerus si era fatto
lasciare da Whis davanti alla
casa di Anise, la sua mente aveva già prodotto numerosissimi
film mentali su
quel che sarebbe potuto succedere.
Probabilmente un nuovo litigio.
Anise non si era fatta viva
per tutta la settimana
nonostante gli avesse detto “Ti farò sapere quando
sarò disposta ad accettare
le tue scuse” -e già questo, che un dio
dovesse scusarsi e per di più aspettare il permesso di farlo
era discutibile-,
si era schierata dalla parte di Champa ed era stata perfino a casa sua
diversi
giorni! Lo aveva lasciato da solo proprio adesso che mancavano pochi
giorni al
suo ventesimo compleanno, facendogli persino pensare che non si sarebbe
presentata.
Proprio lei, la
sua Iarim Neiē.
Beerus avrebbe potuto
sorvolare sull’assenza di chiunque,
ma non sulla sua.
Anche quando aveva iniziato
a riflettere a mente più fredda
-capendo che forse dare dell’ingrata ad Anise e dire a Champa
che l’avrebbe
preferito morto non erano state delle genialate- la sensazione di
essere stato
abbandonato dalla “sua” persona non gli aveva mai
permesso di scendere
completamente a più miti consigli.
Il fatto che lei non l’avesse cercato non
aveva fatto che acuire quella sensazione: lui aveva iniziato a sentirne
la
mancanza già dal giorno dopo, pur essendo ancora arrabbiato,
per lei invece non
doveva essere stato lo stesso o si sarebbe fatta viva.
Beerus trovava lunghi
tre giorni senza vederla quando era tutto a posto, dunque era intuibile
come si
sentisse dopo un distacco lungo quasi una settimana, per di
più dopo un
simile litigio.
Era principalmente per quel
motivo che si era fatto portare
lì, perché si era detto
“basta”; al diavolo i permessi, al diavolo tutto,
era
ora di chiudere quella brutta faccenda una volta per tutte e, se lei
non voleva
parlare, allora l’avrebbe fatto lui!
Si era recato da lei con
animo battagliero, che tuttavia
evaporò all’istante appena Anise aprì
la porta e lui poté vederla.
«Cosa ti
è successo?!» fu la prima cosa che disse,
profondamente allarmato, avvicinandosi a lei con rapidità.
Il prendisole che indossava era storto, come se lo avesse
infilato addosso alla bell’e meglio -lei, che era
così precisa!- il viso e
parte dei capelli erano umidi come se si fosse data una rapida
sciacquata al
volto per nascondere chissà che cosa e, soprattutto, aveva
un’espressione che
lui non avrebbe esitato troppo a definire quasi
“traumatizzata”.
Mai le aveva visto negli
occhi un simile sguardo, mai lo
avrebbe voluto vedere: era qualcosa che faceva passare tutto in secondo
piano,
anche e soprattutto il suo nervosismo e i precedenti dissapori. Non
avevano
importanza, non con lei così.
«Nulla.
Perché?»
Il tono di voce
perfettamente calmo della sua compagna, in
netto contrasto con quel che lui aveva davanti agli occhi, non fece
altro se
non farlo preoccupare ulteriormente.
Non aveva idea di cosa le
fosse capitato ma qualunque cosa
fosse doveva essere stata orribile, e lui non era stato lì
per impedirla. Forse
avrebbe potuto evitare che le succedesse, se si fosse deciso a muoversi
prima
invece di rimanere a crogiolarsi nell’orgoglio e nel
nervosismo.
Aveva la
sensazione che più tempo passava, più lui
diventava totalmente incapace di
darle la protezione di cui aveva bisogno… ma non erano i
suoi sensi di colpa a
contare, non in quel momento.
«Non dirmi
“niente”! Posso avere dei picchi di
stupidità,
sì, ma solo fino a un certo punto.
Cos’è successo? Cosa ti hanno fatto? Chi lo ha fatto?»
“Caro Beerus,
è ‘successo’ che non sono poi
così sterile
come credevo, che ‘abbiamo fatto’ sesso una volta
di troppo e, ovviamente, i
colpevoli di questa cosa siamo solamente noi due. Quindi ora devo
abortire,
perché io non me la sento di mettere al mondo questa
creatura, mentre tu non
sei in grado di cambiarti le lenzuola, quindi tantomeno saresti in
grado di
cambiare un neonato quando si sporca” pensò Anise
“No, sul serio, io dovrei
davvero dirgli certe cose?”
«Nessuno mi ha
fatto nulla, è solo che non sto molto bene. Poi forse anche
lo stress… per la nostra
situazione» aggiunse la ragazza, rientrando in casa assieme a
lui «Anche quello
non mi ha giovato. Ho cercato di contattarti due giorni fa, Whis
però ha
detto che stavi facendo il bagno e-»
«Cosa?! Hai
cercato di contattarmi?» si stupì Beerus
«Whis
non mi ha detto nulla del genere!»
Oltre all’angoscia
e a un panico che non era ancora andato
via completamente, ora si stava formando dentro di lei un denso grumo
di
rabbia, freddo e duro come se le fosse comparso un proiettile di hrat’san
nello
stomaco.
Anise sapeva benissimo che
Whis era contro quella relazione
e lo era sempre stato, ma si era definitivamente rotta le scatole di
quei
sabotaggi. Prima li aveva portati al centro di Ulthmeer nella speranza
che
succedesse qualcosa di analogo a ciò che poi era accaduto,
adesso si era
“dimenticato” di riferire a Beerus che lei lo aveva
cercato…
“Lei
dovrà mitigare le intemperanze e i momenti di
ribellione di Beerus, spingendolo a fare quel che ho detto prima:
svolgere il
suo dovere di Hakaishin, allenarsi e anche studiare. Io a quel punto
non
intralcerò la vostra relazione…”
Whis aveva detto
così e lei era stata di parola: aveva
cercato di spingere Beerus a svolgere il suo dovere nel modo corretto,
lo aveva
spinto a dare il massimo durante gli addestramenti anche ripetendogli
spesso
quanto fosse fiera di lui e della forza che stava acquisendo e, per
quanto
concerneva lo studio, era riuscita a fargli capire da un pezzo quelle
benedette
funzioni lineari.
Whis invece non aveva fatto
altro che remare loro contro. Non direttamente magari, ma agendo in
maniera indiretta aveva creato diversi
problemi.
Era ora di risolvere la
questione con qualunque
mezzo, di
fare in modo che quell’angelo la facesse finita,
perché non intendeva più
sopportare cose del genere. Lei e Beerus avevano già
abbastanza problemi senza
che si mettesse in mezzo anche Whis.
«Avrei dovuto
aspettarmelo» disse piano Anise «Se ne
sarà
“dimenticato”, immagino. Per quel che gli pare ha
la memoria molto corta, il
nostro Whis».
«Credi che
l’abbia fatto di proposito?»
«Certo che
l’ha fatto di proposito, mi sembra abbastanza
ovvio. Ora però non diamo inizio a una discussione anche su
questo, perché non
è proprio giornata».
Dopo
quell’affermazione della Lusan seguirono diversi
istanti di silenzio.
«Anise, stavo
pensando… questo è uno dei tuoi
“momenti
strani”? Quelli di cui mi avevi parlato?»
La risposta sincera da dare
a Beerus sarebbe stata “no e
sì”: “no” perché il
suo attuale stato d’animo aveva delle ragioni del tutto
fondate e non aveva mai avuto un crollo così prima
d’ora, “sì” perché
ora che
stava passando iniziava a sentirsi più o meno come in uno
dei suddetti “momenti
strani”. Anise però non aveva proprio le forze per
riuscire a spiegare a Beerus
qualcosa che nemmeno lei capiva appieno. «Sì, in
pratica sì».
Se Anise avesse indossato un
altro vestito, se fosse stata
notte invece che giorno e non avesse avuto un bambino in grembo,
avrebbe
pensato di essere tornata indietro nel tempo di un paio
d’anni: Beerus, senza
dire una parola, l’aveva appena abbracciata come aveva fatto
la sera in cui lei
gli aveva parlato del proprio passato, la stessa in cui si erano dati
il primo
bacio e si erano messi insieme. Perfino il luogo era esattamente lo
stesso.
Lasciò ricadere
le braccia lungo i fianchi, perché
era veramente il colmo: da tempo lui si stava comportando come uno
schizzato, mentre ora che un suo comportamento scorretto le avrebbe
“facilitato” le cose - perché nascondere
un segreto a un fidanzato che non si
comportava bene sarebbe stato leggermente più
“semplice”- eccolo lì, pronto a
fare l’innamorato premuroso che baciava, coccolava e si
occupava della sua
compagna… e lei in teoria avrebbe dovuto perfino
rallegrarsene.
Il tempismo di Beerus era a dir poco orrendo.
«Non volevo che
andasse a finire com’è andata a finire, non
volevo darti dell’ingrata, non volevo
“attaccarti” per colpa di un videogame,
ma soprattutto non avrei mai voluto vederti in questo modo per colpa
del nostro
litigio» disse Beerus, visibilmente dispiaciuto.
«Apprezzo le tue
parole» fu la risposta quasi meccanica
della lince, che non riuscì a ricambiare
l’abbraccio; un po’ in virtù del
tempismo orrendo e un po’perché, come una rondine
non faceva primavera, un
momento di dolcezza non significava un ritorno alla
normalità.
Seppure un
po’ferito dall’immobilità di Anise, Beerus in quel
momento non sarebbe riuscito a rimproverarle alcunché,
motivo per cui la
lasciò andare e le prese il viso tra le mani. «Ce
l’hai ancora con me?»
«Ero pronta ad
accettare le tue scuse già due giorni fa,
quindi no. È solo…» fece spallucce
«È solo un momento. Passerà».
Per una bizzarra ironia
della sorte si era trovata a
pronunciare parole quasi identiche a quelle di Beerus, probabilmente
con uno
stato d’animo simile a quello del suo compagno quando le
aveva dette.
Con la differenza che lei
intendeva fare qualcosa di
concreto per risolvere il problema più grosso, naturalmente.
«Comunque non ho
mentito, oltre a una giornata di “umore
strano” ho anche qualche problema a livello fisico. Non
è qualcosa di grave né è costante, ci
sono dei momenti in cui sto benissimo e dei momenti
in cui sto un po’meno bene, ma è un
po’fastidioso… e un po’ “da
donne”»
aggiunse, conscia che così facendo sarebbe stato difficile
che Beerus facesse
ulteriori domande: tutto grazie al “trauma da spiegazione
precisa del mestruo”.
Non avrebbe mai creduto che un giorno le avrebbe fatto comodo.
Beerus le
accarezzò i capelli. «Non ci voleva
proprio».
«No, infatti. Se
non dovessi stare meglio magari potrei
andare da un qualche medico di qualche posto».
«Macché
medico, c’è Whis» ribatté il
dio, proprio come
Anise aveva immaginato «Avrà l’occasione
di rendersi utile, una volta tanto!
Dopo essersi dimenticato -o “dimenticato”- di
riferirmi che mi avevi cercato,
il minimo che possa fare è darti un po’di sollievo
dai tuoi problemi da donne.
Farà meglio a curarti personalmente, in fretta e bene, altrimenti!...»
«Possiamo
parlargliene quando si farà di nuovo vivo. In
questo preciso momento non ho fastidi, dunque preferisco evitare di
vederlo
prima del dovuto, se posso» disse Anise, che doveva
rimuginare ancora un po’su
come muoversi «Per che ora avete concordato?»
«Per
stasera».
«Questo significa
che abbiamo modo di parlare un pochino».
«Sei sicura di
essere nelle condizioni giuste?» le chiese
lui, con aria dubbiosa.
«Ho detto
“parlare”, non “mangiarci la faccia a
vicenda”.
Per quest’ultima cosa non è giornata, ma col
parlare non ho problemi. Anche a
me dispiace per com’è finita la scorsa settimana,
sai che odio litigare con
te».
«Lo odiamo in
due».
«Però…»
«Ecco, lo
temevo» borbottò Beerus.
«Quel che hai
detto a Champa è stato bruttissimo, ci è rimasto
davvero molto male».
Sentir parlare del gemello
fece innalzare nuovamente il
livello di nervosismo dell’Hakaishin, che non aveva la minima
voglia di pensare
al suo gemello. «E tu lo sai bene, dal momento che sei stata
a casa sua tutti
questi giorni. A far cosa non si sa».
Silenzio di tomba.
«Chiudiamola»
disse Anise, dopo un po’.
«Sei tu che hai
tirato fuori questa faccenda, io-»
«Non la faccenda,
la nostra relazione. Chiudiamola».
Era stata una doccia fredda
vera e propria per Beerus, come
si evinceva dalla sua espressione attonita.
«C-cosa?...»
«Non riusciamo a
parlare, quasi volta che stiamo insieme
finiamo a litigare per delle stupidaggini e quando io ti faccio notare
degli
errori tu fai insinuazioni nemmeno troppo velate sul fatto che io possa
aver
fatto chissà che con tuo
fratello
-perché “a far cosa non si sa” voleva
dire questo-, segno evidente che ormai ti
fidi ben poco della sottoscritta. Se le cose stanno così non
capisco perché
dovremmo restare ancora insieme».
«Come puoi dire
una cosa del genere?! COME?!»
gridò il dio, ancora più incredulo «Non
puoi parlare sul
serio! Cosa vorrebbe dire questo?! Che non… tu
non… insomma, tu non provi
più niente?!»
Stavano insieme da
più di due anni, di per sé non era un
periodo di tempo eccessivamente lungo; eppure, da
“tipico” ragazzo che stava
vivendo la sua primissima relazione -per di più estremamente
seria- non
riusciva a immaginare di trascorrere la vita senza quella persona.
Non riusciva a concepire
l’idea di non poterla più avere
vicino, come non riusciva neppure a sostenere il pensiero di un simile
“vuoto”.
L’unico pensiero che aveva in testa era quello di non volerla
perdere per
nessunissima ragione, anche se avevano difficoltà a
comunicare, anche se
litigavano, anche se… tutto.
«Quello che provo
non c’entr-»
«Sì
che c’entra,
invece!» la interruppe lui «Come puoi
dire che non c’entra?!»
«Lo dico
perché è la verità. Quel che proviamo
uno per
l’altra ha una certa importanza, ma da solo non
basta».
«Sì che
basta! Non-»
«Tu e io ci
amiamo, sbaglio? Eppure guarda come siamo
ridotti… noi due! Noi, che stavamo talmente bene da pensare
di passare la vita
intera insieme! Come fai a dire che basta, Beerus?»
«Io non ho
cambiato idea, penso tuttora di voler passare la
vita insieme, anche se siamo messi così. Continuerei a
pensarlo anche se
fossimo messi peggio, a dirla tutta» aggiunse «Eri
seria quando dicevi di
chiudere? Tu credi davvero che divisi staremmo meglio?
Perché io invece non lo
credo affatto e- no, non
interrompermi, per me è già molto difficile fare
discorsi di questo genere» la
bloccò, vedendo che stava per dire qualcosa
«Dovresti sapere come sono fatto.
Anise, io sono convinto che lasciarci sia l’alternativa
peggiore tra tutte,
quindi non intendo chiudere. Non mi passa neppure per
l’anticamera del
cervello, né dovrebbe passarci a te, se davvero quel che
senti non è cambiato.
Finché siamo insieme c’è sempre la
possibilità di lasciarci alle spalle tutto
questo macello, prima o poi».
“Come no! Poi le
città smetteranno di farsi la guerra, Whis
diventerà una persona decente, Calida lascerà il
suo ruolo di Ulthmeer a-ghekavary
per andare a fare la
ballerina in un locale notturno e si farà vivo il vero
Coniglio Assassino di
Caerbannomeer alla testa di un’armata di conigli carnivori
che andrà a
conquistare tutta la valle” pensò la Lusan,
trattenendo una risata amara come
veleno.
Non riusciva a credere alle
parole di Beerus -soprattutto
in previsione di quel che stava per fare a sua insaputa- però non
riusciva neppure a smettere di sperare
in un miracolo che salvasse la sua relazione con la persona che amava
più di
chiunque altra.
Doveva ancora capire da
dov’era venuta l’idea di proporre
di troncare la loro storia, da dove aveva trovato il coraggio, sapendo
benissimo che sperava nelle stesse cose in cui sperava Beerus e che per
lei
sarebbe stata dura esattamente quanto lo sarebbe stata per lui.
Era complicato.
Molto complicato.
«Sì.
Prima o poi» ripeté Anise, senza particolari
inflessioni
«Tu comunque devi scusarti con Champa o perlomeno fargli
presente che non lo
preferiresti morto, perché non sei una persona tanto
orribile da desiderare
veramente una cosa simile. In tal caso potremmo definire risolto almeno
questo
aspetto dei nostri problemi attuali».
«Tanto il giorno
del mio compleanno verrà sicuramente in
casa mia a seccarmi, gli dirò due parole in quel
frangente» sbuffò Beerus, dopo
un attimo di esitazione dovuto al cambio d’argomento
improvviso.
«Beerus, Champa
non verrà al tuo compleanno. Probabilmente
non lo farà nemmeno l’anno prossimo o quello
successivo, né quello dopo ancora.
Tu forse non lo hai capito, ma quest’anno sei andato molto
vicino a rischiare
di festeggiarlo da solo con Whis» disse Anise «Io
mi sono fatta viva perché sei
il mio compagno e non volevo aggiungere ulteriore acredine o motivi di
divisione tra noi due, Champa però rimane fermo sulla sua
posizione».
«Quindi non
verrà?»
«No».
Rimasero in silenzio per un
paio di minuti, mentre Beerus,
perso in pensieri indistinti e sensazioni che neppure lui capiva
appieno riguardo
la “defezione” di Champa, fissava un punto
indefinito della parete opposta.
«Tanto
avrò con me la sola persona di cui mi importi
davvero, se Champabomba Cannoniere non si presenterà, beh,
fatti suoi» concluse
l’Hakaishin, atono.
«Quel giorno
chiamalo almeno per fargli gli auguri, sarebbe
un minimo segno di distensione».
«È lui
quello che non vuole venire al mio compleanno per
colpa di una litigata» ribatté Beerus
«Come se pugni e litigi fossero una
novità!»
«Sai benissimo che
non è stata una litigata normale, se poi
vogliamo continuare a prenderci in giro è un altro discorso.
Il giorno del
vostro compleanno lo chiameremo».
«Non ti prometto
nulla» borbottò il dio «Cambiamo
discorso.
Ora come ti senti?»
«Un
po’meglio di come mi sentivo quando sei arrivato. Credo
che entro domani sarò del tutto a posto» disse
Anise «O almeno lo spero. Già ti
avviso che quasi sicuramente Calida si farà vedere
già domattina…»
«Lei cosa
c’entra?!» scattò subito Beerus,
già prontissimo
a sospettare che in realtà la vera ragione di quei malesseri
di Anise fosse
proprio Calida.
«È
andata via prima che arrivassi tu e ha assistito al
“momento strano”» spiegò Anise
«Ha fatto quel che ha potuto per darmi una mano,
voleva perfino restare qui, se non lo ha fatto è
perché io le ho detto che
avrei fatto una dormita e l’ho convinta a tornare in
città».
«Hm» si
limitò a dire Beerus, per nulla desideroso di dare
inizio all’ennesima discussione «Anche io
però voglio restare nelle vicinanze.
Voglio sincerarmi personalmente delle tue condizioni».
«Nelle
vicinanze?»
«Non sono sicuro
che tu voglia dormire con me» mugugnò lui,
sostenuto «Ripeto: solo dormire. Anche perché, al
di là del resto, non sei
perfettamente in salute».
«Per me non ci
sono problemi, possiamo condividere il letto».
Beerus annuì.
«Bene».
«Bene. Ti va un
infuso?»
«Per una volta posso farlo io» si
offrì l’Hakaishin «So
dove sono le miscele e per mettere a bollire dell’acqua non
serve essere dei
geni».
«Preparare un
infuso non costa fatica».
«Lo so ma
preferirei che tu stessi a del tutto a riposo,
per oggi» ribatté il giovane.
«Qualcuno
però dovrà occuparsi della cena, dopo».
«Whis ha sempre
del cibo con sé, ci arrangeremo con quello.
Non dovrai preoccuparti di niente, Anise».
«D’accordo»
cedette la lince, e capendo che in alcun caso
lui
avrebbe cambiato idea si sedette su un divanetto «Ti
ringrazio».
«Sei la mia Iarim
Neiē, occuparmi di te quando ne hai
bisogno è mio dovere e soprattutto
mia precisa volontà. Ho quasi una settimana da
recuperare».
«Non
preoccuparti».
«Invece mi
preoccupo. Se si tratta di te non posso farne a
meno, indipendentemente da tutto» replicò Beerus
«Faccio l’infuso».
***
“Stavo
per dimenticarmene: Anise ha detto di avere avuto qualche
piccolo fastidio a livello fisico oggi, ‘cose da
donne’, non ho approfondito. Questa
sera sembra essere stata bene…”
“È
così, non ho avuto fastidi”.
“Ma
nel caso in futuro debba avere di nuovo problemi
pretendo che te ne occupi tu personalmente al massimo delle tue
capacità, Whis.
Ci siamo capiti?”
Quando Beerus gli aveva
detto quelle cose subito dopo cena,
Whis non si era stupito poi così tanto: le altre due volte
in cui Anise aveva
avuto il ciclo -“cose da donne”, solo di quello
poteva trattarsi- era stato
piuttosto doloroso, seppur molto breve, dunque era perfettamente
plausibile che
avesse avuto dei fastidi.
Eppure eccolo lì,
alle una di notte, ancora sveglio e
intento ad ascoltare l’orologio che scandiva i secondi con un
leggero
ticchettio, incapace di lasciarsi andare a un sonno che sarebbe servito
più che
altro a far passare le ore con maggior rapidità.
Non si era neppure cambiato
d’abito, limitandosi a togliere
le scarpe e a lasciare l’aureola fluttuare accanto al letto.
“C’è
qualcosa che non va. Non so cosa sia, ma ho questo
presentimento”.
Cercò di fare
mente locale, eppure non riuscì a
identificare quale potesse essere la causa di tanta inquietudine, uno
stato
d’animo che normalmente non gli apparteneva affatto. La sua
era una razza di
creature in cui “sentire” era un
po’inibito -e diventava ancor più inibito con
il passare dei secoli- e, dunque, poco abituata al turbamento.
“Anche se a dire
il vero sono oltre due anni che mi sento
molto meno tranquillo del dovuto” sospirò.
Era passato del tempo,
eppure Whis si scopriva a maledirsi
ancora per aver abbandonato Beerus nella foresta.
Probabilmente non avrebbe mai
smesso di farlo.
Due leggeri colpi contro la
porta interruppero il suo
flusso di pensieri, lasciandogliene in mente uno soltanto: “Ecco, avevo ragione”.
«Whis?...»
Aveva immaginato che non si
trattasse di Beerus appena
aveva sentito bussare.
Per qualche istante fu
terribilmente tentato di fingere di
dormire e lasciare chiusa quella porta, tuttavia si rassegnò
presto al fatto
che non poteva permetterselo. Se Anise lo stava cercando a
quell’ora, una volta
certa che Lord Beerus dormisse profondamente, doveva essere per
qualcosa che
avrebbe fatto meglio a non ignorare.
«Avanti».
La porta si aprì,
e Anise entrò rapidamente nella stanza.
«Non chiedermi perché ma immaginavo che fossi
sveglio».
«E lei non mi
chieda perché, ma immaginavo che sarebbe
successo “qualcosa”» replicò
lui.
«A dir la
verità il “qualcosa” è
già successo da qualche
mese» disse Anise «Ho voluto nascondere la testa
sotto la sabbia, ho voluto
crogiolarmi nelle mie speranze e convinzioni, ho voluto chiudere gli
occhi
dinanzi all’ovvietà… ormai
però non posso più farlo».
«Capisco, capisco.
Si è resa conto che la sua relazione con
Lord Beerus ormai è giunta al capolinea»
annuì l’angelo, con un’espressione di
dispiacere alquanto falsa «Immagino sia dura da
accettare».
«Sono
incinta».
«Ohohohohoh!
Non
è uno scherzo che possa funzionare, Lady Anise, sappiamo
tutti che lei non può
restare incinta» minimizzò Whis.
«Preferirei
anch’io che fosse uno scherzo, peccato che
invece non lo sia affatto. Aspetto un figlio da Beerus»
scandì la Lusan, con
espressione funerea «E sebbene non ritenessi che potesse
esistere un momento
giusto per una mia gravidanza, quello attuale è il
più sbagliato in cui
poteva capitare una cosa simile».
Il sorriso
dell’angelo svanì nel capire che purtroppo Anise
stava dicendo sul serio: era incinta, o comunque credeva davvero di
esserlo.
