Rise Again

di _Takkun_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** È risaputo che la pioggia non porta mai nulla di buono… ***
Capitolo 3: *** Non puoi davvero odiarmi... ci siamo appena conosciuti! ***
Capitolo 4: *** Tra sfide e nuove impressioni ***
Capitolo 5: *** Una ragione per continuare ***
Capitolo 6: *** Un debito da sanare ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Rise Again
 


0. Prologo



 
 



[Tokyo, 31 marzo 2025]

 
 
 
Una delicata brezza primaverile accarezzò il viso dell’ormai affermato cantante Kurosaki Ranmaru, e il profumo dei fiori di ciliegio, che pian piano stavano iniziando a sbocciare, arrivò alle sue narici, regalandogli sì una piacevole sensazione di tranquillità, ma al contempo innescando nella sua mente dei ricordi che gli fecero assumere un’espressione carica di malinconia.
Prese un profondo respiro e, scacciando momentaneamente quei pensieri, tirò fuori da una tasca il cellulare per controllare l’ora, ringhiando nell’appurare che la persona che stava aspettando fosse in ritardo di ben un quarto d’ora.
«Avevamo detto di incontrarci alle sedici in punto. Invece di ricordarmi sempre chi è il maggiore tra i due, dovresti imparare ad essere puntuale, razza di deficiente.»
Con un sospiro, Ranmaru si tolse la custodia del suo basso dalla spalla, appoggiandola accuratamente contro un muretto, a fianco a lui. Si ripromise di rimanere lì solo per altri cinque minuti, se non si fosse presentato in quel lasso di tempo, allora avrebbe levato le tende, incamminandosi senza di lui.
Dall’altra tasca prese le sue immancabili cuffie, deciso ad ascoltarsi almeno qualche brano per ingannare l’attesa: un po’ di musica l’avrebbe sicuramente aiutato a non perdere la già precaria pazienza.
Fece scorrere la playlist e, come di consuetudine, il suo dito andò a fermarsi su una canzone in particolare: Rise again.
Definirla vera e propria canzone, in realtà, non era corretto. Aveva la melodia, certo, ma era priva di qualcuno che cantasse il testo. Non che non lo avessero scritto, tempo addietro, ma a causa di diversi avvenimenti era stato impossibile incidere questa canzone, e in alcun modo, l’aveva giurato, sarebbe finito per cantarla da solo o, peggio, in duetto con qualcun altro.
Non aveva comunque bisogno delle loro voci incise per avere i brividi nell’ascoltarla. Bastava che chiudesse gli occhi e lasciasse che la sua memoria e il suo cuore facessero il resto, scombussolandolo come se ogni volta fosse la prima. Era forse un po’ masochista da parte sua, ma sentiva che se non avesse fatto altrimenti, gli sarebbe stato impossibile risorgere e lenire, almeno in buona parte, certe ferite.
Quando la fece partire, Ranmaru indirizzò lo sguardo verso il cielo terso di quel pomeriggio.
Il giorno seguente sarebbe stato il primo di aprile, lo stesso giorno in cui, una decina di anni prima, il destino gli aveva riservato un inaspettato scherzo, facendogli incontrare un ragazzo che con la sua inesauribile vitalità e il sorriso sempre ben piantato sulle labbra, gli aveva cambiato la vita, portando nella sua quotidianità una luce così accecante che era stata in grado di eliminare ogni traccia dell’oscurità che all’epoca lo teneva prigioniero di se stesso.
Rise again era la loro canzone.
Sua e di quel ragazzo che un tempo rispondeva al nome di Reiji Kotobuki.
 
 
 



Angolo autrice:  alzi la mano chi non ci sperava più in questa storia! :’D *alza entrambe le mani*
Io per prima credevo di non poterci ricavare qualcosa. L’idea di base c’era, ma fino a qualche anno fa si trattava di quel tipo di storia che aveva un inizio, aveva una fine, ma mancava di una corposa parte centrale, che sono riuscita a tirare fuori anche con un maggiore approfondimento dei miei OC (che spero davvero potranno piacervi e che non risultino troppo invasivi alla fine non prendiamoci in giro, chi ha seguito un minimo le mie storie sa che non potrei mai togliere spazio alla ReiRan).
Per farla breve, cancellarla per lavorarci in modo diverso, con le dovute introspezioni per i vari personaggi, l’ha veramente resa la storia che mi ero prefissata di scrivere e ne sono immensamente felice (pensare che all’inizio doveva trattarsi di una semplice OS per un contest legato all’angst mi fa quasi ridere…).
Reiji e Ranmaru, è inutile pure che lo dica ma lo faccio per scassare ulteriormente le scatole <33, sono i personaggi a cui tengo di più in Utapri, e con Rise Again voglio che ve ne innamoriate perdutamente, che questa storia vi emozioni quanto emoziona me ogni volta che mi metto a buttare giù degli appunti per qualche nuova scena, e, insomma, con questa “Ultimate ReiRan fanfic” (?) voglio farveli entrare definitivamente nel cuore (e se ci sono già, lasciate che li faccia incastonare ancor di più :”D)
Ora, prima che l’angolo autore diventi più lungo del prologo, vorrei ringraziare con tutto il cuore (e ci aggiungo pure l’anima, che forse solo il cuore non basta) le persone che in questi ultimi anni si sono sorbite di tutto e di più con questa storia, ritrovandosi a volte la chat piena di canzoni da ascoltare che a parer mio sarebbero andate bene per alcuni pg/situazioni, o di immagini riguardo nuovi OC che la mia mente finiva per partorire, e soprattutto dei miei NUMEROSI (in maiuscolo, grassetto e pure sottolineato, sì) scleri sulla ReiRan, su quanto questi due siano perfetti l’uno per l’altro, su un milione di miei headcanon e chi più ne ha più ne metta. Bene, ecco, GRAZIE INFINITE a quelle due povere anime di Lyel e Starishadow, che in questo lasso di tempo mi hanno supportata, minacciata e precedentemente quasi fatta fuori per aver cancellato Rise Again. Non è facile sopportarmi, gente, ve lo assicuro, e il fatto che queste due non mi abbiano ancora mandato a quel paese la dice lunga sulla loro pazienza.
La storia è interamente dedicata a loro due ♥
Poooi~ perché io non dimentico i miei lettori, o meglio, unaltra delle mie fedeli lettrici vorrei ringraziare tantissimo anche Ailess e la sua altrettanta smisurata pazienza in attesa di poter leggere Rise Again (spero di non averti persa ora che finalmente ci siamo çwç), e soprattutto per il costante supporto che mi ha trasmesso tramite le recensioni. Grazie davvero! <33
E mi auguro che ogni tanto anche i lettori silenziosi si facciano sentire un po’, anche un piccolo commento può fare la differenza… çwç
Ora che penso di aver detto tutto quello che avevo di importante, vi informo che la pubblicazione avverrà una volta al mese (domani però ne avrete subito uno perché non sono un mostro, proprio il primo di aprile, come raccontato da Ranmaru che genio sono, tutto progettato XD).
Ho già dei capitoli pronti, ma non voglio “esaurirli” subito perché finirei per farvi aspettare un bel po’ in attesa di scrivere gli altri, quindi preferisco distribuirli in questo modo mentre io nel frattempo andrò avanti con la storia, così da essere sempre puntuale <33 (e mi auguro di farcela…).
Detto anche questo, credo sia il momento di chiudere l’angolo autore!
Preparatevi a salire su queste montagne russe cariche di feels <33
Ci si sente domani! A presto! :33
 

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Capitolo 2
*** È risaputo che la pioggia non porta mai nulla di buono… ***


Rise Again
 
 
01. È risaputo che la pioggia non porta mai nulla di buono…
 
 

 


[Tokyo, 1 Aprile 2015]
 
 
 
Rabbia. Frustrazione. Impotenza. Odio. Morte.
È sano per un essere umano avere così tanta negatività radicata fin nell’anima?
Da quanto, poi? Tanto, troppo tempo per rimanerne indifferenti.
Eppure era diventata una sua specialità giocarci attorno, per così dire.
Uno dei suoi hobby preferiti, se non il suo unico.
Era così semplice e liberatorio prendere tutta quell’oscurità e trasferirla dal suo cuore a degli innocui e puri fogli bianchi, creando testi di canzoni che finivano addirittura per essere apprezzati.
Ma quello non era abbastanza.
Aveva bisogno di altro per trovare della vera pace.
Qualcosa che mettesse a tacere la sua fottuta mente.
Qualcosa che fosse forte abbastanza da mozzargli il fiato.
D
efinitivamente.
 
 
05:50
 
Ranmaru rilasciò un ringhio di protesta quando sentì la sveglia interrompere quella che era stata una dormita decisamente troppo breve.
Ancora con gli occhi chiusi, allungò una mano verso il pavimento, tastando alla cieca le piastrelle nel tentativo di trovare il cellulare e interrompere Highway to Hell, una canzone che senz’altro adorava degli AC/DC ma… no.
Doveva assolutamente fermarla prima che il suo si trasformasse in odio puro.
Chi diavolo glielo aveva fatto fare di mettere una delle canzoni della sua playlist come sveglia?
Ah, già, l’odio ancora più smisurato per le suonerie preimpostate dei cellulari.
«’Fanculo.» imprecò, rotolando giù dal divano e afferrando finalmente quel dannato aggeggio per zittirlo una volta per tutte.
Il silenzio tornò presto ad aleggiare in quei miseri ventiquattro metri quadri del suo appartamento, permettendogli di sentire più chiaramente un rumore che gli fu gradito quanto un pugno sui denti.
«Non è vero…» disse poco prima di sdraiarsi nuovamente, questa volta sul pavimento e con il lenzuolo bellamente aggrovigliato attorno alle gambe.
Pioggia.
Gocce di pioggia si stavano abbattendo contro la tapparella abbassata del bagno, ma non era propriamente quello a disturbarlo, quanto più l’idea di che cosa avrebbe dovuto affrontare quel giorno una volta messo piede fuori casa.
Sì perché per Ranmaru Kurosaki pioggia significava una sola cosa: sfiga, tanta sfiga.
Non si era mai reputato una persona capace di credere a roba come la sfortuna, il Karma o che altro, ma aveva presto cambiato idea grazie a una serie di non poi così piacevoli eventi che si era visto costretto ad affrontare più volte proprio in giorni piovosi come quello.
Era come un programma già scritto per lui da chissà quale ragazzone presente lassù in cielo che, non avendo niente di meglio da fare, sembrava intrattenersi volentieri facendogliene passare di tutti i colori.
«Non posso neanche suonare in strada quando piove.» Ranmaru si passò una mano tra i capelli tinti – albini da ormai qualche anno -, pressando pollice e indice rispettivamente sulle meningi mentre osservava stancamente il soffitto, indirizzando lo sguardo ad un angolo ammuffito che aveva attirato solo ora la sua attenzione.
Trasse un profondo respiro e contò fino a tre prima di sollevare di scatto il busto e mettersi in piedi, rischiando di inciampare un paio di volte.
Una volta stiracchiatosi a dovere e libero dal lenzuolo – che si premurò di lanciare sul divano con un gesto secco e irritato -, riprese in mano il cellulare per ricontrollare l’ora, constatando che si erano fatte le sei in punto.
Impiegò più o meno una quindicina di minuti per prepararsi e, poco prima di uscire, si piegò sulle ginocchia davanti al suo basso per congedarsi. Non poteva di certo portarselo dietro con la pioggia visto che non aveva un ombrello - o meglio, visto che quest’ultimo era andato a farsi benedire qualche settimana fa grazie a un’eccessiva folata di vento, guarda caso proprio in un giorno con il medesimo maltempo -, e non gli sarebbe nemmeno passato per l’anticamera del cervello di bagnare la custodia.
Per un giorno ne avrebbe fatto a meno.
Rimase ad osservarla per un po’ e ne accarezzò le corde, sogghignando.
«Ci vediamo stasera, okay? Ciao, piccola.»
Così dicendo tornò in piedi e si decise finalmente ad uscire di casa, sospirando.
La forza di correre per prendere in tempo il treno non cercò nemmeno di trovarla.
Si tirò su il cappuccio della felpa, infilò le mani nelle tasche e cominciò a camminare con molta calma.
Tanto, in un modo o nell’altro, sarebbe finito col perderlo, ne era certo, quindi perché sforzarsi?
 
 
§§§§
 
Quando arrivò al Nuovo Transito Yurikamome il treno non lo perse.
Ma non perché la fortuna si era degnata di venirgli a fare visita, bensì questo non era ancora arrivato.
Avrebbe fatto mezz’ora di ritardo per chissà quale problema tecnico, guarda tu il caso!
Non sapeva se ridere o mandare ancora al diavolo la pioggia.
Ormai fradicio da capo a piedi le opzioni erano quindi due: restare fermo a far nulla e aspettare l’arrivo del treno, o percorrere il Rainbow Bridge a piedi e arrivare in mezz’ora alla baia di Odaiba con il rischio però di beccarsi una polmonite.
Inutile dire che cosa scelse, ma sapeva che se ne sarebbe presto pentito una volta arrivato al Parsley’s: poteva già sentire i toni di rimprovero di Yume e Satoshi.

 
«Ranmaru, tesoro, questa volta ti ammalerai davvero gravemente!»
«Ragazzo, sei proprio un disastro! Che cosa dobbiamo fare con te e quella testa dura come il marmo?!»
 
Piegò gli angoli della bocca all’insù in un lieve sorriso.
Chi erano Yume e Satoshi? Probabilmente gli unici che, insieme alla musica, rappresentavano una parte fondamentale in quella che poteva spacciare con il nome di vita.
Aveva avuto modo di conoscerli alla tenera età di quattro anni, quando ancora i due lavoravano come cuochi in una delle navi da crociera di suo padre. 
Simpatici, caldi, generosi e in possesso di doti culinarie che conquistarono fin dalla prima portata il suo stomaco e quello del suo vecchio.
Ancora se li ricordava gli occhi di suo padre durante uno dei rari pasti con la famiglia al completo.
Le sue iridi grigiastre divennero visibilmente più luminose ad ogni boccone, e anche… come riuscire a spiegarlo a parole?
Vive, probabilmente.
Sì, quella era la parola giusta.
Per questo motivo quest’ultimo si offrì di finanziare più che volentieri il sogno dei talentuosi cuochi: possedere finalmente un loro ristorante, che chiamarono appunto Parsley’s.
Ma alla morte di suo padre, senza che i due avessero più una stabile situazione economica su cui poter fare affidamento, i problemi iniziarono a sorgere sia per la sua famiglia che per loro.
Ranmaru, spinto da una necessità propria e, soprattutto, dalla voglia di aiutare quegli anziani - con cui era riuscito a instaurare un rapporto che non era lontanamente paragonabile a quello che aveva avuto con i suoi genitori - iniziò ironicamente a lavorare per loro come cuoco e, quando capitava, anche come tuttofare, rispondendo a diversi annunci sparsi per la città di Tokyo. Ciò che riusciva a mettere da parte, oltre che a servirgli da sostentamento mensile, veniva in parte spedito a sua madre e alla sorella minore, che ora vivevano a chilometri di distanza da lui in una delle residenze di campagna dei Kurosaki, una delle poche cose che era rimasta loro in possesso grazie anche all’aiuto della nonna paterna. Se qualcuno si fosse complimentato con lui per la considerazione che sembrava mostrare nei confronti della sua famiglia, probabilmente avrebbe risposto che tutto quello non lo stava facendo perché ci teneva, ma solo perché in quanto figlio maggiore aveva delle responsabilità a cui adempiere. Poco importava se queste ultime lo avevano reso indifferente davanti a quelle ambizioni che, solo un paio di anni prima, lo avevano spinto a lasciare casa ad una giovane età, desideroso non solo di inseguire i suoi sogni, ma anche bisognoso di poter assaporare quella libertà che fin dalla nascita gli era stata negata.
Ora come ora il diciottenne si accontentava semplicemente di vivere la giornata come meglio poteva, abbandonando quello stato di completa apatia solo quando si ritrovava con il basso tra le mani, usando quantomeno la musica come valvola di sfogo per non essere completamente sopraffatto dall’intera situazione.
Non sempre però il locale riusciva ad avere molti clienti e di conseguenza sufficienti entrate utili per sanare i debiti.
Nonostante Odaiba fosse una famosa meta turistica per gli abitanti di Tokyo, ricca di attrazioni come la rinomata riproduzione in scala ridotta della Statua della Libertà, o  la popolare ruota panoramica, conosciuta anche con il nome di Daikanransha, il Parsley’s non sembrava essere abbastanza giovane e fresco agli occhi delle persone.
Motivo per cui Ranmaru trovò un altro modo per racimolare denaro in più sia per lui che per Yume e Satoshi.
Decise di mettere a nudo ogni suo stato d’animo più intimo e nascosto con chiunque fosse stato disposto a fermarsi e ad ascoltarlo: iniziò a suonare per strada, riuscendo a guadagnare volta per volta un bel gruzzoletto. Dalla strada, poi, Ranmaru si spostò anche nel locale con la sua attuale band, organizzando alcune serate per attirare nuovi clienti e raddoppiare, se non triplicare, il guadagno totale.
Lui stesso era diventato un’attrazione di Odaiba, e per quanto l’idea non lo facesse impazzire, finché riusciva a “tenere a bada” tutti quei debiti andava bene così.
Quando finalmente percorse il Rainbow Bridge e si fece un altro bel pezzo di camminata tra le strade della baia, arrivato al Parsley’s aspettò qualche secondo prima di entrare.
Da fuori poté sentire chiaramente le voci di Satoshi al bancone e di quelli che erano quasi sicuramente il signore e la signora Takishima, gli unici che a quell’ora si presentavano ogni giorno per bere del tè e scambiare quattro chiacchiere tra amici.
Si prese qualche altro attimo prima di aprire la porta e mostrarsi finalmente agli occhi dei presenti, che si ammutolirono all’istante.
Li salutò con un ‘giorno atono, ma nessuno dei tre ricambiò.
Intuendo il motivo, Ranmaru si limitò ad abbassare lo sguardo, incontrando un’ampia pozzanghera ai suoi piedi, poi lo rialzò e mosse una mano davanti a sé, come per minimizzare la cosa.
«Ci penso io, tranquilli, voi continuate pure.»
A quella frase seguì subito una manata sul bancone e un’alzata d’occhi al soffitto da parte di Ranmaru.
«Figliolo!» tuonò Satoshi, andandogli incontro. «Potresti spiegare?!» gli tirò all’indietro il cappuccio, passandogli una mano tra i capelli umidi.
Il signor Takishima scosse la testa e riprese a bere il suo tè, così come fece la sua signora, lasciandosi sfuggire una leggera risata alla scena.
«Non è nulla di grave, ora vado e-»
«Cos’è stato? Oh, Ranmaru, sei- Perché sei tutto bagnato?! Non avevi un ombrello a casa, tesoro?» si unì Yume, di ritorno dalla cucina con dei biscotti in una teglia, che lasciò però abbandonati su uno dei tavoli della sala per dedicare al ragazzo tutte le sue attenzioni. «Santo cielo.» gli tastò le maniche della felpa, rabbrividendo alla sola idea di poter avere addosso quegli abiti. 
«Sei anche ghiacciato.» Satoshi appoggiò il dorso della mano sulla sua guancia, aggrottando ancora di più le sopracciglia.
«È primavera, ormai, e camminare sotto la pioggia senza un ombrello non mi ucciderà.» fece un passo indietro, allontanandosi dai due.
Ciò che ottenne in risposta furono delle mani appoggiate sui fianchi e degli sguardi di rimprovero da parte di entrambi.
«Sembra un pulcino indifeso.»
Ranmaru inorridì.
Pulcino? Lui? L’aveva visto bene, vero?
«No, è solo un testone che non imparerà mai ad utilizzare bene questa qui.» gli picchiettò la nocca dell’indice sulla fronte, Satoshi. «Potevi startene a casa se non avevi l’ombrello! Un giorno di lavoro senza di te non ci avrebbe uccisi, figliolo.» il suo tono si fece più affettuoso e paterno.
Yume annuì, sorridendo gentile.
«Che ne dici di tornare a casa e startene al caldo?»
«Nel buco in cui vive non riuscirà mai a stare al caldo! Vado a prendere le chiavi di casa nostra, puoi rimanere lì. E vado a prendere anche un ombrello.»
«Satoshi-»
Ma a Satoshi bastò solo fulminarlo con la coda dell’occhio per metterlo a tacere.
Ranmaru lanciò un’occhiata ai signori Takishima, entrambi divertiti dalla faccenda, riabbassando poi lo sguardo verso il basso, incontrando nuovamente la pozzanghera.
«Lasciate almeno che prenda un panno e asciughi…»
Ma prima ancora che Yume potesse rilasciare un sospiro sconsolato, qualcun altro fece il suo ingresso all’interno del Parsley’s.
«Woah, cosa abbiamo qui? Qualcuno è entrato per sbaglio nella doccia con i vestiti? Ranny, pensavo fossi più sveglio di così.»
E Ranmaru non poté che fare una smorfia infastidita, voltandosi verso il proprietario di quella voce.
«Kurou.» sibilò, e il suo sguardo fu attirato da alcune buste nelle sue mani. «Cosa ci fai sveglio a quest’ora?» alzò un sopracciglio, e la sua smorfia si accentuò ulteriormente quando alle sue narici giunse un terribile odore, quella che il ragazzo, suo collega di lavoro, spacciava per acqua di colonia di marca.
Il corvino si limitò a ghignare e scrollare le spalle, facendosi strada all’interno del locale e posando le due buste sopra a un tavolo, di fianco ai biscotti portati precedentemente da Yume.
«Ho fatto un salto in lavanderia.» disse, prendendo posto scompostamente, con le gambe divaricate e il gomito del braccio destro appoggiato sullo schienale della sedia. Si sistemò il ciuffo di capelli sul davanti, ammirando le punte recentemente tinte di rosso. «C’è una ragazza con delle forme da urlo che è sempre lì il martedì e il venerdì. Ha giusto una vocetta stridula poco sopportabile, ma conosco un ottimo modo per tenere quella bocca impegnata con altro.» il suo ghigno compiaciuto andò ad allargarsi quando tirò fuori il cellulare dalla tasca e mostrò a Ranmaru la sua rubrica. Yuki. «Un nome adorabile, non trovi? Ho preso un po’ di vestiti dall’armadio per fare scena, mi ha aiutato a fare il bucato.»
Ranmaru si limitò a lanciare uno sguardo a Yume, che semplicemente ricambiò l’occhiata, alzando appena le spalle.
“È giovane, dopotutto”, gli mimò con le labbra la donna, accigliando Ranmaru.
“No, è deficiente”, rispose, fulminando il corvino, ora impegnato a passare in rassegna tutti i nomi delle ragazze di cui era riuscito a ottenere il numero tra una serata e l’altra.
«In lavanderia alle sei del mattino?»
«È impegnata con l’università.» si accarezzò il labbro inferiore, rimettendosi il cellulare in tasca. «Convive con altre due ragazze, e tutte e tre frequentano il Bunka Fashion qualcosa qui a Tokyo. Posso anche organizzare un’uscita di gruppo, sai? Io, te e Hiroto con loro. Scommetto che anche le sue-»
«Non mi interessa.» Lo interruppe bruscamente Ranmaru, afferrando una delle buste del compagno e iniziando a frugarci dentro, tirando fuori una felpa e un paio di pantaloni. «Grazie per i vestiti.» riappoggiò il tutto sul tavolo, dirigendosi verso i bagni.
«Ranmaru, prendi la mia giacca e le chia-»
«Non ce n’è bisogno, Kurou mi ha portato un cambio asciutto.» picchiettò una mano sulla spalla di Satoshi, andando a cambiarsi.
Satoshi lanciò un’occhiata perplessa a sua moglie, spostando poi lo sguardo sul nuovo arrivato, inarcando un sopracciglio.
«Ragazzo.»
Kurou fu sul punto di mettersi in piedi e protestare, perché non si ricordava di aver detto qualcosa che avesse potuto far credere a Ranmaru di prendersi la libertà di fregargli i vestiti, ma gli occhi assottigliati dell’anziano, impegnati a squadrarlo, pieni di disappunto, ebbero come sempre l’effetto di farlo stare buono.
Kurou intrecciò le braccia e accavallò una gamba, mettendosi con la schiena ritta contro lo schienale.
«Signore, la vedo in forma oggi…»
«Risparmia le tue false lusinghe per chi ti crede. E leva quelle buste dal mio tavolo prima che ci pensi io!»
«Tsk.» Kurou obbedì, appoggiandole per terra. Fece poi una smorfia e si diresse anche lui in bagno, sorpassando con fare accigliato Satoshi. Okay che non gli andava a genio, ma poteva quantomeno sforzarsi di non mostrare così apertamente la sua irritante preferenza per Ranmaru. Alla fin fine in quel posto ci lavorava sodo quanto lui, e su questo nessuno dei due proprietari poteva avere da ridire.
Quando entrò nei servizi, trovò l’albino intento a infilarsi la sua felpa e scompigliarsi con una mano i capelli, per tentare di asciugare in un modo o nell’altro le punte bagnate.
«Quella sta meglio a me.» disse, appoggiandosi di schiena al muro piastrellato, incrociando le braccia al petto.
«Sai quanto può fregarmene. Grazie per essere apparso, almeno con dei vestiti asciutti non avrò troppo da discutere.» si concesse un sbadiglio, premendosi le palpebre con le dita. Era decisamente stanco.
«Un grazie da Ranny? Mi sento onorato, dovrei segnare questa data sul calendario.»
«Piantala di chiamarmi in quel modo ridicolo, Kurou.» si diede un’ultima occhiata allo specchio e appallottolò i vestiti umidi, lanciandoli al corvino. «Pensaci tu.»
Un angolo della bocca di Kurou iniziò a tremare, ma si trattenne dal far scemare il suo ghigno apparentemente noncurante.
«I soldi per il favore?»
«Te li darò domani. Per quelli non devi mai preoccuparti, sei l’ultima persona con cui voglio avere qualcosa in sospeso.»
Il ragazzo annuì, soddisfatto di ricevere quella risposta sebbene il tono mal celasse un certo disprezzo.
«Quindi stasera che si fa? Suonate?»
Chiunque fosse abbastanza fortunato, per così dire, da arrivare a conoscere Ranmaru almeno per qualche mese, era ben a conoscenza del fatto che l’albino fosse un tipo alquanto superstizioso.
«Nemmeno per sogno. Avvisa Hiroto e Hisoka e dì loro che rimandiamo a domani, se il tempo migliora.»
«Sai che è una grandissima cavolata evitare di suonare solo perché sta piovendo?»
Ranmaru lo sorpassò senza degnarlo di alcuna risposta, facendo inspirare ed espirare profondamente Kurou, come per calmarsi e trovare una qualsiasi forza interiore che gli permettesse di lasciar correre. Al solito dovette contattare lui i membri del suo gruppo, mandando un messaggio veloce a Hiroto per avvisarlo della situazione – cosa inutile, tra l’altro, era certo che i due lo avessero già capito.
Lo confermò l’SMS che gli arrivò pochi secondi dopo, da parte del chitarrista.
 
Da – Hiroto
[07:09]  Io e Hisocchi ci abbiamo azzeccato~ (*^o^)乂(^-^*)
[07:09]  Allora salutacelo, sono sicuro che si terrà occupato con altro per tutta la giornata e non vorrà vederci! Come sempre! (♯`∧´)
 
Kurou alzò gli occhi al soffitto e lasciò la sua risposta poco prima di andare a vedere se Ranmaru fosse ancora lì.
 
Da - Kurry~
[07:10]  Vedi di crescere e piantarla con queste stupide emoticon, non sei una ragazza!
 
Kurou sentì vibrare il cellulare nella tasca, ma preferì evitare di controllare per il momento, immaginando comunque che cosa potesse avergli scritto l’altro.
Ritornò in sala, ma fece in tempo a sentire solo un breve scambio di battute tra Ranmaru, Satoshi e Yume prima che il primo prendesse l’ombrello datogli dall’anziano e uscisse dal locale. Fece per andargli dietro e chiedergli dove diamine stesse andando sotto la pioggia, ma l’anziano si mise tra lui e la porta, sorridendogli serafico.
«Tu no, ragazzo. Non avrai intenzione di lasciarci completamente soli, vero?»
«Ehi, ehi, calma. Sbaglio o avete appena detto a Ranny che non avete bisogno di nulla e che poteva tranquillamente andarsene? Che diav-» si fermò, riformulando correttamente la domanda. «In che cosa potrei esservi d’aiuto, io?»
Yume lo prese per le spalle, facendolo sobbalzare appena.
«Vedremo, caro. Magari in cucina? Lo posate hanno bisogno di essere lucidate. Approfittiamo un po’ della tua presenza.»
«E-eh?»
Satoshi annuì. «Giusto! Giusto! Forza, fila in cucina e aiuta questi poveri vecchietti! »
«Tutto questo mi sembra ingiusto! Perché Ranmaru se n’è potuto andare?!» non si trattenne dall’alzare la voce, procedendo comunque tra un’imprecazione e l’altra in cucina: alla fine, per quanto avesse da ridire, non avrebbe potuto permettersi di perdere quel lavoro, quindi si teneva ben lontano dall’oltrepassare il limite con certi atteggiamenti.
L’anziano sospirò e scosse la testa, prendendo dalle mani della moglie la teglia con i biscotti, così da poterli sistemare insieme agli altri prodotti nel caso in cui si fossero presentati dei clienti per fare colazione. «Ha detto di aver lasciato la scuola, no? Perfetto, ora deve concentrarsi sul lavoro e mettere la testa a posto. Se sono così severo con lui è solo per il suo bene, non per cattiveria. Qualcuno dovrà pur pensarci se ai suoi genitori non pare interessare!» tornò poi dai due amici, sorridendo gentile. «In ogni caso, dove eravamo rimasti?»
 
