Ode a un artista

di istherelifeonmars
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. La pista di biglie ***
Capitolo 2: *** II. Occhiali da sole rossi ***
Capitolo 3: *** III. Il microfono e la folla ***



Capitolo 1
*** I. La pista di biglie ***


 

Someone turn me around
Can I start this again?
Now someone turn us around
Can we start this again?

We've all been changed from what we were
Our broken hearts left smashed off the floor
I can't believe you
If I can't hear you
I can't believe you
If I can't hear you

-Smokers outside hospital doors, The Editors


 

A tutti i Danny del mondo

 


Ode a un artista

I. La pista di biglie




 

"Danny era uno un bambino diverso, a scuola l’avevano capito tutti.
In cortile non giocava mai con gli altri, si sedeva piuttosto sui gradini che precedevano l’entrata e iniziava a disegnare appoggiando un foglio stropicciato sulle ginocchia minute, mentre tutti gli altri si rincorrevano tra risa generali. Sul suo viso si dipingeva un’espressione concentrata e, addirittura, gli si formava una ruga tra le sopracciglia folte e nere, come se fosse corrucciato. Gli altri bambini lo sentivano che lui era uno diverso: non avevano motivo di odiarlo ed eppure gli stavano sempre lontani, lo guardavano d’obliquo, curiosi, quando erano sicuri di non essere visti. Era come se ci fosse una barriera tra Danny e gli altri: era possibile guardarvi attraverso ma mai, mai andare oltre.
E a tutti andava bene così.
Anche a me, a dire il vero.
Danny mangiava da solo, al tavolo della mensa. La nostra scuola era piccola e vecchia: quando qualcosa non funzionava non era raro che venisse riparato maldestramente da mani inesperte, e dunque il nostro refettorio contava tanti posti quanti ne servivano – non un in più, non uno in meno. Danny era dunque costretto a sedere a un tavolo con gli altri, probabilmente perché non aveva altra scelta, eppure sembrava sempre mangiare da solo. Teneva sempre lo sguardo rivolto verso le finestre a Est, dove di solito il cielo brillava azzurrino. Osservava gli alberi di primavera fiorire lentamente e tornare verdi, d’autunno li guardava tramutarsi in ammassi di foglie rosse, fino a diventare scheletri di ciò che erano stati.
Parlava poco, e il minimo necessario, ma gli piaceva scrivere. Aveva quella grafia grossolana e tondeggiante tipica degli altri bambini e per quanti errori potesse commettere, perseverava nel riempire i suoi quaderni di storie. Nessuno sapeva di che tipo di storie si trattasse, ma ogni tanto ci si lasciava andare in mirabolanti ipotesi: racconti di draghi, di streghe e stregoni, racconti di alieni, navicelle spaziali e mostri terrificanti. Tutt’ora, devo ammettere, non ne conosco il contenuto. E forse, negli ultimi quarant’anni, nessuno l’ha mai conosciuto. Solo Danny, sempre solo Danny.
A volte mi chiedo che svolta avrebbe preso la mia vita se quel giorno del settembre del '56 non mi fossi fermato a parlare con lui, me lo chiedo spesso, a essere onesti. Forse non sarebbe cambiato nulla: la mia vita non sarebbe stata modificata assolutamente da un evento del genere, avrei comunque sposato Lucy e avrei comunque avuto due figlie, avrei continuato a vivere a Brighton come faccio ora senza particolari ripercussioni. E sì, forse se non gli avessi parlato sarebbe stato senz’altro così; ma c’è una cosa che gli devo dare: la sua esistenza ha cambiato molto il mio modo di pensare e forse mi ha reso più consapevole. Della nostra importanza nel mondo. Consapevole della nostra importanza nel mondo.
Questa è la nostra storia.


Giocavo spesso a biglie. Da quando ci eravamo trasferiti a Brighton in una villetta completa di cortile avevo iniziato a utilizzare il terreno brullo che avrebbe dovuto essere stato adibito all’orto – ma mia madre non ebbe mai tempo di curarlo – come mia pista personale. All’inizio, prima che mia madre appunto perdesse qualsiasi interesse in quel pezzettino di terra, riuscivo a essere rimproverato quasi costantemente: rovinavo la sua insalata e i suoi pomodori con i cunicoli che costruivo. Eppure non demordevo, mi piaceva giocare lì, anche se all’inizio ero spesso da solo: passare almeno un’ora del mio pomeriggio in quell’angolino del cortile era diventato il mio rituale personale. Quando presi a frequentare la scuola qualche settimana dopo e mi feci qualche amicizia, iniziai a invitare i miei compagni.
La mia vita era piena, non saprei come spiegarlo in altro modo: vivevo felicemente con i miei genitori, due persone assolutamente amabili e pacate, dal trasferimento mio padre trovò un lavoro redditizio presso una fabbrica di pneumatici e mia madre iniziò a frequentare il club di golf del quartiere – tutto quello che una coppia borghese poteva chiedere, nei cari e vecchi anni Cinquanta. Pochi anni dopo sarebbe addirittura nato anche mio fratello Irvin. A scuola ero circondato da altri bambini, tutti dello stesso vicinato e quando l’ultima campanella suonava schizzavamo tutti via per andare a giocare tra le strade. È questo che intendo con piena: sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui stare, mai un momento per sedere e riflettere.
Danny entrò in quella mia vita piena silenziosamente, a piccoli passi, e ci rimase per sempre. Ricordo che quel giorno avevo invitato a casa Henry Cunningham, ma lui si era ritirato all’ultimo momento per un’influenza. Sentendomi tradito ero tornato nella mia pista delle biglie, quel luogo che era sempre stato mio e solo mio: nessuno dei miei amici vi aveva mai messo pieno. Dopo qualche momento di sconforto, come spesso capita per i bambini, mi ero subito ripreso: stavo allegramente giocando da solo quando, alzando gli occhi, notai che qualcuno mi stava osservando dall’altra parte della staccionata che limitava il nostro cortile. Doveva essersi messo in punta di piedi per riuscire a superarla, allora Danny era piuttosto basso, e proiettava un’ombra che mi schermava dal rassicurante sole di Marzo. I capelli scuri erano arruffati ed era tutto sporco: dalla fronte alle punte delle dita.
Mi guardava e basta, con quell’espressione di concentrazione quasi adulta sul viso.
Anche io lo studiai per qualche istante, un po’ diffidente – in sei mesi non gli avevo mai parlato, ma sapevo bene chi fosse. Nonostante ciò, gli domandai chi fosse e che cosa pensava di fare lì, spiandomi.
«Mi piace la tua pista.» rispose semplicemente «Ha la forma di un occhio.»
Aveva già allora un modo strano di parlare, io di certo non saprei replicarlo: sembrava che ponderasse ogni parola e che a tempo stesso dicesse tutto ciò che gli passava per la mente. A sentirlo dire ciò, comunque, mi accigliai, la mia pista non aveva la forma di un occhio. Quando glielo feci notare lui persistette nella sua convinzione, mi disse di alzarmi e di guardarla dalla sua angolazione. Era vero, Danny aveva ragione, sembrava proprio un occhio spalancato con la pupilla dilatata. Era una cosa a cui avrei presto fatto abitudine: dall’angolazione di Danny le cose erano sempre diverse.
Fu allora che iniziammo a giocare a biglie insieme, lui perse, perse diverse volte, ma a differenza di ciò che avrebbe fatto Henry lui mantenne una calma onorevole, poche volte si mostrò crucciato. Fui contento di vincere, ma la sua reazione minò comunque la mia vittoria, ne tolse l’esclusività e la gloria. Era quasi pomeriggio e le nostre ombre si erano fatte oblunghe mentre il cemento del cortile iniziava a tingersi di arancione. Allora, mentre se ne stava per tornare a casa – viveva a qualche villetta di distanza dalla mia – racimolai un po’ di coraggio e gli chiesi perché fosse conciato così, tutto sporco, i vestiti ridotti quasi in stracci e i capelli scompigliati. Mi guardò con uno sguardo malinconico, nonostante il suo viso fosse rimasto neutrale: «Dei ragazzi più grandi mi hanno rincorso per picchiarmi.» dichiarò con struggente semplicità.
Ne fui quasi sorpreso, tutti sapevamo che Danny era diverso, ma a scuola vigeva la silenziosa regola secondo cui nessuno doveva prenderlo in giro o fargli del male. Del resto era un bambino innocuo, solo molto più solitario di tanti altri.
Qualche giorno dopo avrei appreso chi fosse stato.

 

Danny correva veloce, questo lo scoprii durante le lezioni di educazione fisica. Si muoveva così in fretta ed era così piccolo che avrebbe potuto superare anche i bambini più agili, che di solito durante giochi come guardie e ladri erano i primi a prendere gli altri. Quando correva teneva sempre quell’espressione concentrata, a volte era così assorto da mordersi le labbra sottili fino a farle sbiancare. Quando il giorno dopo lo vidi così, a librarsi per le mura basse e pregne di umidità della palestra, mi sembrò un uccello pronto a librarsi nel cielo, intrappolato però in un ambiente angusto, non adatto a lui. Non mi sorpresi che Danny fosse riuscito a seminare i ragazzi cui aveva accennato senza procurarsi nessun danno. Ero ancora curioso riguardo la questione, ma nell’orario scolastico non dissi né feci nulla che potesse far trapelare il mio interesse nei suoi confronti, l’idea che gli altri mi vedessero parlare con lui mi metteva a disagio, in qualche modo. Pazientai, dunque, e, seduto accanto a Henry Cunningham su una pila di materassi accatastati in un angolo, fingevo di discutere di calcio mentre di tanto in tanto, sistematicamente, gli lanciavo un’occhiata di sottecchi.
Al ritorno verso casa fremevo per poter tornare alla mia pista da biglie, sperando di incontrare di nuovo Danny lì – di fatto non ci eravamo prefissati di giocare di nuovo, ma io me ne ero quasi convinto. Con una scusa attraversai di fretta il nostro quartiere, sentendo alle spalle le risate dei miei amici, villetta dopo villetta, giardino dopo giardino, per poi sgusciare nella porta di casa e consumare il pranzo velocemente, ben consapevole degli sguardi di disapprovazione che mia madre mi lanciava mentre ingollavo bocconi enormi di porridge. Ora che torno indietro con la memoria capisco che cosa vidi in Danny che negli altri non vedevo: allora lui era una scoperta, qualcosa di completamente nuovo con cui io avevo a che fare. Non era come gli adulti – impegnati a discutere sempre di politica, denaro o nuove ricette – ma nemmeno come gli altri bambini: stonava con l’ambiente in cui vivevamo. Stonava con tutto. Ha sempre stonato. Per il ragazzetto curioso che ero allora lui era una benedizione: un nuovo mondo da esplorare, questa volta per davvero.
Alle quattro del pomeriggio Danny si appoggiò alla staccionata, questa volta in condizioni migliori delle precedenti, evidentemente anche lui aveva visto qualcosa in me – ancora oggi mi chiedo che cosa – ed aveva deciso di tornare. Ero felice.
Giocammo per una buona ora, questa volta ero più rilassato e mi lasciai andare in qualche buffa battuta e lo vidi ridere di sottecchi, mentre cercava di spingere la biglia sotto un tunnel o su un ponte. Dopo un po’ iniziammo a parlare, dimenticandoci della gara in corso. Danny sedeva a gambe incrociate, i pantaloni marroni a contatto con il terreno e la maglia esageratamente larga che formava pieghe ovunque. Lui parlava poco e io compensavo per entrambi, gli raccontavo dei miei e di quanto fossero simpatici i miei amici – quelli nuovi a Brighton e quelli che mi ero fatto a Londra, a cui ancora mandavo qualche disegno di tanto in tanto. Continuavo a girare attorno al vero motivo della mia curiosità, volevo sapere chi volesse picchiare uno come Danny. Un bambino.
D’un tratto sbottai la domanda senza dargli il tempo di processare: «Chi era che ce l’aveva con te, ieri?»
Lui rimase in silenzio, trapassandomi con lo sguardo. Poi parlò: «Dei ragazzi delle medie, se non scappi abbastanza veloce picchiano forte, sono alti e grossi
Rabbrividii come se stessi sentendo una storia del terrore: avevo ben presente il genere e tutti ne avevamo un timore reverenziale. Tornando indietro mi viene da sorridere: erano esattamente bambini come noi, forse solo un po’ più alti e con una maggiore smania di comportarsi da adulti. Quando gli domandai, comunque, il perché lo avessero preso di mira lui si rabbuiò – e mi fece rizzare i peli sulla nuca, mai avevo visto dipingersi una tale espressione su qualcuno di quell’età – e dopo una pausa si decise a non rispondere. Disse di non saperlo. Poco dopo, eccolo che scavalcava la staccionata e correva via, verso casa sua.
Tutt’ora credo che ci siano momenti che sanciscono amicizie: due si possono conoscere da dieci e più anni ma se non capita loro quel tipo di momento, allora non saranno davvero mai amici. A me e Danny capitò quasi subito, dopo due settimane di incontri quotidiani alla pista di biglie. Un giorno che tornavamo a casa da scuola – lui più avanti, io me ne stavo indietro, a parlare con i miei compagni – vidi delle bici sfrecciare per il viale alberato sul quale si affacciavano le nostre case. Erano quelli più grandi, quelli che, a quanto avevo capito, erano coloro che avevano continuato a dare fastidio a Danny durante gli ultimi due mesi. Inizialmente lui non si turbò, continuò imperterrito a camminare mentre quelli gli urlavano parole che io non capivo ma mi parevano oscene. Mi sentivo male, così male per lui, eppure non ebbi il coraggio di fare nulla se non trascinare i piedi avanti mentre gli altri chiacchieravano dell’imminente gita in spiaggia organizzata dal comitato genitori. Quando rimasi da solo trovai il coraggio di fare qualcosa, finalmente, e allora accelerai il passo e mi affiancai a Danny, attorno a cui i ragazzi più grandi avevano iniziato a girare come avvoltoi in attesa di un pasto - gli sbraitavano contro parole strane, che allora io non comprendevo, ma che mi mettevano addosso un senso di disagio. Qualcuno di loro mi rivolse un’occhiata perplessa, ma prima che potessero parlare, o cercare di aggredire anche me, presi Danny per il polso e gli dissi che poteva pranzare a casa mia, ormai distante pochi passi.
Ancora ricordo lo sguardo che mi rivolse, pieno di sbalordita gratitudine.


