Reflecting Mirrors - L'inizio

di Sinkarii Luna Nera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1










«Ma Whis!...»

«Beerus, ti ho già detto di no ben due volte, non farmelo ripetere ancora! Santo cielo, cos’è tutta questa insistenza? Comunque, io per te sono ancora il “maestro” Whis. Ai tuoi diciotto anni manca qualche mese».

Il giovane dio alzò gli occhi al cielo, sbuffando, senza capire quale differenza potesse fare qualche mese in più o in meno. «Seh, seh, me lo hai già fatto notare più volte».

«“Sì”».

«Hm?»

«Si dice “sì”» lo rimproverò l’angelo «Non “seh”».

«E si dice “rompiscatole”, non “maestro”!» ribatté Beerus, senza riflettere.

Solo quando sollevò lo sguardo e notò l’aria mortalmente offesa di Whis capì di aver fatto una stupidaggine colossale.

«Tieni tanto a girovagare in questa benedetta foresta in piena notte, alla ricerca di neppure tu sai bene cosa, e solo perché ti è sembrato di riconoscere una varietà di fiori che hai visto nell’ultimo sogno che hai fatto? Benissimo,
fallo pure. » disse Whis, facendo comparire il proprio bastone «Da solo».

«C-che cos… aspetta un secondo, non mi puoi abbandonare qui!» esclamò Beerus «Sai che non sono ancora bravo a percepire l’aura altrui, non riuscirei a ritrovarti!»

«Imparerai a farlo, o imparerai di nuovo un po’di umiltà» sentenziò l’angelo «Sarà sempre una lezione preziosa».

«No, dai, aspetta! Whis!»

Troppo tardi: il maestro era sparito in un lampo di luce, e ora lui era solo.

«Questo dovrebbe essere illegale… e per fortuna che dovrebbe provvedere a me» borbottò il dio, guardandosi attorno con aria spaesata.

La foresta in cui si trovava era estremamente grande, intricata e fitta. Vista dall’alto era come se la terra fosse coperta da un’ampia trapunta verde scuro, in certi punti squarciata da qualche strapiombo più o meno visibile.
Non avrebbe avuto senso andare a infilarsi lì dentro, e Beerus non l’avrebbe fatto, se non fosse stato per il sogno.

“Potrei provare a vedere se Whis è tornato nella cittadina in cui siamo stati fino a qualche ora fa” pensò “Ma non credo che mi renderebbe così facile trovarlo, e in ogni caso non voglio dargliela vinta. Nel sogno c’ero io che seguivo questo fiume, c’era la salita con le pietre, poi lo strapiombo con sopra quell’albero, e l’altalena e…e poi non lo so, perché quello là” alias Whis “Mi ha svegliato!”

Era determinato ad andare fino in fondo a quella faccenda, maestro al seguito oppure no. Non temeva quel che avrebbe potuto incontrare nel bosco, perché non era soltanto un ragazzo quasi diciottenne: lui era Lord Beerus, Hakaishin del settimo Universo, una divinità in grado di distruggere qualunque cosa anche col semplice schiocco delle dita, e a breve il suo stesso maestro avrebbe iniziato a obbedirgli e dargli del “lei”… cosa di cui, a essere onesto, non vedeva l’ora.

“A quel punto non potrà più sognarsi di ‘impartirmi una lezione’ abbandonandomi da qualche parte” pensò con soddisfazione, accingendosi a risalire lungo il fiume.

Se non altro era stato piantato in asso accanto a un punto di riferimento, e la strada non sarebbe stata troppo difficoltosa, anche perché nei punti particolarmente impervi poteva sempre volare. Se non lo faceva di già era perché il maestro gli aveva consigliato di camminare, correre e limitare il volo, o “si sarebbe ritrovato presto a dover chiedere in prestito i vestiti a Champa”. Volare consumava energie, ma non faceva lavorare i muscoli.

Non che fosse un problema, non gli dispiaceva camminare, non in quel posto. Anche il suo pianeta natale era pieno di boschi, da quel che ricordava: alberi, fiumi, e sassi ricoperti di muschi e licheni vagamente simili a quelli dove stava posando i piedi, e si respirava un’aria purissima.

“Forse non è un caso che in pianeti dall’ambiente simile vivano razze con delle caratteristiche in comune” rifletté “Anche i Lusan sono felini”.

Pelo soffice, corto e sottile, coda lunga e affusolata con tre punte di colore nero, e orecchie dalla punta nera anch’esse: quelli erano i tratti che tutti i Lusan avevano in comune. Al di là di questi -e una prevalenza di Lusan dal manto bianco- bisognava comunque riconoscere una certa varietà: non aveva visto un Lusan uguale all’altro, se non in casi di somiglianze tra parenti, e anche in quei casi non sempre erano palesi.



“Tengo a farti notare che i Lusan non sono un popolo avanzatissimo, Beerus, né sembra che tra loro ci siano combattenti di potenza degna di nota: nessuno di loro sa volare, né sono in grado di controllare il Ki. Questo potrebbe essere un pianeta passibile di distruzione”.



Il giovane dio emise un verso seccato. Forse il suo maestro aveva ragione, ma quel pianeta gli piaceva, e aveva apprezzato anche la qualità del cibo che gli avevano offerto, motivo per cui aveva replicato con un deciso “E invece resta dov’è!” alle parole di Whis.

“La salita inizia a farsi molto più dura” notò “Voglio sperare che a breve troverò…”

«ah! Eccola!» esultò.

Il letto del fiume in quel punto si faceva più roccioso, e guardando più in alto poté vedere che le pietre si ingrandivano man mano, creando un passaggio nel fiume fruibile da coloro che erano tanto abili da non aver paura di scivolare e cadere nell’acqua. Era una sorta di “scalinata” di rocce, tanto ben disposte da far quasi pensare che la sua presenza non fosse merito della natura, quanto piuttosto della mano di qualcuno.

Un breve volo, e Beerus atterrò senza esitazione sulla prima pietra, iniziando poi a saltare agilmente dall’una all’altra. Il maestro Whis non dava molto peso a quel che lui vedeva nei suoi sogni, ma il fiume era reale, la “scalinata” era reale, e allora doveva esserlo anche tutto il resto.

“Magari quell’albero che ho visto nel sogno era da frutto. Era un sogno profetico per dirmi che avrei trovato il frutto più buono dell’Universo, o addirittura del Multiverso!” si convinse “Lo -o li- mangerò tutti io, e a Whis non ne lascerò neppure uno. Almeno impara!”

La salita era molto lunga, ma l’Hakaishin finì di percorrerla in brevissimo tempo, esaltato all’idea di “vendicarsi” di Whis. Notare di non essere ancora arrivato a destinazione non riuscì a demolire il suo entusiasmo, che anzi, aumentò quando notò il tronco cavo ricoperto di muschio posto in orizzontale tra una riva e l’altra del fiume: anche quello era un elemento presente del sogno, a ulteriore conferma che voler proseguire era stata la scelta giusta.

“Pregusto già quel frutto, dolce, succoso” pensò mentre avanzava alla svelta, sfregandosi le mani “Saporito!”

Fu a quel punto che le sue sensibilissime orecchie captarono qualcosa di insolito, tanto da spingerlo a rallentare: una melodia suonata da qualcuno, o qualcosa.

“Non sono solo in questa foresta. Però anche questo suono mi è familiare. Che fosse anch’esso nel mio sogno, anche se non lo ricordo?” si chiese “Un momento: non vorranno appropriarsi del mio frutto?! No, eh!” pensò, muovendosi rapidamente in direzione della musica “Possono dimenticarsene. Appartiene al Dio della Distruzione!”

La luce dei due candidi satelliti che ruotavano attorno al pianeta del Lusan iniziava a diventare più visibile, segno che la boscaglia andava diradandosi, e Beerus cominciò ad avvertire sulla pelle una piacevole brezza, ma al momento non gli importava, avendo in testa solo l’intenzione di non lasciare che qualcuno rubasse il suo cibo.
Era tanto preso dall’idea che a un certo punto, pur continuando a seguire la melodia, prese il sentiero sbagliato. Saltò fuori dalla selva, pronto a dare battaglia, su un piccolo promontorio che dava su uno strapiombo di circa quindici metri. Si guardò attorno. «Ho sbagliato posto, accidenti a… me»

Sulla sinistra, a neppure venti metri di distanza, c’era un altro promontorio, decisamente più grande di quello in cui era finito lui. Sul promontorio c’era l’albero del suo sogno, e lì, in piedi sull’altalena oscillante, c’era una giovane Lusan dal pelo candido.
Era una ragazza alta, un po’troppo magrolina, con indosso un abito leggero di colore chiaro e lunghi capelli argentei sciolti al vento. Nell’arco della giornata il dio aveva posato gli occhi su ragazze Lusan più formose, e per tale motivo considerabili più belle, ma non abbastanza da sviare la sua attenzione dal cibo.

“Decisamente non è un frutto” pensò Beerus.

Poi sorrise e si sedette perfino a terra a gambe incrociate, senza smettere di guardarla.

Non era un frutto, ma andava bene ugualmente.

Per diverso tempo rimase immobile e preda di due profondi desideri distinti, ossia quello di continuare a osservarla nel suo ambiente naturale, senza avvicinarsi a rovinare quell’atmosfera quasi onirica, e quello di prenderla per sé; non nel senso sessuale del termine -non era quel pensiero ad avere la priorità, nonostante la giovane età- quanto piuttosto nel senso di chi avendo sotto gli occhi la bellezza desidera essere il solo a poterla contemplare.
Forse era un desiderio egoistico, ma chi più di un dio poteva permettersi di essere egoista?

Poi successe: quando l’altalena raggiunse il punto più alto, la ragazza lasciò la presa sulle corde e scivolò giù, precipitando nello strapiombo.

«Ma che accidenti?!-» allibì Beerus.

Era successo all’improvviso e talmente in fretta che non era riuscito a reagire in tempi decenti, o fare qualsiasi altra cosa diversa da osservarla sparire oltre la soglia del burrone, del quale dalla sua angolazione non riusciva a vedere la parte frontale.

Quando riuscì a riscuotersi volò subito in basso, sotto allo strapiombo, guardandosi attorno con aria febbrile: doveva essere caduta lì, doveva essere lì per forza, nonostante l’altezza forse non era morta sul colpo e c’erano possibilità di fare qualcosa, forse poteva ancora salvarla in qualche modo.
La cercò ancora, e avrebbe voluto chiamarla, ma non conosceva il suo nome, e comunque non era detto che potesse rispondere. Perché si era lanciata giù?! Cosa le era passato per la testa?!

«Eppure devi essere qui, razza di sconsiderata!» sbottò, facendosi largo tra i cespugli «Perché non ti trovo? Dove sei?!»

Niente da fare, di lei non c’era traccia; tutto quel che restava era il suono che l’aveva attirato lì. Qualunque cosa lo stesse producendo, era ancora attivo e vicino all’altalena.
Strinse i pugni, arrabbiato e perplesso per la piega che aveva preso quella nottata, e volò in alto, intenzionato a recuperare almeno la fonte di quella melodia.

Fu così che notò vari grossi rami che sporgevano dalla parete rocciosa, e la presenza dell’entrata di un tunnel vicina a uno di essi.

«Ma non mi dire» mormorò, sporgendosi a guardare nell’entrata «Allora ti eri resa conto di essere osservata».

Era innervosito a causa del brutto momento appena passato, ma sorrise lo stesso: gli aveva fatto prendere un accidenti, ma probabilmente stava più che bene. Quella giovane Lusan sembrava essere un tipetto sfuggente.

“Ora la cerco, la trovo, e gliene dico quattro. Giocare simili scherzi a una divinità! Ma guarda un po’questa!...”

Prima di infilarsi nel tunnel però volle tener fede al suo proposito di recuperare la fonte del suono, che scoprì essere una piccola scatola di metallo da far funzionare con qualche giro di una levetta posta su un lato, e la infilò in una tasca dei pantaloni: non voleva presentarsi da lei a mani vuote.

Fatto questo volò all’imboccatura della via di fuga presa dalla ragazza, e vi si addentrò senza alcun timore. In quanto felino era in grado di vedere al buio, e comunque lui era l’ultimo che potesse aver paura di entrare in qualunque posto.

“Un tunnel palesemente non naturale in mezzo a una foresta è una cosa ben strana” pensò “Mi chiedo per quanto si snodi. Sia come sia, non può essere andata troppo lontana”.

Dovette contraddirsi quando, percorsi vari metri, trovò nientemeno che due binari, su uno dei quali era presente un carrello. Non sembravano di costruzione troppo recente, ma era evidente che fossero tuttora utilizzati da qualcuno -nello specifico, quella benedetta ragazza. Forse quella era l’uscita di una vecchia miniera, o forse era semplicemente una via di fuga da chissà quale luogo.

“Lo chiederò a lei più tardi”.

Non perse tempo a cercare di mettere in funzione il carrello, anche se magari usarlo avrebbe potuto rivelarsi divertente, e volò lungo la galleria al massimo che la sua velocità divina consentiva.

In brevissimo tempo giunse a destinazione, e uscendo dal tunnel si trovò a posare i piedi su un verde e folto prato fiorito.
Diede un’occhiata all’orizzonte, trovando un lago di media grandezza e, vicino a esso, un villaggio. Aguzzò la vista: gli edifici c’erano, ma della presenza di abitanti non era affatto sicuro. Non vedeva luci, non vedeva fumo salire dai comignoli, né sentiva alcun suono, o altro che suggerisse la presenza di qualcuno oltre a lui e, immaginava, la ragazza.
Giunse alla conclusione che quel villaggio dovesse essere stato abbandonato da tempo per chissà quale ragione, e quando in seguito si avvicinò alle case l’ipotesi del paese fantasma trovò conferma.

“Non è un luogo adatto per una ragazza che va in giro da sola nel cuore della notte” sentenziò Beerus.

C’era un’atmosfera strana in quel posto, che non gli piaceva granché, ma non riuscendo a capire a cosa fosse dovuta quella sensazione concluse che si trattava soltanto di suggestione. Proseguì lungo le vie deserte, osservando ogni edificio -alcuni erano messi bene, altri fatiscenti- intuendo che non dovevano essere molto più recenti dei binari che aveva visto in precedenza.

Giunse in quella che un tempo doveva essere stata la piazza principale del villaggio, si fermò e fece un sospiro. «Va bene, è tempo che io provi a percepire la sua aura. Dev’essere qui attorno, non può essere troppo complicato, e comunque devo imparare a farlo per bene, prima o poi».

Chiuse gli occhi, cercando di espandere la percezione sensoriale oltre i limiti fisici e di liberarsi di ogni pensiero come gli aveva detto di fare il maestro Whis, ma non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine della Lusan sull’altalena, la sua espressione così seria, il suo…

Quasi sobbalzò quando di colpo iniziò ad avvertire l’aura della ragazza in modo forte e chiaro. Era come seguire un’unica fonte di luce in un sentiero buio.
Volse lo sguardo, e subito individuò il suo nascondiglio: il tetto dell’edificio posto nella posizione più alta in tutto il paese, che era anche il più grande. Forse in passato era stato la dimora di coloro che erano a capo del villaggio.

Sul volto del dio comparve un sogghigno soddisfatto. «Ti ho trovata».

Senza perdere ulteriore tempo, l’Hakaishin raggiunse la parte posteriore dell’edificio. Dubitava fortemente che lei avesse notato la sua presenza, o sarebbe scappata via nuovamente, cosa che non stava facendo. Non che ci fosse da stupirsi, perché i due satelliti e la miriade di stelle visibili avrebbero reso il guardare in basso un’azione da sciocchi.

Volò di nuovo in alto e, atterrato silenziosamente sul terrazzo, vide che la Lusan era intenta a osservare il cielo, dandogli le spalle.

“Bene! Ora devo solo… ehm… già, adesso che l’ho trovata cosa faccio?” pensò il giovane.
Solo in quel momento si rese conto di non avere la minima idea di come muoversi, e sì che in condizioni normali era tutto fuorché timido… sebbene il suo rapporto col sesso femminile fosse perlopiù limitato alle donne del luogo in cui il maestro Whis lo portava a, parole sue, “soddisfare i suoi istinti sessuali senza mettere in mezzo sentimentalismi poco utili a un Hakaishin”.

“No, sul serio, con cosa esordisco? Con un ‘ehilà, bella serata’? Con ‘ciao, sono il Dio della Distruzione Lord Beerus e ti ho seguita fin qui perché sono anche il dio degli stalker’? ‘Una ragazza come te non dovrebbe andare in giro da sola a quest’ora di notte’? No, così sembra che abbia brutte intenzioni… ma allora cosa accidenti devo dirle?! Forse devo limitarmi a dirle la verità” decise.
«Dando retta a un sogno profetico ho camminato nella foresta convinto di trovare un frutto buonissimo, e invece ho trovato una Lusan in piedi su un’altalena. Come la mettiamo?»

“Uccidetemi. Vi prego” pensò, dandosi del cretino.

La ragazza sobbalzò, per poi voltarsi velocemente a guardarlo. Si sarebbe aspettato un’espressione spaventata, e un po’lo era, ma sul suo volto vedeva più stupore e curiosità che paura.
Beerus alzò le mani. «Non voglio farti del male» cercò di rassicurarla.

La Lusan non si mosse, se non per appoggiarsi contro la ringhiera di legno. «Lo so».

Il dio aggrottò la fronte, alquanto sorpreso da quella risposta: tutto si sarebbe aspettato, tranne un “lo so”. «E come lo sai?»

«Penso che se avessi voluto farmene mi avresti già aggredita alle spalle, dal momento che non ti avevo proprio sentito arrivare» rispose lei «O avresti cercato di farlo prima, quando eravamo nella foresta. Però non sembravi averne l’intenzione».

«Non l’avevo» confermò Beerus «Come non ce l’ho adesso. Dico davvero! Davvero davvero! Ma davv-» “Smettila di ripetere quella parola, pezzo d’idiota!” si impose «Hai capito».

«Oh sì» annuì la ragazza «Ho capito davvero davvero. D’accordo: assodato che non vuoi farmi del male, mi chiedo sia mi hai trovata, sia il motivo per cui mi hai seguita fin qui… e anche come tu abbia fatto ad arrivare così in fretta» aggiunse «Nonché il tuo nome, ovviamente».

«Mi chiamo Beerus. Anzi, per la precisione io dovrei essere chiamato “Lord” Beerus» specificò «Perché vedi, io sono… una persona importante. Molto importante».

Stava per dirle che era l’Hakaishin di quell’Universo, ma aveva cambiato idea, temendo che per quella sera fosse troppo. Le era arrivato alle spalle, non voleva rischiare spaventarla ulteriormente, anche se lei sembrava avere nervi piuttosto saldi.

«Io mi chiamo Anise. Anzi, forse anch’io dovrei essere chiamata “Lady” perché, vedi» indicò il villaggio con un ampio gesto del braccio destro «Sono la regina indiscussa del qui presente regno di Vynumeer e dei suoi abitanti! Ossia io. Che oltretutto non abito qui per davvero».

Anise”.
Beerus lo trovava un bel nome. Si lasciò scappare una mezza risata: il ghiaccio ormai era definitivamente rotto. «La vostra vita da regina dev’essere dura, maestà! Con tutte queste persone di cui occuparsi…»

«Lo è, soprattutto quando hanno voglia di biscotti alla cannella e in casa non ce n’è neppure un grammo» replicò Anise «Ma non divaghiamo: hai delle domande cui devi rispondere, anche se sei una persona molto importante. Perché mi hai seguita fin qui?»

«Vuoi la verità? L’ho fatto per dirtene quattro!» esclamò, incrociando le braccia davanti al petto «Lasciarsi cadere in quel modo nello strapiombo è da imprudenti, se non si è in grado di volare. Ho pensato che fossi caduta e ti fossi fatta male, o peggio. Se avevi intuito che non volevo farti del male, perché accidenti lo hai fatto?!»

«Perché era piena notte, c’era un ragazzo alieno sconosciuto che mi stava osservando, e sebbene avessi intuito l’assenza di brutte intenzioni ho deciso di allontanarmi per sicurezza» ribatté lei «Puoi biasimarmi?... non che sia servito a molto, comunque, dal momento che ora siamo entrambi qui».

«D’accordo. Potevi evitare di farmi pensare male, ma ammetto che sei scappata via per motivi sensati» ammise Beerus «L’altro motivo per cui ti ho seguita comunque è questo» disse, e tirò fuori dalla tasca la “scatola del suono”, come la definiva lui «Te l’ho riportata. Tieni».

«Grazie per avermi riportato il mio za sviranje, Lord Beerus» disse Anise con gentilezza, sorridendogli nel riprendersi l’oggetto.

«Avete il permesso di chiamarmi solo Beerus, maestà, e sappiate che è un onore che non concedo a tutte le regine. Anzi, al momento siete la sola alla quale abbia permesso tanto!»

Lei sorrise ancora. Era evidente che pensasse che lui stesse scherzando, senza sapere che invece quella che le aveva appena detto era la pura verità. «Addirittura… allora passiamo all’altra mia domanda, Beerus: come mi hai trovata?»

«Quando ti ho vista cadere sono volato giù a cercarti, poi non trovandoti sono volato su lungo la parete rocciosa, ho visto il tunnel e-»

«Aspetta: cosa significa che “sei volato” su e giù?» lo interruppe la Lusan, alquanto perplessa.

«Cosa vuoi che significhi? Che sono volato, no? Così!» esclamò l’Hakaishin, alzandosi in volo davanti a lei.

Da perplessa che era, l’espressione di Anise divenne allibita. Vedendo ciò, e ricordando che i Lusan non volavano, Beerus temette di aver commesso un’imperdonabile leggerezza.

«Ciò conferma la mia teoria, questo è un sogno» dichiarò Anise «E tra un po’mi risveglierò nel mio letto. Avrei dovuto capirlo già da quando hai parlato del sogno profetico e del frutto: quale persona si addentrerebbe nella foresta in piena notte per cercare un frutto dopo averlo sognato? Sarebbe stupido».

«Non è affatto stupido!» protestò Beerus «E comunque il frutto non l’ho precisamente sognato, mi ero soltanto convinto della sua presenza».

«Per non parlare del fatto che un ragazzo alieno sconosciuto che segue di notte una ragazza sola senza avere brutte intenzioni non si è mai visto» continuò lei, imperterrita «Quindi niente, può essere solo un sogno, il che rende il volo una cosa plausibile».

«Ti assicuro che non è un sogno, Anise: è tutto vero, e io sono davvero in grado di volare. Oggi io e il maestro Whis siamo stati nella cittadina più vicina alla foresta» le disse, atterrando a poca distanza da lei «E mi è stato detto che l’arrivo di alieni non è una novità per voi Lusan. Non credo di essere il primo di essi in grado di volare ad aver messo piede qui».

«Non lo sei» ammise lei «Ma gli arrivi di alieni non sono mai stati una quantità spropositata, e il numero di quelli in grado di volare è persino minore. Credo che la mia sorpresa sia dovuta a un insieme di cose, non ultimo il fatto che… insomma, ti sei davvero messo a vagare nella foresta per quella ragione?»

«Sì, ti dico! Però devo confessarlo: pur non avendo trovato il mio frutto, e pur essendomi preso un accidente per colpa di una Lusan finta suicida, mi ritengo piuttosto soddisfatto».

Anise fece spallucce. «Contento tu. Comunque… il tuo maestro non si preoccupa per la tua assenza?»

«È lui che mi ha mollato da solo nella foresta» sbuffò Beerus «In un modo o nell’altro avrei ritrovato almeno la strada per la cittadina, e credimi se ti dico che in generale non ho nulla da temere, ma il punto è che non è stato affatto un bel gesto».

«Questo però non vuol dire che non si stia chiedendo dove sei finito, soprattutto se è passato diverso tempo. Se si aspettava che tornassi indietro potrebbe pensare male, non vedendoti tornare».

Quello era forse un tentativo di congedarlo? Perché? Sembrava star andando tutto bene! Avevano rotto il ghiaccio e stavano parlando tranquillamente, e una volta risolta la questione del volo non riusciva a capire cosa potesse aver fatto di sbagliato.

«Non voglio mandarti via. Ho solo pensato al tuo maestro, tutto qui».

Il dio sgranò gli occhi. «Tu… sei in grado di leggere nel pensiero?»

Anise scosse la testa. «No. Tu hai un viso molto espressivo, io ho collegato la faccia che hai fatto a quello che ho detto, ho riflettuto e ho concluso che potessi aver mal interpretato le mie parole. Ti sei ricomposto in fretta, ma non abbastanza».

Era una faccenda strana, e Beerus non era in grado di capire se gli facesse piacere oppure no; non riuscendo a decidere, pensò che soprassedere fosse la cosa migliore. «Comprendo. In ogni caso, conosco abbastanza Whis da sapere che non sta impazzendo dalla preoccupazione, e non posso tornare alla cittadina. Per te sarà pure un’abitudine, ma io non intendo lasciarti qui da sola. È da quando ho messo piede in questo posto che ho addosso una sensazione spiacevole» le confessò, guardandosi attorno «Non so perché».

«Eccone un altro» sospirò Anise «Ti sei fatto influenzare da quelle storie imbecilli che girano a Ulthmeer riguardo questo posto, vero?»

«Quali storie?» le domandò l’Hakaishin, ancor più guardingo.

«La tua è solo suggestione» minimizzò lei, senza rispondergli «Per il resto, io sono cresciuta nella cittadina in cui sei stato oggi -ossia Ulthmeer- e vengo qui da sola da quando avevo cinque anni: penso di potermi considerare abbastanza esperta del luogo, ormai».

Tralasciando l’opinione di Beerus sul fatto che a una piccola lince fosse permesso allontanarsi così tanto da casa -per chi non volava, la strada da Ulthmeer a Vynumeer era tanta- in completa solitudine, non era affatto felice all’idea di lasciarla lì, checché lei ne dicesse. «Ne sono sicuro, ma questo per me non cambia le cose».

«Conosco questo posto molto meglio di quanto conosca te, visto che siamo poco più di due estranei. Probabilmente mi consideri una fanciulla in potenziale pericolo, stai agendo di conseguenza e in un certo senso è anche una cosa, diciamo, carina… ma ti assicuro che non ho bisogno di un baldo forestiero che mi protegga. Chissà da cosa, poi».

«Non so neppure io da cosa, o l’avrei già distrutto» ribatté lui.

«Addirittura distruggerlo? La vedo difficile».

«Non per me! Io… ah, e va bene! Non volevo dirlo, non già questa sera, ma se lo faccio magari prenderai seriamente quel che ti ho detto» fece una pausa «Oggi a Ulthmeer ho visto che voi Lusan sapete cos’è un Hakaishin…»

«Siamo arretrati per varie ragioni, inclusa l’ultima guerra, ma non siamo così tanto “bestie” da non sapere che esiste il Dio della Distruzione» replicò lei.

«Sono io, Anise. Io sono l’Hakaishin di questo Universo».

La Lusan lo fissò per qualche istante, senza apparire troppo convinta. «Saresti un dio piuttosto piccolo, come età».

«Piccolo?! Ho diciotto anni, io!» protestò Beerus «E il mio maestro dice che sono molto più forte di vari miei colleghi più vecchi di me!»

«Colleghi? Di Hakaishin ce ne è solo uno».

«Uno per Universo» la corresse Beerus «Ce ne sono dodici. Questo è il settimo».

«D’accordo, credo di averne sentite abbastanza per stasera. Perdonami, ma crederti mi risulta difficile».

Il dio sospirò nervosamente, dicendosi che c’era da aspettarselo, e si guardò attorno. «Dimmi un po’: quel costone roccioso ti piace?» le chiese, indicandone uno a una certa distanza dal lago.

Anise lo guardò con aria perplessa. «Sono rocce. Non mi fanno né caldo né freddo. Forse impiccia un po’, senza quello si vedrebbe il resto della foresta».

Beerus tese un braccio davanti a sé, col palmo della mano dritto. «Benissimo. Hakai».

Appena finì di parlare, il costone roccioso venne avvolto da un alone viola, per poi disgregarsi sotto lo sguardo attonito della ragazza.
Il panorama era indubbiamente migliorato.

«Va bene» disse Anise, dopo qualche istante di silenzio «Tu sei l’Hakaishin di questo Universo, e io credo di dovermi sedere da qualche parte… anzi, no, non ne ho bisogno».

Era una reazione normale, Beerus ne era consapevole, ma se ne dispiacque ugualmente. «Volevo solo che mi credessi, non volevo spaventarti».

«Sono un po’scossa per via del tuo potere» disse lei «Ma tu sei la persona che eri fino a un minuto fa. Se non avevi brutte intenzioni prima, non dovresti averne neppure adesso. Giusto?»

«Esatto!» esclamò il dio, un po’sollevato «Sono sempre quello del frutto, non dimenticarlo».

«Dimenticare una stupidaggine come questa è impossibile» sorrise la Lusan.

«Attenta a come parlate, maestà: vi state rivolgendo a un dio!» la rimproverò lui, scherzosamente.

«Resta comunque una stupidaggine».

«Ehi!... ad ogni modo, ora che sai che sono un dio prenderai sul serio quel che ho detto su questo posto? Non so com’è gli altri giorni, ma al momento percepisco qualcosa di strano. In caso contrario non insisterei».

«Ti credo, ma continuo a non capire il motivo. Per non parlare del fatto che sono un po’stanca, tra l’ora tarda e tutto» aggiunse «Se non ci fossi tu, probabilmente starei già dormendo qui».

«Qui?»

«Nell’edificio ho cuscini, coperte e altro. In questa stagione spesso dormo fuori, sotto le stelle, e… sai cosa?» Anise sollevò lo sguardo «Se è vero che il tuo maestro non si preoccupa, puoi farmi compagnia».

Beerus sgranò gli occhi, stupito di quella proposta e felice sia della fiducia che gli era stata concessa, sia del fatto che lei non si fosse spaventata più di tanto sapendo di avere a che fare con un Hakaishin. «A me sta bene. Però sono un po’stupito».

«Io lo sono di più» ribatté lei, scomparendo all’interno dell’edificio per poi tornare fuori con due cuscini e due coperte «Non ho mai amato molto la compagnia delle altre persone. È uno dei motivi per cui vivo da sola nella foresta. Tieni».

Beerus prese un cuscino e una coperta. «Credevo vivessi a Ulthmeer».

Lei scosse la testa e si sdraiò a terra, imbozzolandosi nella sua coperta. «Non più. Oidhche gishery, Beerus».

«Eh?»

«Significa “buonanotte”. Se saltasse fuori un mostro mentre dormo, tu distruggilo, mi raccomando».

“No, direi che nonostante tutto non prenda ancora sul serio quel che ho detto su Vynumeer. O beh” sospirò, sdraiandosi accanto a lei “Magari è davvero un’impressione sbagliata, se lei viene qui da anni e non le è mai capitato nulla”. «Contaci. Buonanotte, Anise».

La terrazza non era comoda come il morbidissimo letto cui Beerus era abituato, ma non passò molto tempo prima che entrambi si addormentassero, chi per la stanchezza, chi per la tranquillità, o per entrambe le cose.

Lord Beerus si risvegliò alle undici del mattino successivo, immerso nella più totale confusione post- sonno.

«Maestro Whis, dov’è la mia colazione?» bofonchiò, stropicciandosi gli occhi «Non ricordavo che il materasso fosse così duro…»

Fu solo tastandolo che si rese conto che il materasso non era tale, e a quel punto ricordò di trovarsi su una terrazza di legno in un villaggio fantasma insieme a una giovane Lusan di nome Anise.

Almeno in teoria, perché di lei non c’era traccia.

Si alzò in piedi di scatto, improvvisamente sveglissimo: addormentarsi era stato un errore, le era sicuramente successo qualcosa, e-
Un momento... non ricordava la presenza di quei dodici frutti accanto a lui, e nemmeno quella di un biglietto. Si chinò a raccoglierlo, incuriosito.


Un tributo al dio dei cercatori di frutta (poco abili).

Ti regalo anche la coperta.

A.




«Ma guarda un po’che insolente!» commentò Beerus, intascando il biglietto senza riuscire a evitare di sorridere.

Raccolse uno dei frutti più grossi, una grossa bacca rotonda di colore rosato, e l’addentò.

«È buonissimooooooooo!» esclamò, contento come una Pasqua «Lo dicevo io, che in quella foresta c’era qualcosa di buono da mangiare!»

Fu proprio in quel momento che Whis comparve accanto a lui senza alcun preavviso. «Sei veramente un gran testardo, lo sai? Hai preferito passare la notte all’addiaccio, piuttosto che darmi ascolto!»

«Esatto, e ho anche trovato quello che cercavo» sogghignò Beerus, passato il momento di sorpresa, sventolando una bacca davanti al volto dell’angelo «Sono i frutti più dolci, succosi e saporiti che abbia mai mangiato... e sono miei!» dichiarò, usando la coperta per infagottare i dieci rimasti «Tutti miei!»

«È ingeneroso da parte tua non condividere il cibo con chi si prende cura di te» disse Whis.

«Certo, perché dopo avermi abbandonato te lo meriti proprio! Torniamo a casa, dai. Ho trovato quello che cercavo».

“E anche qualcosa in più”.
Non si era sentito di dire al suo maestro di aver incontrato una ragazza e di aver voglia di rivederla: sapeva che Whis voleva che lui si concentrasse sul suo compito e sugli allenamenti, e avendo appena conosciuto Anise riteneva prematuro parlargli di lei, ma avrebbe trovato il modo di incontrarla ancora senza che Whis lo venisse a sapere… e lo avrebbe fatto molto presto.





Non ci credo, l’ho iniziata sul serio :”D
Ringrazio tutti coloro che hanno letto fin qui, e le persone che in “Reflecting Mirrors” hanno mostrato interesse per il qui presente prequel con questo Beerus giovanissimo e all’inizio piuttosto imbranato :”D

P.s.: se vi interessa vi lascio il link della melodia della "scatola che suona" (perché carillon era troppo semplice :"D)


Qui sotto, un tentativo di disegnare Anise sull’altalena (non sono in grado di fare gli sfondi, quindi niente, non li faccio :”D)



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Capitolo 2
*** 2 ***


RMI cap2
2
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Quando si pensa a una divinità si ha in mente qualcosa o qualcuno di grande, maestoso, forse anche spaventoso;
insomma, tutto avrei pensato tranne che l’Hakaishin di questo Universo fosse un felide della mia stessa età.”

 
 
 
Anise non si era dedicata ad aggiornare il suo quaderno delle erbe, non quella volta. Ci aveva provato, ma era servito solo il tempo di aprirlo e prendere il carboncino in mano per capire che non era giornata. Nell’attesa che l’acqua per la tisana bollisse si era messa comunque a scarabocchiare su un foglio, fissando un punto nel vuoto e ascoltando solo il rumore bianco prodotto dal suo cervello, e quando in seguito aveva abbassato gli occhi, sorpresa!... c’era disegnato un dio.
 
Aveva osservato con perplessità il prodotto della sua stessa mano, inizialmente come se non le appartenesse, in seguito chiedendosi perché di tutto quel che poteva disegnare era finita a ritrarre proprio lui, per poi concludere che non c’era nulla di strano: aveva incontrato una divinità, era logico che ciò l’avesse colpita, soprattutto dopo aver visto in azione il suo potere distruttivo.
Ritenendo opportuno lasciare che i suoi pensieri venissero tutti quanti a galla -“Meglio averlo su carta che in testa”, si era detta- aveva scritto accanto al disegno quelle poche righe, ma non erano sufficienti. Pur sentendo distintamente l’acqua bollire volle aggiungerne altre, le ultime.
 
 
 
“Può un Dio della Distruzione ispirare tenerezza? Sembra di sì, a patto che si sia svitate come la sottoscritta.
Può essere che la gente di Ulthmeer avesse/abbia ragione a definirmi tale, dopotutto.”

 
 
 
Ripose rapidamente fogli e carboncino, andò a spegnere il fuoco, e versò l’acqua in due grosse tazze di vetro nelle quali erano state già messe le giuste erbe essiccate. Anise sapeva che l’ospite che stava aspettando era estremamente puntuale: le restavano circa tre minuti di solitudine, troppo pochi per i suoi gusti, soprattutto quando rimuginava su qualcosa o, in quel caso, qualcuno.
 
“Avevo capito che non voleva farmi del male. Chi vuole aggredirti non si mette seduto a terra a guardarti sorridendo come se avesse trovato il tesoro di Rubedo” pensò “Per essere un dio si è comportato in modo piuttosto ‘normale’. Sembrava un ragazzo semplice, gentile e simpatico al quale piace una ragazza, e all’inizio era perfino un po’impacciato. Se avesse voluto avrebbe potuto farmi di tutto senza che io potessi oppormi, ma questo pensiero non gli è neppure passato per la testa. Sembrava più preoccupato di cosa potessi pensare di lui e del suo potere, il che è incredibile: un dio che si preoccupa dell’opinione di una mortale?” scosse la testa “È più assurdo del fatto che esistano ben dodici Universi. I riguardi che ha avuto verso la mia opinione però mi hanno fatto capire che non avevo nulla da temere. Se esiste la figura dell’Hakaishin ci sono dei motivi, ma questo non fa di lui automaticamente una brutta persona, e il fatto che sia in grado di far sparire me o il mio pianeta in un attimo non vuol dire che debba farlo per forza”.
 
Terminò la sua riflessione facendo spallucce, dicendosi che ulteriori elucubrazioni erano inutili. Probabilmente non lo avrebbe più visto, e altrettanto probabilmente lui l’aveva già dimenticata: non vedeva alcuna ragione per cui Beerus avrebbe dovuto pensare a una Lusan solitaria, “regina” di un villaggio fantasma. Sarebbe stata una cosa più insensata perfino della proposta che lei gli aveva fatto, quella di restare a dormire con lei.
Anise se ne sorprendeva ancora, perché pur avendo trovato una ragione logica per avergliela fatta -ossia l’aver capito che quel dio testardo non se ne sarebbe andato in alcun caso- avrebbe mentito, se avesse detto che restare in sua compagnia le era dispiaciuto.
 
Si udirono tre colpi contro la porta di legno, tanto forti che ad Anise parve che l’intera casa potesse crollare per colpa di essi. In verità era improbabile, pur essendo una casa in legno e pietra decisamente vecchia era resistente, oltre che piuttosto grande per una persona sola, ma ciò non cambiava il pensiero della ragazza. «È aperto, lo sai!» esclamò «Prima o poi finirai col buttare giù tutto».
 
La porta si aprì con un forte cigolio, rivelando una figura tanto possente da non permettere alla luce del giorno di illuminare l’ingresso. «La porta va cambiata comunque, è troppo rovinata».
 
«No, invece».
 
L’ospite dovette addirittura chinarsi un po’per riuscire a entrare. «Non sia mai che ti senta dire “hai ragione”, per carità».
 
«Callie, se non hai ragione non ce l’hai, non c’è molto da dire».
 
In pochi avrebbero avuto il coraggio di parlare con quel tono a Calida, una Lusan beige dai corti capelli neri e lo sguardo duro, alta oltre due metri e dieci e il cui peso superava i cento chili -tutti di muscoli, andava detto. Anise però sapeva di poterselo permettere: Calida era la persona che l’aveva trovata e tenuta con sé, una figura che in virtù dei “soli” sedici anni di differenza d’età Anise tendeva a considerare una sorella maggiore.
 
«Non so cosa serva ancora perché tu cambi atteggiamento» ribatté la lince più anziana, posando a terra quattro grossi sacchi di tela marrone «Non lo so davvero».
 
«E io non so cosa serva ancora perché tu smetta di portarmi tutta questa roba ogni settimana. Non ne ho bisogno» disse, aprendo il primo sacco che le capitò tra le mani «Vestiti? Sul serio?»
 
«Nel resto dei sacchi c’è del cibo» disse Calida, impassibile.
 
«Calida. Callie. Io ti ringrazio per il pensiero, davvero, ma sai benissimo che tutto questo non mi serve. Vicino a Vynumeer ci sono ancora campi di lino e cotone, il clima è clemente, e io so tessere: guarda! Fuso, conocchia, arcolaio, telaio! Sono lì, nella stanza accanto, li puoi vedere!» esclamò la ragazza, indicando suddetta stanza «E per quanto riguarda il cibo, ho un orticello proprio qui fuori sul retro, nonché una serra. Poi, farina? Zucchero? Olio? Stesso discorso del cotone, e a Vynumeer ci sono un mulino e un frantoio che abbiamo rimesso in funzione io e te assieme, quella notte di undici anni fa».
 
«E la carne, stordita? La carne?» insistette l’altra, con la sua voce vagamente mascolina «Saprai pure tessere, ma non sai andare a caccia, e il risultato si vede. Sembri più una quindicenne adesso di quanto lo sembrassi tre anni fa».
 
«Sembrarlo tre anni fa mi avrebbe fatto comodo» ribatté freddamente la giovane Lusan «Forse avrei evitato di attirare certi tipi di attenzioni più o meno strane da persone più o meno inaspettate».
 
Calida non ribatté, né la guardò più in viso; si limitò a sedersi su un comodo divanetto posto accanto a loro, e a bere in silenzio la tisana di un colore verde simile a quello dei suoi occhi. Anise, dal canto suo, preferì bere la propria restando in piedi.
Per diverso tempo nessuna delle due disse una parola, e quelli della foresta rimasero i soli rumori udibili, insieme a quello sordo prodotto da un piccolo pendolo posato su una mensola.
 
A spezzare il silenzio fu Calida, dopo aver bevuto oltre metà tisana. «Vivi qui da sola in mezzo alla foresta, senza saper cacciare. Permetti che la cosa non mi piaccia?»
 
«Sono qui da due anni, sto benissimo, e me la cavo egregiamente anche con poca carne. Se vuoi proprio portarmi qualcosa, porta le perline di vetro colorato».
 
«Anise, ne hai già un’infinità! Guardati attorno!» esclamò la donna, allargando le braccia «Non ti bastano?»
 
In effetti non aveva tutti i torti: le tende appese alle finestre e all’ingresso di ogni stanza della casa erano fatte con fili di perline di vetro, dai lampadari a olio pendevano drappi di perline di vetro, i centrotavola erano in lana e perline di vetro e, come se tutto ciò non fosse bastato, sulle mensole c’erano diversi contenitori colmi di quelle perline. Perfino la collana che Anise portava quel giorno era fatta di perline di vetro!
 
«No! Non mi bastano».
 
Calida si massaggiò le tempie, con un sospiro. «Vai a mettere a posto la carne che c’è in quel sacco, è già affumicata».
 
Anise posò sul tavolino la tazza di vetro ormai vuota e sollevò un lembo del tappeto colorato che copriva il pavimento, rivelando la presenza di una grossa botola. «Passamelo».
 
L’altra obbedì, e una volta aperta la botola e preso il sacco Anise scese in basso tramite una scala a pioli. Anche quella specie di cantina, come il resto della casa, era piuttosto grande, e lei la sfruttava intelligentemente riponendovi tutto quel che necessitava un luogo più fresco.
La cosa più interessante di quel posto però era una spessa porta di legno al capo opposto della stanza, la quale una volta aperta rivelava l’ingresso di una galleria collegata a quella dei binari, e di conseguenza a Vynumeer. Né Calida né Anise avevano idea di chi tanto tempo prima avesse costruito quella casa e/o chi vi avesse vissuto, ma chiunque fosse avrebbe sempre avuto l’imperitura ammirazione della Lusan più giovane.
 
«Allora, Callie Ulthmeer-a ghekavary» letteralmente, “capo di Ulthmeer” «Che aria tira nella tua cittadina?» le domandò Anise quando, sistemata la carne, tornò al piano terra.
 
Non che le importasse granché del posto in cui era cresciuta, per varie ragioni, ma sapeva che Calida le avrebbe parlato comunque di quel che era accaduto nella cittadina di cui era stata messa a capo due anni prima.
 
«Un po’tesa» ammise Calida «Gli abitanti non si sono ancora tranquillizzati da quando tre giorni fa abbiamo ricevuto una visita inaspettata. Mi credi se ti dico che il Dio della Distruzione in persona, Lord Beerus, si è fatto vedere a Ulthmeer?»
 
Non soltanto Anise le credeva, lo aveva perfino incontrato, ma decise di non rivelarlo: li riteneva fatti propri, neppure di grande importanza. «Davvero? Mi sorprende. Cosa cercava l’Hakaishin in un posto come Ulthmeer?»
 
«Cibo, direi. Mi sembra di averlo anche sentito parlare di un sogno, ma non sono troppo convinta. Quello di cui sono convinta, invece, è che lui e quel tal Whis che lo accompagnava hanno divorato quel che mangerebbero venti persone in un banchetto lungo due settimane» disse la donna, contrariata «Se però fosse stato quello a convincerlo a non distruggere il nostro pianeta, ben venga. Ho sentito Whis definirlo “passibile di distruzione”, ma fortunatamente per noi Lord Beerus era di tutt’altra idea».
 
Anise sollevò un sopracciglio. «Prima mangia a scrocco e poi suggerisce a Lord Beerus di distruggerci? Se passa quello che mangia i simpatici, questo Whis può stare tranquillo».
 
«Io spero solo che non tornino qui mai più. Ho già i miei problemi con la gentaglia di Moriameer: giusto ieri, un paio di gruppetti di Lusan provenienti da lì sono stati colti sul fatto mentre cercavano di bruciare i nostri campi. Sono fortunati che il Trattato tra Città sviluppato dopo l’ultima guerra mi imponesse di rispedirli a casa vivi, o li avrei mandati alla forca» affermò Calida «Invece di limitarmi a far rompere loro le ossa a suon di botte».
 
«Che poi, perché Moriameer e Ulthmeer sono ostili tra loro? O verso Kahzameer, o Thandrumeer, o le altre città che mi vengono in mente? Tutte contro tutte, e non credo che ci sia ancora qualcuno che ricordi la vera origine di questo odio. Su questa parte del pianeta ci sono risorse in abbondanza per accontentare tutti, quindi perché farsi la guerra? Solo gli stupidi si uccidono tra loro senza una vera ragione» commentò Anise «Quindi la stragrande maggioranza della nostra razza dev’essere composta da stupidi. Sai cosa, Calida? Messa così, riesco quasi a comprendere quel “passibile di distruzione”».
 
«Devi smetterla con questi discorsi strampalati» le intimò Calida, alzandosi in piedi «Se adesso ti trovi in questa situazione è dovuto anche a quelli, oltre che alla tua fissa di stare da sola e scappare a Vynumeer appena potevi. Non sai quante volte ho rimpianto di averti portat-»
 
«Oh, Callie, per fortuna che ci sei tu a ricordarmi perché non rimpiango Ulthmeer e i suoi abitanti, e spero di poter evitare vita natural durante di scendere di nuovo in città. Una manica d’invertebrati superstiziosi, ecco cosa siete: sì, tu inclusa. Da giovane eri più sveglia su questo punto, mentre ora, a trentaquattro anni suonati, anche tu ti fai spaventare dall’acqua calda di un lago».
 
«Continua pura a ridere di noi, se vuoi. Le conseguenze, tutte le conseguenze, sono affar tuo!» ribatté Calida «Me ne vado. Ci vediamo la settimana prossima, Anise».
 
«Niente carne, ma perline di vetro» rispose la giovane «Quando riuscirò a rimettere in funzione la vetreria di Vynumeer, non te le chiederò più. Ah, Calida!» la bloccò «Di’, in uno dei sacchi ci sono o no delle bottiglie di vino?»
 
«No. Lo reggi peggio di chiunque altro conosca».
 
«Di due cose che vorrei, non me ne porti neppure mezza» sospirò Anise «Giuro che prima o poi riuscirò a far crescere delle viti, qui o a Vynumeer, e a quel punto berrò una botte intera di vino. Non guardarmi in quel modo, sto scherzando».
 
«Bere troppo vino porta al coma etilico, poi alla morte» le ricordò Calida, con fare severo.
 
«Bolory pet’ke bàsaich, Callie: “tutti dobbiamo morire”» replicò l’altra, con uno strano sorriso.
 
La Lusan più grande scosse la testa. «Stando qui da sola il tuo male di vivere peggiora, invece di migliorare. Ogni tanto ho paura di venire qui e non trovarti, o di trovarti, ma morta».
 
Scorgendo sincera preoccupazione nello sguardo della sorella, quello di Anise si ammorbidì. «Parlo di morte, ma non la cerco. Ci vediamo la prossima settimana».
 
Un ultimo sguardo e Calida se ne andò, facendo scricchiolare il pavimento sotto il suo peso.
 
Anise chiuse la porta alle sue spalle, sentendosi colpevole del senso di sollievo provato: Calida era l’unica famiglia che avesse mai avuto, dunque le voleva bene, ma da tre anni a quella parte c’erano stati dei momenti -non durante quell’incontro- in cui le loro interazioni avevano assunto sfumature che non le erano piaciute troppo.
 
«O beh… direi che sia ora di fare qualcosa di utile» sentenziò Anise, passando nella stanza accanto per agguantare un lavoro a maglia lasciato a metà -precisamente una coperta di lana per la futura stagione fredda.
 
Per il resto della giornata, non pensò più ad altri che se stessa.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
“Devo trovare un modo per risolvere questa cosa. Mi sembra di star diventando pazzo!”
 
Lord Beerus aveva provato una simile sensazione solo un’altra volta nell’arco della sua breve vita, ossia quando aveva assaggiato le praline del pianeta Swetts, quelle deliziose, inimitabili, meravigliose praline che superavano in bontà perfino i frutti puff-puff. Ricordava di averle avute in mente per giorni e giorni, dal mattino fino alla sera, arrivando perfino a sognarle di notte: ecco, al momento era nelle stesse condizioni, con la differenza che la causa di tutto era quella ragazza.
 
Non avrebbe mai creduto che un giorno il suo desiderio di rivedere qualcuno sarebbe stato forte quanto quello di mangiare le praline del pianeta Swetts.
 
“Come posso fare? Come?” pensò, rigirandosi nel letto per l’ennesima volta in quella notte che a lui sembrava non voler finire mai “Se dicessi a Whis di portarmi ancora su quel pianeta con la scusa dei frutti dovremmo cercarli, e io non ho idea di dove accidenti li abbia trovati Anise, quindi non saprei che pesci pigliare; provare a convincerlo a non seguirmi nella foresta sarebbe inutile, di certo non mi lascerebbe andare da solo, temendo che trovi frutti ancora più buoni e non li condivida con lui; infine, parlargli di lei sarebbe il modo per non rivedere mai più quel pianeta” rifletté amaramente “Tralasciando il fatto che mi sembra prematuro, so per certo che Whis non sarebbe felice che io vada a incontrare una ragazza per motivi diversi dal sesso, e se mentissi dicendogli di volerla incontrare per una simile ragione mi direbbe che per quello ci sono già le signorine da cui mi porta di solito”.
 
Per quanto potesse pensarci su, non trovava un modo per incontrarla che comprendesse il farsi portare lì da Whis. Perché, perché lui e Champa non erano nati con qualche mese d’anticipo?! In quel caso Whis sarebbe già stato il suo attendente, avrebbe dovuto portarlo sul pianeta dei Lusan senza “se” e senza “ma”, e avrebbe anche dovuto accettare
senza fare tante storie che volesse incontrarsi con lei.
Peccato che non sarebbe stato così ancora per un pezzo, e lui dovesse ingegnarsi. Quel desiderio di rivederla, di parlarle e trascorrere del tempo insieme a lei per poterla conoscere non sembrava avere intenzione di scemare. Se mai il contrario!
 
“Assodato che non posso farmi portare lì da Whis, dovrei partire da solo. Posso sopravvivere nello spazio aperto, e se riuscissi a percepire la sua aura come ho fatto quella sera dovrei riuscire a trovare il suo pianeta senza perdermi” si disse “Anche se è lontano, praticamente al confine col sesto Universo. Già! Quanto mi ci vorrebbe per raggiungerlo? Calcolando che a Whis sono servite due ore, e la mia velocità massima è tre quarti della sua…”
 
Tre ore e mezza.

Tre benedette ore e mezza, quella era la risposta al suo quesito.

 
“E io per rivederla dovrei viaggiare da solo? Per tutto quel tempo?!” si disperò il dio, lasciandosi sfuggire un flebile lamento “Ma perché il suo pianeta non poteva essere un po’più vicino?! È lontano quanto il pianeta Swetts!”
 
Un momento! Anche il pianeta Sweets era al confine con l’Universo Sei, e non distava neppure troppo da quello in cui doveva andare: la stima era tra i cinque/sette minuti di distanza l’uno dall’altro, più o meno.
 
“Quindi se andassi da lei potrei anche fare un salto su Swetts e fare il pieno di frutti puff puff e praline” pensò, mentre un sogghigno iniziava a dispiegarsi lentamente sul suo volto “Senza che Whis ne sappia nulla, il che rende tutto ancor più allettante!”
 
Il sogghigno scomparve, mentre si rendeva conto che c’era un problema ancor più grande delle ore di viaggio: come avrebbe fatto a fuggire senza che Whis se ne avvedesse?
 
«Possibile che risolto un problema se ne presenti subito un altro?!» gemette, imbozzolandosi nelle coperte -o meglio, nella coperta che gli era stata regalata da Anise.
 
Coperta.
Coperte, lenzuola…
 
“Aspetta. Aspetta- aspetta- aspetta… forse ci sono!” pensò, esultante “Il cambio delle lenzuola!”
 
Riordinò e sistemò l’idea che gli era venuta in mente, iniziando a pensare che potesse funzionare davvero.
 
Per prima cosa, l’indomani stesso avrebbe chiesto a Whis di cambiare le sue lenzuola solo una volta alla settimana. Sarebbe stato un sacrificio, abituato com’era ad averne di nuove ogni santo giorno, ma perché il piano andasse in porto avrebbe fatto anche questo.
Nei tre giorni che mancavano alla fine di quella settimana, e in tutto l’arco della successiva, si sarebbe comportato normalmente, perché nulla avrebbe dovuto far sospettare al maestro Whis che la richiesta fatta fosse dovuta a qualcosa più di un semplice capriccio.
In quei dieci giorni si sarebbe allenato più duramente del solito -anche nella speranza che ciò lo aiutasse a placare almeno un po’ l’urgenza del suo desiderio di rivedere Anise-, giustificando così la successiva richiesta di poter dormire per sette giorni interi.
In quel frangente avrebbe chiesto a Whis anche di cambiare le lenzuola, così da averle pulite: in tal modo, il suo maestro non sarebbe rientrato nella sua stanza prima di una settimana… e non avrebbe notato la sua assenza.
 
“Posso lasciare un cuscino sotto le coperte per sicurezza, ma poi sarà fatta. Sapendomi a dormire non avrebbe ragione di localizzare la mia aura, non dovrebbe accorgersi di nulla, e io avrò almeno cinque giorni pieni da poter passare sul pianeta dei Lusan. Ci andrò, dovessi anche passare le notti in quel posto inquietante dal nome strano!”
 
Sorrise, soddisfatto di aver trovato una soluzione e fiero della propria intelligenza, e finalmente sentì il sonno iniziare a coglierlo.
 
“Potrei passare su Swetts prima di andare da lei. Mi ha portato dei frutti, quindi gliene porterò anche io. I frutti puff puff non mancano mai” pensò “O magari porterò le praline, o entrambe le cose. Farò così: prenderò due sacchi, terrò da parte venti puff puff e venti praline per lei, e il resto sarà la mia scorta per quei cinque giorni!” concluse.
 
Un’insinuazione velenosa del suo stesso cervello gli fece spalancare gli occhi, prosciugando la soddisfazione provata fino a quel momento: “Forse lei non ha tanta voglia di rivedere l’Hakaishin di questo Universo. Quella sera potrebbe non averti mandato via solo perché temeva di essere distrutta, non perché apprezzava davvero la tua compagnia”.
 
Beerus era stato cresciuto da Whis come un Hakaishin, conscio del proprio ruolo e delle relative conseguenze che aveva imparato ad accettare e sostenere egregiamente; però restava sempre un ragazzo di diciotto anni a cui, in quel caso, non sarebbe dispiaciuto vivere più tranquillamente il proprio interesse verso una ragazza mortale.
 
 
 
“Di rado gli Hakaishin riescono ad avere accanto qualcun altro, oltre ai loro maestri e attendenti. Molte persone non comprendono il loro ruolo, e non riescono a far altro che averne paura; altre, desiderose di privilegi e ricchezza, vi si avvicinano solo per interesse -e capisci anche tu che ciò non porta a nulla di buono; altre ancora, invece, riescono a superare la paura in virtù dei sentimenti provati… ma a lungo andare trovano insostenibile la quantità di sangue sulle mani del partner, e questo è uno dei finali più dolorosi. Nella tua posizione, Beerus, si dev’essere molto fortunati per trovare qualcuno, e per come la penso sarebbe una fortuna solo secondo certi punti di vista”.
 
 
 
Scacciò dai propri pensieri il discorso che Whis gli aveva fatto tempo addietro. Al momento voleva solo conoscere meglio quella ragazza, perché aveva già in mente certi discorsi, applicabili a una relazione?
Anche farsi tanti problemi era prematuro.
Si impose di svuotare la mente, cercare di dormire per davvero, e limitarsi a gestire una cosa alla volta a seconda di come si sarebbe messa la situazione. Era la cosa migliore che potesse fare.
 
 
 


 
Secondo capitolo: c'è.
A voi eventuali commenti (:

 
Vi lascio un disegno di Calida. Probabilmente non è quel che avreste voluto vedere, ma andava fatto ugualmente :"D


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Capitolo 3
*** 3 ***


RMI 3
3
 
 
 




 
 
 
 
“Devo chiedere al maestro Whis di focalizzare gli allenamenti sulla percezione dell’aura altrui, perché non posso continuare così!”
 
Erano ormai venti minuti che Lord Beerus stava girovagando invano nella foresta, in cerca di una Lusan che non riusciva proprio a trovare. Doveva essere vicina, per forza, perché l’aveva localizzata lì quando era ancora nella mesosfera del pianeta; peccato che poi si fosse messo a pensare ai frutti della volta precedente, avesse perso la concentrazione, e ora fosse talmente irritato per quel fatto da non riuscire a ritrovarne abbastanza per tornare a percepire l’aura di Anise.
 
«Che nervi» borbottò «Non potevi essere in città con gli altri Lusan, o in quel paese fantasma che mi piace poco? Dovevi proprio trovarti nel bel mezzo della foresta?!»
 
Le sue orecchie captarono il rumore dello scorrere di un fiume, che quando Beerus si avvicinò capì essere il fiume, quello dell’altra volta: aveva riconosciuto il tronco cavo coperto di muschio.
Aver trovato un punto di riferimento era già qualcosa, perché se c'era il tronco allora anche l’altalena non era lontana.
 
“Sì, ma chi mi dice che se ne stia lì a oscillare tutto il giorno? O ancora, che decida di andarci anche oggi? Potrei finire ad aspettarla inutilmente per ore, e non è proprio il caso. Le cose sono due: cercare di nuovo di percepire la sua aura, o cercare casa sua. Se io dovessi tirare su una casa nella foresta, avrei mille ragioni per costruirla abbastanza vicina a un fiume” rifletté “Forse dovrei provare a vedere se ce n’è una vicina a questo E all’altalena”.
 
Gli parve una decisione sensata, per cui decise di continuare a seguire il corso d’acqua. Per fortuna gli allenamenti, nonché la forza e l’agilità posseduti di natura, rendevano semplice camminare lungo quelle vie impervie… anche con le spalle gravate dal peso di due grossi sacchi, uno colmo di praline, l’altro di frutti puff-puff. Prima di arrivare a destinazione aveva fatto tappa a Swetts, proprio come aveva deciso.
 
«Sarebbe il colmo se dopo essere riuscito a farla al maestro sprecassi una giornata o più senza trovarla» disse tra sé e sé.
 
Fino a quando non aveva perso le tracce dell’aura di Anise si era sentito fiero della propria abilità e la propria astuzia, ma ormai tutta quella soddisfazione si era dissolta, e il suo buonumore si disgregava sempre più a ogni passo. La pazienza non era tra le virtù di Beerus, e quando c’era di mezzo una voglia di qualcosa -che fosse di cibo o, in quel caso, di vedere qualcuno- lo era ancor meno del solito.
 
«Ma se io adesso distruggessi tutti gli alberi?» cominciò a borbottare «Almeno vedere la casa sarebbe più semplice! Un momento: cos’è questo odore?»
 
Gli alberi della foresta trasformavano le raffiche di vento in una leggera brezza, ma quest’ultima era stata sufficiente per far arrivare alle sensibilissime narici del dio due profumi distinti: uno sembrava quello del bucato pulito, mentre l’altro...
 
“Sembra odore di dolci, anzi, lo è senz’altro! Per la precisione dolci con qualcosa” aggiunse, annusando l’aria “Direi che sia…”
 
 
“La vostra vita da regina dev’essere dura, maestà! Con tutte queste persone di cui occuparsi…”
“Lo è, soprattutto quando hanno voglia di biscotti alla cannella e in casa non ce n’è neppure un grammo”.
 
 
«Cannella!... CANNELLA!» esultò l’Hakaishin, lanciandosi di corsa in direzione di quel profumo « CANNELLAAAAAA!»
 
Non aveva dubbi: grazie ai biscotti alla cannella, l’aveva trovata.
   


 
 

 
 

«… CANNELLAAAAAA!»

 
Anise osservò il bosco, alquanto confusa.
Era intenta a stendere il bucato su un filo appeso tra un albero e un altro, quando le era sembrato di sentire qualcuno urlare qualcosa a una distanza relativamente breve rispetto al punto in cui si trovava lei. La prima volta non aveva capito di cosa si trattasse, forse troppo sorpresa per la presenza nella foresta di un essere in grado di parlare che non fosse lei stessa, ma dalla seconda in poi non aveva avuto più dubbi.
 
“Quale cretino si aggirerebbe mai nella foresta urlando ‘cannella’? E perché, poi?” si chiese la ragazza sollevando le sopracciglia in un’espressione di immensa perplessità “Il peggio è che pare proprio avvicinarsi a casa mia. Forse faccio meglio a rientrare e chiudermi in cantina”.
 
Posò a terra il cesto di vimini coi rimanenti dei panni da stendere, ma non fece in tempo a fare altro perché, con sua somma sorpresa, Lord Beerus saltò fuori da un cespuglio a meno di venti metri di distanza da lei.
 
“Lui, qui?” pensò la lince, alquanto sorpresa. Non si sarebbe aspettata di incontrare ancora il Dio della Distruzione, soprattutto di vederlo vicino a casa propria, e tantomeno intento a trasportare due sacchi contenenti chissà cosa.
 
Lo vide guardarsi attorno con fare concitato, fino a quando il suo sguardo si posò si di lei; a quel punto sul volto del dio comparve un gran sorriso, e lasciò cadere a terra entrambi i sacchi.
 
«Cannella!» esclamò, indicandola.
 
«Veramente mi chiamo Anise» fu la prima risposta che le venne in mente, un po’anche per la sorpresa che ancora perdurava.
 
Beerus le si avvicinò di qualche passo. «Giravo nella foresta da venti minuti poi ho sentito l’odore di dolci alla cannella e mi sono ricordato che avevi parlato di biscotti alla cannella e che quindi ti piace la cannella e-» si fermò, riprese fiato e schiarì la voce, ritrovando un minimo di contegno; non che fosse molto utile ormai, pensò con una certa desolazione, visto che la figura da idiota era già stata fatta. «Ciao. Di solito non sembro tanto scemo».
 
Ecco chi era il cretino urlante: un cretino divino, che però al momento le sembrava più che altro “carino”, dal momento che si era ricordato quella sua frase buttata lì riguardo i biscotti alla cannella. «Ciao! Mi sorprende che tu sia qui, ma meglio tu di un pazzo scatenato che ce l’ha con la cannella. Di nuovo in cerca di frutti?»
 
La risposta sincera sarebbe stata “No, cercavo proprio te, perché da ben dieci giorni avevo una voglia immensa di rivederti”, ma Beerus si disse che non sarebbe stata molto dignitosa. «No. Sì. Più o meno» fece facepalm «Non so perché mi sto comportando in questa maniera, di solito non faccio così».
 
«Non c’è motivo di essere agitato. Mi fa piacere rivederti» disse lei, senza mentire.
 
Quelle ultime quattro parole furono sufficienti a calmare l’Hakaishin, che sorrise. «Io… bene. Ne sono lieto. Rispondendo alla tua domanda di prima, trovare i frutti dell’altra volta non mi dispiacerebbe, ma non è quello il motivo che mi ha portato qui» le confessò «O almeno, non è il motivo principale».
 
Anise avrebbe voluto chiedergli quale fosse quest’ultimo, ma poi concluse che avrebbe solo finito col metterlo in imbarazzo, cosa che voleva evitare. Riteneva di aver intuito cosa l’avesse portato lì, perché anche in quel frangente l’atteggiamento di Beerus le stava inviando segnali piuttosto chiari, ma stentava ancora a credere di poter aver suscitato l’interesse di un dio. Un interesse di certo superficiale, passeggero, qualcosa di cui lui si sarebbe stufato in fretta -era una divinità immortale che girava per l’Universo, in fondo- ma che sempre interesse era. «Capisco. Devo dedurre che quindi anche il tuo maestro sia qui in giro? Non ti avrà abbandonato ancora, spero!»
 
«Eh… a dire il vero potrei essere più o meno scappato via dal mio pianeta. Da casa mia, insomma» aggiunse Beerus «Ed essere venuto qui in volo. Quindi no, il maestro Whis non c’è».
 
Il Dio della Distruzione era fuggito di casa per venire sul suo pianeta! Quella era sicuramente la cosa più assurda di tutte. Anise si augurava soltanto di non finire in qualche guaio causato dall’Hakaishin o dal suo maestro, che in quanto tale doveva per forza essere più forte di Beerus. «Facciamo così: ora prendi quei sacchi, vieni in casa, e mentre facciamo merenda mi spieghi cosa significa quel “più o meno scappato”. Ti va l’idea?»
 
«Sì! Certo!» esclamò Beerus, recuperando i sacchi. Forse le cose non erano iniziate come aveva sperato, ma sembravano procedere nella giusta direzione.
 
«Ottimo. Mangeremo i biscotti alla cannella, come già sai».
 
Solo in quel momento, guardandosi attorno, Beerus fece caso a particolari che prima non aveva notato affatto: i rami degli alberi più bassi e più vicini alla casa erano stati decorati con fili di perline di vetro, e su ceppi di alberi tagliati chissà quanti anni prima erano stati posati cristalli colorati cui lui non sapeva dare un nome.
Incuriosito, il dio si avvicinò a un ceppo su cui erano stati messi sette grossi cristalli prismatici dalle sfumature verdi e viola, disposti in un cerchio, attorno al quale era stata incisa una serie di strani simboli. «Di’, tu sei per caso una strega o cose del genere?»

 
«Ovvio che sono una strega» rispose Anise, con la massima tranquillità.
 
«Ah… davvero?» si stupì Beerus, che non si aspettava proprio di avere a che fare con una di esse.
 
«Certo! Ecco perché vivo da sola nella foresta e frequento spaventosi villaggi fantasma. I miei incantesimi sono potentissimi, e sai qual è che mi riesce meglio?»
 
«Quale?»
 
«Trasformare le divinità in grosse bacche rotonde di colore rosato. Ti ricorda qualcosa?» gli chiese, per poi ridere di cuore vedendo l’espressione del dio. «Beerus, sto scherzando! Non sono in grado di fare incantesimi. Se mai la magia ha abitato questo pianeta, è morta molto tempo fa. Quei cristalli sono lì perché allontanano la negatività, e perché mi piacciono. Dai, andiamo in casa».
 
Beerus fu tentato di ricambiare lo scherzetto che lei gli aveva fatto, dandosi dello sciocco per aver dimenticato che in ogni caso la magia dei mortali non aveva mai effetto su un Hakaishin, ma la tentazione svanì in fretta: desiderava che Anise si sentisse a proprio agio con lui, e se lo era abbastanza da scherzare tranquillamente, meglio così. «Anche in casa hai tanti cristalli e perline di vetro?»
 
«Giudicherai tu».
 
Beerus la seguì all’interno della casa. Era carina, il rivestimento in legno delle pareti la rendeva calda e accogliente… e soprattutto, ovunque guardasse c’erano cristalli, piccoli fasci di erbe e fiori profumati, bottiglie e bottigliette più o meno piene di chissà cosa, e perline di vetro. Tante perline. Troppe!
 
«Allora, Beerus?»
 
«Mi avevano affidato un caso molto bizzarro su cui investigare: il rapimento di tutte le perline di vetro dell’Universo. Oserei dire di averlo risolto! L’investiGattore Beerus colpisce ancora!»
 
No, si disse Anise, lei aveva sicuramente capito male: non poteva averlo detto davvero.
Non poteva.
… E invece sì, lo aveva detto davvero.
 
«“InvestiGattore”» ripeté lei.
 
«Sì!»
 
Per la seconda volta nell’arco di poco tempo, la ragazza rise. Per Beerus fu bello, al punto da far sorridere anche lui.
 
«Puoi accomodarti dove vuoi, investiGattore» lo invitò «Sedie, divanetti, poltroncine, qui i posti non mancano. Fa abbastanza ridere, considerando il numero di persone che viene a trovarmi» commentò, spostando i biscotti dal davanzale della finestra al tavolo «Io faccio degli infusi. Hai preferenze particolari per il gusto?»
 
«No, se si tratta di assaggiare cose nuove sono un tipo curioso, quindi mi fido» rispose lui accomodandosi su una poltroncina beige, munita anche di
una coperta e due cuscini rivestiti di lana.
 
«Ottimo. Nel frattempo spiegami com’è che sei “più o meno” scappato di casa, perché non mi è molto chiaro» disse lei, mentre metteva a bollire l’acqua «O scappi, o non scappi».
 
«Sono scappato, però il mio maestro non lo sa» le spiegò «Lui pensa che io stia dormendo, e che lo farò per una settimana. Nei giorni precedenti mi sono allenato molto duramente, quindi mi ha detto di sì quando ho chiesto il permesso. Non si accorgerà che non ci sono, non dovendo cambiare le mie lenzuola non ha motivo di entrare nella mia stanza, e nemmeno di localizzare la mia aura, perché sa che io sono lì, per l’appunto!... e nel frattempo, io resterò su questo pianeta».
 
“Tralasciando il dormire per una settimana intera e la questione dell’aura, mi sta dicendo che a diciotto anni si fa ancora cambiare le lenzuola dal suo maestro?” pensò la lince, un po’perplessa. «In tutto questo discorso ci sono un paio di punti da chiarire, ma ne parleremo dopo. Dove intendi dormire?»
 
«Non so. Nella cittadina dove sei cresciuta tu, magari, o da qualche altra parte. Anche il villaggio fantasma mi andrebbe bene, se sua maestà me lo consente. Posso trovare tranquillamente un posto dove stare» rispose Beerus.
 
«D’accordo, se le cose stanno così allora non mi preoccupo. Intendi venire a trovarmi altre volte, in questi giorni?» gli chiese, e sorrise.
 
«Se alla strega non dispiace, direi di sì» rispose lui.
 
«Puoi stare tranquillo sul fatto che non ti trasformerò in un frutto».
 
Qualche minuto dopo bevvero i loro infusi e, una volta aggiunto lo zucchero, Beerus apprezzò molto il proprio. Quando Anise chiese delucidazioni sulla questione di aure e dormite lunghe, non si fece alcun problema a risponderle: la percezione delle aure consentiva di localizzare una persona anche a grande distanza, nonché conoscerne livello di potenza e stato di salute, mentre fare pisolini di almeno tre giorni era prerogativa della sua specie, che si era accentuata quando aveva ottenuto lo status di divinità.
 
«Quindi tu non sei nato dio, eri un mortale come me» si sorprese la ragazza.
 
«A nascere divini sono i Kaioshin, che appartengono tutti alla stessa razza» le rivelò Beerus «Anche negli altri Universi. Gli Hakaishin invece vengono sempre scelti tra i mortali, e infatti non ce n’è uno che sia simile all’altro, di solito. Io e il mio gemello Champa, Hakaishin del sesto Universo, costituiamo un’eccezione. A dirla tutta io costituisco un’eccezione anche per l’età in cui il maestro Whis mi ha preso con sé: avevo poco più di quattro anni, e lui non aveva mai addestrato qualcuno così giovane. La maestra di Champa invece lo aveva già fatto,  è più vecchia di Whis, e ha addestrato più Hakaishin».
 
«Quel che mi hai detto è molto interessante, e tu e Champa dovevate essere incredibili già da piccoli, se siete stati scelti entrambi come Hakaishin. A proposito: siete gemelli omozigoti?»
 
«In teoria sì, in pratica io mi sono preso tutta la bellezza disponibile!» rispose “gentilmente” Beerus «E anche buona parte dell’intelligenza».
 
«Nonché della modestia» commentò la Lusan «Non andate troppo d’accordo, vero?»
 
«È rompiscatole per quanto è grasso. Io non lo invito mai sul mio pianeta, ma lui viene sempre a casa mia a propormi questa o quella sfida, che finisce immancabilmente col perdere» disse il dio, alzando gli occhi al soffitto «È testardo e non impara mai la lezione… ma almeno posso ridere dei suoi tentativi falliti».
 
«Magari vorrebbe un po’di attenzione da te» ipotizzò Anise «Tu non gliene dai, quindi lui cerca di ottenerla rompendoti le scatole; se poi lo prendi in giro, forse continua a sfidarti sperando di vincere e ottenere così un minimo di stima da parte tua. Secondo me tra fratelli si dovrebbe cercare di andare d’accordo,  a meno di casi estremi che lo rendano proprio impossibile. Parlo così con cognizione di causa, perché a Ulthmeer ho una sorella, e neppure lei ha il carattere più facile del mondo».
 
«Capisco quel che vuoi dire, ma se parli con cognizione di causa allora sai anche quanto
possa essere complicato andare d’accordo » replicò Beerus, evitando di pensare al fatto che sì, era complicato, ma lui non ci provava neppure. «Una sorella a Ulthmeer… ho visto Lusan bianche, ma non mi sembra di ricordarne una che ti somigli».
 
«Calida. Pelo beige, capelli corti e neri, occhi verdi, stazza di un armadio a due ante. Di muscoli, non di ciccia» specificò.
 
«Cooome?! QUELLA?!» allibì Beerus «Me la ricordo, ma non avrei mai detto… aspetta, ma allora tua sorella è a capo della cittadina!»
 
Anise annuì. «Calida Ulthmeer-a ghekavary, già. Beerus, tu però non mi hai detto una cosa…»
 
«“Una cosa”».
 
La ragazza fece facepalm, sebbene divertita anche da quell’uscita infelice. «Non mi hai detto se ti sono piaciuti i miei biscotti».
 
«Certo che mi sono piaciuti, moltissimo» affermò il dio «Per curiosità, che tipo di farina hai usato? La consistenza mi sembrava diversa da quella dei biscotti che ho mangiato a Ulthmeer».
 
«La mia. Nel senso, quella che produco io con il mulino di Vynumeer. Mi procuro da sola tutto quello che posso: gli ingredienti per il cibo, le erbe per le tisane, materiali da costruzione e per le riparazioni» indicò le pareti con un gesto vago «O fibre tessili. La lana per quei cuscini su cui sei seduto viene da animali che girano nei dintorni di Vynumeer. Mi conoscono, quindi si lasciano tosare, nonché mungere, ma quella è un’altra storia» concluse «O beh, immagino che a un dio tutto questo sembri ridicolo, noioso o simili. Posso capire se-»
 
«No. Davvero, no» la interruppe Beerus «C’è il maestro Whis che fa tutte le cose al posto mio perché è un suo compito, questo è vero, ma quel che mi hai detto non è né ridicolo né noioso, te l’assicuro. Che diamine, se io sapessi almeno cucinare Whis non potrebbe più minacciare di farmi saltare i pasti se non gli do retta!... cosa che potrebbe accadere, se scoprisse che sono qui. Potrebbe accadere anche di peggio» aggiunse, con aria vagamente allarmata.
 
«Questo pianeta deve proprio sembrargli orribile» osservò lei.
 
«Non è per questo. Il fatto è che io, in quanto Hakaishin, non potrei viaggiare per il cosmo senza di lui» le spiegò «Quel che ho fatto va contro le regole, ma non potevo agire altrimenti. Il tuo pianeta non gli sembra orribile, ma non mi ci avrebbe portato, non per  i motivi che mi hanno spinto a venire qui. Non li avrebbe approvati, e forse non li capirebbe neppure. Anche in futuro dovrò scappare ancora, e lo farò, appena potrò».
 
I mesi che sarebbero seguiti non si prospettavano rosei, ma al momento Lord Beerus era decisissimo a tornare su quel pianeta a qualunque costo. Non gli importava delle tre ore e mezza di viaggio, non gli importava delle dormite perse, né la prospettiva di poter essere scoperto dal suo maestro era un deterrente abbastanza forte. E poi, lì vicino c’era anche il pianeta Swetts!
Si trattava di resistere solo per qualche mese, poi il suo maestro avrebbe dovuto obbedirgli, portarlo lì che gli piacesse o no, e a quel punto sarebbe stato tutto più facile.
 
«Beerus, questo è... imprudente» disse Anise «Non voglio che ti metta nei guai col tuo maestro solo per venire qui, non sarebbe giusto. Questo pianeta di linci che litigano non vale i potenziali problemi che potresti avere».
 
Il volto dell’Hakaishin divenne estremamente serio. «Anise, la mia domanda è una sola: vorresti rivedermi sì o no?»
 
La risposta sincera era “sì”. Era strano, quasi assurdo se Anise pensava a quanto avesse sempre preferito la solitudine, ma la compagnia di quella divinità scombinata alla ricerca di frutta e arrabbiata con la cannella le piaceva davvero. Aveva riso più in quel poco tempo che aveva passato con lui, di quanto avesse fatto da tre anni a quella parte. Si conoscevano ancora poco, ma l’ “alchimia” tra due persone era qualcosa che si avvertiva subito, quando presente, e nel loro caso era presente.
Peccato che non contasse, non se c’erano di mezzo regole più grandi di entrambi. «Quel che voglio è che tu non ti metta nei guai, te l’ho già detto».
 
«Ai miei eventuali guai penserò io. La mia domanda era un’altra: sì, o no?»
 
Se avesse risposto onestamente lo avrebbe messo a rischio, se invece avesse mentito c’era una possibilità di far arrabbiare quello che era sempre un Dio della Distruzione; c’erano pro e contro da entrambe le parti, e alla fine la ragazza optò per la sincerità. «Mi piacerebbe, sì».
 
«Allora è deciso» concluse Beerus.
 
«Magari la prossima volta parti più leggero. Quei sacchi dovevano essere un bell’impiccio!»
 
«Giusto, i sacchi del pianeta Swetts!» esclamò il dio, correndo ad aprirli «Ti avevo portato delle cose da farti assaggiare. Ecco» prese una grossa manciata di praline, una equivalente di frutti puff-puff, e le mise entrambe sopra il tavolo «Questi sono per te».
 
«Grazie! Hai avuto un bel pensiero» sorrise lei «Ma una divinità non dovrebbe farsi portare i dolci, piuttosto che portarli ad altri?»
 
«Una divinità, in quanto tale, fa quel che le pare» dichiarò Beerus, sorridendo anch’egli.
 
Anise assaggiò una pralina, e il fu sapore tanto squisito da farle spalancare gli occhi azzurro scuro. «Sono deliziose! Se si tratta di cibo, hai ottimi gusti» si complimentò, per poi passare ad assaggiare un frutto «E questo non è da meno. Hai detto che vengono da un pianeta di nome Swetts?»
 
«Esatto» confermò lui, felice di vedere apprezzato il suo dono «È pieno di delizie simili, e alla velocità cui vado io è a soli dieci minuti di distanza da qui».
 
«Tornando altre volte allora hai la possibilità di andare anche su Swetts. A tal proposito, quanto tempo hai viaggiato per arrivare qui?» gli domandò la lince «Il tuo pianeta dista molto dal mio?»
 
«Un pochino. Siamo al confine con l’Universo Sei, per cui diciamo che da qui a casa mia potrebbe esserci più o meno metà Universo Sette in mezzo, ma non importa» fece spallucce «Non rischio di stancarmi durante il viaggio».
 
«Hai viaggiato da solo per mezzo Universo soltanto per venire su questo pianeta?»
 
«Sì, ma non mi pento di nulla. Sai cosa? Un giorno ti farò viaggiare insieme a me!» esclamò Beerus, profondamente convinto di quel che stava dicendo «Come prima tappa ti porterò su Swetts, e poi… non so, ovunque mi verrà in mente. C’è così tanto da scoprire, là fuori» indicò il cielo fuori dalla finestra «Questo discorso non vale solo per te, ma anche per me: siamo giovani, e l’Universo è immenso. Vedremo cose che probabilmente non immaginiamo neanche».
 
“Seeeh, come no. Si stancherà molto prima, soprattutto con tutti questi problemi di lontananza e maestri contrari” pensò Anise “Devo riconoscere che è talmente entusiasta che fa venire voglia di credergli, però è logico che le sue parole lascino il tempo che trovano”. «Già. L’Universo è immenso davvero, in fin dei conti… a cosa stai pensando?»
 
«Voi Lusan non volate, vero?» le chiese l’Hakaishin «Neppure con qualche veicolo».
 
«Purtroppo è così» confermò la ragazza «Se pensassimo più a svilupparci e meno a litigare probabilmente sarebbe diverso. Come mai questa domanda?»
 
«Io posso farti volare. Vuoi vedere com’è la tua foresta dall’alto?»
 
Per una volta, una delle poche in tutta la sua breve vita di diciottenne, Anise rispose senza riflettere, guidata solo dal desiderio di fare un’esperienza che mai avrebbe pensato di poter vivere. «».
 
«Bene!» sorrise Beerus «Allora andiamo».
 
«Però prima metto un poncho, se mai lassù dovesse fare freddo» disse la ragazza, e ne recuperò uno color beige buttato su una sedia vicina «Ecco».
 
Usciti di casa, Beerus la invitò a salire sulla sua schiena. «Metti le braccia attorno al mio collo, io ti tengo qui, sotto le ginocchia…ecco, esatto. Siamo pronti! Tranquilla, giuro che non ti farò cadere».
 
«Non l’ho mai pensato».
 
Il decollo non fu brusco, dal momento che Beerus non voleva spaventarla in alcun modo, e iniziò a salire di quota più velocemente solo una volta toccati i cinque metri di altezza dal suolo. Non poteva vedere il viso della ragazza, ma per quanto la stretta delle sue braccia fosse salda non la sentì mai irrigidirsi per la paura o la tensione, ed era senz’altro positivo.
Arrivato a svariate centinaia di metri d’altezza da terra, decise di fermarsi. «Ecco. Che effetto ti fa?» le chiese, sentendo i battiti del suo cuore accelerare «Ti spaventa?»
 
Spaventarla? Come avrebbe potuto?
Volava sopra gruppi di nuvole candide che quel giorno erano piuttosto basse, e stava guardando una distesa di verde sterminata, circondata e inframezzata da montagne e fiumi; riusciva a vedere più in lontananza i campi coltivati di varie sementi, somiglianti a un insieme di piastrelle dai colori caldi; stava vedendo la cittadina di Ulthmeer, che da lassù sembrava piccolissima, neppure fosse stata composta di casette giocattolo, e per la vicina Moriameer valeva lo stesso discorso.
Piccole case, abitate da piccole persone, con le loro piccole abitudini e le loro piccole opinioni: nulla che potesse raggiungerla, nulla che potesse avere anche solo un minuscolo grammo di importanza, non lassù.
Non ricordava di aver mai provato un tale senso di libertà in tutta la sua vita, di essersi mai sentita così serena o di essere stata così bene. Per lei era meraviglioso, al punto da non infastidirsi neppure sentendo una lacrima di commozione scivolare lungo la sua guancia.
 
«Provo tante cose, Beerus, ma non paura. È bellissimo».
 
«Mi fa piacere sentirlo» disse, molto soddisfatto: voleva impressionarla, e ci era riuscito. «Dove vuoi che ti porti? Basta che tu me lo dica e in un battito di ciglia saremo all’altro capo del pianeta. Posso farlo davvero, sai, sono un dio!»
 
«Io… in effetti ho sempre avuto un desiderio. Ricordo che quando ero piccola c’erano dei Lusan molto vecchi che raccontavano di una distesa d’acqua salata di cui non si vede la fine, lontana da qui, in quella direzione» indicò un punto a est «Né io né gli altri sappiamo se sia vero, perché per una ragione o l’altra non ci siamo mai mossi da Ulthmeer, la foresta e dintorni. Mi piacerebbe sapere se c’è oppure no».
 
«Non so se sia salata, ma l’acqua c’è eccome. L’ho vista mentre mi avvicinavo al pianeta» le rivelò «A questo punto direi che la nostra destinazione sia decisa. Reggiti forte!»
 
Anise non se lo fece ripetere, e per fortuna! La velocità con cui Beerus era partito stavolta era tale da costringerla a chiudere gli occhi a causa del vento.

Un attimo dopo, lo sentì fermarsi.

 
«Eccoci».
 
«Siamo davvero arrivati? Non mi starai…» aprì gli occhi «No, direi che non mi stessi prendendo in giro».
 
Lo sguardo dell’incredula Lusan abbracciava la vista di una cittadina dalla struttura simile a quella di Ulthmeer, ma affacciata su una distesa d’acqua salata che il tramonto -già visibile da quella parte del pianeta- rendeva di un luminoso color rosso dorato.
In vita sua Anise non aveva mai visto nulla di simile, non sarebbe neppure riuscita a immaginare tanta bellezza, ed ora aveva tutto lì, davanti ai propri occhi, sempre più vicino dal momento che Beerus stava volando in cima a un promontorio erboso che dava sull’oceano.
 
«Non lanciarti giù anche da qui, mi raccomando» la avvertì Beerus, scendendo a terra «Di certo ti prenderei al volo, ma preferirei evitarlo».
 
Anise non rispose e scese dalla sua schiena, avvicinandosi al ciglio, ma non abbastanza da lasciar pensare male. Rimase in contemplazione per qualche momento, per poi voltarsi verso di lui. «Grazie» disse, e sorrise, piena di felicità e di gratitudine.
 
«Per così poco!» si schermì Beerus.
 
«Non è poco, non per me. Per me è tantissimo, io… sono felice. Non hai idea di quanto» aggiunse «Ed è merito tuo».
 
La gioia sul viso della ragazza era evidente agli occhi di Beerus, esattamente quanto lo era stata la sua mancanza la prima sera che l’aveva vista sull’altalena. Tuttavia, la cosa che più lo colpì fu  quell’ “è merito tuo”: lui era un Hakaishin, non era abituato a vedere tanta gratitudine e tanta gioia negli occhi di chi lo guardava, tutt’altro! A dirla tutta era la prima volta in assoluto che succedeva una cosa simile, ed era bello. Che fosse successa con lei, poi, lo era persino di più.
Se in quel momento avesse potuto guardarsi allo specchio, si sarebbe reso conto che lui e Anise avevano un’espressione assolutamente identica.
 
«Sono felice che tu sia felice» le rispose. Non era la frase più articolata, poetica o corretta che potesse dire, ma era senz’altro la più onesta, e comunque Beerus non era mai stato tipo da poesie -eccetto per il tentativo di un’ode al pollo fritto, che non valeva la pena ricordare. «Hai voglia di scendere in città? Sicuramente ci saranno piatti che non abbiamo mai provato».
 
Anise ebbe un’esitazione, poi ricordò due cose fondamentali: che era insieme al Dio della Distruzione, e che lì nessuno la conosceva. «Sì, direi che sia una buona idea. Sono un po’curiosa anche io».
 
Scesero in città, e tennero fede all’idea di Beerus di assaggiare cibi sconosciuti. Per Anise fu incredibile vederlo mangiare, perché non aveva mai visto nessuno ingurgitare una simile quantità di cibo senza fare neppure una piccola pausa, ma quel che trovò ancora più incredibile fu il trattamento ricevuto. Dalle sue parti i forestieri non erano ben accetti in alcuna città, lì invece nessuno le aveva rivolto neppure un’occhiataccia, e quando Beerus era riuscito a farsi riconoscere quale Hakaishin le avevano riservato la stessa deferenza che era stata riservata a lui.
Era iniziata come una giornata normale, e si era trasformata in una sorta di sogno a occhi aperti in cui tutto era possibile, ogni suo desiderio era realizzabile e tutto sembrava essere permesso.
Anise si chiese più volte se quel che stava accadendo fosse reale, ma dovette concludere di sì: non sarebbe mai riuscita a immaginare nulla del genere.
 
“Farò meglio a godermelo finché dura, e serbarne il ricordo in futuro” si disse.
 
Quando il banchetto finì si era fatto buio da un bel pezzo, e in quella cittadina portuale non c’era particolare vita notturna, ma per Anise era meglio così. Trovò piacevole passeggiare sul bagnasciuga, e affascinante il riflesso del cielo notturno su quello che Beerus aveva chiamato “oceano”.
 
«L’oceano è molto bello… però è un peccato pensare che tutta quest’acqua non sia potabile» commentò la ragazza «Sarebbe meglio se non fosse salata».
 
«Capisco il tuo punto di vista, però stando a quel che mi ha detto il mio maestro il livello di sale nell’acqua di oceani come questi influisce sul clima e sull’ambiente di tutto il pianeta, quindi non è così senza una ragione. Vorrei poterti dire di più, ma lo studio mi annoia» ammise Beerus «Quindi sto poco attento, e ricordo meno di quanto dovrei. Non hai idea della quantità di botte in testa che ho preso dal maestro Whis per questo motivo!»
 
«È molto manesco?»
 
«Non è che mi picchi a sangue, ma non mi risparmia alcuno scappellotto, e credimi, sono terribili quasi come il modo in cui canta. Quasi. Terribile come quello non c’è nulla».
 
«Se lo dice l’Hakaishin, devo credergli per forza» disse la Lusan, piuttosto divertita «Ad ogni modo, so che te l’ho già detto, ma ti ringrazio ancora per questa bella giornata».
 
«Non c’è bisogno che mi ringrazi, è bella per te quanto lo è per me. Domani magari lo sarà altrettanto» buttò lì, piuttosto sicuro che lei fosse felice all’idea di rivederlo anche il giorno dopo.
 
«Non vedo perché non dovrebbe esserlo» rispose Anise «Beerus, una cosa: se intendi restare qui per qualche giorno, puoi dormire in casa mia. C’è una camera da letto per eventuali ospiti. Dopo quel che hai fatto per me oggi, credo che offrirti un posto in casa sia il minimo».
 
Era molto più di quanto lui avesse osato sperare: nonostante tutto non aveva minimamente considerato l’idea di chiederle di ospitarlo in casa sua, né tantomeno che fosse lei a proporlo. Se mai avesse avuto dubbi sul fatto che Anise stesse veramente bene in sua compagnia, a quel punto non ne avrebbe più avuti. «Davvero?»
 
«Sì, se a te sta bene».
 
«Sì! Sì, certo che mi sta bene! Cer-ehm, accetto con piacere, ti ringrazio».
 
La ragazza soffocò una risatina. Era troppo carino nei momenti in cui cercava di darsi un contegno… quando era già troppo tardi. «Molto bene».
 
Quello, forse, era l’inizio di qualcosa di bello.
 
 
 
 
 
 
Capitolo tre: c’è.
Bei tempi, quelli in cui Anise si emozionava per l'oceano :"D
A voi eventuali commenti!

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Capitolo 4
*** 4 ***


RMI4
4
 
 
 
 




 

 
«Questa volta non potrà battermi! Sono strasicuro che
il pollo fritto dell’Universo Sette non possa minimamente competere con il nostro. Beerus può soltanto sognarlo di notte!»
 
«Anche tu faresti meglio a limitarti a sognarlo di notte, invece di mangiarlo. Stai diventando veramente troppo grasso, Champa! In sette mesi sono stata costretta ad allargare la tua divisa per ben tre volte, ti rendi conto?»
 
C’erano alcuni momenti in cui Vados rimpiangeva di aver perso contro suo fratello Whis la partita a morra cinese che aveva stabilito chi dovesse prendere quale gemello. “Chi perde prende quello con la coda più corta”, avevano deciso, e a perdere era stata lei.
Doveva ammetterlo, i primi tempi Champa non le aveva dato troppi motivi di rammaricarsene: a quattro anni era un cucciolo carino e tenero, sempre entusiasta per ogni attività proposta e desideroso sia di imparare le arti marziali, sia di studiare, soprattutto la geometria; poi però i cambiamenti ormonali avevano fatto il loro corso, e Vados si era trovata ad avere a che fare con un adolescente insofferente, pigro in tutto e per tutto, le cui sole passioni erano il cibo spazzatura e… ancora la geometria.
Quella riguardante le prorompenti forme femminili di donne discinte ritratte in riviste di dubbio gusto.
 
«Tra qualche mese non potrai più parlarmi in questo modo!» sbottò Champa «Potrò mangiare tutto quello che voglio quando voglio, senza farlo di nascosto, e tu dovrai prepararmelo senza rompermi le scatole!»
 
Vados sollevò un sopracciglio, e fece una brusca frenata. «Io ti ho nutrito, lavato, vestito, addestrato e  istruito. Il minimo che tu possa fare è mostrare nei miei confronti il rispetto che mi devi, che tu abbia diciotto anni oppure no. Diventerò la tua attendente, non la tua schiava, e se vedrò che stai ingrassando continuerò a fartelo notare, come continuerò a prepararti pasti equilibrati. Spero di essere stata chiara».
 
«Sì, maestra» mugugnò Champa, resosi conto di essere uscito fuori dal seminato: far arrabbiare la maestra Vados era una pessima idea.
 
«Molto bene. Ora direi sia il caso di ripartire» disse l’angelo «Siamo solo al confine tra Sesto e Settimo Universo, restano ancora due ore di viaggio».
 
«Ma davvero non c’è modo di andare più veloci? Io di questo mi sorprendo sempr… ehi!» esclamò, allontanandosi da Vados «M-ma quello era Beerus!»
 
«Hm?»
 
«Sì, ti dico! L’ho visto volare in quella direzione, ne sono sicuro!» insistette Champa «È appena passato, ed era solo. Tu mi hai sempre detto che noi Hakaishin non possiamo andare in giro senza il nostro angelo» aggiunse, con tono accusatore.
 
«Infatti non potete» ribadì Vados.
 
Era così, eppure Beerus aveva trovato il modo di trasgredire le regole.
Per scrupolo aveva localizzato  la sua aura, e sembrava proprio che Champa non si fosse sbagliato: Beerus era lì, ai confini del proprio Universo, ed era solo.
 
“Deve aver giocato Whis in qualche maniera… non so se per merito proprio, o per demerito di mio fratello minore” pensò la donna.
 
«Allora? Era lui oppure no?!»
 
«Se ti impegnassi maggiormente negli esercizi della percezione dell’aura non avresti bisogno di me per saperlo. Ad ogni modo era proprio lui» confermò Vados.
 
«Cosa potrebbe mai cercare qui?» rimuginò Champa «Un momento: Swetts! Sta sicuramente andando su Swetts di nascosto dal suo maestro, non c’è altra spiegazione!»
 
«Sarebbe stato plausibile, ma no» lo contraddisse Vados «Ha già superato il pianeta Swetts. Forse si è recato anche lì, ma non è la sua destinazione finale».
 
«Se non è per il cibo di Swetts, cos’è che potrebbe spingere Beerus a infrangere le regole e farsi, uhm… COOOSA?! Tre ore e mezza di viaggio?!» si sbalordì il dio dopo un rapido calcolo «Maestra Vados, dobbiamo assolutamente scoprirlo, deve trattarsi di una qualche delizia sconosciuta! Dobbiamo seguirlo!»
 
«Non è necessario seguirlo, è sufficiente usare il mio bastone. Ecco» disse, creando con esso una sfera luminosa. Non si era fatta pregare perché era a sua volta interessata a sapere cosa stesse combinando Beerus, in modo da poterlo riferire a Whis -il quale meritava una bella tirata d’orecchie.
 
Inizialmente il bastone mostrò soltanto Beerus, con un pacchetto stretto dalla coda, atterrare su un prato fiorito; poi la visuale si ingrandì, e i due poterono vederlo avvicinarsi a un lago… o meglio, alla giovane felina bianca seduta in riva a esso.
 
 
- Sei arrivato!
- In un mese e mezzo ho mai mancato un appuntamento, Anise?
- No, non lo hai mai fatto. Quanto puoi rimanere, questa volta?
- Più o meno una settimana.

 
 
Videro Beerus prendere una mano della ragazza tra le proprie e depositarvi un bacio, e lei ricambiare quel gesto carezzandogli il volto. In tutto ciò non c’era assolutamente nulla di scabroso, però l’affetto presente tra i due era evidente perfino agli occhi di chi non era abituato a vedere simili scene.
 
«No, aspetta: mi stai dicendo che Beerus -Beerus!- si è fatto un viaggio così lungo per incontrare una ragazza?!» trasecolò Champa, ancor più sbalordito di quanto fosse in precedenza «È uno scherzo o cosa? Cioè, lo vedi?! Non ha mai guardato in quel modo neppure il profiterole del pianeta Swetts, e lui adora il profiterole del pianeta Swetts!... Vaaaados! GUARDA! Le ha portato proprio quello, era nel pacchetto!» esclamò, per poi coprirsi la bocca con entrambe le mani «Che sta succedendo? Insomma, dovrei credere che Beerus abbia…»
 
Champa ammutolì, esterrefatto. Beerus aveva una ragazza, una compagnia femminile diversa dalle signorine del postribolo che conosceva bene anche lui, una ragazza che forse adorava più del profiterole!
Inaudito. Incredibile. Impossibile!

Eppure era la verità, e poteva vederla con i propri occhi.
Quando vide la ragazza tirare fuori dei biscotti da un cestino -alla cannella, sentì dire- la sorpresa iniziò a mutare in invidia: non solo Beerus era prestante e più forte di lui, non solo vinceva ogni sfida, oltre a tutto ciò aveva anche trovato una ragazza carina che lo accarezzava e cucinava dolci per lui! Quella era una vera ingiustizia.
 
“Se io provassi a rubargliela?” pensò, per poi concludere che non valeva la pena impegnarsi in quel senso; lei era carina, ma troppo magra per i suoi gusti, e se era interessata a Beerus difficilmente lo avrebbe lasciato perdere per lui. “No, non è il caso. E se la rapissi e le facessi fare la cuoca a casa mia? La sua cucina sarà sicuramente migliore di quella di Vados!... no, neppure questa è una grande idea: al momento Beerus è più forte di me, e se per disgrazia dovesse scoprire del rapimento finirei col prenderle. Allora? Che fare?”
 
«Abbiamo visto quel che serve» concluse Vados, interrompendo le riflessioni dell’allievo «È tempo di informare Whis. Non so proprio come abbia potuto permettere che accadesse una cosa del genere, i sentimentalismi non sono mai una cosa buona per un Hakaishin, e a quest’età lo sono ancor meno».
 
«Avere una compagna però ci è permesso. Mi hai parlato tu delle figure di Iarim Neiē e Neiē » obiettò Champa «È un’eventualità prevista, no?»
 
«È troppo presto» ribadì Vados «C’è molto altro di più importante a cui pensare: studiare, allenarsi, compiere il proprio dovere di Hakaishin, e nel tuo caso anche metterti a dieta. Se ti sta venendo voglia di cercare una compagna ufficiale, rinuncia. Non è tempo di trovarne una, né tantomeno di stringere con essa legami vincolanti tramite giuramenti pericolosi. Sarebbe una pessima idea anche con qualche millennio di anni alle spalle. Gli Hakaishin stanno meglio da soli».
 
“Io guardando l’espressione di Beerus direi il contrario” pensò il giovane dio, pur evitando di esprimersi. «Va bene».
 
Sollevata dal fatto che Champa sembrasse aver capito, Vados tornò a impugnare più saldamente il bastone. «Ora è il caso che informi Whis di-»
 
«Aspetta!» la interruppe Champa, il quale aveva appena avuto un’illuminazione «Non dire nulla al maestro di Beerus! Se manteniamo il silenzio, ma faccio sapere a Beerus che so cosa sta combinando, potrei ricattarlo!»
 
«Tuo fratello sta infrangendo le regole. Non c’è rivalità che tenga» ribatté Vados.
 
«Se non dici nulla a Whis, mi metto d’impegno per perdere i chili che ho preso in questi sette mesi» rilanciò Champa «Mangerò
senza proteste quello che mi preparerai, sperando che pur essendo cose ipocaloriche non facciano schifo come al solito, farò movimento e limiterò le bibite gassate».
 
Vados esitò. «Dici sul serio?»
 
«Sì! Non dire niente a tuo fratello» la supplicò Champa «Tu vuoi che io dimagrisca, e questa è la sola occasione in cui posso riuscire ad avere un po’di vantaggio su Beerus, ci guadagniamo entrambi! Sii buona, maestra Vados! Ti prego -ti prego -ti preeeego!»
 
L’angelo arrivò al punto di mordicchiarsi il labbro inferiore, tanta era l’indecisione, ma infine cedette, con un lungo sospiro. «Tacerò. In fin dei conti il mio compito è preoccuparmi del benessere e delle azioni del mio Hakaishin, non di quello di Whis. Quel che accade al -o con- il suo allievo non mi riguarda, è a te che devo pensare».
 
«EVVAIIIII!» esultò Champa, per poi ghignare e sfregare le mani una contro l’altra, soddisfatto «Lo costringerò a perdere a ogni gioco in cui lo sfiderò, e a cedermi le sue porzioni di cibo!»
 
«E la dieta dove la mettiamo?»
 
«…per poi consumare le calorie in più grazie a un’adeguata quantità di esercizio fisico» completò Champa «A proposito, ora che facciamo? Beerus non è in casa, è inutile andare sul suo pianeta adesso. Se mai ritenteremo quando tornerà, tra più o meno una settimana».
 
«Possiamo andare su Swetts a procurarci dei frutti puff puff… le cui calorie dovrai smaltire con dell’ulteriore allenamento, Champa» lo avvisò.
 
«Ci sto!»
 
Non si prospettavano mesi piacevoli da quel punto di vista, ma per rompere le scatole a Beerus avrebbe fatto questo e altro.
 
 
 
 

 
°°°Una settimana dopo°°°
 





«Bravo, Beerus, bravissimo! Sono veramente molto soddisfatto di te, mi rendi fiero di essere il tuo maestro!»

 
La reale soddisfazione di Whis corrispondeva alla grandezza dell’entusiasmo con cui l’aveva espressa, e anche l’espressione del suo viso era degna di chi aveva trovato la pietanza più buona del Multiverso.
Dopo la pubertà c’erano stati svariati momenti in cui quel suo allievo tanto promettente l’aveva fatto tribolare non poco con la sua cocciutaggine e la sua suscettibilità, non ultimo quello che quasi due mesi prima lo aveva spinto ad abbandonarlo in quella foresta, ma quella fase sembrava essere passata: Beerus si stava dimostrando infaticabile negli allenamenti, determinato a migliorare nei pochi aspetti in cui era carente -tanto che ormai era in grado di percepire le aure alla perfezione- e pronto a obbedirgli in tutto e per tutto.
Continuava a essere un po’svogliato nello studio delle materie teoriche, pur essendosi curiosamente interessato al modo in cui il livello di salinità degli oceani influiva sul clima dei pianeti, ma quello era un problema minore.
Vero, ultimamente capitava spesso che passasse giorni interi -massimo una settimana- a dormire, ma ciò non creava problemi, perché lavorava tanto duramente da fare in un giorno i progressi di quattro.
 
“Finalmente l’Universo Sette ha uno degli Hakaishin più forti del Multiverso, secondo solo a quello dell’undicesimo, se è davvero secondo… e sono io che lo sto addestrando” pensò l’angelo, alquanto contento “Sono io che l’ho cresciuto così! Quanto sono stato bravo! Questo è il mio Beerus!”
 
Un Beerus che non solo lavorava duro e gli obbediva, ma era anche di ottimo umore, il che era positivo per tutto e per tutti. La loro sinergia era sempre stata abbastanza buona, momenti di ribellione adolescenziale a parte, ma al momento era proprio alle stelle, e Whis non poteva esserne più lieto.
 
«Sono felice di saperlo, maestro Whis!» sorrise il dio.
 
Beerus considerava quegli ultimi quasi due mesi uno dei periodi migliori della propria vita, se non il migliore in assoluto: stava diventando sempre più forte, stava diventando sempre più abile in molti campi, il rapporto col suo maestro era a dir poco ottimo -cosa di cui era sinceramente contento- e soprattutto aveva trovato una ragazza con la quale stava legando molto.
Quando lui e Anise erano lontani desiderava ardentemente vederla ancora, quando erano insieme si sentiva incredibilmente felice, e quando era costretto ad andare via iniziava da subito ad avvertirne la mancanza; non avrebbe mai pensato di poter arrivare a sentirsi così con -e per- una persona.

In tutto ciò, c’era una sola minuscola ombra: non si erano mai baciati, nemmeno una volta. Non perché lei non gli piacesse abbastanza, ma per quella vocina malefica che gli sussurrava: “Se finissi col rovinare tutto? Tu non hai provato a baciarla, ma nemmeno lei lo ha fatto, quindi magari non vuole da te più di quel che già avete”, e quel che avevano era bello, troppo bello per perderlo facendo qualcosa di stupido.
Quando Beerus l’aveva vista sull’altalena l’aveva desiderata per sé, ma le cose tra loro si erano evolute in una maniera imprevista, strana, a lui del tutto nuova; per cui, non sapendo come muoversi, aveva deciso di non muoversi affatto.
 
«Ritengo che meriti un premio. Hai voglia di andare a mangiare i migliori dolci del pianeta Swetts?» propose Whis, pensando di fare cosa gradita «Non andiamo lì da diverso tempo, ormai».
 
Beerus aveva imposto agli indigeni di Swetts di non fare parola con nessuno delle sue visite, ma se per disgrazia qualcuno si fosse lasciato sfuggire per errore qualcosa col suo maestro sarebbe stata una catastrofe. Andò nel panico per un attimo, cercando una qualsiasi scusa per non partire ed evitare potenziali problemi, per poi rendersi conto che se avesse detto di non voler andare sarebbe sembrato molto più che sospetto. «Sì, certo, è una buona idea».
 
«Per un attimo ti ho visto in viso un’espressione che mi ha fatto pensare il contrario» disse Whis, un po’stupito.
 
«No, no, era solo sorpresa! Di solito mi porti lì in occasioni particolari, quindi era una proposta che non mi aspettavo, ma ovviamente sono molto felice all’idea di andare».
 
«Capisco, e ammetto che hai ragione» annuì Whis, trovandola una risposta plausibile «Ora direi di-»
 
Non concluse la frase, perché qualcosa -o meglio qualcuno- atterrò con violenza a poca distanza da loro due, sollevando un polverone immenso e facendo un gran baccano.
 
«Mai che avvisino del loro arrivo» sospirò Whis.
 
«Ti prego, non dirmi che è quel demente di Champa» brontolò Beerus, alzando gli occhi al cielo.
 
«Sai, è un po’triste che due fratelli non riescano ad andare d’accordo» commentò l’angelo.
 
«Non è colpa mia se è un rompiscatole!» ribatté il dio.
 
«Ehi! BEEERUSSS!... gli ospiti si salutano, sai?»
 
Appunto. Champa era arrivato da neppure un minuto, ma già il sorrisetto stampato sul suo viso grassoccio, il sorrisetto di chi ha combinato qualcosa ai danni di qualcuno o è in procinto di farlo, aveva iniziato a dargli pesantemente sui nervi. «Non sei un ospite, sei un intruso, è divers- ma che accidenti fai?!» sbottò, vedendo Champa mettere un braccio attorno alle sue spalle.
 
«Suvvia, non fare lo scontroso come tuo solito» disse Champa, mentre il sorrisetto diventava più largo «Il tuo fratellino preferito ha portato dei dolci da farti assaggiare, anche se sono già convinto che ti piaceranno molto: biscotti alla cannella!»
 
«Cannella?...»
 
«Cannella, Beerus» annuì Champa, che ormai sogghignava largamente «Cannella».
 
Quella visita improvvisa non poteva essere un caso, si disse Beerus, così come quei dolci non potevano essere un caso, e tantomeno poteva esserlo l’espressione del suo gemello. Aveva pensato che andare su Swetts con Whis potesse essere rischioso, ma il vero dramma era che Champa fosse venuto a conoscenza di quanto stava accadendo.
Anzi, c’erano possibilità persino peggiori: se lui sapeva di Anise, allora quest’ultima era in pericolo. Champa avrebbe potuto fare qualunque cosa a lei e al pianeta dei Lusan, o forse lo aveva già fatto, e per come la pensava Beerus la colpa sarebbe stata soltanto sua. Se non avesse iniziato a frequentarla, non ci sarebbero state ragioni per cui Champa potesse interessarsi a lei.
 
«In cambio però voglio il tuo videogioco» continuò Champa «Darksliders! Non mi-»
 
«Mi hai colto in un giorno di particolare buonumore» lo interruppe Beerus «E il maestro Whis mi ha appena ricordato che in quanto fratelli dovremmo cercare di andare d’accordo, per cui sì, Champa, ti presterò il mio videogioco. Dobbiamo andare a prenderlo nella mia stanza».
 
«Bravissimo, Beerus. Così si parla!» approvò Whis.
 
«Fate le scale a piedi!» si raccomandò Vados «Champa deve far lavorare i muscoli delle gambe».
 
I due angeli non si curarono di seguire i gemelli, uno perché non pensava fosse necessario, l’altra perché non voleva assistere a squallide scene di ricatto: il solo sapere che ci sarebbero state la rendeva già troppo coinvolta, per i suoi gusti.
 
Beerus e Champa si allontanarono, raggiungendo velocemente l’interno del palazzo. Curiosamente, salirono metà della lunga rampa di scale che portava alla stanza da letto di Beerus senza proferire verbo.
 
A quel punto, Champa fece una risatina. «Vedo che hai già capito come funziona: tu fai tutto quel che voglio, e io non dico al tuo maestro di-»
 
Il giovane Hakaishin non riuscì a concludere il suo ricatto, perché l’altro scattò senza alcun preavviso e lo sbatté contro la parete, stringendogli la gola in una morsa che si faceva più stretta e dolorosa ogni millisecondo.
 
«B-Beer… us!» annaspò Champa, sentendo mancare il respiro. Cercò di liberarsi, ma non ottenne null’altro che una stretta ancora più ferrea. «Cos-»
 
«Se dovessi scoprire che le hai fatto del male, andrò nel tuo Universo e ne distruggerò metà. È consuetudine che ogni Hakaishin pensi ai pianeti del proprio, ma non c’è una vera e propria regola a riguardo. Potrei finire comunque nei guai? Forse, soprattutto perché dopo averlo fatto mi occuperei anche di te. Mi importerebbe? No. Per nulla».
 
Beerus furioso e urlante era pericoloso, Beerus furioso e con quella faccia impassibile lo era infinitamente di più. Quella non era la reazione che Champa si era aspettato, com’era evidente dal suo sguardo impaurito: si era aspettato da Beerus un misto tra rabbia e paura che dicesse qualcosa al suo maestro, non di essere sbattuto contro il muro e quasi strangolato.
L’idea di ricattare suo fratello era stata per lui poco più di uno dei loro soliti “giocherelli”, non gli era mai passato per la testa il pensiero che potesse degenerare a tal punto, così come in tutto ciò non aveva mai pensato di fare del male alla ragazza. Rapirla per fare un dispetto a Beerus sarebbe stato un conto ma, al di fuori del suo compito di Hakaishin, anche lui riteneva disonorevole fare del male a qualcuno che non si poteva difendere, soprattutto se donna. «N-non l’ho fatto non m-mi… sono a-avvicinato! Per c-chi mi prendi?!»
 
«Per uno che farebbe qualunque cosa pur di recarmi danno» ribatté Beerus, allentando leggermente la presa «Ecco per chi».
 
«Non t-toccherei una ragazza… p-per questo! Mi conosci!... Beerus!»
 
Dopo qualche altro tesissimo istante, Beerus lasciò andare il fratello. «Meglio per te che sia cos-»
 
Un pugno dritto sul naso lo fece volare lungo la restante parte di gradini, mandandolo a sbattere contro il muro accanto alla porta della sua stanza.
Quando si riebbe dalla momentanea confusione vide che il gemello era a un metro da lui, e si massaggiava le nocche della mano destra.
 
«Ti sembrava il caso di strangolarmi, razza di stronzo?!» sbottò Champa «Tu sei completamente partito di cervello! Volevo soltanto-»
 
«Qualunque cosa tu possa volere, ti proibisco di coinvolgerla» lo interruppe l’altro, avvicinandosi di un passo «È una ragazza normale, e tu devi lasciarla stare».
 
«Immaginavo non avesse capacità particolari, la maestra Vados mi ha detto che i Lusan del vostro Universo non sanno neppure controllare il Ki. Senti, non sono interessato a farle del male» disse Champa, sollevando gli occhi al soffitto «Volevo solo ricattarti con “se tu non mi dai il tal videogioco e la tua porzione di bistecca dico al tuo maestro che hai la ragazza e sei tanto innammmmorato”!»
 
Inevitabilmente, Beerus arrossì. «Chi ti dice che lo sia?!»
 
«Il fatto che tu sia diventato rosso come i miei pantaloni, signor “se la tocchi ti spacco l’Universo”» ghignò il gemello «Una settimana fa abbiamo visto che la guardavi tutto adorante, nemmeno fosse stata un dessert. A proposito, l’hai assaggiata?» osò domandargli, con un sorrisetto da pervertito.
 
Beerus si voltò dandogli le spalle, per nulla intenzionato a rispondere o a cedere alle sue provocazioni. «Non sono fatti tuoi, e tu stai abusando della mia poca pazienza!»
 
«Ti dedico una poesia: Beerus è tanto innamorato, di casa è scappato, dalla fidanzatina è andato e han fatto i monelli in mezzo al prato!» declamò Champa.
 
«… Tu non puoi essere mio fratello, devono per forza averti raccolto da qualche parte» borbottò, entrando nella propria stanza: aveva detto davanti a Whis che avrebbe dato Darksliders in prestito, non poteva rimangiarsi la parola data. «Probabilmente in una stalla di maiali, vista la somiglianza».
 
«Guarda che questa settimana ho perso due etti! La maestra Vados ha acconsentito a stare zitta solo a patto che mi mettessi a dieta e facessi esercizio. Senti? Senti quanto sto faticando, e solo per coprire le tue fughe d’amore?» si lagnò Champa, seguendolo.
 
«Per tentare di ricattarmi, vorrai dire. Non fare la vittima, perché non attacca!... ma dove accidenti è quel videogioco?» borbottò l’altro.
 
«Parlando seriamente, non avrei mai creduto che un giorno ti avrei visto tanto preso da qualcosa che non fosse cibo. Tu, che arrivi a tanto pur di vedere una ragazza? E le hai anche portato il profiterole!»
 
«Fammi capire, tu nella tua vita non hai niente di meglio da fare che spiarmi?! Fatti -gli -affari -tuoi!» scandì Beerus, irritato.
 
«L’ho fatto solo una settimana fa, quando sei andato da lei: io e Vados stavamo passando lì accanto, e ti ho visto. Già, immagino che per un po’ non potrai scappare… e a proposito, perché non hai detto di lei al tuo maestro?» gli chiese.
 
«Domanda idiota, dovresti arrivarci da solo. Whis e Vados ci portano da quelle signorine per le stesse ragioni, o sbaglio?... oh, eccolo!» sospirò, una volta trovato il videogioco.
 
«Già, continuerai a farti portare lì?»
 
Beerus scosse la testa. Non aveva la minima intenzione di tornare in quel posto, non ora che c’era Anise, anche se non avevano ancora fatto nulla. «Tieni, ecco il gioco, ora smetti di rompere le scatole».
 
«Grazie, carissimo» ghignò Champa, intascando il gioco «Dimmi un’ultima cosa: lei cucina bene?»
 
«Le sue torte dolci e salate sono le più buone di questo Universo» vantò Beerus.
 
«Bene, ora so dove andremo domani io e la maestra Vados!»
 
No. Aveva sicuramente sentito male, pensò Beerus, quel demente non poteva averlo detto sul serio. «Spiegati!»
 
«Se il suo cibo è così buono, devo assaggiarlo» disse il dio, facendo spallucce «Voglio mangiare le sue torte e vedere cos’ha di tanto speciale per averti cotto a puntino… e dovrai fartelo andare bene, perché tu domani sarai bloccato qui! Non le farò del male, ma ti avviso che la sedurrò col mio irresistibile fascino» dichiarò, assumendo una posa plastica che teoricamente sarebbe dovuta sembrare sexy «Solo per farti dispetto, perché per i miei gusti ha troppa poca carne addosso!»
 
Purtroppo era la verità: se Champa aveva intenzione di andare sul pianeta dei Lusan
il giorno doponon c’era nulla che potesse fare per fermarlo. Riteneva che le sue minacce fossero state recepite e prese sul serio, quindi non sarebbe dovuto succedere nulla ad Anise, ma… se avesse provato a fare qualcosa di sconveniente? L’idea che lei potesse farsi sedurre da Champa era assurda, ma non voleva assolutamente che quel demente di suo fratello le mancasse di rispetto molestandola in qualche modo.  «Champa-»
 
«Temi la concorrenza?»
 
«Sì, guarda! Immagino all’opera l’irresistibile fascino sprigionato dai tuoi rotoli di ciccia. Una vera calamita, per le ragazze» lo prese in giro Beerus «Oppure proverai a incantarla con gli aggraziati movimenti di quella robaccia storta che ti ostini a definire coda?»
 
«EHI! La mia coda non è affatto storta!»
 
«Hai ragione, è diversamente dritta».
 
«Come tu sei diversamente intelligente» replicò Champa.
 
«E tu diversamente magro!» ribatté Beerus.
 
Champa gli si avvicinò, con fare minaccioso. «Io posso dimagrire quando voglio, mentre tu resterai sempre un povero scemo!»
 
«Se è vero che puoi dimagrire quando vuoi, perché sei ancora Champabomba Cannoniere?!»
 
«Con la tua ragazza fai tanto il carino, ma fa’ che le dica come ti comporti con me e quanto te la tiri con tutti i nostri colleghi, dei quali non ce n’è uno che ti sopporti, e vedrai come ti manderà subito a quel paese anche lei!» sbraitò Champa.
 
«Non osare-»
 
Lo sfociare di quella discussione in qualcosa di più serio venne interrotto grazie all’arrivo improvviso dei due angeli.
 