Dalla cucina, Kurou sentì ogni singola parola del suo discorso.
Digrignò i denti, tirò fuori tutte le posate e le appoggiò sopra a un asciugamano disteso sul ripiano, iniziando a strofinarle con uno strofinaccio asciutto per lucidarle come richiesto.
«Nulla di tutto ciò che mi riguarda è affar tuo, vecchiaccio…»
 
§§§§
 
«Doc, se non è un problema, posso passare in clinica? Sono qui vicino, in cinque minuti dovrei essere lì. Loro come stanno? … Mike? Capisco. Vedrò di occuparmene io. A tra poco.» Ranmaru chiuse la chiamata e rimase per qualche secondo a fissare la schermata nera del suo cellulare prima di rimetterselo in tasca.
Sospirò, impegnato a tenere con l’altra mano il manico dell’ombrello e dedicando proprio a quest’ultimo un’occhiataccia, quasi a volerlo avvertire di fare bene attenzione a non iniziare “acrobazie” strane perché ispirato dal vento.
Accelerò poi il passo.
Dopo che Yume e Satoshi gli avevano assicurato di non aver bisogno di nulla fino all’ora di pranzo, l’albino sapeva di poter passare l’intera mattinata a disposizione nella clinica veterinaria di Odaiba, poco distante dall’ospedale della baia.
Clinica in cui, a quanto sembrava, Mike stava procurando più di un problema.
Sogghignò.
Quel gatto aveva un bel caratterino, forte, testardo e coraggioso, e Ranmaru non poteva non riportare alla mente quella fredda sera di due mesi fa, quando si ritrovò a fronteggiarlo sul retro del Parsley’s.
Ricordava di essere uscito per buttare la pattumiera, e aveva sentito distintamente un debole miagolio provenire da un angolo poco più in là rispetto ai rifiuti.
Aveva seguito i versi dell’animale fino a trovare una micia dal pelo bianco, ma non del tutto immacolato, sdraiata per terra, impegnata a leccarsi una zampa con gli occhi socchiusi.
Ranmaru rimase ad osservarla per svariati secondi, sorpreso dal fatto che non si fosse quantomeno mossa nell’avvertire la sua presenza.
La vide poi aprire di più gli occhi quando alzò il muso verso di lui.
Erano grandi, di un tenue azzurro, e presero a squadrarlo con attenzione, senza dare segno di volersi muovere di un solo millimetro.
Miagolò ancora, e Ranmaru lo interpretò come un permesso per accarezzarla.
O meglio, forse come un avvertimento per farlo allontanare.
Ma questo lo capì dopo, quando si ritrovò un altro gatto spuntare agilmente da chissà dove, graffiandolo sul dorso della mano che aveva allungato verso la micia.
Ranmaru la ritrasse di scatto, fulminando il nuovo arrivato.
«Non volevo di certo farle del male, tranquillo.» L’albino ci parlò normalmente, come se l’animale potesse davvero capirlo. Alzò le mani in segno di resa, come per dimostrargli che non avrebbe fatto nulla a nessuno dei due, e si sedette per terra, a gambe incrociate.
Il micio dal pelo tigrato lo osservò con sospetto, gli occhi verdi fissi in quelli eterocromatici dell’altro, cercando di capire quali fossero le sue reali intenzioni. Ma lasciò perdere la presenza del ragazzo quando la compagna sporse appena il capo verso di lui, leccandogli il pelo per attirarne l’attenzione.
Il gatto non abbassò la guardia per quanto riguardava Ranmaru, ma capì quali erano per il momento le sue priorità.
Andò a sdraiarsi al fianco della gatta in modo da tenerla al caldo e farla sentire protetta e al sicuro con la sua sola presenza, il tutto senza perdere mai di vista ogni singolo movimento sospetto da parte dell’albino.
Ranmaru non ricordava di preciso quanto tempo rimase ad osservare quei due, ma fu al freddo abbastanza da arrivare a non sentire più le dita delle mani.
«La tua compagna, mh?» aveva commentato, accennando ad un sorriso. Poi si era alzato per rientrare, tornando nuovamente da loro con del cibo che potessero apprezzare e del latte, di cui andarono entusiasti. Un gesto grazie al quale, tra l’altro, riuscì ad acquistare la fiducia dei due gatti, e, per fortuna, dopo svariati approcci, anche la simpatia di quel testone impavido di Mike, che si era rivelato essere un amante dei grattini sul capo.
Mike e Tama, così aveva deciso di chiamarli.
Ma da lì a qualche giorno, nell’osservare più da vicino l’addome di Tama e notare quanto questo fosse rigonfio, dedusse che avrebbe dovuto spremere le meningi per trovare qualche altro nome.
L’ipotesi che Tama potesse essere incinta fu confermata dal dottor Sakagami, dopo le dovute visite alla gatta, lasciando Ranmaru più che spiazzato sul da farsi.
Ignorare lo stato della micia e riportarli nel luogo in cui li aveva trovati, così che la natura seguisse semplicemente il suo corso in chissà quale luogo, era una delle opzioni che l’albino non prese nemmeno in considerazione.
Ma era anche vero che lui, per quanto si fosse affezionato ai due, non poteva in alcun modo prendersene cura. Era già tanto se riusciva ad arrivare alla fine del mese, occuparsi a dovere di due gatti con i rispettivi cuccioli… No, quello sarebbe stato impossibile per lui.
Però poi…

«Se ci sono dei problemi, posso occuparmi io di loro fino al momento del parto. Nel frattempo ti consiglio di trovare loro un padrone, qualcuno che se ne possa prendere cura e di cui ti fidi. Non vogliamo che i nostri ragazzi finiscano in pessime mani, giusto?»
 
… il dottore si era proposto di fare una cosa del genere per loro, e Ranmaru ne era rimasto sinceramente sorpreso, ma non si fidò subito, credendo che l’uomo potesse chiedere una somma di denaro importante per il disturbo o favore, che dir si voglia.
Ma quando gliene aveva fatto parola, il dottor Sakagami si era mostrato quasi offeso da quella accusa.
Aveva poi preso a sventolargli sotto al naso il suo camice bianco, ripetendo più volte che prima di tutto il compito di un medico, sia esso legato alla cura degli animali o degli esseri umani, è quello di pensare al benessere dei suoi pazienti, poi, eventualmente, un pensiero potrebbe cadere sullo stipendio, ma quest’ultimo è di sicuro di minima importanza rispetto a ciò che richiede la vocazione dell’essere medico.
Era un tipo piuttosto tranquillo, uno che si faceva i fatti suoi senza fargli troppe domande sulla sua vita privata, cosa di cui Ranmaru era grato.
A quel pensiero strinse di più il manico dell’ombrello e chiuse l’altra mano a pugno, penetrando con le unghie il palmo della mano, questa leggermente tremante, ma non di certo per il freddo, solo tanta rabbia.
C’era sempre una piccola parte di lui, una voce terribilmente irritante, che non gli permetteva di riporre nell’uomo tutta la fiducia di cui era sicuramente degno.
La detestava, ma non poteva che starla ad ascoltare.
 
Fa tanto il nobile di cuore, ma a parer mio non te li farà nemmeno vedere quei cuccioli senza prima sganciare qualcosa.
 
L’unica arma che aveva per soffocarla l’aveva lasciata a casa, al sicuro da qualsiasi pericolo che potesse causargli quella dannata giornata grigia, scura e in lacrime.
 
Dici di detestare tanto la pioggia per quelle idiozie sulla sfiga, ma forse non ti rendi conto del fatto che è il tempo che più ti si addice, Ranmaru.
 
Si morse così forte l’interno della guancia che dopo poco iniziò ad avvertire il sapore ferroso del sangue.
Il suo passo si fece sempre più spedito, ma i suoi occhi erano vuoti, non stavano davvero prestando attenzione alla strada.
Il suo sguardo si abbassò sull’asfalto, assente.
Passò di fianco alla clinica, ma non se ne accorse.
Continuò a camminare ancora per qualche metro, senza una meta precisa, finendo col scendere dal marciapiede e raggiungere il centro di una corsia.
 
Perché non dai una tregua a te stesso e a chi ha avuto la sfortuna di conoscerti?
Sappiamo entrambi che è una balla quella del voler rimanere in vita solo per dare una mano a sanare quei debiti.
Non sei utile a nulla e a nessuno, Ranmaru.
Hai semplicemente paura di morire.
Ammettilo.
 
«Smettila…»
Il suo cuore iniziò a pompare sangue molto più velocemente.
Si sentiva andare a fuoco.
Non sentì, o forse non volle sentire, i clacson delle auto nella corsia accanto, che cercarono invano di distoglierlo dal suo stato di trance e riportarlo alla realtà.
«Io non ho paura di morire, ma non posso. Non ora…»
 
E per quale motivo? Non ti senti soddisfatto e vuoi pesare ancora un po’ sulle spalle di quei poveri anziani?
 
«SMETTILA!»
«Nyan
Ranmaru sbatté le palpebre un paio di volte e poi sgranò gli occhi, voltandosi e trovando Mike seduto in mezzo alla strada, a pochi passi da lui, intento a fissarlo.
«Che ci fai lì?» ci mise un secondo a realizzare dove si trovassero entrambi, a individuare il dottor Sakagami correre verso di loro, urlando di fare attenzione, e insieme a lui un auto, il cui conducente era visibilmente distratto a fare altro per curarsi della strada. In un attimo ricordò quello che il veterinario gli aveva detto riguardo Mike, su un possibile trauma che poteva aver avuto con le auto, ipotesi nata da come il gatto si era mostrato più di una volta spaventato nel sentire anche solo il rumore dei clacson provenire fuori dalla clinica, tanto da rimanere incapace di muoversi. Se non fosse intervenuto a breve, quel tizio sarebbe finito per tirarlo sotto.
«Merda!»
Non ci rifletté molto, seguì semplicemente l’istinto, abbandonando in mezzo alla corsia l’ombrello.
 
Oh sì, fallo, Ranmaru.
 
«Kurosaki-kun!»
Fallo, non ascoltarlo, altrimenti Mike morirà. 
 
«Nyan
Ranmaru tentò di placare le proteste dell’amico tenendolo stretto contro il suo petto. Si lasciò graffiare sotto il mento, imprecò tra i denti per il dolore, ma non mollò la presa, attendendo l’impatto con l’auto. Sarebbe stata una questione di pochi secondi.
«Kurosaki-kun! Santo cielo, stai bene?!»
Ranmaru aprì un occhio e subito dopo fece lo stesso con l’altro, lentamente.
Era ancora vivo? Davvero?
Il dottor Sakagami continuò a scuoterlo per le spalle fino a che Ranmaru non lo rassicurò.
 
Per questa volta ti è andata bene, ma non preoccuparti, ce ne saranno altre.

“Va’ a farti fottere.”
 
 
 
 
 
 Angolo autricesarò velocissima perché ho davvero pochissimo tempo a disposizione per pubblicare çAç 
Questo non è propriamente tra i miei capitoli preferiti perché non ho ancora avuto modo di approfondire certi aspetti, soprattutto per quanto riguarda Kurou, uno dei miei OC, ma ovviamente non potevo subito sbattervi un papiro di roba al primo capitolo (ma non temete, le lunghezze illegali arriveranno nei prossimi capitoli :'D). 
Sempre per quanto riguarda Kurou vi lascio sotto un'immagine che ha come prestavolto Seishirou Hiiragi da Owari no Seraph, e visto che non mi faccio mancare niente vi lascio anche una canzone per darvi un'idea della sua voce :') 
Avrei pronto anche il veterinario, ma visti i tempi ristretti che mi ritrovo è il caso che ve lo metta nel prossimo capitolo çwç
Detto questo, approfitto per ringraziare con tutto il cuore chi ha recensito, mi assicurerò di rispondere a tutte non appena riuscirò ad evadere dai parenti XD 
Per il resto vi auguro buona Pasqua, spero vi stiate godendo la giornata! 
Un grosso bacione a tutti <333


Morikawa Toshiyuki è il seiyuu prescelto per la voce di Kurou, godetevi la canzone
https://soundcloud.com/janie-sj/nasty-morikawa-toshiyuki


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Capitolo 3
*** Non puoi davvero odiarmi... ci siamo appena conosciuti! ***


Rise Again

 
 
02. Non puoi davvero odiarmi… ci siamo appena conosciuti!








 
 
[Tokyo, 1 Aprile 2015]
 
 
 
07:03
 


Una pagina.
E poi un’altra, e un’altra ancora…
Aveva passato tutta la notte a ripetersi queste parole fino ad arrivare alla conclusione di solo due capitoli di quel libro mostruoso dalle pagine infinite, e ad avere fogli sparsi per l’appartamento con appunti vari e disegni approssimati di organi e strutture ossee.
Ringraziava con tutto se stesso le tre tazze di caffè che lo avevano accompagnato durante quella notte in bianco, aiutandolo a tenere gli occhi aperti.
Peccato che le palpebre avessero iniziato a cedere alla stanchezza più o meno verso le cinque del mattino, cosa che si era promesso di evitare almeno per quella notte – o meglio, questo era ciò che si ripeteva ogni singola volta -, perché sapeva bene come sarebbe andata a finire…
Quando partì la sveglia con tanto di vibrazione, Reiji alzò di scatto il viso da uno degli ultimi fogli che aveva finito di completare prima di crollare, il battito cardiaco già a mille per lo spavento che si era preso nel sentire lo squillo suonare così vicino al suo orecchio. Si passò velocemente una mano sul viso, ancora piuttosto intontito da quella breve dormita, e cercò di fermare la sveglia, rischiando di perdere di mano il cellulare un paio di volte prima di porre fine a quella tortura.
E pensare che l’aveva persino trovata carina come suoneria per svegliarlo la mattina, all’inizio. Sfortunatamente di carino non aveva proprio nulla, ma almeno riusciva a strapparlo dalle braccia di Morfeo piuttosto velocemente.
Sbadigliò, strizzò le palpebre e si stiracchiò per bene sulla sedia, massaggiandosi una spalla. Non era la prima volta che finiva per addormentarsi da seduto, rimanendo curvo per la maggior parte della notte, ma ogni volta la sua schiena urlava pietà e reclamava allo stesso modo un materasso comodo su cui riposare decentemente.
«Vecchia mia, continua ad essere forte, mi raccomando.» la risata che rilasciò fu soffocata da un nuovo sbadiglio, facendolo afflosciare ancora una volta sul tavolo, spostando per precauzione i fogli lì sotto. Sorrise, richiudendo gli occhi. Fortunatamente non aveva macchiato con la bava il suo duro lavoro. Peccato solo che si fosse lasciato andare, forse qualche altra pagina sarebbe stato in grado di finirla prima di tornare in…
Gli angoli della sua bocca si piegarono all’ingiù in un nanosecondo, e subito dopo si alzò immediatamente in piedi, sbattendo le mani sopra al tavolo e facendo quasi cadere all’indietro la sedia.
No, no, no, no… NO.
Non poteva averlo fatto davvero. Addormentato? Perché, Reiji?!
Controllò l’ora a cui prima non aveva prestato davvero attenzione e perse probabilmente dieci anni di vita nel vedere che si erano già fatte le sette passate. Di soli pochi minuti, ma anche quelli gli sarebbero stati utili, per la miseria!
Infilandosi il cellulare in tasca alla velocità della luce, corse altrettanto di fretta verso l’uscita, scalzo, chiudendo con poca delicatezza la porta alle sue spalle. Rientrò qualche secondo dopo, sibilando tra i denti qualche imprecazione a se stesso. Raccattò alcuni fogli bianchi – tra cui anche degli appunti, ma non aveva il tempo per curarsene -, prese una penna a caso e se la mise dietro l’orecchio, trovò in un lampo le chiavi dell’auto e infine, dopo essersi infilato le scarpe senza però allacciarsele, uscì di casa e chiuse a chiave, dirigendosi in fretta e furia verso la propria auto, bagnandosi leggermente.
Buttò i fogli sul sedile del passeggero insieme alla penna e mise in moto con le mani tremanti, traendo un profondo respiro prima di fare retromarcia e partire a tutto gas verso il Rainbow Bridge, nonostante stesse piovendo.
Lo aveva promesso. Lo aveva promesso.
L’ultima cosa che avrebbe voluto vedere era l’espressione delusa sul volto del suo amico.  
           
§§§§
 
Era una follia. O meglio, molti l’avrebbero considerata tale se l’avesse raccontata in giro.
Quante auto aveva sorpassato fino a quel momento?
Era un miracolo che ancora non avesse fatto alcun incidente.
Anche se forse, e solo forse, avrebbe dovuto evitare di formulare quel piccolissimo pensiero.
Ormai praticamente prossimo all’ospedale della baia di Odaiba, con l’aggiunta della corsia completamente libera davanti a sé, l’occhio sinistro di Reiji cadde inevitabilmente sul tappetino del posto del passeggero, su cui vi erano sparsi disordinatamente i fogli che aveva raccattato in fretta e furia prima di uscire. Erano caduti durante un suo brusco sorpasso, nel quale una gomma aveva perso giusto per un attimo aderenza con l’asfalto. Ma quell’attimo gli era costato altri dieci anni di vita donati in mano alla Morte, come minimo.
Una piccola vocina dentro di lui gli intimava di lasciare quei fogli dove stavano, perché tanto ormai mancava davvero poco per arrivare e sarebbe stato sciocco piegarsi durante la guida per raccoglierli, specie con quel maltempo.
Ma quella era la stessa voce che Reiji non amava particolarmente ascoltare, specie quando questa gli consigliava di mangiare adeguatamente tre pasti al giorno, dormire un minimo di sette ore per notte e tante altre cose banali che ormai si era sentito ripetere da chiunque lo conoscesse.
Era un uomo adulto, e per quanto apprezzasse il fatto che parte dei suoi conoscenti si preoccupassero per la sua salute, si riteneva abbastanza in grado di prendersi cura di se stesso. Il suo stile di vita, per il momento, andava benissimo così.
Per questo motivo, dopo aver dato un’ultima occhiata alla strada – ed aver notato in lontananza solo un passante sul marciapiede -, alla fine decise di fare di testa sua ed eliminare quel disordine.
Fu di nuovo colpa di un attimo che, nel piegarsi, la vista gli si annebbiò, portandolo ad avere quasi l’impressione di star per perdere i sensi. Ma resistette, stringendo con forza la mano sul volante, come a trovare un sostegno, finendo però col premere senza rendersene conto il pedale dell’acceleratore.
«So già di essere andato oltre il limite, ma questo è stato sleale…»
Quando Reiji alzò di poco il viso sulla strada, ai vent’anni che già sapeva di aver perso dall’inizio della giornata, si aggiunsero tutti in una volta quelli che gli sarebbero rimasti prima di andare all’altro mondo. Il più rapidamente possibile, il moro spostò il piede dall’acceleratore al freno, e fu solo grazie alla sua già salda presa sul volante se non finì per volare fuori dall’auto passando dal parabrezza. Sbatté giusto la fronte durante la frenata, ma nulla che un cerotto non potesse rimediare. Ciò che più gli premeva era sapere se era stato in grado di fermarsi in tempo, o se aveva fatto fuori la persona ora rannicchiata davanti alla sua auto.
Andare in galera a ventun anni non rientrava esattamente nei suoi programmi, e sperava davvero di non dover abbandonare gli studi universitari per finire in una cella fredda, buia e sporca, come quelle che facevano vedere nei film.
Si affrettò a scendere dall’auto, dimentico della pioggia, della promessa e di qualsiasi altra cosa. Scansò un gatto che lo sorpassò agile e veloce, diretto verso la clinica del dottor Sakagami, al sicuro dalle gocce d’acqua. Probabilmente doveva trattarsi di un animale in cura da lui…? E quel ragazzo un suo tirocinante? Eppure non ricordava che Sakagami-sensei si fosse più offerto di avere studenti nella sua clinica…
«Ehi!» Reiji affiancò il veterinario, il quale si stava accertando che il ragazzo fosse ancora tutto intero. «Per favore, dimmi che stai bene.» supplicò il moro, deglutendo.
«Ragazzo.» l’uomo gli rivolse uno sguardo sorpreso nel riconoscerlo, prima di accigliarsi e serrare la mascella. «Che diavolo avevi in mente?! Hai visto che razza di tempo c’è?! Quella velocità--»
«Lo so! Lo so! Mi dispiace! Ma rimandiamo la ramanzina a dopo, la prego!» Reiji appoggiò una mano sulla spalla dell’albino, aspettando ancora una sua risposta, possibilmente affermativa. «Ehi…» riprovò, con tono cauto.
Ranmaru, per tutta risposta, scrollò bruscamente la suddetta spalla, in modo da allontanare quel dannato pirata della strada da sé. Si voltò finalmente a guardarlo in faccia, dedicandogli il suo sguardo omicida migliore. E in quell’esatto istante Reiji rimase sinceramente – e piacevolmente – sorpreso.
Questa era bella. Tra tutte le persone che poteva rischiare d’investire, la fortuna aveva voluto che si trattasse proprio di lui.
Anche se non era propriamente convinto di poterla definire fortuna il fatto di averlo quasi ucciso, ma questo era un altro dettaglio.
Reiji fece per aprire bocca e riprovare un terzo approccio, ma Ranmaru non lo lasciò nemmeno iniziare perché lo afferrò per la giacca, gesto che portò i loro visi piuttosto vicini – cosa che in fondo non gli dispiacque più di tanto, se solo non fosse stato per alcuni sputacchi da parte del ragazzo nel sbraitargli contro.
«Dovrei farti ingoiare la patente, pezzo d’idiota! E magari farti fuori prima che tu finisca con l’ammazzare veramente qualcuno! »
«Se vuoi davvero farmi ingoiare la patente, credo che questo basti per uccidermi. Dubito che tu debba fare altro...»
Un momento di silenzio intercorse tra i tre.
Poi Ranmaru sbottò ancora. «Mi stai forse prendendo per il culo?!»
«Ragazzi, ragazzi, calma. L’importante è che entrambi stiate bene.» il dottor Sakagami venne in aiuto del moro, il quale lo ringraziò con un sorriso e uno sguardo riconoscente. Poi, dopo aver liberato Reiji dalla sua presa, fece alzare il mento a Ranmaru, notando più chiaramente dei graffi. Non erano molto profondi visto che di sangue non sembrava uscirne, ma erano sicuramente da disinfettare. «Sembra che Mike ti abbia lasciato il suo ringraziamento.» invitò entrambi ad alzarsi e a spostarsi dalla strada, spostandoli sotto il tettuccio di un negozio lì vicino alla clinica.
«Sì, quell’ingrato…»
Il veterinario scosse la testa. «Dopo avremo modo di parlarne. Reiji-kun, tu sposta quell’auto prima che arrivi qualcuno. Per caso stavi andando in ospedale?»
Ospedale?
Appena Ranmaru l’udì, una piccola parte di lui si sentì quasi in dovere di giustificarlo.
Se si stava davvero dirigendo in ospedale con tutta quella foga, doveva essere successo qualcosa di grave. Preferì non ascoltare oltre, quindi si avviò per recuperare l’ombrello di Satoshi a terra – miracolosamente ancora tutto intero – ed entrare finalmente in clinica. Dopotutto non erano affari che lo riguardavano.
Almeno questo era quello che avrebbe voluto e che sarebbe anche riuscito a fare, se quel ragazzo non l’avesse fermato, afferrandogli il braccio.
«Cosa vuoi? Sta ancora piovendo, vedi di rientrare in auto e andare dove devi.»
«Sì, infatti! Devo letteralmente volare, ma prima assicurami che posso ancora trovarti da Sakagami-sensei! Uhm, vediamo… questa sera? Per le sette sarò qui, promesso!»
«Scusami?»
«Ehi, a me si avvicina l’orario di chiusura per quell’ora, incontratevi altrove.»
Una prima auto sorpassò il maggiolino di Reiji, premurandosi di suonare il clacson, ma il maggiore non se ne curò, così come ignorò le parole del veterinario. «Per favore! Permettimi di farmi perdonare per quello che è successo!»
«Non ce n’è bisogno. Sono ancora vivo, quindi-»
«Fantastico! Grazie infinite!» gli rivolse un piccolo inchino e schizzò dentro l’auto, mettendo in moto.
Ranmaru chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro.
No, non c’era niente da fare: la voglia di strozzarlo era ancora piuttosto viva in lui. Quale parte non era arrivata alle orecchie di quel deficiente?! «Oi! È inutile che tu venga, non mi troverai qua!»
Reiji annuì, rivolgendogli un sorriso decisamente irritante, a detta di Ranmaru. Stava continuando a prenderlo in giro, quello era più che ovvio. «Sensei, posso contare su di lei?»
Il suddetto sospirò, afferrando l’albino per la collottola. «Fila via, su.»
«Le devo un favore! A stasera!»
«Ehi! Puoi scordarti che rimanga qui ad aspettare i tuoi comodi! OI!»
Ma fu inutile continuare ad urlare, quel tipo si era già allontanato a tutto gas. Ranmaru si voltò dunque verso il dottor Sakagami, digrignando i denti. «Non rimarrò qua, sia chiaro.»
«Kurosaki-kun caro, se ancora non te ne fossi accorto, siamo sotto la pioggia! Quindi, molto cortesemente, entra in clinica per una buona volta!»
«Non rimarrò.»
«Come se quello fosse il problema, adesso! Siamo completamente fradici!»
«Quindi? Per me questa è la seconda volta nel giro di nemmeno un’ora.»
«… Tu mi fai preoccupare, ragazzo.»
 
§§§§
 
Non appena le porte automatiche dell’ospedale si aprirono, il forte odore di fenolo invase le sue narici. Odore che fu costretto ad inspirare a pieni polmoni per recuperare il fiato perso durante la corsa dal parcheggio all’edificio.
«Andiamo, so benissimo che stai ancora dormendo…» cercò di infondersi quella convinzione, Reiji, abbandonando l’idea di prendere l’ascensore e raggiungere il terzo piano sempre di corsa, salendo i gradini a due a due, scusandosi ogni qualvolta che finiva quasi per scontrarsi con qualcuno.
Sarebbe finito col rimetterci un polmone. Anzi, forse direttamente la vita. Ancora.
Quando arrivò all’ultimo gradino, infatti, la felicità di aver finalmente raggiunto il reparto - ed essere solo a pochissimi passi dalla stanza in cui sperava con tutto se stesso che il suo piccolo amico stesse ancora dormendo – svanì, ritrovandosi ad annaspare alla ricerca di ossigeno una volta che si sentì preso prepotentemente per la collottola. Troppo preso dalla foga di arrivare in tempo, non si era reso conto a chi avesse dedicato quell’ultima spallata. E se si trattava di chi pensava lui…
«Santo cielo, sei in un ospedale! Sai quando è concesso correre in questo modo? Solo in situazioni davvero urgenti! E dato che il signorino qui presente non svolge ancora nessuna mansione, ringrazia che sia stato io a trovarti e non Inoue-san. Saresti già morto a quest’ora.»
Reiji trasse un sospiro di sollievo. Si era sbagliato.
«Satou-san.» soffiò, facendo sogghignare quello che teoricamente doveva essere il suo responsabile di tirocinio, nonché uno dei suoi professori universitari, ma a livello pratico sembrava più un fratello maggiore che amava stuzzicarlo e fargli prendere colpi come quello per puro divertimento. Era incredibile, quasi surreale, la confidenza che aveva con gli studenti, e proprio per questo suo carattere espansivo i richiami in ambito accademico erano all’ordine del giorno. Non poteva nascondere, però, di aver preso in simpatia fin dal primo momento questo mentore così anticonformista. Grazie anche ai caratteri affini, oltre che ai loro saldi principi, erano sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda.
«Oh, andiamo! Hai una faccia terrorizzata!» rise, afferrando il ragazzo per un braccio, spostandolo dalla rampa di scale in modo da lasciare il passaggio libero. «E, uhm, come dire…» lasciò la presa su di lui, osservandosi il palmo lievemente umido. «Sei venuto fin qui senza un ombrello?» lanciò poi un’occhiata ai gradini, su cui vi erano le impronte bagnate, e un unico pensiero si formò nella sua mente, facendogli probabilmente assumere la stessa espressione che aveva avuto Reiji prima che realizzasse che si trattava semplicemente di lui e non del temuto primario: “moriremo”.
Daisuke Satou poteva comprendere l’esasperazione che i suoi colleghi provavano nei suoi confronti solo in situazioni come quella. Quel giovane era un uragano di energia e passione, e forse un po’ per questo motivo e un po’ perché riusciva a rivedere se stesso da giovane, in lui, non riusciva ad arrabbiarsi mai seriamente.  
In parole povere, ogni giorno doveva inventarsi modi diversi per pararli il didietro.
E beh, sì, forse un po’ era anche dovuto al fatto che, essendo il suo diretto responsabile, parte – una buona parte – della colpa era anche sua.
«È una storia lunga.» si giustificò, guardando in fondo al corridoio, più precisamente la stanza 305. «Prometto che pulirò non appena avrò controllato una cosa! Posso farle una domanda?»
L’uomo sospirò, pressando le dita sulle palpebre. «Me ne occuperò io, ma solo per questa volta! Prima che tu finisca questa cosa Inoue-san l’avrà già scoperto. Dimmi, ma sii veloce.» iniziò a guardarsi intorno, terrorizzato dalla possibile apparizione dell’uomo che tutti in quell’ospedale temevano.
«Si è svegliato? Otoya Ittoki, dico. Il paziente della 305.»
«Lo so di chi stiamo parlando.» tornò a sorridere. «Sono stato poco fa nella sua stanza per controllare che tutto fosse regolare, dormiva ancora beatamente. Come mai?»
A quella notizia, Reiji non si trattenne e si lasciò del tutto andare , piegandosi improvvisamente sulle gambe, le dita infilate fra i capelli. Era come se un enorme peso gli si fosse tolto come per magia dal suo cuore, lasciandolo decisamente molto più leggero e tranquillo. «Grazie
Ma non era di certo quello il tempo per riposarsi, Otoya si sarebbe potuto svegliare a breve.
Ritornò in piedi, picchiettando una mano sulla spalla dell’insegnante. «E grazie anche per essersi offerto di aiutarmi con quel disastro.» ridacchiò prima di defilarsi. «A oggi pomeriggio per la lezione! Le devo un favore!» lo salutò per poi entrare cauto all’interno della stanza.
«Ehi! Sei ancora tutto bagnato! Reiji! Non toccare nulla!»
Dubitava del fatto che lo avesse sentito. «Ah, quel ragazzo…»
Ma in fondo sapeva che per quanto potesse sembrare uno scapestrato di cui i veterani finivano per lamentarsi, era forse una delle persone, tra i suoi studenti, che più tenevano e rispettavano la condizione dei loro pazienti, molto più di quanto facessero certi suoi colleghi con anni di esperienza alle spalle.
E questo era più che bastato per ottenere il suo appoggio nelle follie che gli passavano per la testa.
«Oh! Signora, mi dia pure la mano, non vorrei che si facesse male. Purtroppo abbiamo avuto un piccolo incidente…»