Iniziò così, senza che nessuno lo volesse per davvero. Iniziò con noi due che sedevamo al tavolo di casa pronti a mangiare il pranzo, mentre mia madre, da dietro la rivista di cucito, ogni tanto ci domandava come fosse andata a scuola. Anche lei, nel corso dei mesi, rimase affascinata e spaventata dalla figura di Danny – che quando prese confidenza iniziò a parlare sempre di più. Scoprimmo che per un bambino di sette anni aveva moltissime cose da dire: raccontava principalmente storie, improvvisava colpi di scena e creava grazie al solo ausilio della sua immaginazione i personaggi più strani. Quando giocavamo a biglie mi piaceva stare a sentirlo parlare e perdermi in quei mondi che condivideva con me. Solo con me, mi faceva sentire speciale: l’unico su tutta la superficie terrestre ad affacciarsi alla finestra della mente di uno come Danny
Non mi dilungherò molto su questo periodo, ma con gli anni mi sono spinto a credere di aver costruito un ottimo rapporto con lui: lo feci uscire dal suo guscio e mi piace pensare – forse peccando di orgoglio – di averlo aiutato a diventare la persona che è poi effettivamente diventata. Gli anni delle elementari passarono in fretta, si può quasi dire che sgusciarono via dalle nostre dita troppo presto e troppo velocemente: io iniziai a crescere in altezza, mi feci più longilineo di quanto sarei mai stato e all’ennesimo rifiuto di andare dal barbiere per tagliarmi i capelli, ricordo che mio padre esasperato decise di rasarmeli a zero e quella zazzera corta e rossiccia mi rimase in testa così com’era per il resto dell’anno. Danny rimaneva invece minuto e fragile, ma all’interno cambiò velocemente.
Ricordo che durante l’estate tra la quinta e la prima media, mentre io ero troppo impegnato a badare a quell’uragano di mio fratello Irvin, appena nato, lui sviluppò un interesse quasi morboso verso la morte. Mi riferì che il suo cane – un bellissimo pastore dal manto fulvio, si chiamava Red, ancora lo ricordo – era mancato per la sua età avanzata.
E così io avevo a che fare con la vita e lui con la morte.
Quando ci rincontrammo a Settembre per iniziare la nuova avventura scolastica, lo vidi cambiato – e mi sarei dovuto abituare ai suoi cambiamenti repentini, ma allora questa cosa ancora non potevo ancora immaginarla. Se ne stava in fondo alla classe a disegnare animali morti e carcasse di vario genere, scarabocchiava bulbi oculari spalancati e altre oscenità che mi attraevano quasi morbosamente. Da una parte trovavo interessante la sua svolta, dall’altra ne ero spaventato: mio padre mi aveva ben raccontato che uno come lui non era il genere di persona con cui avrei voluto passare il mio tempo, nel nostro quartiere – lindo e pulito, mai una macchia tra le nostre cose – giravano voci sul suo contoi. Allora non mi disse nulla, ma più tardi appresi che cosa intendesse: molti dei nostri vicini sospettavano che fosse stato lui ad uccidere il suo stesso cane e alcuni giuravano di averlo visto fumare dalle parti del porto, nascosto tra le casse e le bancherelle del pesce. Non mi sarebbe interessato, però, nemmeno se allora me lo avesse detto chiaramente. Per qualche mese mi proibirono di vederlo, ma eravamo ragazzini negli anni Sessanta, sapevamo come nasconderci agli occhi vigili degli adulti.
Fu in quel periodo che la peculiare diversità  - animali morti, disegni di impiccagioni e una strana ossessione per i racconti di Poe - di Danny iniziò a essere fraintesa e da allora fu solo un’interminabile declino, a quell’età i ragazzini sanno essere malvagi e iniziano a comprendere quali sono le linee che dividono il normale dal diverso. E tutti volevamo essere persone regolari, integrarci nella massa, forse perché conformarci ci faceva sentire più grandi, più apprezzati. Una cosa la posso affermare, però, erano quelli che additavano Danny come un reietto ad essere quelli spaventati: a lui non importava di rientrare in certe categorie, già allora non aveva paura. In quel periodo anche io ero spaventato e per quanto volessi bene al mio amico conducevo una vita binaria: a scuola con gli altri, i pomeriggi con lui. Di quel periodo rimembro con particolare minuzia i pomeriggi passati al porto, seduti sulle banchine e con i piedi a pochi centimetri dall’acqua cobalto di Brighton. Osservavamo i pescherecci approdare e ho quest’immagine stampata nella mente come una fotografia: le reti enormi di pesci che venivano trainate a terra. Le orate scalpitavano a contatto con la terra ferma e le loro squame argentee risplendevano nella luce pallida del pomeriggio. Ogni volta che una barca approdava ci sembrava portasse enormi tesori: monete e monili preziosi. Danny s’inventava storie di avventurieri che erano andati nelle Americhe per ripescarli, pirati e mostri marini che combattevano nel mezzo dell’Atlantico – eppure i dettagli si facevano sempre più macabri e inquietanti. Io lo ascoltavo con un interesse quasi accademico, avrei dato tutto l’argento del mondo per sapere come funzionasse la sua mente e dunque orbitavo continuamente attorno a lui come un satellite farebbe con il pianeta più grande.
Iniziammo a fumare là, nascosti dagli occhi indiscreti dei passanti, dei marinai e degli acquirenti. Lui rubava le sigarette da sua sorella, Sally, e me le portava minuziosamente conservate come se fossero state piccoli tesori. Avevamo dodici anni e quando, là seduti con i piedi in aria e la testa per aria, ci sembrava di poter cavalcare un chimera e attraversare davvero l’Oceano Atlantico. Immagino che dipingerei così la giovinezza, se solo sapessi farlo.
Divenimmo ben presto un duo, il nostro era un binomio inscindibile, non esistevano più Danny e Joe come persone singole, eravamo sempre Danny-e-Joe. Con il passare del primo anno alle medie questo divenne un fatto riconosciuto da tutti; per quanto io contassi altre amicizie al di fuori di Danny, noi venivamo immancabilmente marchiati come una sola persona. I legami che nascono nell’infanzia, del resto, sono i migliori: ci si ama così incondizionatamente e immancabilmente si arriva a conoscere l’altro a tutto tondo, senza giudicare. Sono quelle amicizie che legano indiscutibilmente due individui per sempre ed io e Danny siamo sempre stati legati da un filo invisibile, ancora oggi sento questo legame come se avessi undici anni, non più cinquantadue. Mi auguro che ognuno, nel corso della propria vita, abbia provato qualcosa di simile: un volersi bene che va oltre ogni preconcezione e giudizio. Quando mi guardo alle spalle, vorrei davvero credere che Danny-e-Joe abbiano attraversato tutto insieme. E invece non è stato così, perché la vita sa essere bastarda e noi esseri umani sappiamo essere così apatici e superficiali da non riuscire a guardare oltre al mondo che ci creiamo da soli.
Questo successe a noi due.