Fece comparire il bastone in
una mano, aggrappandosi quasi
con “disperazione” alla speranza che a essere
valida fosse la seconda teoria,
ma una volta effettuato un rapido controllo capì che era
stata una speranza
vana.
«Lady
Anise… lei doveva essere sterile. Sterile»
ripeté, cercando di contenere
l’agitazione crescente «Non può essere
rimasta incinta, è una cosa
impossibile!»
«Lo credevo anche
io. A quanto pare sbagliavo».
Anise incinta del suo
Hakaishin.
Non era reale, non doveva
esserlo: evidentemente si era
addormentato senza rendersene conto e ora stava sognando quella che per
lui
sarebbe stata una rogna immensa, non c’era altra spiegazione.
O meglio, c’era,
ma lui si rifiutava di accettarla. «Questo è un
incubo» mormorò.
«Sarebbe bello,
però purtroppo non è così».
L’angelo si
passò una mano sul volto. L’imprevedibile era
accaduto, dunque non restava altro da fare se non agire di conseguenza.
«Lady
Anise, spero che abbia conservato sufficiente buonsenso da non pensare
di
portare avanti la gravidanza e/o di parlare di questo fatto al suo
compagno.
Lei è già una distrazione sufficiente per Lord
Beerus, anzi, oserei dire che da
qualche mese a questa parte sia diventata eccessiva.
Se ora aggiungessimo un neonato all’equazione farei prima a
cercare un
candidato per prendere il posto di Lord Beerus, un candidato che al
momento non
c’è. Non c’è!»
ripeté, frustrato.
«Io per
l’appunto avevo deciso di interrompere la
gravidanza e di non informare Beerus. A sentire quel che dici i miei
pensieri
erano sensati, sebbene sappia che, moralmente parlando, informarlo di
quel che sta succedendo e delle mie intenzioni sarebbe la scelta
più giusta».
«Deve anche
rendersi conto del fatto che sarebbe un rischio
troppo grande. Lord Beerus non ha mai mostrato velleità
paterne, del resto è un
bambino egli stesso... ma cosa succederebbe se per disgrazia, una volta
messo a
conoscenza della presenza di questo figlio in arrivo, decidesse
imprevedibilmente
di volerlo tenere? No, no: lei deve interrompere la gravidanza come
aveva
deciso di fare e Lord Beerus non dovrà mai e poi mai venire
a conoscenza di tutto
ciò» concluse Whis.
«Lieta di trovarti
d’accordo. A questo punto direi che
possiamo procedere».
«Cosa intende per
“procedere”?»
Anise sollevò un
sopracciglio. «Credevi che fossi venuta da
te solo per annunciare la lieta novella? Non puoi essere
così sciocco. Cosa
pensi che intenda per “procedere”?» si
indicò il ventre «Vorrei che ti
occupassi del feto e di rendermi sterile per
davvero».
«No»
disse l’attendente «È indubbio che debba
abortire, ma
se spera che io mi lasci coinvolgere ulteriormente in questa storia si
sbaglia.
Utilizzi un qualche veleno, si rechi da un qualche medico, faccia
quello che
serve ma non venga da me».
«Se quello che
porto in grembo non fosse figlio di una
divinità ti assicuro che lo avrei già fatto, noi
Lusan abbiamo un infuso di
erbe che serve proprio per cose come questa»
ribatté lei «Però questo qui È figlio di un dio. Nessuno mi
garantisce che suddetto infuso funzioni, proprio come nessuno mi
garantisce che
non resisterebbe a un aborto “meccanico” che per un
qualche miracolo non mi
squarci l’utero. Ora, io immaginavo una risposta del genere a
parte tua» ammise
Anise «Ed è per questo che oggi ho confessato a
Beerus di avere qualche
“problema fisico”. Lui ti ha detto di occupartene
personalmente al massimo
delle tue capacità, se non erro».
«Lo ha detto
perché non sapeva di quale tipo di problema si
trattasse» fu la gelida replica di Whis.
«Non lo sapeva e,
come tu hai detto molto chiaramente, non
dovrà mai saperlo. Sono piuttosto sicura che tu possa
eseguire questa
operazione in modo rapido e indolore per tutti, incluso il feto stesso.
Credo
siano ben poche le cose che voi angeli non possiate fare».
«Se io mi
rifiutassi, lei cosa farebbe?»
«Tornerei di sopra
nel letto facendo in modo di svegliare
Beerus “per sbaglio”, gli direi che non sono stata
bene, che sono venuta da te
e che non hai fatto granché per aiutarmi. Già
questo potrebbe causarti diverse
noie con lui, perché se vuoi mantenere il silenzio sulla
gravidanza non
potresti dirgli il motivo per cui ti sei rifiutato di darmi una mano.
Presumo
che saresti costretto ad accontentarmi ugualmente, sebbene con un
giorno di
ritardo. Tuttavia» continuò «Nel caso in
cui tu ti intestardisca comunque a non
aiutarmi, giuro qui e ora che mi farò portare da Beerus -in
un giorno
totalmente casuale- dalla mazèra
più
imbranata di cui abbia sentito parlare, facendo una brutta fine
piuttosto
ovvia. Beerus a quel punto verrebbe a sapere qual era il
“problema” che ti sei
rifiutato di risolvere. Sono piuttosto sicura del fatto che non
vorrebbe sapere
più alcunché di te. Dovresti
rinunciare
al tuo promettentissimo allievo e cercare un candidato… che
“non c’è, non
c’è!”»
Anise aveva esposto il tutto
con una piattezza tale da far
sembrare il tutto un brano da imparare a memoria e poi ripetere.
Probabilmente
era accaduta proprio una cosa del genere, pensò Whis, mentre
si rendeva conto
di essere stato preso in contropiede: chissà quante volte si
era ripetuta
mentalmente quel discorso, talmente tante da far sembrare la propria
eventuale morte e
quella del feto due cose abbastanza “facili” da
sostenere. «Si rende conto del fatto
che lei in quest’ultimo caso morirebbe, Lady Anise?»
«Ti rendi
conto…» sussurrò la Lusan con breve un
guizzo di
paura e disperazione nello sguardo, entrambe cose che fino a quel
momento stava
cercando di nascondere «Del fatto che questa gravidanza mi ha
mandata nel panico
e mi sta facendo uscire di testa al punto che, al momento, della mia
stessa
vita mi importa relativamente poco?»
«Mi faccia capire:
ha pensato a tutto quel che mi ha detto
pur essendo in condizioni del genere?»
Anise annuì.
«Per forza».
Dopo un attimo di completa
immobilità, Whis puntò il
bastone contro il ventre di Anise. «Per questa volta ha
vinto».
«Sto per lasciar
morire quello che sarebbe potuto diventare
un figlio mio e della persona che amo. Lo sto facendo perché
ho paura, perché
sento che non sarei in grado di essere il tipo di madre che
meriterebbe, perché
la sua natura “mista” ha troppe incognite,
perché suo padre è troppo immaturo,
perché al momento la situazione in generale è pessima e perché la mia
relazione sta andando già abbastanza male
per aggiungere altre complicazioni. È la
“necessaria risoluzione di un
problema”, non una vittoria».
Whis non fece ulteriori
commenti, limitandosi a procedere.
Il tutto si svolse in modo
molto rapido e fisicamente
indolore: il solo segno visibile dell’azione di Whis fu la
vista del ventre un
po’ gonfio della ragazza tornare a essere piatto
com’era sempre stato, e la
sterilizzazione non fu minimamente avvertita dalla giovane, che per
tutto il
tempo non fece che guardarlo dritto negli occhi.
«Ho concluso
l’operazione con successo, Lady Anise».
La Lusan si
limitò ad annuire e si sedette sul letto, in
completo silenzio, fissando il pavimento con aria assente.
Whis avrebbe preferito che
tornasse immediatamente di
sopra, però non se la sentì di turbare quegli
istanti di “raccoglimento”.
Mancava un po’di empatia ma non era così stupido
da non comprendere che la
ragazza, dopo aver compiuto quella scelta difficile, potesse aver
bisogno di un
attimo in cui avere l’impressione che il mondo si fermasse
assieme a lei.
Passò
così qualche minuto, prima che Anise rialzasse la
testa.
«Ebbene»
esordì la Lusan «Credo che a questo punto mi sia
rimasto da dire solo un altro paio di cose. La prima è
“ti ringrazio sentitamente
per la collaborazione”».
«A buon
rendere».
«La seconda
è che ho pensato a diversi modi con cui far sì
che Beerus venga a conoscenza del fatto che io ho preso la decisione di
abortire
senza informarlo, e che tu non
solo hai
approvato una mia scelta moralmente discutibile, ma mi hai perfino
aiutata a
metterla in pratica. Ti faccio una domanda del tutto teorica: secondo
te quanto
sono alte le probabilità che il tuo preziosissimo rapporto
maestro/allievo vada
in fumo?»
Il primo pensiero che
attraversò la mente di Whis fu un
gigantesco “COSA?”
Si era perfino
abbassato a darle una mano e ora Anise se ne usciva con
un’assurdità simile, senza
che lui tra l’altro capisse dove voleva andare a parare! Era
proprio il colmo.
«Non c’è dubbio che la situazione abbia
temporaneamente compromesso le sue
facoltà intellettive. Anche lei non avrebbe di che
guadagnarci».
«Io sono una
ragazza giovane, sinceramente terrorizzata da
quella gravidanza improvvisa al punto di aver avuto un crollo di nervi
pesante
come non ne ho mai avuti, in una situazione pessima col suo compagno e
senza
alcun sostegno. Tu sei un essere vecchio milioni di anni tendente a una
calma
piatta che sfocia nel menefreghismo. Siamo coinvolti nella stessa cosa,
ma i
motivi che ti hanno spinto ad agire sono un po’diversi dai
miei. Credo che
Beerus, dopo il primo momento di rabbia verso entrambi, coglierebbe la
differenza».
«E io credo che
non avrei mai dovuto accettare di aiutarla.
Mi sono fatto prendere alla sprovvista, non pensando che avremmo potuto
andare
in un pianeta dalla tecnologia estremamente avanzata che avrebbe potuto
fare
più o meno quello che ho fatto io»
ribatté Whis, pronto a battere il bastone a
terra per rimandare indietro il tempo «E così
faremo. Per fortuna posso
rimediare».
«“Avresti
potuto”… due minuti e trentasette secondi
fa».
Dopo qualche attimo in cui
nessuno dei due fece una mossa,
l’angelo lasciò svanire il bastone.
Sembrava proprio che quella
ragazzina di vent’anni -in
realtà ventuno, tra pochissimi mesi- fosse riuscita a
tendergli una trappola. «Che
cosa vuole? Cosa? Vuole che Lord
Beerus si distacchi dal sottoscritto e finisca a lasciare tutto in un
colpo di
testa dei suoi?»
«Io voglio solo
che tu ci lasci in pace. Ecco cosa».
«L’ho
fatto» ribatté Whis «Non ho
mai-»
«Non pretendevo
che cercassi di darci una mano, speravo solo
in una vera neutralità
da parte tua,
quella che mi avevi garantito due anni fa durante il nostro primo
incontro, invece
ti sei sempre aggrappato a qualunque cosa per cercare di farci
litigare. Anche
in questa occasione, quando ti sei “dimenticato” di
dire a Beerus che lo avevo
cercato» aggiunse la lince «Cose come questa non
dovranno più succedere, perché io e
Beerus abbiamo già abbastanza problemi senza che ti ci metta
anche tu. Voglio che
tu inizi a rispettare sul serio gli
accordi presi, come avresti dovuto fare fin da subito. Se
avrò anche solo un
sospetto fondato del contrario, Beerus verrà a sapere
cos’abbiamo fatto, con
tutte le conseguenze del caso -qualunque possano essere. Con questo ho
finito»
concluse Anise, alzandosi dal letto.
«Sa una cosa, Lady
Anise? Dopo questo capisco ancora meglio
il motivo per cui non mi è mai piaciuta».
«Sai una cosa,
Whis? Dopo questo non mi piaccio più nemmeno
io. In mia difesa potrei dire che se tu fossi stato ai patti fin da
subito avrei
potuto evitare almeno questa specie di ricatto, ma non mi
giustifica -forse solo fino a un
certo punto- né mi consola. Solo una domanda: se ti
fossi accorto della gravidanza prima di me, cos'avresti
fatto?»
«Quel che andava
fatto» rispose l'angelo, dopo una
minuscola esitazione «Solo che lei non
avrebbe potuto ricattarmi, perché non l'avrebbe mai saputo».
Anise, sentito ciò,
uscì dalla stanza rapidamente come se l’avesse
inseguita un
qualche demonio, e appena raggiunto il salotto sentì il
bisogno di accasciarsi
sulla prima poltroncina cui riuscì ad arrivare.
Aveva ancora il cuore in
gola, sentiva perfino la testa
girare; mentre provava una sensazione di nausea -e un confuso senso di
disgusto
verso se stessa, verso la vita, l’Universo e tutto quanto-
mista a una
sensazione di “vuoto” e generale malessere, si
chiese che cosa diamine stesse
facendo della propria vita.
Aveva fatto delle scelte
coscienti ma si rendeva conto fin
troppo bene quanto fossero a dir poco discutibili varie di esse. Non
avrebbe
pianto su un latte che lei stessa aveva versato, ma aveva pieno diritto
sia alla
consapevolezza di quel che aveva
fatto e quel che stava diventando, sia a farsi schifo da sola; Sola, esattamente come
sarebbe stata nell’affrontare tutto
ciò, ed era giusto così.
Una pessima persona come lei riteneva di essere non
meritava il sostegno di chicchessia. Forse non avrebbe meritato nemmeno
di
stare ancora insieme a Beerus, anche se era proprio pensare al bene
della loro
relazione che l’aveva portata a ricattare Whis.
Si rannicchiò
sulla poltrona combattendo l’impulso di tornare
a letto almeno per stringersi al suo compagno, per ascoltare i battiti
del suo
cuore.
Avrebbe dormito -o meglio,
ci avrebbe provato- lì, su
quella poltrona, nella vana speranza che l’arrivo
dell’alba la aiutasse ad
accantonare almeno una parte dei suoi pensieri cupi.
31/3/2018: oggi voi lettori
avrete quasi certamente
iniziato a detestare Anise :”D
Avrei diverse cose da dire,
ma piuttosto che perdermi in
chiacchiere preferisco lasciarle dire a voi (:
Solo una cosa: nel prossimo
capitolo dovrebbe esserci un salto temporale di diversi mesi. Della
relazione
di Beerus e Anise nel periodo -lunghetto- che va dall’aborto
fino all’inizio del
“patatracchete” non c’è
moltissimo da dire… motivo per cui conto di non dedicare a
esso chissà quanti
capitoli.
Ah, vi avviso anche che esiste la possibilità di un ritardo
nella pubblicazione del prossimo capitolo: poi magari non
succederà, però ho voluto avvertirvi.
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Capitolo 22 *** 22 ***
RMIcap22
22
“Chi
sei?”
«L’aria
che si respira nella valle è piuttosto tesa,
Hogevor
Calida. Più del solito».
«Sì…
questo lo percepisco anche io» disse Calida «La
valle
è sempre stata una polveriera e ora abbiamo tutti la
sensazione che sia pronta
a esplodere per l’ennesima volta. Attacchi e sabotaggi di
tutte le città contro
ogni altra città ormai sono all’ordine del giorno,
basti pensare alla piccola armata
di Moriameer che abbiamo bloccato ieri».
“Chi
sei?”
«Quel
che è successo un anno e mezzo fa ha contribuito.
Thandrumeer» aggiunse Recte, il Lusan nero che era tra i
luogotenenti di Calida
«Sembrava che quel che abbiamo fatto fosse servito a
schiacciare la voglia di
conflitti che c’era già in giro, ma sul lungo
termine-»
«Aver
distrutto Thandrumeer allora significa trovarsi una
città in meno contro cui avere a che fare oggi. Se non
l’avessimo fatto la
guerra sarebbe scoppiata ugualmente, la sola differenza è
che ci saremmo stati
noi al loro posto. Finito?»
«Sissignora».
«Bene.
Sei congedato…»
“Come
ti chiami?”
«Vai»
concluse la Lusan, incapace di pronunciare il nome
del suo sottoposto.
“So
di conoscerti, so che dovrei sapere chi sei. Di fatto
però non lo so più. Non oggi, almeno”
pensò Calida, stringendo forte i pugni mentre guardava
Recte allontanarsi “Non lo so
più!”
Trattenendo
un grido che era disperato quanto esasperato,
Calida scagliò con tutte le proprie forze un pugno contro la
parete in pietra,
nella speranza vana che quel gesto privo di senso potesse aiutarla a
provare
sensazioni vere e riprendere
contatto
con una realtà che le sfuggiva sempre di più tra
le dita.
Tuttavia
non poté trovare né
“sollievo” né la sorta di
risveglio che andava disperatamente cercando, non nel dolore: non lo
soffriva più
da quando era bambina.
Conscia
di essersi procurata qualche frattura, osservò la
mano sinistra dalle dita rattrappite tremare leggermente: per qualche
attimo
arrivò a prendere perfino in considerazione l’idea
di tagliarla via… e di
tagliarsi anche la gola subito dopo.
C’era
stato un periodo in cui si era preoccupata che fosse
Anise a poter fare una cosa del genere, ora invece riteneva molto
più probabile
che fosse lei stessa a commettere un simile gesto.
Inizialmente
c’erano stati quella rabbia pulsante che aveva
sfogato con pestaggi ai Lusan delle altre città e quegli
attimi allucinatori in
cui aveva scambiato il loro volto con quello di sua sorella; poi i
deliri erano
peggiorati -perché aveva iniziato a vedere cadavere parlante
di Anise che si
disfaceva- e si erano infittiti, allungati, al punto che in certi
momenti
Calida si era trovata davanti due Anise contemporaneamente: quella
vera, viva e
in salute, e l’altra, che gorgogliava accuse da una gola
tagliata e la fissava
con le sue orbite vuote.
Ora,
senza che nulla di tutto ciò fosse svanito, si erano
aggiunti
momenti in cui non riconosceva i suoi stessi soldati, o meglio, a volte
si
rendeva conto di conoscerli ma non riusciva a ricordare i loro nomi,
altre
volte invece persone che aveva visto tutti i giorni per anni le
sembravano
volti del tutto sconosciuti.
Ogni
giorno il nodo alla gola e la stretta allo stomaco che
avvertiva diventavano più fastidiosi e asfissianti.
C’erano dei momenti in cui
aveva la sensazione che le mancasse l’aria e altri in cui
avrebbe solo voluto
poter fuggire urlando, con gli occhi chiusi, per non dover temere di
non
identificare chi e cosa vedeva.
Alzarsi
tutte le mattine era diventata una condanna, sia a
causa della consapevolezza di essere peggiorata sia per la paura di
un’ulteriore degenerazione.
Ogni
passo che compieva lungo le vie della città
guardandosi attorno era diventato fonte di ansia: cosa sarebbe successo
se un
giorno avesse smesso di riconoscere chiunque? Di riconoscere quelle
strade,
quelle case di cui in un certo senso conosceva a memoria ogni crepa?
Cosa
sarebbe successo se un giorno fosse arrivata a non
riconoscere più neppure Anise?
Non
c’era più alcun momento di sollievo per Calida,
perché non
c’era salvezza per chi si trovava a combattere con simili
demoni, non c’era mai.
Lo
sapeva così bene che ormai non riusciva più a
contare le
notti in cui si era svegliata in preda all’angoscia,
stringendosi la testa tra
le mani e bisbigliando richieste d’aiuto totalmente inutili,
che nessuno
avrebbe potuto sentire e tantomeno accogliere, e quelle preghiere
disperate a
divinità non meglio specificate servivano soltanto a farla
vergognare di se
stessa il giorno dopo.
Combattuta
tra il bisogno di uscire da quella stanza e il
terrore di ritrovarsi in un posto sconosciuto, Calida si mise
semplicemente a
sedere, dando le spalle alla sola finestra presente in quella stanza.
Chiunque
l’avesse vista avrebbe pensato che si stesse
concentrando su come affrontare la guerra che quasi sicuramente sarebbe
scoppiata, non che stesse seriamente riflettendo sul fatto che forse, forse, sarebbe stato meglio scegliere
finalmente un vice -non l’aveva fatto, visto che lei un tempo
lo era stata e
aveva finito per uccidere il suo capo- ritirarsi e lasciare il comando
a
qualcun altro.
Possibilmente
in una giornata in cui riconosceva tutti quelli
che le stavano attorno.
“Però
se abbandonassi proprio ora che potrebbe esserci veramente
bisogno di me, sapendo che pur
con tutti i problemi che ho sono ancora in grado di fare qualcosa di
buono per
la mia città, sarebbe il colpo di grazia per una salute
mentale che sta andando
a farsi fottere sempre più” pensò,
orribilmente combattuta.
«E
vai a farti fottere anche tu» mormorò, degnando
solo di
un’occhiata la testa malamente tagliata di Anise che era
appena comparsa sul
tavolo «Lei è viva e in salute, tu non
esisti».
Quando
aveva iniziato a ricordare i propri soldati solo a
tratti?
Se
cercava di rispondere a quella domanda le veniva in
mente il giorno in cui aveva avuto quel contatto con Rubedo -o Kamandi,
che
dir si voglia.
Nel
tempo aveva cercato di dirsi “Forse Anise non aveva
torto, forse è stato davvero solo un sogno”,
però c’era una parte di lei che
invece credeva fermamente nel fatto di essere stata veramente
contattata da una
figura leggendaria… e di aver ricevuto da essa una delusione
altrettanto
leggendaria. Il richiamo verso Vynumeer era rimasto fortissimo ma,
ripensando a
quel vecchio Lusan miserabile, lei non aveva più ceduto.
“Però
se -no, quando-
scoppierà l’ennesima guerra tra città,
un potere come quello della corona
potrebbe fare molto comodo. Distruggere le armate altrui e conquistare
le altre
città sarebbe facile. Riuscirei a realizzare quello che ho
sempre sognato di
fare…”
Rifletté
anche sul fatto che forse riuscire nel suo intento
sarebbe perfino servito a migliorare le sue condizioni psichiche,
però poi finì
ad alzare gli occhi al soffitto e ad aggiungere
“sì, e poi diventerò una dolce,
tenera e cara fatina dei boschi”. Non doveva permettersi di
sperare in un
miglioramento.
“E
poi l’idea di avere dentro Rubedo non mi attira”
pensò “Non
mi attirerebbe nemmeno se fosse un ‘averlo dentro’
in senso fisico, essendo
mediocre in tutto immagino che lo sarebbe anche la sua
durata”.
Solo
in quel momento le tornò in mente una cosa
fondamentale: quello era giorno di visita. Da quando aveva iniziato ad
avere
problemi nel ricordare le persone aveva iniziato ad andare a trovare
Anise due
volte a settimana.
All’inizio
era stata molto combattuta, si era detta che
quel peggioramento poteva essere un rischio per la sicurezza di sua
sorella,
poi però aveva ceduto, e Anise per Calida era diventata una
specie di
“indicatore”: finché fosse stata in
grado di riconoscerla senza esitazioni,
avrebbe potuto ritenersi ancora da non buttare via completamente.
Si
fece animo, si alzò, uscì dalla stanza cercando
di
mantenere un’essenziale parvenza di normalità e
lasciò la città, diretta alla
casa nella foresta. Nel notare che anche in quell’occasione
aveva riconosciuto -e
stava riconoscendo- tranquillamente le strade si permise di sentirsi
leggermente più tranquilla.
Mentre
si avvicinava alla foresta a passi lunghi e veloci
notò che il cielo, tutt’altro che sereno fin dal
mattino, era diventato ancora
più scuro. Le gocce di pioggia che iniziarono a cadere
impietose sulla sua
testa però non fermarono la sua avanzata.
Una
volta che ebbe raggiunto il fiume e poi la “scala”
di
massi piatti, che era una scorciatoia per raggiungere la casa nel bosco
in
minor tempo, iniziò a chiedersi per la prima volta come
sarebbe stata la sua
vita se invece di dedicarsi alla carriera -e soprattutto lasciare che
Anise
sposasse Meskal- fossero andate a vivere nella foresta quando Anise era
ancora
bambina, quando il loro rapporto in origine puro non era stato ancora
corrotto.
Magari avrebbero vissuto entrambe molto meglio, o magari tutto sarebbe
degenerato in egual modo: non le era dato saperlo.
Dopo
circa sette minuti di cammino intravide finalmente la
casa nella foresta, e notò subito Anise seduta sul tetto. Le
chiome
foltissime degli alberi la riparavano dalla stragrande maggioranza
della
pioggia, però non potevano farlo del tutto, dunque per
Calida era piuttosto
assurdo che se ne stesse ferma lì. «Aspetti che un
fulmine ti colpisca o cosa?»