«Stavate impiegando molto per trovare quel videogioco» osservò Whis.
 
«Era nascosto sotto un sacco di roba» si giustificò Beerus, cercando di ritrovare almeno una parvenza di calma.
 
«Ecco, essere ordinato è una cosa che dovresti ancora imparare, ma per come vanno le cose nell’ultimo periodo non dubito che lo farai. Tempo al tempo!» sorrise l’angelo.
 
“Sorridi ora, ché in un futuro non troppo lontano potresti trovarti a fare il babysitter al figlio di Beerus” pensò Vados. Sentendo parlare Whis in termini più che entusiastici era stata tentata più volte di rivelargli che quel suo allievo che tanto apprezzava lo stava prendendo per i fondelli da quasi due mesi, ma aveva taciuto: Champa aveva perso ben due etti!
 
«Beerus oggi è proprio tanto gentile, vedendomi deperito ha detto che stasera vuole darmi metà di tutta la sua cena!» esclamò Champa.
 
«Se anche lo avesse detto davvero, e non credo l’abbia fatto, non se ne parla» lo disilluse Vados «Non vorrai riprendere il doppio del peso che hai perso?»
 
«Sì ma insomma però uffa» borbottò l’Hakaishin.
 
Di norma Beerus avrebbe riso per il modo in cui veniva trattato Champa, ma in quell’occasione era troppo occupato a stare in pensiero per quel che sarebbe successo il giorno dopo: Champa le avrebbe detto chissà cosa, e
dove non c’erano verità da raccontarle avrebbe integrato con delle bugie. Anise sapeva già che loro due non andavano d’accordo, ma cosa sarebbe successo se quel ciccione fosse riuscito a convincerla che lui non era una persona con cui valesse la pena avere a che fare?
 
“No. Ormai sono quasi due mesi che ci vediamo quando possiamo” cercò di tranquillizzarsi “In questo lasso di tempo siamo sempre stati bene sia quando eravamo insieme in casa, sia a Vynumeer, sia in giro per il pianeta… per non parlare del fatto che ritenerla così facilmente influenzabile sarebbe un insulto alla sua intelligenza". 


Sperava di non sbagliarsi... e in fin dei conti, perché avrebbe dovuto avere torto? Lui e Anise in quel periodo avevano affrontato un discorso secondo lui ben più gravoso, ossia quello del suo ruolo di Hakaishin e quel che comportava, e lei non aveva mostrato di avere particolari problemi a riguardo.
Anise aveva compreso la necessità di equilibrare vita e morte nell'Universo
ancora prima che lui dovesse spiegargliene i motivi, e soprattutto non lo riteneva un assassino, o un essere abominevole, o tutti gli altri epiteti ai quali era stato costretto ad abituarsi da quando aveva iniziato a occuparsi di pianeti passibili di distruzione. Tra essi c'era anche "mostro", a dir la verità, ma quello gli era noto anche prima di diventare un dio.
Certo, sentir parlare di interi pianeti spazzati via e vederlo fare erano due cose diverse, ma Beerus pensava -sperava- che Anise non avrebbe cambiato opinione, se mai avesse dovuto vederlo all'opera. Non distruggeva pianeti a caso, se lo faceva c'erano valide ragioni... e spesso a contare molto era anche l'opinione del maestro Whis.

"Cercherò di restare calmo, e se dovesse avere qualsiasi cosa da chiedermi quando la rivedrò, le risponderò con la massima onestà. Champa non riuscirà a rovinare quel che si è creato tra me e lei” concluse.



 
 

 

Capitolo 4: presente!
Tengo molto a ringraziare tutte le anime buone che stanno seguendo questa storia, rappresentate una forte spinta a proseguire :)
Nel prossimo capitolo dovrebbe esserci un disegno, se Beerus collabora (ultimamente non ha voglia di lasciarsi disegnare. Forse non si ritrova molto a essere coinvolto in una storia d'amore :"D).
Ultima riflessione: mi rendo conto che scegliere i generi nei quali rientra una storia a volte è proprio complicato, quando ci sono aspetti che rientrano (o rientreranno, nei capitoli futuri) in più di tre di essi!

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Capitolo 5
*** 5 ***


RMI cap5
5
 
 


 
 
 
 
 
 
 
“Torta infornata. Promemoria per me: devo rifare il burro, perché è quasi finito”.
 
Anise si tolse il grembiule, lanciandolo su una delle sedie accanto al tavolo in cucina. Cosa c’era da fare, ora? Ah, sì: doveva andare a bagnare le sue piantine di spezie nella serra.
 
Ricordando i momenti trascorsi con Beerus, che era stato con lei fino a due giorni prima, sorrise. Non le era mai successo che pensare a una persona le infondesse serenità fino a tal punto -né a dire il vero la sua mente si era soffermata tanto spesso su qualcuno- eppure eccola lì, a sperare di riuscire presto a vederlo ancora.
 
Uscì fuori, riempì un secchio con dell’acqua, e a quel punto arrivò un pensiero che cancellò il sorriso: non era una buona idea affezionarsi troppo a lui. Non esistevano possibilità di poter costruire qualcosa di concreto, non tra un dio e una mortale. Lei era desinata a invecchiare e morire, Beerus invece sarebbe vissuto in eterno… ma poi, perché pensare a un futuro così lontano? Non sarebbe durata fino ad allora, perché moltissime donne sarebbero passate sotto i suoi occhi, e ne avrebbe trovata più d’una che potesse dargli qualcosa in più rispetto a lei.
 
“Non che sia troppo difficile. Io non ho proprio nulla” pensò “Ah, no, dimenticavo, qualcosa c’è: ‘ho’ alle spalle un tentativo di linciaggio. Linci lincianti una lince linciabile!”
 
Non c’era proprio nulla da ridere -né lei si sentiva allegra- ma la risata partì da sola, tanto forte che fu costretta a posare a terra il secchio, e assieme a essa arrivò anche quella familiare sensazione di malessere diffuso. Non era simile al dolore fisico, non era simile a quello dovuto alla febbre o a una qualunque malattia del corpo, non era simile a niente che fosse in grado di descrivere. Non inibiva le sue capacità di ragionamento, ma il suo umore diventava strano: se in quei frangenti qualcuno avesse provato ad ammazzarla, si sarebbe fatta una risata e lo avrebbe invitato a essere rapido. Non era una supposizione, lo sapeva per certo, perché due anni prima era successo qualcosa di simile.
 
C’erano momenti in cui, pur non avendo intenzione di cercare la morte, iniziava rimuginare sul fatto che lei, come tutti gli altri, un giorno sarebbe diventata polvere e la sua esistenza sarebbe stata dimenticata. Si chiedeva che senso avesse vivere, allora, che si trattasse di affrontare problemi, combattere guerre, o impegnarsi in lavori e passatempi come creare collane di perline. Non riusciva a trovare La ragione per farlo, a meno di non considerare tale la morte stessa: i morti non creano collane.
In altre occasioni invece quel malessere scompariva, e la vita le sembrava degna di essere vissuta. In quei momenti la sua visione cambiava, e ovunque guardasse trovava “La” ragione: la trovava in un fiore mai visto o nella soddisfazione di aver terminato un altro capo di abbigliamento, nel cielo di notte o nell’oceano di giorno, in una battuta stupida o nel calore del corpo di Beerus quando volavano insieme. Erano piccole cose, ma sufficienti… e quando c’era Beerus non faticava mai a trovarle. Le volte in cui erano riusciti a stare insieme in quei quasi due mesi, l’aveva sempre fatta stare molto più che bene.
 
“Quanto devo essere stupida per lasciarmi 'prendere' tanto da una persona che è già persa in partenza e con la quale non c’è stato neppure un bacio?” si chiese, recuperando il secchio per poi raggiungere la serra “Se Calida dovesse scoprirlo!...”
 
No, non era il momento di pensare a quello, né a tutti gli argomenti correlati. Certe cose andavano schiacciate nei più reconditi meandri del cervello e lasciate lì fino a quando loro stesse dimenticavano di esistere.
Innaffiate le piante, uscì dalla serra.
 
«Ciao! Sono nuovo della zona, e tu sei il panorama più carino che ho visto. Mi permetti di fare un tour del tuo corpo?»
 
Per un attimo Anise pensò di avere le allucinazioni, perché davanti a lei c’era un simil-Beerus sovrappeso e munito di pantaloni rossi, accompagnato da una donna con la pelle azzurrina e una palese espressione di biasimo verso il “saluto” appena ascoltato -sebbene non fosse rivolto a lei.
Poi, l’illuminazione: considerando l'aspetto, lo sconosciuto poteva essere solo Champa, il gemello di Beerus, e la donna che lo accompagnava doveva essere la maestra di questi, Vados.
 
“Mi viene spontanea una battuta sul fatto che il tour durerebbe molto poco, ma dato che è il fratello di Beerus, nonché un Hakaishin, gliela risparmio” pensò la ragazza, mantenendo la calma. «Immagino di trovarmi al cospetto del Dio della Distruzione del sesto Universo…»
 
«Il Dio della Maleducazione, sì. Io gli ho insegnato le buone maniere, ma se non si comporta come uno zotico non è contento» commentò Vados, prima che Champa potesse proferire parola «In certi momenti mi fa vergognare».
 
Tanti saluti all’entrata in scena ad effetto. Il viso del povero dio era diventato rosso come i suoi pantaloni, e non sapeva bene dove guardare. «Era proprio necessario?!» sbottò.
 
«Ad ogni modo, confermo: si trova alla presenza di Lord Champa, Hakaishin del sesto Universo. Io sono Vados, la sua maestra» proseguì l’angelo, ignorandolo «E lei dev’essere Lady Anise».
 
Com’erano venuti a saperlo? Avrebbe indagato in seguito. «Sì, sono io. È un piacere conoscervi» disse, per educazione «Volete accomodarvi in casa? Ho infornato da poco una torta salata, dovrebbe essere pronta tra circa mezz’ora».
 
Champa rimase a fissarla per qualche istante, con un’aria tanto perplessa da farlo sembrare quasi tenero. «Ma non ti fa paura che io sia qui?»
 
«Che io sia spaventata o meno non cambierebbe molto: se siete venuti qui con buone intenzioni non mi succederà niente di male, se siete venuti qui con cattive intenzioni non potrò fare assolutamente niente per oppormi. Con che intenzioni siete venuti?»
 
«Mangiare la torta» rispose Champa, quasi meccanicamente.
 
«Bene».
 
Entrati in casa, la prima cosa che notarono -come era successo anche a Beerus- fu la massiccia presenza di perline.
 
«La tana delle perline di vetro!» esclamò Champa, guardandosi attorno.
 
«“La tana delle perline di vetro”… mi piace, magari lo scriverò su un cartello da appendere fuori. Potete sedervi dove volete. Mentre la torta cuoce, volete bere qualcosa? Vi avviso, al momento ho solo acqua e vino».
 
Champa corse a occupare un divanetto, attirato da una coperta rosso scuro. «Per me va bene il vino, graz-»
 
«No che non va bene, ha troppe calorie: tu, acqua. Io sono a posto così, grazie» disse Vados, che scelse una comoda seggiola imbottita.
 
«Allora… cosa vi ha portati qui, a parte la torta?» domandò loro Anise, dopo aver servito l’acqua a Champa «Il vostro arrivo è del tutto inaspettato, mi ha sorpresa».
 
«Io sono qui anche perché volevo conoscere la ragazza per la quale quel pigro di mio fratello è disposto a farsi viaggi di tre ore e mezza di nascosto dal suo maestro» disse Champa, onesto.
 
«A tal proposito, signorina» si intromise Vados «Mi duole dirle che spingere un Hakaishin a infrangere le regole non è un modo di agire consigliabile. Non che mi riguardi, non trattandosi del mio allievo».
 
«Indipendentemente dal rapporto che può esserci tra me e Beerus, non credo di averlo spinto a infrangere le regole. Posso dire in tutta onestà di avergli fatto presente che il suo modo di agire era piuttosto imprudente» replicò Anise, con aria impassibile «Io posso ricordargli che sta tenendo un comportamento scorretto verso il suo maestro e verso le regole che gli sono imposte, ma non posso fare di più. Sono una semplice mortale, non ho poteri: sarebbe sensato per me ripetere a un Hakaishin cose che già sa, col rischio di esasperarlo? Non credo».
 
«Capisco il suo punto di vista» rispose l’angelo, senza trovare altro da aggiungere.
 
“E Vados muta! Muuuta!” pensò Champa, cercando di nascondere un sorrisetto soddisfatto. «Hai fatto bene, perché Beerus è un Hakaishin molto violento che si esaspera per un nonnulla. È permaloso, cattivo, tende a distruggere pianeti a caso… e come se non bastasse, cambia una ragazza al giorno!»
 
Certo, come no! Aveva una tale esperienza con le ragazze da aver necessitato ben due incontri per salutarla senza essere agitato. «Sì, e oltre a tutto questo ha anche dei momenti in cui si immerge nel colorante verde, si incolla del fogliame addosso e se ne va in giro nudo credendosi un cespuglio parlante».
 
Vados fece una breve risatina. Sembrava che neppure la lince lo prendesse troppo sul serio.
 
L’Hakaishin sollevò un sopracciglio inesistente. «Non credi alle parole di un dio?»
 
«Non se il dio in questione non va molto d’accordo col suo gemello».
 
«Quello però non è colpa mia! È Beerus che si crede chissà chi solo perché è molto forte, quindi se la tira tantissimo con chiunque» sbuffò Champa «Non solo con me, anche con i nostri colleghi, tutti più vecchi di noi! Con te si comporta in modo amabile, ma non è qualcosa che fa con tutti».
 
Era una rivelazione, stavolta visibilmente sincera, che la stupiva molto meno del dovuto. In quei circa due mesi riteneva di aver visto la parte migliore -e forse più “vera”- di Beerus, ma già dal loro secondo incontro, precisamente quando lui le aveva parlato di Champa, era riuscita a capire che sapeva essere ben poco gentile. Tuttavia nessuno poteva vantare di essere perfetto, e per Anise i pregi di Beerus ne compensavano i difetti. «Nulla che non avessi intuito. Ci frequentiamo, quindi penso di conoscerlo almeno un pochino. Per quanto riguarda il comportamento coi vostri colleghi, credo che essendo uno dei due Hakaishin più giovani cerchi di fare la voce grossa sperando di farsi rispettare… è abbastanza normale, soprattutto per un maschio».
 
«Io dico che se la tira perché gli piace tirarsela, e basta» borbottò Champa.
 
«Scusate un attimo, ma devo andare a controllare a che punto è la torta» disse la ragazza, allontanandosi verso la cucina «Inizio a sentirne il profumo».
 
Rimasta sola con Champa, Vados fece un sospiro. «Auguri».
 
«Per cosa?» le chiese il dio, confuso.
 
«È una strana ragazza. La sua reazione iniziale era dovuta a considerazioni sensate, ma non è da tutti restare così calmi in presenza di un Hakaishin poco più che sconosciuto, quindi “auguri” per Whis, se dovrà avere a che fare con lei».
 
«Ma non ha fatto nulla di male… a parte l’averti zittita, maestra» aggiunse poi Champa, cercando di non ridere.
 
«Appunto! E cerca almeno di non mostrare la tua soddisfazione in modo tanto sfacciato» lo rimproverò.
 
«Tra pochi minuti sarà tutto pronto!» annunciò Anise, di ritorno dalla cucina «Il forno a legna sta facendo il matto, quest’oggi».
 
«Buono a sapersi» commentò Vados «Sa, trovo curioso che una ragazza così giovane e senza poteri particolari viva qui da sola in mezzo alla foresta».
 
«Ho varie ragioni per farlo, tra le quali il mio apprezzare una sana solitudine e il non avere gran stima dei miei ex concittadini superstiziosi e guerrafondai… i quali a loro volta non hanno troppa stima della sottoscritta, devo dirlo» ammise la ragazza «Immagino siano cose che succedono, se si frequenta spesso e volentieri un villaggio abbandonato pseudo maledetto. In ogni caso, per quanto la gente di Ulthmeer non sia nulla di speciale devo riconoscere che sa come si cucina. Mi è stato riferito che Beerus e il suo maestro hanno apprezzato molto i piatti tipici».
 
«Se è così, più tardi dovremmo farci un salto» disse l’angelo. Per composta che fosse, la sua curiosità verso nuove pietanze e la sua golosità erano pari a quelle del fratello minore.
 
Nella mezz’ora che seguì, la torta salata di Anise venne apprezzata al punto che non ne rimase una briciola. La ragazza l’aveva fatta grandicella, prevedendo di mangiarla a pranzo e cena per almeno tre giorni, ma conoscendo l’appetito di un Hakaishin aveva capito che non sarebbe stato così appena aveva invitato a pranzo Champa e la sua maestra.
 
«Era buonissima! Superba! Meravigliosa!» esclamò Champa, applaudendo perfino «Un capolavoro di torta!»
 
«Riconosco che era deliziosa» si complimentò Vados.
 
«Non come le tue: le tue sono torte senza burro, senza zucchero o sale, senza uova! In breve, torte senza torta. Sentissi che schifo» aggiunse il dio, rivolto ad Anise… appena prima di buscare uno scappellotto sulla nuca da parte di Vados, tanto forte da lasciare il segno. «Ahiahiahiaaaa!»
 
«Smetti di dire sciocchezze! Non sono io che cucino male, sei tu che non hai gusto. La vede, signorina Anise? La vede, l’ingratitudine? Io mi prodigo ogni giorno per preparargli pasti che non attentino ulteriormente alla sua linea già disastrosa, e lui è sempre a dire questo: “Schifo, schifo, schifo”!» si lamentò l’angelo, con aria da povera vittima «Ogni giorno!»
 
«Io dico “schifo-schifo”, tu “grasso-grasso”, pari siamo» borbottò Champa.
 
«In ogni caso, direi sia tempo di andare a visitare le città» disse Vados, alzandosi dalla seggiola «Mi raccomando di non strafogarti come tuo solito, e di non fare ulteriori paragoni tra la cucina locale e la mia».
 
«Sì, però Champa dovrebbe ancora smaltire le calorie della torta» osservò Anise «E giustappunto io dovrei recarmi al villaggio pseudo maledetto del quale parlavo prima: muovendosi a piedi è piuttosto lontano da qui, e la strada è abbastanza impervia. Se lasciasse che Champa mi accompagni mentre lei si gode il tour delle cittadin-»
 
«Lo farebbe davvero? Sarebbe disposta a far fare attività fisica al mio allievo, e io avrei delle ore libere tutte per me?» si mise una mano sul cuore «Solo Re Zeno sa quanto ne avrei bisogno! A volte il mio lavoro è davvero snervante, mi creda, soprattutto quando si ha a che fare con soggetti recalcitranti. La sua proposta è stata talmente carina che ho deciso di accettarla!»
 
«Ma-»
 
«Niente “ma”, Champa! Comportati bene con la signorina, e soprattutto cammina. Ne hai molto bisogno».
 
Dell’ultima parola si riuscì a distinguere solo una vaga eco, perché Vados l’aveva detta scomparendo in fretta e furia.
 
«La tua maestra con me è stata abbastanza educata ma, detto in modo molto schietto, mi ero rotta le scatole di sentirla fare commenti sulla tua forma fisica. Tra l’altro non sei veramente grasso, sei solo morbido» fu la prima cosa che disse Anise «Mi spiace aver tirato in ballo la storia delle calorie da consumare, ma è la sola maniera che mi sia venuta in mente per tentare di farla andare altrove».
 
Champa si stupì non poco nell’apprendere che era stata una mossa calcolata, e anche perché non era abituato ad avere qualcuno che lo “difendesse”, tanto più dalla sua maestra. «Fare favori a me non ti farà guadagnare punti con Beerus».
 
«L’ho fatto perché certi atteggiamenti della tua maestra mi ricordano quelli di mia sorella maggiore, la quale trova spesso di che criticare. A volte è un po’pesante».
 
Anise lo aveva fatto anche perché trovava somiglianze in svariati aspetti tra Beerus e Champa, ma non lo disse, immaginando che questi non avrebbe gradito il paragone.
 
«È per questo che vivi da sola anche se hai una sorella maggiore?» le chiese il dio, rassicurato dalla risposta e sinceramente interessato. Per lui come per Beerus vivere da solo era inconcepibile, perché non sarebbe stato neppure in grado di lavare le stoviglie.
 
«No, il carattere di Callie non c’entra granché. Ma parliamo di cose serie: come sei venuto a sapere della mia esistenza? Sinceramente non credo sia stato Beerus a dirtelo, visti i vostri rapporti sarebbe stata una mossa poco saggia. Devo presumere che tu e/o la tua maestra siate in grado di osservare da grande distanza ciò che fanno le persone?»
 
«Eeeh… in effetti è così» ammise Champa «Ma lo abbiamo fatto solo una volta, dopo aver visto Beerus volare nelle vicinanze del pianeta. Ho sentito il tuo nome quando vi siete salutati… lì per lì non credevo neppure che quello fosse il vero Beerus, non guarda in quel modo adorante nemmeno i suoi cibi preferiti. Non so come tu ci sia riuscita, ma è completamente andato».
 
«Specifica “andato”».
 
«Andato, cotto, abbrustolito. Innammmorato perso!» disse Champa sbattendo le ciglia con una smorfia stupida, per poi ridere «Quando ieri sono andato a casa sua l’ho preso in giro tantissimo! Non per te, ma perché è la prima volta che lo vedo così, e non avrei mai pensato che potesse succedere. Beerus che ama qualcuno oltre se stesso e il cibo!...»
 
«Forse parlare di amore è prematuro. È vero, io mi rendo conto che quando Beerus è qui mi sento bene» ammise la ragazza «Penso di poter dire che proviamo affetto l’uno per l’altra, ma ci conosciamo da poco, io non ho molto da offrire, non sono immortale come lui, e… a dirla tutta non capisco perché lo sto dicendo a te, che con tuo fratello non vai neppure d’accordo» fece facepalm «Forse è perché questi pensieri mi ronzavano in testa da prima».
 
«La tua torta era buona e sei la prima persona che mi abbia descritto in modo carino da quando sono ingrassato. Quel “morbido” mi si confà di più! Quindi ti dico questo: conosco abbastanza Beerus da sapere che se pensasse che hai poco da offrire non si farebbe mezzo Universo in volo per vederti» le fece notare Champa «E se tu dovessi riuscire a sopportarlo al punto di creare un rapporto “serio”, potresti diventare immortale. Non so come di preciso, ma so che il modo c’è, perché noi Hakaishin abbiamo la possibilità di scegliere una compagna per l’eternità, chiamata “Neiē”».
 
«Grazie per avermelo detto» sorrise la Lusan «Anche se in realtà non cambia molto le cose. È giovane, ha l’eternità davanti: da parte sua sarebbe folle da parte sua scegliere una compagna per l’eternità adesso -o tra due anni, o tra venti- e da parte mia sarebbe folle pensare che possa accadere con me, nonché egoista. Lo priverei di possibili esperienze…»
 
«Seh! Esperienze!» Champa alzò gli occhi al soffitto «La figura della Neiē sarà pure prevista, ma i nostri maestri non fanno che ripeterci che gli Hakaishin stanno meglio da soli, tant’è che la nostra esperienza con le donne si riduce a quelle del bordello. Sai cos’è un bordello? Sì?... ecco, quindi non priveresti nessuno di alcunché. Poi non vedo come Beerus potrebbe trovare un’altra persona disposta ad avere a che fare con lui senza essere minacciata di morte, è uno scassapalle che cammina» aggiunse “gentilmente” «È più probabile che ti stufi tu di lui, che lui di te».
 
Anise gradiva il tentativo di confortarla, tanto più perché pur venendo da qualcuno appena conosciuto era sincero, ma continuava ad avere forti dubbi. «Tu sarai anche convinto di quello che dici, però col tempo le persone cambiano, i bisogni cambiano, e-»
 
«Non quando tutti i giorni sono e sempre saranno uno uguale all’altro» la interruppe l’Hakaishin, facendo spallucce «Quindi se anche tu apprezzi Beerus più del profiterole di Swetts non farti problemi, ok? Hm… non prenderlo come un insulto, ma sei un pochino strana» disse poi «Perché pensi troppo. A me al posto di Beerus non verrebbe in mente niente di quello che hai detto».
 
«Appunto, qualcuno che pensi a certe cose ci deve essere» replicò lei «Ci conosciamo da neppure due mesi. In questo breve lasso di tempo non può essere nato chissà cosa, non avrebbe senso, ti pare? Non avrebbe senso» ripeté «Nemmeno un po’».
 
Stava cercando di convincere più se stessa che Champa, ma al momento i fatti sembravano darle contro in tutto e per tutto. Era davvero possibile che in così poco tempo fosse nato qualcosa più di un’infatuazione da parte di Beerus? 
Più che altro però Anise iniziava a domandarsi che cosa volesse lei, perché non era più sicura di nulla: la mortalità non era più un vero ostacolo, e se le cose stavano come diceva Champa poteva esserci la possibilità di costruire per davvero qualcosa, ma…
 
“Champa chiacchiera, ma io ho soltanto una casa nella foresta, un paio di ricette che Beerus apprezza, un villaggio ‘maledetto’, perline di vetro e tanta ignoranza. Non sapevo nemmeno che l’oceano si chiamasse in quella maniera! Poi c’è anche tutto il resto… io non vado bene per costruire alcunché con nessuno” si disse “Non col bagaglio che mi porto dietro. Se c’è qualcosa più di un’infatuazione, è tempo che io parli a Beerus di un paio di cose prima che lui perda altro tempo con una persona sbagliata” concluse.
 
«Se non ha senso mi sa che devi spiegarlo a Beerus, perché ho ragioni materiali di credere che lui invece un senso lo veda!» ribatté Champa, il cui collo era ancora indolenzito.
 
«Di certo parlerò con lui appena riusciremo a vederci ancora. Ora però direi di andare» disse la ragazza «Per raggiungere Vynumeer a piedi ci vuole un po’».
 
«Aspetta, ma allora vuoi andarci sul serio?» gemette il dio «Io credevo fosse una bugia a beneficio di Vados!»
 
«Ho idea che prenderei uno scappellotto anche io, se non ti facessi fare attività fisica come le ho detto. Non voglio avere problemi anche con lei, ha già detto “Auguri per Whis”, mi basta e avanza» commentò.
 
«… L’avevi sentita?»
 
«Non parlava a voce alta, ma non sussurrava neppure. Andiamo, su!»
 
 

 
 
 
***
 
 

 
 
 
“Champa con me non è stato il rompiscatole descritto da Beerus… a parte per l’entrata in scena un po’infelice. Del resto non si può pretendere che sappia parlare con una donna, se nel novantotto per cento dei casi lui e Beerus hanno a che fare con delle prostitute”.
 
Aveva passato l’intero pomeriggio insieme all’Hakaishin del sesto Universo, e doveva ammettere che era stato in grado di migliorare una giornata altrimenti tendente al “pessima”. Sì, era terribilmente lento nel camminare -tanto che per arrivare a Vynumeer avevano impiegato il triplo del tempo necessario- ma a parte questo era una persona divertente,  e vedendolo incuriosito lo aveva persino convinto ad aiutarla a fare il sapone. Champa era pigro, ma curioso verso le attività che non richiedevano fatica, e veloce a imparare. Sembrava che Vados, tornata dal suo tour mangereccio, avesse apprezzato la saponetta che il suo allievo aveva fatto per lei.
 
“Credo che potrebbe essere davvero un tipo gradevole, se lo facessero sentire utile e apprezzato. Prendere in giro e punzecchiare di continuo una persona sui suoi difetti, fisici e non, è inutile e dannoso”.
 
Ormai era quasi mezzanotte e mezza, quindi era il momento di andare a dormire. Il mattino dopo intendeva svegliarsi presto per andare a Vynumeer e tentare seriamente di rimettere in funzione la vetreria: Callie le aveva portato un sacchetto di perline qualche settimana prima, ma erano finite tutte su un vestito.
A tal proposito, bisognava dire che Beerus era sempre stato bravissimo a “scomparire” quando arrivava Calida, e Anise non aveva neppure dovuto chiedergli di farlo: ci aveva pensato da solo, forse facendo qualche paragone alla propria situazione col suo maestro. Sarebbe stato abbastanza azzeccato, in effetti. Per quanto indipendente fosse, e per quanto Calida non avesse mai alzato le mani su di lei, al momento la giovane non riusciva neppure a immaginare di parlarle di Beerus.
 
«Anise!...»
 
La Lusan sobbalzò e aggrottò la fronte, pensando di avere le traveggole. Le era sembrato di sentire la voce di Beerus fuori dalla porta, ma era impossibile.
 
« ANISE!...»
 
"No, mi sa che invece non ho le traveggole!" pensò la ragazza, correndo ad aprire.
 
L’istante dopo si trovò stretta da un paio di braccia viola che ormai aveva imparato a conoscere bene, e a percepire un battito cardiaco forte quanto il suo.
 
«Stai bene? Dimmi che stai bene! » esclamò l’Hakaishin, staccandosi dall’abbraccio soltanto per esaminare attentamente le condizioni di Anise «Se quel deficiente di Champa ha fatto qualcosa che non doveva, giuro che io-»
 
«Beerus, io sto bene» lo rassicurò, stringendogli entrambe le mani «Tuo fratello non mi ha minacciata, non mi ha toccata, né si è comportato in modo sconveniente con me. A dirla tutta è stato molto gentile e carino, ma non in modo da lasciar pensare male».
 
«Allora quell’idiota ha recepito il messaggio» sospirò «Ho passato la giornata intera col pensiero fisso di lui qui, tu tra le sue grinfie, io bloccato sul mio pianeta, non potevo farcela ad aspettare neppure altri tre giorni, se ti fosse successo qualcosa!...»
 
«Guarda che io sono una ragazza forte: so allacciarmi le scarpe e tutto il resto» scherzò lei, nel tentativo di calmarlo «È tutto a posto. Entra in casa, dai» lo invitò «Spiegami come sei riuscito a sfuggire al tuo maestro così presto… e magari anche il cambio d’abito!»
 
«Cos- ah, questo» comprese il dio, guardandosi e ricordando di essere in pigiama «Sono scappato poco dopo che Whis mi ha mandato a letto. Vuole che dorma dieci ore, quindi ho fatto un conto: sette ore se ne vanno tra andata e ritorno, se resto qui per massimo un’ora riesco anche a farne due di sonno. Bastano e avanzano. Dovevo vederti» disse, accarezzandole una guancia «Dovevo».
 
Beerus non fu in grado di decifrare l’espressione che fece Anise sentendogli dire quelle parole: sembrava un po’felice, ma anche triste, e una persona non poteva sentirsi in entrambi i modi contemporaneamente. Non gli piacque, tanto che ricominciò a sentirsi inquieto.
 
«Fai tutta questa fatica per la persona sbagliata» disse lei «Io non vado bene per un dio, né per nessuno».
 
Dopo quella frase, l’inquietudine divenne la sensazione di chi non ha più la terra sotto i piedi e non è in grado di volare. «Cosa vuoi dire?! Chi ti ha messo in testa… ah, che domande! Quel bastardo di Champa, ovvio! Lo strangolo, giuro che stavolta lo strangolo sul serio, io-»
 
«Lui non c’entra, e dire il vero mi ha tolto dalla mente un paio di dubbi. Se dico che sono la persona sbagliata è perché io ho un certo… bagaglio. Credo sia tempo di parlarti di un paio di cose» continuò «Se non l’ho già fatto è perché sono faccende che non mi piace rievocare, e perché conoscendoci da poco credevo fosse prematuro. Oggi però Champa ha parlato di innamoramento. Tuo nei miei confronti» specificò, decidendo di essere diretta «Io non posso essere del tutto sicura del fatto che abbia o meno ragione, ma nel dubbio voglio dirti quel che c’è da dire. Beerus, ti sei mai chiesto perché io non ho mai manifestato il desiderio di andare a Ulthmeer? O perché sia Calida a venire qui ogni settimana, e non io a scendere giù da lei?»
 
Al momento Beerus aveva le guance rosse come il fuoco e nutriva il forte desiderio di massacrare Champa per la sua mancanza di discrezione, ma si rendeva conto che era il caso di mettere tutto in secondo piano. Durante le volte in cui si erano visti, non aveva pensato di indagare ulteriormente sulle ragioni della vita solitaria di Anise; non essendo sciocco aveva capito che c’era sotto qualcosa di strano, ma piuttosto che riempirla di domande aveva preferito portarla da una parte all’altra del pianeta, farla sorridere e godere della sua compagnia. «A volte, ma non volevo farti pressione. Abbiamo tutti cose di cui non abbiamo voglia di parlare».
 
«Ti ringrazio per la delicatezza» disse la ragazza, con un piccolo sorriso «È una storia abbastanza lunga ma abbiamo poco tempo, quindi tenterò di essere sintetica, anche se
con le sintesi non me la cavo molto bene. Tanto capirai alla svelta perché ti dico che sono sbagliata».
 
«Quello è un giudizio che eventualmente spetta a me» ribatté Beerus, serio.
 
La lince fece una risata amara, gemella di quella a ora di pranzo. «Certo, è vero. Mettiti a sedere, intanto».
 
Beerus obbedì. Quella situazione gli piaceva sempre meno. Per l'Hakaishin era brutto nel vedere Anise così “strana” quando, se fosse stato per lui, avrebbe meritato soltanto di poter essere sempre felice e serena. Non sapeva cos’avesse da raccontargli, ma di certo non era bello, e gli dispiaceva pensare che avesse passato
pessimi momenti.
 
«Sai già che non ho mai amato molto la compagnia dei miei concittadini. Anche da piccola mi interessava osservare attentamente i tipi d’interazioni tra le persone, ma non di farne parte. Somma questo al fatto che io fossi una trovatella che frequentava moltissimo il villaggio maledetto, e puoi capire perché la mia reputazione non fosse il massimo. Vivevo comunque abbastanza tranquilla, perché Calida invece era -ed è- estremamente rispettata. Andava a Vynumeer solo quando nessuno poteva vederla, e soprattutto ha dei meriti di guerra» spiegò «L’ultima è finita quando lei aveva sette anni. Callie è famosa per aver attirato una piccola armata di Moriameer in una grotta e aver fatto franare l’ingresso, lasciandoli morire lì dentro… ma sto divagando. Dicevo, vivevo con Calida ed entrambe credevamo che le cose non sarebbero cambiate: lei aveva la sua carriera militare e una posizione seconda solo a quella del capo della cittadina, quindi poteva evitare di sposarsi, e io ero “quella strana”».
 
Beerus non riusciva ancora a capire dove volesse andare a parare, ma non prometteva nulla di buono. «Immagino che invece vi sbagliaste».
 
«Prima di Callie, l’Ulthmeer a-ghekavary era un Lusan di nome Meskal. La sua famiglia era a capo della cittadina da diverse generazioni, ma l’ultima guerra l’ha decimata, lasciando in vita solo lui» continuò Anise «Era un partito alquanto ambito, ma non si era mai sposato. Calida diceva sempre che pensava soltanto a battagliare e divertirsi. Tuttavia, a trentasei anni ha ritenuto che fosse ora di metter su famiglia» disse Lusan, mentre il suo volto diventava inespressivo «Poteva scegliere qualunque donna, perché la maggior parte di esse lo considerava bello, Calida inclusa. Invece ha preferito una ragazzina di quindici anni» si indicò «Le nostre leggi lo consentono».
 
Se ci furono cambiamenti nell’espressione del dio, Anise non li vide. Si stava limitando ad ascoltare e osservare in silenzio, e lei non sapeva cosa pensare: di solito Beerus era così espressivo!
L’unica cosa che potesse fare, a quel punto, era proseguire.
 
«Non avrei voluto cambiare vita, avrei voluto continuare a starmene in giro per la città, la foresta e Vynumeer: avrei potuto sostentarmi come faccio adesso. Non mi volevo sposare, tantomeno con lui, perché Meskal non mi piaceva affatto» disse dunque «Ma con mia grande sorpresa, Calida ha iniziato a insistere perché accettassi. “Tu non combatti, quindi devi sposarti, è un’occasione unica, soprattutto per te che hai la fama di strana”, diceva, e alla fine ho ceduto. Mi sono detta che lei, essendo più grande, forse sapeva meglio di me qual era il mio bene».
 
Ci sarebbe stato altro da dire di quella giornata, di quella sera, di Calida, ma decise di tacere. Era una cosa tra loro due, e lei cercava sempre di pensarci il meno possibile, quindi non c’era ragione di dirla a Beerus.
 
«Ho sposato Meskal. Non posso dire che mi maltrattasse, perché durante il giorno lo vedevo giusto all’ora dei pasti, e di notte tentava di mettermi incinta, come qui ogni marito fa con la moglie. Non ho mai desiderato che mi toccasse, ma eravamo sposati, e dargli figli era il mio dovere. Per fortuna non ci sono riuscita, e il giorno in cui ho compiuto sedici anni mi ha ripudiata pubblicamente. “Non sei buona né per combattere né per figliare”, ha detto poi» ricordò la ragazza «Non aveva torto, perché il mio ciclo non si fa vedere quasi mai, ma io gli ho risposto “Quello è perché tu a letto sei un disastro,
le poche volte che riesci a metterlo dove devi non duri un minuto”. Credo si sia sentito più umiliato di me, anche perché non se lo aspettava. Lì gli ho voltato le spalle e me ne sono andata, diretta a Vynumeer. Volevo stare da sola. La mia reputazione già poco bella era peggiorata: se una Lusan non combatte, né sforna nuova carne da macello per le guerre che verranno, è inutile. È sbagliata. Questo è il pensiero comune».
 
Neppure allora Beerus parlò, ma Anise poté notare che aveva stretto i pugni, e tremavano leggermente. Forse era arrabbiato per aver perso tempo dietro una ragazza che per l’appunto era sbagliata, pensò.
Tuttavia non era ancora finita e, credendo di aver già rovinato tutto, la Lusan continuò a parlare.
 
«Il momento in cui tutto è crollato davvero però è stato il mattino seguente. Meskal è stato trovato morto in riva al fiume» rivelò «Attorno a lui c’erano segni di lotta, e chi l’ha ucciso lo ha fatto prendendogli la testa e sbattendola contro una roccia fino a spappolare il cranio. Serve una certa forza, una ragazzina magrolina di sedici anni non può riuscire ad ammazzare così un combattente esperto e ben più grosso di lei, eppure per gli abitanti di Ulthmeer ero io la colpevole. Sono andata via dalla città» disse, risparmiando a Beerus il racconto del tentativo di linciaggio «Da allora vivo qui, in questa casa che io e Calida avevamo rimesso a posto anni prima di tutto questo disastro. Potrei entrare in visita a Ulthmeer, perché Callie ne è diventata il capo in quanto vice del defunto Meskal, ma non lo faccio volentieri. Ecco, ho finito» concluse «Vedi? Sono sbagliata. Dovevo dirtelo subito, anche se così facendo non avrei ancora idea di cosa significhi conoscere una persona che mi piace davvero, e mi fa stare bene al punto di sorridere anche solo pensandola. È quel che mi succede con te» confessò «Per quel che può valere, ormai».
 
Ancora una volta Beerus non disse nulla, ma le si avvicinò a grandi passi e la strinse in un forte abbraccio. Incredula, sul momento Anise non riuscì a muovere un muscolo.
 
«Mai più. Non voglio più sentirti dire che sei sbagliata, che non vai bene, e tutto quel che ti hanno messo in testa quei maledetti. Tu non sei sbagliata, tu sei… sei una meraviglia, Anise!» esclamò, allontanandosi per guardarla negli occhi «L’ho pensato quando ti ho vista sull’altalena quella notte e ho continuato a pensarlo, arrivando al punto di fare complete follie per poterti vedere ancora, e non mi pento di niente: le vali tutte! Anzi, vali di più» si corresse «Ne ero convinto prima, a maggior ragione lo sono adesso».
 
Più Beerus continuava a parlare, più Anise si sentiva liberata da un peso sulle spalle che sì, era stata conscia di portare, ma del quale non aveva riconosciuto l’entità. Tale sollievo si mescolò all’incredulità più completa, a una gioia autentica ancor più grande della prima volta in cui Beerus l’aveva fatta volare, e a una sensazione che Anise non aveva mai conosciuto prima: la speranza. Una timida speranza che quello che lei aveva vissuto come un bel sogno, purtroppo destinato a finire, potesse essere qualcosa di più. Qualcosa di reale. Se non pianse fu solo perché riuscì miracolosamente a imporsi sufficiente autocontrollo. «S -sei sicuro di quello che dici?»
 
«Totalmente».
 
Non fu uno di loro in particolare a prendere l’iniziativa: si avvicinarono l’uno all’altra contemporaneamente, desiderosi soltanto di scambiarsi il loro primo bacio… e finendo col darsi una testata allucinante.
Mai che le cose andassero come previsto!
 
«So che hai la testa dura, ma solo adesso ho capito quanto» scherzò la ragazza, massaggiandosi la fronte.
 
«La tua è più dura della mia!» ribatté Beerus, con lo stesso tono «Ora però vieni qui».
 
C’erano voluti quasi due mesi, ma finalmente il loro primo bacio era arrivato.
Poi un altro.
Poi altri cento.
In quel momento nelle loro menti non c’era spazio per nient’altro che non fossero loro due e il loro piccolo mondo, tutto racchiuso in quella stanza: erano insieme, giovani, belli e innamorati. Non c’era nulla meglio di così.
 
Solo diverso tempo dopo, nessuno dei due sapeva precisamente quanto, gli occhi di Anise caddero sull’orologio. «Beerus!»
 
«Sì?»
 
«È ora! È passat- un’or- apprezzo i baci, ma fammi parlare!» sorrise la Lusan «Due ore di sonno sono già troppo poche. Devi andare».
 
«Devo proprio?» sospirò il dio, con una smorfia.
 
«Se non vuoi ricevere gli scappellotti del tuo maestro, temo di sì. Non preoccuparti, in futuro avremo tutto il tempo che vogliamo».
 
Raggiunsero assieme la porta d’ingresso, poi Beerus prese una mano di Anise tra le proprie e la baciò, come faceva sempre sia quando arrivava, sia quando era costretto ad andare via.
«Tutto il tempo che vogliamo, letteralmente. Tornerò presto, Anise».

«Lo so».

Un ultimo bacio, poi Lord Beerus volò via.
Tutte le carte erano in tavola, si erano finalmente “trovati” per davvero; adesso era sua, e non l’avrebbe mai lasciata andare. L’avrebbe trattata come una dea, o più precisamente come la compagna di un dio, e non avrebbe lasciato che niente e nessuno si mettesse tra loro due: non quello che Anise aveva definito “bagaglio”, non la mortalità, e neppure Whis. Al suo compleanno mancavano meno di tre mesi, dopotutto.
Sentiva che il giorno dopo avrebbe fatto faville durante l’allenamento, anche con due sole ore di sonno.



 
 
 
 
 
Capitolo 5: eccolo.
La coppietta: anche!
A voi i commenti, se ne avete (:
Piccola nota di cui non importerà un accidenti a nessuno: il nome Meskal si pronuncia "Meskàl".

Il disegno qui sotto non necessita spiegazioni (:


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Capitolo 6
*** 6 ***


RMI cap6
6
 
 
 
 
 


 
 
 
 
Un colpo, l’ennesimo di una lunghissima serie.
Un grido, reso gorgogliante dal sangue che era risalito lungo la gola.
 
«Kahzameer. Thandrumeer. Adrameer. Tre cittadine di un elenco piuttosto corposo. Mi chiedo quand’è che voi di Moriameer riuscirete a capire che dovete guardare altrove, perché Ulthmeer non è alla vostra portata».
 
Il pavimento di pietra di quella stanza circolare priva di finestre era sporco di sangue, solo in parte fresco. Al centro giaceva una giovane Lusan dal pelo grigio e i lineamenti un tempo delicati, deformati
dalle bottedall’estremo dolore patito. Avrebbe chiesto pietà, se fosse riuscita ad emettere altri suoni diversi da gemiti strozzati; avrebbe lanciato uno sguardo disperatamente supplicante, se avesse avuto ancora gli occhi per poter vedere.
 
Calida abbatté un piede sulla mano della sua vittima, spappolando tendini, frantumando ossa.
Quella sventurata Lusan di Moriameer non sarebbe morta in quella stanza, come non erano morti i suoi compagni prima di lei: il Trattato tra Città imponeva a Calida di risparmiarla, ma forse sarebbe stato un destino migliore di quello che le era riservato. Cieca -strappare gli occhi era la “firma” di Calida- infinite ossa rotte, tessuti danneggiati in maniera irreparabile… un catorcio, buono solo da utilizzare come concime o mangime per certi animali.
Letteralmente. Nella città di Moriameer non andavano per il sottile con gli “inservibili”.
 
«Vi credete furbi… tu ti credi furba, ma non lo sei» continuò Calida, artigliando la gola della sua vittima per poi sollevarla senza alcuna fatica «Non quanto pensi. Tu credi che non lo sappia! Credi che non lo sappia, e dunque taci!»
 
Scagliò la ragazza, inerme come una bambola di pezza, contro la parete di fonte. Se il collo di quella povera disgraziata non si spezzò, purtroppo per lei, era perché la Ulthmeer a-ghekavary aveva fin troppa esperienza in certi campi per poter sollevare qualcuno dalle sue miserie per errore.
 
«Neppure adesso riesci a evitarlo, vero?» ringhiò, a voce bassa, passandosi sul volto una mano sporca di sangue  «Se non finisci in mezzo a qualcosa di strano, non sei contenta».
 
In quella stanza erano solo in due, ma Calida non si stava più rivolgendo alla sua vittima. Si avvicinò a una sedia di legno e si sedette al contrario, a gambe aperte, poggiando le braccia sullo schienale.

Ormai da quasi due mesi e mezzo vedeva Anise particolarmente serena, anzi, avrebbe addirittura osato dire che fosse contenta. Qualcuno che la conoscesse meno bene forse non si sarebbe accorto di nulla, ma Calida non era tra quelli che la conoscevano “meno bene”.

All’inizio non aveva dato molto peso alla cosa, limitandosi a pensare che fosse meglio così: quando tempo prima le aveva detto che temeva di andare da lei e trovarla morta, non aveva mentito.
Poi però aveva visto che il buonumore di Anise non scemava, e non le era servito molto per capire che c’era sotto qualcosa. Com’era scontato non era riuscita a ottenere nulla facendo domande sul tono di “oggi ti trovo tranquilla/allegra, è dovuto a qualcosa?”, perché se Anise non voleva dire qualcosa non lo diceva, e infatti aveva dato mostra di non capire il senso della sua domanda.
Per tale motivo, alla quarta settimana di buonumore, le aveva portato una pianta di vite in un vaso. Anise era stata contenta del regalo, prevedibilmente era subito uscita di casa a trapiantare la vite nel terreno, e Calida aveva avuto campo libero.
Quella delle perline di vetro non era la sola fissa di Anise: da quando era stata in grado di tenere una matita in mano tendeva a scrivere e disegnare molto ogni giorno, come se avesse avuto bisogno di “scaricare” i troppi pensieri da qualche parte, ed era molto precisa nel datare i propri lavori.
Calida non aveva impiegato molto a trovare il primo disegno di Lord Beerus, con accanto il relativo commento di Anise stessa, e aveva impiegato ancor meno per trovare un disegno della loro terra vista dall’alto, di una cittadina sconosciuta affacciata su una grande distesa d’acqua, e altri ancora.

 
Ecco qual era la causa del buonumore: una divinità.
Un maschio.
 
«Neppure vivere sola nella foresta, neppure quello è servito» mormorò, alzandosi dalla sedia per andare verso la sua vittima «Non vogliono lasciarti in pace. Non lo capiscono…»
 
Si chinò, sollevò la testa dell’altra lince, e la baciò delicatamente su una tempia.
 
“Non lo capiscono proprio, che tu sei mia”.
 
Dopo quell’ultimo pensiero, la spinta ad agire trascinata da pulsioni che non era in grado di frenare svanì di botto, esattamente com’era arrivata. Pur essendosi resa conto di quanto fosse stato malato quel bacio -come lo era stato tutto il resto- dato a una Lusan sconosciuta diventata per qualche minuto un “feticcio”, ritenne inutile compensarlo con nuova violenza.
 
«Credo sia abbastanza» sentenziò, uscendo dalla stanza senza degnare di un’occhiata la sua vittima. Ai due suoi uomini che avevano atteso obbedienti fuori dalla porta rivolse giusto un cenno del capo. Si era sfogata, ma non era ancora dell’umore giusto per interagire maggiormente con loro.
 
Accecata per un attimo dalla luce aranciata che entrava delle molteplici finestre che rischiaravano il corridoio, Calida desiderò tornare nelle tenebre confortevoli della stanza circolare, ma non c’era più nessuno da “trattare”. Non le era rimasto altro da fare per quel giorno: aveva sistemato le questioni burocratiche già prima di dedicarsi agli intrusi di Moriameer, quindi la sua serata sarebbe stata completamente libera.
 
Uscì nell’ampio cortile del campo d’addestramento dei suoi soldati, riempiendosi i polmoni di aria fresca mentre ascoltava i rumori di Lusan uomini e donne che si allenavano a combattere, preparandosi a uccidere i nemici che sarebbero venuti.
Il campo di addestramento era l’edificio più grande di Ulthmeer, e all’occorrenza fungeva anche da prigione. Bisognava dire che le celle occupate erano ben poche, perché la gente di Ulthmeer era troppo occupata a lavorare o ad addestrarsi per aver voglia di commettere crimini minori. Per quelli più gravi invece c’era un valido deterrente: la forca.
Se un Lusan aveva voglia di creare problemi, faceva meglio a sfogare i suoi impulsi violenti in una delle città vicine -senza farsi cogliere sul fatto, magari.

 
«Hogevor Calida».
 
«Hogevor Calida...»
 
«Hogevor Calida!»
 
I molteplici rispetti che le porsero i suoi soldati -“Hogevor” era un titolo onorifico traducibile in “capo” o “comandante” nella lingua comune- la accompagnarono fino all’uscita del campo e oltre, perché anche i civili erano tenuti a salutare l’Ulthmeer a-ghekavary nello stesso modo.
 
Erano passati solo due anni, ma i tempi in cui quel ruolo e quel titolo erano riservati a Meskal le sembravano ben lontani, e non le mancavano. Quella posizione era sua, le spettava di diritto per il semplice fatto che era sempre stata convinta di essere la persona migliore per ricoprirla. Lui era stato un capo più amato, ma lei era più rispettata e più temuta.
Era anche per quella ragione che si riteneva la persona giusta per conquistare tutte le città vicine, diventandone il capo: era quello il suo sogno, unificare sotto di sé tutte le terre conosciute. Peccato che le mancassero i mezzi, perché l’esercito che possedeva era in grado di difendere bene Ulthmeer da eventuali attacchi, ma Calida era consapevole di non poter portare con sé soldati sufficienti per conquistare un’altra città, non senza lasciare scoperta la propria -finendo col perderla, ovviamente.
 
“Se solo quella leggenda fosse vera!…”
 
In Calida albergavano tre lati: quello razionale, quello poco savio, e infine quello della sognatrice. Benché fossero sanguinosi, i suoi erano sempre sogni, e a trentaquattro anni suonati non riusciva ancora a smettere di credere a quella vecchia leggenda.
 
Si narrava che svariati millenni di anni prima, quando la magia non era ancora morta sul pianeta, proprio lì in quelle lande un Lusan dal nome sconosciuto fosse venuto -chissà come- in possesso di poteri al di là di ogni immaginazione.
Tale Lusan aveva abbandonato il proprio nome originario e adottato quello di “Rubedo”, per poi ovviamente partire alla conquista di tutto quello che lo circondava. Dando retta alla leggenda, sembrava che avesse imperversato in quelle terre per un periodo di tempo abbastanza lungo -raccogliendo anche un grande tesoro che aveva nascosto chissà dove- fino a quando i maghi di tutte le città si erano riuniti, riuscendo a fermarlo proprio nel luogo che lui aveva eletto a dimora: quello in cui adesso sorgeva il villaggio abbandonato di Vynumeer.
Si diceva che i maghi avessero “rinchiuso” Rubedo nella sua corona, che avessero nascosto suddetto monile all’interno di una cassa di metallo, e infine che avessero addirittura creato il profondo lago di Vynumeer nel quale gettarla, per essere sicuri che nessuno l’avrebbe più recuperata. Purtroppo per loro, pareva che prima della propria sconfitta Rubedo avesse lanciato due maledizioni: una che aveva privato i maghi di ogni discendenza presente e futura, e l’altra su tutte le terre che aveva conquistato, condannandone le popolazioni a una perenne discordia.
 
C’erano molti aspetti incredibili in quella vicenda, ma Calida aveva sempre sperato che quella corona esistesse davvero, ed era per tale motivo che fino a qualche anno prima si era recata spesso a Vynumeer -di nascosto, non essendo sciocca- sperando di riuscire prima o poi a raggiungere il fondo del lago, trovarla e prenderla per sé. Non si era fatta spaventare neppure dal calore delle acque di Vynumeer, iniziato un secolo e mezzo prima senza spiegazione e ragione principale della nomea di “maledetto”, perché con quel potere avrebbe potuto realizzare il proprio sogno, ma fino a quel momento non aveva mai trovato nulla… eccetto Anise.
 
La versione ufficiale era che l’avesse trovata nella foresta, ma quella non era la verità, perché Calida l’aveva trovata in riva al lago. Ai tempi aveva sedici anni, e aveva visto quella neonata lasciata a se stessa sopra un mucchietto di vestiti da adulti, alcuni di un uomo, altri di una donna. Si era avvicinata, stupita per quel ritrovamento inatteso e anche pronta a seppellire quella piccola Lusan, pensando fosse troppo silenziosa per essere ancora viva; quella neonata però aveva aperto gli occhi appena aveva percepito la sua presenza, e in quel momento Calida aveva deciso che l’avrebbe portata a casa e tenuta sempre con sé.
 
“Maschi più o meno divini permettendo” pensò.
 
Dubitava fortemente che l’Hakaishin di quell’Universo potesse volere chissà cosa da Anise, al massimo poteva esserne rimasto affascinato, forse aveva anche voglia di fare sesso con lei qualche volta, ma nulla di più. Se le cose stavano così, il buonsenso suggeriva che non ci fosse molto di che preoccuparsi: Lord Beerus si sarebbe tolto di torno, proprio come una malattia acuta benigna a risoluzione spontanea.
Tutto quel che doveva fare lei era aspettare, e tutto quel che doveva fare Anise era cercare di ottenere da lui il più possibile. Era un dio, qualche beneficio nel frequentarlo doveva pur esserci, no?
 
Avrebbe dovuto parlarne ad Anise già da un pezzo, lo sapeva, ma non lo aveva fatto. Era stata bloccata dalla sia parte di lei che di sensato aveva ben poco -del cui influsso avevano pagato il prezzo quella Lusan di Moriameer e tutti i disgraziati venuti prima di lei da un mese e mezzo a quella parte- sia da quella razionale, che le aveva suggerito “Non è il caso che affronti l’argomento ora, le cose potrebbero degenerare di nuovo, come tre anni fa”.
 
Era successo solo una volta, la sera in cui l’aveva convinta ad accettare la proposta di matrimonio, ma era stata una di troppo. Quando tempo prima Anise aveva parlato di “attenzioni più o meno strane da persone più o meno inaspettate” non era tanto a quelle di Meskal che si era riferita, ma... alle sue.
Calida non aveva intaccato l'illibatezza di Anise, ma aveva comunque messo le mani sulla sua calda intimità; l'aveva toccata, lo aveva fatto in un modo in cui fino ad allora non le era mai passato per la mente di fare
, e non perché Anise lo avesse voluto.
Non poteva permettersi di farlo ancora: non condividevano neppure una goccia di sangue, ma era stata lei a crescere Anise, quindi la mancanza di reale parentela non era un’attenuante, come il vino da loro bevuto in quell’occasione non era stato un vero alibi, perché Calida lo reggeva perfettamente.

 
La Lusan non riusciva ancora a capire cosa fosse scattato dentro di lei in quel momento, forse il desiderio di protezione si era corrotto diventando uno di possesso, o qualcosa del genere.
Anise era sempre stata “strana”, ma neppure lei era mai stata troppo normale, e se ne rendeva conto perfettamente; riteneva plausibile che la propria devianza avesse corrotto un sentimento in origine puro. La sola differenza era che la maggior parte del suo “essere strana” era accettato dalla loro società, e Calida era più brava di Anise a tenere nascosto ciò che invece non lo era.

 
“Mi prenderò ancora del tempo” concluse “Per il bene di entrambe”.
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
«Ormai mi hai portata qui svariate volte, e non mi sono ancora abituata alla bellezza di questi luoghi visti dall’alto, soprattutto al tramonto. Onestamente però mi auguro di non abituarmi mai. È bello che ogni volta sia come la prima. Spettacoli come questo contribuiscono a ricordarmi che ci sono tante cose per cui la vita è degna di essere vissuta».
 
Beerus l’aveva portata più volte su quel monte, uno dei più alti vicino alle terre dove viveva Anise. Precisamente, quello che avevano eletto come “loro” posto era una rientranza della parete rocciosa, abbastanza vicino alla cima da consentire la vista di un panorama mozzafiato.
In quell’occasione avevano portato con loro dei plaid, del cibo e delle bevande, prevedendo di trattenersi lì un po’più a lungo del solito… e al momento formavano un bozzolo di felini e lana, standosene abbracciati e avvolti da tutte le coperte.
 
«Devo preoccuparmi, se hai bisogno di qualcosa che te lo ricordi?» le chiese lui, con aria seria.
 
La ragazza scosse il capo. «No, non devi».
 
«Mi dispiacerebbe se avessi brutti pensieri. Sarebbe comprensibile se mi dicessi che ne hai avuti in passato, visto che…» non finì la frase «Adesso però le cose sono diverse, giusto?»
 
Beerus non giudicava male Anise per il suo passato, ma si era ripromesso di impedire a chiunque di farle ancora del male o imporle di fare qualcosa di cui non fosse convinta, e di fare di tutto perché fosse felice e serena come meritava. Era sempre stato piuttosto attento e delicato con lei, e da quando si erano messi insieme lo era diventato perfino di più.
 
«Lo sono, decisamente. Ascoltami, voglio essere chiara: nonostante i momenti di “umore strano” di cui ti ho parlato, non ho mai avuto il pensiero di togliermi la vita. Capisco che tu possa aver avuto qualche dubbio, avendomi vista saltare giù da un dirupo già dal nostro primo incontro, però davvero, non devi preoccuparti» sorrise, e si strinse di più a lui per coccolarlo «Non potrei stare meglio, Beerus, soprattutto quando sei qui con me».
 
Anise non era mai stata il tipo di persona che cercava molto il contatto fisico, ma stando con Beerus aveva iniziato a pensare che forse era stato dovuto alla mancanza di occasioni valide, o meglio, di persone valide.
Aveva accettato il contatto con Meskal solo perché “doveva”, ma non l’aveva mai cercato, mentre con Beerus era tutto diverso: non solo le piaceva essere accarezzata, baciata e coccolata da lui, ma aveva anche il desiderio di ricambiare.
Era qualcosa di per sé perfettamente naturale, ma a lei del tutto nuovo, le piaceva molto… e in virtù di tutto ciò credeva che anche fare l’amore con lui sarebbe stato diverso da come lo ricordava, più bello.
 
«Allora dovrò trovare il modo di stare con te più spesso, che ne dici?» sorrise il dio, soddisfatto della risposta.
 
«Non credo che tu possa fare più di quel che fai, che è già moltissimo. Per non parlare del fatto che tu hai degli allenamenti da seguire, dei doveri divini cui adempiere, e… delle funzioni lineari da capire!» gli ricordò Anise.
 
«Nooo, speravo te ne fossi dimenticata!» gemette l’Hakaishin.
 
«Suvvia, quelle schede che ti dà il tuo maestro sono fatte molto bene, dal nostro terzo incontro in poi sono riuscita a fare tutto il tuo programma di matematica, e sai bene che il mio livello di preparazione era elementare. Se ho capito io come si fanno le funzioni, a maggior ragione puoi riuscirci tu» sentenziò «Non sei certo uno sciocco! Motivo per cui torneremo a lavorarci su, una volta a casa».
 
«Vuoi davvero passare la serata a fare matematica? Sicura di non voler fare altro?» le chiese Beerus, baciandole il collo.
 
«Sì, ne sono sicura» ribatté lei, cercando invano di contenere un brivido di piacere nel sentirlo scendere più in basso. Per l’appunto: adorava e desiderava terribilmente il contatto fisico con lui, non c’erano proprio dubbi in proposito… e sapeva anche che Beerus se ne era accorto.
 
«Ne sei proprio convinta? Al cento per cento?» insistette lui, accarezzandola mentre le baciava una clavicola «Io avevo immaginato di passare la serata così come stiamo facendo ora, ma davanti al camino acceso e con le praline a portata di mano, mentre leggiamo qualcuno di quei fumetti che ti ho portato».
 
«Il programma è molto allettante» riconobbe la Lusan «E infatti intendo metterlo in pratica».
 
«Oh, allora ti ho convinta!»
 
«… dopo aver fatto matematica».
 
«Sì ma a cosa mi serve saper fare le funzioni, se il mio lavoro è distruggere pianeti?» si lamentò Beerus «Io sono obbligato a studiare e ne farei volentieri a meno, tu non sei obbligata e vuoi farlo! A volte non ti capisco».
 
«Mi sarebbe piaciuto studiare e conoscere meglio il mondo che mi circonda in tutti i suoi aspetti, ma non ho potuto, e infatti non sapevo neppure che l’oceano si chiamasse così. Capire di essere una persona ignorante non è piacevole» replicò lei «Per questo ti dico: tu che hai modo di farlo, studia».
 
Sul momento il giovane dio non seppe neppure come ribattere, perché non aveva mai considerato la questione da un simile punto di vista. Riflettendo ulteriormente, e capendo che Anise non aveva torto, si sentì perfino uno sciocco.
La strinse saldamente al proprio petto e cominciò ad accarezzarle i capelli. «Tu ti senti ignorante, io ora mi sento cretino, siamo comunque una coppia perfetta. Sai, nel mio palazzo c’è una biblioteca che mi è sempre sembrata infinita» le disse «Hai la mia parola che un giorno non troppo lontano te la mostrerò, insieme a tutto il resto. Sono sicuro che il mio pianeta ti piacerà, già solo per il fatto che il cielo di giorno è sempre rosa pallido, come molti dei tuoi abiti».
 
«Non ho ancora visto quel cielo, ma credo di adorarlo».
 
«Ci sono anche grandi prati erbosi, una foresta estesa come quella in cui vivi -se non di più!- e un lago cui mi reco piuttosto spesso. È abitato» aggiunse «Ci vive una grossa creatura con il collo lungo, che però non si lascia avvicinare. Se devo dirtela tutta, nessuno degli animali presenti ha una gran voglia di avvicinarsi a me. Credo mi temano, anche se non ho mai fatto loro nulla di male… sai che novità» fece spallucce «Chi non scapperebbe da un Dio della Distruzione?»
 
«Io».
 
«Bugia! Ti sei lanciata giù da un’altalena, pur di sfuggirmi!» le ricordò Beerus.
 
«Però non sono scappata via perché sei l’Hakaishin di questo Universo, non lo sapevo neppure» gli fece notare la lince «Io sono scappata via da un forestiero molto affascinante in cerca di frutta».
 
«Solo “molto affascinante”? Io avrei detto un “forestiero magnifico”, o “stupendo”, o “divino”!»
 
«O “divinamente imbranato”, ci sta anche questo» lo prese affettuosamente in giro lei.
 
«Ehi! Offendere una divinità è un peccato mortale che merita una punizione severissima… a meno che la colpevole trovi il modo di farsi perdonare. Hai qualche idea?»
 
«Più d’una. Alcune anche piuttosto osé!» scherzò Anise, curiosa di vedere quale sarebbe stata la reazione.
 
La luce del tramonto era passata da un bel po’di tempo da arancio a rossa, eppure non bastò a mascherare il fatto che Beerus fosse arrossito, sentendo quella frase inaspettata. «Ehm. Osé?»
 
«Dai, stavo scherzando! Però… a parte tutto, tu ci hai mai pensato? Di fare l’amore con me, intendo».
 
Se fosse stato possibile morire per il troppo arrossire, l’Universo Sette avrebbe perso il suo Hakaishin. Se aveva pensato di fare l’amore con lei? Certo! Aveva diciotto anni, e grazie alle visite al postribolo ormai conosceva i piaceri del sesso piuttosto bene.
Tuttavia, forse proprio perché nella sua esperienza il sesso era stato correlato unicamente alle signorine di quel luogo, si era fatto strada in lui il pensiero che fare l’amore con Anise prima di dare una vera ufficialità alla loro storia sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Sarebbe stato come metterla al livello di quelle lavoratrici -e lei, per Beerus, era ben diversa da loro.
Erano pensieri assurdi, derivati da una totale inesperienza a livello sentimentale, ma di fatto erano proprio quelli a frenare il suo desiderio… oltre alla storia personale di Anise, che per i suoi gusti era già stata spinta troppe volte a fare cose che non voleva davvero.
 
«Sarebbe stato difficile non pensarci!» disse dunque il dio, con un sorriso, sforzandosi di superare l’imbarazzo «Ma non pensare che sia soltanto desideroso di saltarti addosso, perché non è così. Sto bene con te quanto tu stai bene con me, e se non ne ho parlato prima è stato anche perché non volevo farti sentire “pressata” a fare alcunché».
 
«Non mi è mai passato per la mente che tu fossi interessato solo al sesso, davvero» lo rassicurò lei «Se volessi unicamente del sesso, sarebbe folle da parte tua fare i salti mortali che fai per vedermi. Poi, al di là delle ragioni logiche, il modo in cui ti comporti con me non potrebbe mai -e dico mai- farmi pensare male. Ogni volta che ti vedo ringrazio il cielo perché quella sera ero sull’altalena, e ringrazio anche la tua testardaggine nel seguirmi fino a Vynumeer».
 
Quelle parole rendevano Beerus felice come se gli avessero annunciato una torta al cioccolato di sette strati riservata soltanto a lui, anzi, di più! Se Anise riusciva a dargli tutta quella fiducia, allora lui si stava comportando nel modo giusto. Le baciò la fronte. «È bello sentirtelo dire».
 
«Aggiungo dell’altro: trovo molto dolce la delicatezza che hai nel cercare di non farmi alcun tipo di pressione, ed è vero che stiamo bene così e che io non ho alcuna fretta… ma se un giorno o una notte di queste dovessimo sentirci particolarmente “presi” l’uno dall’altra, e finissimo col fare l’amore, ne sarei felice» disse candidamente la ragazza «Quindi su questo punto puoi tranquillizzarti del tutto, d’accordo?»
 
Beerus annuì, conscio di essere arrossito di nuovo. «D’accordo… ma perché stai ridendo?»
 
«Perché trovo tenero che tu arrossisca così tanto parlando di certe cose, pur essendo più esperto di me».
 
Beerus sgranò gli occhi per la sorpresa, perché non avrebbe mai immaginato che Anise sapesse del postribolo. «Cosa?! Tu sai di… come?… ah, ma che domande! Quel ciccione di Champa ha la bocca larga come tutto il resto!»
 
«Ha confermato un’ipotesi che mi era già venuta in mente: il tuo maestro non è felice all’idea che frequenti una ragazza -in caso contrario non verresti qui di nascosto- ma tu sei un diciottenne con pulsioni da diciottenne, quindi da qualche parte doveva pur fartele sfogare, e quel luogo era perfetto,  perché non implicava la nascita di sentimenti di alcun tipo».
 
«Io però non vado più lì, te lo giuro, non ci metto più piede da quando ti ho conosciuta!» le assicurò Beerus «Sul serio!»
 
«E io ti credo, quindi puoi calmarti» disse Anise, dandogli un bacio su una guancia «Già, come hai giustificato la cosa col tuo maestro, se lo hai fatto?»
 
«Gli ho detto che in questo periodo voglio dedicarmi agli allenamenti senza distrarmi con altro, e lui essendone ben felice si è guardato bene dall'indagare ulteriormente. Comunque, tornando a Champa» fece una smorfia «Non sono felice che lui frequenti questo pianeta».
 
«Beerus, ti ho già detto che è la sua maestra a portarlo qui, quindi non potrebbe opporsi nemmeno volendo… come tu, al posto suo, non potresti opporti a Whis».
 
«Se non lo vuole attorno, e posso capirla, può lasciarlo in un gattile o metterlo a dormire per un paio di settimane! Perché mollarlo a te?! Non credo alla storia che sia Vados a volerlo portare qui, è tutto un losco complotto di Champa per poterti ronzare attorno, te lo dico io! Quel grassone infame!»
 
Negli ultimi tempi si era venuta a creare una situazione piuttosto imprevista, perché Vados aveva iniziato ad approfittare della “gentilezza” mostrata da Anise la prima volta, lasciandole Champa almeno un paio di volte ogni settimana. Aveva detto “Auguri per Whis”, ma poter passare qualche ora senza il suo allievo era una comodità cui non voleva rinunciare, specialmente avendo visto che Champa stando con Anise imparava sempre a fare qualcosina di nuovo, come quella saponetta di ottima qualità.
All’Hakaishin del sesto Universo però piaceva stare con qualcuno che non lo prendesse in giro, e Anise lo trovava gradevole, quindi per loro non c’erano problemi; ad averne qualcuno era Beerus, al quale la lince aveva parlato della questione appena aveva potuto.
 
«Guarda che è stata la sua maestra in persona a dirmi il contrario. Mi ha perfino offerto una cospicua quantità d’oro, “Perché capisco che il mio allievo possa non essere la migliore delle compagnie, ma mi farebbe proprio un piacere”» riferì Anise, imitando la voce di Vados «E lo ha detto davanti a Champa, che era alquanto a disagio. È stata una scena sgradevolissima, credimi».
 
«Vados però non aveva torto, e tu quantomeno ci hai guadagnato qualcosa» commentò il dio.
 
«Tu pensi che io abbia preso quell’oro?» gli chiese la ragazza, sollevando un sopracciglio «Nemmeno per idea. Le ho detto, ovviamente con tutta l’educazione del mondo, che sono autosufficiente al punto di non aver bisogno di comprare alcunché, e che non ho bisogno di essere pagata per passare del tempo con una persona che mi è simpatica».
 
«A me continua a sembrare incredibile che quel rompiscatole ti sia simpatico… sei troppo buona per questo Universo!» sospirò, dandole un bacio sulle labbra «Comunque, se dovesse comportarsi da idiota voglio che tu me lo dica. È tenuto a portarti rispetto».
 
«Finora l’ha sempre fatto, posso assicurartelo» disse Anise «E ho anche scoperto che ha un certo talento per lavorare il vetro. L’ultima volta ha fatto un vaso di vetro soffiato per la sua maestra, decorato con dei fiori che avevamo raccolto nel recarci a Vynumeer, ed era proprio carino. A modo suo, lui tiene a Vados… è un po’triste pensare che non sia ricambiato».
 
Beerus stava per dire l’ennesima “gentilezza” su suo fratello e il fatto che fosse praticamente impossibile tenere a uno come lui, ma infine decise di lasciar perdere. «Quando dovrebbe portarlo qui?»
 
«Domani, credo. Te lo dico fin da ora, esattamente come l’ho detto a lui: so che non andate d’accordo, ma in casa mia non si litiga» lo avvertì la Lusan «Se no potete dimenticarvi i biscotti… e tu, anche i grattini sotto il mento».
 
«Ma è lui che mi provoca!» protestò Beerus «Togliermi i biscotti, e soprattutto i grattini, sarebbe crudele!... ah, ma cosa vado dicendo? Posso riaverli facilmente» disse, con un sogghigno «Per convincerti mi basta fartene qualcuno dietro le orecchie».
 
«Credi che non sarei in grado di resistere?»
 
«Ne sono convinto!» dichiarò l’Hakaishin.
 
«Mi auguro che non litighiate, così da non dover scoprire chi di noi due ha ragione» disse la ragazza. A ciò seguì qualche istante di silenzio, dopo il quale lei tornò a rivolgersi a Beerus. «Posso farti una domanda?»
 
«Anche venti, Anise».
 
«Tu mi hai detto che Whis e Vados vi hanno presi quando avevate quattro anni, e che quindi vi hanno praticamente cresciuti loro. Sapendo questo, io a volte mi sono domandata… insomma, mi sono domandata se tu e Champa siate messi come me» disse, non riuscendo a trovare parole migliori «A livello di genitori, intendo. Ovviamente sei libero di dirmi che devo farmi gli affari miei, forse ho anche sbagliato a chiedertelo».
 
Beerus si irrigidì leggermente. Quello non rientrava tra i suoi argomenti di conversazione preferiti, ma doveva ammettere che la curiosità di Anise era legittima, soprattutto perché lei gli aveva parlato della vita che aveva condotto fino a tre anni prima. «Non hai sbagliato, e in ogni caso non ti risponderei mai così in malo modo» esordì «Le persone che mi hanno generato sono vive, o almeno lo erano fino a quattordici anni fa. Non so altro, e non vorrò mai saperlo».
 
Non aveva detto molto, ma l’aveva fatto in termini che rendevano molto chiara la sua situazione con i genitori. Anise si dispiacque di aver tirato fuori l’argomento. «Capisco».
 
«Sì. Sì, tu effettivamente potresti capire davvero quello che…» fece una pausa «Quello che c’è da capire».
 
«Parlane solo se te la senti davvero. Tu non vuoi farmi pressioni, ma neppure io voglio farne a te» disse Anise, con aria seria.
 
Beerus era combattuto: di solito rifiutava di pensare a quella breve parte della propria vita, non bella, e per fortuna conclusa da un pezzo.
Poi si disse che se era veramente conclusa, e non aveva più potere su di lui, allora doveva dimostrarlo a se stesso parlandone con la persona più indicata con cui farlo. Anise si era fidata di lui, il minimo che potesse -anzi, volesse- fare era ricambiare. «Lo so. Io però voglio raccontartelo, perché ritengo sia giusto così, e in ogni caso non ci metterò molto».
 
«Abbiamo tutto il tempo».
 
Il dio le sorrise. Era un argomento difficile, ma forse con lei tra le braccia poteva diventarlo un po’meno. «Premetto che la mia razza non è molto più avanzata della tua, e a livello di poteri è messa più o meno allo stesso modo. Ora, credo che tu abbia già intuito che per essere stato scelto come Hakaishin io debba aver dato prova di un potere formidabile. L’ho manifestato a circa quattro anni, un’età in cui non potevo proprio controllarlo. Ricordo che spesso facevo danni, motivo per cui la gente mi riteneva pericoloso, e le persone che mi hanno messo al mondo non facevano eccezione. Io ero “il mostro”» disse «Me l’hanno detto così tante volte che avevo finito col crederci. Idem Champa».
 
Lui “il mostro”, lei “la strana”; sentendo ciò, Anise iniziò a pensare che il loro incontro fosse proprio un segno del destino. Immaginando che non avesse finito rimase in silenzio, esattamente come Beerus aveva fatto con lei.
 
«Non accettavano granché la nostra presenza, ma il disastro c’è stato quando Champa ha ucciso per errore un nostro zio, che lo aveva preso a calci per aver distrutto senza volerlo la sua stalla. A quel punto la tolleranza nei nostri confronti è crollata totalmente» continuò Beerus «Non importava che fossimo bambini, eravamo solo dei mostri da eliminare. Siamo riusciti a scappare via, anche se ho dovuto uccidere varie persone per riuscire a salvare me e Champa, che in tutto questo non ha fatto che piangere e gridare di non averlo fatto apposta. Utilissimo, davvero» borbottò, mentre lo sguardo diventava assente «Ci siamo addentrati in una foresta non troppo diversa da quella in cui vivi tu, e siamo rimasti lì per un bel po’di tempo. È stata dura, soprattutto i primi tempi, anche perché Champa non mi aiutava granché: non faceva che piagnucolare di voler tornare a casa… come se l’avessimo mai avuta, una vera casa! Che idiota. Avremmo patito meno freddo e meno fame, se si fosse dato una svegliata».
 
Anise non si sarebbe mai permessa di fare commenti, come lui non ne aveva fatti quando era stata lei a raccontare, ma il pensiero “una vittima che se la prende con un’altra vittima” le attraversò la testa in molteplici momenti.
 
«Quando sono arrivati il maestro Whis e sua sorella eravamo allo stremo, per cui non avremmo potuto evitare di farci prendere neppure volendo. Ricordo che Champa mi si era avvinghiato come edera, non voleva che ci separassero. Io però ero un bambino, ed ero stanco, talmente stanco di badare a me stesso e anche a lui che mi sono addormentato appena Whis ha detto che si sarebbe occupato di me, e Vados di mio fratello. Mi sono risvegliato in quella che adesso è la mia casa, e da lì in poi ho iniziato a vivere sul serio. Ecco, ho finito».
 
La Lusan lo baciò, mentre gli accarezzava delicatamente la nuca. «Se mai qualcuno dovesse darti nuovamente del mostro, non ascoltarlo. Non lo sei, non lo sei mai stato, e neppure il tuo compito di Hakaishin ti rende tale, almeno per come la penso io».
 
«E il tuo pensiero su di me è il solo di cui mi importi».
 
Mentre la baciava, Beerus sentì che scegliendo di parlarle aveva fatto in assoluto la cosa più giusta. Ogni volta che pensava di non poter stare meglio di come stava con lei -e grazie a lei- veniva immancabilmente smentito; era una cosa incredibile, ma anche splendida.
Al suo compleanno mancavano meno di due mesi e mezzo, e se non vedeva l’ora che quel giorno arrivasse era anche perché finalmente lui e Anise sarebbero potuti uscire allo scoperto anche con Whis.
Non si conoscevano da tanto, ma era innamorato perso di lei al punto di esserne già sicuro: quella era la ragazza giusta, la persona giusta, non riusciva più a immaginare come sarebbe potuto essere vivere senza di lei, e non voleva neppure farlo. Non faticava a immaginare Anise al proprio fianco per l’eternità… e ciò non lo spaventava affatto, anzi!
Il suo maestro gli aveva detto che un Hakaishin doveva essere estremamente fortunato per trovare qualcuno, e lui, reso totalmente incapace di ragionare dall’enormità dei sentimenti che provava, era arciconvinto di aver già trovato il “qualcuno” in questione e di essere il Dio della Distruzione più fortunato che fosse mai esistito.
 
«Beerus…»
 
«Sì?»
 
«Hai vinto, le funzioni lineari le facciamo domani».
 
Appunto: ogni volta che pensava di non poter stare meglio, veniva smentito.
Presto avrebbe ufficializzato tutto con lei… molto presto.

 
 
 
 
 
 
 


Nel caso possiate avere dei dubbi su quel che è successo tra Calida e Anise: sì, purtroppo quella sera è andata proprio come dovreste aver intuito. Non potevo né volevo scendere in ulteriori dettagli, per quanto mi sarebbe stato consentito, vista la totale mancanza di parentela (anche a livello legale) tra le due.
Mi auguro di aver "recuperato" un pochino con la parte seguente!
A voi i commenti, se ne avete (:


 
 
Qui sotto, disegni ambientati nel passato:
- Baby Anise che viene sollevata dalle mani di Calida
- I piccoli Beerus e Champa una volta andati via dal loro villaggio


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Capitolo 7
*** 7 ***


RMIcap7
7
 
 
 


 
 
 
 
 
«Ancora? Possibile che abbiate entrambi questa fissa?»
 
«Anise, il fatto che due Hakaishin ti dicano le stesse cose riguardo lo stesso luogo magari significa che non è una fissa, ma un dato di fatto!»
 
«Beerus non mi aveva detto di aver avuto sensazioni strane qui a Vynumeer, ma le volte in cui Vados è venuta a prendermi dopo che si era fatto buio le ho avute anche io».
 
Anise non riusciva proprio a capire cos’avessero entrambi contro l'atmosfera di Vynumeer di notte. Lei ne aveva trascorse innumerevoli in quel posto, una più pacifica dell’altra, quindi continuava a essere convinta che le “sensazioni strane” di cui le parlavano Beerus e Champa fossero dovute semplicemente a fifoneria da villaggio fantasma. «Possiamo tranquillamente rimanere qui, quando farà notte! Guardatevi intorno: vi sembra che questo posto abbia qualcosa che non va?»
 
Per entrambi gli Hakaishin la risposta onesta sarebbe stata un “no”. Era una giornata splendida, il cielo era terso, l’aria frizzantina, e le basse rive del lago di Vynumeer, coperte da un sofficissimo manto di erba color smeraldo, erano punteggiate di fiori indaco coi quali Anise si era dilettata a fare coroncine. Non c’era proprio nulla di strano o sbagliato in quel luogo, eccetto...
 
«L’acqua calda. Non è un’area geotermale, non c’è una ragione logica dietro il calore di quest’acqua» sentenziò Beerus, indicando il lago a poca distanza da loro tre.
 
«Sì, però farci il bagno è bellissimo!» esclamò Champa.
 
Beerus continuava a non essere molto felice all’idea che suo fratello stesse da solo con Anise, o di poterselo trovare attorno mentre erano insieme -come in quell’occasione- ma infine si era reso conto di non poter fare granché se non accettare il tutto: come Anise aveva giustamente osservato, suo fratello non avrebbe ottenuto nulla dicendo "no" a Vados quando questa voleva portarlo lì. «Tralasciando il fatto che non mi stai aiutando per nulla, mi stai dicendo che tu hai fatto il bagno in questo lago, presumibilmente con lei?» domandò il dio al fratello, con aria piuttosto minacciosa.
 
«Tranquillo, avevo indossato quei capi che ho fatto all’uncinetto tempo fa… per quanto non riesca ancora a capire che senso abbia farsi il bagno con dei vestiti addosso, se devo essere onesta».
 
Era un discorso che lei e Beerus avevano affrontato circa un mese e mezzo dopo essersi conosciuti, quando lui l’aveva raggiunta a Vynumeer e lei si stava facendo il bagno nel lago, ovviamente nuda.
Inizialmente Anise non era riuscita a capire come mai Beerus avesse mostrato tanto imbarazzo, perché per i Lusan durante la stagione calda era perfettamente normale fare il bagno nudi nel fiume, e veder girare senza abiti le famiglie che vivevano appena fuori città non era affatto strano; tuttavia aveva compreso che Beerus essendo un alieno potesse avere un diverso senso del pudore, e aveva deciso di creare degli abiti che coprissero almeno i propri “caratteri femminili”.
 
«Capisco il tuo punto di vista» disse Champa «Magari quindi la prossima volt-»
 
«Tollero il fatto che la tua maestra ti porti qui solo perché né tu né io possiamo farci nulla, e perché  ad Anise
per qualche oscuro motivo piace la tua compagnia, ma se provi a restare nudo davanti a lei giuro che ti castro! Io -ti -castro!» lo avvertì il gemello «Ci siamo capiti?»
 
«Non essendo molto dotato teme il confronto, poverino» disse Champa ad Anise, sogghignando.
 
A quel punto Beerus saltò sopra a suo fratello, gettandolo a terra e dando inizio a una piccola lotta tra gatti. «Non temo la concorrenza di nessuno, specialmente di un ciccione!»
 
«Io non sono ciccione, sono morbido!» ribatté l’altro, dimenandosi talmente tanto da riuscire quasi a invertire le posizioni.
 
«Sì, come un materasso, e altrettanto largo!»
 
«Tu sei cattivo!» si lagnò Champa, senza rendersi conto che la loro lotta li aveva portati ancor più vicini all’acqua di quanto fossero in origine.
 
«… ma magro!»
 
Nelle tre settimane che erano passate da quando Beerus aveva raccontato ad Anise la sua storia, erano riusciti a trascorrere delle giornate piacevoli anche nei momenti in cui si erano trovati tutti e tre insieme. I gemelli non facevano altro che punzecchiarsi continuamente, quello era inevitabile, ma ciò non era mai sfociato in un litigio vero e proprio, e non erano mai venuti veramente alle mani; in tutto questo, Anise e le minacce di lasciarli senza cibo fungevano efficacemente da cuscinetto.
 
«E tu puzzi!»
 
«No, sei tu che puzzi!»
 
«Puzzate entrambi, quindi buon bagno» disse Anise con un sorrisetto, per poi dar loro una spinta facendoli finire entrambi in acqua.
 
I due emisero diverse esclamazioni di sorpresa, tentando faticosamente di districare il groviglio di gambe, braccia e code, mentre la lince rideva di gusto.
 
«Siamo tutti bagnati!» gemette Champa.
 
«Ma va, genialone? Dimmi qualcosa che non so!» ribatté Beerus, osservando sconsolato il modo in cui i pantaloni suoi e di suo fratello si erano appiccicati alle loro gambe «Siamo tutti bagnati!...»
 
«Lo avevo appena detto io!»
 
«Sì, ma tu non conti niente! E tu non credere di passarla liscia, An-»

«NON MI PRENDERETE MAI VIVAAAAA!...»
 
Beerus si interruppe, accorgendosi che Anise si era data alla fuga, e ormai era a svariati metri di distanza dalla riva.
Correva veloce…

 
«Vado, la catturo e te la lancio» sogghignò Champa, per poi volare fuori dall’acqua.
 
Ma non abbastanza veloce da poter sfuggire a delle divinità.
Non che lei avesse mai sperato davvero di riuscirci, ovviamente, sapendo con chi aveva a che fare.

 
«Non mi avrete mai, ma -ciao, Champa» lo salutò Anise, costretta a interrompere la propria fuga quando se lo trovò davanti «Come ti va la vita?»
 
«“Mi va” bagnata!» rispose lui, per poi agguantarla e sollevarla da terra.
 
«Ma se tu mi mettessi giù e io per ricompensarti ti dessi un biscotto in più, dopo?»
 
«No!»
 
«Due biscotti?...»
 
«Non funziona, mi spiace. Citando qualcuno: buon bagno!»
 
Essere lanciata in alto -in direzione del lago- con la stessa facilità con cui lei avrebbe lanciato un sassolino minuscolo fu un’esperienza breve e intensa, ma anche alquanto assurda. Spesso i due fratelli si comportavano quasi come persone normali, per cui le capitava di dimenticare quanta forza possedessero, tra le altre cose!
 
Beerus intercettò il lancio quando Anise era già arrivata sopra il lago. «Presa».
 
La ragazza fece un sospiro. «So benissimo che mi lascerai cadere in acqua, quindi non ti darò la soddisfazione di sentirmi dire “Grazie per il salvataggio”».
 
«Lo hai detto ugualmente!»
 
Come previsto, Beerus la lasciò cadere. Il volo fu breve, e l’acqua calda rese gradevole quel bagno improvviso fatto con più vestiti del solito.
A tal proposito, a quel punto tanto valeva togliersi l’abito che aveva addosso, avendo avuto la lungimiranza di indossare sotto a esso il due pezzi fatto all’uncinetto.

Quando ebbe finito di spogliarsi e riemerse, vide entrambi i fratelli volare a pelo dell’acqua, appena sopra di lei, intenti a mostrarle un ghigno assolutamente identico.
 
«Ed ecco cosa succede agli stolti mortali che osano sfidare delle divinità!» disse Beerus, con aria soddisfatta.
 
«E trallallì e trallallà» replicò Anise, lanciandogli addosso il vestito bagnato «Toglietevi quei pantaloni, che ormai sono solo un impiccio, e fatemi compagnia!»
 
«Non sono sicuro che sia una buona ide-»
 
«BOMBAAAAA!!!»
 
Il tuffo improvviso e violento che fece Champa dopo aver tolto e lanciato via i propri pantaloni sollevò un’onda altissima che investì Beerus in pieno, come se fino a un attimo prima non fosse stato già inzuppato.
L’Hakaishin del settimo Universo, gocciolante, fece una smorfia seccata. «Qualcuno è interessato a un fratello scemo? Glielo vendo, anzi, glielo regalo… a pezzi!» concluse, guardandosi attorno.
 
Dov’erano andati a finire Anise e Champa?
 
«Questo, Beerus lo Stecchino non te lo può far fare!»
 
Udito ciò il dio volse lo sguardo alla propria destra, e vide Champa sfrecciare da una parte all’altra del lago con Anise seduta a gambe incrociate sopra la sua schiena. Sembrava che essere largo quasi come un materasso singolo fosse davvero utile a qualcosa, dopotutto!
 
«È bellissimo!» esclamò la lince, ridendo.
 
Ancora una volta, l’ennesima in quei tre mesi e una settimana di conoscenza con Beerus, ringraziò il cielo per essersi trovata sull’altalena quella sera: quel fatto non le aveva portato solo un ragazzo che adorava -e che l’adorava a sua volta- per il quale provava dei sentimenti immensi, ma le aveva portato anche Champa, un amico molto divertente col quale si sentiva a proprio agio.
 
Un missile viola privo di pantaloni la investì, portandola in acqua con sé mentre la baciava e la stringeva tra le braccia.
 
«Non posso essere la tua tavola da surf, ma posso fare ben altro» disse Beerus, baciando Anise sulla fronte.
 
«Tra cui spiegarmi per bene cosa sia il surf, prima o poi» sorrise la ragazza.
 
«Lo farò sicuramente!»
 
Impegnato com’era a baciare la sua ragazza, Beerus commise l’errore madornale di perdere d’occhio Champa, il quale si stava avvicinando per tentare chissà quale manovra subacquea. Gli era venuta un’idea che reputava geniale, e finì quasi a strozzarsi con l’acqua che inghiottì per il troppo ridacchiare.
 
«Quindi rispondimi: resteremo qui almeno finché non sarà arrivata la maestra di Champa, o no?» chiese Anise a Beerus, strusciando il naso contro il suo collo «Resteremo? Eh?»
 
Il dio stava suo malgrado per cedere e risponderle di sì, ma tutt’a un tratto avvertì uno strattone, e dopo ciò iniziò a sentirsi più nudo del dovuto.
 
«Ehi, Anise! Vai a dare un’occhiata alla fauna sottomarina!» gridò Champa, già allontanatosi di diversi metri, sventolando le mutande del fratello «Quel poco che c’è da vedere, s’intende».
 
«TI UCCIDO!» urlò Beerus, furioso, imbarazzato e rosso in volto, coprendosi le parti intime con entrambe le mani «Ti uccido, ti riporto in vita e poi ti uccido un’altra volta, giuro!»
 
«Champa, renditi conto che se ora tuo fratello finisce col cercare di picchiarti non potrò dargli torto» disse Anise « Facciamo così: io mi volto» disse, dando le spalle a Beerus «In modo da non vedere nulla di quel che succederà. Caro Beerus, sei libero di andare a riprenderti le tue mutande!»
 
“O-oh” pensò Champa, cui la voglia di ridere era passata vedendo Beerus scrocchiare le nocche delle mani con un ghigno malefico sul viso.
 
L’attimo dopo ebbe inizio la seconda parte della lotta tra gatti, con Beerus che tentava con tutte le proprie forze di annegare una volta per tutte quel rompiscatole -oltre che di recuperare le mutande- e Champa che cercava disperatamente di difendersi, decisissimo a tenersi stretti quegli slip bianchi neppure fosse stata una questione di vita o di morte.
 
Anise intanto aveva raggiunto una delle grosse rocce larghe e piatte che sbucavano in diversi punti del lago, e si era stesa a guardare tranquillamente il cielo, perfettamente noncurante del bisticcio delle due divinità. Nonostante le minacce di morte non sembravano esserci state le avvisaglie di un litigio che potesse essere pericoloso per lei, per il pianeta o per uno dei due gemelli, per cui si trattava soltanto di aspettare.
 
«Molla le mie mutande, ladro infame!» intimò Beerus al gemello dopo dieci minuti di lotta, tentando di bloccarlo in una presa di sottomissione «Mollale, ho detto!»
 
«Non se ne parla, caro fratellino!» sghignazzò Champa, una volta riuscito ad afferrare Beerus per le orecchie e a immergergli la testa nell’acqua «E poi, a che ti servono? Non hai niente che valga la pena coprire, lì sott- EHI!»
 
«Chi di mutanda ferisce, di mutanda perisce» dichiarò Beerus, riemergendo dall’acqua stringendo in mano… le mutande di Champa, ovviamente. «Se le rivuoi indietro, rendimi le mie!»
 
«Non le riavrai mai! Dovrai strapparle dalle mie fredde mani morte! Hai capito? Dalle mie-»
 
«Ebbene? Cosa state facendo?»
 
La voce di Vados, la quale era giunta sul posto ben prima del previsto, fece bloccare i gemelli come fossero stati due statue di sale; l’attimo dopo Beerus scomparve rapidamente sott’acqua,
lasciando andare le mutande di Champa e raggiungendo il fondale del lato opposto del lago.
Non c’era motivo per cui Vados potesse aver intenzione di portarlo via con la forza, ma quando arrivava la maestra di suo fratello Beerus scompariva sempre dalla vista, per precauzione.
 
«Oserei dire che stessero praticando allo stesso tempo nuoto e lotta libera. Attività fisica seria, insomma» disse Anise, alzandosi in piedi sulla roccia.
 
Vados le si avvicinò in volo, e atterrò a propria volta sul sasso. «E c’è una ragione specifica per la quale il mio allievo ha in mano delle mutande maschili troppo piccole per essere sue?» chiese, mentre Champa cercava inutilmente di nasconderle.
 
«Perché lui e Beerus sono fratelli e si divertono a farsi scherzi».
 
L’angelo sospirò. «Immagino sia così».
 
«Ehm… maestra Vados, già che sei qui potresti fare comparire un costume per me?» le chiese Champa, avvicinatosi al masso.
 
«Non è buona educazione restare nudo in presenza di una signorina, se non sei in un postribolo… o se la signorina non ha una relazione con te!» lo riproverò lei, facendo comparire un largo costume da bagno di colore rosso che fece poi planare nelle mani del dio.
 
«Per me non sarebbe un problema, noi Lusan non abbiamo certi tabù» disse Anise, facendo spallucce «Ma comprendo il diverso pudore altrui. Ad ogni modo, noto che è tornata prima del solito».
 
«Sono reduce da una zuppa di pesce assolutamente terrificante che ho avuto la sfortuna di mangiare in un villaggio all’altro capo di questo pianeta» le spiegò Vados, fingendo un’aria disperata «Sono andata via in fretta e furia! Nel mentre mi sono accorta che senza volerlo mi stavo avvicinando a voi tre, e mi sono detta che tanto valeva dare un’occhiata a quel che stavate facendo… hm» guardò l’acqua «Deduco che Beerus teme ancora che io lo porti via con la forza».
 
«Ho tentato di dirgli che, stando a quanto mi racconta il suo allievo, in quel caso sarebbe totalmente inutile nascondersi, ma non mi dà ascolto. “Non si sa mai”, dice! A proposito, ora che ci faccio caso è sparito anche Champa».
 
«Sarà andato a infastidire Beerus, come di consueto. Tutto sommato è già tanto che non siano giunti al punto a picchiarsi sul serio».
 
«In quel caso immagino che il pianeta sarebbe stato in pericolo» disse Anise.
 
«Non il pianeta: l’intero Universo» la contraddisse Vados «È per questo motivo che agli Hakaishin è proibito combattere tra loro, eccetto in casi e luoghi estremamente particolari. Oh, sembra che un gemello su due sia di ritorno».
 
«Maestra Vados, devi venire a vedere una cosa che ha trovato Beerus» esclamò Champa, appena riemerso, indicando un punto in basso.
 
Vados notò subito che il suo allievo era particolarmente serio, il che era curioso. «Di cosa si tratta?»
 
«Nel lato più profondo del lago c’è un tunnel seminascosto che porta in una grande grotta piena d’oro e pietre preziose» disse il dio «Però Beerus ha sentito che tutto quel tesoro ha qualcosa che non va, e l’ho sentito anche io... ma non capiamo bene cosa sia, quel che “non va”!»
 
«In pratica mi stai dicendo che il tesoro di Rubedo esiste sul serio?!» allibì Anise.
 
Era incredibile, ma sembrava proprio che la leggenda che Calida le aveva raccontato milioni di volte fosse reale, o che almeno lo fosse nella parte che riguardava il tesoro.
Anise si ripromise che gliene avrebbe parlato, il giorno in cui l’avrebbe informata della sua relazione con Beerus: c’era la possibilità che Calida, venendo a sapere del tesoro, focalizzasse meno l’attenzione sul resto -nello specifico il fatto che da mesi frequentasse Beerus di nascosto, e che questi fosse diventato molto importante per lei.
 
«Sapeva dell’esistenza di questo tesoro, dunque» osservò Vados.
 
«C’è una leggenda che ne parla, mia sorella me la raccontava sempre. Se c’è questo tesoro, voglio vederlo!» esclamò la ragazza.
 
«Il tunnel è a oltre sei metri e mezzo di profondità, non puoi arrivare fin lì trattenendo il fiato, e comunque, come ho detto, in quell’oro c’è qualcosa che non va» ribadì il dio «Potresti seguirci solo se la maestra Vados creasse una barriera intorno a te… come ha proposto Beerus» aggiunse.
 
«Posso farlo senza alcun problema» annuì l’angelo «Beerus è rimasto nella grotta?»
 
«Credo sia da tutt’altra parte del lago, al momento. Quello scemo ha sempre paura che vedendolo ti venga in mente di riportarlo sul suo pianeta!» disse Champa, e alzò gli occhi al cielo «Per fortuna al nostro compleanno manca poco, ormai…»
 
Poco dopo, Vados creò una barriera attorno a sé e ad Anise, e tutti e tre si immersero.
Mentre Champa conduceva le due al tunnel, la lince si guardò attorno: sembrava che in quel lago non ci fosse vita neppure a maggiore profondità, o meglio, che non fosse presente alcun tipo di fauna. La flora subacquea, al contrario, cresceva rigogliosa in tutto il fondale… e anche attorno a innumerevoli resti di quelli che un tempo erano stati Lusan, e che ora erano ridotti a mucchi d’ossa più o meno consumati.
 
«Ma che accidenti?!...» allibì Anise, avvicinandosi a un lato della barriera «Non sapevo che questo lago fosse una specie di cimitero. Non a simili livelli, perlomeno».
 
La sfera del bastone si illuminò, seguendo la volontà di Vados, e lei guardò all’interno. «I resti fossili più antichi risalgono a circa diecimila anni fa. Sembra che ciò vada avanti da allora, con un picco in rialzo più o meno due secoli or sono, e uno in ribasso cinquant'anni dopo. I più recenti, dopo trent'anni di pausa, risalgono a diciotto anni fa, mese più o mese meno».
 
«Un maschio e una femmina, per caso?»
 
«Sì».
 
Dopo qualche momento di totale immobilità passato con un’espressione indecifrabile sul volto, Anise fece un cenno di saluto in direzione delle ossa. «Ciao papà, ciao mamma. Vi trovo alquanto sciupati» disse, piano.
 
Per qualche istante calò il silenzio più totale.
 
«Ormai dovrebbe mancare poco al tunnel, giusto Champa?» disse Vados, desiderosa di cambiare argomento e sempre più convinta che quella fosse una ragazza alquanto bizzarra.
 
«Sì… manca poco» confermò il dio, che pur essendo perplesso e un po’inquietato da quel che aveva visto e sentito decise di soprassedere.
 
Poco dopo raggiunsero l’imboccatura del tunnel, che si rivelò essere dritto e un po’in salita, e lo percorsero rapidamente. Sbucarono fuori in un’immensa caverna colma di licheni luminosi di colore rosato, i quali illuminavano l'intero ambiente, e di grandi stalagmiti, tutte di forme bizzarre -in particolare una alla loro sinistra, che sembrava una statua di Lusan rozzamente intagliata; un bello spettacolo, ma la quantità di oro e pietre preziose sparse ovunque lo era ancora di più.
Nella caverna non c’era acqua, dunque
per far respirare Anise non sarebbe stata necessaria la barriera, ma Vados non diede mostra di volerla togliere.
 
«Questa volta sia tu che Beerus siete stati abili nell’uso delle vostre percezioni: il “qualcosa che non va” che avete sentito era una maledizione molto antica e potente su ogni singola parte di questo tesoro» disse l’angelo «Su di voi ovviamente non ha alcun effetto, ma se aveste portato anche una sola pietra alla qui presente Lady Anise, l’avreste privata di ogni discendenza presente e futura».
 
«Allora posso toccarlo senza problemi, sono già sterile come quel tipo di posto pieno di sabbia… ah, sì, ecco: sterile come un deserto».
 
Prima i genitori in fondo al lago, poi la sterilità, tutte cose di cui Champa non sapeva nulla perché, a onor del vero, lui e Anise non avevano mai discusso di certi argomenti: quando erano soli -o con Beerus- tendevano a parlare di tutt’altro, per lo più di cose divertenti e leggere. «Non lo sapevamo. Mi spiace che sia venuto fuori il discorso».
 
«Non potevate saperlo perché non ne avevo parlato, ma per me questo non è un problema. Passiamo alle cose serie» Anise indicò il tesoro «Mia sorella sarebbe euforica, se sapesse di tutto questo. È incredibile, non sarei mai riuscita a immaginare altrettanto oro e pietre preziose tutte insieme! Quelle poi somigliano un sacco alle mie perline di vetro, anche la dimensione è identica, e sono così tante!»
                                                     
Vados batté il bastone contro il fondo della barriera, e un breve lampo di luce verde azzurra invase l’intera grotta. Fatto ciò, fece scomparire la barriera. «Ora può fare quello che vuole, Lady Anise. Sebbene lei si definisca sterile non c’è motivo di toccare un tesoro maledetto, le pare?»
 
«La ringrazio molto» disse la ragazza, con un sorriso sincero, per poi catapultarsi dritta dalla miriade di piccole pietre preziose che aveva adocchiato. «Se queste non sono perline di adamandnery pinc, io non mi chiamo Anise! Tralasciando il fatto che con cinque di queste potrei comprare due volte la casa dove vive ora mia sorella, sono bellissime…»
 
Ecco, era quella lì la Lusan che Champa aveva presto imparato ad apprezzare, non l’altra, non quella che aveva detto quella frase assurda a degli scheletri che potevano essere dei suoi genitori. Quell’Anise lì era strana, e a Champa non piaceva vederla, preferiva decisamente quella normale. «Immaginavamo che ti sarebbero piaciute. Beerus te le avrebbe portate già da prima, se non avesse percepito la maledizione».
 
«Già, la maledizione… se c’è un tesoro con una maledizione identica a quella che Rubedo -secondo la leggenda- ha scagliato sui maghi, allora forse c’è in giro anche la sua corona, e forse ha davvero il potere che mia sorella desidera
» ipotizzò la ragazza, abbandonando gli adamandnery per mettersi in cerca della reliquia «Dovrebbe essere contenuta in una grossa cassa di metallo. Calida l’ha cercata per tutta la vita».
 
«E lei vorrebbe cercare quel potere per sua sorella, invece che per sé?» le chiese Vados.
 
«Ho un debito enorme nei suoi confronti, perché mi ha salvato la vita due volte: una quand’ero neonata, trovandomi e tenendomi con sé, e l’altra due anni fa. Lei mi ha cresciuta, mi ha protetta e mi ha insegnato tanto. Le cose tra me e lei sono cambiate un po’da una certa sera in avanti» ossia quella in cui Calida l’aveva toccata «Ma resta sempre e comunque la sola famiglia che ho, nonostante tutto. Io su questo pianeta ho ed ho sempre avuto solo lei, le devo la vita, ed eventuali poteri non mi servirebbero affatto: se trovassi quella corona, sarebbe sua».
 
«Se hanno chiuso quella corona in una cassa di metallo per poi premurarsi di nasconderla così bene, forse è meglio che non venga mai trovata» obiettò l’angelo «Non ci ha mai pensato?»
 
«Effettivamente non hai tutti i torti, maestra» ammise Champa «Cosa farebbe tua sorella di quel potere? È già capo della città di Ulthmeer».
 
«Conquisterebbe anche tutte le città vicine, naturalmente» rispose Anise, mentre esplorava la caverna «Se ci riuscisse sarebbe la fine di tutte le guerre che funestano queste terre da tempo immemorabile. So che si sta parlando di una sorta di tirannide, ma non ci sono molte altre soluzioni. Alle città è stata data la possibilità di esistere ognuna per conto proprio, ma pur non avendo problemi di risorse si ostinano a farsi la guerra: detto ciò, ti sembra peggio che vengano governate tutte da una persona, o che si continui in eterno a spargere sangue in conflitti inutili?»
 
«E se sua sorella diventasse capo delle città unite sarebbe un vantaggio anche per lei, Lady Anise… sbaglio?» insinuò Vados.
 
«Direi di sì, che sbaglia. La mia intenzione sarebbe di restare a vivere nella mia casa nella foresta in qualsiasi circostanza. Che le città abbiano un solo capo oppure no, non farebbe differenza per me» ribatté la ragazza «Ma Calida ha questo sogno, quindi…»
 
«Mi sa che resterà un sogno però, perché io in questa caverna non vedo casse di metallo» disse Champa, mentre osservava un adamandnery pinc alla luce dei licheni «Vados, tu ne vedi?».
 
Lei scosse la testa. «Mi spiace informarla che questo tesoro non comprende casse, Lady Anise».
 
«O beh, io ci ho provato» disse la lince, facendo spallucce.
 
Champa indicò il tesoro. «Maestra Vados, portiamo tutto in casa di Anise. Lasciarlo qui non servirebbe a molto».
 
«No, aspetta: al di là del fatto che in casa mia non ho posto per tutta questa roba, siete stati tu e Beerus a trovare la caverna» obiettò Anise «Il tesoro di Rubedo spetta a voi due, non a me!»
 
Vados rise, portando una mano davanti alle labbra. «Posso assicurarle che a degli Hakaishin non serve affatto».
 
«Tecnicamente non serve neppure a me, sapete bene che sono autosufficiente. Di tutto questo terrei solo gli adamandnery, e giusto perché mi ricordano le mie perline, non per il loro valore».
 
«Intanto tiriamo fuori tutto da questa caverna, poi ne farai quel che vuoi» concluse Champa «Sai, non conosco molta gente che considererebbe inutile un tesoro del genere, a meno di averne uno più grande».
 
«Infatti ce l’ho».
 
«Parli di Beerus? Pessimi gusti a parte, quanta sdolcinatezza!» esclamò il dio, per poi ridere sguaiatamente «Argh! Mi si è cariato un dente! C’è troppa zuccherosità in questa caverna! Chiamate un dentista! Muoio!» gemette, “morendo” addosso ad Anise.
 
«A dir la verità parlavo dell’insieme delle mie ricette, ma ammetto che anche tu e Beerus costituite un grande tesoro. Per ragioni diverse uno dall’altro, ovviamente» aggiunse.
 
«Che emozione!» esclamò Vados, fingendosi commossa «Visto il soggetto, non avrei mai potuto immaginare che qualcuno un giorno avrebbe definito il mio allievo con una parola diversa da “rompiscatole”… figuriamoci un tesoro!»
 
«EHI!» protestò il dio «Quel che dici non è affatto gentile, lo sai?! Anise invece è tanto carina».
 
“Non è 'tanto carina', se mai è 'tanto strana'!” pensò Vados, mentre con una magia del bastone immagazzinava tutto il tesoro all’interno di esso.
Uscirono dalla caverna senza passare nuovamente per il tunnel -Vados aveva creato attorno a tutti e tre una barriera che permetteva di attraversare anche le zone solide- e una volta fuori si ritrovarono nel punto in cui fino a poco più di tre mesi prima era stato presente il costone roccioso distrutto da Beerus.
 
«Non c’è da meravigliarsi che Calida non abbia mai trovato il tunnel, era semi nascosto e troppo in profondità perché potesse riuscirci senza immergersi a colpo sicuro» fu la prima cosa che disse Anise.
 
«Anise, mi sento un po’ a disagio a farti questa domanda ma, insomma…» Champa esitò «Riguardo quel che hai visto prima di trovare il tunnel…»
 
«Calida mi ha trovata sulle rive di questo lago, adagiata su vestiti da uomo e da donna. Che i miei genitori fossero qui da qualche parte non è una novità, lo immaginavo da tempo» disse la ragazza «E continueranno a riposare nella tomba che hanno scelto. Il lago di Vynumeer è un bel posto per morire, dopotutto».
 
«Va bene» rispose l’Hakaishin, senza sapere cos’altro aggiungere. L'ultima frase del discorso di Anise lo aveva inquietato un po' ma, di nuovo, decise di sorvolare sulla questione: dopo quel che Anise aveva visto era normale che si lasciasse sfuggire parole poco allegre.
 
«Una cosa: adesso in teoria non dovresti più avere quelle sensazioni strane, quando è notte. Forse sentivi la maledizione, ma ora la tua maestra l’ha spezzata. Dovremmo dirlo anche a Beerus… quando salterà fuori» sospirò la Lusan, per poi voltarsi verso Vados «Sul serio, non potrebbe tranquillizzarlo personalmente sul fatto che non lo porterà via? È assurdo che sparisca così ogni volta».
 
«Potrei anche farlo, ma non avendo voglia di cercarlo mi sarebbe difficile, se non si palesa».
 
«BEEEERUSSSS! Sto portando via la tua fidanzaaaaataaaa!» urlò Champa «Se non vieni fuori metto in pratica il mio piano originale: la rapisco e la porto a casa mia, così cucinerà solo per me!»
 
Anise sollevò un sopracciglio. «Il tuo piano originale era questo? Seriamente?»
 
«Prima di conoscerti sì» confessò lui «Ma era rischioso, perché se quello schizzato di Beerus lo avesse scoperto avrebbe tentato di massacrarmi di botte».
 
«NON PROVARCI NEMMENO!» urlò Beerus, nascosto chissà dove.
 
«Se non deve provarci nemmeno, allora vieni fuori!» lo incoraggiò Anise.
 
«Sebbene tu stia infrangendo le regole non è mia intenzione portarti via, o lo avrei già fatto da un pezzo, come ti avranno già fatto notare. Quel che fa un Hakaishin che non sia Champa, a me non riguarda» affermò Vados «Puoi smettere di nasconderti… ma se ti vergogni per il modo in cui ti stai prendendo gioco del tuo maestro, continua a farlo».
 
A quel punto Beerus sbucò fuori da un piccolo ammasso di roccia. Non aveva recuperato le mutande, ma in quel lasso di tempo aveva indossato almeno i pantaloni. Il resto degli abiti e accessori da Hakaishin invece, scarpe incluse, erano rimasti in casa di Anise già dal mattino. «Prendere in giro il maestro mi dispiace un po’, ma non avevo molte alternative. Comunque, il tesoro?...»
 
«Aveva una maledizione che ora non c’è più» lo informò Anise.
 
Vados materializzò una piramide di grosse scatole di legno, ognuna con un cartello su cui era scritta la natura del contenuto. «Ed è tutto in queste scatole. Ho ritenuto fosse meglio suddividerlo in questo modo».
 
«Devo dire che i poteri di voi angeli sono incredibili» disse Anise «Io però continuo a non avere posto sufficiente in casa mia, non per tutte queste casse. Eccettuate quelle con gli adamandnery, dovrò lasciare il resto altrove».
 
«Cosa intendi fare del tesoro? Ti è venuta qualche idea?» le chiese Champa.
 
«Cosa vuoi che faccia? È suo, quindi lo terrà tutto! Non starai cercando di spillarle dell’oro? Ne abbiamo già più che abbastanza!»
gli ricordò Beerus, con un’occhiataccia.
 
«No che non voglio spillarle dell’oro! Cosa vuoi che me ne faccia?!» sbottò Champa, un po’offeso.
 
«Avendo parlato di Calida mi è venuto in mente che in futuro potrei dare tutto a lei, eccetto una cassa su tre di perline» disse Anise.
 
«Cosa?! Perché?!» allibì Beerus.
 
«A me tutto quell’oro non serve, e io non devo mandare avanti una città, al contrario di lei» rispose la ragazza «Per non parlare del fatto che, lasciando per me un’intera cassa di adamandnery, non resterei certo a mani vuote».
 
«Da qui ad allora spero di riuscire a farti cambiare idea. Non ti rimprovero per la generosità ma, anche senza il tesoro, a tua sorella non mancano i mezzi» le fece notare Beerus «La decisione finale spetta a te, ma sarebbe saggio riflettere con attenzione e senza avere fretta di spargere oro in giro… anche se in futuro avere dell'oro non ti servirà».
 
«Spero che sarò sempre autosufficiente».
 
«Non è quella la ragione per cui l’ho detto, ma va bene lo stesso» concluse Beerus, stringendo a sé la ragazza.
 
Se Vados non scosse la testa con aria desolata fu soltanto grazie al suo eroico autocontrollo. Quella frase, sommata al resto, a suo parere forniva un insieme di elementi sufficiente a prevedere che a breve Beerus avrebbe scelto Anise come Iarim Neiē; darle un titolo tanto ufficiale sarebbe stata una follia assoluta, dal momento che si conoscevano da poco più di tre mesi e lui non aveva ancora compiuto diciotto anni.
Vero, la Iarim Neiē non era immortale, né l’Hakaishin era vincolato a lei dal giuramento che se spezzato avrebbe portato entrambi alla morte… ma quel titolo presupponeva che tale giuramento sarebbe stato prestato in un futuro non troppo lontano.
 
Vados si sentiva un po’combattuta: aveva detto a Champa che, se si fosse impegnato a dimagrire, lei non avrebbe fatto la spia con Whis -e Champa in effetti aveva perso tre chili-, ed era anche vero che quel che faceva un Hakaishin non “suo” non la riguardava affatto… ma lei e Whis avevano un legame un po’più stretto rispetto al resto dei loro fratelli, e visto il modo in cui si erano messe le cose forse era il caso di avvisarlo, prima che degenerassero sul serio.
Occorreva riflettere attentamente sulla questione.
 
«Orbene, io e Champa vi salutiamo» disse l’angelo.
 
«Ma no, perché?! È presto!» protestò il dio, non capendo il motivo di quella partenza precoce.
 
Vados recuperò i pantaloni e il resto del vestiario di Champa, che era stato lanciato malamente sulla riva del lago. «Presto o meno, andremo a casa comunque. Arrivederci! Ci rivedremo tra qualche giorno, Lady Anise».
 
Entrambi scomparvero in un lampo bianco, lasciando soli Anise e Beerus, i quali si scambiarono un’occhiata perplessa.
 
«Non capisco il motivo di questa fretta improvvisa» disse l’Hakaishin.
 
«Neppure io. So soltanto che non aveva dato mostra di averla, prima di “Anche se in futuro avere dell'oro non ti servirà”» osservò la lince «Le due cose potrebbero essere legate, sebbene io non abbia le idee troppo chiare sul come e sul perché.
 
«Io men che meno» sospirò Beerus «Ora troviamo un posto a queste casse, ti va?»
 
 
 
 
 
 
Ho finito col dilungarmi molto più del previsto, ma tutto sommato non mi dispiace. Cose che sarebbero dovute essere scritte qui, verranno messe nel prossimo capitolo.
Voglio fare un piccolo appunto, se mai qualcuno avesse qualche dubbio: per quanto la lealtà di Anise verso Calida abbia i suoi motivi, io non la condivido. I suoi pensieri a riguardo non sono i miei (:
Dal momento che non si sa mai cosa porta il periodo natalizio (soprattutto le visite di parenti più o meno serpenti), c’è una ridottissima possibilità che il prossimo capitolo possa arrivare con qualche giorno di ritardo. Non credo che succederà, ma nel dubbio vi avviso!

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Capitolo 8
*** 8 ***


8
8
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Penultimo giorno in cui posso rimanere qui, e cosa succede? Piove».
 
«Poteva andare peggio…»
 
«Non provare a dire “poteva piovere”, Anise, perché è precisamente quel che sta succedendo!»
 
«Non è la prima volta che capita, Beerus».
 
Fino a quel momento era stata una bella giornata: sapendo che quello non era uno dei giorni in cui arrivava Champa, la coppia aveva passato mezza giornata a divertirsi girovagando da una parte all’altra del pianeta.
Si erano trattenuti per un tempo un po’più lungo in quel villaggio in riva all’oceano in cui si erano recati il giorno del loro secondo incontro, lasciandosi offrire pasti in diversi locali, passeggiando sul bagnasciuga e lungo le vie del centro.
A un certo punto Anise aveva notato un vestito lungo color blu scuro esposto in un negozio, e aveva detto che se ne sarebbe cucito uno simile; tempo un minuto e una parola di Beerus, e il vestito blu era finito in mano sua come “dono alla compagna dell’Hakaishin”.
 
 
 

“Ti ringrazio molto ma, Beerus, non avresti dovuto-”

“Ti starà meglio che a qualunque altra donna, e comunque… è solo un vestito. Potrei darti molto più di questo”.

“Non ho bisogno che tu mi dia nulla in questo senso, non ne avevo prima, e tantomeno ne ho adesso che possiedo casse piene di adamadnery pinc. Non sto con te per avere chissà cosa”.

“Ed è proprio per questa ragione che mi piace darti quello che desideri”.

 

 
 
Per quanto la Lusan avesse apprezzato il pensiero senz’altro molto dolce, dopo neppure venti minuti aveva proposto di andare a Vynumeer come facevano sempre -così da evitare il possibile ripetersi di simili scene- e Beerus non si era fatto pregare.
Erano rimasti a parlare tranquillamente in riva al lago per un bel po’, fino a quando erano stati sorpresi da un’inaspettata bomba d’acqua che era riuscita a inzupparli nonostante fossero corsi rapidamente a ripararsi.

 
Il dio, bagnato fradicio, si chiuse alle spalle la porta di quella che un tempo era stata la dimora del capo villaggio.  «È vero, ma non ci aveva mai colti di sorpresa in questo modo! Questa settimana non ho fatto altro che bagnarmi: prima quattro giorni fa, quando abbiamo trovato il tesoro, e adesso-»
 
«“E adesso”, invece di perdere tempo in proteste che non faranno asciugare i tuoi abiti, accendiamo il camino» disse Anise, armeggiando con un lungo fiammifero preso da una scatolina di legno poggiata su una mensola «Così da far asciugare tutto».
 
«Pensare che saremmo dovuti tornare a casa… già pregustavo quella torta col ripieno di formaggio ed erbe aromatiche!» sospirò il dio «Già, dimmi che lievitando un po’più del previsto l’impasto non si rovinerà! Sarebbe una catastrofe assoluta!»
 
«Non si rovinerà» lo tranquillizzò Anise, una volta riuscita ad accendere il fuoco «Ecco fatto. Vado a prendere un paio di coperte dal piano di sopra, così da poter avere qualcosa addosso una volta che ci saremo spogliati».
 
«… spogliati?»
 
«Sì! Così facendo i nostri vestiti si asciugheranno più in fretta» replicò lei, una volta imboccate le scale.
 