§§§§
 
Con una lentezza che avrebbe fatto concorrenza a quella di un bradipo, Reiji chiuse la porta.
Poi, muovendosi sempre con attenzione, andò ad accomodarsi sullo sgabello di fianco al letto del bambino, avvicinandosi un poco alla finestra, in modo da non rischiare di lasciare gocce d’acqua sulle lenzuola. Si osservò i vestiti e sospirò, raccogliendosi poi i capelli in un piccolo codino con l’elastico che si era infilato in tasca poco prima di addormentarsi, così da non farli gocciolare più del dovuto. Arrotolò poi le maniche della sua maglietta e se ne stette dritto con la schiena appoggiata contro il muro. Se non voleva combinare altri disastri, avrebbe dovuto stare immobile, almeno fino al risveglio del piccolo.
Sorrise con un’infinita dolcezza nel guardarlo.
La sua espressione era serena, la testolina era affondata più che comodamente nel cuscino e in generale pareva che stesse avendo un bel sogno.
«Perdonami per la bugia che ti dirò. Purtroppo è una cosa che i grandi fanno spesso, e quando è a fin di bene il senso di colpa si fa sentire un po’ di meno…» sussurrò piano, allungando una mano – ora decisamente più calda rispetto a prima – verso quella più piccola dell’altro, accarezzandone delicatamente il dorso.
Se solo avesse potuto, sarebbe rimasto per davvero tutta la notte al suo fianco, proprio come gli aveva promesso, ma c’erano regole che non poteva infrangere, oltre che gli studi da portare avanti. «Scusami.» disse flebilmente, stringendo la sua mano.
A quello, Otoya strinse un poco le labbra, corrucciandosi un attimo prima di sbadigliare.
Si strofinò un occhietto con la mano libera e quando ancora mezzo assonnato aprì gli occhi, la sua bocca si allargò in un grande sorriso una volta individuata la figura di Reiji ancora al suo fianco.
«Rei-nii…» biascicò, aprendo di nuovo la boccuccia per un secondo sbadiglio.
Reiji ridacchiò. «Se sei ancora così stanco, dovresti provare a riaddormentarti~» spostò la mano sul capo calvo del minore, accarezzandolo. «Buongiorno, mio piccolo Otoyan.»
Il piccolo chiuse gli occhi di nuovo, in modo da potersi godere appieno quelle carezze.
«’Giorno. Perché stai così lontano?»
«O-oh, ehm…» Beh, effettivamente non aveva tutti i torti a chiederglielo visto come si era piegato in due per raggiungerlo. Era quasi comica come posizione. «Mi sono svegliato qualche minuto fa e avevo bisogno di una boccata d’aria fresca. Peccato che visto che ero ancora mezzo addormentato, non mi sono proprio accorto che stesse piovendo così forte! Mi sono bagnato un poco e non volevo finire con l’infradiciare anche te e il tuo letto così pulito e profumato. A proposito, la mia mano ti sembra troppo fredda?»
Otoya lo guardò ancora intontito dal sonno e poi rise, avvicinandosi un po’ di più al bordo del letto per facilitare a Reiji il tocco. «No, è calda come sempre, e Rei-nii è proprio un imbranato.»
«Hai proprio ragione.» rise anche lui, spostando la mano sulla sua guancia. «Come ti senti, piccolo?»
Otoya riaprì gli occhietti, guardandolo male. «Non sono piccolo! Ho già sette anni!»
«Mh-mh, ne riparliamo quando la tua mano sarà più grande della mia~»
«Quando sarò grande come Rei-nii non potrai più chiamarmi piccolo!»
«Se solo Rei-nii potesse, ti terrebbe piccolo così, invece!» ridacchiò, regalandogli una linguaccia al suo broncetto offeso.  «Non devi avere fretta di diventare grande.»
«Mmh…» Otoya si fece pensieroso, lanciando uno sguardo alla parete davanti a lui, su cui vi erano appesi tutti i disegni fatti insieme a Reiji e i suoi amici infermieri. «Però se divento grande subito, potrò riuscire a disegnare bene come te e gli altri. I miei sono brutti…» mormorò quest’ultima frase, sporgendo il labbretto inferiore. Ma quest’espressione durò poco. Curioso, Otoya aprì di più gli occhi quando Reiji si mise improvvisamente in piedi, camminando verso la suddetta parete. Ridacchiò appena al fatto che stesse gocciolando tutto per terra: le infermiere lo avrebbero di sicuro sgridato una volta scoperto.
«I tuoi disegni sono brutti? Sembra che tu voglia farmi arrabbiare, oggi!» fece il moro, appoggiando una mano chiusa a pugno sul fianco mentre con l’altra indicava uno dei lavori del bambino. «Questa casa. Guarda come hai fatto questa casa. Se un architetto entrasse e la vedesse, sono sicuro che smetterebbe di fare il suo lavoro e ti lascerebbe il suo posto! Ci vuole genialità per fare certe linee! Una genialità che solo voi bambini possedete. Siete piccoli, ma potreste conquistare il mondo, te lo assicuro! E questo cane con un osso tra i denti? Guarda com’è originale rispetto a quello di Satou-san! Lui ha usato un banalissimo marrone per fare il suo pelo, tu invece un coloratissimo e vivacissimo giallo acceso con tanto di macchie rosse sulle orecchie! È davvero meraviglioso.» ridacchiò, spostandosi a commentare ogni suo singolo lavoro con un entusiasmo che non sarebbe mai riuscito a stancare Otoya. Quest’ultimo si mise seduto, appoggiando la schiena contro il cuscino, pendendo dalle sue labbra. Ascoltava attento ogni sua singola parola con un sorriso che andava ogni volta da orecchio a orecchio, mentre il suo pancino avvertiva una piacevole sensazione di calore nell’averlo in quella stanza insieme a lui. Si sentiva sempre così protetto e capace di andare avanti senza paura quando Rei-nii era al suo fianco.
Era un po’ come avere un fratello maggiore che avrebbe tanto voluto per davvero, ma quel compito era toccato a lui, anche se non credeva di essere così bravo.
Non gli piaceva veder piangere Cecil, suo fratello minore di sangue, e il resto dei bambini dell’orfanotrofio, gli altri suoi fratellini, dopo la chemioterapia.
Faceva il possibile per trovare la forza di sorridere, però anche cercare di alzare gli angoli della bocca diventava troppo pesante in quei momenti. Sentiva dire i dottori che tutto sarebbe presto passato, ma la leucemia non sembrava essere d’accordo con loro. Forse si era affezionata a lui e non voleva lasciarlo perché si sentiva sola? Perché se era così, aveva solo da chiederle: non farlo soffrire più così tanto. La chemioterapia, le punture e le medicine non gli piacevano proprio, ma per il resto poteva anche rimanere insieme a lui, se lo voleva così tanto. Dopotutto, è stato solo per merito suo se era riuscito a incontrare Reiji. Da quando era apparso, stare in ospedale era diventato molto più bello e divertente. Anche i dottori e le infermiere sembravano essere più gentili quando era nei paraggi, riusciva sempre a rubare una risata a tutti. Otoya se l’era sempre detto: forse se avesse avuto una mamma o un papà sarebbe stato più facile passare tutto quello. Nessuno dei due, però, c’era mai stato, non sapeva nemmeno come fossero fatti, i suoi genitori. La signora dell’orfanotrofio era gentile e molte volte era venuta lì a fargli visita insieme ai suoi fratelli, ma non era mai stato lo stesso di quello che aveva sempre sognato di avere.
Otoya continuò a seguire il discorso apparentemente infinito di Reiji, stringendo le gambe contro il petto. Adesso, in realtà, non gli importava più così tanto di non avere dei genitori.
Per lui c’era Reiji che non si limitava solo a seguirlo insieme agli altri infermieri e a fargli visita, gli faceva anche da fratello maggiore, mamma e papà insieme. Era entrato in reparto da soli alcuni mesi, ma sembrava conoscerlo da sempre. Se Reiji non fosse così giovane, ad Otoya non sarebbe dispiaciuto pensare che il moro potesse trattarsi del suo vero papà venuto sotto copertura dal suo segretissimo e pericolosissimo lavoro per prendersi cura di lui. Piaceva tanto anche a Cecil, tra l’altro, e anche a tutti gli altri bambini del reparto.
Non nascondeva di sentirsi geloso quando lo vedeva dedicare delle attenzioni a qualcun altro, ma sapeva che Rei-nii preferiva lui tra tutti!
Annuì convinto di tale pensiero, ridacchiando contento. Così immerso nei suoi pensieri, però, non si accorse del fatto che Reiji si fosse riavvicinato a lui e lo stesse guardando alquanto curioso. «A che cosa stai pensando, peste? Modi per conquistare il mondo? Non ti avrò dato delle idee, vero?!»
«Oh, sì! Tante idee! Tutti tremeranno quando sentiranno il mio nome!» alzò le braccia al soffitto, divertito dall’espressione fintamente disperata di Reiji.
«Gah! Ora avrò l’umanità sulla coscienza! Come farò ad andare avanti con questi sensi di colpa!? Devo fuggire. Hai intenzione di conquistare anche il Messico?»
Otoya annuì, sebbene non sapesse dove si trovasse questo Messico.
«Aaaah! Sono spacciato!»
«No! Perché tanto Rei-nii diventerà il mio aiutante! Non devi fuggire da nessuna parte, ti proteggerò io da chiunque vorrà farti del male!»
«Oh?» Reiji sporse l’orecchio, interessato. «Ho sentito bene? Il tuo aiutante?» sogghignò, sfregandosi le mani. «Questo cambia tutto, allora. Prometto di non deluderti quando il fatidico momento arriverà!»
«Prima di quel momento… non mi lascerai solo?»
Reiji lo guardò seriamente, tenendo forte con entrambe le mani quelle di Otoya. «Ci sarò ogni volta che avrai bisogno di me, lo giuro sulle mie maracas. Sai quanto ci tengo, no?» ammiccò, avvicinando il viso per lasciargli un bacio sulla fronte. «Mmh, ma com’è che hai sempre un odore così buono? Io sono quasi certo che da bambino non avessi un simile profumo! Anzi… Mi sa tutto il contrario
«Rei-nii era un imbranato anche da bambino, per quello!»
«Guarda che imbranato non significa per forza puzzone, eh!»
Otoya rise più forte e Reiji sentì il suo cuore colmarsi di gioia.
Sentiva che ogni singola risata, ogni sorriso da parte dei suoi piccoli amici riuscisse ad allungargli la vita di un anno.
«Rei-nii.» lo chiamò Otoya.
«Uh? Dimmi.»
«Dopo le punture, mi accompagni da Tokiya? Ancora non vuole parlare con nessuno, e io voglio fargli compagnia. Secondo me ha paura, come ce l’avevo io…»
«È bello da parte tua volergli stare vicino. Dopo andiamo a fargli una visitina, allora.»
«Grazie.» liberò le mani dalla presa di Reiji e allargò le braccia. «A proposito delle punture… Posso abbracciarti per un po’? S-so che dovrei essere coraggioso p-perché per me non è la prima volta, però ho comunque paura…»
Reiji rimase spiazzato, allontanandosi un poco. «Sono tutto bagnato, finirei solo per-»
Ma Otoya scosse la testa. «Faccio attenzione io, tu tieni le mani giù. Per favore?»
Reiji sospirò rassegnato, non trattenendo però un sorriso. «Vieni qui.» fece, lasciando che il minore avvolgesse le braccine attorno al suo collo mentre lui, con cautela, iniziò ad accarezzargli la schiena con movimenti lenti e rilassanti. «Finché ci sono io non devi avere paura di nulla, piccolo mio.»
Otoya si aggrappò a lui più forte, annuendo. «Lo so. E voglio che anche Tokiya lo capisca. Se Rei-nii riesce a legare con lui, sono sicuro che non avrà più paura.»
«Allora impegniamoci a farglielo capire insieme, d’accordo?»
«Uh-uh.»
 
§§§§
 
Clinica veterinaria – 19:46
 
 
Pur facendo salti mortali tra ospedale e università, aveva fallito miseramente nel mantenere la sua promessa con l’albino.
Dopo aver guidato con la stessa foga di quella mattina, entrò nella clinica veterinaria aspettandosi già di non trovarlo più. Per quanto Sakagami-sensei potesse essersi sforzato, il ragazzo sembrava avere un carattere difficile da domare e dopo l’accaduto di oggi difficilmente poteva sperare che si fosse presentato di nuovo lì per l’appuntamento.
L’unica cosa positiva era che almeno aveva smesso di piovere.
Quando il dottor Sakagami vide Reiji entrare lo salutò con un cenno del capo, spegnendo nel posacenere la sigaretta che aveva tra le dita affusolate.
«Non sei un tantino in ritardo, figliolo?»
Reiji abbassò lo sguardo, colpevole, e infine sospirò. «Non me lo dica. Ho fatto il possibile, ma non ce l’ho fatta prima.»
Era persino un miracolo che fosse ancora capace di reggersi in piedi. Tutto il suo corpo stava letteralmente urlando pietà per avere un briciolo di sollievo che non fosse dato dal caffè, ma da un letto morbido e caldo.
«Non è che avrebbe il suo contatto da passarmi? Devo fare qualcosa per scusarmi di quello che è successo.»
«Ma quale contatto! Zitto e vieni con me.» L’uomo si tolse gli occhiali da vista e gli lasciò appesi al taschino del suo camice bianco, conducendo Reiji nella sala d’attesa della clinica.
«È rimasto da me fino a mezzogiorno, poi non appena ha visto che aveva smesso di piovere mi ha detto che sarebbe andato a sbrigare altre faccende. L’ho chiamato più o meno un’ora fa con la scusa dei suoi gatti e alla fine è crollato. Se riesci a svegliarlo mi faresti un enorme favore visto che devo chiudere tutto. Sbrigatevi a risolvere senza risse e filate a casa, chiaro?» colpì scherzosamente Reiji sulla fronte con la nocca dell’indice, spostando poi la mano ad arruffargli i capelli. «Tu buttati a letto appena torni. Guardate che dormire non è optional, eh. Nessuna donna è attratta dagli uomini con le occhiaie.» uscì, scuotendo la testa e borbottando qualcosa che a Reiji risultò difficile capire, ma che lo fece comunque sorridere. «Lo farò!» E questa volta avrebbe davvero tenuto fede alla sua parola.
Come zombie non sarebbe stato molto d’aiuto a nessuno, dopotutto.
Reiji rimase qualche istante in più fermo sulla soglia della porta d’entrata, divertito dalla posizione in cui era finito per crollare: quanta stanchezza doveva avere addosso?
Sdraiato su tre sedie con una gamba distesa e l’altra a terra, avvolto scompostamente da una copertina lasciatagli probabilmente dal sensei, l’albino riposava tranquillo, usando come cuscino una delle sue mani sotto la nuca. Poi Reiji si avvicinò, accucciandosi al suo fianco, rimanendo a guardarlo per un altro po’.
«Chi l’avrebbe mai detto che sarei finito per conoscerti in questo modo…» ridacchiò,  portando l’indice in mezzo alle sue sopracciglia corrugate.
Possibile che dovesse tenere quel muso anche durante il sonno?
Quel tocco apparentemente sembrò più che bastare per separarlo dal mondo dei sogni.
Un vero peccato, si disse.
Non gli sarebbe affatto dispiaciuto rimanere lì insieme alla sua silenziosa compagnia per qualche altro minuto.
Ranmaru aprì con lentezza gli occhi, sbattendo le palpebre un paio di volte prima di riuscire a mettere a fuoco la figura di fianco a lui.
Quando riconobbe la persona, dopo essersi concesso uno sbadiglio, grugnì già irritato.
«Il pirata di stamattina.» si sollevò per mettersi a sedere decentemente, massaggiandosi il collo indolenzito. «Non posso credere di essermi addormentato qui…»
«Quando si è davvero stanchi capita di addormentarsi ovunque! Lo so per esperienza. Comunque puoi chiamarmi Reiji, invece di pirata! Reiji Kotobuki!»
«Stanco come questa mattina, immagino. Scommetto che stavi dormendo mentre eri alla guida.» assunse una smorfia, ignorando la mano che il moro aveva allungato verso di lui nel presentarsi.
«Gah-gahn, ecco di nuovo questa storia!» rise nervoso, grattandosi la nuca. «Ehi, sono qui per cercare di fartela dimenticare, non infierire!» si finse offeso, tornando in piedi non appena vide il ragazzo fare lo stesso.
«Ti ho già detto che non è necessario, sturati quelle dannatissime orecchie.» sbadigliò di nuovo, premendo con le dita il cerotto sotto al mento che il veterinario gli aveva messo per i graffi di Mike, assicurandosi che fosse ancora ben attaccato alla pelle. «A mai più rivederci.» cercò di liquidarlo, sorpassandolo con una spallata, ma Reiji fu più veloce nel piazzarsi di nuovo davanti a lui, mettendo a dura prova la pazienza dell’altro.
«Levati di mezzo, stai iniziando a irritarmi.»
«Non prima che tu abbia accettato la mia offerta di pace. Avverto ancora energia negativa da parte tua e questo non va bene! Ti avrò quasi investito, ma non puoi davvero odiarmi… ci siamo appena conosciuti, no?»
«Mi è più che bastato l’aver quasi perso la vita. Ora lasciami andare prima che ti faccia male.»
Reiji sogghignò, fronteggiandolo senza alcun problema sebbene Ranmaru fosse qualche centimetro più alto di lui. «Qualcosa mi dice che queste minacce sono tutto fumo e niente arrosto. Non saresti capace di-» Dovette cambiare idea non appena l’albino lo afferrò per la maglietta, ringhiandogli in faccia.
«Vogliamo vedere se non ne sono capace?»
Deglutì, riprendendo il coraggio di prima. Nel peggiore dei casi si sarebbe ritrovato con un occhio nero, ma almeno non avrebbe avuto il rimpianto di non averci provato.
«Ti piace cantare?» provò, sembrando attirarne un minimo di interesse.
 
Bingo.
 
«Può darsi. Questo cosa c’entra, ora?»
«Lascia che ti offra una serata al karaoke! Puoi portarti degli amici se proprio non vuoi stare da solo con me, io farò lo stesso! Non è il massimo, ma è tutto ciò che al momento posso permettermi.»
La smorfia disgustata sul viso dell’albino fu più che prevedibile, come lo sarebbe stata…
«Io non vado in questo genere di posti.»
… questa frase. Ormai Reiji poteva dire di aver più o meno inquadrato il soggetto con cui aveva a che fare.
«Così mi rendi le cose molto più difficili, sai? In fondo per una breve serata potresti anche sopportare, no? In caso contrario dovrò continuare a tormentarti fino a quando non mi dirai di sì. Per tua informazione, sono una persona piuttosto insistente.» sorrise serafico, liberandosi dalla sua presa. «Ma se la tua preoccupazione è quella di non saper cantare e ti vergogni di fare brutta figura, non preoccuparti! Nessuno riderà di te perché sei stonato~» appoggiò una mano sulla sua spalla, comprensivo, poco prima di ammiccare.
Ranmaru guardò la suddetta mano per poi tornare a fissare il moro in cagnesco.
«Hah?»
«Davvero! Mi assicurerò che i miei amici non ti prendano in giro, ma non prometto nulla. Loro sono piuttosto bravi, quindi se dovessi sentirti intimidito, io potrei-»
«Intimidito?»
Reiji soppresse abilmente un ghigno soddisfatto, annuendo invece innocentemente.
«Mh-mh.»
Ranmaru strinse i denti. «Porta questi qua e vediamo chi sarà a sentirsi intimidito.»
«Quindi è un sì?!»
«Togliti quel sorriso dalle labbra prima che cambi idea.»
«Ricevuto!» disse, continuando nonostante ciò a sorridere. «Domani sera? Verso le otto? Potresti darmi il tuo numero di telefono, così possiamo tenerci in contatto per altri dettagli!»
«Verso le otto. Karaoke vicino alla stazione di Shibuya. Questi sono gli unici dettagli che ti servono.»
Reiji alzò gli occhi al soffitto, sospirando. «Come vuoi. Posso almeno sapere il tuo nome o hai paura di dirmi anche questo?»
L’albino tentennò un attimo prima di rivelarglielo, guardando altrove. «Ranmaru. Kurosaki Ranmaru.»
«Ranmaru… Ranmaru…» iniziò a riflettere, lisciandosi una barba immaginaria per fare scena, finendo poi per illuminarsi improvvisamente, facendo sobbalzare di poco l’aspirante rocker per la sorpresa. «Ran-Ran!»
«Eh?»
«Ranmaru è troppo lungo, quindi ti chiamerò Ran-Ran!»
«No, non lo farai.»
«Ma è così carino oltre ad essere veloce da dire!» rise, lasciando finalmente Ranmaru libero di andarsene.
«Tu sei completamente andato.»
«Non dimenticarti di domani, Ran-Ran!»
«Sta’ zitto.» sibilò, dandogli una leggera spinta quando riuscì finalmente a incamminarsi verso l’uscita. «Sera, doc.» salutò velocemente il veterinario prima che quel pazzo potesse raggiungerlo e magari fermarlo per altri dettagli.
Ma aveva fatto veramente bene ad accettare? Ora non solo si sarebbe dovuto preparare psicologicamente all’uscita con il pensiero di dover sopportare quel demente per un altro paio d’ore, avrebbe pure dovuto chiedere a qualcuno di accompagnarlo. Qualcuno che preferibilmente parlasse al posto suo.
Vista la sua non poi così ampia cerchia di conoscenti, la scelta non sarebbe stata troppo difficile.
 «Fantastico…» grugnì, alzando gli occhi al cielo.
Che giornata del cavolo era stata anche quella di oggi.
 
 
 
Angolo autrice:

Tadaan~ rieccomi! Per chi aveva già letto la prima versione, questo capitolo non è proprio una novità (a meno che non vi siate scordati di quello che avevo scritto, in quel caso va benissimo così XD) a parte qualche piccola miglioria in alcune parti, ma sappiate che dal prossimo in poi le cose inizieranno a farsi più interessanti! Che ne pensate di queste prime interazioni tra loro? E di quelle tra Otoya e Reiji? Spero davvero di avervi scaldato con quella parte, è una delle mie preferite di questo capitolo :”)
Poi che altro abbiamo? Il dottor Sakagami l’avevo accennato lo scorso capitolo, e come promesso qua sotto vi metto una sua immagine (prestavolto: Hirato di Karneval) con tanto di canzone per darvi un’idea della sua voce <3 (è qualcosa che avrete per tutti i miei OC, spero che come cosa vi piaccia çwç), e oltre a lui ne compare uno nuovo, Daisuke Satou, mentre un altro viene solo nominato, il primario Inoue. Del primo non so bene quando riuscirò a mettervi una sua immagine modificata da me, ma vedrò di impegnarmi per riuscirci! Mentre per quanto riguarda il secondo avrete presto sue notizie (e il suo aspetto fisico con tanto di seiyuu <3) già dal prossimo capitolo! Questi tre OC sono tra i miei preferiti, hanno tra loro un legame e una storia a parte che scoprirete man mano, e niente, non vedo l’ora di farveli conoscere per bene! :33
Prima di chiudere l’angolo autore, voglio ringraziare Ailess, Lyel, Starishadow e _XUNMASKED_ per le bellissime recensioni, mi avete fatto un piacere immenso, nemmeno lo immaginate <33
Spero davvero che anche questo capitolo si riveli piacevole da leggere, come sempre se volete lasciarmi qualche breve commento per farmi sapere le vostre impressioni, positive o negative che siano, queste sono bene accette! <33
Vi mando un grosso bacione nel frattempo, alla prossima! :33
 
Ps: pregate per me, domani proverò a fare la pesca per la UR Fantasy Circus di Reiji in Shining Live (e se il gioco mi vuole bene, pure quella di Ranmaru). 





Il seiyuu prescelto questa volta è Ono Yuki! Qui il link per la canzone: 
https://soundcloud.com/user-3858960/yuki-ono-trust-myself
 

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Capitolo 4
*** Tra sfide e nuove impressioni ***


Rise Again

 
 
03. Tra sfide e nuove impressioni



 
 
 
 
[Tokyo, 2 aprile 2015]
 
 


«Un’uscita?! Noi e altri esseri umani? Se è una presa per il culo ti ricordo che il pesce d’aprile era ieri.»
Ranmaru sospirò senza prestargli troppa attenzione, piegandosi, piuttosto, a contare i soldi all’interno della custodia del suo basso. Forse avrebbe dovuto cominciare a scrivere una nuova canzone per continuare a tenere alto l’interesse dei passanti. «Non sei costretto a venire. In realtà andrebbe bene solo Hiroto, parla talmente tanto che basta anche per me.»
Kurou schioccò la lingua, alzando gli occhi al cielo. «Wow, Ranny, trattieni il tuo spirito festaiolo, eh. Pensa invece ad usare tutto questo entusiasmo per racimolare qualcosa in più di quello.» fece, indicando la somma in mano a Ranmaru.
L’albino non poté dargli torto.
Si rialzò con una smorfia, infilandosi in tasca quei miseri mille yen*. Mille. Non era poco per un’artista di strada, certo, ma vista la media giornaliera a cui era abituato, quelli non erano neanche un granché.
Soprattutto perché era convinto che la sua musica andasse più che bene.
Attirava, e anche quando non era propriamente in vena di cantare davanti a delle persone, nessuno si era mai accorto della differenza nelle sue esibizioni. Poteva persino arrivare a sbagliare degli accordi e solo in tre, probabilmente, fra il pubblico, sarebbero stati in grado di cogliere la stonatura.
Erano tutti un branco di idioti che della sua musica, del testo delle sue canzoni, non capivano assolutamente nulla. Specie quelle mocciose starnazzanti che non mancavano mai di perdersi le loro serate al Parsley’s.
Le avrebbe fatte sopprimere dal dottor Sakagami più che volentieri se non fosse stato per il fatto che, proprio grazie a loro, le entrate del locale erano incrementate.
Sospirò di nuovo, deciso a suonare un altro paio di canzoni prima di raccogliere le sue cose e dirigersi al Parsley’s per dare una mano in cucina vista l’avvicinarsi dell’ora di pranzo. «Tu levi le tende o no?»
«Per favore, Kurou, puoi lasciarmi spazio libero per poter suonare un altro po’? Ti viene così difficile da dire? Un corso di buone maniere no, eh?»
«Sei l’ultima persona da cui posso sentirmelo dire.»
«A differenza tua le basi almeno le conosco.»
«Sei ancora qui a dare aria alla bocca?»
Kurou grugnì ma decise di non aggiungere altro, tornando piuttosto alla propria postazione dall’altra parte della strada, stiracchiandosi una volta seduto sul suo sgabellino.
«Comunque per me va più che bene! Vuoi che li avvisi?!» urlò con un sogghigno, sapendo bene quanto il compagno di band poco lo sopportasse quando cercava di comunicare in quel modo. Questo gli fece un cenno di assenso col capo, scaturendo una certa ilarità in Kurou nel vedere la sua espressione palesemente infastidita.
Sghignazzò con il pennello tra i denti, dando la schiena a Ranmaru e mettendosi velocemente all’opera per avvisare l’amico.
Una volta inviato il messaggio, riprese in mano il pennello e lo fece roteare abilmente tra le dita, mantenendo nel frattempo il ritmo con il piede quando Ranmaru riprese a suonare.
Il suo viso non tardò a contrarsi in un’espressione seria e concentrata, le orecchie focalizzate sulla sua musica.
Ormai in un mondo a cui solo lui e quelle noti graffianti appartenevano, lasciò che proprio queste guidassero il pennello sulla tela candida.
Lo aveva odiato fin dalla prima esibizione a cui aveva assistito, e ancora oggi il suo odio per lui non cessava di roderlo dentro.
Odiava quanto fosse maledettamente bravo a usare quelle dita per tirare fuori il meglio dallo strumento.
Odiava come era riuscito a guadagnarsi il rispetto degli altri artisti di strada, i quali, riconoscendo il suo talento, gli avevano concesso un “territorio” che apparteneva solamente a lui e in cui nessuno lo avrebbe disturbato.
Ma a parer suo dietro a quello che loro spacciavano per rispetto si nascondeva più che altro il timore di non essere abbastanza al suo confronto per i gusti del pubblico, rischiando così di essere ignorati.
Con Ranmaru non c’era competizione, ne erano tutti ben consapevoli.
Kurou chiuse gli occhi, portando la mano libera all’altezza del petto, stringendo in un pugno il tessuto della maglietta.
Ma ciò che forse più odiava era il modo in cui i muscoli del suo braccio finivano col contrarsi ad ogni pennellata; il modo in cui i peli gli si rizzavano mentre il battito del suo cuore diventava man mano più irregolare, provocandogli dei brividi a partire dalla nuca e poi via via scendendo lungo la spina dorsale che mai si sarebbe immaginato di poter provare.
Odiava quanto in realtà amasse la sua musica.
Kurou riaprì gli occhi, accigliandosi nell’avvertire il brusio di nuove persone raccolte attorno a lui.
«Tsk
Alla fine era solo quella a legarlo a Ranmaru, nient’altro.
 
§§§§
 
«Fatemi capire un attimo! Non è uno scherzo?»
«Heh, visto che non sono l’unico ad averlo pensato, Ranny?»
«Fottetevi.»
Il batterista della band, ora al bancone, sospirò sconsolato a quella scena, prendendo in mano il vassoio con su qualche bibita datogli da Yume, ringraziandola poi educatamente, chinando il capo.
L’anziana sorrise al gesto.
«Mi chiedo ancora come sia possibile che tu riesca a stare insieme a loro. I vostri caratteri sono talmente diversi.»
Hisoka le sorrise a sua volta, lanciando un altro sguardo ai tre seduti al tavolo in attesa del suo arrivo. «Se fossero come me, probabilmente sarebbe tutto molto più noioso e monotono, invece con loro non sai mai cosa aspettarti.»
Rifletté un attimo prima di correggersi.
«A parte i litigi tra Ranmaru-san e Kurou, quelli ormai sono all’ordine del giorno.» ridacchiò, regalando la stessa risata a Yume che, alla fin fine, non poté dargli torto.
«Hisocchi! Quanto ci stai mettendo per quelle bibite?!»
«Hiroto, arrivo! Con permesso, allora.»
«Vai, vai. Mi raccomando, tienili sotto controllo, mh?» scosse la testa, la donna, per poi dirigersi verso le scale che l’avrebbero condotta al piano superiore del locale. «Per qualsiasi cosa mi trovate su.»
Una volta che il ragazzo le ebbe annuito, iniziò a salire poco per volta gli scalini, Hisoka, invece, si diresse finalmente dagli altri, facendo rilasciare a Hiroto un urlo di esaltazione che lo fece divertire, ma la sua attenzione si spostò subito su Ranmaru quando questo si allungò per prendere la propria lattina, ringraziandolo con un cenno del capo.
Hisoka gli dedicò un sorriso imbarazzato, sedendosi infine al suo posto. «Uhm, quindi questa sera ci vedremo davvero?» chiese, infilando la cannuccia nel suo tè alla pesca, sorseggiandone un poco.
Kurou a quella domanda scoppiò a ridere sguaiatamente, spazientendo visibilmente Ranmaru. Cosa credevano che fosse? Un buffone a cui piaceva fare battute?!
«H-Ho detto qualcosa di divertente?»
Hisoka spostò subito lo sguardo da Kurou a Ranmaru, preoccupato di averlo in qualche modo offeso. «Era solo una domanda, non volevo prendere in giro nessuno! Io-»
«Oh, non fare quella faccia!» Hiroto interruppe il suo discorso, toccandogli da sotto il tavolo la gamba con il ginocchio, come per rassicurarlo che ci avrebbe pensato lui e di non farsi alcuna paranoia. Hisoka quindi si zittì all’istante, abbassando lo sguardo. Sperava davvero che Hiroto potesse fargli capire che non era sua intenzione prendersi gioco di lui.
«Io e Hisocchi ne abbiamo parlato un po’ stamattina, Ran-chan.» Il chitarrista allungò poi una mano alla nuca di Kurou, colpendolo leggermente in modo da farlo smettere di ridere. Questo non prese la cosa troppo bene, ma Hiroto non gli diede alcun modo di interromperlo. Continuò a parlare anche sopra le sue minacce e imprecazioni varie.
«Non è per scherzare, siamo davvero rimasti sorpresi. Non siamo mai usciti assieme da quando ci conosciamo, per quello ci era sembrato un po’ strano! Ma questo non vuol dire che non ci faccia piacere~» gli sorrise ampiamente, acchiappando poi Kurou con un braccio avvolto attorno alle sue spalle, strofinandogli il ciuffo sul davanti con le nocche. «E anche Kurry è della stessa idea, ne sono convinto. Siete solo due brontoloni che non amano ammettere le cose anche quando sono evidenti.» sospirò sconsolato e un filo melodrammatico, venendo poi spinto malamente da Kurou, il quale non apprezzò affatto quel trattamento. Ma questo non fu sufficiente a spegnere il suo animo.
Hisoka in tutto ciò continuò a ringraziare mentalmente il migliore amico con un tenero sorriso sulle labbra. Riusciva sempre a impedire che gli altri due si scannassero tra loro. Aveva un carattere carismatico e sapeva come imporsi in una situazione come quella senza alcuna prepotenza, solo tanta esuberanza e simpatia, oltre che particolare attenzione alle parole da usare in base al suo interlocutore.
Chiunque finiva irrimediabilmente attratto dalla sua personalità vitale.
Hiroto era sempre stato qualcuno a cui aspirava di poter anche solo somigliare un giorno.
Hisoka sentì poi un pizzicotto sul dorso della mano che lo distolse dai suoi innumerevoli pensieri, sollevando lo sguardo verso l’amico. Anche se era impegnato a parlare, Hiroto non si era comunque lasciato sfuggire il suo silenzio e gli occhi persi a fissare il vuoto.
Risollevò quindi il capo e si sforzò di rendersi partecipe alla conversazione per non farlo preoccupare.
«Kurou ci aveva scritto che non saremo solo noi, giusto?»
Ranmaru finì di bere la sua bibita e la riappoggiò sul vassoio. La voglia di annullare tutto e dimenticarsi di quella storia stava diventando sempre più forte, ma in qualche modo temeva che con la sua sfortuna sarebbe finito per incontrare di nuovo quello squilibrato e che questo lo avrebbe tormentato ancora per un’altra uscita. Quindi era meglio non rischiare e giocarsi quella serata con infinita pazienza, anche se la vedeva estremamente dura fin da ora.
«Non so quanta gente ci sarà, spero non troppa, comunque. So solo che questo tizio porterà alcuni suoi amici per passare la serata assieme.»
I tre si scambiarono un rapido sguardo fra loro, poi Kurou, dopo essersi ripreso e calmato da prima, azzardò una domanda.
«Ranny, che intendi per tizio? Non lo conosci?»
Ranmaru scrollò le spalle. «Ho avuto il dispiacere di conoscerlo ieri, dopo che ha quasi rischiato di tirarmi sotto la sua auto. Poi ha insistito per offrirmi questa serata e farsi perdonare, o meglio, per mettersi la coscienza a posto.» grugnì, grattandosi la nuca, mentre gli altri continuavano a fissarlo allibiti da come stesse raccontando il tutto con apparente tranquillità.
«Non mi ricordo nemmeno come si chiama…»
Il silenzio che venne a crearsi tra loro si ruppe con il rumore di una testata che Kurou diede sulla superficie del tavolo, basito. Non poteva dire sul serio, giusto?
«Dio…»
E invece no, sapeva benissimo che l’altro non stava affatto scherzando. Non a caso gli era venuto il dubbio, quella mattina, considerando che Ranmaru non sembrava aver mai avuto un gruppo di amici o conoscenti con cui uscire. Ora tutto aveva un senso… più o meno.
Alla testata di Kurou seguì pochi secondi dopo la risata di Hiroto, il quale finì addirittura per piegarsi in due sul tavolo, con le lacrime agli occhi.
«Ran-chan, ti adoro! Credo di stare per morire, davvero! Sembri il protagonista di un anime!» continuò a ridere, voltando il viso verso Hisoka, il quale lo guardò con gli occhi sbarrati per come aveva appena reagito. Non ci si poteva mettere pure lui!
«Hisocchi! Hisocchi! Sto pensando a Ichigo delle Mew Mew! Hai presente la puntata dove viene quasi investita, ma riesce comunque a evitare il camion grazie al nuovo DNA?! Ce lo vedo troppo! UGUALE!»
Hisoka ritenne diretta responsabile di ciò la sorella minore dell’amico, e se quel pomeriggio fossero riusciti ad uscirne indenni, si ripromise di non permettere mai più a Hiroto di guardare altri anime in sua compagnia.
Ranmaru sbatté con forza il palmo della mano sul tavolo, facendo sobbalzare il castano per lo spavento, ma quest’ultimo sembrava essere l’unico ad aver reagito al gesto dell’albino.
«Brutti pezzi di-!»
Hisoka si tappò le orecchie e sollevò gli occhi al soffitto, sospirando sconsolato.
Ranmaru afferrò Kurou per la collottola e iniziò a sbraitargli contro, ma quando questo cercò di difendersi chiedendo per quale diavolo di motivo se la stesse prendendo con lui se era Hiroto quello che stava ancora ridendo, Ranmaru gli rispose che la boccaccia del ragazzo gli sarebbe servita quella sera per non stare dietro ai discorsi degli amici del pazzo di ieri, e che il giorno dopo si sarebbe impegnato a far fuori anche lui.
Con un altro sospiro, il batterista scosse un po’ per il braccio il migliore amico, richiamandolo più volte per farlo smettere – anche se effettivamente non poteva dargli torto, una breve risata se l’era fatta sfuggire anche a lui a pensarci –, ma Hiroto sembrava averne ancora per molto, mentre gli altri due avevano già iniziato a bisticciare e insultarsi con termini che ancora lasciavano di sasso il povero Hisoka.
Sarebbero davvero riusciti ad arrivare a quella sera?
 