«Entrambe
le opzioni mi vanno benissimo».
«Insomma
è una bella giornata, di pari passo con il meteo»
commentò Calida, avvicinandosi ulteriormente alla casa.
«A
volte penso che il mio umore venga influenzato anche da
quello» disse Anise «Vengo giù io o
vieni su tu?»
«Anise,
piove» le fece notare l’altra.
«Si
percepisce a malapena».
In
quei mesi per Calida c’era stato un peggioramento, ma
quel discorso non valeva solamente per lei. Anise da dopo quella
sottospecie di
attacco di panico avuto a Vynumeer non era stata più la
stessa: se mai nel
lasso di tempo che era passato aveva sorriso, Calida non riusciva a
ricordarlo. Se lo aveva fatto doveva essere stato mentre lei non era
presente.
«Non fare la sciocca, vieni giù».
La
giovane si rassegnò ad alzarsi e a rientrare in casa
passando per la finestra da cui era uscita, quella della camera da
letto; dopo
nemmeno un minuto, Calida la vide aprire la porta principale di casa.
«Entra.
Non ho fatto l’infuso, non ricordavo che oggi fosse
giorno di visita» disse Anise «Ultimamente fatico a
distinguerne uno
dall’altro».
«Se
non altro questa volta ti ho trovata sveglia».
Era
un’altra delle cose che erano cambiate, l’ennesima:
sua
sorella quando era a casa tendeva ad alzarsi sempre piuttosto presto al
mattino, mentre da diverso tempo a quella parte l’aveva
trovata intenta a
dormire anche a ora di pranzo o nel pomeriggio, oppure a ore
improbabili della
sera.
«È
che a breve dovrebbero arrivare Beerus e Champa» le
spiegò Anise «O solo Beerus. Da quando hanno
litigato tempo fa i loro rapporti
sono peggiorati.
Nel caso sia presente
anche Beerus, Champa di solito si trattiene per
un’ora al
massimo.
La sola volta in cui è
rimasto di più è stata l’occasione del
mio ventunesimo compleanno. Non hai idea
di quanto sia dispiaciuta per tutto questo».
«Se
quei due litigano uno con l’altro tu non puoi fare
molto».
«Purtroppo
è vero. Non posso fare altro se non da
cuscinetto… per quel che serve».
«Come
va tra te e quell’adorabile personcina che è il
nostro Hakaishin?»
Anise
fece spallucce. «Tiriamo avanti. E a te, Calida? Come
va?»
«Tutto
nella norma» “A parte per il fatto che le mani del
tuo cadavere mi stanno stringendo il collo proprio in questo
momento” aggiunse
mentalmente «Solo che c'è aria di
guerra».
«Tanto
per cambiare».
«No,
Anise: tira aria di guerra vera. Tu
non puoi riconoscerla, perché sei nata qualche anno dopo
la fine» disse Calida «Ma io la ricordo benissimo e
ti assicuro che ci siamo.
Le azioni di sabotaggio e di attacco sono diventate estremamente
frequenti, non
solo contro la mia città ma, stando alle informazioni che ho
raccolto, anche
contro le altre. È un tutti contro tutti proprio come
l’ultima volta e, com’è
accaduto anni fa, da questo scaturirà una guerra. Te lo dico
io».
«La
cosa positiva è che avendo raso al suolo Thandrumeer avrete
una città in meno di cui preoccuparvi».
«È
vero. Credo che però quel che sta accadendo adesso sia
dovuto anche alla distruzione di Thandrumeer. Sai che tutte le guerre e
battaglie passate non hanno mai portato alla distruzione di una
città, perché
le risorse, le persone e lo sviluppo degli armamenti erano
più o meno allo
stesso livello per tutti; per un po’ la paura di finire come
loro ha acquietato
il tutto, ma allo stesso tempo quel che è successo ha
dimostrato che distruggere
una città è veramente possibile».
«Voi
però siete meglio armati» obiettò Anise.
«Qualche
cannone diverso dal resto non può sempre fare la
differenza, anche perché non tutte le città della
valle hanno accanto una
montagna. Prevedo sangue e morte, più del solito».
«Tu
vivi per certe cose, eppure non sembri contenta».
«Molti
abitanti della mia
città moriranno, molti edifici saranno distrutti,
molte coltivazioni
verranno bruciate. Per quanta sete di sangue possa avere mi rendo conto
di
quali saranno le perdite, quindi è ovvio che non mi
rallegri» replicò Calida.
Anise
avrebbe voluto rispondere qualcosa ma la porta
d’ingresso si aprì. Era Beerus, arrivato sul posto
per primo.
«Erano
bei tempi quelli in cui si bussava prima di entrare
in casa altrui» commentò Calida, senza degnare
Beerus di un’occhiata. Se non
altro sembrava non avere problemi a riconoscere anche lui.
«Per
caso hai qualche problema?» ribatté freddamente il
dio.
“Hai qualche
problema”. Lo
aveva detto davvero? Sul serio?
Quasi
senza accorgersene iniziò a ridere: prima in un modo
soffocato che poteva quasi far pensare a dei singhiozzi, poi
scoppiò
all’improvviso in una risata folle, quasi disperata e allo
stesso tempo degna
di un demonio, violenta al punto che se avesse sofferto il dolore
avrebbe
potuto lamentare il mal di gola.
Solo
quando il momento di ilarità incontrollabile si
calmò
un po’ notò che Anise la stava guardando con aria
giustamente perplessa, mentre
Lord Beerus sembrava indeciso se distruggerla sul posto oppure no.
«Sì,
effettivamente ho qualche problema» disse la Lusan,
una volta ripreso fiato, ancora scossa da risate che non avevano niente
di
allegro «E al momento il primo tra tutti è avere a
che fare con un dio
ragazzino ben poco sveglio. Cos’abbia visto di buono in te
mia sorella è un
mistero»
«Calida!» sbottò
Anise «smett-»
«Se
non chiudi quella stramaledetta bocca giuro su quel che
vuoi che ti distruggo sul posto» ringhiò Beerus
«Sappi che se non l’ho già
fatto è solo perché Anise non vuole. Se fosse
stato per me, tu e tutto il resto
di quella valle di schizzati sareste spariti da un pezzo!»
«Sì,
sì, immaginavo» minimizzò Calida
«Dammi pure la colpa
per quanto riguarda Meskal, che era quel che era» aggiunse,
rivolta ad Anise «Però
questo qui, che hai scelto da sola, non è poi tanto meglio.
Lui vorrebbe
distruggermi… ma io, se solo avessi abbastanza forza per
riuscirci, gli avrei
già strappato gli occhi e li avrei divorati con gran
gusto».
«Calida,
vai» disse Anise, indicandole la porta
«È stato
già detto più che abbastanza. Vai».
La
risata di prima l’aveva inquietata abbastanza, per non
dire spaventata, perché Calida pur non essendo mai stata
troppo normale non
aveva mai reagito in quel modo in vita sua; se a quella si aggiungevano
simili
discorsi riguardo lo strappare e divorare occhi -che comunque non le
erano
nuovi- o Meskal, e il fatto che Beerus fosse tesissimo e decisamente
arrabbiato, era ovvio che fosse meglio cercare di allontanare i due
litiganti
prima che scoppiasse un disastro.
Se
non altro Calida non si fece pregare, limitandosi a
rivolgerle un cenno di saluto senza degnare Beerus di uno sguardo per
poi
uscire tranquillamente di casa, lasciandoli soli.
«Se
ora mi vieni a dire che quella tizia di cui mi rifiuto
di pronunciare il nome non è totalmente fuori di testa,
inizierò a pensare che
non sei tanto più a posto di lei!»
sentenziò Beerus.
«Ammetto
che in altri momenti l’ho vista più
“tranquilla”,
diciamo, ma tra le città tira aria di guerra, quindi deve
aver avuto una
pessima giornata… e in ogni caso che vi odiate non
è una novità».
«Secondo
te è normale che abbia detto di volermi strappare
gli occhi e divorarli?! Sei seria?!
Lei può dire una cosa del genere e va benissimo, se invece
io dicessi qualcosa
più o meno sullo stesso tono la tua reazione sarebbe
sicuramente diversa!»
protestò il dio.
«Quando
prima hai detto che l’avresti distrutta volentieri,
io ho fatto commenti?»
«No,
ma-»
«Ecco»
lo interruppe Anise, tentando di concludere così il
discorso.
«Ha
detto che non capisce cosa tu abbia trovato di buono in
me, si è permessa di giudicare la nostra relazione,
cos’avrei dovuto fare?»
insistette Beerus, imperterrito.
«In
quel momento infatti le ho detto di smetterla, o
meglio, le avrei detto di smetterla se tu non mi avessi interrotto a
“smett”.
Tanto per cambiare».
«Quindi
ora sarebbe colpa mia se quel brutto energumeno che
tu chiami “sorella” è pazza da legare?!
Questo è veramente il colmo!»
«Io
per l’appunto ho parlato del fatto che tu mi abbia
interrotta e abbia voluto metterti a litigare per forza»
ribatté Anise «Quando
invece si sarebbero potuti evitare quei bei discorsi su distruzione ed
estrazione di occhi».
«Non
potevi pretendere che stessi zitto, dopo quasi tre
anni insieme dovresti conoscermi. Abbiamo già abbastanza
problemi senza che si
mettano in mezzo anche persone che con noi due non c’entrano
alcunché».
«Sul
fatto che abbiamo già abbastanza problemi non posso che
darti ragione».
Il
problema della gravidanza era stato risolto, però
neppure questo aveva portato molto di buono alla loro relazione.
Anise
aveva iniziato già da un po’a superare
l’aborto di
per sé, quel che invece stentava a superare era il fatto di
averlo tenuto -e
continuare a tenerlo- nascosto. Aveva avuto i suoi motivi per decidere
di non
dire alcunché e pensava ancora che fossero validi,
però questo non contribuiva
a rendere la cosa meno pesante. Com’era prevedibile quel
segreto non aveva
fatto che allontanarla di più dal suo compagno, in un misto
di “non avrebbe
capito e non capirebbe, visto come va” e di “non
merito la sua vicinanza in
ogni caso”.
Beerus
continuava a non comportarsi più come all’inizio,
ma
anche lei adesso non faceva più nulla per cercare di
migliorare le cose. Non
riusciva a essere costante nemmeno nel tanto favoleggiato
“crederci” -che in
ogni caso serviva a poco- e ormai quando discutevano non cercava
più di calmare
gli animi come faceva in precedenza.
«Non
era quel che avrei voluto sentirti dire, Anise».
«Però
è la verità».
Aveva
detto a Calida che lei e Beerus “tiravano avanti”:
solitamente
quello era solo un modo di dire, ma in quel caso era estremamente
appropriato,
perché era esattamente quel che stavano facendo.
Tiravano
avanti una relazione che forse avrebbero dovuto
troncare già da un pezzo, tutto questo solo
perché entrambi -pur non riuscendo
più a dimostrarlo- si amavano ancora troppo per riuscire a
mettere un punto,
nonostante tutto quel che si era messo in mezzo tra loro due.
“Insieme
non stiamo bene ma divisi sarebbe molto peggio, e
finché siamo insieme possiamo sperare in un
miracolo”, quello era il pensiero
comune a tutti e due: se fosse giusto o veritiero non era dato sapere,
ma di
fatto era la loro idea.
«Ho
la sensazione che tu stia per dire qualcosa che non mi
piacerà» borbottò il dio, guardandola
appena.
«Così
non va».
«Appunto».
«Anche
questa è la verità. Può non piacerci
ma è così: non
va» affermò Anise «Ci vediamo e
litighiamo, sempre che iniziamo a parlare».
«Da
molti mesi a questa parte sei tu quella che non parla. Perfino
quando litighiamo e le cose vanno per
le
lunghe ti metti in disparte stando in silenzio e mi lasci lì a “litigare da
solo”. Mi sembra di avere a
che fare con una specie di muro di gomma! Prima ti comportavi
diversamente!»
«Sì
e sai cosa ottenevo? Sentirmi la bocca secca a forza
di parlare inutilmente, perché tu non mi ascoltavi in ogni
caso. Perché avrei
dovuto continuare in quel modo? A che pro, Beerus?»
«Ci
siamo allontanati ancora di più…» disse
l’Hakaishin, piano
«Non è quel che avrei voluto».
«Ormai
è più di un anno che andiamo avanti a dire che
questo non è quello che avremmo voluto, ci hai fatto caso?
Forse dovremmo
mettere un pun-»
«Anise,
non dirlo».
«Beerus-»
«Non dirlo» la
interruppe lui «Sono sul punto di chiedertelo per favore. Non
dirlo».
«Posso
anche fare a meno di dirlo ma la realtà è
piuttosto
palese, purtroppo».
Beerus
fece un sospiro nervoso, per poi sollevare lo
sguardo su di lei. «Io non intendo lasciarti. Tu sei la mia
Neiē».
«A
dire il vero sono una Iarim Neiē.
Quel giuramento non è stato mai fatto, non è
stato
reciproco, non è vincolante».
«Io
l’ho fatto! L’ho fatto, ci credevo e ci credo
ancora!»
ribatté con decisione il giovane «“Giuro
che non avrò altre che te, finché avrò
vita”. Sarei disposto a rifarlo anche adesso, se vuoi
saperlo! Sarei disposto
anche a farlo sul serio e a
renderlo
vincolante, se tu volessi!»
«Saresti
veramente disposto a farlo nella situazione in cui
ci troviamo?!» allibì Anise «Sarebbe da
pazzi!»
«E
allora vuol dire che sono pazzo, perché io sto parlando
seriamente. Tu per me sei la mia Neiē, quindi io non ti lascio. Questo
è quanto».
«Quindi
è solo per quel giuramento a metà che tu non vuoi
lasciar perdere?»
«Se
anche non l’avessi giurato sarebbe lo stesso, te
l’assicuro.
Non mi importa quanti problemi possiamo avere, non mi importa di quanto
possiamo esserci allontanati, dei silenzi, dei litigi, non mi
importa!» esclamò
Beerus «Sarei ancora pronto a mettere la mia vita nelle tue
mani. Letteralmente».
«Credo
che se Whis ti stesse ascoltando potremmo sentirlo
bestemmiare».
La
sola cosa buona di quel periodo era che Whis aveva
veramente smesso di intromettersi tra loro due, facendo quel che
avrebbe dovuto
fare fin dall’inizio.
Anise
non era più stata vittima di tentativi di sabotaggio
o frecciatine, né quel che succedeva con Beerus le aveva
causato il sospetto
che Whis stesse continuando a remare loro contro: si poteva dire che
lei e l’angelo
ormai si limitassero veramente a dei “buongiorno”,
“buonasera” e “buon appetito”
di circostanza.
Poteva
sembrare anch'essa una situazione pesante ma onestamente a lei
non dispiaceva, la sola vera “perdita” risiedeva
nel fatto che avessero smesso del
tutto di giocare a scacchi. Ormai se Anise aveva voglia di farlo doveva
chiederlo a Vados prima che questa mollasse Champa a casa sua.
«Non
mi importa neanche di Whis, va bene?» sbuffò
Beerus «A
me importa solo di due persone, e quelle due persone sono entrambe in
questa
stanza».
«Ragiona!
Rispetto a quando mi hai fatto quella proposta è
cambiato tutto, non credi?»
«Quel
che mi ha spinto a fartela non è cambiato. Possiamo
dire che sia cambiato tutto e niente».
La
Lusan rimase per un po’a guardarlo in silenzio, per poi
annuire. «In un certo senso non hai torto».
«Quindi
davvero, non parlare più di chiudere la nostra
storia. Tu non vuoi, io non voglio: non c’è molto
altro da aggiungere».
In
momenti come quello, pur non dicendo mai le parole “ti
amo” o “amore”, Beerus
riusciva a far
capire ad Anise che sepolto sotto il loro mare di problemi
c’era ancora tutto
quello che li aveva spinti a mettersi insieme inizialmente. Se
l’avesse detto
qualcun altro in una situazione analoga Anise avrebbe potuto pensare
che
fossero chiacchiere vuote in cui non credeva neppure lui, ma Beerus non
era “qualcun
altro”, e lei sapeva che se non avesse pensato davvero quel
che le stava
dicendo non si sarebbe mai esposto così tanto.
Era
anche per quella ragione che pensare veramente di chiudere
tutto era difficile, e che lo sarebbe sempre rimasto.
Anise
a volte iniziava perfino a credere che sarebbero
veramente rimasti in quella situazione in eterno -una prospettiva non
proprio
gradevole: tutto quel che era successo li aveva spinti sul ciglio del
baratro
senza farli cadere, e in “quel che era successo”
era compreso anche un aborto
tenuto segreto. Non aveva proprio idea di cosa potesse riuscire a
separarli una
volta per tutte, né era sicura di volerlo sapere.
«Andremo
avanti così?»
Il
dio fece spallucce. «Vedi alternative che siano
praticabili?»
«Non
so… una terapia di coppia. Non so bene in cosa
consista, però dicevano che fa bene. In certi pianeti
facevano cose del genere,
ho visto dei volantini in lingua comune».
«“Facevano?”»
«Li
hai distrutti, Beerus».
«Oh».
«Nulla
esclude che la facciano anche altrove…»
«Bah.
Né tu né io sappiamo di preciso cosa sia e
comunque
non voglio che qualcuno si metta a farci
“terapie”» disse Beerus, scettico
«Ci manca solo che nella nostra storia si immischi anche
qualcun altro! È una pessima idea».
Sentirono
qualcuno bussare alla porta.
«Anise!
Sei in casa?» chiamò Champa, restando fuori.
«Sì,
ci siamo io e Beerus. Entra pure!»
Quando
Champa entrò in casa non aveva un’espressione
troppo
entusiasta, perché avrebbe preferito poter stare da solo con
la sua amica
almeno per qualche minuto, però non intendeva mettersi a
discutere con Beerus:
voleva evitare che Anise potesse aversene a male.
Non essendo stupido aveva
notato il cambiamento che c’era stato in quei mesi
-già solo per il fatto di
averla trovata più volte addormentata a ore improbabili-
dunque non voleva
essere causa di ulteriori problemi. «Ti ho portato un
po’di praline da Swetts,
so che ti piacciono».
Anise
sorrise per la prima volta in quella giornata. «Grazie,
sei stato gentile».
«O
ruffiano, a seconda dell’interpretazione»
commentò
Beerus «Potresti anche trovare una ragazza a cui portare le
praline, invece di
portarle alla mia».
«La
prossima volta pensa anche tu di portarne, sarebbe più
utile rispetto a iniziare una mezza scenata di non
so cosa. Vado a metterle in cucina, torno subito»
concluse la
lince, dileguandosi.
I
gemelli rimasero soli, scambiandosi occhiate torve.
«Se
non riesci a evitare di litigare con lei, cerca almeno
di non prendertela con me quando Anise è presente.
È per questo che non ti ho
già tirato un pugno in faccia» disse Champa
«Sai benissimo che le dispiace».
«Il
tutto potrebbe essere evitato se tu smettessi di venire
qui. Non so perché continui» ribatté
Beerus.
«Perché
qui vive un’amica che al momento non sta bene. Poi
l’idiota di un gatto sarei io, eh?»
«Se tu-»
«Eccomi.
Non voglio sapere quanti complimenti vi siete
fatti in questo breve lasso di tempo, immagino che resterei
sorpresa» sospirò
la Lusan «Cos’avevamo in programma oggi?»
«In
realtà nulla» rispose Beerus «Abbiamo
smesso da un
pezzo di programmare attività».
«Lago?...»
propose Champa «Al lago siamo sempre stati bene. Credo che a
breve smetterà di povere, quindi potremmo andarci».
Dopo
un breve momento di silenzio in cui tutti e tre
provarono la stessa nostalgia, decisero che andare a fare compagnia ai
morti
nel lago di Vynumeer non era una cattiva idea.
Ok,
questo è in assoluto il capitolo più corto di
tutta la
storia. Credo sia dovuto al fatto che ho una certa
difficoltà con i capitoli di
mezzo in cui non c’è proprio nulla da far
accadere. O quasi, perché immagino di
non farvi chissà quale spoiler dicendo che la guerra tra le
città scoppierà sul
serio xD
Grazie
a chiunque stia ancora leggendo la storia (:
|
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Capitolo 23 *** 23 ***
RMIcap23
23
«Va tutto bene,
Beerus, era solo un incubo. Tranquillo… è
tutto a posto…»
In realtà Beerus
sapeva benissimo che era tutto a posto,
non avrebbe avuto bisogno che glielo dicesse Anise, soprattutto
perché in
realtà l’incubo per cui stava venendo abbracciato
e tranquillizzato non c’era
mai stato. Si era soltanto svegliato assetato, aveva bevuto e i suoi
movimenti
avevano svegliato Anise.
«Non pensavo che
l’avresti fatto» mormorò lui,
vergognandosi un po’ per quelle coccole
“rubate”.
«Fatto
cosa?»
«Quel che stai
facendo. Abbiamo litigato e poi non abbiamo
nemmeno… insomma… non ci siamo
“riavvicinati”».
Vero: pur essendo andati a
dormire insieme come sempre non
c’era stato il tipico “riavvicinamento”
prima del sonno.
Sempre se ritrovarsi a fare
l’amore poteva definirsi
“riavvicinamento”.
Accadeva spesso. Non sempre,
ma spesso: litigavano,
andavano a letto “arrabbiato” -lui- e “in
modalità muro di gomma” -Anise- per
poi rimanere lì fermi per un pezzo, dandosi la schiena,
ovviamente senza
riuscire a dormire.
In quei momenti lui veniva
assalito dalla nostalgia di
momenti più gioiosi, dalla tristezza; si chiedeva come
avessero potuto ridursi
così, come avessero potuto permettere alla vita,
l’Universo e tutto quanto di
mettersi tra loro due.
Si metteva ad ascoltare il
suo respiro, chiedendosi come
due persone tanto vicine fisicamente potessero sentirsi così
lontane una
dell’altra e soprattutto…
“Perché?”
Erano lì, erano
insieme, stavano insieme.
Quella
distanza emotiva a un certo punto diventava una tortura costante, si
ritrovava
solo a desiderare di colmarla stringendo a sé la sua
compagna nella speranza
ingenua che un abbraccio potesse davvero riavvicinarli.
Il desiderio impiegava poco
a diventare insostenibile, così
lui cedeva… e anche Anise, preda degli stessi sentimenti
nello stesso preciso
istante.
Iniziava sempre tutto con un
abbraccio, con dei baci, per
poi diventare qualcosa di più: facevano l’amore
stringendosi uno all’altra in
maniera quasi disperata, come se sapessero di dover morire il mattino
dopo,
consci che però a “morire” e rinascere
in continuazione era solo quella
vicinanza che riuscivano e ritrovare e poi si lasciavano sfuggire tra
le dita.
Alcuni l’avrebbero
trovato triste, altri forse un po’squallido;
per Beerus e Anise era semplicemente la loro realtà.
«Aver litigato non
è una novità… non so tu, ma io inizio
quasi a trovare strano un giorno in cui non si discute»
replicò Anise, rendendosi
conto che anche quella era una triste verità «Io
però sono ancora la tua
compagna. Se tu hai bisogno di me e io sono presente, ti aiuto come
posso».
“E lo faccio anche
se mi rendo conto che invece non ne hai
bisogno” aggiunse mentalmente “Perché
ormai riconosco le tue espressioni dopo
gli incubi, e in questo caso non te ne ho vista fare neppure una. Tu
hai
trovato una scusa per ricevere coccole, io per farne, ed essendo due
disgraziati nessuno dei due ammetterà mai nulla di tutto
questo. Meriteremmo entrambi
degli schiaffi”.
«Grazie»
sussurrò Beerus, con un debole sorriso «Strano che
tu non abbia fatto ancora domande riguardo l’incubo. Lo fai
sempre» aggiunse,
avendo imbastito una storia a caso nel mentre.
«Sicuro di volere
che ne faccia?» buttò lì Anise.
“Quindi lo
sa?” pensò Beerus, un po’sorpreso
“Allora
perché…”
Non finì neppure
di domandarselo: di certo era lo stesso
motivo che lo aveva spinto a rispondere di sì quando lei gli
aveva chiesto se
aveva avuto un incubo.
Quella era una buona ragione
per restare in silenzio e
godersi quel momento di pace, secondo lui, dunque non rispose e rimase
fermo
lì, abbracciato alla sua compagna.
Beerus amava ancora Anise.