Rimasto solo, Beerus iniziò a pensare che quel che stava succedendo fosse un’istigazione a fare... quel che si era ripromesso di non fare prima di ufficializzare la sua relazione con Anise.
Pioggia, camino acceso e pochi vestiti addosso: quella situazione sarebbe potuta essere degna di un qualche anime con momenti “romantici”.

Ricordò i suoi sbuffi ogni volta che ne aveva visto uno, e si rese conto che probabilmente non avrebbe più mostrato simili segni di insofferenza. Avendo iniziato a viverne di persona, aveva capito che non c’era nulla per cui sbuffare.
 
I suoi riflessi estremamente sviluppati gli consentirono di acchiappare al volo la coperta che Anise gli aveva lanciato, sebbene a livello cosciente non si fosse accorto del suo ritorno.
 
«A cosa pensavi?» gli chiese la lince.
 
«Niente di che» rispose l’Hakaishin «Ehm… io mi volto dall’altra parte, d’accordo? Così puoi toglierti i vestiti, e posso farlo anche io» disse, dandole le spalle.
 
«Va bene».
 
«Va bene» ripeté Beerus, accingendosi a togliere i pantaloni.
 
In teoria non sarebbe dovuta essere un’operazione difficile -per riuscire a togliersi i pantaloni non serviva essere dei geni- in pratica invece ci stava mettendo una vita, perché il suo cervello era concentrato su tutt’altro.
I fruscii dietro di lui significavano che Anise, come anticipato, si stava spogliando a sua volta. Non che avesse molti capi da togliere perché, stando a quanto lei gli aveva detto, i Lusan non erano abituati a portare biancheria intima.
Probabilmente era già nuda.
Riuscì a togliersi i pantaloni, ma quel che non riuscì a fare fu evitare di immaginare il corpo snello della sua ragazza illuminato dai giochi di luce creati dal fuoco. Immaginò come sarebbe stato voltarsi ad ammirarlo, ad accarezzarlo, baciarlo in ogni sua più piccola e delicata parte, e poi- no, basta: si era ripromesso di aspettare, quindi così avrebbe fatto… anche se a lei non aveva parlato dei motivi di quell’attesa.
 
Tuttavia fu proprio allora che, inaspettatamente, il dio sentì le labbra soffici di Anise baciarlo con dolcezza sulla nuca; ebbe giusto il tempo di sgranare gli occhi per la sorpresa e poi, quando sentì le mani della ragazza accarezzargli delicatamente il petto, si trovò a rabbrividire di piacere.
Avvertì il sorriso della lince sulla propria pelle mentre lei passava a baciare il suo collo, partendo dalla mandibola e scendendo pian piano, così come aveva iniziato a far scendere anche le sue mani in modo lento e inesorabile: lasciati i pettorali, Anise era passata ad esplorare doviziosamente i suoi addominali… e presto sarebbe arrivata ben più in basso.
 
«Non è la prima volta che ti vedo in intimo, e ho sempre pensato che avessi un corpo più che perfetto, ma ora… non so, è diverso dal solito. È la prima volta in tutta la mia vita che provo questa sensazione. Credo sia il desiderio» sussurrò lei «Adoro quando mi abbracci, adoro quando mi baci, ma io vorrei di più. Anzi, voglio di più».
 
Anise si strinse a lui. La sensazione del corpo caldo e privo di indumenti della Lusan contro la sua schiena, unita a quei baci, a quel tocco delicato e al contempo esigente, e a quelle parole, lo stava mandando fuori di testa.
Desiderava Anise esattamente quanto lei desiderava lui, anzi, di più: tutto quel che Beerus avrebbe voluto fare in quel momento sarebbe stato voltarsi e accontentarla, baciarla e fare l’amore con lei fino al giorno dopo. Percepiva tensione in ogni fibra del proprio essere, dovuta a un desiderio che diventava più pressante a ogni centimetro percorso dalle mani e dalle labbra di Anise. Era incredibile che riuscisse ancora a trattenersi, lui stesso non riusciva a capacitarsi di come ci stesse riuscendo in simili condizioni!
 
«E anche tu vuoi di più» aggiunse Anise, mentre una delle sue mani era ormai sul punto di raggiungere l’inguine «Lo vedo bene».
 
«Io… io non posso» riuscì a dire Beerus, con fatica.
 
«Perché?» gli chiese la lince, tra un bacio e l’altro, senza dare mostra di essere delusa o di rimproverarlo «Cos’hai?»
 
«Non sei come le donne con cui sono stato, e ho il pensiero che fare con te quel che ho fatto con loro prima che la nostra relazione diventi ufficiale sarebbe come metterti al loro livello, mancandoti di rispetto» disse tutto d’un fiato «Ecco».
 
«Beerus, ora voltati e guardami in faccia».
 
Il dio obbedì, e a quel punto Anise iniziò ad accarezzargli il viso con entrambe le mani, stringendosi di nuovo a lui, per nulla imbarazzata o disturbata nell’avvertire distintamente la sua eccitazione.
 
«Non mi mancheresti di rispetto. Io non mi sentirei una prostituta se facessi l’amore con il ragazzo, anzi, l’uomo, che amo» disse con fermezza la ragazza «E se mi ricambi, non credo che tu in seguito inizieresti a vedermi come una di quelle lavoratrici».
 
«No, questo non accadrebbe. Mai».
 
La lince lo baciò, senza smettere mai con le carezze. «Come pensavo. Beerus, se c’è una qualsiasi altra ragione per cui non te la senti allora io non insisterò oltre, ma se è soltanto perché temi di mancarmi di rispetto, togliti dalla mente quest’idea assurda: lascia che sia io, dei due, quella che pensa troppo… anche se in questo momento ho voglia di fare qualcosa di diverso dal pensare».
 
Una delle mani di Anise abbandonò il viso dell’Hakaishin, percorrendo l’intero torso per poi fermarsi sull’inguine.
 
Per il giovane Beerus, tranquillizzato dalle sue parole e già preda di una voglia disperata di fare l’amore con lei, fu il colpo di grazia: si strappò letteralmente di dosso mutande che ormai servivano a ben poco e avvicinò il volto della ragazza al proprio, coinvolgendola in un bacio talmente passionale da poter essere definito quasi violento, mentre le sue mani percorrevano ed esploravano avidamente quel corpo che fino ad allora si era solo limitato a desiderare di toccare in quel modo.
Si era trattenuto temendo di mancarle di rispetto, o di spaventarla e di essere allontanato per questo -conoscendo buona parte della storia personale di Anise- ma con sua somma gioia sembrava proprio che su quel fronte non ci fossero problemi, anzi! In quel momento la Lusan non si stava limitando ad accogliere con gioia tutto l’ardore che le stava dimostrando, ma lo stava anche ricambiando in modo altrettanto appassionato… e fu Anise a trascinarlo sopra una coperta, quella nella quale lei avrebbe dovuto avvolgersi e che invece aveva steso a poca distanza dal camino.

 
Quella loro prima volta insieme fecero l’amore a lungo, sembravano non averne mai abbastanza; erano desiderosi di esprimere a livello fisico un’unione spirituale che, seppure si conoscessero relativamente da poco, era già molto forte.
Essere una divinità e dunque pressoché instancabile aveva i suoi vantaggi, incluso poter accontentare la lince tutte le volte in cui gli chiese di farlo ancora, richieste che Beerus soddisfece con sommo piacere di tutti e due.
In tutto ciò fece sempre in modo che lei si sentisse coccolata, amata. A detta di Anise, il suo defunto marito non era mai stato una “bestia” con lei -o comunque aveva sempre fatto in modo di non farle male durante i rapporti- ma era precisa volontà di Beerus far sì che lei percepisse la differenza. Lui la percepiva: conosceva bene il sesso, ma fino ad allora non era mai stato così bello, al punto da sentirsi una cosa sola con un’altra persona.
Era una definizione un po’smielata, sentendola anche solo un giorno prima forse avrebbe alzato gli occhi al soffitto, ma rendeva l’idea.
 
Quando Anise fu troppo stanca per chiedergli di farlo ancora, rimasero per diversi minuti abbracciati in silenzio; non il silenzio di chi non sa cosa dire, ma quello di chi non sente il bisogno di aggiungere alcuna parola a un momento di per sé perfetto.
 
Anise in quei mesi trascorsi con lui era sempre stata bene, e aveva già immaginato che fare l’amore con Beerus sarebbe stato diverso da com’era stato in passato, ma lui era perfino riuscito a sorprenderla in positivo. Aveva percepito nettamente la differenza, non solo per il totale coinvolgimento emotivo, ma anche a livello di piacere fisico: il suo defunto marito non le aveva mai procurato dolore, ma di certo non si era mai trovata a gridarne il nome.
Con Beerus invece si era sentita… insaziabile. Non soltanto guardando il suo corpo bagnato e seminudo aveva provato l’autentico desiderio di fare l’amore con lui, ma oltre a questo una volta soddisfatta aveva anche avuto la voglia disperata di continuare a farlo a oltranza. Era stato come recuperare in una sola volta tutto quel che non aveva avuto nel corso degli anni, anche a livello affettivo.
 
Non avrebbe mai creduto di poter provare qualcosa del genere, non lei, sposata per un anno con un Lusan molto più grande di lei che non l’aveva mai amata, non lei, che era stata toccata per la prima volta dalla persona che l’aveva cresciuta -ossia Calida.
Anise ricordava che, sapendo di doversi sposare, si era detta che non voleva avere più problemi di quanti ne comportasse l’idea di dover fare sesso con qualcuno che non le piaceva affatto.
Si era detta: “chiudi in una scatola quei ricordi alcolici e non lasciare che ti influenzino. Non è successo niente. Ricorda: non è successo niente. Affrontare la cosa in qualsiasi altro modo sarebbe inutile, per te”.

Era stato abbastanza efficace, in seguito era riuscita a sostenere adeguatamente l’anno di matrimonio e i relativi doveri, e il fatto che Meskal fosse sempre stato abbastanza delicato aveva contribuito a far sì che il sesso non diventasse problematico.
In certi frangenti era utile avere un cervello che “funzionava in modo strano”, come dicevano tutti: in caso contrario forse non avrebbe potuto apprezzare altrettanto quel che Beerus le aveva dato.
 
«Grazie» disse piano Anise, baciando Beerus su una guancia.
 
L’Hakaishin la strinse a sé ancor più saldamente, accarezzandole i capelli. «Non devi ringraziarmi. Piuttosto, come ti senti?»
 
«Tu come ti senti?»
 
«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda, mia signora!» la “rimproverò” Beerus, sorridendo «Sul serio, come ti senti?»
 
«Felice» rispose la ragazza, poggiando la testa sul petto del dio «Molto felice».
 
«Anche io».
 
Non era riuscito a tener fede alla sua idea di aspettare, ma tutto sommato era irrilevante. Quel che era accaduto non aveva prodotto cambiamenti nel suo intento di fare sul serio con lei, se mai il contrario. Ormai Beerus era deciso: le avrebbe chiesto di diventare la sua Iarim Neiē il giorno stesso del proprio compleanno.
 
«Devo farti una domanda, perché mi è tornata in mente una cosa che hai detto poco fa: hai parlato di ufficializzare il nostro legame, giusto? Cosa intendevi?» gli chiese Anise, neppure fosse stata in grado di leggere il pensiero.
 
Superato il primo momento di sorpresa, Beerus decise che era il caso di parlarle della questione. «In questi mesi non ti ho parlato delle figure di Neiē e Iarim Neiē, giusto?»
 
«Tu non l’hai fatto, altri sì. La prima diventa un’immortale legata all’Hakaishin da un reciproco giuramento vincolante, la seconda è ancora mortale e non ha prestato giuramento alcuno» disse Anise «In altri termini, la prima è una sorta di moglie, e l’altra una specie di fidanzata ufficiale».
 
«Fammi indovinare: te l’ha detto Champa Bocca Larga! Non spettava a lui parlartene» borbottò Beerus.
 
«Mi ha parlato della Neiē la prima volta che ci siamo visti, e della Iarim Neiē in un’altra occasione. Capisco che possa seccarti, ma non essere arrabbiato con lui, non l’ha fatto con cattive intenzioni».
 
Il dio fece un lungo sospiro, pensando che ormai era andata e quindi non era il caso di farla lunga, ma si ripromise di fare al gemello uno “sparticulo” alla prima occasione buona. «Ho capito. Ad ogni modo, tornando al discorso principale, quel che volevo dire è che desidero darti un posto al mio fianco che sia ufficiale per chiunque, angeli e altre divinità incluse, e lo farò appena potrò. Per fare il giuramento abbiamo ancora tempo, ma intanto voglio che diventi la mia Iarim Neiē. Questo è il mio proposito».
 
«Sembri molto convinto di quel che stai dicendo».
 
Era indubbio che le intenzioni di Beerus fossero serie, e Anise ne era molto felice, però… lo erano fin troppo! Si conoscevano da neppure tre mesi e mezzo, forse stavano prendendo tutto in maniera troppo frettolosa, e la logica le stava suggerendo che magari era il caso di procedere con maggiore cautela.
Lei però amava moltissimo Beerus: quel ragazzo era splendido, il modo in cui la faceva sentire lo era altrettanto, e sarebbe stata fiera di essere la sua compagna più o meno eterna. Anise lo considerava speciale, e il fatto che fosse un dio non c’entrava nulla: riteneva speciale lui come persona, non in quanto Hakaishin. Del resto come avrebbe potuto evitare di innamorarsi di un ragazzo mezzo matto che vagava nella foresta urlando “cannella”?
Forse doveva tranquillizzarsi. Per una volta magari poteva decidere di ascoltare il cuore e non il cervello.
 
«Lo sono eccome» confermò Beerus, con estrema sicurezza «Aspetta… tu forse non vuoi?» le chiese, cercando di dissimulare un’espressione un po’allarmata.
 
«Non agitarti, certo che voglio. Come potrei non voler diventare la Iarim Neiē del dio dei cercatori di frutta poco abili?» disse la lince, con un sorrisetto.
 
«Meriti un premio per aver detto che sei d’accordo, e una punizione per aver insinuato che non sia un buon cercatore di frutta. Io ho qualche idea che-»
 
«Fermo lì!» lo bloccò la ragazza, pur sorridendo «Rimandiamo a stanotte, quando saremo entrambi nel mio letto. Se adesso lo facciamo un’altra volta non avrò abbastanza forze nemmeno per fare la torta!»
 
«LA TORTA! È vero!» esclamò Beerus «Ci credi che mi ero dimenticato?»
 
«Ma va? Addirittura?»
 
«Sai, sono stato un po’ distratto» le ricordò il dio, con ovvio riferimento ai momenti d’intimità trascorsi «Nonché intento ad assaggiare dell’altro! Puoi biasimarmi?»
 
«Direi di no. Ci rivestiamo?»
 
«Temo sia il momento di farlo! No, un momento: i tuoi vestiti sono qui accanto al fuoco ad asciugare, ma i miei pantaloni...» disse lentamente, rendendosi conto che in tutto ciò i suoi pantaloni erano rimasti in un triste mucchietto troppo distante dal fuoco per non essere ancora umido «E le mutande…»
 
«Dammi pure la colpa per i pantaloni, ma le mutande te le sei strappate da solo».
 
«Nessun maschio eterosessuale non se le sarebbe strappate, al posto mio» ribatté Beerus, rassegnandosi a recuperare e indossare solo i pantaloni umidi.
 
«È un complimento non da poco» commentò Anise, piuttosto divertita, nel rivestirsi «Torniamo a casa, dai».
 
Non pioveva più, e il volo fino a casa fu molto breve.
Scoprirono che l’impasto della torta era lievitato quattro volte più del previsto, ma in fin dei conti era meglio così: significava poter fare una torta quattro volte più grande! Pioggia a parte, che comunque aveva portato benefici, sembrava proprio che quella giornata andasse sempre meglio.

La torta, enorme e profumata, una volta fatta e cotta non deluse le aspettative di nessuno dei due.

 
«Devo proprio cucirti un paio di pantaloni di riserva, nel caso ti servano di nuovo» disse la ragazza, mentre osservava Beerus ingurgitare la sesta fetta. A lei, che non mangiava molto se non c’erano di mezzo i biscotti alla cannella, ne era bastata una «Per quanto mi auguri di no. Sta per arrivare la stagione fredda, se ti bagnassi- no, niente, come non detto: le divinità non si ammalano!»
 
«Esatto. Sai che non devi preoccuparti per me» disse l’Hakaishin, leccandosi le labbra «Ottima. Non c’è cibo migliore del tuo».
 
Finito di cenare passarono un paio d’ore immersi nella lettura dei nuovi fumetti che Beerus aveva portato quand’era arrivato: erano del tipo “gente con poteri che si picchia duro a vicenda” -dunque non erano il genere preferito di Anise- ma lei aveva trovato molto dolce che Beerus volesse condividere quella sua passione, e tutto sommato avevano iniziato a non dispiacerle.
A proposito, doveva restituirgli il libro che le aveva portato un paio di settimane prima, “Le regole degli scacchi e come applicarle”. Beerus glielo aveva presentato come esempio di libro noioso che il suo maestro aveva tentato di imporgli, ma lei aveva trovato interessante il gioco di cui parlava, al punto di essersi ripromessa di trovare qualcuno con cui provare a fare delle partite.
Tentò nuovamente di chiederlo a Beerus, senza successo. «Nemmeno una?...»
 
«Te l’ho già spiegato, Anise: quel tipo di giochi non è per me, perché serve una pazienza che a me manca. Se però vuoi giocare a nascondino o braccio di ferro, fatti avanti!»
 
«La tua forza mi impedirebbe di batterti a braccio di ferro, e nel nascondino percepiresti la mia aura: vinceresti a prescindere».
 
«Appunto!»
 
Anise alzò gli occhi al soffitto, e nel riabbassare lo sguardo fece caso all’ora segnata dalle lancette dell’orologio appeso al muro. «Si è fatto piuttosto tardi, quindi direi sia il caso di andare… “a dormire”».
 
Dormire era una delle attività solitamente più apprezzate da Beerus… ma l’entusiasmo con cui sollevò Anise portandola nella loro stanza, sapendo benissimo che sarebbero andati “a dormire” solo per modo di dire, lasciava intendere che tutto sommato c’erano attività che gradiva ancora di più.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
“So che avremmo dovuto mangiare quella torta anche domani, ma non è colpa mia se l’attività fisica fa venire fame!” pensò Beerus, alzandosi silenziosamente dal letto.
 
Erano le due e mezza del mattino, e Anise si era addormentata circa quaranta minuti prima, quando la stanchezza era diventata davvero troppa per riuscire ad andare avanti oltre. Beerus vedendola felicemente provata dall’esperienza si sarebbe fermato anche prima, ma la lince non aveva voluto saperne, e chi era lui per non accontentare quella che a breve sarebbe diventata la sua Iarim Neiē?
 
Ormai al suo compleanno mancava poco più di un mese e mezzo, Anise gli aveva già detto che intendeva accettare la sua proposta; era praticamente cosa fatta. Pensarci lo fece sorridere.
 
Aprì la botola che conduceva al piano terra e saltò giù, senza curarsi di far scendere la scala a pioli.
Trovava che gli accessi ai diversi piani della casa di Anise fossero piuttosto buffi, con quelle botole. Di certo aiutavano a risparmiare lo spazio che in caso contrario sarebbe stato occupato dalle scalinate, ma Beerus la riteneva comunque una bizzarria. Ovviamente Anise non ne era responsabile, dal momento che la casa era molto più vecchia di lei.
 
“Calda o fredda, questa torta è sempre deliziosa” pensò, raggiunta la cucina.
 
Prese un coltello, ne tagliò un bel pezzo e lo addentò.
Per l’appunto: deliziosa!
 
“Credo che Anise mi capirà, se la finisco tut-”
 
Non fece in tempo a completare il pensiero, perché sentì un forte colpo alla nuca, e il mondo divenne nero prima che potesse chiedersi cosa fosse successo.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
A Whis risultava ancora difficile credere che Beerus, quell’allievo che negli ultimi tempi aveva iniziato ad adorare, lo avesse preso in giro per quasi tre mesi e mezzo… e accettare di essersi fatto abbindolare in quel modo da un pischello di diciott’anni non ancora compiuti era ancora più arduo.
 
Guardò il pischello in questione, ancora privo di sensi e riverso sul letto: di tutti gli Hakaishin che aveva seguito, Beerus era l’ultimo dal quale si sarebbe aspettato ripetute fughe, soprattutto se fatte per andare da una ragazza che viveva ai confini dell’Universo.
Una ragazza.
Beerus si interessava al cibo, agli anime, ai video su GodTube, ai fumetti e al combattimento. Il sesso fino a quel momento era stato abbastanza secondario -tant’era che Champa, a detta di Vados, frequentava il postribolo ben più di Beerus- e di amore e ragazze fisse non aveva parlato proprio mai, se non quando lui gli aveva spiegato cos’erano una Iarim Neiē e una Neiē.
 
Whis era arrabbiato con Beerus per quel che aveva fatto, ma anche con se stesso per non aver pensato che quelle ripetute dormite potessero essere un modo per scappare di nascosto.
Solo che… come avrebbe potuto intuirlo? Conoscendo il tipo, come avrebbe potuto anche solo immaginare che un giorno sarebbe successa una cosa del genere? Era semplicemente impossibile, e quando Vados quattro ore prima lo aveva contattato per rivelarglielo le aveva persino riso in faccia.
 
 
 

“Ohohohoh! Che tentativo di scherzo insensato. Il mio allievo è nella sua camera da letto a riposare da dopo l’ultimo sfiancante allenamento. Sta diventando così forte da aspettarmi che manifesti l’Ultra Istinto da un giorno all’altro!”

“Dell’Ultra Istinto per le fughe d’amore è già provvisto. Tu pensi che stia scherzando, ma guarda che io sono molto seria, e tu in questo frangente non sei stato all’altezza. Dico, non è mai successo neppure a Cus, e Cus è la più giovane di tutti noi!”

“Sorella, non sei più divertente”.

“Fratello, trovandoti attorno una Iarim Neiē -o peggio- ti divertirai ancora meno”.

“Questa è la conferma: mi stai prendendo per il naso. Era già improbabile che tu, sapendo da tempo di queste presunte fughe, non mi avessi detto nulla… ma questa, poi!”

“Da qualche giorno riflettevo su quel che sta succedendo, e ammetto che inizialmente ero per continuare a tacere: non è affar mio se non sei in grado di tenere a freno il tuo Hakaishin, e Champa ha perso peso come mi aveva promesso di fare se fossi stata zitta, ma il tuo allievo ha manifestato oggi stesso le proprie intenzioni alla ragazza… e ho voluto dirtelo”.

“Beerus sta dormendo, non è fuggito e non ha una ragazza!”

“Vai a controllare in camera da letto, se non mi credi. Ti saluto”.
 
 
 
Scoprire che Vados aveva ragione, e che lui si era fatto prendere in giro in quel modo, era stata un’amara sorpresa.

Non aveva neppure dato un’occhiata a quanto era accaduto in quei tre mesi e mezzo, limitandosi a localizzare Beerus per poi partire di gran carriera alla volta del pianeta dei Lusan.

 
Giunto sul posto due ore dopo, aveva realizzato anche quale potesse essere il momento in cui Beerus aveva conosciuto la ragazza, ossia la notte in cui lui, seccato, l’aveva abbandonato nella foresta.
Tutto era derivato da un suo errore.
Vados non aveva avuto torto nel dirgli che “non era stato all’altezza”.
 
Con quel pensiero a perseguitarlo era entrato in casa passando attraverso le pareti, aveva tramortito Beerus e lo aveva portato via senza por tempo in mezzo, ripromettendosi di non tornare mai più su quel pianeta. Beerus non aveva bisogno di una ragazza, e tantomeno di una Iarim Neiē: il loro rapporto tra maestro e allievo -e in seguito tra assistente e assistito- sarebbe sempre dovuto essere l’unico e il solo che avesse importanza, e la sua sarebbe sempre dovuta essere l’unica voce che Beerus ascoltasse. All’Universo serviva una coppia ben assortita, non un trio, e in ogni caso scegliere una Iarim Neiē a quell’età era una follia.
Doveva stroncare tutto sul nascere prima che fosse veramente troppo tardi, e doveva riuscirci in quel mese e mezzo, perché dai diciott’anni in poi avrebbe dovuto per lo più limitarsi a obbedire a Beerus.
 
Un Beerus che stava riprendendo conoscenza, illuso di essere ancora sul pianeta dei Lusan e che fosse ancora tutto a posto. «Hmmm… dov’è la torta?»
 
«Temo sia rimasta in casa della tua ragazza, Beerus».
 
Sentire la voce del maestro causò al dio un brivido gelido lungo la schiena; sgranò gli occhi e, improvvisamente lucidissimo oltre che nel panico, si rizzò a sedere. «M- maestro Whis?...»
 
«Immagino che al tuo risveglio avessi previsto di trovare tutt’altra persona».
 
Whis era composto come di consueto, ma Beerus riusciva a vedere molto bene che era assai arrabbiato. Lo leggeva senza difficoltà nel suo sguardo color lavanda, che parlava molto chiaro, e diceva “Sei in un Multiverso di guai”. «Maestro, io posso spiegar-»
 
«Hai infranto le regole. Sei scappato più volte dal pianeta, oltretutto per incontrare una ragazza, e mi hai preso in giro per tre mesi e mezzo. Non credo ci sia molto da aggiungere o da spiegare, ne convieni?»
 
Appunto. Il suo maestro lo aveva scoperto, sapeva dove andava e perché ci andava, e lo aveva riportato di forza a casa: questo significava che, com’era prevedibile, era totalmente contrario. «Non avrei mai voluto prenderti in giro, è solo che non ho visto altro modo per… io… io non pensavo-»
 
«“Non pensavi”, ben detto! O comunque pensavi con parti del corpo diverse dal cervello. Beerus, se sentivi il bisogno di fare sesso più di frequente bastava dirmelo e ti avrei portato più spesso nel solito posto! Hai fatto viaggi di…» fece un rapido calcolo «Tre ore e mezza solo per questo? Ti rendi conto di quanto sia folle tutto ciò?»
 
«Non sono andato da lei per quella ragione!» esclamò il dio, ora inalberato «Hai detto bene, se avessi voluto fare sesso mi sarebbe bastato farmi portare nel solito posto, ma non era quel che volevo da lei! Anise diventerà la mia Iarim Neiē!»
 
Triste conferma del fatto che Vados non stesse scherzando. Whis scosse la testa. «Non credo proprio. Beerus, tu sei indubbiamente vittima di quella che tra i mortali viene chiamata “una brutta cotta”, o “innamoramento”. Per quel che mi è dato conoscere, pare che alla tua età sia un tipico disturbo psicofisico… ma ti assicuro che è transitorio».
 
«Transitorio un corno!» sbottò Beerus, rizzandosi in piedi «E non è affatto un “disturbo psicofisico”!»
 
«Forse definirlo “malattia” sarebbe più corretto».
 
«Non è una malattia, maledizione! Io la amo!»
 
«Sciocchezze» ribatté Whis, secco «La tua mente al momento è confusa e annebbiata dagli squilibri chimici causati dall’innamoramento, e da quelli ormonali tipici degli adolescenti. Non è nulla di grave o che si debba prendere sul serio: un po’di distanza e vedrai che passerà tutto, come fosse un brutto sogno».
 
«D-distanza?»
 
«Esatto: “distanza”. Beerus, non ti lascerò certo andare ancora da quella ragazza» disse l’angelo, mostrando tutta la tranquillità dell’Universo «Non so se tu credessi il contrario, ma se è così ti sei preso in giro da solo, più di quanto tu abbia preso in giro me negli ultimi tempi».
 
Beerus avrebbe dovuto aspettarselo, ma quel che aveva sentito lo fece gelare lo stesso.
Non sarebbe più potuto scappare, perché Whis l’avrebbe tenuto sotto stretta sorveglianza, e questo significava non poter più andare sul pianeta dei Lusan… e di conseguenza non poter più vedere Anise.  «Non puoi farlo! NON PUOI!»
 
«A me risulta di sì».
 
« Whis, io devo vederla!» esclamò l’Hakaishin in un tono che oscillava tra la rabbia e la supplica, mentre afferrava le vesti del maestro «Ne ho bisogno! Perché non capisci?!»
 
«Lascia andare immediatamente il mio abito».
 
Beerus staccò le mani dai vestiti di Whis come se si fosse scottato, ma non intendeva demordere. «Lo so che sei arrabbiato con me perché ho fatto tutto di nascosto, ho sbagliato e su questo hai ragione, ma non puoi impedirmi di stare con lei! Per me è importante, soprattutto adesso che…»
 
“Adesso che” avevano fatto l’amore.
Un pensiero attraversò la mente del dio, gettandolo nella disperazione: cos’avrebbe pensato Anise vedendolo sparire all’improvviso, guarda caso proprio il giorno dopo la loro prima volta insieme?
Avrebbe pensato di essere stata usata, avrebbe pensato che tutte quelle belle parole e tutte quelle promesse valevano meno di una perlina di vetro, e lo avrebbe odiato in virtù di tutto ciò.
Non poteva succedere.
 
«Whis-»
 
Poi però il suo cervello gli ricordò una cosa fondamentale: Anise non era una ragazza stupida. Era troppo attaccata a una sorella che pur essendo capo di una cittadina la lasciava relegata in una foresta, ma quello era un altro discorso.
Se aveva imparato a conoscerlo anche solo un po’, avrebbe intuito che la sua sparizione non era una cosa voluta da lui. La amava, e voleva pensare di essere riuscito a dimostrarglielo abbastanza chiaramente da far sì che Anise credesse in lui e nella sua buona fede.
 
«Anise è intelligente. È riuscita a capire facilmente tutto quel che comporta il mio ruolo di Hakaishin, quindi capirà che se non mi farò vedere sarà per colpa tua» disse al maestro, con decisione «E che non me ne sono andato da casa sua di mia volontà. A breve io compirò diciotto anni, e a quel punto tu dovrai portarmi da lei quando lo vorrò, quindi lascia che io continui a vederla. Puoi rifiutarti di farlo solo per adesso, ma non otterrai assolutamente niente: tra un mese e mezzo io e lei staremo ancora insieme e diventerà la mia Iarim Neiē, che ti piaccia oppure no».
 
Sebbene un po’sorpreso da quel cambio di atteggiamento, più “adulto” e assai diverso dal panico semi disperato presente fino a poco prima, Whis mantenne la calma. «Lo ripeto di nuovo: non ti porterò da lei. Un mese e mezzo è lungo per una ragazza che presumo abbia più o meno la tua età. Se non la dimentichi tu, lo farà lei».
 
«Questo non accadrà mai, e se tu non mi porterai da lei allora io non mi allenerò più!»
 
Rieccolo, il solito Beerus capriccioso che conosceva. Il momento pseudo ragionevole era finito. «E io non ti farò più da mangiare».
 
«Mi arrangerò da solo, ho visto Anise cucinare un sacco di volte!» ribatté Beerus, pur essendo consapevole che probabilmente tutto quel che avrebbe tirato fuori sarebbe stato immangiabile.
 
«Non potrai utilizzare la cucina, né avrai altre comodità. Se non ti allenerai, andrai a vivere nel bosco e cercherai di cavartela lì, tra gli alberi» replicò Whis «Spoiler: non troverai una ragazza pronta ad aprirti la porta di casa propria. Altro spoiler: non provare a lasciare il pianeta, non potresti riuscirci neppure tentando miliardi di volte».
 
Niente cibo, niente comodità, e una situazione terribilmente simile a quella in cui si era trovato durante la sua infanzia: una punizione che lo privava di tutto quello che aveva sempre avuto da quattordici anni a quella parte, e con una vaga nota di sadismo. «Come sarebbe a dire che devo andare nel… no, lo sai cosa? Lo sai cosa?! Ci vado eccome, nel bosco! Parlare con gli alberi è più utile che parlare con te» borbottò Beerus, agguantando una coperta «Tanto tu non capisci nulla di me e di Anise, non puoi capire, e forse non vuoi nemmeno provare a farlo».
 
«Metti giù la coperta, non avrai neppure quella, e non c’è nulla da capire: il problema è solo la tua testardaggine, ma non durerà molto. Ieri, prima di ricevere la "bella notizia", ho ordinato un profiterole dal pianeta Swetts. Arriverà alle cinque di oggi pomeriggio» lo informò Whis «Lo avevo comprato per fare un regalo a quello che fino a quattro ore fa ritenevo uno degli allievi migliori che abbia mai avuto… ma ho sbagliato. Avrebbe avuto senso se lo avessi comprato per l’allievo più bugiardo. Ti ho cresciuto e addestrato, e come mi ringrazi? Infrangi le regole e mi inganni».
 
Beerus teneva al suo maestro, perché questi gli aveva dato quanto di più simile a una casa avesse mai avuto, e sentirsi dire certe cose fu come ricevere una coltellata particolarmente dolorosa e intrisa nel senso di colpa.
Non avrebbe cambiato nulla di quei tre mesi e mezzo, perché quel che lui e Anise avevano costruito in così breve tempo era bellissimo e troppo importante, e si era sentito soddisfatto della propria astuzia per aver gabbato Whis, però sapeva benissimo che quel che aveva fatto era stata una grandissima mancanza di rispetto nei confronti di qualcuno che gli aveva dato tutto.
 
Lasciò cadere la coperta e si diresse verso la porta. Arrivato sulla soglia, si voltò a guardare l’angelo. «Non mi avresti permesso di conoscerla meglio, quindi non avevo scelta. Il profiterole mangialo tu, tanto in questi mesi io l’ho mangiato un mucchio di volte!»
 
Detto ciò corse via prima che il maestro potesse commentare in qualsiasi modo quell’ultima frase che, se fosse stato più sveglio, avrebbe fatto a meno di dire.
 
“Non solo ha mentito, ma ha anche divorato a mia insaputa chissà quanti di quei buonissimi dolci! Questo è quasi più grave del resto” pensò Whis, con aria profondamente offesa “Non riesco neppure a credere che si sia mostrato poco interessato al profiterole. Beerus che rinuncia al profiterole per una Lusan? Se non fosse impossibile penserei che l’abbiano sostituito con un clone malfatto. In ogni caso cederà molto presto, ne sono sicuro… tempo un giorno, massimo due, e tornerà da me con lo stomaco che brontola a supplicarmi di preparargli da mangiare”.
 
Prima di uscire dalla camera da letto fece caso a un particolare: non si era curato neppure di dare un’occhiata alla ragazza che aveva mandato fuori di testa il suo allievo.
Tirò fuori il bastone, e decise di verificare se l’ipotesi che Beerus l’avesse conosciuta nella foresta era corretta.
 
La Lusan dal pelo bianco che Whis vide oscillare su un’altalena non era più bella di tante altre che lui e Beerus avevano visto nella città di Vynumeer -troppo magrolina- ma riconosceva che con la notte, le due lune, la musica e i capelli argentei sciolti al vento potesse risultare affascinante agli occhi di altri felidi.
Di certo lo era risultata agli occhi di  Beerus, che quella sera -da quanto stava vedendo- era rimasto per un bel pezzo a guardarla col sorriso che avrebbe potuto avere vedendo una meringa gigante.
 
Si ripromise di dare qualche altra occhiata a quant’era accaduto in quei tre mesi e mezzo, anche se in teoria Beerus e quella ragazza non si sarebbero più visti. La vita eterna di un angelo a volte era noiosa, e in quei due giorni in cui Beerus sarebbe stato nel bosco avrebbe avuto ancor più tempo libero del solito.
 
“Promemoria per me: escludere le scene spinte. Non sono per nulla curioso di vederle” pensò.
 
 
 
 
 
Sono conscia di aver pubblicato qualche ora prima rispetto al solito, ma siamo al 23 dicembre, e in questo periodo in casa mia si sa quando si inizia a cucinare, ma non quando si finisce :"D
Non ho nulla da dire se non… “beccato”! Ah, e mi auguro che il mio primo tentativo di scrivere scene che vanno oltre un bacio non sia stato troppo penoso. Vero, da qualche parte si deve pur iniziare, ma spero di migliorare in futuro :”D per il resto, a voi eventuali commenti.

Auguro a tutti buone feste  (:
 

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Capitolo 9
*** 9 ***


RMIcap9
9
 
 
 

 
 
 
 
 
 
Quel pomeriggio il cielo era limpido, senza neppure una nuvola, ma se avesse rispecchiato l’umore di Anise sarebbe stato plumbeo, e la pioggia sarebbe scrosciata incessantemente fino a far straripare ogni fiume e ogni lago.
 
“Che giornataccia. Non sarebbe dovuta essere così”.
 
Una volta accovacciatasi su una poltrona diede un’ultima occhiata al grosso pezzo di torta che fino a quel momento non aveva fatto altro che rigirarsi tra le mani, e infine decise di lanciarlo dritto tra le fiamme del camino acceso.
Prese in mano l’attizzatoio e si mise a ravvivare con aria assente il fuoco. Nonostante si stesse entrando nella stagione fredda la temperatura non era tanto bassa da dover mettere in funzione il camino a quell’ora del giorno, ma Anise aveva iniziato a sentire freddo già dal mattino; più precisamente da quando si era svegliata e non aveva trovato Beerus al piano terra, ma solo un pezzo di torta -cui mancava un grosso morso- abbandonato sul pavimento.
 
Doveva ammetterlo, inizialmente il suo cervello aveva iniziato a produrre pessimi pensieri, del tipo: “hai fatto talmente pena a letto da farlo fuggire, non vai bene neppure per quello, sei sbagliata in tutto e per tutto e  lo sarai sempre. Credevi davvero di poter essere la persona giusta per diventare la Iarim Neiē di chicchessia? Dzhavarut’yunner!”, ma era riuscita ad accantonarli imponendosi di continuare a credere a qualsiasi costo nell’amore che Beerus le aveva sempre mostrato, e concentrandosi su quel pezzo di torta.
Limitarsi a mordere un pezzo di torta per poi abbandonarlo sul pavimento non era da Beerus, e non c’era neppure la possibilità che fosse fuggito perché schifato dal cibo, dal momento che la sera prima lo aveva divorato come soleva fare. Qualcuno doveva averlo portato via con la forza, ed escludendo qualunque mortale, nonché Champa -era meno forte di Beerus, e poi perché avrebbe dovuto farlo?- la sola opzione sensata restava quella degli angeli.
Anise era abbastanza convinta del fatto che non fosse stata Vados, quanto piuttosto il nominatissimo maestro Whis, ma c’era da chiedersi come l’avesse scoperto. Era perfettamente plausibile che potesse essersi recato in camera del suo allievo con l’intento di svegliarlo prima, o per qualche altra ragione… d’altro canto però c’era anche la possibilità che Vados potesse aver fatto la spia, e c’erano vari elementi che spingevano Anise a ritenerla un’ipotesi plausibile. Fino ad allora Vados aveva mantenuto il silenzio, ma nel caso avesse visto e sentito Beerus proporle di diventare la sua Iarim Neiē poteva aver cambiato idea: il fatto che non fosse stata fisicamente presente non contava, perché Champa le aveva detto che gli angeli potevano osservare fatti presenti e passati quando e come volevano.
 
Quelle però erano solo speculazioni. Il solo dato di fatto era che Beerus non fosse accanto a lei in quel momento e che, se le cose erano andate come lei pensava, allora quel povero dio era nei guai.
Ad Anise non restava altro se non la speranza che Beerus, nel tentativo di battersi per poterla rivedere, non si infilasse in qualcosa di peggiore; lei intanto si sarebbe fatta dare notizie da Champa, se questi ne aveva, e per il resto si sarebbe limitata ad attendere il giorno del compleanno di Beerus. Avrebbe concluso di essere stata brutalmente piantata in asso solo se lui non si fosse fatto vivo da quel momento in poi.

 
Sentì una grande mano posarsi sulla sua spalla, e la sorpresa, la paura e l’istinto di difesa stavolta ebbero il sopravvento sulla logica di cui Anise andava tanto orgogliosa: senza pensare minimamente a cosa stesse facendo, o al giorno della settimana e all’ora, Anise sollevò l’attizzatoio ormai incandescente per colpire alla cieca un avversario senza nome e senza volto.
Lo sconosciuto evitò facilmente il colpo, e impedì alla giovane di sferrarne altri, trattenendo con mano ferma la punta ricurva, rossastra e rovente di quell'arma impropria.
 
«Ho bussato, ti ho chiamata, ma devo dedurre che non mi avessi comunque sentita arrivare».
 
Solo a quel punto Anise realizzò che lo “sconosciuto” non era affatto uno sconosciuto, ma sua sorella, giunta a visitarla come ogni settimana.
La giovane lince cercò di ritrovare la calma, ma era difficile farlo se manteneva lo sguardo fisso sulla mano di Calida, la quale lasciò andare la punta dell’attizzatoio come se nulla fosse, nonostante mostrasse ovviamente una gran brutta ustione. «C-Callie… non volevo cercare di colpirti, non mi ero resa conto che fossi tu, mi dispia-»
 
«Col tempo guarirà. Dovresti sapere che non mi dà noia».
 
Anise abbassò l’attizzatoio, e poi lo rimise a posto. «Lo so, ma vederlo continua sempre a farmi impressione, per non dire altro. Vado a prendere il composto per le ustioni che ho di là, io… sì, ci vado».
 
Lasciò la stanza più in fretta che poteva, sia perché quell’ustione necessitava di soccorso immediato, sia perché aveva bisogno di un momento per scendere a patti per l'ennesima volta col fatto che Calida, pur percependo effettivamente il dolore, non veniva affatto disturbata da esso. Era una cosa alquanto bizzarra, e Anise non riusciva a capire come fosse possibile riconoscere la sensazione di dolore senza soffrirne, eppure per Calida le cose stavano proprio in quel modo.
Non era nata così, era iniziato tutto in tempi di guerra -quindi in giovanissima età- dopo un’occasione in cui aveva preso un bruttissimo colpo alla testa, e le cose non erano più cambiate.

Calida però non sembrava esserne infastidita perché, pur non soffrendone, riconoscendo la sensazione di dolore poteva anche capire quand’era il caso di non spingere oltre il proprio fisico; per il resto, quella sua caratteristica riusciva a incutere una certa soggezione: come non temere una guerriera Lusan che, oltre a essere un armadio a due ante pieno di muscoli, non dava mostra di soffrire il dolore?
 
Trovato il composto e delle bende la ragazza tornò rapidamente da Calida, la quale stava provvedendo a pulire da sola la ferita. La stanza odorava di pelo e carne bruciati, motivo per cui Anise si ripromise di aprire le finestre appena sua sorella fosse andata via. «So che non ti dà noia, ma mi dispiace davvero. Avrei potuto finire per colpirti in pieno volto!»
 
Calida tese la mano ustionata, lasciando che Anise provvedesse alla medicazione. «Sei troppo lenta per riuscirci, non c’era pericolo».
 
«Rimproverami pure la lentezza, ma in questo caso è stata una fortuna. Mi dispiace tantissimo» ripeté ancora Anise «Ero totalmente persa nei miei pensieri, oggi non è una bella giornata…»
 
«Lo avevo immaginato da quando sono entrata e ti ho vista stare accovacciata in quella maniera. Deduco che tra te e Lord Beerus ci sia qualche problema».
 
Sentendo quelle parole, la giovane Lusan si irrigidì completamente. Per un istante si concesse persino di sperare che fosse stata un’allucinazione uditiva, o di aver sentito male, ma purtroppo non era così e ne era consapevole: Calida era venuta a sapere di Beerus, e che non fosse stata lei a dirglielo peggiorava ulteriormente le cose.
Col cuore in gola, capì che non restava altro se non sperare in una reazione ragionevole. «Da quanto lo sai?» le chiese dunque, rifiutandosi di guardare altro che non fossero le proprie azioni nel medicarle la mano.
 
«Due mesi e mezzo».
 
«Cosa?! Lo sai da tutto questo tempo e non hai detto nulla?!» allibì Anise, trovando il coraggio di sollevare lo sguardo
grazie alla totale sorpresa.
 
«Come tu frequenti un maschio da tutto questo tempo e non mi hai detto nulla» replicò Calida, asciutta.
 
«Volevo dirtelo. Giuro, volevo dirtelo davvero, ma non sapevo come fare, non sapevo quali parole usare, e non…» prese fiato «Io non volevo avere problemi, d’accordo?»
 
«Non volevi avere problemi più grossi dell’attirare ripetutamente il Dio della Distruzione su questo pianeta, col rischio di finire per innervosirlo col tuo strano modo di fare e portarlo a distruggerci tutti? Sì, da questo punto di vista è comprensibile».
 
«A lui piaccio esattamente come sono, che venga su questo pianeta una sola volta o un milione non è un problema, io non volevo averne con te» ribatté la ragazza «Non potevo sapere se avresti reagito in modo ragionevole oppure-»
 
«“Oppure” cosa? Ti ho mai picchiata? Ti ho mai messo le mani addosso?»
 
«No, non mi hai mai picchiata, ma riguardo il mettermi le mani addosso dipende in quale senso intendi» rispose Anise, con una certa durezza.
 
Per quanto potesse amare, rispettare ed essere leale alla sola famiglia che possedesse, per quanto potesse e desiderasse riuscire a mettere completamente da parte quel che era accaduto tre anni prima, in certi momenti tornava inevitabilmente fuori. Anise aveva avuto delle buone ragioni per dubitare della possibile reazione di Calida e, per quanto potesse aver commesso un errore non parlandole subito di Beerus, non accettava di prendersi tutto il torto.
 
«Non ci sono giustificazioni per quanto è successo quella sera, è vero» disse Calida, dopo un lunghissimo momento di silenzio «E non so bene neppure io cosa mi sia passato per la testa in quell’occasione. Il minimo che potessi fare era impegnarmi a non ripetere l’errore, e ho tenuto fede al mio proposito».
 
«E per tenere fede al proposito hai dovuto “impegnarti”?»
 
«È un semplice modo di dire, Anise, io non voglio toccarti ancora in quel modo, non ho la minima intenzione di farlo, non ho intenzione di farti nulla. Sapevo della tua tresca poco raccomandabile, ma nei due mesi e mezzo passati ti ho mai dato l’impressione di avere pensieri sbagliati?» le chiese Calida, conscia che la risposta sarebbe stata un “no”, perché faceva sempre in modo di sfogare altrimenti quelle malsane pulsioni di possesso.
 
«No, onestamente non me l’hai data affatto» ammise la ragazza «Ma allora torno a domandarti perché non mi hai detto nulla, e soprattutto come hai scoperto della cosa».
 
«Non ho detto nulla perché non spettava a me tirare fuori l’argomento, e perché in ogni caso ero convinta che l’interesse del “tuo” dio sarebbe stato solo passeggero. È un Hakaishin, vaga qui e là per tutto il cosmo, quindi vedrà molte donne: fino a ieri toccava a te, un domani chi lo sa».
 
«All’inizio ho pensato le stesse cose, ma sbagliavo. Conosco Beerus meglio di te, e ormai so che non è così. Non è questo tipo di persona, e quel che prova per me è vero, è reale, o non sarebbe mai riuscito a convincermi del contrario. Calida, io non sono così stupida da farmi abbindolare in quel modo!»
 
«Anche nel caso in cui si fosse davvero preso una cotta, non sarà per sempre. Non può esserlo, anche se entrambi magari credete sinceramente il contrario. Lord Beerus è un immortale» le ricordò Calida «Forse da divinità quale è ha modo di rendere tale anche te, ma prima o poi si stuferà di vedere al proprio fianco sempre la stessa donna. Finirà col piantarti in asso, e allora cosa farai? Tornerai qui dopo, che so, mille anni? A far cosa?»
 
Calida aveva l’inquietante capacità di dar voce sia ai pensieri che Anise aveva avuto inizialmente, sia ai pensieri che si affacciavano nella sua mente quando pensava a come sarebbe stato diventare immortale -entrambi tenuti a bada solo dall’amore che Beerus le aveva sempre mostrato, e che Anise a sua volta provava verso di lui. La ragazza si mise di nuovo a sedere davanti al camino. «Se continuaste ad ammazzarvi in una guerra dopo l’altra presumo che tornerei qui a ballare su un mucchio d’ossa. Non sarebbe male, questo posto è bellissimo, ma la gente è orribile».
 
«Buffo: hai da ridire sulle nostre guerre, e sbavi dietro qualcuno che distrugge pianeti in cui vivono miliardi di persone».
 
«Il compito di Beerus è mantenere un necessario equilibrio tra la vita e la morte in tutto l’Universo: questo ha un senso. Le guerre tra città invece non lo hanno affatto» ribatté Anise.
 
«Tu lo difendi, lui ti dà grattacapi. Non mi hai ancora detto a cosa stavi pensando».
 
«A darmi grattacapi non è lui. Senti, facciamo così: visto che sei qui e che ormai sai, ti spiego un po’tutto».
 
Come scelta poteva sembrare discutibile, ma Anise non aveva altre persone dalla mente agile con cui poter parlare. Calida non era troppo “a posto”, come del resto nemmeno Anise riteneva di essere, ma non era affatto stupida.
Le parlò di quel che aveva capito del rapporto tra angeli e Hakaishin non maggiorenni -e dunque del perché Beerus si era sempre mosso di nascosto-, le disse l’indispensabile sul rapporto che c’era tra lei e Beerus, le spiegò del pezzo di torta trovato sul pavimento e di quel che aveva pensato. Le rivelò anche l’esistenza di altri Universi, con altre divinità che avevano sempre lo stesso ruolo, e di Champa.
 
«Fammi capire: non intrallazzi con un solo Hakaishin, ma addirittura con due? Sempre peggio» commentò Calida, con aria cupa. Un maschio divino a ronzarle attorno era già troppo, ma che fossero addirittura due era inconcepibile. Possibile che anche così, esiliata nella foresta, attirasse guai e maschi “di potere” come il miele attirava le mosche?!
 
«Non me lo sono cercato, e comunque a Champa piaccio solo come persona, non in altri sensi. Quel che voglio da te però è la conferma che quel che ho pensato, ossia che il maestro di Beerus l’abbia portato via, è plausibile».
 
«Può esserlo. Ho avuto a che fare con Lord Beerus solo una volta, ma ricordo benissimo come si comporta quando mangia qualcosa che gli piace, e penso che difficilmente avrebbe lasciato la torta. Ciò però non toglie che un mese e mezzo sia molto lungo, e che il suo maestro ha senz’altro modo di convincerlo a non tornare».
 
«Sentire questo per me non è molto consolante» mormorò la lince, guardando altrove.
 
«Anise, tu e io siamo sole al mondo. Lo siamo sempre state» disse Calida avvicinandosi alla Lusan più giovane «Ricordalo: noi siamo e sempre saremo tutto quello che abbiamo. Piaccia o meno, è così. Questo non potrà mai cambiare né per le azioni di un mortale, né per le azioni di un dio».
 
Anise non riusciva a capire se trovare una rassicurazione in quelle parole che aveva sentito tante volte -conscia che Calida, pur con i propri difetti, non l’avrebbe mai abbandonata qualunque cosa fosse successa- o piuttosto se interpretarle quasi come una maledizione. La lealtà che nonostante tutto avrebbe sempre provato verso colei a cui doveva la vita tornò infine a farsi sentire, e Anise scelse la prima opzione. «Non dimentico il nostro legame familiare, ma se Beerus torna, e voglio credere che lo farà, io intendo continuare la mia storia con lui. Siine consapevole».
 
«Lo so, e sei liberissima di fare come credi» replicò l’altra «Ma in caso lui torni davvero cerca di compiacerlo fino a quando si stuferà, così da non farci ammazzare tutti. Se poi riuscissi a ottenere qualche vantaggio materiale sarebbe anche meglio. Non ho altro da aggiungere sulla questione, e non credo ti aspettassi parole diverse».
 
«No, infatti. Ma lui non si stuferà».
 
Calida scosse la testa, guardandola quasi con compassione. «Una divinità che prova sentimenti per te e ti porta con sé in giro per il pianeta… ammetto che somiglia alle favole di quei libri che conosciamo tutte e due e che tu amavi, quand’eri più piccola».
 
«Come sai che mi ha portata-»
 
«Ricordi cos’avevamo concluso, leggendole? “Ogni favola che si rispetti finisce in”…»
 
“Ogni favola che si rispetti finisce in tragedia”. Quella era la conclusione, come Anise ben ricordava. «Questa è vita reale, non è una favola».
 
«A maggior ragione. Se certe storie nelle favole finiscono in tragedia, nella vita reale finiscono in un completo disastro. Ti saluto, Anise» disse la donna, avviandosi verso la porta d’ingresso «Mi raccomando: testa sulle spalle».
 
«E tu sta’ attenta alla mano ferita».
 
Calida mosse tranquillamente la mano fasciata. «Anche ferita, questa mano fa più male agli altri che a me».
 
La Lusan dal pelo beige se ne andò, lasciando Anise sola con i propri pensieri nella casa di pietra e legna.
 
“Se certe storie nelle favole finiscono in tragedia, nella vita reale finiscono in un completo disastro…”
 
No. Non si sarebbe lasciata influenzare dalle parole di sua sorella, dai suoi moniti, dal suo pessimismo cosmico. Anise grazie a Beerus era riuscita a trovare la felicità per la prima volta nella propria vita, a provare una serenità mai conosciuta prima, a cercare il contatto fisico con qualcuno, a desiderare di poter stare insieme a una persona, insieme a lui, in ogni momento della giornata.
Aveva trovato tutto questo, aveva trovato anche la speranza concreta che potesse durare ancora per moltissimo tempo, ed era la cosa più bella che avesse mai avuto: non se la sarebbe lasciata portare via da nessuno, per nulla al mondo.
 
Dopo un lasso di tempo dalla lunghezza che Anise fu incapace di definire, la porta d’ingresso si aprì. Era Vados, che come di consueto era giunta lì insieme a Champa per lasciarle quest’ultimo.
 
«Ciao, Nissie» la salutò il dio, che quel giorno non sembrava particolarmente allegro.
 
«Buon pomeriggio, Lady Anise. La porta era aperta».
 
«Come lo è sempre. Ora so che lei era consapevole del fatto che Beerus non è qui».
 
Vados sollevò leggermente le sopracciglia. Non si era aspettata che la ragazza passasse direttamente “all’attacco”. «Cosa la spinge a fare tale affermazione?»
 
«Quando sa che c’è qui Beerus, lei bussa sempre prima di entrare. Stavolta non l’ha fatto, perché sapeva benissimo che lui non è qui, e che dunque non avrebbe potuto assistere a scene ambigue» replicò la ragazza.
 
«Non mi starà accusando di qualcosa, spero. Non sarebbe molto carino» disse Vados, senza accorgersi dell’occhiataccia di Champa, il quale evidentemente sapeva qualcosa.
 
Anise tuttavia se ne avvide eccome, e la prese come un altro elemento a favore della sua ipotesi. «È lei che ora ha parlato di accuse, non io, ma ammetto di essermi fatta l’idea che sia stata proprio lei a fare una soffiata a suo fratello. Ho una teoria su come possano essere andate le cose».
 
«Sul serio? Può dirla» la invitò l’angelo con tono noncurante, sorridendo perfino «Sono quasi incuriosita».
 
«Ricordo distintamente il suo cambio di atteggiamento e il modo in cui è andata via in fretta e furia qualche giorno fa, quando Beerus ha detto che in futuro l’oro del tesoro di Rubedo non mi sarebbe servito» disse Anise «Se gli Hakaishin sono incommensurabilmente ricchi, allora è ovvio che alla loro compagna più o meno eterna non serva avere un patrimonio personale. Io non avevo fatto questo collegamento, lei forse sì. Ha passato qualche giorno d’indecisione, presumo tenendo d’occhio Beerus a distanza, e sentendolo parlare di Iarim Neiē ha scelto di rivelare tutto a suo fratello, il quale è venuto qui e ha portato via Beerus con la forza. Ho trovato sul pavimento un pezzo di torta recante un morso di Beerus» continuò la lince «E che lui si limiti a dare un morso a un pezzo di torta per poi lasciarlo cadere è qualcosa che non esiste né in cielo né in terra».
 
Vados non sorrideva più, e Champa si limitò a restare a guardare il tutto il silenzio, alquanto stupito. Aveva sentito distintamente la sua maestra fare la spia con Whis: Vados aveva creduto che lui dormisse, ma si era risvegliato affamato e si era messo a cercare la sua scorta segreta di snack, e sentendola parlare si era concentrato al massimo per udire bene tutto il discorso. Si era ripromesso di parlarne ad Anise appena l’avesse vista… ma sembrava proprio che non ce ne fosse bisogno, dal momento che lei aveva capito tutto da sola.
 
«Se è convinta di tutto ciò immagino che mi riterrà una persona brutta e cattiva» commentò Vados.
 
«La ritengo un angelo che pensa come un angelo, si comporta come un angelo, e ha fatto un favore a un suo simile. Se crede che voglia mettermi a urlarle contro, si sbaglia: sarebbe come prendermela con un uccello solo perché vola, e non otterrei nulla se non perdere la voce. Per non parlare del fatto che le sue azioni sono state così inutili che non valgono neanche i miei insulti» aggiunse Anise «Tra un mese e mezzo al massimo io e Beerus saremo di nuovo insieme, quindi la sua soffiata non sarà servita proprio a nulla, come tutte le possibili azioni di suo fratello. Detto ciò, vado a fare un infuso per tutti e tre: la prego di non andarsene, Vados, perché dopo intendo chiederle una cosa. Intanto accomodatevi pure dove volete».
 
Anise andò a fare gli infusi senza lasciare a nessuno il tempo di replicare.
 
«Questa ragazza diventa più strana ogni volta che la vedo» fu il commento di Vados dopo qualche minuto di silenzio. Si sentiva un po’offesa nonostante in tutto il discorso di Anise non fossero stati presenti insulti diretti alla sua persona.
 
«Eccomi qui» disse Anise, di ritorno dalla cucina con un vassoio su cui erano poggiate tre tazze ben riempite di infuso caldo e profumato «Scegliete pure la tazza che volete».
 
«Doveva chiedermi qualcosa, giusto?» le ricordò l’angelo, prendendo una tazza.
 
«Sì. Immagino che lei sappia giocare a scacchi».
 
«Certo» confermò la donna, un po’perplessa.
 
«Beerus mi aveva portato un libro, a suo dire noioso, in cui c’erano tutte le regole. L’ho letto e avrei voluto provare a fare una partita con lui, ma per varie ragioni ha sempre rifiutato. Lei giocherebbe con me?»
 
Sentendo quella domanda, Champa pensò per l’ennesima volta che Anise fosse proprio “strana”- per quanto gli piacesse come persona in ogni caso. La tranquillità da lei mostrata era dovuta al fatto che credesse fermamente in Beerus, nella loro storia e alla serietà delle sue intenzioni -si capiva da quel che aveva detto prima a Vados- ma lo lasciava comunque un po’perplesso. Se lui avesse amato una persona, e avesse avuto davanti a sé la spia che con una soffiata li aveva separati, altro che chiederle di giocare a scacchi! Avrebbe fatto fuoco e fiamme! Sarebbe stato inutile, ma almeno avrebbe espresso la sua rabbia. «Perché vuoi giocare a scacchi? Come gioco è noiosissimo».
 
«Tu sei capace, Champa?»
 
«È una frana» sospirò Vados, rispondendo al posto di Champa «La sua richiesta comunque mi stupisce non poco, Lady Anise. È una ragazza veramente insolita».
 
«E detto da una bella donna che è capace di far scomparire un tesoro in un bastone, immagino non sia cosa da poco».
 
Vados rimase ferma a osservarla per qualche secondo, per poi sospirare. Grazie al bastone fece comparire una meravigliosa scacchiera fluttuante fatta interamente di cristallo. «Possiamo fare qualche partita. Non ha mai giocato, quindi le prime due volte può aiutarla Champa, per quanto imbranato sia».
 
«Non sono così imbranato!» protestò il ragazzo «Non ho mai vinto, ma non sono imbranato!»
 
«Va bene» disse Anise, sfiorando con delicatezza una deliziosa torre di cristallo nero «Champa, ho dimenticato di dire un’ultima cosa riguardante il discorso precedente: se in questo mese e mezzo dovessi rivedere Beerus prima di me, potresti dirgli che lo aspetto?»
 
«Se me lo permettono, sì» rispose l’Hakaishin, con un’occhiata in tralice alla sua maestra «Ma lo faccio perché me lo hai chiesto tu, non per quel cretino, sia chiaro!»
 
Anise non fece commenti. Col tempo forse i rapporti tra i gemelli sarebbero migliorati un pochino, ma quel che contava al momento era che, indipendentemente dalla ragione, Champa dicesse a Beerus quel che doveva dirgli se e quando ne avrebbe avuto l’occasione. Sapere che lo aspettava lo avrebbe aiutato ad affrontare il brutto momento che molto probabilmente stava vivendo e avrebbe vissuto…
 
 
 
 
 
 
°°°Diciotto giorni dopo°°°
 
 
 
 
 
 
«Non sono un bambino, non sono in quella foresta, sono a casa mia. Non sono un bambino, non sono in quella foresta, sono a casa mia».
 
Beerus, seduto a terra, si passò una mano sul volto, continuando a ripetere a se stesso quelle parole fino a riuscire a convincersene… almeno fino al mattino successivo.
Erano ormai diciotto giorni che vagava senza meta nel bosco che ricopriva parte del suo pianeta, diciotto giorni in cui aveva dormito sul muschio, bevuto da un fiumiciattolo e mangiato le carni abbrustolite e scondite degli animali che aveva cacciato per nutrirsi. Sporco -perché lavarsi solo con acqua non serviva granché- e con i vestiti rovinati, Beerus non somigliava più molto a una divinità, quanto piuttosto al disgraziato gattino che quattordici anni prima era stato costretto a scappare via assieme al fratello.
 
«Non sono un bambino. Non sono in quella foresta...»
 
Era assurdo, ma ogni volta che riapriva gli occhi dopo una notte di sonno aveva sempre l’impressione di essere tornato piccolo, di essere ancora nella foresta in cui lui e Champa erano sopravvissuti per un indefinito lasso di tempo, e che la vita comoda che aveva fatto da quando il maestro Whis l’aveva preso fosse stata solo un sogno.
Avrebbe voluto dormire di più, per lui sarebbe dovuto essere facile riuscire a fare un mese e mezzo di sonno ininterrotto, ma in quella situazione non ci riusciva. Aveva tentato disperatamente di farlo in più occasioni, ma non aveva ottenuto proprio nulla.
 
«Io sono a casa mia!» esclamò, battendo un pugno contro la fronte come per imporsi di metterselo in testa una volta per tutte «Sono- a- casa- mia!»
 
Sollevò lo sguardo verso l’alto, e il colore rosa pallido del cielo lo fece sospirare.
Il tormento dei risvegli nella foresta non bastava, no: c’era anche quello riguardante Anise. Diciotto giorni di fila senza poterla vedere erano troppi, il desiderio di sentire ancora la sua voce e il calore del suo corpo iniziava a diventare dilaniante. Avrebbe dato tutto quel che aveva pur di poter tornare da lei.
Non che in quel momento avesse molto, visto che Whis gli aveva tolto tutto spedendolo nel bosco a fare il barbone finché non avesse ceduto.
Lui però non intendeva farlo: sarebbe tornato da Whis solo quando questi gli avrebbe concesso di incontrare Anise, non prima, e se avesse dovuto aspettare fino al giorno del suo diciottesimo compleanno, che fosse! Lo avrebbe fatto senz’altro.
 
“Poi tornerai da lei e scoprirai che in questo mese e mezzo, convinta che tu l’abbia solo usata per poi abbandonarla, ha preso il tesoro di Rubedo, si è fatta portare da Champa in quella cittadina di mare, e si è sposata col sarto che ha cucito quel vestito blu scuro…”
 
Beerus voleva credere che Anise avesse capito quel che era successo e che lui non avrebbe mai voluto andarsene, ma quella paura di perderla avvelenava sempre e comunque i suoi pensieri. Non voleva che accadesse, non voleva che lei iniziasse a odiarlo e le loro strade si dividessero solo perché erano stati scoperti nel momento sbagliato. Lei era quanto di più bello avesse mai avuto, non se la sarebbe lasciata portare via per nulla nell’Universo.
 
«Beerus…»
 
Ecco il carissimo maestro Whis, che come ogni giorno veniva puntualmente a parlargli mangiando con gran gusto uno qualunque dei suoi piatti preferiti. C’era anche quello, come se il resto della punizione non fosse stato sufficiente. Pur sapendo che l’angelo era dietro di lui, Beerus non si voltò. «Oggi cosa mangi? Frittelle con lo sciroppo del pianeta Acer? Brioches ripiene di marmellata di frutti puff- puff? Qualunque cosa sia, mi auguro che ti vada di traverso».
 
«Non sto mangiando nulla, maleducato. Abbi almeno la creanza di voltarti!»
 
«Perché? Finché non mi lascerai rivedere Anise, io e te non avremo nulla da dirci. Sono qui da diciotto giorni, ormai al mio compleanno ne mancano solo ventisette; se tu non acconsenti a portarmi da lei, io non mi muoverò di qui!» disse il dio, testardo.
 
Whis si spostò, mettendosi in piedi davanti a Beerus. «Ammetto che tutta questa situazione è più seria di quanto avessi pensato, ma… davvero, ti sembra che valga la pena affrontare tutto questo per una ragazza? Per quella lì, poi!»
 
«Si chiama Anise, non “quella lì”! Sarai pure il mio maestro, ma lei diventerà la mia compagna, per cui non mancarle di rispetto!» gli intimò il dio, ora in piedi e piuttosto arrabbiato.
 
L’angelo alzò gli occhi al cielo. «Beerus, quella ragazza non c’entra proprio nulla con te, vuoi capirlo o no? Ha solo diciotto anni e ha già alle spalle un matrimonio finito, un’accusa di omicidio e una specie di esilio…»
 
«Sì, e io ammazzo miliardi di persone per lavoro, quale delle due cose ti sembra peggio?!» ribatté Beerus «Quel che hai detto non è un segreto per me, lo sapevo già, e non mi interessa affatto. Non è colpa sua se non può avere figli, non credo affatto che sia stata lei ad uccidere il marito, e comunque un trentaseienne che sposa una quindicenne solo per metterla incinta merita di fare esattamente la fine che ha fatto lui. Lei in tutto quel che è successo non ha colpe! Ed è una ragazza in gamba, ed è intelligente, ed è-»
 
«Già, ed è anche per questo che con te non c’entra proprio nulla» lo interruppe Whis.
 
«Che vorresti dire?!»
 
«In questi diciotto giorni, come avrai capito, ho dato un’occhiata a quel che è successo nei tre mesi e mezzo della vostra frequentazione. Ho verificato anche se quel che ti ha raccontato di sé corrispondeva o meno alla verità, sai, non dovendo farti allenare avevo molto tempo libero» fece spallucce «Non l’ho mai incontrata personalmente, ma posso dire di conoscerla almeno un po’, e… capisco che possa essere rimasta affascinata dal fatto che sei una divinità, ma per il resto non so proprio cos’abbia spinto una ragazza del tutto indipendente -e in grado di fare anni del nostro programma di matematica in tre mesi e mezzo - a interessarsi a qualcuno che non è neppure in grado di rifarsi il letto da solo».
 
«Perché dici queste cose? Perché?!» gridò Beerus, cercando di nascondere con la rabbia il fatto di essere stato ferito da quelle parole.
Cosa credeva, Whis, che lui non lo avesse mai pensato? Credeva davvero che non si fosse reso conto di quanto lui e Anise fossero agli antipodi, in quel senso? Certo che lo aveva fatto, solo un cretino non se ne sarebbe accorto, ma Beerus si era imposto di non creare problemi che non esistevano. Anise sarebbe diventata la sua Iarim Neiē e poi la sua Neiē, quindi un giorno sarebbe vissuta con lui nel palazzo, venendo a sua volta assistita da Whis in tutto e per tutto: il divario tra la rispettiva indipendenza -mancata, nel caso di Beerus- non si sarebbe avvertito affatto.
 
«Perché sono realista».
 
No, per Beerus non era “realista”: per Beerus era solo un grandissimo bastardo che, accortosi di non star ottenendo nulla con quella punizione, aveva deciso di cercare e colpire nervi scoperti.
 
“Sta dicendo un mucchio di idiozie! Non sarò in grado di rifare un letto, ma nessuno potrebbe offrirle più di quanto possa offrirle io! Io sono Lord Beerus, il Dio della Distruzione! Potrei darle tutto il suo mondo,  potrei darle una galassia, potrei darle l’intero dannatissimo Universo se lei me lo chiedesse!” pensò.
 
Era la verità, peccato però che Anise non lo amasse per quel che avrebbe potuto darle materialmente -come gli aveva detto più volte- e che lui, per il resto, non fosse stato neppure in grado di accontentare la sua richiesta di fare una partita a scacchi.
 
“Credeva di non avere nulla da darmi, ma forse è l’esatto contrario, e sono io che pur con la mia immortalità, pur con tutta la mia potenza e la mia ricchezza, non ho nulla da offrirle” pensò, con una certa amarezza “Non ho null… un momento, ma cosa vado a pensare?! Anise non fa che dirmi che non è mai stata così felice in tutta la sua esistenza, e che ora lo è grazie a me, quindi chi se ne importa se non so rifare un letto o non mi piacciono gli scacchi! Chi- se- ne- importa!
 
Per un attimo le parole del suo maestro gli avevano fatto venire dei dubbi, ma se li era fatti passare, perché Anise era sempre stata così chiara che lui non aveva motivo di averne.
La voglia di rivederla divenne ancor più grande, cosa che Beerus non credeva fosse possibile. Doveva stringerla ancora tra le braccia, doveva sentirle dire ancora una volta che la rendeva felice, doveva assolutamente vederla sorridere.
Il desiderio divenne un imperativo.
Whis avrebbe cercato di impedirgli di fuggire, ma lui doveva assolutamente provare a farlo lo stesso, perché non ce la faceva più.
 
«Beerus, è-»
 
Non sentì ciò che voleva dirgli il suo maestro, perché all’improvviso si alzò in volo alla massima velocità che gli era consentita; era intenzionatissimo a raggiungere il pianeta dei Lusan, e al diavolo Whis, al diavolo le regole, al diavolo tutto!
 
«Tu credi veramente di poter scappare? Sei ingenuo!»
 
Sentì solo la voce del maestro, ma curiosamente non accadde altro, e tutto quel che Beerus avvertì fu uno spostamento d’aria. Non che gli importasse: lui aveva in testa solo un pensiero, ed era quello di raggiungere Anise.
Ci fu un nuovo spostamento d’aria, poi altri ancora, ma Beerus non se ne curò. Ormai stava per raggiungere la nebulosa che avvolgeva il suo pianeta, una volta attraversata sarebbe stato nello spazio aperto.
 
Con la coda dell’occhio riuscì a notare la mano di Whis -che non aveva desistito anche se fino a quel momento non sembrava aver fatto proprio nulla- avvicinarsi pericolosamente; Beerus se ne rese conto solo a stento, ma il suo braccio si mosse da solo, e riuscì a bloccare il colpo.
 
«LASCIAMI IN PACE!» urlò poi, voltandosi d’improvviso a tirare un pugno.
 
Sentì qualcosa fare uno strano “crack”, intravide del liquido caldo e nero sulla propria mano, ma non se ne curò: lui doveva andare, doveva andare, doveva-
 
Di colpo si trovò davanti agli occhi il gelido volto del maestro Whis, e per un attimo gli parve di vedere un rivolo nero scorrere da una delle sue narici.
 
«Ora tu vai a dormire».
 
Com’era accaduto diciotto giorni prima in casa di Anise, sentì solo un forte colpo alla testa, poi tutto divenne buio.
 
 
 
 
 

***

 

 
 
 
«Io non riuscivo a crederci, sorella, ma se quello non era Ultra Istinto allora non so proprio cosa fosse. Evitava i miei colpi, ed è riuscito perfino a segnarne uno» disse Whis, indicandosi il naso «Probabilmente non si è neppure reso conto di quel che mi ha fatto, ma te lo dico io: ha manifestato l’Ultra Istinto!»
 
Whis era ancora estremamente sorpreso, e non sapeva se essere felice del risultato raggiunto dal suo allievo o arrabbiarsi per il naso fortemente incrinato. Al momento provava un bizzarro miscuglio delle due cose, e per fortuna aveva avuto modo di parlarne immediatamente con la sorella che preferiva.
 
«Ammetto che dal modo in cui l’ho visto muoversi sembrasse proprio quel che dici, ma manifestarlo una volta per caso e imparare a utilizzarlo sono due cose differenti» gli fece notare Vados.
Proprio quel giorno aveva acconsentito alla richiesta di Champa di essere portato dal Beerus, giudicando che fosse passato abbastanza tempo e che quindi ci fosse una vaga speranza che la punizione inflitta a questi potesse aver fatto effetto, ma il breve scontro aereo tra Whis e l’Hakaishin del settimo Universo l’aveva disillusa.
 
«È vero, ma intanto il mio allievo lo ha manifestato. Altri non possono dire lo stesso, sebbene abbiano tra le mani Hakaishin ben più vecchi. Sembra proprio che questi diciotto giorni in punizione gli abbiano fatto bene!»
 
«La punizione, dici?»
 
«Cos’altro, se no?»
 
Vados gli rivolse un’occhiata di puro compatimento. «Davvero continui a non voler affrontare la questione?»
 
«Non so di cosa tu stia parlando».
 
«Credo che Champa, che come puoi ben notare è sparito, sia andato a cercare di svegliare suo fratello per dirgli che la sua a breve Iarim Neiē continua ad aspettarlo. Perché sì, continua a farlo, nel caso te lo sia chiesto» disse Vados.
 
«E Champa, che detesta suo fratello, andrebbe a dirglielo?»
 
«Non per fare un favore al tuo allievo. Se hai dato uno sguardo a quanto è successo in questi mesi dovresti aver capito che Champa considera Anise un’amica. Riesce a stare assieme a Beerus senza rischiare di distruggere l’Universo, pensa un po’».
 
Whis non replicò, perché avendo dato un’occhiata al passato sapeva benissimo che Vados aveva ragione -come spesso accadeva. «Pensa un po’» ripeté, atono.
 
Vados posò una mano sulla spalla del fratello. «Whis, tu sei perfettamente consapevole di quale sia la situazione. Il tuo allievo non se la toglierà dalla testa, Lady Anise lo attende e ti assicuro che continuerà ad attenderlo, e al diciottesimo compleanno dei gemelli manca meno di un mese. Mi rendo conto che è folle lasciare che ufficializzino la loro relazione, ma al momento non c’è molto altro da fare… e ricorda, una Iarim Neiē non è per sempre».
 
«Una Neiē però lo è, e se Beerus continua così…»
 
«L’hai detto: Beerus! Ma non si può giurare da soli. Ascoltami, Lady Anise è una ragazza alquanto… particolare» disse Vados «Però devo riconoscere che non è una sciocca. Non ti ascolterebbe se provassi a dirle di lasciare Beerus, ma ritengo che un discorso ragionevole sul fatto che sia meglio procedere con cautela riguardo giuramenti vincolanti e similia verrebbe perfettamente recepito».
 
Whis fece un lungo sospiro. Vados aveva ragione ancora una volta: Lady Anise c’era, Beerus non se la sarebbe tolta dai pensieri tanto presto, e a quel punto la sola cosa saggia da fare era parlarle e mettere in chiaro tutto quel che doveva essere messo in chiaro.
Ad alcuni dei suoi fratelli più vecchi era successo, era capitato che si fossero trovati ad affrontare una situazione simile e a dover “scendere a patti” con delle Iarim Neiē, ma non avrebbe mai pensato che potesse succedere proprio a lui, e proprio con Beerus come allievo. «Ho capito, farò quello che devo.  Non che abbia alternative».
 
«Bravo».
 
«Senti, come sai mi sono un po’informato su questa ragazza, ma sei tu ad averla frequentata di più, per cui ti chiedo: quando dici che è “particolare”, in che senso lo intendi? E poi, quant’è particolare precisamente?»
 
Vados esitò. «Non è una maleducata, è sempre pronta a offrire cibo e ottimi infusi… però se ha qualcosa da dirti lo fa, e capita che in certi contesti le sue reazioni siano un po’ inaspettate. Ti faccio un esempio: pur avendo capito che sono stata io a dirti di lei e Beerus, deducendo con precisione com’è andato il tutto da alcuni dettagli, mi ha chiesto di giocare a scacchi».
 
«Sempre più utile rispetto all’insultarti» commentò Whis, senza sorridere.
 
«Più o meno è quel che ha detto anche lei».
 
Whis, non sapendo bene cosa pensare, si passò una mano sul volto. Vedeva potenziali seccature all’orizzonte, seccature ovunque.
 
«Ma guarda tu quello… decide di farsi atterrare proprio oggi» si sentì borbottare Champa, di ritorno dal viaggio in camera del fratello.
Era stato più o meno infruttuoso, ma andava comunque detto che il giovane Hakaishin era riuscito a trovare il modo di dire a Beerus quel che Anise gli aveva chiesto di dirgli: con un pennarello indelebile aveva scritto un “lei ti aspetta” sul braccio del suo povero gemello privo di conoscenza.

Dopo avergli disegnato sul volto un paio di occhiali.

E dei baffoni.
E avergli scritto “TONTO” sulla fronte.
E un “CHAMPA REGNA” sul petto.
Quando si sarebbero rivisti, Beerus avrebbe di certo tentato di ucciderlo.
 
«Ehi, quando Beerus si sveglia potresti dirgli che ho preso in prestito qualcuno dei suoi videogiochi?» chiese il dio a Whis.
 
«Lo farò» annuì l’angelo.
 
Del resto, per quanto immaginasse bene le proteste e le imprecazioni di Beerus verso il fratello, quella non era la conversazione più ostica che
a breve si sarebbe a breve trovato ad affrontare.







Traduzione di "Dzhavarut’yunner": "fai pena".

La condizione di Calida (mi riferisco al suo bizzarro rapporto col dolore) può insorgere realmente. Trattasi di un particolare tipo di asimbolia, "asimbolia al dolore".  Se ne parla sia qui  ->
https://www.pazienti.it/malattie/asimbolia  che in altri siti.

Ho pubblicato qualche ora prima del previsto per la stessa ragione dell'altra volta: prima si cucina per Natale... poi però c'è il Capodanno!
Altro capitolo in cui avrei voluto mettere più cose, ma che si è allungato in modo imprevisto. La conversazione con Whis dunque è rimandata al prossimo.
Auguro buon anno a tutti in anticipo (:

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Capitolo 10
*** 10 ***


RMIcap10
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“Eppure da quel che ho visto non mi era sembrato che fosse una strega…” pensò Whis, sfiorando con delicatezza una composizione di cristalli ialini “Nonostante il fatto che viva da sola in una casa nella foresta sia piuttosto tipico”.
 
Tornò a camminare lungo il sentiero erboso, avvicinandosi man mano alla casa di Anise. A giudicare dallo stato dell’intera struttura, che pure era ben tenuta, doveva essere ben più vecchia di lei, oltre che più grande di diverse case che aveva potuto vedere mesi prima nella città di Ulthmeer.
La carriola abbandonata accanto alla porta d’ingresso invece era piuttosto nuova, e c’era una forte probabilità che fosse stata costruita proprio dalla ragazza. Notò su di essa un velo di polvere beige chiarissimo sul quale, curioso, passò un dito; scoprì che era farina, che doveva essere stata prodotta nell’arco della mattinata.
Porta e finestre erano tutte chiuse, ma ora che era tanto vicino all’abitazione riusciva a cogliere un delizioso profumo di dolci, probabilmente qualcosa con in mezzo della cannella. Batté più volte le ciglia, e sul suo volto apparve l’ombra del suo solito sorriso: forse aveva scelto il giorno giusto -ossia il ventesimo da quando aveva scoperto l’inganno di Beerus.
 
Sollevò una mano per bussare, ma la porta si aprì prima che potesse farlo.
 
«Buon pomeriggio. Presumo che lei sia il maestro Whis… mi perdoni se sono meno “presentabile” del dovuto» disse Anise, indicando la coperta in cui era avvolta e i capelli raccolti in una treccia un po’ scompigliata «Al momento non sono troppo in salute, e la febbre mi fa sentire freddo. Prego, si accomodi».
 
Dopo un attimo di esitazione dovuto all’essere stato colto alla sprovvista, l’angelo attraversò la soglia. «È molto gentile, Lady Anise. Mi auguro che si rimetta presto».
 
«La ringrazio… anche se so benissimo che in realtà non le importa della mia salute. Posso offrirle dei biscotti? Sono alla cannella, li ho sfornati dieci minuti fa. Intanto si sieda dove vuole».
 
 
 
“Non è una maleducata, è sempre pronta a offrire cibo e ottimi infusi… però se ha qualcosa da dirti lo fa, e capita che in certi contesti le sue reazioni siano un po’ inaspettate”.
 
 
 
Non erano passati neppure due minuti, eppure aveva già più o meno capito cos’aveva cercato di spiegargli Vados, e per il momento non era in grado di stabilire se la giovane stesse giocando in attacco o in difesa. Si sedette per puro caso sulla seggiola che di solito veniva scelta da sua sorella. «Li accetto volentieri. Dice di non essere troppo in salute, eppure ha abbastanza energia per produrre la farina! Ho visto la carriola qui fuori».
 
«Se la farina finisce devo produrne altra, febbre o non febbre: non posso farla comparire magicamente» replicò Anise, atona, posando su un tavolino il vassoio con i  biscotti «Per noi mortali funziona così».
 
«Capisco» rispose l’altro, sebbene la sua attenzione fosse ormai totalmente rivolta ai biscotti: perfettamente rotondi, perfettamente dorati, l’odore che emanavano era semplicemente divino «Ora assaggio uno di questi biscotti, hanno proprio un’aria squisita! Anche la consistenza sembra proprio ottima!» esclamò, entusiasta, rompendone uno a metà «Ora lo assaggio…»
 
L’attimo stesso in cui Whis mise in bocca metà biscotto, un’esplosione di piacere proveniente dalle sue papille gustative pervase tutto il suo essere. Con gli occhi luccicanti e completamente spalancati, e un’espressione felice ed estatica sul volto femmineo, l’angelo iniziò a oscillare da una parte all’altra emettendo un gridolino entusiasta.
 
“È un suo modo per esprimere gradimento, o gli sta venendo un attacco di qualcosa?” si chiese la lince, osservandolo in silenzio con aria completamente impassibile.
 
«È deliziooooooosooooo!»
 
“D’accordo, è un suo modo per esprimere gradimento” pensò Anise “Spero per lui che non faccia così anche quando ha un orgasmo”.
 
«Sono dolci ma non stucchevoli, friabili ma solo al punto giusto, la quantità di cannella è perfettamente bilanciata, e la cottura è perfetta! Assolutamente perfetta!» esclamò l’angelo, infilandosene in bocca altri due «Sono squisiti! Magnifici!»
 
«Anche Beerus li apprezzerebbe, soprattutto dopo diciotto giorni nel bosco a patire la fame».
 
Il commento di Anise mutò l’atmosfera anche per Whis, ricordandogli che non era venuto lì solo per mangiare, ma per fare qualcosa che non aveva la minima voglia di fare, ossia parlare con quella che a breve sarebbe diventata la Iarim Neiē nel suo allievo. «Devo dedurre che mia sorella Vados e il suo allievo siano stati qui ieri, o l’altro ieri nel pomeriggio».
 
«Deduzione corretta, e io ho la conferma che voi angeli abbiate un’ottima capacità di ripresa. Il suo naso è perfettamente guarito».
 
«Lei e Champa parlate molto» commentò Whis, che ormai non sorrideva più.
 
«Siamo amici» disse la ragazza «Lei dovrebbe saperlo: se si è informato abbastanza sulla sottoscritta da sapere che produco da sola la farina, e che dunque le tracce rimaste sulla carriola lì fuori non provengono da sacchi confezionati in città, dev'essere a conoscenza anche del resto».
 
«Non mi dirà che dopo la conversazione avuta con Champa ha immaginato un mio possibile arrivo e l’ha lasciata lì fuori di proposito, per indurmi a fare un commento rivelatore a riguardo?»
 
«No, macché. Sta sopravvalutando questa povera Lusan febbricitante, signor Whis…» disse Anise, per poi muovere di scatto un orecchio sentendo un leggero fischio provenire da una delle stanze attigue «L’acqua per l’infuso sta bollendo, mi dia un attimo e sarò subito da lei. A proposito, ne gradisce una tazza? È agli agrumi».
 
«Va benissimo, la ringrazio» rispose lui, senza particolare entusiasmo; non per l’infuso, che di certo sarebbe stato molto buono, ma per il contesto generale.
 
Qualche minuto dopo lui e Anise si trovarono seduti uno davanti all’altra in silenzio, ognuno con la propria tazza piena d’infuso. Nessun sembrava avere troppa voglia di parlare con l’altro, ma sapevano che prima o poi uno dei due doveva pur iniziare.
 
«Direi di non aggiungere ulteriori convenevoli» esordì Anise «Lei deve aver capito che Beerus non si dimenticherà di me in un mese e mezzo -come io ovviamente non mi dimenticherò di lui-, che gli intenti del suo allievo di rendermi la sua Iarim Neiē sono molto seri, e che nonostante la punizione non c’è proprio speranza di fargli cambiare idea: se avesse intravisto anche solo una minuscola possibilità di riuscirci non si sarebbe scomodato a venire qui da me, presumo per stipulare un accordo di “non belligeranza”… e/o di “non intralcio”».
 
«O forse sono qui per ucciderla dopo aver mangiato e bevuto» disse l’angelo, con la massima tranquillità.
 
«Se avesse voluto uccidermi sarei morta già da qualche giorno, ne sono certa. La invito a mettere le carte in tavola».
 
«Molto bene» disse Whis, bevendo qualche sorso di infuso «Io ritengo che quest’idea di Beerus di renderla la sua Iarim Neiē sia una completa follia, sebbene non irrimediabile. È troppo presto e, diciamocelo, lei e Beerus non c’entrate proprio nulla l’uno con l’altra».
 
«Immagino che il mio “bagaglio” abbia influito non poco sulla sua opinione».
 
«Sì, ma voglio spiegarle bene in quale senso: avrà notato che Beerus è un diciottenne che ha avuto esperienze da diciottenne, mentre lei è una diciottenne, ma ha avuto esperienze degne di una trentenne/quarantenne particolarmente sfortunata -sebbene non sia stata colpa sua. Per non parlare del fatto che, guardi! Lei vive da sola, lui non sa neppure cuocersi un uovo!» le fece notare l’angelo «Tutto ciò crea un abisso tra lei e Beerus. Mi capisce?»
 
«Sì, ma capisco anche che tra le “esperienze da diciottenne” di Beerus c’è l’avere miliardi di vite sulla coscienza in virtù del suo ruolo di Hakaishin» ribatté la Lusan «Le mie sono state esperienze dure, ma sostenere un compito del genere non è da meno. Beerus ha avuto a che fare con la morte fin da piccolo, ed è sempre stato perlopiù temuto e odiato ovunque andasse, prima a causa del suo potere, poi anche a causa della sua posizione: a diciotto anni non è facile trovare un equilibrio che permetta di convivere con tutto questo, eppure lui ci sta riuscendo. I suoi pregi compensano i suoi difetti, è più maturo di quello che sembra, e… non sa cuocersi un uovo? Francamente me ne infischio».
 
«Immagino sia facile infischiarsene, sapendo che se in futuro diventasse la sua compagna immortale non sarebbe mai lei a dover cuocere le uova o a sbrigare le faccende di casa» obiettò Whis, pur avendo capito che non avrebbe mai potuto “colpirla” ricordandole che Beerus non era affatto indipendente.
 
«A quello penserò se e quando sarà il momento. Il presente e l’immediato futuro non contemplano immortalità e trasferimenti».
 
Sentendo quelle parole, Whis trattenne un sospiro di sollievo. «Lieto di trovarla ragionevole da questo punto di vista. Mi auguro che saprà convincere Beerus a esserlo altrettanto».
 
«Qualunque cosa io facessi in quel caso sarebbe più efficace della punizione che gli ha inflitto».
 
«Lady Anise, Beerus non è il mio primo Hakaishin. Mettere bocca sui miei metodi non è un buon modo per dar vita a un’alleanza fruttuosa, e mi sembra ovvio che io non potessi lasciare che quel che Beerus ha fatto fosse del tutto privo conseguenze».
 
«Se la nostra dev'essere un’alleanza ho tutto il diritto di esprimere la mia opinione riguardo certe cose» ribatté lei «Se tenerla in considerazione o meno poi è affar suo. Io dico che poteva chiuderlo in camera sua -senza fumetti, anime e videogiochi- e, che so, nutrirlo con pane e acqua: sarebbe stata sempre una punizione pesante che gli avrebbe impedito di rivedermi. Spedirlo nel bosco e fargli rivivere quel che ha vissuto quando era un bambino invece rasenta il sadismo, ed è stato anche completamente inutile. Se vuol mantenere un buon rapporto maestro/allievo, non è questo il modo».
 
«Lady Anise, le ho già detto che non sono alla mia prima esperienza».
 
«E io le credo, ma quel che ha fatto resta inutile in ogni caso, o non saremmo qui a chiacchierare».
 
«Ho sottovalutato l’infatuazione di un adolescente, nulla di più. Non pensavo che Beerus potesse essere veramente così sciocco da proporre di diventare la sua Iarim Neiē alla prima ragazza che ha copulato con lui senza essere pagata, mi comprenda» replicò Whis, asciutto.
 
Anise bevve un sorso d’infuso. «Comprendo. La consapevolezza che tutto è scaturito dall’aver abbandonato Beerus di notte in questa foresta dev’essere alquanto irritante per lei».
 
La ragazza aveva centrato il punto, perché quel che a Whis seccava di più in tutto ciò era proprio l’aver commesso diversi errori che avevano causato la situazione attuale, e anche che i suoi tentativi di riparazione non fossero andati a buon fine -Ultra Istinto a parte, che era un immenso traguardo.
Anzi, no, c’era qualcosa che era ancor più seccante: il fatto che Anise lo avesse capito. «Non quanto può credere. Non è nulla di irrimediabile, come ho già detto. Per quanto quella della Iarim Neiē sia una posizione ufficiale, presenta ancora delle vie d’uscita. Lady Anise, presumo le abbiano detto del giuramento della Neiē, giusto?»
 
«È un giuramento reciproco e vincolante, non è troppo diverso dal matrimonio…»
 
«Le hanno detto quali sono le conseguenze se viene infranto?»
 
Anise fu costretta a scuotere il capo in un cenno di diniego.
 
«“Giuro che non avrò mai altri che te, finché avrò vita”» recitò Whis «Fare un simile giuramento significherebbe dover restare insieme in eterno in qualsiasi caso, anche se arrivaste a odiarvi. Infrangerlo porterebbe alla morte di entrambi, senza possibilità di ritorno. È un vincolo pericoloso».
 
Se non le stava mentendo, e Anise dubitava che fosse così perché non avrebbe impiegato troppo a trovare conferme, allora quel giuramento era pericoloso sul serio. «Si spieghi più nei dettagli. Mettiamo che Beerus, una volta fatto il giuramento, un giorno inizi a provare dei sentimenti per un’altra donna: in quel caso moriremmo subito tutti e due? O dovrebbe esserci un tradimento “fisico” di qualunque genere, fatto per l’appunto con l’intenzione di tradire?»
 
«La seconda che ha detto, e non avrei saputo spiegarmi meglio. Serve un’azione fisica fatta con l’intento di tradire. La morte di entrambi tuttavia sopraggiunge anche nel caso in cui uno dei due riesca a uccidere intenzionalmente l’altro» aggiunse l’angelo.
 
«E se per disgrazia fosse qualcun altro a uccidere l’Hakaishin o la sua Neiē?»
 
«Morirebbe solo l’Hakaishin o la/il Neiē, ma c’è da dire che di solito il sopravvissuto si uccide o si fa uccidere a sua volta. In certi casi l’hanno fatto cercando una dolce fuga dal dolore, ricongiungendosi al compagno morto nell’aldilà. Altri lo hanno fatto per non restare da soli: “finché avrò vita” significa restare fedeli a un partner morto, quindi si sono detti che tanto valeva raggiungerlo. Che io sappia sono soltanto due gli Hakaishin che hanno avuto dei Neiē per un periodo lunghissimo, che sarebbe veramente potuto essere eterno: erano gli Hakaishin del quindicesimo e del tredicesimo Universo».
 
«Sono stati cancellati. Beerus mi ha parlato di questa cosa, mi ha detto che avevano un… come si chiama… “Mortal Level” troppo basso».
 
«Quei due Hakaishin hanno pensato troppo all’amore e poco al dovere. Lady Anise, anche come Iarim Neiē sarà fondamentale che lei spinga Beerus a svolgere diligentemente il suo compito, e a continuare ad addestrarsi per diventare sempre più forte» disse l’angelo, in tono serio «Beerus ha un potenziale come di rado se ne sono visti in qualunque Universo, potrebbe diventare uno tra gli Hakaishin più potenti che siano mai esistiti, quindi lui dovrà continuare ad ascoltarmi, e lei dovrà far sì che questo accada».
 
«Eccoci alla stipula del patto di non intralcio».
 
«Lei dovrà mitigare le intemperanze e i momenti di ribellione di Beerus, spingendolo a fare quel che ho detto prima: svolgere il suo dovere di Hakaishin, allenarsi, e anche studiare. Io a quel punto non intralcerò la vostra relazione, avrete tempo sufficiente per viverla, e…» sospirò «Una volta che Beerus raggiungerà i diciotto anni io diventerò il suo assistente, come sa, e se diventerà la sua Iarim Neiē sarò tenuto ad assistere anche lei. Esclusivamente nei frangenti in cui saremo tutti e tre insieme, ovvio» specificò Whis «In breve, dovremo far fronte comune senza mai mostrarci in disaccordo davanti a lui. Dev’essere instradato e plasmato nella giusta maniera, e se due persone gli sussurreranno all’orecchio la stessa cosa sarà più propenso a farla».
 
«Se si fosse fermato a “dovremo far fronte comune” avrei trovato tutto piuttosto ragionevole» disse Anise «Le ultime frasi invece mi dicono che Beerus, così facendo, sarebbe poco più di un larery pupaidean» ossia un burattino, nella lingua dei Lusan «nelle sue mani, e che io dovrei aiutarla a non far spezzare i fili».
 
«Quello di convincersi di avere un’autonomia che invece non esiste è il destino di ogni Dio della Distruzione. Cos’è, l’ho sorpresa?» chiese ad Anise, notando la breve comparsa di un’espressione un po’stupita «Si aspettava che negassi? Nel nostro caso ritengo che prenderci in giro sarebbe inutile. Gli Hakaishin si rivolgono a noi per qualunque cosa, che sia per mangiare, per andare da qualsiasi parte, o per decidere se finanziare o meno qualcuno. Diciotto anni o no, nella stragrande maggioranza dei casi la vera decisione finale sull'una o l'altra questione non spetta a loro: dove non possiamo o non vogliamo imporci, li convinciamo, o almeno ci proviamo. Ora che sa come stanno le cose, se lei vuole veramente rimanere insieme a Beerus deve anche accettare l’idea di diventare un burattino a sua volta, o l’assistente del burattinaio».
 
«Aveva preparato questo discorso prima di venire qui, vero?»
 
«A dir la verità, no» la smentì l’angelo «Il discorso che avevo preparato era più imbottito di sentimentalismi e incentrato sul benessere di Beerus, che pure è importante. Non pensi che non mi importi per nulla di lui, l’ho preso quando era un cucciolo».
 
«Come no… è così tanto affezionato a Beerus da divertirsi a fargli rivivere traumi infantili».
 
«Senta, io non mi sono divertito affatto. Mi creda se le dico che avrei preferito evitare tutto questo e continuare ad avere con lui un fruttuoso e sereno rapporto tra maestro e allievo, ma Beerus si è messo in testa di seguire quello scellerato piano di fuga, e non è stato possibile. A tal proposito, la strategia che gli ha consigliato era d’una tale ingenuità che rasentava quasi la totale stupidità».
 
«Quel piano non era mio» smentì la ragazza «Lo ha congegnato tutto da solo, e io gli ho ripetuto spesso che era molto peggio che rischioso, in quanto composto più di falle che di sostanza».
 
«Davvero? Se lo trovava “composto più di falle che di sostanza” allora perché, dall’alto del suo acume, non ha trovato un’idea migliore?» le domandò Whis, sollevando un sopracciglio.
 
«Semplice: perché pur essendo un piano ingenuo che rasentava la stupidità, il terzo soggetto coinvolto ha permesso che funzionasse fino a quando non ha ricevuto una soffiata dalla sorella. Con rispetto parlando».
 
Whis preferì non fare commenti, non volendo scadere in una volgarità che non gli apparteneva affatto. Il suo solo desiderio al momento -condiviso da Anise- era quello di concludere una conversazione faticosa. «Ovviamente. Noto che ha scelto un approccio un po’più diretto».
 
«Non ci piacciamo molto, lo sappiamo tutti e due, quindi credo sia bene cercare almeno di essere sinceri uno con l’altra» disse la Lusan «Dunque, concluso il nostro patto di non intralcio-»
 
«Allora accetta di aiutarmi a non far spezzare i fili?» la interruppe Whis.
 
«Ho alternative?»
 
«No».
 
«Appunto. Stavo dicendo: concluso il nostro patto di non intralcio, quando mi lascerà vedere Beerus?»
 
La ragazza cercava di mantenere una perfetta calma, ma Whis riuscì a captare il gran desiderio di rivedere Beerus dal tono con cui gli aveva rivolto quella domanda. Sebbene fosse brava a mantenere i nervi saldi, era sempre una persona innamorata -nonché con la febbre. «Se mi dà tutti i biscotti alla cannella posso portarla da lui anche subito. Sempre che con la febbre riesca a sostenere il viaggio di due ore».
 
«Non mi importa niente della febbre, e ho fatto un bagno all’evkalipt prima che lei arrivasse, quindi passerà entro oggi» minimizzò Anise «Si prenda questi benedetti biscotti alla cannella e mi porti da lui».
 
Whis fece comparire il bastone, e dopo un breve lampo di luce verde azzurra tutti i biscotti erano impacchettati e pronti da portare via, e con essi anche l’infuso, messo tutto in un thermos. «Ohohoh, quanta fretta! Neppure fosse un secolo che non vi vedete. Fa quasi ridere».
 
«Non mi stupisce che una persona che ha Lulù come unica compagna non sia in grado di capire» replicò Anise, con la massima calma.
 
Mentre uscivano dall’abitazione, Whis le diede un’occhiata perplessa. «Non so cosa possa averle detto Beerus, ma io non conosco nessuna Lulù. Chi dovrebbe essere?»
 
«Lulù, la mano che va su e giù».
 
«Mi prenda a braccetto, Lady Anise… ecco, ottimo. Ad ogni modo, ho la sensazione che questa “Lulù che va su e giù” riguardi qualcosa che ha a che fare con la copula e argomenti affini. Ha a che fare con la copula e argomenti affini?»
 
«Beh, direi di sì».
 
«Allora si vergogni» concluse Whis, lanciandole un’occhiata di disappunto prima di battere il bastone a terra e sparire con lei in un lampo di luce bianca.
 
 
 
 
 

***
 
 
 
 
 
«Io lo uccido, quel deficiente!» ringhiò Beerus, guardandosi allo specchio.

 
Si era svegliato poco prima, e all’inizio, non ricordando bene quant’era accaduto, aveva creduto di essere sempre nel bosco; poi però si era reso conto che quel che stava sotto di lui, qualunque cosa fosse, era veramente troppo morbido per essere muschio.
Quando aveva aperto del tutto gli occhi e si era guardato attorno si era reso conto di trovarsi nella propria camera da letto… o comunque in qualcosa che somigliava ad essa. Le pareti di roccia viva erano sempre le stesse, ma della statua del serpente dorato si vedeva sbucare solo la testa, al di sotto della quale era stato messo il letto -diventato il doppio più grande di quel che Beerus ricordava: sembrava che il maestro, per qualche oscura ragione, avesse spostato l’intero arredamento al piano terra. Beerus aveva notato anche che il pavimento ora era coperto da vari tappeti, e che qui e là erano state aperte finestre che rendevano l’ambiente molto più luminoso.
Vagando nella stanza aveva notato anche altre aggiunte di mobilio: un grosso armadio di legno, un paravento, un largo scrittoio anch’esso di legno, tutte aggiunte di cui non riusciva proprio a capire l’utilità. Poi aveva visto lo specchio, la sola cosa che potesse servire tra tutte quelle novità…
 
«Io lo strangolo!» continuò il dio, cercando senza successo di pulire le scritte e i disegni di inchiostro indelebile lasciate da Champa due giorni prima «Anzi, prima gli stacco la coda e gliela faccio ingoiare, poi gli strappo le orecchie e gliele infilo su per il-»
 
Si bloccò, notando solo in quel momento una scritta sul braccio sinistro che ben poco aveva a che vedere con tutte le altre: “lei ti aspetta”.
Osservò per lunghi momenti quella scritta senza dire o fare nulla, con la fervida speranza che fosse vero, che Anise avesse veramente capito cos’era successo e che lo stesse davvero aspettando… ma sì! Certo che era così!, si disse poi, pensando che difficilmente Champa gli avrebbe lasciato quel messaggio senza la richiesta precisa di Anise.
Sapere che lei non pensava di essere stata usata e che lo aspettava fu un immenso sollievo per Beerus. Ormai al suo compleanno mancava meno di un mese, quindi lui e Anise sarebbero stati di nuovo insieme: si trattava “soltanto” di continuare a portare pazienza… anche se non sarebbe stato facile, perché il desiderio di vederla che lo aveva spinto a tentare una fuga disperata dal pianeta e dal maestro Whis non si era ancora sopito.
 
Già, a proposito: dov’era Whis? Era strano che non fosse con lui al suo risveglio, magari pronto a mandarlo di nuovo nel bosco. Cercò di percepire la sua aura, ma non ci riuscì: sembrava che non gli fosse possibile percepire le aure al di fuori di quella stanza, ed era una cosa ben più che strana. Doveva essere dovuto a un incantesimo del suo maestro, ma perché?
 
Guardò di nuovo la scritta sul braccio, e a quel punto venne assalito da un pensiero atroce: “e se Whis, vedendo che la punizione non sortiva effetti e letta la scritta sul braccio, avesse deciso di togliere mezzo il problema uccidendo Anise?”
Non sarebbe stato il modo di agire tipico di un angelo, a livello razionale lo sapeva bene, ma in quel momento il raziocinio di Beerus era andato in vacanza.
 
«WHIS!» urlò il dio, in completo allarme, scaraventandosi contro la porta in un infruttuoso tentativo di sfondarla «Se sei ancora qui, non andare! Non ti azzardare a farle del male, non ci provare, capito?! Lei non ha fatto nulla! WHIS!»
 
Colpì con tutto quel che aveva sia la porta che le pareti, e perfino il soffitto, ma ogni suo colpo veniva assorbito da un campo di forza verde azzurrino che inglobava tutta la stanza e che si mostrava soltanto nei momenti in cui tentava di intaccarlo.
 
«Se le fai del male dovrai trovarti un altro Hakaishin! MI HAI SENTITO?! DICO SUL SERIO!» gridò ancora, arrivato alla disperazione, battendo ripetutamente i pugni contro la porta -o meglio, contro la barriera «Whis! Whis!»
 
Dopo l’ultimo potente -e inutile- pugno alla barriera, Beerus poggiò mani e fronte contro la porta. L’abisso di sconforto in cui si sentiva precipitare era grande quanto quello di impotenza del quale aveva già toccato il fondo. Da fuori non giungevano risposte, non giungevano segni di vita in genere: Whis poteva essere già andato via, e Anise poteva essere già stata ridotta in pulviscolo spaziale senza che lui potesse fare assolutamente nulla per evitarlo.
Si sentiva perfino peggio del giorno in cui Champa era andato da Anise per la prima volta, con la differenza che in quel caso non sarebbe potuto scappare per andare da lei a verificare come stesse, né avrebbe potuto fare nulla per vendicarla: era più forte di suo fratello, ma contro il maestro Whis non aveva proprio speranze di riuscire a combinare alcunché.
 
Si trascinò a letto e assunse una posizione semi fetale, macerando in uno stato d’ansia che nei suoi neppure diciotto anni di vita aveva provato molto di rado. Si era preoccupato così tanto solo a quattro anni, per Champa, prima di capire che quell’inutile piagnucolone buono solo a lamentarsi di continuo non meritava neppure un briciolo di interesse da parte sua.
 
“Non può ucciderla. Non può farlo davvero, non deve farlo! Lei non merita di morire, e tantomeno di farlo solo perché mi sta aspettando! Whis non può ucciderla solo per questa ragione, non è giusto, e la colpa è di nuovo mia, perché se io non le fossi stato attorno…” pensò, stringendo le coperte tra i pugni “o in alternativa potevo fingere di essere pronto a lasciarla perdere, e poi il giorno del mio compleanno… no, Whis avrebbe capito che lo prendevo in giro, sarebbe stato peggio. Ma cosa c’è peggio di questo? Se Anise muore per questo motivo non sarò mai in grado di perdonarmelo”.
 
Dopo circa un quarto d’ora passato a disperarsi e maledirsi, sentì il fievole cigolio dei cardini della porta che si stava aprendo. Parte di lui avrebbe voluto alzarsi immediatamente, ma l’altra, quella che lo teneva inchiodato nel letto, gli causava un’angoscia tale -quella di sentirsi dire da un momento all’altro “Lei è passata a miglior vita, Beerus, il problema non sussiste più”- che non riusciva neppure ad alzare lo sguardo.
Non voleva vedere nulla, non voleva sentire nulla, chiuse le palpebre e si coprì perfino le orecchie con le mani: non intendeva accettare la realtà che aveva attorno, se in quella realtà Anise non era contemplata.
Suo malgrado gli parve di cogliere un “Non sono io che l’ho ridotto così, l’ultima volta che l’ho visto sveglio mi ha incrinato il naso!”, ma non poteva esserne certo, e non gli importava neppure.
 
«Beerus…»
 
Qualcuno era salito sul letto, lo stava chiamando, e lui lo sentiva nonostante le orecchie coperte. La voce gli sembrava quella di Anise, ma lei non poteva essere lì: poteva essere ancora viva sul pianeta dei Lusan, o morta per colpa di Whis, ma non lì con lui. Il profumo di evkalipt che sentiva era sicuramente uno scherzo beffardo del suo cervello.
 
«Apri gli occhi, per favore…»
 
Non meno beffardo dello scherzo che gli stava giocando in quel momento, perché stava sentendo  le carezze della sua ragazza sul viso, e in seguito quando venne abbracciato da lei -o comunque da quella che il suo cervello lo stava inducendo a credere fosse lei- le avvertì anche sulla schiena.
 
«Apri gli occhi, va tutto bene, non è un sogno o un’allucinazione, io sono qui per davvero! Beerus, sirel ym, aystegh an seo!»
 
Conosceva il significato di sirel ym, ossia “amore mio”, ma non aveva mai sentito il resto di quelle parole che, tuttavia, suonavano come dei reali vocaboli nella lingua dei Lusan.
Se lui non le aveva mai sentite, il suo cervello non poteva riproporgliele… e se il suo cervello non poteva riproporgliele, allora c’era veramente una Lusan che gliele stava dicendo.
Tolse le mani dalle orecchie e spalancò gli occhi di scatto, trovandosi a guardare quelli azzurro cupo di Anise.
 
«Aystegh an seo, sono qui» la sentì ripetere ancora, mentre l’abbraccio diventava più forte «E qui rimarrò».
 
Non sapeva come fosse possibile, ma era tutto vero, meravigliosamente vero: Anise non era ridotta in pulviscolo spaziale, ed era proprio lì sul letto insieme a lui.
Le braccia del dio si mossero da sole, e la strinse a sé nascondendo il volto contro il collo della ragazza. Il sollievo che stava provando era indescrivibile, pari a quello di una persona che trova un’oasi dopo aver passato giorni dispersa nel deserto.
Non avrebbe più permesso a niente e nessuno di dividerli, non avrebbe più passato del tempo a temere di poterla perdere o di averla già persa: giurò a se stesso che l’avrebbe tenuta accanto a sé più che avesse potuto, in modo di sapere sempre come stava e di essere pronto a proteggerla nel caso lei avesse bisogno.
Se lo era già ripromesso in più occasioni ma, di nuovo, Beerus si disse che non l’avrebbe mai lasciata andare, mai, in nessunissimo caso: chiunque avesse voluto separarli sarebbe dovuto passare sul suo cadavere, e uccidere il Dio della Distruzione direttamente era alquanto complicato.
 
Infilò le dita di una mano tra i capelli di Anise, continuando a stringerla a sé con l’altra, e cominciò a baciarla con l’intensità tipica di un ragazzo che non rivedeva l’amata da -a parer suo- lunghissimo tempo. Com’era riuscito a fare a meno di quelle labbra, di quel “sirel ym” che gli stava ancora sussurrando tra un bacio e l’altro, di quel corpo premuto contro il suo?
Alla gioia di averla nuovamente tra le braccia si mescolò un’ondata di desiderio allo stato puro, alla quale Beerus non poteva né voleva resistere. Lasciò le labbra della lince per andare a baciarle il collo, le sue mani scesero a cercare l’orlo della gonna di Anise, e poi…
 
Una secchiata d’acqua gelida lo colpì con precisione chirurgica, bagnando soltanto lui -in barba a ogni legge della fisica- facendolo staccare da Anise con delle esclamazioni di sorpresa.
 
«Ops. Temo di aver perso la presa sul secchio» disse Whis, che teneva tra le mani un secchio di metallo ormai vuoto.
 
«E cosa diamine ci facevi qui con un secchio in mano, si può sapere?!» sbottò Beerus, bagnato fradicio, fulminando il suo maestro con un’occhiataccia.
 
«“Grazie per aver portato qui la mia ragazza, maestro Whis”. Prego, Beerus, non c’è di che. A chi ho insegnato l’educazione, mi domando?» sospirò l’angelo.
 
«Strano che io sia asciutta, in teoria quella secchiata avrebbe dovuto colpire anche me» osservò Anise.
 
«Non ha torto, ma lei ha la febbre, dunque è una fortuna che non sia successo. Non trova?»
 
«Hai la febbre?!» esclamò il dio «Ma certo, che idiota, eppure ho sentito benissimo l’odore di evkalipt. Avrei dovuto capirlo subito, io-»
 
«Beerus, passa. Non è niente, un po’di febbre non mi ucciderà» sorrise la Lusan «Non è importante. Quel che è importante al momento è che tu ti tolga quel pigiama bagnato, altrimenti verrà la febbre anche a t- ah no, come non detto, dimentico sempre che le divinità non si ammalano».
 
«Tu però sì, quindi infilati sotto le coperte e non discutere» le intimò Beerus «E magari nel mentre vi degnerete di spiegarmi com’è possibile che tu… insomma, tu eri totalmente contrario» disse rivolto a Whis, iniziando a togliersi il pigiama.
 
«Fermo lì!» lo bloccò l’angelo «C’è un paravento, utilizzalo».
 
«Ma i Lusan non hanno problemi con la nudità, e poi lei mi ha già vist-»
 
«Paravento!» lo interruppe il maestro, sollevando il bastone per indicare l’oggetto.
 
Mettersi a discutere con Whis in modalità Censore Moralizzatore sarebbe stato inutile -forse anche controproducente- per cui, dopo un numero indefinito di sbuffi e borbottii, Beerus alzò gli occhi al soffitto, prese i suoi abiti e andò a cambiarsi dietro il paravento. «Ma che idiozia…»
 
«Ti ho sentito!» lo riprese Whis.
 
«Lo so benissimo!» ribatté Beerus, sfilandosi il pigiama e l’intimo «Allora? Volete spiegarmi come stanno le cose sì o no? Quando mi sono accorto di essere bloccato qui e di non sentire la tua aura, Whis, ho pensato… non eri molto contento del fatto che io voglia fare di lei la mia Iarim Neiē, per cui ho temuto che tu volessi, insomma, risolvere il “problema” in un modo che non mi sarebbe piaciuto».
 
«Lo hai pensato sul serio? Beerus, credevo che mi conoscessi!» esclamò l’angelo.
 
«Infatti, non si sporcherebbe mai le mani uccidendomi di persona» aggiunse Anise, con una tranquillità un po’fuori luogo.
 
Whis tossicchiò. «In ogni caso, i tuoi pensieri non sono stati molto sensati. Avresti dovuto capirlo anche solo vedendo il modo in cui ho modificato questo luogo: se avessi voluto uccidere Lady Anise, perché mai avrei dovuto rendere la tua stanza una camera da letto adatta a ospitare due persone? Ho anche raddoppiato le dimensioni del letto, buon cielo! Il mio intento era soltanto parlarle, dal momento che siete entrambi così convinti della vostra relazione».
 
Beerus iniziò a rivestirsi, riconoscendo che il suo maestro non aveva tutti i torti. «Non sono stato in grado di ragionare lucidamente, lo riconosco, però ero preso da altri pensieri. Ripeto: per quel che sapevo io, tu non eri contento».
 
«È vero, non era troppo felice, ma dopo aver conversato con me ha cambiato opinione» disse Anise «Abbiamo o no trovato una buona intesa, signor Whis?»
 
«Oh sì! Io e Lady Anise ci siamo capiti alla perfezione, è innegabile» disse l’interpellato, facendo comparire il thermos contenente l’infuso agli agrumi.
 
«Visto? Tu eri contrario, ma io ero sicuro che una volta conosciuta ti sarebbe piaciuta quasi quanto piace a me» disse Beerus, ingenuamente soddisfatto, mentre indossava i pantaloni.
 
«Gli sono piaciuti anche i miei biscotti alla cannella, durante il viaggio ha mangiato tutti quelli che avevo fatto».
 
«Tutti?! Maestro Whis, non me ne hai lasciato neppure mezzo?!» si indignò Beerus, affacciandosi da dietro il paravento.
 
«Tu hai mangiato a mia insaputa una quantità incalcolabile di dolci di Swetts, e non osare negarlo, perché l’hai ammesso tu stesso venti giorni or sono» ribatté Whis «Quindi non hai proprio il diritto di rimproverarmi!»
 
«Va bene, ma-» sentendo un odore familiare, Beerus uscì da dietro il paravento e iniziò ad annusare l’aria «Questo profumo… l’infuso agli agrumi!» esclamò, indicando il thermos che l’angelo teneva in mano «Non contento di esserti preso i biscotti, stai anche tracannando il suo infuso! Fammi almeno bere quello!»
 
«Spiacente, è mio».
 
«Ma i biscotti!...» protestò il dio.
 
«Ma i dolci di Swetts!...» lo imitò Whis.
 
«“Ma” facciamo che l’infuso lo beve la povera lince malata, ossia io» concluse Anise, togliendo il thermos dalle mani di Whis «Voi due avete altro a cui pensare, ossia al modo in cui togliere quelle scritte dal corpo di Beerus! Ti trovo bellissimo sempre e comunque, ma quel “tonto” sulla fronte non ti dona proprio. Champa è sempre il solito…»
 
Beerus si batté una mano sulla fronte. «È vero! Me ne ero dimenticato. Appena lo rivedo lo concio per le feste, sta’ sicura!»
 
«Oh, giusto: Champa mi ha detto di dirti che ha preso in prestito alcuni dei tuoi videogiochi» lo informò Whis.
 
«COSA?! Mi ha rubato i videogiochi?!» urlò Beerus «Ma io lo uccido sul serio! Lo distruggo! Lo faccio dimagrire a suon di botte!»
 
«Sì, sì, lo uccidi sul serio, intanto andiamo a fare il bagno» sospirò Whis, spingendolo fuori dalla stanza.
 
«Già, ma se dovevo fare il bagno qual è stata l’utilità di cambiarmi d’abito?»
 
Whis fece spallucce. «Lo chiedi a me? Sei tu che sei andato dietro il paravento con in mano i tuoi abiti, invece di una vestaglia».
 
«Seh, vabbè. Anise, tu bevi l’infuso e non muoverti da quel letto: non ti lascerò andare via da qui prima che la febbre sia passata del tutto» la avvisò Beerus.
 
La Lusan, per nulla dispiaciuta all’idea, alzò le mani. «Va benissimo».
 
«Non preoccuparti, io torno presto» disse il dio.
 
Whis alzò gli occhi al cielo. «Ma sentitelo, neppure stesse andando in guerra! Muoviti, su!»
 
Beerus finì per obbedire, col senso di leggerezza provato da chi pensa di aver superato il peggio. Whis, che era l’ostacolo più grande, ora approvava Anise e aveva anche predisposto la camera da letto perché potesse accogliere due persone: era fatta, era tutto a posto… e il countdown dei giorni che mancavano al suo compleanno, e dunque alla proposta che avrebbe fatto ad Anise, era ufficialmente in corso.

 


E dopo venti giorni, ce l'hanno fatta!
Stavolta non ho altro da dire, se non che mi auguro che il disegno qui sotto non vi dispiaccia troppo -anche se è un po'stupido e puerile- e che lascio a voi ogni eventuale commento (:

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Capitolo 11
*** 11 ***


RMIcap11
11
 
 
 
 
 

 
 
 
 
Il cielo è nero per colpa del fumo, quello causato dal fuoco che ha reso irriconoscibile ogni mucchio di carne carbonizzata o piena di vesciche purulente che un tempo era stato un -o una- Lusan.
Non una singola costruzione si è salvata da quell’attacco furioso: quelle che un tempo erano state parti della ringhiera di un terrazzo si stanno letteralmente liquefacendo creando pozzanghere ferrose rosso vivo; tale è il calore che impedisce al metallo di solidificarsi com’è sua natura.  
Gli alberi, un tempo rigogliosi, sono ormai ridotti allo scheletro annerito e rattrappito di quel che erano stati, e i rami contorti sembrano dita di creature morenti che si stagliano verso il cielo pregando disperatamente aiuto a divinità indifferenti e sconosciute.
Di certo quelle preghiere non sono rivolte a Beerus, che avanza in quella devastazione che un tempo veniva chiamata “città di Ulthmeer” con un solo pensiero in testa: deve trovare Anise. È assurdo che sia a Ulthmeer -o meglio, quel che ne resta- e Beerus non ha idea di cosa faccia lì, non ha idea del perché lui stesso sia lì, ma al momento non gli interessa. L’imperativo è trovarla, e trovarla viva.
Le speranze però sono poche, dal momento che non riesce a percepire neppure un’aura. Il quel posto non sembra esserci vita, non più.
Il giovane però non intende accettarlo, non riuscirebbe mai a perdonarsi: che razza di incapace è un dio che non riesce a proteggere la propria donna? A cosa serve essere il più forte dell’intero Universo, se ci si lascia portare via ciò a cui si tiene di più?!
Dov’era lui, mentre Ulthmeer veniva distrutta?
Beerus non sa rispondere a questa domanda, perché non riesce a ricordarlo.
 
