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Autore: istherelifeonmars    18/08/2018    4 recensioni
Brighton, anni Cinquanta. Danny e Joe si conoscono per caso e sempre per caso le loro vite si intrecceranno immancabilmente, la loro è un'amicizia che cresce negli anni appena seguenti alla Guerra, in cui tutto è nuovo e ciò che è vecchio deve essere demolito e ricostruito. Gli anni più fiorenti dell'Inghilterra, che a quel punto ballava sulle punte dei piedi le canzoni dei Beatles e degli Who, faranno da sentiero ai nostri due protagonisti.
Una storia un po' romanzata, ma basata su avvenimenti reali - o almeno così mi piace pensare.
Ora che torno indietro con la memoria capisco che cosa vidi in Danny che negli altri non vedevo: allora lui era una scoperta, qualcosa di completamente nuovo con cui io avevo a che fare. Non era come gli adulti – impegnati a discutere sempre di politica, denaro o nuove ricette – ma nemmeno come gli altri bambini: stonava con l’ambiente in cui vivevamo. Stonava con tutto. Ha sempre stonato. Per il ragazzetto curioso che ero allora lui era una benedizione: un nuovo mondo da esplorare, questa volta per davvero.
Storia partecipante al contest Concorso a tema (l'amicizia), indetto da dramkath sul forum efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Someone turn me around
Can I start this again?
Now someone turn us around
Can we start this again?

We've all been changed from what we were
Our broken hearts left smashed off the floor
I can't believe you
If I can't hear you
I can't believe you
If I can't hear you

-Smokers outside hospital doors, The Editors


 

A tutti i Danny del mondo

 


Ode a un artista

I. La pista di biglie




 

"Danny era uno un bambino diverso, a scuola l’avevano capito tutti.
In cortile non giocava mai con gli altri, si sedeva piuttosto sui gradini che precedevano l’entrata e iniziava a disegnare appoggiando un foglio stropicciato sulle ginocchia minute, mentre tutti gli altri si rincorrevano tra risa generali. Sul suo viso si dipingeva un’espressione concentrata e, addirittura, gli si formava una ruga tra le sopracciglia folte e nere, come se fosse corrucciato. Gli altri bambini lo sentivano che lui era uno diverso: non avevano motivo di odiarlo ed eppure gli stavano sempre lontani, lo guardavano d’obliquo, curiosi, quando erano sicuri di non essere visti. Era come se ci fosse una barriera tra Danny e gli altri: era possibile guardarvi attraverso ma mai, mai andare oltre.
E a tutti andava bene così.
Anche a me, a dire il vero.
Danny mangiava da solo, al tavolo della mensa. La nostra scuola era piccola e vecchia: quando qualcosa non funzionava non era raro che venisse riparato maldestramente da mani inesperte, e dunque il nostro refettorio contava tanti posti quanti ne servivano – non un in più, non uno in meno. Danny era dunque costretto a sedere a un tavolo con gli altri, probabilmente perché non aveva altra scelta, eppure sembrava sempre mangiare da solo. Teneva sempre lo sguardo rivolto verso le finestre a Est, dove di solito il cielo brillava azzurrino. Osservava gli alberi di primavera fiorire lentamente e tornare verdi, d’autunno li guardava tramutarsi in ammassi di foglie rosse, fino a diventare scheletri di ciò che erano stati.
Parlava poco, e il minimo necessario, ma gli piaceva scrivere. Aveva quella grafia grossolana e tondeggiante tipica degli altri bambini e per quanti errori potesse commettere, perseverava nel riempire i suoi quaderni di storie. Nessuno sapeva di che tipo di storie si trattasse, ma ogni tanto ci si lasciava andare in mirabolanti ipotesi: racconti di draghi, di streghe e stregoni, racconti di alieni, navicelle spaziali e mostri terrificanti. Tutt’ora, devo ammettere, non ne conosco il contenuto. E forse, negli ultimi quarant’anni, nessuno l’ha mai conosciuto. Solo Danny, sempre solo Danny.
A volte mi chiedo che svolta avrebbe preso la mia vita se quel giorno del settembre del '56 non mi fossi fermato a parlare con lui, me lo chiedo spesso, a essere onesti. Forse non sarebbe cambiato nulla: la mia vita non sarebbe stata modificata assolutamente da un evento del genere, avrei comunque sposato Lucy e avrei comunque avuto due figlie, avrei continuato a vivere a Brighton come faccio ora senza particolari ripercussioni. E sì, forse se non gli avessi parlato sarebbe stato senz’altro così; ma c’è una cosa che gli devo dare: la sua esistenza ha cambiato molto il mio modo di pensare e forse mi ha reso più consapevole. Della nostra importanza nel mondo. Consapevole della nostra importanza nel mondo.
Questa è la nostra storia.