La amava terribilmente,
esattamente come l’aveva amata oltre tre anni prima vedendola
in piedi su
quell’altalena, come l’aveva amata il giorno in cui
le aveva mostrato l’oceano
per la prima volta, come la notte in cui aveva fatto quel viaggio folle
di
andata e ritorno dal proprio pianeta pur di vederla, o come il giorno
in cui
era diventata la sua Iarim Neiē.
Se un sentimento
d’amore fosse stato sufficiente a mandare
avanti una relazione, loro due sarebbero state le persone
più felici del creato
anche solo grazie al suo apporto.
«Ho sognato che
Whis aveva rubato tutte le praline
esistenti» bisbigliò Beerus, dopo un po’
«E che teneva l’intero Universo sotto
scacco minacciando di mangiarle se non fossimo diventati tutti suoi
schiavi».
«Se anche fossimo
diventati tutti suoi schiavi le avrebbe
mangiate ugualmente, secondo me» disse Anise.
«Questo
è molto probabile. Anise!»
«Sì?»
«Mi è
venuta voglia…»
La Lusan sollevò
le sopracciglia. «Parlando di praline ti è
venuta voglia di fare sesso?»
«No! Parlando di
praline mi è venuta voglia di praline!»
«Questo ha
più senso. Sai cosa non ha senso?»
«Cosa?»
le domandò il dio.
«Che adesso sia
venuta voglia di praline anche a me!»
sospirò la ragazza «Solo che qui in casa tua non
ne abbiamo, ho controllato
proprio stasera».
«Ne
abbiamo» la contraddisse Beerus «O meglio, ce le ha
Whis. Nascoste sotto il suo letto».
«Il problema
è che in teoria al momento dovrebbe star
occupando suddetto lett-»
«Non importa!
Vado, le prendo e torno» concluse
l’Hakaishin, saltando giù dal letto «Se
Whis dovesse cogliermi sul fatto e non
dovessi tornare qui vivo, sappi che io… ehm»
tossì «Lo sai».
Ancora una volta non era
riuscito a dire quel “ti amo”,
però Anise l’aveva recepito benissimo,
tant’è che si alzò dal letto a sua
volta. «Non lascerò che tenti
quest’impresa da solo. A dirla tutta ho meno
probabilità di prendere una bastonata io rispetto a quante
ne abbia tu».
«Magari dovresti
rivestirti» le fece notare Beerus.
«Vedermi nuda non
gli scatena reazioni di sorta, e comunque
potrebbe servirmi a distrarlo se mai dovesse svegliarsi. Lui mi
rimprovera per
l’indecenza e tu pensi al bottino».
«Non
venderò l’onore della mia donna per un pugno di
praline!» ribatté Beerus.
«Sembrava quasi
una frase seria» disse la lince, indossando
una sottoveste rosa cipria «Bene. Andiamo».
«Hai qualche
piano?» le chiese Beerus, mentre uscivano
dalla stanza.
«Avevo pensato a
un diversivo che potesse allontanarlo
dalla stanza, solo che lui potrebbe capire di cosa si tratta e tornare
indietro
troppo velocemente. O non muoversi affatto» aggiunse
«Quindi il piano è questo:
apriamo la porta, io gli salto sopra limitando il suo campo visivo con
i miei
capelli e tu in questo frangente usi la tua divina velocità
per rubare le
praline e scappare».
«Non posso
lasciartelo fare! È troppo rischioso»
protestò
Beerus «Un colpo che manda KO me fa esplodere la testa a
te!»
«Ragion per cui,
se ci fai caso, Whis non ha mai alzato
neppure un dito su di me neppure quando gli parlavo di Lulù.
Può funzionare,
fidati».
Una volta giunti a
destinazione aprirono silenziosamente la
porta della stanza di Whis. Dormiva supino sul letto, con le mani
intrecciate
tra loro all’altezza del petto: degno di un cadavere,
insomma. Anise a dirla
tutta era ancora sorpresa del fatto che gli angeli dormissero,
tant’è che aveva
una teoria secondo cui lo facevano solo per passare il tempo.
Diede un’occhiata
d’intesa a Beerus e poi senza pensare
oltre saltò addosso all’angelo dormiente, avendo
cura di occupare il suo campo
visivo con i capelli proprio come prevedeva il piano.
Whis aprì gli
occhi. «Lady Anise».
«Sì?»
«Cosa.
Sta. Facendo».
«Io sono un
felino, Whis».
«I felini hanno la
fama di creature piuttosto promiscue ma
come può notare non sono minimamente interessato ad
accoppiarmi con lei,
sebbene la sottoveste che indossa sia molto corta, molto scollata e
piuttosto
trasparente».
«Questo
è razzismo verso i felini. In ogni caso non sono
qui per quello».
«E allora cosa
vuole?» le chiese Whis, quanto mai seccato.
«I felini spesso
corrono per casa alle tre di notte e
chiedono di essere sfamati alle cinque del mattino. Indovina che ore
sono?»
«Il mio orologio
interno mi dice che sono le quattro di
notte, il che rende quest’assurdità ancora
più assurda».
Anise sollevò le
sopracciglia. «Ah, quindi non sono le
cinque?»
«Se non si toglie
immediatamente di dosso potrei inavvertitamente
lanciarla fuori dalla finestra o contro il soffitto. Ripeto:
inavvertitamente».
La Lusan sollevò
le mani in un gesto di resa, poi saltò giù
dal letto. «Chiedo perdono».
«Io ritengo che
lei abbia qualcosa di malfunzionante nel
cervello» affermò l’attendente
«L’ho sempre pensato, ora ne sono ancor
più
convinto. La invito a tornare al tipo di rapporto prettamente civile che
abbiamo mantenuto in questi mesi».
«Contaci, meno ho
a che fare con te meglio mi sento»
replicò la ragazza, tranquillissima
«Buonanotte!»
Quando Anise uscì
dalla stanza, Whis scosse la testa e alzò
gli occhi al soffitto. Beerus diceva che Calida era pazza,
però anche Anise era
tutt’altro che a posto per decidere di saltare addosso a
qualcuno che
detestava, seminuda, alle quattro del
mattino.
«Mah»
bofonchiò l’angelo, facendo spallucce
«Rinuncio a
comprendere».
Intendeva rimettersi a
dormire, però prima volle togliersi
lo sfizio di mangiare una pralina: quelle erano sempre utilissime se si
trattava di rimettere in sesto il suo umore, tant’era che
dopo quell’aborto con
annesso ricatto ne aveva mangiate circa quaranta una di fila
all’altra.
«…»
Peccato che della sua scorta
segreta di praline non
trovasse traccia.
«Non vanno
più d’accordo ma vedo che se si tratta di rompere
i cosiddetti al sottoscritto ripristinano l’associazione a
delinquere in men
che non si dica!» esclamò, assai innervosito.
Fu tentato di effettuare una
strafexpedition in camera di Beerus
per riavere il maltolto, poi
però decise di attuare una strategia diversa: il suo
Hakaishin non avrebbe
mangiato alcun tipo di dolce per un mese -bastava un incantesimo che lo
facesse
correre in bagno ogni volta che stava per metterne in bocca uno- e le
perline
di vetro che Anise aveva lì, in casa loro, sarebbero
misteriosamente scomparse.
Oh, e naturalmente tra
un’oretta sarebbe andato a svegliare
entrambi: i felini non andavano forse nutriti alle cinque del mattino?
«Ha detto che non
è interessato a un accoppiamento con la
sottoscritta, mi sento molto ferita nel mio orgoglio
femminile» sospirò Anise,
con un’espressione di finta costernazione.
«Se Whis avesse
avuto simili intenzioni nei tuoi confronti
avrei dovuto picchiarlo» ribatté Beerus,
lanciandosi in bocca una manciata di
praline «O almeno provarci».
«Quando si
accorgerà della sparizione ce la farà scontare,
in un modo o nell’altro…»
Nonostante quel pensiero
Anise si sentiva abbastanza
tranquilla. Era ragionevolmente convinta che Whis non avrebbe cercato
di
danneggiarla parlando a Beerus della sola e unica cosa con cui avrebbe
potuto
farlo davvero, ossia l’aborto, perché quello
coinvolgeva personalmente anche
lui; per il resto si riteneva in grado di gestire qualsiasi
rappresaglia.
«Ti
difenderò io da qualunque cosa possa venirgli in mente
di fare, non preoccuparti» dichiarò il giovane
dio, molto convinto.
«Sei un tipo
coraggioso».
«Io per te
affronterei anche i miei colleghi tutti insieme,
più i loro angeli! E anche il Gran Sacerdote! E anche Zeno
in persona!» esagerò
Beerus.
«Vuoi dire che per
me affronteresti “solo” tutti
gli esseri più potenti del
creato? Mi deludi» disse lei, scherzando «Tieni
così poco alla sottoscritta?»
«E anche il
Coniglio Assassino di Carbannomeer!» aggiunse
lui «Lo faccio rivivere non so come in modo da poterlo
distruggere!»
«D’accordo,
mi hai convinta, tutto sommato ci tieni»
concesse Anise.
«Sempre.
Sempre,
Anise» affermò Beerus.
«È una
parola grossa».
Ed era anche il motivo per
cui non sarebbero riusciti a
mettere un punto alla loro storia in tempi brevi, perché
momenti come quelli erano
come piccoli adamandnery pinc nascosti in secchiate di fango, e
il valore di quelle pietruzze era molto grande.
«Per quanto
riguarda me è la pura verità. Tu cosa mi
dici?»
«Dico che forse le
quattro di notte non sono l’ora giusta
per-»
«Qualunque ora in
cui riusciamo a parlarci così è quella
giusta» la interruppe Beerus, appoggiando la fronte contro
quella di Anise «Per
come la penso».
«Mi sa che non hai
torto» ammise la Lusan «Sì, Beerus, ci
tengo anche io, esattamente quanto ci tieni tu. Immagino sia per questa
ragione
che teniamo duro pur sapendo che tra poche ore finiremo a litigare per
qualcosa, qualsiasi cosa, come sempre da un anno e mezzo a questa
parte».
«Lo facciamo
perché nonostante tutto sappiamo di non essere
senza speranza. A meno che domani Whis abbia progettato di ucciderci
per colpa
delle praline, allora sì, in quel caso siamo senza
speranza».
«Non dicevi che mi
avresti difesa e che avresti affrontato
perfino il Coniglio Assassino?»
«Confermo!»
annuì Beerus «Ti difenderei e affronterei
chicchessia. L’esito di tutto ciò però
è un altro paio di maniche».
«Ah,
ecco» sorrise lei.
«Detto
ciò, mi si chiudono gli occhi» disse Beerus, con
uno
sbadiglio «Torniamo a dormire?»
«Sì,
è il caso di farlo».
***
«No, Hogevor
Calida, il Moriameer a-ghekavary e
famiglia non sono sul campo di battaglia, ma…
perché stiamo parlando di una
cosa simile? Se Kahzameer e Moriameer combattono tra loro forse sarebbe
meglio
limitarsi a rimanere fermi lungo la riva del fiume e aspettare
che passi il
cadavere, metaforicamente parlando!» esclamò Recte
«Perché dovremmo andare ad aiutare
la città di Kahzameer in battaglia?
Noi odiamo Kahzameer!»
«I motivi per cui
forse -e sottolineo “forse”- andremo ad
aiutare Kahzameer in battaglia sono due: il primo è
“Perché lo dico io”, che
dovrebbe già bastarti» disse Calida «Il
secondo è che, contrariamente a quello
che stai dicendo, i cadaveri che speri passino non passeranno mai.
Kahzameer e
Moriameer non riusciranno mai né a distruggersi a vicenda
né a prevalere una
sull’altra, perché la superiorità di
una rispetto all’altra non è tale da fare veramente la differenza. Questa
sarà
l’ennesima guerra che finirà in un logoramento
generale» profetizzò «Che
porterà all’ennesima tregua, che pochi anni dopo
verrà rotta per l’ennesima
volta, com’è sempre stato da che se ne ha memoria.
La
storia della nostra valle è questa: tensione, massacro e
tregua, un ciclo
continuo ripetuto innumerevoli volte».
«La guerra scorre
nelle nostre vene come il sangue, non è
una novità» ribatté il luogotenente,
non capendo dove Calida volesse andare a
parare.
«È
vero, io su questo sono d’accordo, però questa
iterazione continua e costante è andata avanti per troppo
tempo. Io voglio
spezzare la ruota» “Possibilmente prima di
impazzire peggio di adesso” pensò
«Io non voglio che la città di Ulthmeer sopravviva
a questa guerra, io voglio
che la nostra città vinca. Solo
che
non possiamo farlo da soli, esattamente come non può farlo
nessun’altra città.
Purtroppo dobbiamo accettare questo fatto».
«Anche se abbiamo
migliori cannoni?»
«Anche se abbiamo
migliori cannoni» ripeté Calida.
«Quindi lei sta
parlando di allearci con la città di
Kahzameer? È questo che vorrebbe fare?»
domandò Recte, per nulla felice
all’idea «Non ci sono altre opzioni?»
“Sì,
c’è quella della corona, però non mi va
di condividere
la mia testa con qualcun altro. Se riuscissi a fare qualcosa di buono
con mezzi
più tradizionali potrei evitare di cedere alla tentazione di
pagare quel prezzo
per avere il potere di Rubedo” pensò la Lusan
“Una tentazione che diventa
sempre più forte ogni maledetto giorno che passa. Forse per
colpa mia, forse
per colpa della situazione, o forse perché Rubedo stesso mi
sta influenzando:
questo non lo so. L’unica cosa che so è che al
momento preferisco cercare di
vincere mantenendo il possesso del mio cervello malato.
Un’alleanza con annessi e connessi è un
compromesso da cui volendo posso recedere più facilmente
rispetto a una possessione”.
«Se vogliamo
davvero provare a vincere, no. Ora che
Thandrumeer è distrutta, Kahzameer è la
città che è un po’più grande
delle
altre…»
«Il Kahzameer a-ghekavary
accetterà un’alleanza con noi? Anche se li
aiutassimo non è detto che sarebbero
disposti a dirci di sì» disse Recte, scettico
«A parte i cannoni non abbiamo da
offrire più di qualsiasi altra città».
«Io invece penso
che qualcosa in più che possiamo offrire ci
sia! Devo solo lavorarci un pochino. Questa notte stessa»
aggiunse Calida, agguantando
un sacco «Il tuo compito per ora è attendere e
preparare gli uomini ad entrare
in battaglia a fianco di quelli di Kahzameer, cosa che
accadrà solo e soltanto quando
tornerò dalla mia… come dire,
commissioncina».
«Cos’ha
in mente? Forse è il caso… insomma, ovunque
voglia
andare forse sarebbe meglio portare almeno un paio di uomini
e-»
«Recte, mon sei
sciocco e sei meritevole di stima, ma tieni
sempre a mente qual è il tuo posto. Fino a prova contraria
il capo della città
di Ulthmeer sono io: io decido dove andare, cosa fare e chi portare con
me. Tu
esegui. Non c’è altro da aggiungere».
Non disse altro a Recte
-aveva giudicato che quel discorso
era stato sufficiente- e in poco tempo oltrepassò i confini
della città di
Ulthmeer, diretta a Moriameer. Era bene che si sbrigasse a fare quel
che voleva
fare ora che era in grado di riconoscere le persone che si trovava
davanti agli
occhi, sperando che il cervello non la tradisse nel momento sbagliato.
Doveva ammettere che solo
fino a pochi mesi prima non si
sarebbe arrischiata a fare una del genere, partire da sola alla volta
di
Moriameer con l’intento di intrufolarsi nella
città e nella casa del capo;
tuttavia, che fosse per una pazzia più profonda di quanto
credesse o un
semplice tentativo disperato di fare qualcosa per non cedere
all’idea di andare
a prendere quella corona, Calida aveva deciso di gettarsi a capofitto
in
quell’impresa appena i tasselli di quella sottospecie di
piano avevano trovato
un ordine.
“Come
immaginavo” pensò, una volta che si fu avvicinata
abbastanza alla città da poter vedere cosa c’era
attorno “Il capo di Moriameer
ha mandato un’armata piuttosto numerosa a combattere,
però ha lasciato diverse
persone di guardia ai confini. Il solo modo in cui posso entrare
in città senza essere vista è seguire la mia idea
iniziale di sfruttare il
braccio di fiume che scorre fin dentro la città”.
Sembrava che i suoi
tentativi passati di cercare il tesoro
di Rubedo immergendosi di giorno e di notte -perlopiù di
notte- nel lago di
Vynumeer stessero per dare finalmente dei frutti.
Calida era piuttosto convinta
che se non aveva trovato quella grotta era semplicemente
perché non sapeva dove
cercare, non certo perché non avesse fiato sufficiente da
raggiungerne almeno
l’imboccatura; immergersi nel fiume e passare da sotto le
mura non sarebbe
stata una cosa infattibile, soprattutto perché avrebbe avuto
anche la corrente
a favore.
“A rigor di logica
saranno troppo impegnati a sorvegliare
le mura per far caso alla testa di una Lusan che fa capolino dalle
acque”
concluse “L’orario, la battaglia in corso e il
fatto che la dimora del
Moriameer a-ghekavary non sia
distante dal fiume mi faciliteranno il compito”.
Meskal
“buonanima” non aveva mai capito il motivo per cui
lei, a quei tempi, durante le torture e i pestaggi cercasse di
strappare alle
sue vittime quante più informazioni possibili sulla
posizione e il tipo di
strutture presenti nelle città, al punto da averne ricavato
delle mappe
abbastanza precise; l’aveva sempre giudicato un lavoro
inutile e noioso.
Il punto era che adesso,
proprio grazie a quel “lavoro
inutile e noioso”, Calida poteva arrivare a destinazione
senza sbagliarsi:
aveva la strada da fare ben chiara in mente.
Si tuffò nel
fiume e iniziò a procedere verso Moriameer,
trascorrendo in immersione la maggior parte del tempo.
Lasciò riemergere
la testa per un attimo quando giunse a
toccare la pietra delle mura, tanto per sincerarsi che nessuno si fosse
accorto
del suo arrivo, poi si immerse di nuovo, nuotando velocemente
all’interno della
città.
Continuò a
nuotare e a lasciarsi spingere dalla corrente
per un pezzo, tornando a galla solo una volta che ebbe concluso di
essere ormai
vicina alla dimora del Moriameer a-ghekavary.
Si guardò attorno: non c’era anima viva.
“Appunto, sono
tutti in battaglia o vicini alle mura, e chi
non lo è sta dormendo” concluse, mentre
raggiungeva la riva del fiume e usciva
dall’acqua “Non sono certa che il Moriameer a-ghekavary
lo stia facendo, però affrontarlo non sarebbe un grosso
problema. Lui è un
guerriero e lo sono anch’io. Anzi, forse io lo sono
più di lui, dal momento che
ha questa tendenza ad affidare ai suoi luogotenenti tutto quello che
può.
D’accordo, un capo deve anche saper delegare… ma
fino a un certo punto”.
Nonostante
l’assenza di persone che potessero vederla
decise di muoversi con rapidità e circospezione, cercando di
evitare le zone
illuminate dalla scarsa luce dell’unica luna rimasta.
La dimora della persona che
stava cercando si trovava poco
lontano dal negozio di uno speziale, che lei non faticò a
trovare e a superare.
La sola
“difficoltà” che riscontrò fu
il doversi nascondere
in un vicolo buio quando sentì le voci di due Lusan in
avvicinamento. Avrebbe
potuto ucciderli, ma preferiva non dare nell’occhio e
limitarsi a portare a
termine la missione.
Raggiunse la casa del
Moriameer a-ghekavary, un edificio
a due piani dallo stile semplice e
praticamente identico a quello di casa sua; nulla che potesse stupirla
sapendo
che le abitazioni nella valle erano tutte costruite più o
meno allo stesso modo
-cambiavano solo le dimensioni a seconda della posizione sociale o del
denaro posseduto- e anche la disposizione degli edifici nelle
città si somigliava
sempre abbastanza.
“Ora devo solo
scassinare la serratura della porta sul
retro ed entrare” pensò, tirando fuori dalla
fodera attaccata alla cintura un
pugnale dalla lama lunga e sottile.
La serratura cedette come se
fosse stata di burro: ecco,
era finalmente dentro.
Percorse solo pochi passi
prima di trovarsi davanti la
moglie del capo di Moriameer, e quest’ultima ebbe solo il
tempo di sgranare gli
occhi e aprire la bocca per urlare, senza riuscirci, perché
Calida la sgozzò
con un gesto fulmineo.
“No,
appunto… non dormivano. Non tutti, almeno”.
I rantoli della donna
richiamarono l’attenzione di quello
che sicuramente era uno dei suoi figli adolescenti -uno dei due maschi-
ma anch’egli,
appena spuntato fuori dalla stanza accanto,
non ottenne nulla più di un pugnale volante
infilato in gola.
La possente Lusan
recuperò l’arma ancor prima che il
ragazzo cadesse a terra in un lago di sangue, immaginando che anche
l’altro
figlio non dovesse essere troppo lontano.
«Mahanum!»
Non si era sbagliata di
molto, perché l’attimo successivo
si trovò a dover respingere l’aggressione della
terza figlia del suo collega,
una sedicenne alta quasi quanto lo era stata lei a
quell’età, che le aveva
appena urlato “muori”.
Le si era avventata contro
con uno spillone per capelli,
un’arma impropria quasi ridicola che però poteva
risultare letale nelle mani
giuste. Calida riuscì a evitare i primi colpi senza emettere
un suono, e con la
coda dell’occhio vide il fratello maschio, quello cui aveva
pensato poco prima,
in attesa di tentare a sua volta un attacco silenzioso.
“Aspetta”
pensò, evitando un altro affondo della ragazza
“Non ancora… ecco”.
Si abbassò al
momento giusto, proprio quando vide che il
ragazzo era partito all’attacco, e fu così che il
disgraziato Lusan venne
colpito mortalmente in un occhio dallo spillone della sorella.
«No!...
Hetri!» esclamò la ragazza, disperandosi nel
rendersi conto di ciò che aveva fatto al fratello.
«Uno in meno di
cui occuparmi» fu il solo commento di
Calida, che agguantò la ragazza preparandosi a ucciderla.
«Tu!...
cosa… cos’hai fatto?!»
Ecco che finalmente il
Moriameer a-ghekavary, bersaglio
principale ma non unico della sua missione
omicida, si palesava giusto in tempo per ammirare il lavoro da lei
compiuto
finora.
«Mi sembra
abbastanza evidente, Lenen Moriameer a-ghekavary.
Tu e i tuoi familiari
sareste dovuti andare in battaglia, magari sareste
sopravvissuti».
«Lascia andare mia
figlia, altrimen-»
Il Lusan non poté
neppure finire di dire quell’altrimenti,
perché venne interrotto dallo schiocco sonoro del collo
spezzato di sua figlia.
«Fatto»
disse Calida con calma glaciale, lasciando cadere a
terra il cadavere.
La reazione del suo collega
nel veder uccidere la propria
figlia fu quella che ci si aspetterebbe da qualunque padre, ossia
scagliarsi
contro l’assassina in un impeto di pura ferocia. Peccato che
fosse proprio quel
che Calida si aspettava, e ancora una volta lanciò il
pugnale, uccidendo il
padre nello stesso modo in cui aveva ucciso il figlio: una lama
conficcata in
gola.
«Rendiamoci conto
che in tutto questo la figlia adolescente
mi ha dato più rogne di quante me ne abbia date suo padre.
Se non altro l’aveva
cresciuta decentemente» sospirò Calida, estraendo
con cura la sua arma dal
collo dell’ultima vittima «Posso dire di aver
finito».
Il grosso del lavoro era
stato fatto, si disse, aprendo il
sacco che si era portata appresso; ora non restava altro da fare che
prendere i
souvenir e poi tornare a Ulthmeer con il “bottino”.
Il pianto di un neonato,
proveniente dal piano superiore,
attirò la sua attenzione. Non ricordava che il defunto Lenen
avesse avuto un
figlio da poco, ma del resto non era detto che lo fosse: poteva
tranquillamente
essere un nipote, anche se non le risultava che i suoi figli fossero
sposati.
«D’accordo:
avevo “quasi” finito»
rettificò la Lusan,
imboccando la scalinata che portava al piano di sopra.
Esattamente come
nell’occasione in cui Thandrumeer era
stata distrutta, Calida notò che in tutto quel lasso di
tempo non aveva avuto
alcun tipo di problema: niente allucinazioni di Anise zombie, niente
difficoltà
a riconoscere i volti e ricordare i nomi… stava bene,
assolutamente bene, tanto
che anche ogni voglia di porre fine alla propria vita era passata.
Nel dirigersi verso la
stanza da cui proveniva il pianto
del piccolo -o della piccola- Lusan, pensò che forse per
poter continuare a
vivere in modo dignitoso era destinata a uccidere, che forse era
diventata
simile a un parassita che aveva bisogno di versare sangue altrui per
non
impazzire del tutto.