Prima di narrare cosa accadde durante gli anni dell’adolescenza è necessaria una premessa. Non sono mai stato uno scrittore, ma credo che a questo punto sia doveroso prendere una pausa da tutte queste parole che sto vomitando e cercare di dare loro un ordine, un senso. Questa notte mi sono svegliato alle quattro e ho osservato il soffitto per un tempo che non saprei quantificare, mia moglie accanto a me dormiva. Durante quelle che a me sono parse ore – ma potrebbero essere stati solo poco più che trenta minuti – ho continuato a pensare che dovevo scrivere di più di me e Danny, perché mi rendo conto che in molto potrebbero non comprendere com’eravamo realmente. Allora mi sono messo all’opera, la luce azzurrina del computer a farmi lacrimare gli occhi.
Una volta io e Danny scappammo di casa – o così ci piacque pensare allora. Lui mi venne a chiamare alle dieci di sera, una sigaretta gli penzolava dalle labbra e lo presi in giro, accusandolo di essere una brutta caricatura di James Dean. A quel punto dovevamo avere tredici o quattordici anni e il vecchio orto, nonché la nostra personalissima pista di biglie, ormai era un ricordo lontano. Danny era cresciuto tutto in una volta e tutta in quell’estate, ora mi superava di una buona spanna ed era estremamente dinoccolato, tutto ginocchia e gomiti, magliette bianche, giacconi verde militare e calze ruvide che gli dovevano arrivare su per giù alle ginocchia. Non si tagliava i capelli da un po’ e ora gli formavano una frangia scompigliata sulla fronte bassa e brufolosa. Anche io allora ero cambiato, avevo preso la forma abbozzata dell’uomo che sarei stato: statura nella media e una tendenza al sovrappeso – come mia moglie mi rimprovera spesso. Lui mi venne a chiamare, comunque, alle dieci di sera, se ne stava nel mio cortile come era solito fare, ormai era abbastanza alto da scavalcare la staccionata senza particolari sforzi. Mi disse di scendere in fretta, ché mi avrebbe portato in un posto a festeggiare.
«Festeggiare che, esattamente?» gli avevo chiesto, gli avambracci incrociati sul cornicione e un sopracciglio inarcato scetticamente. Fosse stato per me sarei subito sceso e sarei corso dovunque volesse portarmi: quella era l’età della scoperta e talvolta ci piaceva giocare a fare gli adulti, bevendo lattine di birra di nascosto e osservando di sottecchi le ragazze, che apparivano di gran lunga più adulte di noi.
Lui alzò le spalle e mosse qualche passo indietro, si muoveva scoordinatamente, come se non si fosse ancora abituato a quel corpo tutto nuovo.
«Hai davvero bisogno di una motivazione?» mi chiese dal basso.
Scossi la testa, certo che non ne avevo. Sapevo che se ci avessero scoperto sarebbe stato un bel problema per entrambi, appartenevamo a famiglie benestanti e di buon nome in un quartiere benestante e di buon nome, dove le villette erano tutte uguali e le persone pure. I nostri genitori erano protestanti e fortemente conservatori, fosse stato per loro non avremmo potuto fare molto se non stare con la testa bassa su un libro scolastico – cosa che a quel punto nemmeno mi dispiaceva, ma di certo non si provava lo stesso brivido che a uscire di casa senza permesso. Sgusciai dunque dalla porta del retro e sparimmo nel dedalo di vie che ci portarono in seguito al centro, in un pub come molti altri, ma che allora ci apparve qualcosa di molto più simile a un Paradiso Proibito. Era illuminato parzialmente da lampadine sterili che pendevano dal soffitto, la radio stava trasmettendo qualche canzone del rock’n’roll americano e fu lì che ci sedemmo, appiattiti contro i muri, a osservare i ragazzi più grandi di noi danzare mossi da forze invisibili. Quando spostai gli occhi su Danny lo vidi curioso: muoveva la testa a tempo e sembrava voler ballare, ma quando glielo proposi lui scosse la testa veemente. Non fu una pessima serata, però, bevemmo della Coca Cola e parlammo di quell’estate piovosa che sembrava voler rovesciare su Brighton l’intera Manica. Le ossessioni di Danny non erano cambiate, se possibile erano peggiorate; parlava con insistenza dei suoi incubi e mi raccontava che aveva iniziato a dormire male, a rigirarsi nel letto in un bagno di sudore in attesa di chiudere gli occhi. Eppure, ogni volta che tentavo di approfondire il discorso, lui abbassava lo sguardo e la voce e mormorava che andava bene così-
Io gli dicevo che mia madre prendeva pillole per dormire – e ingenuamente ancora non mi rendevo conto a che cosa avrebbero portato quelle – e che se voleva avremmo potuto procurarcene un po’ per sperimentare che cosa sarebbe stato. Lui scuoteva la testa e sul volto gli appariva di nuovo quell’espressione di concentrazione accademica, come se la sua incipiente insonnia fosse un’interessante materia di studio.
Le visite al pub, che poi scoprimmo chiamarsi il Collins, si fecero comunque sempre più frequenti durante quel periodo, sgusciavamo entrambi di casa e speravamo per il meglio. Dopo la pista di biglie, fu quello il nostro punto di ritrovo: dopo un paio di mesi potevamo vantare di conoscere tutti i clienti abituali.
Fu là che un giorno incontrammo Ellen e Pete. Ancora oggi mi domando che piega avrebbe preso la nostra amicizia se così non fosse stato.




 

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Capitolo 2
*** II. Occhiali da sole rossi ***


Disclaimer!: ammetto che solitamente non sono avvezza a fare avvisi del genere, ma a questo punto non si è mai troppo sicuri, quindi eccoci qua. Vorrei ricordarvi che l'autore di una storia non deve necessariamente condividere/giustificare i comportamenti di certi protagonisti, quindi, prima che qualcuno prenda i forconi, ci tengo a notificare a tutti che le mie opinioni riguardo ai temi (delicati) trattati in questo capitolo vertono su poli opposti a quelle descritte qua.
Ciò, detto, visto che ci sono, vi elemosino una recensione/un parere di qualsiasi tipo, che fa sempre piacere.







II. Occhiali da sole rossi



 

Danny la chiamava deformazione professionale, io la chiamavo algidamente comportarsi come una testa di cazzo.
Avevamo all’incirca quindici anni quando ci accorgemmo di come fossimo diventati le due facce di una stessa moneta: lui meditava di lasciare la scuola, aveva iniziato a fumare erba e a strimpellare la chitarra, i miei studi invece procedevano brillanti, mio padre mi pressava affinché dopo il liceo potessi entrare nella facoltà di Medicina. Diceva che avrebbe voluto che suo figlio avesse una vita meravigliosa – i tempi stavano cambiando e lui aveva occhio per cose di questo genere: aveva intuito che se avessi seguito le sue orme come operaio il mio futuro sarebbe stato disastroso, e aveva ragione. Talvolta prendevo lezione private di biologia e chimica per affinare le mie conoscenze e talvolta ero io a darle ai ragazzi più piccoli, in modo da guadagnare qualcosa. Ero quasi sempre impegnato e quel poco tempo libero cercavo di dedicarlo a Danny, che ormai era così diverso che avevo paura mi sgusciasse via dalle dita.
Al Collins avevamo incontrato Ellen e Pete, due giovani più grandi di noi di un paio di anni: lei aveva le guance paffute e i capelli perennemente stretti in una crocchia bassa, ballava il charleston meglio di chiunque altro a Brighton; lui aveva il naso aquilino sempre affondato in un trattato di storia o in un numero del New Left Review[1]. Inizialmente io e Pete andammo d’accordo: con lui si poteva parlare di tutto e ci accomunavano diversi interessi, in primis, quello della storia del Novecento. Quando però Danny iniziò a preferire loro a me, venni inevitabilmente punto dalla gelosia, sapevo di non avere lo stesso tempo da dedicargli che avevo quand’eravamo bambini, ma l’idea che se ne andasse dalla mia vita era insopportabile. I suoi racconti mi mancavano e ora mi mancavano anche le canzoni che aveva iniziato a scribacchiare nel tempo libero, mi mancava parlargli, eppure inevitabilmente ci stavamo allontanando.
La prima volta che lo vidi fumare erba fui colto da una rabbia quasi ancestrale: era sbagliato. Era sbagliato che non avesse alcun interesse nel proseguire gli studi ed era sbagliato che volesse perseverare a festeggiare ogni sera con Ellen e Pete, che lo stavano lentamente portando su un sentiero parallelo al mio. Più tardi scoprii che i suoi genitori la pensavano come me: lo pressavano affinché si sbarazzasse definitivamente di quella stranezza che ormai gli si era appiccicata addosso, gli dicevano che avrebbe dovuto seguire il mio esempio e quando un giorno scoprirono il suo album da disegno, straripante di immagini morbose, di morte e di altre oscenità, insistettero a mandarlo da un medico. Questo Danny me lo confessò una notte che aveva passato a casa mia: ricordo perfettamente il suo profilo che si stagliava contro la finestra, i capelli gli arrivavano quasi alle spalle.
«Non riesco più a dormire, Joe.» bofonchiava «Il che solitamente non è un male: l’insonnia aiuta a vedere le cose da altre prospettive e mi piace guardare il mondo da altri punti di vista, ma ora mi sembra solo di marcire nel mio letto divorato dall’ansia: sto sempre a chiedermi se mai sarò capace di fare qualcosa che potrà soddisfarli.»
Io lo guardavo, in silenzio, mentre accarezzavo distrattamente le corde della sua ormai inseparabile chitarra.
«E so già anche quale sarà la risposta. Non farò mai niente che vada loro bene e non ho intenzione di cambiare adesso. È solo che–» si fermò, soppesando le parole. Ora che torno con la memoria a quegli istanti mi sbalordisce quanto fosse calmo allora, stava scaricando su di me una zavorra che gli pesava sulle spalle da anni e lo faceva con una struggente pacatezza. Era sempre estraniato dal mondo tangibile, come se non lo toccasse mai per davvero.
«Capisci cosa voglio dire, Joe?»
Io annuii in silenzio, anche se no, non capivo. Ormai mi ero arreso al fatto che non avrei capito molti anfratti del suo carattere e mi andava bene così, gli volevo bene lo stesso. Allora simpatizzavo per i suoi familiari: la loro linea di pensiero mi sembrava assennata, continuavo a ripetermi che a quell’età era ora di crescere e di iniziare a pensare come un adulto. E un adulto pensa a un lavoro, a una famiglia, a una stabilità, forse anche al successo: io puntavo a quello. Non voglio insinuare che non mi piacesse divertirmi di tanto in tanto, non ero un angelo nemmeno io a quei tempi, ma grosso modo sostenevo che alla lunga un certo modo di vedere il mondo avrebbe nuociuto a chiunque.
«Certo che capisco.» lo rassicuravo allora. Mi chiedo se avesse intuito che mentivo.
Danny aveva un comportamento binario, se da una parte predicava l’individualismo e voleva proseguire imperterrito con la sua strada, dall’altra sembrava bramare approvazione. Il bambino che era stato non si interessava del parere altrui, ma più gli anni scorrevano e più lo vedevo sciupato: ogni tanto si sentivano le urla sue e dei suoi dalla strada su cui le nostre villette si affacciavano. Quando iniziò a prendere parte a proteste e a frequentare movimenti di sinistra mi sembrò che fosse sfuggito al controllo di tutti: Pete studiava sociologia e aveva preso Danny e Ellen sotto la sua ala protettiva. Parlavano di politica e criticavano l’imperialismo inglese, che io avevo sempre ritenuto normale.
A quel punto tutti conoscevano Danny. Aveva mollato la scuola, portava i capelli lunghi e scompigliati e un paio di occhiali da sole rotondi, aveva quel sorriso sfacciato e quell’aria concentrata e per quanto esercitasse attrattiva su tutti quelli che lo conoscevano, ben presto la maggior parte delle persone si rendeva conto del suo carattere altalenante e lo liquidava senza farsi troppi problemi. Specie nel nostro quartiere, nel nostro quartiere uno come lui era visto come l’opposto polare dell’esempio da seguire. Un alieno approdato per caso tra gli umani
Una volta sua madre si precipitò a casa nostra incapace, a sua detta, di tenere a bada il figlio. Io origliai tutta la conversazione da dietro la porta del salotto e la sentii vomitare parole come malato, medico, pazzo. Parole brutte, che lasciarono sulla mia pelle una scia di disagio e tristezza generale.


Fu in quel periodo, probabilmente sulla scia dei Beatles, che decise di unirsi a una band. Suonava la chitarra discretamente e aveva una voce un po’ troppo roca per cantare, quindi fu relegato al compito di chitarrista. Si esibì per la prima volta al Collins: aveva il viso imperlato da gocce di sudore e i capelli color pece gli rimanevano appiccicati alla fronte, ma la serata fu un successo per la trentina di persone che, sedute ai tavoli, stavano ascoltando. Quando lo vidi lì, a suonare, mi resi conto che la musica era l’unico universo in cui non stonava, ci si amalgamava così bene che il manico della chitarra sembrava un proseguimento del suo stesso braccio e le note che lo strumento emetteva apparivano irradiate direttamente dalla sua persona. Era come assistere a un trucco di magia che sfidava qualsiasi legge fisica.
Io me ne stavo seduto a uno dei tavoli in fondo, e così facevano anche Ellen e Pete, che insieme a me sorseggiavano una birra. Se chiudo gli occhi posso ancora vedere con straordinaria nitidezza gli sguardi che ci scambiammo quella sera – davanti a uno spettacolo del genere non c’era bisogno di parlare –: solo allora ci rendemmo conto del fatto che Danny non sarebbe mai appartenuto a uno di noi, o al mondo che noi conoscevamo. Poco importava delle gite al porto. nascosti a fumare sigarette, o delle proteste studentesche nel centro di Brighton; quel ragazzo sarebbe appartenuto sempre e solo all’arte, in qualunque forma. Sempre e solo ad essa, senza alcuna eccezione.