Giocavo spesso a biglie. Da quando ci eravamo trasferiti a Brighton in una villetta completa di cortile avevo iniziato a utilizzare il terreno brullo che avrebbe dovuto essere stato adibito all’orto – ma mia madre non ebbe mai tempo di curarlo – come mia pista personale. All’inizio, prima che mia madre appunto perdesse qualsiasi interesse in quel pezzettino di terra, riuscivo a essere rimproverato quasi costantemente: rovinavo la sua insalata e i suoi pomodori con i cunicoli che costruivo. Eppure non demordevo, mi piaceva giocare lì, anche se all’inizio ero spesso da solo: passare almeno un’ora del mio pomeriggio in quell’angolino del cortile era diventato il mio rituale personale. Quando presi a frequentare la scuola qualche settimana dopo e mi feci qualche amicizia, iniziai a invitare i miei compagni.
La mia vita era piena, non saprei come spiegarlo in altro modo: vivevo felicemente con i miei genitori, due persone assolutamente amabili e pacate, dal trasferimento mio padre trovò un lavoro redditizio presso una fabbrica di pneumatici e mia madre iniziò a frequentare il club di golf del quartiere – tutto quello che una coppia borghese poteva chiedere, nei cari e vecchi anni Cinquanta. Pochi anni dopo sarebbe addirittura nato anche mio fratello Irvin. A scuola ero circondato da altri bambini, tutti dello stesso vicinato e quando l’ultima campanella suonava schizzavamo tutti via per andare a giocare tra le strade. È questo che intendo con piena: sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui stare, mai un momento per sedere e riflettere.
Danny entrò in quella mia vita piena silenziosamente, a piccoli passi, e ci rimase per sempre. Ricordo che quel giorno avevo invitato a casa Henry Cunningham, ma lui si era ritirato all’ultimo momento per un’influenza. Sentendomi tradito ero tornato nella mia pista delle biglie, quel luogo che era sempre stato mio e solo mio: nessuno dei miei amici vi aveva mai messo pieno. Dopo qualche momento di sconforto, come spesso capita per i bambini, mi ero subito ripreso: stavo allegramente giocando da solo quando, alzando gli occhi, notai che qualcuno mi stava osservando dall’altra parte della staccionata che limitava il nostro cortile. Doveva essersi messo in punta di piedi per riuscire a superarla, allora Danny era piuttosto basso, e proiettava un’ombra che mi schermava dal rassicurante sole di Marzo. I capelli scuri erano arruffati ed era tutto sporco: dalla fronte alle punte delle dita.
Mi guardava e basta, con quell’espressione di concentrazione quasi adulta sul viso.
Anche io lo studiai per qualche istante, un po’ diffidente – in sei mesi non gli avevo mai parlato, ma sapevo bene chi fosse. Nonostante ciò, gli domandai chi fosse e che cosa pensava di fare lì, spiandomi.
«Mi piace la tua pista.» rispose semplicemente «Ha la forma di un occhio.»
Aveva già allora un modo strano di parlare, io di certo non saprei replicarlo: sembrava che ponderasse ogni parola e che a tempo stesso dicesse tutto ciò che gli passava per la mente. A sentirlo dire ciò, comunque, mi accigliai, la mia pista non aveva la forma di un occhio. Quando glielo feci notare lui persistette nella sua convinzione, mi disse di alzarmi e di guardarla dalla sua angolazione. Era vero, Danny aveva ragione, sembrava proprio un occhio spalancato con la pupilla dilatata. Era una cosa a cui avrei presto fatto abitudine: dall’angolazione di Danny le cose erano sempre diverse.
Fu allora che iniziammo a giocare a biglie insieme, lui perse, perse diverse volte, ma a differenza di ciò che avrebbe fatto Henry lui mantenne una calma onorevole, poche volte si mostrò crucciato. Fui contento di vincere, ma la sua reazione minò comunque la mia vittoria, ne tolse l’esclusività e la gloria. Era quasi pomeriggio e le nostre ombre si erano fatte oblunghe mentre il cemento del cortile iniziava a tingersi di arancione. Allora, mentre se ne stava per tornare a casa – viveva a qualche villetta di distanza dalla mia – racimolai un po’ di coraggio e gli chiesi perché fosse conciato così, tutto sporco, i vestiti ridotti quasi in stracci e i capelli scompigliati. Mi guardò con uno sguardo malinconico, nonostante il suo viso fosse rimasto neutrale: «Dei ragazzi più grandi mi hanno rincorso per picchiarmi.» dichiarò con struggente semplicità.
Ne fui quasi sorpreso, tutti sapevamo che Danny era diverso, ma a scuola vigeva la silenziosa regola secondo cui nessuno doveva prenderlo in giro o fargli del male. Del resto era un bambino innocuo, solo molto più solitario di tanti altri.
Qualche giorno dopo avrei appreso chi fosse stato.