Se però il sangue
non era quello di Anise, era un prezzo
che Calida era tranquillamente disposta a pagare.
***
La battaglia tra i Lusan di
Kahzameer e quelli di
Moriameer, ignari del fatto di aver perso il capo della loro
città, infuriava
sempre più aspra nonostante entrambe le armate ormai
avessero perso parte dei
loro componenti.
«ARRAJ
ADHART!
AVANTI!» urlò il capo della
città di Kahzameer, che stava combattendo
duramente pur non essendo in prima linea «Possiamo
respingerli! AVANTI!»
Anch’egli,
esattamente come tutti gli altri capi delle
città e non solo, aveva subodorato da tempo
l’arrivo di una guerra. L’ultima
era finita quando lui aveva otto anni e, per quanto allora fosse un
bambino,
aveva fatto in tempo a respirarne l’aria a pieni polmoni e a
imparare a
riconoscerne l’odore di morte ancor prima che sangue,
cadaveri e deiezioni
venissero sparsi nei campi di battaglia della valle.
Da un lato ne era quasi
felice perché, come praticamente
tutti, lui non era esente dall’avere voglia di massacri;
dall’altro
lato tuttavia lo era di meno, perché se non avesse dato il
massimo -come tutti
gli altri capi- avrebbe corso il rischio che Kahzameer cadesse in mano
a un
qualsiasi nemico o fosse distrutta dopo secoli e secoli in cui questo
non era
accaduto.
«UCCIDETELI!
Neppure uno di loro deve tornare a casa!» gridò ai
propri uomini, decapitando
un soldato nemico.
Dolmer, questo era il nome
del era Kahzameer a-ghekavary,
sentiva su di sé una
pressione violenta, schiacciante come mai avrebbe creduto di sentirne.
Non
perché non fosse abituato a dare il massimo, lui dava sempre
il cento per cento qualunque cosa facesse, ma
perché fino a un anno e mezzo prima non aveva mai
creduto davvero alla possibilità che una città
potesse essere rasa al suolo.
Poi però
c’era stata la distruzione di Thandrumeer, un
fatto che aveva cambiato le carte in tavola. Thandrumeer era stata fino
ad
allora la città leggermente più grande di tutte
le altre, quella con le mura
leggermente più spesse e con una montagna a proteggerne
parzialmente i confini,
la stessa montagna che aveva segnato la sua condanna.
Calida Ulthmeer a-ghekavary
non si era limitata a far costruire armi migliori, aveva anche
dimostrato di saperle
usare con acume.
Prima della distruzione di
Thandrumeer il suo nome era già
ben conosciuto: Calida la Lusan gigantesca, Calida la Lusan che non
soffriva il
dolore, Calida K’ery
Sùilean, Divoratrice
Di Occhi; dopo Thandrumeer però non c’era Lusan
nella valle che non conoscesse
Calida a-Teinen Agaibh, ossia
“Calida
Delle Croci Infuocate”.
Tutte le città si
detestavano tra loro, tutti i capi si
detestavano uno con l’altro, però quella era una
donna nubile, sanguinaria al
punto di farsi ampiamente notare in una valle in cui lo erano un
po’tutti
quanti, che si era guadagnata una certa fama e che oltre a essere utile
in
battaglia avrebbe potuto generare figli grandi e grossi quanto lei;
tutti motivi
per cui lui, pur non trovandola bella, era stato svelto a farle
pervenire una
proposta di matrimonio. Non aveva contato particolarmente su una
risposta
affermativa -non era mai capitato che il capo di una città
ne sposasse un
altro, ci si sposava quasi sempre tra compaesani- però aveva
tentato ugualmente
e, da quel che sapeva, non era stato neppure il solo.
«MAHANUM!»
ringhiò, dopo essersi lanciato su un nemico con un balzo. La
lama della sua
spada trapassò il cranio del soldato da parte a parte e
altro sangue macchiò il
pelo dorato con striature fulve di Dolmer, il quale comunque non ne fu
infastidito.
Improvvisamente
però il clamore della battaglia divenne tre
volte più forte, troppo più forte:
c’era qualcosa che non andava e quando si
voltò capì che il “qualcosa”
era un’armata di Ulthmeer che si era appena
gettata in battaglia con la stessa forza e intensità di un
fiume in piena -o di
una valanga.
Urlò ai propri
uomini dell’arrivo di altri nemici, così che
i pochi che non si erano accorti potessero rendersi conto di quel che
stava
succedendo, per poi notare una cosa fondamentale: i soldati di Ulthmeer
non
stavano attaccando i suoi soldati, stavano colpendo solo e soltanto
quelli
della città di Moriameer… come se fossero giunti
in loro aiuto.
“Questo
però non è possibile. Le città si
attaccano tutte
tra loro, non si aiutano mai” pensò il Lusan,
decisamente confuso.
Forse però non
era il caso di farsi troppe domande, non in
quel momento: era molto meglio sfruttare quella stranezza a suo
vantaggio,
sperando che l’armata di Ulthmeer si rivoltasse contro di
loro solo quando
fosse stata indebolita a sua volta.
Emise l’urlo,
anzi, il ruggito di guerra più potente della
propria vita, e con rinnovato vigore lui e i suoi uomini si scagliarono
contro
i Lusan di Moriameer, ancor più determinati a non
risparmiare nessuno.
La battaglia andò
avanti a ritmo serrato per quasi un’ora e
quando ebbe termine -con la disfatta dei soldati di Moriameer- stava
iniziando
ad albeggiare.
Affiancato da alcuni uomini
fidati e leggermente ferito, Dolmer
osservò una scena che non avrebbe mai creduto di vedere in
tutta la propria
vita: Lusan di Kahzameer e di Ulthmeer intenti a uccidere i feriti di
Moriameer
lasciati sul campo di battaglia, senza cercare di ammazzarsi a vicenda.
«Strano
spettacolo, collega. Non pensi?»
L’aveva pensata e
ora Calida era lì, proprio davanti a lui,
a sua volta affiancata da alcuni dei suoi uomini e con un sacco issato
in
spalla.
Non capendo che intenzioni
avesse, Dolmer mise mano alla
spada. «Perché tu e i tuoi soldati siete venuti in
nostro aiuto? Non ne avevamo
bisogno!»
«Lo so. La
battaglia sarebbe finita con un numero più o
meno pari di morti e con una ritirata da entrambe le parti, come accade
di
solito. Non dubito che tu saresti sopravvissuto alla battaglia, proprio
come
non dubito che Kahzameer, come tutte le altre città,
sopravvivrebbe a questa
ennesima guerra. La mia domanda però è:
perché limitarci a sopravvivere da soli
quando le nostre città insieme potrebbero
vincere?»
Sentendo una cosa del genere
il Lusan sgranò gli occhi
dorati in un’espressione di assoluto stupore, per poi
ritrovare contegno. «È
uno scherzo, non può essere altrimenti. La mia
città non ha bisogno della tua
per restare in piedi».
«Esattamente come
la mia non ha bisogno della tua, ma io
per l’appunto ho parlato di vincere. Kahzameer è
grande, ha risorse, uomini e
armi; io dal canto mio ho risorse, uomini e cannoni migliori dei
tuoi».
«Anche le altre
città hanno risorse, uomini e armi, quindi
perché dovrei allearmi con la tua?»
«Perché
io sono Calida a-Teinen
Agaibh» ribatté l’altra
«E se l’intera valle conosce il mio nome
c’è più di
una buona ragione» aggiunse, indicando i resti di Thandrumeer
in lontananza «Come
ben sai. Se però non ti basta, dentro questo sacco
c’è una crisi di governo per
Moriameer!»
Dolmer si
avvicinò con una leggera diffidenza al sacco che
Calida gli aveva appena lanciato, per poi tastarlo delicatamente senza
riuscire
a capire cosa ci fosse dentro.
Quando però lo
aprì e si trovò davanti la testa tagliata e
bagnata
di quello che era stato il Moriameer a-ghekavary,
con suo sommo stupore capì cosa intendesse dire quella donna
con “crisi di
governo”.
«Ci sono anche
moglie e figli. Sono dell’idea che sia un
peccato separare le famiglie» disse Calida «Se ora
ci uniamo e attacchiamo
Moriameer in questo momento di instabilità politica
sarà la prima di una serie
di vittorie».
Il Lusan tirò
fuori dal sacco la testa del collega, come a
volerla esaminare meglio, o come a volerla mostrare a tutti i presenti.
«Avrei
dei motivi per accettare» disse «Però
non ho garanzie che rispetterai l’accordo,
Calida a-Teinen Agaibh».
«Né io
al momento ho garanzie che lo farai tu» ribatté
lei
«Motivo per cui, dopo un’attenta riflessione durata
un anno e mezzo, ho deciso
di farti l’onore di accettare la proposta che mi facesti e di
concederti la mia
mano».
Recte e altri luogotenenti
di Ulthmeer sapevano cosa aspettarsi,
ma tra i Lusan di Kahzameer cadde un silenzio tombale.
Era stata una notte
sorprendente ma l’alba lo era ancora di
più.
«Se dici una cosa
del genere alla presenza di testimoni fai
sul serio» disse Dolmer, dopo un po’
«Però non comprendo…»
«C’è
poco da comprendere: tu hai fatto una proposta e io l’ho
accettata. Ci sposeremo domani».
«O stasera
stessa» rilanciò il Kahzameer a-ghekavary.
Era “entusiasta” quanto
doveva esserlo lei, ma era meglio sbrigare la faccenda prima che la
carte in
tavola cambiassero ancora.
«Prima
è, meglio è» annuì Calida
«Mi aspetto dei doni degni
del capo che sono e del capo che sei. Non tentare una qualsivoglia
idiozia
durante la cerimonia».
«I matrimoni sono
sacri» ribatté Dolmer.
Era credenza popolare
estremamente radicata che interrompere
una cerimonia nuziale e/o farla finire nel sangue avrebbe portato
sfortuna a
coloro che commettevano tali azioni e alla loro discendenza, motivo per
cui non
erano mai stati registrati massacri durante un matrimonio. Alcuni
pacifisti
avrebbero pensato che i Lusan della valle avrebbero dovuto sposarsi
ogni
giorno.
«Bene. Ci
incontreremo stasera all’albero sacro» concluse
Calida.
«Non
mancherò».
Voi probabilmente non ve lo
aspettavate, ma vi comprendo,
non me lo aspettavo nemmeno io. Io e Calida abbiamo un patto secondo
cui lei
può fare quello che vuole -purché nella sua
follia abbia del senso- e i miei
occhi restano al loro posto. In questo caso la proposta di matrimonio
di cui si accenna nel capitolo 15 si è concretizzata :'D
Vi avviso che la settimana
prossima potrebbe esserci una
pausa nella pubblicazione e, per il resto, lascio a voi eventuali
commenti e un disegno di Dolmer!
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Capitolo 24 *** 24 ***
24
24
Era da un
po’ che Dolmer se ne stava inginocchiato lì, in
preghiera di fronte a un piccolo altare dedicato a Q’thulu,
la Bestia dai Molti
Tentacoli che i Lusan della valle, fin
dall’antichità, avevano continuato ad
adorare pur conoscendo l’esistenza degli Hakaishin e dei
Kaioshin.
La sola fonte di
luce nella stanza era la fiamma tremolante
di una candela accesa, che muovendosi creava curiosi giochi di ombre
sul corpo
e il volto del Kahzameer a-ghekavary.
«Perché?»
Pur avendo sentito
perfettamente la domanda di quella che
ormai era diventata sua moglie, e pur sapendo che in teoria averla alle
spalle
mentre lui era in ginocchio non era precisamente consigliabile, Dolmer
non si
voltò. «Perché no, Calida?
C’è chi in attesa di una battaglia mangia,
c’è chi
beve, c’è chi si allena, chi cammina, chi fa del
sesso… e io prego».
«Ricordare
di aver vinto contro Moriameer dovrebbe darti
forza a sufficienza, anche se è passato del tempo».
Calida aveva
ragione: della città di Moriameer ormai
rimanevano più che altro case vuote, giardini devastati ed
eventuali schizzi di
sangue rappreso sulle pareti, assieme ai pochi brandelli di interiora
che gli
animali, dopo tutto quel tempo, non avevano ancora consumato.
L’alleanza
tra Ulthmeer e Kahzameer, pur se nata abbastanza
improvvisamente, aveva dato i suoi frutti nel completare il lavoro che
Calida
aveva iniziato col massacro di una famiglia intera -e relativa crisi di
governo.
«Io sono
abituato a
fare così. Finora mi ha portato del bene, squadra
che
vince non si cambia.
Cercavi qualcosa di specifico?»
«Deduco
che non apprezzi la mia presenza».
Dolmer si
voltò a guardarla. « Non sono infastidito. Di
rado cerchiamo una la presenza dell’altro solo per scambiare
due chiacchiere,
tu e io di solito parliamo di guerra -com’era logico
aspettarsi- quindi la mia
domanda è legittima. Cerchi qualcosa di specifico o per una
volta cerchi solo
compagnia?»
Calida non cercava
qualcosa di specifico, non sul serio.
Dopo aver passato diverso tempo in solitudine, preparandosi
psicologicamente
all’assalto contro Sarumeer previsto per il giorno dopo, si
era sorpresa a
chiedersi dove potesse essere finito Dolmer.
Aveva detto a se
stessa di essersi fatta quella domanda
perché non era conveniente perderlo di vista: erano alleati,
marito e moglie,
ma era veramente saggio lasciarlo tutto quel tempo senza sorveglianza,
dandogli
modo di concertare chissà cosa con chissà chi?
Dirigendosi verso il
luogo in cui era stato allestito quel
piccolo altare, sapendo benissimo che lo avrebbe trovato lì,
aveva dovuto
riconoscere di star mentendo a se stessa.
Non lo stava
cercando per quella ragione, né per parlare
nuovamente della battaglia che si avvicinava: lo stava facendo solo
perché
aveva la curiosa volontà di passare del tempo con una
persona che aveva
imparato a conoscere un po’, alla cui presenza aveva finito
quasi per
abituarsi.
In fin dei conti se
Calida aveva scelto di stringere
un’alleanza e sposarsi con Dolmer era anche perché
tra i capi di città che in
precedenza le avevano fatto un’offerta di matrimonio lo
trovava una persona
abbastanza “degna” e, almeno in quel periodo di
tempo trascorso dalle nozze,
non aveva avuto ragione di ricredersi. Non la amava, esattamente come
lei non
lo amava, ma l’aveva sempre trattata con rispetto, e lei
aveva fatto
altrettanto.
Sorprendeva il modo
in cui erano riusciti abbastanza facilmente a trovare un equilibrio pur
essendo
stati nemici fino a poco tempo prima.
«Nella
Bestia dai Molti Tentacoli credono un po’tutti,
però
a credere e praticare siete pochi,
e
quei pochi di solito sono imparentati con i Sagartaibh
che abbiamo nella valle. Vale anche per te, Dolmer?»
«Se poi io
ti facessi una domanda sullo stesso tema, come
reagiresti?»
Calida fece
spallucce. «Non in maniera controproducente».
Il Lusan
tornò a osservare la candela. La piccola statua
intarsiata di Q’thulu sembrava quasi fissarlo con sguardo
severo: se fosse per
consigliargli il silenzio o meno, non era dato sapere.
«Sono
effettivamente imparentato con un sacerdote» ammise
Dolmer, dopo un po’ «Era mio zio. In teoria sarei
dovuto diventare a mia volta
un religioso, cosa che a me andava benissimo, e il titolo di Kahzameer a-ghekavary era destinato a mia sorella
maggiore. La guerra però ha fatto sì che le cose
andassero a finire
diversamente, come del resto è successo a molti, e se non
fosse stato per mio
zio non sarei qui neppure io. Mi fece nascondere appena prima che un
gruppo di Lusan
di Moriameer entrasse nel tempio. Lo hanno fatto a pezzi e hanno
ricomposto il
suo cadavere in modo osceno. Le luride bestie di quella
città non hanno avuto
rispetto nemmeno di un Q’thulu a-Sagartaibh
in quanto tale! Sotto la mia guida, invece, nessuno dei miei uomini ha
mai
alzato un dito su un religioso».
«Ero a
conoscenza di questo dettaglio, a mancare era solo
il perché. Risparmiare i Sagartaibh
“in quanto tali” non ti rende migliore rispetto a
chiunque altro» disse Calida
«Al di là del fatto che non credo particolarmente
nell’esistenza di Q’thulu, i
sacerdoti non sono esseri speciali: sono persone come me e te, che
mangiano,
bevono, defecano e sanguinano. Di’ piuttosto che li risparmi
in memoria di tuo
zio. Questa è una cosa che comprendo di più e che
rispetto».
«Avevo
intuito che il tuo rapporto con il nostro credo non
fosse particolarmente stretto, in fin dei conti il matrimonio
all’albero sacro
è più consuetudine che manifestazione di
fede» commentò il Lusan, alzandosi in
piedi «Che tu abbia idee diverse dalle mie in materia di
religione non è un
problema, Calida, pur essendo credente non sono un fanatico che cerca
di
convertire gli altri, e a noi servono solo intesa in guerra e rispetto
in casa.
Solo una cosa: il dio della cui esistenza dubiti è
decisamente migliore di
quelli che conosciamo di persona».
«Questo
è certo».
Era passato diverso
tempo dal giorno in cui aveva detto a
Dolmer di addentrarsi assieme a lei nella foresta per essere presentato
ad
Anise.
In verità la proposta era stata fatta in maniera
ironica, perché era
piuttosto convinta che solo un pazzo si sarebbe addentrato in un posto
poco
conosciuto -per lui- assieme a
quella
che fino a pochi giorni prima era stata una nemica, ma lui
l’aveva sorpresa con
una risposta affermativa. “Ora siamo alleati,
nonché marito e moglie, dobbiamo
imparare a vederci come tali anche senza avere attorno uomini pronti a
difenderci”, le aveva detto.
Era stato in
quell’occasione che Dolmer, oltre ad Anise,
aveva conosciuto anche i gemelli Hakaishin, facendosi di entrambi
un’opinione
che non differiva troppo dalla sua.
«Mi
risulta ancora difficile credere che quel ragazzetto
rincoglionito sia il nostro Hakaishin. Non so se nascano tali
o
vengano scelti ma, se è così, dovrebbero cambiare
i parametri. Mi chiedo anche
cosa possa aver visto in lui tua sorella: mi verrebbe da dire soldi e
potere
ma, se fosse così, ormai non vivrebbe più nella
foresta. O beh, in fin dei
conti sono stato un ventenne anche io. Cieco, sordo e incapace di
valutare».
Dolmer parlava per
esperienza: aveva appena
compiuto vent’anni quando si era lasciato
incantare da Amiri, dai suoi occhi color cioccolato.
Benché si tendesse a pensare
che i discendenti di prigionieri fossero cittadini a tutti gli effetti
a
partire dalla seconda o terza generazione, non era stato saggio da
parte sua non
lasciar passare abbastanza tempo per conoscerla bene e verificare che
fosse veramente
così.
L’aveva
sposata e lei,
poco dopo, aveva tentato di ucciderlo.
Uccidere lui per
vendicarsi di qualcosa che aveva fatto suo nonno, o il suo bisnonno, o
comunque
un suo ascendente.
Quant’era
folle, che lui non lo trovasse poi così folle?
Dolmer
l’aveva mandata alla forca, col volto serio e un
cuore a pezzi che, tuttavia, ormai si era ricomposto. L’aveva
amata ma
evidentemente non lo aveva fatto tanto da rimanere traumatizzato vita
natural
durante.
«Io chiamo
quella che va dai sedici ai ventidue anni
“l’età
dell’idiozia”» disse Calida
«Solitamente anche i Lusan più maturi commettono
almeno una sciocchezza, in questo lasso di tempo. Cambiamo discorso:
l’assalto
previsto per domani…»
«Ne
parleremo dopo che ti avrò fatto una domanda. Prima te
ne avevo accennato».
Calida rimase in
silenzio, attendendo che Dolmer ponesse il
suo quesito.
Doveva ammettere di
esserselo cercato.
«So che
tu, come me, non hai nessuno. Se non tua
“sorella”»
aggiunse il Lusan «Tu sai chi erano i miei genitori,
perché Kahzameer è
governata da tempo dalla dinastia da cui discendo io. Dunque mi
chiedo… chi
erano i tuoi genitori?»
«Artificieri».
Dolmer
sollevò le sopracciglia, stupito del fatto che lei
gli avesse risposto. «Davvero?»
Calida fece
spallucce. «O forse si occupavano di libri, o
erano semplici contadini. O becchini. O magari dei boia. Scegli la
versione che
preferisci».
«Immagino
che, se io ora protestassi dicendo che ho
risposto, tu ribatteresti che non mi hai obbligato. Allora, cosa volevi
dirmi
riguardo l’assalto previsto per domani?»
Era una domanda che
segnava l’uscita dal terreno un
po’scivoloso in cui lei stessa si era infilata, riportandola
in uno più
congeniale che, da diverso tempo a quella parte, la faceva perfino
sentire sana.
Più volte
aveva pensato che massacri, guerra e bagni di
sangue le facessero bene, e tali congetture sembravano aver trovato
conferma:
non aveva più avuto problemi nel riconoscere le persone, non
aveva più visto il
volto di Anise al posto di altri e, soprattutto, non era più
perseguitata da
Anise in versione decomposta.
Sì,
continuava a sentire il richiamo verso Vynumeer, aveva
sognato Rubedo/Kamandi in qualche occasinone, aveva spesso
l’impressione di
essere osservata anche quando era sola e ogni tanto le sembrava di
vedere il
movimento di capelli argentei con la coda dell’occhio, ma
rispetto a prima non
era nulla che non potesse gestire, tant’era che nemmeno
Dolmer la riteneva
fuori di testa -non in senso "poco utile", s'intende.
«Volevo
raccomandarti un’ultima volta di non danneggiare
troppo le strutture. Abbiamo devastato Moriameer ma Sarumeer
è una buona base
in cui poterci stanziare per poi occuparci delle quattro
città che mancano».
«Diciotto»
sospirò Dolmer.
«Cosa?»
«Volte che
mi ripeti questa cosa. Con questa sono diciotto».
Utlhmeer, Kahzameer,
Moriameer e Thandrumeer erano
piuttosto vicine tra loro -e le ultime due non costituivano
più un problema-
mentre Saurumeer era a metà strada tra
quell’insieme di città e un altro
gruppo, sempre di quattro, posizionato un po’più
distante.
Avevano deciso di
prendere quella città perché, oltre ad
avere una buona posizione, aveva anche una doppia cinta di mura alte e
rese
“scivolose” dal tempo, tra le quali era stato
scavato un fossato riempito
d’acqua.
I cannoni avrebbero
permesso loro di aprire brecce nelle
mura ma, come chiunque altro in passato, Calida e Dolmer avevano
concluso che
sarebbe stato un peccato perdere un avamposto così ben
protetto; tutti motivi
per cui avevano deciso di prendere la città per fame.
Togliere loro
l’acqua era stato il primo passo, deviando
mediante uno sbarramento il braccio del fiume che, come nel caso di
Moriameer,
attraversava Sarumeer e riempiva d’acqua il fossato.
I nemici vedendo
ciò avevano tentato la prima sortita
durante la notte, senza ottenere altro che una batosta; costretti a
ritirarsi,
si erano arroccati all’interno della città in
attesa di un momento buono per riprovare.
Nel corso del tempo
avevano fatto altri tentativi, ma erano
andati tutti come il primo, tanto che infine avevano smesso.
Il secondo passo era
consistito nel privare i nemici delle
maggiori riserve di cibo, servendosi della conoscenza di Calida
riguardo le
planimetrie delle città.
Entrare di nascosto
per dare fuoco agli edifici dove veniva
immagazzinato il cibo sarebbe stato arduo, ragion per cui, trattandosi
di
strutture in legno, Calida aveva avuto un’altra idea.
“Dolmer,
hai dei
prigionieri da prestarmi?”
“Li
ho,
però credo che sarebbe inutile cercare di farli
entrare a Sarumeer”.
“Non
lo faremmo
nel modo che pensi tu. Ho fatto un paio
di calcoli e penso che dovremmo riuscire a lanciarli contro i
magazzini…”
“Non
credo che
quelle persone sopravvivrebbero all’urto”.
“Certo
che non
sopravvivrebbero: li cospargeremmo di
liquido infiammabile e appiccheremmo il fuoco appena prima di lanciarli
contro
i magazzini. Che sono di legno”.
“Potremmo
usare
della pece”.
“Se
tu fossi al
posto dei nostri nemici, ti
spaventerebbero più dei Lusan in fiamme o delle palle di
pece?”