§§§§
 
Ospedale della baia di Odaiba – ore 17:38
 
 
Otoya rimase aggrappato a Reiji con le braccine ben avvolte attorno al suo collo, il viso premuto sulla sua spalla.
Reiji gli accarezzò la schiena mentre aspettò che l’infermiera uscisse dalla stanza 308, riservata a uno dei loro nuovi pazienti, Tokiya Ichinose.
«Io lo sapevo che non voleva fare amicizia…» mormorò intristito il piccolo.
Reiji sospirò, infilando in tasca il naso rosso che si era messo addosso per far divertire i due bambini, specialmente Tokiya, il quale quella mattina aveva ricevuto la prima iniezione del trattamento per la malattia.
I due erano andati in missione per controllarne lo stato – il tutto sotto la complicità delle infermiere, che con il tempo avevano sviluppato una certa simpatia e fiducia nei confronti del moro -, ma le cose non erano andate come da programma, tutt’altro.
Tokiya si era mostrato, proprio come l’ultima volta, restio e schivo nei loro confronti, dicendo che non era in alcun modo interessato a stringere amicizia con nessuno all’interno dell’ospedale, men che meno con un adulto che se ne andava in giro con un naso rosso sperando di far divertire i bambini. Almeno, aveva messo in chiaro che con lui quel genere di cose non sarebbero funzionate.
E Reiji dovette ammettere di essere rimasto colpito dalla serietà con cui continuava a rivolgersi a lui, senza scomporsi un solo attimo mentre se ne rimaneva sdraiato sul suo letto. Per un bambino di soli sette anni una parlata e un atteggiamento come i suoi erano sorprendenti, ma comunque non adatti alla sua età.
Reiji si chiese in quale modo potessero averlo educato i genitori per renderlo così.
«Kotobu- Reiji-kun.» l’infermiera si corresse ancor prima di concludere, ricordando le volte in cui l’altro le aveva detto di dimenticare il suo cognome e rivolgersi a lui utilizzando direttamente il nome, odiando quel genere di formalità. «Credo che per oggi sia meglio lasciarlo riposare. Per essere stata la prima iniezione ha sopportato anche fin troppo bene questa giornata, ma trattandosi solo di una piccola dose iniziale per farlo lentamente abituare, dalla prossima sarà un po’ più difficile vederlo subito. E direi che è arrivato il momento di tornare in camera anche per te, Ittoki-kun.»
A quello Otoya si strinse ancora di più a Reiji, scuotendo piano la testa. «Voglio stare ancora un po’ con Rei-nii.»
Reiji sorrise all’infermiera, facendole capire che non doveva preoccuparsi e che ci avrebbe pensato lui.
«Otoyan.» lo chiamò, staccandolo un poco da lui. «Ha ragione. I patti erano che saremmo venuti qui per Tokki e che poi saresti tornato in camera, ricordi? Se fai questi capricci, allora non potrò più prenderti come mio assistente la prossima volta.»
Otoya sbarrò gli occhi a quella prospettiva e si affrettò subito a scuotere un’altra volta la testa.
«Sono solo triste per Tokiya, per quello volevo stare ancora con Rei-nii! Però se dici così allora torno.»
Reiji inclinò il capo intenerito, sistemandogli meglio la bandana rossa – con tanto di teschi pirateschi - sul capo. «Se potessi ti porterei direttamente a casa con me, piccolo.»
A quella confessione Otoya lo abbracciò di nuovo con tutte le forze in suo possesso. «Anche io voglio…» disse, il tutto sotto gli occhi dell’infermiera che continuava ad osservarli con dolcezza.
Non sapeva come, ma per lei e le sue colleghe era diventato un problema allontanare Reiji dai bambini, e non perché questo opponesse resistenza, bensì erano i bambini stessi a rifiutarsi di lasciarlo andare. Anche in quel momento quasi non se la sentiva di dividerli, ma se il primario fosse venuto a conoscenza della cosa, era conscia del fatto che Reiji non sarebbe più stato in grado di entrare in contatto con loro, le prossime volte.
«Ittoki-kun, mi dispiace davvero, ma dobbiamo andare.»
Reiji lasciò un bacio sulla guancia a Otoya e gli sussurrò un ti voglio bene prima di lasciarlo tra le braccia dell’infermiera. «Fai il bravo, mi raccomando. Tanto domani mi hai ancora qua, non ti liberi di me, sai?» ammiccò, facendolo sorridere entusiasta.
«Domani ti aspetto!» disse, aggiungendo in un sussurro - coprendosi da un lato la bocca, convinto che l’infermiera non fosse in grado di sentirlo. «Io voglio ancora provare…» fece, indicando con un piccolo cenno del capo la porta di Tokiya, certo di usare moltissima discrezione.
Reiji trattenne una risata e l’impulso di mangiarselo di baci, rispondendo con la stessa serietà alla proposta del minore. «Ci puoi contare.»
Otoya annuì, accoccolandosi - ora più tranquillo - tra le braccia dell’infermiera. «Possiamo andare!»
La donna sorpassò il moro e scosse la testa, non nascondendo un certo divertimento in tutto ciò. «Siete dei criminali, voi due.»
Reiji salutò entrambi con la mano fino a quando non furono entrati in camera, poi si riportò davanti alla porta di Tokiya, osservandola attentamente.
Se avesse provato a parlarci da solo e con più serietà, sarebbe riuscito ad ottenere maggiore confidenza con lui?
«Kotobuki!»
Non ebbe nemmeno il tempo di mettere mano alla maniglia che quella voce profonda e severa tuonò alle sue spalle, facendolo sobbalzare. Era stata una fortuna che non lo avesse trovato in giro con Otoya, ci sarebbe finita di mezzo anche l’infermiera, e se possibile preferiva evitare di discutere davanti ai più piccoli.
«Inoue-sensei, che coincidenza! Anche lei da queste parti?» gli sorrise amichevolmente quando si voltò verso di lui, e ancora non sapeva come mai cercava di buttarla sul ridere con quell’uomo: era pressoché impossibile farlo sorridere.
Questo infatti lo raggelò con un solo sguardo, facendogli ben intendere che di scherzare non ne aveva proprio intenzione.
«Che cosa ci fa davanti a quella stanza? Stava per entrare?»
«No, signore.»
Sì, signore.
Il primario controllò l’ora sull’orologio da polso. «Posso sapere, allora, che cosa ci fa qui? Il suo tirocinio dovrebbe essersi concluso un’ora fa.»
Reiji prese a grattarsi la nuca, cercando di trovare una scusa che potesse suonare convincente e che non gli valesse alcuna strigliata o, peggio, l’espulsione da quel reparto.
Inoue seguì ogni suo movimento, pronto a fiutare qualsiasi suo tentativo di mentirgli, e quando pensò di essere ormai con le spalle al muro e di non avere più scampo, Reiji vide improvvisamente la luce, la sua ancora di salvezza.
«VAN!»
Il diretto interessato finì quasi per rovesciare il caffè che aveva in mano nel sentire il suo nome urlato in quel modo. Solitamente non c’era mai nulla di buono da aspettarsi.
Quando però vide che quello che lo aveva chiamato era Reiji, il suo cuore si alleggerì notevolmente, per poi appesantirsi di nuovo nell’esatto momento in cui spostò il suo sguardo sulla persona accanto a lui. Lo sapeva lui, niente di buono.
Non poteva far finta di nulla e ignorare che l’avesse chiamato, vero?
Van ci provò comunque, ma non appena indirizzò il piede nella direzione opposta alla loro, questa volta fu Inoue-sensei a farsi sentire con un bel “KIRYUIN” che echeggiò per tutto il corridoio.
Ora ne andava della sua futura carriera e, soprattutto, della sua vita. Nessuna persona con un briciolo di buonsenso avrebbe potuto ignorare il primario dagli occhi – e dal cuore – di ghiaccio.
«Oh! Che coincidenza veder-»
«Sì, anche noi da queste parti. Dovrebbe cambiare repertorio, il suo compare ha già dato.»
Van rise nervosamente a quell’interruzione, lanciando un’occhiata a Reiji che mimò con le labbra un aiutami, e il moro in cuor suo sperò che l’amico non avesse combinato nulla di troppo folle questa volta.
«Quindi? Perché sono stato chiamato?»
Inoue incrociò le braccia, assottigliando lo sguardo verso Reiji. «Me lo dica lei, Kiryuin. Sembra essere il motivo per cui Kotobuki è ancora qua nonostante il suo tirocinio si sia già concluso, o almeno così presumo.» gli occhi del primario si abbassarono su una delle tasche del camice di Reiji. Allungò una mano verso suddetta tasca e tirò fuori il naso rosso del ragazzo, assumendo una smorfia disgustata mentre se lo rigirava tra le dita. «Altrimenti non l’avrebbe chiamata con tutta quell’urgenza.»
«E-Esatto! Van, digli-»
«Silenzio. Sono sicuro che il signor Kiryuin sappia parlare benissimo anche senza che lei dia indicazioni, o sbaglio?»
Van spostò più volte lo sguardo dal loro superiore a Reiji, chiedendosi se quest’ultimo avesse già accennato a qualcosa o se poteva inventare di sana pianta una scusa senza preoccuparsi che le due versioni combaciassero.
Notando Inoue-sensei stringere il naso rosso in una mano, spazientito, capì di starci pensando troppo e che qualsiasi cosa avesse tirato fuori sarebbe comunque risultata troppo sospetta.
Quindi alla fine decise di correre il rischio e optò per la seconda opzione.
Alla peggio sarebbero finiti insieme nei guai, non avrebbe potuto lasciare Reiji da solo in quella situazione – anche se si ripromise di fargliela comunque pagare con una cena a sue spese.
«Oh, sì, Reiji stava aspettando che finissi il mio turno perché questa sera abbiamo un impegno in comune.»
E da una parte non stava nemmeno mentendo completamente, quindi si sentiva la coscienza piuttosto a posto. «Ma come sa Reiji non riesce a stare fermo in reparto, quindi per ammazzare il tempo si è messo a parlare con qualche infermiera. Cos’è successo, Reiji? Ti hanno dato tutte il due di picche e ti hanno lasciato da solo?» ghignò in sua direzione, sperando di essere stato sufficientemente convincente con quella storia.
Lo sguardo carico di gratitudine da parte dell’altro gli fece capire di aver fatto un lavoro soddisfacente e, soprattutto, di non aver detto nulla che contrastasse con qualsiasi cosa avesse detto lui prima del suo arrivo.
«Io due di picche? Quando mai? Credo tu ti stia confondendo con te stesso, sai?»
«Oh-oh? Mi stai forse provocando? Stasera possiamo provare a fare una sfida su chi riesce a ottenere più numeri di telefono~»
«Vuoi proprio fare brutta figura davanti altra gente, mh?»
«Non voglio sentirvi blaterare oltre.» gli interruppe Inoue, alquanto scocciato. Era chiaro come la luce del sole che quei due lo stavano prendendo in giro, e sebbene gli passò per la testa un provvedimento disciplinare riguardo il loro atteggiamento in reparto, specialmente con quello che Kiryuin aveva appena commentato nei confronti del personale femminile, anche per questa volta decise che era inutile perdere tempo con loro considerando quanto lavoro aveva ancora da sbrigare.
«Voglio solo che mi ascoltiate attentamente, soprattutto lei Kotobuki, che è il principale responsabile dello scompiglio in questo reparto.» disse, sollevando il naso rosso all’altezza del viso dell’altro prima di porgerglielo in mano. «Se ancora non ve ne foste accorti, ci troviamo in un ospedale, e svolgete da qualche mese un tirocinio in oncologia pediatrica. Capite la serietà delle condizioni dei nostri pazienti, giusto? Trattandosi soprattutto di bambini, vorrei non dover più riprendere nessuno di voi pagliacci per le vostre trovate. Siete aspiranti infermieri, l’ospedale non è di certo un circo.»
Reiji si accigliò, sentendo il sangue ribollirgli nelle vene.
Era raro che il moro si arrabbiasse così visibilmente per qualcosa, Van lo sapeva bene.
Ma sapeva anche quanto Reiji tenesse a tutta questa storia della clown terapia e di quanto fosse convinto che portare una ventata di gioia e divertimento a dei pazienti che ogni giorno si limitavano a passare il tempo senza alcuno stimolo all’interno della loro stanza - scambiando magari quattro chiacchiere con il paziente a fianco o con i medici al momento delle somministrazioni delle medicine – fosse non importante, ma fondamentale al fine di garantire un trattamento ancora più efficace per la lotta contro la malattia.
In quanto studenti tirocinanti non avevano un grande potere, infatti non avrebbero potuto fare molto in quei mesi senza l’aiuto di Satou-san – folle quanto loro, ma un vero e proprio santo quando si trattava di portare pazienza e aiutarli nel mettere in atto i loro piani, prendendosi buona parte della responsabilità per coprirli – e soprattutto delle infermiere, degli angeli, a detta di Van, che avevano subito nutrito un certo interesse nei confronti di quella terapia, e un’immediata simpatia nei confronti di Reiji.
La stessa simpatia che aveva provato lui e che lo aveva irrimediabilmente attratto alla sua personalità così simile alla propria. Diventare amici e instaurare quella complicità era solo stata questione di tempo, non si sarebbe mai potuto rifiutare di dargli una mano in quell’impresa.
Erano due pagliacci, vero, ma avrebbe fatto volentieri l’idiota a vita se questo significava vedere ogni giorno il sorriso sui volti di quei bambini.
«La farò ricredere, Inoue-sensei.»
Sebbene nei suoi occhi si stessero riflettendo fiamme pure, Reiji non alzò il tono della sua voce, rimase fermo e deciso, continuando a portare rispetto alla figura del primario.
Un atteggiamento ammirevole, secondo Van: come facesse mantenere la calma e la testa, nonostante tutto, doveva ancora capirlo. Sapeva quanto l’altro si caricasse di lavoro tra lo studio e il tirocinio, molto più di lui e di tutti i suoi compagni di corso, ma non l’aveva mai sentito lamentarsi della stanchezza sebbene questa fosse piuttosto evidente, anzi, cercava sempre di caricare di entusiasmo ed energia chiunque gli stesse vicino senza cadere una sola volta in quello che si prefiggeva di raggiungere quotidianamente.
L’amico aveva sicuramente una forza di volontà fuori dal comune, ma spesso Van si era chiesto se questo fosse dovuto a qualcosa, forse un avvenimento del passato, che l’aveva visto costretto ad abituarsi a questo tipo di atteggiamento.
Poi Van si sentì preso per il braccio, trascinato via da un Reiji che di continuare quella conversazione non sembrava più averne voglia.
«Allora a domani, signore!» si affrettò a congedare per entrambi, ricevendo nulla in risposta se non la schiena del primario mentre si allontanava per controllare il resto del corridoio.
Van sospirò, sorpreso da come il suo caffè – ormai freddo – fosse ancora all’interno del bicchierino. «Puoi spiegarmi cosa è successo prima che venissi?» chiese, mentre l’altro continuava a tirarlo con sé.
Reiji rimase con lo sguardo basso, pensieroso, procedendo a grandi falcate verso lo spogliatoio. «Ne parliamo domani, non voglio rovinarmi la serata.»
 
§§§§§
 
 
Shibuya – Ore 20:17
 
 
Ranmaru non poteva credere che quel deficiente fosse davvero in ritardo.
Per una cosa che aveva proposto lui, peraltro.
L’unico che sembrava aver capito di doversi presentare alle 20 era quel tipo che ora stava parlando con Hiroto e Hisoka, e sperò davvero che quella fosse l’unica persona che il pirata della strada si era voluto portare come compagnia. Gli era bastato sentirlo ridere sguaiatamente per tre volte di fila – chissà per cosa gli aveva raccontato Hiroto – per capire che fosse una persona irritante quasi quanto quel dannato ritardatario.
Si voltò dall’altra parte, osservando Kurou poco distante da lui, impegnato a parlare con un gruppo di ragazze. Se fosse tornato per vantarsi di qualche nuovo numero di telefono, probabilmente sarebbe finito col mandarlo a quel paese e andarsene definitivamente.
Non aveva nulla di meglio da fare nel suo appartamento, questo era vero, ma non aveva nemmeno intenzione di starsene lì in piedi come un idiota ad aspettare i comodi di qualcuno.
Anche perché a quanto sembrava, in quel momento era l’unico a non starsi divertendo minimamente. Dubitava tra l’altro di potersi divertire dopo, ma questa era un’altra storia.
Esattamente per quale motivo aveva accettato, quando poteva semplicemente farsi dare dei soldi visto che aveva insistito così tanto? Di sicuro gli sarebbero stati molto più utili di quella stupida uscita…
«Ehi! Ci siamo anche noi! Scusate il ritardo!» 
E finalmente il miracolo accadde.
«È la seconda volta che ho a che fare con te, ma ho già capito che non hai la minima idea di che cosa significhi puntualità.»
Reiji si grattò la nuca, chiedendosi se giustificarsi sarebbe servito a far sparire quel cipiglio arrabbiato dal viso dell’albino.
 Poi si sentì stringere la mano dalla persona al suo fianco che intervenne per lui.
«Chiedo scusa a tutti, se ci abbiamo messo un po’ ad arrivare è stato per colpa mia.»
Ranmaru spostò l’attenzione sul ragazzo vicino a lui che continuava a guardarlo con un’irritante tranquillità. L’albino poté in realtà vedere solo uno degli occhi di quel tipo dato che l’altro era coperto da un ciuffo di capelli corvini, ma quella sola iride azzurra, accompagnata da un leggero sorrisino fintamente gentile - che sembrava quasi sfidarlo in attesa di sapere la sua prossima azione -, bastò per fargli passare del tutto la voglia di essere lì.
Se prima rasentava lo zero, ora era sotto lo zero.
Reiji si accigliò alle parole del compagno, scuotendo la testa.
«Ran-Ran, in realtà-»
Ranmaru però lo precedette, dando le spalle a entrambi. «Entriamo e mettiamo subito fine a questa cosa. Levati di torno, tu.» fece, scansando malamente Kurou e facendosi strada in mezzo a quelle oche che avevano appena starnazzato indignate per la sua maleducazione.
«Ancora non ci abbiamo messo piede e sei già con la luna storta?!» gli urlò dietro l’artista, scusandosi con le ragazze prima di congedarle e voltarsi finalmente verso i due nuovi arrivati, i quali catturarono subito la sua attenzione per un piccolo dettaglio: si stavano tenendo per mano.
Riservò loro un semplice saluto con un cenno del capo, mentre tanti campanelli d’allarme avevano iniziato ad attivarsi nella sua testa.
Avrebbe davvero passato la serata con una coppia di froci?
Che diavolo di compagnie si andava a cercare quel cretino?
Né Reiji né tantomeno Ryosuke si lasciarono sfuggire il costante sguardo che il corvino stava riservando loro, ma decisero di lasciar perdere, facendosi scivolare la cosa addosso.
«Come mai così tardi? Dubito che la colpa sia davvero di Ryo-chan.» alzò un sopracciglio Van, avvicinandosi ai due insieme a Hiroto e Hisoka.
Reiji sospirò, guardando male il suddetto Ryosuke che colpì il moro con una leggera testata scherzosa, a mo’ di scusa. «Infatti non lo è. Ho avuto un problemino con la piccola…»
Van si tirò una manata sul viso. «Sarebbe il caso di cambiare quel catorcio, non credi?»
«Mai. Sai quanto è difficile trovare quel modello in giro, al giorno d’oggi? Anche se fossi milionario me la terrei, insieme a qualche auto sportiva, magari, che male non mi farebbero…»
Van rise, scuotendo la testa. «Pregheremo che tu non finisca per morirci in quell’auto. Falla controllare più spesso, però.»
Reiji annuì, non aggiungendo altro. Quella sera in realtà non era affatto in vena di uscire per divertirsi, le parole del primario erano ancora vivide nella sua mente e sentiva lo stomaco bruciare dalla voglia di fargli rimangiare al più presto ogni singola virgola.
Quello Van lo intuì bene, quindi si prese la briga di fare le presentazioni, avvolgendo un braccio attorno alle spalle dei ragazzi che gli avevano tenuto compagnia.
«Questi sono Murakami Hiroto-chan e Fujita Hisoka-chan~ Sono simpaticissimi e penso di volerli già adottare come fratelli minori! Posso adottare dei fratelli, vero?»  
«Mi spiace che siate finiti per conoscerlo. Proviamo davvero a tenerlo chiuso in casa, ma riesce sempre a fuggire.»
«Mr. Simpatia qui presente è il carissimo Watanabe Ryosuke-chan, fratellini, e come avrete capito non merita la mia amicizia
Il corvino alzò un sopracciglio, guardandolo male. «Suvvia, non fare il permaloso.»
Hiroto rise di gusto, picchiettando una mano sulla schiena di Van. «In realtà siamo felici di aver conosciuto Kiryuin-sa- Van-san.» si corresse, chiudendo gli occhi per un breve attimo all’arruffamento di capelli del maggiore. «È lui quello veramente simpatico.» disse, lanciandogli uno sguardo d’intesa.
«Poi fammi sapere quanto ti ha pagato per fartelo dire.» commentò Ryosuke, scaturendo una certa ilarità in Reiji.
«Dai, l’hai tormentato abbastanza.» fece il moro, sorridendo gentilmente ai due ragazzi. «Hiro-chan, Hiso-chan, è un piacere! Io sono Reiji, Kotobuki Reiji. Ammetto che per gli amici di Ran-Ran mi sarei aspettato un altro tipo di, uhm, persone…»
Hiroto guardò attentamente il moro, riflettendo sul suo nome che poté giurare non fosse nuovo per lui. Spostò lo sguardo su Hisoka che, accorgendosi di quello, ricambiò, senza però capire a cosa stesse pensando.
Questo scosse il capo, decidendo di lasciar perdere. «Beh, Ran-chan-»
«Sentite, ora che ci siamo tutti direi che è il momento di entrare, no?» fece Kurou, chiedendosi quanto ancora avessero da parlare. «Prima che Ranmaru se ne vada. Perché credetemi, è esattamente come appare, non ha un briciolo di pazienza quando si tratta di socializzare.»
Beh, nemmeno tu sembri scherzare, si disse Van mentalmente, preferendo non dar voce a quel pensiero.
Reiji annuì ancora, sentendosi in colpa di aver ulteriormente peggiorato anche l’umore dell’altro quando doveva trattarsi di una serata tranquilla e spensierata soprattutto per lui. Non credeva nemmeno che Ranmaru gli avrebbe dato un’altra possibilità per farsi perdonare, anzi, aveva detto chiaramente che aspettava solo di andarsene da lì e da loro.
 
§§§§
 
21:45
 
«Woah! Quindi avete un gruppo?! Mi piacerebbe potervi sentire!»
«Solitamente organizziamo delle serate al Parsley’s, non so se ne avete sentito parlare. Piacerebbe anche a noi se faceste un salto!»
Tra una bibita e l’altra e qualche canzone, la conversazione tra loro procedeva solo grazie a Van e Hiroto, entrambi infatti stavano cercando di alleggerire quanto più possibile l’atmosfera dato che da parte di entrambi i gruppi c’era almeno un componente che di godersi quell’uscita non sembrava averne intenzione.
Ryosuke, dal canto suo, ogni tanto cercava di coinvolgere il batterista in brevi scambi di battute a cui il minore rispondeva sempre molto timidamente, probabilmente perché doveva ancora abituarsi a loro.
Da quanto il corvino aveva potuto notare, il ragazzo si mostrava così tanto introverso solo quando l’amico, Hiroto, non era compreso nella conversazione. Sembrava quasi un bambino che si nascondeva dietro la madre, intimidito dalla presenza degli altri.
Poco prima, però, dopo averlo visto cantare in un duetto con il ragazzo al suo fianco, era rimasto sorpreso da come avesse preso immediata confidenza nell’esibirsi, nonostante ci fossero sempre loro all’interno della sala, gli estranei.
Hisoka era apparso completamente diverso da ora.
Hiroto sembrava essere una presenza rassicurante per lui, l’aveva visto negli sguardi che si erano scambiati in quel lasso di tempo: se Hisoka iniziava a vacillare e a prendere piena coscienza della presenza degli altri, a Hiroto bastava incatenare quei magnetici occhi smeraldo a quelli grigi del castano per riottenere la sua completa attenzione e farli perdere di nuovo nel loro mondo fino alla fine della canzone.
Tutto quello era stato piacevole da osservare e soprattutto ascoltare: la dolcezza delle loro voci insieme lo aveva completamente intenerito.
Per quanto riguardava gli altri due, invece, né l’uno né l’altro gli avevano trasmesso molto.
Quel Kurou continuava a messaggiare al cellulare, rendendo palese il suo disinteresse.
Mentre il conoscente di Reiji continuava a scorrere la lista delle canzoni da più di mezz’ora, non risparmiandosi espressioni cariche di disapprovazione per ciò che era disponibile, probabilmente nulla di suo gusto.
E oltre a loro, Ryosuke notò come anche Reiji fosse silenzioso e quasi estraneo al gruppo.
Non era da lui, soprattutto in presenza di più persone.
Aveva provato diverse volte a coinvolgerlo per cantare qualche canzone insieme, ma si era sempre rifiutato, scusandosi e dicendogli che per quella sera proprio non se la sentiva.
Il tutto accompagnato da qualche occhiata discreta all’albino, ognuna delle quali non fece che peggiorare il suo stato d’animo nel vederlo completamente insoddisfatto.
Se solo avesse avuto il suo numero di telefono, Reiji avrebbe potuto contattarlo per annullare tutto e rimandare a un’altra volta.
Con un umore migliore avrebbe saputo come farlo divertire, perché nessuno poteva annoiarsi in presenza di Reiji Kotobuki.
Ma quest’ultimo non era l’unico preoccupato di come stesse procedendo la serata. 
Ranmaru infatti non stava davvero prestando attenzione alle canzoni, più della metà di quelle nemmeno le conosceva.  
Tutte quelle espressioni stizzite erano riservate a dei pensieri che avevano a che fare con quel dannato dall’altra parte del tavolo. Più volte in quell’ora si era interrogato su che diavolo avesse e perché continuasse a rimanere così silenzioso, tutto il contrario di come gli era parso ieri, così fastidiosamente chiacchierone e petulante.
Ricordava solo quello scambio di battute che si era fatto con il Doc sul dover andare in ospedale per qualcosa o qualcuno, e a rigor di logica era l’unica motivazione che gli veniva in mente e che potesse giustificare il suo stato d’animo attuale.
Ma Ranmaru di certo non l’aveva obbligato a venire in quello stupidissimo karaoke, anzi, era stato lui a stressargli l’anima con tutta quella voglia di “farsi perdonare”.
E ora che aveva fatto lo sforzo di venire fin lì, sperava davvero che avesse la pazienza di sopportarlo mentre teneva lo sguardo basso e ogni tanto si lasciava andare a qualche sospiro?

Col cavolo.
 