 

Danny correva veloce, questo lo scoprii durante le lezioni di educazione fisica. Si muoveva così in fretta ed era così piccolo che avrebbe potuto superare anche i bambini più agili, che di solito durante giochi come guardie e ladri erano i primi a prendere gli altri. Quando correva teneva sempre quell’espressione concentrata, a volte era così assorto da mordersi le labbra sottili fino a farle sbiancare. Quando il giorno dopo lo vidi così, a librarsi per le mura basse e pregne di umidità della palestra, mi sembrò un uccello pronto a librarsi nel cielo, intrappolato però in un ambiente angusto, non adatto a lui. Non mi sorpresi che Danny fosse riuscito a seminare i ragazzi cui aveva accennato senza procurarsi nessun danno. Ero ancora curioso riguardo la questione, ma nell’orario scolastico non dissi né feci nulla che potesse far trapelare il mio interesse nei suoi confronti, l’idea che gli altri mi vedessero parlare con lui mi metteva a disagio, in qualche modo. Pazientai, dunque, e, seduto accanto a Henry Cunningham su una pila di materassi accatastati in un angolo, fingevo di discutere di calcio mentre di tanto in tanto, sistematicamente, gli lanciavo un’occhiata di sottecchi.
Al ritorno verso casa fremevo per poter tornare alla mia pista da biglie, sperando di incontrare di nuovo Danny lì – di fatto non ci eravamo prefissati di giocare di nuovo, ma io me ne ero quasi convinto. Con una scusa attraversai di fretta il nostro quartiere, sentendo alle spalle le risate dei miei amici, villetta dopo villetta, giardino dopo giardino, per poi sgusciare nella porta di casa e consumare il pranzo velocemente, ben consapevole degli sguardi di disapprovazione che mia madre mi lanciava mentre ingollavo bocconi enormi di porridge. Ora che torno indietro con la memoria capisco che cosa vidi in Danny che negli altri non vedevo: allora lui era una scoperta, qualcosa di completamente nuovo con cui io avevo a che fare. Non era come gli adulti – impegnati a discutere sempre di politica, denaro o nuove ricette – ma nemmeno come gli altri bambini: stonava con l’ambiente in cui vivevamo. Stonava con tutto. Ha sempre stonato. Per il ragazzetto curioso che ero allora lui era una benedizione: un nuovo mondo da esplorare, questa volta per davvero.
Alle quattro del pomeriggio Danny si appoggiò alla staccionata, questa volta in condizioni migliori delle precedenti, evidentemente anche lui aveva visto qualcosa in me – ancora oggi mi chiedo che cosa – ed aveva deciso di tornare. Ero felice.
Giocammo per una buona ora, questa volta ero più rilassato e mi lasciai andare in qualche buffa battuta e lo vidi ridere di sottecchi, mentre cercava di spingere la biglia sotto un tunnel o su un ponte. Dopo un po’ iniziammo a parlare, dimenticandoci della gara in corso. Danny sedeva a gambe incrociate, i pantaloni marroni a contatto con il terreno e la maglia esageratamente larga che formava pieghe ovunque. Lui parlava poco e io compensavo per entrambi, gli raccontavo dei miei e di quanto fossero simpatici i miei amici – quelli nuovi a Brighton e quelli che mi ero fatto a Londra, a cui ancora mandavo qualche disegno di tanto in tanto. Continuavo a girare attorno al vero motivo della mia curiosità, volevo sapere chi volesse picchiare uno come Danny. Un bambino.