“…
prendi tutti i prigionieri che ti servono”.
Era stato necessario
aggiustare il tiro un paio di volte ma
il piano aveva funzionato; dunque, una volta passato il giusto lasso di
tempo,
erano passati alla terza parte del piano, ossia favorire lo sviluppo di
una
pestilenza lanciando carcasse di animali all’interno delle
mura.
Gli abitanti di
Sarumeer erano ormai debilitati dalla
mancanza di acqua e di cibo, motivo per cui, come avevano testimoniato
le
molteplici colonne di fumo e l’odore di carne di Lusan
bruciata, erano caduti
vittime di un morbo che difficilmente si sarebbe sparso a macchia
d’olio tra
persone sane.
Consci della
condizione dei loro nemici, Calida e Dolmer li
avevano lasciati cuocere nel loro brodo un altro po’, e ormai
erano piuttosto
convinti del fatto che superare le mura e conquistare la
città non sarebbe
stato più difficile di quanto fosse stato devastare
Moriameer.
«Se vuoi
posso ripeterti altre due volte di danneggiare le
strutture il meno possibile» disse Calida
«Così da arrivare a una cifra tonda».
«Credo che
in tal caso potrei prendere in considerazione
l’idea di spaccarmi il cranio da solo dando testate a un muro
non meglio
specificato» ribatté Dolmer «Immagino
che questo faciliterebbe il lavoro di qualcuno».
«Se uno di
noi due uccidesse l’altro subito dopo aver
portato a termine la conquista succederebbe un putiferio, e non
è quel che
voglio».
«Lo so,
infatti non parlavo di te. In verità io pensavo al dopo.
Al momento siamo impegnati in questa campagna di conquista e/o
devastazione,
no? A Moriameer abbiamo dato alla nostra gente la prova che
quest’alleanza mai
vista prima funziona, domani se Q’thulu vuole faremo
altrettanto, e magari
riusciremo davvero ad avere ragione anche delle altre quattro
città. Una volta
finita e vinta la
guerra domineremo la
valle, verremo acclamati, verremo osannati… ma per quanto, Calida?» le chiese
Dolmer, con uno sguardo cupo negli
occhi dorati «Per quanto tempo riusciremo a tenere tutto e
tutti insieme?
Quanto tempo passerà prima che smettano di osannarci e che a
qualcuno venga in
mente di prendere il nostro posto, o semplicemente di smantellare tutto
quel
che avremo creato?»
A Calida non piacque
quel discorso, pur non essendo del
tutto sbagliato; anzi, forse era proprio per quel motivo che non le
piaceva.
«Questo
valeva anche prima, Dolmer, quando non eravamo
alleati ed eravamo ognuno a capo della propria città, e
comunque tu sei un capo
amato e rispettato, mentre io un capo temuto
e rispettato: è un’unione bilanciata. I nostri
concittadini non hanno cercato
di farci fuori prima, non hanno cercato di farlo quando ci siamo
sposati, non
vedo perché dovrebbero farlo in futuro. Quel che dobbiamo
fare è impegnarci per
aumentare le nostre possibilità di vittoria, non fasciarci
la testa prima di
romperla. Pensa all’assalto di domani, non al "dopo".
Buonanotte» concluse
Calida, andandosene prima che il marito potesse replicare.
“Quanto
tempo
passerà prima che smettano di osannarci e che a qualcuno
venga in mente di
prendere il nostro posto, o semplicemente di smantellare tutto quel che
avremo
creato?”
Si era alleata con
un altro capo, lo aveva sposato per
poter vincere la guerra e dominare la valle, ma quelle parole
insinuavano il
dubbio che quanto aveva fatto non fosse sufficiente, non per i suoi
progetti.
Non per realizzare
davvero il proprio sogno senza
ricorrere al potere di Rubedo e pagarne il
prezzo.
***
«Una
pioggia del genere non si
vedeva da un po’. Non mi piace pensare che debbano combattere
con questo tempo.
Riduce la visibilità e la presa sul terreno, tra le altre
cose».
Non era una buona
giornata per
Anise, ma d’altra parte le giornate veramente
buone avevano avuto termine da tanto tempo: da oltre un anno e mezzo,
per la
precisione.
«Di
rimandare non se ne parla,
hm?» chiese Champa, pur sapendo benissimo quanto quella fosse
una domanda
retorica «Prova a pensarla così: il discorso di
presa e visibilità vale anche
per gli altri».
«Apprezzo
veramente il tuo
tentativo, Champino, ma non mi consola».
«Quando
tua sorella è andata
contro la città di Thandrumeer non eri altrettanto in
pensiero, e dopo quel che
è successo a Moriameer tempo fa non credo che ci siano
ragioni di esserlo.
Anise… non so se te lo ricordi, ma li hanno
“asfaltati”, come si suol dire».
«Ero
preoccupata anche in
quell’occasione, se è per questo. Champa, io non
riesco a togliermi dalla testa
il fatto che Calida stia facendo una campagna militare assieme a quello
che
fino a relativamente poco tempo fa era un
nemico».
«Ossia suo
marito».
«Ecco!
Dovrei essere felice del
fatto che due città, una delle quali è quella di
mia sorella, siano riuscite ad
allearsi, però io non sono tranquilla, e devo ancora
accettare del tutto il
fatto che Calida si sia sposata. Calida»
ripeté «Sposata. Lei! Lei,
che al mio
ventesimo compleanno aveva detto di aver rifiutato ogni proposta e di
aver
accantonato l’idea! Ho capito perché lo ha fatto,
in realtà è addirittura una
cosa sensata, è da una vita che vado avanti a parlarle dei
benefici di
un’alleanza, ma non avrei mai pensato che un giorno si
sarebbe presentata qui,
in casa mia, assieme a un marito. Nemmeno brutto, tra
l’altro».
«Per
fortuna che Beerus non ti
sente» commentò Champa «Non mi hai
ancora detto per cos’avete litigato, questa
volta».
«Colpa
dell’incubo. Di nuovo»
disse Anise «E della sua voglia di portarmi subito
via di qui, che aumenta sempre più ogni volta. Un
po’ lo capisco, essere
tormentato da certi incubi non è piacevole e credimi se ti
dico che mi dispiace
veramente tanto per lui, però puoi ben capire che io, per
come vanno le cose al
momento, mi sento poco propensa a trasferirmi da lui e iniziare una
convivenza».
«Tutti
questi incubi di Beerus
però iniziano a non piacermi» ammise il dio
«Soprattutto perché da quel che ho
capito sogna sempre la stessa cosa: Ulthmeer distrutta, tu che vieni
uccisa da
qualcuno che conosci. È vero, che io sappia i suoi sogni pseudo profetici non sono accurati,
tutt’altro» alzò gli occhi al
soffitto «Però… non mi piace».
«È
ovvio che continui a
sognarlo, questa cosa è diventata una sorta di chiodo fisso
per lui.
Evidentemente non si è mai tolto veramente
dalla testa quello che ha visto la prima volta in cui ha
avuto questo
incubo» disse Anise «Cosa che ha dato origine a
quello successivo, peggiorando
questa sua sorta di ossessione, e da lì in avanti, complice
la sua poca stima
per Calida, il tutto è degenerato ulteriormente, fino ad
arrivare a diventare
motivo di una discussione per colpa della quale non abbiamo contatti da
tre
giorni. Un distacco poco coerente con la sua volontà di
proteggermi a ogni
costo… ma è meglio questo che averlo attorno
arrabbiato».
«Tanto
proteggerti da qualsiasi
cosa penso io» esclamò Champa, mettendole un
braccio attorno alle spalle «Lo
sai».
«In certi
momenti riesci a
proteggermi perfino dai brutti pensieri» sorrise la ragazza
«Però oggi, come
dicevamo prima, ho in testa mia sorella. Calida mi ha detto che questa
alleanza
deriva dal fatto di voler vincere, invece di limitarsi a restare in
piedi, e io
le credo… però ho come avuto la sensazione che si
sia trattato di una soluzione
alternativa “estrema”. Alternativa a cosa, non lo
so. Inoltre mi auguro che suo
marito in futuro non faccia l’idiozia di pugnalarla alle
spalle, o comunque che
Calida riesca a non farsi uccidere. Champa, poco fa ti sei sorpreso
della mia preoccupazione,
ma non saresti allarmato anche tu se qualcuno che conosci infrangesse
così i
propri schemi comportamentali?»
«Forse.
Però tu non puoi farci
molto, e comunque tua sorella è una che se la cava. Abbi
paura per tuo cognato,
se mai. A me dispiacerebbe se morisse prima del tempo»
commentò il ragazzo.
«Immagino
che questo sia dovuto
al quel che ha detto di Beerus. È un miracolo che non
l’abbia fatto fuori
subito».
Il giorno in cui
Calida aveva
portato Dolmer in casa di Anise, Beerus li aveva accolti malissimo,
convinto
che Calida avesse portato lì Dolmer come
“pretendente” di Anise.
La faccia che aveva
fatto quando
aveva saputo che quel Lusan lì era sposato con Calida era
stata da primo piano,
e la sua grassa risata nell’ululare quanto fosse
“Assurdo e ridicolo che una cosa
del genere abbia trovato marito”
aveva fatto vergognare Anise delle sue maniere -e un po’anche
Champa.
Il divertimento di
Beerus
tuttavia era durato poco: era bastato un “Capisci cosa
intendevo?” di Calida
rivolto a Dolmer che, dopo aver alzato gli occhi al soffitto, aveva
detto “È
proprio il dio che non meritiamo e, soprattutto, quello di cui non abbiamo bisogno”.
Champa fece
spallucce. «Non
possiamo prendercela col marito di tua sorella se è una
persona obiettiva, Beerus
è stato peggio che maleducato. Se io sapessi che la mia
fidanzata non gradisce
che si rida in faccia a sua sorella, non lo farei».
«Quando
troverai la donna giusta
per te, lei potrà ritenersi molto fortunata».
«Forse
qualcuno dovrebbe
spiegarglielo. Alla donna giusta» aggiunse il giovane
«Ho oltre ventun anni e
non ho mai avuto una ragazza fissa. Sì, lo so che per un
Hakaishin questo è
piuttosto normale, so che in realtà è strano il
contrario, però vedo te e
Beerus…»
«Come se
io e Beerus fossimo un
bell’esempio! Non lo siamo più da un pezzo, quindi
non parliamone neppure»
sospirò la ragazza.
«Magari in
futuro andrà meglio.
Insomma, lo spero, perché quando ti vedo contenta sono
più tranquillo… però
ehi! Se le cose per disgrazia non dovessero andare bene
c’è sempre il piano B!»
esclamò l’Hakaishin, indicandosi.
Anise
aggrottò la fronte. «In
che senso?»
«Se tu e
Beerus vi lascerete,
verrai a stare a casa mia!» esclamò Champa
«Troverò il modo di renderti
immortale come me, passeremo l’eternità andando in
giro insieme a divertirci e,
soprattutto, tu mi farai da spalla quando ci proverò con una
ragazza. Io farò
lo stesso per te quando vorrai provarci con un ragazzo,
ovviamente!»
L’Hakaishin
sapeva fin troppo
bene che in realtà, se suo fratello e Anise si fossero
lasciati e lui avesse
davvero tentato di mettere in pratica quel piano, Beerus gli avrebbe
fatto il
sedere a strisce… però quello era solo un
minuscolo, insignificante dettaglio.
«Saremmo
una squadra
imbattibile! Tu però in realtà non hai bisogno di
una spalla, Champa, hai
bisogno di rimanere da solo con una ragazza senza avere la tua maestra
attorno.
Magari senza che questa ragazza sia una prostituta».
«È
difficile. A parte gli
scherzi, Vados non mi lascia mai solo con una ragazza che non fa quel
lavoro
lì. Mai»
ripeté il giovane «Letteralmente.
La sola eccezione sei
tu, e questo perché sei fidanzata con Beerus. Mi sono fatto
l’idea che voglia
evitare di fare lo stesso “errore” di
Whis».
«È
più che plausibile».
Seguì
qualche attimo di
silenzio, per fortuna non pesante.
«Immagino
che resterai
pensierosa fino a quando la battaglia non finirà»
disse Champa.
La Lusan si
raggomitolò sul
divano. «Probabilmente resterò pensierosa fino a
quando il tutto non sarà
finito, in un modo o nell’altro. Vedi, Champa, il fatto
è che mia sorella è
importante per me. Ricordo che da bambina vivevo nell’ombra
di Calida, ma era
un’ombra in cui ai tempi mi sentivo al sicuro. So che lei
è una persona
alquanto strana -e un po’lo sono anche io- e so benissimo a
quali livelli di
brutalità può arrivare, ma nonostante questo,
nonostante tutto quel che può
essere o non essere successo tra noi, io so che senza di lei non sarei
qui. Per
non parlare del fatto che non saprei fare la metà delle cose
che invece so fare,
se non fosse per Calida. Per tanti anni siamo state una la sola
famiglia
dell’altra. Non posso dimenticarlo. Non ci riuscirei nemmeno
volendo».
Champa
pensò a quanto fosse
assurdo che due persone senza alcun legame di sangue fossero
più legate di due
fratelli gemelli,
tuttavia non disse nulla, limitandosi ad imitare Anise
nell’ascoltare in silenzio il rumore del temporale.
***
La battaglia nella
città di Sarumeer infuriava, esattamente come
infuriava la pioggia.
La parte degli
eserciti congiunti di Ulthmeer e Kahzameer che fino
a quel momento aveva mantenuto l’assedio stava dando
finalmente l’assalto, dopo
aver superato la doppia cinta muraria. Le urla di guerra si mescolavano
con lo
scrosciare continuo dell’acqua che, se fosse giunta prima,
per la città di
Sarumeer sarebbe stata una benedizione.
Il rombo di un tuono
squarciò l’aria esattamente quando Dolmer
Kahzameer a-ghekavary
tagliò di netto
la testa di un Lusan di Sarumeer.
Alcuni Lusan tra
coloro che erano sopravvissuti alla fame, alla
sete e alla pestilenza si erano semplicemente arresi senza colpo
ferire, troppo
sfiancati in ogni senso per poter reagire, ma altri si stavano battendo
contro
di loro con tutte le poche forze che avevano in corpo, mossi
più dalla rabbia
viscerale per quel che avevano patito che dall’odio secolare
tra una città e
l’altra.
Un odio che forse era un
po’meno forte di quanto lui avesse creduto, pensando
all’equilibrio decente che
aveva trovato con sua moglie.
«Hogevor Dolmer, siamo
riusciti a radunare quelli che si sono arresi» lo
informò una dei suoi
luogotenenti, dopo averlo raggiunto «E siamo a buon punto
nell’uccisione delle
persone che invece non lo hanno fatto».
«Bene,
allora cerchiamo di continuare così e raggiungiamo mia
moglie. Ovunque sia».
L’aveva
persa di vista quando erano riusciti a valicare le mura
-com’era successo anche a Moriameer- pur essendosi ripromesso
di non lasciare
che una cosa del genere accadesse; erano alleati, secondo lui avrebbero
dato
un’immagine migliore se si fossero fatti vedere mentre
combattevano assieme.
«Nonostante
la pioggia sono sicura di averla vista poco lontano da
qui, non dobbiamo far altro che correre là».
Senza por tempo in
mezzo, entrambi corsero in direzione del luogo
in cui la luogotenente era convinta di aver visto Calida, scoprendo ben
presto
che non si era affatto sbagliata.
Altri soldati di
Ulthmeer e Kahzameer erano impegnati a combattere
in quella piazzola, ma Calida e la sua stazza saltarono subito
all’occhio di
Dolmer.
Esattamente come gli
“saltò all’occhio” il modo in
cui Calida
agguantò un Lusan maschio per la nuca e sbatté
con forza la sua testa contro il
muro di pietra di un edificio, trovandosi in mano una melma indistinta
di
sangue, materia grigia e frammenti di ossa.
Come da
cliché, a Dolmer parve che il tempo si stesse dilatando:
osservò la “melma” mescolata
all’acqua tra le dita guantate di Calida, lo
sguardo profondamente soddisfatto nei suoi occhi verdastri parzialmente
nascosti
dalle ciocche di capelli neri appiccicate al volto, il candore dei
denti
snudati in un ghigno crudele.
Anche a Moriameer
l’aveva persa e ritrovata, anche a Moriameer
l’aveva
vista battersi con furia, eppure quel che aveva ora sotto gli occhi gli
risultava “diverso.”
Un pensiero
improvviso lo colpì come se fosse stato una sassata: “Il precedente capo di Ulthmeer
è morto con
il cranio spappolato”.
La morte di Meskal
aveva fatto notizia, ai tempi, perché Meskal oltre
a essere un capo era stato un guerriero esperto. Lui, come gli altri,
non era
riuscito a venire a sapere chi fossero i colpevoli -i quali sarebbero
stati
premiati, se fossero stati abitanti della sua città- ed era
quello il punto: “i”
colpevoli.
Tutti quanti avevano
sempre creduto che fosse stato assalito da un
gruppo di Lusan mentre era solo, lui stesso lo aveva fatto,
però ora si
chiedeva se non fosse stata Calida, invece, a uccidere da
sola il proprio cognato.
Questi non aveva
forse ripudiato la sua amata sorella?
Fu costretto a
riscuotersi dai propri pensieri quando intravide con
la coda dell’occhio un movimento alla sua sinistra, riuscendo
appena in tempo a
notare una Lusan inferocita e a evitare il proiettile di un hrat’san.
Riuscì ad
avere ragione di lei scattando nella sua direzione e
uccidendola con un singolo affondo della spada, pur avendo perso per un
attimo
l’equilibrio a causa dei sanpietrini resi scivolosi dalla
pioggia, e quando si
voltò si rese conto di essere ormai schiena a schiena con
Calida.
Gli parve che lei
avesse detto qualcosa, ma non riuscì a udirla per
colpa del clamore attorno a loro e dell’ennesimo tuono;
capendo che cercare di parlare
era assolutamente inutile, escluse dalla propria attenzione qualunque
cosa non
fosse la battaglia in corso.
Come in tutto il
resto delle città i fucili a pietra focaia non
erano un’arma particolarmente diffusa, dunque si trovarono ad
affrontare degli invasati
che combattevano a mani nude o all’arma bianca, menando
fendenti con spade e
pugnali, pugni e calci a destra e sinistra.
Lui e Calida insieme
stavano riuscendo a guardarsi le spalle in
maniera efficace, evitando quasi del tutto di riportare danni, ma
Dolmer vide morire
la sua luogotenente, il cui volto venne letteralmente sbranato da un
Lusan con l’aria
completamente folle di rabbia e probabilmente anche di fame.
Pur essendo avvezzo
alla brutalità era abbastanza sicuro che
avrebbe faticato a togliersi dalla mente il modo in cui i denti di
quella
bestia erano affondati nella carne e l’avevano lacerata senza
pietà; stava
faticando anche adesso, specie sapendo di essere troppo impegnato con i
propri
avversari per poter aiutare qualcuno che, in ogni caso, era
già senza speranza.
Non seppe dire per
quanto andò avanti quella lotta furiosa, perché
senza rendersene conto aveva perso, in parte, anche il senso della
realtà oltre
che quello del tempo; smise di fendere l’aria con la spada
solo quando sentì
una presa potente e dolorosa al polso.
«È
finita».
Dolmer
batté le palpebre, riacquisì pieno controllo di
sé, e solo
allora Calida -perché di lei si trattava- lo
lasciò andare.
«So che
è finita, lo avevo notato» disse il Lusan.
«Al terzo
fendente a vuoto mi è venuto qualche dubbio»
ribatté
Calida, avendo cura di farlo piano, vicino all’orecchio
«Sono cose che
succedono, quando ci si batte contro persone affamate».
«Quali
cose?»
Calida non si
curò di rispondergli, sapendo benissimo che in
realtà
aveva capito, e lui non insistette oltre.
«So che
quelli che si sono arresi sono stati radunati nel tempio di
Q’thulu. Tra essi c’è anche il Sagartaibh.
Immagino che tu ne sia sollevato: abbiamo conquistato la
città e assecondato il
tuo intento di risparmiare gli uomini di fede. Ora non dobbiamo fare
altro che
pensare alle cose pratiche. Mi segui?»
Dolmer
annuì e, dopo un ultimo attimo di esitazione, si rivolse ad
alcuni soldati in attesa di ordini. «Fate in modo che lo
sbarramento costruito
per deviare il fiume venga demolito entro oggi, e portate tutte le
attrezzature
e le provviste del campo in città. Bruceremo i cadaveri
appena questa maledetta
pioggia smetterà di cadere».
I soldati si
allontanarono, lasciando lui e Calida soli.
«Ora ne
mancano “solo” quattro. Quelle quattro
città laggiù» disse
la Lusan, con un vago cenno del capo in direzione delle suddette
«Credo che
dovremo muoverci in fretta, lasciare nelle nostre città il
numero di soldati
indispensabile per difenderle, e attaccare in forze i nostri avversari
il prima
possibile. Se prima non erano troppo convinti dell’efficacia
della nostra
alleanza, quando sapranno cos’abbiamo appena fatto lo
diventeranno sicuramente».
«Dovremo
per forza lasciar passare del tempo, non possiamo partire
all’attacco con dei soldati stanchi»
obiettò Dolmer.
«Non a
caso ho parlato di prenderne altri dalle nostre città. Io
voglio lasciar passare al massimo una settimana, non di più,
prima di muoverci».
«Cosa
temi, Calida? Che quelle quattro città si sveglino e si
alleino contro di noi?»
Calida fece
spallucce. «Fino a qualche tempo fa anch’io avrei
detto
una cosa del genere con lo stesso tono. Poi però mi sono
alleata con te e ti ho
sposato».
“Eppure
potrebbe non bastare…” pensò.
Le parole di Dolmer
riguardo il futuro le ronzavano ancora in
testa.
Pensando alle calde
acque del lago di Vynumeer, al potere che si
nascondeva sotto di esse, al prezzo che avrebbe dovuto pagare e ai
miglioramenti della propria salute mentale, sperò di non
dover mai, mai ricorrere a quei
mezzi che aveva
fatto di tutto per evitare.
Ciao a tutti! Problemi di vario genere mi hanno tenuta lontana da
questa storia, alla cui fine mancano appena cinque o sei capitolo.
Ho aggiornato dopo un ritardo a dir poco epico, ma ce l'ho
fatta.
I miei ringraziamenti più sentiti e sinceri vanno a coloro
che si sono interessati al destino di questa storia durante la mia
assenza: a chi mi ha chiesto notizie, a chi ha recensito nonostante
sembrassi scomparsa dalle scene. Grazie.
Non ho nient'altro da dire, se non... a presto (;
|
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Capitolo 25 *** 25 ***
rmicap25
25
L’aria che
si respirava era tesa.
L’ultima e
unica volta in cui i quattro Lusan presenti
nella stanza circolare dalle pareti di nuda pietra erano riusciti a
stare nello
stesso posto e guardarsi negli occhi senza cercare di massacrarsi a
vicenda era
stata quella in cui il Trattato tra Città, quello che aveva
sancito una tregua
ormai morta e sepolta, era stato firmato.
I capi delle quattro
città rimaste avevano ritenuto
opportuno -con sommo rammarico- un incontro per decidere cosa fare
contro
Calida, Dolmer e relativi soldati. Se fosse stata una singola
città a tentare
l’assalto non si sarebbero riuniti, sicuramente non avrebbero
neppure pensato
di farlo, ma l’alleanza tra Ulthmeer e Kahzameer aveva scosso
profondamente
tutti quanti nella valle.
Gli abitanti delle
due città coinvolte magari erano troppo
impegnati a battagliare e gioire dei successi per rendersi veramente conto della portata di un simile
evento, ma tutti gli altri erano rimasti attoniti, confusi,
completamente
impreparati.
C’era chi
inizialmente si era perfino rifiutato di
crederci, c’era chi invece non s’era mosso pensando
che una simile assurda unione
sarebbe durata meno di un
fuoco di paglia; poi però Moriameer era caduta, Sarumeer
-difficile da prendere
al punto che loro credevano che sarebbe riuscita a far desistere gli
alleati-
anche, e se n’erano fatti una ragione: se qualcuno non avesse
fermato Calida e
Dolmer, sarebbero stati i prossimi.
«Dobbiamo
massacrarli prima che ci massacrino loro»
sentenziò uno dei capi, il più giovane tra loro,
nero dalla testa ai piedi «Gli
eserciti di due città, pur con l’aggiunta di
prigionieri da mandare al macello
in prima linea, non possono competere con un’armata
doppiamente numerosa».
«Davachanut’yun yem,
Artas» borbottò l’unica donna
presente, mandando a quel paese il collega.