«Oi.»
Bastò quello per fermare la conversazione tra Van e Hiroto: finalmente qualcun altro sembrava mostrare dell’interesse oltre a loro. Persino Kurou sollevò gli occhi dallo schermo, interrompendo la chat con la ragazza della lavanderia del giorno prima.
Reiji lanciò una rapida occhiata agli altri prima di indicarsi. «Dici a me?» 
«Prendi un microfono, cantiamo.»
Il moro non recepì subito le parole di Ranmaru, impiegò qualche secondo prima di sbarrare gli occhi, sorpreso.
«Me lo stai chiedendo davvero?»
«Non te lo sto chiedendo, ma ordinando. O forse hai paura di non essere abbastanza bravo, pirata della strada?» disse, scimmiottando le parole che Reiji stesso gli aveva detto il giorno prima, scorrendo poi velocemente la lista delle canzoni, scegliendone una caso: Fukanzen Puzzle sembrava un titolo accettabile. O almeno sperava.
«È inutile che continui a chiamarmi così, so che ti ricordi il mio nome, Ran-Ran.»
«In realtà no, e smettila di chiamarmi in quel modo se non vuoi che ti ficchi una cannuccia in gola.»
«Prima la patente, ora la cannuccia… c’è altro che vuoi mettermi in gola, Ran-Ran?»
«Reiji.»
«Mmh~, vedi che te lo ricordi?»
Reiji sorrise, prendendo in mano uno dei microfoni sotto gli sguardi allibiti degli altri, quello di Ryosuke in particolare: aveva accettato di cantare con l’albino invece che con lui? Com’era possibile?
Hiroto e Hisoka, allo stesso modo, non mancarono di chiedersi come fosse possibile che Ranmaru non avesse ancora sbottato completamente. Era palese che l’altro lo stesse stuzzicando per divertirsi un po’, ma a Ranmaru non sembrava importare così tanto dal mollare tutto e levare le tende.
Van invece si mise comodo al proprio posto, curioso di godersi lo spettacolo: era ora che Reiji si svegliasse un po’ e dimenticasse almeno per un attimo quello che era successo nel pomeriggio.
Kurou nel frattempo mise da parte il cellulare, infastidito da come si era improvvisamente evoluta la situazione. Perché in un modo o nell’altro Ranmaru finiva sempre per avere gli occhi di tutti su di sé? Non poteva permettere che il merito di aver cambiato un po’ quella serata così monotona fosse il suo. Non dopo che lui, prima di tutti, si era mostrato il più restio a stare lì dentro. 
Ranmaru si alzò dal proprio posto, facendo partire la canzone.
«Se canto lo faccio in piedi.»
Reiji rilasciò un soffio divertito dalle narici, alzandosi a sua volta.
Perché no? Sarebbe stato interessante.
Quando finalmente apparvero le parole sullo schermo fu Ranmaru a iniziare: era forte, deciso e graffiante. Non si sarebbe potuto aspettare altrimenti da uno con il suo carattere.
Reiji sentì lo stomaco contorcersi quando quegli occhi eterocromatici si posarono su di lui, lasciandogli la prossima strofa.
Sopraffatto da quelle prime sensazioni tentennò un solo, misero attimo, ma l’albino l’aveva sentito bene: quel ghigno ne era la prova. Probabilmente si sentiva un predatore pronto a saltare addosso alla sua preda, e se da una parte era felice che l’altro sembrava iniziare a divertirsi un po’, dall’altra non poteva permettere che quel ragazzino gli bagnasse il naso in quel modo.
Non quando aveva alle spalle dell’esperienza nel mondo della musica e dello spettacolo.
Quel duetto però non tardò a trasformarsi in un trio quando Kurou si inserì quasi con prepotenza in una delle strofe, deciso a prendersi parte delle attenzioni che gli altri stavano riservando a quei due: non ce la faceva a rimanere buono col pensiero che dopo questa canzone lui sarebbe stato l’unico a non aver cantato nulla.
L’intromissione però non sembrò disturbare né Reiji né Ranmaru, c’era qualcosa che in qualche modo li aveva resi estranei al resto della sala, ma nessuno dei due sapeva spiegarsi quella sensazione.
Ranmaru in primis.
Forse perché prima d’ora non aveva mai cantato in coppia con qualcuno, una persona che tra l’altro sembrava saperci fare a discapito dell’impressione iniziale che gli aveva dato.
Il suo udito era sempre stato molto fine, fin da bambino era stato abituato a percepire la più piccola stonatura – che si trattasse di canto o strumenti musicali -, ma in quel momento non ne stava cogliendo alcuna, ogni parola usciva perfettamente dalle sue labbra e quando le loro voci si univano, quella canzone, che prima di quel momento non aveva mai sentito, sembrava acquistare sempre più senso.
Era così strano, ma nulla che potesse essere classificato come spiacevole.
Nonostante i suoi occhi fossero concentrati sullo schermo per seguire il testo, Ranmaru era convinto di sapere che espressione avesse l’altro in quel momento, come lo stesse guardando mentre aspettava di poter prendere il testimone della strofa seguente.
Poi quando toccava a Reiji, per Ranmaru era quasi inevitabile non lanciargli una rapida occhiata per guardarlo a sua volta, curioso di scoprire che tipo di espressività stesse assumendo: anche lui stava provando lo stesso o era semplicemente ammattito tutto d’un colpo?
Quando la musica giunse al termine, solo Kurou si buttò subito sui divanetti, sospirando soddisfatto della sua esibizione.
Reiji e Ranmaru rimasero ancora qualche secondo in piedi, guardandosi dritto negli occhi, silenziosamente.
Fu Ryosuke - attirando Reiji al suo fianco – a interrompere quella sottospecie di stato di trance tra i due. Avrebbe mentito se avesse detto che quella canzone, sebbene poi si fosse unito Kurou, non gli aveva dato fastidio.
Lui osservava parecchio, sapeva capire le persone dopo averle studiate attentamente dopo un solo incontro, e quella sintonia che avevano mostrato di avere non gli era affatto piaciuta.
Van e gli altri, invece, sembravano aver gradito parecchio, il maggiore infatti partì subito con una serie di fischi d’apprezzamento, battendo le mani insieme a Hiroto per avere il bis.
«Siete stati fenomenali!»
«Ran-chan, non credevo che saresti davvero riuscito a cantare con qualcuno!»
«Crepa.»
Reiji bevve un sorso d’acqua da una bottiglietta per idratare un po’ la gola, ridacchiando poi ai commenti degli altri: doveva ammetterlo, nemmeno a lui sarebbe dispiaciuto poter cantare un’altra canzone insieme, possibilmente solo loro due, senza alcuna intromissione. Quanto era passato dall’ultima volta in cui si era sentito così?
«Lasciando un attimo le chiacchiere da parte, io avrei sete.» gli interruppe Kurou, grattandosi la nuca, scocciato dal fatto che nessuno avesse elogiato anche la sua parte di esibizione.
Reiji fece scivolare la bottiglia d’acqua davanti a lui, sorridendogli gentile nonostante continuasse a ispirargli davvero poca simpatia.
«Puoi bere dalla mia, se vuoi, non c’è problema.»
Kurou però ignorò quella gentilezza, come se Reiji non avesse minimamente aperto bocca, rivolgendosi a Hiroto. «Hai qualcosa da passarmi o devo per forza ordinare altro?»
Reiji però non apprezzò molto quella completa mancanza di educazione nei suoi confronti, bastava semplicemente dirgli che non la voleva, non far finta di nulla.
«Non mi hai sentito, forse?» insistette allora, non tanto per costringerlo a bere dalla sua bottiglietta ma per una questione di principio: non credeva di avergli detto nulla di sbagliato, di conseguenza non si meritava di essere ignorato in quel modo.
Kurou alzò gli occhi al cielo, reclinando il capo all’indietro, infastidito. Che diavolo voleva da lui?
«Amico, non prenderla sul personale, ma preferirei evitare di bere dalla tua bottiglia o dalla sua.» disse molto semplicemente, quasi fosse la cosa più ovvia del mondo, indicando Ryosuke.
«Qual è il problema?»
La voce di Van mutò completamente rispetto al tono gioioso e allegro che aveva mantenuto per tutta la serata. Perché sì, poteva già immaginare dove sarebbe andato a parare con quella frase, la sua era una domanda retorica.
Kurou percepì subito dell’ostilità da parte sua, quindi alzò le mani in segno di resa, sorridendo sfrontato. «Che sono etero e non vorrei prendere malattie da gente come-»
Hiroto scattò sul posto e fece per aprire bocca, ma la mano che Van sbatté sulla superficie del tavolo fu più veloce, zittendo Kurou in un attimo.
«Ripeto la mia domanda, forse non hai capito. Ho detto, qual è il problema?»
Il corvino si accigliò. Pensava di star parlando con un ritardato? Come si permetteva di usare quel tono con lui?
 «Ho specificato che non si tratta di nulla di personale, no? Non capisco perché-»
«Kurou
 Questa volta fu la voce di Hiroto a richiamarlo e a suonare diversa dal solito, quasi glaciale.
Kurou guardò Hisoka al fianco del chitarrista: aveva lo sguardo basso e non osava alzare il capo per guardare in faccia nessuno, completamente rigido e immobile.
«Oh, andiamo! Hisoka, non dirmi che ti ho ferito? Tu sei diverso, ti conosco!»
«Credo che sia arrivato il momento di tacere, non credi?» disse apparentemente calmo Ryosuke, cercando di distogliere l’attenzione dal castano. Poteva ben immaginare come si stesse sentendo in quel momento, in un’età delicata come la sua, e non avrebbe permesso che l’ignoranza di quel ragazzo raggiungesse ulteriormente le sue orecchie.
Se l’atmosfera sembrava essere migliorata solo qualche minuto prima, ora tutto era tornato a quando avevano messo piede nel karaoke.
«Ragazzo, vorrei che la prossima volta pensassi due volte prima di aprire bocca, soprattutto quando ormai ci troviamo nel ventunesimo secolo.» consigliò Van, lanciandogli una bottiglia chiusa che Kurou prese al volo prima che potesse colpire la sua faccia.
Un vero peccato, si disse, forse era stato troppo gentile con quel lancio, avrebbe dovuto trattenersi di meno: non permetteva a nessuno di parlare in quel modo ai suoi amici.
Quel ragazzino era fortunato che non avesse in mano una palla da baseball, o direttamente la sua mazza: avrebbe detto addio a quei denti.
«Io direi che è arrivato il momento di tornare ognuno a casa propria.» fu questa l’unica frase con cui Reiji se ne uscì, troppo stanco per poter pensare anche a quel genere di commenti da parte di un ragazzo che di maturo sembrava avere solo il corpo.
Kurou fu il primo ad andarsene dalla sala, imprecando tra i denti dopo aver buttato sul tavolo i soldi per pagare la sua parte di conto. Col cavolo che sarebbe finito con l’uscire di nuovo con gente come quella!
«Ahhh, ora si respira più intelligenza!»
«Van.» lo riprese Reiji, non trattenendo però un leggero sorriso. In fondo aveva apprezzato che l’amico avesse preso le loro difese. «Hiso-chan, va tutto bene?» si preoccupò poi di chiedere, facendo sobbalzare sul posto il castano.
«Eh? Oh, s-sì, tutto bene,grazie.»
Ranmaru lo guardò mentre si mise a stringere i pugni sulle gambe. Anche se diceva che andava tutto bene, era palese che fosse ancora scosso dalle parole di quell’imbecille.
Lo stesso non sembrava valere per Reiji e quel suo amico – o fidanzato, da quanto aveva capito -, forse perché erano abituati a quel genere di commenti…?
Avrebbe dovuto dire qualcosa anche lui?
«Vi chiedo perdono per quello che è appena successo, purtroppo Kurou ha un cervello grande come una nocciolina, ma non è una cattiva persona.» Hiroto si alzò in piedi e si chinò in avanti, stringendo i denti. «Vedrò comunque di occuparmene domani con una strigliata. Non si sarebbe dovuto permettere.»
Ryosuke, Reiji e Van si scambiarono un sorriso tra loro, poi Van gli scompigliò i capelli.
«Non preoccuparti! Abbiamo capito che con lui c’entrate ben poco, anche se non capisco perché lo frequentiate ancora.»
Ranmaru continuò a rimanere in silenzio. Aveva già detto tutto Hiroto, era inutile che chiedesse scusa anche lui, probabilmente volevano già smettere di parlarne.
«Cambiando discorso.» fece Ryosuke, rimettendosi la giacca addosso.
Appunto, si disse Ranmaru mentalmente, dopotutto non si trattava di un argomento piacevole, e delle continue scuse sarebbero risultate fastidiose dopo un po’, o almeno così la pensava lui.
«Un attimo.» Reiji interruppe il corvino, rivolgendo lo sguardo su Ranmaru. «Ran-Ran, c’è qualcosa che vuoi dire?» domandò dopo averlo visto pensieroso per tutto quel tempo. Sembrava che non riuscisse a trovare il momento giusto per entrare nella conversazione, come se sentisse che un suo parere sarebbe stato futile in quel momento.
E Ranmaru lo pensava davvero. Non era mai stato in grado di consolare qualcuno per qualcosa, e quella era una situazione a cui non aveva mai assistito, come avrebbe dovuto comportarsi?
Nel dubbio, semplicemente si alzò. «Sì, che come hai detto è ora di andare.»
Non erano scuse che si aspettava da parte sua, quelle le aveva già sentite abbastanza, no? Non sapeva che cosa avesse voluto sentire da lui, quindi tanto valeva evitare di dire qualsiasi cosa che potesse peggiorare il tutto.
 
Ranmaru non li aspettò, non congedò nessuno.
Una volta fuori dal karaoke prese a camminare verso il suo monolocale, fermandosi solo quando un micio del quartiere si avvicinò a lui in cerca di attenzioni.
Si piegò sulle ginocchia e prese ad accarezzarlo, sorridendo appena quando questo iniziò a fare le fusa sotto il suo tocco.
I gatti, ecco con chi sapeva per certo di non poter sbagliare mai – anche se a volte Mike gli dava da dubitare anche su quello.
I gatti e la musica. La sua musica.
Erano le uniche cose che gli portavano davvero piacere e lo aiutavano ad andare avanti nella vita di tutti i giorni.
Parlando di piacere, però, la sua mente non poté fare a meno di ricordargli le sensazioni che aveva provato durante il duetto.
Forse era stato un caso, dopotutto era la prima volta che cantava insieme a qualcun altro ed era a prescindere qualcosa di nuovo per lui, ma… doveva ammetterlo, in fondo, molto in fondo, sarebbe stato curioso di poter cantare di nuovo qualcosa con Reiji – o qualsiasi altra persona, non per forza lui, sia mai che gli desse troppa importanza – giusto per vedere se sarebbero stati in grado di creare ancora quel genere d’intesa con le loro voci.
Ma si era anche ripromesso che questo sarebbe stato il loro ultimo incontro e che se l’avesse visto da qualche parte, sarebbe finito con l’ignorarne l’esistenza, quindi al diavolo quei pensieri.
Non ne aveva davvero bisogno.
 
§§§§
 
Quando Reiji e Ryosuke tornarono a casa del primo dopo aver congedato Van e i due ragazzi – e, da parte di Reiji, aver sperato che Ranmaru fosse rimasto fuori ad aspettarli per un ultimo saluto -, il moro si buttò a peso morto sul letto, aspettando che l’altro lo aiutasse a togliersi quantomeno la giacca.
Per il resto avrebbe volentieri dormito con i vestiti di quella giornata addosso.
«Sono esausto. Non pensavo che sarebbe stata una serata così stancante…»
Ryosuke appese la giacca del compagno sull’appendiabiti e subito dopo tornò a letto, gattonando fino a mettersi sopra di lui.
«Sei davvero tanto stanco, Rei?» gli sussurrò a fior di labbra prima di iniziare a baciarlo lentamente, cercando di coinvolgerlo in qualcosa di più, se possibile.
C’era ancora qualcosa che lo infastidiva, e aveva bisogno che quella notte il moro si occupasse di lui e gli desse le dovute sicurezze sul loro rapporto.
Perché quello che aveva ascoltato non era stato un semplice duetto da karaoke, giusto per divertirsi.
C’era stato ben altro, qualcosa che nemmeno la voce di Kurou era riuscita ad interrompere, e se quella intensità era stata percepita da loro che erano stati semplici spettatori, non immaginava che cosa avessero provato i diretti interessati.
Voleva che Reiji si togliesse l’albino dalla mente e pensasse a lui, solamente lui.
Si spostò a lasciargli una scia di baci lascivi lungo tutto il collo, succhiando leggermente alla base, ma Reiji lo fermò subito, mozzandogli d’un tratto il respiro con quel semplice gesto.
Perché?
Reiji gli prese il viso tra le mani, sollevando poi il capo il tanto che bastava per lasciargli un bacio sulla fronte. «Non oggi, Ryo-chan, non ne sono molto in vena.»
Ryosuke si lasciò spostare, inerme, con in viso l’espressione di uno che non sembrava aver recepito perfettamente il messaggio. L’aveva appena rifiutato?
«È successo qualcosa in ospedale, Reiji?» domandò.
Doveva essere così, giusto? Ancor prima di andare al karaoke gli era sembrato strano e più silenzioso del solito, ma aveva preferito evitare di parlarne.
Non poteva avere niente a che vedere con quel Ranmaru, o almeno sperava.
Reiji si sdraiò sulla sua parte di letto, allungando una mano per spegnere la luce dell’abat-jour sul comodino. «Non è un discorso che voglio iniziare adesso, scusa. Ne parliamo domani, okay? Buonanotte, Ryo-» sbadigliò, interrompendosi. «-chan.» concluse, chiudendo finalmente gli occhi e sperando di potersi addormentare il più velocemente possibile, senza che inutili pensieri lo costringessero a rimanere sveglio.
Ryosuke, non potendo aggiungere altro, seguì silenziosamente il suo esempio, spegnendo la luce anche dal suo lato.
Non aveva nulla di cui preoccuparsi, ne avrebbero parlato domani.
Il corvino si rannicchiò su se stesso, stringendo al petto le mani chiuse a pugno.
«Buonanotte, Rei.» mormorò, sforzandosi di chiudere occhio.
Ne avrebbero parlato domani.
 
 
 
 
*Mille yen sono più o meno sui dieci euro (o almeno così mi dice il cambio valuta)
 
 
Angolo autrice:
Okay, inizio con qualcosa che avrei dovuto dire il capitolo precedente, ma di cui mi sono ovviamente scordata. Nelle note della storia c’è l’avvertimento “tematiche delicate”, che come penso abbiate capito fa riferimento alle malattie di cui tratterò. Ecco, proprio riguardo a queste, sappiate che non entrerò mai troppo nel dettaglio, primo perché pur essendomi documentata ovunque, continuo a non sentirmi completamente in grado di parlare di questo tema in una semplice fanfiction, e non vorrei nemmeno finire per urtare la sensibilità di qualcuno scrivendo delle cavolate. Secondo perché non voglio che per voi e per me che la scrivo la lettura risulti troppo pesante e angosciante. Ci sarà già una bella dose di angst in mezzo, anche solo nel descrivere lo stato d’animo dei personaggi, per questo preferisco evitare ulteriori dettagli sulle terapie o altro. Detto questo, eccomi puntualissima con il terzo capitolo, decisamente più lungo rispetto ai precedenti! Finalmente abbiamo avuto un’interazione un po’ più forte tra i due protagonisti, nonché nuove apparizioni tra gli OC e il mio adorato Van <33
Insomma, questa volta vi sommergerò davvero di un bel po’ di canzoni :”)
Partendo da quelle che ci sono state durante il karaoke, ossia il duetto tra Hiroto e Hisoka e quella cantata dagli altri tre, voglio che ve le ascoltiate cercando di immaginarvi la scena da quel po’ che ho descritto. E voi direte “ma va?”, però non so se risulta davvero una cosa ovvia per molti >.>
Non voglio che ve le ascoltiate giusto per sentirle e basta, ecco. E spero soprattutto che vi piacciano e che vi arrivi tramite queste il genere di emozioni che volevo trasmettervi çwç
Non mi dilungherò troppo perché ho già scritto un sacco, quindi ora vi lascio qua sotto le immagini dei pg che sono apparsi, mettendovi tra parentesi i loro prestavolto, e ovviamente la solita character song :”)
Per qualsiasi dubbio, chiedete pure senza farvi problemi! E grazie un’infinità di volte ad Ailess e Starishadow per le loro recensioni, vi ricopro ancora di affetto <333
Un grosso bacione a tutti, ci sentiamo al prossimo capitolo! 


La canzone tra Hiroto e Hisoka -> 
https://soundcloud.com/akira-yuukiz24/kaji-yuki-hatano-wataru-day-by
La canzone tra Reiji, Ranmaru e Kurou -> https://soundcloud.com/kanon-koizumi/fukanzen-puzzle-shinsaku-katsura-makoto-kamen



Il doppiatore che ho scelto per Hiroto è Hatano Wataru, prestavolto Kisumi Shigino di Free!: https://soundcloud.com/sxun102/kai-fuduki-sasa-no-ha-love-letter





Doppiatore Yuki Kaji, prestavolto China di Hetalia: https://soundcloud.com/janie-sj/mirai-kaji-yuuki




Per Ryosuke ho semplicemente trovato questo ragazzo tra le immagini, assolutamente perfetto per come lo immaginavo (non so se viene da qualche manga), mentre per la sua voce ho optato per Pokota, dopo aver ascoltato una canzone cantata da lui (e il testo si rifà molto al rapporto che ha con Reiji, in caso voleste darci un'occhiata): https://www.youtube.com/watch?v=BSZwHKATZ3A




E poi abbiamo il temuto primario (che personalmente è L'OC che amo di più insieme al veterinario, Satou e Hiroto <3). Doppiatore Hosoya Yoshimasa, prestavolto Akari di Karneval: https://soundcloud.com/fujo-shin/sakura-to-tomo-ni-kimi-dake-wo 

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Capitolo 5
*** Una ragione per continuare ***


Angolo autrice: spero che siate contenti di rivedermi così presto! :
Vi spiego subito come mai sto facendo questo aggiornamento. Purtroppo penso di non poter essere in grado di pubblicare per luglio, quindi piuttosto che saltare il capitolo per il mese prossimo, ve lo pubblico ora! <33
Non ho molto da dire al riguardo, spero solo che vi piaccia e se volete farmi sapere i vostri pareri, sapete come fare! ;w;
Sotto vi lascio però il link di una canzone che comparirà nel capitolo con tanto di testo tradotto!
Un grazie speciale come sempre è dovuto ad Ailess, il tuo supporto è sempre molto importante! <33
Vi auguro una buona lettura, a presto! 
 


Rise Again

 
04. Una ragione per continuare


 
 


[3 aprile, sala studio universitaria, 08:45]
 
 


«Reiji? Ma ci sei, oggi?»
Il moro sbatté un paio di volte le palpebre, tornando a visualizzare le scritte della pagina che stava cercando di sottolineare da una ventina di minuti, più o meno.
Ryosuke sospirò, mettendo per un attimo da parte gli entusiasmanti calcoli di economia aziendale: quella mattina non poteva proseguire così, era arrivato il momento di capirci qualcosa riguardo ciò che sembrava tenerlo con la testa tra le nuvole.
Van scosse la testa, appoggiando la penna dietro l’orecchio – in realtà una pausa dallo studio non gli dispiaceva affatto.
«Beh, credo sia chiaro che non possiamo rimandare oltre. Vuoi spiegarci cosa è successo ieri o no?»
Reiji iniziò a rigirarsi l’evidenziatore tra le dita, picchiettandolo poi più volte sul libro. «Nulla di che, ho discusso ancora una volta con Inoue-san.»
«E fin qui ci ero arrivato.» disse Van, sporgendosi verso di lui. «Che stavi combinando, esattamente?»
«Ti ha cacciato definitivamente dal reparto?» chiese allora Ryosuke, preoccupato di una simile eventualità. Non era parte della facoltà di infermieristica, ma grazie alle voci che giravano sul suo conto - ma soprattutto a Van - era ben a conoscenza di quanto, in quegli ultimi mesi, Reiji era stato in grado di dare ai pazienti e all’intero reparto in generale, portando una ventata di allegria e leggerezza.
Come tutti, lo ammirava molto per quello. Primo perché non essendo un amante dei più piccoli, era sorpreso di come riuscisse a instaurare rapporti come quello di cui gli aveva parlato Van, con un certo Otoya; e secondo perché mai sarebbe stato in grado di andare così controcorrente in un ambiente ospedaliero, partendo da semplice tirocinante, riuscendo però a trascinare con sé molti altri studenti e persino il suo responsabile di corso.
Per uno come lui tutto ciò sarebbe stato impensabile, un’utopia, ed era proprio questo che gli aveva fatto perdere la testa per il moro: la passione che leggeva nei suoi occhi ogniqualvolta parlava delle nuove conoscenze fatte in reparto, o quando stando in ospedale imparava qualcosa di nuovo che lo spronava a proseguire con determinazione quel percorso, era assolutamente impagabile, sarebbe rimasto ore e ore ad ascoltarlo senza mai stancarsi.
«No!» rispose prontamente Reiji, con un tono di voce forse un po’ troppo alto per gli standard richiesti dalla sala studio. Il moro non tardò a chiedere scusa agli studenti seduti agli altri tavoli. «Non voglio nemmeno pensarci, anche se è vero che finisco sempre per tirare troppo la corda con quell’uomo.» aggiunse a voce più bassa. «Per lui la clown terapia è solo un fastidio per i pazienti, ma io so quanta differenza possa fare l’ambiente che ti circonda quando stai cercando di affrontare giorno dopo giorno qualcosa che è più grande di te, specialmente parlando di bambini. Quei piccoli hanno davvero una forza incredibile, ancora me ne stupisco.» disse l’ultima parte in un sussurro, lasciando cadere momentaneamente il discorso, perdendosi nuovamente in chissà quale pensiero.
Solo dopo essere stato scosso leggermente per un braccio da Ryosuke, Reiji tornò di nuovo tra loro, lasciandosi andare a un sospiro, accompagnato da un sorriso amaro. «Torno sempre a casa distrutto, eppure continuo a pensare di non fare abbastanza per loro. L’altro giorno, con il nuovo bambino, Tokiya, credo di aver fallito miseramente…» disse, premendosi le palpebre con i palmi delle mani.
Ryosuke si accigliò, scambiandosi un’occhiata con Van. «Tu non staresti facendo abbastanza? Ti stai spingendo oltre ciò che ti è concesso, sia a livello accademico che fisico, Reiji.»
Van incrociò le braccia, annuendo alle parole dell’amico. «Ryo-chan ha ragione, e ormai ne abbiamo già parlato un’infinità di volte. I tuoi intenti sono nobili, ma non puoi sperare di poter cambiare le cose in pochi mesi, soprattutto quando è il potere a mancarti. Inoltre ti comporti sempre come se fossi da solo ad affrontare tutto questo, potrei iniziare a offendermi, sai?» disse, non trattenendo un sorriso quando lo colpì scherzosamente con il piede da sotto il tavolo.
«È sorprendente che tu non sia ancora stato cacciato da quell’ospedale, a dirla tutta.» fece Ryosuke, tornando ancora una volta a guardare Van. «E mi riferisco anche a te.»
«Ehi! Io sono il braccio destro, lui è la mente!» il castano si fermò a pensare, aggiungendo: «E forse anche il braccio sinistro dato che fa entrambe le cose…» 
Reiji rise, scuotendo la testa. «Penso che giochino a mio favore il rapporto con i pazienti e i buoni risultati nello studio. Satou-san riesce sempre a mettere una buona parola su di me.»
Il corvino lo guardò seriamente. «Ma è anche vero che non puoi continuare così, altrimenti non arriverai mai alla laurea e l’ospedale potrai solo vederlo col binocolo. Inoltre quel pover’uomo potrà aiutarti fino ad un certo limite, a quel punto finirà lui stesso nei guai per colpa tua.»
«Woah, Ryo-chan, non essere così spietato!» provò a buttarla sul ridere, Van, facendo però scemare man mano il suo sorriso all’occhiata glaciale dell’altro.
Messaggio ricevuto, l’avrebbe lasciato parlare senza dire nulla.
«Quello che voglio dire è che forse dovreste impegnarvi di più a far cambiare idea a questo “terribile” primario in modo intelligente, ossia senza fare cose esagerate che possano aumentare l’antipatia nei vostri confronti, soprattutto i tuoi, Reiji.»
Reiji si infilò una mano fra i capelli, tirandosi appena una ciocca. «Idee di come possa riuscirci? Perché se non sono bastati questi mesi, non so che altro potrebbe convincerlo.»
«Beh, lo conoscete meglio di me. Van?»
L’interpellato iniziò a spremersi le meningi, premendosi l’indice sulla fronte. «Mmh, sbaglio o prima hai parlato di aver fallito con il nuovo bambino?»
Reiji annuì. «Tokiya è davvero chiuso caratterialmente e ha sopportato l’iniezione della terapia in un modo sorprendente per la sua età. Ho provato a portare Otoyan da lui per farli legare un po’, un amico fa sempre comodo quando ti trovi in un posto come quello…» il suo sguardo si fece vuoto e la presa sulla ciocca aumentò. «Ma non ne ha voluto sapere, nemmeno dei miei trucchi di magia. Ha solo chiesto che ce ne andassimo perché voleva stare da solo. Non riesco ad avvicinarlo in alcun modo, ho paura di farlo stare peggio, capite?»
«Beh, sarà il caso di iniziare a capire come possiamo conquistarlo. Forse se mostriamo a Inoue-san che grazie alla clown terapia la salute di Tokiya-kun migliora, non si mostrerà più così, uhm, costipato quando ci vedrà per i corridoi con i nasi rossi?»
«Costipato? Davvero, Van?»
«Tu non l’hai visto ieri mentre teneva in mano il naso di Reiji! Quello finto, eh. E sembra sempre disgustato quando vede i miei pupazzi! Nessuno prova disgusto per i miei pupazzi.»
Ryosuke alzò gli occhi al cielo, rivolgendo la sua attenzione a Reiji. «Prima che Ventriloquo-san inizi a parlare dei suoi figli, credi che l’idea possa funzionare?»
Reiji ci rifletté attentamente, arruffandosi poi i capelli in un gesto frenetico prima di reclinare il capo all’indietro. «Non lo so, ma se ce la facessi sarebbe prima di tutto per il bene di Tokiya. Vorrei davvero vederlo un suo sorriso, è assurdo che non l’abbia ancora visto felice.»
«Beh, neanche così tanto, in realtà.» fece Van. «Stiamo sempre parlando di un ospedale e si trova lì da poco.»
Reiji annuì, non potendogli dare torto. «È quasi vicino alla seconda settimana.» disse, ma non fece in tempo ad aggiungere altro che una mano si posò sulla sua spalla, facendolo sobbalzare appena.
«Scusami, non volevo spaventarti.»
Quando Reiji si voltò a guardare la proprietaria di quella mano, la riconobbe come la ragazza del suo ultimo appuntamento, ma il nome… quello proprio non riuscì a ricordarselo.
«My girl, non preoccuparti~» disse, eliminando l’espressione di prima per lasciare spazio a uno sguardo ammiccante. My girl andava sempre bene, per tutte, e nessuna di loro si era mai lamentata di questo. «È successo qualcosa?»
Questa scosse la testa, scostandosi timidamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Mi chiedevo…» iniziò, sentendosi in imbarazzo davanti agli occhi degli altri due puntati su di lei, uno dei quali, Ryosuke, decise di facilitarle il compito, levando le tende.
«Penso che andrò a prendermi un caffè, fatemi sapere gli sviluppi.» disse, raccogliendo le proprie cose. «Noi ci sentiamo dopo.» aggiunse poi con una certa freddezza nel rivolgersi a Reiji, andandosene senza degnare di uno sguardo la ragazza.
Era una scena vista e rivista alla quale però non sarebbe mai riuscito ad abituarsi.
Relazione aperta, la chiamavano, sia lui che Reiji erano liberi di frequentare altre persone senza alcun problema, e se al moro sembrava venire naturale come atteggiamento, per quanto lo riguardava, dall’inizio del loro rapporto, non si era visto con nessuno all’infuori dell’aspirante infermiere.
Ancora non capiva, in realtà, perché Reiji avesse messo quella condizione alla loro relazione, ma il sentimento che provava per lui era così forte da averlo spinto ad accettare quella situazione, sebbene gli facesse male.
Tendeva infatti a nascondere una moltitudine di insicurezze al riguardo, ma non si era mai disturbato di farlo presente a Reiji per paura di poter sembrare irritante, di poter chiedere troppo e perderlo così per sempre.
Era patetico, lo sapeva bene, ma l’unica cosa a cui si aggrappava era il fatto che lui fosse l’unico uomo che Reiji stava frequentando al momento, non aveva mai mostrato troppo interesse per altre persone del suo stesso sesso… questo, però, fino a ieri sera.
Ancora non riusciva a togliersi dalla testa quel duetto, quello scambio di sguardi così intenso per gli standard di una semplice canzone da karaoke, per quello una volta tornati a casa aveva provato a monopolizzare le attenzioni del moro.
In ogni caso, le paure del giorno prima erano state messe a tacere con la conversazione di poco prima e poteva definirsi momentaneamente tranquillo, almeno fino a quando non sarebbe di nuovo uscito il nome di quel Ranmaru in qualche discorso di Reiji.
 
 
Il moro fece abbastanza in fretta con la ragazza, dicendole che l’avrebbe sicuramente contatta non appena fosse riuscito a trovare del tempo libero per un’altra uscita.
«Non ti ricordavi il suo nome, vero?» ridacchiò Van, tirando fuori una bottiglietta d’acqua per berne un sorso.
«Si è capito?»
Van richiuse la bottiglietta e scosse la testa, sempre più divertito. «My girl~» lo scimmiottò, ricevendo un pugno sul braccio da parte dell’altro. «Il 95% delle volte lo tiri fuori quando non sai che pesci pigliare davanti ad una che hai dimenticato subito.»
«Mh? E il restante 5%?»
Van scrollò le spalle. «Ti senti semplicemente figo. Su quella comunque potrei farci un pensierino… Cos’aveva che non andava?»
«Non me lo chiedere, so solo che non mi ha trasmesso troppo se non sono riuscito a ricordarmi il suo nome.» rispose, posando lo sguardo sulla sedia vuota di Ryosuke, pensieroso. «Niente di diverso dal solito...»
Van stette a guardarlo per un po’ prima di proferir parola. «Senti, parlando d’amore, non credi che sarebbe il caso di “lavorare” solo su una persona? E che quella persona possa essere Ryo-chan? Vi trovate bene insieme.» provò, ma dall’espressione non troppo convinta di Reiji capì quanto fosse inutile.
«Ryosuke è fantastico, ma non-» tentennò, tenendo lo sguardo basso.
«Cosa?» lo incitò a continuare, Van.
«Non sono ancora pronto per una relazione seria.»
«Questo ha sempre a che fare con Stanza 404?»
Ancora una volta bastò un’occhiata per far capire a Van di non spingersi oltre.
«Va bene, va bene, non ne vuoi parlare, ma in quanto tuo amico voglio solo che tu riesca a sistemarti con qualcuno che ti faccia stare bene, e non parlo di un bene da una notte e via.» si fermò, accigliandosi alle sue stesse parole. «Diamine, detto da me sembra quasi una barzelletta, ma sono serio, eh!» ci tenne subito a chiarire, ricevendo vari ammonimenti dagli altri per il tono di voce troppo alto.
Si scusò subito, piantando gli occhi sul libro e facendo finta di studiare. Dopo pochi secondi, quando rialzò lo sguardo su Reiji, lo colpì una seconda volta alle gambe nel vederlo soffocare con tutto se stesso delle risate.
«Hanno sgridato anche te, prima! Che ridi?!»
Reiji si passò una mano sul viso, riuscendo in qualche modo a reprimere le risa.
«Non so esattamente che cosa farei se non ci fossi tu, mi sento quasi in dovere di ringraziarti.»
«Tieni queste dichiarazioni per altra gente, io non casco ai tuoi piedi, Kotobuki.» rispose tutto impettito, riprendendo la penna dal suo orecchio per tornare – con chissà quale forza – alla stesura dei suoi appunti.
Reiji ne imitò l’esempio, togliendo di nuovo il tappo dell’evidenziatore per continuare lo studio di quel capitolo.
Senza neanche aver lasciato passare due minuti, però, quest’ultimo non riuscì a tenere per sé un commento: «Altra gente… tipo Ran-Ran?»
Van a quel punto sgranò gli occhi, sbattendo le mani sul tavolo e urlando un “lo sapevo!” che riecheggiò per tutta la sala, cosa che gli costò altri rimproveri, ma non ci fece troppo caso, limitandosi a ennesime, veloci scuse.
«Ora mi racconti che cosa pensi di quel tipo! Anche se posso immaginarlo…»
«Mmh, ma davvero?»
«Ti prego. Se non ci fossimo stati noi, saresti finito per fartelo sul tavolino di quella stanza! Mancava la musichetta da tensione sessuale in sottofondo e bam!» batté le mani, questa volta facendo attenzione a non fare troppo rumore. «E senti, non te ne sei accorto perché eri troppo impegnato a flirtare, ma ti ho guardato malissimo al “c’è altro che vuoi mettermi in gola?” Lo conosci il pudore, Kotobuki Reiji?»
Reiji si tenne lo stomaco in un disperato tentativo di non scoppiare a ridere, ma se l’amico avesse continuato di quel passo, molto presto gli studenti lì presenti si sarebbero decisi ad abbandonare la sala pur di non sentirli parlare.
«Oh, ma ne è valsa la pena. Hai sentito come ha pronunciato il mio nome?»
«Ringhiato, vorrai dire.»
Il moro appoggiò una mano sulla guancia e avvicinò il mignolo alla bocca, mordicchiando un po’ l’unghia. «Oh sì.» lanciò poi uno sguardo all’amico, spostandosi verso di lui. «In realtà la storia è più lunga di quanto pensi…»
Van ghignò, avvicinandosi a sua volta con la sedia. «Dimmi di più.»
 