D’un tratto sbottai la domanda senza dargli il tempo di processare: «Chi era che ce l’aveva con te, ieri?»
Lui rimase in silenzio, trapassandomi con lo sguardo. Poi parlò: «Dei ragazzi delle medie, se non scappi abbastanza veloce picchiano forte, sono alti e grossi
Rabbrividii come se stessi sentendo una storia del terrore: avevo ben presente il genere e tutti ne avevamo un timore reverenziale. Tornando indietro mi viene da sorridere: erano esattamente bambini come noi, forse solo un po’ più alti e con una maggiore smania di comportarsi da adulti. Quando gli domandai, comunque, il perché lo avessero preso di mira lui si rabbuiò – e mi fece rizzare i peli sulla nuca, mai avevo visto dipingersi una tale espressione su qualcuno di quell’età – e dopo una pausa si decise a non rispondere. Disse di non saperlo. Poco dopo, eccolo che scavalcava la staccionata e correva via, verso casa sua.
Tutt’ora credo che ci siano momenti che sanciscono amicizie: due si possono conoscere da dieci e più anni ma se non capita loro quel tipo di momento, allora non saranno davvero mai amici. A me e Danny capitò quasi subito, dopo due settimane di incontri quotidiani alla pista di biglie. Un giorno che tornavamo a casa da scuola – lui più avanti, io me ne stavo indietro, a parlare con i miei compagni – vidi delle bici sfrecciare per il viale alberato sul quale si affacciavano le nostre case. Erano quelli più grandi, quelli che, a quanto avevo capito, erano coloro che avevano continuato a dare fastidio a Danny durante gli ultimi due mesi. Inizialmente lui non si turbò, continuò imperterrito a camminare mentre quelli gli urlavano parole che io non capivo ma mi parevano oscene. Mi sentivo male, così male per lui, eppure non ebbi il coraggio di fare nulla se non trascinare i piedi avanti mentre gli altri chiacchieravano dell’imminente gita in spiaggia organizzata dal comitato genitori. Quando rimasi da solo trovai il coraggio di fare qualcosa, finalmente, e allora accelerai il passo e mi affiancai a Danny, attorno a cui i ragazzi più grandi avevano iniziato a girare come avvoltoi in attesa di un pasto - gli sbraitavano contro parole strane, che allora io non comprendevo, ma che mi mettevano addosso un senso di disagio. Qualcuno di loro mi rivolse un’occhiata perplessa, ma prima che potessero parlare, o cercare di aggredire anche me, presi Danny per il polso e gli dissi che poteva pranzare a casa mia, ormai distante pochi passi.
Ancora ricordo lo sguardo che mi rivolse, pieno di sbalordita gratitudine.