“Aystegh tha mi a’, tha mi a’, khndrum yem!”
 
Anise… quella è la sua voce, non potrebbe mai sbagliarsi.
Beerus vola nella sua direzione, guidato da essa, con il cuore in gola: deve raggiungerla, deve farlo prima che sia tardi, è una letteralmente questione di vita o di morte. Anise sta parlando con qualcuno, e lui non ha idea di chi sia, ma quel “Sono io, io, ti prego!” non lascia presagire nulla di buono.
Ora la vede, ed è come guardare un fiore nato per caso in una landa devastata: il pelo candido immacolato e i vestiti lindi della ragazza sono in pesante contrasto con tutto il resto, tralasciando il fatto che teoricamente dovrebbe essere impossibile per lei resistere a un simile calore.
 
“Anise! ANISE!”
 
La chiama, ma lei non lo sente. Continua a parlare con una possente figura avvolta in un’aura nera e dorata, nessuno che Beerus riesca a identificare.
Il dio cerca di avvicinarsi ulteriormente, vuole prenderla e portarla via da lì, ma non ci riesce. Una forza oscura lo trattiene, costringendolo a muoversi a rallentatore, incurante di ogni suo tentativo disperato di contrastarla.
 
“Allontanati! Vai via da lì!” urla Beerus. Lui è un Hakaishin, percepisce la voglia di uccidere nelle altre persone, e al momento questa è presente nello sconosciuto.

“Khndrum yem…”

 
“ANISE, ALLONTANATI!” urla ancora il dio. Normalmente anche solo la potenza di quel grido sarebbe bastata a spazzare via tutto, ma non stavolta. Beerus non sa spiegarsi cosa sta succedendo, ma in quella situazione è del tutto impotente.
 
Anise stavolta lo sente e si gira verso di lui, dando le spalle allo sconosciuto. “Beerus, io devo provarci! Mi ha sentita, forse mi riconosce, lo vedi?”
 
Una mano dello sconosciuto si alza, coperta da una lama nera lucente appena comparsa, e cala sull’ignara lince come la scure di un boia.
 
“ANISE!”
 
“Non posso arrendermi ora, non posso. Mi dispiace”.
 
“Anise, scansati! ANISE!”
 
 
 

 
 
«ANISE!...»
 
Beerus spalancò gli occhi, urlando il nome della sua ragazza. Era stato un incubo, ma anche se ormai era sveglio non se ne rendeva conto. Non vedeva quel che lo circondava: davanti ai suoi occhi c’era ancora l’immagine di Anise che veniva letteralmente tagliata in due in senso verticale, e aveva nelle orecchie il tonfo sordo delle due metà di lei che cadevano a terra in una pozza di sangue, umori e deiezioni.
Cominciò a calmarsi solo quando avvertì delle gentili carezze sulla nuca, che poi si trasformarono in un abbraccio nel quale Beerus, dopo un attimo di rigidità, si lasciò andare completamente, chiudendo persino gli occhi. Era ancora un po’confuso, ma il suo corpo aveva riconosciuto Anise -un’Anise viva, sana e con lui nel suo palazzo- prima del suo cervello.
 
«Va tutto bene. Era solo un brutto incubo, io sto bene» disse piano la ragazza.
 
Non era così che Anise avrebbe voluto far iniziare la giornata di Beerus. Si era ripromessa di destarsi a un’ora decente, così da svegliare anche lui in un modo particolarmente piacevole, ma non era riuscita a tener fede al suo proposito -la sera prima doveva essersi stancata troppo, anche se per motivi assai gradevoli- ed era stato Beerus a svegliarla senza volerlo.
Anise lo aveva sentito parlare e agitarsi nel sonno, preda di un incubo che la riguardava, e sebbene avesse tentato di calmarlo con delle carezze non era servito affatto, anzi, era rapidamente peggiorato. A quel punto aveva tentato di svegliarlo, ma non ci era riuscita, e quando lo aveva sentito dire parole in lingua Lusan che non aveva imparato da lei -“Khndrum yem”- si era decisa a chiamare Whis; lui era di certo in piedi, essendo quasi mezzogiorno, e quella faccenda era troppo strana per i suoi gusti.
 
«Come le avevo detto, Lady Anise, quando Beerus ha incubi di questo genere non c’è modo di destarlo. Non si può far altro che aspettare» disse Whis, osservando la scena con aria imperturbabile.
 
«Quindi era davvero un incubo pseudo profetico… e sottolineo “pseudo”».
 
«Quest’abilità di Beerus è imprecisa, ma non è una valida ragione per prendere tutto sottogamba. Non so cos’abbia visto, ma lei deve aver fatto una fine orribile».
 
Anise sollevò un sopracciglio, continuando a stringere Beerus tra le braccia. «Immagino il tuo enorme dispiacere».
 
«Indipendentemente dal mio dispiacere dovrei gestire quello di Beerus, pardon, da oggi "Lord" Beerus» si corresse Whis «Quindi la preferisco viva, mi creda».
 
Beerus, che era riuscito a calmarsi, aprì lentamente gli occhi. «Voi… siete qui tutti e due?»
 
«Stavi avendo un incubo strano e non riuscivo a svegliarti, mi sono preoccupata e ho chiamato Whis. Sirel ym, adesso stai bene?»
 
«Starò meglio se mi giuri che da oggi in avanti non andrai mai a Ulthmeer senza di me» rispose Beerus, afferrandola per le braccia «Per nessun motivo al mondo. Mai! Capito? Mai!»
 
«Beerus, non andrei a Ulthmeer a prescindere» disse la Lusan, cercando di mantenere la calma «Ma devi dirmi cos’hai visto».
 
L’Hakaishin scosse la testa. Non voleva ripensarci, e tantomeno parlarne: l’avrebbe reso tutto ancora più reale. «No. Ti ho detto che non devi andare lì, e tu non ci andrai, ecco!»
 
«Sei sconvolto, lo vedo, però credo che aiuterebbe dirmi cos’hai sognato. In questo modo io potrei farti capire quanto è improbabile, e tu saresti più tranquillo».
 
Whis diede un’occhiata a un orologio a clessidra. «Sono tenuto a ricordarvi che è mezzogiorno e venti, e che Lord Champa arriverà tra massimo dieci minuti. A proposito, Lord Beerus, le faccio i miei auguri di buon compleanno!»
 
«Il suo tempismo è eccezionale, signor Whis» borbottò Anise, alzando gli occhi al soffitto.
 
«Cosa, il mio- oh. È vero, oggi è il mio compleanno» mormorò Beerus «Spero che non sia una brutta giornata, anche se è iniziata malissimo. Io…» guardò Anise, facendosi forza «Ho sognato che qualcuno grosso, avvolto in un’aura nera e oro, ti uccideva dopo aver devastato Ulthmeer, e probabilmente anche tutto il resto. Non so chi fosse questo “qualcuno”, ma tu lo conoscevi e pensavi che non fosse in sé. Cercavi di parlargli, e io non riuscivo a raggiungerti, ti ho urlato di allontanarti perché sentivo che voleva ucciderti, ma tu non mi hai dato ascolto. Non mi hai dato ascolto…» ripeté, con un filo di voce.
 
«Beerus, dire che questo sogno è improbabile è poco. Primo: io non ho motivi per andare a Ulthmeer» iniziò a elencare Anise «Secondo: noi Lusan non abbiamo poteri di questo genere. Terzo: non sono così cretina da avvicinarmi tanto a qualcuno che non è in sé e potrebbe uccidermi. Quarto: non conosco nessuno per cui potrei fare una cosa del genere, o almeno, nessuno con le caratteristiche che hai descritto. Non poteva trattarsi di te, di Champa neppure perché quando te l’ho chiesto mi hai detto che l’ “aura” di voi Hakaishin è sempre sul viola, e Calida… rientra nel secondo punto, perché non ha poteri di alcun genere. Ritengo che tu possa stare tranquillo».
 
«Ma-»
 
«Beerus, non morirò né oggi né entro breve, quindi cerca di calmarti e di goderti la giornata. Come il signor Whis ha appena ricordato, oggi è il tuo compleanno. Ora sei un Hakaishin che ha compiuto la maggior età. Ricordi cosa significa?» sorrise la lince.
 
Certo che Beerus lo ricordava! Significava che da quel momento in avanti sarebbe stato lui a dare ordini, significava che Whis avrebbe dovuto obbedirgli e dargli del “lei” e, soprattutto, che avrebbe potuto tener fede al suo proposito di rendere Anise la sua Iarim Neiē… finalmente!
Si conoscevano da pochi mesi, ma non gli importava: aveva l’impressione di aver atteso già troppo tempo per darle la posizione ufficiale che secondo lui meritava. Sarebbero stati una coppia agli occhi di chiunque, che fossero mortali, angeli o altre divinità. Una volta che lei fosse diventata la sua Iarim Neiē avrebbe potuto iniziare a portarla con sé in giro per l’Universo, o per gli Universi, e a ogni evento ufficiale. Col tempo tutti avrebbero saputo che si appartenevano l’un l’altra… e che in futuro il loro legame sarebbe diventato vincolante ed eterno, perché la Iarim Neiē era “solo” il primo passo lungo la strada che un giorno avrebbe condotto Anise a diventare la sua Neiē.
Beerus si stiracchiò, decidendo di accantonare l’incubo in favore di pensieri più piacevoli. «Come dimenticarlo? A tal proposito, direi di passare subito a-»
 
«Sul serio? Vuole farle la proposta ora?» si intromise Whis.
 
«Sì, voglio farle la proposta ora, e se hai qualcosa in contrario non mi interessa, perché… giààà! Ora tu devi obbedire ai miei ordini!» sogghignò Beerus «Da oggi in poi mi divertirò tantissimo a farti fare tutte le cose più stupide! Tipo girare su te stesso saltando e strisciando su una gamba!»
 
«Sì, e lui si “dimenticherà” di darti da mangiare. Credo che non ti convenga approfittare troppo della tua nuova posizione» gli consigliò Anise.
 
«Ma lui deve obbedirmi!» si lagnò il dio.
 
«Beerus, se mi ordinassi di girare su me stessa saltando e strisciando su una gamba ti manderei a quel paese anche io… tralasciando il fatto che o strisci, o salti!»
 
«Ma uffa» borbottò Beerus «Non è giusto!»
 
Non vista, Anise scambiò una breve occhiata con Whis. Nella quasi mezz’ora in cui erano rimasti accanto a Beerus che si agitava a causa dell’incubo avevano avuto modo di scambiare due parole sul modo in cui sarebbe andata la giornata: entrambi avevano immaginato che Beerus, col carattere che aveva, avrebbe cercato di approfittarsi della sua nuova posizione, e Whis le aveva chiesto di contribuire a dissuaderlo. “Vorrei evitare di dovergli tirare uno scappellotto anche il giorno del suo compleanno”, aveva detto.
Anise l’aveva ritenuta una cosa ragionevole, aveva detto che avrebbe cercato di tenerlo a freno, ed era quel che stava facendo. Whis avrebbe potuto dire qualunque cosa di lei, ma non avrebbe potuto negare che fosse una donna di parola.
 
«Mi auguro che abbia sufficiente discernimento e agisca in modo degno delll’Hakaishin maggiorenne che è» disse Whis «Mostrando un minimo di rispetto per questo povero angelo e la fatica fatta per metterle in testa che quindici più diciotto non fa trentasei…»
 
«Non è il momento per parlare delle mie abilità matematiche!» sbottò Beerus «Whis, fai comparire l’orecchino».
 
«Quale orecchino?»
 
«Lo sai!»
 
«Lord Beerus, siamo nella sua camera da letto, lei e Lady Anise siete entrambi in pigiama, le sembrano il momento e il luogo giusto per una proposta ufficiale? Se proprio deve farla abbia almeno un minimo di decoro, buon cielo!» esclamò Whis.
 
«A me momento e luogo vanno benissimo» disse Anise «per cui possiamo farlo».
 
Beerus, contentissimo nel sentirla desiderosa quanto lui di procedere, fece cenno a Whis di sbrigarsi. «Orecchino! Muoviti!»
 
Alla fine l’angelo fu costretto a far comparire l’orecchino, identico a quello di Lord Beerus, e a farlo fluttuare accanto al dio. Anise sarebbe diventata la Iarim Neiē di Beerus, e doveva farsene una ragione.
 
Intenzionato a non dare a vedere quanto era emozionato, Beerus strinse entrambe le mani di Anise. «Bene… direi che ci siamo».
 
La lince sorrise, emozionata quanto lui. «Direi di sì».
 
Pregando di non impappinarsi, il ragazzo fece un respiro profondo, poi iniziò a parlare. «Ocnaif oim la olrerrocrep iredised. Emeisni àtinrete nu’ a àrrudnoc ic ehc onimmac nu id ossap omirp li, Iarim Neiē?»
 
“Iarim Neiē, il primo passo di un cammino che ci condurrà a un’eternità insieme. Desideri percorrerlo al mio fianco?”, questa era la formula -in verità molto semplice- nella lingua suprema, sul cui significato Anise era già stata istruita… e anche sulla risposta da dare.
 
«Ocnaif out la olrerrocrep oredised» disse la ragazza, con decisione.
 
A Beerus servirono un paio di tentativi per riuscire a prendere l’orecchino -sebbene questo fosse immobile- ma non faticò a metterlo all’orecchio destro di Anise. «Iarim Neiē, ataiccart euqnud è adarts aut al».
 
Un largo e sottile anello luminoso si formò attorno ad Anise, e scese rapidamente verso il basso. Gli abiti della lince mutarono aspetto, e pochi istanti dopo non indossava più un pigiama, ma quella che d’ora in poi sarebbe stata la sua “divisa” da Iarim Neiē. Anise si guardò. «Ehi, questo non me lo avevi detto».
 
«Perché non lo sapevo» replicò Beerus, e la prese per la vita per poi alzarsi in piedi sul letto, sollevandola in aria «Sei bellissima! Ammira, Whis: la Iarim Neiē dell’Hakaishin più fortunato che sia mai esistito! Ammira!» esclamò, alquanto euforico. L’incubo sembrava essere stato accantonato davvero, in favore della gioia pura derivata dall’ufficializzazione del loro legame.
 
Proprio in quel momento però la porta della camera da letto si spalancò di botto, e l’invasore -che emetteva urla degne di quindici barbari in berserk- sparò a Beerus ben quattro proiettili di… vernice rossa.
 
«PAINTBAAALL!!!» urlò Champa, perché di lui si trattava, agitando un fucile da paintball, per l’appunto «C’è un solo frutto puff-puff sulla torta di compleanno, e chi vince la partita se lo prende! Non te lo lascerò mangiare anche quest’anno!»
 
Vados, entrata silenziosamente dietro di lui, fece un lungo sospiro. Lei aveva provato a far notare a Champa che irrompere urlando e sparando vernice nella camera da letto di una coppietta non era una grande idea, ma la risposta del giovane era stata “Va bene, farò come dici e- EH! Ti piacerebbe! Adesso sono io che decido cosa fare!”.
Una vera causa persa.
 
Gocciolando vernice rossa, Beerus guardò Anise, poi Champa, e infine di nuovo Anise. «Se lo uccido hai qualcosa in contrario?»
 
«Oooh, non avevo notato i vestiti!» esclamò Champa, prima che Anise potesse rispondere, avvicinandosi al letto «Stai molto bene».
 
«Ti ringrazio» sorrise lei.
 
«Peccato solo che tu abbia scelto il gemello scemo!» sghignazzò l’Hakaishin del sesto Universo.
 
Fu un errore, perché a quelle parole Beerus si lanciò letteralmente contro di lui con un urlo ancor più barbarico di quello con cui  Champa aveva fatto il suo ingresso, dando inizio a una lotta “avvinghiata” che diede forma a una vera e propria palla di gatti… la quale finì col rotolare fuori dalla porta, e poi giù per le scale.
 
«Oh! Anche nel giorno del loro compleanno Lord Beerus e Lord Champa non stanno lottando nel modo in cui rischierebbero di distruggere l’Universo, potrei quasi commuovermi!» esclamò Vados «Questo è un vero miglioramento».
 
«Lei non li ha mai visti litigare sul serio, Lady Anise, ma sono sicuro che un giorno o l’altro vedrà anche questo… la scelta che ha compiuto lo rende estremamente probabile» disse Whis.
 
«Mi auguro che si sbagli».
 
«“Ti”» la corresse Vados «Lei ora è la Iarim Neiē di Lord Beerus, può darci del tu».
 
«Non lo sapevo, grazie per avermelo fatto presente» disse Anise, e raccolse da terra il fucile da paintball «Sul mio pianeta esiste un’arma che somiglia a questo attrezzo, ma funziona con una pietra focaia, e purtroppo spara cose diverse da palle di vernice. Invece di uccidersi a vicenda sarebbe molto meglio che le città giocassero a questo “paintball”. Probabilmente vincerebbe Calida».
 
«A proposito, le ha poi dato parte del tesoro com’era intenzionata a fare?» le chiese Vados.
 
«Non ancora. Tra una cosa e l’altra non gliene ho neppure parlato».
 
Lei e Calida non avevano più parlato di alcun Hakaishin in generale, se non in un’occasione, ossia quella in cui Anise le aveva comunicato che Whis aveva permesso a lei e Beerus di stare insieme. Sua sorella non aveva fatto particolari commenti, si era limitata a dirle di muoversi con molta attenzione sia con Beerus che con Whis, ed era finita lì. Per Anise era stato meglio così, perché non aveva chissà quale desiderio di parlare a Calida della sua vita di coppia, e aveva concluso che le avrebbe dato l’oro come regalo di compleanno.
 
«Direi che dovremmo…» avviò a dire Whis, ma venne interrotto dall’inizio di una scarica di onde d’urto talmente potenti da far tremare l’intero palazzo «Ecco, stavo per dire che avremmo dovuto raggiungere Lord Beerus e Lord Champa prima che iniziassero a litigare sul serio, ma non abbiamo fatto in tempo».
 
Erano due divinità, che le loro liti facessero tremare la terra non era poi così strano. Anise fece un sospiro. «Dove sono andati a finire, quei due?»
 
Whis le offrì il braccio, Anise  si appoggiò a lui, e un istante dopo arrivarono in una delle terrazze, appena in tempo per vedere i gemelli far scontrare i loro pugni in una battaglia aerea.
 
«…se mi dicono “circa mezzogiorno e mezzo” io arrivo a quell’ora, non è colpa mia se tu sei pigro e ti svegli tardi!» urlò Champa.
 
«Ma chi ti ha detto di sfondare la maledetta porta, EH?! CHI?!» urlò Beerus, di rimando «Io ho una Iarim Neiē, potevamo star facendo cose, brutto idiota!»
 
Champa rise sguaiatamente. «Anise, prepara la tazza, che qui c’è chi vuole pucciare il biscotto!»
 
«Non coinvol-»
 
«La mia tazza per lui è sempre pronta, a essere mancata è l’occasione!» rispose la Lusan.
 
Vados si coprì il volto con una mano. «Almeno lei potrebbe evitare di dar corda a certe indecenze, per l’amor del cielo!»
 
«Non sperarlo, sorella, è già tanto che a te non parli di Lulù» sospirò Whis.
 
«“Lulù” chi?»
 
«Non chiedere».
 
«Piantatela di litigare e venite giù» disse Anise ai gemelli «Dobbiamo fare questo gioco che si chiama paintball e poi festeggiare il vostro compleanno!»
 
«Nissie, questo gioco non è per te» disse Champa, con aria condiscendente «Non sei in grado di sparare a-»
 
Neppure il tempo di finire la frase, e il dio si trovò colpito in pieno petto da un proiettile di vernice rossa.
 
«Io non sono in grado di combattere, non lo sono mai stata, ed è proprio per questa ragione che Calida mi ha insegnato come si spara» disse Anise «Questo hrat’san  è fatto in modo diverso dai nostri, ma ha più o meno lo stesso scopo. Whis, potresti creare per me un’arma come questa che però spari vernice rosa? So che contro due Hakaishin non ho speranze, però voglio giocare anche io… fino a quando si stuferanno e andremo a mangiare!»
 
 
 
 
 

***

 

 
 
 
 
«Potresti anche smetterla di fare l’offeso».
 
«No, non la smetto affatto!»
 
La partita di paintball era stata divertente e piuttosto lunga per tutti e tre i contendenti. Tra le regole imposte dai due angeli c’era il divieto di localizzare le aure, e la partita si era tenuta nel bosco, quindi Anise si era nascosta immediatamente; i due fratelli avrebbero comunque potuto impegnarsi a cercarla per eliminarla
subito dal gioco, ma proprio sapendo che non era alla loro altezza avevano deciso di lasciarla in campo e farla divertire… e in breve tempo, a causa della loro rivalità, si erano dimenticati di lei!
Erano serviti del tempo e una complicata lotta, ma Beerus era infine riuscito a colpire -e dunque eliminare- Champa, e solo allora Whis gli aveva ricordato la presenza di un’altra contendente.
Non aveva impiegato molto tempo per trovare Anise -la quale aveva dato mostra di non avere più una gran voglia di nascondersi- e, certo che lei si sarebbe arresa e di avere la vittoria in tasca, Beerus aveva iniziato a vantarsi della propria vittoria contro Champa. Aveva lasciato che lei gli si avvicinasse e si complimentasse con lui, si era lasciato baciare, ed era stato felice di sentirsi dire “Sirogh yem, Beerus” -ossia “Ti amo, Beerus”…
Peccato che subito dopo Anise avesse sparato un proiettile di vernice rosa contro il suo piede, completando la frase con un “Però voglio il frutto puff-puff”.
 
«Beerus…»
 
«No! Non ti parlo più!» esclamò il dio, incrociando le braccia davanti al petto per poi voltarle le spalle.
 
Anise cercò di trattenere una risata. «Sirel ym, suvvia…»
 
«Ah, osi anche chiamarmi “sirel ym” dopo quello che hai fatto? Traditrice! Prima “sirogh yem”, poi mi spari!... Iarim Neiē infame, per te solo lame! E tu hai poco da ridere, Champa, hai perso prima di me!»
 
«Per motivi diversi!» sghignazzò il fratello.
 
Beerus agguantò due cosciotti di carne e riuscì non si sa come a infilarli entrambi in bocca, lanciando occhiate torve a fidanzata e gemello. Se c’era qualcosa che detestava più di attendere, era perdere. Non gli era capitato spesso, la penultima volta era stata circa tre anni prima, quando aveva perso a braccio di ferro contro l’Hakaishin Quitela -ed era convinto che questi avesse barato- durante la festa del quindicesimo compleanno suo e di Champa.
Ai tempi festeggiavano i compleanni sul pianeta di quest’ultimo ed erano sempre stati presenti molti dei loro colleghi più vecchi, cosa che aveva raccontato anche ad Anise, ma da tre anni a quella parte le cose erano cambiate: in casa di Champa non c’erano più state feste di compleanno, e suo fratello si limitava semplicemente ad andare da lui a litigare e rimpinzarsi di cibo.

 
Ecco, una cosa fece sentire Beerus un po’in colpa: a ogni compleanno tendeva a fare abbuffate più insostenibili delle consuete, e ad addormentarsi due o tre giorni di seguito per smaltirle. Non lo faceva di proposito, dunque sapendo di avere Anise lì si era ripromesso di non esagerare con il cibo… ma l’irritazione causata dall’aver perso lo aveva spinto a divorare ancor più cibo rispetto agli altri anni, e sentiva le palpebre farsi già pesanti.
Dopo la torta sarebbe crollato, ne era tristemente consapevole.
 
«Siete tutti e due pessimi soggetti» borbottò, una volta finiti i cosciotti «E sappi che tu non la passerai liscia, traditrice. Verrai punita per quel che hai fatto!»
 
«Sì, ma solo tra tre giorni, perché ti si chiudono già gli occhi» aggiunse Champa, continuando a ridacchiare impunemente.
 
«Dimmi, che genere di punizione sarà?» chiese Anise a Beerus, per nulla intimorita, carezzandogli languidamente l’interno coscia. Il tavolo e la tovaglia nascondevano il suo gesto, quindi avrebbe anche potuto fare ben altro, ma
Champa era presente, quindi non era nei suoi intenti.
 
«… terribile. Severissima. WHI-IIIIS, LA TORTA!» gridò il dio, vagamente arrossito, mentre suo fratello, avendo intuito che probabilmente stava succedendo qualcosa sotto il tavolo, rideva della grossa.
 
«Sta arrivando, Lord Beerus, abbia un attimo di pazienza! Ecco qui» disse l’angelo, entrando con Vados e una torta alta dieci piani e un singolo frutto puff-puff sulla cima.
 
«Ma non c’è la panna» fu la prima cosa che disse Champa.
 
«Visto? Gliel’avevamo detto, che doveva mettere la panna» disse Vados ad Anise.
 
«E io ho risposto che mettere la panna sopra lo strato esterno di crema sarebbe stato esagerato» ribatté la ragazza.
 
Sentendo ciò, il nervosismo di Beerus per aver perso lasciò il posto a sentimenti di altro genere. «L’hai fatta tu?»
 
Lei annuì. «Non sapevo cosa regalarvi, avete già di tutto e di più, quindi ho fatto la torta. È tutta vostr-»
 
«Ma quanto sei dolce!» esclamò Champa, avvicinatosi ad Anise chissà quando, strusciando il capo contro un braccio della ragazza esattamente come avrebbe fatto un gatto comune «Sei più dolce di questo dolce!»
 
«E tu sei più morto di  qualunque morto, se non torni subito al tuo posto» ringhiò Beerus, minacciandolo con una sfera di energia viola all’altezza del viso.
 
«No, eh! Avete litigato abbastanza, voi due!» si intromise la Lusan «Ora voi mangiate la torta, io mangio il mio frutto, e non si bisticcia».
 
«Prima però dobbiamo fare la fotografia!» intervenne Whis, facendo comparire una macchina fotografica di bizzarra fattura. Impostò l’autoscatto e corse a mettersi dietro Beerus, mentre Vados faceva lo stesso con Champa «Guardate nell’obbiettivo e sorridete!»
 
Anise non sapeva cosa fosse una fotografia, né cosa fosse l’obbiettivo, ma tutti guardavano in direzione di quel bizzarro attrezzo, e lei, quando Beerus la strinse sé, fece lo stesso. Un breve lampo di luce la accecò, e subito dopo vide il macchinario sputare fuori un quadrato bianco che Whis si fece volare in mano.
 
«Ecco qui. Oh, per una volta posso dire “buona la prima”!» commentò Whis, soddisfatto, mostrando a tutti la fotografia.
 
Anise si stupì molto nel vedere che sul quadrato bianco erano comparsi tutti loro, come se qualcuno avesse fatto un ritratto istantaneo estremamente accurato, o avesse intrappolato quel frammento temporale in un pezzo di carta. «Sul mio pianeta cose come questa non esistono».
 
Vados rise. «Perché lei, la sua razza e il suo pianeta siete arretrati, Lady Anise. Non conoscete le macchine fotografiche, non siete in grado di costruire mezzi per volare, non sapete cosa sia l’energia elettrica, seppure ormai essa sia una forma di energia antiquata…»
 
«Io però so cos’è la simpatia, al contrario di qualcuno che non l’ha mai imparato» disse la ragazza a Vados, sorridendo dolcemente.
 
«E Vados muta!» aggiunse Champa, sogghignando fino a quando notò l’occhiataccia della sua assistente/maestra, che gli fece passare ogni voglia di ridere.
 
Dopo ciò tagliarono la torta in quattro parti -due enormi per gli Hakaishin, altre due molto più piccole per gli angeli- e in breve tempo ne rimasero soltanto le briciole.
 
«Buonissima» sentenziò Beerus, dopo un grosso sbadiglio «Buona, molto buona… però ti punirò lo stesso, Anise, non ti illudere».
 
«Un simile affronto va vendicato!» sorrise la ragazza, vedendolo in procinto di addormentarsi. Non era sorpresa, perché lui stesso qualche giorno prima le aveva parlato di quella sua abitudine e le aveva detto che avrebbe cercato di evitarlo, ma Anise non gli rimproverava di non avercela fatta. Lo baciò su una guancia. «Sirel ym, yerjanik co-là-breith, buon compleanno».
 
Beerus sorrise. «Mi spiace solo non riuscire a-» sbadigliò di nuovo «Restare sveglio… Anise» disse, con l’aria di chi si è improvvisamente ricordato qualcosa «Promettimi che rimarrai lontana da Ulthmeer a qualunque costo, specie in questi giorni. Promettilo!»
 
Ancora l’incubo, messo da parte ma non dimenticato. Anise decise di accontentarlo. «Lo prometto».
 
Rassicurato, Beerus chiuse gli occhi e si addormentò.
 
«Eccolo, fa sempre così» disse Champa, alzando gli occhi al soffitto «Io ho mangiato altrettanto, ma non ho la minima voglia di dormire!»
 
«Lei e suo fratello siete diversi» disse Whis, sollevando Beerus con la magia «Pare che i festeggiamenti siano terminati. Metto a letto Lord Beerus e la porto a casa, Lady Anise».
 
La Lusan non glielo aveva chiesto, ma evidentemente Whis non era dell’idea di lasciare che restasse nel palazzo, e/o di avere a che fare con lei più del necessario. Nulla di male: per Anise valeva esattamente lo stesso discorso. «D’accordo».
 
«Non ti scomodare. La portiamo a casa io e Vados» disse Champa, ormai in piedi, mettendo un braccio attorno alla spalla della ragazza «Tanto siamo di strada!»
 
«La ringrazio per la gentilezza, Lord Champa» sorrise Whis «Fate buon viaggio».
 
Trovandola una cosa ragionevole né Vados né Anise si mostrarono contrarie all’idea di Champa, e poco dopo partirono tutti e tre insieme.
 
«Darmi un passaggio è molto carino da parte vostra. Mi piacerebbe tanto poter percorrere distanze siderali così facilmente» disse Anise, che per comodità si era seduta sopra le gambe incrociate di Champa.
 
«Esiste un veicolo con cui potresti farlo, assomiglia a un cubo di vetro, se Whis volesse risparmiarsi viaggi potrebbe dartelo» osservò il dio «Comunque, a proposito del passaggio, ecco… confesso che in realtà non ho alcuna intenzione di riportarti a casa, non ora almeno».
 
«Cos… come sarebbe? Dove vorresti portarmi?» si stupì Anise. Per un attimo pensò addirittura che Champa volesse rapirla o simili, del resto le aveva confessato che inizialmente la sua idea era stata proprio quella, ma cercò di calmarsi, dicendosi che qualunque cosa avesse in mente non poteva volerle fare del male.
 
«Buona domanda: dove vuole portarla?» chiese Vados, stupita anch’ella.
 
«Alla festa di compleanno. Quella vera!» sottolineò Champa «Anise, tu ricordi la prima volta in cui ci siamo incontrati? Ti dissi che i nostri colleghi più vecchi, per varie ragioni, non sopportano Beerus».
 
La lince annuì. «Ricordo. Aspetta:  in realtà le feste di compleanno in casa tua si sono interrotte solo per Beerus, ho indovinato?»
 
«Non guardarmi male, non è colpa mia se lui si è fatto odiare, e ti assicuro che si è proprio impegnato a fondo! Sono stato costretto a fare così, o in casa mia non ci sarebbero stati più compleanni degni di questo nome» si difese Champa «E comunque continuo a festeggiarlo anche insieme a lui: faccio ben quattro ore di viaggio per andare da mio fratello, nonostante sia uno stronzo di prima categoria! Una festa vera me la merito!»
 
«Io però non ci vengo. Sarebbe sleale nei confronti di Beerus anche se non fossi la sua Iarim Neiē».
 
«Lady Anise non ha tutti i torti» obiettò Vados.
 
«Abbiamo già festeggiato insieme a lui, e questo è il mio diciottesimo compleanno, per me è una cosa importante. Non ti voglio portare a casa mia per fare un torto a Beerus, Anise, io voglio soltanto che la mia amica sia alla mia festa» disse Champa, in totale onestà «Non vedo niente di sbagliato in questo. Se non parteciperai
i prossimi anni potrò anche accettarlo, ma voglio che tu sia presente almeno questa volta. Sono immortale, ma anch’io divento maggiorenne una volta sola».
 
«Ci sono anche gli altri Hakaishin, e io non c'entro alcunché con loro».
 
«Questa è solo una scusa. Sei una Iarim Neiē, e fino a questo momento hai avuto problemi ad avere a che fare con chicchessia, mortali, divinità o angeli, quindi alla festa devi esserci anche tu. Non c’è niente di male» ripeté «E Beerus non verrà mai a saperlo».
 
Anise non era molto sicura su cosa fare. Se avesse accettato si sarebbe sentita un sleale verso Beerus, ma se non avesse accettato avrebbe deluso un amico per cui provava affetto, il primo amico vero e proprio che avesse avuto. Si sentiva alquanto combattuta. «Non so…»
 
«Allora considerati rapita» concluse Champa «Io non ti ho dato scelta, tu non hai colpe: discorso chiuso!»
 
Capendo di non poter fare molto altro per opporsi, e che probabilmente sarebbe stata portata nel sesto Universo anche se avesse continuato a protestare, la ragazza si disse che a quel punto tanto valeva dare ascolto a Champa e mettere a tacere una coscienza che urlava “Slealtà!”. In fin dei conti stava soltanto andando alla festa di un amico, non a prostituirsi o ad ammazzare qualcuno, e non era colpa sua se Beerus si era fatto -purtroppo- odiare dai colleghi. Per non parlare del fatto che Beerus stava dormendo, dunque andare alla festa di Champa non avrebbe tolto del tempo a quello che avrebbero potuto passare insieme. «Va bene. Una cosa: Whis sa di questa festa?»
 
«Certo che no, e mi raccomando di non lasciarselo sfuggire! Si offenderebbe molto con me se sapesse di essersi perso un rinfresco di tale portata» disse Vados «E i nostri rapporti sono particolarmente buoni, quindi preferirei evitarlo».
 
«Devo ricordare a entrambi che potrebbe dare un’occhiata a quel che sta succedendo, magari sperando che io in questi tre giorni tradisca Beerus, e dunque coglierci in fallo».
 
«Onestamente, Lady Anise, credo che mio fratello Whis preferisca non averla davanti agli occhi in alcun modo» disse Vados «È la Iarim Neiē che si è intromessa tra lui e il suo promettentissimo allievo. Ogni occasione è buona per fingere che lei non esista».
 
«Ecco, finalmente posso dirlo senza ricevere bastonate in testa: a volte sei schifosamente acida» disse Champa.
 
«La mia non è acidità, trattasi di semplice realismo» ribatté l’angelo «A tal proposito, la avverto che gli altri Hakaishin saranno alquanto stupiti. Molti di loro non hanno mai visto una Iarim Neiē, e nessuno avrebbe mai creduto che Lord Beerus potesse trovarne una. Probabilmente la guarderanno come se fosse una creatura molto bizzarra».
 
«Sarà una novità per me, in fin dei conti vengo “guardata come se fossi una creatura molto bizzarra” da soli diciotto anni e mezza… che lo faccia anche qualche divinità m’importa meno di niente».
 
Vados non replicò, e nelle successive ore di viaggio non parlò molto. In compenso dovette sopportare i tentativi dei due di creare un’improbabile hit da spiaggia dal titolo “Mi hai rapita”. Sarebbe stata perfino più o meno orecchiabile, se le voci dei due cantanti non avessero ricordato i gemiti e i lamenti di un animale in agonia.
 
«Rapita rapita/quale azione ardita/ andiamo alla tua festa/ sono allibita!»
 
«Con la mia astutezza/ ho fatto una sveltezza/ perdona un po’la mia indelicatezza…»
 
«Mi hai ra-pita!»
 
«Ti domando scusa se non t’ho avvertita/ho messo in pratica l’idea appena è comparita/fortunatamente non ti sei impaurita…»
 
«Mi hai ra-pita!»
 
Il solo motivo per cui Vados evitò di farli schiantare a terra una volta arrivati fu il fatto che Anise fosse una persona senza alcun potere, nonché una Iarim Neiē, e dunque non era il caso di romperle tutte le ossa… ma, guarda caso, li fece atterrare nella larga e bassa piscina piena di fiori acquatici posizionata accanto all’ingresso di uno dei piani del palazzo di Champa. «Ops».
 
«“Ops” un corno! Sono tutto bagnato!» protestò Champa, arrabbiato.
 
«Accanto alla piscina termale ha i suoi amati getti d’aria calda, potete asciugarvi con quelli» replicò Vados, quieta.
 
«Se la canzone non ti piaceva potevi dircelo e basta» disse Anise, senza mostrare particolare irritazione «Però questi fiori sono carini».
 
«Ma chi se ne importa dei fiori!» sbottò il dio, rialzandosi e tirando su  Anise di peso «Al calar del sole ormai manca circa un’ora, quando farà buio gli altri saranno qui, e noi due siamo fradici!... ecco, ci mancava solo questa…» borbottò poi, sentendo alcune gocce di pioggia cadere sulla sua testa «Per fortuna che la festa è all’interno. Vados, noi andiamo ad asciugarci, tu pensa a quel che resta da sistemare».
 
Detto ciò, intenzionato a raggiungere i summenzionati getti d’aria calda, si alzò in volo con Anise senza dare all’angelo il tempo di rispondere.
Quello che la ragazza poté ammirare prima che lei e Champa -che se la stava prendendo comoda- entrassero nel palazzo fu un panorama quasi del tutto acquatico, molto diverso dai prati e la foresta attorno al palazzo/albero di Beerus: vedeva solo un’immensa distesa blu-grigio punteggiata qui e là da isolette più o meno grandi, quel giorno colpite dal vento fortissimo, da onde gigantesche e dai fulmini di una tempesta che lì era già arrivata. Era tutto un po’cupo, ma creava un contrasto affascinante con il colore candido del palazzo e la sua architettura delicata.
 
«Hai una bella casa».
 
«Non per merito mio, quando sono arrivato era già così. Da qui non si vede, ma c’è un lato del palazzo che è letteralmente a picco sull’oceano, e un altro che invece dà su una spiaggia di sabbia bianca. Al momento però non è il caso di andarci» disse Champa, svolazzando nell’androne che li avrebbe portati alla piscina termale.
 
«Direi di no».
 
Arrivati alla piscina termale la Lusan notò che somigliava molto a quella di Beerus, con la differenza che c’erano delle sfere al posto delle parti decorative cubiche. Champa le indicò due grosse semisfere accanto alla piscina, piene di grossi buchi, e le spiegò che per far partire l’aria calda dovevano semplicemente mettersi in piedi sopra di esse.
Una volta atterrati la ragazza obbedì, e fu investita da un numero indefinito di getti di aria calda che trovò gradevolissimi. Ci volle più o meno un quarto d’ora, ma tornarono entrambi perfettamente asciutti.
 
«Cos’hai da ridere?» chiese Anise a Champa.
 
«I tuoi capelli sono un disastro, sono tutti gonfi!»
 
Lei fece spallucce. «Mi farò una treccia. Mentre aspettiamo l’arrivo dei tuoi colleghi mi porteresti a vedere la parte del palazzo che dà a picco sull’oceano?»
 
«Da questo piano non vale la pena, non fa molto effetto. Dovremmo volare più su!»
 
«O fare le scale».
 
«Non il giorno del mio compleanno» ribatté Champa, prendendola di nuovo in braccio «Le scale sono il male!»
 
Dopo pochi istanti di volo Anise si trovò in una stanza il cui unico arredamento era un immenso divano rotondo color rosso scuro, messo lì appositamente per poter ammirare il panorama. Al posto della parete che dava sull’esterno infatti c’era soltanto una serie di colonne, che a un certo punto si interrompeva lasciando spazio a una grande apertura non delimitata da alcuna ringhiera.
La Lusan volle avvicinarsi un po’, per nulla spaventata dalla tempesta -immaginò che la pioggia non entrasse nel palazzo grazie a qualche magia- o dall’altezza. Non aveva mai visto delle onde tanto alte, ma non temeva neppure quelle, anzi: a un certo punto le parve quasi che quei cavalloni grigio scuro avessero iniziato a chiamarla, e si fossero fatti più furiosi perché non potevano raggiungerla. Allungò una mano, chiedendosi come potesse essere venire sommersi da quelle acque, cullata dai placidi moti del fondale mentre in superficie imperversava la tormenta. Forse avrebbe provato la stessa sensazione di calda sicurezza di quando fuori da casa sua soffiava il vento, e lei si metteva sotto le coperte.
Chissà come sarebbe stato passare l’eternità così.
 
A un certo punto Champa la afferrò bruscamente per la vita, la tirò indietro, e la mise a sedere sul divano. «Il panorama è migliore visto da qui, soprattutto per chi non vola» disse, con un’espressione strana sul volto.
 
«Cos’hai? Stavo solo guardando l’oceano»
 
«Sembravi aver voglia di guardarlo più da vicino» ribatté, serio, il dio.
 
«Sono giovane, ho un bell’aspetto, ho un autentico tesoro che grazie a Whis adesso è nella mia cantina ingrandita, e ci sono delle persone che mi vogliono bene. Non vedo perché dovrei farlo» disse Anise, calmissima «Ma posso capire i tuoi dubbi. Avrai pensato che la voglia di suicidarsi e la maniera in cui farlo siano ereditari, ma non preoccuparti… se diamo retta agli incubi di Beerus, morirò a Ulthmeer per mano di qualcun altro».
 
«Sui suoi incubi non c’è da fare affidamento, e tu non morirai!» sentenziò l’altro, una volta seduto accanto a lei «Né oggi qui, né chissà quando a Ulthmeer, né mai, perché tra un po’di tempo lascerai il tuo pianeta e diventerai la Neiē del gemello scemo».
 
La Lusan poggiò la testa su una spalla di Champa. «Parlare di Neiē e di trasferimenti è un po’prematuro, non ti pare? Diamo tempo al tempo».
 
Rimasero fermi per un pezzo ad ascoltare in silenzio il rumore della pioggia e a osservare il cielo farsi sempre più buio, e nessuno dei due capì quanto tempo fosse passato fino a quando videro sette scie luminose attraversare il cielo.
 
«Credo che i tuoi colleghi siano in arrivo, Champa» osservò Anise, intrecciandosi rapidamente i capelli «Ma non sarebbero dovuti essere dieci?»
 
«Gli Hakaishin di primo, quinto e dodicesimo Universo avevano altri impegni, lo sapevo già. Credo che dovremmo andare giù anche noi».
 
Champa la prese in braccio per l’ennesima volta da quando erano arrivati e, di nuovo, non se la prese comoda: in un attimo raggiunsero un salone grandissimo, zeppo di una quantità tale di cibarie da poter sfamare tutti gli abitanti di Ulthmeer per due mesi e addobbato a festa.
Tuttavia, pur essendo stati veloci non erano riusciti ad anticipare il resto degli Hakaishin, che erano tutti già sul posto e intenti a cicalecciare tra loro.
 
«Ecco il festeggiato! Auguri! Centinaia di milioni di questi giorni!» esclamò Vermoud, Hakaishin clown dell’Universo Undici, per poi applaudire insieme a tutti gli altri «È raro festeggiare il diciottesimo compleanno di un Hakaishin, e se Marcarita non me lo avesse sconsigliato ti avrei portato diciotto belle ragazze del mio Universo tutte… per…»
 
Ci volle un po’ perché Vermoud si accorgesse che Champa aveva in braccio una ragazza, vestita con abiti bianchi e blu e una cintura candida che lasciava ben pochi dubbi sul suo ruolo.
Champa mise giù Anise, la quale notò che la previsione di Vados era azzeccata: tutti quanti, angeli inclusi, la stavano guardando come se fosse una creatura molto strana a causa dei vestiti che indossava.
 
«Ti sei fatto una Iarim Neiē? Proprio tu? Khe-khe-khe!» sghignazzò Quitela, Hakaishin dell’Universo Quattro somigliante a un topo «Ti facevo meno scemo».
 
«In verità non sono la Iarim Neiē di Champa, come si può evincere facendo attenzione ai simboli della cintura che indosso. Il mio nome è Anise, sono una Lusan proveniente dal pianeta verde R2D242 del settimo Universo, e sono la Iarim Neiē di Beerus, il quale per varie ragioni -in primis il non sapere di questa festa- non è presente. Io sono qui in quanto amica di Champa» aggiunse «E sono lieta di fare la vostra conoscenza».
 
Ci fu un momento di sorpresa che zittì completamente tutte le divinità, che non sapevano se fosse più assurdo il fatto che Beerus -Beerus!- avesse una Iarim Neiē, o che questa fosse amica di Champa e partecipasse alla festa conscia di non poterne parlare al compagno. Era una storia strana… talmente strana che nessuno dei presenti aveva voglia di pensarci su ulteriormente!
Meglio dedicarsi agli arrosti, il cui odore era una favola.
 
«O beh, buonasera anche a te. Mangiamo?» disse Liquir, Hakaishin volpe dell’ottavo Universo. Il resto dei presenti approvò la sua proposta, e da quel momento in poi Anise non fu più al centro dell’attenzione.
 
“E per fortuna!” pensò, andando a sedersi su una poltrona mentre guardava gli Hakaishin -Champa incluso- tuffarsi sull’immenso buffet. Accanto alla poltrona c’era un tavolino su cui erano stati messi dei bicchieri e una bottiglia di liquore fruttato, che la lince decise di assaggiare e trovò niente male.
Per diverso tempo osservò gli otto Hakaishin stando seduta lì, senza interferire. In quel frangente le parve di essere tornata indietro nel tempo, quando viveva ancora a Ulthmeer e faceva la stessa cosa. Venire un po' "tagliata fuori" non sarebbe dovuto essere piacevole per lei, ma il cervello di Anise funzionava in modo diverso, e dunque quel senso di familiarità con quanto stava accadendo riuscì perfino a metterla a suo agio. Distolse lo sguardo, osservando i decori della bottiglia di liquore. “Devo trovare il modo di farne una simile nella vetreria, quando torno a casa” pensò.
 
«È curioso che un maschio rude come Beerus abbia trovato una Iarim Neiē dall’aspetto così delicato e grazioso. Se tu fossi nata nel mio Universo Due, quello dell’amore e della bellezza, saresti potuta essere una delle ancelle della creatura più bella del Multiverso, ossia io, l’Hakaishin Helles!»
 
Anise si voltò in direzione dell’unica donna in quel gruppo di Hakaishin. L’aveva già notata in precedenza, e aveva riconosciuto che fosse di bell’aspetto, ma non le aveva attribuito una simile vanità. «E invece sono nata nell’Universo Sette, e sono soltanto una Iarim Neiē. Che disdetta, essere la tua ancella sarebbe stato un grande onore» disse Anise, senza particolari inflessioni nel tono di voce.
 
Helles non capì l'ironia, dunque sorrise, soddisfatta. «Sono lieta che la pensi così. Se tu e Beerus doveste lasciarvi fammelo sapere: mangerai anche tu il fiore di loto che ti renderà parte della mia schiera di ancelle immortali».
 
«Sarai sicuramente la prima che chiamerò, contaci».
 
«Parlare con te è proprio un piacere, sei così cara! Ora però torno al buffet, prima che quei buzzurri spazzino via tutto quanto. Tu non vuoi mangiare nulla?»
 
«No, ho abbondato con il cibo a ora di pranzo. Ero anche insieme a Beerus, e Champa non mi aveva ancora detto nulla della festa» le spiegò Anise.
 
«Oh, capisco. Non avrebbe potuto fare altrimenti, o il tuo arrogante e maleducato compagno avrebbe rovinato la festa a tutti quanti com’è accaduto l’ultima volta. Sono un’Hakaishin, dunque la lotta mi piace, ma se partecipo a una festa -e sottolineo “festa”- non mi va che finisca in rissa, tutto per cosa? Per aver perso una partita a braccio di ferro!» sospirò la dea «Il rozzo comportamento di Beerus è stato d’inconcepibile bruttezza».
 
«Com’è d’inconcepibile bruttezza, nonché poco intelligente, sparlare di un Hakaishin assente con la sua Iarim Neiē» disse la Lusan, senza scomporsi.
 
Helles sollevò le sopracciglia, e per qualche istante non disse più nulla. «Tutto sommato non sei così bella» concluse poi, sollevando il mento e allontanandosi.
 
Anise si limitò a fare spallucce e versarsi un altro po’di liquore. Dubitava che Helles si sarebbe più avvicinata a lei, e trovava che fosse una buona cosa. «L’unica Hakaishin donna è una ddum falham» ossia una zucca vuota «Che tristezza…»
 
«È il momento della fotografia!» esclamò Cus, la bambina-angelo che assisteva l’Hakaishin dell’Universo Dieci, e gli Hakaishin si raggrupparono in maniera ordinata, seppur borbottando un po’. «Lady Anise, venga qui anche lei! Si metta tra Lord Champa e Lord Liquir».
 
La Lusan obbedì, portando con sé il bicchiere di liquore. «Eccomi».
 
«Alcuni angeli, tra cui il mio, hanno questa fissa delle fotografie da qualche tempo. Speriamo tutti che passi presto» le disse Liquir, a mezza voce.
 
«Suvvia, è una cosa carina…»
 
«Non quando rifanno la foto ventiquattro volte perché il risultato non li soddisfa».
 
«Sì, questo è seccante» ammise Anise.
 
Grazie al cielo gli angeli trovarono accettabile la fotografia che venne fuori al tredicesimo tentativo, e tutti quanti poterono tornare in libertà. Champa però non permise ad Anise di mettersi di nuovo a sedere in disparte, e dunque venne continuamente “ingabbiata” in una conversazione con questo o quell’Hakaishin.
 
«Non ho mai avuto motivo di visitare l’Universo Sette, quindi dimmi, com’è la situazione sul tuo pianeta?» chiese Vermoud ad Anise «Data la frequentazione di Beerus e Champa immagino che si mangi piuttosto bene, ma non è quel che voglio sapere. Regna l'ordine? La giustizia?»
 
«Non sono troppo sicura di come sia la situazione sul resto del pianeta, ma nel luogo in cui vivo io ci sono diverse città che si divertono a farsi la guerra da moltissimo tempo, e l’uso di “divertono” non è casuale: ci sono risorse per tutti, non c’è un reale motivo per cui debbano darsi battaglia, eppure lo fanno. Immagino che la giustizia regnerà quando un leader particolarmente forte, con un esercito altrettanto forte e mezzi potenti, schiaccerà quelli delle altre città».
 
«Hai un concetto un po’strano di giustizia. Quando qualcuno più forte impone la propria volontà e/o le proprie leggi a persone più deboli, che non sono dunque in grado di opporsi, si verifica un'ingiustizia comunemente chiamata “tirannide”» le fece notare l’Hakaishin «Nel mio Universo non esiste nulla di tutto ciò. Ho da poco fondato una squadra di guerrieri dai poteri eccezionali, la primissima generazione di Pride Troppers, che si occupano di mantenere l’ordine che io desidero regni nell’Universo Undici. Se poi una loro azione non basta per ristabilire la giustizia su un pianeta, epurandolo da disordini o tirannie, io sono un Hakaishin, quindi... “hakai”. Non sono sicuro che tu possa capire il discorso che ti ho fatto, o i miei ideali».
 
«Di sicuro ho capito che il mio concetto di giustizia è identico al tuo» replicò Anise.

«Perché sarebbero identici, di grazia? Spiegati!» la invitò Vermoud, con un sorrisetto di sufficienza.

«Per tua stessa ammissione hai creato una squadra di “guerrieri dai poteri eccezionali” che si occupa di mantenere il tipo di ordine che tu vuoi imporre agli abitanti del tuo universo, e non credo che lo facciano lanciando in giro caramelle e fiorellini. Hai anche aggiunto che se non si piegano alla tua idea di giustizia li distruggi personalmente. Tu sei un Hakaishin, i Pride Troppers sono molto potenti, quindi siete più forti di chiunque altro, e imponete le vostre idee ai più deboli
» disse la ragazza «Lo trovo sbagliato? No, creare un qualunque sistema per mantenere l’ordine è necessario, e distruggere pianeti è un tuo diritto. Tuttavia sono dell’idea che le cose vadano chiamate col loro nome: se quella di cui ho parlato io è una tirannide, anche la tua lo è. Se invece è giustizia, abbiamo le stesse idee… ma le mie sono meno ammantate di idealismo».
 
«E bla bla bla!... Ti preferivo quando stavi muta in disparte, tutte queste chiacchiere insulse mi rintronano le orecchie» si intromise Quitela «Ma la senti, Vermoud? Vorrebbe venire a dire a te la sua idea di giustizia, come se una ragazzina, che per di più frequenta un demente come Beerus, potesse veramente sapere quello che dice. Chi si somiglia si piglia, khe-khe-khe!»
 
Anise portò una mano accanto a un orecchio, inclinandosi leggermente verso il dio dell'Universo Quattro. «Come dici? Non ti sento, da quassù» disse, alludendo alla bassa statura dell’altro «Vermoud, se vuoi possiamo riprendere il discorso».
 
«Sarà per un’altra volta. Con permesso» si congedò il dio, il quale riteneva di aver sentito più che abbastanza.
 
Anise passò le due ore che seguirono a parlare per lo più con Champa, Liquir -che era il terzo Hakaishin più giovane e aveva “solo” un centinaio d’anni più di lei- e con Mosco… o meglio, con l’angelo di Mosco. Tra tutti gli Hakaishin presenti forse era il più strano, perché comunicava soltanto con delle serie di “bip”, ma ciò non la infastidiva. Quando partì la musica concesse anche un ballo a lui e a Rumsshi, l’Hakaishin del decimo Universo. Non erano ballerini del calibro di Beerus, ma fu divertente.
 
Ciò comunque non le impedì di defilarsi appena vide che la maggior parte degli Hakaishin erano troppo distratti o, nel caso di Champa, troppo brilli per accorgersene. Anise non era abituata a relazionarsi attivamente con un gruppo di persone così folto -secondo la sua opinione lo era- dunque, sentendo il bisogno di stare da sola per “ricaricare le batterie”, salì diverse rampe di scale in cerca della stanza con il divano rotondo.
 
Le servirono ben tre quarti d’ora per trovarla, ma alla fine raggiunse il suo scopo. Si stravaccò sul divano ad ammirare il cielo notturno ormai sereno, dal colore molto simile a quello del suo pianeta, e l’oceano, ora privo di increspature. La tempesta si era placata, ma il panorama non aveva perso la sua bellezza.
 
Non era sicura di cosa pensare riguardo quella serata. Si era sentita un po’ un pesce fuor d’acqua, come aveva immaginato, ma tutto sommato sarebbe potuta andare molto peggio… o molto meglio, se avesse dato fuoco a Quitela.
Come di consueto, si mise a rimuginare: quello era forse un assaggio della vita da Neiē? Abituarsi al modo di fare ambiguo degli angeli, non combinare granché di utile tutto il giorno e tutti i giorni, festeggiare ricorrenze con persone che in realtà partecipavano solo e soltanto per il cibo? Anise non capiva nemmeno perché Champa tenesse a quelle feste, se l'atmosfera era quella.
Poteva prendere in considerazione di vivere un’eternità del genere solo perché Beerus, coi suoi pregi e i suoi difetti, era Beerus, e lei lo amava. Se i sentimenti che provava per lui fossero stati un po’ meno forti, dubitava che avrebbe pensato seriamente all’idea di diventare una Neiē.
La vita che faceva al momento era più impegnativa, ma quantomeno non dipendeva da nessuno, si sentiva utile, e la compagnia -fosse quella di lei stessa o di Beerus e Champa- era sempre gradevole.
 
“Come ho detto a Champa, tempo al tempo” concluse “Tempo al tempo”.
 
 
 
 
 
Traduzioni (dovrebbero esserci tutte quelle che non sono state fatte nel corso del capitolo, se me ne fossero sfuggite fatemelo sapere):

“Ocnaif out la olrerrocrep oredised”: “Desidero percorrerlo al tuo fianco”
“Iarim Neiē, ataiccart euqnud è adarts aut al”:
“La tua strada è tracciata, Iarim Neiē”
Hrat’san: fucile

 
 
Come avete notato il capitolo è più lungo del solito, ma non ho voluto tagliarlo. Dal prossimo capitolo *dovrebbe* esserci un salto temporale di un anno circa.
Probabilmente qualcuno di voi avrà trovato improbabile il fatto che gli Hakaishin giochino a paintball, ma ehi, nel canon giocano a nascondino e morra cinese :”D… se ve lo state chiedendo, la fotografia di gruppo fatta dagli angeli al diciottesimo di Champa è quella che Quitela recupera in Reflecting Mirrors.
Ah, dimenticavo: da quanto ho capito, Vermoud/Belmod nel manga dovrebbe essere piuttosto giovane, ma nell'anime non viene mai detto quale sia la sua età, quindi mi sono avvalsa di questa mancanza di informazioni per invecchiarlo un po'.

Grazie a tutti coloro che stanno seguendo la storia, e ringrazio ancor di più chi mi ha fatto conoscere il suo parere (:

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Capitolo 12
*** 12 ***


RMIcap12
12
 
 

 
 
 
 
 
 
 
«So che tu non puoi farci caso, ma è una nottata fredda, una di quelle in cui ti saresti infilato nel letto di una qualche Lusan dopo aver bevuto. Se non fosse stato per me l’avresti fatto anche dopo esserti sposato. È piuttosto ironico che proprio tu, sempre pronto a infilarlo dentro qualunque buco o quasi, sia rimasto senza figli».
 
Normalmente i cadaveri dei Lusan passati a miglior vita venivano bruciati, e le ceneri venivano mescolate ad altre sostanze per creare dei fertilizzanti, ma per coloro che erano stati a capo di una città non valeva lo stesso discorso: i loro corpi venivano anch’essi bruciati, ma le ceneri venivano conservate in anfore che in seguito venivano sepolte in una zona adibita a cimitero.
Quel destino era toccato anche a Meskal, precedente capo della città di Ulthmeer e, al momento, silenzioso interlocutore di Calida.
 
«Ormai però è andata com’è andata: tu sei qui, mentre io comando la città al tuo posto e vivo una vita comoda in casa tua. Mi hai impedito di entrarvi dalla porta e io l’ho fatto dalla finestra, come si suol dire».
 
L’aria era pungente, ma la gigantesca Lusan non sembrava esserne infastidita, come non la infastidiva neppure il fatto che quella fosse una gishery dubh, una “notte nera”, ossia una normale notte mensile in cui le due lune non erano visibili, e dunque era tutto molto più buio.
 
«Ma non è di questo che voglio parlare. Vedi, il fatto è che la mia sanità mentale -di per sé poca- sembra star andando lentamente e inesorabilmente a puttane. Non perché sto parlando con delle ceneri, è fuor di dubbio che sia più interessante conversare con te ora che sei morto» disse Calida, e alzò gli occhi al cielo «Ma perché i miei pensieri verso Anise diventano sempre meno limpidi. Ogni volta che rompo le ossa a delle Lusan giovani, il mio cervello sostituisce le loro fattezze con quelle di Anise. Letteralmente. Io non la toccherei mai, se penso di farle del male inorridisco, ma queste “allucinazioni” diventano più persistenti ogni giorno che passa. La colpa è del mio cervello malato, questo lo so, ma se non fosse stato per la sua relazione con Lord Beerus sono certa che quest’ultimo risvolto non si sarebbe presentato» continuò «Credo che il mio cervello dia ad Anise la colpa di essersi messa in una situazione in cui io sono impotente. Una colpa che in realtà non ha. A livello razionale lo so bene, cosa credi?»
 
L’ululato del vento tra gli alberi sarebbe potuta quasi sembrare una risposta a qualcuno la cui follia fosse meno razionale, ma non a Calida. Aveva ucciso troppe persone per credere che i morti potessero parlare.
 
«Lord Beerus ne ha fatto la sua “Iarim Neiē”, la porta perfino in giro con sé nel cosmo… l’unico lato buono di ciò è che questo loro legame non comprenda un giuramento vincolante. Quando era sposata con te ho potuto intromettermi, ma con un dio non posso fare altrettanto. Io non posso proteggerla. Se lui non la trattasse degnamente, non potrei liberarmene come invece ho fatto con te».
 
Erano passati due anni, ma quella era la primissima occasione in cui Calida diceva ad alta voce quel che aveva fatto.
Non era stato un gruppo di Lusan di un’altra città a uccidere Meskal, né ovviamente era stata Anise -al contrario di quel che credevano gli abitanti di Ulthmeer: a spaccare la testa dell’ex Ulthmeer a-ghekavary era stata proprio lei, Calida.
 
Meskal aveva pochi anni più di lei, e oltre a essere capo figlio di capi si era distinto anch’egli per una certa abilità in battaglia. Aveva un bell’aspetto, ma non era precisamente un Lusan dai modi eleganti, anzi, era piuttosto “barbarico” nell’ostentare la sua mascolinità… e forse era anche per quel motivo che moltissime donne di Ulthmeer avrebbero voluto sposarlo.
Inclusa lei.
 
I meriti di guerra di Calida,  le sue doti di lotta, le sue capacità strategiche e il timore che incuteva il suo non soffrire il dolore l’avevano portata ben presto a diventare la vice di Meskal. In quel lungo periodo della sua vita, Calida se l’era passata bene: aveva una posizione di potere e poteva passare molto tempo vicino all’uomo che le piaceva, pensando “conosce il mio valore, quando si deciderà a prendere moglie sarò una scelta che terrà in considerazione”.
Peccato che Meskal le mostrasse rispetto, che finisse spesso ad ascoltarla e fare quel che lei gli consigliava, ma che mai, mai avesse manifestato interesse verso di lei nel senso in cui Calida avrebbe voluto. Vero, era circa trenta centimetri più alta di lui -e sì che Meskal era altro un metro e ottantacinque!- e aveva più muscoli, ma sarebbe stata una ragione in più per sposarla: i loro figli sarebbero venuti alti e forti, così grossi che avrebbero potuto conquistare il mondo.
Si era detta “sicuramente penserà a queste cose, quando deciderà di sposarsi sul serio”.
 
In seguito, quando Meskal aveva compiuto trentasei anni, Calida lo aveva sentito spesso accennare all’idea di sistemarsi, e pur non dandolo affatto a vedere aveva iniziato ad attendere per davvero una proposta che invece non arrivava mai.
Aveva smesso di farlo quando l’aveva sentito parlare con un amico.

 
 
 

“Calida, dici? Spero che tu stia scherzando. Come vice ha la mia stima, ma ha sempre quello sguardo… come se avesse voglia di strapparti gli occhi”.

“Mi risulta che lo faccia davvero, sbaglio?”

“Appunto, non potrei mai sposarmi con una così. Rimanga tra me e te, ma quella lì a volte mi fa una paura fottuta. Io con Callie Mezz’Uomo? Non se ne parla proprio, e poi è troppo vecchia”.

“Ha pochi anni meno di te”.

“Proprio per questo dico che è vecchia. E poi ultimamente c’è già una Lusan che mi attira: andrà rimessa in riga, ma posso riuscirci facilmente, ed è sia molto bella, sia giovanissima”.
 
 
 

Altre avrebbero rivelato la propria presenza per prenderlo a sprangate, ma non lei. Ovviamente non le era piaciuto sentirsi chiamare “Callie Mezz’Uomo”, ma aveva avuto la conferma che Meskal, il capo della città, era troppo spaventato da lei per dirle tutte quelle cose in faccia.
Non era quel che avrebbe voluto, ma capiva bene che essere temuta dal suo superiore le garantiva un certo ascendente su di lui, e Calida poteva accettare qualunque situazione, a patto che ne avesse il controllo.
 
Poi però aveva scoperto che la giovanissima Lusan di cui Meskal aveva parlato era nientemeno che Anise, ed era stato in quel momento che le cose avevano preso una pessima piega.
Calida NON aveva incolpato sua “sorella”. Anise non aveva chiesto di nascere bella, né aveva mai fatto alcunché per attirare l’attenzione di chicchessia, a meno di voler considerare -erroneamente!- il suo isolamento come un modo per farsi notare; dunque aveva spinto la Lusan più giovane ad accettare la proposta perché, sulla carta, quella di poter sposare Meskal era la migliore occasione che potesse capitare ad Anise.
Era “la migliore occasione”, ma non quel che Calida aveva progettato.
Quando la possibilità che Anise si sposasse si era concretizzata, aveva iniziato suo malgrado a sentirsi ribollire il sangue nelle vene: non per invidia, non perché avrebbe voluto essere al posto di Anise -non voleva più, non dopo aver capito quant’era vigliacco il suo capo-, non perché questa era bella e lei invece un “Mezz’Uomo”, ma… perché, di tutte le Lusan che c’erano, Meskal aveva scelto proprio Anise? Perché gliela stava portando via? Perché voleva strapparla da lei, che l’aveva salvata, l’aveva amata e cresciuta?! Non era giusto. O meglio, oggettivamente era giusto che Anise prima o poi abbandonasse il nido, ma non era quel che Calida voleva.
 
Lei era… sua.  Quello era stato il pensiero malato che quella sera maledetta l’aveva portata a toccarla come non avrebbe mai dovuto fare.
 
Per fortuna Anise sembrava averle “perdonato” quel che aveva fatto, forse in virtù del fatto che non avesse nessun altro al mondo se non lei. C’era un po’ di distanza in più ma non avevano tagliato i ponti, e Calida aveva potuto continuare a verificare che Anise venisse trattata come lei voleva.
Il matrimonio di Anise era stato abbastanza tranquillo, e poteva prendersi buona parte del merito: Calida sapeva che Meskal avrebbe voluto una moglie che gli obbedisse sempre e comunque senza mai protestare, e conoscendolo sapeva che in caso contrario avrebbe potuto reagire piuttosto male. Consapevole di fargli paura, lo aveva preso da parte poco dopo la celebrazione del matrimonio.
 
 
 
“Io ti ho dato Anise, ma capiamoci: devi trattarla come se fosse fatta di cristallo. Voglio che tu sia delicato con lei, un gentiluomo, per quanto sei in grado di esserlo. Non prenderla mai a male parole, non osare mai tradirla e non azzardarti a metterle le mani addosso, perché se per disgrazia io venissi a sapere che hai fatto una qualsiasi di queste cose -e ti garantisco che verrei a saperlo, indipendentemente da quel che potresti fare per nasconderlo- potresti incorrere in conseguenze alquanto sgradevoli. Non ho mai mangiato degli occhi di Lusan, ma potrei cominciare. Detto ciò, Meskal Ulthmeer a-ghekavary, ti faccio i miei auguri di un lieto avvenire insieme a mia sorella”.
 
 
 
L’orgoglio idiota di Meskal gli aveva impedito di parlare con chiunque di quella minaccia e di quanto l’avesse spaventato, esattamente come Calida aveva previsto. L’orgoglio da solo poteva essere dannoso, la sola vigliaccheria anche, ma un uomo preda di entrambe le cose era un’eccellente pedina: manipolabile e silenziosa.

Anise e Meskal in seguito non erano diventati una coppia innamorata, o anche solo vagamente ben assortita, ma le cose erano filate abbastanza lisce per un anno intero. Il problema era che i figli legittimi da lui tanto desiderati non volevano proprio arrivare, per quanti tentativi potesse fare, ed era stato per quel motivo che Meskal aveva ripudiato pubblicamente Anise.
  Tutta la lungimiranza di Calida non le aveva permesso di prevedere che le cose sarebbero andate a finire in quel modo, non pensava che il vigliacco Meskal avrebbe osato tanto. Era il giorno del sedicesimo compleanno di Anise. Il suo sedicesimo compleanno.  Lei aveva trovato la faccia tosta di rispondere in malo modo a Meskal denigrando la sua abilità di amante, prima di scappare veloce come il vento nella sua amata Vynumeer, ma non era abbastanza, non secondo Calida.
 
 
 

“Meskal, ripudiare una moglie sterile era nei tuoi diritti, e il modo in cui lei ha reagito è stato quasi increscioso. Purtroppo Anise non è molto brava a seguire le regole”.

“Quindi siamo… insomma è tutto a posto ora, immagino. Come sempre”.

“Come ho detto, ripudiare una moglie sterile è un tuo diritto: kopit lagh, bayts’ tha lagh. La legge è dura, ma è legge”.

 
 
 
Lo aveva detto con tale convinzione che Meskal si era tranquillizzato. Calida si chiedeva ancora come fosse riuscita a controllare e nascondere così bene la voglia di ucciderlo, che era esplosa nel suo cervello come il colpo di un hrat’san, di un fucile: l’intera Ulthmeer aveva creduto che stesse dalla parte “giusta”, ossia quella del suo capo Meskal, e avesse classificato a sua volta la sorella come la povera pazza sterile che secondo loro era.
Non immaginavano che la mente di Calida stava già programmando l’omicidio di Meskal per quella sera stessa. L’Ulthmeer a-ghekavary aveva l’abitudine di recarsi in riva al fiume un giorno sì e uno no, e quello era uno dei “giorni sì”.
 
 
 

“Mes”.

“Calida tu… cosa fai qui?!”

“Nulla di preoccupante, voglio soltanto ucciderti. Ah, e ovviamente voglio anche mangiarti gli occhi”.

 
 
 
La lotta era stata più breve di quanto Calida stessa si era aspettata, forse perché lei aveva lasciato che la furia rendesse i suoi colpi ancor più devastanti di quanto fossero di solito. Meskal l’aveva più volte colpita allo stomaco e al petto, le aveva perfino incrinato un paio di costole ma… che problema poteva essere, per una Lusan che non soffriva il dolore?
Quando lei aveva rotto un ginocchio del suo capo, per lui era stata la fine. Una volta atterrato, Calida si era lasciata possedere completamente dal raptus omicida, e lo aveva pestato fino a macellare ogni centimetro quadrato del suo corpo. Infine gli aveva strappato gli occhi: gli aveva detto che l’avrebbe fatto, nel caso lui non avesse trattato Anise come meritava, e aveva mantenuto la promessa.
Del resto era stata lei a insegnare ad Anise che bisognava essere donne di parola.
 
Quando era tornata abbastanza lucida per capire che gli occhi di un vigliacco avrebbero avuto un sapore poco interessante, e dunque aveva deciso di buttarli nel fiume, si era anche resa conto di aver commesso una leggerezza: togliere i bulbi oculari alle vittime era la sua firma. Lasciare una prova così evidente dopo essersi portata dietro dei vestiti puliti e dei guanti meno rovinati sarebbe stato stupido.
Aveva trascinato Meskal -ancora aggrappato all’ultimo alito di vita- fino a una grossa roccia bagnata dalle acque del fiume, lo aveva afferrato per la nuca e aveva iniziato a sbattere la testa del Lusan contro il sasso. Il rumore di un cranio che si spappolava le era sempre risultato gradevole, ma in quell’occasione era stato come ascoltare la melodia di uno za sviranje, di una scatola del suono.
 
Una volta finito aveva lasciato lì il cadavere, si era data una breve lavata, aveva strappato e gettato i vestiti sporchi nella corrente del fiume e indossato quelli puliti, e infine si era messa a riflettere su cosa sarebbe avvenuto il giorno dopo. Di certo gli abitanti di Ulthmeer avrebbero accusato Anise dell’omicidio appena commesso, sebbene chiunque usando un po’di buonsenso avrebbe potuto capire che lei non sarebbe mai riuscita a ucciderlo in quel modo, quindi il suo obiettivo era trovarsi nel posto giusto al momento giusto per acquisire il titolo di Ulthmeer a-ghekavary -che, morto Meskal, era suo- ed evitare ad Anise il linciaggio.
Si era detta che l’avrebbe esiliata e mandata a vivere nella foresta, facendo contenti tutti. Contenti gli abitanti di Ulthmeer, che non avevano mai accettato davvero Anise, le sue gite a Vynumeer e quel suo “male di vivere”; contenta Anise, la quale aveva detto più volte che avrebbe vissuto più volentieri nella casa in mezzo alla foresta piuttosto che in città; e contenta lei stessa, Calida, con la sua nuova posizione… e con una “sorella” lontana dagli sguardi di qualunque maschio. Nessuno avrebbe più potuto cercare di portargliela via.
 
Le cose si erano svolte come aveva immaginato, eccetto per un particolare: non si aspettava che Anise, accusata di omicidio appena era tornata da Vynumeer, reagisse come aveva fatto.
Calida era arrivata sul posto appena in tempo per sentire sua sorella ridere di gusto, questo per il dover -parole sue- “morire a causa di un branco di linci imbecilli che trova sensato il fatto che una ragazzina sia riuscita a ridurre in quel modo una bestia come Meskal, ceeerto. Infilate pure la mia testa in quel cappio, sarà sempre meglio che stare a sentire le vostre idiozie… e per il resto, andate tutti a fanculo”.
 
Calida era riuscita a evitare il peggio ad Anise, ma non si era ancora tolta dalla testa quella risata, così densa di tutta l’anormalità che la Lusan più giovane si era sempre trascinata dietro, e di cui non sarebbe mai riuscita a liberarsi.
Anche nei momenti in cui Calida l’aveva vista più serena c’era sempre stato “qualcosa” nello sguardo di Anise, come un demone in agguato pronto a conficcare gli artigli nelle tenere carni di quella delicata ragazza. Calida poteva riconoscerlo: probabilmente era quello che aveva lei stessa.
Che fosse stata lei a trovarla, e proprio al villaggio maledetto di Vynumeer, forse era stato un segno premonitore. Forse nessuna di loro due sarebbe mai riuscita a vivere una vita normale -per quanto ognuna a modo proprio potesse tentare di farlo- nessuna di loro due avrebbe mai trovato veramente pace.
Calida non riusciva a immaginare un destino di pace né per sé né per sua sorella, ed era per questa ragione che, pur essendo agli antipodi, la sentiva affine in un modo che nessuno avrebbe potuto mai capire.
Tantomeno un morto e un Hakaishin ragazzino.
 
«Credo di non aver altro da dire, Mes, e a meno che le mie allucinazioni peggiorino non credo mi rivedrai più. Mi raccomando: cenere in bocca su questo argomento, d’accordo? La mia poca sanità mentale deve restare un segreto. Già, ma cosa vado a dire? Come dice la canzone, due persone possono mantenere un segreto solo se una di loro è morta, e direi che questo sia proprio il nostro caso. Complimenti, da quando sei lì sotto il tuo tempismo è migliorato moltissimo».
 
Come se tutta quella delirante conversazione non fosse mai avvenuta, come se non avesse riportati a galla pessimi ricordi di appena due anni prima, Calida abbandonò il Cimitero dei Capi con tutta la tranquillità dell’Universo.
 
«“Abbiamo un segreto/ lo manterrai?/ giuri, non ti salverai/ meglio chiuderlo in una tomba/ in una tomba insieme a te”…»
 
I Lusan erano bravi a inventare e tramandare canzoncine inquietanti, e Calida, intenta a canticchiare lungo il sentiero buio e deserto, trovava che quella fosse particolarmente appropriata.
 
«Nel silenzio della morte/ non rivelerai cosa sai/ due nascondono il segreto/ solo se uno è in una tomba”».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«Vuole distruggerci tutti!»
 
«Gli dica di graziarci, per favore, la supplico…»
 
«Maledetto bastardo!»
 
«Ti prego, risparmiaci, ti prego!…»
 
«Mostro! Schifosissimo mostro, crepa! CREPA! Tu, insieme alla tua puttana!»
 
Beerus sapeva di aver traccheggiato a sufficienza su quel pianeta che, indipendentemente dalle suppliche e le maledizioni dei suoi abitanti, andava distrutto. Al di là dei risultati dei calcoli svolti -corretti da Anise un paio di volte- non aveva trovato un singolo motivo per risparmiarlo.
Verificò che Anise fosse a braccetto con Whis, e a quel punto lasciò cadere dalla mano destra una minuscola stilla di energia.
 
«Abbiamo finito».
 
Tutti e tre si allontanarono velocemente, solo quel tanto che bastava per poter assistere all’esplosione del pianeta nella sua interezza.
I bagliori delle crepe luminose rosso arancio che si sparsero su tutto il globo si riflettevano sugli occhi gialli del giovane Hakaishin. Non era certo la prima volta che ammirava i frutti del proprio lavoro, ma la distruzione di un pianeta era uno spettacolo affascinante, che riusciva sempre a dargli un senso di appagamento. Avere tra le mani un potere tanto devastante, a patto di poterlo controllare come faceva lui, sarebbe stata una fonte di soddisfazione per chiunque, e Beerus -che era stato letteralmente cresciuto come una divinità distruttrice- non faceva eccezione.
Quello era il suo mestiere, e quello era il modo che aveva trovato per riuscire a convivere con la consapevolezza che la quantità di sangue sulle sue mani era aumentata ancora, e avrebbe continuato ad aumentare sempre e comunque fino a quando lui fosse vissuto. Aveva deciso di concentrarsi sui lati positivi e di non pensare a quelli negativi, ed era necessario per sostenere il peso di essere un Hakaishin. L’appagamento provato non faceva di lui un sadico, ne faceva solo un ragazzo che cercava di mantenere un buon equilibrio mentale senza farsi schiacciare da sensi di colpa che, se non venivano messi completamente da parte, avrebbero rischiato di dilaniarlo.
Con il tempo si sarebbe abituato del tutto a quella situazione, e probabilmente avrebbe perso molti degli scrupoli che ogni tanto facevano ancora capolino nel suo cervello, ma per il momento andava bene così.
 
Il pianeta esplose in una nube luminosa e piena di colori, e fu allora che il dio avvertì la testa di Anise poggiarsi sulla sua spalla. «Andava fatto» disse dunque, in una sorta di giustificazione che però non era necessaria.
 
«Non ho mai detto il contrario».
 
Beerus fece un debole sorriso. «So che ormai è passato un po’di tempo da quando ho iniziato a portarti con me in giro per l’Universo, ma forse non mi sono ancora abituato del tutto all’idea che tu accetti senza problemi cose come questa».
 
«Questo è il tuo compito, e non distruggi pianeti a caso. Qualcuno deve occuparsi di certe cose, e tu prendi il tuo mestiere con molta serietà: finché sarà così -e non vedo perché le cose dovrebbero cambiare!- non avrò mai nulla di cui rimproverarti, sirel ym».
 
Sentendo ciò il sorriso dell’Hakaishin si allargò, e si voltò per stringere tra le braccia e baciare la sua Iarim Neiē. Grazie all’orecchino che Anise portava all’orecchio destro non aveva problemi a sopravvivere nello spazio aperto -o a qualunque tipo di atmosfera- e ad avere un minimo di “stabilità” anche se non era in grado di volare. «Me lo avevi già detto, ma è sempre bello sentirlo. Ci sono momenti in cui mi viene in mente che un giorno il peso di quello che vedi possa schiacciarti».
 
«Sei tu a portare questo peso, e se io posso darti anche solo un minuscolo aiuto a sostenerlo ne sarò felice… benché, a giudicare dalla soddisfazione con cui guardavi il pianeta esplodere, sia certa che tu potresti gestirlo benissimo anche da solo» aggiunse la ragazza, dandogli un piccolo bacio sulla punta del naso appena prima di venire distratta da un breve lampo di luce bianca.
 
«“Coppia Hakaishin/Iarim Neiē che si scambia tenerezze mentre un pianeta esplode”: è una rarità, nessuno dei miei fratelli potrebbe mandarla al concorso, e se questa fotografia non vincerà potrei anche accorciare i miei capelli di un centimetro!» disse Whis, rimirando la foto appena scattata.
 
«Devi smetterla con quelle fotografie, cominciano a seccarmi non poco!» disse Beerus, seccato «Non vedo l’ora che si tenga questo benedetto concorso, così che tu la faccia finita. Andiamo a casa, ormai sul nostro pianeta sarà notte!»
 
Partirono in direzione del pianeta di Beerus, e Anise pensò che questi non aveva affatto torto: anche lei non vedeva l’ora che Whis la facesse finita con le fotografie. I rapporti tra lei e Whis non erano cambiati di una virgola in tutto il tempo che era passato, ma Whis doveva trovarla piuttosto fotogenica, perché da quando aveva iniziato a fare foto per il concorso la rendeva spesso soggetto principale o parte dei suoi scatti. Inizialmente né lei né Beerus avevano avuto da ridire -Beerus era stato perfino contento, perché erano belle foto e lui avrebbe potuto averne delle copie- ma come dice il proverbio, il “troppo stroppia”!
 
«Lord Beerus, non capisco proprio perché le mie foto la infastidiscono» disse l’angelo «Non è molto fotogenico, quindi non la coinvolgo molto spesso…»
 
«Come sarebbe a dire che “non sono fotogenico”?!» protestò Beerus, un po’piccato «Io sono la perfezione fatta divinità!»
 
Anise ridacchiò. «Lord Beerus, Hakaishin del settimo Universo, uno strafigo depilato possente e oliato!...»
 
«Mi stai prendendo in giro, quindi ora sono molto offeso e non voglio più parlarti!» esclamò lui, voltando la testa dall’altra parte.
 
Conscia che Beerus non era arrabbiato sul serio, Anise iniziò ad accarezzarlo sulla nuca. «Eppure dopo un anno insieme dovresti sapere che ti trovo bellissimo».
 
«Mpf».
 
Ridendo piano, la ragazza si allungò per baciare un punto preciso alla base del collo di Beerus. Aveva imparato piuttosto in fretta i posti dove lui amava particolarmente essere baciato o toccato, tanto da essere arrivata a pensare che ormai il corpo del suo compagno fosse per lei privo di segreti. «Su, fai il bravo dio invece del dio offeso, altrimenti continuo, e considerando che hai dei brividi di piacere solo per questo… sai…»
 
«Suvvia, abbiate un po’di contegno! Non è momento né luogo per l’intimità» intervenne Whis.
 
«Già! Dal momento che Beerus dice di non volermi parlare, posso approfittarne per farti una domanda che mi ronza in testa da un po’?»
 
L’assistente fece un sospiro. «Temo che finirò col pentirmi, ma chieda pure».
 
«Come vi riproducete voi angeli?»
 
Whis arrossì leggermente. «Appunto, mi sono appena pentito. Di tutto quel che potevamo parlare, proprio un simile argomento?»
 
«Whis, la riproduzione è una cosa naturale, non c’è nulla di male a parlarne. Io nel tempo, e un po’anche grazie ai libri, ai fumetti e ai film che mi ha fatto vedere Beerus, ho formulato qualche teoria: la prima era che voi angeli vi riproduceste per scissione, ma non avrebbe avuto molto senso, perché sareste dovuti essere tutti uguali» iniziò a elencare la lince «La seconda invece era che foste ermafroditi e vi inseminaste da soli, ma a quel punto non sarebbe servita la presenza di una diversità di genere nella vostra razza -che invece c’è. La terza teoria invece è che ci sia un “angelo capo” che depone delle uova facendole uscire da non so quale buco e-»
 
«Quando un angelo maschio vuole riprodursi cerca una femmina con la quale avere uno o più coiti. Chiuso il discorso».
 
«Oh, Whis angelo monello!» esclamò Anise.
 
«Tu e Champa dovete iniziare a frequentarvi di meno, perché in un anno ti ha attaccato parte del suo disagio!» commentò Beerus, facendo una fatica bestiale per non mettersi a ridere.
 
«Perché, tu non sei mai stato curioso di sapere come si riproduce il qui presente Whis?»
 
«No, che diamine, NO!» esclamò il dio «Meno ne so, meglio sto!»
 
«Spero si sia reso conto che le parole della sua Iarim Neiē a volte scadono nell’indecenza».
 
«Io ho fatto una domanda generica su un processo del tutto naturale, dov’è il problema? Siete uno peggio dell’altro, davvero» disse la ragazza.
 
Beerus fece un’espressione perplessa. «Mi risultava che tu e io parlassimo tranquillamente di sesso, oltre a metterlo in pratica».
 
«Dettaglio che non era necessario aggiungere» sospirò Whis.
 
«Due parole, Beerus: ciclo mestrual-»
 
«Lallallalalallà! Non ti seeeento!» gridò l’Hakaishin, tappandosi le orecchie.
 
Anise fece un grosso facepalm. «Ecco, appunto. Ma è mai possibile?»
 
«È lei che lo ha traumatizzato» le fece notare Whis.
 
Anise sollevò un sopracciglio. «Lo ho traumatizzato solo perché gli ho spiegato in cosa consiste il ciclo mestruale? Sul serio? La colpa comunque è di chi avrebbe dovuto fargli una lezione più approfondita sul funzionamento del corpo femminile, ossia tu!»
 
«Lady Anise, non tutte le femmine dell’Universo hanno il ciclo, e le assicuro-»
 
«LALLALLALALALLÀ!»
 
«… le assicuro che la dovuta lezione teorica di anatomia è stata impartita a tempo debito» continuò Whis.
 
«Immagino: “Il tuo organo riproduttivo è quella cosa che hai in mezzo alle gambe, chiamata pene, mentre le femmine di solito hanno un organo chiamato vagina. Ora ti porto in un postribolo, così vedrai come si usano”!»
 
«Dovrebbe ringraziarmi per avergli dato modo di fare esperienza, se mai, o lei sarebbe rimasta all’asciutto. In tutti i sensi» replicò l’angelo.
 
«Avete finito? Non si parla più di cose da donne, vero? Ne ho avuto abbastanza per una vita intera» borbottò Beerus, togliendo le mani dalle orecchie «Per fortuna che quella cosa ti è capitata solo una volta in oltre un anno».
 
«Se dico che sono sterile c’è una ragione».
 
Per Anise non era eccessivamente spiacevole tirare fuori l’argomento nonostante fosse stata proprio la sua sterilità a causare la fine del suo matrimonio e tutto il resto, ma Beerus, dimentico della presunta “offesa” di prima, volle comunque stringerla a sé e farle i grattini dietro le orecchie.
 
«È incredibile come Anise, durante i primi venti secondi di grattini, sia mentalmente assente. È troppo carina» sorrise Beerus, sentendola fare le fusa.
 
«Sarebbe ancora più carina se evitasse di farmi domande inopportune su come mi riproduco».
 
«Cosa vuoi farci, Whis? Lo sai che è una lincina curiosa… e se sul nostro pianeta è notte, allora è l’anniversario del nostro primo incontro! Mi sembra quasi incredibile che sia già passato un anno da allora».
 
«Vorrà dire “che sia passato solo un anno”. Le sembrerà chissà cosa, ma credo sia tempo di iniziare a entrare nell’ottica che un anno con questa ragazza rappresenta una frazione di tempo infinitesimale, rispetto alla vita immortale cui lei è destinato» ribatté Whis.
 
«Non solo io, anche lei. Diventerà la mia Neiē. Magari non subito, ma accadrà presto».
 
«Questo sarebbe avventato».
 
«Ma non ti riguarderebbe affatto, perché scegliere una Neiē è un mio diritto!»
 
Whis aveva sperato che Beerus, avendo reso Anise la sua Iarim Neiē, se ne sarebbe stato tranquillo per un bel pezzo. Nel corso dei mesi che erano passati era arrivato quasi a crederlo davvero, perché Beerus non aveva mai tirato fuori l’argomento “Neiē”, ma sembrava essersi sbagliato di grosso. «Farlo comporterebbe la creazione di un life-link, quindi non corra. Lo dico per il suo bene, Lord Beerus: dia tempo al tempo, non abbia fretta. Conosce il proverbio sulla gatta frettolosa che partorì i gattini ciechi».
 
«Quali gattini ciechi?» domandò Anise, che si era appena ripresa dall’effetto dei grattini.
 
«Quelli di un proverbio, “la gatta frettolosa partorì i gattini ciechi”. Dovrebbe essere un invito a non fare certe cose prima del cosiddetto “dovuto”» rispose Beerus «Ma non dare peso a quello che dice, perché al momento ho sentito solo diverse stupidaggini».
 
Peccato che Anise sapesse bene che difficilmente dalla bocca di Whis uscivano stupidaggini, specialmente se lei non poteva sentirle a causa dei grattini, e ancor più se si trattava di inviti a non fare le cose di fretta. Ormai non c’erano molti argomenti di cui Whis potesse dire una cosa del genere, per cui c’era la possibilità che Beerus avesse tirato fuori il discorso “Neiē”.
Nel corso di quell’anno non era capitato troppo spesso, anche nei momenti passati completamente da soli, ma in effetti c’erano stati degli accenni a un futuro di quel tipo… un futuro di cui non riusciva ancora a convincersi al cento per cento.
Amava Beerus, e pensava che fosse una persona meritevole? Certo.
La sua vita attuale nella foresta, con svariate cose da fare ogni giorno, le piaceva? Certo.
Sarebbe stata in grado di compiere una scelta, se si fosse trattato di  rinunciare a Beerus o alle proprie abitudini e i posti che amava, come Vynumeer? Al momento non ne era sicura.
 
“È passato solo un anno, procedere con ancor meno cautela di quanto Beerus e io abbiamo fatto finora sarebbe stupido. Meglio godersi il presente senza farsi eccessivi problemi sul futuro” concluse.
 
In breve tempo raggiunsero e superarono la nebulosa che avvolgeva il pianeta di Beerus. Una volta atterrati accanto al palazzo, Whis diede loro la buonanotte. «Vi raccomanderei di non fare troppo tardi, perché per domani è programmato un allenamento, Lord Beerus. Io vado a coricarmi» disse, dileguandosi dopo un piccolo e breve inchino del capo.
 
«Finalmente soli, mh?» sorrise Anise, dopo aver dato un bacio a Beerus.
 
«Eh sì, finalmente soli! Proprio in tempo per festeggiare».
 
«Festeggiare cosa?» domandò la ragazza, perplessa.
 
Dinanzi a quell’apparente dimenticanza, il dio rimase perfino un po’male. «L’anniversario. Noi due ci siamo incontrati un anno fa…»
 
«Ma il nostro anniversario è doma- ah, è vero! Noi siamo già a “domani”!» esclamò la ragazza, e si batté una mano contro la fronte «Non mi sono ancora abituata al fatto che di pianeta in pianeta cambino stagione, ora e momento del giorno. Per fortuna che qui il tempo e l’alternanza notte/giorno sono abbastanza in sincrono con quelli del mio pianeta. Non pensare che mi sia dimenticata dell'anniversario, ovviamente mi ricordavo, però non mi ero resa conto che fosse già arrivato. Mi dispiace…»
 
«Tu per il momento sei meno avvezza di me ai viaggi cosmici e tutto quel che comportano, un po’di smarrimento è normale, e se mi dici che non ti eri dimenticata ti credo» la tranquillizzò il dio.
 
«Mi farò perdonare con una torta di otto piani, invece che quattro!» dichiarò Anise «Mi piacerebbe poterti regalare qualcosa di diverso dal cibo, ma non saprei cosa-»
 
«E a me sarebbe piaciuto poterti regalare dei gioielli, ma tu “No, ne ho già tanti con le mie perline di vetro”! Questo tralasciando il fatto che potrei darti ben altro» aggiunse Beerus «Tu sei la mia compagna, e se tu lo volessi io potrei darti l’Universo, o -volendo pensare più in piccolo- renderti la padrona assoluta del tuo pianeta. Ti basterebbe una parola».
 
«Il potere non mi attira, Beerus, in nessun senso. Non mi servono gioielli, non mi serve l’Universo, e non mi serve nemmeno essere padrona del mondo. Io sto bene così, vivo la mia piccola vita nella mia casa in mezzo alla foresta, o a Vynumeer. Non voglio altro… a parte te, chiaro».
 
“Già, devo anche ricordarmi di dare davvero il tesoro di Rubedo a mia sorella, perché tra una cosa e l’altra in tutto il tempo che è passato non gliel’ho ancora donato!” aggiunse mentalmente.
 
«Lo so, me lo hai ripetuto più volte. In ogni caso credo di aver trovato un regalo che dovrebbe piacerti» disse Beerus, prendendola in braccio «Ora ti porto a vederlo».
 
Fecero un breve volo, raggiungendo uno dei più alti rami sporgenti del palazzo albero, tanto grande e largo che ci si sarebbe potuta costruire sopra una casa come quella di Anise… ma no, non c’erano case, e a circa tre metri dalla fine del ramo era stata posizionata una grande altalena.
 
«Visto che ti piace dondolare ho pensato che avresti gradito poterlo fare anche qui, e possiamo anche andarci insieme, se uno di noi va in braccio all’altro. Però non potrai lanciarti giù come fai con l’altra altal-»
 
La Lusan lo interruppe con un bacio. «Grazie. È un’idea magnifica… possiamo andarci adesso?»
 
Beerus annuì, e neppure un minuto dopo eccoli lì, in due sull’altalena, a condividere la medesima sensazione di essere irraggiungibili da qualunque male dell’Universo.
Almeno per il momento.






Hello!
Avevo iniziato a temere che questa settimana avrei ritardato a pubblicare il capitolo, ma purtroppo per voi il rischio è stato scongiurato da Callie che, bontà sua, aveva voglia di raccontarvi come e perché ha ucciso Meskal. Ringraziate quella bizzarra malata mentale, perché se questo capitolo è stato pubblicato in tempo è merito suo! :"D
Proprio a proposito di Calida, la canzoncina che canta è la traduzione di questa, solo leggermente modificata.
Un altro appunto: la cosa dei calcoli non era campata per aria perché, se non erro, un capitolo del manga mostra Sidra intento a eseguire non so quali calcoli per capire se fosse possibile evitare di distruggere un pianeta. Il Beerus del presente ovviamente se ne strafrega di fare calcoli, questo lo so benissimo, gli basta poco per decidere che è tempo di hakai  :"D ma attualmente ha diciotto anni, e magari si lasciava convincere a farne, a causa dell'inesperienza.
Non ho altro da dire, per cui grazie a chi legge, grazie a chi legge e recensisce, e... alla prossima!

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Capitolo 13
*** 13 ***


RMIcap13
13
 
 

 
 
 
 
 
 
 
«Tra quanto hai detto che arriverà il mio fratello scemo?»
 
«Appena Whis gli darà la libera uscita. Calcolando anche il tempo che serve loro per arrivare qui da me, direi due ore e mezza. Champino?»
 
«Sì?»
 
«Quegli albumi dovrebbero essere già montati a neve».
 
Il dio sospirò, diede un’occhiata alla ciotola sul tavolo e iniziò a sbattere gli albumi più velocemente di quanto avrebbe potuto fare qualunque frullatore. «Sei una schiavista, Anise».
 
«Sei tu che hai voluto imparare come si fa la torta drakht» replicò la ragazza «E se sarai tu a lavorarci sopra magari gli “spiriti della foresta” non si mangeranno mezzo impasto crudo come l’ultima volta, non credi?»
 
«Ehi! Stai insinuando che lo abbia mangiato io?!»
 
Anise, per nulla arrabbiata con lui, fece una breve risata. «Champa, l’impasto di questa torta è molto liquido e tu avevi due baffi giallo chiaro lunghi così, quindi non sono insinuazioni, sono accuse precise!»
 
«Gli spiriti della foresta mi avevano incastrato!» cercò di difendersi lui, pur sapendo benissimo di essere colpevole.
 
«Gli albumi ora vanno incorporati ai tuorli e lo zucchero che hai montato prima, e sii delicato, se no si smonta tutto. Poi metti la farina, il lievito in polvere, e dopo ancora il burro sciolto. Al lavoro, schiavo!» scherzò la ragazza.
 
«Sì però a me spetta la fetta più grossa, sia chiaro!» esclamò Champa, eseguendo gli ordini uno dopo l’altro.
 
«Ricordati che quella torta andrà divisa in cinque parti, perché è molto probabile che Vados si aspetti che ne facciamo una, e dunque che torni».
 
«Poteva rimanere e basta. Stando da solo con te mi diverto più di quando c’è anche lei, però non è molto carino accorgermi che non mi vorrebbe attorno. So che non sono l’Hakaishin più diligente, o il più sveglio, o il più forte, o il più magro… però non mi sembra di essere tanto peggio di altri, no?»
 
«Certo che non lo sei, tu sei molto meglio di svariati tuoi colleghi, e lo dico con cognizione di causa. Se penso a Quitela ho ancora voglia di dargli fuoco».
 
«Quello è piuttosto normale, ma non invitarlo al mio diciottesimo voleva dire fargli uno sgarbo, e non voglio problemi con gli altri Hakaishin. Quitela avrà pure barato a braccio di ferro per vincere contro Beerus, ma resta più forte di me, e io purtroppo non sono mio fratello» disse Champa, alzando gli occhi al soffitto «Dunque non posso farmi detestare da tutti -parecchio- e decidere di fregarmene. Davvero, quando siete insieme e vedo come si comporta con te a volte ho il dubbio se sia davvero lui oppure no: di solito è più bravo ad abbandonare le persone che a star loro vicino, se queste non rispettano i suoi personalissimi canoni di “valore”».
 
Anise aveva la sensazione di essere finita in un discorso alquanto scivoloso, anche se non aveva detto o fatto nulla per incapparvi. «C’è qualcosa in particolare che ti spinge a dirlo?»
 
Champa esitò, rendendosi conto che se avesse continuato a parlare avrebbe finito per raccontarle di quel che era successo quando lui e Beerus erano piccoli, un argomento difficile per lui quanto lo era per suo fratello. Non era troppo sicuro di volerne parlare. «Vecchie storie. Ma le cose non sono cambiate da allora, credo che lui mi consideri sempre un fallito».
 
«È un peccato che non riusciate a parlare di quelle vecchie storie, o che difficilmente ci riuscireste senza saltarvi alla gola. Litigate per ogni minima cosa, ma in fondo tu vuoi bene a Beerus, e lui ne vuole a te. È difficile riuscire a odiare davvero un fratello, anche quando fa cose che non dovrebbe fare, e soprattutto se hai solo lui nell’Universo».
 
«Ora parli di me e Beerus, o di te e tua sorella? Con tutto il rispetto, se non sapessi di poterla scagliare dall’altra parte del pianeta con un buffetto potrebbe quasi, beh, non dico farmi paura, ma…» Champa fece con gesto con la mano che significava “quasi” «L’atmosfera che c’era qui quando ci siamo trovati tutti e tre insieme qualche giorno fa era un po’strana».
 
«Non si è comportata male».
 
«È vero» ammise il dio, mentre rovesciava l’impasto nello stampo «Non ha detto o fatto niente di strano, però c’era qualcosa che non andava. Non sono così scemo da non notare quando c’è tensione nell’aria. Sei sicura che tra voi due vada tutto bene?»
 
Così come Calida non si era comportata male con Champa, non lo aveva fatto neppure con lei. In tutto il tempo che era passato aveva continuato a farle visita sempre lo stesso giorno della settimana e sempre alla stessa ora, a portarle sempre almeno un sacco pieno di qualcosa, a chiederle se tra lei e Beerus andava tutto bene -accontentandosi di “Sì, è tutto a posto” come risposta- e a farsi raccontare di quel che vedeva Anise nei suoi viaggi in giro per il cosmo, una curiosità che era legittima. Non c’era nulla di strano in tutto ciò.
Però c’erano dei momenti -tipo quelli in cui lei dava le spalle a Calida per occuparsi degli infusi, o andare a prendere qualcosa da mangiare, o simili- in cui Anise si sentiva quasi “trapassare” dallo sguardo verdastro di sua sorella, e avvertiva la stessa tensione che aveva colto Champa.
Non era una sensazione piacevole, soprattutto perché quando si voltava cercando di coglierla in fallo la trovava immancabilmente intenta a fare o a guardare tutt’altro, e ai suoi “C’è qualcosa che non va?” la risposta di Calida era sempre un tranquillissimo “Va tutto bene. Perché?”.
Anise aveva perfino iniziato a pensare che fosse tutto solo e soltanto nella propria testa, che fosse tutta un’impressione, e che dunque le sue fossero solo delle ingiustificate "manie di persecuzione", delle quali non poteva colpevolizzare altri che se stessa.
 
«Certo, va tutto bene. Vedi, Calida è abituata ad avere tutto sotto controllo, ed è piuttosto… diciamo “protettiva”, nei miei confronti. Credo che trovi difficile accettare l’idea che io abbia a che fare con persone più forti di lei, e alle quali eventualmente non potrebbe impedire di fami del male».
 
«Io e Beerus però non vogliamo farti del male» disse Champa, un po’confuso.
 
«Sì, io questo lo so, e credo che lo sappia anche lei. Solo che un conto è sapere qualcosa, un altro convincersene! Credo che le vada semplicemente dato tempo, tutto qui» minimizzò Anise «Non è nulla di preoccupante, Champa, puoi stare tranquillo».
 
«La conosci meglio di me, quindi immagino di non poter far altro che crederti. Già, le hai poi dato il tesoro?»
 
Anise fece una smorfia. «È lì in cantina, eppure me ne dimentico sempre. Sarà che da quando sono diventata una Iarim Neiē ho poco tempo per tante cose… ti rendi conto che quest’anno non ho nemmeno raccolto il grano?»
 
«E allora? Basta andare in una qualunque città e ci daranno la farina gratis, e anche qualunque altra cosa di cui tu abbia bisogno, ciò senza fare la minima fatica. È quello che vorrebbero tutti».
 
«Io però ho come l’impressione di starmi... non so, forse mi sto "perdendo" un po’. Perché devo farmi dare gratis una cosa da chicchessia, se posso procurarmela da sola come ho sempre fatto? Perché dovrei letteralmente rubare il lavoro di qualcun altro? O ancora, perché dovrei andare a comprare della farina che sarebbe potuta servire a qualcuno che non è in grado di farsela da sé? Io sono del tutto autonoma, a me stessa provvedo da sola, è questo che io sono, è questo che io faccio. Anzi, ormai è diventato quasi un “facevo”» aggiunse, senza particolare allegria.
 
«Dici tutto questo per del grano non raccolto? L’ho sempre detto che tu pensi troppo. Tu resti sempre in grado di fare tutto quello che fai, non è che se non raccogli il grano diventi meno in gamba, e poi sei una Iarim Neiē» le ricordò il dio «Che si presume in futuro diventi una Neiē, con tutto quel che comporta. Sarà Whis a fare tutto al posto tuo».
 
«Quest’idea non mi va a genio, perché io e Whis non ci piacciamo» disse la Lusan, schietta «Siamo civili una con l’altro solo perché nessuno dei due è tipo da comportarsi diversamente, ma faremmo volentieri a meno di frequentarci, se potessimo. Le cose erano così quasi un anno fa, sono così adesso, e credo che rimarrebbero così anche tra centinaia di milioni di anni, se dovessimo essere entrambi vivi».
 
«Beerus cosa ne pensa?» le chiese Champa, mentre infornava la torta.
 
«Per quanto ne sa Beerus, tra me e Whis fila tutto liscio come l’olio… a parte quando lo punzecchio chiedendogli come si riproducono gli angeli. Già, tu sapevi che si riproducono esattamente come facciamo noi? Io credevo che i piaceri carnali fossero cose troppo da mortali per loro, e invece-»
 
«Vados moneeeeeeella!» esclamò l’Hakaishin per poi scoppiare a ridere come un cretino «Vai a vedere che ha sequestrato le mie riviste porno per leggersele lei! Però ci sono solo donne…»
 
«Magari avete dei gusti in comune!» ipotizzò Anise, pur non credendoci affatto.
 
«Ti rendi conto che ora per colpa tua ogni volta che la guarderò la immaginerò intenta a fare cose con una qualche donna?! Non che sia una brutta visione, ma capiscimi!» gemette Champa «Cambiamo argomento, va’. Prima abbiamo parlato del tesoro, no?»
 
«Sì, e qualche tempo fa ti ho anche parlato della leggenda che c’è dietro. C’è qualcosa a riguardo che ti incuriosisce?»
 
Champa annuì. «Sì, i poteri che aveva questo Rubedo. Di quelli non hai detto molto».
 
«Quel che si sa non entra molto nei dettagli. Sono cose successe molto tempo fa, cose che io stessa consideravo inventate, almeno fino a quando non ho visto il tesoro e ho saputo della maledizione. Beh, in virtù dell’ultima cosa che ho detto -riguardo la maledizione- posso affermare con certezza che fosse un mago potente» disse Anise «Tanto che per fermarlo, come sai, fu necessario riunire tutti i maghi di tutte le città. Si dice che fosse in grado di volare, che scagliasse raggi luminosi dalle mani con i quali poteva distruggere una città in un secondo, che nessuna arma fosse in grado di abbatterlo, che potesse muovere le cose col pensiero, che potesse controllare i corpi delle persone e anche che potesse far nascere montagne come funghi -ma questa mi sembra un’idiozia pazzesca. Ah, giusto, ho dimenticato un’ultima cosa: si narra che se vai davanti a una superficie riflettente e pronunci “Rubedo” per tre volte, questi appaia e ti trascini dentro suddetta superficie. È una cosa ancora più idiota di quella delle montagne!»
 
«Sai che invece potrebbe non essere così campata per aria?» la contraddisse Champa, pensieroso «Se questo Rubedo aveva il controllo della Dimensione degli Specchi -o comunque poteva entrarne e uscirne a piacimento- potrebbe davvero averla usata per rapire le persone, e da lì potrebbe essere nata quest’ultima leggenda».
 
«Aspetta: la Dimensione degli Specchi? Esiste davvero una cosa del genere?» si stupì Anise «Cosa è di preciso? Un po’posso arrivare a capirlo da sola, ma se tu hai qualche dettaglio in più sono interessata a saperlo. Tanto la torta deve cuocere per un’oretta, per cui abbiamo tempo».
 
«Te la faccio breve: è un posto in cui si può entrare usando ogni superficie riflettente che c’è sul pianeta. La Dimensione degli Specchi le mette tutte in comunicazione quindi, per esempio, potresti entrarci dal vetro di questo bicchiere» ne prese in mano uno «E uscire da una pozzanghera dall’altra parte del tuo mondo. Ecco, sì: c’è una Dimensione degli Specchi per ogni pianeta, non una sola che comprende tutte le superfici riflettenti dell’Universo. Comunque la struttura non cambia granché, è sempre incasinata, solo che su alcuni pianeti è più grande e su altri più piccola. Potrei chiederti se hai capito, ma tanto lo so, che hai capito!»
 
Anise prese il bicchiere dalla mano di Champa, e lo appoggiò sul tavolo. «Sì, è tutto chiaro. Ora però ho un’altra domanda».
 
«Spara».
 
«Immagino che non tutti abbiano modo di entrare in questa Dimensione, ma tu sei un dio, quindi puoi farlo, giusto?»
 
L’Hakaishin annuì. «Però ci sono stato solo una volta, perché non mi piace granché. Posso entrarne e uscirne, ma non ne ho il controllo. Gli angeli invece sì».
 
«C’è qualcosa che questi benedetti angeli non siano in grado di fare?» sospirò la lince, alzando gli occhi al soffitto «La mia domanda vera però era un’altra: anche se non ti piace, possiamo entrare nella Dimensione insieme?»
 
«No. Assolutamente no, non se ne parla» rifiutò Champa.
 
«E dai…»
 
«No! Sappiamo tutti che sei una lincina curiosa, però non ti porterò lì dentro. Alle Dimensioni degli Specchi non piace avere estranei che vagano dentro di loro, li attaccano» le spiegò lui «Non sono un problema per un angelo o per un dio, ma per un mortale senza poteri potrebbero essere letali. Io non voglio che ti succeda qualcosa, e questo non solo perché Beerus mi strangolerebbe».
 
«Questo discorso potrebbe valere se andassi lì dentro da sola, ma io avevo proposto di entrare lì insieme a te, che sei un Hakaishin. Non potrebbe capitarmi niente di male, ne sono sicura» sorrise la Lusan «Mi fido di te e della tua potenza. Se ci sei tu, neppure il posto peggiore dell’Universo riuscirebbe a farmi paura».
 
Sembrava che Anise avesse più fiducia in lui di quanta ne aveva lui stesso, cosa che lo fece vacillare dalla posizione di netto rifiuto che aveva preso. Forse aveva ragione lei, forse non avrebbe dovuto farsi tutti quei problemi: era l'Hakaishin del sesto Universo, e non lo era diventato per caso, nessun Hakaishin diventava tale per caso. Era diventato un dio perché aveva un potere abbastanza grande per poter avere quel ruolo, e avrebbe dovuto lasciare che una banale Dimensione degli Specchi spingesse lui, una divinità, a rifiutare la richiesta di un’amica? Una simile idiozia non esisteva né in cielo né in terra.
Anise voleva andare nella Dimensione degli Specchi? Bene, allora ci sarebbero andati! Sarebbero entrati, le avrebbe mostrato quant’era confusionario quel posto, e ne sarebbero usciti: non c’era altro da dire. «Ho cambiato idea, ti porterò a vederla. Sali sulla mia schiena, come fai con Beerus… dovresti anche stare più comoda!»
 
Anise, temendo che potesse nuovamente cambiare opinione, si affrettò a obbedirgli. «Certo che sto comoda, tu sei un Champino morbido. Sai cosa? Devo inventare un dolcetto morbido e chiamarlo in quel modo, “Champino”!»
 
«Sarebbe il dolce più buono dell’Universo. Passeremo dalla finestra, tu tieniti forte, d’accordo? Si va!»
 
Per un attimo Anise, nonostante quel che le era stato detto, temette che sarebbero andati a sbattere contro il vetro, ma dovette rapidamente ricredersi.
 
Il caos di infiniti specchi vorticanti che si trovò davanti era tanto confuso che il suo cervello impiegò qualche istante prima di accettarlo. Anche ora che conosceva meglio il proprio pianeta, e che ne visitava di alieni, Anise non aveva mai visto nulla di anche solo vagamente simile.
Quel luogo, che Champa aveva quasi descritto come “vivente” nella sua ostilità verso corpi estranei, sembrava pervaso da un’agitazione costante che spingeva specchi e frammenti di specchi a muoversi di continuo, ad aggregarsi formando strade, labirinti, o bizzarre e pazzesche costruzioni prive di senso alcuno, per poi disgregarsi o liquefarsi subito dopo.
Un ambiente così confusionario poteva fare paura, e Anise si sarebbe sentita un po’meno tranquilla se Champa non fosse stato presente, ma quel caos completo risultava comunque affascinante.
 
«Te l’avevo detto che era un postaccio» borbottò Champa, volando agilmente tra quattro file di specchi che cercarono di investirli «Non rimarremo per molto, la Dimensione non ci vuole qui dentro».
 
Anise si strinse a lui più saldamente. «Ha già iniziato ad attaccarci, o sbaglio?»
 
«Non sbagli!» esclamò il dio, costretto a lasciare una gamba di Anise per allontanare tre sfere che altrimenti li avrebbero colpiti in pieno «Non sbagli affatto!»
 
«CHAMPA! A sinistra!» gridò la ragazza, accorgendosi appena in tempo che da quella direzione stavano arrivando centinaia di sfere grandi come la sua testa.
 
Il dio scagliò contro lo sciame di sfere un raggio energetico che le polverizzò tutte all’istante. «FUORI DALLE SCATOLE! Ecco, così imparate a scherzare con un… Hakaishin…»
 
Era quello il brutto della Dimensione degli Specchi: per quante sue parti potessero venire distrutte si riformavano sempre e comunque, spesso più forti di prima… e non era insensato dire che in un certo senso, trovando resistenza, la Dimensione si “arrabbiava” con coloro che osavano entrarvi senza averne il controllo.
Motivo per cui i due esploratori si trovarono improvvisamente accerchiati da sfere e da prismi che neppure un secondo dopo si scagliarono loro addosso, intenzionati ad abbatterli una volta per tutte.
Se Anise non fosse stata sulla sua schiena non avrebbe avuto problemi a contrastare anche attacchi molto più massicci, ma di fatto lei c’era, e Champa temeva che utilizzando colpi più potenti avrebbe potuto finire per fare del male anche a lei senza volerlo. Aveva diciotto anni -tra qualche mese diciannove, in verità- e per quanto fosse abile a gestire il suo potere distruttivo non poteva ancora dire di avere abbastanza esperienza da sentirsi totalmente sicuro di colpire solo quel che doveva colpire.
 
«Reggiti! Stringi le gambe attorno a me!» intimò Champa ad Anise, per poi allargare le braccia e distruggere la prima ondata di quei “proiettili” semplicemente lasciando fluire verso l’esterno il suo Ki altamente distruttivo «Dobbiamo trovare un’uscita, la prima che capita! Sapevo che non era una buona idea entrare qui dentro!» esclamò, cercando di volare altrove senza essere colpito da altre ondate di sfere «Lo sapevo!»
 
«Forse avrei dovuto darti retta!» ammise la ragazza, guardandosi attorno. Gli attacchi della Dimensione degli Specchi non cessavano, anzi, stavano diventando sempre più martellanti a ogni secondo, e abbassando lo sguardo notò un altro pericolo in arrivo: “tentacoli” che spuntavano da un'apertura rotonda e nera, che ben presto li avrebbero raggiunti per trascinarli giù, o per immobilizzarli. «Vola in alto! IN ALTO!»
 
«Non pos-»
 
«VOLA SU E BASTA!»
 
Capendo che Anise doveva avere buone ragioni, Champa schizzò in alto a una velocità superiore a quella della luce, cercando disperatamente di evitare scariche di proiettili che continuavano senza sosta.
 
«Ma cosa-!»
 
Da un punto imprecisato sopra di loro apparvero altri filamenti che cercarono di catturarli, e lui riuscì a evitarli con una brusca frenata e una altrettanto brusca virata, per poi distruggerli. Si guardò attorno, alla disperata ricerca di un’uscita che non era in grado di vedere, perché adesso le sfere si erano disintegrate in frammenti piccolissimi che vorticavano attorno a lui e ad Anise, togliendo ogni visibilità.
 
«Qui va sempre peggio!» si disperò il dio, distruggendo dei prismi che avevano attraversato lo sciame di frammenti tentando di colpirli.
 
«Distruggi tutto allora! Sei un Hakaishin, distruggi tutto, anche se si riformano questo ci darebbe comunque un attimo di tregua!»
 
«Potrei finire a distruggere anche te, lo capisci o no?!» gridò lui, cercando di farsi strada in mezzo ai frammenti di specchi.
 
«Non succederebbe, ne sono sicura, ti addestri da quando hai quattro anni! Champa! Champ-»
 
L’Hakaishin, troppo impegnato a respingere l’ennesima ondata di “proiettili”, non fece caso che uno di essi -proveniente da tutt’altra direzione- aveva colpito Anise alla testa.
 
La Lusan sentì le sue braccia e le sue gambe diventare molli, perse la presa attorno al collo e al corpo di Champa. Precipitò senza che le sue orecchie udissero altro se non un fischio acuto e penetrante che in realtà neanche c’era.
Era cosciente, ma tutto quanto -eccetto il dolore pulsante alla testa- le sembrava curiosamente ovattato. Vide frammenti di specchi volarle dapprima attorno, poi verso l’alto, evidentemente dopo aver deciso che ormai era inutile perdere ulteriore tempo con lei. Un Dio della Distruzione doveva sembrare loro una vittima più appetibile.
La caduta sembrava interminabile, e in un luogo come quello, che sembrava non avere reali confini, un simile pensiero diventava ancora più valido. Spostò lo sguardo: una massa brulicante di filamenti argentati era pronta ad accoglierla, a inglobarla appena la sua caduta fosse terminata. Il moto di quell’agglomerato simil metallico le riportò alla mente le onde che avevano catturato la sua attenzione diverso tempo prima, il giorno del compleanno di Beerus, quando era andata a casa di Champa.
Se avesse dato retta a quest’ultimo avrebbe potuto evitare una simile fine, ma Anise, fatalista anche dopo aver ricevuto un colpo in testa, pensò che forse era semplicemente destino.
Percepì le cime di quei filamenti sfiorarle il capo, stringersi delicatamente attorno alla sua morbida gola, avviluppare il suo corpo. Non sapeva cosa stesse facendo Champa, probabilmente non si era neppure accorto che lei non era più sulla sua schiena, ma non gliene faceva una colpa, non gli faceva una colpa di nulla: era stata lei a voler entrare nella Dimensione degli Specchi, era stata lei a convincerlo, quindi se c’era una colpevole questa era lei, lei soltanto.
In quel suo mondo ovattato e pieno di sensi di colpa, formulò un solo pensiero veramente lucido: “Spero che anche Beerus capisca che non è colpa sua”.
 
«ANISE!...»
 
Champa, fino a un attimo prima troppo impegnato a dare battaglia contro una dimensione intera, si era accorto da meno di un secondo che Anise non era più aggrappata a lui.
Spostò concitatamente lo sguardo verso il basso, col cuore in gola e pronto a schizzare giù a tutta velocità per recuperarla, ma fece in tempo a vedere soltanto le gambe scoperte della Lusan venire inghiottite dalla massa rabbiosa e luccicante in fondo a quell’inferno.
 
«Anise…»
 
Lui era un Hakaishin ed era sempre stato potente, ma era sempre stato anche un’altra cosa: inetto.
Talmente inetto da non riuscire mai a battere suo fratello in alcuna sfida, talmente inetto da non riuscire neppure a mantenere una forma fisica decente. Inetto, al punto che la sua maestra e assistente non vedeva l’ora di mollarlo ad Anise per non doverlo vedere accanto a sé, al punto che il suo stesso gemello, quando avevano quattro anni e i loro maestri li stavano separando, si era addormentato in braccio a Whis con tutta la tranquillità del mondo, sicuramente dovuta al sollievo di non dover più provvedere a una cosa inutile come lui.
Inetto, al punto di non essere riuscito a proteggere una persona che lo aveva accolto in casa propria né per paura né per tornaconto, che non lo aveva mai preso in giro, che gli stava insegnando a cucinare ricette delle quali in realtà era gelosissima. Anise si era fidata di lui, lo aveva creduto una persona valida, e si era sbagliata: lui non era un Dio della Distruzione, era il Dio dell’Inettitudine.
 
 
“Non potrebbe capitarmi niente di male, ne sono sicura”.
 
 
Portò le mani alla fronte, col volto contorto dalla disperazione e dalla rabbia contro se stesso, mentre il bagliore violaceo di un Ki che stava diventando incontenibile avvolgeva il suo corpo.
 
 
“Mi fido di te e della tua potenza…”
 
 
Scosse la testa, maledicendosi mille volte per non essere stato all’altezza -tanto per cambiare!- e iniziò a chiedersi se era davvero degno del proprio ruolo di Distruttore.
Qualunque colpo tentato dalla Dimensione degli Specchi, che fossero frammenti taglienti, proiettili o tentacoli, ormai non riusciva neppure a raggiungerlo, infrangendosi contro un’aura distruttiva la cui grandezza stava aumentando esponenzialmente.
 