 
§§§§
 

[Ospedale della baia di Odaiba, 16:54]
 


Terminata la simulazione di rianimazione cardiopolmonare, Reiji si diresse verso lo spogliatoio, così da potersi cambiare, recuperare le sue cose e scendere al piano inferiore per occupare il suo solito posto nel bar dell’ospedale, pronto a sfruttare le prossime ore per mettere per iscritto tutto ciò che aveva imparato di nuovo in quella lezione.
Ormai la sua vita ruotava attorno a due soli ambienti: l’università e l’ospedale, ma non se ne lamentava affatto, anzi, lo studio era un’ottima scusa per stare lontano da casa o da qualsiasi altra persona che avesse voluto tenergli “compagnia”.
Reiji sorrise al barista, salutandolo con un cenno della mano, e una volta sedutosi tirò fuori il suo quaderno e una penna, stilando i punti principali della rianimazione trattata poco prima.
 
  • Insufflare artificialmente dell’aria nei polmoni;
  • Favorire circolazione del sangue con spinte compressive sul torace;
  • Probabilità di sopravvivenza -> diminuiscono del 7-10% ogni minuto;
  • Essenziale la tempestività dell’intervento
 
Reiji iniziò a picchiettare la penna sulla pagina, riflettendo sull’ultimo punto.
“Tempestività…”
A volte si domandava se quel mestiere fosse davvero giusto per lui.
Credeva che con la sua empatia il rapporto con i pazienti non sarebbe mai stato un problema, anzi, era più che convinto che sarebbe finito per trattarli nel migliore dei modi, così come meritava una qualsiasi persona nel momento del bisogno.
Ma trascorrendo quei mesi nei diversi reparti in cui stava svolgendo il suo tirocinio, seguendo i suoi superiori nelle situazioni che sarebbe finito per incontrare una volta divenuto un infermiere effettivo, aveva lentamente iniziato a capire quanto la sua sensibilità potesse trasformarsi in un’arma a doppio taglio.
Se per esempio fosse finito col perdere un paziente a causa di un suo sbaglio, un paziente con cui aveva creato un certo legame… sarebbe davvero stato in grado di riprendersi in breve tempo, tornando al lavoro di tutti i giorni come se nulla fosse?
Di questo non ne era propriamente convinto, ma forse era qualcosa che si imparava a fare con l’esperienza, seppur detta così la cosa continuava a non entusiasmarlo affatto.
Il suo pensiero andò inevitabilmente al primario, e Reiji non fece a meno di domandarsi se quell’uomo fosse sempre stato così rigido e severo di natura o se, per l’appunto, il suo fosse solo un modo per difendersi da quel genere di sofferenza.
«Lo scoprirò col tempo, sempre se ne avrò la possibilità…»
Voleva dare ancora una chance a Inoue-san, dopotutto non era considerato uno dei medici più famosi di Tokyo per nulla, ma dall’altra parte non sapeva se…
«Cos’è che scoprirai col tempo, ragazzo?»
Il moro spostò lo sguardo sull’uomo che aveva appena preso posto affianco a lui con un panino in mano, sorridendogli gentilmente.
«Satou-san, è in pausa?»
Questo annuì, stravaccandosi un po’ sulla sedia, mostrandosi completamente sfinito. «Maledico il giorno in cui mi sono offerto di lavorare anche con l’università! Potrei addormentarmi da un momento all’altro!» fece, catturando l’attenzione del barista.
«Vedi di tenere gli occhi aperti, invece, o i miei panini gratis te li puoi sognare!»
Il responsabile si ricompose, mostrandogli un sorriso a trentadue denti, fintamente innocente. «Tanto so che adori farmi da mogliettina apprensiva! Eh? No- Metti giù quell’arma. È legale avere un coltello così grande in un bar?!»
«Se non vuoi ritrovarti sgozzato, piantala di dare aria alla bocca con frasi degne della tua stupidità. Sii più adulto e non disturbare lo studio del ragazzo!»
Satou assottigliò lo sguardo in sua direzione, scimmiottandolo con il labiale prima di tornare a parlare con il minore, il quale non riuscì proprio a trattenere una risata: Satou-san, esattamente come Van, riusciva sempre a creare un’atmosfera piacevole attorno a lui, e nonostante si lamentasse spesso della mole di lavoro, era sempre tra i primi a intervenire in caso di necessità senza battere ciglio, con un sangue freddo apparentemente insolito per una personalità come la sua, che Reiji non nascondeva di invidiargli.
Aveva ancora molto da imparare.
«Tornando a noi.» disse, dando un altro morso al suo spuntino pomeridiano. «Stavi parlando da solo, prima? È un brutto segno, eh.» lanciò una rapida occhiata agli appunti dell’altro, indicandoli. «Quando quelli diventano i tuoi migliori amici è la fine. Mi sembra di tornare indietro a quando Masah-» Satou si bloccò all’improvviso, facendo finta di aver mandato di traverso un boccone, battendosi più volte un pugno sul petto.
Reiji si affrettò a picchiettargli la schiena e alle sue spalle sopraggiunse il sospiro rassegnato del barista, il quale non si preoccupò nemmeno di raggiungerli con un bicchiere d’acqua in mano: non era per niente bravo a fingere, quello sciocco.
«Sto bene! Sto bene!»
«Non alzare la voce.»
«Grazie per esserti preoccupato!»
L’uomo al bancone lo ignorò, concentrandosi a pulire con attenzione il bicchiere che aveva in mano.
«Ma che le è preso? Che cosa stava dicendo prima di essere quasi morto?»
Satou fece finta di rifletterci, prendendosi teatralmente il ponte del naso tra pollice e indice, assumendo un’espressione alquanto seria e pensosa prima di esclamare un: «Me ne sono dimenticato!» tornando poi a gustarsi il suo pasto.
«Se n’è… dimenticato?»
Il maggiore annuì, non soffocando uno sbadiglio. «È l’età che avanza, probabilmente. Ma parlavamo di te, quindi lascia perdere!»
Reiji lo guardò con sospetto, notando una certa preoccupazione nel suo sguardo, come se l’altro stesse cercando di nascondergli qualcosa, ma non si fece troppe domande sul momento, limitandosi a scrollare le spalle. «Aspetto che inizi l’orario di visite per fare un salto da Otoyan e gli altri angioletti. Nel frattempo mi tengo impegnato con lo studio…» abbassò lo sguardo sul foglio scritto, evitando di dire a Satou-san – come ogni volta – di dover fare visita anche ad un’altra persona all’infuori dei suoi piccoli amici, ma quella era un’informazione superflua da dare, solo Van ne era più o meno a conoscenza dopo averlo visto uscire dalla famosa stanza 404.
Satou, sebbene fosse ben disposto a continuare la conversazione con il giovane alunno, trasalì una volta che posò il suo sguardo sull’orologio appeso alla parete del bar, realizzando quanto poco tempo avesse per rilassarsi.
Ingurgitò l’ultimo boccone del suo panino, fortunatamente senza attentare alla sua vita, e lanciò il tovagliolo nel cestino più vicino, facendo canestro con successo.
Arruffò velocemente i capelli di Reiji e si sistemò meglio il camice, spolverandosi la maglietta e i pantaloni dalle briciole di pane. «Devo davvero scappare, ho una simulazione da seguire con il prossimo gruppo! Ricorda però di prenderti del tempo anche per te! Stai viziando troppo gli altri, e questo va bene, ma senza esagerare!» disse prima di schizzare fuori dal bar il più velocemente possibile, sperando di non incontrare un certo Inoue-san, o meglio, Masahiru Inoue-san: l’ultima cosa di cui aveva bisogno era una ramanzina da quello scorbuticone.
Reiji scosse la testa, sorridendo amaramente alle parole del suo superiore.
«Non sto viziando nessuno, cerco solo di mettermi la coscienza a posto…» mormorò, riprendendo con un sospiro da dove si era fermato prima che i suoi pensieri e Satou-san lo interrompessero.
 
 
§§§§
 
 
[Parsley’s, 20:43]
 
 
Lo sfrigolio dell’olio in padella finì ancora una volta per schizzargli sul dorso della mano, facendolo imprecare tra i denti.
Si era lasciato distrarre dai suoi pensieri ed era finito per dimenticarsi di alcune pietanze, fu abile e veloce, però, nel salvare tutto e mettere ogni cosa nel piatto, aggiungendo le solite decorazioni che Yume gli aveva insegnato a fare per dare quel tocco in più sempre gradito all’occhio del cliente.
Suonò poi il campanello sul bancone per avvisare il cameriere della conclusa preparazione dell’ultimo ordine di quella serata. Non vedendolo arrivare, continuò a suonare con fare irritato finché Kurou, il suddetto cameriere, non fece il suo ingresso all’interno della cucina.
«Stai calmo, ci sono.» fece svogliato, prendendo i due piatti e facendo un mezzo inchino quando, uscendo, vide Yume in un angolo mentre li stava osservando.
«Lo butterei fuori da qua all’istante, non capisco perché continuate a farlo rimanere.» sibilò l’albino, passando uno straccio sul bancone per dare una pulita, usando tutto il vigore che ci avrebbe messo in un pugno diretto sul viso dell’altro. Spesso si dimenticava che era stato proprio lui a trovargli un lavoro lì.
Yume si avvicinò a Ranmaru, prendendo un panno asciutto per aiutarlo a eliminare ogni traccia di bagnato dalla superficie.
«Sembra un fratello minore che adora stuzzicare il maggiore. Lo fa apposta per provocarti, lo sai? Con i clienti in sala si comporta sempre bene e rimane comunque un ottimo aiuto.»
«Peccato che non sia un moccioso e abbia la mia stessa età.»
«Ma ognuno di noi raggiunge la maturità in tempi diversi, figliolo. In qualche modo penso che ti ammiri molto, probabilmente il suo è un modo per attirare la tua attenzione.»
Ranmaru schioccò la lingua sul palato, alzando gli occhi al soffitto. «L’unica cosa che otterrà con questo atteggiamento saranno delle pedate sul sedere.» fece, premurandosi di mantenere un linguaggio che non fosse troppo volgare in presenza della donna.
«Lasciando per un attimo da parte il vostro rapporto…» provò a cambiare argomento, lei, prendendo i due panni per lasciarli piegati vicino al lavello. «Sono rimasta sorpresa da come hai affrontato questo servizio.»
Ranmaru sembrò non capire. «In che senso?»
«Non posso nascondere di aver notato alcuni momenti di distrazione da parte tua.» disse, e quando Ranmaru cercò subito di ribattere, probabilmente per giustificarsi, Yume fu veloce a interromperlo prima che potesse farlo lui. «Nonostante ciò, hai fatto un ottimo lavoro, pulito e ordinato, nulla di cui possa realmente lamentarmi, come ogni volta, d’altronde. Quello che voglio dire è… C’è qualcosa di cui vuoi parlare, Ranmaru? Un pensiero che magari ti sta infastidendo in questo periodo?» domandò, intrecciando le mani sul grembo, guardandolo visibilmente preoccupata. «Se con me non ti senti a tuo agio, ricordati che c’è sempre Satoshi a disposizione per una chiacchierata tra uomini.» sorrise con dolcezza, inclinando appena il capo in una sorta di invito a cogliere una delle due opzioni.
L’albino scosse il capo, apprezzando quella considerazione nei suoi confronti, ma allo stesso tempo sentendosi infastidito dal fatto che si fosse accorta che c’era qualcosa che l’aveva tenuto distratto quella sera – anche se non era del tutto convinto che si stesse riferendo solo a quelle ultime ore.
«Non c’è niente che non vada, sto bene.»
La donna fece scemare il suo sorriso, assumendo un’espressione più seria che fece ben intendere a Ranmaru di non averla convinta pienamente.
«Non voglio in alcun modo obbligarti a dirmi qualcosa che vuoi tenere per te. Conosco il tuo carattere, so quanto possa venirti difficile, ma voglio solo che tu sia consapevole del fatto che io e Satoshi, per te, ci saremo sempre per qualsiasi cosa.» Yume gli si avvicinò nuovamente, allungando una mano verso l’alto, sulla sua guancia. «Ogni giorno che passa diventi sempre più simile a tuo padre, sei esattamente la sua copia. Pur trovandoti in una situazione difficile, non hai esitato un attimo a darci il tuo aiuto con il poco che avevi, e per questo te ne saremo per sempre grati.» Yume accarezzò con delicatezza la sua gota, allontanando poi la mano con una risata leggera quando notò la rigidità del ragazzo sotto il suo tocco. «Ma come tu stai continuando a dare una mano a noi, noi siamo pronti a darla a te. L’unica cosa che spero tu non abbia ereditato da tuo padre sono l’eccessivo orgoglio e la convinzione di potercela fare da soli, questi l’hanno-»
«L’hanno ucciso, sì.» la interruppe bruscamente, Ranmaru, forse più di quanto avrebbe voluto suonare, togliendosi il grembiule da cucina per poi appallottolarlo e lanciarlo sul bancone. Non poteva credere che fosse persino arrivata a nominare lui. «Ma non finirò mai per cedere, se è questo di cui avete paura. È difficile, ma ho ancora troppe responsabilità da portare a compimento, non sono disposto a buttare la mia vita per qualche ostacolo che mi si para davanti. Non sono mio padre.»
Ranmaru si avviò verso la porta della cucina, fermandosi sulla soglia giusto il tempo per dire un’ultima cosa a Yume: «E tanto per chiarire, non è stato il suo orgoglio a ucciderlo, ma la fiducia sbagliata che ha riposto in qualcuno che credeva suo amico.»
La donna non ebbe modo di aggiungere altro in risposta a quell’ultima frase, poiché l’albino aveva già levato le tende, facendosi strada fra i tavoli del locale per raggiungere il piccolo palco che era stato costruito da lui e Satoshi appositamente per le esibizioni del suo gruppo.
Mentre si mise ad accordare il suo basso, già collegato a una delle casse, alcune ragazze sedute ai tavoli della prima fila iniziarono a farfugliare tra loro, lanciando diverse occhiate al giovane bassista accompagnate da risatine mal trattenute.
Ora ancor più di cattivo umore, Ranmaru sollevò lo sguardo in cerca di Hiroto e Hisoka: dove diamine erano andati a cacciarsi quei due?
La risposta non tardò ad arrivare.
Kurou si avvicinò a lui, salendo sul palco col cellulare in mano, l’espressione visibilmente scocciata.
«Che succede?» cercò di arrivare subito al dunque, Ranmaru.
«Hiroto mi ha scritto che per stasera non verranno, e probabilmente nemmeno le prossime di questa settima. Sono, o meglio, quell’idiota è ancora “nervoso” per quello che è successo ieri.»
«Non me ne può fregar di meno.» rispose con immediatezza l’altro, sistemando il microfono sull’asta. «Non ho tempo per stare dietro ai loro stati d’animo, suonerò da solo.»
Come se fosse la prima volta, si disse mentalmente, ormai fin troppo abituato a quel genere di situazione. Quello era solo il primo step, era più che convinto che ce ne sarebbero stati molti altri che li avrebbero portati a distruggere il gruppo. La sua pazienza non era mai stata smisurata con le persone, specie con chi mostrava una certa immaturità nei confronti di qualcosa su cui lui era sempre così serio: con la musica non si scherzava.
«Levati di torno, lasciami libero il palco.»
Dallo sguardo che Ranmaru gli rivolse in quel momento, Kurou capì che rispondergli non sarebbe stata una decisione saggia.
Fece quindi come l’altro gli disse, lanciando un’occhiata alla tela che si era portato dietro per quella serata: non era propriamente convinto di voler provare a dipingere quello che sarebbe venuto fuori dalle sue canzoni, avvertiva già una sensazione spiacevole allo stomaco solo a vedergli tenere tra le mani lo strumento.
«Anthem.» il tono del diciottenne era basso, cupo, bastò dire solo il titolo della canzone per lasciare nel completo silenzio la sala, tutti erano in attesa di poterlo ascoltare.
Ranmaru era diventato famoso nella baia grazie alle sue canzoni capaci di trapassare l’anima di chiunque stesse a sentire le parole dei suoi testi.
Le emozioni che trasmetteva colpivano prepotentemente il suo pubblico, e non importava se i significati non erano dei più gioiosi, era impossibile non rimanerne quasi incantati.
Capitava molte volte che qualcuno finisse persino per commuoversi, scosso da chissà quale sensazione.
Kurou l’aveva pensato più di una volta: Ranmaru era la fiamma che attirava irrimediabilmente a sé un esercito di falene – lui compreso, purtroppo – a cui non importava di perdere le loro ali per colpa del calore eccessivo e morire. Se quello significava vivere con intensità ciò che l’albino riusciva a far provare, ne valeva decisamente la pena.
E per quanto il corvino non lo sopportasse, per colpa di uno scherzo della natura era forse il più fastidiosamente sensibile a quella moltitudine di emozioni.
Strinse in una mano il vassoio vuoto, disteso lungo il suo fianco, e inspirò profondamente al suo iniziale assolo di basso: nessuno osava fiatare prima della fine della sua esibizione.
Anthem era la canzone che aveva dato inizio a quella sottospecie di rapporto che li legava.
Nella sua mente era ancora vivido il ricordo di quel pomeriggio invernale, quando aveva assistito per la prima volta ad una sua esibizione.
Ricordava le mani rosse del bassista, screpolate dal freddo; ricordava quell’accenno di sangue sulle nocche che non gli aveva in alcun modo impedito di continuare a muovere le dita lungo le corde dello strumento, il tutto accompagnato da un’espressione che Kurou aveva ancora ben impressa nella memoria, e che era riuscito a descrivere con un solo aggettivo: disperata.
Perché sì, ogni volta che Ranmaru suonava, era come se non riuscisse ad averne mai abbastanza. Il suo era una sorta di insaziabile bisogno che cercava in qualche modo di colmare, fallendo però miseramente.
Era convinto che nessuno, all’infuori di lui, si fosse mai accorto di quella breve soddisfazione che attraversa sempre il suo sguardo alla fine di ogni sua canzone, che va poi a trasformarsi in frustrazione qualche attimo dopo, conscio di quanto, ancora una volta, quello non fosse sufficiente a liberarlo da qualsiasi cosa lo tormentasse.
E se qualcuno gli avesse chiesto come facesse ad essere così sicuro di cosa provasse il bassista, probabilmente si sarebbe messo a ridere davanti alla sua stessa risposta.
Forse nemmeno Ranmaru si era mai reso conto di quanto loro due fossero simili su quell’aspetto, probabilmente perché l’albino non si era mai mostrato troppo interessato alla sua vita privata.
L’artista conosceva fin troppo bene quella frustrazione, l’aveva provata più volte nel corso degli anni.
Se la musica poteva definirsi tutto per Ranmaru, lo stesso valeva per lui e l’arte.
Ma a differenza dell’altro, Kurou non aveva mai avuto il coraggio necessario per mettere l’arte al centro della sua vita.
Una serata, poco dopo la chiusura del locale e una pesante litigata tra lui e Ranmaru, Yume e Satoshi gli avevano brevemente raccontato quante cose avesse dovuto affrontare l’albino negli ultimi anni, venendo così a conoscenza delle sue vere origini.
Se con quelle confessioni gli anziani avevano sperato che Kurou potesse in qualche modo mostrarsi più comprensivo nei confronti dell’atteggiamento del coetaneo, questi si sbagliarono di grosso.
Venirne a conoscenza aveva semplicemente amplificato il risentimento che Kurou nutriva verso l’altro.
Proprio come lui, Ranmaru non era stato in alcun modo appoggiato nella scelta di voler proseguire nel campo della musica, anzi, visto il suo precedente status sarebbe stato impensabile.   
Eppure era lì, intento a condividere il suo talento davanti a un pubblico che sembrava venerarlo.
Aveva perso tutto, aveva tutte le ragioni per buttarsi giù e arrendersi davanti a un sogno apparentemente troppo grande per lui, ma non l’aveva fatto.
Se guardava Ranmaru, la prima cosa che gli tornava in mente era il sangue sulle nocche delle sue mani, e oltre a ciò Kurou non mancava mai di domandarsi quanto dolore doveva aver provato in quel periodo, ogni giorno, nel suonare al freddo.
La sua passione l’aveva spinto ad andare oltre la sofferenza fisica, a ignorare il pensiero di star ricevendo dell’elemosina dopo aver esposto a degli estranei alcuni dei suoi sentimenti più intimi, reprimendo il suo ben noto orgoglio.
E questo Kurou non poteva accettarlo.
Quando Ranmaru finì, i clienti partirono con rumorosi applausi e diversi fischi d’apprezzamento, ma nessuno di questi arrivò al bassista che in quel momento sembrava con la mente altrove, quasi in uno stato di trance.
Kurou lo guardò con rabbia, stringendo i denti. Non poteva accettarlo perché non capiva.
Non capiva dove avesse trovato le palle per cominciare tutto da zero, con le sue sole forze, e come senza essere nessuno fosse già riuscito a guadagnarsi questi primi riconoscimenti.
Non capiva come nonostante il suo dannatissimo carattere fosse riuscito a mantenere intatto l’affetto che Yume e Satoshi nutrivano per lui fin dall’infanzia – e del quale l’albino non sembrava rendersi minimamente conto.
Tutta quella determinazione, tutti i suoi sforzi lo urtavano da morire, ma ciò che veramente lo infastidiva era sapere perché non riusciva a sopportarlo.
Se su alcuni aspetti Kurou si rivedeva in Ranmaru, gli ultimi appena citati non avevano nulla a che vedere con lui.
Se paragonata alla vita del giovane bassista, quello che Kurou aveva vissuto sembrava essere una cosa nulla, così come il suo amore per l’arte.
E sebbene sapesse quanto questo non fosse vero, non aveva mai fatto nulla di così eclatante per seguire l’unica cosa che pareva dargli delle soddisfazioni: sapeva bene di mancare di spina dorsale anche solo per fronteggiare suo padre.
«Mr. waiter
Kurou si sentì picchiettare sul braccio da un cliente, e quando si voltò verso il suddetto corrugò le sopracciglia con fare alquanto perplesso: che diavolo di problemi aveva quell’omone per indossare degli occhiali da sole di sera e soprattutto in un locale?
«Vorrei avere il conto, grazie.»
Kurou lanciò un ultimo sguardo a Ranmaru che ormai sembrava essersi ripreso, pronto per suonare la prossima canzone, e gli diede le spalle, decidendo di lasciare da parte altri pensieri inutili: gli affollavano la mente a sufficienza quando se ne stava a casa, ci mancava che se li tenesse anche fuori.  
«Arrivo subito.»
Una volta alla cassa, dopo aver preso lo scontrino per l’uomo, Kurou si concesse una veloce occhiata al cellulare, pensieroso. L’altra sera, al karaoke, aveva tirato un po’ troppo la corda, non poteva negarlo.
Digitò velocemente un messaggio e rimise lo smartphone in tasca, sospirando.
 
Da: Kurou [21:22]
Vorrei parlare con te riguardo quello che è successo ieri.
 
Mantenere la facciata del deficiente menefreghista non gli dava comunque il diritto di ferire i sentimenti di qualcuno più fragile di lui.  
Fortunatamente era sveglio abbastanza da capire almeno questo.
 
§§§§
 
[Ore 23:04]
 
 
Reiji infilò stancamente la chiave nella toppa, trascinandosi all’interno del suo appartamento.
Lasciò cadere la borsa a terra e si tolse il cappotto, appendendolo sull’attaccapanni lì all’entrata.
«Casa dolce casa…» disse con un sorrisino amaro: si poteva definire felice a metà, l’idea di essere solo alla fine non lo entusiasmava mai molto.
Era ironico come prima dicesse di voler rimanere per conto suo, e l’attimo dopo sentisse il bisogno di avere qualcuno al proprio fianco.
Aprì la porta della sua stanza e, prima di lasciarsi cadere sul letto, accese la TV, mantenendo il volume basso ma comunque udibile, giusto per avere un sottofondo che gli tenesse compagnia.
Sdraiandosi a pancia in giù affondò il viso nel cuscino, stringendo la federa tra le mani, mentre il comico di un noto programma televisivo se ne uscì con una battuta che fece ridere di gusto il pubblico.
Soffiò piano dal naso nel cambiare posizione del volto, mettendosi a fissare il comodino con uno sguardo assente.
Necessitava di stimoli continui che gli tenessero la mente occupata, per questo era raro che rimanesse chiuso in casa durante uno dei suoi giorni liberi.
Allo stesso tempo, però, stare in mezzo alle persone con cui si circondava diventava veramente insostenibile: era difficile mantenere la solita maschera ventiquattro ore su ventiquattro senza avere la possibilità di confidare a qualcuno il suo vero stato d’animo.
Non si riteneva un falso o un bugiardo quando mentiva e si mostrava apparentemente tranquillo e spensierato, il suo era solo un modo per evitare di far preoccupare gli altri con dei problemi che nessuno di loro sarebbe stato in grado di sostenere insieme a lui o quantomeno capire.
Nemmeno Ryosuke e Van rientravano nelle persone di cui sentiva di potersi fidare a pieno nonostante stesse bene in loro compagnia.
A volte si chiedeva che razza di problema avesse con questo brutto vizio di tenere ogni cosa spiacevole per sé, ma l’origine di quest’abitudine era quasi certo di conoscerla…
«Mmh, pensa ad altro, pensa ad altro…» si disse, rigirandosi per mettersi supino, tirando fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni.
Sebbene fosse stanco morto sapeva che ci avrebbe messo un po’ prima di potersi effettivamente addormentare, quindi l’opzione migliore in quei casi era iniziare a stancarsi gli occhi scorrendo senza un vero e proprio interesse la home di Facebook o qualsiasi altro social.
Si ritrovò a sorridere intenerito quando incontrò tra i post il video di un gatto che se ne stava tranquillo tra le braccia del padrone a godersi diversi grattini con tanto di fusa d’apprezzamento.
L’animale lo portò inevitabilmente a ricordare l’incidente dell’altro ieri, quando Ranmaru aveva praticamente messo a rischio la sua vita pur di proteggere quella del micio, e il suo sorriso non poté che diventare sempre più ampio al pensiero del ragazzo.
«Sei una brava persona. Mi sono bastate poche volte sparse qua e là per capirlo, anche se ciò non toglie che sei davvero troppo impulsivo, Ran-Ran.»
Impulsività, però, che la sera prima non aveva avuto modo di vedere quando l’amico si era rivolto a lui e Ryosuke in quel modo, nonostante Reiji avesse letto del dispiacere nei suoi occhi per la situazione che era venuta a crearsi. Quando gli aveva chiesto se aveva qualcosa da dire, non si era aspettato che prendesse e se ne andasse senza aggiungere altro.
Ammetteva di esserne rimasto dispiaciuto, ma al contempo avrebbe voluto ringraziarlo per averlo coinvolto con quella canzone che aveva sicuramente aiutato a migliorargli l’umore oltre che a incrementare il già vivo interesse nei suoi confronti.
«Peccato che non abbia il tuo numero.»
E che probabilmente non avrebbe mai avuto.
Dubitava del fatto che l’albino avesse ancora intenzione di incontrarlo, gli aveva mandato un chiaro messaggio nell’andarsene in quel modo.
Onestamente se l’avesse rivisto, era certo che sarebbe finito col trovare difficile trattenersi dal parlargli e proporgli un’altra uscita, magari solo loro due soli, questa volta, ma temeva di poter finire completamente nelle sue antipatie se avesse insistito troppo.
Dopo quello che gli aveva fatto passare il giorno prima non aveva più alcun diritto di convincerlo a dargli una seconda chance.
«Bye bye, occasione~» disse amaramente, uscendo dall’applicazione per poi passare ai messaggi, aprendo una chat che ormai da un paio di anni a quella parte era diventata il suo piccolo nonché unico rifugio di sfogo quotidiano.
 
Da: Reiji
[23:26] Ora penso che proverò ad andare a dormire!
[23:26] Preparati a un’altra chiacchierata, per adesso ti auguro ancora la buonanotte~
[23:27] (๑・ω-)~♥”  ♥
 
Rimase a fissare quei messaggi per un po’, scorrendo poi all’indietro quella conversazione che ormai da troppo tempo stava procedendo a senso unico, senza che lui potesse fare realmente qualcosa per cambiare la situazione.
«No, no, devo dormire.» si disse, massaggiandosi le palpebre con pollice e indice.
Alla fine si decise a mettere da parte il cellulare una volta installata la sveglia per la mattina dopo.
Spense la luce, si coprì fin sopra le spalle e si premurò di lasciare la TV accesa, avvertendo un briciolo di sicurezza in più nel non essere in completo silenzio.
«Ci vediamo domani, Ai-Ai…» mormorò, spostando dietro l’orecchio una ciocca di capelli che gli era finita sul viso, e solo dopo essere rimasto a fissare per un minuto buono un punto indefinito nella penombra, arrivò finalmente a chiudere gli occhi, pregando l’insonnia di non venirgli a fare visita.
 