Iniziò così, senza che nessuno lo volesse per davvero. Iniziò con noi due che sedevamo al tavolo di casa pronti a mangiare il pranzo, mentre mia madre, da dietro la rivista di cucito, ogni tanto ci domandava come fosse andata a scuola. Anche lei, nel corso dei mesi, rimase affascinata e spaventata dalla figura di Danny – che quando prese confidenza iniziò a parlare sempre di più. Scoprimmo che per un bambino di sette anni aveva moltissime cose da dire: raccontava principalmente storie, improvvisava colpi di scena e creava grazie al solo ausilio della sua immaginazione i personaggi più strani. Quando giocavamo a biglie mi piaceva stare a sentirlo parlare e perdermi in quei mondi che condivideva con me. Solo con me, mi faceva sentire speciale: l’unico su tutta la superficie terrestre ad affacciarsi alla finestra della mente di uno come Danny
Non mi dilungherò molto su questo periodo, ma con gli anni mi sono spinto a credere di aver costruito un ottimo rapporto con lui: lo feci uscire dal suo guscio e mi piace pensare – forse peccando di orgoglio – di averlo aiutato a diventare la persona che è poi effettivamente diventata. Gli anni delle elementari passarono in fretta, si può quasi dire che sgusciarono via dalle nostre dita troppo presto e troppo velocemente: io iniziai a crescere in altezza, mi feci più longilineo di quanto sarei mai stato e all’ennesimo rifiuto di andare dal barbiere per tagliarmi i capelli, ricordo che mio padre esasperato decise di rasarmeli a zero e quella zazzera corta e rossiccia mi rimase in testa così com’era per il resto dell’anno. Danny rimaneva invece minuto e fragile, ma all’interno cambiò velocemente.
Ricordo che durante l’estate tra la quinta e la prima media, mentre io ero troppo impegnato a badare a quell’uragano di mio fratello Irvin, appena nato, lui sviluppò un interesse quasi morboso verso la morte. Mi riferì che il suo cane – un bellissimo pastore dal manto fulvio, si chiamava Red, ancora lo ricordo – era mancato per la sua età avanzata.
E così io avevo a che fare con la vita e lui con la morte.
Quando ci rincontrammo a Settembre per iniziare la nuova avventura scolastica, lo vidi cambiato – e mi sarei dovuto abituare ai suoi cambiamenti repentini, ma allora questa cosa ancora non potevo ancora immaginarla. Se ne stava in fondo alla classe a disegnare animali morti e carcasse di vario genere, scarabocchiava bulbi oculari spalancati e altre oscenità che mi attraevano quasi morbosamente. Da una parte trovavo interessante la sua svolta, dall’altra ne ero spaventato: mio padre mi aveva ben raccontato che uno come lui non era il genere di persona con cui avrei voluto passare il mio tempo, nel nostro quartiere – lindo e pulito, mai una macchia tra le nostre cose – giravano voci sul suo contoi. Allora non mi disse nulla, ma più tardi appresi che cosa intendesse: molti dei nostri vicini sospettavano che fosse stato lui ad uccidere il suo stesso cane e alcuni giuravano di averlo visto fumare dalle parti del porto, nascosto tra le casse e le bancherelle del pesce. Non mi sarebbe interessato, però, nemmeno se allora me lo avesse detto chiaramente. Per qualche mese mi proibirono di vederlo, ma eravamo ragazzini negli anni Sessanta, sapevamo come nasconderci agli occhi vigili degli adulti.