 
“Se ci sei tu, neppure il posto peggiore dell’Universo riuscirebbe a farmi paura”.
 
 
Champa sollevò lo sguardo verso l’alto e allargò le braccia.
Era un Hakaishin. Non era riuscito a proteggere la sua amica, ma avrebbe distrutto quell’inferno nella sua interezza, senza lasciare integro nulla eccetto i resti di Anise. Non gli importava se tutto si sarebbe riformato subito dopo, quella Dimensione degli Specchi maledetta doveva pagare per quel che aveva fatto.
 
«Hakai».
 
Un bagliore viola acceso avvolse ogni singola parte della Dimensione degli Specchi, che iniziò a disgregarsi completamente. Era stato un hakai permeato di disperazione ma alquanto efficace, e pochi secondi dopo Champa vide solo nero puro attorno a sé.
Volse febbrilmente lo sguardo qui e là, in cerca di quel che restava di Anise, e riuscì a trovarla proprio mentre le uscite iniziavano a riformarsi. La raggiunse velocemente, la strinse a sé, e non pensò neppure un attimo all’ira che Beerus avrebbe riversato contro di lui: pensava solo alla sua amica, morta perché lui era un inetto.
 
Fu proprio stringendola a sé che, con suo sommo stupore, riuscì ad accorgersi che Anise respirava ancora. No, non era possibile, doveva essere un’impressione, non poteva essere ancora viva e… e il suo cuore batteva.
Anise era priva di sensi ma respirava, il suo cuore batteva: era viva!
 
Senza perdere ulteriore tempo, e senza smettere di stringerla sé, Champa imboccò l’uscita più vicina. A guardarla sembrava condurre in uno specchio d’acqua, ma non gli interessava proprio bagnarsi, qualunque cosa sarebbe stata meglio che restare in un inferno di specchi che si era già riformato per oltre tre quarti.
 
Sbucarono sotto la superficie dell’acqua, ma anche solo la temperatura di quest’ultima non lasciava molti dubbi su dove si trovassero: quello era il lago di Vynumeer, e Champa trovò conferma della sua supposizione appena volò fuori dall’acqua assieme ad Anise, diretto a quella che un tempo era stata la dimora del capovillaggio.
Giunto sul posto e atterrato, aprì la porta con tanta veemenza da finire quasi per strapparla dai cardini. Si diresse verso il camino, ovviamente spento, e poggiò Anise su un morbido tappeto che era stato messo lì davanti diverso tempo prima.
Ebbe modo di esaminare meglio Anise, e vide immediatamente la ferita alla testa: dubitava che a colpirla fosse stata una sfera, probabilmente era stata colpita di striscio da un proiettile prismatico… ed era una fortuna che questo non l’avesse colpita in pieno, o sarebbe stata spacciata.
 
Le palpebre di Anise tremolarono, per poi aprirsi. «Dove… dove…»
 
«Vynumeer. Siamo al sicuro. Mi dispiace per quel che è…» avviò a dire, per poi interrompersi e passarsi una mano sul volto. Non era il momento per parlarle dei propri sensi di colpa, doveva cercare di capire qual era la gravità dei danni. «Riesci a toccarti la punta del naso?»
 
«Toccarmi la…»
 
«La punta del naso» ripeté Champa.
 
Il dolore alla testa era piuttosto acuto, ma la ragazza obbedì. «Ecco».
 
Leggermente sollevato nel vedere che il colpo alla testa riportato non aveva fatto danni sufficienti ad alterare le sue percezioni, il dio le chiese di seguire con lo sguardo i movimenti del suo dito indice, altro test che per fortuna ebbe esiti positivi. «Credo che il colpo in testa che hai preso non sia troppo grave…»
 
«Non sono svenuta per colpa di quello, sono stata cosciente fino a quando quella specie di tentacoli argentati mi ha inglobata» disse Anise, cercando di mettersi a sedere.
 
«No, resta giù, ora cerco un cuscino o… o qualcosa del genere, non so-»
 
La porta principale si aprì, mostrando una sagoma controluce alta e munita di bastone. «Lord Champa, cos’è successo? Ho percepito l’uso dell’energia di distruzione, ho quasi creduto che avrebbe fatto a pezzi il pianeta».
 
«Vados! Non sono mai stato tanto contento di vederti!» esclamò il dio, correndo dal suo angelo «È successo… Anise è…» fece un respiro profondo «Siamo andati nella Dimensione degli Specchi e-»
 
«Lei da solo in una Dimensione degli Specchi, dopo esserci stato in una sola altra occasione, e insieme a una indifesa Iarim Neiē altrui?» lo interruppe Vados, sollevando un sopracciglio ad altitudini di completa disapprovazione.
 
«Non ho chiesto la tua opinione sull’accaduto!» sbottò Champa, di suo già abbastanza dispiaciuto e per nulla bisognoso di avere qualcuno a rendere i suoi sensi di colpa ancor più gravosi «Se puoi curarla, curala e basta».
 
Vados non replicò, limitandosi ad avvicinarsi ad Anise. Puntò il bastone contro il capo della lince. «Forse sarebbe stato meglio se avesse esplorato la Dimensione degli Specchi col suo compagno, avrebbe corso meno rischi».
 
Champa, non visto dalle due, strinse i pugni e abbassò lo sguardo. Per l’appunto: era il gemello beta, lo sarebbe sempre stato, e dopo quell’esperienza anche Anise doveva essersene convinta. Non si sarebbe più fidata ad andare da alcuna parte assieme a lui, non da soli, perché non era stato in grado di proteggerla.
 
«Piuttosto avrei dovuto ascoltarlo quando mi ha detto “No, non se ne parla”. La colpa è interamente mia» replicò Anise, stringendo le palpebre a causa del dolore «Ma c’è da dire che avremmo potuto fare questa gita in sicurezza, se tu non avessi tanta fretta di allontanarti dal tuo Hakaishin ogni volta che vieni qui».
 
«Credevo preferiste rimanere da soli» disse Vados, dopo un breve attimo di silenzio. Non si aspettava che la ragazza riuscisse a ribattere anche dopo aver ricevuto un colpo in testa «Lo faccio per non essere d’intralcio nelle vostre attività».
 
«Sì, e io sono un khoselov mhuileid».
 
“Non sarai un vero e proprio mulo parlante come hai detto, ma sicuramente hai la testa dura” pensò l’angelo, avvolgendo la Lusan con un bagliore verde azzurro che guarì rapidamente la sua ferita. «Fatto».
 
Anise, ora in forma, si alzò in piedi. «Grazie. Ascoltate, io direi di non parlare a Beerus di quel che è successo, è andata a finire bene, non c’è ragione di farlo agitare inutilmente».
 
«Ecco, sì, non dire niente né a Beerus né a nessun altro, Vados» aggiunse Champa.
 
«Mi spiace dirvelo ma
Lord Beerus, per quanto distante posse essere, ha sicuramente percepito il Ki di Lord Champa, esattamente come l’ho percepito io» li disilluse Vados «Per cui temo che-»
 
Vados non ebbe neppure il tempo di finire la frase, perché la porta principale si aprì con violenza spaventosa, finendo per davvero fuori dai cardini.

«Si può sapere che stai facendo?! EH?! Spiegati!» intimò Beerus -che aveva terminato l’allenamento oltre un’ora prima del previsto- al fratello.

 
«Ehm-»
 
«Ho sentito il tuo Ki da lontano, si può sapere cos- Anise, cos’è successo?!» dimentico di Champa, il dio si avvicinò rapidamente alla sua Iarim Neiē «Il tuo vestito è tutto rotto e bagnato, e anche quello di Champa è bagnato, e…» si voltò verso Champa «Spero per te che questo non sia dovuto a un tuo comportamento inopportuno. Non avrai provato ad abusare di-»
 
«EHI! Hai presente con chi stai parlando? Ormai dovresti sapere che non voglio farle niente di male, come ti viene in mente una cosa del genere?!» sbottò Champa, davvero offeso per quell’insinuazione. Non avrebbe mai fatto del male ad Anise di proposito, le voleva bene, e gli sembrava incredibile che Beerus potesse avere simili idee. Quando c'era di mezzo Anise non ragionava proprio!
 
«Va bene, ma allora come spieghi tutto questo?!» insistette Beerus, rabbioso.
 
«Effettivamente è una bizzarra situazione» commentò Whis, giunto sul posto assieme al suo Hakaishin «Sorella, tu ne sai qualcosa?»
 
«È stato il Coniglio Assassino di Caerbannomeer» affermò Anise, con tono grave.
 
Per fortuna Beerus era troppo impegnato a guardare lei per accorgersi dell’espressione perplessa di Champa e Vados, oltre a quella di Whis. «Il cosa?...»
 
«Tu sai che i conigli che vivono nella foresta e dintorni sono carnivori, e per questo un po’pericolosi da cacciare. Te l’ho detto qualche tempo fa» gli ricordò Anise «Ma non credo di averti mai raccontato la leggenda del Coniglio Assassino. Devi sapere che un tempo, quando la magia non era ancora morta su questo pianeta, un cacciatore della città di Caerbannomeer -che ora non esiste più- venne maledetto da una strega per aver catturato e ucciso il suo coniglio. La strega lo maledisse, trasformandolo in un coniglio immortale, e rese carnivori e dunque più pericolosi i conigli veri e propri. Stando alla leggenda, il Coniglio Assassino di Caerbannomeer si aggira nella foresta e dintorni da allora, in cerca di sangue di fanciulla… o meglio, si aggirava, perché ormai è andato».
 
«Non puoi pensare che io creda a una stupidaggine del genere» disse Beerus, diffidente.
 
Anise gli rivolse uno sguardo triste. Non le piaceva mentire a Beerus, ma pur di evitare a Champa guai che non meritava avrebbe fatto questo e altro. «Sirel ym, guarda come sono ridotta, non vorrai infierire dandomi della bugiarda?»
 
«No, certo che non voglio infierire» disse subito Beerus, prendendole il viso tra le mani «Però… il Coniglio Assassino? Ma dai!»
 
«La leggenda di Rubedo era vera, perché non dovrebbe esserlo questa, scusa?» intervenne Champa «Ne sono testimone: quel dannato coniglio era grosso così!» esclamò, allargando le braccia più che poteva «Ci ha attaccati in riva al lago cogliendoci di sorpresa!»
 
«Ci ha buttati in acqua e poi si è avventato su di me. Solo che gli è andata male, ha avuto solo il tempo di rovinarmi il vestito, perché Champa gli ha fatto assaggiare l’ira di un Hakaishin e mi ha salvato la vita. Poi siamo venuti qui dentro, e dopo ancora è arrivata Vados, la quale ovviamente ha percepito il Ki di Champa. Ecco com’è andata» concluse Anise.
 
«Non potete pretendere che creda a una cosa del genere, dai! Su! Il Coniglio Assassino di Caerbannomeer!» ripeté Beerus, non ancora persuaso.
 
«Ma ti diciamo che c’era! Se avessimo voluto farci un bagno non l’avremmo fatto con tutti i vestiti addosso, ti pare?» insistette Champa. Non aveva idea di come stesse riuscendo a rimanere serio e a ripetere una simile fola con tanta convinzione, ma forse c’entrava il fatto che non aveva voglia di farsi picchiare per aver permesso che Anise si facesse male. «Se non è stato il Coniglio Assassino di Caerbannomeer, come altro lo spieghi?»
 
“Beerus non sarà così ingenuo da credere a un’idiozia del genere, mi auguro” pensò Whis, il quale ovviamente non credeva a una parola. Non aveva idea di cosa potesse essere successo, ma certamente non c’entrava alcun coniglio, assassino o meno che fosse.
 
«Ma cosa ne so io?! So solo che questo è inverosimile!» ribatté Beerus.
 
«Anche l’esistenza di Rubedo era inverosimile ma, come ha detto Champa, c’era un tesoro con tanto di maledizione e- la torta!» esclamò Anise, battendosi una mano sulla fronte «Siamo venuti qui a cercare fiorellini decorativi da mettere sulla torta e l’abbiamo lasciata in forno!»
 
«C’è una torta in forno?!» esclamò l’Hakaishin del settimo Universo, per il quale il Coniglio Assassino di Caerbannomeer era passato improvvisamente in secondo piano.
 
«Credo sia passata meno di un’ora, non penso si sia bruciata, se corriamo a casa possiamo ancora salvarla!» dichiarò Champa «Se si brucia è tutta colpa del dannato Coniglio Assassino!»
 
«Hai detto che l’hai distrutto? Hai fatto bene! Benissimo!» esclamò il gemello, prendendo in braccio Anise e catapultandosi con lei fuori dall’edificio «Salviamo la torta, presto!»
 
Anise trattenne un sospiro di sollievo: aveva tirato fuori l’argomento giusto al momento giusto, e -fortunatamente per Champa- il suo compagno era un dolcissimo beag miamit, un “piccolo ingenuo”. Non nell’accezione veramente negativa del termine, ovviamente: la lince non avrebbe mai pensato a Beerus in termini spregiativi. «È una torta drakht, una di quelle che ti piace di più».
 
«L’ho fatta io!» aggiunse Champa, affiancandoli.
 
«Ah, allora mi attira già meno» disse Beerus, con una smorfia.
 
«Ha seguito le mie indicazioni alla lettera ed è stato molto bravo. Tu quand’è che proverai a cucinare?» lo punzecchiò Anise, con un sorriso.
 
«Te l’ho già spiegato: io non cucino, io mangio!»
 
Whis, rimasto un po’indietro assieme a Vados, scosse la testa con un sospiro. «E invece sì, ci ha creduto sul serio».
 
«O ha smesso di pensarci a causa della torta. Sia come sia, se la sono cavata».
 
«Non c’è alcun Coniglio Assassino di Caerbannomeer, immagino…»
 
Vados sollevò entrambe le mani. «Lord Champa mi ha detto di non parlare della questione con nessuno, e io non lo farò, però nessuno ti impedisce di dare un’occhiata al passato, fratello. In ogni caso se cerchi qualcosa che metta zizzania tra il tuo Hakaishin e la sua compagna, rinuncia».
 
«Scherzi? Non mi permetterei mai».
 
«WHI-IS! Allora, vieni con noi sì o no?!» gridò Beerus, volato in alto.
 
«Arriviamo, Lord Beerus, arriviamo».
 




Stavolta non ho molto da dire se non che il coniglio assassino di cui si parla è una vaga citazione del Coniglio Assassino di Caerbannog, al quale per quanto ne so dovrebbe essere stato fatto un tributo anche su Minecraft.
A voi i commenti, nel caso ne abbiate (:

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Capitolo 14
*** 14 ***


RMIcap14 Questa volta per varie ragioni ho ritenuto opportuno mettere le note in cima al capitolo.
Allora: avrete sicuramente notato il cambio di rating, che ho deciso di fare giusto per sicurezza. La storia perlopiù non è chissà quanto sanguinosa, ma qui c’è un po’più brutalità del solito, e anche se a me quel che c'è qui sotto non sembra chissà cosa, nel dubbio…
A coloro che leggeranno e che magari avranno voglia di lasciare un commento, chiedo di farmi sapere se a parer loro sia il caso di mettere il tag “violenza” oppure no. Sono molto indecisa!
Sinkarii passa e chiude, buona lettura (:


14









«No».

«No?»

«No! Tu sai benissimo come la penso riguardo certe cose».

Il Trattato tra Città, scricchiolante fin dalla stipulazione, da qualche tempo minacciava di cedere sul serio, almeno tra Ulthmeer e Thandrumeer. Anise era consapevole di questo, perché quando Calida andava a casa sua le parlava di come gli assalti da parte di gruppi delle varie città, ma soprattutto di Thandrumeer, non le sembrassero più imputabili a bande di teste calde, quanto piuttosto tesi a indebolire Ulthmeer per poterla attaccare e conquistare con più facilità.

«Anise, abbiamo perso un intero campo di coltivazioni, e abbiamo colto sul fatto quelli che volevano distruggere le armerie soltanto perché sono riuscita a capire in tempo che l’incendio dei campi era solo un diversivo. Io ho rispettato il Trattato, non ho mai mandato gruppi di persone a sabotare questa o l’altra cosa nella città di chicchessia, ma del capo di Thandrumeer non si può dire lo stesso. Non ho la minima intenzione di far sì che la passi liscia» disse Calida, con decisione «Ma non ho nemmeno un numero di persone sufficiente a fare quel che vorrei. Non posso tentare la conquista o la distruzione della città di Thandrumeer a meno che lasci scoperta la mia, cosa che non voglio fare».

«D’accordo, ammettiamo che Thandrumeer nella sua interezza se la sia cercata» concesse Anise «Vuoi reagire? Fallo, ma io non andrò su altri pianeti a cercare armi per te, e in ogni caso non credo che il mio compagno me lo permetterebbe. Beerus non è tipo da fornire armi aliene a una fazione o all’altra in qualsivoglia conflitto. Popoli che sono troppo impegnati a combattersi tra loro invece di evolversi vengono distrutti, se mai».

«Non capirò mai questa tua contraddizione: disapprovi le nostre guerre, e approvi la distruzione di pianeti interi. Si tratta sempre di gente che muore, non puoi dire che non è così».

«Si tratta sempre di gente che muore, ma per motivi diversi» ribatté Anise «Eppure ricordo di averti spiegato la faccenda del Mortal Level, e cosa succede agli Universi che lo hanno troppo basso. Se volessi usare una metafora, direi che il lavoro di Beerus consiste nel tagliare i rami marci dell’albero in modo che questo possa continuare a vivere! Le guerre tra città invece a cosa servono?»

«Tu ora ragioni a livello universale, ma ti faccio notare che liberarci di Thandrumeer, ossia dell’unica città che abbia veramente compromesso la stabilità del Trattato, servirebbe a riportare la pace. Vedendo Thandrumeer distrutta, Moriameer e le altre non si muoverebbero» disse Calida «Con una città in meno aumenterebbero le risorse per quelle che rimangono e, lasciando viva qualche femmina, entro qualche mese Ulthmeer avrebbe anche dei cittadini in più. I più deboli vengono distrutti perché i più forti possano prosperare. Le guerre tra città, che tu ami così poco, hanno esattamente lo stesso scopo della distruzione apportata dal tuo compagno, ma su scala ridotta. La verità è questa. Che tu voglia per forza vedere delle differenze per mantenere pulita la tua coscienza è un altro discorso».

«Non cercherò armi aliene per te, qualunque cosa tu possa dire».

«Lo avevo già capito» ribatté la Lusan più vecchia «Volevo solo farti notare la completa incoerenza con cui affronti tutta la questione. O beh, vorrà dire che mi limiterò alla rappresaglia che sicuramente il capo di Thandrumeer già si aspetta, e che quella città continuerà a essere una seccatura che rischia di far crollare miseramente un Trattato già malmesso».

«Parli come se Thandrumeer fosse la sola, quando invece mi risulta che anche gruppi di altre città abbiano agito contro la tua. Moriameer, Kahzameer…» iniziò a elencare Anise «A pensarci bene, se le cose continuano così, tu e l’intera Ulthmeer potreste finire abbastanza nei guai».

«Thandrumeer è la più grande e la più forte, è quella che in un certo senso "trascina" le altre. Sono sicura che se dessi una dimostrazione di forza radendola al suolo, il resto non oserebbe più fare una mossa» insistette Calida «Ma non ho i mezzi. Accantonando la mia richiesta di armi aliene, io negli ultimi tempi ho avuto delle idee, tipo dei gunnaichean…»

«Qualche cannone lo hanno tutte le città, Callie, non mi sembra molto innovativo».

«Gunnaichean a retrocarica, con canna rigata» specificò Calida «Se ho ragione io, e sono piuttosto sicura di averne, dei cannoni costruiti in questo modo sarebbero più precisi, i colpi arriverebbero più lontano, potrebbero essere caricati più velocemente, e sarebbero anche più sicuri. Armi del genere potrebbero aiutarmi non poco, in una battaglia contro Thandrumeer! Solo che servirebbe del tempo sia per modificarli, sia per costruirne altri oltre a quelli che possiedo… e per modificare i vecchi, e/o fabbricarne quanti io vorrei, servirebbe una quantità di denaro spropositata. Il bilancio di Ulthmeer è più che in attivo, eppure non basta, non per muovermi in tempi brevi».

Quel discorso servì a far tornare in mente ad Anise una cosa fondamentale, una cosa che ormai giaceva in cantina da ben più di un anno.
Anise non aveva mai chiesto denaro a Beerus per sé o per altri, e intendeva continuare così: non intendeva chiedergli di finanziare Calida, né di fare qualcosa che andava contro la sua etica portandola a cercare armi su altri pianeti.
Il suo compagno sarebbe rimasto completamente fuori da quelle faccende, perché sarebbe stata lei stessa a dare a sua sorella il denaro che serviva.

“Fin dall’inizio avevo in mente di cederle il tesoro di Rubedo come regalo di compleanno, che comunque sarà tra pochi giorni. Nelle occasioni precedenti ho finito per non darglielo, per una ragione o per l’altra, ma posso farlo adesso”.

Lei trovava insensate le guerre tra città, le detestava, il suo pensiero era sempre stato quello e non era cambiato; tuttavia, se si trattava di scegliere tra disinteressarsi completamente della vicenda e lasciare Calida in potenziali guai, la giovane lince sentiva di avere le mani legate.
Se doveva esserci per forza una battaglia, o una guerra, allora voleva che fosse sua sorella a vincere... e, soprattutto, a restare in vita.


«Calida, scendiamo giù in cantina».

Sebbene fosse un po’perplessa, la grande Lusan non fece domande, limitandosi a seguire Anise quando questa aprì la botola e scese al piano di sotto.

Anise schioccò le dita, e nella cantina si accesero due forti luci. Whis, ovviamente su ordine di Beerus, aveva fatto un bel lavoro con l’illuminazione. «Ecco».

«Non ricordavo che questo posto fosse così grande e luminoso, né così pieno di casse. Il tuo compagno e il suo assistente si sono dati da fare» commentò Calida «Cosa vuoi mostrarmi?»

«Il tuo regalo di compleanno anticipato. Prendi una qualunque di quelle casse e aprila».

Calida dubitava che lì dentro potessero esserci le armi aliene non meglio specificate che tanto avrebbero potuto farle comodo, ma si diresse comunque verso le casse: un regalo di compleanno da parte di Anise sarebbe sempre stato gradito, anche se si fosse trattato di un cumulo di sassi.
Quando aprì la cassa però si rese conto che all’interno di essa c’era qualcosa di molto meglio, rispetto ai sassi. «Penserei che tutto questo oro ti sia stato donato dal tuo compagno, se tu non fossi tu. Però tu sei tu, per cui…» si voltò «Da dove viene?»

«Vynumeer».

Sul volto della lince più anziana apparve un’espressione di assoluta incredulità. Tornò a guardare il tesoro, poi ancora Anise, realizzando qual era il significato di quel che le aveva appena detto. «Aspetta: tu mi stai dicendo che questo… insomma, io dovrei credere che questo-»

«Sì! Il tesoro di Rubedo esiste, ed è proprio in quelle casse» confermò Anise «È stato Beerus a trovarlo, in una grotta nascosta nella parte più profonda del lago di Vynumeer, quella che fino a neppure due anni fa aveva accanto il costone roccioso. Arrivare laggiù senza aiuti magici è praticamente impossibile, ed è mimetizzata in modo tale da rendere perfettamente normale il fatto che tu non l’abbia mai trovata, soprattutto perché ti immergevi sempre di tardo pomeriggio, o quando il sole era già calato, o stava per spuntare».

Il tesoro di Rubedo esisteva davvero. Era lì davanti a lei, c’era, poteva vederlo, poteva toccarlo!
Ma non era all’oro che Calida pensava, cercando di non mostrare la quantità abnorme di entusiasmo e di speranza che stava provando. Ora che la Ulthmeer a-ghekavary sapeva che le storie cui aveva sempre creduto non erano una leggenda, perché aveva davanti agli occhi la prova tangibile che era tutto maledettamente vero, aveva in mente una sola e unica cosa: l’antica cassa di metallo che conteneva una corona altrettanto antica e potente.
Se il tesoro esisteva, allora doveva esistere anche la corona di Rubedo, per forza, e con quella corona finalmente avrebbe avuto tutto il potere di cui aveva bisogno. Avrebbe potuto mandare al diavolo ogni trattato e conquistare tutte le città, sarebbe stato tutto suo: non era più un sogno quasi irrealizzabile, era a portata di mano, lo era per davvero!

«Callie… no».

Quelle due parole di Anise per lei furono peggio di una doccia fredda, e la speranza provata in quei pochi attimi si liquefece come una candela di cera. «Cosa significa “no”?»

«Non c’era. C’era l’oro, c’erano degli adamadnery pinc, c’era perfino una maledizione che Vados ha spezzato, ma non c’erano casse di metallo né corone. Io l’ho cercata, Champa l’ha cercata, Vados anche, e se un dio e un angelo non sono riusciti a trovarla allora vuol dire solo una cosa: non c’era. Mi dispiace».

Calida non disse nulla, limitandosi a fissare tutte quelle casse, sicuramente piene d’oro anch’esse.
Per un attimo ebbe voglia di mettersi a urlare, di rompere tutto quel che aveva attorno: com’era possibile che il tesoro esistesse, che fosse perfino maledetto, ma che non avessero trovato la corona?! Assurdo. Impossibile! Non avevano cercato bene, erano stati superficiali! …o, peggio ancora, Anise gliela stava nascondendo.
Forse Anise non voleva darle quel potere, forse non le bastava essere diventata la Iarim Neiē dell’Hakaishin del loro Universo, forse desiderava avere dei poteri tutti suoi e desiderava per sé quella corona, la sua corona!

«Anise…» cominciò a dire, per poi interrompersi.

No: che Anise potesse volere del potere per sé era un’idiozia, un comportamento simile esulava dal suo modo di essere in modo macroscopico. A quella piccola lince non interessava nulla che non potesse fare od ottenere con le proprie mani e le proprie forze, e Calida sapeva che Anise non era contro una possibile tirannia sulle città, se questa avesse fatto cessare i conflitti.
Se avesse trovato quella corona gliel’avrebbe sicuramente ceduta, non doveva avere dubbi. Pensò che forse non l’avevano trovata perché non era precisamente in quella grotta, ma nascosta da qualche parte lì attorno; si ripromise di chiederle ulteriori informazioni in futuro.

«Anise, non ti nascondo di essere un po’dispiaciuta di sapere che purtroppo la leggenda di Rubedo non era completamente vera» disse dunque Calida «Ma ti ringrazio per aver cercato la corona, e… sii seria, vorresti davvero dare a me tutto questo oro?»

«Io me ne faccio ben poco, queste casse impicciano, occupano spazio e basta».

La Lusan beige alzò gli occhi al soffitto, e sospirò. «A volte mi domando se quando parli ti rendi conto di quello che dici. Non ho mai sentito nessuno dire di essere “impicciato” da casse piene d’oro!»

«Calida, io sono seria: volevo darti il tesoro come regalo di compleanno, e a me non serve proprio a nulla. Tu invece hai dei cannoni da costruire» disse Anise «Sai che non capisco la vera ragione dietro l’odio tra città, sai che moralmente non appoggio guerre e battaglie che trovo inutili, ma se proprio devono avere luogo allora è meglio che sia tu a uccidere loro, piuttosto che loro a uccidere te. Non ti do armi, ma denaro: se lo usi per vincere e vivere, mi sta bene».

Per Calida era molto ironico che proprio Anise stesse finanziando una corsa agli armamenti, ancor più ironico del compromesso che aveva trovato per sentirsi a posto con la coscienza, quel “non ti do armi, ma denaro”. In ogni caso, pur rendendosi conto di ciò, non sentiva la voglia di riderci sopra: sapeva che Anise in quel frangente stava andando contro ogni fibra del proprio essere, e faceva questo solo e soltanto perché voleva aiutarla. Non c’era nulla di divertente, soprattutto perché era perfettamente consapevole di non meritarlo. «Immagino quanto ti stia costando dire cose del genere».

«Più o meno quanto dev’essere costato a te venire a chiedermi armi. La situazione è più seria di quel che mi hai lasciato intendere, vero?»

«Falso, però ho intuìto che potrebbe diventarlo. Potrei difendermi bene, ma non voglio limitarmi a questo. Io voglio che capiscano cosa succede a chi infrange il Trattato muovendosi contro la mia città» dichiarò Calida «Se si fosse trattato di qualcosa che riguardava soltanto me non avrei chiesto aiuto, ma io devo fare ciò che è meglio per l’intera Ulthmeer, quindi che si fottano l’orgoglio personale e il “faccio da sola grazie”».

Anise non poté far altro che concordare, e circa dieci minuti più tardi entrambe le Lusan erano di nuovo al piano di sopra sedute su due poltrone, e due casse -più un bel sacchetto di adamadnery- erano pronti per essere portati via. Secondo le stime di Calida il valore di quegli oggetti bastava e avanzava per fare quel che si era prefissata, e in ogni caso era il massimo che potesse portare via con sé da sola e quel giorno stesso.

«Callie, stavo pensando: durante la tua corsa agli armamenti intendi comunque mettere in atto la rappresaglia che il capo di Thandrumeer si aspetta?»

«Per forza. Domani manderò qualcuno a cercare di incendiare due o tre campi, rimanendo più o meno in linea con quel che hanno fatto loro. Con una reazione immediata non penseranno che io stia preparando qualcosa di più grosso, e quando sarà il momento potrò coglierli di sorpresa.
Già…» mormorò Calida «Avere il retro della città protetto dalla montagna può essere un vantaggio, in un assedio».

«Sarà! Io ho sempre pensato che sia stato stupido costruire Thandrumeer alle pendici di una montagna: se un giorno dovesse franare, per loro sarebbe un disastro».

«È vero» annuì Calida, mentre sul suo volto compariva un lento e inquietante sorriso dovuto a un’idea appena sovvenuta «Sarebbe un disastro se i colpi simultanei di almeno dieci cannoni a lunga gittata raggiungessero le pareti rocciose causando una frana spaventosa che distrugga da sola mezza Thandrumeer».

«Cal-»

La grande Lusan scattò in avanti, bloccando la più piccola -che dinanzi a quella mossa imprevista si era irrigidita- col proprio peso. Le accarezzò il viso, poi le diede un bacio sulla fronte. «Non meriterei l’oro che mi hai dato, né ti meriterei come mèinn a -aryun, come “musa di sangue”. Benedetto il giorno in cui ti ho trovata in riva a quel lago».

Anise rimase ferma e in silenzio come un animale la cui prima reazione, dinanzi a un predatore più grosso di lui, è la fissità.

Pochi secondi dopo, Calida non fece altro se non alzarsi tranquillamente in piedi. «Con i preparativi per l’attacco imminente non sono sicura che la prossima settimana riuscirò a passare».

«Io non ci sarò. Oggi Beerus viene a prendermi, e starò via per un paio di settimane, forse qualcosa di più» disse la giovane Lusan.

Se Calida era infastidita da quell’informazione, non lo diede a vedere. «Allora ci rivedremo dopo che Thandrumeer sarà stata distrutta… e già ti anticipo che vorrò sapere ogni dettaglio riguardo il tesoro. A presto, Anise».

Calida se ne andò via con casse e tutto, e Anise rimase sola.
La giovane si rannicchiò sulla poltrona, preda di una generale sensazione di malessere i cui responsabili non erano il denaro regalato e l’uso cui era destinato, né aver dato senza volerlo un’idea a sua sorella; in parte concorrevano, sì, ma non erano la fonte principale.

“Mia sorella mi ha accarezzato il viso e dato un bacio sulla fronte, questo perché era grata per l’oro e per l’idea che le ho dato involontariamente: e quindi?” pensò “In gesti come questi non c’è nulla di male. Quattro anni e mezzo fa è successo quel che è successo, ma da allora lei non ha più fatto nulla di strano o di sbagliato nei miei confronti. Devo farla finita con queste cose, devo smetterla”.

Si costrinse a scendere dalla poltrona, dicendosi che era tempo di calmarsi: Beerus sarebbe arrivato tra meno di un’ora, e Anise voleva che lui la trovasse perfettamente a posto. Non voleva sentirsi fare domande riguardo quel che poteva o non poteva essere successo, non in quell’occasione, anche perché riteneva che non avrebbe potuto rispondere nulla di diverso da “Niente, sono una stupida che reagisce male se sua sorella le dà un bacio sulla fronte”.

Tutti quei giorni di assenza da casa le erano sembrati un po’troppi rispetto alle cose che riteneva di dover fare -per esempio, l’olio non si produceva da solo- ma forse quella sorta di “vacanza” le avrebbe fatto bene.
L’unica cosa di cui in quel momento Anise aveva la certezza era che non vedeva l’ora di gettarsi tra le braccia del suo compagno. Il solo pensiero riuscì persino a farla sorridere.
Alcuni avrebbero potuto ritenere bizzarro il fatto che si sentisse così serena e così al sicuro con un Hakaishin, ma non era così che Anise vedeva la questione. Per lei Beerus non “era” un Hakaishin, per lei era un ragazzo -sempre poco abile nel cercare la frutta- che “faceva” l’Hakaishin: erano due cose diverse.

“Credo che ormai Calida sia a posto. Ha il denaro che le serviva, forse posso evitare di preoccuparmi per lei. Se mai volessi preoccuparmi per qualcuno, dovrei farlo per quelli di Thandrumeer”.





°°°Poco più di due settimane dopo, nottetempo°°°





«Teine!»

All’ordine di Calida, quattordici proiettili vennero sparati simultaneamente da altrettanti cannoni.

«K’avorumy!»

Mentre i suoi uomini ricaricavano i cannoni, come da lei ordinato, la Ulthmeer a-ghekavary osservò con soddisfazione la parabola compiuta dai proiettili, i quali come previsto andarono a schiantarsi brutalmente contro la
friabile parete rocciosa della montagna.
Portare a compimento la costruzione dei nuovi cannoni e la modifica dei vecchi aveva richiesto tempo, denaro ed energie, ma ne era valsa la pena: grazie a quelli avevano potuto colpire la montagna senza avvicinarsi tanto a Thandrumeer, e dunque senza rischiare di essere colpiti a loro volta.
I rumori provenienti dalla cittadina testimoniavano il brusco risveglio degli abitanti, ma era tardi: la frana era già in corso, e a breve sarebbe peggiorata.

«Teine!»

Altri quattordici colpi si abbatterono contro il versante roccioso già parzialmente rotto e indebolito, dando il colpo di grazia.
Calida vide distintamente una quantità indefinita di pezzi di roccia grossi come intere case, se non di più, staccarsi dalla montagna e precipitare in basso, spietati: una condanna a morte fatta di pietra, che non lasciava scampo.


L’intero gruppo di cento linci maschi e femmine della città di Ulthmeer, estasiato dalla devastazione che stava vedendo, una volta finita la frana esultò senza alcun pudore per il successo ottenuto senza fatica.

«Cazzo se questa è stata una grande idea!» applaudì un Lusan dal pelo nero «In pratica abbiamo già vinto!»

«Abbiamo un grosso vantaggio, Recte, ma tu e gli altri ricordate di non cantare vittoria prima di averla ottenuta. Ora dobbiamo abbattere le mura da questo lato, perché immagino che nessuno abbia voglia di entrare a Thandrumeer passando in una breccia creata da una frana appena finita! K’avorumy!» ordinò Calida, e i cannoni vennero immediatamente caricati «Teine!»

I quattordici colpi stavolta abbatterono le mura della parte di città non distrutta dalla frana: era ora di andare.
Non avrebbero avuto bisogno di utilizzare ancora i cannoni, ma Calida lasciò qualcuno dei suoi uomini a sorvegliarli, e fatto ciò partì all’assalto di Thandrumeer alla testa di tutta l’armata.
Aveva fatto costruire più cannoni del previsto, e aveva passato più tempo a studiare la planimetria di Thandrumeer -ottenuta nel tempo tramite torture a diversi disgraziati- di quanto avesse immaginato, ma era stata la scelta giusta: non solo i cannoni avevano creato più danni di quanto le sue previsioni più rosee erano riuscite a concepire, ma oltretutto grazie ai suoi studi sapeva che la frana aveva devastato la parte di città in cui, tra le altre cose, c’erano le armerie.
Diversi Lusan avevano almeno un’arma in casa, ma quelle da fuoco non erano troppo diffuse tra i civili; tra la frana, e il fatto che tutti nella sua armata fossero dotati di armi da fuoco e da taglio, la distruzione di Thandrumeer e il massacro degli abitanti sarebbero dovuti avvenire senza grossi problemi.

Calida e la sua armata attraversarono di corsa ciò che restava delle mura, eccitati dalle grida delle persone spaventate e morenti e dall’odore di sangue che già permeava l’aria. Le urla di guerra dei Lusan di Ulthmeer non riuscivano a coprire il rumore degli edifici che ancora crollavano, né quelle di disperazione degli abitanti di Thandrumeer, ma andavano ad aggiungersi a quella gigantesca e assordante cacofonia.

«Moladh mèinn a -aryun!» urlò Calida, sgozzando rapidamente un Lusan di Thandrumeer che si stava dando alla fuga «MOLADH MÈINN A -ARYUN!»

“Tributo alla musa di sangue”: quello era il significato delle sue parole, perché dedicava il massacro ad Anise, la sua “musa di sangue”, colei che -volendo o meno- le aveva ispirato l’idea della frana, che aveva portato tanta devastazione.

“Promemoria per me: per fare quel che voglio fare dopo, devono restarne in vita almeno cinquantadue” pensò la Lusan, afferrando il braccio di una lince fulva di mezza età che aveva tentato di colpirla con un pugnale. «Se sopravvivi al colpo, tu sarai la prima dei cinquantadue» sentenziò, mentre strappava di mano il pugnale all’altra conficcandoglielo alla base della schiena.

Calida lasciò cadere l’avversaria e, ora affiancata da due dei suoi soldati, continuò la sua corsa omicida. Anche il resto della sua piccola armata stava imperversando in ogni via della città che non era stata distrutta dalla frana, senza risparmiare nessuno: che fossero uomini e donne, bambini o bambine, anziani o anziane, tutti quanti dovevano essere uccisi… o essere resi incapaci di nuocere per essere “utilizzati” in seguito.

«Hogevor Calida! Dietro di lei!»

L’avvertimento del compagno d’arme fece sì che Calida si scansasse appena in tempo per evitare un colpo di fucile da parte di un Lusan che, seppur visibilmente spaventato, aveva voluto comunque tentare un attacco.
La Ulthmeer a-ghekavary riuscì a scansare un altro proiettile, e una volta raggiunto il ragazzo non ebbe difficoltà a togliergli di mano il fucile. «Se tu fossi nato a Ulthmeer saresti stato uno dei miei- ah, carino» commentò, afferrando e fratturando il polso a una lince dai tratti pressoché identici a quelli del maschio «Bella strategia di riserva, se tu non fossi riuscito a uccidermi mi avresti distratto per permettere a tua sorella di pugnalarmi. È quasi un peccato dovervi uccidere» disse, afferrando per la nuca entrambi i fratelli e sollevandoli «Quasi».

Il rumore sordo dei due crani che si scontravano e si fracassavano uno contro l’altro risultò abbastanza piacevole alle sue orecchie e, lasciati cadere a terra i corpi dei due gemelli, tornò a occuparsi della propria armata e del resto degli abitanti della città.

Il massacro andò avanti per diverso tempo, tanto che quando Calida trovò un momento per alzare gli occhi al cielo notò che iniziava ad albeggiare.


“È proprio vero che il tempo vola, quando ci si diverte” pensò. Avvistò Recte, il Lusan nero cui aveva detto che non era una buona idea cantare vittoria troppo presto, e si avvicinò. «Come va qui?»

«Hogevor Calida, giusto la cercavo. Ho saputo che il Thandrumeer a-ghekavary è riuscito a scappare dalla città con tutta la sua famiglia» la informò il Lusan «Moglie, fratelli, figli, nipoti… ventisette o ventotto persone in tutto. Quelli che abbiamo catturato hanno parlato di una miniera esaurita, con due ingressi uno vicino dall’altro».

«Ho presente: ce ne è solo una, quella accanto al fiume. Sei stato abile a procurarti queste informazioni, ti sei guadagnato due adamadnery pinc. Hm… a giudicare da quel che vedo e che sento, sembra siamo a buon punto» osservò Calida.

«Confermo. Poco fa gli altri stavano iniziando a radunare i sopravvissuti di questa città, e la maggior parte di questi, seppure ancora vivi, sono stati resi innocui. I cinquantadue da lei richiesti ci sono già tutti».

«Più alcune femmine in età da riproduzione, immagino… bene» disse, vedendo Recte annuire «Pensi di riuscire a gestire la situazione con qualche soldato in meno?»

«Sissignora. Vuole andare a prendere il Thandrumeer a-ghekavary nella miniera?»

«Voglio occuparmi di lui e relativa famiglia» confermò la Lusan «Ma non scenderemo nella miniera, sarebbe folle. Ho tutt’altra idea… e il quindicesimo uomo lasciato di guardia ai cannoni aveva degli esplosivi. Ascolta, una volta finito qui manda qualcuno a Ulthmeer a dare l’ordine di issare i cinquantadue agaibh» ossia croci a forma di “T” «
Che ho fatto preparare. Di certo ricorderai che vanno messi lungo la via che va da qui alla nostra città, ma lo ripeto lo stesso. Tutto chiaro?»

Recte stava per confermare ma la vista di un Lusan armato di spada, sbucato da un edificio semi distrutto, lo spinse a emettere solo un grido di avvertimento che tuttavia giunse troppo tardi.
Calida riuscì a muoversi abbastanza in fretta da evitare di farsi trafiggere la schiena, all’altezza del cuore, ma la lama si infilò dritta nella sua spalla destra.


«Questa è una seccatura» commentò la lince, senza scomporsi, e l’impagabile espressione terrorizzata del Lusan nel non vederla soffrire il dolore, nonché quella piuttosto stupita di Recte, la fecero sorridere. «Eppure tu, che sei uno dei miei soldati, dovresti sapere che io non provo dolore».

«Lo sapevo» disse Recte, dopo una breve esitazione «Ma vederlo è diverso».

Calida estrasse la spada dalla propria spalla e, come se nulla fosse, decapitò il Lusan di Thandrumeer che l’aveva ferita. «Capisco. Orbene, io vado a radunare i soldati di cui ho parlato, e tu sai già quali sono i miei ordini».

«Verranno eseguiti. Le… insomma, le serve aiuto? La ferita sta sanguinando».

«Sto bene. Ci rivedremo presto».

Nell’allontanarsi, Calida pulì sommariamente il taglio l’acqua di una borraccia che aveva con sé, mise sulla -e nella- ferita un composto di erbe che l’avrebbe protetta da infezioni, e fasciò il tutto con una lunga benda che aveva in tasca.
Non soffrire il dolore non la rendeva invulnerabile, dunque sapeva di dover essere previdente.


Radunò dieci soldati e uscì dalla città insieme a essi. Non credeva che il capo della distrutta Thandrumeer e relativa famiglia avessero a disposizione chissà quali armi, né che avrebbero provato a combattere, ma nel dubbio era meglio portare diversi soldati con sé.
Affiancata dagli altri, raggiunse rapidamente gli uomini che aveva lasciato a guardia dei cannoni. «Dobbiamo portare gli esplosivi alla miniera esaurita di Thandrumeer, si trova vicino al fiume. La miniera ha due ingressi, e al suo interno sono nascosti il Thandrumeer a-ghekavary e relativa famiglia. Noi faremo sì che restino lì in eterno».

Nessuno ebbe da obiettare, e ben presto l’intero drappello -Calida, i dieci soldati, più altri quattro scelti tra quelli rimasti di guardia durante l’assalto- raggiunse la miniera. Tutti quanti poterono notare fin da subito molteplici impronte piuttosto fresche, segno evidente che coloro che cercavano si trovavano veramente sul posto.

«Attendiamo ordini, Hogevor Calida» disse una soldatessa.

«Come potete vedere, l’ingresso principale e quello secondario della miniera sono decisamente vicini tra loro, e la miniera e il fiume non sono distanti. Piazzeremo degli esplosivi che romperanno l’argine del fiume e creeranno un percorso per l’acqua che vada da lì ai due ingressi» disse Calida «Ingressi che poi faremo crollare. Credetemi se vi dico che l’acqua riuscirà ugualmente a scorrere tra i detriti e scendere giù nelle gallerie. Sono scappati via come dei codardi topi di fogna, dunque la loro morte dev’essere adeguata: se non sarà per fame o per mancanza d’aria, sarà per annegamento».

Calida stessa era sempre stata brava con gli esplosivi, dunque non restò a guardare né quando li piazzarono né quando li fecero brillare, facendo in modo che le esplosioni creassero uno scavo particolarmente profondo proprio davanti ai due ingressi, e l’acqua del fiume, ben felice di poter imboccare una via diversa dalla solita, deviò immediatamente lungo il percorso che era stato creato appositamente per lei.

«Ben fatto, ora state pronti a lanciare l’esplosivo che farà crollare la volta dei tunnel. Preparatevi ad accendere le micce e -oh, ma guarda un po’ chi si vede. Caro Ger, buongiorno e addio» sorrise Calida nell’avvistare il capo di Thandrumeer -presumibilmente salito a vedere cosa stava succedendo- in fondo al tunnel. Si voltò verso i soldati. «Accendete e tirate».

Nessuno capì quali furono le ultime parole del capo di Thandrumeer prima che gli esplosivi venissero lanciati all’interno degli ingressi, facendoli collassare su se stessi, ma del resto a nessuno importava delle parole di un morto che camminava.

Avvistati dei vecchi attrezzi da lavoro poco distanti dalla miniera, venne presa la decisione di alzare e rinforzare gli argini del canale appena creato. Dall’interno dei tunnel ormai chiusi si sentivano provenire delle grida, ma nessun soldato ne fu impietosito, e da un certo momento in poi il livello del canale non superò più i nuovi argini creati, segno che stava riuscendo davvero a fluire tra le macerie.

Nel tornare a quel che restava della città di Thandrumeer, Calida poté verificare che gli ordini impartiti erano in esecuzione: lungo l’antica via da Thandrumeer a Ulthmeer riusciva già a scorgere sette agaibh -collegati da cinque corde- ai quali erano già stati inchiodati sette sopravvissuti della città distrutta.

Devastare Thandrumeer non era bastato, condannarne il capo e relativa famiglia a una brutta morte non era stato sufficiente: i cinquantadue che Calida aveva voluto risparmiare sarebbero stati crocifissi lungo tutta la strada.

Sarebbe stata un’ ulteriore dimostrazione di forza, o di una crudeltà abissale: due cose che spesso per gli abitanti di quella florida valle andavano a braccetto.

“Recte si è dato un gran da fare. Potrei assegnargli una casa più grande” pensò la lince.

«Hogevor Calida, lieto del suo ritorno. Ho eseguito gli ordini, e mi sono anche permesso di portare avanti il lavoro» fu la prima cosa che disse il Lusan nero quando la vide.

«Ho notato. Hai fatto bene, sai che non amo perdere tempo. Comunque, sappi che le informazioni che avevi carpito erano corrette, e ora il Thandrumeer a-ghekavary e la sua famiglia sono un ricordo».

«Se non fossi stato piuttosto sicuro della loro veridicità non gliele avrei riferite» asserì il Lusan «Non mi sarei mai perdonato una missione fallimentare».

«Un’ultima cosa: dal momento che siamo già passati alle crocifissioni desumo che anche il resto dei sopravvissuti, anzi, delle sopravvissute, siano state portate in città».

«Sissignora: ventuno donne, tutte tra i quindici e i venticinque anni. Tra qualche mese Ulthmeer avrà vari cittadini in più!»

Calida annuì. «Avremmo potuto permettercelo già in precedenza, ma ora che campi e miniere di Thandrumeer sono nostri abbiamo una quantità di risorse ancora maggiore, e sarà tutto più semplice. Bene, a questo punto direi che non rimanga altro da fare se non saccheggiare gli edifici ancora in piedi» disse a voce particolarmente alta, facendosi così sentire anche da altri suoi soldati «Prendete tutto quello che vi piace, ve lo siete meritato!»

Esultando, i soldati corsero a trasmettere l’ordine al resto del gruppo: se c’era una cosa che amavano fare quanto di massacrare, era saccheggiare.

«Prima che tu vada, Recte: quante perdite abbiamo avuto?» domandò Calida.

«Sei. Non so quale sia la sua opinione ma, se posso permettermi di dire la mia, è un numero più che accettabile. Eravamo meno di cento persone contro una delle cittadine più grandi della valle. Ci sono ottime probabilità che scrivano una canzone su questa cosa!»

«Concordo».

«Hogevor Calida, mi permette una domanda?»

«Parla».

Il Lusan indicò le croci in lontananza. «Perché ha voluto che gli agaibh fossero legati uno all’altro con delle corde?»

Calida sorrise. «Lo ho voluto perché, quando calerà il sole, illumineremo tutta la via».

«Onestamente non credo di comprendere».

«Non preoccuparti, Recte, questa sera capirai tutto alla perfezione».

Il soldato si allontanò, e un pensiero colse Calida in quell’attimo di distensione: si era appena resa conto di non aver avuto alcuna allucinazione riguardante Anise, e di aver visto i volti di coloro che stava effettivamente uccidendo, invece del suo.

“Forse mi serviva solo un bagno di sangue” pensò “Ad averlo saputo prima…”





***





«Suvvia, un po’ di contegno! Siamo quasi arrivati sul pianeta dei Lusan, una volta che sarete in casa e in camera da letto potrete dare sfogo a tutti i vostri impulsi da diciannovenni -anzi, nel caso di Lady Anise quasi ventenni… abbiate un po’di pazienza».

«Per l’amor del cielo, parli come se io e Anise stessimo facendo cose qui sul posto!» sbottò Lord Beerus, alzando gli occhi al cielo «Siamo vestiti, non ci stiamo toccando in posti ambigui, lei è in braccio a me e io ti sto dando le spalle aggrappandomi al tuo braccio solo con la coda, quindi non vedi niente di niente… non vedo come possa infastidirti, a meno che tu abbia degli occhi invisibili dietro la testa!»

«Il che, trattandosi di un angelo, non è poi così improbabile» aggiunse Anise.

Quelli trascorsi assieme a Beerus erano stati dei bei giorni, che le avevano giovato esattamente come aveva pensato. Si era sentita serena, felice di poter stare insieme al suo compagno, di poter addormentarsi e svegliarsi tra le sue braccia per tutti quei giorni di fila. Se fosse stata il tipo di persona che si lasciava guidare solo e soltanto dai sentimenti, se avesse preso in considerazione soltanto la loro relazione, avrebbe potuto tranquillamente desiderare un’eternità così.
Peccato che invece non fosse quel tipo di persona, e che i dubbi che aveva sempre avuto su quella questione continuassero ogni tanto a fare capolino.

“Con il tempo passeranno del tutto, e io non devo scegliere adesso” pensò, tranquillizzandosi.

«No, non ho gli occhi dietro la testa, e non posso vedere quello che fate o non fate. Per fortuna» disse l’angelo.

«Di tutti i maestri che potevano capitarmi, proprio un censore moralizzatore» borbottò Beerus.

«Un censore moralizzatore che ti portava a prostitute... massima coerenza» commentò Anise.

Whis sollevò un sopracciglio sottile. «Proprio lei viene a parlarmi di coerenza?»

«Te l’ho già spiegato: per quanto io odi quelle stupide guerre tra città, non sono il tipo di persona che si rifiuta di dare una mano a una persona cara» ribatté Anise «Non vi avrei mai chiesto di aiutarmi a cercare armi, so che a Beerus non piace essere coinvolto in cose simili e dunque non l’ho messo in mezzo, ma io ero già intenzionata a dare il tesoro a mia sorella, dunque l’ho fatto! Se poi lo ha usato, ed è riuscita a togliere di mezzo una città problematica che minacciava la stabilità del Trattato, meglio così».

Whis aveva tirato fuori quella questione quasi in maniera casuale circa cinque giorni dopo la partenza, evidentemente dopo essersi intrattenuto facendosi un po’di affari altrui.
Anise non sapeva se l’avesse fatto “perché sì” o in un tentativo di minare la sua relazione con Beerus, del resto lei e Whis continuavano a non piacersi, ma all’angelo era andata male: Anise aveva già detto a Beerus di aver dato il tesoro a Calida -e perché lo aveva fatto- durante la prima occasione in cui erano rimasti soli.


«Io per Champa non lo avrei fatto» disse Beerus «Anzi, probabilmente avrei finanziato gli avversari! Però se le azioni di una singola città rischiano di rompere una tregua già traballante, allora forse occuparsene non è un'idea campata per aria…»

Beerus era sincero, pensava davvero quel che stava dicendo, ma ciò non significava che ne fosse contento. Non gli piaceva l’idea che Anise fosse coinvolta in certe cose, anche solo “marginalmente”: non trovava giusto che lei andasse contro i propri valori per aiutare Calida in una guerra che non approvava.
Vero, Calida non l’aveva costretta ad accettare puntandole un fucile alla nuca, ma conoscendo Anise doveva aver immaginato che non sarebbe rimasta sorda alle sue richieste, e dal punto di vista di Beerus era pressoché la stessa cosa.

L’Hakaishin poteva capire cos’aveva spinto la sua “quasi cognata” a cercare l’aiuto di qualcuno che aveva stretti contatti con una divinità come lui, poteva quasi arrivare a dire che non provarci sarebbe stato da sciocchi, ma non gli piaceva ugualmente.
Non conosceva granché Calida, ma dopo quell’ultimo fatto riteneva di aver visto abbastanza da poter concludere che la sua compagnia non fosse buona per Anise, e lo aveva perfino detto a quest’ultima.
Risultato: aveva capito che Anise, se c’era di mezzo Calida, diventava sorda e cieca, nonché pronta a trovare almeno una giustificazione alle sue azioni. Un altro buon motivo per cercare di allontanarle, a suo parere.

Neppure un minuto dopo giunsero sul pianeta dei Lusan. La casa di Anise era nascosta dalle fitte chiome degli alberi sotto di loro, dunque sarebbero potuti atterrare, ma qualcosa portato dal vento attirò la loro attenzione.

«Odore di carne bruciata» sentenziò Beerus, con aria seria, annusando l’aria «E non mi sembra quella di un buon arrosto».

Whis arricciò il naso. «Direi proprio di no… a meno che i Lusan che abitano la valle siano diventati cannibali».

«Ulthmeer o Thandrumeer, questo è il dilemma» mormorò Anise.

«Vuoi andare a vedere?» le chiese Beerus, dopo qualche attimo di silenzio.

La giovane lince esitò non poco, ma infine il desiderio di sapere com’era andata, e dunque avere la conferma che sua sorella fosse ancora viva, la spinse ad annuire.

«Whis, andiamo» ordinò Beerus.

Meno di un attimo dopo il trio si trovò a osservare dall’altro la città di Ulthmeer… nonché le cinquantadue croci a forma di “T”, che grazie alle corde che le collegavano -e a un qualche liquido infiammabile- stavano prendendo fuoco una dopo l’altra, illuminando progressivamente la via.

Beerus aveva diciannove anni, e il suo compito di Hakaishin lo aveva portato in zone di guerra o su pianeti più o meno disastrati, ma era la prima volta in assoluto che assisteva a un esempio di crudeltà di tale livello. La crocifissione era dolorosissima, ma morire bruciati dopo essere stati crocifissi era molto peggio, e le urla di quei poveri disgraziati lo testimoniavano.

Man mano che le croci continuavano a prendere fuoco, alle loro grida di dolore e di paura se ne aggiunsero altre, ma erano grida di esultanza: quelle degli abitanti di Ulthmeer, che si beavano della propria barbarie, e che a un certo punto, quando il fuoco raggiunse l’ultimo Lusan crocifisso, iniziarono a urlare tutti la stessa parola.
Anzi, lo stesso nome.

“CALIDA!... CALIDA!... CALIDA!...”

«Pare che mia sorella abbia vinto» disse Anise, atona.

«Non ha voglia di scendere a congratularsi con lei, Lady Anise?» le chiese Whis.

All’apparenza non c’era traccia di sarcasmo nella sua voce, eppure entrambi i ragazzi riuscirono a coglierne la presenza nascosta. Beerus lanciò un’occhiataccia al suo attendente. «Non dire un’altra parola e portaci subito a casa».

«Come desidera, signore».

Nella mente di Lord Beerus si affacciarono due pensieri, uno di fila all’altro: il primo fu “se non avessi visto con i miei occhi che il resto del pianeta è in pace, lo distruggerei seduta stante”; il secondo invece fu “devo portare Anise via di qui, al più presto”.





Originariamente non era mia intenzione scrivere delle note anche in fondo al capitolo, ma ho trovato una valida ragione :)
Ringrazio molto l'autrice del disegno di Anse! È una persona davvero deliziosa, e brava con il disegno tradizionale. Vi linko la sua pagina Facebook,
>>> CaciottaPower <<<

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...
Invece il disegno qui sotto è mio, finito un po' in ritardo rispetto al capitolo, ma meglio tardi che mai.
Come potete notare, non è nulla di che.


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Capitolo 15
*** 15 ***


RMIcap16
15
 
 
 

 
 
 
 
 
 
«Ferma con la testa, mi raccomando».
 
«Più ferma di così si muore, Callie».
 
«Lo dicevi anche da piccola, poi però ti muovevi sempre, perché il tuo sguardo veniva attirato dall’una o l’altra cosa. Eri una piccola lince curiosa già a quei tempi».
 
Le mani della Lusan più vecchia stavano creando un’acconciatura di trecce piuttosto elaborata con i capelli di Anise, la quale una volta tanto si sentiva davvero a proprio agio con sua sorella.
Da quando Anise riusciva a ricordare i propri compleanni, non c’era stata una singola volta in cui Calida avesse mancato di intrecciarle i capelli in quel modo. Era una piccola tradizione, un gesto che riusciva a riportarla all’infanzia, ai tempi in cui Calida era per lei il punto di riferimento, capace di diventare alquanto violenta con altri ma, a modo proprio, sempre abbastanza “amorevole” con lei.
In quegli anni Calida era la sola e unica persona della quale Anise si fidasse, l’unica di cui fosse disposta ad ascoltare l’opinione, la figura che per lei era più importante di chiunque altro, che le aveva insegnato tante cose -incluso il modo in cui usare un fucile.
Anise era fiera della propria indipendenza, ma dimenticare che era stata sua sorella a insegnarle tutto ciò che serviva per averla e per mantenerla sarebbe stato da ingrati, e lei non era un’ingrata. Avrebbe potuto sopportare di essere apostrofata con qualunque epiteto, ma non “ingrata” o, peggio ancora, “sleale”.
Riconosceva tanti difetti a Calida, c’erano diversi aspetti di lei che le piacevano poco e probabilmente, per quanto potesse aver deciso di “passarci sopra”, non sarebbe mai riuscita a dimenticare quel che era successo tra loro due ormai quasi cinque anni prima… ma sentiva di doverle molto, ed era sempre sua sorella.
 
«Anche ora che ho venti anni sono sempre una lince curiosa».
 
«Una curiosità però ce l’ho anche io, Anise: c’è una ragione particolare per cui anche quest’anno, come quello passato, il tuo compagno e relativo fratello accettano di festeggiare il tuo compleanno su questo “pianeta di barbari”?»
 
Anise alzò gli occhi al soffitto. «Calida, cosa pretendevi che dicesse Beerus dopo aver visto cinquantadue Lusan crocifissi e bruciati?»
 
«Se non riesco a capire i motivi e i contesti che portano a determinate azioni, personalmente non ne parlo affatto» ribatté l’altra «Se poi un pischello Hakaishin -ripeto: Hakaishin!- viene qui e ci chiama barbari perché abbiamo ucciso delle persone, come minimo mi viene da ridere».
 
«Beerus ha una mentalità diversa dalla tua».
 
«Dalla nostra» la corresse Calida «Non comprendi i motivi dietro le guerre tra città, ma sai che qui funziona così: più si dimostra di essere sanguinari, meno rischi si corrono di veder presa di mira la propria città -e i rischi ci sono sempre, per ognuna di esse. Sebbene non ti piacciano certe cose, tu le capisci. Il tuo compagno invece uccide miliardi di persone alla volta, e quando glielo si fa notare risponde “Eh, ma io non le crocifiggo per poi dar loro fuoco!”… facile parlare quando si ha tanto potere da distruggere un pianeta con uno schiocco di dita e non si devono dare dimostrazioni di forza ad altri capi che non vedono l’ora di farti la pelle, nonché farsi la pelle a vicenda».
 
«O di sposarti» aggiunse Anise «Come quello di Kahzameer. Dovrebbe avere solo un anno più di te, se non erro».
 
La brutalità mostrata da Calida nel radere al suolo Thandrumeer aveva non soltanto portato le altre città ad acquietarsi, ma anche un paio di proposte di matrimonio dai capi di alcune di esse, a ulteriore dimostrazione del fatto che nel tipo di società in cui vivevano i Lusan della valle c’era più di qualche problema di fondo.
 
«Peccato che la sottoscritta non sia interessata a sposarsi, per quanto attraente possa essere colui che chiede la mia mano» replicò Calida «C’è stato un tempo in cui non mi sarebbe dispiaciuto avere dei figli grossi e robusti, ma è passato. Non escludo che in un altro momento possa tornare a pensarci, ma non adesso».
 
«L’importante è che non torni a pensarci dopo i cinquant’anni, perché a quel punto sarà troppo tardi. Io sono avvantaggiata: non potendo avere figli a prescindere, non ho -né avrò mai- modo di rimpiangere di non averne fatti a causa della carriera» disse Anise, senza traccia di malinconia nella voce.
 
«Questa tua incapacità di avere figli mi ha sempre lasciata un po’perplessa, perché sì, il tuo ciclo si presenta una volta al mille, ma si presenta. Questo in teoria dovrebbe indicare che non sei del tutto sterile… ma sai cosa? Considerando il soggetto con cui ti sei accompagnata, è meglio così» commentò Calida, accingendosi a lavorare all’ultima treccia «Il tuo Hakaishin avrà tutti i pregi che ti pare, ma ragiona come il ragazzino che è. Un ragazzino egocentrico, per la precisione».
 
«Come puoi dirlo? Vi conoscete a malapena!»
 
«Dunque non è egocentrico?»
 
Anise esitò un po’prima di rispondere, riflettendo seriamente sulla domanda. «Non al punto da risultare fastidioso o problematico, e mi tiene molto in considerazione, come io faccio con lui e com’è giusto che sia».
 
«Finché si è un coppia si dà considerazione prevalentemente l’uno all’altra, ma con dei figli cambierebbe tutto. Hai visto cos’è successo a diverse coppie nella nostra città: nato un figlio, ecco che uno dei due genitori si è dedicato ad esso per la maggior parte del tempo -si sa, i neonati richiedono molte cure- ed ecco che l’altro si è sentito trascurato, andando a cercare attenzioni altrove».
 
«Non mi risulta sia andata così per tutte le coppie che hanno avuto figli» ribatté Anise.
 
«Hai perfettamente ragione» annuì Calida «Infatti le cose sono andate a finire così solo nelle coppie in cui uno dei due era più egocentrico e meno maturo dell’altro. Le parole che ti sto per dire non ti serviranno mai, però ascoltale lo stesso: in base a quel che tu e io abbiamo visto succedere direi di poter concludere che sì, in una relazione sana ed equilibrata i figli possono essere un collante… ma se la relazione non va più che bene, e non si è entrambi “adulti” a livello mentale, i figli diventano un acido».
 
«Terrò a mente il consiglio» disse Anise «Anche se per l’appunto parliamo di questioni molto campate per aria».
 
«Mi è anche venuta in mente una cosa: dal momento che la maledizione che gravava sul tesoro di Rubedo provocava sterilità, forse è la causa dei tuoi problemi. Il tesoro era lì, accanto al lago, e tu hai fatto il bagno in quelle acque fin dalla più tenera età ancor più spesso di quanto l’abbia fatto io. Non sei mai venuta direttamente a contatto col tesoro, e dunque con la maledizione, ma non mi sembra strano che tu possa averne subìto l’influenza» ipotizzò, finendo di fare la treccia «Acconciatura fatta».
 
«Grazie. Comunque credo che l’ipotesi non sia così improbabile» concesse Anise «Potrebbe veramente essere dovuto a quello, e se fosse così allora lo sarebbe anche il resto. Intendo… a volte è come se Vynumeer ci chiamasse, no? Ho sempre pensato che fosse un’impressione, ma forse non lo era affatto».
 
Calida capiva fin troppo bene cosa intendeva dire sua sorella. Negli anni passati era riuscita a mettere da parte il desiderio di tornare in quel posto grazie agli impegni da Ulthmeer- a ghekavary, e anche ad “adeguare” il proprio pensiero su Vynumeer a quello del resto degli abitanti della città, ma la parte di lei che aveva continuato a credere alle leggende non le aveva mai permesso di dimenticare completamente quel posto… e dopo aver scoperto che il tesoro di Rubedo era reale, aveva persino iniziato a sognare Vynumeer durante la notte.
Il villaggio maledetto e il lago avevano sempre esercitato uno strano fascino su tutt’e due: entrambe per varie ragioni erano legate a quel luogo, ed entrambe ne avvertivano il richiamo. «È un dubbio legittimo, Anise. Da quando ho saputo del tesoro lo sento anch’io» confessò la Lusan beige «O meglio, ho ricominciato a sentirlo più forte di prima».
 
«Forse avrei dovuto rifiutarmi di disegnare per te la mappa della grotta e del percorso per arrivare a essa…»
 
«No, in un certo senso quella mappa mi aiuta a ricordarmi che andare laggiù a cercare qualcosa che a tuo dire non c’è sarebbe un’impresa pressoché impossibile quanto priva di senso. Non hai trovato quella corona, quindi non c’è. Purtroppo è una cosa molto semplice da capire» sospirò Calida «Ma torniamo al discorso principale, perché ci siamo perse per strada: come mai festeggi il tuo compleanno qui, quando il tuo compagno potrebbe portarti ovunque nell’Universo?»
 
«Beerus avrebbe voluto che festeggiassimo da lui, Champa invece ha proposto una festa in spiaggia a casa propria» iniziò a spiegare Anise «Non riuscendo a mettersi d’accordo si sono messi a litigare sul serio, rischiando di distruggere il pianeta, e io alla fine ho detto “Festeggeremo qui e BASTA, e questa sera niente torta per nessuno dei quattro”».
 
«Quattro?»
 
«I due Hakaishin litigavano, ma i due angeli non sembravano aver voglia di muoversi per fermarli subito, quindi neppure loro meritavano la torta. Logico, no?»
 
«Sì, per quanto possa essere logico riuscire a “imporsi” su essersi superiori semplicemente privandoli di una torta. Meglio così, ovviamente» disse Calida, facendo spallucce «Ti sarà utile anche in futuro».
 
«Sì, soprattutto se diventerò la sua Neiē».
 
Parlare di barbarie, bambini e maledizioni non era stato sufficiente a cambiare l’atmosfera, ma questa mutò del tutto appena Anise finì di pronunciare quella frase.
Nessuna delle due fece alcunché di strano o meno, ci fu solo un cambio d’espressione sui volti di entrambe, seguito da una breve pausa di silenzio.
 
La Lusan più vecchia si sedette. «La Neiē è legata all’Hakaishin da un giuramento eternamente vincolante che crea un life-link, se non sbaglio».
 
«Non sbagli».
 
«Lord Beerus ti ha parlato della possibilità di prestare questo giuramento?»
 
Anise annuì. «Ne parlava anche prima, ma non spessissimo, e non aveva mai parlato di farlo in tempi brevi. Era sempre “un giorno”, “prima o poi”, “presto o tardi”, “tra qualche anno”… ultimamente invece non solo ne parla due giorni sì e uno no, ma lo fa come se intendesse chiedermi di diventare la sua Neiē da un giorno all’altro. A volte penso che se non lo ha già fatto è solo perché Whis cerca di dissuaderlo».
 
«Cerca di dissuaderlo come farebbe qualunque persona di retto senso! Prestare quel giuramento sarebbe una completa follia, cosa succederebbe se poi uno di vuoi due si stufasse, o se le cose dovessero iniziare ad andare male per qualunque motivo?! Questa sua fretta di mettere la propria vita in balìa di un sentimento è proprio la dimostrazione che ragiona come un ragazzino sciocco, nonché la cosa più stupida che chicchessia potrebbe fare, e comunque siete troppo giovani!»
 
Lo sguardo della giovane lince divenne più freddo. «Per questo sono troppo giovane, per sposare Meskal a quindici anni invece non lo ero, mi pare logic-»
 
«Il matrimonio con Meskal non creava un life-link, al contrario di questo stramaledetto giuramento!» la interruppe Calida, alzandosi di nuovo in piedi «E Meskal non era un Hakaishin, ma un povero stronzo al quale ho minacciato di strappare gli occhi se avesse osato tradirti, alzare anche solo un dito su di te o recarti dolore in qualsiasi maniera! Credi che le cose tra voi sarebbero andate allo stesso modo, se non fosse stato per quel mio avvertimento? Ti rispondo io: NO! Meskal era quello che era, però era il capo di Ulthmeer, quello con lui era un matrimonio conveniente, e io potevo tenerlo a bada. È riuscito a cogliermi impreparata solo all’ultimo, ma l’ha pagata molto cara… rimpiango solo che altri Lusan di chissà quale città siano arrivati prima di me» disse, cercando di sembrare naturale una volta resasi conto di aver praticamente confessato l’omicidio.
 
«È bello venire a conoscenza di certe cose proprio nel giorno del mio ventesimo compleanno, davvero una meraviglia» mormorò Anise, cupa.
 
Calida sollevò un sopracciglio. «Vorresti dirmi che non avevi intuito la mia ingerenza nel tuo matrimonio? Non ci credo minimamente. Non ti ho cresciuta come una stupida, anche tu sapevi abbastanza bene com’era fatto Meskal, e sapevi anche come sono fatta io».
 
Anise doveva ammetterlo, la sua risposta onesta a “Vorresti dirmi che non avevi intuito la mia ingerenza nel tuo matrimonio?” sarebbe stata un “Sì, lo avevo intuito”; i racconti di Calida riguardanti Meskal le avevano dipinto un certo tipo di persona, che però non si era mai mostrata nel corso del matrimonio, e ora conosceva precisamente il motivo. «Lo sapevo, al punto che a volte mi è venuto in mente che possa essere stata tu a uccidere Meskal».
 
Le parole erano uscite dalla sua bocca prima che riuscisse a ponderarle, forse perché in quel momento di confessioni il bisogno di tirare fuori quel dubbio legittimo era riuscito a prevalere su tutto il resto.
 
«La voglia di tener fede al mio avvertimento e ucciderlo per averti ripudiata c’era, te l’assicuro» disse Calida, riuscendo a incassare tranquillamente il “colpo” «Mi piacerebbe poter dire di essere la persona che gli ha spappolato il cranio, sarebbe stato il minimo, ma purtroppo non ho avuto quella soddisfazione… per non parlare del fatto che uccidendolo senza assumermene la responsabilità avrei rischiato di crearti problemi con il resto dei cittadini».
 
«Quelli che poi ho avuto ugualmente, e di cui in realtà gli assassini di Meskal non sono colpevoli. La vera colpevole del tentativo di linciaggio che ho subìto è della mamma degli idioti, che è sempre incinta e ha popolato l’intera Ulthmeer con i propri figli».
 
«Dunque mi credi quando ti dico di non averlo ucciso?»
 
Anise fece spallucce. «Ti credo. Non ho molte alternative».
 
«Bene» concluse Calida «Prima che io me ne vada, Anise, torniamo un attimo al discorso principale: se il tuo compagno dovesse uscirsene di nuovo con quella stupida idea, tu non accettare. Lui avrà fretta ma, come ho detto in precedenza, io non ti ho cresciuta come una stupida, dunque tu cerca di temporeggiare. Se proprio avrai tanta voglia di diventare immortale cerca -o fai sì che lui cerchi- un altro modo, ma non fare quel giuramento, perché non ti conviene. In realtà non conviene a nessuno dei due, ma a me della sorte di Lord Beerus non importa affatto. Io ora devo andarmene, ma ti auguro nuovamente di passare un buon compleanno. A presto».
 
«A presto».
 
Calida andò via, e per fortuna l’atmosfera pesante che si era creata se ne andò in buona parte assieme a lei.
Purtroppo Anise doveva riconoscere che, come al solito, le parole di sua sorella non erano prive di senso. Amava Beerus, ma doveva anche ammettere che sarebbe stato molto meglio se si fosse potuto trovare un modo per diventare immortale senza creare un life-link pericoloso per entrambi: l’Hakaishin Helles aveva parlato di fiori di loto che avevano reso le sue ancelle incapaci di invecchiare, nel settimo Universo doveva pur esserci qualcosa di simile!
 
“Però non è detto che Beerus punti semplicemente a farmi diventare immortale. Forse lui punta proprio al giuramento con tutti i suoi significati, perché si sente sicuro della nostra relazione al punto di volerle dare la massima ufficialità che è concesso darle, e al punto di mettere la sua vita nelle mie mani. Immaginando di vedere la questione in tale maniera, l’immortalità non diventa proprio ‘marginale’, ma… quasi!”
 
Beerus però non le aveva ancora fatto la proposta, dunque c’era ancora una quantità indefinita di tempo per pensarci su. Forse la cosa migliore da fare, almeno per quel giorno, era godersi il proprio compleanno senza farsi tanti problemi su cose che dovevano ancora succedere.
Andò nella stanza accanto, e prese il vestito che Calida le aveva portato come regalo di compleanno: leggero, lungo fino al ginocchio e dal corpetto decorato con una moltitudine di perline di vetro color rosso sangue, lo stesso della stoffa. Lei apprezzava di più i colori pastello, ma trovava l’abito molto bello, al punto che decise di indossarlo.
Quando ebbe finito diede un’occhiata all’orologio, e a giudicare dall’ora pensò che Beerus e Champa non dovessero essere troppo lontani. Probabilmente uno dei due sarebbe arrivato a minuti.
 
“Spero che Beerus non faccia come l’anno passato… apprezzo il pensiero, ma onestamente non saprei dove mettere un’altra montagna di regali alta cinque metri” pensò “Forse in cantina, dal momento che le casse con l’oro del tesoro di Rubedo non ci sono più”.
 
Avvistò un lampo bianco fuori dalla finestra, segno che uno dei due gemelli era arrivato, dunque sorrise e uscì rapidamente di casa. «Salve, Champino».
 
L’Hakaishin l’avviluppò in un caloroso abbraccio. «Tanti auguri, Nissie».
 
«Ti ringraz-»
 
«Ora sei vecchia!» esclamò Champa, con un sogghigno «Vecchieeeeetta! Inizierai a lamentarti dei reumatismi e delle strane abitudini di questa gioventù bruciata! Veeeeecchia!»
 
«Lord Champa, le ricordo che lei compirà vent’anni solo tra qualche mese, quindi definire “vecchia” Lady Anise mi sembra alquanto privo di senso. A proposito, Lady Anise, le porgo i miei auguri» disse Vados, col tipico sorriso di circostanza.
 
«Grazie».
 
«Ehi, poi la torta l’ho fatta io per davvero! Proprio come ti avevo promesso» disse Champa, con aria soddisfatta «È venuta buonissima».
 
L’espressione sul viso di Vados divenne dubbiosa. «Mah… sarà!»
 
«Che vuol dire “sarà”?!» protestò il dio «Cos’ha che non va la mia torta?!»
 
«Mi sta davvero chiedendo cos’ha che non va? È di soli quattro piani e tanto è riuscito a farla tutta storta, buon cielo! Per non parlare del fatto che le decorazioni di cioccolato sopra la panna sembrano essere state fatte da un pollo impazzito o qualcosa di simil-»
 
«BASTA!» la interruppe Champa «Ho capito, va bene, la mia torta ti sembra terribile, ma di una cosa sono sicuro: è sempre mille volte meglio delle tue, di torte, che se va bene non hanno sapore, e se va male fanno schifo!»
 
«Lei cresce, ma l’ingratitudine non cambia» sospirò Vados.
 
«Ah, mai stai zitta» sbuffò il giovane «Anise, ovviamente oltre alla torta ti ho portato un regalo» disse tirando fuori dalla tasca dei pantaloni qualcosa che somigliava molto a un grosso seme «Non è una montagna di pacchi alta cinque metri, ma spero che ti piaccia ugualmente».
 
«Sai bene quanto io ami le piante, quindi certo che mi piace!» sorrise la Lusan, prendendo in mano il seme «È un bellissimo regalo. Dimmi, cosa diventa quando cresce?»
 
«Possiamo andare a Vynumeer, piantarlo, bagnarlo con dell’acqua particolare -che ovviamente ho qui con me» specificò Champa, indicando l’altra tasca dei pantaloni «E potrai vedere con i tuoi occhi cosa diventa, se vuoi».
 
Ovviamente Anise acconsentì, molto incuriosita, e in un lampo arrivarono a Vynumeer.
Una volta che Vados li ebbe rassicurati che lo spazio era sufficiente, scelsero di piantare il seme al centro del grande prato erboso accanto al villaggio.
 
Champa diede ad Anise una bottiglietta di vetro contenente della strana acqua che emanava un bagliore rosato. «A te l’onore! Una volta che avrai finito avremo… quanti secondi, Vados?»
 
«Cinque» disse l’angelo «Avremo cinque secondi per allontanarci, una discreta quantità di tempo».
 
La ragazza bagnò la terra smossa, e appena si furono allontanati di svariati metri ecco che la pianta nacque: un piccolo e delicato stelo rosa scuro, munito di due singole foglie e di un fiore bianco.
 
«Non è finita qui, tranquilla, adesso… ecco! Comincia!» esclamò il dio, indicando ad Anise la pianta.
 
Secondo dopo secondo, quel minuscolo stelo si stava trasformando in un albero mastodontico con grossi rami dai quali sbucavano lunghissimi
tralci pieni di fiori, tanto fitti da sembrare quasi nuvole. Durante la crescita alcuni di questi tralci si tesero verso il trio, lasciando cadere dei succosi frutti argentei ai loro piedi.
 
«Direttamente dal pianeta Ygg del Sesto Universo, ecco un albero ddrasil!» sorrise Champa, raccogliendo un frutto «Per gli indigeni questi alberi sono sia fonte di nutrimento, sia un luogo in cui vivere. Raggiungono un’altezza di centocinquanta metri o giù di lì, e come puoi ben vedere anche questo non fa eccezione. Gli alberi ddrasil sono alberi “viventi”… nel senso, più viventi del solito. Hanno un minimo di coscienza, ecco, e- Anise?...»
 
«È fantastico!» esclamò Anise, non spaventata dall’ essere stata letteralmente rapita dai tralci dell’albero e portata su un grosso ramo «Adoro questo albero, è il regalo più bello che potessi farmi!»
 
Il dio si voltò verso Vados. «Te l’avevo detto che l’albero ddrasil era una buona idea, donna di poca fede!»
 
“Lo è perché questa ragazza continua a essere sempre strana, e crescendo non migliora” pensò l’angelo. «Sembra proprio di sì».
 
«Ehi! È normale che l’albero mi offra di bere questo liquido raccolto all’interno dei fiori?» chiese la lince.
 
«Certo» annuì Vados «Il nettare degli alberi ddrasil è molto dissetante e molto nutritivo, proprio quello che ci vuole per lei».
 
«Voglio berlo anche io!» esclamò Champa.
 
«Non credo proprio che a lei l’albero lo darà, Lord Champa. Temo che la veda fin troppo nutrito! Piuttosto, comincio a domandarmi dove sia suo fratello. È ben strano che non sia arrivato prima di noi, non trova?»
 
«Non hai torto, ma probabilmente si sarà solo svegliato tardi» disse il giovane dio, alzando gli occhi al cielo «Trattandosi di Anise di solito è puntuale, ma si sa com’è fatto, e sai cosa? Se arriva tardi è meglio così, almeno potremo goderci i frutti del ddrasil in santa pace!»
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«È tardi! TARDI! Sto arrivando in ritardo al compleanno della mia Iarim Neiē, e la colpa è tutta tua! Te l’avevo detto che saremmo dovuti andare da lei già l’altro ieri, i regali li avevamo, ma tu “no, non se ne parla di perdere due giorni di allenamento”, figuriamoci!» sbraitò Beerus «E ora-»
 
«Con tutto il rispetto, le faccio notare che non sono stato io a volermi fermare su dieci pianeti di fila durante il viaggio, in cerca di un altro “regalo perfetto” che non è riuscito a trovare in ogni caso!» ribatté Whis, secco.
 
«Se fossimo partiti due giorni fa avremmo potuto fermarci anche su venti pianeti, e questo senza arrivare tardi! Magari il regalo perfetto era in uno di quelli che non abbiamo visitato, e noi non lo sapremo mai perché siamo già in ritardo e non abbiamo tempo di andarci!»
 
«Lord Beerus».
 
«Sì, Whis?»
 
«Spero che si renda conto di star dando di matto».
 
L’Hakaishin sospirò. «Sì, ovvio che mi rendo conto, ma l’idea di non essere riuscito a trovare un regalo per Anise che mi convinca sul serio mi manda in bestia, va bene?!»
 
«Presumo che Lady Anise riuscirà ad apprezzare almeno un regalo in questi quindici metri di pacchi» sospirò l’attendente, senza neppure voltarsi a dare una breve occhiata al carico che si stava trascinando dietro.
 
«Li apprezzerà tutti anche solo perché sono da parte mia, ma non è questo il punto! È il secondo anno di fila in cui sono costretto a puntare sulla quantità, e questo non mi piace affatto. Io sono un Hakaishin, lei è la mia Iarim Neiē: cos0a si potrebbe pensare di un dio che non riesce a soddisfare pienamente la sua compagna sul fronte regali?» gemette, passandosi le mani sul volto «È una cosa vergognosa!»
 
«Avrebbe potuto evitarsi tutto questo chiedendole cosa voleva ricevere per il suo compleanno».
 
«L’ho fatto! E lo sai cosa mi ha risposto? Mi ha risposto “Beerus, non devi regalarmi nulla, o se proprio vuoi farlo portami un mazzo di fiori”! Un- mazzo- di- fiori!» scandì Beerus «Ti pare che un dio possa limitarsi a un mazzo di fiori? Certo che no!... perché non può essere interessata a soldi, abiti e gioielli come tutte le donne normali? Eh? Perché?!»
 
«Questo è colpa sua, Lord Beerus: è stato lei a scegliere una Iarim Neiē con tutt’altri interessi» gli ricordò Whis «E mi risulta che l’abbia scelta anche per questa ragione. Come si sul dire, chi è causa del suo mal pianga se stesso».
 
«Infatti non ho mai detto che cambierei Anise con qualsiasi altra donna, non mi passa neppure per l’anticamera del cervello, dico solo che quando si tratta di farle regali ho qualche difficoltà, ecco tutto» replicò Beerus «Certo, se come regalo le facessi anche la propost-»
 
«Lord Beerus, la prego, pensavo che ne avessimo già discusso abbastanza» lo interruppe Whis «Non ha ancora compiuto vent’anni, e il giuramento che renderebbe Lady Anise la sua Neiē non è da prendere sottogamba. Non abbia fretta, perché non c’è ragione di averne».
 
«Sì che c’è, invece! Anise è la persona giusta, ne sono convinto, quindi perché dovrei aspettare ancora, eh?!» insistette Beerus «Perché non dovrei farla diventare la mia Neiē e portarla via da quella valle di barbari, nonché da quella pazza bastarda di sua sorella?!»
 
«Se vuol parlare a Lady Anise di certe cose e sperare di avere almeno uno 0.5% di possibilità di successo, le consiglio di adottare una terminologia un po’più neutrale».
 
«Calida non mi piace, io non piaccio a Calida, Anise lo sa benissimo, quindi la neutralità può anche andare a-»
 
«Lei sta per dire “a quel paese”, immagino».
 
«… sssì, Whis, stavo per dire proprio quello, in modo meno edulcorato» borbottò il dio.
 
«Lord Beerus, deve tenere conto del fatto che Lady Anise è molto leale alla sorella. Dirle che Lady Calida è una “pazza bastarda” non sarebbe utile al suo scopo, se mai sortirebbe l’effetto contrario» lo avvertì Whis «Le probabilità che Lady Anise decida di lasciare il proprio pianeta non sono molto alte, se aggiungesse anche questo…»
 
«Cosa vuol dire che “le probabilità non sono molto alte”?!» allibì Beerus «Perché non dovrebbe accettare di buon grado di trasferirsi? Il mio palazzo le piace, ci sono svariati abiti ed effetti personali pronti per lei, c’è perfino un’altalena, e sarebbe costantemente servita e riverita! Niente più raccolta del grano, niente più tosatura, filatura, tessitura, mungitura, niente più fatica! Le basterebbe chiedere e le verrebbe dato, dovrebbe solo pensare a godersi l’eternità assieme a me! Chi non vorrebbe una vita del genere?!»
 
Whis scosse la testa. «Debbo dire che pur conoscendo quella ragazza da due anni non è riuscito a capirla per nulla».
 
«Questo cosa significa?! Certo che la conosco e la capisco, Anise è la mia Iarim Neiē!»
 
«Ci rifletta sopra: le sembra che una persona che dà tanta importanza alla propria indipendenza e che ne è tanto orgogliosa possa accettare di buon grado l’idea di trovarsi senza far niente da un giorno all’altro, per di più con la prospettiva di passare un’eternità in quella maniera? Sul serio, Lord Beerus, le sembra una cosa plausibile?»
 
«Se mi ama davvero, sì!» rispose Beerus, ostinato «Se mi ama veramente farà quel giuramento e verrà via con me, non ha niente da perdere. Affetti? Il solo legame affettivo che ha sul suo pianeta è meglio non averlo! La carriera? Non ce l’ha! Quindi manderà a quel paese Calida, mollerà tutto quel poco che ha da “mollare”, e vivrà una vita felice e agiata insieme al sottoscritto: chiuso il discorso!»
 
«Temo che le cose siano un po’più complicate di così…»
 
«Non vedo perché! Quel che ho detto ora è soltanto l’evoluzione naturale del rapporto tra un Hakaishin e la sua compagna, non possiamo continuare a fare qua e là dal suo pianeta per sempre, e poi Anise è… è meravigliosa così come è, Whis, e io non posso permettere che continuare ad avere a che fare con sua sorella la “rovini”. Io voglio solo il suo bene, non desidero altro, e lei dovrebbe saperlo».
 
«Lei come reagirebbe a parti invertite? Come reagirebbe se fosse Lady Anise a chiderle di lasciare il suo palazzo, le sue ricchezze e il suo compito di Hakaishin per trasferirsi a vivere in pianta stabile nella casa in mezzo al bosco? Non sono sicuro che ne sarebbe felice» disse l’angelo.
 
«Le due cose non sono paragonabili, io avrei molto da perdere! Amo quella casa in mezzo al bosco quanto la sua proprietaria, ma vuoi mettere con il mio palazzo?»
 
«Ecco: Lady Anise è affezionata alla propria casa, alla propria foresta e a quel villaggio abbandonato esattamente come lei è affezionato al suo palazzo e tutto il resto. Indubbiamente il valore economico è molto diverso» continuò Whis «Ma questi sono discorsi che vanno al di là di ogni logica, Lord Beerus».
 
«Se è proprio tanto attaccata a Vynumeer, al lago, ai campi e compagnia bella possiamo sempre portare via anche quelli e trapiantarli sul mio pianeta! Posso prendere l’intera foresta, se le piace, includendo anche casa sua, l’altalena accanto al dirupo, il dirupo stesso, il Coniglio Assassino di Caerbannomeer redivivo e tutto quello che vuole, ma io a breve la porterò via da quel posto, quant’è vero che mi chiamo Beerus!»
 
«Lord Beerus, suvvia, cerchi di calmarsi… non vorrà arrivare così nervoso da Lady Anise? Ne sarebbe alquanto dispiaciuta».
 
Beerus fece un respiro profondo, sapendo che il suo attendente aveva ragione. «Mi calmo, mi calmo. È soltanto che vorrei farti capire che i motivi dietro la mia cosiddetta “fretta” sono fondati».
 
«Lei sa che può portarla via dal pianeta senza renderla la sua Neiē, vero? Ha già un life-link con il Kaioshin di questo Universo, crearne un altro, soprattutto a quest’età, sarebbe pericoloso. Non metto in discussione i sentimenti tra lei e Lady Anise, ma la prego di cercare di ragionare in modo più pratico: non deve correre così tanto, non c’è bisogno. Per non parlare del fatto che se c’è qualcuno che può proteggere la propria compagna da chicchessia, questo è senza dubbio il Dio della Distruzione».
 
«Posso proteggerla e lo farò, sempre! Ma il giuramento-»
 
«Il mazzo di fiori?»
 
L’Hakaishin si zittì per qualche istante, confuso dall’apparente insensatezza di quella domanda. «… eh?»
 
«Il mazzo di fiori. Sarebbe il colmo se in una montagna di regali alta quindici metri l’unico a mancare fosse proprio quello che Lady Anise le ha chiesto».
 
Beerus batté una mano contro la fronte. «Non ce l’ho, no… ma cosa mi ha detto il cervello?!»
 
«Questo me lo domando anch’io da un paio d’anni a questa parte, se la consola».
 
«Non te l’ho chiesto!» sbottò il dio «Sei in grado di creare un bel mazzo di fiori?»
 
«Di quale tipo e quale colore?»
 
«Quelle che lei chiama varder, non ricordo come si chiamino nella lingua comune. Un mazzo di almeno quaranta varder. Bianche» specificò Beerus «Sono le sue preferite».
 
«Un mazzo di quarantadue rose bianche è in arrivo, signore».
 
Pochi secondi dopo ecco che Beerus stringeva tra le mani un mazzo di rose che avrebbe fatto la felicità di qualunque donna cui piacesse quel tipo di fiore. Fiori, montagna di doni alta quindici metri: forse poteva considerarsi a posto. «Mi sento già più tranquillo. L’anno passato Champa le ha fatto un regalo più azzeccato dei miei, ma questa volta se lo scorda!»
 
«Lord Champa ha regalato a Lady Anise un piccolo macchinario che crea in pochi secondi file di perline di vetro di ogni forma e dimensione, se non ricordo male. Ha avuto proprio una bella idea, devo riconoscerlo: quel regalo valeva per cento!»
 
«Già, peccato che non abbia avuto anche la bella idea di perdere la metà del peso e diventare un po’meno inetto» disse Beerus, un po’piccato «Tra quanto si arriva?»
 
«Dieci secondi precisi, Lord Beerus!»
 
Ecco, quella era una buona notizia. Ormai erano tre giorni che lui e Anise non si vedevano perché “Durante i tentativi di raggiungere nuovamente l’Ultra Istinto non devono esserci distrazioni, Lord Beerus!”, quindi non stava più nella pelle all’idea di rivederla. Settantadue ore erano un lasso di tempo irrisorio, ma diventava infinito se passato lontano da lei. Non avrebbe mai rivelato a nessuno questa sua sensazione, ma di fatto era proprio quel che provava.
 
Poco dopo, lui e Whis atterrarono sul prato erboso accanto al villaggio di Vynumeer… ma c’era qualcosa che non quadrava.
Per la precisione, un albero alieno alto parecchi metri.
 
«Ooooh! Un albero ddrasil proveniente dal pianeta Ygg del sesto Universo!» sorrise Whis, deliziato «Il suo nettare e i suoi frutti sono squisiti, una gioia per il palato, e oltre a questo è anche sublime a livello puramente estetico!»
 
«Proprio il regalo adatto a una ragazza che ama le piante, eh Beerus?» gridò Champa, da un punto indefinito nascosto tra rami, fiori e foglie dell’albero «Non trovi che IO abbia avuto una buona idea anche quest’anno?»
 
Gli anni passavano, ma a Beerus la voglia di picchiare Champa non passava mai, soprattutto se questi iniziava a vantarsi delle proprie idee in occasioni in cui lui, invece, non ne aveva avute di veramente buone.
Quello era il compleanno di Anise, della sua ragazza, quindi trovare per lei il regalo più bello sarebbe spettato a lui, ma anche quell’anno non era riuscito nel compito, e aver fallito gli bruciava non poco. «Senti un po’, tu-»
 
«Vi proibisco di litigare a causa dei miei regali!» lo interruppe Anise, lanciandosi giù dal ramo con la consapevolezza che i tralci dell’albero ddrasil l’avrebbero acchiappata al volo e posata delicatamente a terra -e così fu. «Ti aspettavamo, senza di te la festa non poteva cominciare».
 
Vederla contenta riuscì a migliorare un po’ l’umore di Beerus, che le porse il mazzo di rose. «Buon compleanno, Anise. Questo è per te. Non sarà un albero mastodontico, ma-»
 
«Varder bianche, i miei fiori preferiti! Te ne sei ricordato» sorrise la Lusan, con uno sguardo dolcissimo che ben lasciava intendere quanto avesse apprezzato quel regalo «Grazie, sirel ym».
 
Il suo regalo era stato “comune”, ma quella reazione -nonché il bacio che Anise gli diede subito dopo- fece capire a Beerus che forse non aveva fallito del tutto. «Non devi ringraziarmi, tu sei la mia compagna… ed è per questa ragione che oltre al mazzo di fiori ho portato anche una montagna di regali alta quindici metri!»
 
«… prego?»
 
«Quindici metri e ventidue centimetri, per l’esattezza» specificò Whis «Già, stavo quasi dimenticando: auguri, Lady Anise».
 
«Grazie, Whis».
 
«Il mio regalo è uno, ma è alto centocinquantacinque metri precisi! DILETTANTEEEEE!» urlò Champa.
 
«No, basta, io lo uccido» sentenziò Beerus, scrocchiando le nocche delle mani.
 
«Nessuno ucciderà nessuno, perché abbiamo una torta da mangiare. Voliamo lassù, dai!»
 
Raggiunto il grosso ramo su cui Vados e Champa avevano messo un tavolo e delle sedie, la prima cosa che disse Beerus fu…
 
«Che diamine è quella robaccia storta ricoperta di panna?»
 
«EHI! Quella è la torta di compleanno, non una robaccia storta, e l’ho fatta io con le mie mani!» si irritò Champa «Io almeno ci provo, a fare qualcosa di utile!»
 
«Già, peccato che ti riesca malissimo. È perfino più storta della tua coda, pensa un po’!»
 
«Ho provveduto a fare una torta di riserva» bisbigliò Whis a Vados.
 
«Anche io!» bisbigliò la donna.
 
«Ho detto che qui non si litiga, e Champa è stato molto carino a impegnarsi così per me» disse Anise, mentre tagliava la prima fetta di torta «Quindi non merita di essere preso in giro. Chi vuole assaggiare la prima-»
 
«Io no!» dissero in coro Beerus e i due angeli.
 
«Malfidati che non siete altro!» li rimproverò Anise, per poi assaggiare la torta «Ma è buonissima! Complimenti, è venuta proprio bene».
 
Champa sorrise. «Dici davvero?...»
 
«Assolutamente sì!»
 
Vados fece comparire una forchetta. «O beh, allora anche io potrei-»
 
«E invece no! Se vuoi mangiare una torta, mangia quella che hai preparato “in segreto”» la fermò Champa «Almeno impari a non fidarti delle mie capacità culinarie. Nessuno di voi tre meriterebbe di mangiarla!»
 
«E se per questa volta li perdonassimo, Champa? Nessuno resta senza torta il giorno del mio compleanno».
 
L’Hakaishin del sesto Universo alzò gli occhi al cielo. «Solo perché me lo hai chiesto tu!»
 
Tutti quanti presero posto attorno al tavolo, e tutti quanti gustarono la torta di Champa. Il buon cibo, la compagnia e la bellezza di quel gigantesco ramo fiorito su cui si trovavano resero il momento piuttosto piacevole per tutti quanti.
 
«Volevo ringraziare tutti voi. Anche i miei compleanni sono diventati più belli, da quando vi conosco» disse Anise, una volta finito.
 
Beerus le mise un braccio attorno alle spalle. «Non devi ringraziarci, meriti questo e altro»
 
«Infatti! Ehi, ma se poi scendessimo giù a fare il bagno?» propose Champa «L’acqua del lago è calda. Non è quella del mio palazzo, ma è sempre una spiaggia!»
 
«A me sta bene» approvò Anise «Tanto al villaggio dovrei avere uno dei miei costumi fatti all’uncinetto, quindi il pudore altrui è salvo».
 
“Immagino che sotto questo vestito non ci sia niente, come al solito” pensò Beerus, e fece ad Anise una carezza lungo la schiena. La voglia di averla tra le proprie braccia in tutt’altro luogo era tanta, ma avrebbe aspettato tranquillamente, così che i loro momenti insieme da soli diventassero il coronamento di una bella giornata. “A proposito di vestiti, non ricordo di aver mai visto quest’abito”. «Vestito nuovo? È carino. Di un colore un po’atipico per te, ma carino».
 
«È un regalo di mia sorella».
 
Se Beerus avesse avuto il pelo, questo si sarebbe drizzato tutto solo sentendo quelle parole. «Ah. Capisco. Beh, allora posso stare tranquillo: se il rosso scuro ti piace, amerai i colori dell’abito da Neiē».
 
«Direi che possiamo andare a fare il bagno anche subito, cosa ne dite?» si intromise Whis, per nulla intenzionato a riprendere quel discorso pericoloso.
 
Anise sollevò le sopracciglia. «Vuoi farlo anche tu?»
 
«Cos… ehm. Sì. Certo» confermò l’angelo, facendosi comparire addosso un costume da bagno intero nero e rosso scuro con brache che arrivavano al ginocchio. «Ho anche il costume, ved-»
 
«È orribile!» si lamentò Beerus «Buttati immediatamente nel lago, almeno non devo vedere quel coso vintage!»
 
«Lei è un dio maleducato e senza gusto!»
 
Champa si sporse verso Anise. «Ha detto “Neiē”, hai sentito?» le sussurrò a un orecchio.
 
«Sì… ho sentito».
 
 
 
 
Non so se qualcuno l’ha vagamente intuìto, ma siamo in procinto di entrare nella parte della storia in cui inizieranno i problemi per la coppietta.
Intanto ringrazio chi ha seguito la storia fino a qui (: grazie a chi ha letto, a chi ha lasciato una recensione, e a chi ha voluto dedicare ad Anise un disegno!
A proposito di Anise, sono riuscita a trovare un po’di tempo per fare un disegno MOLTO svelto (soprattutto la parte a sinistra, mi sono concentrata solo sul vestito senza ombreggiare altro) di acconciatura e vestito.
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Capitolo 16
*** 16 ***


RMIcap16
16
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Patta».
 
«Sicuro, Whis?»
 
Accanto a una parete dell’immenso acquario che circondava quella sala del palazzo erano state fatte comparire una scacchiera di cristallo e due poltroncine volanti, sulle quali Anise e Whis erano seduti -sarebbe stato corretto dire "accovacciati", nel caso di Anise- già da diverso tempo. Erano alla terza partita, ma quando giocavano uno contro l’altro andavano sempre per le lunghe.
 
«Siamo in una posizione morta: lei ha il re, io il re e un alfiere. Sa bene quanto me che è patta».
 
«Quindi cosa facciamo? Ricominciamo?»
 
«Se vuole. Non c’è molto altro da fare» disse Whis, mentre i pezzi sulla scacchiera tornavano magicamente a posto «Beerus dorme da un giorno e mezzo… Lady Anise, si renda conto che lei ha “distrutto” il mio Distruttore».
 
«A dir la verità quella notte è Beerus ad aver piacevolmente “distrutto” me» lo contraddisse Anise «Solo che poi lui ha prolungato la dormita ben oltre il bisogno. In ogni caso immagino che entro stasera dovrebbe alzarsi».
 
«È una fortuna che Lord Beerus non abbia faccende da sbrigare, non trova? Pensi a come sarebbe la convivenza con qualcuno pigro e dormiglione come lui, se doveste mantenervi da soli».
 
«È un discorso che mi suona familiare, Whis».
 
«Familiare, ma sempre valido. Lord Champa perlomeno ha imparato qualcosa, mi risulta che ora sia perfino in grado di ricucire da solo eventuali strappi sui suoi abiti, mentre Lord Beerus sa a stento com’è fatto un ago. Sarebbe folle chiedere a un Hakaishin di rinunciare a tutto per andare a vivere in una casa nel bosco, ma non credo che lei lo farà mai, sapendo che si troverebbe a lavorare per due».
 
«Avrei ancora una cassa piena di adamadnery pinc, non li ho dati tutti a mia sorella» replicò la Lusan «Potremmo andare in una città vicino all’oceano, comprare una casa grande, e anche pagare qualche persona che se ne occupi».
 
«I mezzi non mancano, ma so benissimo che lei non vuole, perché le piacciono troppo il posto dove vive e fare tutto da sola. In considerazione di ciò-»
 
«Ed eccoti arrivato dove volevi arrivare…»
 
«In considerazione di ciò, sa che se resta con Lord Beerus finirà a dover lasciare “quel poco che ha da lasciare” e venire a vivere qui. Io cerco di dissuaderlo, ma temo proprio che la proposta non tarderà ad arrivare».
 
«“Quel poco che ho da lasciare”? Se permetti, il “poco” di cui parli sarebbe la mia vita, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti» disse Anise, fredda «Sono le mie abitudini, i miei pochi affetti, i luoghi in cui sono cresciuta e/o che amo. A te che sei abituato ad altro sembrerà poco, ma non lo è affatto. Se sto prendendo in considerazione l’idea di lasciarla, prima o poi, è solo e soltanto perché amo Beerus».
 
«Non se la prenda con me, Lady Anise: quelle parole non le sono piaciute, ma non sono uscite dalla mia bocca» rivelò Whis «Le ha dette Lord Beerus poco tempo fa, precisamente il giorno del suo compleanno. Aveva una certa voglia di aggiungere quella proposta alla montagna di regali».
 
«So di non piacerti e so e che vorresti poter tornare a essere la sola persona a cui Beerus dia importanza, quindi in casi come questo mi risulta un po’difficile crederti… a parte per la voglia di Beerus di farmi la proposta, di quella non dubito. Spero che tu capisca».
 
«Ma certo, si figuri!» minimizzò l’angelo, con un cenno «Comunque sono costretto ad ammettere una cosa, ossia che è stata in grado di tener fede all’accordo che abbiamo stretto il giorno in cui ci siamo conosciuti. Nei momenti in cui addestro Lord Beerus con lei presente è sempre stata in grado di dargli le giuste spinte, tant’è che ora Lord Beerus riesce a colpirmi molto spesso. Sembra che voler rendere la propria Iarim Neiē fiera della sua potenza lo spinga a fare grandi progressi».
 
«Nonostante questo mi preferiresti ben lontana dal tuo allievo».
 
«Non le sto riconoscendo un’utilità, Lady Anise, riconosco soltanto che non è stata dannosa. Credo che se non vi foste conosciuti avrebbe fatto altrettanti progressi, sarebbe bastato addestrarlo duramente promettendogli i suoi cibi preferiti in caso di successo».
 
«Vuoi sapere una cosa divertente? Da un paio d’anni a questa parte, il suo cibo preferito sono io» disse la ragazza, indicando in basso «Se capisci cosa intendo».
 
L’angelo sollevò un sopracciglio. «Se cerca di mettermi a disagio parlando delle sue attività sessuali con il mio allievo, sappia che ormai sono abituato alla sua indecenza. Sono ben conscio che l’accoppiamento-»
 
«E attività correlate».
 
«…e attività correlate siano una cosa perfettamente naturale, ma è proprio necessario parlarne? Io avendo un minimo di pudore non faccio mai allusioni riguardo le mie, di attività correlate».
 
Anise fece un sorriso sornione. «Tu non hai neppure attività alle quali alludere, se è per questo».
 
«Le ho già detto che questa strategia non funziona!»
 
«A me sembra il contrario. Tu tenti di mettermi a disagio facendo notare la mia presunta inutilità, io ricambio il favore» disse la lince, giocherellando con un pedone di cristallo bianco «È un problema, per te?»
 
«Abbiamo divagato a sufficienza, torniamo al discorso principale» tagliò corto Whis «Cercando di dissuadere Lord Beerus, io faccio un favore a tutti e tre. Lo faccio a Lord Beerus, perché creare un life-link con una Neiē, specie a quest’età, non gli serve affatto; lo faccio a lei, che con quel suo “prima o poi” mi fa capire che nei riguardi del giuramento è un po’più cauta di Lord Beerus -giustamente, devo dire… e lo faccio a me stesso, per tanti motivi. Lady Anise, quando Lord Beerus le farà quella proposta deve cercare di prendere tempo. Continui a comportarsi da persona ragionevole qual è in grado di essere».
 
 “Sono felice che Beerus mi ami, e per voler mettere la sua vita nelle mie mani deve amarmi molto, come lo amo io, ma forse parlare di Neiē adesso è eccessivo. Ci conosciamo da un paio d’anni, forse prima di creare un life-link ne servirebbe qualcuno in più” pensò Anise. «Al di là di tutto, io devo ancora capire perché a Beerus ultimamente sia venuta tutta questa fretta».
 
«Suvvia, pretende davvero che io le creda? Sono certo che in realtà sappia benissimo da cosa deriva la fretta di Lord Beerus, basta fare due conti, e sicuramente lei li ha già fatti. Avrà pure i suoi difetti, ma non è una sciocca. Il “motivo” che ha messo fretta a Beerus è color beige, di sesso femminile, ha sedici anni più di lei…»
 
«E si chiama Calida» completò la ragazza «Giusto?»
 
Whis annuì. «Lord Beerus era già stato in zone di guerra, lei questo lo sa, ma non si era mai trovato di fronte a un livello di brutalità simile. Ciò che ha visto in quell’occasione non gli è piaciuto, e non gli è piaciuta nemmeno l’influenza che Lady Calida ha dimostrato di avere su di lei. Lady Anise, lei sapeva cos’avrebbe fatto sua sorella con il tesoro, e pur essendo “contro le guerre inutili” glielo ha donato ugualmente: si è resa complice di quel massacro, e l’ha fatto perché sua sorella-»
 
«Vivesse. Ve l’ho spiegato più volte, credevo che Beerus avesse capito».
 
«Capire una cosa non significa approvarla. Lord Beerus ha capito che lei, Lady Anise, è andata contro i suoi principi per amor di Lady Calida, e non vuole che una simile situazione si ripeta» le spiegò l’angelo «Vuole proteggerla e non vuole permettere a Lady Calida di rovinare la persona “meravigliosa” che lei, secondo Lord Beerus, è».
 
«Non vedo come potrebbe ripetersi, visto che Calida ha già tutto il denaro che vuole» ribatté la ragazza «Comunque, per quanto le intenzioni di Beerus siano buone, io non ho bisogno di essere protetta da niente e nessuno».
 
«Certo, certo. È una combattente tanto abile che sarebbe tranquillamente in grado di impedire che una Lusan alta due metri e dieci le spezzi il collo».
 
«Calida non mi ha mai dato neppure una sberla, anche quando me la sarei meritata, quindi non vedo perché dovrebbe aver voglia di spezzarmi il collo. Per non parlare del fatto che da Beerus posso anche accettare che si sia “sconvolto”, ma da te!...»
 
«Non mi sono sconvolto» disse Whis «Ho visto cose ben peggiori, ma posso capire il mio giovane Hakaishin. Se sua sorella voleva dare una barbarica dimostrazione di forza avrebbe potuto prendere i prigionieri, tagliar loro le teste e metterle su delle picche, sarebbe stata ugualmente efficace. Lady Anise, non riuscirà mai a giustificare la crudeltà inutile di sua sorella, per quanto possa provarci».
 
«Questo però non vuol dire che riserverà anche a me lo stesso trattamento» insistette Anise «Dovrò cercare di farlo capire a Beerus. Forse stiamo affrontando tutto questo nel modo sbagliato, perché se la fretta è causata dalla paura che Calida mi “rovini” allora magari sarà sufficiente tranquillizzarlo in tal senso. Certo che però…» sospirò «Se non era del tutto tranquillo poteva dirmelo chiaramente, invece di partire in quarta col giuramento».
 
«Magari è troppo orgoglioso, o magari pensava che l’avrebbe capito da sola. Lei di solito è quella che capisce sempre tutto, no? Peccato che se si tratta di sua sorella tenda a chiudere occhi e orecchie».
 
«So che Calida non è una santa, credimi, lo so, ma è la persona che mi ha cresciuto: questo è quanto. Allora, facciamo un’altra partita sì o no?»
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
“No, non un’altra volta, non un’altra volta…
 
È passato del tempo, ma ciò non impedisce a Beerus di riconoscere luogo -Ulthmeer- e momento: sono quelli in cui Anise è morta orribilmente in un’altra occasione, tagliata a metà da un’entità malvagia quanto sconosciuta.
 
Si guarda attorno, senza riuscire a trovare differenze rispetto all’altra volta: vede le case e i corpi bruciati, vede la ringhiera semi liquefatta e la pozzanghera di ferro liquido e incandescente da essa creata.
 
“Non di nuovo” prega l’Hakaishin. Strizza le palpebre e stringe i pugni, portandoli poi contro le tempie “Non un’altra volta, non voglio vederla morire ancora!”
 
Scuote la testa un paio di volte, poi apre gli occhi di botto: cosa diamine sta facendo?! Sa che Anise è in pericolo, e cosa fa? Se ne sta lì a lamentarsi, invece di tentare di salvarla!
 
Preda della più totale vergogna verso il proprio atteggiamento, Beerus vola nel luogo dove l’altra volta ha visto Anise parlare col suo assassino.
Non permetterà che la uccida, non stavolta.
 
“Aystegh tha mi a’, tha mi a’, khndrum yem!”
 
Beerus, con lo stomaco stretto da una morsa nel rendersi conto che anche le parole usate da Anise sono le stesse, atterra di fianco a lei.
Ricorda che l’altra volta Anise non gli ha dato ascolto, che non ha voluto seguirlo, e ricorda ancor meglio la fine che ha fatto, ma non lascerà che accada nuovamente. Non gli importa chi sia quel mostro coperto dall’aura nera e oro, non gli importa se Anise vuol cercare di salvare chicchessia, non vuole sentire neppure una parola da parte sua: gli importa solo e soltanto di proteggerla, di salvarla, di non lasciare che gli venga strappata via nuovamente. “ANDIAMO! Andiamo via! Andia-”
 
Cerca di afferrarle il polso, ma la sua mano passa attraverso il corpo di Anise come se lei fosse un fantasma, o se lo fosse lui stesso.
 
“No…” mormora il dio, con gli occhi sbarrati “No, no, NO!
 
L’altra volta non era riuscito ad avvicinarsi abbastanza per portarla via, ma quel che accade stavolta è perfino peggio, perché Anise non lo sente, non lo vede, e lui non può toccarla: può solo restare lì a guardare.
È un Hakaishin, ma è del tutto impotente e del tutto incapace di proteggerla.
 
“Khndrum yem…” 

Beerus artiglia l’aria con una disperazione crescente e sempre più violenta, urla il nome della sua compagna fino a sentire dolore alla gola, cerca di colpire il “mostro” con tutte le tecniche che conosce -hakai incluso- ma non serve a niente. “Anise, allontanati! Allontanati!” grida, sperando con ogni fibra del suo corpo che le sue preghiere sortiscano un qualche effetto “Vattene, vai via di qui, lascia perdere!”
 
“Tu non puoi volermi fare del male. Non a me” afferma la Lusan, sorda alle sue grida, avvicinandosi all’entità malvagia “Non per davvero”.
 
“Lascia perdere, per favore, non posso vederti morire un’altra volta, lascia perdere, fuggi…” ripete Beerus con un filo di voce, stringendo i pugni tremanti tanto forte da sentire dolore “Anise, scappa via…”
 
“A tuo modo hai sempre cercato di proteggermi, sarebbe assurdo se ora volessi uccidermi. C’è una parte di te che mi riconosce, vero? Non riuscirei a credere il contrario, non da chi mi ha detto che ‘noi siamo e sempre saremo tutto quello che abbiamo’… lo ricordi?”
 
Sebbene per Beerus il momento sia straziante, non può fare a meno di chiedersi chi potrebbe aver detto ad Anise una cosa del genere. Quella frase suggerisce un legame molto forte, ma non riesce a immaginare se stesso dire quelle parole, suonano troppo estranee nella sua bocca, e sa che suonerebbero così anche in bocca a Champa.
Non sa chi sia avvolto da quella brutta aura nera e oro, ma quella è un’ulteriore conferma del fatto che né Champa né lui stesso sono impazziti.
 
“Non puoi volere davvero tutto questo. Hai desiderato tanto arrivare dov’eri, quindi perché distruggere tutto? Questo non è da te! Non lasciare il controllo a Rubedo, tu sei forte, tu puoi opporti!" esclama Anise, avvicinandosi ancora di più “Lascia… lascia che ti tolga quella cosa dalla testa, intanto” mormora, e solleva una mano, allungandola verso il mostro.
 
Beerus ha l’impressione che il cuore stia per scoppiargli dentro il petto, e osserva impetrito le dita di Anise oltrepassare indenni l’aura nera e oro.
Questa si allontana perfino dalla mano della giovane, lasciando intravedere un oggetto nerastro che a Beerus sembra in tutto e per tutto una corona.
 
“Forse servirà a qualcosa. Io non posso lasciarti in queste condizioni” dice la ragazza, mentre le dita arrivano a sfiorare la corona “Mi rifiuto, non-“
 
Beerus non grida in tempo un avvertimento che sarebbe stato totalmente inutile, e una lama nera, gemella di quella dell’altra volta, trafigge Anise colpendola dritta allo stomaco.

Il dio urla ancora, tanto di rabbia cieca quanto per la disperazione; in condizioni normali la quantità di energia che sta rilasciando disintegrerebbe un sistema solare, ma in quel momento e in quel luogo non ha alcun effetto e, resosi conto di ciò, Beerus crolla in ginocchio.
Non è riuscito a salvarla neppure stavolta, è riuscito a fare ancor meno di quanto abbia fatto nell’altra occasione. Dilaniato dal dolore, ha in testa solo una frase: “Tu sapevi che dovevi portarla via da qui”.
 
Anise emette un rantolo strozzato, e usa le sue ultime forze per stringere la lama con entrambe le mani, ferendosi le dita: un danno marginale, ormai. Abbassa lo sguardo per osservare la lama, e la pozzanghera rosso scuro ai propri piedi. “N-non sei tu… non sei… tu”.
 
“Anise” sussurra Beerus, incapace di distogliere lo sguardo “Non sono riuscito a salvarti, non ce l’ho fatta neanche stavolta…”
 
La Lusan volge lo sguardo verso di lui. “Tu non potevi salvarmi”.
 
Beerus sobbalza per la sorpresa, e si alza in piedi di scatto. “Quindi… quindi ora mi senti!”
 
Mosso dalla vana speranza di poterla salvare, cerca di afferrare il corpo della sua compagna per sfilarlo dalla lama, ma non ci riesce: non può toccarla, esattamente come non poteva toccarla fino a un minuto prima.
 
Anise scuote la testa. «Non puoi fare niente, sirel ym. Tu non potevi salvarmi» ripete, per poi allargare le braccia e alzare il volto a guardare il cielo «Hrazhesht».
 
Il dio non ha mai sentito Anise pronunciare quella parola prima di quel momento, eppure sa bene che significa “addio”.
Dalla lama esplodono fiamme nere e oro che in un attimo avvolgono interamente il corpo di Anise.
Accade in un attimo, eppure Beerus ha come l’impressione di vederlo a rallentatore: le fiamme avvolgono il torso, il collo, il volto.
L’ultima immagine che resta impressa negli occhi del giovane Hakaishin è quella delle ciocche di capelli parzialmente bruciate che cadono come pioggia, coprendo le col loro argenteo splendore le tracce del sangue assorbito dalla terra.
 
 
 
 
 
Lord Beerus si svegliò urlando, esattamente com’era successo l’altra volta, e per ragioni altrettanto valide.
 
Strinse quel che restava delle lenzuola -ridotte a brandelli nel sonno- e respirando affannosamente si guardò attorno. Aveva un solo e unico pensiero in testa, e quel pensiero ovviamente era Anise.
 
«D-dove sei… Dove sei?!» gridò, alzandosi velocemente dal letto.
 
Il suo sguardo finì sul calendario, e scoprendo di aver dormito quasi due giorni andò nel panico. Forse Whis aveva riportato a casa Anise, non sarebbe stato strano: era quel che faceva di solito, a meno che lui non ricordasse di dargli uno specifico ordine contrario.
 
Lupus in fabula, ecco che l’angelo fece il suo ingresso nella stanza, attirato dalle grida. «Lord Beerus, l’ho sentita grid-»
 
«L’hai riportata a casa?!» lo interruppe l’Hakaishin, avvicinandosi di scatto a lui «Hai riportato Anise sul suo pianeta?! Rispondimi!»
 
«No, Lord Beerus, Lady Anise è ancora su questo pianeta… ed è perfettamente in salute».
 
Il dio si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «Bene».
 
Whis sollevò un sopracciglio. «Tutta questa preoccupazione mi sorprende. Ha forse avuto uno dei suoi incubi?»
 
«Sono fatti miei!» disse Beerus, secco e ben poco educato.
 
«Vuol fare un bagno? Le servirebbe per rilassarsi».
 
Il giovane scosse la testa. «Niente bagno, non adesso, ora voglio andare a cercare Anise. È sull’altalena?»
 
«Naturalmente».
 
Il dio uscì dalla stanza senza cambiarsi d’abito né proferire ulteriore parola, e raggiunse in fretta l’altalena. Come Whis gli aveva anticipato, Anise era proprio lì: viva, in salute, oscillava col viso rivolto al cielo notturno.
Beerus poteva vedere l’espressione di Anise, e trovandola serena rimase a guardarla per oltre un minuto, cercando in lei la pace che al momento non riusciva a trovare dentro di sé.
Il suo sogno lo stava perseguitando, non riusciva a togliersi dalla mente quel “Non potevi salvarmi”. Al momento desiderava soltanto poter far sì che niente di quel che aveva visto diventasse reale, e c’era un solo piano d’azione che riuscisse a concepire…
 
«Sono un’Anise semplice» esordì Beerus «Vedo un’altalena, ci salgo».
 
«Mai sentite parole più vere. Finalmente ti sei svegliato, dormiglione che non sei altro!» sorrise la Lusan, lasciando che l’altalena smettesse di oscillare.
 
«Ma se non ho dormito neppure due giorni pieni…»
 
Scesa dall’altalena, Anise gli diede una rapida occhiata. «Cos’hai?»
 
«Chi, io?»
 