§§§§
 
[Ore 23:52]
 
«Dannatissima porta.» sibilò Ranmaru quando riuscì finalmente ad entrare nel suo appartamento dopo aver quasi rischiato di distruggere la maniglia.
Sbatté la porta alle sue spalle e dopo essersi tolto le scarpe si avviò verso il divano, appoggiandoci la custodia con all’interno lo strumento.
Subito dopo si diresse in bagno per potersi togliere la lente a contatto e struccarsi gli occhi, sciacquandosi infine il viso per darsi una breve rinfrescata.
Quando girò la manopola per chiudere l’acqua, Ranmaru rimase a fissare il suo riflesso allo specchio con il volto ancora bagnato. Posò il suo sguardo sulle occhiaie scure e scavate, chiedendosi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta in cui era riuscito a dormire come una persona normale. Era naturale che Yume gli avesse fatto quella domanda, persino un imbecille sarebbe arrivato a fare due più due nel vederlo in quello stato.
«Posso ancora farcela.» si disse, aggrappandosi con le mani ai lati del lavandino, tanto da arrivare a sbiancare le nocche e i polpastrelli delle dita. «Devo farcela.» digrignò i denti, tirando poi una forte manata sulla ceramica bianca del lavandino, imprecando un merda quando il dolore, dalla mano, si propagò lungo tutto il braccio.
«Merda, merda, merda!» urlò con un tono sempre più alto, sentendo poi dei colpi da parte del vicino provenire da una delle pareti della sala, ricordandosi solo in quel momento quanto fossero sottili.
Si spostò dal lavandino e si mise con la schiena premuta contro il muro del bagno, lasciandosi scivolare fino a terra, dove si sedette con le gambe distese, sollevando poi lo sguardo sulla luce emanata dalla lampadina che a volte aveva il brutto vizio di andare a intermittenza, un po’ come la sua sanità mentale.
Per quanto volesse rifiutarsi di ammetterlo a se stesso, in quel periodo bastava veramente poco per farlo vacillare rispetto ai primi tempi, quando ancora molte cose riusciva a ignorarle e a passarci su più facilmente.
Stava diventando debole, debole come lo era diventato suo padre. A che serviva dire che non avrebbe ceduto, quando la verità era palesemente un’altra?
«Merda…» disse ancora, questa volta piano, portando una mano sul viso per massaggiarsi le palpebre con le dita.
Rimase con gli occhi chiusi, concentrandosi forse troppo su quel nodo che aveva in gola.
La sua cassa toracica continuava ad alzarsi e abbassarsi in modo veloce e irregolare, percepiva l’aria entrare nei suoi polmoni ma senza riempirli completamente. Sentiva il bisogno di ricevere più ossigeno, cercava di rendere più profondi i suoi respiri, ma nemmeno quello pareva essergli utile: oltre a quell’enorme nodo che sembrava bloccargli le vie respiratorie, c’era anche un forte peso che avvertiva nel petto, qualcosa da cui non era ancora riuscito a liberarsi dalla morte di suo padre.
Il battito del suo cuore divenne talmente forte da rimbombargli nelle orecchie, e solo quando percepì una sensazione simile a quella dello svenimento, colpì con un pugno il pavimento del bagno, riaprendo immediatamente gli occhi.
Si portò una mano sulla spalla sinistra e iniziò a massaggiarsela lentamente, toccando determinati punti che sapeva lo avrebbero portato a rilassarsi. Poi sospirò, facendosi forza per rimettersi in piedi.
Il giorno in cui aveva saputo del suicidio del padre tramite le notizie dei giornali era ancora ben impresso nella sua mente.
Quando si era ripresentato nella casa che appena un anno prima aveva lasciato per inseguire i propri sogni, il mondo gli era completamente crollato addosso nel momento in cui la madre gli aveva raccontato nel dettaglio in che modo i Kurosaki erano finiti per accumulare tutti quei debiti.
Ranmaru si lasciò cadere sdraiato sul divano, appoggiando la nuca sul bracciolo.
Sentire il nome di Hariya aveva scatenato in lui una moltitudine così ampia di emozioni che invece di affrontare aveva preferito archiviare, o meglio, congelare dentro di lui.
L’uomo che credeva gli avesse sempre rivolto dei sorrisi sinceri in mezzo a quell’ambiente pieno di falsi aristocratici pronti a pensare solo al loro interesse, era stato Hariya.
L’uomo che gli aveva fatto scoprire il mondo della musica con occhi diversi, alimentando in lui una passione nuova, che aveva infiammato il suo giovane quanto ingenuo animo, era stato Hariya.
Quell’uomo che per un lungo periodo era stato il suo confidente più intimo, alla fine si era rivelato un lurido bastardo che non aveva solo tradito la fiducia di suo padre, portandolo con le spalle al muro senza alcuna via d’uscita, ma aveva anche calpestato senza alcun tipo di pietà quella stessa fiducia che per anni Ranmaru aveva riposto in lui.
Da quel giorno la sua mente non aveva smesso un attimo di tormentarlo con numerosi “se”.
Se non avesse lasciato casa per inseguire il suo bisogno di fare musica, se si fosse informato prima sul perché i Kurosaki fossero finiti col rischiare tutto a un tratto la bancarotta, se solo avesse lavorato fianco a fianco con suo padre per dargli anche solo un briciolo dell’aiuto che sarebbe stato capace di offrirgli, forse la situazione in cui versavano lui, sua madre e sua sorella sarebbe stata totalmente diversa.
Se non fosse stato così sciocco da cadere trappola di quella gentilezza, di quella schifosa disponibilità ad aiutarlo a scegliere il suo primo basso, a dargli delle lezioni su come poterlo suonare al meglio…
A quel pensiero un ringhio sfuggì dalla gola di Ranmaru.
Alla fine dei conti la colpa era sua. Solamente sua.
Il senso di nausea che aveva percepito qualche ora fa mentre era sul palco del Parsley’s tornò a infastidirlo di nuovo.
Parlava di musica come sua unica salvezza, ma se ripensava a come era arrivato a provare quel bisogno estremo di aggrapparsi a qualcosa che gli permettesse di mostrarsi per quello che era, aveva come unica tentazione quella di scaraventare lo strumento contro il muro.
Se anche la musica, più che liberarlo da quei pesi, si fosse trasformata in qualcosa da eliminare dalla sua vita per non dover più ricordare grazie a chi era stato in grado di scoprire quel mondo rivoluzionario, così in contrasto a quello a cui era stato abituato per buona parte della sua infanzia…
 
Che senso avrebbe continuare a vivere?
 
Ranmaru appoggiò l’avambraccio sugli occhi e strinse i denti.
Già, quella voce aveva ragione.
«Nessuno.»







Link per Anthem
https://www.youtube.com/watch?v=YtdeD_vSsaA
Traduzione del testo: https://misachanjpop.wordpress.com/2017/06/29/anthem-oldcodex/
 

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Capitolo 6
*** Un debito da sanare ***


Rise Again  


05. Un debito da sanare



 
 
[Baia di Odaiba, 11 Aprile 2015]
 
 


Il vento che entrava dal finestrino del suo maggiolino gli scompigliava piacevolmente i capelli.
Reiji si passò una mano fra questi ultimi, godendosi il momento con un’espressione rilassata mentre finiva di attraversare il Rainbow Bridge per entrare nella baia di Odaiba.
Il cielo era terso, limpido, e il sole, già forte e luminoso a quell’ora, l’aveva portato ad abbassare la visiera per proteggere gli occhi e rendergli sicura la guida.
Era domenica, ciò significava niente università e niente tirocinio, e almeno per quel giorno decise di prendersi una pausa dallo studio – nell’ultima settimana aveva lavorato parecchio sodo -, anche se questo non voleva proprio dire essere assente dall’ospedale.
Il calendario appeso in cucina aveva parlato chiaro, oggi: 11 aprile, compleanno del piccolo Otoyan.
Reiji guardò con la coda dell’occhio il sedile del passeggero, sorridendo compiaciuto al pensiero della faccia del suo piccolo amico davanti a quella sorpresa, era certo che non se l’aspettava affatto.
Se non fosse stato per la signora dell’orfanotrofio e per suo fratello minore, il piccolo Cecil, non sarebbe mai venuto a conoscenza del compleanno.
Stranamente Otoya non ne aveva fatto parola con lui nell’ultima settimana.
«Mh?»
Il moro iniziò pian piano a rallentare quando, nell’avvicinarsi alla clinica veterinaria, individuò un volto a lui ben noto sul marciapiede, intento a parlare con Sakagami-sensei.
«Satou-san!» lo chiamò l’alunno dopo aver accostato, interrompendo la conversazione dei due. «Come mai qua? Salve, Sakagami-sensei!»
Il veterinario lo salutò con un cenno della mano, sorridendo. «Da quanto tempo, non ti ho più visto da queste parti.»
«Uh? Vi conoscete?» chiese Satou, impegnato a tenere stretto contro il petto un bentou, dettaglio che non sfuggì agli occhi Reiji: era strano, Satou-san non era solito portarsi qualcosa da mangiare, lo si trovava sempre al bar dell’ospedale per qualche spuntino.
«Abbiamo avuto modo di conoscerci qualche mese fa. Mi pare fosse stato quando mi hanno chiesto di partecipare a quel seminario in università.» rifletté l’uomo, sistemandosi gli occhiali da vista sul ponte del naso. «Non te ne avevo parlato? Deve essermi sfuggito di mente.»
«Ehi, ehi, ehi.» assottigliò lo sguardo, Satou, premurandosi di inarcare un sopracciglio. «Come può esserti sfuggito se ti parlo sempre di lui? Stai seriamente diventando un vecchio bacucco, sai?»
Reiji inclinò il capo di lato, incuriosito dal rapporto d’amicizia che sembrava esserci tra i due. «Lei ha parlato di me?» chiese, avvertendo una piacevole soddisfazione al pensiero.
«Sei il suo pupillo, non sta zitto un attimo quando mi racconta qualcosa che ti riguarda.» confessò Sakagami, ricevendo una spinta da parte dell’altro che lo fece indietreggiare di qualche passo, oltre che ghignare compiaciuto.
«Sta’ zitto, Kousuke! È ancora uno studente, non deve sapere che ho favoritismi nei suoi confronti…» gli inveì contro con un tono di voce basso, come se quello potesse servire a non far sentire nulla a Reiji, distante da loro appena un metro.
Reiji ridacchiò fra sé e sé, sentendosi piuttosto lusingato dalla cosa, ma allo stesso tempo decidendo di non prolungare oltre quel discorso per il bene di Satou-san.
«Stava andando in ospedale? Posso offrirle un passaggio, se vuole.» propose, ricevendo un’occhiataccia da parte del suo superiore.
«Tu non stavi andando in ospedale, vero? Guarda che sono pronto a spedirti a casa a calci, se serve.» minacciò l’uomo sotto lo sguardo divertito del veterinario.
Reiji alzò le mani in segno di resa, indicando poi il sedile del passeggero. «È il compleanno di Otoyan, oggi, volevo fargli una sorpresa insieme ai bambini dell’orfanotrofio, ricorda? Non avrei avuto nulla di particolarmente importante da fare in ogni caso, non mi guardi così!»
Satou rimase a fissarlo male per un altro paio di secondi prima di lasciarsi andare a un sospiro sconsolato, indicando Reiji a Sakagami. «Vedi? Che ti avevo detto? Non so più che dirgli!»
«Effettivamente mi sembra strano che a Masa non piaccia.» commentò, lasciando per un attimo perplesso il moro: chi era “Masa”?
Reiji fece per dare voce a quella domanda, ma si interruppe e al contempo si irrigidì completamente quando, con la coda dell’occhio, vide una certa capigliatura albina passare davanti al suo maggiolino dopo aver attraversato la strada.
Strinse una mano sul volante, e quando Ranmaru lo guardò non ebbe nemmeno la prontezza – o il coraggio – di dirgli quantomeno un semplicissimo ciao.
Il minore, nascondendo dietro a una fredda indifferenza la sorpresa di rivederlo dopo più di una settimana, si limitò a salutare il veterinario e poi entrare nella clinica come suo solito, accompagnato dal fedele basso sulle spalle.
«Uhm, dicevamo? Se vuole salire, io la accompagno ben volentieri, Satou-san.»
Sakagami infilò una mano nella tasca del camice, tirando fuori un pacchetto di sigarette e un accendino. «Non dirmi che da quella volta in clinica non avete più risolto...?»
«Uh? Un litigio? Ah, per questo ho sentito un po’ di tensione all’arrivo di quel ragazzo?»
Reiji abbozzò un sorriso. «Diciamo di sì, in un certo senso…»
Il veterinario guardò il ragazzo e dopo aver inalato del fumo soffiò una nuvola grigia che si disperse nell’aria. «Senti, io e lui abbiamo ancora un paio di cose di cui discutere.» disse, indicando se stesso e Satou. «Se non sei troppo di fretta e hai ancora intenzione di dargli un passaggio, perché nel frattempo non vai a fare quattro chiacchiere con Kurosaki-kun? Che tu ci creda o meno, un giorno mi ha chiesto di te.»
Reiji si prese qualche secondo prima di metabolizzare quello che gli era stato detto. «Prego? Le ha chiesto di me?!»
Sakagami sorrise e annuì. «Si chiedeva se fosse successo qualcosa di grave quel giorno di pioggia, immagino che te lo ricordi. Prima che potessi dirgli che non ne sapevo nulla, ha preferito non ascoltare la mia risposta e da lì non è più tornato sull’argomento. Non penso l’abbia fatto perché alla fine non gliene importasse davvero, ma per quanto ho imparato a conoscerlo, credo non volesse sembrare uno che ficca il naso nelle faccende altrui.»
Ancora una volta, Reiji lo ascoltò come se tutto quello che gli stesse dicendo non fosse vero, non ci poteva credere.
Da come se n’era andato quella sera, tutto aveva capito fuorché potesse in qualche modo essere preoccupato di lui e di come stesse.
Pensandoci, però, da quando l’albino si era improvvisamente offerto di cantare una canzone insieme a lui, al tentennamento che gli aveva procurato dopo avergli chiesto se avesse qualcosa da dire riguardo il polverone tirato su dall’amico, Reiji poteva notare come effettivamente Ranmaru avesse provato a fare qualcosa per lui, a modo suo.
Sakagami vide come gli occhi del moro tornarono pian piano a illuminarsi, abbandonando quella nota triste nello sguardo.
«Se entri ora avrai il piacere di trovarlo in tenera compagnia, il più delle volte è di buonumore quando viene qui. Attraversa il corridoio, prima stanza a destra.» aggiunse il veterinario, indicandogli con un cenno del capo la clinica.
Reiji non aspettò un secondo di più, curioso anche di sapere a che cosa si stesse riferendo l’uomo con le sue parole.
Dopo aver preso dal sedile del passeggero il suo cappello, scese dall’auto e salutò momentaneamente i due, seguendo le indicazioni dategli precedentemente.
Quando arrivò davanti alla porta, però, non entrò subito, ma avvicinò l’orecchio, ascoltando lo strimpellio di uno strumento che fu subito in grado di riconoscere come il basso del ragazzo.
Abbassò piano la maniglia e finalmente si fece strada all’interno della stanza, trovando Ranmaru girato di spalle, seduto a terra, intento – per l’appunto – a suonare qualcosa per un pubblico che scoprì solo con l’avvicinarsi un altro po’ a lui.
«Ma quelli sono dei cuccioli!» se ne uscì all’improvviso con un tono carico di dolcezza e tenerezza, che non fu comunque ben accolto dai due maschi alfa nella stanza.
Se da una parte Ranmaru aveva sperato di aver percepito male quella voce, contando di trovare alle sue spalle Sakagami-sensei, Mike dall’altra si mise immediatamente all’erta, le zampe tese, pronte all’attacco, e la coda incurvata con il pelo rizzato.
«Va tutto bene, loro non sono in pericolo.» lo rassicurò l’albino, lasciandogli diverse carezze che dal capo andarono a lisciare il pelo del dorso, portandolo poco per volta a mettersi di nuovo tranquillo all’interno della custodia dello strumento, ormai uno dei suoi luoghi preferiti in cui trascorrere il tempo quando Ranmaru si presentava in clinica.
«Io invece sì.» grugnì.
Ranmaru sollevò lo sguardo su Reiji, il quale in quel momento gli stava dedicando un sorriso tirato che mal celava la preoccupazione di essere attaccato dal micio, e senza dire nulla tornò semplicemente a guardare i cuccioli, lasciando momentaneamente da parte lo strumento per accarezzare con il dorso dell’indice il muso di Tama, la quale non si era mossa di un solo millimetro, probabilmente sapendo di poter stare più che tranquilla in presenza di Mike e soprattutto sua.
Quando la gatta rispose al suo tocco leccandogli il dito, impegnata nel frattempo ad allattare i suoi piccoli, per Ranmaru fu inevitabile concedersi un sorriso.
Sorriso che non fu visibile a Reiji, poiché una volta che prese posto al suo fianco, piegato sulle gambe con le ginocchia contro il petto, l’albino fu rapido a tornare serio, ritirando la mano dal muso di Tama.
«Quel gatto…» iniziò Reiji, indicando Mike dall’altra parte, in qualche modo rassicurato dal fatto che Ranmaru si trovasse in mezzo a loro, a dividerli. «È quello dell’altra volta?» chiese, e sorprendentemente, per sua gioia, la risposta non si fece attendere troppo.
«Mh.»
“Beh, tecnicamente può considerarsi una risposta, non mi ha ignorato”, pensò mentalmente, gongolando fra sé e sé.
«E questi sono i loro cuccioli?» continuò a chiedere imperterrito, chiedendosi fino a che punto poteva spingersi prima di spazientirlo del tutto. I suoi occhi, nel frattempo, andarono a posarsi adoranti su quei piccoli batuffoli: di così piccoli ne aveva visti solo in televisione o magari in qualche video sui social, dal vivo erano tutt’altra cosa. «Come si chiamano?» nascondere il suo entusiasmo per quelle creaturine gli fu impossibile, ma a Ranmaru quello non parve dispiacere, sebbene gli sembrasse strano parlarci in quel modo, quasi fosse la cosa più naturale del mondo dopo quello che era successo tra loro.
Non ce l’aveva con lui per come aveva reagito alla serata del karaoke?  
«Niko e Ikko, sono nati cinque giorni fa.» disse senza distogliere lo sguardo da loro.
Reiji gli lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio, sorridendo fra sé e sé mentre cercava di resistere alla tentazione di allungare una mano almeno verso la madre, così da concederle una carezza affettuosa – forse, però, non sarebbe stata un’azione saggia in presenza dell’altro gatto, era quasi certo che fosse pronto ad intervenire in qualsiasi momento.
«Sei diventato nonno, allora!»
Ranmaru assottigliò lo sguardo e cercò di capire se quello che aveva detto l’altro era veramente arrivato alle sue orecchie, o se aveva capito male - cosa su cui sperava, ma neanche troppo.
«Hah?» si voltò a guardarlo male, inclinando il capo di lato. «Che diavolo stai dicendo?»
Reiji rise di gusto. «Quello che voglio dire è che per te loro sono molto importanti, no? Un po’ come se fossero parte della tua famiglia, i tuoi figli!» spiegò, lanciando un’occhiata discreta a Mike. «Per arrivare a metterti in mezzo alla strada pur di salvarlo, significa che devi tenerci molto.» da Mike i suoi occhi tornarono a posarsi su Niko e Ikko, ora con lo stomaco pieno e sui cui musetti poteva leggere tanta soddisfazione.
«Ti hanno dato dei bei nipotini, mh? Quasi quasi potrei dire di vedere una somiglianza tra te e loro…» azzardò una battuta che, come c’era d’aspettarsi, non ricevette la reazione da lui voluta.
«Puoi anche smetterla, non sei divertente.»
«Ehhh~» nonostante le sue parole continuò a sorridere, felice di come la conversazione sembrasse filare con naturalezza. Se avesse voluto mandarlo via, era certo che Ranmaru glielo avrebbe detto subito, senza molti giri di parole.
«Mi intratterrei qui ancora un po’, ma-»
«Non farlo.»
«Cosa? Vuoi che riman-»
«No, non intrattenerti qua.»
«Gah-gahn! E io che ci avevo quasi sperato! Devi lasciarmi finire o rischio di capire male e illudermi!»
Ranmaru alzò gli occhi al cielo, scocciato.
«Dicevo che sebbene voglia rimanere qui ancora un po’, tra poco dovrei andare perché ho un impegno. Prima, però, ci tenevo ad approfittare di questo incontro per ringraziarti. Quando quella sera mi hai chiesto di cantare, era perché ti eri accorto che c’era qualcosa che non andava col mio umore?» domandò, sorridendo con tenerezza, proprio come aveva fatto alla vista di quei micetti, quando Ranmaru lo guardò con estrema sorpresa, sgranando gli occhi: se c’era una cosa in cui Ran-Ran pareva fare cilecca, quella era la dissimulazione.
«Non so di cosa tu stia parlando, non ricordo niente di quel giorno.» mentì, portando una mano ad arruffarsi i capelli dietro la nuca. Se da una parte gli era stato pressoché impossibile dimenticare quel brano – di cui aveva addirittura cercato la versione originale per metterla a confronto con la loro esibizione, confermando quanto banale suonasse alle sue orecchie se non cantata da lui e Reiji -, dall’altra Ranmaru non aveva smesso un solo giorno di pensare al modo in cui se n’era andato quella sera, senza dire una sola parola in difesa dei due attaccati da Kurou – e indirettamente anche Hisoka ci era finito di mezzo, un suo compagno di gruppo, altro dettaglio che lo irritava oltre ogni dire.
Conosceva bene i suoi principi, erano i pilastri che l’avevano reso quello che poteva vantare con orgoglio di essere diventato, e ancora non era riuscito a mandare giù il fatto di essere rimasto zitto come un deficiente e aver lasciato la situazione in mano a Hiroto e all’amico di Reiji.
Quel comportamento non rientrava di certo nel suo stile, e anche se la situazione col gruppo si era – grazie a chissà quale miracolo – momentaneamente sistemata, il rimpianto di non aver reagito come avrebbe voluto non mancava di tenere occupata una buona parte dei suoi pensieri.
Ora, nell’avere Reiji di nuovo lì al suo fianco, Ranmaru non sapeva se prendere la cosa come un’opportunità da parte del destino per rimediare al suo sbaglio e mettersi la coscienza a posto, così da potersi lasciare definitivamente la situazione alle spalle.
Reiji si alzò in piedi e infilò le mani in tasca, mostrando un’espressione quanto più amichevole possibile a Mike, il quale si era quasi rimesso sull’attenti, preoccupato per l’incolumità della sua famiglia.
«Studio infermieristica, e da qualche mese ho iniziato a fare tirocinio in ospedale, quindi il mio tempo libero è davvero ridotto. Ammetto di poterne avere un po’ di più, ma sono il tipo di persona che come penso tu abbia capito ama rendere le cose complicate.» sghignazzò, notando una mano alzata da parte di Ranmaru. «Cosa c’è? Hai una domanda?»
«No, sta’ zitto e non andare avanti. Non voglio sentire giustificazioni, sono fatti tuoi.»
«E invece voglio raccontarti un po’, quindi a meno che tu non abbia dei tappi per le orecchie a portata di mano, ti toccherà ascoltarmi~» fece lui, ignorando il ringhio che gli fu indirizzato. «Col tirocinio passiamo in rassegna diversi reparti, però grazie al mio responsabile, quel signore che poco fa stava parlando con Sakagami-sensei, io e altri studenti passiamo del tempo in più nel reparto di oncologia pediatrica, è questo il campo in cui sogno di potermi specializzare.» spiegò, e anche se Ranmaru sembrava mostrarsi occupato ad accordare lo strumento, sapeva benissimo che lo stava ascoltando con attenzione, quindi si prese la libertà di proseguire: «Il giorno dell’uscita ho avuto una discussione con il primario di questo reparto. Diciamo che non è proprio d’accordo con delle cose che mi capita di proporre per i nostri piccoli pazienti. E sempre quello stesso giorno ho avuto qualche problema con uno dei bambini, ma niente di grave, sta solo cercando di abituarsi all’ambiente ospedaliero e nel mio piccolo ho tentato vanamente di rallegrarlo un po’. Ecco, queste due cose assieme avevano contribuito ad abbassare il mio umore, e mi dispiace tanto che sia stato tu a doverti preoccupare di farmi sentire meglio visto che doveva essere l’opposto, ma allo stesso tempo voglio ringraziarti ancora, è stato davvero un bel pensiero da parte tua, Ran-Ran.» disse con un tono carico di sincera gratitudine, piegandosi leggermente in avanti in un piccolo inchino, ricevendo semplicemente in risposta il rumore della lingua schioccata contro il palato da parte dell’albino.
«Piantala di ringraziarmi per qualcosa che non ho fatto. Quella sera mi stavo solo annoiando, e tu e i tuoi sospiri mi stavate infastidendo più del dovuto, dovevo farti smettere prima che perdessi la pazienza.» rispose, evitando di commentare il resto di cui gli aveva parlato, non nascondendo però a se stesso quanto la cosa l’avesse colpito: oncologia pediatrica, se aveva ben presente di cosa si trattava, era roba tosta.
«In ogni caso, per come è arrivato a me, è un gesto che ho apprezzato molto. E per sdebitarmi momentaneamente, lascia che ti dia un piccolo regalo.» disse, alimentando un pizzico della curiosità del bassista, il quale gli lanciò uno sguardo con la coda dell’occhio, osservandolo tutto intento ad armeggiare con il cappello che poco prima aveva in testa.
Reiji poi si piegò in ginocchio di fianco a lui, mostrandogli il cappello vuoto. «Non c’è niente, giusto?» sorrise, divertito dall’espressione perplessa che Ranmaru aveva al momento.
«Macchochu, macchu, macchokyun~!» esclamò dopo aver fatto roteare abilmente la tesa del cappello sull’indice, quasi fosse un pallone da basket, estraendo poi un lecca-lecca al limone dal copricapo, porgendolo in mano al ragazzo. «Et voilà! Spero che ti- Ran-Ran, non fare quella faccia! Rovini la magia del momento!»
«Cambia spacciatore. Non so cosa ti sia fumato, ma ha peggiorato il tuo stato. Ai miei occhi continui ad avere seri problemi…»
«Ehh?! Non ti ha sorpreso neanche un po’?!»
«Non dovevi andartene?»
«Gah!»
Ranmaru alzò di nuovo gli occhi al soffitto. Possibile che ogni volta dovesse fare tutte quelle scene?
«Me ne vado, me ne vado.» singhiozzò fintamente, rialzandosi da terra.
«Il limone nemmeno mi piace.»
«Non hai pietà, tu!»
Ranmaru, però, non poteva negare che rifilargli quel genere di risposte, in fondo – davvero molto in fondo –, non lo divertisse.
«Prima di lasciarti, posso chiederti una conferma?»
«Mi stai facendo perdere tempo, che cavolo c’è adesso?»
Reiji si sentì quasi stupido nel porgergli quella domanda, ma sentiva che con uno come Ranmaru era necessaria per capire in che modo lo vedesse l’altro. «Possiamo considerarci amici?»
L’albino si accigliò. Se si aspettava di prendersi immediata confidenza dopo una semplice chiacchierata e quello stupidissimo trucco di magia, si sbagliava di grosso.
Ancora non sapevano niente l’uno dell’altro, con lui le relazioni non funzionavano in quel modo così superficiale: se era così disperato da volere qualche amico in più nella sua cerchia, che andasse a disturbare altra gente.
«Conoscenti. Amici è una parola grossa.» rispose, trovandosi davanti tutt’altro tipo di espressione da quella che credeva avrebbe assunto: perché stava sorridendo così tanto? Aveva capito ancora una volta quello che voleva lui?
«Conoscenti per il momento va benissimo! Conoscenti significa che ci possiamo rivolgere la parola se ci vediamo, giusto? È fantastico!» esultò, stringendo una mano a pugno, sinceramente entusiasta della cosa. «Ran-Ran, i micetti staranno qua ancora per un po’?»
Ranmaru, ancora preso alla sprovvista dalla sua reazione, rispose senza rendersene conto: «Per il momento sì.»
Reiji nascose un ghigno, impedendo all’altro di intuire i suoi piani. «Bene, ora penso di dover scappare, Satou-san mi starà aspettando! Allora speriamo di rivederci! A presto, Ran-Ran!» fece per correre fuori dalla porta ma la voce dell’albino, richiamandolo, lo fermò.
«Uh? Cosa c’è?»
Ranmaru si massaggiò una spalla con la mano, rimanendo girato di schiena. «Per quella volta, mi… mi dispiace. Kurou è immaturo e-»
«Va bene così.» lo interruppe il moro, trovando oltremodo adorabile quel suo tentativo di scusarsi a nome dell’amico, volendo probabilmente dare voce alle parole che avrebbe voluto dire quella sera. «Grazie ancora, Ran-Ran.» disse con un tono dolce, salutandolo di nuovo prima di sparire dalla stanza, lasciandolo in compagnia degli animali.
Ranmaru sospirò pesantemente, premendosi il ponte del naso tra pollice e indice mentre con l’altra mano si rigirava la stecca di plastica tra le dita, facendo roteare il lecca-lecca.
«Perché ho come l’impressione che si trasformerà in una grandissima scocciatura?»
«Nyan.» gli fece a mo’ di risposta, Mike, colpendolo più volte sul braccio con la coda.
«Lo credi anche tu, eh?» grugnì, osservando la caramella. «Come diavolo ha fatto? Macchoqualcosa e poi è apparso nel cappello. Vi giuro che lì dentro non c’era niente…»
Sebbene prima avesse abilmente nascosto la sua meraviglia davanti al trucco di magia, ancora si domandava quale trucco avesse usato per riuscirci.
«Magari lo fa per i bambini.»
«Nyan
«Dammi ancora del moccioso e giuro che ti butto in strada, Mike.» lo guardò con fare minaccioso, facendogli rizzare il pelo, ma prima che i due potessero iniziare un qualsiasi litigio, Tama miagolò per richiamarli all’ordine, mettendosi poi a leccare il pelo dei suoi cuccioli, come a voler ricordare ai due di evitare qualsiasi discussione che potesse disturbare il riposo dei suoi piccoli.
«Non stiamo litigando.» ci tenne a chiarire Ranmaru, seguito dal miagolio di Mike che sembrò concordare con le sue parole. Poi quest’ultimo si avvicinò alla compagna e ai cuccioli, leccando a sua volta il pelo di uno dei due sotto lo sguardo dell’albino, il quale scosse la testa, sorridendo appena.
«Bastardo, cerchi di salvarti facendo così?»
«Non vorrei interrompere la vostra conversazione.» bussò il veterinario quando entrò nella stanza, facendo notare la sua presenza. «Ma volevo sapere com’è andata.» fece, piegandosi sulle ginocchia al fianco del bassista, accogliendo Mike in mezzo alle sue gambe quando questo gli si avvicinò docilmente in cerca di attenzioni.
«Credo che lei sia l’unica persona al mondo capace di renderlo così.» commentò Ranmaru, decidendo di rimettere il basso nella custodia. «Com’è andata cosa?»
Sakagami accarezzò il pelo tigrato del micio, sorridendo alle sue parole. «Beh, diciamo che sono riuscito ad acquistare punti in più dal parto di Tama.» disse, osservando il ragazzo mettere da parte lo strumento, già pronto a levare le tende.
Probabilmente aveva intuito dove volesse andare a parare con quella domanda.
Percepiva sempre del disagio da parte di Ranmaru quando tentava di parlare di qualcosa che non avesse a che fare con la salute dei suoi gatti, per quello solitamente non cercava mai di spingersi oltre. La situazione era però cambiata appena qualche settimana fa, quando aveva rischiato di assistere alla quasi morte di un suo paziente e del suo padrone.
Ricordava che quando l’aveva portato in clinica, al riparo dalla pioggia, per potergli medicare le ferite che Mike gli aveva lasciato – forse per paura, o forse per invitarlo ad allontanarsi dal pericolo -, Ranmaru non aveva voluto rispondere ad una sola delle sue domande, liquidando il tutto con un semplice “siamo entrambi vivi, è questo che conta”.
E quel genere di risposta, per uno come lui, che nella vita era già tanto se era riuscito ad arrivare a capire quantomeno gli animali, non poteva che rendere le cose più complicate.
Probabilmente non era una situazione che lo riguardava, ma non poteva nemmeno rimanerne impassibile.
Forse perché sotto certi aspetti Ranmaru gli ricordava anche un po’ suo figlio con i suoi modi di fare.
«Col ragazzo, avete risolto? A giudicare dall’espressione con cui è uscito dalla clinica, immagino di sì.»
Ranmaru si alzò in piedi, mettendosi il basso in spalla. «Se lo sa già, perché me lo sta domandando?»
L’uomo scrollò le spalle. «Per parlare un po’, ma vedo che stai già andando via.»
Sakagami prese Mike tra le braccia, massaggiandogli una zampa per impedirgli di tirare fuori gli artigli e graffiarlo: era vero che ora riusciva ad andarci più d’accordo, ma a volte, senza sapere bene cosa passasse per la testa del micio, capitava che si mettesse ad attaccarlo.
«Già, ho delle cose da sbrigare. Si occupi lei di loro.»
«Naturalmente, ormai sai di poterti fidare.»
Ranmaru annuì, guardando Mike: di certo se quel disgraziato era il primo a fidarsi così tanto, lui non poteva che fare altrimenti, significava che venivano trattati bene e con le dovute attenzioni.
«Ah, Kurosaki-kun!» lo chiamò l’uomo, fermandolo sulla soglia della porta. «Non adesso, ovviamente, ma dobbiamo discutere della loro sistemazione. Conosci qualcuno che sarebbe disposto a tenerli? Mi avevi detto che tu non avresti potuto, giusto?»
Quando vide Ranmaru crucciarsi alle sue parole, si premurò di aggiungere: «Senza fretta, ho ancora la possibilità di tenerli per un altro po’.»
«No, ha ragione.» concordò Ranmaru. «Cercherò di trovare qualcuno nel minor tempo possibile, per il momento le devo chiedere di pazientare ancora…» fece per aggiungere altro, ma si bloccò, limitandosi a rivolgere all’uomo un breve inchino prima di uscire.
Sakagami sospirò pesantemente, lasciando che Mike scendesse dalle sue braccia per tornare vicino alla sua famiglia.
Il veterinario si tolse poi gli occhiali da vista e si massaggiò le palpebre con le dita della mano libera, sbuffando. «Avrei dovuto dirlo in un altro modo? Spero di non avergli dato un peso, adesso.»
«Nyan.» si rivolsero a lui i due mici, in coro.
Sakagami li guardò e sorrise, scuotendo la testa. «Qualcuno mi dia il dono di leggere nel pensiero delle persone. Mi tornerebbe davvero utile…»
 