Nel ‘67 Danny aveva diciassette anni e portava larghe camicie colorate, senza curarsi di infilarne i bordi nei pantaloni. Era ulteriormente dimagrito e appariva alto e dinoccolato, continuava a muoversi in modo disordinato, come se quel corpo non gli appartenesse veramente. I capelli neri, allora così lunghi, erano diventati ondulati e gli scendevano fin sotto il mento, per posarsi poi placidamente sulle spalle. Non rideva spesso, ma quando lo faceva la sua risata era intervallata da singhiozzi che io personalmente trovavo ilari. Non abbandonava mai i suoi occhiali da sole rossi, nemmeno quando era inverno, e dietro vi nascondeva quello sguardo perennemente assorto – come se stesse contemplando problemi che gli altri non potevano nemmeno immaginare.
Nel ‘67 Danny prendeva a cadenza quasi settimanale un treno per Londra e là aveva iniziato a frequentare i più disparati circoli, mi diceva che molti riguardavano l’arte e altri la politica, ma quando alcune sere non tornava a casa fino al mattino seguente ero piuttosto sicuro che mi celasse qualcosa. Avevo in gola un nugolo di dubbi e domande che non riuscivo a tirare fuori e ne ero così spaventato perché sapevo con estrema certezza di non voler conoscere le risposte. Non sapevo cosa ci stesse succedendo e ne ero terrorizzato.

I rapporti interpersonali sono monili delicati, preziosi e vanno maneggiati con cura, allora avevamo solo diciassette anni e ancora non comprendevamo appieno come comportarci in casi del genere. Io studiavo per il test di ammissione a Medicina e lui si occupava di scrivere canzoni, coricato supino nel bel mezzo del suo giardino. Quelli che per noi erano stati innocenti silenzi, semplici crepe nella nostra amicizia, si erano ingranditi così tanto da essere segreti, rabbia taciuta, impotenza. E allora le crepe si erano trasformate in baratri, ci separavano divari così grandi che sentire quello che stava dall’altra parte era difficile. Ormai le nostre conversazioni vertevano su chiacchiere inutili prive di un nucleo. Sapevo quanto Danny le odiasse eppure non potevo fare altro se non guardarci allontanarsi sempre di più.
A quel punto, forse, avrei dovuto essere sincero con me stesso e smettere di cercare di ancorare Danny a un mondo – il mio – a cui evidentemente non voleva appartenere. Ma si sa, l’egoismo sa essere la peggiore delle tentazioni e dunque io cercavo di aggrapparmi a quel poco che ci rimaneva. Per tutto quel ‘67 gli rimasi accanto come potevo, quando – ormai sempre più saltuariamente – superava la staccionata di casa mia e si piazzava ne cortile, bussando alla mia finestra per parlare, lo lasciavo entrare, nella speranza che quella volta sarebbe stata differente.
Dopo due settimane di silenzio, si presentò da me con gli occhi rossi dal pianto, la calma in cui era solitamente avvolto era svanita e la sua persona sembrava aver perso ogni magica attrattiva. Farneticava che doveva andarsene da Brighton, che quel posto non gli apparteneva più – non mi è mai appartenuto, Joe, sono come un alieno in mezzo a una schiera di persone – mi disse che che Pete poteva rimediargli un posto dove dormire a Londra e mi chiese di andare con lui. Fu un gesto che quasi mi commosse e rimasi lì, appiattito sulla porta di camera mia, con le lacrime agli occhi. Sarebbe stato bellissimo: io e Danny contro il mondo, come quando eravamo bambini. Ero quasi sul punto di dirgli che l’avrei seguito in qualsiasi avventura, quando la realtà sfondò la porta dei miei pensieri. Vidi un manuale di biologia lasciato aperto sulla scrivania, vidi appese alle pareti color ocra le borse di studio liceali che avevo collezionato in quegli ultimi quattro anni e mi resi conto che quello di Danny era un piano folle. Infattibile. Con il senno di poi mi rendo conto che dalla prospettiva di lui tutto era possibile: allora lui viveva su un altro piano della realtà, quello che i bambini vedono nitidamente e che per me allora era un qualcosa di confuso e astratto, inconcepibile. Potessi tornare indietro forse avrei cambiato strada e ora non sarei un medico come poi sono diventato, ma allora rimasi fermo sulla mia posizione, presi Danny per le spalle e lo guardai in quei suoi occhi neri profondi come pozze. Chiunque avrebbe potuto precipitarci dentro.
«Cosa è successo?»
«Mio padre.» smozzicò senza guardarmi «Ha detto che me ne devo andare.»
Deglutii a vuoto, ben consapevole che il padre di Danny era una persona a modo, conservatore, sì, e anche profondamente fedele, ma comunque una persona a modo. Non avrebbe mai allontanato suo figlio dalla propria casa.
«Perché?» cercavo di farlo ragionare, ma era evidente che lui non ragionava come me e in quel doloroso momento me ne resi conto.
«Non te lo posso dire, Joe, altrimenti lo farei.»
Per quella sera lo convinsi a dormire da me e lui accettò di buon grado, gli promisi che il giorno dopo avremmo trovato una soluzione insieme – noi due insieme, come abbiamo sempre fatto, no, Danny? E allora dormimmo sdraiati sul pavimento piastrellato della mia camera, illuminati parzialmente dalla luce che dalla strada filtrava attraverso alla finestra spalancata. Quella notte pensai alla pista di biglie e alla prima volta che Danny si era spinto oltre alla staccionata, come il bambino curioso che era. Mi tornarono alla mente i capelli scompigliati e la sporcizia di cui era intriso, il fiato corto e gli occhi attenti, carichi di un’energia adulta. Il suo avvento nella mia vita era stato una degli avvenimenti migliori che mi fossero mai accaduti. Danny era entrato, senza farsi notare, correndo velocemente e raccontandomi storie. E quando era diventato una presenza scontata mi si era infilato sottopelle e come una spina che non sarei mai  riuscito a togliere.
Avrei dovuto provarci, però, perché Danny è sempre stato aria, vento, qualcosa di inafferrabile; il mio convulso volerlo ingabbiare nella mia esistenza era solo un inutile tentativo di ritardare un avvenimento inevitabile.
Quando mi svegliai il giorno dopo, a farmi compagnia erano solo le tende della finestra che si alzavano mosse dalla brezza mattutina. La luce azzurrina del mattino si rovesciava in camera mia attraverso l'apertura nel muro.
Danny non c’era più.


Allora capitava spesso che ragazzini scappassero di casa, ricordo che quando da bambino sbirciavo il giornale di mio padre notavo articoli di bambini dispersi. A Brighton era successo un paio di volte e in linea di massima la polizia non vi dedicava troppe attenzioni, liquidando la questione in pochi giorni. Quando Danny sparì aveva già compiuto diciotto anni e le forze dell’ordine non si sprecarono molto. Ci fu qualche ricerca nel perimetro di Brighton e quando un agente mi prese da parte chiedendomi se mi fossi fatto qualche idea sul caso e io gli risposi di Londra, chiusero il caso senza farsi divorare dal rimorso.
Il quartiere era sprofondato in un silenzio quasi surreale: tutti conoscevano Danny e tutti erano ben coscienti del suo modo di essere, nessuno era sorpreso ma a tempo stesso ci sentivamo quasi in dovere di comportarci in modo tale, di
fingere di essere dispiaciuti per lui. Quel silenzio carico di ipocrisia venne interrotto da una telefonata un pomeriggio del febbraio del ‘68, era Danny che chiamava e che informava i suoi familiari di stare bene. Mi venne riferito da sua sorella che aveva trovato un appartamento a Londra e che veniva ospitato da un amico che aveva conosciuto lì nei mesi precedenti, aveva comunicato a tutti il suo indirizzo e diceva che qualora qualcuno avesse voluto andare a trovarlo, l’avrebbe accolto.
I primi a precipitarsi là furono Ellen e Pete, si infilarono sul treno delle otto e io li vidi viaggiare verso la capitale. Avrei voluto seguirli, ma segretamente covavo una rabbia quasi cieca. Danny era scappato, il suo era un gesto vile, qualcosa di cui vergognarsi. Aveva fatto preoccupare i genitori e me – sopratutto me, che quella mattina mi ero svegliato con un senso di vuoto sul petto che mi aveva fatto quasi boccheggiare.
Quando i due ragazzi tornarono mi riferirono di come viveva: dissero che aveva iniziato a suonare rock come solista in un locale e che stava cercando un lavoro diurno nel centro della città. Io li ascoltai distrattamente e non nascosi un senso di fastidio nei loro confronti, dopo gli ennesimi aneddoti sulla sua nuova vita a Londra li liquidai frettolosamente, sostenendo che dovevo studiare e che avevo solo pochi mesi prima della fine del liceo. Voltai ai due le spalle costringendomi a non sbraitare contro di loro le colpe che pensavo avesser:, nella mia mente erano stati loro a corrompere il mio migliore amico, a mostrargli un mondo completamente diverso rispetto a quello che avevamo vissuto fino ad allora, insieme. Quella fu l’ultima volta che li vidi, là, seduti su una panchina al porto, circondati dai gabbiani che nonostante l’inverno inoltrato ancora volteggiavano nel cielo plumbeo inglese. Non nego, nell’ultimo decennio, di averli cercati, magari in un trafiletto del giornale, oppure in una delle cartelle mediche dell’ospedale in cui opero, qualsiasi cosa pur di provare a me stesso che quei due ragazzi siano ancora qua fuori, da qualche parte, e non congelati nel tempo.
Quel periodo fu uno dei più impegnati della vita che fino ad allora avevo conosciuto: mi immersi ancora di più negli studi e non mi lasciai andare in nessuna distrazione. Intendevo, in concordanza con i miei genitori, finire le scuole superiori con i voti migliori e prepararmi al meglio per il test d’ammissione: mi ero infine deciso per l’Università del Sussex e continuavo a ripetermi, quasi ossessivamente, che se avessi superato quel dannato esame ogni problema sarebbe scomparso. Ogni cosa che nella mia vita appariva fuori posto, o addirittura priva di posto, avrebbe trovato la propria collocazione e avrebbe dato un senso a quel senso di impotenza che ormai mi aveva incatenato. Era un modo semplicistico di pensarla, ma non sono mai stato particolarmente interessato alle speculazioni astratte. Per il diciassettenne che ero le cose erano bianche o nere, le sfumature intermedie le lasciavo ai filosofi, o almeno così avevo sempre ammesso a Danny.
Così, quando un giorno mio padre mi portò a casa un giornale con articolo riguardo alle rivolte giovanili contro la guerra in Vietnam, mi ci volle solo qualche istante per etichettarle come perdite di tempo. Era Marzo e per un paio di mesi non mi interessai nemmeno all’argomento: plasmato dalla mia estrazione sociale e da tutti gli agi cui ero stato abituato già da bambino, l’idea che una persona potesse pensare di protestare contro un evento più grande mi appariva quasi ridicola. Avevo sperimentato sulla mia pelle quanto potesse essere deleterio un comportamento del genere e la sola idea che qualcuno intendesse replicarlo mi angosciava ancora di più – mi faceva arrabbiare così tanto da portarmi a stringere le mani in pugni fino a far sbiancare le nocche. Era un pomeriggio di Giugno quando mio padre mi chiamò di nuovo, sul volto rubicondo aveva dipinto un sorriso divertito: indicò una delle figure sul giornale e mi rivolse un’occhiata interrogativa: «Non è Daniel, questo?» domandò allora retorico. Gli strappai il quotidiano dalle mani con una velocità che non credevo mi appartenesse, l’immagine era sfocata e i volti delle persone si potevano appena rintracciare, eppure riconobbi con una disarmante facilità il viso del mio migliore amico, là, in mezzo alla folla. Protestava in mezzo a un corteo, nascosto appena dai suoi inseparabili occhiali da sole rossi.
«Mi sa di sì.» sbottai, cercando di mantenermi neutrale. Sebbene non ne fossi certo, avvertii lo sguardo di mia madre posarsi sulla mia nuca, forse carico di apprensione – allora lei pareva essere l’unica a rendersi conto di che cosa stesse accadendo.