«E chi se no? Hai un’aria strana» disse la ragazza, accarezzandogli il viso «Hai riposato bene?»
 
«È tutto a posto, non preoccuparti. Ricorda che il tuo compagno è un Hakaishin!»
 
«Mi preoccuperei anche se tu avessi i poteri di tutti gli angeli messi insieme. Vieni qui» mormorò lei, abbracciandolo «Sei proprio sicuro che sia tutto a posto?»
 
Ricambiò l’abbraccio, e per un attimo pensò che forse avrebbe fatto meglio a parlarle dell’incubo che aveva avuto, ma cambiò rapidamente idea. Non c’era motivo di metterla potenzialmente in allarme: lui, quel giorno stesso, avrebbe impedito a quel sogno profetico di avverarsi. «Sì, puoi stare tranquilla. Anise…»
 
«Dimmi».
 
Beerus sciolse l’abbraccio, un po’a malincuore, e mise le mani sopra le spalle di Anise. «Io voglio che tu diventi la mia Neiē».
 
«Lo so, è da qualche tempo che questo discorso viene fuori spesso, e a tal proposito vorrei parlare di-»
 
«No, non hai capito: io voglio che tu diventi la mia Neiē oggi. Adesso! Subito!»
 
Anise si sentì quasi stordita a causa della sorpresa, come qualcuno che aveva ricevuto una botta in testa all’improvviso e da qualcuno inaspettato. Era molto ironico che la proposta -se “proposta” si poteva chiamare- di Beerus giungesse proprio quel giorno, proprio poche ore dopo che lei e Whis avevano discusso di come e perché sarebbe stato meglio rimandarla: un grande scherzo del destino, al quale lei doveva subito trovare modo di far fronte. «Sirel ym, dopo questo non puoi più venirmi a dire che va tutto bene. Cosa ti ha causato questa fretta improvvisa?»
 
«Niente! Voglio solo che tu diventi la mia Neiē. Hai detto tu stessa che questo discorso viene fuori da qualche tempo, quindi perché ti stupisci?»
 
«Ho detto anche che volevo parlar-»
 
«Anise, io ti amo».
 
Era la prima volta in assoluto in quasi due anni che Anise sentiva Beerus dire una cosa del genere.
Non le era mai pesata la mancanza di quelle parole, perché ormai aveva imparato a conoscere il suo compagno e sapeva che gli risultava più facile dimostrarle amore con i fatti che con chiacchiere sdolcinate, cosa che a lei andava benissimo. Trovava che un fatto valesse più di centinaia di parole vuote, e Beerus non le aveva mai fatto mancare oggettive dimostrazioni di immenso amore. «Ti amo anche io, lo sai».
 
«Allora facciamo quel giuramento. Prometto che ti darò sempre tutto quello che vorrai, che continuerò a fare di tutto per renderti felice, che ti proteggerò sempre. Diventa la mia Neiē, resta qui con me in eterno!» esclamò, prendendo tra le mani il viso della ragazza «È questo il tuo posto!»
 
Anise per qualche istante non trovò le parole adatte a rispondere, e si limitò ad accarezzare le mani del compagno. «Beerus, così facendo creeremmo un life-link» disse, dopo un po’ «Non ti spaventa?»
 
L’Hakaishin scosse la testa. «Per nulla. Mi fido di te come di me stesso. Se un giorno morirò, sono convinto che non sarà perché tu o io infrangeremo il nostro giuramento» affermò.
 
Entrambi abbassarono le mani, e Anise strinse quelle del compagno tra le proprie. «Saresti pronto ad affidarmi la tua vita…»
 
«Sì. Anise… aitiv orva ehcnif, et ehc ertla iam orva non ech oruig».
 
“Lo ha fatto” fu tutto quel che riuscì a pensare la Lusan, allibita “Lo ha fatto sul serio!” pensò Anise.
 
«Giuro che non avrò mai altre che te, finché avrò vita» aggiunse Beerus -stavolta in lingua comune, pur sapendo che lei aveva capito perfettamente quanto aveva detto in precedenza- con un sorriso.
 
«Abbiamo solo vent’anni» mormorò Anise «E tu sei immortale».
 
«Non vedo il problema, lo sarai anche tu!» esclamò. L’incubo era stato la molla che lo aveva spinto a decidere, ma in fin dei conti lui aveva sempre avuto l’intenzione di renderla la sua Neiē, dunque l’entusiasmo e la felicità che provava ora a una simile idea erano genuini.
 
Anise non sapeva bene cosa pensare: Beerus aveva già giurato, senza ascoltare i suoi tentativi di parlargli proprio di quella questione, e ciò la metteva in una posizione molto difficile. Lei lo amava moltissimo, e pensava davvero che un giorno sarebbe diventata la sua Neiē, ma… un giorno, per l’appunto.
Se Anise avesse dato ascolto solo ai sentimenti che provava per Beerus avrebbe giurato immediatamente a sua volta, ma si trattava di un voto eternamente vincolante, si trattava della creazione di un life-link; non era qualcosa che si potesse fare d’impulso, trascinati dall’amore.
«Hm».
 
«Anise, devo preoccuparmi? Pensavo che volessimo farlo, ne avevamo parlato, insomma, tu… non hai cambiato idea, vero?»
 
La lince notò dell’inquietudine nel sorriso di Beerus, e se ne dispiacque. Non voleva che gli venissero dubbi sulla sincerità dei suoi sentimenti, non lo meritava. «No, è solo… tu sei proprio sicuro? Whis aveva detto di aspettare».
 
“Ah, ecco il ‘problema’, il mio attendente che non si fa i fatti propri!” pensò Beerus. Aveva detto a lui di aspettare, quindi sicuramente lo aveva detto anche ad Anise -insieme a chissà cos’altro-: l’origine delle incertezze della sua compagna era senz’altro quella e, se le cose stavano così, lui non doveva far altro che cercare di rassicurarla. «Sì, ma ho io l’ultima parola! Non importa se siamo giovani, io non cambierò mai idea. So che la mia Neiē puoi essere solo tu. Whis deve farsi gli affari suoi, è una cosa che riguarda noi e quel che vogliamo, non lui».
 
Anise sollevò lo sguardo. «Io-»
 
Beerus non avrebbe mai saputo cos’era in procinto di dire Anise, perché Whis -Whis il censore, momentaneamente diventato “Whis il salvatore”- comparve dietro di lui e lo tramortì brutalmente con un colpo in testa, facendolo crollare tra le braccia di un’interdetta Lusan.
 
«Più gli dico di aspettare a fare qualcosa, più ha fretta di farla! C’è ben poco peggio di un Hakaishin a malapena ventenne. Per fortuna ha preso tempo, Lady Anise» sospirò l’angelo, sollevando l’Hakaishin grazie alla magia «Lei è la sua Iarim Neiē. È già abbastanza ufficiale così, per adesso. Concorda?»
 
I sentimenti erano quelli che erano, ma riconosceva che quella che avrebbe finito per commettere se Whis non fosse intervenuto restava una grossa imprudenza, e proprio per tale ragione accolse le parole dell’angelo con un misto tra senso di colpa e sollievo. «Concordo. Beerus però ha già giurato, conta?»
 
«Lui magari si sentirà vincolato, ma tecnicamente non lo è. Non è stato reciproco».
 
«Capisco».
 
«Lady Anise, immagino si renda conto che la cosa non finirà qui. Lord Beerus si riprenderà molto presto, e quando lo farà tornerà alla carica» la avvisò Whis «Non mi è dato sapere cosa gli abbia fatto prendere la decisione di farle la proposta oggi, ma se è arrivato a tanto allora non è qualcosa che io possa arginare, non più: dovrà farlo lei. Cerchi di essere più decisa stavolta, o sia "cattiva", se deve. Nonostante la conversazione che abbiamo avuto nel primo pomeriggio, poco fa mi è sembrata sul punto di accantonare ogni buonsenso e giurare a sua volta».
 
«Era troppo entusiasta all’idea che io diventassi la sua compagna per l’eternità, e ammetto che ha contagiato anche me. So che non puoi capire certe cose, ma ti assicuro che può diventare difficile essere prudenti con qualcuno che si ama tanto. Io comunque ho provato a parlargli, ma non mi ha lasciata fare».
 
«Lord Beerus vuole che lei diventi la sua Neiē, quindi “deve” diventare la sua Neiē» disse l’angelo «Finora avete remato nella stessa direzione, come si suol dire, quindi il suo egocentrismo non è stato un problema, ma ora…» fece spallucce «Chissà?»
 
«Sono sicura che Beerus sarà ragionevole, devo solo riuscire a parlare per bene con lui di questo argomento. Siamo un uomo e una donna di vent’anni, e io non voglio altro se non chiedergli di rallentare un po’, e magari di dirmi a cos’è dovuta veramente questa sua decisione improvvisa: non mi sembra nulla da cui potrebbe nascere una tragedia».
 
Whis fece un lungo sospiro. «Lady Anise, ricorda la conversazione che abbiamo fatto il giorno del nostro primo incontro?»
 
«Sì».
 
«Ricorda cos’ho detto riguardo la differenza tra lei e Lord Beerus?»
 
«Avrà notato che Beerus è un diciottenne che ha avuto esperienze da diciottenne, mentre lei è una diciottenne, ma ha avuto esperienze degne di una trentenne/quarantenne particolarmente sfortunata. Tutto ciò crea un abisso tra lei e Beerus. Mi capisce?”» recitò Anise «Se non erro si trattava di qualcosa del genere, con in mezzo anche un commento sull’incapacità di cuocere uova».
 
«Ho appena capito perché Lord Beerus non riesce mai a vincere quando giocate a carte, ma questo è un altro discorso. Ecco, Lady Anise: dal momento che si ricorda, sappia che le mie parole di allora sono tuttora valide. Avete un modo di ragionare troppo diverso. Poi per carità, potrei anche sbagliarmi» disse Whis, alzandosi in volo insieme al povero Hakaishin privo di sensi «Come ho detto prima… chissà! Io ora metto a letto Lord Beerus, il quale non si sveglierà prima di domattina. Forse fa meglio ad andare a dormire a sua volta, Lady Anise, perché ho come l’impressione che per affrontare la giornata di domani le serviranno diverse energie. Non per la copula, temo».
 
«Vedi? A forza di stare con me hai imparato qualcosa, Whis monello!»
 
Whis non si curò di risponderle, e poco dopo Anise rimase sola con i propri pensieri.
 
“Sono sicura che andrà tutto bene. Perché non dovrebbe? Beerus mi ama, io lo amo altrettanto, quindi domani riusciremo a parlare e a intenderci senza grande sforzo. Sono sicura che andrà così”.

 

 
 
 
 
Alla fine non sono riuscita a mettere tutto in un solo capitolo, dunque quel che avrei voluto mostrare qui va per la prossima volta (:
A voi eventuali commenti!

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Capitolo 17
*** 17 ***


17
17
 
 
 
 

 
 
 
 
 
Quando Beerus aprì gli occhi e si rese conto di essere nel proprio letto, inizialmente pensò che fosse solo l’inizio di una giornata perfettamente normale. Lui in pigiama, lenzuola morbide e profumate, e la sensazione del corpo caldo di Anise che premeva contro il suo.
Caldo e nudo, a giudicare da quel che le sue mani stavano sentendo -o meglio, non stavano sentendo-: a separare la sua compagna da lui non c’era nulla, se non i propri indumenti.
 
Improvvisamente sveglissimo, ma per il momento dimentico di tutto quel che era accaduto la sera prima, Beerus strinse a sé Anise e cominciò a baciarle il collo, mentre percorreva con carezze delicate quando esigenti ogni centimetro delle sue sensibili membra.
Era sempre un piacere percepire il corpo della sua compagna destarsi sotto il suo tocco: ormai conosceva fin troppo bene i modi in cui ad Anise piaceva essere stuzzicata, viziata, coccolata.
 
«Hm… Beerus, di già?» bofonchiò Anise, ancora assonnata ma, come testimoniavano le sue fusa, ben felice di essere stata svegliata in quel modo.
 
«Ne sei dispiaciuta?» fu la domanda retorica dell’Hakaishin, i cui baci partendo dal collo si stavano rapidamente spostando più in basso.
 
«Solo se non ti sbrighi ad arrivare dove devi arrivare» disse Anise, rabbrividendo di piacere nel sentire Beerus baciare il ventre, zona per lei particolarmente ricettiva a certi stimoli.
 
«Vorresti davvero togliermi il piacere di gustarti un po’alla volta? Ci sono squisitezze che vanno assaporate con calma» replicò il dio, rallentando di molto la sua discesa.
 
«Me ne ricorderò quando saremo a parti... a parti invertite!…» gemette, notando con piacere che le mani del suo compagno erano giunte a destinazione prima della bocca.
 
«Questo è abbastanza, per ingannare l’attesa?»
 
«Non è m-malissimo, no, ma… ma non farmi aspettare troppo».
 
Beerus si concesse una bassa risata, lieto che la sua compagna desiderasse e apprezzasse così tanto il piacere che era in grado di darle. Erano molto intimi ormai da diverso tempo, ma ogni volta che andavano a letto insieme -ma anche nella vasca, o sul pavimento, o in mezzo al prato, o su tavoli, poltrone, divani…- era come la prima, e questo valeva per entrambi.
 
Quando Anise percepì il tocco delle labbra del suo compagno esattamente dove lei l’aveva desiderato, si lasciò andare a un sospiro di sollievo per essere stata finalmente accontentata. Ancor meglio di questo però era la consapevolezza che quello, in realtà, non era neppure l’inizio.
 
«Beerus…» mormorò.
 
Era sempre così: ogni volta che facevano l’amore, o -come in quel caso- si dedicavano ad attività affini, si ritrovava sempre a gemere e godere senza alcun ritegno, e le piaceva.
Anise amava perdere il controllo di sé in quei momenti, amava come la faceva sentire, amava lui! non aveva proprio idea di come avesse potuto farne a meno in passato, né di come avrebbe potuto farne a meno in futuro, e pochi minuti dopo eccola lì, ad artigliare le lenzuola come se ne andasse della propria vita mentre gridava il nome del suo compagno.
Non sarebbe riuscita a trattenersi nemmeno se avesse tentato di farlo, e non voleva farlo: sapeva bene quanto a Beerus piacesse sentirla esprimere la sua soddisfazione in modo così chiaro, soprattutto quando, come in quel caso, stava per raggiungere il culmine del piacere.
Un ultimo grido ed ecco che Anise si abbandonò contro il materasso, leggermente provata e con un’espressione che la diceva lunga sul suo appagamento… ma non era ancora abbastanza.
 
Beerus, soddisfatto del proprio lavoro, si spostò per tornare a guardare Anise negli occhi. «Non ne sono sicuro, quindi te lo domando: hai per caso detto il mio nome un paio di volt- ehi!» rise, venendo colpito da una cuscinata.
 
«Meno chiacchiere, più azione!» gli intimò Anise, spingendolo contro il materasso e trovandosi così sopra di lui. «Anzi, no: faccio io».
 
«Ma-»
 
La ragazza tappò la bocca di Beerus con una mano, facendogli cenno di fare silenzio con l’altra. Sorrise. «Faccio io».
 
Come accadeva praticamente in ogni occasione in cui si trovavano in quel letto, i due giovani goderono per diverso tempo della rispettiva compagnia; anzi, sarebbe più esatto dire che “goderono” e basta, soprattutto perché Anise volle ricambiare Beerus di tutte le attenzioni che le aveva donato al risveglio.
 
«Darei tutto l’oro che possiedo per poter passare così tutte le mattine!» esclamò Beerus in seguito, entusiasta e pienamente soddisfatto.
 
«Addirittura tutto il tuo oro?» sorrise Anise, stringendosi a lui.
 
 «Sissignora. Il mio oro per un risveglio simile tutte le mattine. Per l’eternità».
 
Quelle ultime parole cambiarono l’atmosfera: un attimo prima era tutto splendido, e ora non era più così.
 
«Nulla dice che in futuro le cose non andranno proprio così, Beerus» disse Anise «Ma forse dovremmo-»
 
«No, senti, se vuoi tirare fuori nuovamente il fatto che Whis ha detto di aspettare puoi anche evitarlo. Mi ha dato un colpo in testa, quel… quel!… ah, che se ne vada “a quel paese”, come dice lui. Con Whis me la vedrò più tardi!» concluse Beerus, con un gesto seccato «Ora abbiamo un giuramento da completare. Sì, lo so, non siamo vestiti, ma basta che tu abbia l’orecchino… sì, ce l’hai, ottimo, allora-»
 
Anise, che ormai non sorrideva più, si passò una mano sul volto. «Non ora…»
 
Beerus impietrì, e batté le palpebre: doveva certamente aver sentito male, perché Anise non poteva aver detto di no. Era impossibile, giusto? Ma sì, certo che non lo aveva detto. «Sì sì: ora. Ieri stavamo per farlo, no? Quindi oggi finiamo».
 
Anise scosse la testa, con aria un po’addolorata. «Beerus, no. Non adesso».
 
Calò un silenzio spaventoso, al punto che entrambi poterono sentire in lontananza Whis che fischiettava allegramente - si presumeva sotto la doccia.
Non che delle docce di Whis importasse qualcosa, al momento.
 
«Cosa vorrebbe dire “Non adesso”? Anise, tu… tu ieri stavi per giurare!» esclamò il dio, allibito «Stavi per giurare, cosa ti ha fatto cambiare idea?! Cosa?! Io… è stato Whis! È stato lui, vero?! Oltre ad avermi tramortito ti ha anche riempito la testa di Zeno solo sa cosa! Io lo uccido!» sbraitò, catapultandosi giù dal letto «Ora lo annego in quella stramaledettissima doccia, quant’è vero che mi chiamo Beerus, poi gli strappo i capelli, ci faccio una corda, e lo impicco! Lo IMPICCO!»
 
«Whis in realtà c’entra solo fino a un certo punto, io non ero molto convinta di volerlo fare» ammise Anise «Non adesso, almen-»
 
«COSA?! Come sarebbe a dire che “Non eri convinta”?! Io credevo… Tu hai detto di amarmi, no?» si riavvicinò al letto «Sirel ym, sirogh yem e compagnia bella, sbaglio?»

«Certo che ti amo» disse Anise «Ma-»
 
«E ALLORA PERCHÉ?!» gridò il giovane «Se dici di amarmi, allora perché non vuoi fare quel giuramento?!»
Beerus aveva l’espressione di qualcuno che aveva appena visto crollare miseramente uno dei suoi più bei castelli in aria. Fino a poco prima sembrava tutto così bello, e fino al giorno prima sembrava cosa fatta, sembrava che il suo sogno di avere finalmente Anise lì, come sue Neiē, fosse sul punto di realizzarsi… ma ora quel sogno si era distrutto come se lui stesso l’avesse colpito con un hakai, e non riusciva a spiegarsi il motivo.
 
«Non ho detto che non voglio farlo in assoluto. Io ti amo, e voglio diventare la tua Neiē» disse Anise, cercando di mantenere la calma «Ho soltanto detto che fare quel giuramento ora è una cosa un po’azzardata, secondo me».
 
«Ieri ti andava benissimo l’idea, o così mi sembrava! Se non ti stava bene, allora perché non hai detto una parola?!»
 
«Io chi ho provato, ma tu sei partito in quarta con il giuramento e non mi hai fatto mettere in fila neppure due parole a riguar-»
 
«Perché non vuoi diventare le mia Neiē?! PERCHÉ?! Cosa…» fece un sospiro passandosi la mano sul volto «Cosa ti manca? Cos’è che volevi e non ti ho dato?! Cos’è che non ho fatto?... o che ho fatto, ma tu non volevi che io facessi? Cosa?!»
 
«Beerus, ti rendi conto che non mi stai facendo dire le cose per bene neppure adesso? Per non parlare del fatto che neppure un minuto fa ti ho ribadito che voglio diventare la tua Neiē, quindi fammi capire: io, per chi ho parlato?»
 
«Ho sentito quello che hai detto, non sono sordo! Ce le ho le orecchie! GROSSE!» esclamò, tirandosi le suddette «Vedi?! Ed è proprio per questo motivo che ho sentito che tu dici di voler diventare la mia Neiē, ma non vuoi fare il giuramento! Notizia dell’ultima ora: se non facciamo quel giuramento, non puoi diventare la Neiē di nessuno!»
 
«So perfettamente come funziona, e infatti quel che stai dicendo tu non c’entra proprio niente con quel che sto dicendo io. Tu però non hai la più pallida idea di cosa io stia parlando, perché di “non ora” hai sentito solo “no”, e tanto ti è bastato. Non ragioni più».
 
«Quindi ora oltre a rifiutarmi mi staresti dando anche dello stupido?!» urlò Beerus.
 
Anise era stupita per il modo in cui stavano andando le cose, e non in senso buono. Era veramente convinta che Beerus, magari dopo un po’di sorpresa o delusione iniziale, avrebbe reagito con la maturità che si era aspettata, senza fare tante storie per un nonnulla; uno scenario ben diverso da quel che invece si trovava davanti, con lui a sragionare completamente mentre le urlava contro.
Si conoscevano da due anni, in tutto quel tempo non era mai successo niente di simile e, a suo parere, Beerus le aveva dato spesso prove di una certa maturità: quell’atteggiamento assurdo dunque giungeva totalmente inaspettato.
«Tu non sei stupido, solo che a quanto pare al momento le tue facoltà di comprensione sono alterate da un’ingiustificata dose di rabbia e delusione in eccesso».
 
«Ora mi parli anche come un maledetto libro stampato?! GUARDATI! Guardati, lì nel letto, bella tranquilla mentre io… io…»
 
«Beerus, cerca di calmarti» disse Anise, alzandosi dal letto per avvicinarsi a lui «Non è il caso di reagire così male. Io non ti ho detto di no, ti sto solo dicendo che sarebbe il caso di fare le cose con un po’più di prudenza. Noi ci conosciamo da due anni, e questo è un giuramento eternamente vincolante che crea un life-link. Un life-link! Non è una cosa da poco, cerca di rendertene conto».
 
«Lo so che non è una cosa da poco! Lo so! Ma se io sono disposto a mettere la mia vita nelle tue mani, allora perché tu non lo sei? Tu, che dici di amarmi? Me lo hai detto anche poco fa, proprio lì» indicò il letto «Te lo sei dimenticata?!»
 
«Certo che no, e ti ripeto che è esattamente come ti ho detto, io ti amo… ma siamo anche giovani, siamo troppo giovani per fare una cosa del genere, e io-»
 
«Vuoi un altro uomo? Pensi che in futuro vorrai lasciarmi per un altro uomo?!» la interruppe Beerus.
 
«Ovvio che no».
 
«Allora giura! Dici di amarmi, quindi devi farlo!» esclamò, con una nota di disperazione nella voce, stringendole le mani «Fallo!»
 
«Anche tu dici di amarmi» ribatté Anise «Quindi dovrai aspettare ancora un po’, specie perché io… sai, a volte ho qualche dubbio anche sul puro e semplice diventare immortale. In futuro lo farò, perché se vogliamo rimanere insieme non c’è altra via, ma-»
 
«Mollo tutto» sussurrò Beerus, con lo sguardo spiritato.
 
«… cos’hai detto?»
 
«Mollo tutto» ripeté il dio, prendendole il volto tra le mani «Un Hakaishin può abdicare, e anche farlo decidendo di rinunciare al dono dell’immortalità. Una tua parola, e io mollo tutto».

Quello non era uno dei momenti migliori del giovane Beerus, che stava sragionando completamente. Quasi non riusciva a credere di averlo detto sul serio, ma la sua lingua si era mossa da sola appena aveva sentito Anise dire quelle frasi, e quel che aveva detto non era affatto da lui. A Beerus piaceva essere il Dio della Distruzione, e in condizioni normali si sarebbe schiaffeggiato da sé -giustamente!- anche solo per aver pensato di abbandonare il proprio ruolo di Hakaishin.
Quelle però non erano condizioni normali: non riusciva a ragionare bene, vedeva immotivatamente
"a rischio" la sua relazione , e ciò lo stava spingendo a dire e proporre cose a cui in realtà non credeva affatto.
 
«Beerus-»
 
«Pur perdendo i miei poteri di divinità manterrei quelli che ho già di mio, e gli anni di addestramento non diverrebbero inutili, quindi potrei proteggerti da tutto. Potremmo vivere insieme nella tua casa nel bosco, insomma, tu sei indipendente, giusto? Da mangiare non ci mancherebbe mai! Oppure ci sono gli adamadnery pinc che non hai dato a tua sorella. Prenderemmo la casa più grande di quella città vicino all’oceano, assumeremmo una trentina di persone che facciano tutto al posto nostro, e io continuerei a vivere praticamente come faccio ora. Potrei anche ordinare dolci da Swetts tutti i giorni, continuare a far arrivare via corriere i miei fumetti, mettere la rete internet…»
 
Anise pensò che era incredibile il modo in cui tutto quel che Whis le aveva detto nell’andar del tempo, inclusi gli argomenti della loro prima conversazione e gli avvertimenti della sera prima, si stesse concretizzando proprio davanti ai suoi occhi.
«Non so come dirtelo, Beerus, ma se mantenessi il tenore di vita che hai attualmente finiremmo squattrinati in meno di dieci anni. È così che funziona quando ci sono uscite continue e nessuna entrata. Finiremmo col dover tornare a vivere nella mia casa nel bosco, e io non potrei lavorare per tutti e due. Dovresti imparare a fare qualcosa ma, ecco, fino a questo momento non mi sei sembrato molto portato per…» “Vivere senza qualcuno che faccia tutto al posto tuo” completò mentalmente, con dispiacere «Certe cose. Per non parlare del fatto che in ogni caso permetterti di rinunciare a tutto sarebbe una follia: tu sei Lord Beerus, tu sei l’Hakaishin di questo Universo, ti meriti questo titolo ed è giusto che tu lo mantenga».
 
«Mi ritieni un incapace! È questo che pensi di me in realtà, vero?!» sbottò l’Hakaishin, con una certa amarezza «Mi dici sempre che ho tante qualità, ma in realtà pensi che sia capace soltanto di mangiare, dormire, combattere, fare sesso e distruggere pianeti!»
 
«Non ti trovo un incapace, e sì, hai tante qualità: in caso contrario non starei con te. Però devi ammettere che la vita che potremmo condurre non farebbe per te. Finiresti a rimpiangere tutto quel che hai adesso, finiresti per maledire il giorno in cui hai lasciato il tuo ruolo, e poi finiresti per maledire anche il giorno in cui mi hai incontrata» disse Anise, con aria seria «Tu sei abituato a un certo tipo di vita, a essere servito e riverito, quindi un giorno finiresti con l’odiarmi per averti strappato a tutto questo».
 
«Non è vero! Queste sono solo delle scuse assurde per giustificare il fatto che in realtà non mi ami abbastanza, né per fare subito quel dannato giuramento, né per accettare di stare con me se io facessi l’immenso sacrificio di ridiventare mortale!»
 
«Dici tu per primo che sarebbe un “immenso sacrificio”, non vedo come potrebbe andare a finire bene».
 
«Sei venuta a parlarmi di soldi, Anise! Soldi!» continuò Beerus, senza ascoltarla.
 
La Lusan non sapeva proprio come stesse riuscendo a mantenere la calma in una simile situazione, col suo compagno che non l’ascoltava e non faceva che accusarla di non amarla abbastanza, quando invece lei gli aveva soltanto chiesto del tempo in più che, considerando gli ultimi sviluppi, era necessario. «Alla gente non autosufficiente servono un lavoro e dei soldi per vivere. Si chiama “vita da comuni mortali”».
 
Beerus, ancora preda di rabbia e delusione, fece una risata del tutto priva allegria. «Perché non dici le cose come stanno, una buona volta? Di’ che ti piace l’idea di stare con una divinità strapiena d’oro, che ti piace essere a tua volta servita e riverita in quanto mia Iarim Neiē, e che se io non fossi stato l’Hakaishin di questo Universo non mi avresti nemmeno guardato! Perlomeno le prostitute erano più sincere!»
 
Era andato completamente fuori di testa, non c’era altra spiegazione. Anise non si capacitava di averlo sentito davvero dire cose del genere a lei, che non gli aveva chiesto mai nulla, a lei, che aveva sempre preferito fare le cose da sola piuttosto che essere "servita e riverita", a lei, che era la ragazza con cui lui aveva aspettato mesi prima di fare l’amore proprio perché non voleva farle pensare che la mettesse al livello di una lavoratrice del postribolo -un pensiero che Anise trovava tuttora privo di senso.
Forse la botta in testa di Whis era stata molto più forte del dovuto.
Anise avrebbe avuto voglia di fare tante cose: di urlargli che stava dicendo una stronzata dopo l’altra, di prenderlo a schiaffi, di mettersi a piangere, di pregarlo di tornare a ragionare perché lui non poteva pensare quelle cose, non le pensava, non poteva pensarle sul serio, non voleva né riusciva a crederci…
 
«Bene. Stando così le cose, io non intendo ascoltare neppure un’altra parola. Sappi che mi hai molto ferita, e che tornerò a darti considerazione solo se -ma spero sia più un “quando”- riprenderai a usare il cervello e ti scuserai con la sottoscritta per ognuna delle idiozie che sono uscite dalla tua bocca. Fino ad allora evita di cercarmi, di parlarmi o di tentare qualunque tipo di contatto. Buona giornata, Beerus».
 
Ma non fece nulla di tutto questo, optando per una soluzione più dignitosa: detto quel che doveva dire, raccattò con rapidità l’abito che aveva indossato il giorno precedente e uscì dalla stanza, allontanandosi da essa quasi di corsa.
 
“Sarà ragionevole, dicevo. Reagirà con maturità, dicevo. Non ha motivi per dare di matto, dicevo... pensò.
 
«Lady Anise, credo che quel vestito le starebbe meglio addosso, piuttosto che tra le mani» disse Whis, da poco uscito dalla doccia, con un viso l’espressione più serena dell’Universo «Come va la giornata? Mi è parso di sentire un vivace scambio d’opinioni».
 
In quel momento Anise iniziò a capire il motivo per cui a Calida piaceva strappare gli occhi delle persone. Poter sfrittellare quei bei bulbi oculari dall’iride lavanda le avrebbe fatto non poco piacere. «Nulla più di una piccola discussione, niente di cui tu debba preoccuparti, o che ti riguardi».
 
«Meglio così allora. Lo sa, mi sarei aspettato da lei una risposta un po’più... come dire, “colorita”, alla mia domanda».
 
«Ho pensato che troppe soddisfazioni in una sola mattinata potrebbero esserti nocive» replicò Anise, riuscendo perfino a stirare le labbra in un sorriso alquanto falso «Non sia mai che tu esploda di gioia nel senso letterale del termine».
 
Entrambi in quel momento sentirono distintamente il rumore di una porta sbattuta, e in seguito un tonfo. Sicuramente Beerus aveva usato troppa forza e la porta era uscita dai cardini o, in alternativa, suddetti erano stati strappati via.
Né Anise né Whis tuttavia videro il Dio della Distruzione, il quale -arrabbiato e poco desideroso di avere a che fare con loro- doveva aver scelto di passare da un’altra parte.
 
«Dovrò riparare la porta» commentò Whis.
 
«Credo di sì».
 
«In certi momenti lei possiede un autocontrollo che si avvicina quasi al mio, Lady Anise».
 
«Tanto meglio, visto e considerato che devo averne anche per Beerus. Però non paragonarmi a te, Whis, non sei qualcuno a cui vorrei somigliare».
 
«Desidera che il “qualcuno cui non vuol somigliare” la riporti a casa, una volta che si sarà rivestita?»
 
Anise, dopo una piccola esitazione, annuì. «Per una volta ho tanta voglia di andarmene quanta ne hai tu che io me ne vada. Ogni tanto riusciamo a essere d’accordo su qualcosa, dopotutto».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«Mi stavo facendo portare da Beerus perché credevo foste insieme, negli ultimi tempi sei più a casa sua che in casa tua. Non mi aspettavo di trovarti qui».
 
«Non me lo aspettavo neppure io, Champa, ma sai come va… cambi di programma».
 
Quando Champa quel pomeriggio era arrivato in casa di Anise -dicendo a Vados di tornare verso le sei di sera- l’aveva trovata intenta a classificare le foglie essiccate delle tisane “in un ordine che va da quelle col gusto più delicato a quelle col gusto più intenso. Utile, no?”.
Per come la pensava lui no, non era affatto utile, soprattutto perché lei non lo aveva mi fatto fino a quel momento. Sembrava più che altro un modo come un altro per impegnare la mente con qualcosa… e se a questo si aggiungeva il semplice fatto di trovarla lì in un momento imprevisto, allora era sicuramente successo qualcosa di poco gradevole. «Va tutto bene?»
 
«Certo. Sii gentile, passami quel vasetto alla tua destra, dovrebbe essere la miscela d’infuso con i fiori» disse la ragazza tendendo una mano verso di lui, in attesa.
 
Champa vide la mano di Anise tremare leggermente, dunque la strinse con la propria, capendo che doveva esserci veramente qualcosa che non andava. «Cosa succede?»
 
«Niente».
 
«Non sono un imbecille. Cosa succede?»
 
«Mi passi il vasetto?» chiese di nuovo la lince, senza voltarsi a guardarlo «Vorrei finire il lavoro entro oggi».
 
«Ma chi se ne importa delle tisane?! Non importa per davvero nemmeno a te! Guardami!» esclamò il dio, sollevandole il viso «Cos’è successo?»
 
«Niente».
 
«Cos’ha combinato il gemello scemo?» insistette Champa «Perché qualcosa dev’esserci stato, o non saresti qui e non ti staresti rincitrullendo a catalogare tisane!»
 
«È quello che voglio fare, e sarei felice se mi aiutassi. Io e te siamo amici, giusto?»
 
«Sì! Appunto per questa ragione voglio che tu mi parli di quel che è successo. Io con te l’ho fatto, quando ne ho avuto bisogno».
 
«Io però non voglio parlare, anche perché non ho molto da dire. Voglio finire il lavoro» ripeté Anise, in tono quasi meccanico «Mi aiuti, Champino?»
 
L’Hakaishin non disse nulla, ma la afferrò per la vita e la sollevò di peso, per poi metterla a sedere sul divano, sedersi di fianco a lei, circondarla con la braccia e poggiare la propria testa sulla sua spalla.
 
«Champa, ho da fare. Lasciami».
 
«No».
 
«Ho da fare» ribadì la ragazza.
 
«Non più».
 
«Non puoi restare così in eterno».
 
«A dire il vero potrei, sono immortale» ribatté Champa «A cos’è che non vuoi pensare? Cos’è capitato?»
 
«Non mi lascerai andare finché non ti darò retta, immagino».
 
«Immagini bene» confermò lui.
 
Solo a quel punto Anise si decise a voltarsi per guardarlo negli occhi. «Io e Beerus abbiamo un po’discusso, ma non è niente, capita in tutte le coppie. Era ora che capitasse anche a noi, in un certo senso».
 
«Immaginavo che c’entrasse lo scemo, purtroppo» sospirò Champa «Cos’ha fatto?»
 
«Parti già col presupposto che sia stato lui a fare qualcosa di sbagliato?»
 
«Di voi due lui è quello con meno sale in zucca, quindi sì, parto con questo presupposto» annuì il giovane «Se proprio non vuoi darmi i dettagli dimmi almeno cos’ha scatenato la discussione, così so quanto devo insultarlo in una scala da uno a dieci!»
 
«Te la faccio breve: voleva che facessimo il giuramento che mi avrebbe resa la sua Neiē, io gli ho chiesto di “rallentare” perché per quanto lo ami fare una cosa del genere adesso mi sembra imprudente, e lui l’ha presa… beh, non benissimo. Questo è tutto» concluse Anise «Se… se ci penso mi viene quasi da piangere, sai? Fino a un attimo prima andava tutto benissimo, e dopo...» si interruppe «E dopo, ecco una Lusan che la sta facendo tanto lunga per un nonnulla. Tu non dovresti stare qui ad ascoltare i miei disagi, non meritano il tuo tempo. Mi lasci andare?»
 
Champa scosse la testa. «Non finché non mi dici di più».
 
Anise aveva immaginato che la risposta sarebbe stata quella, e in ogni caso doveva ammettere che in quella situazione non le dispiaceva avere qualcuno vicino.
Non le andava molto di parlare, perché aveva sempre la sensazione di “lamentarsi troppo”, però non sapeva nemmeno cos’altro fare. Le ore che erano passate non avevano migliorato il suo umore, anzi, se possibile era ancor più amareggiata di quanto fosse quando era partita dal pianeta di Beerus.
Le parole di quest’ultimo le avevano fatto male, ed era un’altra cosa per cui si biasimava: come aveva potuto lasciarsi ferire così da parole dette in un momento di rabbia? Beerus non l’aveva accoltellata, non le aveva sparato, non l’aveva presa a calci! Come poteva essere diventata così sciocca, debole e lamentosa?!
 
«Se io avessi giurato senza farla tanto lunga sull’età, sulla prudenza o l’imprudenza, sul life-link o non linfe-link, non sarebbe successo nulla. Io lo amo, forse dovevo… oppure… oppure non dovevo» si contraddisse la ragazza, evidentemente confusa «No, non dovevo, perché se mi vuole bene davvero allora è giusto che mi dia il tempo che chi serve, maledizione! Non gli ho chiesto chissà cosa, io non gli ho mai chiesto niente…» mormorò abbassando il capo, sul punto di cedere «Mi sono sentita dire che se non fosse stato l’Hakaishin di questo Universo non l’avrei nemmeno guardato e che “perlomeno le prostitute erano più sincere”, ma io non gli ho mai chiesto niente!»
 
Incredulo, Champa la lasciò andare. «Al di là del fatto che per dire una cosa del genere dev’essersi rincoglionito del tutto, non capisco che attinenza abbia col resto!»
 
«Perché ho fatto l’errore di dirgli che ogni tanto ho dubbi anche sull’immortalità di per sé, come sai, ma gli avevo anche detto che in futuro mi adeguerò, perché se vogliamo puntare a stare veramente insieme in eterno c'è solo questa via. Lui allora se n’è uscito col dire che avrebbe mollato tutto, immortalità inclusa, per venire a vivere qui con me. Io gli ho detto che non era una buona ide-»
 
«Lasciare il suo ruolo sarebbe una pazzia! Non sa nemmeno cucinare una torta e vorrebbe andare a vivere con chicchessia senza Whis a fare tutto? Ma per piacere, sarebbe come se volessi andarci io, o peggio, perché io adesso so cucinare qualcosina, al contrario di lui!» esclamò Champa, per poi fare facepalm «Ormai non ci sono dubbi, Beerus è partito completamente di cervello».
 
«Non dovevo parlartene, ora penserai che volessi solo qualcuno su cui riversare le mie “pene d’amore”».
 
«Noi due siamo amici. Lo siamo quando va tutto bene e lo siamo quando va tutto un po’meno bene. Mi dispiacerebbe se tu pensassi di non potermi parlare».
 
«Mi ricorderò. Grazie» disse Anise, con un debole sorriso «Ora però mi aiuti a catalogare le tisane?»
 
«Ancora?!»
 
«Beh, ho cominciato, non posso lasciare tutto in giro così. Adesso mi sento anche meglio, grazie a te».
 
«Io te lo avevo detto, che dovevi dirmi tutto subito, ma tu “No, niente!”… ormai lo vedo, quando hai qualcosa che non va» disse Champa, facendo spallucce «Non sono uno stupido».
 
«No, infatti. Sei la persona meno stupida che io conosca. Mi sa che alla fin fine sei molto più sveglio di me, se devo dirla tutta. Champino?»
 
«Sì?»
 
«Le tisane. Io dicevo sul serio!...»
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
Era una delle giornate peggiori che gli fossero capitate da due anni a quella parte, anzi, forse era la peggiore in assoluto.
Beerus era seduto su ciò che restava di un albero tagliato, a gambe incrociate, senza fare altro che non fosse pensare. Quel giorno non aveva neppure mangiato, non aveva neppure avvertito alcun senso di fame -proprio lui, che solitamente era insaziabile!- e aveva perfino maltrattato Whis quando questi, ormai diverse ore prima, si era avvicinato per ricordargli che l’ora di pranzo era quasi arrivata. Mangiare sarebbe stato inutile, non sarebbe riuscito a godersi nemmeno un boccone, anche se Whis avesse messo in tavola il profiterole di Swetts.
Quel profiterole piaceva tanto anche ad Anise.
 
“Cos’ho sbagliato?”
 
Non si riferiva a quant’era accaduto al mattino, perché dopo tutte quelle ore -i soli stavano calando, ormai- aveva smaltito sufficiente rabbia da capire che aveva commesso un errore dopo l’altro; si riferiva al fatto che Anise non avesse voluto fare il giuramento.
 
“Cosa le manca? Cos’altro dovevo fare?!”
 
Non riusciva proprio a darsi pace, a trovare una spiegazione soddisfacente: forse non le aveva fatto abbastanza regali il giorno del suo compleanno? No, non poteva essere per quello, anzi, era piuttosto convinto che lei li avesse considerati anche troppi.
Forse non le aveva fatto abbastanza coccole durante quei due anni, o l’aveva annoiata nei momenti trascorsi insieme?
 
“O magari è per il mio ruolo. Lei dice che non ha problemi, ma può essere che si sia resa conto che in realtà non vuole stare con qualcuno che ha tanto sangue sulle mani…”
 
No, quella era un’idiozia, anche perché Anise era abituata a voler bene alle persone con “tanto sangue sulle mani”. Ne voleva a quella schizzata di sua sorella Calida, quindi non doveva dubitare che ne volesse anche a lui.
Forse… non aveva fatto abbastanza per renderla felice?
 
“Questa mattina non l’ho fatto senz’altro!”
 
Se ripensava a quel che le aveva detto non riusciva quasi a crederci, soprattutto perché in realtà non pensava neppure mezza parola di quelle che aveva pronunciato.
Come aveva potuto accusarla di essere interessata solo alla sua posizione e al suo oro? Come?! Ad lei non importava proprio nulla di certe cose, e lui lo sapeva benissimo: Anise aveva perfino dato via un tesoro, che diamine!
 
Cosa cazzo mi ha detto il cervello?!” pensò, trattenendo la voglia di tirarsi un pugno in faccia.
 
Non avrebbe mai dovuto urlarle contro in quel modo, non avrebbe dovuto muoverle quelle accuse, e soprattutto avrebbe dovuto risparmiarsi quel “Le prostitute almeno sono più sincere”. Aveva osato paragonarla a una di quelle lavoratrici, e già solo questo era assolutamente imperdonabile.
Le aveva mancato di rispetto in modo orribile, a lei, alla sua Iarim Neiē. Agire in tal modo con la sua compagna non era un comportamento degno di un dio, e neppure di una qualsiasi persona decente.
 
“Ha detto che l’ho ferita molto…”
 
Si alzò in volo all’improvviso e, con un grido di rabbia rivolta interamente contro se stesso, scagliò un colpo energetico in aria, finendo col distruggere uno dei pianeti satelliti che orbitavano accanto al suo.
La richiesta di posticipare il giuramento era come un tarlo nel suo cervello, perché nonostante lei avesse cercato di dargli spiegazioni non riusciva comunque a capirne i motivi, ma al momento la consapevolezza che Anise fosse “ferita” e che fosse stato lui a farle del male era molto più fastidiosa e dolorosa di qualunque altro pensiero.
Era proprio un Hakaishin perfetto, si disse: riusciva a distruggere tutto quel che toccava, incluso -forse- il suo rapporto con la persona che amava.
 
“Io le avevo promesso che non l’avrei mai fatta soffrire, le avevo giurato che avrei sempre fatto di tutto perché fosse serena, e l’ho fatto neppure due anni fa. Non sono stato in grado di mantenere la parola!”
 
Si nascose il volto con le mani, perseguitato dal pensiero di Anise che probabilmente stava piangendo per colpa sua. Era un’immagine insopportabile per lui, che desiderava soltanto proteggerla da tutto quel che poteva recarle danno: se aveva avuto fretta di fare il giuramento era anche per quel motivo, oltre che per amore.
Peccato solo che… come poteva pretendere di proteggerla, se era lui per primo a farla stare male?
 
“Chi mi dice che stia male? Io le urlavo contro e lei non ha fatto una piega! Forse è perché non le importa niente…”
 
Era stato anche quello a farlo innervosire e andare fuori di testa fino a quel punto, vederla così tranquilla: lui non si sarebbe comportato in quel modo. Probabilmente al posto di Anise avrebbe urlato a sua volta, avrebbe sbraitato una valanga d’insulti e, sentendo certe accuse, avrebbe anche provato a tirare una sberla. Aveva picchiato e insultato suo fratello per molto meno, del resto.
 
“Forse proprio vedendomi urlare in quel modo ha cercato di mantenere la calma, dicendosi che uno dei due lo doveva pur fare. Io non mi sei comportato così, ma io non sono lei e-”
 
Sgranò gli occhi, rendendosi conto di una cosa che lo fece disperare ancor di più: tra poche ore sarebbe arrivata la mezzanotte… e con essa il secondo anniversario del loro primo incontro!
Quello sarebbe dovuto essere un momento speciale, e lui cos’aveva fatto? Aveva deciso di litigare con lei proprio il giorno precedente!
 
«Stupido, stupido, STUPIDO!» sbottò Beerus tirando un calcio al ceppo su cui era seduto fino a poco prima, colpendolo tanto forte da sradicarlo e farlo volare chissà dove.
 
Più tempo passava, più aumentavano i suoi sensi di colpa per averla trattata male. Non avrebbe mai dovuto farlo, e ora doveva solo sperare che lei avesse intenzione di perdonarlo.
Doveva assolutamente farle sapere che non pensava nulla di tutto quel che le aveva detto, che aveva capito quanto sarebbe stato folle per lui lasciare il proprio ruolo -sì, ci era arrivato- e che lei aveva fatto bene a dissuaderlo. Doveva anche dirle che non dubitava del fatto che lei lo amasse, pur essendo ancora preda di quel piccolo pensiero maligno, quel “allora perché ha voluto che rallentaste?”, che però sarebbe sicuramente andato via col tempo.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«Ti ho portato i dolci. Sono le praline che ti piacciono, quelle di Swetts, vedi? Lo ammetto, ne ho mangiata qualcuna durante il tragitto perché ero a digiuno, ma non è questo che importa. Ti ho portato anche le rose, quelle bianche. Anche quelle ti piacciono tanto, giusto? E sono venti cespugli!»
 
Ormai Beerus era fuori dalla casa di Anise da cinque o sei minuti, e in tutto quel tempo lei non gli aveva rivolto neppure una parola: se ne stava lì sulla soglia, fissandolo con un’espressione impenetrabile e tenendo le braccia conserte.
Non prometteva molto bene, ma dopo quel che le aveva detto al mattino era già tanto che avesse aperto la porta di casa.
 
«Non sembra funzionare granché» commentò Whis.
 
«Finiscila!» sibilò Beerus «Non mi stai aiutando per nulla! Perché non vai a mangiare qualcosa in una qualche città, come fai di solito? Qui è buio, ma dall’altra parte del pianeta non lo è! Che stress!...» sbuffò.
 
«Come vuole!» disse l’angelo, alzando le mani «Tornerò quando qui farà mattina. Di questo passo finirà col dover dormire proprio in mezzo ai cespugli, ma mi ha congedato, dunque non mi riguarda. A domani!»
 
Whis andò via, e Beerus emise un verso seccato. «Menagramo che non è altro. A volte lo sopporto poco, Anise. Tu no?»
 
Di nuovo, dalla giovane non giunse risposta.
 
«Ora che siamo soli potresti anche parlarmi».
 
La Lusan si appoggiò contro lo stipite della porta ma, di nuovo, non disse alcunché.
 
Beerus fece qualche passo in avanti. «Sai cos’ho portato, oltre alle praline e ai cespugli di rose bianche? Il cervello bacato di un Hakaishin che ha mancato di rispetto alla propria compagna. Non dovevo comportarmi in quel modo» disse, dopo una breve pausa «Non dovevo dirti quelle cose, soprattutto perché non le penso. Ho reagito male perché… Anise, sai bene quanto vorrei che tu diventassi la mia compagna per l’eternità, e io mi ero illuso che fosse cosa fatta! Questo non giustifica le accuse che ti ho rivolto, ma volevo farti capire perché l’ho presa peggio del dovuto. Posso assicurarti che non avevo la minima intenzione di ferirti. Ricordi quando ti dissi “Sono felice che tu sia felice”? Vale anche il contrario! Io sono a posto solo se anche tu lo sei. Mi dispiace per stamattina» disse, sinceramente costernato.
 
«Hai detto che sei a digiuno, praline a parte» disse la ragazza, dopo una breve esitazione «Sbaglio?»
 
Oh, finalmente gli aveva rivolto la parola! Era già un inizio, e Beerus ne fu lieto. «Non sbagli. Non ho mangiato, non ero dell’umore. Avevo altro in mente».
 
Anise rientrò in casa. «Vieni».
 
L’Hakaishin la seguì, senza riuscire a trattenere un sorriso speranzoso.
La vide prendere un coltello, accingersi a tagliare una delle sue buonissime torte salate, e a quel punto non fu più in grado di resistere: si avvicinò, nascose il viso tra i suoi capelli e la strinse in un caldo abbraccio. «Avevo iniziato a credere che non volessi perdonarmi».
 
«Ce l’ho ancora con te, non illuderti. Le tue scuse sono sincere, le accetto e le apprezzo, ma credo che mi servirà ancora qualche ora perché mi passi del tutto. Quel che hai detto mi ha fatto male».
 
«Lo so» sussurrò il dio, stringendosi di più a lei «Lo so, purtroppo. Non capiterà ancora. Io voglio proteggerti, non recarti danno».
 
«Ora però devi dirmi la verità. Devi dirmi cosa ti ha spinto a fare quel giuramento, al di là dei sentimenti, perché io sono convinta che tu non mi abbia detto tutto. Cos’hai visto, cos’hai sentito?» domandò la Lusan, voltandosi verso di lui «Cos’è successo?»
 
«Io ho… io ho sognato che tu morivi. Di nuovo» ammise, serio e amareggiato nel ricordarlo «È successo quando mi sono svegliato, prima che ti raggiungessi sull’altalena. L’incubo era molto simile a quello della scorsa volta, dicevi perfino le stesse parole, almeno fino a un certo punto… ma poi è diventato perfino più orribile dell’altro, per diversi motivi. La sola cosa vagamente positiva è che io sia riuscito a vedere un particolare del tuo assassino -che tu, come nella scorsa occasione, mostravi di conoscere bene: chiunque fosse, aveva una corona».
 
«E a te non è venuto in mente di parlarmene? Beerus, se lo avessi fatto avrei potuto rassicurarti» disse Anise, accarezzandogli il viso «Forse non saremmo neppure finiti a litigare! Perché non me lo hai detto?»
 
«Perché tu non mi avresti dato retta, mi avresti detto che è impossibile e sarebbe finita lì. Io però non riesco a togliermi dalla testa che possa essere uno dei miei sogni profetici, e io non voglio vederti morire! Anche per questa ragione volevo che diventassi la mia Neiē, per portarti via da qui: se non sei su questo pianeta, non puoi morire a Ulthmeer!»
 
«Non potrei comunque morire a Ulthmeer, perché non ho motivo di scendere giù in città. Devi stare tranquillo, non hai motivo di temere per la mia vita» affermò la lince «Anche perché stiamo insieme molto spesso, e capita sovente che nei giorni in cui non puoi venire qui sia Champa a farmi compagnia. È stato qui anche oggi, se vuoi saperlo. È tuo fratello, è un amico ed è un Hakaishin come te: sono sufficientemente protetta, no?»
 
«Forse» borbottò Beerus, per nulla convinto «Anise, un’ultima cosa: tu, nel mio incubo, hai ripetuto una frase che ti aveva detto il tuo assassino in passato. Me la ricordo bene, la frase era “Noi siamo e sempre saremo tutto quello che abbiamo”».
 
“Calida?...”
 
La Lusan sapeva benissimo a chi apparteneva quella frase, ma le risultava semplicemente impossibile credere che Calida potesse fare quel che aveva visto Beerus nel suo incubo. Nella scorsa occasione aveva parlato di Ulthmeer distrutta, e Calida non avrebbe avuto alcun interesse a distruggere la propria città. Per non parlare del fatto che Anise non riteneva possibile che sua sorella potesse aver voglia di ucciderla. Perché avrebbe dovuto? Non c’era motivo! Era tutto completamente assurdo, lo sarebbe stato anche se Calida avesse avuto il potere per fare quel che Beerus le aveva visto fare -e Calida non aveva quel potere.
 
“Beerus però ha visto che il mio assassino indossava una corona, quindi forse… ah, macché. In quella grotta non c’erano casse né corone, l’ho visto benissimo. Questo incubo non ha senso” concluse Anise “Lui è soltanto rimasto impressionato da quelle croci infuocate: la leggenda della corona e la sua ferma intenzione di proteggermi a ogni costo hanno fatto il resto. Non c’è altra spiegazione plausibile”.
 
«Io non la sento bene in bocca a nessuno che conosca» continuò Beerus «Non so tu…»
 
«Neppure io» mentì la ragazza «Non ho proprio idea di chi potrebbe essere. Ad ogni modo, Beerus, lo sai che giorno è domani?»
 
«Il secondo anniversario del nostro primo incontro, lo so e ne sono felice, ma non cambiare argomento! Quel che ho sognato non mi è piaciuto e poi… continuo anche a domandarmi se ho fatto abbastanza. Con te» aggiunse Beerus «Io sono veramente pronto a fare quel giuramento».
 
«Se io avessi ascoltato solo i sentimenti avrei giurato a mia volta senza esitazioni, te lo assicuro» disse Anise, poggiando le mani contro il petto del compagno «Ma penso che simili decisioni vadano ponderate molto attentamente, perché una volta prese non si può tornare indietro. Noi due ci amiamo, quindi in futuro faremo quel giuramento, però ciò non toglie che possiamo fare le cose con calma e, possibilmente, senza litigare di nuovo. Tu che dici?»
 
«Cosa dovrei dirti? Certe cose si fanno in due. Mi passerà, immagino» borbottò il dio, senza troppo entusiasmo.
 
«Non vedo perché non dovrebbe, e sicuramente passerà più in fretta una volta che sarai a stomaco pieno. È la tua torta salata preferita. Ero arrabbiata con te, eppure ho finito per scegliere di fare questa qui!»
 
«Hai sempre in testa me, cara lincina» scherzò lui.
 
«Devo darti ragione, ti ho sempre in mente, per una ragione o l’altra. Ora mangia, su!»







Niente da dire, se non che spero di non aver deluso troppo nessuno. Ah, una cosa: c'è la possibilità (sottolineo dieci volte questa parola) che la settimana prossima mi prenda una pausa, come fa la Toei, e che dunque il capitolo 18 venga pubblicato dopo il 4 marzo. Vedrò un po'come si metteranno le cose!

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Capitolo 18
*** 18 ***


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18
 
 
 
 
 

   
 
 
 
«Quattro pianeti dei sei che hai distrutto si potevano salvare. Avevamo fatto dei calcoli».
 
«Come se non sapessi benissimo che arrotondi i risultati per eccesso in otto casi su dieci…»
 
«Non ti permetto di fare insinuazioni sull’onestà dei miei calcoli. Quando mai mi sono messa a insistere perché risparmiassi un pianeta che non rientrava nei parametri? Dimmi di una sola volta in cui l’ho fatto, Beerus, mi basterebbe».
 
Il dio alzò gli occhi al cielo. «Al momento non mi vengono in mente, Anise, ma ce ne sono sicuramente state!»
 
Era un po’di tempo che Beerus, ogniqualvolta andavano tutti e tre in giro per il cosmo, distruggeva come minimo uno o due pianeti, indipendentemente dal fatto che meritassero sul serio tale destino oppure no, e questo era diventato un argomento di discussioni che nascevano mentre tornavano a casa -come in quel momento, in cui erano diretti verso il pianeta dei Lusan- e spesso proseguivano anche una volta giunti a destinazione.
Anise aveva notato che questo cambiamento era iniziato pochi mesi prima, poco dopo quel brutto litigio. In quell’occasione le era sembrato che lei e Beerus fossero riusciti a chiarirsi, Beerus le aveva anche detto che era tutto a posto e che sì, avrebbe aspettato il tempo necessario prima di tirare fuori di nuovo il discorso della Neiē, ma c’era “qualcosa” tra loro due che aveva iniziato a non essere più come doveva. Non sapeva cosa fosse, a volte cercava perfino di ripetersi che era solo un’impressione, ma questo suo tentativo di autoconvincimento diventava difficile da portare a termine, se Beerus decideva di distruggere un pianeta che non meritava una simile fine.
 
«Invece no, ed è per questo che non ti tornano in mente: non ce ne sono. Ultimamente ho quasi l’impressione che tu lo faccia apposta» disse la ragazza «Che ti sia messo di proposito a distruggere pianeti che siano salvabili e che non mi dispiacciono».
 
A volte aveva quasi l’impressione che lo facesse per sfogo, oltre che -forse- di proposito, ma non vedeva proprio cosa potesse avere da sfogare. In certi momenti le sorgeva il sospetto che c’entrasse sempre il litigio e la sua richiesta di ulteriore tempo, ma sarebbe stato semplicemente assurdo: al di là del fatto che quell’argomento non era qualcosa che meritasse simili “sceneggiate”, Beerus avrebbe potuto sfogarsi in milioni di altri modi che non comprendessero la distruzione di pianeti degni di essere lasciati dov’erano.
 
«Questa è una delle cose più sciocche che ti abbia sentito dire ultimamente» ribatté Beerus, seccato.
 
«Oh, “una delle”. Interessante».

«Era per dire!» sbottò il dio «Anise, io sono un Hakaishin. Io sono il Dio della Distruzione. Devo farti lo spelling? H-a-k-a-i-s-h-i-n! Distruggere pianeti è il mio compito, e tu questo dovresti saperlo, dopo oltre due anni che stiamo insieme!»
 
«Infatti lo so benissimo, senza bisogno di fare lo spelling: lo spelling si fa ai bambini piccoli per far capire loro le cose, è a questo che serve. C-a-p-i-t-o?» ribatté lei, riservandosi un rimprovero mentale per essersi abbassata a sua volta a un simile livello.
 
«Mi stai dando dell’immaturo, per caso?!»
 
«Ho parlato in modo inappropriato, me ne scuso. Ascolta, io non ho nulla contro il fatto che tu distrugga pianeti, nel corso di questi due anni lo hai fatto con criterio, ma mi sembra che il suddetto stia venendo a mancare. Fino a poco tempo fa mi davi retta, o meglio, davi retta ai calcoli che facevamo» si corresse la lince «Ora invece sto iniziando a domandarmi cosa li facciamo a fare, se poi fai di testa tua».
 
«In effetti potremmo farne a meno, perché l’ultima parola spetta sempre e comunque a me. Sono io l’Hakaishin, non tu: se non ti piace la maniera in cui gestisco le cose puoi sempre provare a prendere il mio posto».
 
«Ben detto, Lord Beerus!» esclamò Whis, con voce piuttosto allegra.
Ascoltare una coppietta intenta a bisticciare di solito risultava un po’noioso e stressante, ma non in quel caso perché, se i due avessero continuato a discutere, più l’angelo poteva sperare che un giorno Beerus lasciasse perdere quella benedetta ragazza.

 
«Non che qualcuno abbia chiesto la tua opinione, Whis» disse Anise, sollevando un sopracciglio. Quello era un altro motivo per cui detestava discutere con Beerus, perché sapeva benissimo che Whis gongolava non poco, in quelle occasioni.
 
«Dovresti portare più rispetto nei suoi confronti» la riprese Beerus.
 
«Parli proprio tu, che fino a non molto tempo fa avevi voglia di “impiccarlo con una corda fatta dei suoi stessi capelli”? Io perlomeno non ho mai detto una cosa del genere» “Mi sono limitata a pensarla” aggiunse mentalmente «Quindi ritengo che tu sia l’ultimo ad avere il diritto di farmi un tale appunto».
 
«Ultimamente non fai altro che contraddirmi!» sbuffò il dio.
 
«Non è vero».
 
«Visto? Visto?! Mi contraddici! Ah, comunque -per rispondere a quel che hai detto prima- non è affatto vero che distruggo di proposito i pianeti che non ti dispiacciono» disse l’Hakaishin «Non sei il centro dell’Universo, non gira tutto intorno a te».
 
«Non che io l’abbia mai voluto» ribatté lei «E comunque non gira neppure tutto intorno a te, anche se sei convinto del contrario. Guarda caso hai iniziato ad avere un atteggiamento diverso dal solito appena mi sono comportata in maniera diversa da quella che avresti voluto».
 
«Non ho idea di quello a cui ti stai riferendo» replicò Beerus, tra i denti «Ma poi ti sembra il caso di parlarne qui e ora?!»
 
«Oh, il problema è la presenza di Whis? Se pensi davvero che non si faccia i fatti nostri quando siamo in casa tua, Beerus, sei un beag miamit peggiore di quanto credessi. Ascolta ogni parola, quando discutiamo».
 
«Mi hai dato dell’ingenuo?!»
 
«Già» confermò la ragazza.
 
«Tali accuse sono completamente infondate e m’indignano alquanto!» esclamò Whis «Come se a me importasse qualcosa dei vostri battibecchi… per cortesia, non diciamo sciocchezze».
 
«Ceeerto, infatti nei momenti in cui siamo da soli tu non lanci mai frecciatine del tipo “Pare proprio che Lord Beerus non tenga più la sua opinione in gran considerazione, ahimè, quel povero Pianeta Verde numero 176761 non meritava proprio una simile fine”. Pianeta Verde numero 176761: ti ricorda qualcosa, Beerus?»
 
«No, aspetta: tu ascolti veramente le nostre discussioni quando siamo a casa?!» si arrabbiò il dio, voltandosi verso l’attendente.
 
«Lady Anise sta solo cercando di spostare la sua attenzione dal vostro litigio alla mia presunta indiscrezione, non si faccia abbindolare. Io non ho mai detto nulla del genere, può cred-»
 
«Invece no, non ti credo affatto, perché le parole che ha riferito Anise stanno fin troppo bene in bocca a te! Se davvero quando siamo a palazzo ascolti le nostre discussioni, è mia precisa volontà che tu smetta di farlo!»
 
«Se pensa che i vostri bisticci in generale non mi riguardino, potrebbe evitare di discutere con lei davanti -o dietro- al sottoscritto… e quando siamo a casa potrebbe evitare di strillare come un galletto inferocito».
 
«IO NON STRILLO AFFATTO!» gridò Beerus.
 
«Ha perfettamente ragione, infatti proprio ora ha bisbigliato così piano che non ho capito una parola».
 
«Piantala! E comunque non avevo ancora finito: guai a te se infastidirai di nuovo Anise!» aggiunse Beerus «Se discutiamo, quando discutiamo e su cosa lo facciamo non è affar tuo, e in ogni caso non hai alcun diritto di lanciarle frecciatine. Lei è la mia Iarim Neiē, credevo che ormai te ne fossi fatto una ragione. Sei tenuto a portarle rispetto esattamente come lei è tenuta a portarne a te!»
 
«Quel che dice sarebbe più credibile se lei per primo le portasse rispetto, Lord Beerus, cosa che ultimamente non sta facendo molto bene».
 
Beerus ammutolì per un attimo, ma subito dopo si sentì ancor più arrabbiato di prima. «Non è uno dei miei momenti migliori, ma questo non significa niente! Anise» disse poi, rivolto alla Lusan «Tu hai il mio rispetto, la mia stima e… e non solo. Ricordalo. Questo è un periodo un po’teso, ma ciò non vuol dire che sia cambiato qualcosa-»
 
«Qui?» lo interruppe Anise posandogli una mano sul petto, all’altezza del cuore.
 
Beerus annuì. «A volte non capisco nemmeno come e quando iniziamo a litigare, so solo che ci ritroviamo ad alzare la voce… o meglio, “mi ritrovo”» disse, pianissimo, nella pia illusione che Whis non si mettesse ad ascoltarlo «Non mi piace litigare con te».
 
«Non piace neppure a me. Forse
non succederebbe, se mi dicessi cosa non va » replicò lei, altrettanto piano «Dici che è tutto a posto, però da come ti stai comportando non mi sembra che sia così. Dici che sono la tua compagna, giusto?»
 
«Certo che lo sei!»
 
«Allora parla con me, perché io sono qui apposta. Te lo dico ogni volta, perché non mi dai ascolto?»
 
Era la verità, Beerus lo riconosceva: non c’era volta in cui Anise non lo esortasse a parlarle di “qualunque cosa gli passasse per la testa”. Lo faceva perfino nei momenti in cui le discussioni si facevano più accese, cosa che lo faceva sentire dannatamente in colpa per il proprio atteggiamento e che lo faceva arrabbiare perfino di più… anche se tale rabbia era rivolta verso se stesso.
Non aveva mentito, odiava profondamente litigare con lei e non gli piaceva affatto la situazione che si stava venendo a creare tra loro due; avrebbe soltanto voluto che le cose tra lui e Anise potessero tornare com’erano fino a pochi mesi prima, perché non avevano litigato mai in due anni -o almeno, mai sul serio- e ora ecco che finivano a discutere un giorno sì e quattro no. Certo, non erano mai litigate brutte come quella di tempo prima, non l’aveva più accusata di essere interessata solo alla sua posizione -piuttosto si sarebbe strappato la lingua con le proprie mani- ma ogni volta in cui si ritrovava ad alzare la voce con la sua compagna soffriva esattamente quanto lei: “Io sono a posto solo se anche tu lo sei”, le aveva detto, ed era la pura verità.
 
«Io parlerei, se avessi qualcosa da dire. Non c’è nulla che tu non sappia già».
 
Peccato solo il malanimo che lo tormentava da quel giuramento mancato non accennasse a lasciarlo in pace. Ad Anise diceva sempre che era tutto a posto -e per lo più era così- ma arrivava sempre il momento in cui quel maledetto tarlo tornava a farsi sentire: “se ti ama, perché non giura? Sei sicuro che lei ti ami abbastanza? Sei sicuro di essere stato in grado di farti amare? Ricorda che non ci sei riuscito neppure con i tuoi genitori, o con tuo fratello, né con il tuo maestro, che probabilmente non ti vuole bene davvero. Perché questa povera ragazza dovrebbe fare eccezione?”
Così eccolo lì, a sfogare tutti quei cattivi pensieri distruggendo anche pianeti che avrebbero meritato la salvezza. Era stato cresciuto per essere un Hakaishin, dunque era gratificante vedere con quanta facilità riusciva nel proprio compito, gli procurava sollievo… almeno fino a quando Anise gli ricordava che stava commettendo degli errori.
Era una situazione molto complicata in cui Beerus si stava rivelando il peggior nemico di se stesso, rifiutandosi per testardaggine o malinteso “orgoglio maschile” di parlare ad Anise di tutto questo. In parte lo trovava anche inutile, perché credeva che sentendo simili ragionamenti lei avrebbe avuto ancor meno voglia di diventare la Neiē di un dio stupido e debole -e chi se ne importava se a livello razionale sapeva benissimo che Anise non l’avrebbe mai visto come tale!
 
«Perché sei così testardo, Beerus?»
 
Il dio, che come sempre quando andavano in giro per l’Universo aveva già Anise in braccio, la strinse a sé. «È solo un periodo un po’teso, come ho detto prima. Passerà».
 
«Passerebbe anche prima, se parlassi con me come facevi fino a poco tempo fa. Non so cosa tu stia pensando, perché purtroppo non posso leggerti nel pensiero, ma di qualunque cosa si tratti-»
 
«Anise, è tutto a posto: io non parlo perché non ho nulla da dire. Punto».
 
La ragazza si lasciò sfuggire un sospiro di completa rassegnazione, decidendo di restare in completo silenzio. A che pro insistere ancora, almeno per quel giorno, se tanto lui non intendeva ascoltarla? Avrebbe voluto capire cosa avesse, in modo poterlo aiutare, ma non poteva farlo andando alla cieca.
Una cosa però era sicura: se tutto ciò derivava da quel che era successo tempo prima, di certo non era qualcosa che potesse spronarla a fare quel maledetto giuramento. Se ne sarebbe riparlato quando a Beerus fosse passata e fosse maturato un po’, di certo non prima, perché assecondare simili capricci e fare un giuramento vincolante di cui non era ancora convinta -visto il periodo lo era sempre meno, a dirla tutta- non sarebbe stato corretto, soprattutto nei confronti di se stessa.
 
“Io vorrei tanto che tu avessi ragione, vorrei tanto che questo fosse solo un ‘periodo teso’ come dici e che passasse al più presto. Al momento non c’è nulla che desideri di più, ma dubito che le cose si risolveranno per fatti propri, e io non posso fare tutto da sola. Non faccio magie, figurarsi se posso fare miracoli” pensò la ragazza, nascondendo il viso contro il collo di Beerus.
 
Nonostante tutto le coccole non tardarono ad arrivare, cosa che ad Anise non dispiacque per nulla. Lei e Beerus avevano iniziato ad avere qualche problema, ma tra le sue braccia continuava sempre a sentirsi “a casa”, ogni carezza alimentava il desiderio e la speranza di poter uscire da quel momento un po’ buio e, anche se la Lusan non poteva saperlo, per il suo compagno valeva lo stesso discorso.
 
«Anise» bisbigliò l’Hakaishin dopo un po’ «Dici che Whis ha ascoltato anche tutto quel che abbiamo detto sottovoce?»
 
«Certo che l’ha fatto. Hai veramente dubbi?» replicò la ragazza, bisbigliando anch’ella.
 
«Non ha più fatto commenti…»
 
«Non vuol dire nulla. Se non mi credi possiamo sempre fare una prova, sempre che tu non la ritenga “irrispettosa”...» tossicchiò «Whis pettegolo».
 
Beerus diede una breve occhiata all’angelo -attorno al cui braccio era ancora attorcigliata la sua coda-: nessuna reazione. «Whis impiccione!» sussurrò.
 
Ancora nulla.
 
«Whis invadente» mormorò Anise.
 
«Whis ficcanaso».
 
«Whis suocera».
 
Beerus soffocò una risata. «Io dico che non ci ascolta, su, è impossibile che-»
 
«Whis monello con Lulù, la mano che va su e giù!»
 
“Casualmente” Whis fece una frenata talmente brusca da far capottare in avanti entrambi i giovani, con molteplici esclamazioni di sorpresa da parte di questi ultimi.
 
«Si può sapere che stai combinando?!» sbottò Beerus all’indirizzo dell’angelo, stringendo a sé Anise.
 
«Mi era sembrato di veder passare la leggendaria Taco Cometa, ma temo proprio di essermi sbagliato» sospirò l’attendente, con aria falsamente costernata «Chiedo umilmente venia».
 
«Avevi ragione, ci ascoltava eccome» borbottò il dio, tornando ad agganciarsi a Whis dopo avergli lanciato un’occhiataccia.
 
«Te lo avevo detto, io».
 
«Ancora con queste accuse? Ho soltanto intravisto la Taco Cometa. È un avvistamento più unico che raro, sapete?»
 
«Come no, come no! Ti credo proprio!» sbuffò Beerus «Ripartiamo!»
 
Una volta ripartiti, Anise tornò ad appoggiarsi contro Beerus. «Volevo chiederti una cosa…»
 
«Non so cosa tu stia per chiedermi ma immagino già che non mi piacerà. Hai l’espressione da “tipregotiprego”» disse Beerus, sollevando un sopracciglio inesistente.
 
«Mi rendo conto che forse non è il momento migliore, ma… tu sai che oggi è il compleanno di mia sorella, vero?»
 
Proprio come aveva immaginato: Anise aveva tirato fuori proprio Calida, che per lui era uno degli argomenti peggiori. «Me lo hai detto, hai anche voluto comprarle un regalo in uno dei pianeti che ho distrutto. Quindi?...»
 
«Mi piacerebbe portarglielo. Dovremmo arrivare sul pianeta prima di mezzanotte, no? Andiamo un attimo a casa sua, le do il regalo e andiamo subito via. Sai bene quanto “amo” Ulthmeer, ma la casa di Calida non è nel cuore della cittadina, e comunque non ci tratterremmo molto».
 
Il primo istinto di Beerus fu quello di risponderle con un “NO”. Calida non gli piaceva, gli abitanti di Ulthmeer non gli piacevano -non solo per la barbarie, ma anche per il ruolo che avevano avuto nella storia personale di Anise- e c’era sempre l’incubo, quello in cui Anise moriva; come avrebbe potuto acconsentire a portarla lì? Come le era passato per la mente di chiederglielo?!
Aprì la bocca per darle un secco rifiuto, per poi richiuderla immediatamente: lui e Anise erano appena usciti da una discussione, motivo per cui forse non era il caso di rischiare di iniziarne un'altra. Magari era meglio parlarne, invece di limitarsi a un “no”. «Immagino che tu ci tenga molto».
 
«Ho mancato il suo compleanno per due anni di fila, quindi almeno in quest’occasione mi piacerebbe poterle fare gli auguri il giorno giusto».
 
«Non mi piace molto l’idea di andare a Ulthmeer».
 
«A causa degli incubi che hai avuto?» domandò Anise.
 
Beerus, dopo un istante di immobilità, annuì. «Principalmente».
 
«Ci sono diversi aspetti del primo incubo che lo rendono irrealizzabile, per non parlare del fatto che insieme a me ci saresti tu. Non credo che possa succedermi qualcosa finché sei con me, non lo permetteresti, saresti in grado di proteggermi da qualsiasi cosa» disse la Lusan, con molta convinzione.
 
«Di questo puoi essere certa» affermò Beerus «Sono l’Hakaishin di questo Universo!»
 
«Allora l’Hakaishin di questo Universo può vegliare su di me nei pochi minuti che passeremo da mia sorella, giusto?»
 
«Fregato» commentò Whis a voce bassa -ma non abbastanza da non poter essere udito.
 
«Hai qualcosa da dire, Whis?!» sbottò Beerus.
 
«Ritengo che non ci sia nulla di male a fare un salto a casa di Lady Calida. Si tratta di consegnare un regalo di compleanno, sarebbe una visita rapida e indolore» disse l’angelo.
 
«Strano che tu sia dalla mia parte. Devo allarmarmi?»
 
«Non vedo perché, Lady Anise. Penso solo che non esistano motivi validi per non accontentarla, nient’altro».
 
«Andiamo da tua sorella, le portiamo il regalo e torniamo alla casa nel bosco» acconsentì infine Beerus, per nulla entusiasta «“Rapido e indolore”, come dice Whis. Non so tu, ma io ho un certo bisogno di rilassarmi un po’… con te».
 
Anise annuì. «Faremo presto, non preoccuparti».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«“Le cose sono migliorate”, mi dicevo. “Sto meglio”, mi ripetevo. Ero quasi arrivata a convincermene… eh! Volevi, Calida! Volevi!» disse la grande Lusan, scuotendo la testa «Qui le cose vanno sempre peggio».
 
Calida era tornata nuovamente a far visita alla tomba di Meskal, perché la sua beata illusione di un miglioramento era brutalmente svanita.
Da dopo l’attacco che aveva portato alla distruzione di Thandrumeer, Calida non aveva avuto più quella sorta di “allucinazioni” riguardanti Anise. Il suo cervello malato non aveva più sostituito i volti delle persone con quello della giovane, dunque Calida aveva veramente creduto che quel lungo periodo di peggioramento della sua sanità mentale fosse finito.
 
Si era sbagliata.
 
Sentì i passi strascicati della creatura -che in realtà non era presente- avvicinarsi a lei, sentì l’odore di carne in putrefazione farsi sempre più penetrante; senza voltarsi, vide la testa di quella cosa che era identica ad Anise -pur non essendo veramente lei- staccarsi per metà dall’esile collo e ciondolare, trattenuta da pochi lembi di pelle e pelo. Subito dopo, quando la creatura era ormai a pochi centimetri da lei, quel che restava di un braccio coperto di muffa e di mosche cadde a terra con un flebile tonfo.
 
«Appunto. Sempre peggio» borbottò Calida stringendo i pugni «Almeno tu che sei morto, Meskal, puoi vederla? Puoi?»
 
No, non poteva vederla, certo che no: quell’orrido spettacolo era riservato solo a lei, o meglio, lo sarebbe stato se Calida si fosse degnata di voltarsi a guardarlo direttamente.
 
«Che domande faccio? Eri metaforicamente cieco anche quando eri in vita, figurarsi ora che sei morto e con gli occhi strappati».
 
“Guardami”.
 
Calida strinse le labbra, riducendo la bocca a una sottile fessura.
Sarebbe stato molto meglio se quel delirio fosse stato almeno un delirio silenzioso.
 
“Guarda quel che mi hai fatto”.
 
«Io non ti ho fatto questo. Io non voglio fare questo!» sibilò la Lusan.
 
“Guarda quel che mi hai fatto. Mi hai uccisa”.
 
«Tu non sei Anise, tu non esisti neanche, sei solo uno stramaledetto parto del mio cervello malato» ringhiò la donna «Non l’ho uccisa! Non l’ho mai fatto, non voglio farlo, né mai lo farò! Mi hai sentita?!»
 
“Allora perché non me lo dici in faccia? Guardami, Callie. Voltati e ripetilo guardandomi negli occhi!”
 
Calida scosse la testa. «Lasciami in pace!» esclamò, con una nota di disperazione nella voce.
 
Dita umide e appiccicose afferrarono il suo mento, costringendola a voltarsi e a guardare negli occhi la creatura… o meglio, nelle orbite cave che un tempo avevano contenuto degli occhi.
 
“Vero, non puoi guardarmi negli occhi, perché me li hai strappati”.
 
La Lusan sentì improvvisamente qualcosa nella sua mano destra, l’aprì: erano due bulbi oculari dall’iride azzurro scuro.
 
Con un grido che era un misto tra la rabbia, l'angoscia e una richiesta d’aiuto a qualunque demone oscuro potesse volerla ascoltare, Calida strinse la mano destra in un pugno e lo abbatté contro la creatura con tutta la forza che possedeva.
Ovviamente colpì solo aria, e la visione svanì; Calida però avrebbe potuto giurare che le avesse sorriso, labbra incurvate all’insù che erano la promessa di un ritorno, del rinnovo di quel tormento.
 
«Io non voglio ucciderla, io non voglio farle del male» mormorò, mentre delle lacrime scivolavano lungo le sue guance «Non voglio farle del male, non ho mai voluto questo…»
 
Strinse la proprie testa tra le mani, gridando ancora. Sapeva di essere tutt’altro che una brava persona, sapeva di meritare del male, avrebbe potuto sostenere qualsiasi cosa, ma non questa, non se aveva a che fare con Anise.
 
Non se era lei a rischiare.
 
Tirò fuori il suo pugnale. Aveva perso da tempo il conto di quanti Lusan aveva ucciso con quello, ma  non era un dettaglio di cui al momento le importasse qualcosa.
Sollevò la testa, poggiò la lama gelida e affilata del coltello contro la morbida gola, e quando la sentì iniziare a incidere la carne rivolse gli occhi verdastri verso il cielo.
 
“Perché?” si chiese “Perché non poteva restare tutto com’era?”
 
I ricordi iniziarono ad assalirla, uno dopo l’altro: la notte in cui aveva trovato Anise -una notte con due lune piene, proprio come quella attuale- sulla riva del lago di Vynumeer, i giorni passati a insegnarle a parlare, la tenerezza che aveva provato nel vederla trotterellare in giro quando aveva appena imparato a camminare, i libri che avevano letto insieme, le nottate passate a Vynumeer e a rimettere in sesto la casa nel bosco.
All’improvviso venne travolta da un ricordo in particolare: lei e un’Anise bambina erano sedute sul prato accanto alla loro vecchia casa, e il sole stava tramontando.
 
 
 
“Guarda Callie, ho fatto una torre di sassi!”
“Magari in futuro diventerai una brava costruttrice. Tu e le tue opere arriverete così in alto da poter salutare faccia a faccia i nostri dèi”.
 
 
 
La cosa divertente era che in effetti Anise era riuscita davvero a salutare un dio faccia a faccia, ed era piaciuta talmente tanto al suddetto che adesso aveva intenzione di portarsela via.
 
«MAI!» sbottò Calida, rinunciando di colpo ai suoi intenti suicidi e lanciando via il pugnale.
 
Cosa stava facendo? Stava davvero per uccidersi? Aveva veramente pensato di farla finita “solo” per colpa della propria pazzia?! Non se ne parlava. Non avrebbe mai permesso al suo cervello malato di vincerla: avrebbe tenuto tutto sotto controllo. Lo aveva fatto prima quando era più semplice, quindi sarebbe riuscita a farlo anche ora che era diventato più difficile.
 
«Ammettilo che ci hai sperato, stronzo» disse guardando la tomba di Meskal, cui rivolse perfino un gestaccio «Non è ancora tempo di venire a cavarti gli occhi anche nell’aldilà».
 
Alzò gli occhi al cielo in maniera del tutto casuale, e fu proprio per quel motivo che vide un fascio di luce bianca atterrare in lontananza, proprio al centro della città di Ulthmeer.
Aveva visto quella luce due sole occasioni, ma aveva imparato benissimo cosa significava.
 
“Perché mai Lord Beerus e il suo assistente sono a Ulthmeer?!” pensò, mentre si fasciava rapidamente la gola ferita.
 
Qualcosa le diceva che faceva meglio a dimenticare il fatto di essere completamente pazza e a tornare rapidamente in città.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«Whis, guarda che la casa di Callie non è al centro della cittadina, è in cima a quella porzione di terreno rialzato, laggiù» disse Anise, indicando suddetto edificio.
 
«Pardon, ho sbagliato punto d'atterraggio. Possiamo approfittarne per fare una breve passeggiata, non trovate? È una così bella serata… c’è perfino qualche abitante ancora in giro».
 
Qualche gruppo di Lusan ubriachi ad aggirarsi nella piazza c’era sempre, ma il loro arrivo aveva causato anche il risveglio di coloro che vivevano lì attorno ed erano già andati a dormire, nonché la curiosità di chi era semplicemente rientrato in casa e si preparava ad andare a letto.
 
«Orbene, direi di dirigerci verso casa di mia sorella» disse Anise, mostrando totale tranquillità.
 
Era qualche anno che Anise non si faceva viva in città, eppure sembrava che gli abitanti non avessero dimenticato la sua faccia: diversi dei Lusan che erano usciti dalle proprie case avevano già iniziato a mormorare tra loro, lanciandole occhiate ben poco incoraggianti.
Non importava che alla fine le accuse per la morte di Meskal fossero cadute su un gruppo di Lusan di un’altra città non meglio nota, Anise sapeva benissimo che se non la linciavano era solo e soltanto perché era la sorella della Ulthmeer a-ghekavary; sinceramente però l’opinione di quella manica d’invertebrati ignoranti, profondamente stupidi e superstiziosi aveva smesso di contare da un pezzo, perfino da prima che lei si sposasse.
 
«Sicuramente la troveremo ancora sveglia. Credo di non aver mai visto Calida andare a dormire prima di mezzanotte e mezza» continuò la ragazza, stiracchiandosi.
 
«C’è un’atmosfera un po’tesa, non trova, Lord Beerus? Quando siamo venuti qui qualche anno fa era un po’diversa» osservò Whis, col classico atteggiamento da “gnorri” che in realtà sapeva benissimo cosa stava succedendo e perché, mentre abbandonavano la piazza.
 
Peccato che anche Beerus si fosse accorto benissimo della cosiddetta “atmosfera tesa”, e che si fosse fatto anch’egli un’idea piuttosto precisa di quale potesse esserne la causa: era provvisto sia di un’ottima vista, sia di orecchie che gli permettevano di sentire fin troppo bene cosa mormoravano le persone attorno a loro.
 
“Ecco la matta della foresta”.
 
“Non doveva essere morta da un pezzo?”
 
“Povera Hogevor Calida, dev’essere triste per lei pensare di aver cresciuto quella cosa”.
 
“Quella è maledetta come il villaggio che le piace tanto”.
 
“La Lusan più inutile della valle, oltre che essere una spostata è pure sterile. È buona solo per scopare, quella lì”.
 
«Beerus, non vieni con noi?» lo esortò Anise, vedendolo fermarsi di colpo.
 
Quando l’Hakaishin iniziò a irradiare un’aura viola brillante e ad alzarsi lentamente in volo, solo quel tanto che bastava per arrivare a un’altezza in cui tutti potessero vederlo bene, Anise capì che le cose si stavano mettendo decisamente male.
 
«Ohibò, temo che qualcosa o qualcuno qui abbia fatto arrabbiare Lord Beerus. Forse la mia scelta di atterrare proprio qui al centro della città è stata un po’azzardata, ho pensato solo a me stesso e alla mia voglia di passeggiare… ma chi mai avrebbe potuto immaginare che avrebbe dato peso a certi mormorii?» sospirò l’angelo «Soprattutto visto che a lei per prima non importa».
 
Anise guardò Beerus, poi Whis, e maledisse sia quest’ultimo che se stessa: ormai avrebbe dovuto sapere benissimo che quell’angelo non faceva mai niente per caso, niente. «Beerus!...lascia per-»
 
«No, non lascio perdere affatto! ASCOLTATEMI!» urlò il dio, con tanta forza da richiamare anche l’attenzione di tutti gli abitanti che non avevano ancora fatto caso alla sua presenza «ISETS' INDZ!»
 
«Io non gli ho insegnato quella parola» si stupì Anise.
 
«Da qualche tempo Lord Beerus ha voluto aggiungere al resto dei suoi studi anche quello della lingua dei Lusan, Lady Anise» le rivelò Whis «Voleva impararla per amor suo. È arrivato a un buon livello».
 
«Ho un paio di cose da dirvi» continuò Beerus, cercando di contenere la rabbia e il potere che pulsavano nelle sue vene in modo da non distruggere la città, o tutto il pianeta «E lo farò nella vostra lingua, in modo che anche il più stupido in questa orrenda città di sudicie bestie selvagge mi capisca…»
 
Quel giorno Beerus era già nervoso per fatti propri, cosa che se possibile lo rendeva ancor più suscettibile e pericoloso del solito, ma sentire chicchessia parlare di Anise nel modo in cui l’avevano fatto quelle linci gli avrebbe mandato il sangue alla testa a prescindere.
Erano le persone che non avevano mai accolto quella meraviglia di ragazza come avrebbero dovuto, erano le persone che l’avevano accusata di un omicidio che non poteva aver commesso, le stesse persone per colpa delle quali Anise viveva nella foresta -seppur piuttosto felicemente- e che, non paghe di tutto ciò, avevano l’ardire di continuare a sparlarne e guardarla storto.
Non era qualcosa che Beerus potesse o volesse tollerare.
 
«Is Lusan, Anise, tha e ym mhac, Hakaishin mahc. Viravorel Anise lachad viravorel indz. Dìomhaire Anise lachiad dìomhaire indz. Nà-bi thoirt diomhaire Anise aylevs! AYLEVS!» urlò Beerus, in un tal modo che gli abitanti della città presenti si strinsero gli uni agli altri come bambini spauriti.
 
“Questa Lusan, Anise, è la mia compagna, la compagna dell'Hakaishin. Insultare Anise significa insultare me. Mancare di rispetto ad Anise significa mancare di rispetto a me. Non osate mancarle di rispetto mai più! MAI PIÙ!
 
Che fosse perché Anise non sapeva se allarmarsi enormemente per l’espandersi di quell’aura di distruzione o “commuoversi” per la strenua difesa da parte di Beerus, o che fosse per la semplice sorpresa di averlo sentito parlare così bene la sua lingua, sta di fatto che la giovane non riuscì a dire una parola, né a fare qualcosa di diverso da fissare impietrita il suo compagno, che sembrava non aver ancora finito.
 
«Altrimenti…» proseguì infatti Beerus, sollevando lentamente una mano per poi puntare il dito contro una delle due lune.
 
«BEERUS! Hanno afferrato il concetto!» gridò Anise, che avendo intuito cosa lui aveva in mente di fare si era riscossa dallo stato di stupore in cui si trovava «Non c’è bisogno, hanno capito! Beerus, per favore, ascoltami!»
 
Anise avrebbe potuto urlare fino a far esplodere i polmoni, ma lui non l’avrebbe ascoltata in ogni caso: aveva deciso che c’era bisogno di essere “incisivo”, e nulla gli avrebbe fatto cambiare idea.
 
Il dio, continuando a guardare con aria assassina i Lusan spaventati, sollevò due dita. «Hakai».
 
La luna precedentemente indicata da Beerus venne avvolta da un bagliore viola identico a quello che illuminava lo stesso Beerus, poi iniziò a disgregarsi rapidamente sotto gli occhi di tutti.
D’ora in avanti le notti sul pianeta dei Lusan sarebbero state molto più buie.
 
«Spero di essere stato sufficientemente chiaro, e sappiate che se non vi ho ancora distrutti dovete ringraziare solo Anise, troppo buona per volervi tutti morti come dovreste essere! Se fosse stato per me vi avrei spazzati via già da un pezzo, voi e l’intera Ulthmeer, nonché tutte le altre città in questa stramaledetta valle di pazzi bastardi sanguinari! Avete capito?! Vi avrei fatti fuori tutti! TUTTI! Se avete dubbi su questo, guardate il cielo!»
 
Anise si coprì il viso con una mano, resasi conto che le cose erano sfuggite completamente dal suo controllo. Aveva apprezzato che Beerus avesse preso le sue difese -anche se a lei ormai dei mormorii di Ulthmeer non importava più da un pezzo- e sapeva che l’aveva fatto con le migliori intenzioni del mondo… peccato che, ancora una volta, il suo compagno aveva dimostrato quanto non le desse minimamente ascolto.
 
«Tu lo immaginavi, vero Whis? È per questo che sei atterrato in piazza» disse piano la Lusan «Tu immaginavi che sarebbe successa una cosa del genere e che Beerus, come ultimamente fa spesso, non mi avrebbe ascoltata affatto, per quanto potessi pregarlo. O quantomeno speravi proprio in uno scenario del genere».
 
Whis fece spallucce. «Io volevo solo passeggiare. Non è colpa mia se Lord Beerus ha un carattere “infiammabile”, e tantomeno del fatto che non la ascolti più».
 
«Davachanut’yun yem!» sibilò Anise, che nonostante la sua “civiltà” stavolta non era proprio riuscita a trattenersi da mandarlo a quel paese -con parole un po’più forti.
 
L’attendente sollevò le sopracciglia. «Ohibò, che volgarità!»
 
«Questo non migliora la tua posizione, sai? Ora oltre alla “tizia strana probabile assassina dell’ex capo della città” sei anche “quella che ha attirato su questo pianeta le ire dell’Hakaishin”».
 
Anise si voltò, trovandosi davanti Calida, arrivata chissà quando. «Non sono io quella che lo ha fatto arrabbiare, né gli ho detto io di distruggere una delle nostre lune. Io a dire il vero gli ho detto di non farlo!»
 
«L’ho notato» replicò Calida «E ho anche notato che non ti ha dato retta. Buonasera, signor Whis».
 
«Buonasera e buon compleanno, Lady Calida. Cercavamo proprio lei, Lady Anise ha voluto portarle un regalo» disse l’angelo, facendosi comparire in mano un pacchetto infiocchettato «Ecco qui».
 
«Ecco, sì: la colpa di tutto questo in realtà è proprio tua!» esclamò Beerus, rivolto a Calida, mentre atterrava «Fosse stato per me non avrei mai permesso ad Anise di mettere piede in questo posto orrendo».
 
«Mia sorella non ha bisogno di chiedere permessi a chicchessia. Se non le piace la mia città, Lord Beerus, può sempre andare da qualsiasi altra parte del pianeta» ribatté la grande Lusan «O dalla parte opposta di questo Universo, che sarebbe perfino meglio».
 
«Come osi-»
 
«Fatela finita!» sbottò Anise, mettendosi tra i due «Calida, ti faccio i miei auguri di buon compleanno» disse, prendendo il regalo dalle mani di Whis per appiopparlo a Calida «Beerus, noi ora andiamo a casa. Abbiamo tante cose di cui discutere» aggiunse, abbassando la voce.
 
«Sì, è meglio che andiamo via, o finirò a distruggere anche qualcos’altro oltre alla luna!» sbottò Beerus.
 
Non poteva ancora sapere che i suoi progetti per la serata, ossia di rilassarsi insieme ad Anise davanti al camino leggendo fumetti, erano miseramente andati distrutti insieme alla luna che, sordo ai richiami della sua compagna, aveva scelto di disintegrare.
 
 
 
 
 

Non pensavo di riuscire ad aggiornare, stavolta, invece sono riuscita a scrivere quel che volevo scrivere nei tempi previsti. Ringrazio tutti per il sostegno e lascio a voi eventuali commenti… nonché un disegno che si riferisce alla parte di capitolo in cui Calida ricorda momenti decisamente più  SAVI  felici.
Sì, mi rendo conto che ha tante cose che non vanno, ma del resto non disegno per mestiere, sono solo una povera donna che prova a usare Mypaint :"D

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Capitolo 19
*** 19 ***


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19
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
«Sai che io non ho talento per i videogiochi, Beerus, quindi non puoi prendertela con me per aver perso. Gatto avvisato, mezzo salvato».
 
«Mezzo salvato un corno, Anise! Io contavo seriamente di riuscire a vincere contro il boss finale, questa volta, perché giocavamo in due! Invece no! Dovevi proprio distrarti a guardare la montagnola di uova aliene perché “Sembrano le mie perline di vetro”!» esclamò il dio, imitando la voce della sua ragazza « Non solo non sei brava con i videogiochi, non ci provi neppure! Ho perso per colpa tua e delle tue stupide fissazioni!»
 
«Io però te lo avevo detto, che non volevo giocare a quel tuo videogioco. Se poi tu non mi dai retta e continui a insistere prendendo le persone per sfinimento non è colpa mia. Comunque, per quanto la mia fissazione per le perline di vetro possa essere stupida, non è mai stupida quanto qualcuno che si arrabbia per una sconfitta che era già annunciata».
 
«Mi hai dato dello stupido?!» si infuriò Beerus.
 
«Tu non sarai stupido ma il tuo comportamento lo è senz’altro. Nonché infantile».
 
In solo qualche mese -mancava solo una settimana al ventesimo compleanno dei gemelli- la relazione tra Anise e Beerus era passata da essere prospera e armoniosa a litigiosa e quasi stagnante. Ormai c’era un battibecco un giorno sì e due no, senza che servisse chissà quale “tragedia” per scatenarne uno.
 
«Io sarò infantile ma quantomeno non sono un fissato, tu invece con questa faccenda delle perline hai veramente rotto le scatole! Perline, perline e perline! Ormai me le sogno di notte, quelle stramaledette perline!» sbottò l’Hakaishin «Le hai messe perfino nella nostra camera da letto!»
 
«Sì, forse è stato un errore, perché sembra proprio che qualcuna di esse ti sia entrata nelle orecchie e abbia raggiunto il cervello causando danni piuttosto rilevanti, motivo per cui non vale più la pena stare ad ascoltare il tuo ennesimo sproloquio» concluse Anise «In realtà non valeva la pena neanche all’inizio, perché immaginavo come sarebbe finita, ma sono una persona educata».
 
Il dio, con un ringhio rabbioso, tirò un pugno contro una parete, penetrandola come se fosse stata fatta di burro.
Odiava quella situazione, la odiava con ogni fibra del proprio essere e avrebbe solo desiderato che tornasse tutto magicamente a posto… ma quello non sembrava proprio il momento adatto perché tale miracolo potesse accadere. 

Non capiva come avessero fatto lui e Anise ad arrivare a quel punto, sapeva solo che improvvisamente c’era spesso un “qualcosa” che lo portava a dare inizio a discussioni inutili e sterili sul nulla: che fosse una parola sbagliata di Anise o un suo atteggiamento, fino ad arrivare addirittura a cose come quella delle perline, che non l’avevano mai infastidito fino a quel momento, né lo infastidivano per davvero tuttora.
Non sapeva perché avesse tirato fuori l’argomento, non sapeva perché l’avesse attaccata anche su quello, non sapeva neppure perché l’avesse attaccata in generale: non era la prima volta che Anise dimostrava la sua scarsa abilità con i videogames -ed effettivamente lei gli aveva ricordato di non essere brava anche quando l’aveva invitata a giocare- ma lui non se l’era mai presa in quel modo.
 
«La tua non è educazione, è una falsissima patina di “civiltà” che serve a far passare me per il cattivo della situazione! Ecco cosa è!» ribatté Beerus.
 
«Non ho bisogno di “patine” di alcun genere, Beerus, tu riesci a passare per il cattivo della situazione anche senza il mio aiuto».
 
Sicuramente, poi, quelle frecciate non aiutavano a farlo “sbollire”.
Prima Anise non gliene aveva mai rivolte, neppure quando le discussioni si facevano più accesse, ora invece sembrava avere un po’meno remore; così, ecco che ogni tanto partivano frecciate lanciate con una calma abissale, a volte seguite da silenzi altrettanto abissali, tutto sempre attraversato da una vena di freddezza che lui, eccetto quando erano a letto insieme -che fosse per dormire o per altro- ormai avvertiva sempre e comunque.
 
«Dunque è così, sarei IO il cattivo! Certo, sicuro, come no! Io sono il cattivo Hakaishin Beerus mentre tu sei santa Anise, che sempre tanto gentile e tanto onesta pare!» sbottò il ragazzo.
 
«Ti rendi conto che tutto questo è iniziato per colpa di un videogioco, Beerus?»
 
«Sempre posata e tranquilla, lei! » continuò lui, imperterrito «Santa Anise che non perde mai la calma! Santa Anise che è sempre pseudo ragionevole!»
 
«Una di noi due deve pur esserlo» replicò la Lusan «Rimpiango i tempi, invero neppure lontani, in cui lo eri anche tu. Ti invito a calmarti, Beerus».
 
Ecco, per l’appunto: quella freddezza che lui, con sommo dolore, tanta inquietudine e un po’di paura, a volte finiva persino a interpretare come una generale diminuzione di interesse di Anise nei confronti suoi e della loro relazione.
Era un Hakaishin e non temeva niente, se non una cosa: perderla, in qualunque senso. Il problema era che se le cose fossero continuate così, se lui avesse continuato a comportarsi in quel modo, se lei avesse continuato a mostrare quell’ “impassibilità”, allora… allora, forse…
 
NO!” pensò, impietrito alla sola idea “È solo un periodo strano, sta andando per le lunghe ma si tratta di questo e nient’altro! Passerà, dobbiamo solo cercare di restare insieme, passerà. Lei è la mia compagna, non possiamo perderci! Però quando fa così…”
 
«Anise, io a volte mi chiedo se ti importa ancora per davvero oppure no» borbottò, senza guardarla.
 
«Che domanda è?»
 
«Lecita».
 
«Non sono io quella dei due che ha dato addosso all’altro» replicò Anise «Riconosco che potevo evitare di farmi distrarre, ma non esiste che te la prenda con me in quel modo per un videogioco, per quanto competitivo tu possa essere. Sai che faccio pena con quelle cose. Dovrei essere io a domandarmi se ti importa ancora per davvero o se ormai mi tieni con te solo e soltanto perché…» esitò «Provi gusto a farmi scontare quel giuramento mancato».
 
«COSA?! Tu pensi davvero questo?!» allibì Beerus, con sguardo ferito «No, Anise! No! No, ti giuro io… io non vorrei “farti scontare” nulla, per me non è cambiato niente, io… non so cosa diamine sto facendo. Cosa stiamo facendo. Non so neppure io perché finiamo a litigare così, so solo che vorrei tanto che queste discussioni cessassero, e che tu non fossi più così-»
 
«“Così” come?»
 
«Fredda. Soprattutto da dopo quella sera a Ulthmeer. Ti rendi conto che ora quando viaggiamo qui e là nell’Universo tu stai sempre a braccetto con Whis?!»
 
«Avremmo dovuto farlo da prima: così facendo la tua coda non deve più passare ore attorcigliata attorno al braccio di Whis, Whis non deve più viaggiare con una specie di grosso laccio emostatico viola attorno al braccio, io sto comoda e le tue gambe non devono più sostenere il mio peso».
 
«Alle mie gambe però piaceva sostenerlo, Anise. Mi piaceva tanto».
 
La lince si passò una mano sul viso. «Perché dev’essere così?» mormorò, con aria stanca e triste «Perché inizi una discussione e due minuti dopo te ne esci con cose come questa?»
 
Beerus, con aria altrettanto triste e stanca, si mise seduto accanto a lei. «Non lo so. Mi sembra di star diventando matto. Io so solo che tutta questa situazione mi innervosisce perché vorrei che fosse tutto diverso, solo che non riesco a cambiare le cose e mi innervosisco ancora di più, poi ti vedo così fredda e-»
 
«Ti innervosisci ulteriormente» completò Anise.
 
«Io non vorrei essere così teso e nervoso, io non vorrei litigare, io non vorrei niente di tutto questo!»
 
Anise avrebbe voluto rispondere a Beerus con un “Allora fai pace col cervello”, sarebbe stato anche comprensibile, eppure non lo fece, perché purtroppo capiva cosa significava desiderare di comportarsi in un modo e finire ad agire in maniera quasi opposta.
Pur non giustificando l’atteggiamento del suo compagno, riconosceva che a lei stessa stava capitando qualcosa di simile.
Lei non avrebbe voluto essere fredda nei confronti di Beerus, né avrebbe voluto trovarsi a lanciargli frecciatine: avrebbe preferito di gran lunga stringerlo tra le braccia, accarezzarlo e dirgli che era tutto a posto, che andava tutto bene, che lo amava, che erano insieme e che sempre lo sarebbero rimasti.
Per me non è cambiato niente”, diceva lui, ma valeva anche per Anise. Continuava ad amarlo come il giorno in cui si era chiesta chi fosse il cretino che vagava nella foresta urlando “cannella”, se non di più… peccato che non fosse più in grado di dimostrarlo -o che comunque non lo fosse al momento- e che di certo il doversi sempre calare nei panni di “quella ragionevole” non l’aiutava.
Non urlava, non distruggeva mondi e non piangeva neppure, ma non significava che stesse bene. Avere tanto da dare al suo compagno e non riuscirci era qualcosa che le spezzava il cuore.
 
«Credi davvero che ogni tanto non abbia voglia di mettermi a urlare anche io per le tue stesse ragioni, o che tutta questa situazione mi faccia piacere? A volte anche io vorrei mettermi a spaccare la parete a suon di pugni, anche a me a volte sembra di star diventando pazza perché non riesco a mettere in linea quel che provo, i miei pensieri e le mie azioni. Confrontare come siamo ora a com’eravamo solo fino a pochi mesi fa è doloroso, per me» disse la ragazza, con gli occhi lucidi «Potrei continuare dicendo “Non puoi capire quanto”, se non fossi sicura che invece per te è esattamente lo stesso».
 
Beerus, incapace di dire alcunché, annuì.
 
«Per l’ultima volta…» la Lusan prese il viso del compagno tra le mani «Te lo chiedo per l’ultima volta e se non mi risponderai non me lo sentirai dire mai più: qual è la causa principale di tutto questo? Da dove viene tutto questo malanimo, se non è dovuto in modo specifico alla mia richiesta di ulteriore tempo? A quali dubbi non trovi risposta? Io voglio solo aiutarti, lo capisci o no?!»
 
Rimasero in silenzio per quasi un minuto, prima che lui si decidesse a parlare.
 
«È solo un brutto periodo che si sta allungando più del dovuto. Non c’è niente in cui tu possa aiutarmi…»
 
Anise scosse la testa, con un sorriso amaro, poggiando le mani contro il petto del dio. I suoi futili tentativi, proprio perché tali, erano caduti nel vuoto ancora una volta: l’ultima.
 
«Non c’è niente che possiamo fare» continuò Beerus «Dobbiamo solo aspettare che passi. Passerà. Se rimaniamo insieme passerà».
 
«A questo punto non posso far altro se non pregare che tu abbia ragione, perché nel caso passi da sé, senza un minimo d’impegno da parte di tutti e due, dovremo gridare al miracolo».
 
«Non “se”» la corresse il giovane «Di’ “quando”. Io mi impegno a crederci!»
 
Lo aveva detto con tale convinzione che Anise capì quanto lui fosse effettivamente sicuro del fatto che prima o poi restando insieme sarebbe passato tutto, vedeva quanto il suo compagno si stesse aggrappando a quella speranza con le unghie con i denti; sarebbe stato meglio se avesse usato quella determinazione per fare qualcosa di più concreto, pensò perfino di farglielo notare, per poi chiedersi “A che pro?”
Non l’avrebbe ascoltata e, vista la sua decisione di “crederci” e basta, sarebbe stato inutile da parte di Anise fare qualcosa più che “crederci” a sua volta; ci aveva già provato e aveva capito che non poteva risolvere alcunché da sola.

Di una cosa però era sicura: non voleva perdere Beerus. Nonostante i loro problemi attuali, nonostante le discussioni, le incomprensioni e le tensioni, se pensava a una vita senza Beerus la vedeva ben peggiore di tutto quel che stavano passando.
 
«Non so se conosci il detto di noi Lusan su come muoiono coloro che vivono sperando. Io ci proverò, però non so se posso riuscire davvero a “crederci” e basta».
 
«Se tu dovessi avere difficoltà, ci crederò io per tutti e due».
 
Anche nel caso in cui Anise avesse voluto rispondere non avrebbe fatto in tempo, perché un intruso fece il suo rumoroso ingresso in sala.
 
«STAVATE PARLANDO DI MEEEEE?» esordì Champa.
 
«Che diamine ci fai qui?!» sbuffò Beerus, contrariato perché suo fratello era arrivato nel momento sbagliato. Non che ce ne fosse uno “giusto”, ma quel momento era ancor meno opportuno del solito.
 
«Come sarebbe a dire “che diamine” ci faccio qui? C’è la caccia al tesoro! Quella con in premio la montagna di praline!» gli ricordò Champa «Te ne eri davvero dimenticato?»
 
In verità sia Beerus che Anise si erano dimenticati della caccia al tesoro in programma per quel giorno, avevano tutt’altro per la testa e, nel caso di Beerus, anche zero voglia di partecipare a quel gioco. Il premio per l’eventuale vittoria sarebbero state le sue amate praline, ma era talmente nervoso che non sarebbe riuscito a godersele.
 
«Io sì, me ne ero completamente dimenticata» ammise la ragazza «Però non è un problema, possiamo cominciare appena sarà tutto pronto».
 
«Io non ho voglia» disse Beerus.
 
«Come sarebbe?
Non puoi “non avere voglia”!» protestò l’Hakaishin del sesto Universo «Era in programma da una settimana e mi sembravi piuttosto entusiasta all’idea! Che ti prende?!»
 
«Una settimana fa è una settimana fa, oggi è oggi. Giocate tu e Anise, se l’idea vi piace tanto».
 
«Fammi capire: ho fatto un viaggio di quattro ore per nulla?!»

L’idea di giocare con Anise non gli dispiaceva, però non era tra loro due che c’era rivalità, non era lei che voleva sfidare e cercare di battere, cosa che Beerus avrebbe dovuto sapere benissimo.
Si poteva dire che Champa vedesse quel rifiuto di giocare come poco meno di un tradimento o come l’ennesimo modo di “rifiutarlo”.


Beerus incrociò le braccia davanti al petto. «Ti ricordo che questa stupida caccia al tesoro è stata una tua idea, di certo non mia. Dovresti sapere benissimo che meno ti vedo, meglio sto».
 
«AH, È COSÌ?!» sì arrabbiò Champa, nel vedere che i suoi pensieri stavano trovando conferma.
 
«Esattamente!» annuì l’altro.
 
«Beerus!» esclamò Anise, con tono di rimprovero.
 
«Cosa?! È la pura verità, come dovresti sapere benissimo: se ho accettato di vederlo più spesso è solo e soltanto perché tu trovi piacevole la compagnia di questo grassone babbeo» rincarò la dose Beerus «Per qualche ragione a me ignota!»
 
«A CHI HAI DATO DEL GRASSONE BABBEO?!»
 
«A TE!»
 
«Litigare non serve a niente! Basta!» esclamò la Lusan, mettendosi tra i due.
 
«Guarda che io non sto facendo niente, ero soltanto venuto qui per divertirmi con la caccia al tesoro, è lui quello che ha iniziato a insultarmi!» si difese Champa, indicando Beerus «La colpa è sua! Mai che riesca a essere gentile con me, anche se siamo fratelli!»
 
«Più che un fratello tu sei un impiccio!» ribatté Beerus «Un grosso e grasso impiccio di nome Champa! Lo eri quando avevamo quattro anni e lo sei adesso!»
 
Per qualche attimo calò un silenzio pesantissimo, in cui Anise -ancora incredula per quel che aveva sentito dire al suo compagno- si chiese come le cose avessero potuto degenerare tanto in maniera così rapida.
 
«E tu eri uno stronzo allora come lo sei adesso!» gridò Champa, ferito e imbestialito, stringendo i pugni.
 
«Questo “stronzo” forse AVREBBE FATTO MEGLIO A LASCIARTI LÌ A CREPARE!» urlò a sua volta Beerus «Tanto sei utile solo a consumare l’aria!»
 
«Vuoi farla finita sì o no?!» sbottò infine Anise, ormai incapace di trattenersi «Ti rendi conto della gravità di quello che stai dicendo?! È tuo fratello! Non ha fatto niente di male, non ti ha nemmeno provocato, non puoi prendertela con lui in questo modo solo perché sei nervoso per fatti tuoi!»
 
Ecco la ciliegina sulla torta, come se la tensione tra loro non fosse stata sufficiente ecco che Anise  si intrometteva nelle sue faccende con Champa, stando dalla parte di quest’ultimo, per di più.

«Certo, non sia mai che tu mi dia ragione, perché mai dovresti farlo? In fin dei conti sei “solo” la mia compagna! Il rapporto tra me e Champa non ti riguarda, se proprio vuoi metterti in mezzo almeno fallo stando dalla mia parte!»

Lui aveva soltanto detto di non avere voglia di fare quella benedetta caccia al tesoro, non era forse legittimo? Era assurdo che fosse partito tutto da quello! Sembrava quasi che Anise lo facesse apposta, che gli desse contro di proposito anche se aveva detto che non aveva affatto intenzione di farlo passare per il “cattivo”, e il fatto che fosse coinvolto anche Champa peggiorava ulteriormente la situazione.


«Il fatto che sia la tua compagna non significa che debba appoggiarti anche quando sbagli» replicò la lince «E tu stai facendo un errore dietro l’altro».
 
«Oh, “sto facendo un errore dietro l’altro”, allora magari adesso tirerai di nuovo in ballo la faccenda della luna, già che ci siamo! Rinfacciami un’altra volta quanto sono stato impulsivo e irragionevole, dai! Tanto qualunque cosa faccia non va più bene, indipendentemente da quali sono i motivi delle mie azioni, è tutto “un errore dietro l’altro”, lo è anche quando lo faccio per difendere te, razza d’ingrata!»
 
«Non ti azzardare a parlarle in quel modo» gli intimò Champa, avvicinandosi a lui dopo aver fatto spostare Anise «Non ti azzardare».
 
«Primo: le tue minacce sono ridicole, perché sono ben più forte di te» disse Beerus, freddo, avvicinandosi a sua volta «Secondo: non sono affari tuoi. Terzo-».
 
«Terzo: se continui così finirai per rimanere solo» lo interruppe Champa «Perché uno stronzo come te, che non è in grado di tenersi strette neppure quelle poche persone che nonostante tutto riescono a volergli bene, non merita altro che questo! Nient’altro! Mi hai capit-»
 
Champa non riuscì a finire la frase, perché Beerus lo colpì dritto in faccia con un pugno, mandandolo a sbattere contro la parete opposta.
 
«Questo era per l’opinione non richiesta. Adesso raccatta i cocci di quel poco di orgoglio da divinità che possiedi e vattene» ingiunse l’Hakaishin del settimo Universo al gemello, indicando la porta «Non voglio più vedere quel tuo faccione, mi sono spiegato?! Né qui, né in casa della mia Iarim Neiē. Non dovrai avvicinarti a lei mai più! MAI! Hai capito?!»
 
«La Iarim Neiē apre la porta di casa propria a chi vuole, motivo per cui tuo fratello sarà sempre il benvenuto» lo contraddisse Anise, gelida, avvicinandosi a Champa «Io sono una persona estremamente paziente e piuttosto civile, il che è una delle ragioni per cui sopporto queste tue “intemperanze”, ma ti avverto che ti stai avvicinando pericolosamente al limite. Invece di limitarti a “crederci” -sai di cosa parlo- cerca di rimettere in ordine le idee e tornare a comportarti come il Beerus di cui sono diventata la Iarim Neiē, perché in momenti come questo ho l’impressione di avere a che fare con un clone fatto malissimo».
 
«No…» bofonchiò Champa, rialzandosi da terra «Purtroppo è quello vero».
 
«Cos’è, non vuoi tentare di rendermi il colpo?» lo punzecchiò Beerus, come se non avesse neppure sentito le parole di Anise «Andiamo, gemello beta, cosa stai aspettando? Hai paura, Champone?»
 
«BRUTTO-»
 
«Champa, per favore, chiama Vados e andiamocene via di qui» disse la Lusan, riuscendo miracolosamente a bloccare Champa prima che saltasse addosso a Beerus «Prima che questa sua sottospecie di follia mi contagi e finisca a dirgli cose poco carine».
 
Champa annuì, capendo che Anise aveva ragione. «Vados!» gridò.
 
L’angelo apparì immediatamente al suo fianco. «Possiamo iniziare la caccia al tesoro, Lord Champa, è tutto pronto».
 
«Niente caccia al tesoro, ce ne andiamo. Tutti e tre» aggiunse il dio, indicando Anise.
 
«In fretta, magari» mormorò la ragazza.
 
“Sembra che i guai tra i due innamorati si stiano moltiplicando. Immagino che questo farà la gioia di Whis” pensò Vados.
 
«Vorresti andartene?! Con lui?! AH! Questo è un tradimento bello e buono, niente di più e niente di meno! Anise, tu sei la mia Iarim Neiē» le ricordò Beerus, indicandosi «La mia, non la sua! Ti è chiaro sì o no?!»
 
«Mi è perfettamente chiaro, non ti preoccupare. Ti farò sapere quando sarò pronta ad accettare le tue scuse» disse Anise «Prima di quel momento evita di presentarti davanti a me per qualsiasi motivo, perché non ti degnerei della minima considerazione. Io sono la Iarim Neiē di Beerus, non la proprietà dell’Hakaishin del settimo Universo: ricordatelo, quando parleremo di nuovo».
 
Non attesero un’eventuale risposta di Beerus, preferendo abbandonare la stanza e, in seguito, il pianeta.
 
«Va bene! ANDATE!» urlò Beerus, pur sapendo che non potevano sentirlo «Andatevene pure! Tornerete da me strisciando!»
 
“Se non fosse che probabilmente finirà col diventare matto quando si renderà conto di aver commesso e detto una lunga serie di stupidaggini -nonché del fatto che nessuno dei due tornerà strisciando- e che purtroppo toccherà a me sopportare le sue paturnie e i suoi disagi, potrei quasi dirmi contento di vedere i due innamorati sempre più divisi” sospirò Whis, che ovviamente aveva spiato tutta la discussione, entrando nella stanza dove si trovava Beerus. «Mi è sembrato di sentire grida-»
 
«… S-T-R-I-S-C-I-A-N-D-O!»
 
«Oh, allora avevo sentito bene» commentò Whis, calmissimo «Devo dedurre che Lady Anise sia andata via con Lord Champa?»
 
«Si sono alleati contro di me! Anise ce l’ha con me di suo, mentre Champa sfrutta questa cosa per farle pena col suo essere un brutto ciccione inutile e idiota, mettendomela contro! Le cose vanno già abbastanza male, come faccio a risolverle se ci si mette di mezzo anche quella carogna infame?! Sapevo che dovevo lasciarlo morire quand’era bambino! Lo sapevo!»
 
«Lord Beerus, mi permetta di farle notare che quel che sta dicendo di suo fratello non è affatto carino. Non è colpa di Lord Champa se Lady Anise ultimamente è meno, come dire… meno comprensiva e affettuosa, forse?» disse l’angelo, con aria pensierosa «O qualcosa di simile».
 
«Sono talmente arrabbiato che non so cosa fare, Whis! Vorrei mettermi a dormire ma sono troppo nervoso per prendere sonno, vorrei mangiare ma ho lo stomaco chiuso, vorrei distruggere pianeti ma non ho voglia di andare in giro, non so cosa fare, so solo che se non mi sfogo probabilmente finirò a distruggere il palazzo senza volerlo! Ecco!... che rabbia mi fanno, quei due!» aggiunse, quasi ringhiando.
 
«Sa cosa potremmo fare? Potremmo allenarci. La rabbia che prova potrebbe essere utilizzata per diventare più forte, Lord Beerus» propose Whis.
 
«Eh, buona idea!» approvò il dio «Almeno quando rivedrò quel gattaccio lardoso col cervello bacato potrò dargli un pugno un faccia ancora più forte!»
 
«Al di là delle intenzioni, per me l’importante è che si alleni. Al di là del periodo teso, sono convinto che se Lady Anise la vedrà diventare ancora più forte e la vedrà agire con più “polso” riacquisirà la stima che in parte ha perduto».
 
«Dici che è per questo che ha chiesto tempo?» gli domandò Beerus, con lo sguardo improvvisamente triste e confuso «Pensi che lei mi trovi ancora "poco forte" in più di un senso e, di conseguenza, mi ritenga ancora troppo immaturo per potersi sentire “a posto” come mia Neiē?»
 
“L’immaturità c’entra, ma non nel senso in cui la intendi tu” pensò l’attendente. «Forse. Le ricordo che Lady Anise ha avuto un marito molto più vecchio di lei, con la reputazione di ottimo guerriero, nonché capo di una città. Ovviamente tutto questo è ben poca cosa rispetto al suo status di divinità, Lord Beerus, ma chissà cosa passa per la testa di quell’adorabile ragazza!»
 
«Va’ a capirlo» borbottò l’Hakaishin, mettendosi a sedere sul pavimento.
 
«Allora...
» disse Whis dopo qualche istante di silenzio «La ragionevolezza di Lady Anise nel rifiutare la sua proposta brucia ancora»
 
«Io non ce l’ho con lei per aver chiesto dell’altro tempo, io in realtà ce l’ho con me stesso» si indicò «Perché evidentemente non riesco a darle quello che vuole davvero -di qualunque cosa si tratti- e sia il fatto di non essere abbastanza, sia quello di non capire dove ho sbagliato, mi stanno facendo… non lo so, non lo capisco neppure io, so solo che i miei pensieri vanno sempre a finire lì. Oltre a questo ci sono anche quei due incubi, più ci allontaniamo più temo che un giorno
si realizzino, perché io potrei non trovarmi nel posto giusto al momento giusto!»
 