Fu in quel periodo che la peculiare diversità  - animali morti, disegni di impiccagioni e una strana ossessione per i racconti di Poe - di Danny iniziò a essere fraintesa e da allora fu solo un’interminabile declino, a quell’età i ragazzini sanno essere malvagi e iniziano a comprendere quali sono le linee che dividono il normale dal diverso. E tutti volevamo essere persone regolari, integrarci nella massa, forse perché conformarci ci faceva sentire più grandi, più apprezzati. Una cosa la posso affermare, però, erano quelli che additavano Danny come un reietto ad essere quelli spaventati: a lui non importava di rientrare in certe categorie, già allora non aveva paura. In quel periodo anche io ero spaventato e per quanto volessi bene al mio amico conducevo una vita binaria: a scuola con gli altri, i pomeriggi con lui. Di quel periodo rimembro con particolare minuzia i pomeriggi passati al porto, seduti sulle banchine e con i piedi a pochi centimetri dall’acqua cobalto di Brighton. Osservavamo i pescherecci approdare e ho quest’immagine stampata nella mente come una fotografia: le reti enormi di pesci che venivano trainate a terra. Le orate scalpitavano a contatto con la terra ferma e le loro squame argentee risplendevano nella luce pallida del pomeriggio. Ogni volta che una barca approdava ci sembrava portasse enormi tesori: monete e monili preziosi. Danny s’inventava storie di avventurieri che erano andati nelle Americhe per ripescarli, pirati e mostri marini che combattevano nel mezzo dell’Atlantico – eppure i dettagli si facevano sempre più macabri e inquietanti. Io lo ascoltavo con un interesse quasi accademico, avrei dato tutto l’argento del mondo per sapere come funzionasse la sua mente e dunque orbitavo continuamente attorno a lui come un satellite farebbe con il pianeta più grande.
Iniziammo a fumare là, nascosti dagli occhi indiscreti dei passanti, dei marinai e degli acquirenti. Lui rubava le sigarette da sua sorella, Sally, e me le portava minuziosamente conservate come se fossero state piccoli tesori. Avevamo dodici anni e quando, là seduti con i piedi in aria e la testa per aria, ci sembrava di poter cavalcare un chimera e attraversare davvero l’Oceano Atlantico. Immagino che dipingerei così la giovinezza, se solo sapessi farlo.
Divenimmo ben presto un duo, il nostro era un binomio inscindibile, non esistevano più Danny e Joe come persone singole, eravamo sempre Danny-e-Joe. Con il passare del primo anno alle medie questo divenne un fatto riconosciuto da tutti; per quanto io contassi altre amicizie al di fuori di Danny, noi venivamo immancabilmente marchiati come una sola persona. I legami che nascono nell’infanzia, del resto, sono i migliori: ci si ama così incondizionatamente e immancabilmente si arriva a conoscere l’altro a tutto tondo, senza giudicare. Sono quelle amicizie che legano indiscutibilmente due individui per sempre ed io e Danny siamo sempre stati legati da un filo invisibile, ancora oggi sento questo legame come se avessi undici anni, non più cinquantadue. Mi auguro che ognuno, nel corso della propria vita, abbia provato qualcosa di simile: un volersi bene che va oltre ogni preconcezione e giudizio. Quando mi guardo alle spalle, vorrei davvero credere che Danny-e-Joe abbiano attraversato tutto insieme. E invece non è stato così, perché la vita sa essere bastarda e noi esseri umani sappiamo essere così apatici e superficiali da non riuscire a guardare oltre al mondo che ci creiamo da soli.
Questo successe a noi due.