Quelli tra il ‘67 e il ‘69 furono anni turbolenti, ora meglio noti come quelli delle rivolte giovanili. Io e molti dei ragazzi che frequentavo allora ne rimanemmo intoccati. I nostri genitori ci avevano insegnato a non dubitare delle autorità; con il passare degli anni conobbi altri coetanei che la pensavano esattamente come me, quelli di cui sentite parlare oggi, quei visionari di allora, erano mosche bianche in mezzo a tutta la popolazione inglese. Vorrei pensare, o così mi piace fare, che allora Danny avesse trovato il suo posto; del resto non avrebbe dovuto essere stato difficile per uno come lui integrarsi tra i giovani progressisti della capitale. Voglio davvero crederci, anche perché l’alternativa sarebbe troppo dolorosa da immaginare. Quando ripenso a quella foto che vidi quasi più di una trentina d’anni fa, la sola idea che Danny potesse sentirsi solo in mezzo a tutta quella gente è così forte da farmi stringere il cuore.
Probabilmente sulla scia di questi pensieri – o di pensieri molto simili – a Luglio dello stesso anno decisi finalmente di andare a Londra, nella mia mente si era impiantata come un chiodo la prospettiva che Danny potesse sentirsi meglio grazie a me e proprio in virtù di questa presi coraggio e gli telefonai, informandolo che volevo andare a trovarlo. Dall’altra parte della cornetta sentii un mutamento nella sua voce, che ancora oggi non so identificare. Tutt’ora non ho idea se fosse stato felice di vedermi, ma continuo a ripetermi, forse per il bene della mia sanità mentale, che sì, ne fosse entusiasta.
Forse sto mentendo a me stesso, forse l’ho fatto in modo tale da creare una mia narrativa riguardo i fatti che sono successi. Solo ora mi rendo conto che questa storia non ha nulla di soggettivo o coerente, proprio perché quello che sto raccontando ora non è altro che frutto di anni e anni di elucubrazioni. Oltre a quello che è effettivamente accaduto ho depositato tra queste pagine livelli e livelli di contemplazioni insensate che ho portato avanti per decenni al solo fine ricercare una scusa per ciò che feci quel Luglio del ‘68.


Il viaggio per Londra fu una tortura di due ore circa, continuavo a spostarmi e a camminare su e giù per il vagone, con le unghie mi scalfivo la pelle delle dita e continuavo a mordermi l’interno delle guance, chiedendomi che cosa avrei dovuto dire o fare; nella mia mente l’unico pensiero martellante era quello di riallacciare i rapporti con Danny. Mi ero arreso all’idea che l’amicizia cambia, con il tempo, e che non si può essere amico a una persona da adulto nello stesso modo in cui lo si è da infante. Il nostro precedente allontanamento ormai mi appariva inevitabile, ma contavo di provare a passare una bella giornata con lui.
E per una buona parte fu una buona giornata: tornai a respirare l’aria della mia città natale e quando vidi quelle strade che ormai non solcavo da anni, fui assalito dai ricordi della mia prima infanzia, alcuni dei quali credevo di aver ormai sepolto da lungo tempo. Danny mi aspettò davanti a un bar di Covent Garden, di nuovo una sigaretta che gli penzolava mollemente dalle labbra, dietro agli occhiali aveva il solito sguardo concentrato e le sopracciglia corrugate. Gli strinsi riluttante la mano e gli chiesi come stesse andando.

Passammo tutto il giorno a bazzicare per la città, ogni tanto sedendoci per terra quando eravamo troppo stanchi o quando ci sembrava di non sapere dove andare. Guardavo la città grigia che era Londra, su cui volavo piccioni e non gabbiani, e poi spostavo gli occhi sui vestiti colorati di Danny. Lui sembrava parlare un’altra lingua, mi raccontava dei film di Andy Warhol, che io allora avevo solo conosciuto come pittore, e delle canzoni di un artista emergente, David Bowie. Diceva che a Londra la gente la pensava diversamente, che apprezzavano tutti la sua musica e che nessuno gli faceva noie quando lui mostrava i suoi album da disegno, anche allora carichi di sangue e macerie. Mi raccontò delle persone che aveva conosciuto: il Loco, un immigrato sud-americano che tra una bottiglia di rhum e l’altra aveva moltissimi aneddoti sul suo Paese natale, e di Holly, che lui descrisse come una ragazza dai facili costumi con un sorriso grande e triste.
Lo ascoltai parlare ininterrottamente, assorbendo con cognizione ogni singola informazione e quando approdammo a St James Square Garden ci sedemmo ai piedi della statua equestre; finalmente gli rivolsi una domanda: «Quindi sei felice, ora, Danny?»
Non era mia intenzione essere così diretto, ma non riuscii a parlare per mezzi termini; lui sorrise colto alla sprovvista, scostandosi i capelli corvini dalla fronte: «Certo che sì.»
Alla sera mi portò a un pub di periferia dove avrebbe suonato un paio di canzoni. Quando entrammo Danny venne accolto alla stregua di una stella del cinema – sul fatto che la sua musica venisse apprezzata di certo non mentiva – un paio di persone si alzarono a stringergli la mano e quasi tutti quelli seduti ai tavoli lo salutarono con allegria. Danny appariva perfettamente a suo agio tra le luci languide e psichedeliche che venivano proiettate sul palco: mi offrì da bere e poco dopo scomparve, per poi apparire sul palco. Nemmeno allora aveva abbandonato i suoi occhiali da sole rossi, si sedette su una seggiola di legno e iniziò a strimpellare la chitarra. Riconobbi qualche canzone di Help! E un riarrangiamento di Within You Without You. Sotto i vestiti appariscenti e alla matassa di capelli, per la prima volta in anni mi sembrò di riconoscere il bambino che era stato e che soleva inventarsi storie su tesori delle Americhe, rividi nel ragazzo che cantava le stesse maniere e gli stessi gesti della persona che avevo chiamato amico per così tanto tempo, fu in quel momento che decisi definitivamente di riallacciare i rapporti – o almeno di provarci.
Quella che ho descritto fu una giornata perfetta sotto ogni aspetto. La birra bevuta seduti sotto il Big Ben, a osservare la sagoma degli volatili stagliarsi sul cielo, le risate sommesse a raccontarci le nostre storie, la musica che ascoltammo provenire da fuori un locale del centro. Per tutta la durata della mia visita fui pervaso da un senso di nostalgia che, sapevo, avrei dovuto affrontare una volta rimessomi sul treno di ritorno. Quando si fece l’imbrunire Danny si offrì di accompagnarmi a King’s Cross per prendere il treno delle ventidue e ci incamminammo, illuminati artificialmente dalle luci cittadine.
Eravamo quasi in prossimità della stazione quando Danny si fermò davanti alla sterile entrata dell’ospedale St Pancras. Ricordo con nitidezza il suo volto per metà immerso nell’oscurità della notte incipiente; vi aveva stampata sopra un’espressione nervosa.
«Joe.» biascicò, costringendomi a fermarmi «Ti devo dire una cosa.»
Non risposi, ma lo lasciai parlare. Lo osservai che si tormentava una ciocca di capelli in modo quasi maniacale.
«Sai quando mi hai chiesto perché me ne volevo andare, no? Io non ti ho risposto. Sei una delle persone che mi conosce meglio, Joe, mi sembra giusto che tu lo sappia.»
Di nuovo, non trovai nulla da rispondere e rimasi in attesa di un chiarimento. Quella per me era una novità, di solito Danny non era il genere di persona che dava spiegazioni. Il fatto che io ne meritassi una mi gonfiava il petto d’orgoglio.
«In parte è stato perché io a Brighton non mi sono mai sentito a casa,» iniziò a biascicare più a se stesso che a me «ed è vero. Non sono mai appartenuto né a quei posti né alla mia famiglia: loro mi hanno sempre ritenuto come un problema da aggiustare. Forse avevano ragione, ma non è questo il motivo finale. Il punto di rottura è stato un altro.»
Piantò gli occhi oltre la mia spalla, su un punto che nella realtà nemmeno esisteva, lo vidi deglutire e stringere i pugni. Non sapevo che cosa aspettarmi, agli occhi di tutti Danny era sempre stato diverso, ma io non l’avevo mai giudicato negativamente per questo. Anzi, era esattamente per la sua diversità che mi ero avvicinato a lui.
Lo osservai prendere un ultimo e profondo respiro: «Sono gay.»
Rimasi a fissarlo, quel momento si dilatò per quella che parve una dolorosa eternità. In dodici anni avevo costruito un bellissimo castello di carta dedicato a Danny, ogni nostra memoria, ogni dettaglio che mi piaceva della sua persona, tutto quello che eravamo stati era custodito là. Quando ammise una cosa del genere, gli occhi ancora persi nel vuoto, io vidi il castello crollare inesorabilmente e ricordo di aver pensato: è qui, è qui che finisce tutto.
«Mi piacciono gli uomini.» proseguì pacato, la voce priva di inflessione «Mi sembrava giusto che capissi come mai mio padre mi ha detto di andarmene, anche se poi la decisione finale è stata mia.»
Oggi la gente la pensa diversamente, ma allora quello che Danny stava dicendo a me appariva come un’oscenità. Provai, e tutt’ora me ne vergogno, un moto di disgusto nei suoi confronti e istintivamente feci un passo indietro. Lui continuava a vomitare parole insensate e io avevo smesso di ascoltarlo: ora tutto tornava. Gli insulti che gli erano sempre stati rivolti ora assumevano un senso: come mi ero augurato, ogni cosa tornò esattamente al suo posto. Quella volta quando i ragazzini delle medie lo inseguivano avevo sentito loro urlare parole come frocio finocchio e allora mi erano parse prive di senso: agglomerati di lettere con il solo scopo di ferire. Danny non aveva mai avuto una ragazza, nemmeno una che li piacesse, era sempre rimasto solo. E le notti passate a Londra e non a casa, anche quelle dovevano significare qualcosa.
E d’un tratto iniziai a detestare ogni singolo tratto di Danny che aveva sempre stonato: i suoi disegni erano rappresentazioni malate, la sua musica era superficiale e così i suoi interessi, il suo mutismo da bambino era un chiaro simbolo che qualcosa in lui non andava, le sue storie rasentavano il limite della morbosità, andando ben oltre la decenza. Odiai i suoi capelli lunghi e i suoi occhiali da sole rossi, le sue stupide camicie colorate e il suo sguardo adulto – anche quando adulto non era. D’un tratto Danny mi apparve tutto storto e capii cosa intendevano gli altri quando dicevano che era una persona da cui stare lontani. Mi rammaricai di non essermene accorto prima.
La nostra amicizia finì così, alle dieci meno venti della sera e davanti alle porte dell’ospedale St Prancras, a un centinaio di passi dalla stazione.
Danny dovette intuire il disgusto, la delusione e l’angoscia che provai in quel momento e si limitò semplicemente ad annuire con una gravità che non dovrebbe appartenere a un diciottenne.
Rivangare questi ricordi è come stuzzicare su una ferita che non si è mai cicatrizzata veramente, ma è necessario. È necessario che non menta, almeno su questo, perché Danny non si meritava e non si merita un trattamento del genere. Così, quando ora dico che gli voltai le spalle con l’intenzione di non rivederlo mai più, ammetto anche di vergognarmene così tanto che il rimorso tutt’ora mi fa da compagno.