«Danae
Luthmeer a-ghekavary,
quest’idea non piace affatto nemmeno a me, però
non vedo grandi alternative. A
dirla tutta siamo stati stupidi a sperare che le cose si risolvessero
da sole
in nostro favore. Avremmo dovuto agire già dalla caduta di
Moriameer, se non da
prima ancora…»
«Thandrumeer
è stata distrutta principalmente dalla frana
della montagna. È stata Calida a provocarla, ma questo
è un dettaglio. Abbiamo
capito che era meglio lasciare in pace la città di Utlhmeer,
ma ai tempi non
c’erano le condizioni perché una devastazione del
genere fosse ripetibile»
disse il più vecchio tra i Lusan presenti «Ad ogni
modo, l’alleanza tra
Kahzameer e Ulthmeer è un abominio. Un qualcosa di
innaturale, destinato a
finire male. Voi tre, nessuno escluso, ai tempi avete fatto a Calida
una
proposta di matrimonio: devo ancora capire perché».
«Ma allora
sei coglione, Larraz!» sbottò
il solo Lusan che fino a quel momento non
aveva aperto bocca «Il
“perché” che tu devi ancora capire
è la precisa ragione
perché ci siamo riuniti oggi! Credi che a me vada a genio
l’idea di allearmi
con persone che per anni ho considerato mie nemiche?! No! Ovvio che no!
Preferirei staccarmi le dita a morsi! Ma per il bene della mia
città mi sono
messo una mano sulla coscienza, sono venuto qui e sono costretto ad
appoggiare
Artas. Dovremmo estirpare la piaga ora, prima che peggiori!»
«il fatto
che la tua città sia quella più vicina a
Sarumeer, e dunque la prima che verrebbe attaccata, non
c’entra nulla… vero,
Galel?» insinuò Danae, con un sorriso maligno sul
volto rossiccio.
«Hai poco
da ridere, dal momento che dopo la mia verrebbe
la tua» ribatté il Lusan «E dopo la tua,
quella di Larraz».
«Le
città sono sempre state nemiche tra loro, è
così che
dev’essere ed è così che le cose devono
rimanere» insistette quest’ultimo,
incrociando davanti al petto le braccia candide «Se la
pensate diversamente, è
segno che voi “giovani” state perdendo il senno.
L’unione di persone di città
diverse porta disgrazia».
«Avresti
dovuto spiegarlo a quella tua nipote che, se non
erro, poco più di vent’anni fa rimase incinta di
un Luthmeeriano che avevate
catturato e fuggì con lui» disse Danae,
aggiungendo una risata da iena «Quella
storia mi fa ancora ridere il giusto, caro Beremeer
a-ghekavary».
Fu con una
velocità insospettabile che il vecchio Lusan
dagli occhi azzurro scuro tirò fuori una cerbottana da sotto
il mantello,
soffiando contro Danae un dardo avvelenato che questa riuscì
a evitare per pura
fortuna.
«TI IMPICCO CON LE
TUE STESSE BUDELLA, VECCHIO SCHIZZATO!»
sbraitò la Lusan, sguainando la
spada «Ti faccio ingoiare quella fottuta collana di perline
di vetro, ti taglio
le mani e te le infilo entrambe nel culo insieme alla cerbottana, hai
capito?!»
«E dovrei
allearmi con questi due?» sospirò Galel,
sistemando pigramente le pieghe della casacca bianca come il suo pelo.
«Io sono
ancora stupito del fatto che tu sia d’accordo con
me riguardo il fatto di unirci tutti contro Dolmer e Calida»
ammise Artas.
«Sono una
persona più pratica di quel che credi. Per quel
che mi riguarda dobbiamo attaccarli il prima possibile, senza perdere
tempo a
cercare di prenderli per fame come hanno fatto loro con quelli di
Sarumeer.
Anzi, non m’interessa neppure tenere in piedi quella
città» aggiunse il Lusan
«Anche se è un buon avamposto. Che i nostri
cannoni tutti uniti la buttino giù,
se serve a far fuori quei due prima che arrivino qui a divorarci gli
occhi. A
quel punto, di avamposti non ne serviranno più».
«Crepa, crepa, CREPA!»
sbraitò Danae, cercando di
infilzare Larraz -il quale si difendeva con un semplice bastone
metallico
appuntito- senza particolare successo.
«Danae, se
non la fai finita ti avviso che io e il qui
presente Galel potremmo decidere di attaccare insieme la tua
città prima di
dare addosso ai nostri nemici comuni!» la avvisò
Artas.
«È
stato questo vecchio stronzo decrepito a cominciare, non
io!» sbottò la Lusan, spostando dal volto alcune
ciocche dei capelli d’un
biondo ingrigito dal tempo «Sentitemi bene: posso anche
decidere di allearmi
con voi a due condizioni. La prima è che mi lasciate dare il
colpo di grazia a
Calida. Almeno impara a rifiutarmi…»
«Alleanze
tra città, proposte di celebrare un matrimonio
che non porterebbe figli, ma dove siamo finiti?»
borbottò Larraz.
«La
seconda è che una volta finito con Calida e Dolmer mi
lasciate attaccare in pace la città di questa cariatide che
è Larraz, senza che
voi tentiate di prendere la mia!» proseguì Danae,
ignorandolo.
«Per la
prima condizione non ci sono problemi, se ci riesci
puoi tranquillamente ucciderla tu. Per la seconda, una volta che ci
saremo
occupati dei nostri nemici tutto tornerà
com’è sempre stato, quindi
personalmente non prometto alcunché» disse Galel
«Devi accontentarti».
«Non
è neppure detto che tu, a quel punto, sarai ancora
abbastanza viva da poter cercare di prendere la mia
città» fece notare Larraz a
Danae «Sono abbastanza convinto che sarai la prima di noi a
morire. Attacchi
troppo impulsivamente».
«Parla
quello che ha cercato di avvelenarmi con una
cerbottana!» sbottò la Lusan.
«Senza che
tu, nel vendicarti, riuscissi a sfiorare questo
povero anziano che sono. Fa riflettere».
«Larraz,
anche la tua città verrà attaccata. Non puoi
riuscire a mettere da parte le tue convinzioni almeno per il bene della
tua
gente come faccio io, come ha fatto Galel?» insistette Artas
«Rifiutarti di
partecipare perché convinto a prescindere che
“tanto non poterà a nulla di
buono” non ha senso. Dobbiamo almeno tentare».
«Immagino
di essere costretto ad accettare, in caso
contrario mettereste in pratica sulla mia città quel che
avete minacciato di
fare a quella di Danae» disse il vecchio, con una buona dose
di disprezzo nella
voce «Ma quando tutto andrà a finire nel dolore,
nel fuoco e nel sangue, perché
la nostra unione non poterà a nulla di buono, ricordate che
io vi avevo
avvisati».
«Che
Q’thulu maledica te e la tua lingua velenosa»
ringhiò
Danae «La situazione è già sgradevole
senza che ti metta a portare iella, non
ti pare?!... Galel, Artas, a quando l’attacco? Prima
sbrighiamo questa
faccenda, meno durerà la nostra alleanza».
«Io so di
poter essere pronto ad attaccare Saurmeer già
stasera al crepuscolo» affermò Galel «Se
voi riusciste a prepararvi per
quell’ora potremmo sbrigare la questione in fretta. In fin
dei conti non c’è
molto da pianificare, non trovate? Dobbiamo solo sfruttare la nostra
potenza di
fuoco congiunta per buttare già quella città e
chiunque si trovi all’interno».
«Io e
l’intera Gandameer, o quasi, ci saremo»
annuì Artas.
«Io
anche» disse Danae, rinfoderando la spada.
Larraz
alzò gli occhi al soffitto. «Finirà
male. Lo sento».
***
«Basta.
Andrò a prendere i soldati “freschi”
della mia
città e della tua, che a te la cosa piaccia oppure no. Siamo
due capi con pari
disponibilità di forze e dobbiamo cercare di andare
d’accordo, ma io mi sono
stancata di quest’attesa inutile che dura da troppo
tempo».
«Calida,
sono solo sei giorni in p-»
«E noi
avremmo dovuto attaccare la città più vicina
già sei
giorni fa. Era mia intenzione partire dopo una settimana, tu invece hai
voluto
per forza procrastinare».
Calida e Dolmer,
come da piani, avevano occupato la città
di Sarumeer.
Al momento si
trovavano in quella che era stata la casa
della loro defunta collega, strappata alla vita dalla pestilenza che
loro
avevano contribuito a creare, e quella che stavano facendo, illuminati
dalla
luce rossastra di un tramonto iniziato da un po’, non era la
“chiacchierata”
più tranquilla che avessero avuto da quando si erano sposati
-tanto per usare
un eufemismo.
«Ho
ritenuto che servisse del tempo in più,
sì» ribatté
Dolmer «In poco tempo abbiamo devastato una città,
ne abbiamo assediata
un’altra respingendo le sortite dei suoi abitanti per poi
assaltarla, e alcuni
dei nostri uomini avevano contratto il morbo, quindi era
necessario».
«Primo: a
un certo punto gli abitanti di Sarumeer avevano
smesso di fare sortite, dunque tempo per riposare
c’è stato. Secondo: una
settimana sarebbe bastata, specialmente perché ci sono anche
altri soldati che
avremmo potuto impiegare. Terzo: avevamo messo in conto che alcuni dei
soldati
più vecchi o meno in salute sarebbero stati a rischio, non
c’è nulla di
sorprendente. Abbiamo soltanto perso tempo».
Il Lusan scosse la
testa. «Non la penso nello stesso modo e
non rimpiango di aver aspettato un pochino di più. Se non ci
hanno attaccati
durante l’assedio-»
«Se non
l’hanno fatto è stato perché
evidentemente non
riuscivano ancora a capacitarsi del tutto, e magari perché
speravano che
sarebbe andato tutto a rotoli» replicò Calida
«Tuttavia non è andata così!
Abbiamo preso Sarumeer, siamo praticamente alle porte delle loro
città, se non
tentassero qualcosa sarebbero completamente idioti».
“Tu
sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi,
Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
In quelle due
settimane le erano spesso tornate in mente le
parole di Rubedo, quel monito, quella sottospecie di profezia.
“Tornerai a
cercarmi”.
Tempo prima Dolmer
le aveva fatto quel discorso riguardo il
“dopo”, ma aveva creduto di essere riuscita a
schiacciare la pulce che le aveva
messo nell’orecchio. Si era sbagliata, e quelle due settimane
di relativa
inattività le avevano riportato alla mente Rubedo, Rubedo e
le sue parole,
Rubedo e il suo potere.
Rubedo e il suo
patetismo completo.
Rubedo e
l’idea dell’affrontare una possessione da parte
sua.
“Anche se
ora mi sento decisamente meglio, resta una
pessima idea. Pessima!” si ripeté la donna.
«Devo
ringraziare Q’thulu che tu non abbia tentato di
convincermi minacciando di strapparmi gli occhi, immagino»
disse Dolmer.
«Non
ringraziare il tuo dio, ringrazia il mio buonsenso e
il mio buongusto nell’evitare di fare minacce che non potrei
mettere in
pratica, o meglio, che non potrei mettere in pratica senza
conseguenze» si
corresse Calida, impassibile «Le alleanze hanno i loro pro e
i loro contro».
«Se non ho
accettato di partire non è stato per
ostruzionismo fine a se stesso. Finora siamo riusciti ad andare
piuttosto
d’accordo, non potremmo continuare?»
«Continueremo
ad andare d’accordo se partiremo quando sarò
tornata con altri soldati. Tu finora hai accettato di seguire molti dei
miei
piani d’azione» riconobbe la Lusan
«Motivo per cui tutto sommato ti sono venuta
incontro, ma siamo in ritardo di quasi una settimana sulla mia tabella
di
marcia. È tempo di andare».
Dolmer
restò in silenzio per qualche attimo, per poi fare
un cenno di assenso. «Dovremmo attaccare questa sera
stessa?»
«È
quel che ho detto poco fa. Considerando che tutto è
pronto da sei giorni, non resta altro da fare se non dare
l’ordine. Io vado»
concluse Calida, muovendosi a grandi passi in direzione
dell’ingresso.
«Calida».
Sentendosi chiamare
dal marito, lei si voltò.
«Sì?»
«So che
quel che sto per dire non c’entra nulla con il
contesto, ma pensando a quel “tutto sommato ti sono venuta
incontro” mi sono
reso conto di non averti mai detto che questo matrimonio alla fin fine
è meno
peggio di quanto avessi pensato. Ammetto che mi ero immaginato un altro
tipo di
trattamento».
Calida
sollevò un sopracciglio. «Cercavo un alleato, non
un
ulteriore problema. Tornerò presto. Fatti trovare
pronto».
Dette quelle ultime
frasi lapidarie prese congedo e, senza
neppure curarsi di farsi affiancare da qualche soldato, uscì
da Sarumeer per
dirigersi a Ulthmeer.
Avrebbe potuto
mandare qualcuno a portare il messaggio
invece di muoversi personalmente, ma aveva preferito così,
forse perché anche
in un frangente del genere aveva sentito la necessità di
trascorrere del tempo
da sola, tempo che andare da Sarumeer a Ulthmeer le avrebbe concesso.
Gli impegni attuali
gliene lasciavano poco, e gliene
lasciavano ancor meno per andare a fare visita alla sola persona che
avrebbe
voluto vedere davvero.
Dall’assedio
di Sarumeer in poi era riuscita a vedere Anise
solo in un’occasione. Era già tanto
così, Calida ne era consapevole -e se non
altro grazie a quella visita aveva saputo che Anise, in quei giorni,
non
sarebbe stata sul pianeta- però era un
po’dispiaciuta di non poterla vedere un
po’di più adesso che la propria salute mentale era
migliorata.
A tal proposito, se
da un lato la fredda logica le imponeva
di non credere alla stabilità
di
miglioramenti miracolosi, dall’altro lato non riusciva a
soffocare la flebile
-e comprensibile- speranza che quella condizione durasse davvero. Era
da tempo
ormai che non si trovava più a supplicare che
quell’incubo avesse termine o a
prendere in mano un pugnale col pensiero di porvi fine personalmente.
Mentre passava
vicino a una piccola collina le parve di
iniziare sentire del rumore di troppo, quello di un folto gruppo di
persone
ammassate, provenire da una certa distanza.
Non proveniva da
Ulthmeer, non proveniva da Kahzameer; per
un istante pensò che provenisse da Sarumeer ma concluse
presto che no, era
troppo lontano.
Corse in cima alla
collinetta -da un punto leggermente più
alto avrebbe visto meglio cosa stava accadendo- e, quando
puntò lo sguardo in
direzione delle quattro città che restavano da affrontare,
si sentì gelare.
Al di fuori delle
mura nemiche si stava radunando un’armata
che, per gli standard della valle, era la più grande che si
fosse mai vista. Un
esercito che non poteva appartenere a una singola città,
nemmeno a due: o erano
tre armate molto numerose, o tutte e quattro le città,
nessuna esclusa, si
erano unite. Era facile immaginare chi fosse il loro bersaglio.
«Sarumeer»
sibilò.
Strinse i pugni, poi
lasciò ricadere mollemente le braccia
lungo i fianchi, osservando la scena con aria cupa.
Lei e Dolmer
avrebbero potuto gestire l’attacco di due
città, forse con la giusta strategia e l’utilizzo
di soldati più freschi -
nonché di prigionieri di Moriameer costretti a combattere
per loro- avrebbero
potuto gestirne persino tre, ma affrontare con successo un esercito
simile era
impensabile.
Era una cosa che
sapeva perfettamente, proprio come sapeva
che lasciare Dolmer al proprio destino non avrebbe migliorato la
propria
situazione: una volta occupatisi di Sarumeer, gli eserciti nemici
avrebbero
attaccato anche la sua città e una Kahzameer i cui abitanti,
privi del proprio
capo, sarebbero diventati delle mine vaganti dal comportamento
imprevedibile.
Anche cercare di
aiutare Dolmer, tuttavia, non avrebbe
portato a nulla. Avrebbe potuto irrompere nel campo di battaglia con i
soldati
che in teoria stava andando a
prendere ma, considerando il terreno, la potenza messa in campo e il
numero,
non avrebbe ottenuto altro che una disfatta.
Proprio quando aveva
iniziato a credere che una volta scesa
a compromessi la realizzazione del suo sogno fosse possibile, proprio
quando
aveva iniziato davvero a immaginare di poter avere la valle nelle
proprie mani,
le sue peggiori previsioni si erano avverate.
“Se ci
fossimo mossi prima, le città da affrontare
sarebbero state al massimo tre” pensò “E
avremmo avuto anche dei nuovi
prigionieri da poter utilizzare in battaglia. Se
ci fossimo mossi prima…”
Era stato tutto
inutile: il matrimonio, le conquiste fatte,
tutto stava per andare in fumo indipendentemente dalla sua prossima
mossa.
Contemplò
l’idea di una fuga, provando ribrezzo per se
stessa meno di un secondo dopo: non avrebbe ottenuto nulla se non una
vita nel
disonore più completo, per non parlare del fatto che
avrebbero potuto farsi
venire la brillante idea di cercarla nella foresta.
La stessa dove
viveva Anise,
che fino a quel momento era stata risparmiata grazie alla tregua, al
fatto che
la sua abitazione fosse tutto sommato ben nascosta e, forse, anche a un
pizzico
di fortuna. Vero, Anise era ancora fidanzata con Lord Beerus, ma tra
loro due
non andava più molto bene, non vivevano insieme, dunque non
c’era nulla che le
garantisse che lui, in caso di attacco, sarebbe stato lì per
evitarle il
peggio.
Fissando
l’armata in lontananza, Calida emise un ringhio di
frustrazione e disperazione.
Non c’era
niente che potesse fare.
“Tu
sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi,
Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
Sgranò
gli occhi verdastri, mentre il cuore iniziava a
battere con tanta violenza da risultare quasi fastidioso. Le era quasi
sembrato
di sentire veramente la voce di Kamandi/Rubedo nella testa, e
ciò le aveva
ricordato che definendosi del tutto impotente davanti al disastro
mentiva,
qualcosa che poteva fare c’era: correre nella foresta, andare
a Vynumeer con il
carrello, immergersi nel lago e andare a prendere quella maledetta
corona.
«No. Non
posso. Non voglio» scosse la testa «Non voglio
condividere il mio cervello con qualcun altro, non adesso che sto
meglio, non
posso farlo, non voglio farlo! Mi sono sposata proprio per evitare
questo, e
adesso dovrei?!...»
“Tornerai
a cercarmi”.
La profezia di
quell’essere inutile e patetico, del cui
potere però aveva bisogno, alla fine si era rivelata
corretta.
Oltre alla corona
non vedeva alternative, solo buio
completo.
«Non
voglio» sussurrò.
Pensò a
Ulthmeer, la sua città, che aveva curato per anni e
che sarebbe stata devastata; pensò a tutta la fatica fatta
fino a quel momento,
che non era stata poca e le aveva portato via del tempo che avrebbe
potuto
passare con Anise; pensò ad Anise stessa, alla quale poco
importava di Ulthmeer
e della valle, ma alla quale sicuramente importava di lei.
Calida rivolse lo
sguardo verso la foresta.
Rubedo era un essere
che era stato incorporeo per migliaia
di anni, giusto? La sua salute mentale era migliorata, giusto?
Non era detto che riuscisse a sopraffarla, non adesso.
Forse poteva
farcela. Forse poteva accogliere nella propria
testa un ospite indesiderato e riuscire a sfruttarlo senza pagare un
prezzo
troppo alto.
Del resto
cos’altro avrebbe potuto fare? Se c’erano altre
opzioni, non riusciva a trovarle.
Col cuore pesante,
una morsa allo stomaco, paura e un
barlume di speranza messi insieme, Calida iniziò una corsa
sfrenata in
direzione della foresta.
***
L’istante
in cui Dolmer aveva posato gli occhi sullo
spiegamento di forze dei loro nemici, quello in cui aveva visto il gran
numero
di cannoni edi catapulte, aveva sentito su di sé tutto il
peso di quello che
sarebbe stato un massacro annunciato, del quale stavolta sarebbero
stati lui e
Calida a fare le spese. O meglio, lui e i
soldati, perché Calida aveva deciso di andare a
Ulthmeer per procurarsi i
soldati, ciò poco prima di un attacco in forze di quattro
città messe insieme.
Che caso fortuito!
Che buona occasione per darsi alla
macchia e lasciar massacrare tutti quanti loro!
“Hai
veramente deciso di lasciarci al nostro destino? Pur
sapendo benissimo che se qui e ora noi cadiamo tu sarai la
prossima?!” pensò il
Lusan, stringendo con forza l’elsa della spada.
Che Calida avesse
sentito qualcosa, quel giorno?
Che fossero arrivate
al suo orecchio voci che l’avevano
avvertita di un’alleanza e avesse deciso di togliersi di
torno per quella
ragione?
Il dubbio era
legittimo, anche se lui per primo non avrebbe
mai detto che Calida fosse tipo da darsi alla fuga quando
c’era da andare in
battaglia, ma doveva ammettere a se stesso che quella non sarebbe stata
una
“battaglia”, quanto piuttosto una condanna a morte
dovuta al suo essersi
impuntato su ragioni che no, magari non erano sbagliate, ma si erano
rivelate
fonte di una perdita di tempo che stava per portarli alla rovina.
Era qualcosa di cui
Dolmer era fin troppo cosciente,
qualcosa di cui sentiva di essere colpevole. Era stato lui a insistere
per far
riposare i propri uomini nonostante Calida premesse per partire.
Non
l’aveva forse avvertito, sua moglie, riguardo il fatto
che le altre città avrebbero potuto decidere di imitarli,
vedendo i loro
successi?
I suoi uomini non
meritavano l’abbandono da parte di
Calida.
Lui, invece, era
convinto di meritarlo totalmente.
***
La corsa, il fatto
di conoscere la foresta come il palmo
della propria mano e la presenza del carrello le avevano permesso di
raggiungere Vynumeer in un lasso di tempo abbastanza decente che in
teoria
avrebbe dovuto consentirle di tornare nella valle senza trovare
Sarumeer
completamente devastata… o così auspicava.
Il cielo stava
diventando sempre meno rosso e sempre più
violaceo, avvicinandosi man mano al crepuscolo vero e proprio. Nello
sporgersi
a osservare le acque del lago, in piedi sulla parte di riva che prima
dell’hakai di Lord Beerus
era stata coperta
da un costone roccioso, Calida notò nei propri occhi un
accenno di paura che
era solo un briciolo di quella che provava in realtà.
“Non
voglio!”
«Ma
devo» borbottò.
Prese un bel respiro
e, senza esitare oltre, si tuffò nel
lago.
Sapeva dove avrebbe
potuto trovare l’imboccatura del
cunicolo e sapeva con precisione quanto questo era lungo: tempo
addietro, Anise
le aveva gentilmente disegnato una mappa piuttosto accurata.
Raggiunse il fondale
e, ignorando tanto le alghe quanto il
cumulo di resti di Lusan, riuscì a trovare rapidamente
l’imboccatura del
cunicolo.
La corsa fatta stava
rendendo l’immersione ancor più
difficoltosa di quanto fosse di suo, ma ormai era lì, e
nella situazione in cui
si trovavano lei, Dolmer e le città, morire nel tentativo di
recuperare quella
corona era meglio di arrendersi a prescindere.
Ricordò
che Anise le aveva detto che il suo era stato solo
un sogno, che non aveva incontrato veramente Rubedo. Calida non ci
aveva
creduto ai tempi, tantomeno voleva farlo adesso. Accantonò
brutalmente quel
pensiero.
Iniziò a
risalire il cunicolo. Le rocce sporgenti e la
mancanza d’aria, che nonostante l’allenamento
iniziava a farsi sentire, la
portarono in più occasioni a maledire qualunque dio,
conosciuto di persona e
non.
Nello scattare in
avanti si ferì a una spalla e, pur non
provando dolore, maledisse anche Rubedo e chi l’aveva
imprigionato in un posto
tanto difficile da raggiungere.
Andò
ancora avanti. I suoi movimenti si stavano facendo
sempre più lenti, l’ossigeno nei polmoni stava
finendo e tenerlo al loro interno
stava diventando difficile. Si impose di darsi una mossa,
perché non poteva
mancare tanto, non poteva cedere, non adesso che…
“Che”
stava vedendo quella che doveva essere la luce
generata dai licheni della caverna che stava cercando di raggiungere.
Iniziò a
nuotare quasi con rabbia mentre sentiva i polmoni
contrarsi, costringendola a espellere qualche bolla d’aria
preziosa, ma non le
importava: l’unica cosa che vedeva era la luce, sempre
più vicina, anche se la
visuale stava iniziando a essere inframezzata da attimi di buio
completo; nella
sua testa, un unico pensiero: “ci sono quasi, ci sono, ci sono!”