Prima di narrare cosa accadde durante gli anni dell’adolescenza è necessaria una premessa. Non sono mai stato uno scrittore, ma credo che a questo punto sia doveroso prendere una pausa da tutte queste parole che sto vomitando e cercare di dare loro un ordine, un senso. Questa notte mi sono svegliato alle quattro e ho osservato il soffitto per un tempo che non saprei quantificare, mia moglie accanto a me dormiva. Durante quelle che a me sono parse ore – ma potrebbero essere stati solo poco più che trenta minuti – ho continuato a pensare che dovevo scrivere di più di me e Danny, perché mi rendo conto che in molto potrebbero non comprendere com’eravamo realmente. Allora mi sono messo all’opera, la luce azzurrina del computer a farmi lacrimare gli occhi.
Una volta io e Danny scappammo di casa – o così ci piacque pensare allora. Lui mi venne a chiamare alle dieci di sera, una sigaretta gli penzolava dalle labbra e lo presi in giro, accusandolo di essere una brutta caricatura di James Dean. A quel punto dovevamo avere tredici o quattordici anni e il vecchio orto, nonché la nostra personalissima pista di biglie, ormai era un ricordo lontano. Danny era cresciuto tutto in una volta e tutta in quell’estate, ora mi superava di una buona spanna ed era estremamente dinoccolato, tutto ginocchia e gomiti, magliette bianche, giacconi verde militare e calze ruvide che gli dovevano arrivare su per giù alle ginocchia. Non si tagliava i capelli da un po’ e ora gli formavano una frangia scompigliata sulla fronte bassa e brufolosa. Anche io allora ero cambiato, avevo preso la forma abbozzata dell’uomo che sarei stato: statura nella media e una tendenza al sovrappeso – come mia moglie mi rimprovera spesso. Lui mi venne a chiamare, comunque, alle dieci di sera, se ne stava nel mio cortile come era solito fare, ormai era abbastanza alto da scavalcare la staccionata senza particolari sforzi. Mi disse di scendere in fretta, ché mi avrebbe portato in un posto a festeggiare.
«Festeggiare che, esattamente?» gli avevo chiesto, gli avambracci incrociati sul cornicione e un sopracciglio inarcato scetticamente. Fosse stato per me sarei subito sceso e sarei corso dovunque volesse portarmi: quella era l’età della scoperta e talvolta ci piaceva giocare a fare gli adulti, bevendo lattine di birra di nascosto e osservando di sottecchi le ragazze, che apparivano di gran lunga più adulte di noi.
Lui alzò le spalle e mosse qualche passo indietro, si muoveva scoordinatamente, come se non si fosse ancora abituato a quel corpo tutto nuovo.
«Hai davvero bisogno di una motivazione?» mi chiese dal basso.
Scossi la testa, certo che non ne avevo. Sapevo che se ci avessero scoperto sarebbe stato un bel problema per entrambi, appartenevamo a famiglie benestanti e di buon nome in un quartiere benestante e di buon nome, dove le villette erano tutte uguali e le persone pure. I nostri genitori erano protestanti e fortemente conservatori, fosse stato per loro non avremmo potuto fare molto se non stare con la testa bassa su un libro scolastico – cosa che a quel punto nemmeno mi dispiaceva, ma di certo non si provava lo stesso brivido che a uscire di casa senza permesso. Sgusciai dunque dalla porta del retro e sparimmo nel dedalo di vie che ci portarono in seguito al centro, in un pub come molti altri, ma che allora ci apparve qualcosa di molto più simile a un Paradiso Proibito. Era illuminato parzialmente da lampadine sterili che pendevano dal soffitto, la radio stava trasmettendo qualche canzone del rock’n’roll americano e fu lì che ci sedemmo, appiattiti contro i muri, a osservare i ragazzi più grandi di noi danzare mossi da forze invisibili. Quando spostai gli occhi su Danny lo vidi curioso: muoveva la testa a tempo e sembrava voler ballare, ma quando glielo proposi lui scosse la testa veemente. Non fu una pessima serata, però, bevemmo della Coca Cola e parlammo di quell’estate piovosa che sembrava voler rovesciare su Brighton l’intera Manica. Le ossessioni di Danny non erano cambiate, se possibile erano peggiorate; parlava con insistenza dei suoi incubi e mi raccontava che aveva iniziato a dormire male, a rigirarsi nel letto in un bagno di sudore in attesa di chiudere gli occhi. Eppure, ogni volta che tentavo di approfondire il discorso, lui abbassava lo sguardo e la voce e mormorava che andava bene così-
Io gli dicevo che mia madre prendeva pillole per dormire – e ingenuamente ancora non mi rendevo conto a che cosa avrebbero portato quelle – e che se voleva avremmo potuto procurarcene un po’ per sperimentare che cosa sarebbe stato. Lui scuoteva la testa e sul volto gli appariva di nuovo quell’espressione di concentrazione accademica, come se la sua incipiente insonnia fosse un’interessante materia di studio.
Le visite al pub, che poi scoprimmo chiamarsi il Collins, si fecero comunque sempre più frequenti durante quel periodo, sgusciavamo entrambi di casa e speravamo per il meglio. Dopo la pista di biglie, fu quello il nostro punto di ritrovo: dopo un paio di mesi potevamo vantare di conoscere tutti i clienti abituali.
Fu là che un giorno incontrammo Ellen e Pete. Ancora oggi mi domando che piega avrebbe preso la nostra amicizia se così non fosse stato.




 

   
 
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