 

 





 
[1] rivista di politica britannica, nata negli anni Sessanta, che rappresentava il pensiero politico della sinistra intellettuale inglese.

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Capitolo 3
*** III. Il microfono e la folla ***




III. Il microfono e la folla

 

 

 

Ho procrastinato per giorni la stesura di quest’ultima parte, terrorizzato dall’idea di mettere un punto alla nostra storia. Come ogni altro essere umano sono spaventato dalla parola fine, non importa quante persone abbia visto perire nei miei vent’anni di carriera: ho ancora paura della morte.
Tutto quello che costruiamo con perizia negli anni, tutto quello in cui mettiamo una parte della nostra anima, verrà cancellato subito dopo il nostro ultimo respiro. Ho faticato così tanto per arrivare alla posizione in cui sono ora e so che quando io smetterò di esistere anche la mia carriera e le mie conquiste svaniranno nel nulla, saranno perse per sempre. Una cosa però l’ho imparata e l’ho resa lo scopo della mia vita, me la insegnò Danny durante tutti i pomeriggi passati a guardarlo produrre arte: non importa quando si va via, l’importante è lasciare qualcosa che continui a vivere dopo di noi
E Danny era un artista.
E Danny fece esattamente così.

 

Il resto della mia vita, ora privata della presenza del mio migliore amico, fu stranamente tranquillo. Posso dire di ritenermi fortunato come pochi: all’università conobbi Lucy, una ragazza dalla chioma bionda e dal sorriso affilato, studiava farmacia e aveva sempre una risposta pronta. Allora io ero un ragazzo pacato, leggermente introverso, ma soprattutto orientato sugli studi e sul successo: Lucy mi prendeva in giro per le mie manie di controllo e cercava di distrarmi in tutti i modi dallo studio; devo dire che ci riuscì egregiamente. Al primo appuntamento andammo al cinema, ancora ricordo che ci precipitammo nella sala che proiettava Arancia Meccanica senza nemmeno sapere di che cosa parlasse – ora questo è un aneddoto che ancora ricordiamo ridendo, ma allora la nostra reazione fu diametralmente opposta. Ci sposammo tre anni dopo, quando lei aveva iniziato a lavorare nella farmacia del padre e quando io mi dividevo tra il tirocinio all’ospedale e la specializzazione in cardiologia.
La nostra fu – e tutt’ora è – una storia d’amore che, se potessi, augurerei a chiunque: ci siamo amati così tanto che dividerci è sempre apparso impossibile. Certo, con gli anni la passione sfuma lentamente, ma mai una volta ho osato immaginare una vita senza la mia Lucy e mi piace pensare che così sia stato anche per lei. Nel ‘75 nacque la mia primogenita, Ambra, che pur essendo la copia carbone di sua madre – stessi capelli biondi e ondulati, stessi occhi azzurri carichi di energia – aveva ereditato da me il mio carattere un po’ spigoloso e introverso. Ligia alle regole, la ricordo come una bambina esemplare; mai un capriccio, mai una protesta, ho quest’immagine stampata nella mente: lei che sfogliava un libro illustrato seduta alla scrivania accanto a me che leggevo un tomo sulle malattie cardiovascolari congenite. Due anni dopo fu il turno di Jane, con in testa una matassa di capelli rossi e una moltitudine di idee rivoluzionarie, è inutile che parli di quanto sia stato difficile cercare di domarla, anche perché non ci sono mai riuscito.
Alla mia famiglia mai parlai di Danny, quando narravo della mia infanzia tracciavo storie dai contorni labili, l’idea che potessi essere in qualsiasi modo ricollegato a uno come Danny mi metteva a disagio, così come trovavo angustiante la prospettiva che i miei familiari scoprissero del modo in cui l’avevo trattato. Avevo strappato al mio passato una parte di fondamentale importanza e cercavo di ricucire quello che mi rimaneva come meglio potevo, convincendomi che l’influenza di Danny su di me era stata minimale. Con gli anni il fantasma del mio migliore amico smise di perseguitarmi, non lo vidi più in una chitarra, in una biglia o in un paio di occhiali da sole, mi ero indotto a cancellare qualsiasi memoria troppo dolorosa e avevo avuto successo nel mio intento.
Passarono venticinque anni dall’ultima volta che vidi Danny. Un quarto di secolo condotto a vivere una vita agiata, borghese, di cui comunque non mi sono mai pentito.
La nostra quotidianità si protraeva pacifica: il ‘93 sarebbe stato l’anno in cui Ambra avrebbe iniziato a frequentare la facoltà di Biotecnologie: in lei rivedevo molta della mia determinazione giovanile, forse ancora più affilata. Diceva di voler fare la ricercatrice – come poi effettivamente è stato – e che quello era un ottimo modo per lasciare un’impronta tangibile sul mondo, in modo da essere ricordata con gloria. Jane, dall’altra parte, sembrava aver smesso di dare problemi, almeno per un po’. Aveva quindici anni e si legava costantemente i capelli in una coda alta, che lasciava libera solo la frangia, ascoltava il blues rock degli anni Settanta e ogni volta che riuniti a tavola guardavamo il telegiornale lei aveva qualcosa di ridire o puntualizzare. Dietro gli spessi occhiali che portava il suo sguardo di muoveva irrequieto, come se aspettasse solo il momento giusto per combinare l’ennesimo disastro. In lei rivedevo qualcosa di Danny che però non sapevo identificare con certezza: forse erano le convinzioni o la passione per la musica, oppure, per essere poetici, anche in lei era accesa dalla stessa fiamma che faceva brillare così tanto il mio amico. In quel periodo quel fuocherello che le bruciava dentro sembrava essersi chetato: finalmente ci lasciava privi di preoccupazioni. Per premiarla di quei momenti di pace che ci stava regalando, in accordo con Lucy, decisi di andare a comprarle un disco una volta finito il turno all’ospedale. Ricordo che quel giorno pioveva su Brighton così forte che dovetti rifugiarmi nel negozio di musica per una buona mezz’ora: si potrebbe pensare che un quarantenne inglese si sia ormai abituato al clima atlantico, ma io perseveravo a voler recarmi al lavoro in bici e, quando possibile, a piedi: le automobili non hanno mai esercitato su di me alcuna sorta di attrattiva.
Al riparo dal tempaccio britannico mi presi del tempo per me stesso, quello era un periodo impegnato. La mia vita era di nuovo piena; così piena da straripare, questa volta: mi preparavo a una promozione che aspettavo da tempo e nello stesso periodo avevo in cura un paziente di un certo spessore. Non posso fare nomi, perché ancora oggi ricordo che lui non volle che si venisse a sapere della sua miocardite, ma sulle mie spalle avevo la vita di una delle persone più importanti dell’Inghilterra Meridionale. La notte faticavo a dormire e ormai, quando a casa la mia parola veniva contraddetta, scoppiavo in pochissimo tempo – ero così pieno da essermi trasformato in una bomba ad orologeria, farcita di chiodi e schegge di vetro. Quel disco rappresentava per me e Jane una riconciliazione, il primo passo per ricercare la pace.
Costretto a passare del tempo all’interno del negozio, sotto un braccio un vinile dei Doors, iniziai a bighellonare attraverso la sezione delle cassette. Alcune rimanevano nascoste e impolverate, frutto di anni passati tra gli scaffali, alcune, le più nuove, splendevano tra le prime file, ancora birllanti nelle loro copertine dai colori appariscenti. Suppongo che sia stato il Destino, perché altrimenti non mi spiego un avvenimento del genere, o quel filo rosso che ha sempre collegato me e Danny anche dopo un quarto di secolo, che posai gli occhi su una cassetta bianca, nascosta da una degli Animals. Quando lessi la dicitura, ricordo di aver sentito le mie ginocchia cedere e fui sopraffatto da un senso che non saprei definire: era come se mi fossi accorto solo allora di forze più grandi che operano tramite noi. Sul bianco accecante era stato scritto Daniel H. Preston – Wild Side.

Dopo venticinque anni incontrai Danny di nuovo in un negozio di musica, anche allora era sporco e malmesso – quella cassetta era probabilmente usata, o altrimenti non avrebbe potuto essere così malridotta. Trascurando la pioggia e il vento così forte da scompigliarmi i capelli e da alzare il cappotto che indossavo, comprai Wild Side e uscii all’aperto, con l’unico obiettivo di ascoltare quell’album.
Mia moglie sole spesso raccontarmi che mi precipitai in casa senza rivolgere un saluto e che mi chiusi nel mio studio a chiave. Io ricordo solo che avevo le mani tremanti quando iniziai a maneggiare il mangiacassette, iniziavo a percepire un principio di tachicardia: per anni avevo cercato di allontanare il passato e ora tutto ciò che avevo cercato di dimenticato era tornato ad assalirmi come un’onda, mi sentii sopraffatto e spaventato; ma quei sentimenti vennero presto messi da parte dalla nostalgia che iniziò a serpeggiarmi nel petto appena sentii la voce di Danny.
La mia infanzia e la mia adolescenza erano in vendita in un negozio di dischi: Danny cantava di piste di biglie e di biciclette-avvoltoi, cantava di una via con case tutte uguali, cantava di occhiali da sole rossi e di tesori che provenivano dalle Americhe. Il castello di carte che io avevo distrutto quella sera di vent’anni prima era stato ricostruito con minuzia da quell’artista, da Danny, il mio migliore amico, e allora che ascoltavo le sue canzoni quasi cedetti alla commozione. La mia vita – e la mia amicizia – erano state trasformate in un’opera d’arte usufruibile da tutti.
Dovetti sedermi sulla poltrona di pelle e chiudere gli occhi. Era tutto lì, era sempre stato tutto lì. C’eravamo io e Danny seduti sulle banchine del porto e c’erano i gabbiani che volteggiavano su di noi, c’erano le corse attraverso il viale alberato. Ogni volta che abbassavo le palpebre la mia mente proiettava diapositive di una vita passata che quasi mi dimenticavo di aver vissuto. Tutti le pezze sotto cui avevo nascosto accuratamente parte della mia esistenza saltarono via in un momento e io fui costretto ad accorgermi che alcune cose non possono essersi semplicemente fermate, sono come un fiume in piena – si può solo ammirare lo spettacolo.
Quando il bussare alla porta di Lucy divenne troppo insistente e fui costretto ad aprirle, il mio volto doveva essere così sbiancato che lei corrucciò le sopracciglia preoccupata.
«Tutto bene?»
«Ti ho mai raccontato di Danny?»