Beerus aveva appena fatto quel che avrebbe dovuto fare mesi prima con Anise, ossia parlare di quel che gli stava succedendo.
Peccato che lo avesse fatto con la persona sbagliata.

 
“Promemoria per me: accettare solo candidati Hakaishin adulti. Spero che Beerus invecchiando diventi il classico Dio della Distruzione che pensa soltanto al cibo, al divertimento e a disintegrare i pianeti, senza tutti questi problemi assurdi e inutili” pensò Whis, trattenendo un sospiro “Ovvio che si stia comportando così, lui non abituato a pensare così tanto. Pensare troppo gli fa male e gli manda in tilt il cervello. Farebbe meglio a lasciare cose come questa a Lady Anise, piuttosto”.
 
«Non dici niente, Whis?»
 
«Non ho niente da dirle, Lord Beerus, a parte un “lo avevo detto”.  Se non ero felice del fatto che avesse trovato una ragazza fissa c’era un motivo, ossia che non era il momento adatto per averne una. Non lo è nemmeno adesso».
 
«Vuoi che mandi a quel paese anche te?! Perché sappi che ci sono vicino! Se il tuo consiglio è di lasciare la mia compagna allora evita di parlare oltre, perché da quell’orecchio non ci sento. Anise è Anise. Io la considero la mia Neiē anche se lei non ha ricambiato il giuramento e anche se ultimamente le cose vanno come vanno. Questo non cambierà mai, non cambierebbe neppure tra centinaia di milioni di anni» concluse Beerus «Ora andiamo ad allenarci, ho un sacco di rabbia da scaricare».
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«Io l’avevo capito da un pezzo, che non mi vuole bene. Oggi se non altro ho avuto la conferma. Lui mi ritiene solo un impiccio, un grosso e grasso babbeo e un buono a nulla “utile solo a consumare l’aria”. Io lo sapevo, che mi avrebbe preferito morto… chissà da quanto tempo aveva voglia di dirmelo».
 
Champa lungo la via del ritorno aveva pensato di portare Anise a casa con sé nel sesto Universo, perché dopo quel che era successo con Beerus aveva solo voglia di tornare nel proprio palazzo e di avere vicino qualcuno che gli volesse bene; capendo tutto ciò e desiderando a sua volta la compagnia di una persona amica, quando Champa le aveva proposto di seguirlo nel suo Universo lei aveva detto di sì.
Al momento dunque erano seduti uno vicino all’altra, sopra dei teli da bagno stesi sulla finissima sabbia bianca della spiaggia che si trovava a un lato del palazzo di Champa, a osservare i placidi movimenti del mare.
Ovviamente sarebbe stata solo una cosa temporanea, quel che bastava perché le acque si calmassero un pochino. o si agitassero ulteriormente nel caso in cui Beerus avesse preso per il verso sbagliato la permanenza di Anise in casa di Champa, se mai ne fosse venuto a conoscenza.
Sarebbe stato abbastanza assurdo, perché non era la prima volta che Champa la portava in casa propria -e Beerus, pur sapendolo, si fidava abbastanza di Anise da non essere veramente geloso- ma ormai era diventato tutto un’incognita.

 
«Ti sei accorto anche tu che ultimamente c’è qualcosa che lo sta facendo, come dire, “svalvolare”. Sarebbe utile sapere cosa lo sta spingendo a comportarsi così, ma lui non vuole dirmelo e io mi sono stufata di chiederglielo. L’ho già fatto tante volte e non mi ha mai risposto… comunque sono piuttosto sicura che Beerus al momento non pensi davvero nemmeno la metà delle cose che gli escono di bocca in certe situazioni. Non credo sia vero che ti preferirebbe morto».

«Io invece dico di sì, ci sono tante cose nel suo atteggiamento verso di me che lo confermano».
 
«Sono convinta che non è così, tu sei il suo fratello gemello, deve volerti bene per forza. Poi cerca di tenere sempre presente che tu svolgi bene il tuo compito di Hakaishin, quindi non sei né un impiccio, né un buono a nulla» disse la Lusan con sicurezza, stringendolo tra le braccia proprio come lui aveva fatto con lei in momenti simili «Ovviamente non sei nemmeno un babbeo. Ti trovo molto dolce e intelligente».
 
«Però sono grasso» borbottò il dio, lasciandosi docilmente abbracciare.
 
«Sei solo morbido».
 
«Ho preso sei chili».
 
«Hai un’eternità per perderne anche diciotto, se vuoi. Comunque non sei il solo ad aver preso peso» gli fece notare Anise, con una smorfia «Da più o meno tre mesi a questa parte sono ingrassata un po’anche io. Ho messo su un po’di pancia e anche un po’di fianchi. Mi sembra che si sia anche ingrossato leggermente il seno, a dirla tutta, ma quello non mi dispiace. Idea: potremmo metterci a dieta insieme!»
 
«Macché dieta, tu stai benissimo. Se qualcuno ti dice il contrario non ascoltarlo» aggiunse Champa, riferendosi a Beerus «Abbiamo già appurato che non capisce niente di niente».
 
«A dirla tutta ha notato anche lui questo cambiamento» confessò Anise «Però mi ha fatto capire molto chiaramente che gli piace parecchio, per quanto questo possa sembrare assurdo. A suo dire ho anche cambiato odore, però quello è dovuto al bagnoschiuma. Di’, com’è che siamo finiti a parlare di me?»
 
«È partito tutto dal fatto che io sono un grassone inutile e stupido che perfino suo fratello vorrebbe vedere morto. Senti, io sono abituato a non andare d’accordo Beerus, ormai ci conosci da oltre due anni e sai come vanno le cose ogni volta che ci vediamo, ma stavolta mi sembrava diverso. Prima non aveva mai parlato di quel che è successo quando eravamo piccoli. Anise» la guardò «Non so se tu sai... per com’è fatto Beerus, non sono sicuro che ti abbia raccontato…»
 
«Lo ha fatto. È successo un po'di tempo prima del vostro diciottesimo compleanno» lo smentì la Lusan.
 
«Davvero?» si stupì Champa «Vi conoscevate da poco».
 
«In quel frangente mi ha dato molta fiducia. Erano bei tempi, darei via tutto quel poco che possiedo se servisse a far tornare tutto come allora… però ti prego, non parliamo di me e lui. Adesso conti tu» sorrise Anise «Dimmi tutto».
 
«Se sai tutta la storia sai com’era la nostra situazione al villaggio e cos’è che ha fatto precipitare tutto. Non dubito che Beerus si sia prodigato a rimarcare più volte il fatto che la colpa di tutto sia esclusivamente mia» disse il giovane, con un tono d’accusa pieno di amarezza e rancore «“Se tu fossi stato più attento e avessi fatto a meno di uccidere quel nostro zio, tutto questo non sarebbe successo!”, neanche lo avessi fatto di proposito! Io ero piccolo, quello invece era un adulto che mi stava prendendo a calci,io volevo solo difendermi, non avevo la minima intenzione di ucciderlo! Lo capirebbe anche un imbecille, sbaglio?! Beerus invece no!» sbottò.
 
Era la stessa storia che Beerus le aveva raccontato un paio d’anni prima, raccontata dal punto di vista dell’altra vittima. Anise nella scorsa occasione si era astenuta dal fare qualsiasi commento riguardo i comportamenti dei due fratelli, dunque stavolta si ripromise di fare lo stesso.
 
«Ricordo bene il modo in cui mi guardava quando eravamo nel bosco» continuò Champa «Io… io piangevo, spaventato, perché avrei soltanto voluto poter tornare a casa. Ricordo le occhiate che mi rivolgeva, le ho ancora scolpite qui» si indicò la testa «Eravamo piccoli entrambi ed eravamo nella stessa situazione, eppure lui non ha avuto neppure un minimo di comprensione per me. Vedeva come stavo ma non mi ha dato neppure un briciolo di conforto, pensava solo a cercare il cibo e a tenere il fuoco acceso. Gli facevo schifo perché non ero un pezzo di ghiaccio come lui, che mentre cercavamo di scappare dal villaggio non ha esitato a far fuori le persone che ci hanno attaccati. Allora come adesso, Beerus non aveva rispetto né stima nei miei confronti, tantomeno affetto fraterno. Appena Vados e Whis ci hanno trovati, ci hanno detto che si sarebbero presi cura di noi e che ci avrebbero separati, lui si è addormentato in braccio al suo angelo con tutta la tranquillità del mondo. Non vedeva l’ora di liberarsi di me… quello stronzo!»
 
«La colpa di tutto questo in realtà è dell’ignoranza e della paura che le persone tendono a manifestare quando sono in gruppo, Champa… o forse è colpa del destino stesso, che ha scelto di far nascere due esseri potentissimi in un luogo dove non sarebbero stati capiti. Sta di fatto che è stato un brutto momento per tutti e due» disse Anise, accarezzando la testa del dio «Non lo meritavate».
 
«Come il fratello scemo non merita te, più o meno. Ho preso un pugno in faccia ma, sappilo, rifarei tutto quel che ho fatto e ripeterei tutto quel che ho detto. Se io avessi una Iarim Neiē tanto dolce e gentile non le darei dell’ingrata, tra le altre cose!»
 
«Prima o poi gli passerà. Io devo solo cercare di restare in equilibrio tra il non prendermela a mia volta con lui -cosa non facile- e il mettere in chiaro che questo suo comportamento non mi sta bene, mentre Beerus deve solo cercare…»
 
«Di fare pace col cervello. Nel caso ne abbia uno».
 
«… di ritrovare un equilibrio senza il mio aiuto, dal momento che non lo vuole» proseguì Anise «Lui pur con i suoi difetti è una bella persona, in caso contrario non lo amerei. Se riuscisse a tornare “stabile” sarebbe meglio per me, per te e anche per lui stesso».
 
«Hai troppa pazienza» sospirò Champa «Io comunque già te lo dico, quest’anno col cavolo che vado a festeggiare il compleanno da lui».
 
«Champa…»
 
«Niente “Champa”. Non era una delle solite litigate, non mi importa se ultimamente gli bruciano le chiappe per qualcosa o se non pensava davvero quel che ha detto. Meno mi vede e meglio sta? Non mi vuole in casa sua? Benissimo, lo accontenterò, e ti dico di più: se fossi te, farei la stessa cosa. Conoscendoti immagino che tu abbia intenzione di fare pace con lui prima, in modo da non lasciarlo solo a festeggiare come invece meriterebbe, però se si rendesse conto che un modo di fare sbagliato porta conseguenze spiacevoli forse si darebbe una calmata».
 
«O le cose si inasprirebbero ancora di più. Penserebbe “è andata via con mio fratello dopo aver preso le sue parti e ora mi abbandona il giorno del mio compleanno, non mi vuole più bene”».
 
«Se l’è cercata lui» ribatté l’Hakaishin.
 
«Una cosa del genere potrebbe funzionare solo se non avesse Whis a sussurrargli nell’orecchio. Si aggrappa a ogni minima cosa pur di metterci uno contro l’altra, stavolta non farà certo eccezione».
 
«Se lo scemo ti vuole bene veramente come dice non lo starà a sentire, per quanto possa “sussurrare”… sai, a volte mi chiedo se Vados farebbe lo stesso» borbottò «E poi mi rispondo che probabilmente sarebbe persino peggio di suo fratello».
 
«Tu non hai torto, solo che al momento Beerus non è stabile, quindi potrebbe influenzarlo più facilmente e… e forse ho fatto un errore a venire qui» mormorò «Forse non dovevo andare via, sono stata impulsiva, ho fatto una mossa sbagliata».
 
«Non è una partita a scacchi» disse Champa, un po’perplesso.
 
«È diventata una partita a scacchi da quando Whis ha saputo che io e Beerus stavamo insieme. Solo che prima era una cosa tranquilla, ora invece è un campo di battaglia vero e proprio, Beerus è diventato il premio in palio e Whis si sta portando in vantaggio. Se non trovo un modo per rimettermi in pari, lui…» fece un respiro profondo «Lasciamo perdere. Passiamo a qualcosa di più piacevole tipo, che so, fare un bagno in mare».
 
«Io immaginando di annegare Beerus, tu immaginando di annegare Whis» aggiunse Champa.
 
«Whis annegato! Oddio, sì!»
 
«Per far godere le ragazze non ho nemmeno bisogno di toccarle, sono un mito assoluto!» scherzò Champa.
 
«Io l’ho sempre pensato. Champa?»
 
«Sì?»
 
«Ti voglio bene».
 
Il giovane, felice e intimamente commosso di nel sentirselo dire, sorrise. «Anche io. Magari in un modo o nell’altro le cose cominceranno ad andare meglio in generale. Intanto cerchiamo di limitare lo stress, mh?»
 
Anise annuì. «Facciamo quel bagno in mare?»









Sono in ritardo di una settimana e me ne scuso ma... eccomi qui.
Ringrazio chi continua a seguirmi e lascio a voi ogni commento :)

 

 

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Capitolo 20
*** 20 ***


RMIcap20
20
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
“Devo ancora farmi una ragione del fatto che ora in cielo sia presente una sola luna. Quello è proprio uno schizzato… e se lo penso io, è schizzato veramente!”
 
Calida non aveva realmente scelto di andare a Vynumeer quella notte: a portarcela era stato “il richiamo”, quello di cui lei e Anise avevano discusso diversi mesi prima.
Era innegabile che più la sua salute mentale peggiorava, più il richiamo di Vynumeer diventava forte. In certi momenti recarsi al lago diventava quasi un bisogno fisiologico.
Anise poteva dire quel che voleva, ma Calida si stava convincendo del fatto che quello fosse un posto maledetto per davvero, di cui le persone mentalmente più “fragili” -o comunque con qualche tipo di problema- rischiavano di diventare vittime anche recandovisi in una sola occasione.
 
“Non mi stupisce che i genitori di Anise siano finiti sul fondale” pensò “Così come non mi stupisco che la gente abbia abbandonato questo posto anche a causa dell’alto tasso di suicidi”.
 
Lei stessa era attirata da quello specchio d’acqua caldo, immobile e nero come l’inchiostro, lei stessa aveva quella dannata voglia di fare un tuffo come tante volte ne aveva fatti, senza però tornare su; tuttavia sollevò una mano, facendo cenno di “no” al nulla.
 
«Non è peggio del vedere Anise in decomposizione che mi accusa di averla uccisa. Se vuoi che mi unisca alla tua festa subacquea insieme a tutti gli altri Lusan che ti sei preso, allora devi impegnarti molto di più».
 
A proposito di Anise, quella benedetta ragazza era via da quasi una settimana… ma ormai certe assenze non la stupivano più.  A Calida capitava sempre più spesso di andare a fare visita a una casa vuota.
Non si curava più neppure di portare sacchi contenenti chissà cosa, contrariamente a come faceva prima. Anise non aveva più bisogno che lei le portasse della carne, aveva ripreso tutto il peso perso dai sedici anni in poi.
Ultimamente a dir la verità aveva preso anche qualche chilo in più, ma poteva starci: non mancava moltissimo ai suoi ventuno anni, appena qualche mese, e la loro razza raggiungeva la maturità fisica completa verso i ventidue.
Lasciò ricadere la schiena sul manto erboso, e poco dopo gli occhi si chiusero.
 
 
 
Calida non era sicura su dove si trovasse, perché quel luogo le era familiare e, al contempo, un po’ “alieno”.
Sembrava una città sconosciuta ubicata nella valle in cui era nata e cresciuta, ma l’architettura era più avanzata, c’erano veicoli che non aveva mai visto in vita sua e… era una specie di astronave rudimentale, quella?
Ed era un gruppo di persone, quello che le era appena passato attraverso?
 
“Ah. Spasvum yem… “ti aspettavo”. Si dice così, se non erro. La nostra lingua si è complicata un po’, in diecimila anni”.
 
Quella voce “vecchia” e maschile sembrava rivolgersi proprio a lei ma, quando la Lusan si guardò attorno, non vide nessuno che desse segni di essersi accorto della sua presenza.
 
“Anche se questo è solo un sogno io non voglio parlare con qualcuno che non si mostra. Se mi aspettavi, vieni a dirmi in faccia il perché” intimò Calida allo sconosciuto.
 
“Così che tu possa cercare di strapparmi gli occhi per aver invaso i tuoi sogni?”
 
“Ci sono buone possibilità che lo faccia” confermò la donna “Se poi continui così diventeranno ottime. Dimmi chi sei”.
 
“In origine il mio nome era Kamandi”.
 
Calida si voltò nuovamente e stavolta trovò davanti a sé un vecchio Lusan dal manto nero, che somigliava abbastanza a uno dei suoi soldati, Recte.
 
“Poi però l’ho cambiato” continuò il Lusan “Vedi, Hogevor Calida, ‘Rubedo’ aveva un significato che si confaceva molto di più alla mia persona”.
 
Rubedo?
Quel Lusan vecchio, storpio -gli mancava un braccio- malconcio e vestito come uno straccione avrebbe dovuto essere Rubedo?

 
“Immagino che il significato di quella parola dovesse essere ‘povero vecchio storpio’ o qualcosa del genere. Non puoi essere lui” sentenziò Calida “Io conosco la leggenda, cosa credi? Rubedo era un mago potente, aveva conquistato tutte le città della valle e aveva raccolto un’immane quantità di oro. Tu non hai il fisico adatto, non puoi nemmeno bere e grattarti il culo allo stesso tempo”.
 
“Il tuo problema è proprio questo: hai due bei paraocchi che ti impediscono di accettare le cose come stanno. Sai benissimo che sono io, ci conosciamo fin da quando eri molto piccola… e tu hai perfino cercato di abbandonarmi, Calida” aggiunse, in tono di rimprovero “Di ignorare il mio richiamo. È una fortuna che l’Hakaishin di questo Universo abbia iniziato a stare attorno ad Anise e a cercare di portartela via, o la tua mente non si sarebbe ‘aperta’ abbastanza da potermi incontrare”.
 
“Non è ‘apertura’, io la chiamo in tutt’altro modo, e comunque nulla di tutto questo ti riguarda” disse freddamente la Lusan, cercando di afferrare la testa di Rubedo. Purtroppo per lei, anche in questo caso non riuscì a far altro se non passargli attraverso.
 
“Anche io li vedevo tutti morti, proprio come tu vedi morta Anise” continuò lui, imperterrito “Io li guardavo e vedevo le loro membra disfarsi, vedevo i loro volti e le loro bocche deformarsi per il dolore, per la paura, per la consapevolezza di non avere alcuna via di scampo. Non era pazzia, era il loro destino e nulla di più. Erano destinati a essere uccisi da me”.
 
“Non ucciderò mia sorella!” ringhiò Calida.
 
“Certo che non ucciderai tua sorella, tu sei figlia unica” minimizzò il Lusan, con un cenno della mano “Non ti sei chiesta dove ti trovi? Ammira, Calida: questa è la città dove io sono nato. A quei tempi la magia non era ancora morta, come puoi vedere” disse, indicando un veicolo in alto nel cielo “Eravamo tutti in pace, tutti felici, tutti sereni, il sole splendeva, gli uccellini cantavano... ”
 
“Immagino che ci sia poco di vero in tutto questo”.
 
“La situazione tra le città a quei tempi era sicuramente meno tesa della vostra pseudo tregua. Diciamo che si sopportavano molto più facilmente una con l’altra. Il giovane Kamandi è nato in questo contesto, in una famiglia di piccoli commercianti. Non eravamo ricchi, non eravamo poveri: una mezza via. Oh, quanto odio le mezze vie!” sibilò, visibilmente alterato.
 
Non contento di esserle comparso come un vecchio storpio, Rubedo le stava anche raccontando la patetica storia della propria vita, della quale a lei non importava un accidenti, non più.
Calida si era sempre figurata Rubedo -il grande Rubedo, il pericoloso Rubedo- come un Lusan più alto e grosso di lei, con lunghi capelli che facevano “swish”, ricche vesti e un’armatura badass. Se lui fosse stato come l’aveva sempre immaginato, se le sue fantasie fossero state corrispondenti alla realtà, le cose sarebbero state diverse… peccato che invece si fosse trovata davanti un vecchio storpio vestito di stracci e dai capelli aggrovigliati.
Non poteva far altro se non sperare che fosse un sogno particolarmente articolato, perché in caso contrario sarebbe crollato un mito.
Il suo mito.
 
 “La costante della mia esistenza è stata questa: le mezze vie” continuò il vecchio “La mia famiglia non era né ricca né povera, né troppo né poco numerosa -avevo un fratello e una sorella- e io ero l’espressione massima di questa mediocrità. Non solo ero il fratello mezzano, neanche a farlo apposta, ma non riuscivo a eccellere in nulla. Il ritornello era sempre ‘Kamandi è bravo, ma…’, c’era sempre un ‘ma’. Ero un bravo commerciante, che non è mai andato in passivo, ma non abbastanza da fare affari stratosferici; divenni un bravo combattente, che poteva vedersela con quattro Lusan più grossi di lui contemporaneamente, ma non abbastanza da evitare di farmi amputare un braccio una volta in cui erano sette; Cambiai ancora e divenni un bravo mago, ma non abbastanza da padroneggiare incantesimi straordinari. Io ero ambizioso, avrei voluto molto di più dalla vita, ma non potevo averlo: ero bravo in tutto ed eccellente in nulla. Capisci?”
 
“Nel corso della mia vita mi hanno chiamata in tanti modi, però non sono mai stata mediocre com’eri tu” disse Calida, con un’espressione dura sul viso “Quindi no, immagino di non poter capire”.
 
Lo scenario attorno a loro cambiò drasticamente: il cielo divenne nero, le case iniziarono a prendere fuoco e i Lusan a scappare per poi bruciare a loro volta.
 
“Mediocre… è vero. Perfettamente vero. Vero, vero” borbottò Rubedo, con uno sguardo folle negli occhi di un grigio tanto chiaro da sembrare quasi bianco “Io ero mediocre. Da un certo punto in avanti ho iniziato a patirne al punto tale da iniziare a odiare tutti quelli che avevo attorno e ad avere quelle visioni di cadaveri ambulanti, tanto da credere di essere impazzito. Poi però non sono stato più mediocre” tese in avanti il suo unico braccio, il sinistro, e aprì la mano chiusa a pugno “Perché, all’età di oltre quarant’anni, ho colto l’occasione”.
 
Sul palmo della mano del Lusan comparve un piccolo esserino viola con vari tentacoli, grandi occhi rossi e un’antenna che terminava con un ciuffo bianco languginoso.
 
“Atagashi. Si chiamava così. Quelli della sua razza sono dei piccoli alieni di tipo parassitico” spiegò Rubedo “Non sembra nulla di che, vero? Non diresti mai che possono sterminare intere civiltà. Atagashi finì su questo pianeta ed entrò in casa mia, attirato dalla mia ‘malvagità’, come scoprì in seguito. Come ho detto, io ero un bravo mago… Atagashi voleva possedermi, ma si trovò posseduto. Non hai idea di quel che feci a questo esserino, Calida! Ovviamente non l’ho ucciso, ho solo strappato dal suo cervello ogni briciolo di coscienza e di ricordo e, una volta capito quali benefici avrei potuto trarne, mi sono 'fuso' con lui” concluse, sollevando lo sguardo verso l’alto.
 
In alto nel cielo c’era un essere che rifulgeva di un’aura i cui colori andavano dal viola, al verde al grigiastro -colori abbastanza tipici dei cadaveri, come quelli che giacevano a terra tutt’attorno a loro-, un essere che Calida riconobbe come un Lusan le cui fattezze si avvicinavano molto alle sue fantasie: alto tre metri, ricoperto da un' armatura dorata, con lunghi capelli bianchi che si disperdevano nell’etere e brillanti occhi cremisi.
 
“Sì, se te lo stai chiedendo mi ero costruito un braccio d’oro” disse Rubedo, intercettando l’occhiata di Calida “Ne ho accumulato talmente tanto che potevo permettermelo. Da qui in avanti la storia la sai, perché le leggende che conosci sono tutte vere. Ho ottenuto tutti i poteri di cui parlano e anche qualcuno in più, sebbene il mio preferito restasse il controllo sulla Dimensione degli Specchi -non sai cos’è, immagino... ho conquistato le città, ho accumulato l’oro che tu al momento stai spendendo: tutti in questa valle di straccioni conoscevano e temevano il mio nome! Rubedo, Rubedo!”
 
“In breve: tu mi stai dicendo che la tua fama deriva per lo più da una botta di fortuna? Niente scoperte magiche sensazionali che ti hanno portato ad avere quel potere? Niente creazione di manufatti incantati dopo anni di studi? Mi stai dicendo che tu, nella tua vita, sei riuscito a combinare qualcosa di concreto solo dopo i quarant’anni e solo perché ti è entrato in casa un alieno parassita? Ah!” sputò ai piedi del vecchio “Patetico. Pensare che ho passato una vita ad amare le leggende che ti riguardavano, perché nonostante la sconfitta finale avevi fatto quel che vorrei fare io, mi fa quasi vergognare di me stessa”.
 
Gli occhi del Lusan divennero rossi come quelli della sua controparte potenziata. “Io ho saputo cogliere l’occasione quando si è presentata. Se Atagashi si fosse presentato in casa tua, tu non avresti saputo fare altrettanto… complice il fatto che la magia è morta, ormai” disse, mentre sul suo volto appariva un ghigno che occupava metà faccia “Mi hanno sconfitto, ma hanno pagato un prezzo enorme. Lanciai due ultimi incantesimi, mosso dalla forza della disperazione, potenti come non ero mai riuscito a lanciarne: con uno uccisi i discendenti di ogni mago sul pianeta e impedii loro di averne di nuovi, mentre l’altro… conosci bene i suoi effetti, Calida Ulthmeer a-ghekavary. È questo il motivo per cui le città della valle si odiano, è questo il motivo per cui versate sangue, nessun altro! Non per questioni d’ideali o economiche: puoi illuderti del contrario, ma le guerre tra città sono opera mia, dunque se tu hai messo quelle cinquantadue croci infuocate lungo la strada è per la maledizione del ‘povero, vecchio, storpio e patetico’ Rubedo!”
 
“Sei tu quello che si illude! Nessuno di noi pensa a te quando uccide i Lusan di una città nemica” ribatté Calida “Tu non sei altro se non un morto che parla. Non sarei mai dovuta venire in quel dannato villaggio”.
 
“Hai detto una cosa sbagliata e una giusta. Quella sbagliata riguarda la mia morte. Non sono morto. Sono intrappolato in una corona che è chiusa in una cassa, nascosta in una grotta che è posta sotto il lago, proprio come dice la leggenda. C’è un motivo se i morti sono accumulati tutti sullo stesso punto del fondale… e questo ci porta alla cosa giusta che hai detto: sì, Vynumeer è un villaggio ‘dannato’, o meglio, lo è il lago. Io attiro nel lago le persone per ucciderle, perché più ne uccido più influenza acquisisco. Di solito sono persone mentalmente fragili o con qualche problema. È anche per questo che appena sono diventato abbastanza forte ho reso calde le sue acque, per aumentarne l’attrattiva” spiegò a Calida “Purtroppo ho ottenuto un po'l'effetto contrario, ma questo è un dettaglio. Allo stesso tempo però cerco anche di spingere suddette persone verso la mia prigione, perché se prima di morire riuscissero almeno a raggiungerla, ad aprire la cassa e a gettare la corona in acqua mi farebbero un favore. La mia corona galleggia, sai”.
 
“A che pro tutto questo? Se sei rinchiuso in quella corona significa che non hai più un corpo, dunque se anche venisse trovata non potresti fare alcunché”.
 
“Io non ho più un corpo, è vero. Tu però ce l’hai, ed è perfetto per raccogliere la mia corona, la mia eredità, il mio potere” aggiunse il LusanAnche questa parte della leggenda è vera, Calida. Se trovi quella corona e la indossi, otterrai quel che hai sempre voluto: la valle sarà tua, il pianeta sarà tuo e, chissà, magari riusciremmo a conquistarne anche qualcuno di quelli vicini. Diventerai ancor più grande di quanto sia diventato io!”
 
“Stavo per domandarti a cosa ti gioverebbe, ma quel ‘riusciremmo’ mi fa capire che dovrei condividere il mio corpo con te” disse la donna “O comunque ospitare la tua mente nella mia. Sbaglio?”
 
“Non sono un coinquilino fastidioso, anche se le mie barzellette sono vecchie diecimila anni, e noi due vogliamo le stesse cose”.
 
“No” disse Calida, con decisione.
 
“Dov’è il problema? Cosa temi? Che cercherei di schiacciare la tua coscienza? Ritieni la tua mente più debole e patetica del ‘fantasma’ di un debole e patetico storpio?”
 
“Non temo nulla, tantomeno te. Ho solo capito di non voler più avere a che fare con nulla che ti riguardi, perché l’ombra cenciosa di un povero fallito quale sei non merita neppure un briciolo del mio tempo o di credito. È proprio vero che le leggende dovrebbero restare tali” aggiunse la Lusan, con una smorfia di disprezzo “Viste per quello che sono perdono ogni attrattiva. Torna a grattarti il sedere con l’unica mano che hai, non seccarmi mai più e non infastidire minimamente Anise, altrimenti le dirò di spedire il suo fidanzato a trovare la tua corona per distruggerla. Mi hai capita, storpio?”
 
“Tu sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi, Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
 
 
 
«Calida?...»
 
Quando la grande Lusan aprì gli occhi pensò che quella di Anise che la guardava perplessa fosse un’allucinazione; poi però vide che non si stava decomponendo, né la stava accusando di averle strappato occhi che erano ancora al proprio posto, dunque capì che sua “sorella” era veramente lì. «Ma tu guarda chi si rivede. Trovarti sul tuo pianeta natale ultimamente è ben strano».
 
«In effetti sono tornata meno di un’ora fa, ma trovarti qui a dormire accanto al lago è ancora più strano, se permetti» ribatté Anise «Fino a poco tempo fa mi rimproveravi perché vengo a Vynumeer troppo spesso e ora… eccoti qui!»
 
«Giustappunto: evita questo posto il più possibile» la avvertì Calida, rizzandosi a sedere «Questo lago è fatto apposta per uccidere le persone».
 
«Senti, non ricominciare con queste assurdità. Non sono dell’umore per ascoltarle» borbottò Anise.

 
«Peccato che le “assurdità” siano più importanti di ogni tuo qualsivoglia disagio amoroso. La leggenda di Rubedo è vera, Anise!»
 
«Ma va? C’era il suo tesoro qui sotto».
 
«È tutta vera» insistette la Lusan «Rubedo è ancora vivo, è qui nella grotta sotto il lago, rinchiuso nella sua corona. Me lo ha detto poco fa! È lui che ci attira a Vynumeer, è lui che per diventare più forte ha spinto tutta quella gente a gettarsi in acqua senza più riemergere. Vuole essere liberato. Cerca un corpo ospite».
 
«Callie, i sogni “particolari” sono tipici di Beerus, che è una divinità. Noi due non siamo divinità, quindi i sogni che facciamo sono solo sogni, per quanto strani, bizzarri, assurdi e accurati possano essere. Non nego che il lago abbia un suo strano fascino, lo sai, ma... è tutto qui» disse la ragazza, facendo spallucce «Io in quella grotta ci sono stata e, come ti ho già detto, non ho trovato né casse né corone».
 
«Avrei dovuto immaginare che non avresti voluto ascoltarmi. Forse le cose sarebbero diverse se avessi visto e sentito quel che ho visto e sentito io, ma non l’hai visto… non l’hai visto» mormorò Calida.
 
«È stato solo un sogno» ripeté Anise «Credo che tu possa stare tranquilla e, in ogni caso, ho almeno un Hakaishin pronto a proteggermi da qualunque cosa io non abbia le capacità di affrontare».
 
«Una volta quello era compito mio» disse la Lusan più vecchia, con aria assente e un bel po’di amarezza.
 
«Tu hai fatto quel che hai potuto» replicò Anise, dopo una breve esitazione «Perlopiù. Io non metto in discussione le cose buone che hai fatto per me, non le dimentico, però… sai, non è troppo diverso da quando un genitore lascia andare un figlio per la propria strada. Prima o poi deve rassegnarsi a farlo».
 
«Stai per andartene, Anise?»
 
I sentimenti con cui le aveva posto quella domanda erano contrastanti: da un lato c’era il pensiero che una volta lontana da quel pianeta e da Vynumeer forse sarebbe stata più al sicuro, mentre dall’altro non voleva lasciarla andare.
Sì, Anise aveva ragione, prima o poi avrebbe dovuto lasciarla andare per la propria strada, ma Calida non riusciva ad accettare che questa potesse essere divisa dalla propria, non riusciva a rassegnarsi del fatto che un giorno la casa nella foresta sarebbe rimasta senza abitanti, non riusciva ad accettare di poter vivere troppo lontana Anise… e non riusciva ad accettare che Anise potesse vivere troppo lontana da lei.
 
«Credo di non essere mai stata tanto lontana dall’andarmene quanto lo sono adesso» rispose la giovane, con aria seria.
 
Calida sollevò le sopracciglia, un po’sorpresa. «Problemi con Lord Beerus? In questa settimana si è comportato male?»
 
«In questo lasso di tempo non l’ho proprio visto, perché sono stata a casa di Champa».
 
«Tutta la settimana?»
 
Anise annuì.
 
«Non impari mai» borbottò Calida «Se hai problemi con un Hakaishin, come pensi di poter gestire una bigamia?»
 
«Macché bigamia! Io e Champa abbiamo avuto dei problemi con la stessa persona, Champa voleva stare tranquillo con un’amica, io volevo stare tranquilla con un amico e così abbiamo fatto. Non c’è alcunché di ambiguo tra me e lui, te l’assicuro».
 
«Spero per te che il tuo compagno la pensi allo stesso modo, perché così facendo potresti aver peggiorato le cose. Forse però non sarebbe un male» osservò Calida «Se fosse lui a decidere di lasciarti si ridurrebbe il rischio di scatti d’ira e rappresaglie che potrebbero coinvolgere l’intero pianeta».
 
«Grazie tante, proprio quel che avevo bisogno di sentirmi dire in questo momento, soprattutto considerando che io mi sono dichiarata disposta ad accettare le sue scuse già due giorni fa! Due giorni! DUE!» esclamò Anise «E Beerus non si è fatto vedere né sentire pur essendo lui nel torto! Questa volta andrà a finire che ci lasceremo sul serio, sei contenta adesso?! Che hai da guardarmi in quel modo?!»
 
«Una reazione così emotiva non è affatto da te» disse Calida, squadrandola da capo a piedi «Proprio per nulla».
 
«Hai ragione» ammise la ragazza, lasciandosi cadere sul prato con un sospiro «Non è affatto da me. Probabilmente è dovuto al fatto che tutta questa situazione mi stressa più del dovuto… non solo ho qualche problemino con Beerus ma, essendo anche amica di Champa, mi trovo a fare un po’da cuscinetto tra loro due. Hanno un rapporto terrificante».
 
«Sei ingrassata, sei più emotiva del solito… hai perfino cambiato odore…»
 
«Mangio più del dovuto, va bene, e per quanto riguarda l’odore non sei la prima a notarlo, ma io solo ho cambiato bagnoschiuma» ribatté Anise.
 
«Dimmi un po’, Anise: in questo periodo hai avuto qualche fastidio? Tipo odori familiari che sono diventati insopportabili o, che so, nausee mattutine?»
 
No, Anise non aveva avuto problemi con gli odori, però negli ultimi tre mesi c’era stata qualche mattina in cui non si era sentita troppo bene. Lei aveva voluto imputare la cosa a malanni occasionali, ai cibi che assaggiava quando andava insieme a Beerus sull’uno o l’altro pianeta e anche allo stress, erano ipotesi perfettamente plausibili, e non riusciva a capire dove volesse andare a parare Calida.

O meglio: non voleva capirlo, perché la realtà dei fatti ormai era piuttosto palese.
 
«Niente nausee» mentì dunque «Né problemi con gli odori. Perché?»
 
«Meglio così allora. Te l’ho chiesto perché se in passato tu non avessi dato prova di essere sterile penserei che sei incinta».

“Incinta”.
Calida aveva detto la parola magica, quella che lei non avrebbe mai voluto sentir pronunciare.
 
Anise serrò la mascella, cercando di regolare un respiro che minacciava pericolosamente di iniziare ad andare in iperventilazione, di far allentare la stretta allo stomaco e di ignorare sia le pulsazioni frenetiche del cuore che quella orrenda sensazione di oppressione al petto.
Se in quel momento avesse cercato di alzarsi in piedi molto probabilmente le gambe non l’avrebbero retta, sia per il tremore che cercava disperatamente di controllare, sia perché si sentiva “instabile” pur essendo seduta.

“Incinta”.

Il solo pensiero di associare se stessa a una gravidanza le faceva impazzire, la stava facendo impazzire già in quel momento, e vedere quanto tremava la mano con cui si era coperta il viso non la stava aiutando affatto.
Iniziò a rabbrividire.
Non poteva essere incinta. Non era ammissibile, non era assolutamente possibile…
 
«Anise, ho detto che “penserei” che sei incinta, non che lo sei. Non c’è motivo di reagire in questo modo» disse Calida, con sicurezza, stringendole entrambe le mani «Va tutto bene».
 
No, non andava tutto bene. Come poteva andare tutto bene se aveva la sensazione di poter perdere il controllo di sé da un momento all’altro, esattamente come credeva di aver perso il controllo della propria intera esistenza?!
 
«Io non sono incinta» balbettò la ragazza, stringendo convulsamente le mani di Calida «Io sono sterile. Io non posso avere figli. Non sono incinta, non posso esserlo, non devo esserlo, non… non è il momento. Non è mai il momento, adesso però lo sarebbe ancora di meno, io-»
 
«Fai dei respiri profondi. Va tutto bene: non stai impazzendo, non c’è nulla che ti impedisca di respirare e non c’è ragione di avere paura. Io ho solo avanzato un’ipotesi, ma hai sicuramente ragione tu. Non hai le nausee, sei sterile… sì. Non puoi essere incinta» concluse Calida, rifiutandosi di contemplare qualunque altra possibilità. una gravidanza di Anise avrebbe dato il colpo di grazia alla sua salute mentale, anzi, forse l’avrebbe data a quella di tutte e due. «Non sei incinta».
 
«Voglio andare a casa» disse Anise, con una nota di disperazione nella voce «Voglio tornare a casa, nel bosco».
 
«Se ne hai bisogno posso farti salire sulla mia schiena, non ho problemi».
 
Anise si era voluta crogiolare nella sua beata convinzione di essere sterile, si era voluta ripetere che i segni che lei, Beerus e Champa avevano notato fossero dovuti a tutt’altre ragioni, ma ormai non riusciva più a nascondere la testa sotto la sabbia come aveva fatto fino a quel momento.
Era costretta ad ammettere a se stessa che una gravidanza era molto più che probabile, anche se continuava a chiedersi come fosse potuto accadere. Sì, l’ “attività” tra lei e Beerus era alquanto intensa, ma in due anni non era mai successo nulla; questo e la mancata gravidanza quando era stata sposata con Meskal le erano sembrate una garanzia sufficiente.
 
Sollevò lo sguardo verso Calida e le bastò un’occhiata per capire che parlarle di certe elucubrazioni non era una buona idea.
“Non puoi essere incinta, non sei incinta”: non era stata la banale ripetizione di quel che aveva detto lei stessa. Probabilmente contraddirla avrebbe significato… non sapeva cosa. Non voleva saperlo.
Se era veramente incinta -ma perché si ostinava a dire “se”? Certo che lo era!- avrebbe dovuto affrontare la questione senza contare sull’appoggio di Calida.
 
Scosse la testa. «No, ce la faccio. Ce la faccio. Mi serve solo… dammi un minuto».
 
Meno di un minuto dopo riuscì a ritrovare sufficiente stabilità nelle gambe per rialzarsi e, complici i binari che collegavano Vynumeer all’uscita nella foresta, in meno di venti minuti riuscirono a raggiungere la casa di Anise.
 
«Adesso sto meglio. Se ho avuto quel momento di crollo è perché evidentemente non ho preso gli avvenimenti di quattro anni e mezzo fa bene quanto credevo» disse la ragazza, entrando in casa «Pensavo di essermelo lasciato alle spalle, ma a quanto pare la “pressione da gravidanza” mi ha segnata più del dovuto».
 
La parte peggiore era che mentre parlava capiva anche di non star mentendo.
Aveva pensato di aver incassato in maniera più o meno decente tutto quel che era successo, di esserne uscita quasi con “indifferenza”…
Come aveva potuto credere che -per quanto Meskal fosse stato piuttosto delicato- essere martellata ogni mattina e ogni notte per un anno intero da un uomo che non aveva mai amato né stimato, per di più col solo e unico scopo di ottenere una gravidanza che non era mai arrivata, potesse averla lasciata senza conseguenze?
Come aveva potuto credere di aver superato del tutto il fatto di essere stata ripudiata in pubblica piazza a causa della sua inadeguatezza come donna, del suo ventre “secco”?
Gravidanza, gravidanza: quella parola non aveva fatto altro che portarle stress, pressioni e dispiaceri, prima per il mancato arrivo, adesso perché giunta nel momento sbagliato.
Come avrebbe potuto non aver paura di una bestia simile?
 
«Non te ne faccio una colpa» cercò di tranquillizzarla Calida «Ora siediti e cerca di rilassarti. Se vuoi posso prepararti qualcosa da bere, ricordo ancora come si fa».
 
«Non c’è bisogno. A dire il vero la sola cosa di cui abbia voglia al momento è fare una lunga dormita. Qualunque cosa sia successa prima a Vynumeer mi ha tolto ogni energia, mi sento piuttosto spossata» disse Anise, sdraiandosi sul suo divano più comodo e avvolgendosi in una coperta.
 
«Credo sia stato un leggero attacco di panico, l’ho visto succedere ad alcuni soldati nella loro prima battaglia. Tu però lo hai avuto in un momento e luogo più adatti, quindi nessuno ne ha approfittato per ucciderti».
 
«Non ti rispondo nemmeno, guarda» borbottò la giovane «Calida, puoi tornare tranquillamente a Ulthmeer. Mi hai aiutata quando ne ho avuto bisogno e ti ringrazio, ma rimanere ancora qui sarebbe inutile… io voglio solo dormire, adesso».
 
Calida fu costretta ad ammettere che in effetti tornare in città sarebbe stato quasi un imperativo. Erano le dieci del mattino passate, in città probabilmente avevano già iniziato a chiedersi che fine avesse fatto, però non le piaceva l’idea di lasciare sola Anise. «Sei sicura?»
 
«Hai delle responsabilità, Calida».
 
«Anche verso di te».
 
«Hai già fatto quello che potevi per me. Torna in città, sarebbe inutile se tu rimanessi qui a fare la guardia a una lince che dorme».
 
«Tornerò domani stesso appena potrò» concluse Calida, un po’ a malincuore «Tu riposa e riguardati, Anise».
 
La ragazza non rispose, limitandosi a stringersi di più nella coperta e ad ascoltare prima il rumore della porta di ingresso che si chiudeva, poi i passi di sua sorella diventare man mano sempre più distanti.
 
Appena ebbe giudicato che Calida si era allontanata abbastanza buttò all’aria la coperta, si alzò e, con lo sguardo vacuo e il passo vacillante, si diresse verso lo specchio da terra che si trovava in una delle stanze attigue. Mentre camminava si tolse di dosso il prendisole, l’unico indumento che indossava, lasciandolo cadere a terra.
 
Raggiunse lo specchio, si guardò: come aveva potuto non capire? La pancia non era grande e questo era normale perché, ricordando da quando erano iniziate le nausee e l’ingrossamento del seno, probabilmente era incinta da poco più di tre mesi… ma avrebbe dovuto capirlo.
Avrebbe dovuto capirlo.
 
Scattò verso i suoi gomitoli e i suoi lavori a maglia iniziati e non finiti, afferrò un ferro da calza e poi, altrettanto velocemente, tornò davanti allo specchio. Stentava quasi a riconoscersi, in quel momento: non aveva mai visto sul proprio viso un’espressione così folle e risoluta allo stesso tempo.
 
Sollevò il ferro da calza, indecisa su quale fosse il modo migliore di usarlo. Quando una Lusan era costretta per qualsiasi motivo a ricorrere a un aborto “meccanico” solitamente andava da una mazèra -una donna piuttosto anziana che di solito seguiva le donne in gravidanza- che utilizzava uno strumento non troppo diverso da quello che lei aveva in mano, ma il rischio di emorragie interne era sempre altissimo, dunque tentare di fare una cosa simile da sola sarebbe stato un suicidio. Avrebbe avuto più possibilità di sopravvivenza se si fosse infilzata il ventre direttamente.
 
Un attimo dopo si avvide di quanto stesse tremando la mano che stringeva il ferro, motivo per cui se lo lasciò sfuggire via dalle dita. In quelle condizioni non sarebbe riuscita a combinare alcunché.
 
Doveva tornare a ragionare.
 
«È il figlio di un dio. Chi mi garantisce che riuscirei a ucciderlo in questa maniera, anche se è così piccolo?» mormorò.
 
Si diresse in cucina, ricordando di avere segnata da qualche parte la ricetta di una tisana che avrebbe potuto procurarle un aborto, ma anche in quel caso valeva lo stesso discorso: sbagliare una dose anche solo di poco l’avrebbe uccisa, mentre non c’era la garanzia che quella tisana, seppur preparata correttamente, potesse davvero avere qualche effetto sul figlio di un Hakaishin.
 
Il figlio di Beerus.
 
Anise non si era mai soffermata veramente su tale dettaglio fino a quel momento: portava in grembo il figlio suo e di Beerus, Beerus, il suo compagno, una persona che amava moltissimo.
Una persona che al momento era alquanto instabile.
Un ragazzo di quasi vent’anni che ultimamente mostrava reazioni degne di un bambino e che di conseguenza non avrebbe mai potuto prendersi cura di un neonato.
 
 
 
“In una relazione sana ed equilibrata i figli possono essere un collante… ma se la relazione non va più che bene, e non si è entrambi “adulti” a livello mentale, i figli diventano un acido”.
 
 
 
Le parole che Calida le aveva detto il giorno del suo ventesimo compleanno le rimbombavano nella testa, e mai come in quel momento le erano sembrate tanto vere.
Dire a Beerus della gravidanza lo avrebbe soltanto mandato ancor più fuori di testa, perché lui non aveva mai avuto velleità paterne… ma c’era anche un’altra possibilità, perfino peggiore, ossia che Beerus -dopo l’incredulità iniziale- manifestasse la volontà di tenerlo perché “Ormai nostro figlio c’è ed è un miracolo che ci sia”.
Sarebbe stato un problema, perché lei non intendeva mettere al mondo quella creatura in nessunissimo caso. Era troppo terrorizzata, troppo angosciata, troppo convinta che non fosse il momento giusto e che, in ogni caso, né lei né Beerus sarebbero stati all’altezza. Non era neppure sicura che sarebbe mai riuscita ad amare quell’esserino.
Non sarebbe mai potuta finire bene, sia nel caso che Beerus le imponesse di portare a termine la gravidanza, sia che lei abortisse senza che lui fosse d’accordo. Nel primo caso lei sarebbe finita a odiarlo per quella costrizione, mentre nel secondo sarebbe stato Beerus a odiare lei.
 
Informare Beerus della questione sarebbe stata una mossa sbagliata, non aveva dubbi, e più il tempo passava più Anise vedeva diminuire la quantità di possibili strade da percorrere… finché, dopo essersi accovacciata su una delle sedie della cucina, capì che alla fin fine ce n’era una soltanto.
 
Una strada che non le piaceva per nulla e che andava ben studiata prima di essere imboccata, chiamata “Whis”.
 
Quando sentì due forti colpi contro la porta d’ingresso non poté evitare di sobbalzare per la sorpresa, per un attimo temette perfino che Calida fosse tornata indietro…
 
«Anise!»
 
Tuttavia, quando sentì la voce di Beerus, la prima cosa che pensò fu questa: “Avrei preferito che fosse davvero Calida.






Stavolta non ho molto da dire, se non che è un miracolo che abbia davvero aggiornato xD... anche se l'ho fatto con un capitolo che si può riassumere in "tutto e niente" :"D, quindi niente, a voi eventuali commenti.
Ah, dimenticavo: nel caso in cui qualcuno se lo sia domandato, sì, l'esserino con cui si è fuso Rubedo/Kamandi era della stessa razza di Watagash.
Watagash. L'alienino viola che compare nella saga filler in cui Gohan si ritrova a fare l'attore (non ricordo il numero preciso degli episodi in questione, però dovremmo esserci capiti :"D)
Intanto ringrazio dal profondo del cuore chiunque stia seguendo la storia   ^__^

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Capitolo 21
*** 21 ***


RMIcap21
21
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
Quando Beerus si era fatto lasciare da Whis davanti alla casa di Anise, la sua mente aveva già prodotto numerosissimi film mentali su quel che sarebbe potuto succedere.
 
Probabilmente un nuovo litigio.
 
Anise non si era fatta viva per tutta la settimana nonostante gli avesse detto “Ti farò sapere quando sarò disposta ad accettare le tue scuse” -e già questo, che un dio dovesse scusarsi e per di più aspettare il permesso di farlo era discutibile-, si era schierata dalla parte di Champa ed era stata perfino a casa sua diversi giorni! Lo aveva lasciato da solo proprio adesso che mancavano pochi giorni al suo ventesimo compleanno, facendogli persino pensare che non si sarebbe presentata.
Proprio lei, la sua Iarim Neiē.
Beerus avrebbe potuto sorvolare sull’assenza di chiunque, ma non sulla sua.
 
Anche quando aveva iniziato a riflettere a mente più fredda -capendo che forse dare dell’ingrata ad Anise e dire a Champa che l’avrebbe preferito morto non erano state delle genialate- la sensazione di essere stato abbandonato dalla “sua” persona non gli aveva mai permesso di scendere completamente a più miti consigli.
Il fatto che lei non l’avesse cercato non aveva fatto che acuire quella sensazione: lui aveva iniziato a sentirne la mancanza già dal giorno dopo, pur essendo ancora arrabbiato, per lei invece non doveva essere stato lo stesso o si sarebbe fatta viva.

 
Beerus trovava lunghi tre giorni senza vederla quando era tutto a posto, dunque era intuibile come si sentisse dopo un distacco lungo quasi una settimana, per di più dopo un simile litigio.
Era principalmente per quel motivo che si era fatto portare lì, perché si era detto “basta”; al diavolo i permessi, al diavolo tutto, era ora di chiudere quella brutta faccenda una volta per tutte e, se lei non voleva parlare, allora l’avrebbe fatto lui!
 
Si era recato da lei con animo battagliero, che tuttavia evaporò all’istante appena Anise aprì la porta e lui poté vederla.

«Cosa ti è successo?!» fu la prima cosa che disse, profondamente allarmato, avvicinandosi a lei con rapidità.

Il prendisole che indossava era storto, come se lo avesse infilato addosso alla bell’e meglio -lei, che era così precisa!- il viso e parte dei capelli erano umidi come se si fosse data una rapida sciacquata al volto per nascondere chissà che cosa e, soprattutto, aveva un’espressione che lui non avrebbe esitato troppo a definire quasi “traumatizzata”.

Mai le aveva visto negli occhi un simile sguardo, mai lo avrebbe voluto vedere: era qualcosa che faceva passare tutto in secondo piano, anche e soprattutto il suo nervosismo e i precedenti dissapori. Non avevano importanza, non con lei così.
 
«Nulla. Perché?»
 
Il tono di voce perfettamente calmo della sua compagna, in netto contrasto con quel che lui aveva davanti agli occhi, non fece altro se non farlo preoccupare ulteriormente. Non aveva idea di cosa le fosse capitato ma qualunque cosa fosse doveva essere stata orribile, e lui non era stato lì per impedirla. Forse avrebbe potuto evitare che le succedesse, se si fosse deciso a muoversi prima invece di rimanere a crogiolarsi nell’orgoglio e nel nervosismo.
Aveva la sensazione che più tempo passava, più lui diventava totalmente incapace di darle la protezione di cui aveva bisogno… ma non erano i suoi sensi di colpa a contare, non in quel momento.

 
«Non dirmi “niente”! Posso avere dei picchi di stupidità, sì, ma solo fino a un certo punto. Cos’è successo? Cosa ti hanno fatto? Chi lo ha fatto?»
 
“Caro Beerus, è ‘successo’ che non sono poi così sterile come credevo, che ‘abbiamo fatto’ sesso una volta di troppo e, ovviamente, i colpevoli di questa cosa siamo solamente noi due. Quindi ora devo abortire, perché io non me la sento di mettere al mondo questa creatura, mentre tu non sei in grado di cambiarti le lenzuola, quindi tantomeno saresti in grado di cambiare un neonato quando si sporca” pensò Anise “No, sul serio, io dovrei davvero dirgli certe cose?”
 
«Nessuno mi ha fatto nulla, è solo che non sto molto bene. Poi forse anche lo stress… per la nostra situazione» aggiunse la ragazza, rientrando in casa assieme a lui «Anche quello non mi ha giovato. Ho cercato di contattarti due giorni fa, Whis però ha detto che stavi facendo il bagno e-»
 
«Cosa?! Hai cercato di contattarmi?» si stupì Beerus «Whis non mi ha detto nulla del genere!»
 
Oltre all’angoscia e a un panico che non era ancora andato via completamente, ora si stava formando dentro di lei un denso grumo di rabbia, freddo e duro come se le fosse comparso un proiettile di hrat’san nello stomaco.
Anise sapeva benissimo che Whis era contro quella relazione e lo era sempre stato, ma si era definitivamente rotta le scatole di quei sabotaggi. Prima li aveva portati al centro di Ulthmeer nella speranza che succedesse qualcosa di analogo a ciò che poi era accaduto, adesso si era “dimenticato” di riferire a Beerus che lei lo aveva cercato…
 
 
 
“Lei dovrà mitigare le intemperanze e i momenti di ribellione di Beerus, spingendolo a fare quel che ho detto prima: svolgere il suo dovere di Hakaishin, allenarsi e anche studiare. Io a quel punto non intralcerò la vostra relazione…”
 
 
 
Whis aveva detto così e lei era stata di parola: aveva cercato di spingere Beerus a svolgere il suo dovere nel modo corretto, lo aveva spinto a dare il massimo durante gli addestramenti anche ripetendogli spesso quanto fosse fiera di lui e della forza che stava acquisendo e, per quanto concerneva lo studio, era riuscita a fargli capire da un pezzo quelle benedette funzioni lineari.
Whis invece non aveva fatto altro che remare loro contro. Non direttamente magari, ma agendo in maniera indiretta aveva creato diversi problemi.
Era ora di risolvere la questione con qualunque mezzo, di fare in modo che quell’angelo la facesse finita, perché non intendeva più sopportare cose del genere. Lei e Beerus avevano già abbastanza problemi senza che si mettesse in mezzo anche Whis.
 
«Avrei dovuto aspettarmelo» disse piano Anise «Se ne sarà “dimenticato”, immagino. Per quel che gli pare ha la memoria molto corta, il nostro Whis».
 
«Credi che l’abbia fatto di proposito?»
 
«Certo che l’ha fatto di proposito, mi sembra abbastanza ovvio. Ora però non diamo inizio a una discussione anche su questo, perché non è proprio giornata».
 
Dopo quell’affermazione della Lusan seguirono diversi istanti di silenzio.
 
«Anise, stavo pensando… questo è uno dei tuoi “momenti strani”? Quelli di cui mi avevi parlato?»
 
La risposta sincera da dare a Beerus sarebbe stata “no e sì”: “no” perché il suo attuale stato d’animo aveva delle ragioni del tutto fondate e non aveva mai avuto un crollo così prima d’ora, “sì” perché ora che stava passando iniziava a sentirsi più o meno come in uno dei suddetti “momenti strani”. Anise però non aveva proprio le forze per riuscire a spiegare a Beerus qualcosa che nemmeno lei capiva appieno. «Sì, in pratica sì».
 
Se Anise avesse indossato un altro vestito, se fosse stata notte invece che giorno e non avesse avuto un bambino in grembo, avrebbe pensato di essere tornata indietro nel tempo di un paio d’anni: Beerus, senza dire una parola, l’aveva appena abbracciata come aveva fatto la sera in cui lei gli aveva parlato del proprio passato, la stessa in cui si erano dati il primo bacio e si erano messi insieme. Perfino il luogo era esattamente lo stesso.
 
Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, perché era veramente il colmo: da tempo lui si stava comportando come uno schizzato, mentre ora che un suo comportamento scorretto le avrebbe “facilitato” le cose - perché nascondere un segreto a un fidanzato che non si comportava bene sarebbe stato leggermente più “semplice”- eccolo lì, pronto a fare l’innamorato premuroso che baciava, coccolava e si occupava della sua compagna… e lei in teoria avrebbe dovuto perfino rallegrarsene.
Il tempismo di Beerus era a dir poco orrendo.
 
«Non volevo che andasse a finire com’è andata a finire, non volevo darti dell’ingrata, non volevo “attaccarti” per colpa di un videogame, ma soprattutto non avrei mai voluto vederti in questo modo per colpa del nostro litigio» disse Beerus, visibilmente dispiaciuto.
 
«Apprezzo le tue parole» fu la risposta quasi meccanica della lince, che non riuscì a ricambiare l’abbraccio; un po’ in virtù del tempismo orrendo e un po’perché, come una rondine non faceva primavera, un momento di dolcezza non significava un ritorno alla normalità.
 
Seppure un po’ferito dall’immobilità di Anise, Beerus in quel momento non sarebbe riuscito a rimproverarle alcunché, motivo per cui la lasciò andare e le prese il viso tra le mani. «Ce l’hai ancora con me?»
 
«Ero pronta ad accettare le tue scuse già due giorni fa, quindi no. È solo…» fece spallucce «È solo un momento. Passerà».
 
Per una bizzarra ironia della sorte si era trovata a pronunciare parole quasi identiche a quelle di Beerus, probabilmente con uno stato d’animo simile a quello del suo compagno quando le aveva dette.
Con la differenza che lei intendeva fare qualcosa di concreto per risolvere il problema più grosso, naturalmente.
 
«Comunque non ho mentito, oltre a una giornata di “umore strano” ho anche qualche problema a livello fisico. Non è qualcosa di grave né è costante, ci sono dei momenti in cui sto benissimo e dei momenti in cui sto un po’meno bene, ma è un po’fastidioso… e un po’ “da donne”» aggiunse, conscia che così facendo sarebbe stato difficile che Beerus facesse ulteriori domande: tutto grazie al “trauma da spiegazione precisa del mestruo”. Non avrebbe mai creduto che un giorno le avrebbe fatto comodo.
 
Beerus le accarezzò i capelli. «Non ci voleva proprio».
 
«No, infatti. Se non dovessi stare meglio magari potrei andare da un qualche medico di qualche posto».
 
«Macché medico, c’è Whis» ribatté il dio, proprio come Anise aveva immaginato «Avrà l’occasione di rendersi utile, una volta tanto! Dopo essersi dimenticato -o “dimenticato”- di riferirmi che mi avevi cercato, il minimo che possa fare è darti un po’di sollievo dai tuoi problemi da donne. Farà meglio a curarti personalmente, in fretta e bene, altrimenti!...»
 
«Possiamo parlargliene quando si farà di nuovo vivo. In questo preciso momento non ho fastidi, dunque preferisco evitare di vederlo prima del dovuto, se posso» disse Anise, che doveva rimuginare ancora un po’su come muoversi «Per che ora avete concordato?»
 
«Per stasera».
 
«Questo significa che abbiamo modo di parlare un pochino».
 
«Sei sicura di essere nelle condizioni giuste?» le chiese lui, con aria dubbiosa.
 
«Ho detto “parlare”, non “mangiarci la faccia a vicenda”. Per quest’ultima cosa non è giornata, ma col parlare non ho problemi. Anche a me dispiace per com’è finita la scorsa settimana, sai che odio litigare con te».
 
«Lo odiamo in due».
 
«Però…»
 
«Ecco, lo temevo» borbottò Beerus.
 
«Quel che hai detto a Champa è stato bruttissimo, ci è rimasto davvero molto male».
 
Sentir parlare del gemello fece innalzare nuovamente il livello di nervosismo dell’Hakaishin, che non aveva la minima voglia di pensare al suo gemello. «E tu lo sai bene, dal momento che sei stata a casa sua tutti questi giorni. A far cosa non si sa».
 
Silenzio di tomba.
 
«Chiudiamola» disse Anise, dopo un po’.
 
«Sei tu che hai tirato fuori questa faccenda, io-»
 
«Non la faccenda, la nostra relazione. Chiudiamola».
 
Era stata una doccia fredda vera e propria per Beerus, come si evinceva dalla sua espressione attonita. «C-cosa?...»
 
«Non riusciamo a parlare, quasi volta che stiamo insieme finiamo a litigare per delle stupidaggini e quando io ti faccio notare degli errori tu fai insinuazioni nemmeno troppo velate sul fatto che io possa aver fatto chissà che con tuo fratello -perché “a far cosa non si sa” voleva dire questo-, segno evidente che ormai ti fidi ben poco della sottoscritta. Se le cose stanno così non capisco perché dovremmo restare ancora insieme».
 
«Come puoi dire una cosa del genere?! COME?!» gridò il dio, ancora più incredulo «Non puoi parlare sul serio! Cosa vorrebbe dire questo?! Che non… tu non… insomma, tu non provi più niente?!»
 
Stavano insieme da più di due anni, di per sé non era un periodo di tempo eccessivamente lungo; eppure, da “tipico” ragazzo che stava vivendo la sua primissima relazione -per di più estremamente seria- non riusciva a immaginare di trascorrere la vita senza quella persona.
Non riusciva a concepire l’idea di non poterla più avere vicino, come non riusciva neppure a sostenere il pensiero di un simile “vuoto”. L’unico pensiero che aveva in testa era quello di non volerla perdere per nessunissima ragione, anche se avevano difficoltà a comunicare, anche se litigavano, anche se… tutto.
 
«Quello che provo non c’entr-»
 
«Sì che c’entra, invece!» la interruppe lui «Come puoi dire che non c’entra?!»
 
«Lo dico perché è la verità. Quel che proviamo uno per l’altra ha una certa importanza, ma da solo non basta».
 
«Sì che basta! Non-»
 
«Tu e io ci amiamo, sbaglio? Eppure guarda come siamo ridotti… noi due! Noi, che stavamo talmente bene da pensare di passare la vita intera insieme! Come fai a dire che basta, Beerus?»
 
«Io non ho cambiato idea, penso tuttora di voler passare la vita insieme, anche se siamo messi così. Continuerei a pensarlo anche se fossimo messi peggio, a dirla tutta» aggiunse «Eri seria quando dicevi di chiudere? Tu credi davvero che divisi staremmo meglio? Perché io invece non lo credo affatto e- no, non interrompermi, per me è già molto difficile fare discorsi di questo genere» la bloccò, vedendo che stava per dire qualcosa «Dovresti sapere come sono fatto. Anise, io sono convinto che lasciarci sia l’alternativa peggiore tra tutte, quindi non intendo chiudere. Non mi passa neppure per l’anticamera del cervello, né dovrebbe passarci a te, se davvero quel che senti non è cambiato. Finché siamo insieme c’è sempre la possibilità di lasciarci alle spalle tutto questo macello, prima o poi».
 
“Come no! Poi le città smetteranno di farsi la guerra, Whis diventerà una persona decente, Calida lascerà il suo ruolo di Ulthmeer a-ghekavary per andare a fare la ballerina in un locale notturno e si farà vivo il vero Coniglio Assassino di Caerbannomeer alla testa di un’armata di conigli carnivori che andrà a conquistare tutta la valle” pensò la Lusan, trattenendo una risata amara come veleno.
 
Non riusciva a credere alle parole di Beerus -soprattutto in previsione di quel che stava per fare a sua insaputa-  però non riusciva neppure a smettere di sperare in un miracolo che salvasse la sua relazione con la persona che amava più di chiunque altra.
Doveva ancora capire da dov’era venuta l’idea di proporre di troncare la loro storia, da dove aveva trovato il coraggio, sapendo benissimo che sperava nelle stesse cose in cui sperava Beerus e che per lei sarebbe stata dura esattamente quanto lo sarebbe stata per lui.

Era complicato.
Molto complicato.

 
«Sì. Prima o poi» ripeté Anise, senza particolari inflessioni «Tu comunque devi scusarti con Champa o perlomeno fargli presente che non lo preferiresti morto, perché non sei una persona tanto orribile da desiderare veramente una cosa simile. In tal caso potremmo definire risolto almeno questo aspetto dei nostri problemi attuali».
 
«Tanto il giorno del mio compleanno verrà sicuramente in casa mia a seccarmi, gli dirò due parole in quel frangente» sbuffò Beerus, dopo un attimo di esitazione dovuto al cambio d’argomento improvviso.
 
«Beerus, Champa non verrà al tuo compleanno. Probabilmente non lo farà nemmeno l’anno prossimo o quello successivo, né quello dopo ancora. Tu forse non lo hai capito, ma quest’anno sei andato molto vicino a rischiare di festeggiarlo da solo con Whis» disse Anise «Io mi sono fatta viva perché sei il mio compagno e non volevo aggiungere ulteriore acredine o motivi di divisione tra noi due, Champa però rimane fermo sulla sua posizione».
 
«Quindi non verrà?»
 
«No».
 
Rimasero in silenzio per un paio di minuti, mentre Beerus, perso in pensieri indistinti e sensazioni che neppure lui capiva appieno riguardo la “defezione” di Champa, fissava un punto indefinito della parete opposta.
 
«Tanto avrò con me la sola persona di cui mi importi davvero, se Champabomba Cannoniere non si presenterà, beh, fatti suoi» concluse l’Hakaishin, atono.
 
«Quel giorno chiamalo almeno per fargli gli auguri, sarebbe un minimo segno di distensione».
 
«È lui quello che non vuole venire al mio compleanno per colpa di una litigata» ribatté Beerus «Come se pugni e litigi fossero una novità!»
 
«Sai benissimo che non è stata una litigata normale, se poi vogliamo continuare a prenderci in giro è un altro discorso. Il giorno del vostro compleanno lo chiameremo».
 
«Non ti prometto nulla» borbottò il dio «Cambiamo discorso. Ora come ti senti?»
 
«Un po’meglio di come mi sentivo quando sei arrivato. Credo che entro domani sarò del tutto a posto» disse Anise «O almeno lo spero. Già ti avviso che quasi sicuramente Calida si farà vedere già domattina…»
 
«Lei cosa c’entra?!» scattò subito Beerus, già prontissimo a sospettare che in realtà la vera ragione di quei malesseri di Anise fosse proprio Calida.
 
«È andata via prima che arrivassi tu e ha assistito al “momento strano”» spiegò Anise «Ha fatto quel che ha potuto per darmi una mano, voleva perfino restare qui, se non lo ha fatto è perché io le ho detto che avrei fatto una dormita e l’ho convinta a tornare in città».
 
«Hm» si limitò a dire Beerus, per nulla desideroso di dare inizio all’ennesima discussione «Anche io però voglio restare nelle vicinanze. Voglio sincerarmi personalmente delle tue condizioni».
 
«Nelle vicinanze?»
 
«Non sono sicuro che tu voglia dormire con me» mugugnò lui, sostenuto «Ripeto: solo dormire. Anche perché, al di là del resto, non sei perfettamente in salute».
 
«Per me non ci sono problemi, possiamo condividere il letto».
 
Beerus annuì. «Bene».
 
«Bene. Ti va un infuso?»
 
«Per una volta posso farlo io» si offrì l’Hakaishin «So dove sono le miscele e per mettere a bollire dell’acqua non serve essere dei geni».
 
«Preparare un infuso non costa fatica».
 
«Lo so ma preferirei che tu stessi a del tutto a riposo, per oggi» ribatté il giovane.
 
«Qualcuno però dovrà occuparsi della cena, dopo».
 
«Whis ha sempre del cibo con sé, ci arrangeremo con quello. Non dovrai preoccuparti di niente, Anise».
 
«D’accordo» cedette la lince, e capendo che in alcun caso lui avrebbe cambiato idea si sedette su un divanetto «Ti ringrazio».
 
«Sei la mia Iarim Neiē, occuparmi di te quando ne hai bisogno è mio dovere e soprattutto mia precisa volontà. Ho quasi una settimana da recuperare».
 
«Non preoccuparti».
 
«Invece mi preoccupo. Se si tratta di te non posso farne a meno, indipendentemente da tutto» replicò Beerus «Faccio l’infuso».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 

“Stavo per dimenticarmene: Anise ha detto di avere avuto qualche piccolo fastidio a livello fisico oggi, ‘cose da donne’, non ho approfondito. Questa sera sembra essere stata bene…”

“È così, non ho avuto fastidi”.

“Ma nel caso in futuro debba avere di nuovo problemi pretendo che te ne occupi tu personalmente al massimo delle tue capacità, Whis. Ci siamo capiti?”

 

 
 
Quando Beerus gli aveva detto quelle cose subito dopo cena, Whis non si era stupito poi così tanto: le altre due volte in cui Anise aveva avuto il ciclo -“cose da donne”, solo di quello poteva trattarsi- era stato piuttosto doloroso, seppur molto breve, dunque era perfettamente plausibile che avesse avuto dei fastidi.
Eppure eccolo lì, alle una di notte, ancora sveglio e intento ad ascoltare l’orologio che scandiva i secondi con un leggero ticchettio, incapace di lasciarsi andare a un sonno che sarebbe servito più che altro a far passare le ore con maggior rapidità.
Non si era neppure cambiato d’abito, limitandosi a togliere le scarpe e a lasciare l’aureola fluttuare accanto al letto.
 
“C’è qualcosa che non va. Non so cosa sia, ma ho questo presentimento”.
 
Cercò di fare mente locale, eppure non riuscì a identificare quale potesse essere la causa di tanta inquietudine, uno stato d’animo che normalmente non gli apparteneva affatto. La sua era una razza di creature in cui “sentire” era un po’inibito -e diventava ancor più inibito con il passare dei secoli- e, dunque, poco abituata al turbamento.
 
“Anche se a dire il vero sono oltre due anni che mi sento molto meno tranquillo del dovuto” sospirò.
 
Era passato del tempo, eppure Whis si scopriva a maledirsi ancora per aver abbandonato Beerus nella foresta.
Probabilmente non avrebbe mai smesso di farlo.

 
Due leggeri colpi contro la porta interruppero il suo flusso di pensieri, lasciandogliene in mente uno soltanto: “Ecco, avevo ragione”.
 
«Whis?...»
 
Aveva immaginato che non si trattasse di Beerus appena aveva sentito bussare.
Per qualche istante fu terribilmente tentato di fingere di dormire e lasciare chiusa quella porta, tuttavia si rassegnò presto al fatto che non poteva permetterselo. Se Anise lo stava cercando a quell’ora, una volta certa che Lord Beerus dormisse profondamente, doveva essere per qualcosa che avrebbe fatto meglio a non ignorare.

«Avanti».

 
La porta si aprì, e Anise entrò rapidamente nella stanza. «Non chiedermi perché ma immaginavo che fossi sveglio».
 
«E lei non mi chieda perché, ma immaginavo che sarebbe successo “qualcosa”» replicò lui.
 
«A dir la verità il “qualcosa” è già successo da qualche mese» disse Anise «Ho voluto nascondere la testa sotto la sabbia, ho voluto crogiolarmi nelle mie speranze e convinzioni, ho voluto chiudere gli occhi dinanzi all’ovvietà… ormai però non posso più farlo».
 
«Capisco, capisco. Si è resa conto che la sua relazione con Lord Beerus ormai è giunta al capolinea» annuì l’angelo, con un’espressione di dispiacere alquanto falsa «Immagino sia dura da accettare».
 
«Sono incinta».
 
«Ohohohohoh! Non è uno scherzo che possa funzionare, Lady Anise, sappiamo tutti che lei non può restare incinta» minimizzò Whis.
 
«Preferirei anch’io che fosse uno scherzo, peccato che invece non lo sia affatto. Aspetto un figlio da Beerus» scandì la Lusan, con espressione funerea «E sebbene non ritenessi che potesse esistere un momento giusto per una mia gravidanza, quello attuale è il più sbagliato in cui poteva capitare una cosa simile».
 
Il sorriso dell’angelo svanì nel capire che purtroppo Anise stava dicendo sul serio: era incinta, o comunque credeva davvero di esserlo.
Fece comparire il bastone in una mano, aggrappandosi quasi con “disperazione” alla speranza che a essere valida fosse la seconda teoria, ma una volta effettuato un rapido controllo capì che era stata una speranza vana.
 
«Lady Anise… lei doveva essere sterile. Sterile» ripeté, cercando di contenere l’agitazione crescente «Non può essere rimasta incinta, è una cosa impossibile!»
 
«Lo credevo anche io. A quanto pare sbagliavo».
 
Anise incinta del suo Hakaishin.

Non era reale, non doveva esserlo: evidentemente si era addormentato senza rendersene conto e ora stava sognando quella che per lui sarebbe stata una rogna immensa, non c’era altra spiegazione.
O meglio, c’era, ma lui si rifiutava di accettarla. «Questo è un incubo» mormorò.

 
«Sarebbe bello, però purtroppo non è così».
 
L’angelo si passò una mano sul volto. L’imprevedibile era accaduto, dunque non restava altro da fare se non agire di conseguenza. «Lady Anise, spero che abbia conservato sufficiente buonsenso da non pensare di portare avanti la gravidanza e/o di parlare di questo fatto al suo compagno. Lei è già una distrazione sufficiente per Lord Beerus, anzi, oserei dire che da qualche mese a questa parte sia diventata eccessiva. Se ora aggiungessimo un neonato all’equazione farei prima a cercare un candidato per prendere il posto di Lord Beerus, un candidato che al momento non c’è. Non c’è!» ripeté, frustrato.
 
«Io per l’appunto avevo deciso di interrompere la gravidanza e di non informare Beerus. A sentire quel che dici i miei pensieri erano sensati, sebbene sappia che, moralmente parlando, informarlo di quel che sta succedendo e delle mie intenzioni sarebbe la scelta più giusta».
 
«Deve anche rendersi conto del fatto che sarebbe un rischio troppo grande. Lord Beerus non ha mai mostrato velleità paterne, del resto è un bambino egli stesso... ma cosa succederebbe se per disgrazia, una volta messo a conoscenza della presenza di questo figlio in arrivo, decidesse imprevedibilmente di volerlo tenere? No, no: lei deve interrompere la gravidanza come aveva deciso di fare e Lord Beerus non dovrà mai e poi mai venire a conoscenza di tutto ciò» concluse Whis.
 
«Lieta di trovarti d’accordo. A questo punto direi che possiamo procedere».
 
«Cosa intende per “procedere”?»
 
Anise sollevò un sopracciglio. «Credevi che fossi venuta da te solo per annunciare la lieta novella? Non puoi essere così sciocco. Cosa pensi che intenda per “procedere”?» si indicò il ventre «Vorrei che ti occupassi del feto e di rendermi sterile per davvero».
 
«No» disse l’attendente «È indubbio che debba abortire, ma se spera che io mi lasci coinvolgere ulteriormente in questa storia si sbaglia. Utilizzi un qualche veleno, si rechi da un qualche medico, faccia quello che serve ma non venga da me».
 
«Se quello che porto in grembo non fosse figlio di una divinità ti assicuro che lo avrei già fatto, noi Lusan abbiamo un infuso di erbe che serve proprio per cose come questa» ribatté lei «Però questo qui È figlio di un dio. Nessuno mi garantisce che suddetto infuso funzioni, proprio come nessuno mi garantisce che non resisterebbe a un aborto “meccanico” che per un qualche miracolo non mi squarci l’utero. Ora, io immaginavo una risposta del genere a parte tua» ammise Anise «Ed è per questo che oggi ho confessato a Beerus di avere qualche “problema fisico”. Lui ti ha detto di occupartene personalmente al massimo delle tue capacità, se non erro».
 
«Lo ha detto perché non sapeva di quale tipo di problema si trattasse» fu la gelida replica di Whis.
 
«Non lo sapeva e, come tu hai detto molto chiaramente, non dovrà mai saperlo. Sono piuttosto sicura che tu possa eseguire questa operazione in modo rapido e indolore per tutti, incluso il feto stesso. Credo siano ben poche le cose che voi angeli non possiate fare».
 
«Se io mi rifiutassi, lei cosa farebbe?»
 
«Tornerei di sopra nel letto facendo in modo di svegliare Beerus “per sbaglio”, gli direi che non sono stata bene, che sono venuta da te e che non hai fatto granché per aiutarmi. Già questo potrebbe causarti diverse noie con lui, perché se vuoi mantenere il silenzio sulla gravidanza non potresti dirgli il motivo per cui ti sei rifiutato di darmi una mano. Presumo che saresti costretto ad accontentarmi ugualmente, sebbene con un giorno di ritardo. Tuttavia» continuò «Nel caso in cui tu ti intestardisca comunque a non aiutarmi, giuro qui e ora che mi farò portare da Beerus -in un giorno totalmente casuale- dalla mazèra più imbranata di cui abbia sentito parlare, facendo una brutta fine piuttosto ovvia. Beerus a quel punto verrebbe a sapere qual era il “problema” che ti sei rifiutato di risolvere. Sono piuttosto sicura del fatto che non vorrebbe sapere più alcunché di te. Dovresti  rinunciare al tuo promettentissimo allievo e cercare un candidato… che “non c’è, non c’è!”»
 
Anise aveva esposto il tutto con una piattezza tale da far sembrare il tutto un brano da imparare a memoria e poi ripetere. Probabilmente era accaduta proprio una cosa del genere, pensò Whis, mentre si rendeva conto di essere stato preso in contropiede: chissà quante volte si era ripetuta mentalmente quel discorso, talmente tante da far sembrare la propria eventuale morte e quella del feto due cose abbastanza “facili” da sostenere. «Si rende conto del fatto che lei in quest’ultimo caso morirebbe, Lady Anise?»
 
«Ti rendi conto…» sussurrò la Lusan con breve un guizzo di paura e disperazione nello sguardo, entrambe cose che fino a quel momento stava cercando di nascondere «Del fatto che questa gravidanza mi ha mandata nel panico e mi sta facendo uscire di testa al punto che, al momento, della mia stessa vita mi importa relativamente poco?»
 
«Mi faccia capire: ha pensato a tutto quel che mi ha detto pur essendo in condizioni del genere?»
 
Anise annuì. «Per forza».
 
Dopo un attimo di completa immobilità, Whis puntò il bastone contro il ventre di Anise. «Per questa volta ha vinto».
 
«Sto per lasciar morire quello che sarebbe potuto diventare un figlio mio e della persona che amo. Lo sto facendo perché ho paura, perché sento che non sarei in grado di essere il tipo di madre che meriterebbe, perché la sua natura “mista” ha troppe incognite, perché suo padre è troppo immaturo, perché al momento la situazione in generale è pessima e perché la mia relazione sta andando già abbastanza male per aggiungere altre complicazioni. È la “necessaria risoluzione di un problema”, non una vittoria».
 
Whis non fece ulteriori commenti, limitandosi a procedere.

Il tutto si svolse in modo molto rapido e fisicamente indolore: il solo segno visibile dell’azione di Whis fu la vista del ventre un po’ gonfio della ragazza tornare a essere piatto com’era sempre stato, e la sterilizzazione non fu minimamente avvertita dalla giovane, che per tutto il tempo non fece che guardarlo dritto negli occhi.
 
«Ho concluso l’operazione con successo, Lady Anise».
 
La Lusan si limitò ad annuire e si sedette sul letto, in completo silenzio, fissando il pavimento con aria assente.
Whis avrebbe preferito che tornasse immediatamente di sopra, però non se la sentì di turbare quegli istanti di “raccoglimento”. Mancava un po’di empatia ma non era così stupido da non comprendere che la ragazza, dopo aver compiuto quella scelta difficile, potesse aver bisogno di un attimo in cui avere l’impressione che il mondo si fermasse assieme a lei.
 
Passò così qualche minuto, prima che Anise rialzasse la testa.
 
«Ebbene» esordì la Lusan «Credo che a questo punto mi sia rimasto da dire solo un altro paio di cose. La prima è “ti ringrazio sentitamente per la collaborazione”».
 
«A buon rendere».
 
«La seconda è che ho pensato a diversi modi con cui far sì che Beerus venga a conoscenza del fatto che io ho preso la decisione di abortire senza informarlo, e che tu  non solo hai approvato una mia scelta moralmente discutibile, ma mi hai perfino aiutata a metterla in pratica. Ti faccio una domanda del tutto teorica: secondo te quanto sono alte le probabilità che il tuo preziosissimo rapporto maestro/allievo vada in fumo?»
 
Il primo pensiero che attraversò la mente di Whis fu un gigantesco “COSA?
Si era perfino abbassato a darle una mano e ora Anise se ne usciva con un’assurdità simile, senza che lui tra l’altro capisse dove voleva andare a parare! Era proprio il colmo. «Non c’è dubbio che la situazione abbia temporaneamente compromesso le sue facoltà intellettive. Anche lei non avrebbe di che guadagnarci».

 
«Io sono una ragazza giovane, sinceramente terrorizzata da quella gravidanza improvvisa al punto di aver avuto un crollo di nervi pesante come non ne ho mai avuti, in una situazione pessima col suo compagno e senza alcun sostegno. Tu sei un essere vecchio milioni di anni tendente a una calma piatta che sfocia nel menefreghismo. Siamo coinvolti nella stessa cosa, ma i motivi che ti hanno spinto ad agire sono un po’diversi dai miei. Credo che Beerus, dopo il primo momento di rabbia verso entrambi, coglierebbe la differenza».
 
«E io credo che non avrei mai dovuto accettare di aiutarla. Mi sono fatto prendere alla sprovvista, non pensando che avremmo potuto andare in un pianeta dalla tecnologia estremamente avanzata che avrebbe potuto fare più o meno quello che ho fatto io» ribatté Whis, pronto a battere il bastone a terra per rimandare indietro il tempo «E così faremo. Per fortuna posso rimediare».
 
«Avresti potuto”… due minuti e trentasette secondi fa».
 
Dopo qualche attimo in cui nessuno dei due fece una mossa, l’angelo lasciò svanire il bastone. Sembrava proprio che quella ragazzina di vent’anni -in realtà ventuno, tra pochissimi mesi- fosse riuscita a tendergli una trappola. «Che cosa vuole? Cosa? Vuole che Lord Beerus si distacchi dal sottoscritto e finisca a lasciare tutto in un colpo di testa dei suoi?»
 
«Io voglio solo che tu ci lasci in pace. Ecco cosa».
 
«L’ho fatto» ribatté Whis «Non ho mai-»
 
«Non pretendevo che cercassi di darci una mano, speravo solo in una vera neutralità da parte tua, quella che mi avevi garantito due anni fa durante il nostro primo incontro, invece ti sei sempre aggrappato a qualunque cosa per cercare di farci litigare. Anche in questa occasione, quando ti sei “dimenticato” di dire a Beerus che lo avevo cercato» aggiunse la lince «Cose come questa non dovranno più succedere, perché io e Beerus abbiamo già abbastanza problemi senza che ti ci metta anche tu. Voglio che tu inizi a rispettare sul serio gli accordi presi, come avresti dovuto fare fin da subito. Se avrò anche solo un sospetto fondato del contrario, Beerus verrà a sapere cos’abbiamo fatto, con tutte le conseguenze del caso -qualunque possano essere. Con questo ho finito» concluse Anise, alzandosi dal letto.
 
«Sa una cosa, Lady Anise? Dopo questo capisco ancora meglio il motivo per cui non mi è mai piaciuta».
 
«Sai una cosa, Whis? Dopo questo non mi piaccio più nemmeno io. In mia difesa potrei dire che se tu fossi stato ai patti fin da subito avrei potuto evitare almeno questa specie di ricatto, ma  non mi giustifica -forse solo fino a un certo punto- né mi consola. Solo una domanda: se ti fossi accorto della gravidanza prima di me, cos'avresti fatto?»

«Quel che andava fatto» rispose l'angelo, dopo una minuscola esitazione «Solo che lei non avrebbe potuto ricattarmi, perché non l'avrebbe mai saputo».
 
Anise, sentito ciò, uscì dalla stanza rapidamente come se l’avesse inseguita un qualche demonio, e appena raggiunto il salotto sentì il bisogno di accasciarsi sulla prima poltroncina cui riuscì ad arrivare.

Aveva ancora il cuore in gola, sentiva perfino la testa girare; mentre provava una sensazione di nausea -e un confuso senso di disgusto verso se stessa, verso la vita, l’Universo e tutto quanto- mista a una sensazione di “vuoto” e generale malessere, si chiese che cosa diamine stesse facendo della propria vita.

Aveva fatto delle scelte coscienti ma si rendeva conto fin troppo bene quanto fossero a dir poco discutibili varie di esse. Non avrebbe pianto su un latte che lei stessa aveva versato, ma aveva pieno diritto sia alla consapevolezza di quel che aveva fatto e quel che stava diventando, sia a farsi schifo da sola; Sola, esattamente come sarebbe stata nell’affrontare tutto ciò, ed era giusto così.

Una pessima persona come lei riteneva di essere non meritava il sostegno di chicchessia. Forse non avrebbe meritato nemmeno di stare ancora insieme a Beerus, anche se era proprio pensare al bene della loro relazione che l’aveva portata a ricattare Whis.

 
Si rannicchiò sulla poltrona combattendo l’impulso di tornare a letto almeno per stringersi al suo compagno, per ascoltare i battiti del suo cuore.
Avrebbe dormito -o meglio, ci avrebbe provato- lì, su quella poltrona, nella vana speranza che l’arrivo dell’alba la aiutasse ad accantonare almeno una parte dei suoi pensieri cupi.
 
 
 

 
 
 
 
 
31/3/2018: oggi voi lettori avrete quasi certamente iniziato a detestare Anise :”D
Avrei diverse cose da dire, ma piuttosto che perdermi in chiacchiere preferisco lasciarle dire a voi (:
Solo una cosa: nel prossimo capitolo dovrebbe esserci un salto temporale di diversi mesi. Della relazione di Beerus e Anise nel periodo -lunghetto- che va dall’aborto fino all’inizio del “patatracchete” non c’è moltissimo da dire… motivo per cui conto di non dedicare a esso chissà quanti capitoli.
Ah, vi avviso anche che esiste la possibilità di un ritardo nella pubblicazione del prossimo capitolo: poi magari non succederà, però ho voluto avvertirvi.

 

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Capitolo 22
*** 22 ***


RMIcap22
22
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
“Chi sei?”
 
«L’aria che si respira nella valle è piuttosto tesa, Hogevor Calida. Più del solito».
 
«Sì… questo lo percepisco anche io» disse Calida «La valle è sempre stata una polveriera e ora abbiamo tutti la sensazione che sia pronta a esplodere per l’ennesima volta. Attacchi e sabotaggi di tutte le città contro ogni altra città ormai sono all’ordine del giorno, basti pensare alla piccola armata di Moriameer che abbiamo bloccato ieri».
 
“Chi sei?”
 
«Quel che è successo un anno e mezzo fa ha contribuito. Thandrumeer» aggiunse Recte, il Lusan nero che era tra i luogotenenti di Calida «Sembrava che quel che abbiamo fatto fosse servito a schiacciare la voglia di conflitti che c’era già in giro, ma sul lungo termine-»
 
«Aver distrutto Thandrumeer allora significa trovarsi una città in meno contro cui avere a che fare oggi. Se non l’avessimo fatto la guerra sarebbe scoppiata ugualmente, la sola differenza è che ci saremmo stati noi al loro posto. Finito?»
 
«Sissignora».
 
«Bene. Sei congedato…»
 
“Come ti chiami?”
 
«Vai» concluse la Lusan, incapace di pronunciare il nome del suo sottoposto.
 
“So di conoscerti, so che dovrei sapere chi sei. Di fatto però non lo so più. Non oggi, almeno” pensò Calida, stringendo forte i pugni mentre guardava Recte allontanarsi “Non lo so più!
 
Trattenendo un grido che era disperato quanto esasperato, Calida scagliò con tutte le proprie forze un pugno contro la parete in pietra, nella speranza vana che quel gesto privo di senso potesse aiutarla a provare sensazioni vere e riprendere contatto con una realtà che le sfuggiva sempre di più tra le dita.
Tuttavia non poté trovare né “sollievo” né la sorta di risveglio che andava disperatamente cercando, non nel dolore: non lo soffriva più da quando era bambina.
 
Conscia di essersi procurata qualche frattura, osservò la mano sinistra dalle dita rattrappite tremare leggermente: per qualche attimo arrivò a prendere perfino in considerazione l’idea di tagliarla via… e di tagliarsi anche la gola subito dopo.
 
C’era stato un periodo in cui si era preoccupata che fosse Anise a poter fare una cosa del genere, ora invece riteneva molto più probabile che fosse lei stessa a commettere un simile gesto.
 
Inizialmente c’erano stati quella rabbia pulsante che aveva sfogato con pestaggi ai Lusan delle altre città e quegli attimi allucinatori in cui aveva scambiato il loro volto con quello di sua sorella; poi i deliri erano peggiorati -perché aveva iniziato a vedere cadavere parlante di Anise che si disfaceva- e si erano infittiti, allungati, al punto che in certi momenti Calida si era trovata davanti due Anise contemporaneamente: quella vera, viva e in salute, e l’altra, che gorgogliava accuse da una gola tagliata e la fissava con le sue orbite vuote.
Ora, senza che nulla di tutto ciò fosse svanito, si erano aggiunti momenti in cui non riconosceva i suoi stessi soldati, o meglio, a volte si rendeva conto di conoscerli ma non riusciva a ricordare i loro nomi, altre volte invece persone che aveva visto tutti i giorni per anni le sembravano volti del tutto sconosciuti.
 
Ogni giorno il nodo alla gola e la stretta allo stomaco che avvertiva diventavano più fastidiosi e asfissianti. C’erano dei momenti in cui aveva la sensazione che le mancasse l’aria e altri in cui avrebbe solo voluto poter fuggire urlando, con gli occhi chiusi, per non dover temere di non identificare chi e cosa vedeva.
 
Alzarsi tutte le mattine era diventata una condanna, sia a causa della consapevolezza di essere peggiorata sia per la paura di un’ulteriore degenerazione.
Ogni passo che compieva lungo le vie della città guardandosi attorno era diventato fonte di ansia: cosa sarebbe successo se un giorno avesse smesso di riconoscere chiunque? Di riconoscere quelle strade, quelle case di cui in un certo senso conosceva a memoria ogni crepa?
Cosa sarebbe successo se un giorno fosse arrivata a non riconoscere più neppure Anise?
 
Non c’era più alcun momento di sollievo per Calida, perché non c’era salvezza per chi si trovava a combattere con simili demoni, non c’era mai.
Lo sapeva così bene che ormai non riusciva più a contare le notti in cui si era svegliata in preda all’angoscia, stringendosi la testa tra le mani e bisbigliando richieste d’aiuto totalmente inutili, che nessuno avrebbe potuto sentire e tantomeno accogliere, e quelle preghiere disperate a divinità non meglio specificate servivano soltanto a farla vergognare di se stessa il giorno dopo.
 
Combattuta tra il bisogno di uscire da quella stanza e il terrore di ritrovarsi in un posto sconosciuto, Calida si mise semplicemente a sedere, dando le spalle alla sola finestra presente in quella stanza.
 
Chiunque l’avesse vista avrebbe pensato che si stesse concentrando su come affrontare la guerra che quasi sicuramente sarebbe scoppiata, non che stesse seriamente riflettendo sul fatto che forse, forse, sarebbe stato meglio scegliere finalmente un vice -non l’aveva fatto, visto che lei un tempo lo era stata e aveva finito per uccidere il suo capo- ritirarsi e lasciare il comando a qualcun altro.
Possibilmente in una giornata in cui riconosceva tutti quelli che le stavano attorno.
 
“Però se abbandonassi proprio ora che potrebbe esserci veramente bisogno di me, sapendo che pur con tutti i problemi che ho sono ancora in grado di fare qualcosa di buono per la mia città, sarebbe il colpo di grazia per una salute mentale che sta andando a farsi fottere sempre più” pensò, orribilmente combattuta.
 
«E vai a farti fottere anche tu» mormorò, degnando solo di un’occhiata la testa malamente tagliata di Anise che era appena comparsa sul tavolo «Lei è viva e in salute, tu non esisti».
 
Quando aveva iniziato a ricordare i propri soldati solo a tratti?
Se cercava di rispondere a quella domanda le veniva in mente il giorno in cui aveva avuto quel contatto con Rubedo -o Kamandi, che dir si voglia.
Nel tempo aveva cercato di dirsi “Forse Anise non aveva torto, forse è stato davvero solo un sogno”, però c’era una parte di lei che invece credeva fermamente nel fatto di essere stata veramente contattata da una figura leggendaria… e di aver ricevuto da essa una delusione altrettanto leggendaria. Il richiamo verso Vynumeer era rimasto fortissimo ma, ripensando a quel vecchio Lusan miserabile, lei non aveva più ceduto.
 
“Però se -no, quando- scoppierà l’ennesima guerra tra città, un potere come quello della corona potrebbe fare molto comodo. Distruggere le armate altrui e conquistare le altre città sarebbe facile. Riuscirei a realizzare quello che ho sempre sognato di fare…”
 
Rifletté anche sul fatto che forse riuscire nel suo intento sarebbe perfino servito a migliorare le sue condizioni psichiche, però poi finì ad alzare gli occhi al soffitto e ad aggiungere “sì, e poi diventerò una dolce, tenera e cara fatina dei boschi”. Non doveva permettersi di sperare in un miglioramento.
 
“E poi l’idea di avere dentro Rubedo non mi attira” pensò “Non mi attirerebbe nemmeno se fosse un ‘averlo dentro’ in senso fisico, essendo mediocre in tutto immagino che lo sarebbe anche la sua durata”.
 
Solo in quel momento le tornò in mente una cosa fondamentale: quello era giorno di visita. Da quando aveva iniziato ad avere problemi nel ricordare le persone aveva iniziato ad andare a trovare Anise due volte a settimana.
All’inizio era stata molto combattuta, si era detta che quel peggioramento poteva essere un rischio per la sicurezza di sua sorella, poi però aveva ceduto, e Anise per Calida era diventata una specie di “indicatore”: finché fosse stata in grado di riconoscerla senza esitazioni, avrebbe potuto ritenersi ancora da non buttare via completamente.
 
Si fece animo, si alzò, uscì dalla stanza cercando di mantenere un’essenziale parvenza di normalità e lasciò la città, diretta alla casa nella foresta. Nel notare che anche in quell’occasione aveva riconosciuto -e stava riconoscendo- tranquillamente le strade si permise di sentirsi leggermente più tranquilla.
 
Mentre si avvicinava alla foresta a passi lunghi e veloci notò che il cielo, tutt’altro che sereno fin dal mattino, era diventato ancora più scuro. Le gocce di pioggia che iniziarono a cadere impietose sulla sua testa però non fermarono la sua avanzata.
 
Una volta che ebbe raggiunto il fiume e poi la “scala” di massi piatti, che era una scorciatoia per raggiungere la casa nel bosco in minor tempo, iniziò a chiedersi per la prima volta come sarebbe stata la sua vita se invece di dedicarsi alla carriera -e soprattutto lasciare che Anise sposasse Meskal- fossero andate a vivere nella foresta quando Anise era ancora bambina, quando il loro rapporto in origine puro non era stato ancora corrotto. Magari avrebbero vissuto entrambe molto meglio, o magari tutto sarebbe degenerato in egual modo: non le era dato saperlo.
 
Dopo circa sette minuti di cammino intravide finalmente la casa nella foresta, e notò subito Anise seduta sul tetto. Le chiome foltissime degli alberi la riparavano dalla stragrande maggioranza della pioggia, però non potevano farlo del tutto, dunque per Calida era piuttosto assurdo che se ne stesse ferma lì. «Aspetti che un fulmine ti colpisca o cosa?»
 
«Entrambe le opzioni mi vanno benissimo».
 
«Insomma è una bella giornata, di pari passo con il meteo» commentò Calida, avvicinandosi ulteriormente alla casa.
 
«A volte penso che il mio umore venga influenzato anche da quello» disse Anise «Vengo giù io o vieni su tu?»
 
«Anise, piove» le fece notare l’altra.
 
«Si percepisce a malapena».
 
In quei mesi per Calida c’era stato un peggioramento, ma quel discorso non valeva solamente per lei. Anise da dopo quella sottospecie di attacco di panico avuto a Vynumeer non era stata più la stessa: se mai nel lasso di tempo che era passato aveva sorriso, Calida non riusciva a ricordarlo. Se lo aveva fatto doveva essere stato mentre lei non era presente. «Non fare la sciocca, vieni giù».
 
La giovane si rassegnò ad alzarsi e a rientrare in casa passando per la finestra da cui era uscita, quella della camera da letto; dopo nemmeno un minuto, Calida la vide aprire la porta principale di casa.
 
«Entra. Non ho fatto l’infuso, non ricordavo che oggi fosse giorno di visita» disse Anise «Ultimamente fatico a distinguerne uno dall’altro».
 
«Se non altro questa volta ti ho trovata sveglia».
 
Era un’altra delle cose che erano cambiate, l’ennesima: sua sorella quando era a casa tendeva ad alzarsi sempre piuttosto presto al mattino, mentre da diverso tempo a quella parte l’aveva trovata intenta a dormire anche a ora di pranzo o nel pomeriggio, oppure a ore improbabili della sera.
 
«È che a breve dovrebbero arrivare Beerus e Champa» le spiegò Anise «O solo Beerus. Da quando hanno litigato tempo fa i loro rapporti sono  peggiorati. Nel caso sia presente anche Beerus, Champa di solito si trattiene per un’ora
al massimo. La sola volta in cui è rimasto di più è stata l’occasione del mio ventunesimo compleanno. Non hai idea di quanto sia dispiaciuta per tutto questo».
 
«Se quei due litigano uno con l’altro tu non puoi fare molto».
 
«Purtroppo è vero. Non posso fare altro se non da cuscinetto… per quel che serve».
 
«Come va tra te e quell’adorabile personcina che è il nostro Hakaishin?»
 
Anise fece spallucce. «Tiriamo avanti. E a te, Calida? Come va?»
 
«Tutto nella norma» “A parte per il fatto che le mani del tuo cadavere mi stanno stringendo il collo proprio in questo momento” aggiunse mentalmente «Solo che c'è aria di guerra».
 
«Tanto per cambiare».
 
«No, Anise: tira aria di guerra vera. Tu non puoi riconoscerla, perché sei nata qualche anno dopo la fine» disse Calida «Ma io la ricordo benissimo e ti assicuro che ci siamo. Le azioni di sabotaggio e di attacco sono diventate estremamente frequenti, non solo contro la mia città ma, stando alle informazioni che ho raccolto, anche contro le altre. È un tutti contro tutti proprio come l’ultima volta e, com’è accaduto anni fa, da questo scaturirà una guerra. Te lo dico io».
 
«La cosa positiva è che avendo raso al suolo Thandrumeer avrete una città in meno di cui preoccuparvi».
 
«È vero. Credo che però quel che sta accadendo adesso sia dovuto anche alla distruzione di Thandrumeer. Sai che tutte le guerre e battaglie passate non hanno mai portato alla distruzione di una città, perché le risorse, le persone e lo sviluppo degli armamenti erano più o meno allo stesso livello per tutti; per un po’ la paura di finire come loro ha acquietato il tutto, ma allo stesso tempo quel che è successo ha dimostrato che distruggere una città è veramente possibile».
 
«Voi però siete meglio armati» obiettò Anise.
 
«Qualche cannone diverso dal resto non può sempre fare la differenza, anche perché non tutte le città della valle hanno accanto una montagna. Prevedo sangue e morte, più del solito».
 
«Tu vivi per certe cose, eppure non sembri contenta».
 
«Molti abitanti della mia città moriranno, molti edifici saranno distrutti, molte coltivazioni verranno bruciate. Per quanta sete di sangue possa avere mi rendo conto di quali saranno le perdite, quindi è ovvio che non mi rallegri» replicò Calida.
 
Anise avrebbe voluto rispondere qualcosa ma la porta d’ingresso si aprì. Era Beerus, arrivato sul posto per primo.
 
«Erano bei tempi quelli in cui si bussava prima di entrare in casa altrui» commentò Calida, senza degnare Beerus di un’occhiata. Se non altro sembrava non avere problemi a riconoscere anche lui.
 
«Per caso hai qualche problema?» ribatté freddamente il dio.
 
“Hai qualche problema”. Lo aveva detto davvero? Sul serio?
 
Quasi senza accorgersene iniziò a ridere: prima in un modo soffocato che poteva quasi far pensare a dei singhiozzi, poi scoppiò all’improvviso in una risata folle, quasi disperata e allo stesso tempo degna di un demonio, violenta al punto che se avesse sofferto il dolore avrebbe potuto lamentare il mal di gola.
Solo quando il momento di ilarità incontrollabile si calmò un po’ notò che Anise la stava guardando con aria giustamente perplessa, mentre Lord Beerus sembrava indeciso se distruggerla sul posto oppure no.
 
«Sì, effettivamente ho qualche problema» disse la Lusan, una volta ripreso fiato, ancora scossa da risate che non avevano niente di allegro «E al momento il primo tra tutti è avere a che fare con un dio ragazzino ben poco sveglio. Cos’abbia visto di buono in te mia sorella è un mistero»
 
«Calida!» sbottò Anise «smett-»
 
«Se non chiudi quella stramaledetta bocca giuro su quel che vuoi che ti distruggo sul posto» ringhiò Beerus «Sappi che se non l’ho già fatto è solo perché Anise non vuole. Se fosse stato per me, tu e tutto il resto di quella valle di schizzati sareste spariti da un pezzo!»
 
«Sì, sì, immaginavo» minimizzò Calida «Dammi pure la colpa per quanto riguarda Meskal, che era quel che era» aggiunse, rivolta ad Anise «Però questo qui, che hai scelto da sola, non è poi tanto meglio. Lui vorrebbe distruggermi… ma io, se solo avessi abbastanza forza per riuscirci, gli avrei già strappato gli occhi e li avrei divorati con gran gusto».
 
«Calida, vai» disse Anise, indicandole la porta «È stato già detto più che abbastanza. Vai».
 
La risata di prima l’aveva inquietata abbastanza, per non dire spaventata, perché Calida pur non essendo mai stata troppo normale non aveva mai reagito in quel modo in vita sua; se a quella si aggiungevano simili discorsi riguardo lo strappare e divorare occhi -che comunque non le erano nuovi- o Meskal, e il fatto che Beerus fosse tesissimo e decisamente arrabbiato, era ovvio che fosse meglio cercare di allontanare i due litiganti prima che scoppiasse un disastro.
 
Se non altro Calida non si fece pregare, limitandosi a rivolgerle un cenno di saluto senza degnare Beerus di uno sguardo per poi uscire tranquillamente di casa, lasciandoli soli.
 
«Se ora mi vieni a dire che quella tizia di cui mi rifiuto di pronunciare il nome non è totalmente fuori di testa, inizierò a pensare che non sei tanto più a posto di lei!» sentenziò Beerus.
 
«Ammetto che in altri momenti l’ho vista più “tranquilla”, diciamo, ma tra le città tira aria di guerra, quindi deve aver avuto una pessima giornata… e in ogni caso che vi odiate non è una novità».
 
«Secondo te è normale che abbia detto di volermi strappare gli occhi e divorarli?! Sei seria?! Lei può dire una cosa del genere e va benissimo, se invece io dicessi qualcosa più o meno sullo stesso tono la tua reazione sarebbe sicuramente diversa!» protestò il dio.
 
«Quando prima hai detto che l’avresti distrutta volentieri, io ho fatto commenti?»
 
«No, ma-»
 
«Ecco» lo interruppe Anise, tentando di concludere così il discorso.
 
«Ha detto che non capisce cosa tu abbia trovato di buono in me, si è permessa di giudicare la nostra relazione, cos’avrei dovuto fare?» insistette Beerus, imperterrito.
 
«In quel momento infatti le ho detto di smetterla, o meglio, le avrei detto di smetterla se tu non mi avessi interrotto a “smett”. Tanto per cambiare».
 
«Quindi ora sarebbe colpa mia se quel brutto energumeno che tu chiami “sorella” è pazza da legare?! Questo è veramente il colmo!»
 
«Io per l’appunto ho parlato del fatto che tu mi abbia interrotta e abbia voluto metterti a litigare per forza» ribatté Anise «Quando invece si sarebbero potuti evitare quei bei discorsi su distruzione ed estrazione di occhi».
 
«Non potevi pretendere che stessi zitto, dopo quasi tre anni insieme dovresti conoscermi. Abbiamo già abbastanza problemi senza che si mettano in mezzo anche persone che con noi due non c’entrano alcunché».
 
«Sul fatto che abbiamo già abbastanza problemi non posso che darti ragione».
 
Il problema della gravidanza era stato risolto, però neppure questo aveva portato molto di buono alla loro relazione.
Anise aveva iniziato già da un po’a superare l’aborto di per sé, quel che invece stentava a superare era il fatto di averlo tenuto -e continuare a tenerlo- nascosto. Aveva avuto i suoi motivi per decidere di non dire alcunché e pensava ancora che fossero validi, però questo non contribuiva a rendere la cosa meno pesante. Com’era prevedibile quel segreto non aveva fatto che allontanarla di più dal suo compagno, in un misto di “non avrebbe capito e non capirebbe, visto come va” e di “non merito la sua vicinanza in ogni caso”.
 
Beerus continuava a non comportarsi più come all’inizio, ma anche lei adesso non faceva più nulla per cercare di migliorare le cose. Non riusciva a essere costante nemmeno nel tanto favoleggiato “crederci” -che in ogni caso serviva a poco- e ormai quando discutevano non cercava più di calmare gli animi come faceva in precedenza.
 
«Non era quel che avrei voluto sentirti dire, Anise».
 
«Però è la verità».
 
Aveva detto a Calida che lei e Beerus “tiravano avanti”: solitamente quello era solo un modo di dire, ma in quel caso era estremamente appropriato, perché era esattamente quel che stavano facendo.
Tiravano avanti una relazione che forse avrebbero dovuto troncare già da un pezzo, tutto questo solo perché entrambi -pur non riuscendo più a dimostrarlo- si amavano ancora troppo per riuscire a mettere un punto, nonostante tutto quel che si era messo in mezzo tra loro due.
“Insieme non stiamo bene ma divisi sarebbe molto peggio, e finché siamo insieme possiamo sperare in un miracolo”, quello era il pensiero comune a tutti e due: se fosse giusto o veritiero non era dato sapere, ma di fatto era la loro idea.
 
«Ho la sensazione che tu stia per dire qualcosa che non mi piacerà» borbottò il dio, guardandola appena.
 
«Così non va».
 
«Appunto».
 
«Anche questa è la verità. Può non piacerci ma è così: non va» affermò Anise «Ci vediamo e litighiamo, sempre che iniziamo a parlare».
 
«Da molti mesi a questa parte sei tu quella che non parla. Perfino quando litighiamo e le cose vanno per le lunghe ti metti in disparte stando in silenzio e mi lasci lì a “litigare da solo”. Mi sembra di avere a che fare con una specie di muro di gomma! Prima ti comportavi diversamente!»
 
«Sì e sai cosa ottenevo? Sentirmi la bocca secca a forza di parlare inutilmente, perché tu non mi ascoltavi in ogni caso. Perché avrei dovuto continuare in quel modo? A che pro, Beerus?»
 
«Ci siamo allontanati ancora di più…» disse l’Hakaishin, piano «Non è quel che avrei voluto».
 
«Ormai è più di un anno che andiamo avanti a dire che questo non è quello che avremmo voluto, ci hai fatto caso? Forse dovremmo mettere un pun-»
 
«Anise, non dirlo».
 
«Beerus-»
 
«Non dirlo» la interruppe lui «Sono sul punto di chiedertelo per favore. Non dirlo».
 
«Posso anche fare a meno di dirlo ma la realtà è piuttosto palese, purtroppo».
 
Beerus fece un sospiro nervoso, per poi sollevare lo sguardo su di lei. «Io non intendo lasciarti. Tu sei la mia Neiē».
 
«A dire il vero sono una Iarim Neiē. Quel giuramento non è stato mai fatto, non è stato reciproco, non è vincolante».
 
«Io l’ho fatto! L’ho fatto, ci credevo e ci credo ancora!» ribatté con decisione il giovane «“Giuro che non avrò altre che te, finché avrò vita”. Sarei disposto a rifarlo anche adesso, se vuoi saperlo! Sarei disposto anche a farlo sul serio e a renderlo vincolante, se tu volessi!»
 
«Saresti veramente disposto a farlo nella situazione in cui ci troviamo?!» allibì Anise «Sarebbe da pazzi!»
 
«E allora vuol dire che sono pazzo, perché io sto parlando seriamente. Tu per me sei la mia Neiē, quindi io non ti lascio. Questo è quanto».
 
«Quindi è solo per quel giuramento a metà che tu non vuoi lasciar perdere?»
 
«Se anche non l’avessi giurato sarebbe lo stesso, te l’assicuro. Non mi importa quanti problemi possiamo avere, non mi importa di quanto possiamo esserci allontanati, dei silenzi, dei litigi, non mi importa!» esclamò Beerus «Sarei ancora pronto a mettere la mia vita nelle tue mani. Letteralmente».
 
«Credo che se Whis ti stesse ascoltando potremmo sentirlo bestemmiare».
 
La sola cosa buona di quel periodo era che Whis aveva veramente smesso di intromettersi tra loro due, facendo quel che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio.
Anise non era più stata vittima di tentativi di sabotaggio o frecciatine, né quel che succedeva con Beerus le aveva causato il sospetto che Whis stesse continuando a remare loro contro: si poteva dire che lei e l’angelo ormai si limitassero veramente a dei “buongiorno”, “buonasera” e “buon appetito” di circostanza.
Poteva sembrare anch'essa una situazione pesante ma onestamente a lei non dispiaceva, la sola vera “perdita” risiedeva nel fatto che avessero smesso del tutto di giocare a scacchi. Ormai se Anise aveva voglia di farlo doveva chiederlo a Vados prima che questa mollasse Champa a casa sua.
 
«Non mi importa neanche di Whis, va bene?» sbuffò Beerus «A me importa solo di due persone, e quelle due persone sono entrambe in questa stanza».
 
«Ragiona! Rispetto a quando mi hai fatto quella proposta è cambiato tutto, non credi?»
 
«Quel che mi ha spinto a fartela non è cambiato. Possiamo dire che sia cambiato tutto e niente».
 
La Lusan rimase per un po’a guardarlo in silenzio, per poi annuire. «In un certo senso non hai torto».
 
«Quindi davvero, non parlare più di chiudere la nostra storia. Tu non vuoi, io non voglio: non c’è molto altro da aggiungere».
 
In momenti come quello, pur non dicendo mai le parole “ti amo” o “amore”, Beerus  riusciva a far capire ad Anise che sepolto sotto il loro mare di problemi c’era ancora tutto quello che li aveva spinti a mettersi insieme inizialmente. Se l’avesse detto qualcun altro in una situazione analoga Anise avrebbe potuto pensare che fossero chiacchiere vuote in cui non credeva neppure lui, ma Beerus non era “qualcun altro”, e lei sapeva che se non avesse pensato davvero quel che le stava dicendo non si sarebbe mai esposto così tanto.
Era anche per quella ragione che pensare veramente di chiudere tutto era difficile, e che lo sarebbe sempre rimasto.

Anise a volte iniziava perfino a credere che sarebbero veramente rimasti in quella situazione in eterno -una prospettiva non proprio gradevole: tutto quel che era successo li aveva spinti sul ciglio del baratro senza farli cadere, e in “quel che era successo” era compreso anche un aborto tenuto segreto. Non aveva proprio idea di cosa potesse riuscire a separarli una volta per tutte, né era sicura di volerlo sapere.
 
«Andremo avanti così?»
 
Il dio fece spallucce. «Vedi alternative che siano praticabili?»
 
«Non so… una terapia di coppia. Non so bene in cosa consista, però dicevano che fa bene. In certi pianeti facevano cose del genere, ho visto dei volantini in lingua comune».
 
«“Facevano?”»
 
«Li hai distrutti, Beerus».
 
«Oh».
 
«Nulla esclude che la facciano anche altrove…»
 
«Bah. Né tu né io sappiamo di preciso cosa sia e comunque non voglio che qualcuno si metta a farci “terapie”» disse Beerus, scettico «Ci manca solo che nella nostra storia si immischi anche qualcun altro! È una pessima idea».
 
Sentirono qualcuno bussare alla porta.
 
«Anise! Sei in casa?» chiamò Champa, restando fuori.
 
«Sì, ci siamo io e Beerus. Entra pure!»
 
Quando Champa entrò in casa non aveva un’espressione troppo entusiasta, perché avrebbe preferito poter stare da solo con la sua amica almeno per qualche minuto, però non intendeva mettersi a discutere con Beerus: voleva evitare che Anise potesse aversene a male.
Non essendo stupido aveva notato il cambiamento che c’era stato in quei mesi -già solo per il fatto di averla trovata più volte addormentata a ore improbabili- dunque non voleva essere causa di ulteriori problemi. «Ti ho portato un po’di praline da Swetts, so che ti piacciono».

 
Anise sorrise per la prima volta in quella giornata. «Grazie, sei stato gentile».
 
«O ruffiano, a seconda dell’interpretazione» commentò Beerus «Potresti anche trovare una ragazza a cui portare le praline, invece di portarle alla mia».
 
«La prossima volta pensa anche tu di portarne, sarebbe più utile rispetto a iniziare una mezza scenata di non so cosa. Vado a metterle in cucina, torno subito» concluse la lince, dileguandosi.
 
I gemelli rimasero soli, scambiandosi occhiate torve.
 
«Se non riesci a evitare di litigare con lei, cerca almeno di non prendertela con me quando Anise è presente. È per questo che non ti ho già tirato un pugno in faccia» disse Champa «Sai benissimo che le dispiace».
 
«Il tutto potrebbe essere evitato se tu smettessi di venire qui. Non so perché continui» ribatté Beerus.
 
«Perché qui vive un’amica che al momento non sta bene. Poi l’idiota di un gatto sarei io, eh?»
 
«Se tu-»
 
«Eccomi. Non voglio sapere quanti complimenti vi siete fatti in questo breve lasso di tempo, immagino che resterei sorpresa» sospirò la Lusan «Cos’avevamo in programma oggi?»
 
«In realtà nulla» rispose Beerus «Abbiamo smesso da un pezzo di programmare attività».
 
«Lago?...» propose Champa «Al lago siamo sempre stati bene. Credo che a breve smetterà di povere, quindi potremmo andarci».
 
Dopo un breve momento di silenzio in cui tutti e tre provarono la stessa nostalgia, decisero che andare a fare compagnia ai morti nel lago di Vynumeer non era una cattiva idea.
 
 
 
 
 
 
Ok, questo è in assoluto il capitolo più corto di tutta la storia. Credo sia dovuto al fatto che ho una certa difficoltà con i capitoli di mezzo in cui non c’è proprio nulla da far accadere. O quasi, perché immagino di non farvi chissà quale spoiler dicendo che la guerra tra le città scoppierà sul serio xD
Grazie a chiunque stia ancora leggendo la storia (:

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Capitolo 23
*** 23 ***


RMIcap23
23
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Va tutto bene, Beerus, era solo un incubo. Tranquillo… è tutto a posto…»
 
In realtà Beerus sapeva benissimo che era tutto a posto, non avrebbe avuto bisogno che glielo dicesse Anise, soprattutto perché in realtà l’incubo per cui stava venendo abbracciato e tranquillizzato non c’era mai stato. Si era soltanto svegliato assetato, aveva bevuto e i suoi movimenti avevano svegliato Anise.
 
«Non pensavo che l’avresti fatto» mormorò lui, vergognandosi un po’ per quelle coccole “rubate”.
 
«Fatto cosa?»
 
«Quel che stai facendo. Abbiamo litigato e poi non abbiamo nemmeno… insomma… non ci siamo “riavvicinati”».
 
Vero: pur essendo andati a dormire insieme come sempre non c’era stato il tipico “riavvicinamento” prima del sonno.
Sempre se ritrovarsi a fare l’amore poteva definirsi “riavvicinamento”.
 
Accadeva spesso. Non sempre, ma spesso: litigavano, andavano a letto “arrabbiato” -lui- e “in modalità muro di gomma” -Anise- per poi rimanere lì fermi per un pezzo, dandosi la schiena, ovviamente senza riuscire a dormire.
In quei momenti lui veniva assalito dalla nostalgia di momenti più gioiosi, dalla tristezza; si chiedeva come avessero potuto ridursi così, come avessero potuto permettere alla vita, l’Universo e tutto quanto di mettersi tra loro due.
Si metteva ad ascoltare il suo respiro, chiedendosi come due persone tanto vicine fisicamente potessero sentirsi così lontane una dell’altra e soprattutto… “Perché?”
Erano lì, erano insieme, stavano insieme. Quella distanza emotiva a un certo punto diventava una tortura costante, si ritrovava solo a desiderare di colmarla stringendo a sé la sua compagna nella speranza ingenua che un abbraccio potesse davvero riavvicinarli.
Il desiderio impiegava poco a diventare insostenibile, così lui cedeva… e anche Anise, preda degli stessi sentimenti nello stesso preciso istante.
Iniziava sempre tutto con un abbraccio, con dei baci, per poi diventare qualcosa di più: facevano l’amore stringendosi uno all’altra in maniera quasi disperata, come se sapessero di dover morire il mattino dopo, consci che però a “morire” e rinascere in continuazione era solo quella vicinanza che riuscivano e ritrovare e poi si lasciavano sfuggire tra le dita.
Alcuni l’avrebbero trovato triste, altri forse un po’squallido; per Beerus e Anise era semplicemente la loro realtà.
 
«Aver litigato non è una novità… non so tu, ma io inizio quasi a trovare strano un giorno in cui non si discute» replicò Anise, rendendosi conto che anche quella era una triste verità «Io però sono ancora la tua compagna. Se tu hai bisogno di me e io sono presente, ti aiuto come posso».
 
“E lo faccio anche se mi rendo conto che invece non ne hai bisogno” aggiunse mentalmente “Perché ormai riconosco le tue espressioni dopo gli incubi, e in questo caso non te ne ho vista fare neppure una. Tu hai trovato una scusa per ricevere coccole, io per farne, ed essendo due disgraziati nessuno dei due ammetterà mai nulla di tutto questo. Meriteremmo entrambi degli schiaffi”.
 