Finalmente riemerse.
Si aggrappò alla roccia con le unghie,
strisciando su di essa come un lombrico, mentre sputacchiava acqua e
riempiva
d’aria i polmoni. Ce l’aveva fatta. Aveva raggiunto
la caverna.
Si concesse un
minuto intero per riprendersi un po’, poi si
fece forza e si costrinse ad alzarsi in piedi. Il suo cervello aveva
perfettamente chiare le prossime mosse, riusciva a immaginarle in modo
talmente
vivido da avere il dubbio di averle già fatte.
“Vieni,
Calida.
Vieni da me”.
Quel sussurro, di
una voce familiare… probabilmente lo
aveva sentito davvero.
Si
avvicinò a quella che Anise aveva descritto -e
disegnato- come “una roccia somigliante a una statua di Lusan
rozzamente
intagliata”.
Non era
“somigliante”, era
una statua rozzamente intagliata che, per Calida, mostrava chiaramente
un Lusan
con un solo braccio.
“Raggiungimi,
Calida”.
La gigantesca Lusan
poggiò le mani contro la statua e, chiamate
a raccolta tutte le proprie forze, spinse. Riuscì a
spostarla, non senza
fatica, e trovò l’ingresso di un altro cunicolo.
Senza perdere tempo
corse all’interno, e dopo pochi metri
raggiunse la fine.
Vide lo scrigno,
proprio come quello della leggenda, vide
il lucchetto arrugginito e, preda di una frenesia incontrollabile,
riuscì a
strapparlo via a mani nude.
Aprì lo
scrigno.
“Mi
hai
trovato!” bisbigliò Rubedo,
ebbro di gioia.
Calida
osservò la corona. Era davvero lì, davanti a lei,
nera e appuntita, con pochi intarsi decorativi di colore azzurro scuro.
La
sfiorò con venerazione, pur sapendo che chi
l’aveva indossata non era stato da
venerare.
Il potere, la
leggenda, i suoi sogni: erano tutti lì,
radunati in quel monile.
“NON VOGLIO!” si
fece sentire nuovamente il suo cervello.
«Non
voglio. Ma devo» ripeté ancora Calida.
“Oh
sì che
devi. Faremo grandi cose, noi due. Indossa la corona. Accoglimi.
Riportami alla
vita. Dammi un corpo e io ti darò il potere” mormorò Rubedo “Hai ritardato anche troppo, non
credi?”
Calida
indossò la corona, notando che era della misura
perfetta per il proprio capo. Non sapendo bene cosa fare, chiuse gli
occhi.
Non successe nulla.
“Non fare
scherzi. Io ti ho liberato, io ti accolgo a
malincuore nella mia mente e nel mio corpo… non fare
scherzi, vecchio bastardo
schifoso e storpio!” pensò.
Fu allora che la
terra cominciò a tremare.
Quel che Calida
riuscì a sentire fu, inizialmente, un
sussulto appena percepibile. Come se aver indossato la corona avesse
risvegliato una creatura che dormiva da tanto tempo, i cui battiti
cardiaci,
con la veglia, iniziavano ad accelerare.
Ben presto
però il tremolio divenne forte, sempre più
forte. Polvere e sassi iniziarono a cadere dalle pareti e dalla volta
di quel
cunicolo, mentre lo scrigno da cui aveva tirato fuori la corona, per
colpa
delle scosse, si chiuse di scatto come la tagliola di un cacciatore.
Gocce
d’acqua provenienti dalla spaccatura che si stava
rapidamente formando nella pietra sopra la testa di Calida provarono a
bagnare
la Lusan, circondata da un’aura nerastra dal particellare di
un luminosissimo
colore dorato.
Quelle gocce non
arrivarono neppure a sfiorarla, evaporando
miseramente a metà strada; come da quel momento in avanti
era destinato a
evaporare chiunque altro, e qualunque cosa, che provasse ad avvicinarsi
senza
il suo consenso.
Calida lo sentiva,
il freddo metallo della corona attorno
al suo capo, il potere puro che le pulsava nelle vene. Era grande, era
immenso,
smisurato al punto che in un certo momento, se lei avesse sofferto il
dolore,
le avrebbe procurato un male indicibile: lo sentiva spingere,
come se il suo corpo non fosse stato sufficiente per
contenerlo, come se volesse schizzare fuori dalla sua pelle, come
l’acqua che
stava cercando di penetrare con violenza in quel tunnel divenuto un
reticolo di
crepe in ogni sua parte.
Urlò. Un
suono selvaggio, delirante, che segnò la
distruzione definitiva delle pareti e della volta di pietra. Le acque
ancora
calde del lago di Vynumeer si riversarono con forza devastante
all’interno del
cunicolo, ondate feroci che cercarono di attaccare Calida dai lati, una
cascata
proveniente dall’alto che cercò di schiacciarla,
mentre la sua pelle veniva
gonfiata da protuberanze sottocutanee in continuo movimento, come
l’interno del
suo corpo fosse stato invaso da enormi scarafaggi.
La Lusan strinse i
denti, strinse tanto i pugni da far
sanguinare il palmo delle mani, mentre dalla profondità
della sua gola risaliva
un ringhio.
Quello era il potere
cui aveva sempre anelato.
Quello era il
momento in cui doveva dimostrare di essere in
grado di sostenerlo.
Il ringhio si
trasformò in un ruggito, e l’acqua che aveva
cercato di investirla si trasformò in vapore.
Calida
sollevò il capo, senza interrompere quel ruggito
disumano che avrebbe distrutto le corde vocali di una creatura normale.
Strinse
i pugni ancor di più mentre il suo corpo cominciava a
gonfiarsi, a ingrossarsi,
diventando più mastodontico di quanto fosse mai stato. Le
parve di sentire
buona parte dei suoi vestiti strapparsi e, osservando le proprie mani
con gli
occhi ormai color cremisi, vide che sul suo manto decisamente scurito
erano
comparse striature e ghirigori dorati, brillanti, tanto da rendere il
vapore di
una luminosità accecante.
“Accettalo,
Calida. Distruggi, Calida. Distruggi. Distruggi!” urlò Rubedo
nella sua mente.
Calida, con la mente
obnubilata dal nuovo potere e
dall’impulso distruttivo che stava provando, serrò
la mascella.
“No”
pensò “Non
‘distruggi’…”
«Brucia»
sentenziò, con voce cavernosa e ancor più
mascolina di quanto già fosse.
“Brucia
tutto,
Calida! BRUCIA TUTTO!”
Il vapore era
diventato talmente tanto da non riuscire a
distinguere più nulla. La Lusan sollevò un
braccio e, un istante dopo, una
potente ondata di energia investì quel poco che restava
della volta del
cunicolo, distruggendola assieme all’acqua, assieme a ogni
briciola d’ossigeno
dell’aria che svelta era andata a occupare il vuoto lasciato
da essa, mentre la
terra continuava a tremare, continuava a rompersi, col fragore che
sembrava il
grido ultimo di un mostro in agonia.
Rendendosene conto a
stento, Calida uscì volando dalla
voragine che aveva creato, veloce come il proiettile di un hrat’san, di un fucile: il
vapore, la sua mole, l’aura nera e oro
che la circondava, tutto la identificava come un demonio vomitato fuori
da
chissà quale inferno -e tale descrizione non era lontana
dalla realtà dei
fatti.
La Lusan rimase
immobile a mezz’aria, osservando i resti di
quello che era stato il “villaggio maledetto”:
tutti gli edifici presenti,
nessuno escluso, erano crollati su loro stessi a causa del terremoto da
lei
provocato, il lago era ormai prosciugato, e le ossa dei Lusan erano
state
bruciate dal suo raggio energetico assieme alla terra.
“BRUCIA TUTTO!”
urlò nuovamente il suo cervello, con una voce che era un
miscuglio della sua e
quella di Rubedo “Tutto! TUTTO!”
«Non
tutto. Quasi» disse Calida, lentamente
«Quasi».
Era difficile
resistere al richiamo all’annientamento
totale, quello di un odio puro che non sentiva suo e che le scorreva
nelle vene
ed era infuocato come magma, però doveva cercare di
ritrovare il controllo,
sebbene le grida di quella voce-miscuglio fossero diventate continue.
“Ora
siamo una
cosa sola. Ora tu e io siamo uno. Bruciali, Calida. Bruciali!”
Fece un respiro
profondo, chiuse gli occhi, li riaprì.
Aveva il potere. Il
potere di Rubedo era suo, proprio come
nei suoi sfrenati sogni di bambina, di ragazzina e poi di adulta
-almeno fino a
quando lo aveva incontrato davvero.
Allargò
le braccia, abbassò lo sguardo. Sì, i vestiti si
erano decisamente rotti, ma non importava: che tutti potessero vedere
quel
corpo! Era o non era Potere incarnato?!
Sempre restando a
mezz’aria fece un breve giro su se
stessa. Nonostante il trauma iniziale si stava trovando a proprio agio,
come se
fosse nata per essere così, come se avesse trovato una parte
mancante di sé e
l’avesse spinta con forza nel posto che le competeva. Parte
del merito era
della voce-miscuglio che urlava ancora ma che, al contempo, stava
facendo
venire a galla tutte le informazioni che servivano
sull’utilizzo di quella
grande, immensa potenza.
Atagash,
l’alieno che Rubedo aveva fuso con se stesso,
potenziava in base al livello di malvagità chi ne veniva
posseduto.
Rubedo era stato un
mago malvagio, ed era diventato potente…
ma lei era Calida Delle Croci Infuocate.
Socchiuse gli occhi,
concentrò l’udito e sentì
distintamente il rumore della battaglia che si stava svolgendo a
Sarumeer.
Nel silenzio di
tomba che regnava a Vynumeer -quel che ne
rimaneva- Calida esplose in una risata gutturale.
Era tempo di
mostrare ai nemici di Ulthmeer, i suoi nemici,
che Q’thulu non era più il
dio cui dovevano adorazione e suppliche.
***
La doppia cinta
muraria di Sarumeer, bersagliata dai
cannoni delle armate di ben quattro città, aveva ben presto
ceduto, e il
fossato non avrebbe tenuto lontani gli aggressori.
«Hogevor Dolmer,
che facciamo?!» gridò uno dei suoi ufficiali
«Sono troppi!»
“Che
facciamo?”
Buona domanda. Non
c’era molta scelta tra morire, morire o,
magari, morire. I colpi dei cannoni e le palle di pece infuocata, dopo
essersi
occupati delle mura, stavano distruggendo il resto; quello stesso
edificio,
quello in cui si trovava in quel momento, era stato parzialmente
sfondato da
una cannonata che per puro miracolo non lo aveva colpito.
«Dov’è
la Hogevor
Calida?!»
Altra buona domanda.
« Hogevor
Dolmer!...»
«Quanto al
cosa facciamo, c’è solo un’opzione:
vendiamo
cara la pelle e portiamo all’inferno con noi quanti
più possibile di quei
bastardi! Calida dal canto suo dovrebbe essere ancora a Ulthmeer, ma
tornerà»
mentì il Lusan, non volendo che i soldati si
demoralizzassero anche per quello
e combattessero con meno foga «Alle armi!»
urlò, uscendo fuori dall’edificio
«Alle...»
Il secondo urlo gli
morì in gola: nonostante il crepuscolo,
l’altezza cui era stato costruito l’edificio e
l’ubicazione dell’ingresso gli
stavano permettendo di vedere molto chiaramente delle volute di fumo -o
altro?-
sollevarsi dal punto in cui si trovava Vynumeer, il villaggio maledetto.
«Che sta
succedendo, adesso?!» esclamò, sgranando gli occhi
dorati nel notare in aria una creatura luminescente in rapidissimo
avvicinamento.
Sapeva che in teoria
avrebbe dovuto preoccuparsi più della
battaglia in corso, eppure quella cosa
strana sotto i suoi occhi gli stava causando una terribile stretta allo
stomaco, e un’ altrettanto terribile voglia di mettersi a
pregare Q’thulu, più
di quanto stesse già facendo- mentalmente- per la propria
sorte e quella dei
suoi uomini.
Soprattutto quando
iniziò ad avvertire la strada lastricata
di pietre sussultare sotto i propri piedi.
«Hogevor Dolmer,
che succede ora?!» gridò uno dei suoi uomini,
terrorizzato.
La sola memoria che
i Lusan avessero del terremoto era
relegata in libri che pochi di loro si erano degnati di leggere, motivo
per cui
quel fenomeno mandò tutti quanti in confusione, tanto gli
attaccanti, quanto
gli attaccati.
«N-non…»
balbettò il Lusan, avvertendo distintamente l’aria
farsi sempre più elettrica man mano che l’essere
luminescente si avvicinava; un
individuo di cui ora, grazie alla vista estremamente acuta che
caratterizzava
la sua specie, Dolmer riusciva a distinguere vagamente le fattezze,
notando con
suo sommo sconcerto che somigliavano a quelle di un Lusan.
“Tu
e i nostri uomini rientrate negli edifici che sono
ancora in piedi”.
Nel ricevere
quell’ordine mentale conciso e perentorio,
Dolmer sibilò di dolore, spalancando la bocca per la
sorpresa. Aveva
riconosciuto immediatamente la voce di sua moglie.
«C-Cal...»
“Dolmer.
Adesso”.
Per un brevissimo
istante pensò a un’allucinazione di
qualche genere, ma quando sentì il pelo rizzarsi su tutto il
corpo, quando
sottili saette di colore dorato iniziarono a crepitare nel cielo e le
macerie
più leggere iniziarono a volare in aria attratte dalla forza
invisibile e
indicibile che tutti loro stavano avvertendo chiaramente, la sua lingua
si
mosse da sola.
«RIENTRATE!»
urlò, con tutto il fiato che aveva in gola
«Entrate negli edifici che sono
ancora in piedi e riparatevi sotto qualcosa! RIENTRATE
SUBITO!»
I soldati,
percependo quel che lui percepiva, vedendo quel
che lui vedeva, non esitarono a spargere l’ordine e obbedire,
ormai incuranti
di nemici che avevano fermato la loro avanzata e la loro opera
distruttiva,
presi da qualcosa che non
riuscivano
a spiegarsi e di cui provavano un terrore viscerale.
Un
“qualcosa” che ormai era sopra le loro teste,
temporaneamente coperto da una nuvola scura che però venne
prontamente spazzata
via.
«Cosa
cazzo è?!» riuscì a dire Danae, capo di
Luthmeer, con
gli occhi violacei rivolti verso il cielo.
Dolmer, pur avendo
obbedito agli ordini, aveva dato retta
al desiderio di osservare a sua volta quanto stava accadendo e quanto
sarebbe
accaduto.
Stringendo in
maniera quasi convulsa il davanzale in legno
della finestra, non riusciva a smettere di fissare quella che, pur
essendo
quasi irriconoscibile, era sempre sua moglie.
Calida Ulthmeer
a-ghekavary, diventata un essere
mastodontico vomitato dal baratro infernale che avrebbe potuto essere
la bocca
di Q’thulu stesso; i vestiti strappati, i capelli allungati,
gli occhi rossi
come il fuoco, il corpo percorso da linee e segni simili a rune che
sembravano
quasi il ritratto vivente di una maledizione.
«Come?…»
sussurrò, cercando di contenere un’ondata di
panico
puro che minacciava di travolgerlo.
“Te
lo dico dopo”.
Quelle furono le
ultime parole che Calida, in
quell’occasione, rivolse al marito.
Abbassò
lo sguardo sui quattro eserciti nemici.
Com’era
riuscita a trovarli “problematici”? Non lo
ricordava più. Erano moscerini, formiche, insetti non meglio
definiti per i
quali essere uccisi da lei in persona non sarebbe stato altro che un
onore
immeritato.
Perché
aveva parlato con quel Lusan, con quel… come si
chiamava? Dolmer, sì, Dolmer. Perché lo aveva
fatto? Non c’era la necessità.
Non sarebbe stato una delle sue vittime ma non sarebbe stato nulla
più di un adoratore
senza importanza.
«Sottomettetevi
o morite» fu tutto quel che disse loro, in
un impeto di strana magnanimità nel concedere loro una
scelta.
«Muori tu,
orrendo abominio!» urlò Larraz, il vecchio Beremeer a-ghekavary «Perché
state tutti
immobili?! Colpite quel mostro con tutto quello che abbiamo! TEINE! Fuoco!»
Riscossi
dall’immobilità cui la paura li aveva
intrappolati, le quattro armate -nessun componente escluso- presero
alla
lettera l’ordine di Larraz.
La terra sussultava
ancora, i fulmini continuavano a
squarciare il cielo, il mostro stava ghignando, ma tutto ciò
non li avrebbe
fermati: il clamore delle loro urla di battaglia tornò a
riecheggiare nella
valle, la rabbia atavica e la voglia di massacro derivati proprio dalla
maledizione del nuovo nemico -o meglio, di parte di esso- risorsero,
impetuose
più di prima.
«Cannoni! Teine!»
urlò Artas, in contemporanea con Galel che aveva dato alle
catapulte l’ordine
di fare fuoco e a Danae, la quale aveva ringhiato agli arcieri di
infilzare
“quella roba”.
Una pioggia di palle
di cannone, di frecce e di pece
infuocata si riversò addosso a Calida, le cui fauci si
snudarono in un ghigno
ancor più largo e feroce, mentre l’aura nera e oro
che la circondava si
estendeva, disintegrando tutto ciò che i quattro eserciti le
avevano lanciato
contro.
«Non
funziona! Non
funziona!» urlò Galel, nuovamente
terrorizzato.
Calida
inclinò leggermente il capo in direzione delle
città
degli insetti.
Non avevano compreso.
Lo avrebbero fatto
molto presto.
“BRUCIA TUTTO!”
urlò Rubedo, nel cervello di Calida.
Allargò
le braccia, i Lusan poterono sentire distintamente
una quantità immensa di energia sfiorarli, senza toccarli
perché non erano loro
il bersaglio.
Due boati e le due
città nemiche più vicine a Sarumeer
esplosero, creando enormi colonne di fuoco che tinsero le nuvole di
rosso, di giallo,
di nero fumo. Altri due boati, e le altre due città rimaste
subirono lo stesso
destino.
“Sottomettetevi
o morite”.
Loro avevano scelto.
Vide in lontananza
spauriti gruppetti di Lusan che per
qualche miracolo erano riusciti ad abbandonare le loro città
e a scappare in
tutta fretta, ma li risparmiò: in fin dei conti poteva anche
lasciare in vita
qualche futuro adoratore e schiavo, oltre a quelli che aveva
già.
«L-le
città!... l-le...» farfugliò Danae, col
riflesso del
fuoco impresso negli occhi e nella mente
«Tu…» rivolse lo sguardo al mostro
«Continuate a colpirlo! CONTINUATE!»
sbraitò, indicando Calida «Ha distrutto le nostre
città, facciamolo fuori!»
Pur avendo capito
perfettamente quanto fosse inutile, i
Lusan della valle non intendevano deporre le armi prima di aver
vendicato le
loro case, i loro familiari, le vite perdute e che avrebbero perso.
Loro erano
così, pensò Calida. Anche lei era stata
così,
fino a poco tempo prima -un tempo che nella sua attuale forma le
sembrava una
vita fa.
Ignorando i nuovi
attacchi degli insetti, diede ascolto a
una parte del suo cervello che le stava sussurrando qualcosa con una
certa
urgenza.
“Mèin a-aryun”.
«“Musa
di sangue”» disse con lentezza.
Aveva una mèin
a-aryun, una musa di sangue?
“Non
dimenticarla”.
Musa di sangue.
L’immagine
di una giovane lince dai capelli argentati si
affacciò con forza nella sua mente.
Musa di sangue,
Anise, sua sorella.
«Anise»
mormorò.
“Non
dimenticarla mai”.
«No.
Mai» promise a se stessa, mentre gli
“insetti” sotto
di lei tornavano ad avere un nome e delle identità che
avrebbero mantenuto
ancora per poco.
Il nero
dell’aura sprigionata da Calida inghiottì buona
parte del particellare dorato, la terra tremò ancora
più forte, tanto che
svariati Lusan caddero perfino a terra.
Da un momento
all’altro un numero indefinito di squarci si
aprì sotto i piedi dei soldati delle quattro armate, senza
che questi
riuscissero a cadervi dentro: come ferite infette che scernevano pus
caldo e
maleodorante, quelle spaccature nel terreno avevano iniziato a grondare
una
sostanza nera e viscosa, che ribollendo e muovendosi in un modo tale da
far
sospettare che fosse senziente stava inglobando dentro di sé
chiunque le
capitasse a tiro, senza far salvo nessuno, soprattutto i capi delle
quattro città.
«GALEL!» gridò
Artas, invischiato in quella sostanza mortale, al collega
«Galel aiut-»
Non
terminò mai quella richiesta disperata: tutto ciò
che
Galel riuscì a sentire fu un verso soffocato, e tutto quel
che riuscì a vedere
fu la marea nera che, nell’ultimo tentativo che Artas stava
facendo per
uscirne, si tendeva al punto da lasciar scorgere la protuberanza del
naso del
Lusan, le braccia e le mani disperatamente tese, il buco nero della sua
bocca
spalancata dall’orrore.
Una visione che lo
avrebbe perseguitato nei suoi peggiori
incubi da lì in poi, in tutte le notti che sarebbero venute,
se un secondo dopo
non fosse stato inglobato a sua volta; così come Danae,
Luthmeer a-ghekavary, presa dopo
un’ultima
imprecazione.
Larraz, il vecchio
Beremeer a-ghekavary, fu il solo
che non provò neppure a tentare di fuggire
dalla Disgrazia -così chiamava la marea nera. Rivolgendo gli
occhi azzurro
scuro verso l’alto, verso il mostro, prima di venire
inghiottito disse solo una
cosa: “Io lo avevo detto, che sarebbe finita male”.
La marea nera
continuò impietosa a mietere vittime, a
incorporare tutto dentro di sé. Armi, Lusan, qualunque cosa:
non c’era nulla
che quella roba risparmiasse, il tutto sotto lo sguardo soddisfatto di
colei
che l’aveva evocata e osservava i propri nemici venire
inghiottiti, morire,
urlare suppliche a divinità meno concrete
di lei che non li avrebbero mai ascoltati.
Quando la Disgrazia
ebbe preso tutti, Calida sollevò una
mano in aria e voltò in direzione delle quattro
città che stavano ancora
bruciando.
Quella parte di
valle devastata iniziò a gonfiarsi, poi si
ruppe, trafitta da quattro punte di pietra che iniziarono a crescere
verso
l’alto, divenendo man mano ampi pilastri che compensarono lo
spazio che c’era
tra loro andando a fondersi uno con l’altro e creando quella
che sarebbe
diventata la base di un immenso palazzo di roccia dura.
Dalla base si
originò un gran numero di nuove punte, che si
lanciarono anch’esse verso l’alto come a voler
trafiggere una luna che non
potevano vedere, intrecciandosi tra loro e creando una miriade di torri
relativamente piccole che ne circondavano un’altra immensa,
centrale.
La marea nera che
aveva inghiottito i suoi nemici schizzò
in alto e, come un mantello nero e vivo, andò schiantarsi e
a spalmarsi lungo
tutta la base del palazzo appena creato, ricoprendola interamente di sé e dei Lusan che aveva
inghiottito,
solidificandosi e solidificando anche loro in
“statue” fatte di cadaveri dalle
pose grottesche e dai volti, appena accennati, condannati a
un’espressione eternamente
orripilata.
Calida
atterrò in cima alla torre centrale e mosse qualche
passo avanti, lasciando crescere una passerella sotto i propri piedi
nudi,
pensando che ormai la sua nuova casa fosse completa, perfetta.
“Quelle
cimici
nascoste a Sarumeer. Uccidi anche loro!” urlò la voce di
Rubedo nel suo
cervello “E poi passa al resto del
pianeta! Al resto del sistema solare! Divora la galassia!”
Fece violenza su se
stessa e lo ignorò, pur sentendo le
tempie pulsare.
Potere.
Nemici annientati.
Palazzo.
La valle, finalmente
sua.
Rise, la sua aura
circondò l’intero palazzo e illuminò il
cielo.
Dolmer, vivo e
vegeto ma immobile come i Lusan che erano
diventati pure e semplice decorazioni, si ostinò a rivolgere
l’ennesima sentita
preghiera a Q’thulu.
Il capitolo
è lungo, il caldo abissale: sembrava
impossibile ma ce l’ho fatta. Nel prossimo capitolo
torneranno Anise e Beerus!
A voi eventuali
commenti, io mi limito a lasciarvi dei
disegni, uno qui, uno in fondo al primo capitolo in cui Dolmer compare
(il 23).
A presto!
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