Passò diverso tempo prima che io lo rintracciassi.
La casa discografica con cui allora lavorava allora non era legalmente obbligata a offrirmi notizie su di lui, mi liquidarono velocemente con il monito di non volermi più sentire. Del resto c’era poco da biasimare, ero io l’estraneo che chiedeva informazioni su uno dei loro cantanti. Passai il resto della giornata chino su libri e giornali, telefonando a qualsiasi negozio di musica pur di scoprire qualcosa in più su Danny: dopo una settimana avevo gli occhi cerchiati da borse livide e recarmi al lavoro era diventato una noiosa distrazione: mi sembrava che non ci fosse abbastanza tempo, ne avevo sprecato così tanto.
Ero così disperato che mi sembrava di annaspare in un pozzo buio in cui io stesso mi ero calato, fu allora che la mia famiglia mi venne in aiuto. Innumerevoli furono i pomeriggi passati con Lucy, seduti alla scrivania, alla ricerca della chimera che Danny era sempre stato. Tra una telefonata e l’altra solevo raccontare aneddoti della mia infanzia, farcendoli di particolari che ora mi apparivano di massima importanza: iniziavo ad avere paura di dimenticare – perché qualora Danny non fosse mai più ricomparso, di lui mi sarebbero rimasti solo i ricordi. Ritagliai articoli di giornale e recuperai interviste radiofoniche, il tutto con la smania di poter immaginare come sarebbero stati gli anni dell’età adulta se solo io non mi fossi comportato come invece avevo fatto; tornai un po’ il bambino che ero stato: ossessionato da quel nugolo di enigmi che era Danny. E Danny per me tornò ad essere la scoperta che era sempre stato, mi sorpresi che a quasi quarant'anni passati uno come me potesse ancora scoprire qualcosa di nuovo.
Infine, l’indirizzo del mio migliore amico mi venne dato dalla prima casa discografica indipendente per cui aveva lavorato. Allora quasi in fallimento, non ne rimaneva molto se non il vecchio portone arancione e l’affissione Neon Records. Più tardi venni a conoscerne il proprietario, un uomo modesto, ormai sulla sessantina, dalle mani affusolate come quelle di un pianista. Ricordo con estrema nitidezza il cordiale sorriso che mi rivolse mentre mi annotava l’indirizzo di Danny su un foglietto sgualcito – un sorriso che mascherava parole volutamente taciute: egli mi aveva detto che tutt’ora intratteneva una corrispondenza con Danny, ma omise dettagli di maggiore importanza. Forse fece il giusto, forse se mi avesse detto come stavano veramente le cose io non avrei avuto la forza per inseguire in capo al mondo il mio amico e avrei preferito abbandonare tutto. Di nuovo.
Fatto sta che una mattina di Agosto presi un giorno di ferie – il primo negli ultimi nove anni – e salii sul primo treno per Leeds, perfettamente conscio che quello che inseguivo era un semplice indirizzo scarabocchiato con lettere grossolane, non una verità assoluta. E mentre me ne stavo sul sedile, irrequieto come un ragazzino, mi sembrava di essermi imbarcato su una navicella spaziale pronta a riportarmi indietro nel tempo. Mi sentii energico come non lo ero mai stato, preso da un fervore quasi adolescenziale, e feci tesoro di quelle sensazioni che mi penetravano sottopelle, perché sapevo che non sarebbero mai più tornate. Tornai ad avere undici anni, elettrizzato all’idea di fumare al vecchio porto al Sud di Brighton, nascosto agli occhi sospetti di quelle creature così strane e tristi e monotone che erano gli adulti. Nuovamente dimentico dell’ombrello, camminai per la cittadina inglese attento a non bagnarmi troppo a causa della leggera pioggia che ormai mi scivolava sulla fronte. Poco dopo riscoprii che sporcarsi la giacca buona o le scarpe nuove non era una prospettiva così malvagia e che correre sotto il piovasco inglese mi provocava sempre un moto ilare, come quando ero ragazzino.
Non so che cosa mi aspettassi quando al mio bussare mi venne aperta la porta, forse mi immaginavo che dall’altra parte apparisse il ambino che Danny era stato anni e anni prima, con quella zazzera confusa di capelli color pece e lo sguardo estremamente concentrato, troppo piccolo per i suoi vestiti – oppure poteva aprirmi un sedicenne estremamente allampanato, i capelli ondulati che gli arrivavano alle spalle e il naso leggermente aquilino a sorreggere un paio di occhiali da sole rossi. Non so che cosa mi aspettassi quando al mio bussare mi venne aperta la porta, ma quando vidi la figura che si stagliava controluce fui colpito da tutti gli anni che erano passati e si erano depositati sul volto del mio migliore amico. Magro come non lo era mai stato, sul viso emaciato iniziavano a stagliarsi piccole rughe che si allargavano come sottili ragnatele. E fui di nuovo scosso da quel senso di impotenza: avevo perso troppo tempo, ed io e Danny ci eravamo trasformati nei fantasmi di chi eravamo. Mi ritrovai ad annaspare qualche tipo di scusa, del resto mi ero presentato a casa sua senza nemmeno un avviso: per quanto ne sapevo lui avrebbe potuto non riconoscermi.
Allungai una mano: «Sono Joe, quello di Edburton Avenue.»
Un nome e una provenienza, entrambi ormai svestiti del loro vero significato. Con il passare degli anni avevo smesso di usare quel diminutivo, preferendogli un più formale John; mentre Edburton Avenue non era altro che un indirizzo di cui preservavo poche memorie, avendolo venduto quasi una dozzina di anni prima, in seguito alla morte di mia madre. Eppure, se Danny se mi avesse mai ricordato, mi avrebbe ricordato per la persona che ero stato; la stessa cosa valeva per me, che faticavo a indovinare i tratti di Danny nella persona in piedi di fronte a me.
«Mi dispiace per l’improvvisata, ma non avevo il tuo numero di telefono. Altrimenti ti avrei chiamato. Se è un brutto momento non è un problema.»
Quello che mi ricambiava era uno sguardo così intenso che avrebbe potuto trapassarmi come la punta di una lancia, gli occhi di Danny sembravano analizzare ogni mio dettaglio e ogni mia parola – ecco, solo quello non era cambiato: quel suo sguardo che sapeva metterti a nudo.
«Vuoi entrare?» domandò neutro; dall’altra parte della porta, aperta per metà, sentii provenire dei passi. Contrassi la mascella, ora perfettamente conscio dell’idiozia che avevo appena compiuto, piombare a casa di uno sconosciuto era di quanto più scortese potessi fare. Deglutii: «Non voglio disturbare.»
Calò un silenzio pesante: era troppo tardi per andarsene ed era troppo tardi per cercare di rattoppare un rapporto così sfilacciato, era sempre stato troppo tardi. Furono gli stessi passi di prima a riempire quell’assenza di suoni che si era creata, da un parte indistinta dell’appartamento cui avevo bussato sentii provenire una voce maschile: «Chi è?»
Danny non mi distolse lo sguardo di dosso: «Un vecchio amico. Non ci vedevamo da molto tempo.»
«Fallo entrare, ma digli che qui è un porcile.»
E i passi si allontanarono.

Danny è sempre stato strano, e lo era anche allora. Parlava a voce bassa e con lui era difficile intavolare una conversazione leggera, da quando mi sedetti sul suo divano sgangherato – in seguito scoprii che si sarebbero trasferiti in un paio di settimane – lo vidi sprofondare nella sua poltrona rossa. Teneva le gambe incrociate e quando beveva il té si sporgeva pericolosamente verso il tavolino da caffè che ci separava, sembrava un contorsionista nell’atto di esibirsi nel suo spettacolo.
Ora Danny portava i capelli corti e una montatura quadrata di occhiali, ma dietro le ciglia folte si intravedeva quella irrequietezza che lui aveva sempre cercato di nascondere con i suoi modi pacati e la voce soave. Per una buona mezz’ora parlai io e, incapace di trovare un argomento appropriato, iniziai a raccontare di ciò che era stato di me negli ultimi venticinque anni, delle mie figlie e di Jane, che in qualche modo era riuscita a riportarmi dal mio migliore amico – ma non ebbi il coraggio di pronunciare quella parola in sua presenza, ero ancora pieno di vergogna e risentimento. Lui mi osservava attento, talvolta passandosi una mano sul mento.
Ricordo, pur essendo passati dieci anni, di aver visto gli acari di polvere danzare in controluce in quel vecchio appartamento su a Leeds, si alzavano appena uno si spostava sul divano o alzava la tazzina dal tavolo. Li ricordo perché Danny fece un breve commento su quelli, a mezza voce, dicendo che alla fine gli stessi continuavano a scontrarsi, in un modo o nell’altro. Io non dissi niente, ma sapevo che lui aveva intuito che avevo capito.
Dopo un paio d’ore passate a colmare i silenzi, a venirmi in aiuto fu quello che io poi appresi essere Andrew – allora stimai che avesse qualche anno in meno di noi, con quella folta matassa di capelli bruni e un sorriso brillante, da attore del cinema. Appena ne sentii la voce, intuii che era stato lui a parlare sull'uscio della porta– non che avrebbe potuto esserci qualcun altro, stipato in quei cinquanta metri quadrati di un quarto piano –, mi chiese se volessi accompagnarlo in cucina mentre Danny si faceva una sigaretta e il suo tono prese un’inflessione così seria che quasi mi sentii obbligato a seguirlo nella piccola stanza. Aveva un modo di fare cordiale e benevolo, che un poco cozzava con la mia introversione e il mio modo di fare schematico, teneva legato ai fianchi un grembiule e prese a lavare le tazze che avevamo appena usato.
«Dan mi parlava spesso di te.» disse, senza abbandonare quel mezzo sorriso che da là in poi avrei sempre collegato a lui. «Specie i primi anni, quando ci eravamo appena incontrati.»
Mi dovetti trattenere dal domandare che cosa dicesse di me, se avesse raccontato la storia senza omettere dettagli. Di nuovo, la vergogna mi colpì come una freccia in pieno petto; mi mossi a disagio.
«Per lui devi essere stato una specie di eroe. Quando era piccolo ti doveva guardare con un’ammirazione!»
Una seconda freccia, una allo stomaco: il rimorso tornò a farsi sentire con una tale forza che non riuscì a tacere: «Non credo proprio, tra i due era lui a essere l’unico
«E credi che ne fosse felice? Non sai che cosa gli hanno fatto passare i genitori.»
Fui costretto ad annuire, le spalle al muro: solo allora mi resi conto di quanto per tutta la sua vita uno fosse stato osservato come un oggetto fuori posto, alla fine anche io ero arrivato a vederlo come un qualcosa da aggiustare, quando ancora sognava di fare il musicista e leggeva i racconti di Poe. Danny aveva sempre remato controcorrente, anche contro di me.
Non risposi e nemmeno Andrew aggiunse niente, spostò l’argomento della conversazione su argomenti più leggeri, come la collezione di vinili che Danny conservava nella camera da letto, gli uni impilati sugli altri. Ma io avevo smesso di ascoltare.