«Grazie» sussurrò Beerus, con un debole sorriso «Strano che tu non abbia fatto ancora domande riguardo l’incubo. Lo fai sempre» aggiunse, avendo imbastito una storia a caso nel mentre.
 
«Sicuro di volere che ne faccia?» buttò lì Anise.
 
“Quindi lo sa?” pensò Beerus, un po’sorpreso “Allora perché…”
 
Non finì neppure di domandarselo: di certo era lo stesso motivo che lo aveva spinto a rispondere di sì quando lei gli aveva chiesto se aveva avuto un incubo.
 
Quella era una buona ragione per restare in silenzio e godersi quel momento di pace, secondo lui, dunque non rispose e rimase fermo lì, abbracciato alla sua compagna.
 
Beerus amava ancora Anise. La amava terribilmente, esattamente come l’aveva amata oltre tre anni prima vedendola in piedi su quell’altalena, come l’aveva amata il giorno in cui le aveva mostrato l’oceano per la prima volta, come la notte in cui aveva fatto quel viaggio folle di andata e ritorno dal proprio pianeta pur di vederla, o come il giorno in cui era diventata la sua Iarim Neiē.
Se un sentimento d’amore fosse stato sufficiente a mandare avanti una relazione, loro due sarebbero state le persone più felici del creato anche solo grazie al suo apporto.
 
«Ho sognato che Whis aveva rubato tutte le praline esistenti» bisbigliò Beerus, dopo un po’ «E che teneva l’intero Universo sotto scacco minacciando di mangiarle se non fossimo diventati tutti suoi schiavi».
 
«Se anche fossimo diventati tutti suoi schiavi le avrebbe mangiate ugualmente, secondo me» disse Anise.
 
«Questo è molto probabile. Anise!»
 
«Sì?»
 
«Mi è venuta voglia…»
 
La Lusan sollevò le sopracciglia. «Parlando di praline ti è venuta voglia di fare sesso?»
 
«No! Parlando di praline mi è venuta voglia di praline!»
 
«Questo ha più senso. Sai cosa non ha senso?»
 
«Cosa?» le domandò il dio.
 
«Che adesso sia venuta voglia di praline anche a me!» sospirò la ragazza «Solo che qui in casa tua non ne abbiamo, ho controllato proprio stasera».
 
«Ne abbiamo» la contraddisse Beerus «O meglio, ce le ha Whis. Nascoste sotto il suo letto».
 
«Il problema è che in teoria al momento dovrebbe star occupando suddetto lett-»
 
«Non importa! Vado, le prendo e torno» concluse l’Hakaishin, saltando giù dal letto «Se Whis dovesse cogliermi sul fatto e non dovessi tornare qui vivo, sappi che io… ehm» tossì «Lo sai».
 
Ancora una volta non era riuscito a dire quel “ti amo”, però Anise l’aveva recepito benissimo, tant’è che si alzò dal letto a sua volta. «Non lascerò che tenti quest’impresa da solo. A dirla tutta ho meno probabilità di prendere una bastonata io rispetto a quante ne abbia tu».
 
«Magari dovresti rivestirti» le fece notare Beerus.
 
«Vedermi nuda non gli scatena reazioni di sorta, e comunque potrebbe servirmi a distrarlo se mai dovesse svegliarsi. Lui mi rimprovera per l’indecenza e tu pensi al bottino».
 
«Non venderò l’onore della mia donna per un pugno di praline!» ribatté Beerus.
 
«Sembrava quasi una frase seria» disse la lince, indossando una sottoveste rosa cipria «Bene. Andiamo».
 
«Hai qualche piano?» le chiese Beerus, mentre uscivano dalla stanza.
 
«Avevo pensato a un diversivo che potesse allontanarlo dalla stanza, solo che lui potrebbe capire di cosa si tratta e tornare indietro troppo velocemente. O non muoversi affatto» aggiunse «Quindi il piano è questo: apriamo la porta, io gli salto sopra limitando il suo campo visivo con i miei capelli e tu in questo frangente usi la tua divina velocità per rubare le praline e scappare».
 
«Non posso lasciartelo fare! È troppo rischioso» protestò Beerus «Un colpo che manda KO me fa esplodere la testa a te!»
 
«Ragion per cui, se ci fai caso, Whis non ha mai alzato neppure un dito su di me neppure quando gli parlavo di Lulù. Può funzionare, fidati».
 
Una volta giunti a destinazione aprirono silenziosamente la porta della stanza di Whis. Dormiva supino sul letto, con le mani intrecciate tra loro all’altezza del petto: degno di un cadavere, insomma. Anise a dirla tutta era ancora sorpresa del fatto che gli angeli dormissero, tant’è che aveva una teoria secondo cui lo facevano solo per passare il tempo.
 
Diede un’occhiata d’intesa a Beerus e poi senza pensare oltre saltò addosso all’angelo dormiente, avendo cura di occupare il suo campo visivo con i capelli proprio come prevedeva il piano.
 
Whis aprì gli occhi. «Lady Anise».
 
«Sì?»
 
«Cosa. Sta. Facendo».
 
«Io sono un felino, Whis».
 
«I felini hanno la fama di creature piuttosto promiscue ma come può notare non sono minimamente interessato ad accoppiarmi con lei, sebbene la sottoveste che indossa sia molto corta, molto scollata e piuttosto trasparente».
 
«Questo è razzismo verso i felini. In ogni caso non sono qui per quello».
 
«E allora cosa vuole?» le chiese Whis, quanto mai seccato.
 
«I felini spesso corrono per casa alle tre di notte e chiedono di essere sfamati alle cinque del mattino. Indovina che ore sono?»
 
«Il mio orologio interno mi dice che sono le quattro di notte, il che rende quest’assurdità ancora più assurda».
 
Anise sollevò le sopracciglia. «Ah, quindi non sono le cinque?»
 
«Se non si toglie immediatamente di dosso potrei inavvertitamente lanciarla fuori dalla finestra o contro il soffitto. Ripeto: inavvertitamente».
 
La Lusan sollevò le mani in un gesto di resa, poi saltò giù dal letto. «Chiedo perdono».
 
«Io ritengo che lei abbia qualcosa di malfunzionante nel cervello» affermò l’attendente «L’ho sempre pensato, ora ne sono ancor più convinto. La invito a tornare al tipo di rapporto prettamente civile che abbiamo mantenuto in questi mesi».
 
«Contaci, meno ho a che fare con te meglio mi sento» replicò la ragazza, tranquillissima «Buonanotte!»
 
Quando Anise uscì dalla stanza, Whis scosse la testa e alzò gli occhi al soffitto. Beerus diceva che Calida era pazza, però anche Anise era tutt’altro che a posto per decidere di saltare addosso a qualcuno che detestava, seminuda, alle quattro del mattino.
 
«Mah» bofonchiò l’angelo, facendo spallucce «Rinuncio a comprendere».
 
Intendeva rimettersi a dormire, però prima volle togliersi lo sfizio di mangiare una pralina: quelle erano sempre utilissime se si trattava di rimettere in sesto il suo umore, tant’era che dopo quell’aborto con annesso ricatto ne aveva mangiate circa quaranta una di fila all’altra.
 
«…»
 
Peccato che della sua scorta segreta di praline non trovasse traccia.
 
«Non vanno più d’accordo ma vedo che se si tratta di rompere i cosiddetti al sottoscritto ripristinano l’associazione a delinquere in men che non si dica!» esclamò, assai innervosito.
 
Fu tentato di effettuare una strafexpedition in camera di Beerus per riavere il maltolto, poi però decise di attuare una strategia diversa: il suo Hakaishin non avrebbe mangiato alcun tipo di dolce per un mese -bastava un incantesimo che lo facesse correre in bagno ogni volta che stava per metterne in bocca uno- e le perline di vetro che Anise aveva lì, in casa loro, sarebbero misteriosamente scomparse.
Oh, e naturalmente tra un’oretta sarebbe andato a svegliare entrambi: i felini non andavano forse nutriti alle cinque del mattino?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Ha detto che non è interessato a un accoppiamento con la sottoscritta, mi sento molto ferita nel mio orgoglio femminile» sospirò Anise, con un’espressione di finta costernazione.
 
«Se Whis avesse avuto simili intenzioni nei tuoi confronti avrei dovuto picchiarlo» ribatté Beerus, lanciandosi in bocca una manciata di praline «O almeno provarci».
 
«Quando si accorgerà della sparizione ce la farà scontare, in un modo o nell’altro…»
 
Nonostante quel pensiero Anise si sentiva abbastanza tranquilla. Era ragionevolmente convinta che Whis non avrebbe cercato di danneggiarla parlando a Beerus della sola e unica cosa con cui avrebbe potuto farlo davvero, ossia l’aborto, perché quello coinvolgeva personalmente anche lui; per il resto si riteneva in grado di gestire qualsiasi rappresaglia.
 
«Ti difenderò io da qualunque cosa possa venirgli in mente di fare, non preoccuparti» dichiarò il giovane dio, molto convinto.
 
«Sei un tipo coraggioso».
 
«Io per te affronterei anche i miei colleghi tutti insieme, più i loro angeli! E anche il Gran Sacerdote! E anche Zeno in persona!» esagerò Beerus.
 
«Vuoi dire che per me affronteresti “solo” tutti gli esseri più potenti del creato? Mi deludi» disse lei, scherzando «Tieni così poco alla sottoscritta?»
 
«E anche il Coniglio Assassino di Carbannomeer!» aggiunse lui «Lo faccio rivivere non so come in modo da poterlo distruggere!»
 
«D’accordo, mi hai convinta, tutto sommato ci tieni» concesse Anise.
 
«Sempre. Sempre, Anise» affermò Beerus.
 
«È una parola grossa».
 
Ed era anche il motivo per cui non sarebbero riusciti a mettere un punto alla loro storia in tempi brevi, perché momenti come quelli erano come piccoli adamandnery pinc nascosti in secchiate di fango, e il valore di quelle pietruzze era molto grande.
 
«Per quanto riguarda me è la pura verità. Tu cosa mi dici?»
 
«Dico che forse le quattro di notte non sono l’ora giusta per-»
 
«Qualunque ora in cui riusciamo a parlarci così è quella giusta» la interruppe Beerus, appoggiando la fronte contro quella di Anise «Per come la penso».
 
«Mi sa che non hai torto» ammise la Lusan «Sì, Beerus, ci tengo anche io, esattamente quanto ci tieni tu. Immagino sia per questa ragione che teniamo duro pur sapendo che tra poche ore finiremo a litigare per qualcosa, qualsiasi cosa, come sempre da un anno e mezzo a questa parte».
 
«Lo facciamo perché nonostante tutto sappiamo di non essere senza speranza. A meno che domani Whis abbia progettato di ucciderci per colpa delle praline, allora sì, in quel caso siamo senza speranza».
 
«Non dicevi che mi avresti difesa e che avresti affrontato perfino il Coniglio Assassino?»
 
«Confermo!» annuì Beerus «Ti difenderei e affronterei chicchessia. L’esito di tutto ciò però è un altro paio di maniche».
 
«Ah, ecco» sorrise lei.
 
«Detto ciò, mi si chiudono gli occhi» disse Beerus, con uno sbadiglio «Torniamo a dormire?»
 
«Sì, è il caso di farlo».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«No, Hogevor Calida, il Moriameer a-ghekavary e famiglia non sono sul campo di battaglia, ma… perché stiamo parlando di una cosa simile? Se Kahzameer e Moriameer combattono tra loro forse sarebbe meglio limitarsi a rimanere fermi lungo la riva del fiume e aspettare che passi il cadavere, metaforicamente parlando!» esclamò Recte «Perché dovremmo andare ad aiutare la città di Kahzameer in battaglia? Noi odiamo Kahzameer!»
 
«I motivi per cui forse -e sottolineo “forse”- andremo ad aiutare Kahzameer in battaglia sono due: il primo è “Perché lo dico io”, che dovrebbe già bastarti» disse Calida «Il secondo è che, contrariamente a quello che stai dicendo, i cadaveri che speri passino non passeranno mai. Kahzameer e Moriameer non riusciranno mai né a distruggersi a vicenda né a prevalere una sull’altra, perché la superiorità di una rispetto all’altra non è tale da fare veramente la differenza. Questa sarà l’ennesima guerra che finirà in un logoramento generale» profetizzò «Che porterà all’ennesima tregua, che pochi anni dopo verrà rotta per l’ennesima volta, com’è sempre stato da che se ne ha memoria. La storia della nostra valle è questa: tensione, massacro e tregua, un ciclo continuo ripetuto innumerevoli volte».
 
«La guerra scorre nelle nostre vene come il sangue, non è una novità» ribatté il luogotenente, non capendo dove Calida volesse andare a parare.
 
«È vero, io su questo sono d’accordo, però questa iterazione continua e costante è andata avanti per troppo tempo. Io voglio spezzare la ruota» “Possibilmente prima di impazzire peggio di adesso” pensò «Io non voglio che la città di Ulthmeer sopravviva a questa guerra, io voglio che la nostra città vinca. Solo che non possiamo farlo da soli, esattamente come non può farlo nessun’altra città. Purtroppo dobbiamo accettare questo fatto».
 
«Anche se abbiamo migliori cannoni?»
 
«Anche se abbiamo migliori cannoni» ripeté Calida.
 
«Quindi lei sta parlando di allearci con la città di Kahzameer? È questo che vorrebbe fare?» domandò Recte, per nulla felice all’idea «Non ci sono altre opzioni?»
 
“Sì, c’è quella della corona, però non mi va di condividere la mia testa con qualcun altro. Se riuscissi a fare qualcosa di buono con mezzi più tradizionali potrei evitare di cedere alla tentazione di pagare quel prezzo per avere il potere di Rubedo” pensò la Lusan “Una tentazione che diventa sempre più forte ogni maledetto giorno che passa. Forse per colpa mia, forse per colpa della situazione, o forse perché Rubedo stesso mi sta influenzando: questo non lo so. L’unica cosa che so è che al momento preferisco cercare di vincere mantenendo il possesso del mio cervello malato. Un’alleanza con annessi e connessi è un compromesso da cui volendo posso recedere più facilmente rispetto a una possessione”.
 
«Se vogliamo davvero provare a vincere, no. Ora che Thandrumeer è distrutta, Kahzameer è la città che è un po’più grande delle altre…»
 
«Il Kahzameer a-ghekavary accetterà un’alleanza con noi? Anche se li aiutassimo non è detto che sarebbero disposti a dirci di sì» disse Recte, scettico «A parte i cannoni non abbiamo da offrire più di qualsiasi altra città».
 
«Io invece penso che qualcosa in più che possiamo offrire ci sia! Devo solo lavorarci un pochino. Questa notte stessa» aggiunse Calida, agguantando un sacco «Il tuo compito per ora è attendere e preparare gli uomini ad entrare in battaglia a fianco di quelli di Kahzameer, cosa che accadrà solo e soltanto quando tornerò dalla mia… come dire, commissioncina».
 
«Cos’ha in mente? Forse è il caso… insomma, ovunque voglia andare forse sarebbe meglio portare almeno un paio di uomini e-»
 
«Recte, mon sei sciocco e sei meritevole di stima, ma tieni sempre a mente qual è il tuo posto. Fino a prova contraria il capo della città di Ulthmeer sono io: io decido dove andare, cosa fare e chi portare con me. Tu esegui. Non c’è altro da aggiungere».
 
Non disse altro a Recte -aveva giudicato che quel discorso era stato sufficiente- e in poco tempo oltrepassò i confini della città di Ulthmeer, diretta a Moriameer. Era bene che si sbrigasse a fare quel che voleva fare ora che era in grado di riconoscere le persone che si trovava davanti agli occhi, sperando che il cervello non la tradisse nel momento sbagliato.
 
Doveva ammettere che solo fino a pochi mesi prima non si sarebbe arrischiata a fare una del genere, partire da sola alla volta di Moriameer con l’intento di intrufolarsi nella città e nella casa del capo; tuttavia, che fosse per una pazzia più profonda di quanto credesse o un semplice tentativo disperato di fare qualcosa per non cedere all’idea di andare a prendere quella corona, Calida aveva deciso di gettarsi a capofitto in quell’impresa appena i tasselli di quella sottospecie di piano avevano trovato un ordine.
 
“Come immaginavo” pensò, una volta che si fu avvicinata abbastanza alla città da poter vedere cosa c’era attorno “Il capo di Moriameer ha mandato un’armata piuttosto numerosa a combattere, però ha lasciato diverse persone di guardia ai confini. Il solo modo in cui posso entrare in città senza essere vista è seguire la mia idea iniziale di sfruttare il braccio di fiume che scorre fin dentro la città”.
 
Sembrava che i suoi tentativi passati di cercare il tesoro di Rubedo immergendosi di giorno e di notte -perlopiù di notte- nel lago di Vynumeer stessero per dare finalmente dei frutti.
Calida era piuttosto convinta che se non aveva trovato quella grotta era semplicemente perché non sapeva dove cercare, non certo perché non avesse fiato sufficiente da raggiungerne almeno l’imboccatura; immergersi nel fiume e passare da sotto le mura non sarebbe stata una cosa infattibile, soprattutto perché avrebbe avuto anche la corrente a favore.

 
“A rigor di logica saranno troppo impegnati a sorvegliare le mura per far caso alla testa di una Lusan che fa capolino dalle acque” concluse “L’orario, la battaglia in corso e il fatto che la dimora del Moriameer a-ghekavary non sia distante dal fiume mi faciliteranno il compito”.
 
Meskal “buonanima” non aveva mai capito il motivo per cui lei, a quei tempi, durante le torture e i pestaggi cercasse di strappare alle sue vittime quante più informazioni possibili sulla posizione e il tipo di strutture presenti nelle città, al punto da averne ricavato delle mappe abbastanza precise; l’aveva sempre giudicato un lavoro inutile e noioso.
Il punto era che adesso, proprio grazie a quel “lavoro inutile e noioso”, Calida poteva arrivare a destinazione senza sbagliarsi: aveva la strada da fare ben chiara in mente.
 
Si tuffò nel fiume e iniziò a procedere verso Moriameer, trascorrendo in immersione la maggior parte del tempo.
Lasciò riemergere la testa per un attimo quando giunse a toccare la pietra delle mura, tanto per sincerarsi che nessuno si fosse accorto del suo arrivo, poi si immerse di nuovo, nuotando velocemente all’interno della città.
Continuò a nuotare e a lasciarsi spingere dalla corrente per un pezzo, tornando a galla solo una volta che ebbe concluso di essere ormai vicina alla dimora del Moriameer a-ghekavary. Si guardò attorno: non c’era anima viva.
 
“Appunto, sono tutti in battaglia o vicini alle mura, e chi non lo è sta dormendo” concluse, mentre raggiungeva la riva del fiume e usciva dall’acqua “Non sono certa che il Moriameer a-ghekavary lo stia facendo, però affrontarlo non sarebbe un grosso problema. Lui è un guerriero e lo sono anch’io. Anzi, forse io lo sono più di lui, dal momento che ha questa tendenza ad affidare ai suoi luogotenenti tutto quello che può. D’accordo, un capo deve anche saper delegare… ma fino a un certo punto”.
 
Nonostante l’assenza di persone che potessero vederla decise di muoversi con rapidità e circospezione, cercando di evitare le zone illuminate dalla scarsa luce dell’unica luna rimasta.
La dimora della persona che stava cercando si trovava poco lontano dal negozio di uno speziale, che lei non faticò a trovare e a superare.
La sola “difficoltà” che riscontrò fu il doversi nascondere in un vicolo buio quando sentì le voci di due Lusan in avvicinamento. Avrebbe potuto ucciderli, ma preferiva non dare nell’occhio e limitarsi a portare a termine la missione.
 
Raggiunse la casa del Moriameer a-ghekavary, un edificio a due piani dallo stile semplice e praticamente identico a quello di casa sua; nulla che potesse stupirla sapendo che le abitazioni nella valle erano tutte costruite più o meno allo stesso modo -cambiavano solo le dimensioni a seconda della posizione sociale o del denaro posseduto- e anche la disposizione degli edifici nelle città si somigliava sempre abbastanza.
 
“Ora devo solo scassinare la serratura della porta sul retro ed entrare” pensò, tirando fuori dalla fodera attaccata alla cintura un pugnale dalla lama lunga e sottile.
 
La serratura cedette come se fosse stata di burro: ecco, era finalmente dentro.
 
Percorse solo pochi passi prima di trovarsi davanti la moglie del capo di Moriameer, e quest’ultima ebbe solo il tempo di sgranare gli occhi e aprire la bocca per urlare, senza riuscirci, perché Calida la sgozzò con un gesto fulmineo.
 
“No, appunto… non dormivano. Non tutti, almeno”.
 
I rantoli della donna richiamarono l’attenzione di quello che sicuramente era uno dei suoi figli adolescenti -uno dei due maschi- ma anch’egli, appena spuntato fuori dalla stanza accanto,  non ottenne nulla più di un pugnale volante infilato in gola.
 
La possente Lusan recuperò l’arma ancor prima che il ragazzo cadesse a terra in un lago di sangue, immaginando che anche l’altro figlio non dovesse essere troppo lontano.
 
«Mahanum!»
 
Non si era sbagliata di molto, perché l’attimo successivo si trovò a dover respingere l’aggressione della terza figlia del suo collega, una sedicenne alta quasi quanto lo era stata lei a quell’età, che le aveva appena urlato “muori”.
 
Le si era avventata contro con uno spillone per capelli, un’arma impropria quasi ridicola che però poteva risultare letale nelle mani giuste. Calida riuscì a evitare i primi colpi senza emettere un suono, e con la coda dell’occhio vide il fratello maschio, quello cui aveva pensato poco prima, in attesa di tentare a sua volta un attacco silenzioso.
 
“Aspetta” pensò, evitando un altro affondo della ragazza “Non ancora… ecco”.
 
Si abbassò al momento giusto, proprio quando vide che il ragazzo era partito all’attacco, e fu così che il disgraziato Lusan venne colpito mortalmente in un occhio dallo spillone della sorella.
 
«No!... Hetri!» esclamò la ragazza, disperandosi nel rendersi conto di ciò che aveva fatto al fratello.
 
«Uno in meno di cui occuparmi» fu il solo commento di Calida, che agguantò la ragazza preparandosi a ucciderla.
 
«Tu!... cosa… cos’hai fatto?!»
 
Ecco che finalmente il Moriameer a-ghekavary, bersaglio principale ma non unico della sua missione omicida, si palesava giusto in tempo per ammirare il lavoro da lei compiuto finora.
 
«Mi sembra abbastanza evidente, Lenen Moriameer a-ghekavary. Tu e i tuoi familiari sareste dovuti andare in battaglia, magari sareste sopravvissuti».
 
«Lascia andare mia figlia, altrimen-»
 
Il Lusan non poté neppure finire di dire quell’altrimenti, perché venne interrotto dallo schiocco sonoro del collo spezzato di sua figlia.
 
«Fatto» disse Calida con calma glaciale, lasciando cadere a terra il cadavere.
 
La reazione del suo collega nel veder uccidere la propria figlia fu quella che ci si aspetterebbe da qualunque padre, ossia scagliarsi contro l’assassina in un impeto di pura ferocia. Peccato che fosse proprio quel che Calida si aspettava, e ancora una volta lanciò il pugnale, uccidendo il padre nello stesso modo in cui aveva ucciso il figlio: una lama conficcata in gola.
 
«Rendiamoci conto che in tutto questo la figlia adolescente mi ha dato più rogne di quante me ne abbia date suo padre. Se non altro l’aveva cresciuta decentemente» sospirò Calida, estraendo con cura la sua arma dal collo dell’ultima vittima «Posso dire di aver finito».
 
Il grosso del lavoro era stato fatto, si disse, aprendo il sacco che si era portata appresso; ora non restava altro da fare che prendere i souvenir e poi tornare a Ulthmeer con il “bottino”.
 
Il pianto di un neonato, proveniente dal piano superiore, attirò la sua attenzione. Non ricordava che il defunto Lenen avesse avuto un figlio da poco, ma del resto non era detto che lo fosse: poteva tranquillamente essere un nipote, anche se non le risultava che i suoi figli fossero sposati.
 
«D’accordo: avevo “quasi” finito» rettificò la Lusan, imboccando la scalinata che portava al piano di sopra.
 
Esattamente come nell’occasione in cui Thandrumeer era stata distrutta, Calida notò che in tutto quel lasso di tempo non aveva avuto alcun tipo di problema: niente allucinazioni di Anise zombie, niente difficoltà a riconoscere i volti e ricordare i nomi… stava bene, assolutamente bene, tanto che anche ogni voglia di porre fine alla propria vita era passata.
 
Nel dirigersi verso la stanza da cui proveniva il pianto del piccolo -o della piccola- Lusan, pensò che forse per poter continuare a vivere in modo dignitoso era destinata a uccidere, che forse era diventata simile a un parassita che aveva bisogno di versare sangue altrui per non impazzire del tutto.
 
Se però il sangue non era quello di Anise, era un prezzo che Calida era tranquillamente disposta a pagare.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
La battaglia tra i Lusan di Kahzameer e quelli di Moriameer, ignari del fatto di aver perso il capo della loro città, infuriava sempre più aspra nonostante entrambe le armate ormai avessero perso parte dei loro componenti.
 
«ARRAJ ADHART! AVANTI!» urlò il capo della città di Kahzameer, che stava combattendo duramente pur non essendo in prima linea «Possiamo respingerli! AVANTI!»
 
Anch’egli, esattamente come tutti gli altri capi delle città e non solo, aveva subodorato da tempo l’arrivo di una guerra. L’ultima era finita quando lui aveva otto anni e, per quanto allora fosse un bambino, aveva fatto in tempo a respirarne l’aria a pieni polmoni e a imparare a riconoscerne l’odore di morte ancor prima che sangue, cadaveri e deiezioni venissero sparsi nei campi di battaglia della valle.
 
Da un lato ne era quasi felice perché, come praticamente tutti, lui non era esente dall’avere voglia di massacri; dall’altro lato tuttavia lo era di meno, perché se non avesse dato il massimo -come tutti gli altri capi- avrebbe corso il rischio che Kahzameer cadesse in mano a un qualsiasi nemico o fosse distrutta dopo secoli e secoli in cui questo non era accaduto.
 
«UCCIDETELI! Neppure uno di loro deve tornare a casa!» gridò ai propri uomini, decapitando un soldato nemico.
 
Dolmer, questo era il nome del era Kahzameer a-ghekavary, sentiva su di sé una pressione violenta, schiacciante come mai avrebbe creduto di sentirne. Non perché non fosse abituato a dare il massimo, lui dava sempre il cento per cento qualunque cosa facesse, ma perché fino a un anno e mezzo prima non aveva mai creduto davvero alla possibilità che una città potesse essere rasa al suolo.
 
Poi però c’era stata la distruzione di Thandrumeer, un fatto che aveva cambiato le carte in tavola. Thandrumeer era stata fino ad allora la città leggermente più grande di tutte le altre, quella con le mura leggermente più spesse e con una montagna a proteggerne parzialmente i confini, la stessa montagna che aveva segnato la sua condanna.
 
Calida Ulthmeer a-ghekavary non si era limitata a far costruire armi migliori, aveva anche dimostrato di saperle usare con acume.
Prima della distruzione di Thandrumeer il suo nome era già ben conosciuto: Calida la Lusan gigantesca, Calida la Lusan che non soffriva il dolore, Calida K’ery Sùilean, Divoratrice Di Occhi; dopo Thandrumeer però non c’era Lusan nella valle che non conoscesse Calida a-Teinen Agaibh, ossia “Calida Delle Croci Infuocate”.
 
Tutte le città si detestavano tra loro, tutti i capi si detestavano uno con l’altro, però quella era una donna nubile, sanguinaria al punto di farsi ampiamente notare in una valle in cui lo erano un po’tutti quanti, che si era guadagnata una certa fama e che oltre a essere utile in battaglia avrebbe potuto generare figli grandi e grossi quanto lei; tutti motivi per cui lui, pur non trovandola bella, era stato svelto a farle pervenire una proposta di matrimonio. Non aveva contato particolarmente su una risposta affermativa -non era mai capitato che il capo di una città ne sposasse un altro, ci si sposava quasi sempre tra compaesani- però aveva tentato ugualmente e, da quel che sapeva, non era stato neppure il solo.
 
«MAHANUM!» ringhiò, dopo essersi lanciato su un nemico con un balzo. La lama della sua spada trapassò il cranio del soldato da parte a parte e altro sangue macchiò il pelo dorato con striature fulve di Dolmer, il quale comunque non ne fu infastidito.
 
Improvvisamente però il clamore della battaglia divenne tre volte più forte, troppo più forte: c’era qualcosa che non andava e quando si voltò capì che il “qualcosa” era un’armata di Ulthmeer che si era appena gettata in battaglia con la stessa forza e intensità di un fiume in piena -o di una valanga.
 
Urlò ai propri uomini dell’arrivo di altri nemici, così che i pochi che non si erano accorti potessero rendersi conto di quel che stava succedendo, per poi notare una cosa fondamentale: i soldati di Ulthmeer non stavano attaccando i suoi soldati, stavano colpendo solo e soltanto quelli della città di Moriameer… come se fossero giunti in loro aiuto.
 
“Questo però non è possibile. Le città si attaccano tutte tra loro, non si aiutano mai” pensò il Lusan, decisamente confuso.
 
Forse però non era il caso di farsi troppe domande, non in quel momento: era molto meglio sfruttare quella stranezza a suo vantaggio, sperando che l’armata di Ulthmeer si rivoltasse contro di loro solo quando fosse stata indebolita a sua volta.
 
Emise l’urlo, anzi, il ruggito di guerra più potente della propria vita, e con rinnovato vigore lui e i suoi uomini si scagliarono contro i Lusan di Moriameer, ancor più determinati a non risparmiare nessuno.
 
La battaglia andò avanti a ritmo serrato per quasi un’ora e quando ebbe termine -con la disfatta dei soldati di Moriameer- stava iniziando ad albeggiare.
 
Affiancato da alcuni uomini fidati e leggermente ferito, Dolmer osservò una scena che non avrebbe mai creduto di vedere in tutta la propria vita: Lusan di Kahzameer e di Ulthmeer intenti a uccidere i feriti di Moriameer lasciati sul campo di battaglia, senza cercare di ammazzarsi a vicenda.
 
«Strano spettacolo, collega. Non pensi?»
 
L’aveva pensata e ora Calida era lì, proprio davanti a lui, a sua volta affiancata da alcuni dei suoi uomini e con un sacco issato in spalla.
 
Non capendo che intenzioni avesse, Dolmer mise mano alla spada. «Perché tu e i tuoi soldati siete venuti in nostro aiuto? Non ne avevamo bisogno!»
 
«Lo so. La battaglia sarebbe finita con un numero più o meno pari di morti e con una ritirata da entrambe le parti, come accade di solito. Non dubito che tu saresti sopravvissuto alla battaglia, proprio come non dubito che Kahzameer, come tutte le altre città, sopravvivrebbe a questa ennesima guerra. La mia domanda però è: perché limitarci a sopravvivere da soli quando le nostre città insieme potrebbero vincere?»
 
Sentendo una cosa del genere il Lusan sgranò gli occhi dorati in un’espressione di assoluto stupore, per poi ritrovare contegno. «È uno scherzo, non può essere altrimenti. La mia città non ha bisogno della tua per restare in piedi».
 
«Esattamente come la mia non ha bisogno della tua, ma io per l’appunto ho parlato di vincere. Kahzameer è grande, ha risorse, uomini e armi; io dal canto mio ho risorse, uomini e cannoni migliori dei tuoi».
 
«Anche le altre città hanno risorse, uomini e armi, quindi perché dovrei allearmi con la tua?»
 
«Perché io sono Calida a-Teinen Agaibh» ribatté l’altra «E se l’intera valle conosce il mio nome c’è più di una buona ragione» aggiunse, indicando i resti di Thandrumeer in lontananza «Come ben sai. Se però non ti basta, dentro questo sacco c’è una crisi di governo per Moriameer!»
 
Dolmer si avvicinò con una leggera diffidenza al sacco che Calida gli aveva appena lanciato, per poi tastarlo delicatamente senza riuscire a capire cosa ci fosse dentro.
Quando però lo aprì e si trovò davanti la testa tagliata e bagnata di quello che era stato il Moriameer a-ghekavary, con suo sommo stupore capì cosa intendesse dire quella donna con “crisi di governo”.
 
«Ci sono anche moglie e figli. Sono dell’idea che sia un peccato separare le famiglie» disse Calida «Se ora ci uniamo e attacchiamo Moriameer in questo momento di instabilità politica sarà la prima di una serie di vittorie».
 
Il Lusan tirò fuori dal sacco la testa del collega, come a volerla esaminare meglio, o come a volerla mostrare a tutti i presenti. «Avrei dei motivi per accettare» disse «Però non ho garanzie che rispetterai l’accordo, Calida a-Teinen Agaibh».
 
«Né io al momento ho garanzie che lo farai tu» ribatté lei «Motivo per cui, dopo un’attenta riflessione durata un anno e mezzo, ho deciso di farti l’onore di accettare la proposta che mi facesti e di concederti la mia mano».
 
Recte e altri luogotenenti di Ulthmeer sapevano cosa aspettarsi, ma tra i Lusan di Kahzameer cadde un silenzio tombale.
Era stata una notte sorprendente ma l’alba lo era ancora di più.
 
«Se dici una cosa del genere alla presenza di testimoni fai sul serio» disse Dolmer, dopo un po’ «Però non comprendo…»
 
«C’è poco da comprendere: tu hai fatto una proposta e io l’ho accettata. Ci sposeremo domani».
 
«O stasera stessa» rilanciò il Kahzameer a-ghekavary. Era “entusiasta” quanto doveva esserlo lei, ma era meglio sbrigare la faccenda prima che la carte in tavola cambiassero ancora.
 
«Prima è, meglio è» annuì Calida «Mi aspetto dei doni degni del capo che sono e del capo che sei. Non tentare una qualsivoglia idiozia durante la cerimonia».
 
«I matrimoni sono sacri» ribatté Dolmer.
 
Era credenza popolare estremamente radicata che interrompere una cerimonia nuziale e/o farla finire nel sangue avrebbe portato sfortuna a coloro che commettevano tali azioni e alla loro discendenza, motivo per cui non erano mai stati registrati massacri durante un matrimonio. Alcuni pacifisti avrebbero pensato che i Lusan della valle avrebbero dovuto sposarsi ogni giorno.
 
«Bene. Ci incontreremo stasera all’albero sacro» concluse Calida.
 
«Non mancherò».
 
 

 
 
 
 
Voi probabilmente non ve lo aspettavate, ma vi comprendo, non me lo aspettavo nemmeno io. Io e Calida abbiamo un patto secondo cui lei può fare quello che vuole -purché nella sua follia abbia del senso- e i miei occhi restano al loro posto. In questo caso la proposta di matrimonio di cui si accenna nel capitolo 15 si è concretizzata :'D
Vi avviso che la settimana prossima potrebbe esserci una pausa nella pubblicazione e, per il resto, lascio a voi eventuali commenti e un disegno di Dolmer!


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Capitolo 24
*** 24 ***


24

24










Era da un po’ che Dolmer se ne stava inginocchiato lì, in preghiera di fronte a un piccolo altare dedicato a Q’thulu, la Bestia dai Molti Tentacoli che i Lusan della valle, fin dall’antichità, avevano continuato ad adorare pur conoscendo l’esistenza degli Hakaishin e dei Kaioshin.

La sola fonte di luce nella stanza era la fiamma tremolante di una candela accesa, che muovendosi creava curiosi giochi di ombre sul corpo e il volto del Kahzameer a-ghekavary.

«Perché?»

Pur avendo sentito perfettamente la domanda di quella che ormai era diventata sua moglie, e pur sapendo che in teoria averla alle spalle mentre lui era in ginocchio non era precisamente consigliabile, Dolmer non si voltò. «Perché no, Calida? C’è chi in attesa di una battaglia mangia, c’è chi beve, c’è chi si allena, chi cammina, chi fa del sesso… e io prego».

«Ricordare di aver vinto contro Moriameer dovrebbe darti forza a sufficienza, anche se è passato del tempo».

Calida aveva ragione: della città di Moriameer ormai rimanevano più che altro case vuote, giardini devastati ed eventuali schizzi di sangue rappreso sulle pareti, assieme ai pochi brandelli di interiora che gli animali, dopo tutto quel tempo, non avevano ancora consumato.
L’alleanza tra Ulthmeer e Kahzameer, pur se nata abbastanza improvvisamente, aveva dato i suoi frutti nel completare il lavoro che Calida aveva iniziato col massacro di una famiglia intera -e relativa crisi di governo.

«Io sono abituato a fare così. Finora mi ha portato del bene, squadra che vince non si cambia. Cercavi qualcosa di specifico?»

«Deduco che non apprezzi la mia presenza».

Dolmer si voltò a guardarla. « Non sono infastidito. Di rado cerchiamo una la presenza dell’altro solo per scambiare due chiacchiere, tu e io di solito parliamo di guerra -com’era logico aspettarsi- quindi la mia domanda è legittima. Cerchi qualcosa di specifico o per una volta cerchi solo compagnia?»

Calida non cercava qualcosa di specifico, non sul serio. Dopo aver passato diverso tempo in solitudine, preparandosi psicologicamente all’assalto contro Sarumeer previsto per il giorno dopo, si era sorpresa a chiedersi dove potesse essere finito Dolmer.
Aveva detto a se stessa di essersi fatta quella domanda perché non era conveniente perderlo di vista: erano alleati, marito e moglie, ma era veramente saggio lasciarlo tutto quel tempo senza sorveglianza, dandogli modo di concertare chissà cosa con chissà chi?

Dirigendosi verso il luogo in cui era stato allestito quel piccolo altare, sapendo benissimo che lo avrebbe trovato lì, aveva dovuto riconoscere di star mentendo a se stessa.
Non lo stava cercando per quella ragione, né per parlare nuovamente della battaglia che si avvicinava: lo stava facendo solo perché aveva la curiosa volontà di passare del tempo con una persona che aveva imparato a conoscere un po’, alla cui presenza aveva finito quasi per abituarsi.

In fin dei conti se Calida aveva scelto di stringere un’alleanza e sposarsi con Dolmer era anche perché tra i capi di città che in precedenza le avevano fatto un’offerta di matrimonio lo trovava una persona abbastanza “degna” e, almeno in quel periodo di tempo trascorso dalle nozze, non aveva avuto ragione di ricredersi. Non la amava, esattamente come lei non lo amava, ma l’aveva sempre trattata con rispetto, e lei aveva fatto altrettanto.
Sorprendeva il modo in cui erano riusciti abbastanza facilmente a trovare un equilibrio pur essendo stati nemici fino a poco tempo prima.

«Nella Bestia dai Molti Tentacoli credono un po’tutti, però a credere e praticare siete pochi, e quei pochi di solito sono imparentati con i Sagartaibh che abbiamo nella valle. Vale anche per te, Dolmer?»

«Se poi io ti facessi una domanda sullo stesso tema, come reagiresti?»

Calida fece spallucce. «Non in maniera controproducente».

Il Lusan tornò a osservare la candela. La piccola statua intarsiata di Q’thulu sembrava quasi fissarlo con sguardo severo: se fosse per consigliargli il silenzio o meno, non era dato sapere.

«Sono effettivamente imparentato con un sacerdote» ammise Dolmer, dopo un po’ «Era mio zio. In teoria sarei dovuto diventare a mia volta un religioso, cosa che a me andava benissimo, e il titolo di Kahzameer a-ghekavary era destinato a mia sorella maggiore. La guerra però ha fatto sì che le cose andassero a finire diversamente, come del resto è successo a molti, e se non fosse stato per mio zio non sarei qui neppure io. Mi fece nascondere appena prima che un gruppo di Lusan di Moriameer entrasse nel tempio. Lo hanno fatto a pezzi e hanno ricomposto il suo cadavere in modo osceno. Le luride bestie di quella città non hanno avuto rispetto nemmeno di un Q’thulu a-Sagartaibh in quanto tale! Sotto la mia guida, invece, nessuno dei miei uomini ha mai alzato un dito su un religioso».

«Ero a conoscenza di questo dettaglio, a mancare era solo il perché. Risparmiare i Sagartaibh “in quanto tali” non ti rende migliore rispetto a chiunque altro» disse Calida «Al di là del fatto che non credo particolarmente nell’esistenza di Q’thulu, i sacerdoti non sono esseri speciali: sono persone come me e te, che mangiano, bevono, defecano e sanguinano. Di’ piuttosto che li risparmi in memoria di tuo zio. Questa è una cosa che comprendo di più e che rispetto».

«Avevo intuito che il tuo rapporto con il nostro credo non fosse particolarmente stretto, in fin dei conti il matrimonio all’albero sacro è più consuetudine che manifestazione di fede» commentò il Lusan, alzandosi in piedi «Che tu abbia idee diverse dalle mie in materia di religione non è un problema, Calida, pur essendo credente non sono un fanatico che cerca di convertire gli altri, e a noi servono solo intesa in guerra e rispetto in casa. Solo una cosa: il dio della cui esistenza dubiti è decisamente migliore di quelli che conosciamo di persona».

«Questo è certo».

Era passato diverso tempo dal giorno in cui aveva detto a Dolmer di addentrarsi assieme a lei nella foresta per essere presentato ad Anise.
 In verità
la proposta era stata fatta in maniera ironica, perché era piuttosto convinta che solo un pazzo si sarebbe addentrato in un posto poco conosciuto -per lui- assieme a quella che fino a pochi giorni prima era stata una nemica, ma lui l’aveva sorpresa con una risposta affermativa. “Ora siamo alleati, nonché marito e moglie, dobbiamo imparare a vederci come tali anche senza avere attorno uomini pronti a difenderci”, le aveva detto.
Era stato in quell’occasione che Dolmer, oltre ad Anise, aveva conosciuto anche i gemelli Hakaishin, facendosi di entrambi un’opinione che non differiva troppo dalla sua.

«Mi risulta ancora difficile credere che quel ragazzetto rincoglionito sia il nostro Hakaishin. Non so se nascano tali o vengano scelti ma, se è così, dovrebbero cambiare i parametri. Mi chiedo anche cosa possa aver visto in lui tua sorella: mi verrebbe da dire soldi e potere ma, se fosse così, ormai non vivrebbe più nella foresta. O beh, in fin dei conti sono stato un ventenne anche io. Cieco, sordo e incapace di valutare».

Dolmer parlava per esperienza: aveva appena compiuto vent’anni quando si era lasciato incantare da Amiri, dai suoi occhi color cioccolato.

Benché si tendesse a pensare che i discendenti di prigionieri fossero cittadini a tutti gli effetti a partire dalla seconda o terza generazione, non era stato saggio da parte sua non lasciar passare abbastanza tempo per conoscerla bene e verificare che fosse veramente così.

L’aveva sposata e lei, poco dopo, aveva tentato di ucciderlo.

Uccidere lui per vendicarsi di qualcosa che aveva fatto suo nonno, o il suo bisnonno, o comunque un suo ascendente.
Quant’era folle, che lui non lo trovasse poi così folle?

Dolmer l’aveva mandata alla forca, col volto serio e un cuore a pezzi che, tuttavia, ormai si era ricomposto. L’aveva amata ma evidentemente non lo aveva fatto tanto da rimanere traumatizzato vita natural durante.

«Io chiamo quella che va dai sedici ai ventidue anni “l’età dell’idiozia”» disse Calida «Solitamente anche i Lusan più maturi commettono almeno una sciocchezza, in questo lasso di tempo. Cambiamo discorso: l’assalto previsto per domani…»

«Ne parleremo dopo che ti avrò fatto una domanda. Prima te ne avevo accennato».

Calida rimase in silenzio, attendendo che Dolmer ponesse il suo quesito.
Doveva ammettere di esserselo cercato.

«So che tu, come me, non hai nessuno. Se non tua “sorella”» aggiunse il Lusan «Tu sai chi erano i miei genitori, perché Kahzameer è governata da tempo dalla dinastia da cui discendo io. Dunque mi chiedo… chi erano i tuoi genitori?»

«Artificieri».

Dolmer sollevò le sopracciglia, stupito del fatto che lei gli avesse risposto. «Davvero?»

Calida fece spallucce. «O forse si occupavano di libri, o erano semplici contadini. O becchini. O magari dei boia. Scegli la versione che preferisci».

«Immagino che, se io ora protestassi dicendo che ho risposto, tu ribatteresti che non mi hai obbligato. Allora, cosa volevi dirmi riguardo l’assalto previsto per domani?»

Era una domanda che segnava l’uscita dal terreno un po’scivoloso in cui lei stessa si era infilata, riportandola in uno più congeniale che, da diverso tempo a quella parte, la faceva perfino sentire sana.
Più volte aveva pensato che massacri, guerra e bagni di sangue le facessero bene, e tali congetture sembravano aver trovato conferma: non aveva più avuto problemi nel riconoscere le persone, non aveva più visto il volto di Anise al posto di altri e, soprattutto, non era più perseguitata da Anise in versione decomposta.
Sì, continuava a sentire il richiamo verso Vynumeer, aveva sognato Rubedo/Kamandi in qualche occasinone, aveva spesso l’impressione di essere osservata anche quando era sola e ogni tanto le sembrava di vedere il movimento di capelli argentei con la coda dell’occhio, ma rispetto a prima non era nulla che non potesse gestire, tant’era che nemmeno Dolmer la riteneva fuori di testa -non in senso "poco utile", s'intende.

«Volevo raccomandarti un’ultima volta di non danneggiare troppo le strutture. Abbiamo devastato Moriameer ma Sarumeer è una buona base in cui poterci stanziare per poi occuparci delle quattro città che mancano».

«Diciotto» sospirò Dolmer.

«Cosa?»

«Volte che mi ripeti questa cosa. Con questa sono diciotto».

Utlhmeer, Kahzameer, Moriameer e Thandrumeer erano piuttosto vicine tra loro -e le ultime due non costituivano più un problema- mentre Saurumeer era a metà strada tra quell’insieme di città e un altro gruppo, sempre di quattro, posizionato un po’più distante.

Avevano deciso di prendere quella città perché, oltre ad avere una buona posizione, aveva anche una doppia cinta di mura alte e rese “scivolose” dal tempo, tra le quali era stato scavato un fossato riempito d’acqua.

I cannoni avrebbero permesso loro di aprire brecce nelle mura ma, come chiunque altro in passato, Calida e Dolmer avevano concluso che sarebbe stato un peccato perdere un avamposto così ben protetto; tutti motivi per cui avevano deciso di prendere la città per fame.

Togliere loro l’acqua era stato il primo passo, deviando mediante uno sbarramento il braccio del fiume che, come nel caso di Moriameer, attraversava Sarumeer e riempiva d’acqua il fossato.
I nemici vedendo ciò avevano tentato la prima sortita durante la notte, senza ottenere altro che una batosta; costretti a ritirarsi, si erano arroccati all’interno della città in attesa di un momento buono per riprovare.
Nel corso del tempo avevano fatto altri tentativi, ma erano andati tutti come il primo, tanto che infine avevano smesso.

Il secondo passo era consistito nel privare i nemici delle maggiori riserve di cibo, servendosi della conoscenza di Calida riguardo le planimetrie delle città.
Entrare di nascosto per dare fuoco agli edifici dove veniva immagazzinato il cibo sarebbe stato arduo, ragion per cui, trattandosi di strutture in legno, Calida aveva avuto un’altra idea.


“Dolmer, hai dei prigionieri da prestarmi?”

“Li ho, però credo che sarebbe inutile cercare di farli entrare a Sarumeer”.

“Non lo faremmo nel modo che pensi tu. Ho fatto un paio di calcoli e penso che dovremmo riuscire a lanciarli contro i magazzini…”

“Non credo che quelle persone sopravvivrebbero all’urto”.

“Certo che non sopravvivrebbero: li cospargeremmo di liquido infiammabile e appiccheremmo il fuoco appena prima di lanciarli contro i magazzini. Che sono di legno”.

“Potremmo usare della pece”.

“Se tu fossi al posto dei nostri nemici, ti spaventerebbero più dei Lusan in fiamme o delle palle di pece?”

“… prendi tutti i prigionieri che ti servono”.



Era stato necessario aggiustare il tiro un paio di volte ma il piano aveva funzionato; dunque, una volta passato il giusto lasso di tempo, erano passati alla terza parte del piano, ossia favorire lo sviluppo di una pestilenza lanciando carcasse di animali all’interno delle mura.
Gli abitanti di Sarumeer erano ormai debilitati dalla mancanza di acqua e di cibo, motivo per cui, come avevano testimoniato le molteplici colonne di fumo e l’odore di carne di Lusan bruciata, erano caduti vittime di un morbo che difficilmente si sarebbe sparso a macchia d’olio tra persone sane.

Consci della condizione dei loro nemici, Calida e Dolmer li avevano lasciati cuocere nel loro brodo un altro po’, e ormai erano piuttosto convinti del fatto che superare le mura e conquistare la città non sarebbe stato più difficile di quanto fosse stato devastare Moriameer.

«Se vuoi posso ripeterti altre due volte di danneggiare le strutture il meno possibile» disse Calida «Così da arrivare a una cifra tonda».

«Credo che in tal caso potrei prendere in considerazione l’idea di spaccarmi il cranio da solo dando testate a un muro non meglio specificato» ribatté Dolmer «Immagino che questo faciliterebbe il lavoro di qualcuno».

«Se uno di noi due uccidesse l’altro subito dopo aver portato a termine la conquista succederebbe un putiferio, e non è quel che voglio».

«Lo so, infatti non parlavo di te. In verità io pensavo al dopo. Al momento siamo impegnati in questa campagna di conquista e/o devastazione, no? A Moriameer abbiamo dato alla nostra gente la prova che quest’alleanza mai vista prima funziona, domani se Q’thulu vuole faremo altrettanto, e magari riusciremo davvero ad avere ragione anche delle altre quattro città. Una volta finita e vinta la guerra domineremo la valle, verremo acclamati, verremo osannati… ma per quanto, Calida?» le chiese Dolmer, con uno sguardo cupo negli occhi dorati «Per quanto tempo riusciremo a tenere tutto e tutti insieme? Quanto tempo passerà prima che smettano di osannarci e che a qualcuno venga in mente di prendere il nostro posto, o semplicemente di smantellare tutto quel che avremo creato?»

A Calida non piacque quel discorso, pur non essendo del tutto sbagliato; anzi, forse era proprio per quel motivo che non le piaceva.

«Questo valeva anche prima, Dolmer, quando non eravamo alleati ed eravamo ognuno a capo della propria città, e comunque tu sei un capo amato e rispettato, mentre io un capo temuto e rispettato: è un’unione bilanciata. I nostri concittadini non hanno cercato di farci fuori prima, non hanno cercato di farlo quando ci siamo sposati, non vedo perché dovrebbero farlo in futuro. Quel che dobbiamo fare è impegnarci per aumentare le nostre possibilità di vittoria, non fasciarci la testa prima di romperla. Pensa all’assalto di domani, non al "dopo". Buonanotte» concluse Calida, andandosene prima che il marito potesse replicare.



“Quanto tempo passerà prima che smettano di osannarci e che a qualcuno venga in mente di prendere il nostro posto, o semplicemente di smantellare tutto quel che avremo creato?”



Si era alleata con un altro capo, lo aveva sposato per poter vincere la guerra e dominare la valle, ma quelle parole insinuavano il dubbio che quanto aveva fatto non fosse sufficiente, non per i suoi progetti.
Non per realizzare davvero il proprio sogno senza ricorrere al potere di Rubedo e pagarne il prezzo.





***





«Una pioggia del genere non si vedeva da un po’. Non mi piace pensare che debbano combattere con questo tempo. Riduce la visibilità e la presa sul terreno, tra le altre cose».

Non era una buona giornata per Anise, ma d’altra parte le giornate veramente buone avevano avuto termine da tanto tempo: da oltre un anno e mezzo, per la precisione.

«Di rimandare non se ne parla, hm?» chiese Champa, pur sapendo benissimo quanto quella fosse una domanda retorica «Prova a pensarla così: il discorso di presa e visibilità vale anche per gli altri».

«Apprezzo veramente il tuo tentativo, Champino, ma non mi consola».

«Quando tua sorella è andata contro la città di Thandrumeer non eri altrettanto in pensiero, e dopo quel che è successo a Moriameer tempo fa non credo che ci siano ragioni di esserlo. Anise… non so se te lo ricordi, ma li hanno “asfaltati”, come si suol dire».

«Ero preoccupata anche in quell’occasione, se è per questo. Champa, io non riesco a togliermi dalla testa il fatto che Calida stia facendo una campagna militare assieme a quello che fino a relativamente poco tempo fa era un nemico».

«Ossia suo marito».

«Ecco! Dovrei essere felice del fatto che due città, una delle quali è quella di mia sorella, siano riuscite ad allearsi, però io non sono tranquilla, e devo ancora accettare del tutto il fatto che Calida si sia sposata. Calida» ripeté «Sposata. Lei! Lei, che al mio ventesimo compleanno aveva detto di aver rifiutato ogni proposta e di aver accantonato l’idea! Ho capito perché lo ha fatto, in realtà è addirittura una cosa sensata, è da una vita che vado avanti a parlarle dei benefici di un’alleanza, ma non avrei mai pensato che un giorno si sarebbe presentata qui, in casa mia, assieme a un marito. Nemmeno brutto, tra l’altro».

«Per fortuna che Beerus non ti sente» commentò Champa «Non mi hai ancora detto per cos’avete litigato, questa volta».

«Colpa dell’incubo. Di nuovo» disse Anise «E della sua voglia di portarmi subito via di qui, che aumenta sempre più ogni volta. Un po’ lo capisco, essere tormentato da certi incubi non è piacevole e credimi se ti dico che mi dispiace veramente tanto per lui, però puoi ben capire che io, per come vanno le cose al momento, mi sento poco propensa a trasferirmi da lui e iniziare una convivenza».

«Tutti questi incubi di Beerus però iniziano a non piacermi» ammise il dio «Soprattutto perché da quel che ho capito sogna sempre la stessa cosa: Ulthmeer distrutta, tu che vieni uccisa da qualcuno che conosci. È vero, che io sappia i suoi sogni pseudo profetici non sono accurati, tutt’altro» alzò gli occhi al soffitto «Però… non mi piace».

«È ovvio che continui a sognarlo, questa cosa è diventata una sorta di chiodo fisso per lui. Evidentemente non si è mai tolto veramente dalla testa quello che ha visto la prima volta in cui ha avuto questo incubo» disse Anise «Cosa che ha dato origine a quello successivo, peggiorando questa sua sorta di ossessione, e da lì in avanti, complice la sua poca stima per Calida, il tutto è degenerato ulteriormente, fino ad arrivare a diventare motivo di una discussione per colpa della quale non abbiamo contatti da tre giorni. Un distacco poco coerente con la sua volontà di proteggermi a ogni costo… ma è meglio questo che averlo attorno arrabbiato».

«Tanto proteggerti da qualsiasi cosa penso io» esclamò Champa, mettendole un braccio attorno alle spalle «Lo sai».

«In certi momenti riesci a proteggermi perfino dai brutti pensieri» sorrise la ragazza «Però oggi, come dicevamo prima, ho in testa mia sorella. Calida mi ha detto che questa alleanza deriva dal fatto di voler vincere, invece di limitarsi a restare in piedi, e io le credo… però ho come avuto la sensazione che si sia trattato di una soluzione alternativa “estrema”. Alternativa a cosa, non lo so. Inoltre mi auguro che suo marito in futuro non faccia l’idiozia di pugnalarla alle spalle, o comunque che Calida riesca a non farsi uccidere. Champa, poco fa ti sei sorpreso della mia preoccupazione, ma non saresti allarmato anche tu se qualcuno che conosci infrangesse così i propri schemi comportamentali?»

«Forse. Però tu non puoi farci molto, e comunque tua sorella è una che se la cava. Abbi paura per tuo cognato, se mai. A me dispiacerebbe se morisse prima del tempo» commentò il ragazzo.

«Immagino che questo sia dovuto al quel che ha detto di Beerus. È un miracolo che non l’abbia fatto fuori subito».

Il giorno in cui Calida aveva portato Dolmer in casa di Anise, Beerus li aveva accolti malissimo, convinto che Calida avesse portato lì Dolmer come “pretendente” di Anise.
La faccia che aveva fatto quando aveva saputo che quel Lusan lì era sposato con Calida era stata da primo piano, e la sua grassa risata nell’ululare quanto fosse “Assurdo e ridicolo che una cosa del genere abbia trovato marito” aveva fatto vergognare Anise delle sue maniere -e un po’anche Champa.
Il divertimento di Beerus tuttavia era durato poco: era bastato un “Capisci cosa intendevo?” di Calida rivolto a Dolmer che, dopo aver alzato gli occhi al soffitto, aveva detto “È proprio il dio che non meritiamo e, soprattutto, quello di cui non abbiamo bisogno”.

Champa fece spallucce. «Non possiamo prendercela col marito di tua sorella se è una persona obiettiva, Beerus è stato peggio che maleducato. Se io sapessi che la mia fidanzata non gradisce che si rida in faccia a sua sorella, non lo farei».

«Quando troverai la donna giusta per te, lei potrà ritenersi molto fortunata».

«Forse qualcuno dovrebbe spiegarglielo. Alla donna giusta» aggiunse il giovane «Ho oltre ventun anni e non ho mai avuto una ragazza fissa. Sì, lo so che per un Hakaishin questo è piuttosto normale, so che in realtà è strano il contrario, però vedo te e Beerus…»

«Come se io e Beerus fossimo un bell’esempio! Non lo siamo più da un pezzo, quindi non parliamone neppure» sospirò la ragazza.

«Magari in futuro andrà meglio. Insomma, lo spero, perché quando ti vedo contenta sono più tranquillo… però ehi! Se le cose per disgrazia non dovessero andare bene c’è sempre il piano B!» esclamò l’Hakaishin, indicandosi.

Anise aggrottò la fronte. «In che senso?»

«Se tu e Beerus vi lascerete, verrai a stare a casa mia!» esclamò Champa «Troverò il modo di renderti immortale come me, passeremo l’eternità andando in giro insieme a divertirci e, soprattutto, tu mi farai da spalla quando ci proverò con una ragazza. Io farò lo stesso per te quando vorrai provarci con un ragazzo, ovviamente!»

L’Hakaishin sapeva fin troppo bene che in realtà, se suo fratello e Anise si fossero lasciati e lui avesse davvero tentato di mettere in pratica quel piano, Beerus gli avrebbe fatto il sedere a strisce… però quello era solo un minuscolo, insignificante dettaglio.

«Saremmo una squadra imbattibile! Tu però in realtà non hai bisogno di una spalla, Champa, hai bisogno di rimanere da solo con una ragazza senza avere la tua maestra attorno. Magari senza che questa ragazza sia una prostituta».

«È difficile. A parte gli scherzi, Vados non mi lascia mai solo con una ragazza che non fa quel lavoro lì. Mai» ripeté il giovane «Letteralmente. La sola eccezione sei tu, e questo perché sei fidanzata con Beerus. Mi sono fatto l’idea che voglia evitare di fare lo stesso “errore” di Whis».

«È più che plausibile».

Seguì qualche attimo di silenzio, per fortuna non pesante.

«Immagino che resterai pensierosa fino a quando la battaglia non finirà» disse Champa.

La Lusan si raggomitolò sul divano. «Probabilmente resterò pensierosa fino a quando il tutto non sarà finito, in un modo o nell’altro. Vedi, Champa, il fatto è che mia sorella è importante per me. Ricordo che da bambina vivevo nell’ombra di Calida, ma era un’ombra in cui ai tempi mi sentivo al sicuro. So che lei è una persona alquanto strana -e un po’lo sono anche io- e so benissimo a quali livelli di brutalità può arrivare, ma nonostante questo, nonostante tutto quel che può essere o non essere successo tra noi, io so che senza di lei non sarei qui. Per non parlare del fatto che non saprei fare la metà delle cose che invece so fare, se non fosse per Calida. Per tanti anni siamo state una la sola famiglia dell’altra. Non posso dimenticarlo. Non ci riuscirei nemmeno volendo».

Champa pensò a quanto fosse assurdo che due persone senza alcun legame di sangue fossero più legate di due fratelli gemelli, tuttavia non disse nulla, limitandosi ad imitare Anise nell’ascoltare in silenzio il rumore del temporale.





***





La battaglia nella città di Sarumeer infuriava, esattamente come infuriava la pioggia.

La parte degli eserciti congiunti di Ulthmeer e Kahzameer che fino a quel momento aveva mantenuto l’assedio stava dando finalmente l’assalto, dopo aver superato la doppia cinta muraria. Le urla di guerra si mescolavano con lo scrosciare continuo dell’acqua che, se fosse giunta prima, per la città di Sarumeer sarebbe stata una benedizione.

Il rombo di un tuono squarciò l’aria esattamente quando Dolmer Kahzameer a-ghekavary tagliò di netto la testa di un Lusan di Sarumeer.

Alcuni Lusan tra coloro che erano sopravvissuti alla fame, alla sete e alla pestilenza si erano semplicemente arresi senza colpo ferire, troppo sfiancati in ogni senso per poter reagire, ma altri si stavano battendo contro di loro con tutte le poche forze che avevano in corpo, mossi più dalla rabbia viscerale per quel che avevano patito che dall’odio secolare tra una città e l’altra.
Un odio che forse era un po’meno forte di quanto lui avesse creduto, pensando all’equilibrio decente che aveva trovato con sua moglie.

«Hogevor Dolmer, siamo riusciti a radunare quelli che si sono arresi» lo informò una dei suoi luogotenenti, dopo averlo raggiunto «E siamo a buon punto nell’uccisione delle persone che invece non lo hanno fatto».

«Bene, allora cerchiamo di continuare così e raggiungiamo mia moglie. Ovunque sia».

L’aveva persa di vista quando erano riusciti a valicare le mura -com’era successo anche a Moriameer- pur essendosi ripromesso di non lasciare che una cosa del genere accadesse; erano alleati, secondo lui avrebbero dato un’immagine migliore se si fossero fatti vedere mentre combattevano assieme.

«Nonostante la pioggia sono sicura di averla vista poco lontano da qui, non dobbiamo far altro che correre là».

Senza por tempo in mezzo, entrambi corsero in direzione del luogo in cui la luogotenente era convinta di aver visto Calida, scoprendo ben presto che non si era affatto sbagliata.

Altri soldati di Ulthmeer e Kahzameer erano impegnati a combattere in quella piazzola, ma Calida e la sua stazza saltarono subito all’occhio di Dolmer.
Esattamente come gli “saltò all’occhio” il modo in cui Calida agguantò un Lusan maschio per la nuca e sbatté con forza la sua testa contro il muro di pietra di un edificio, trovandosi in mano una melma indistinta di sangue, materia grigia e frammenti di ossa.
Come da cliché, a Dolmer parve che il tempo si stesse dilatando: osservò la “melma” mescolata all’acqua tra le dita guantate di Calida, lo sguardo profondamente soddisfatto nei suoi occhi verdastri parzialmente nascosti dalle ciocche di capelli neri appiccicate al volto, il candore dei denti snudati in un ghigno crudele.
Anche a Moriameer l’aveva persa e ritrovata, anche a Moriameer l’aveva vista battersi con furia, eppure quel che aveva ora sotto gli occhi gli risultava “diverso.”

Un pensiero improvviso lo colpì come se fosse stato una sassata: “Il precedente capo di Ulthmeer è morto con il cranio spappolato”.

La morte di Meskal aveva fatto notizia, ai tempi, perché Meskal oltre a essere un capo era stato un guerriero esperto. Lui, come gli altri, non era riuscito a venire a sapere chi fossero i colpevoli -i quali sarebbero stati premiati, se fossero stati abitanti della sua città- ed era quello il punto: “i” colpevoli.
Tutti quanti avevano sempre creduto che fosse stato assalito da un gruppo di Lusan mentre era solo, lui stesso lo aveva fatto, però ora si chiedeva se non fosse stata Calida, invece, a uccidere da sola il proprio cognato.
Questi non aveva forse ripudiato la sua amata sorella?

Fu costretto a riscuotersi dai propri pensieri quando intravide con la coda dell’occhio un movimento alla sua sinistra, riuscendo appena in tempo a notare una Lusan inferocita e a evitare il proiettile di un hrat’san.

Riuscì ad avere ragione di lei scattando nella sua direzione e uccidendola con un singolo affondo della spada, pur avendo perso per un attimo l’equilibrio a causa dei sanpietrini resi scivolosi dalla pioggia, e quando si voltò si rese conto di essere ormai schiena a schiena con Calida.
Gli parve che lei avesse detto qualcosa, ma non riuscì a udirla per colpa del clamore attorno a loro e dell’ennesimo tuono; capendo che cercare di parlare era assolutamente inutile, escluse dalla propria attenzione qualunque cosa non fosse la battaglia in corso.
Come in tutto il resto delle città i fucili a pietra focaia non erano un’arma particolarmente diffusa, dunque si trovarono ad affrontare degli invasati che combattevano a mani nude o all’arma bianca, menando fendenti con spade e pugnali, pugni e calci a destra e sinistra.

Lui e Calida insieme stavano riuscendo a guardarsi le spalle in maniera efficace, evitando quasi del tutto di riportare danni, ma Dolmer vide morire la sua luogotenente, il cui volto venne letteralmente sbranato da un Lusan con l’aria completamente folle di rabbia e probabilmente anche di fame.
Pur essendo avvezzo alla brutalità era abbastanza sicuro che avrebbe faticato a togliersi dalla mente il modo in cui i denti di quella bestia erano affondati nella carne e l’avevano lacerata senza pietà; stava faticando anche adesso, specie sapendo di essere troppo impegnato con i propri avversari per poter aiutare qualcuno che, in ogni caso, era già senza speranza.

Non seppe dire per quanto andò avanti quella lotta furiosa, perché senza rendersene conto aveva perso, in parte, anche il senso della realtà oltre che quello del tempo; smise di fendere l’aria con la spada solo quando sentì una presa potente e dolorosa al polso.

«È finita».

Dolmer batté le palpebre, riacquisì pieno controllo di sé, e solo allora Calida -perché di lei si trattava- lo lasciò andare.

«So che è finita, lo avevo notato» disse il Lusan.

«Al terzo fendente a vuoto mi è venuto qualche dubbio» ribatté Calida, avendo cura di farlo piano, vicino all’orecchio «Sono cose che succedono, quando ci si batte contro persone affamate».

«Quali cose?»

Calida non si curò di rispondergli, sapendo benissimo che in realtà aveva capito, e lui non insistette oltre.

«So che quelli che si sono arresi sono stati radunati nel tempio di Q’thulu. Tra essi c’è anche il Sagartaibh. Immagino che tu ne sia sollevato: abbiamo conquistato la città e assecondato il tuo intento di risparmiare gli uomini di fede. Ora non dobbiamo fare altro che pensare alle cose pratiche. Mi segui?»

Dolmer annuì e, dopo un ultimo attimo di esitazione, si rivolse ad alcuni soldati in attesa di ordini. «Fate in modo che lo sbarramento costruito per deviare il fiume venga demolito entro oggi, e portate tutte le attrezzature e le provviste del campo in città. Bruceremo i cadaveri appena questa maledetta pioggia smetterà di cadere».

I soldati si allontanarono, lasciando lui e Calida soli.

«Ora ne mancano “solo” quattro. Quelle quattro città laggiù» disse la Lusan, con un vago cenno del capo in direzione delle suddette «Credo che dovremo muoverci in fretta, lasciare nelle nostre città il numero di soldati indispensabile per difenderle, e attaccare in forze i nostri avversari il prima possibile. Se prima non erano troppo convinti dell’efficacia della nostra alleanza, quando sapranno cos’abbiamo appena fatto lo diventeranno sicuramente».

«Dovremo per forza lasciar passare del tempo, non possiamo partire all’attacco con dei soldati stanchi» obiettò Dolmer.

«Non a caso ho parlato di prenderne altri dalle nostre città. Io voglio lasciar passare al massimo una settimana, non di più, prima di muoverci».

«Cosa temi, Calida? Che quelle quattro città si sveglino e si alleino contro di noi?»

Calida fece spallucce. «Fino a qualche tempo fa anch’io avrei detto una cosa del genere con lo stesso tono. Poi però mi sono alleata con te e ti ho sposato».

“Eppure potrebbe non bastare…” pensò.

Le parole di Dolmer riguardo il futuro le ronzavano ancora in testa.
Pensando alle calde acque del lago di Vynumeer, al potere che si nascondeva sotto di esse, al prezzo che avrebbe dovuto pagare e ai miglioramenti della propria salute mentale, sperò di non dover mai, mai ricorrere a quei mezzi che aveva fatto di tutto per evitare.








Ciao a tutti! Problemi di vario genere mi hanno tenuta lontana da questa storia, alla cui fine mancano appena cinque o sei capitolo.
Ho aggiornato dopo un ritardo a dir poco epico, ma ce l'ho fatta.
I miei ringraziamenti più sentiti e sinceri vanno a coloro che si sono interessati al destino di questa storia durante la mia assenza: a chi mi ha chiesto notizie, a chi ha recensito nonostante sembrassi scomparsa dalle scene. Grazie.
Non ho nient'altro da dire, se non... a presto (;



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Capitolo 25
*** 25 ***


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25
 
 
 


 
 
 
 
 
 
 
L’aria che si respirava era tesa.
 
L’ultima e unica volta in cui i quattro Lusan presenti nella stanza circolare dalle pareti di nuda pietra erano riusciti a stare nello stesso posto e guardarsi negli occhi senza cercare di massacrarsi a vicenda era stata quella in cui il Trattato tra Città, quello che aveva sancito una tregua ormai morta e sepolta, era stato firmato.
 
I capi delle quattro città rimaste avevano ritenuto opportuno -con sommo rammarico- un incontro per decidere cosa fare contro Calida, Dolmer e relativi soldati. Se fosse stata una singola città a tentare l’assalto non si sarebbero riuniti, sicuramente non avrebbero neppure pensato di farlo, ma l’alleanza tra Ulthmeer e Kahzameer aveva scosso profondamente tutti quanti nella valle.
Gli abitanti delle due città coinvolte magari erano troppo impegnati a battagliare e gioire dei successi per rendersi veramente conto della portata di un simile evento, ma tutti gli altri erano rimasti attoniti, confusi, completamente impreparati.
C’era chi inizialmente si era perfino rifiutato di crederci, c’era chi invece non s’era mosso pensando che una simile assurda unione sarebbe durata meno di un fuoco di paglia; poi però Moriameer era caduta, Sarumeer -difficile da prendere al punto che loro credevano che sarebbe riuscita a far desistere gli alleati- anche, e se n’erano fatti una ragione: se qualcuno non avesse fermato Calida e Dolmer, sarebbero stati i prossimi.
 
«Dobbiamo massacrarli prima che ci massacrino loro» sentenziò uno dei capi, il più giovane tra loro, nero dalla testa ai piedi «Gli eserciti di due città, pur con l’aggiunta di prigionieri da mandare al macello in prima linea, non possono competere con un’armata doppiamente numerosa».
 
«Davachanut’yun yem, Artas» borbottò l’unica donna presente, mandando a quel paese il collega.
 
«Danae Luthmeer a-ghekavary, quest’idea non piace affatto nemmeno a me, però non vedo grandi alternative. A dirla tutta siamo stati stupidi a sperare che le cose si risolvessero da sole in nostro favore. Avremmo dovuto agire già dalla caduta di Moriameer, se non da prima ancora…»
 
«Thandrumeer è stata distrutta principalmente dalla frana della montagna. È stata Calida a provocarla, ma questo è un dettaglio. Abbiamo capito che era meglio lasciare in pace la città di Utlhmeer, ma ai tempi non c’erano le condizioni perché una devastazione del genere fosse ripetibile» disse il più vecchio tra i Lusan presenti «Ad ogni modo, l’alleanza tra Kahzameer e Ulthmeer è un abominio. Un qualcosa di innaturale, destinato a finire male. Voi tre, nessuno escluso, ai tempi avete fatto a Calida una proposta di matrimonio: devo ancora capire perché».
 
«Ma allora sei coglione, Larraz!» sbottò  il solo Lusan che fino a quel momento non aveva aperto bocca «Il “perché” che tu devi ancora capire è la precisa ragione perché ci siamo riuniti oggi! Credi che a me vada a genio l’idea di allearmi con persone che per anni ho considerato mie nemiche?! No! Ovvio che no! Preferirei staccarmi le dita a morsi! Ma per il bene della mia città mi sono messo una mano sulla coscienza, sono venuto qui e sono costretto ad appoggiare Artas. Dovremmo estirpare la piaga ora, prima che peggiori!»
 
«il fatto che la tua città sia quella più vicina a Sarumeer, e dunque la prima che verrebbe attaccata, non c’entra nulla… vero, Galel?» insinuò Danae, con un sorriso maligno sul volto rossiccio.
 
«Hai poco da ridere, dal momento che dopo la mia verrebbe la tua» ribatté il Lusan «E dopo la tua, quella di Larraz».
 
«Le città sono sempre state nemiche tra loro, è così che dev’essere ed è così che le cose devono rimanere» insistette quest’ultimo, incrociando davanti al petto le braccia candide «Se la pensate diversamente, è segno che voi “giovani” state perdendo il senno. L’unione di persone di città diverse porta disgrazia».
 
«Avresti dovuto spiegarlo a quella tua nipote che, se non erro, poco più di vent’anni fa rimase incinta di un Luthmeeriano che avevate catturato e fuggì con lui» disse Danae, aggiungendo una risata da iena «Quella storia mi fa ancora ridere il giusto, caro Beremeer a-ghekavary».
 
Fu con una velocità insospettabile che il vecchio Lusan dagli occhi azzurro scuro tirò fuori una cerbottana da sotto il mantello, soffiando contro Danae un dardo avvelenato che questa riuscì a evitare per pura fortuna.
 
«TI IMPICCO CON LE TUE STESSE BUDELLA, VECCHIO SCHIZZATO!» sbraitò la Lusan, sguainando la spada «Ti faccio ingoiare quella fottuta collana di perline di vetro, ti taglio le mani e te le infilo entrambe nel culo insieme alla cerbottana, hai capito?!»
 
«E dovrei allearmi con questi due?» sospirò Galel, sistemando pigramente le pieghe della casacca bianca come il suo pelo.
 
«Io sono ancora stupito del fatto che tu sia d’accordo con me riguardo il fatto di unirci tutti contro Dolmer e Calida» ammise Artas.
 
«Sono una persona più pratica di quel che credi. Per quel che mi riguarda dobbiamo attaccarli il prima possibile, senza perdere tempo a cercare di prenderli per fame come hanno fatto loro con quelli di Sarumeer. Anzi, non m’interessa neppure tenere in piedi quella città» aggiunse il Lusan «Anche se è un buon avamposto. Che i nostri cannoni tutti uniti la buttino giù, se serve a far fuori quei due prima che arrivino qui a divorarci gli occhi. A quel punto, di avamposti non ne serviranno più».
 
«Crepa, crepa, CREPA!» sbraitò Danae, cercando di infilzare Larraz -il quale si difendeva con un semplice bastone metallico appuntito- senza particolare successo.
 
«Danae, se non la fai finita ti avviso che io e il qui presente Galel potremmo decidere di attaccare insieme la tua città prima di dare addosso ai nostri nemici comuni!» la avvisò Artas.
 
«È stato questo vecchio stronzo decrepito a cominciare, non io!» sbottò la Lusan, spostando dal volto alcune ciocche dei capelli d’un biondo ingrigito dal tempo «Sentitemi bene: posso anche decidere di allearmi con voi a due condizioni. La prima è che mi lasciate dare il colpo di grazia a Calida. Almeno impara a rifiutarmi…»
 
«Alleanze tra città, proposte di celebrare un matrimonio che non porterebbe figli, ma dove siamo finiti?» borbottò Larraz.
 
«La seconda è che una volta finito con Calida e Dolmer mi lasciate attaccare in pace la città di questa cariatide che è Larraz, senza che voi tentiate di prendere la mia!» proseguì Danae, ignorandolo.
 
«Per la prima condizione non ci sono problemi, se ci riesci puoi tranquillamente ucciderla tu. Per la seconda, una volta che ci saremo occupati dei nostri nemici tutto tornerà com’è sempre stato, quindi personalmente non prometto alcunché» disse Galel «Devi accontentarti».
 
«Non è neppure detto che tu, a quel punto, sarai ancora abbastanza viva da poter cercare di prendere la mia città» fece notare Larraz a Danae «Sono abbastanza convinto che sarai la prima di noi a morire. Attacchi troppo impulsivamente».
 
«Parla quello che ha cercato di avvelenarmi con una cerbottana!» sbottò la Lusan.
 
«Senza che tu, nel vendicarti, riuscissi a sfiorare questo povero anziano che sono. Fa riflettere».
 
«Larraz, anche la tua città verrà attaccata. Non puoi riuscire a mettere da parte le tue convinzioni almeno per il bene della tua gente come faccio io, come ha fatto Galel?» insistette Artas «Rifiutarti di partecipare perché convinto a prescindere che “tanto non poterà a nulla di buono” non ha senso. Dobbiamo almeno tentare».
 
«Immagino di essere costretto ad accettare, in caso contrario mettereste in pratica sulla mia città quel che avete minacciato di fare a quella di Danae» disse il vecchio, con una buona dose di disprezzo nella voce «Ma quando tutto andrà a finire nel dolore, nel fuoco e nel sangue, perché la nostra unione non poterà a nulla di buono, ricordate che io vi avevo avvisati».
 
«Che Q’thulu maledica te e la tua lingua velenosa» ringhiò Danae «La situazione è già sgradevole senza che ti metta a portare iella, non ti pare?!... Galel, Artas, a quando l’attacco? Prima sbrighiamo questa faccenda, meno durerà la nostra alleanza».
 
«Io so di poter essere pronto ad attaccare Saurmeer già stasera al crepuscolo» affermò Galel «Se voi riusciste a prepararvi per quell’ora potremmo sbrigare la questione in fretta. In fin dei conti non c’è molto da pianificare, non trovate? Dobbiamo solo sfruttare la nostra potenza di fuoco congiunta per buttare già quella città e chiunque si trovi all’interno».
 
«Io e l’intera Gandameer, o quasi, ci saremo» annuì Artas.
 
«Io anche» disse Danae, rinfoderando la spada.
 
Larraz alzò gli occhi al soffitto. «Finirà male. Lo sento».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«Basta. Andrò a prendere i soldati “freschi” della mia città e della tua, che a te la cosa piaccia oppure no. Siamo due capi con pari disponibilità di forze e dobbiamo cercare di andare d’accordo, ma io mi sono stancata di quest’attesa inutile che dura da troppo tempo».
 
«Calida, sono solo sei giorni in p-»
 
«E noi avremmo dovuto attaccare la città più vicina già sei giorni fa. Era mia intenzione partire dopo una settimana, tu invece hai voluto per forza procrastinare».
 
Calida e Dolmer, come da piani, avevano occupato la città di Sarumeer.
Al momento si trovavano in quella che era stata la casa della loro defunta collega, strappata alla vita dalla pestilenza che loro avevano contribuito a creare, e quella che stavano facendo, illuminati dalla luce rossastra di un tramonto iniziato da un po’, non era la “chiacchierata” più tranquilla che avessero avuto da quando si erano sposati -tanto per usare un eufemismo.
 
«Ho ritenuto che servisse del tempo in più, sì» ribatté Dolmer «In poco tempo abbiamo devastato una città, ne abbiamo assediata un’altra respingendo le sortite dei suoi abitanti per poi assaltarla, e alcuni dei nostri uomini avevano contratto il morbo, quindi era necessario».
 
«Primo: a un certo punto gli abitanti di Sarumeer avevano smesso di fare sortite, dunque tempo per riposare c’è stato. Secondo: una settimana sarebbe bastata, specialmente perché ci sono anche altri soldati che avremmo potuto impiegare. Terzo: avevamo messo in conto che alcuni dei soldati più vecchi o meno in salute sarebbero stati a rischio, non c’è nulla di sorprendente. Abbiamo soltanto perso tempo».
 
Il Lusan scosse la testa. «Non la penso nello stesso modo e non rimpiango di aver aspettato un pochino di più. Se non ci hanno attaccati durante l’assedio-»
 
«Se non l’hanno fatto è stato perché evidentemente non riuscivano ancora a capacitarsi del tutto, e magari perché speravano che sarebbe andato tutto a rotoli» replicò Calida «Tuttavia non è andata così! Abbiamo preso Sarumeer, siamo praticamente alle porte delle loro città, se non tentassero qualcosa sarebbero completamente idioti».
 
 
 
“Tu sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi, Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
 
 
 
In quelle due settimane le erano spesso tornate in mente le parole di Rubedo, quel monito, quella sottospecie di profezia. “Tornerai a cercarmi”.
Tempo prima Dolmer le aveva fatto quel discorso riguardo il “dopo”, ma aveva creduto di essere riuscita a schiacciare la pulce che le aveva messo nell’orecchio. Si era sbagliata, e quelle due settimane di relativa inattività le avevano riportato alla mente Rubedo, Rubedo e le sue parole, Rubedo e il suo potere.
Rubedo e il suo patetismo completo.
Rubedo e l’idea dell’affrontare una possessione da parte sua.
 
“Anche se ora mi sento decisamente meglio, resta una pessima idea. Pessima!” si ripeté la donna.
 
«Devo ringraziare Q’thulu che tu non abbia tentato di convincermi minacciando di strapparmi gli occhi, immagino» disse Dolmer.
 
«Non ringraziare il tuo dio, ringrazia il mio buonsenso e il mio buongusto nell’evitare di fare minacce che non potrei mettere in pratica, o meglio, che non potrei mettere in pratica senza conseguenze» si corresse Calida, impassibile «Le alleanze hanno i loro pro e i loro contro».
 
«Se non ho accettato di partire non è stato per ostruzionismo fine a se stesso. Finora siamo riusciti ad andare piuttosto d’accordo, non potremmo continuare?»
 
«Continueremo ad andare d’accordo se partiremo quando sarò tornata con altri soldati. Tu finora hai accettato di seguire molti dei miei piani d’azione» riconobbe la Lusan «Motivo per cui tutto sommato ti sono venuta incontro, ma siamo in ritardo di quasi una settimana sulla mia tabella di marcia. È tempo di andare».
 
Dolmer restò in silenzio per qualche attimo, per poi fare un cenno di assenso. «Dovremmo attaccare questa sera stessa?»
 
«È quel che ho detto poco fa. Considerando che tutto è pronto da sei giorni, non resta altro da fare se non dare l’ordine. Io vado» concluse Calida, muovendosi a grandi passi in direzione dell’ingresso.
 
«Calida».
 
Sentendosi chiamare dal marito, lei si voltò. «Sì?»
 
«So che quel che sto per dire non c’entra nulla con il contesto, ma pensando a quel “tutto sommato ti sono venuta incontro” mi sono reso conto di non averti mai detto che questo matrimonio alla fin fine è meno peggio di quanto avessi pensato. Ammetto che mi ero immaginato un altro tipo di trattamento».
 
Calida sollevò un sopracciglio. «Cercavo un alleato, non un ulteriore problema. Tornerò presto. Fatti trovare pronto».
 
Dette quelle ultime frasi lapidarie prese congedo e, senza neppure curarsi di farsi affiancare da qualche soldato, uscì da Sarumeer per dirigersi a Ulthmeer.
Avrebbe potuto mandare qualcuno a portare il messaggio invece di muoversi personalmente, ma aveva preferito così, forse perché anche in un frangente del genere aveva sentito la necessità di trascorrere del tempo da sola, tempo che andare da Sarumeer a Ulthmeer le avrebbe concesso.
Gli impegni attuali gliene lasciavano poco, e gliene lasciavano ancor meno per andare a fare visita alla sola persona che avrebbe voluto vedere davvero.
Dall’assedio di Sarumeer in poi era riuscita a vedere Anise solo in un’occasione. Era già tanto così, Calida ne era consapevole -e se non altro grazie a quella visita aveva saputo che Anise, in quei giorni, non sarebbe stata sul pianeta- però era un po’dispiaciuta di non poterla vedere un po’di più adesso che la propria salute mentale era migliorata.
A tal proposito, se da un lato la fredda logica le imponeva di non credere alla stabilità di miglioramenti miracolosi, dall’altro lato non riusciva a soffocare la flebile -e comprensibile- speranza che quella condizione durasse davvero. Era da tempo ormai che non si trovava più a supplicare che quell’incubo avesse termine o a prendere in mano un pugnale col pensiero di porvi fine personalmente.
 
Mentre passava vicino a una piccola collina le parve di iniziare sentire del rumore di troppo, quello di un folto gruppo di persone ammassate, provenire da una certa distanza.
Non proveniva da Ulthmeer, non proveniva da Kahzameer; per un istante pensò che provenisse da Sarumeer ma concluse presto che no, era troppo lontano.
 
Corse in cima alla collinetta -da un punto leggermente più alto avrebbe visto meglio cosa stava accadendo- e, quando puntò lo sguardo in direzione delle quattro città che restavano da affrontare, si sentì gelare.
Al di fuori delle mura nemiche si stava radunando un’armata che, per gli standard della valle, era la più grande che si fosse mai vista. Un esercito che non poteva appartenere a una singola città, nemmeno a due: o erano tre armate molto numerose, o tutte e quattro le città, nessuna esclusa, si erano unite. Era facile immaginare chi fosse il loro bersaglio.
 
«Sarumeer» sibilò.
 
Strinse i pugni, poi lasciò ricadere mollemente le braccia lungo i fianchi, osservando la scena con aria cupa.
Lei e Dolmer avrebbero potuto gestire l’attacco di due città, forse con la giusta strategia e l’utilizzo di soldati più freschi - nonché di prigionieri di Moriameer costretti a combattere per loro- avrebbero potuto gestirne persino tre, ma affrontare con successo un esercito simile era impensabile.
Era una cosa che sapeva perfettamente, proprio come sapeva che lasciare Dolmer al proprio destino non avrebbe migliorato la propria situazione: una volta occupatisi di Sarumeer, gli eserciti nemici avrebbero attaccato anche la sua città e una Kahzameer i cui abitanti, privi del proprio capo, sarebbero diventati delle mine vaganti dal comportamento imprevedibile.
Anche cercare di aiutare Dolmer, tuttavia, non avrebbe portato a nulla. Avrebbe potuto irrompere nel campo di battaglia con i soldati che in teoria stava andando a prendere ma, considerando il terreno, la potenza messa in campo e il numero, non avrebbe ottenuto altro che una disfatta.
 
Proprio quando aveva iniziato a credere che una volta scesa a compromessi la realizzazione del suo sogno fosse possibile, proprio quando aveva iniziato davvero a immaginare di poter avere la valle nelle proprie mani, le sue peggiori previsioni si erano avverate.
 
“Se ci fossimo mossi prima, le città da affrontare sarebbero state al massimo tre” pensò “E avremmo avuto anche dei nuovi prigionieri da poter utilizzare in battaglia. Se ci fossimo mossi prima…
 
Era stato tutto inutile: il matrimonio, le conquiste fatte, tutto stava per andare in fumo indipendentemente dalla sua prossima mossa.
Contemplò l’idea di una fuga, provando ribrezzo per se stessa meno di un secondo dopo: non avrebbe ottenuto nulla se non una vita nel disonore più completo, per non parlare del fatto che avrebbero potuto farsi venire la brillante idea di cercarla nella foresta.
La stessa dove viveva Anise, che fino a quel momento era stata risparmiata grazie alla tregua, al fatto che la sua abitazione fosse tutto sommato ben nascosta e, forse, anche a un pizzico di fortuna. Vero, Anise era ancora fidanzata con Lord Beerus, ma tra loro due non andava più molto bene, non vivevano insieme, dunque non c’era nulla che le garantisse che lui, in caso di attacco, sarebbe stato lì per evitarle il peggio.
 
Fissando l’armata in lontananza, Calida emise un ringhio di frustrazione e disperazione.
Non c’era niente che potesse fare.
 
 
 
“Tu sei convinta del contrario, ma tornerai a cercarmi, Calida Ulthmeer a-ghekavary. Tornerai eccome”.
 
 
 
Sgranò gli occhi verdastri, mentre il cuore iniziava a battere con tanta violenza da risultare quasi fastidioso. Le era quasi sembrato di sentire veramente la voce di Kamandi/Rubedo nella testa, e ciò le aveva ricordato che definendosi del tutto impotente davanti al disastro mentiva, qualcosa che poteva fare c’era: correre nella foresta, andare a Vynumeer con il carrello, immergersi nel lago e andare a prendere quella maledetta corona.
 
«No. Non posso. Non voglio» scosse la testa «Non voglio condividere il mio cervello con qualcun altro, non adesso che sto meglio, non posso farlo, non voglio farlo! Mi sono sposata proprio per evitare questo, e adesso dovrei?!...»
 
“Tornerai a cercarmi”.
La profezia di quell’essere inutile e patetico, del cui potere però aveva bisogno, alla fine si era rivelata corretta.
Oltre alla corona non vedeva alternative, solo buio completo.
 
«Non voglio» sussurrò.
 
Pensò a Ulthmeer, la sua città, che aveva curato per anni e che sarebbe stata devastata; pensò a tutta la fatica fatta fino a quel momento, che non era stata poca e le aveva portato via del tempo che avrebbe potuto passare con Anise; pensò ad Anise stessa, alla quale poco importava di Ulthmeer e della valle, ma alla quale sicuramente importava di lei.
 
Calida rivolse lo sguardo verso la foresta.
Rubedo era un essere che era stato incorporeo per migliaia di anni, giusto? La sua salute mentale era migliorata, giusto? Non era detto che riuscisse a sopraffarla, non adesso.
Forse poteva farcela. Forse poteva accogliere nella propria testa un ospite indesiderato e riuscire a sfruttarlo senza pagare un prezzo troppo alto.
Del resto cos’altro avrebbe potuto fare? Se c’erano altre opzioni, non riusciva a trovarle.
 
Col cuore pesante, una morsa allo stomaco, paura e un barlume di speranza messi insieme, Calida iniziò una corsa sfrenata in direzione della foresta.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
L’istante in cui Dolmer aveva posato gli occhi sullo spiegamento di forze dei loro nemici, quello in cui aveva visto il gran numero di cannoni edi catapulte, aveva sentito su di sé tutto il peso di quello che sarebbe stato un massacro annunciato, del quale stavolta sarebbero stati lui e Calida a fare le spese. O meglio, lui e i soldati, perché Calida aveva deciso di andare a Ulthmeer per procurarsi i soldati, ciò poco prima di un attacco in forze di quattro città messe insieme.
Che caso fortuito! Che buona occasione per darsi alla macchia e lasciar massacrare tutti quanti loro!
 
“Hai veramente deciso di lasciarci al nostro destino? Pur sapendo benissimo che se qui e ora noi cadiamo tu sarai la prossima?!” pensò il Lusan, stringendo con forza l’elsa della spada.
 
Che Calida avesse sentito qualcosa, quel giorno?
Che fossero arrivate al suo orecchio voci che l’avevano avvertita di un’alleanza e avesse deciso di togliersi di torno per quella ragione?
Il dubbio era legittimo, anche se lui per primo non avrebbe mai detto che Calida fosse tipo da darsi alla fuga quando c’era da andare in battaglia, ma doveva ammettere a se stesso che quella non sarebbe stata una “battaglia”, quanto piuttosto una condanna a morte dovuta al suo essersi impuntato su ragioni che no, magari non erano sbagliate, ma si erano rivelate fonte di una perdita di tempo che stava per portarli alla rovina.
Era qualcosa di cui Dolmer era fin troppo cosciente, qualcosa di cui sentiva di essere colpevole. Era stato lui a insistere per far riposare i propri uomini nonostante Calida premesse per partire.
Non l’aveva forse avvertito, sua moglie, riguardo il fatto che le altre città avrebbero potuto decidere di imitarli, vedendo i loro successi?
 
I suoi uomini non meritavano l’abbandono da parte di Calida.
Lui, invece, era convinto di meritarlo totalmente.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
La corsa, il fatto di conoscere la foresta come il palmo della propria mano e la presenza del carrello le avevano permesso di raggiungere Vynumeer in un lasso di tempo abbastanza decente che in teoria avrebbe dovuto consentirle di tornare nella valle senza trovare Sarumeer completamente devastata… o così auspicava.
 
Il cielo stava diventando sempre meno rosso e sempre più violaceo, avvicinandosi man mano al crepuscolo vero e proprio. Nello sporgersi a osservare le acque del lago, in piedi sulla parte di riva che prima dell’hakai di Lord Beerus era stata coperta da un costone roccioso, Calida notò nei propri occhi un accenno di paura che era solo un briciolo di quella che provava in realtà.
 
“Non voglio!”
 
«Ma devo» borbottò.
 
Prese un bel respiro e, senza esitare oltre, si tuffò nel lago.
Sapeva dove avrebbe potuto trovare l’imboccatura del cunicolo e sapeva con precisione quanto questo era lungo: tempo addietro, Anise le aveva gentilmente disegnato una mappa piuttosto accurata.
Raggiunse il fondale e, ignorando tanto le alghe quanto il cumulo di resti di Lusan, riuscì a trovare rapidamente l’imboccatura del cunicolo.
La corsa fatta stava rendendo l’immersione ancor più difficoltosa di quanto fosse di suo, ma ormai era lì, e nella situazione in cui si trovavano lei, Dolmer e le città, morire nel tentativo di recuperare quella corona era meglio di arrendersi a prescindere.
 
Ricordò che Anise le aveva detto che il suo era stato solo un sogno, che non aveva incontrato veramente Rubedo. Calida non ci aveva creduto ai tempi, tantomeno voleva farlo adesso. Accantonò brutalmente quel pensiero.
 
Iniziò a risalire il cunicolo. Le rocce sporgenti e la mancanza d’aria, che nonostante l’allenamento iniziava a farsi sentire, la portarono in più occasioni a maledire qualunque dio, conosciuto di persona e non.
Nello scattare in avanti si ferì a una spalla e, pur non provando dolore, maledisse anche Rubedo e chi l’aveva imprigionato in un posto tanto difficile da raggiungere.
Andò ancora avanti. I suoi movimenti si stavano facendo sempre più lenti, l’ossigeno nei polmoni stava finendo e tenerlo al loro interno stava diventando difficile. Si impose di darsi una mossa, perché non poteva mancare tanto, non poteva cedere, non adesso che…
 
“Che” stava vedendo quella che doveva essere la luce generata dai licheni della caverna che stava cercando di raggiungere.
 
Iniziò a nuotare quasi con rabbia mentre sentiva i polmoni contrarsi, costringendola a espellere qualche bolla d’aria preziosa, ma non le importava: l’unica cosa che vedeva era la luce, sempre più vicina, anche se la visuale stava iniziando a essere inframezzata da attimi di buio completo; nella sua testa, un unico pensiero: “ci sono quasi, ci sono, ci sono!
 
Finalmente riemerse. Si aggrappò alla roccia con le unghie, strisciando su di essa come un lombrico, mentre sputacchiava acqua e riempiva d’aria i polmoni. Ce l’aveva fatta. Aveva raggiunto la caverna.
 
Si concesse un minuto intero per riprendersi un po’, poi si fece forza e si costrinse ad alzarsi in piedi. Il suo cervello aveva perfettamente chiare le prossime mosse, riusciva a immaginarle in modo talmente vivido da avere il dubbio di averle già fatte.
 
“Vieni, Calida. Vieni da me”.
 
Quel sussurro, di una voce familiare… probabilmente lo aveva sentito davvero.
Si avvicinò a quella che Anise aveva descritto -e disegnato- come “una roccia somigliante a una statua di Lusan rozzamente intagliata”.
Non era “somigliante”, era una statua rozzamente intagliata che, per Calida, mostrava chiaramente un Lusan con un solo braccio.
 
“Raggiungimi, Calida”.
 
La gigantesca Lusan poggiò le mani contro la statua e, chiamate a raccolta tutte le proprie forze, spinse. Riuscì a spostarla, non senza fatica, e trovò l’ingresso di un altro cunicolo.
Senza perdere tempo corse all’interno, e dopo pochi metri raggiunse la fine.
Vide lo scrigno, proprio come quello della leggenda, vide il lucchetto arrugginito e, preda di una frenesia incontrollabile, riuscì a strapparlo via a mani nude.
 
Aprì lo scrigno.
 
“Mi hai trovato!” bisbigliò Rubedo, ebbro di gioia.
 
Calida osservò la corona. Era davvero lì, davanti a lei, nera e appuntita, con pochi intarsi decorativi di colore azzurro scuro. La sfiorò con venerazione, pur sapendo che chi l’aveva indossata non era stato da venerare.
Il potere, la leggenda, i suoi sogni: erano tutti lì, radunati in quel monile.
 
NON VOGLIO!” si fece sentire nuovamente il suo cervello.
 
«Non voglio. Ma devo» ripeté ancora Calida.
 
“Oh sì che devi. Faremo grandi cose, noi due. Indossa la corona. Accoglimi. Riportami alla vita. Dammi un corpo e io ti darò il potere” mormorò Rubedo “Hai ritardato anche troppo, non credi?”
 
Calida indossò la corona, notando che era della misura perfetta per il proprio capo. Non sapendo bene cosa fare, chiuse gli occhi.
Non successe nulla.
 
“Non fare scherzi. Io ti ho liberato, io ti accolgo a malincuore nella mia mente e nel mio corpo… non fare scherzi, vecchio bastardo schifoso e storpio!” pensò.
 
Fu allora che la terra cominciò a tremare.
 
Quel che Calida riuscì a sentire fu, inizialmente, un sussulto appena percepibile. Come se aver indossato la corona avesse risvegliato una creatura che dormiva da tanto tempo, i cui battiti cardiaci, con la veglia, iniziavano ad accelerare.
 
Ben presto però il tremolio divenne forte, sempre più forte. Polvere e sassi iniziarono a cadere dalle pareti e dalla volta di quel cunicolo, mentre lo scrigno da cui aveva tirato fuori la corona, per colpa delle scosse, si chiuse di scatto come la tagliola di un cacciatore.
 
Gocce d’acqua provenienti dalla spaccatura che si stava rapidamente formando nella pietra sopra la testa di Calida provarono a bagnare la Lusan, circondata da un’aura nerastra dal particellare di un luminosissimo colore dorato.
Quelle gocce non arrivarono neppure a sfiorarla, evaporando miseramente a metà strada; come da quel momento in avanti era destinato a evaporare chiunque altro, e qualunque cosa, che provasse ad avvicinarsi senza il suo consenso.
 
Calida lo sentiva, il freddo metallo della corona attorno al suo capo, il potere puro che le pulsava nelle vene. Era grande, era immenso, smisurato al punto che in un certo momento, se lei avesse sofferto il dolore, le avrebbe procurato un male indicibile: lo sentiva spingere, come se il suo corpo non fosse stato sufficiente per contenerlo, come se volesse schizzare fuori dalla sua pelle, come l’acqua che stava cercando di penetrare con violenza in quel tunnel divenuto un reticolo di crepe in ogni sua parte.
 
Urlò. Un suono selvaggio, delirante, che segnò la distruzione definitiva delle pareti e della volta di pietra. Le acque ancora calde del lago di Vynumeer si riversarono con forza devastante all’interno del cunicolo, ondate feroci che cercarono di attaccare Calida dai lati, una cascata proveniente dall’alto che cercò di schiacciarla, mentre la sua pelle veniva gonfiata da protuberanze sottocutanee in continuo movimento, come l’interno del suo corpo fosse stato invaso da enormi scarafaggi.
 
La Lusan strinse i denti, strinse tanto i pugni da far sanguinare il palmo delle mani, mentre dalla profondità della sua gola risaliva un ringhio.
Quello era il potere cui aveva sempre anelato.
Quello era il momento in cui doveva dimostrare di essere in grado di sostenerlo.
Il ringhio si trasformò in un ruggito, e l’acqua che aveva cercato di investirla si trasformò in vapore.
 
Calida sollevò il capo, senza interrompere quel ruggito disumano che avrebbe distrutto le corde vocali di una creatura normale. Strinse i pugni ancor di più mentre il suo corpo cominciava a gonfiarsi, a ingrossarsi, diventando più mastodontico di quanto fosse mai stato. Le parve di sentire buona parte dei suoi vestiti strapparsi e, osservando le proprie mani con gli occhi ormai color cremisi, vide che sul suo manto decisamente scurito erano comparse striature e ghirigori dorati, brillanti, tanto da rendere il vapore di una luminosità accecante.
 
“Accettalo, Calida. Distruggi, Calida. Distruggi. Distruggi!” urlò Rubedo nella sua mente.
 
Calida, con la mente obnubilata dal nuovo potere e dall’impulso distruttivo che stava provando, serrò la mascella.
 
“No” pensò “Non ‘distruggi’…”
 
«Brucia» sentenziò, con voce cavernosa e ancor più mascolina di quanto già fosse.
 
“Brucia tutto, Calida! BRUCIA TUTTO!”
 
Il vapore era diventato talmente tanto da non riuscire a distinguere più nulla. La Lusan sollevò un braccio e, un istante dopo, una potente ondata di energia investì quel poco che restava della volta del cunicolo, distruggendola assieme all’acqua, assieme a ogni briciola d’ossigeno dell’aria che svelta era andata a occupare il vuoto lasciato da essa, mentre la terra continuava a tremare, continuava a rompersi, col fragore che sembrava il grido ultimo di un mostro in agonia.
 
Rendendosene conto a stento, Calida uscì volando dalla voragine che aveva creato, veloce come il proiettile di un hrat’san, di un fucile: il vapore, la sua mole, l’aura nera e oro che la circondava, tutto la identificava come un demonio vomitato fuori da chissà quale inferno -e tale descrizione non era lontana dalla realtà dei fatti.
 
La Lusan rimase immobile a mezz’aria, osservando i resti di quello che era stato il “villaggio maledetto”: tutti gli edifici presenti, nessuno escluso, erano crollati su loro stessi a causa del terremoto da lei provocato, il lago era ormai prosciugato, e le ossa dei Lusan erano state bruciate dal suo raggio energetico assieme alla terra.
 
BRUCIA TUTTO!” urlò nuovamente il suo cervello, con una voce che era un miscuglio della sua e quella di Rubedo “Tutto! TUTTO!
 
«Non tutto. Quasi» disse Calida, lentamente «Quasi».
 
Era difficile resistere al richiamo all’annientamento totale, quello di un odio puro che non sentiva suo e che le scorreva nelle vene ed era infuocato come magma, però doveva cercare di ritrovare il controllo, sebbene le grida di quella voce-miscuglio fossero diventate continue.
 
“Ora siamo una cosa sola. Ora tu e io siamo uno. Bruciali, Calida. Bruciali!”
 
Fece un respiro profondo, chiuse gli occhi, li riaprì.
Aveva il potere. Il potere di Rubedo era suo, proprio come nei suoi sfrenati sogni di bambina, di ragazzina e poi di adulta -almeno fino a quando lo aveva incontrato davvero.
Allargò le braccia, abbassò lo sguardo. Sì, i vestiti si erano decisamente rotti, ma non importava: che tutti potessero vedere quel corpo! Era o non era Potere incarnato?!
Sempre restando a mezz’aria fece un breve giro su se stessa. Nonostante il trauma iniziale si stava trovando a proprio agio, come se fosse nata per essere così, come se avesse trovato una parte mancante di sé e l’avesse spinta con forza nel posto che le competeva. Parte del merito era della voce-miscuglio che urlava ancora ma che, al contempo, stava facendo venire a galla tutte le informazioni che servivano sull’utilizzo di quella grande, immensa potenza.
 
Atagash, l’alieno che Rubedo aveva fuso con se stesso, potenziava in base al livello di malvagità chi ne veniva posseduto.
Rubedo era stato un mago malvagio, ed era diventato potente… ma lei era Calida Delle Croci Infuocate.
 
Socchiuse gli occhi, concentrò l’udito e sentì distintamente il rumore della battaglia che si stava svolgendo a Sarumeer.
Nel silenzio di tomba che regnava a Vynumeer -quel che ne rimaneva- Calida esplose in una risata gutturale.
Era tempo di mostrare ai nemici di Ulthmeer, i suoi nemici, che Q’thulu non era più il dio cui dovevano adorazione e suppliche.
 
 
 
***
 
 
 
 
La doppia cinta muraria di Sarumeer, bersagliata dai cannoni delle armate di ben quattro città, aveva ben presto ceduto, e il fossato non avrebbe tenuto lontani gli aggressori.
 
«Hogevor Dolmer, che facciamo?!» gridò uno dei suoi ufficiali «Sono troppi!»
 
“Che facciamo?”
 
Buona domanda. Non c’era molta scelta tra morire, morire o, magari, morire. I colpi dei cannoni e le palle di pece infuocata, dopo essersi occupati delle mura, stavano distruggendo il resto; quello stesso edificio, quello in cui si trovava in quel momento, era stato parzialmente sfondato da una cannonata che per puro miracolo non lo aveva colpito.
 
«Dov’è la Hogevor Calida?!»
 
Altra buona domanda.
 
« Hogevor Dolmer!...»
 
«Quanto al cosa facciamo, c’è solo un’opzione: vendiamo cara la pelle e portiamo all’inferno con noi quanti più possibile di quei bastardi! Calida dal canto suo dovrebbe essere ancora a Ulthmeer, ma tornerà» mentì il Lusan, non volendo che i soldati si demoralizzassero anche per quello e combattessero con meno foga «Alle armi!» urlò, uscendo fuori dall’edificio «Alle...»
 
Il secondo urlo gli morì in gola: nonostante il crepuscolo, l’altezza cui era stato costruito l’edificio e l’ubicazione dell’ingresso gli stavano permettendo di vedere molto chiaramente delle volute di fumo -o altro?- sollevarsi dal punto in cui si trovava Vynumeer, il villaggio maledetto.
 
«Che sta succedendo, adesso?!» esclamò, sgranando gli occhi dorati nel notare in aria una creatura luminescente in rapidissimo avvicinamento.
 
Sapeva che in teoria avrebbe dovuto preoccuparsi più della battaglia in corso, eppure quella cosa strana sotto i suoi occhi gli stava causando una terribile stretta allo stomaco, e un’ altrettanto terribile voglia di mettersi a pregare Q’thulu, più di quanto stesse già facendo- mentalmente- per la propria sorte e quella dei suoi uomini.
Soprattutto quando iniziò ad avvertire la strada lastricata di pietre sussultare sotto i propri piedi.
 
«Hogevor Dolmer, che succede ora?!» gridò uno dei suoi uomini, terrorizzato.
 
La sola memoria che i Lusan avessero del terremoto era relegata in libri che pochi di loro si erano degnati di leggere, motivo per cui quel fenomeno mandò tutti quanti in confusione, tanto gli attaccanti, quanto gli attaccati.
 
«N-non…» balbettò il Lusan, avvertendo distintamente l’aria farsi sempre più elettrica man mano che l’essere luminescente si avvicinava; un individuo di cui ora, grazie alla vista estremamente acuta che caratterizzava la sua specie, Dolmer riusciva a distinguere vagamente le fattezze, notando con suo sommo sconcerto che somigliavano a quelle di un Lusan.
 
“Tu e i nostri uomini rientrate negli edifici che sono ancora in piedi”.
 
Nel ricevere quell’ordine mentale conciso e perentorio, Dolmer sibilò di dolore, spalancando la bocca per la sorpresa. Aveva riconosciuto immediatamente la voce di sua moglie. «C-Cal...»
 
“Dolmer. Adesso”.
 
Per un brevissimo istante pensò a un’allucinazione di qualche genere, ma quando sentì il pelo rizzarsi su tutto il corpo, quando sottili saette di colore dorato iniziarono a crepitare nel cielo e le macerie più leggere iniziarono a volare in aria attratte dalla forza invisibile e indicibile che tutti loro stavano avvertendo chiaramente, la sua lingua si mosse da sola.
 
«RIENTRATE!» urlò, con tutto il fiato che aveva in gola «Entrate negli edifici che sono ancora in piedi e riparatevi sotto qualcosa! RIENTRATE SUBITO!»
 
I soldati, percependo quel che lui percepiva, vedendo quel che lui vedeva, non esitarono a spargere l’ordine e obbedire, ormai incuranti di nemici che avevano fermato la loro avanzata e la loro opera distruttiva, presi da qualcosa che non riuscivano a spiegarsi e di cui provavano un terrore viscerale.
 
Un “qualcosa” che ormai era sopra le loro teste, temporaneamente coperto da una nuvola scura che però venne prontamente spazzata via.
 
«Cosa cazzo è?!» riuscì a dire Danae, capo di Luthmeer, con gli occhi violacei rivolti verso il cielo.
 
Dolmer, pur avendo obbedito agli ordini, aveva dato retta al desiderio di osservare a sua volta quanto stava accadendo e quanto sarebbe accaduto.
Stringendo in maniera quasi convulsa il davanzale in legno della finestra, non riusciva a smettere di fissare quella che, pur essendo quasi irriconoscibile, era sempre sua moglie.
Calida Ulthmeer a-ghekavary, diventata un essere mastodontico vomitato dal baratro infernale che avrebbe potuto essere la bocca di Q’thulu stesso; i vestiti strappati, i capelli allungati, gli occhi rossi come il fuoco, il corpo percorso da linee e segni simili a rune che sembravano quasi il ritratto vivente di una maledizione.
 
«Come?…» sussurrò, cercando di contenere un’ondata di panico puro che minacciava di travolgerlo.
 
“Te lo dico dopo”.
 
Quelle furono le ultime parole che Calida, in quell’occasione, rivolse al marito.
 
Abbassò lo sguardo sui quattro eserciti nemici.
Com’era riuscita a trovarli “problematici”? Non lo ricordava più. Erano moscerini, formiche, insetti non meglio definiti per i quali essere uccisi da lei in persona non sarebbe stato altro che un onore immeritato.
Perché aveva parlato con quel Lusan, con quel… come si chiamava? Dolmer, sì, Dolmer. Perché lo aveva fatto? Non c’era la necessità. Non sarebbe stato una delle sue vittime ma non sarebbe stato nulla più di un adoratore senza importanza.
 
«Sottomettetevi o morite» fu tutto quel che disse loro, in un impeto di strana magnanimità nel concedere loro una scelta.
 
«Muori tu, orrendo abominio!» urlò Larraz, il vecchio Beremeer a-ghekavary «Perché state tutti immobili?! Colpite quel mostro con tutto quello che abbiamo! TEINE! Fuoco!»
 
Riscossi dall’immobilità cui la paura li aveva intrappolati, le quattro armate -nessun componente escluso- presero alla lettera l’ordine di Larraz.
La terra sussultava ancora, i fulmini continuavano a squarciare il cielo, il mostro stava ghignando, ma tutto ciò non li avrebbe fermati: il clamore delle loro urla di battaglia tornò a riecheggiare nella valle, la rabbia atavica e la voglia di massacro derivati proprio dalla maledizione del nuovo nemico -o meglio, di parte di esso- risorsero, impetuose più di prima.
 
«Cannoni! Teine!» urlò Artas, in contemporanea con Galel che aveva dato alle catapulte l’ordine di fare fuoco e a Danae, la quale aveva ringhiato agli arcieri di infilzare “quella roba”.
 
Una pioggia di palle di cannone, di frecce e di pece infuocata si riversò addosso a Calida, le cui fauci si snudarono in un ghigno ancor più largo e feroce, mentre l’aura nera e oro che la circondava si estendeva, disintegrando tutto ciò che i quattro eserciti le avevano lanciato contro.
 
«Non funziona! Non funziona!» urlò Galel, nuovamente terrorizzato.
 
Calida inclinò leggermente il capo in direzione delle città degli insetti.
Non avevano compreso.
Lo avrebbero fatto molto presto.
 
BRUCIA TUTTO!” urlò Rubedo, nel cervello di Calida.
 
Allargò le braccia, i Lusan poterono sentire distintamente una quantità immensa di energia sfiorarli, senza toccarli perché non erano loro il bersaglio.
Due boati e le due città nemiche più vicine a Sarumeer esplosero, creando enormi colonne di fuoco che tinsero le nuvole di rosso, di giallo, di nero fumo. Altri due boati, e le altre due città rimaste subirono lo stesso destino.
“Sottomettetevi o morite”.
Loro avevano scelto.
 
Vide in lontananza spauriti gruppetti di Lusan che per qualche miracolo erano riusciti ad abbandonare le loro città e a scappare in tutta fretta, ma li risparmiò: in fin dei conti poteva anche lasciare in vita qualche futuro adoratore e schiavo, oltre a quelli che aveva già.
 
«L-le città!... l-le...» farfugliò Danae, col riflesso del fuoco impresso negli occhi e nella mente «Tu…» rivolse lo sguardo al mostro «Continuate a colpirlo! CONTINUATE!» sbraitò, indicando Calida «Ha distrutto le nostre città, facciamolo fuori!»
 
Pur avendo capito perfettamente quanto fosse inutile, i Lusan della valle non intendevano deporre le armi prima di aver vendicato le loro case, i loro familiari, le vite perdute e che avrebbero perso.
 
Loro erano così, pensò Calida. Anche lei era stata così, fino a poco tempo prima -un tempo che nella sua attuale forma le sembrava una vita fa.
Ignorando i nuovi attacchi degli insetti, diede ascolto a una parte del suo cervello che le stava sussurrando qualcosa con una certa urgenza.
 
Mèin a-aryun”.
 
«“Musa di sangue”» disse con lentezza.
 
Aveva una mèin a-aryun, una musa di sangue?
 
“Non dimenticarla”.
 
Musa di sangue.
L’immagine di una giovane lince dai capelli argentati si affacciò con forza nella sua mente.
Musa di sangue, Anise, sua sorella.
 
«Anise» mormorò.
 
“Non dimenticarla mai”.
 
«No. Mai» promise a se stessa, mentre gli “insetti” sotto di lei tornavano ad avere un nome e delle identità che avrebbero mantenuto ancora per poco.
 
Il nero dell’aura sprigionata da Calida inghiottì buona parte del particellare dorato, la terra tremò ancora più forte, tanto che svariati Lusan caddero perfino a terra.
Da un momento all’altro un numero indefinito di squarci si aprì sotto i piedi dei soldati delle quattro armate, senza che questi riuscissero a cadervi dentro: come ferite infette che scernevano pus caldo e maleodorante, quelle spaccature nel terreno avevano iniziato a grondare una sostanza nera e viscosa, che ribollendo e muovendosi in un modo tale da far sospettare che fosse senziente stava inglobando dentro di sé chiunque le capitasse a tiro, senza far salvo nessuno, soprattutto i capi delle quattro città.
 
«GALEL!» gridò Artas, invischiato in quella sostanza mortale, al collega «Galel aiut-»
 
Non terminò mai quella richiesta disperata: tutto ciò che Galel riuscì a sentire fu un verso soffocato, e tutto quel che riuscì a vedere fu la marea nera che, nell’ultimo tentativo che Artas stava facendo per uscirne, si tendeva al punto da lasciar scorgere la protuberanza del naso del Lusan, le braccia e le mani disperatamente tese, il buco nero della sua bocca spalancata dall’orrore.
Una visione che lo avrebbe perseguitato nei suoi peggiori incubi da lì in poi, in tutte le notti che sarebbero venute, se un secondo dopo non fosse stato inglobato a sua volta; così come Danae, Luthmeer a-ghekavary, presa dopo un’ultima imprecazione.
Larraz, il vecchio Beremeer a-ghekavary, fu il solo che non provò neppure a tentare di fuggire dalla Disgrazia -così chiamava la marea nera. Rivolgendo gli occhi azzurro scuro verso l’alto, verso il mostro, prima di venire inghiottito disse solo una cosa: “Io lo avevo detto, che sarebbe finita male”.
 
La marea nera continuò impietosa a mietere vittime, a incorporare tutto dentro di sé. Armi, Lusan, qualunque cosa: non c’era nulla che quella roba risparmiasse, il tutto sotto lo sguardo soddisfatto di colei che l’aveva evocata e osservava i propri nemici venire inghiottiti, morire, urlare suppliche a divinità meno concrete di lei che non li avrebbero mai ascoltati.
 
Quando la Disgrazia ebbe preso tutti, Calida sollevò una mano in aria e voltò in direzione delle quattro città che stavano ancora bruciando.
 
Quella parte di valle devastata iniziò a gonfiarsi, poi si ruppe, trafitta da quattro punte di pietra che iniziarono a crescere verso l’alto, divenendo man mano ampi pilastri che compensarono lo spazio che c’era tra loro andando a fondersi uno con l’altro e creando quella che sarebbe diventata la base di un immenso palazzo di roccia dura.
Dalla base si originò un gran numero di nuove punte, che si lanciarono anch’esse verso l’alto come a voler trafiggere una luna che non potevano vedere, intrecciandosi tra loro e creando una miriade di torri relativamente piccole che ne circondavano un’altra immensa, centrale.
La marea nera che aveva inghiottito i suoi nemici schizzò in alto e, come un mantello nero e vivo, andò schiantarsi e a spalmarsi lungo tutta la base del palazzo appena creato, ricoprendola interamente di e dei Lusan che aveva inghiottito, solidificandosi e solidificando anche loro in “statue” fatte di cadaveri dalle pose grottesche e dai volti, appena accennati, condannati a un’espressione eternamente orripilata.
 
Calida atterrò in cima alla torre centrale e mosse qualche passo avanti, lasciando crescere una passerella sotto i propri piedi nudi, pensando che ormai la sua nuova casa fosse completa, perfetta.
 
“Quelle cimici nascoste a Sarumeer. Uccidi anche loro!” urlò la voce di Rubedo nel suo cervello “E poi passa al resto del pianeta! Al resto del sistema solare! Divora la galassia!”
 
Fece violenza su se stessa e lo ignorò, pur sentendo le tempie pulsare.
Potere.
Nemici annientati.
Palazzo.
La valle, finalmente sua.
Rise, la sua aura circondò l’intero palazzo e illuminò il cielo.
 
Dolmer, vivo e vegeto ma immobile come i Lusan che erano diventati pure e semplice decorazioni, si ostinò a rivolgere l’ennesima sentita preghiera a Q’thulu.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il capitolo è lungo, il caldo abissale: sembrava impossibile ma ce l’ho fatta. Nel prossimo capitolo torneranno Anise e Beerus!
A voi eventuali commenti, io mi limito a lasciarvi dei disegni, uno qui, uno in fondo al primo capitolo in cui Dolmer compare (il 23). A presto!
 



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