Le mie visite a Danny si fecero un’abitudine, una volta al mese prendevo il treno per Leeds al mattino e tornavo a Brighton la sera, stanco e pieno di malinconia, ma comunque felice. Danny iniziò a parlare sempre di più, ma raccontava solo della musica e dei suoi bizzarri sogni, smozzicava che si era preso una pausa per scrivere nuove canzoni e che non appena le avesse avute pronte sarebbe tornato in radio, come gli era successo con il suo ultimo album cinque anni prima. Danny era sempre più magro e si muoveva a scatti, nervosamente, mentre beveva il tè o fumava una sigaretta nel silenzio del suo salotto. Dopo quasi un anno di incontri ancora non ero riuscito a esprimere quelle parole su cui rimuginavo quasi ogni sera prima di andare a dormire: cercavo di scusarmi, ma ogni volta mi sembrava meno adatta, mi pareva di risultare fuori luogo o privo di tatto come il ragazzino basso e grassoccio che ero stato. E allora stavo in silenzio, sempre in silenzio, continuando a ripetermi che se non mi fossi sbrigato sarebbe stato troppo tardi.
Ma a Danny devo anche dare questo: implicitamente, con i suoi modi pacati, mi insegnò che non c’è mai un momento giusto e poiché non ce n’è mai uno, allora ogni momento è quello giusto. Non era mai il momento giusto per chiedere che cosa uno pensasse della morte, ma lui me lo chiedeva lo stesso da dietro la sua sigaretta stropicciata, non era nemmeno il momento giusto per confessarmi che da giovane aveva passato un periodo di dipendenza dall’eroina, eppure me lo diceva lo stesso, con una noncuranza che quasi mi spaventava. A tal proposito, scoprii che il suo, a Londra, fu un periodo infernale: Danny mi aveva detto, in quell’ultimo giorno di gioventù, che lui si sentiva felice. Ma uno come Danny, un alieno sceso in terra come per un esperimento, sarà sempre un estraneo, anche nella sua stessa casa. Venni a conoscenza di tutte le droghe che aveva sperimentato e lui me ne parlò come se la cosa nemmeno lo riguardasse, mi disse che a tal proposito aveva scritto una canzone, ma che quella era rimasta inedita, sicché la casa discografica di allora non trovava gli argomenti pertinenti. Nel raccontare quell’aneddoto sorrise appena, ancora lo ricordo: era la prima volta che lo vedevo sorridere da quella serata nel pub di Londra. Ma quello di allora era un sorriso amaro.
Consapevole che ormai non avrei mai potuto trovare il momento giusto, una sera, prima di tornare a casa, appoggiato all’ombrello blu che ancora ho in casa, vomitai tutte le parole che avevo ingoiato per un quarto di secolo.
«Volevo solo dirti che mi dispiace Danny, per tutto quello che ho fatto. Non te lo meritavi, avrei dovuto capirlo, avrei dovuto comportarmi da amico. E non l’ho fatto. E mi dispiace. Avevi bisogno di qualcuno che lottasse con te contro il resto del mondo e io non ero la persona adatta – non lo sono mai stato –, eppure non avrei comunque dovuto farti del male così, voltandoti le spalle. Se potessi tornare indietro troverei un modo per cambiare le cose. Mi dispiace così tanto.»
Danny mi fissò con quell’aria concentrata con cui aveva fissato la mia pista di biglie trentacinque anni prima, osservò ogni mio minimo dettaglio senza dire una parola – questa volta in volto aveva l’espressione di un anziano, di un saggio. Aspettai, con la mascella contratta, una sua risposta. Non rispose mai nulla, mi guardò solo con quei pozzi neri che aveva al posto degli occhi e annuì. Credo che avesse capito.
Danny è sempre stato una di quelle persone destinate a rimanere sole per sempre, una persona difficile da amare e a cui legarsi. Io e Andrew ci avevamo provato, in modi diversi – dalle loro occhiate si comprendeva che ci fosse qualcosa di più che una solida amicizia, talvolta si stringevano una mano o i loro sguardi indugiavano qualche secondo in più –, entrambi consapevoli che Danny non avrebbe mai potuto ricambiare nel modo in cui avremmo sperato. Cercare di trattenerlo, o aspettarsi da lui una risposta alla confessione che io gli avevo fatto, era impossibile. Fui però irrimediabilmente contento di quel semplice gesto del capo, fui orgoglioso che uno come me potesse aver inciso qualcosa nella vita di uno come lui e a tempo stesso mi odiai per non essermi mosso prima, per aver aspettato che il tempo mi piegasse a suo volere..

La mia promozione iniziò a richiedere sempre più sacrifici e le visite a Danny si fecero sempre più rare. Tre all’anno, quando riuscivo. Nella mia mente continuavo a ripetermi che lui comunque aveva Andrew dalla sua parte, qualcuno con cui compartire i momenti di vita quotidiana, qualcuno che lo appoggiasse e da appoggiare. Un paio di volte mi accompagnò Lucy e in seguito mi riferì che Danny aveva il potere di metterla a disagio: le sembrava di vedere un vecchio nel corpo di un uomo – allora nemmeno lei capiva.
Il volto di Danny si fece scavato e a un certo punto divenne palese che qualcosa in lui non andasse. Aveva le mani nodose e talvolta gli tremavano, cosicché presto prese a declinare i té che mi offrivo di fargli. Dimagriva a vista d’occhio e la pelle si era fatta pallida e secca, piena di irritazioni, all’inizio del ‘95 doveva pesare poco più di sessanta chili e i pantaloni gli si erano fatti così larghi che sembrava sprofondarvi dentro ogniqualvolta che si sedeva sulla sua poltrona. Quando si alzava per andare a prendere qualcosa lo vedevo traballare come un equilibrista su un filo estremamente sottile; aveva addirittura smesso di suonare la chitarra e i suoi spartiti erano stranamente scomparsi dal tavolino su cui erano impilati.
Vidi Danny consumarsi da dentro come un fiammifero che si sta per spegnere, ma anche allora guardai dall’altra parte, cercando di indovinare nella persona che era diventata i comportamenti che da giovane mi erano familiari: il tirarsi su gli occhiali sulla punta del naso, la sua risata a singhiozzi, la sua camminata dinoccolata.
Quando la situazione divenne troppo evidente, fu Andrew a prendermi da parte, anche lui sembrava essere invecchiato negli ultimi due anni e sotto gli occhi si erano formate grandi occhiaie che mi parevano lividi.
«Come ti sarai accorto, Dan non sta bene. Non vuole farlo sapere, ma ormai è evidente, tu non dirgli che te l’ho detto.»
La mia mente, allenata a passare anche più di diciotto ore nei corridoi di un ospedale, corse a elencare tutte le malattie di cui poteva soffrire, fu un riflesso incondizionato: prima dell’apprensione sopraggiunse quella smania di capire di quale infermità si trattasse. Mi ci volle quasi mezz’ora a capire che Danny, il mio migliore amico, quello della pista da biglie, era divorato via da una malattia incurabile.
«È AIDS. L’ha contratto tre anni fa, i medici gli hanno dato cinque anni al massimo.»
Rimasi fermo, paralizzato da una paura ancestrale. E di nuovo, sentii di essere travolto da qualcosa di più grande di me, di qualcosa che non riuscivo a comprendere.
«Come?» riuscii solo a chiedere, la gola improvvisamente secca.
Andrew mi rivolse un sorriso amaro, era la prima volta che glielo vedevo in volto: «Un omosessuale con un passato da tossicodipendente, Joe. Io e Dan ci conosciamo da tanto tempo, ha avuto una storia difficile da quando è uscito dalla cupola di vetro di casa sua. Molti dei nostri amici sono già morti, ora andare a un funerale è quasi un'abitudine.»
Gli lacrimavano gli occhi.

Mi precipitai rispondendo che conoscevo persone pronte a visitarlo, che io ero dell’ambiente, se voleva avremmo persino potuto provare cure nuove, era un rischio che valeva la pena di correre.
Andrew alzò le spalle: «Lui crede ancora di star bene, non vede nemmeno la necessità di prendere le medicine che devo somministrargli a forza. Ma forse puoi parlarci tu.»

A volte, nella vita, non possiamo fare altro se non correre in cerchi. Ora che ho cinquantadue anni sono quasi del tutto convinto che la mia vita sia stata una perfetta circonferenza, l’inizio e la fine si sono confusi e ogni volta che passo per lo stesso punto mi sembra di averlo vissuto migliaia di volte, ogni diapositiva della mia esistenza è alla stessa distanza dal centro rispetto a tutte le altre, quel centro inarrivabile, un punto solo che non riuscirò mai a toccare per quanti giri continuerò a fare. E a ogni giro uno è più stanco e le cose si fanno più difficili, cosicché, quando mi venne fatta quella confessione, mi rividi davanti all’ospedale St. Pancras e rividi un castello di carte rovinare ai miei piedi, questa volta più forte, lasciando solo macerie.
Era davvero troppo tardi e non c’era più tempo.
Quel rapporto che avevo cercato di ricucire e per cui avevo sempre sofferto così tanto si sarebbe presto dissolto e io, stupidamente, mi ero fatto solo del male a cercare Danny quel mattino di Agosto del ‘92.
E lo vidi crollare, quel castello, lo vidi crollare come lentamente vidi crollare Danny. Ma non voglio parlare di lui in quello stato – di come si era ridotto, incapace di vivere come avrebbe voluto. Voglio ricordarlo come quando mi raccontava le sue storie di fantasia e di come rideva – Dio mio, come un matto! - quando io gli facevo una battuta, voglio ricordare i suoi disegni e le sue canzoni così semplici ed eppure così cariche di spessore. Gli occhiali da sole rotondi e rossi, le camicie larghe, le sue mani che si muovevano sapientemente sulla chitarra, le serate al pub, la sua insonnia.
Danny morì il 21 Settembre 2001, a nove anni dalla contrazione della sua malattia. I medici dissero che se ne andò pacificamente, finalmente avvolto da quel sonno che in vita sempre gli era mancato. Non ho potuto vedere le cartelle che lo confermassero, ma mi piace pensare che sia stato così, che magari nel mondo onirico abbia cavalcato una chimera e abbia finalmente attraversato l’Atlantico in cerca di oro.
Danny era una persona diversa e questo lo sapevamo tutti.
Conoscevo i suoi genitori e sapevo quanto imbarazzo provavano persone a modo come loro ad avere un figlio come lui, specie in quegli anni. Ma Danny non era un malato, uno scansafatiche. Era un visionario, era un artista: mentre tutti noi – io, i suoi genitori, il nostro quartiere – cercavamo una vita stabile, correndo come matti per prendere il nostro salario, lui strimpellava la sua chitarra. Eravamo noi i pazzi, non lui. Non so se lui se ne sia mai reso conto, se mai per un singolo secondo della sua vita abbia compreso che genere di persona fosse, ma io ora ho preso coscienza del dono che è stato e voglio che ne prendiate coscienza anche voi.
Stiamo tutto il giorno guardare un televisore e a rincorrere un titolo di studio e a volte ci dimentichiamo di quello che fama e gloria non contano nulla nello schema della vita. Quello che conta è lasciare qualcosa, e Danny ha lasciato così tanto: io sono una delle sue tante impronte e mi piacerebbe passarvi il testimone.
Ancora tante scuse, Danny, avevi ragione tu.
Hai sempre avuto ragione tu.
Ora lo vedo anche io l’occhio nella mia pista di biglie.”

 

 

 

 

- dal discorso di John Malcom Anderson per la cerimonia di anniversario
di morte di Daniel H. Preston (1950 - 2001)

 

 

 

 

Note dell'autrice: questa è una storia breve, o un racconto lungo, vetevela voi, ma per me è stata di enorme importanza. La prima storia a cui metto un punto finale da quasi due anni che, per quanto corta possa essere stata, è stato un ottimo universo in cui rifugiarsi in questi pomeriggi estivi. Vorrei ringraziare tutti quelli che di qui ci sono passati per caso e tutti quelli che mi hanno lasciato una recensione d'incoraggiamento.
Ancora una volta: vediamo di non dimenticarci di tutti i Danny nel mondo, ce ne sono uno in un milione ma sono il miglior tipo di persona che si possa mai incontrare.
Alla prossima.

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