 
§§§§
 
[Ospedale della baia – Ore 10:34]
 
 
«Shh, cercate di non fare troppo rumore.» bisbigliò Van, facendo ben attenzione a non far cadere il fratello minore di Otoya, comodamente seduto sulle sue spalle, quasi fosse un principino sul suo trono. «Sicuro che Inoue-san non ci renderà carne trita, Reiji?»
«Se è un problema, ripeto che possiamo sempre optare per qualcosa di più semplice.» si intromise la responsabile dell’orfanotrofio, tenendo a bada il resto del gruppo, dieci bambini in tutto. «Non vorrei che in qualche modo Ittoki-kun si stanchi e finisca per stare male, dopo.» si guardò poi attorno, sospirando. «E forse siamo un fastidio anche per gli altri.»
Reiji scosse la testa, abbassando la maniglia della stanza, ormai pronto ad entrare, tenendo in una mano un sacco con all’interno alcuni dei giochi dei bambini, ben felici di poterli dare in dono a un loro caro fratello. «Non si preoccupi, ho parlato con le infermiere e mi hanno dato l’okay. E Van-Van, puoi stare tranquillo, Satou-san ci ha già parlato e ha detto che finché non creiamo troppa confusione non sarà un problema.»
Van assottigliò lo sguardo, trovando la faccenda sospetta. «Era ubriaco?»
«Era ubiraco?» lo scimmiottò Cecil, scoppiando a ridere con le manine premute sulla bocca, così che Otoya non lo sentisse, quando Van iniziò a fargli il solletico sulla pancia.
Van voltò di poco il capo all’indietro, alzando gli occhi su di lui per quanto possibile. «Che fai, mi imiti?» sorrise, lasciando che l’altro tornasse ad aggrapparsi ai suoi capelli, appoggiando il mento sul capo.
«Andiamo da Oto-nii?» suggerì allora il minore, impaziente di fare quella sorpresa al fratello e di vederlo sorridere.
Reiji fece l’occhiolino a Cecil, annuendo, e dopo essersi sistemato addosso il fedele naso rosso, pronto a fare per primo gli auguri di buon compleanno a Otoya, il moro si bloccò quando lo vide con la stessa espressione intristita che in quegli ultimi giorni non sembrava volerlo abbandonare. Fermo sulla porta, senza che gli altri dietro di lui capissero cosa ci fosse che non andava, Reiji fu riscosso da una pacca sulla schiena da parte di Van.
«Oto-nii! Oto-nii!»
«Tanti auguri! Ti abbiamo portato tante cose!»
«Il mio dinoshauro ti farà coppania
Uno dopo l’altro i bambini dell’orfanotrofio entrarono, circondarono il letto di Otoya, desiderosi di poter salire e coinvolgerlo in più di un abbraccio.  
«Waah, siete tutti qui! Grazie mille…» sorrise, stringendo tra le mani il lenzuolo. Non avrebbe mai pensato di poter ricevere una festa di compleanno in quella stanza, con la sua famiglia!
Otoya lanciò uno sguardo a Reiji, ancora sulla soglia della porta -  con il suo fedele naso rosso e un buffo cappello verde a cilindro sulla testa, pieno zeppo di fiori attorno alla tesa, e foglie rampicanti su per la tuba -, e quando questo gli ammiccò, non gli fu difficile capire chi lo aveva reso possibile.
«Un attimo! Un attimo!» batté piano le mani, Van, richiamando i piccoli all’ordine. «Ognuno di voi avrà un biglietto di andata e ritorno per il letto del nostro festeggiato, quindi non abbiate fretta! Volerete tra le braccia della Van Airlines e- uh? Perché mi guardate così? Ho qualcosa sulla faccia?» Van si premette un paio di volte il naso rosso, facendolo cadere a terra di proposito, poi si chinò a terra per riprenderlo, dando la schiena ai bambini, e all’interno della tasca del camice schiacciò un piccolo cuscinetto per creare una finta flatulenza.
Van sobbalzò al suono, e tirò fuori dall’altra tasca dei grandi occhiali arancioni, mettendoseli addosso prima di voltarsi verso il suo pubblico, sistemandoseli con un’espressione imbarazzata. «Avete sentito qualcosa, per caso?»
Quegli occhiali erano davvero molto grandi, più della sua faccia, tant’è che non faceva in tempo a tirarli su sul ponte del naso, che questi finivano subito per scivolare, rendendo il tutto sempre più comico.
I bambini, dopo pochi attimi di silenzio, scoppiarono tutti insieme a ridere, Otoya compreso, rincuorando solo in parte Reiji.
C’era visibilmente qualcosa che non andava in lui.
«Van-nii-chan ha fatto la popò!» lo indicò Cecil, premendosi di nuovo il palmo della mano sulla bocca, tentando vanamente di soffocare le risate.
Van saltò quasi sul posto. «Aah?! Non è per nulla vero!»
«Sì, invece!»
«Abbiamo sentito tutti!»
«Puzzi! Puzzi! Puzzi!»
Van si portò una mano sul petto, ferito da quelle accuse. «Allora potete sognarvi i biglietti per il volo diretto sul letto di Oto-chan! È questo che volete?!»
I bimbi si affrettarono immediatamente a circondare Van, questa volta, tirandogli il camice e pregandolo di non privarli del volo. L’aspirante infermiere ghignò, tirandosi di nuovo su gli occhialoni. «Ecco, mi sembrava! Datemi un attimo e ve li… distribuisco…» Van iniziò a cercare nelle sue tasche, poi controllò in quelle dei pantaloni, senza trovare nulla. Perplesso, e leggermente nel panico di aver scordato a casa i biglietti che aveva preparato, lanciò un’occhiata a Reiji in cerca d’aiuto, ma quando vide quel sorrisino sulle sue labbra, intuì subito che cosa avesse fatto. Qualcuno vuole rubarmi la scena, eh?, pensò, non trattenendo una breve risata.
«Van-nii-chan, ti sbirighi?» gli tirò ancora il camice, Cecil, gonfiando le guanciotte.
«Uh? Oh, sì! È solo che mi sono dimenticato che questi biglietti vengono da un posto speciale, e io non ho ancora i poteri per poterveli dare!»
«Un posto speciale…?» chiese un bambino, curioso.
«E come li possiamo avere?» fece una bambina, osservando, come tutti, Van, in attesa di una soluzione.
«Rei-nii ci riesce, secondo me!» esclamò d’un tratto Otoya, attirando di nuovo l’attenzione su di sé. «Rei-nii sa fare tutto!»  
Van schioccò le dita e indicò con pollice e indice di entrambe le mani, a mo’ di pistole, Reiji. «Bingo, Oto-chan! Il nostro Rei-chan è proprio l’unico che può farlo! Perché non ti fai avanti, grande mago?»
Reiji si inchinò davanti ai presenti, lasciando momentaneamente fuori dalla porta il regalo che aveva portato per Otoya, decidendo di aspettare ancora un po’ prima di darglielo.
«Mmh, vediamo un po’, i biglietti per la Van Airlines, hai detto?»
Il moro fece mettere i bambini in fila indiana, piegandosi sulle gambe davanti a loro.
Si strofinò le mani, e per ognuno di loro inventò sul momento una formula magica personalizzata, facendo poi spuntare i vari pezzi di carta da ogni dove: dalle loro orecchie, soffiando sui capelli, fingendo di spargere una polvere magica, e scompigliandoglieli per far apparire il biglietto, o nel caso di Cecil persino all’interno della scarpa, sorprendendo non solo i più piccoli, ma anche Van stesso.
Quei trucchi di magia glieli aveva visti fare un milione di volte da quando si conoscevano, ma ogni volta non riusciva mai a capire come facesse a nascondere il trucco così abilmente.
Reiji aveva l’abilità di far tornare chiunque bambino. Credere nella magia non sembrava più così impossibile con lui, persino Ryosuke si ritrovava a mettere la logica e la razionalità da parte per godersi quei piccoli momenti speciali tra una pausa e l’altra dallo studio. a
Quando Reiji finì di dare a ognuno dei bambini il proprio biglietto, si rialzò in piedi, avvicinandosi a Van. Lo prese per un braccio e gli sussurrò all’orecchio di prendere un po’ di tempo, tenendo i piccoli occupati mentre lui avrebbe parlato brevemente con Otoya.
Van inizialmente non capì il perché di quella richiesta, ma gli bastò che fosse stato Reiji a chiederglielo.
Annuì e, con l’aiuto della responsabile dell’orfanotrofio, raccolse i bambini da un lato della stanza, munendosi dei suoi due compagni di avventure, i pupazzi Peperonzolo e Mr. Babe.
Una delle cose che preferiva era quando gli chiedevano perché avesse scelto quei nomi. Quello della prima, la sua signora, gli era praticamente venuto in sogno, e Van al mattino giurò che la colpa fosse stata della “Pepperoni pizza” che aveva prenotato la sera prima, optando per una cena americana, e soprattutto per il film che aveva beccato una volta accesa la TV: Rapunzel. Era così stanco che si fece andare bene qualsiasi cosa, quindi non cambiò canale e si godette la visione di suddetto film tra un trancio di pizza e l’altro.
Il secondo, invece, doveva il suo nome al famoso Babe Ruth, uno dei giocatori di baseball più forti e conosciuti nella storia del suddetto sport, e ogni volta che lo nominava non poteva che partire in quarta con le sue numerose conoscenze in quel campo, sua specialità praticamente fin dall’infanzia. Anche se capitava spesso che Ryosuke lo mandasse a quel paese o comunque cercasse di ignorarlo quando iniziava a parlarne.
Reiji poteva fare il figo quanto voleva con la magia, ma con il ventriloquismo era riuscito anche lui a ottenere la sua parte di popolarità tra i bambini!
Otoya guardò tutti raccogliersi in quel gruppo, chiedendosi se avrebbe potuto unirsi anche lui, ma cambiò momentaneamente idea quando Reiji gli si sedette vicino, ritrovandosi, peraltro, con addosso il suo naso rosso.
Otoya rise, tastandolo un po’ con le dita. «Me lo regali?»
Reiji avvolse un braccio attorno alle sue spalle, tirandoselo più vicino e facendogli appoggiare la testa sul suo petto. «Posso aggiungerlo al regalo che ti ho già fatto, se vuoi.»
Il minore sgranò gli occhi, sollevando il viso verso di lui. «Mi hai fatto un regalo, Rei-nii?! Dov’è? Posso vederlo?!»
«Oh, sì! Lo vedrai, eccome! Altrimenti non te lo avrei fatto!» ammiccò, strofinando con fare affettuoso la mano sul suo braccio. «Prima però ti va se parliamo?»
«Ho fatto qualcosa?»
Reiji scosse la testa, togliendogli il naso rosso per lasciarglielo tra le mani. «Non hai fatto nulla, sono solo preoccupato per te. È una mia impressione o ultimamente sei un po’ giù di morale?»
L’espressione prima sorpresa e poi intristita che gli riservò Otoya, gli fecero intuire di aver colpito nel segno.
«Mentre Van è occupato con i tuoi fratelli, vuoi approfittarne e dirmi cosa succede? O preferisci prima festeggiare e parlarne stasera?»
Otoya rimase con il capo chino, impegnato a giocherellare con il naso di gomma.
«Io… Io sono davvero felice della sorpresa che mi avete fatto, Rei-nii. Davvero molto…» mormorò le ultime due parole, sporgendo leggermente il labbro inferiore. «P-Però non voglio… festeggiare…»
Reiji si accigliò. «Perché non vuoi, Otoyan?» chiese piano, con dolcezza, premendolo un altro po’ a lui.
«Se te lo dico, mi prometti che non ti arrabbi?» domandò di rimando Otoya, porgendogli il mignolo.
«Aah, ma certo che non mi arrabbio, Otoyan!» gli afferrò subito il mignolo con il proprio, promettendo di non infrangere la parola. «Mi sono mai arrabbiato con te? O con qualcun altro? Nemmeno una volta!»
Otoya esitò un attimo. «U-Un giorno sono uscito dalla mia stanza per andare da Tokiya…» confessò, sbirciando con la coda dell’occhio la reazione di Reiji, che non assunse alcuna espressione in particolare, limitandosi semplicemente ad annuire, così che l’altro potesse andare avanti senza farsi problemi. «P-Però non sono entrato! Sono scappato di nuovo nella mia stanza, quindi non l’ho visto.» ci tenne a chiarire, tornando a guardare Reiji negli occhi.
Reiji gli sistemò la bandana rossa sul capo, annuendo di nuovo. «E cosa è successo? Cos’è che ti ha intristito? Il fatto di non averlo visto?»
Otoya scosse la testa. «Ho sentito delle persone litigare.»
«Delle persone? Nella stanza di Tokki?»
«Sì. E poi due infermiere sono venute a farmi una visita, e hanno parlato di queste persone. Hanno detto che erano i genitori di Tokiya, loro non si vogliono bene…» disse, mordicchiandosi le labbra. «Secondo me Tokiya è tanto triste. Io non ho dei genitori, però ho tanti fratelli che mi vogliono bene.»
 Otoya guardò con un leggero sorriso i suddetti, impegnati a ridere a crepapelle per via delle scene comiche inventate da Van. «E adesso ho anche Rei-nii che mi vuole bene.» disse, portando una manina sopra a quella di Reiji, ancora appoggiata sul suo braccio.
«Tokiya invece non ha nessuno. I suoi genitori non sono bravi se lo fanno stare male! A me non piacerebbe veder litigare la mia mamma e il mio papà… Io voglio diventare amico di Tokiya! Lo voglio tanto! Così ci penserò io a farlo sorridere! E voglio anche fargli conoscere tutti i miei fratellini! Lo facciamo, Rei-nii?»
Reiji stette ad ascoltarlo in silenzio, riflettendo sulla situazione: come potevano aver litigato davanti a un bambino ospedalizzato, peraltro loro figlio? Non si rendevano conto dei danni che questi finivano per causare in Tokiya?
Poteva forse capire in parte lo stress causato dalla preoccupazione per la salute del proprio figlio, ma questo non permetteva loro di sfogarsi in sua presenza.
Al posto di Tokiya avrebbe probabilmente pensato di rappresentare un peso per i due genitori, e se il piccolo era abituato ad assistere a quel genere di scena, non si stupiva più del suo carattere così introverso e distaccato.
«Rei-nii?»
«Uh?»
«Sei arrabbiato, vero?»
Reiji per tutta risposta gli tirò piano una guancia, lasciandoci subito dopo un bacio sopra. «Non lo sono, lo giuro! Stavo solo pensando, tutto qui! Ma perché pensavi che mi sarei arrabbiato se me lo avessi detto?»
Otoya si portò la mano sul punto in cui Reiji gli aveva schioccato il bacio, ridacchiando fra sé e sé al gesto affettuoso. «Perché l’altra volta avevi detto che non mi avresti portato come tuo assistente se non facevo il bravo. E visto che sono uscito di nascosto…»
«Ehi, dopo tutte le cose belle che hai detto di voler fare per Tokki, credi davvero che potrei arrabbiarmi per così poco? Anche se la prossima volta è meglio che mi aspetti per fare queste cose, okay?» gli disse, ricevendo un cenno di assenso da parte dell’altro. «Perfetto. Sai cosa ti prometto adesso?» iniziò, prendendo di nuovo il mignolo di Otoya per intrecciarlo con il proprio. «Che renderemo Tokki un bambino felicissimo, hai la mia parola! Però ad una sola condizione!»
Otoya lo guardò entusiasta, aspettando curioso la condizione. «Quale? Quale?»
«Oggi voglio che tu ti diverta. Capisco che pensando a Tokki la voglia di festeggiare ti sia passata, ma loro…» disse, indicando il resto dei bambini. «Sono venuti qua per te, vogliono che tu ti goda a pieno la giornata del tuo compleanno! E anche io lo voglio, Otoyan. Ci impegneremo ancora di più per Tokki, cercherò dei nuovi incantesimi nel mio librone di magia solamente per lui, ma adesso regalami uno dei tuoi sorrisi più grandi, ne?» ghignò, iniziando a fargli il solletico ai fianchi, scaturendo nel più piccolo delle risate che attirarono inevitabilmente l’attenzione degli altri.
«Va bene! Va bene! Lo prometto! R-Rei-nii, basta!»
«Davvero davvero?» 
«Davvero!»
Soddisfatto, Reiji sghignazzò e fermò la sua tortura, permettendogli di riprendere fiato.
«Bene così! E adesso~» si rimise in piedi, facendo segno ai bambini di avvicinarsi. «Prima che possiate usare il vostro biglietto, perché non andate a recuperare i regali che ognuno di voi ha portato per Otoyan? Così insieme agli auguri lo possiamo circondare di quelli!»
Reiji dedicò una linguaccia a Otoya, seguendo l’esempio dei bambini che erano corsi tutti verso il sacco pieno di doni. «Torno subito anche io.»
Van mise a sedere i due pupazzi sul davanzale della finestra, posando poi le mani sui fianchi. «O non tornare proprio, guastafeste! Hai interrotto il momento in cui Mr. Babe stava per confessare i suoi sentimenti a Peperonzolo!»
Cecil gli sfrecciò davanti per poter essere il primo a salire sul letto di Otoya. «Tanto la storia era butta!» ridacchiò, godendosi l’espressione drammaticamente ferita di Van alle sue parole.
«Cecil, non essere cattivo.» lo riprese Otoya, dispiaciuto per Van.
«Schezzo, Oto-nii!» si giustificò col fratello, stringendosi al petto il suo prezioso gatto nero di peluche prima di rivolgersi anche a Van: «Cusami.»
Van sorrise a trentadue denti davanti a quella scena, scuotendo poi la testa: Cecil era un vero e proprio birbante, molto spesso gliene diceva di ogni nonostante non riuscisse ancora a pronunciare le parole nel modo giusto per via dell’età, ma era pressoché impossibile non trovarlo adorabile e volergli bene.
Il moro gli corse incontro, sorprendendolo per il gesto improvviso, e lo prese tra le sue braccia, facendolo per un attimo saltare in aria prima di riprenderlo al volo, divertito da come il piccolo finì per aggrapparsi a lui.
«Credo di poterti perdonare! Ora perché non mi dà il suo biglietto, signore? Veloce, veloce! Ho altri passeggeri a cui pensare, sa?»
Cecil infilò la manina nella sua tasca per poterlo prendere, ma non trovandolo nella prima passò alla seconda, sgranando gli occhi quando appurò che non si trovava nemmeno lì.
«Cecil-kun.»
Prima che Cecil potesse finire per mettersi a piangere, la responsabile dell’orfanotrofio di avvicinò ai due, porgendogli il foglietto di carta. «L’avevi lasciato a me prima, ricordi? Eccolo qua.»
Gli occhi di Cecil tornarono a illuminarsi. «Gazzie!» annuì, tirando su col naso.
Van ammiccò alla signora, a mo’ di ringraziamento, poi aprì la bocca e chiuse gli occhi.
«Prego, inserisca qua il biglietto.»
Cecil lo guardò dapprima perplesso, poi appallottolò il biglietto e glielo ficcò in bocca senza alcun tipo di delicatezza, rischiando di soffocarlo.
Van soffocò un gemito carico di sofferenza al gesto, sgranando gli occhi.
Okay, forse avrebbe dovuto essere più chiaro...
Dopo averlo fatto volare un po’ per aria, volteggiando un paio di volte su se stesso tra le risate divertite di Cecil, lo fece finalmente “atterrare” vicino al fratello, togliendosi poi quella palla di carta dalla bocca, e premurandosi di spiegare meglio agli altri su come dovessero mettere il loro biglietto, così da non rischiare un’altra volta il soffocamento.
«Tatti aguri, Oto-nii!» fece Cecil, stringendo forte in un abbraccio il maggiore. Otoya lo ricambiò con la stessa intensità, accarezzandogli un po’ la schiena, proprio come faceva Rei-nii per farlo stare tranquillo: voleva trasmettere la stessa sensazione a Cecil.
Poi, interrompendo quel momento, Cecil gli mostrò il suo peluche, lasciandoglielo tra le mani. «Ho pottato Kuppuru!»
Otoya lo guardò sorpreso. «Me lo vuoi lasciare? Dormi sempre con lui, Cecil!»
Il minore annuì deciso. «Obaa-chan ha detto che dovevamo pottare quaccosa per fatti sentire sempere, sempere con noi! E Kuppuru a me tiene sempere coppania, lo farà anche con Oto-nii quando Cecil non è qua!» spiegò con un gran sorriso, prendendo poi una delle zampe del peluche e usandola per accarezzare la guancia di Otoya.
«Ne sei davvero sicuro, Cecil? Riuscirai a stare senza Kuppuru?»
«Per Oto-nii sì!»
Otoya guardò Cecil stupefatto, posando poi lo sguardo sul peluche. Sapeva bene quanto Kuppuru fosse importante per lui, e pensare che era disposto a lasciarglielo, per dargli in qualche modo un pezzo di lui che potesse tenergli compagnia in ospedale, lo rendeva incredibilmente felice.
«Grazie infinite, fratellino.» disse, coinvolgendolo di nuovo in un secondo abbraccio. «Ti voglio tanto bene.»
Cecil annuì, premendo il viso sulla sua spalla e stringendo tra le dita il camice bianco di Otoya. «Io pure, Oto-nii… Stai bene peresto
Otoya annuì a sua volta. «Te lo prometto.»
Van rimase ad osservare la scena con in braccio il prossimo bambino, non sentendosela di interrompere quel momento tra loro – e non sapeva nemmeno come diamine avrebbe fatto anche con gli altri.
Lanciò un’occhiata alla porta, chiedendosi dove fosse sparito Reiji.
Ricordava che il regalo per Otoya se lo fosse portato dietro!
Sospirò, allungando una mano per arruffare i capelli a Cecil. «Ehi, facciamo fare gli auguri anche agli altri?» gli sorrise dolcemente, sperando nella sua comprensione. «Dopo troveremo il modo per farvi stare seduti tutti quanti sopra questo letto, va bene?»
Cecil, al contrario delle aspettative di tutti, non fece alcun capriccio, anzi, si portò subito seduto sul bordo del letto dopo aver stretto per un’ultima volta la mano di Otoya, aspettando che qualcuno lo aiutasse a scendere.
Van ampliò il suo sorriso, porgendogli il suo avambraccio. «Vieni qua, ometto.»
Cecil si aggrappò a lui e venne trasportato fino a toccare di nuovo per terra, prendendo poi posto di fianco alla responsabile dell’orfanotrofio, che gli fece una carezza sul capo.
«Sono davvero contenta di come ti sei comportato, Cecil-kun.»
Cecil le prese la mano, attendendo pazientemente di poter tornare vicino a Otoya insieme a tutti gli altri.
«Gazzie.» disse, tenendo le guance gonfie e stringendo la mano in un pugnetto disteso lungo il fianco.
Prima di venire in ospedale, aveva promesso di non versare nessuna lacrima durante il compleanno di Otoya, perché non voleva rendere triste quel giorno e anche perché stava diventando grande pure lui! Però…
«Uuuh…» tirò sul col naso, e, quando le prime lacrime iniziarono a sfuggirgli, si affrettò subito a premere il viso contro una delle gambe della donna, stringendo con entrambe le mani il tessuto del suo vestito.
Quest’ultima mantenne il sorriso, continuando a lasciare continue carezze tra i suoi capelli.
«Sei stato davvero bravo, Cecil-kun
 
§§§§
 
«Ahhh! Ma come ho fatto a dimenticarmene?!»
Reiji uscì dagli spogliatoi con in mano un sacchetto, camminando a passo spedito lungo i corridoi, facendo tintinnare tra loro i sonagli dei piccoli cembali che aveva portato per ognuno dei bambini, intenzionato a coinvolgerli in un’altra sorpresa per il festeggiato.
Sperò nel frattempo che Van fosse ancora impegnato a far fare gli auguri agli altri, così da poter arrivare in tempo e porgergli il suo regalo.
«Ancora con questa storia?! Digli che deve piantarla, sto esaurendo la pazienza!»
«Perché non vai a dirglielo tu? Io sto solo facendo quello che mi ha chiesto, il resto riguarda soltanto voi due.»
Reiji si fermò di colpo, riconoscendo fin troppo bene le due voci. Non sarebbe dovuto rimanere lì ad ascoltare, aveva già un altro impegno in quel momento, ma la curiosità alla fine ebbe la meglio: di che cosa stavano parlando Satou-san e Inoue-sensei?
Il moro sporse con cautela il viso, osservandoli discutere uno di fronte all’altro davanti ad una delle porte d’emergenza, individuando, tra l’altro, il bentou che Satou-san aveva in mano quando l’aveva incontrato da Sakagami-sensei.
Inoue digrignò i denti davanti alla risposta dell’altro, accigliandosi forse più del normale.
«Crede davvero che dopo tutto questo tempo dello stupidissimo cibo servirà a rimettere in sesto le cose?! Non ha niente di meglio da fare in quella clinica?!»
Satou sospirò. «Mi ha detto che se non è di tuo gradimento, puoi sempre andare da lui a chiedergli che ti cambi il menù. Non sa se i tuoi gusti sono cambiati o meno, in questi anni.»
«Sii serio per una volta nella tua vita, Satou.»
L’infermiere allungò il braccio verso di lui, premendo il bentou contro il suo addome. «Lo prendi o glielo riporti? Se proprio non ne vuoi sapere più di questa storia, puoi sempre approfittarne per andare da lui e parlargli una volta per tutte, non serve a nulla che io vi faccia da tramite. In caso contrario sai bene che andrà avanti finché non otterrà quello che vuole, e non credo che tu sia entusiasta all’idea di avermi come fattorino personale per altro tempo.»
Il primario guardò il contenitore, allontanandolo da sé con la mano senza un briciolo di esitazione, facendo sospirare di nuovo Satou, affranto.
«Sono stanco di ripetermi.»
«Dagli un’altra possibilità! Almeno per spiegarsi!»
«È stato fin troppo chiaro con quello che ha fatto, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.» sibilò, avendone ormai fin sopra i capelli di quella situazione. «E che non si azzardi mai a mostrare la sua faccia in ospedale, sono certo che non risponderei delle mie azioni.»
Satou si portò una mano su un fianco, inarcando un sopracciglio. «A chi vuoi darla a bere? Non faresti male a una mosca, Inoue-sensei, figuriamoci a Kou-chan. Che caso, eh? Ti hanno trasferito proprio in questo ospedale, in questa baia in cui si trova anche la clinica di Kou-chan. Non credi che il destino ti stia dicendo qualcosa?»
Inoue lo fulminò con lo sguardo. «Invece di perderti a pensare a queste stupidaggini da film, concentrati sul tuo lavoro e basta. La prossima volta vienimi a cercare solo se si tratta di qualcosa che riguarda i nostri pazienti.» diede un’ultima occhiata al bentou, assumendo una smorfia. «Se mi trovo in questa situazione, è soprattutto per colpa tua.» disse, decidendo di levare definitivamente le tende.
Satou lo vide andare via, tirando fuori un verso frustrato quando si passò una mano sul viso. «Come se avessi potuto tenergli nascosto che ti trovavi qua.» mormorò, seguendo presto il suo esempio.
Che cosa avrebbe fatto con quel bentou, adesso? Oh, quello che faceva tutte le volte: lasciarglielo sulla scrivania del suo ufficio, nella speranza che forse, prima o poi, uno di questi riesca nell’intento di smuoverlo dal suo orgoglio.
«Com’è complicato… Devo chiedere a Kim-chan un panino speciale, oggi, ho bisogno di recuperare un bel po’ di energie.» borbottò con uno sbadiglio finale, picchiettando le dita di una mano sul contenitore quando prese a incamminarsi verso l’ufficio di Masahiru.
 
Reiji tirò un profondo sospiro di sollievo quando anche Satou-san se ne andò, e ringraziò il fatto che entrambi avessero voltato dalla parte opposta alla sua, senza accorgersi della sua presenza.
Quando aveva sentito Inoue-san avvicinarsi, era arrivato a trattenere il respiro per paura di poter compiere anche il più piccolo movimento, rischiando di essere colto in flagrante per via dei cembali nella sua busta.
«Forse non avrei dovuto ascoltare questa discussione…» fu l’unica cosa che disse, tornando ad affrettarsi per andare nella stanza di Otoya, certo che ormai tutti lo stessero aspettando.
Da quando aveva iniziato il tirocinio in ospedale, nulla gli aveva dato da intuire che Satou-san e Inoue-sensei potessero essere legati da una qualche amicizia, eppure quelle parole, il modo in cui si erano rivolti l’un l’altro, completamente diverso da com’era solito vederli quotidianamente, avevano fatto trasparire che tra i due, o meglio tre, contando Sakagami-sensei, si celava un rapporto che aveva delle basi di anni e anni di conoscenza.
«Forse è di questo che stavano parlando stamattina…» ragionò fra sé e sé, non nascondendo a se stesso una certa voglia di saperne di più.
“Non faresti male a una mosca, figuriamoci a Kou-chan.”
Che cosa era successo tra loro? E soprattutto, che cosa li legava?
 
§§§§
 
«Ooh! Finalmente sei tornato! Stavo per mandare una squadra di ricerca, temevo ti fosse successo qualcosa!» commentò Van quando vide Reiji rientrare dalla porta, tenendo in una mano il sacchetto, e nascondendo con l’altra il regalo per Otoya, dietro la sua schiena – sperando solo che non si vedesse troppo, date le dimensioni.
«Avevo dimenticato questi, non riuscivo più a trovarli!» spiegò, raccontando mezza bugia. «Van-Van, puoi distribuirli a tutti, per piacere?» chiese, sorridendo amorevolmente ai bambini, seduti tutti quanti sopra al letto di Otoya.
«Qualcosa mi puzza, comunque.» commentò Van, scrutandolo attentamente mentre allungava una mano per prendergli il sacchetto. «Da’ qua, per il momento. Parleremo dopo.»
E quello, alle orecchie di Reiji, suonò più come un ordine che una richiesta.
«Mou~ Non è da te essere così serio, Van-Van!» sghignazzò, tentando in qualche modo di cambiare argomento, poi spostò la sua attenzione sul suo piccolo festeggiato, il quale lo stava guardando estremamente incuriosito. «Mmh~? C’è qualcosa che vuoi chiedermi, Otoyan?»
Otoya distese il braccio e puntò l’indice verso di lui. «Che cos’hai lì dietro, Rei-nii?» chiese, impegnato nel frattempo a tenere la mano di Cecil, seduto lì a fianco a lui.
Reiji inclinò il capo di lato, fingendosi confuso. «Uh? Diet- Oh! Oh! Intendi questa chitarra con un fiocco regalo sopra?» fece, mostrando a tutti lo strumento, lasciando ognuno di loro a bocca aperta, e facendo ridere Van per quel breve teatrino con cui se n’era uscito.
«Una chitarra?! È-È per me?!»
Il moro non gli rispose direttamente, si chinò semplicemente su di lui e gli lasciò un bacio sulla fronte, posizionando poi la chitarra in piedi, sulle sue gambe, premurandosi di mantenerla dal manico. «Buon compleanno, Otoyan.»
Otoya fissò lui e subito dopo lo strumento, senza parole. Quella chitarra era assolutamente perfetta per lui, la misura era quella adatta per un bambino della sua età, e maneggiarla non sarebbe stato un problema. E il colore era peraltro di un bellissimo rosso fuoco, diverso da quello delle chitarre normali, proprio come lo erano sui occhi e soprattutto i capelli, almeno poco prima dell’inizio della chemioterapia.
«Rei-nii, è bellissima…» soffiò, completamente rapito da quell’ennesima sorpresa. «Perché me l’hai regalata?»
Reiji si piegò sulle ginocchia, lì vicino al letto, spostando la mano sul corpo della chitarra, così da continuare a mantenerla in equilibrio. «Mi chiedi perché? Non ti ricordi già più quello che mi avevi detto un paio di mesi fa, dopo aver assistito al mio piccolo spettacolo con le maracas?»
Otoya parve rifletterci un attimo, poi gli si accese la lampadina, annuendo con convinzione. «Oh, sì! Che anche a me sarebbe piaciuto suonare uno strumento!»
«Eeeh~ Pensavo te lo fossi dimenticato!» ridacchiò, allungando l’altra mano verso la sua fronte per colpirlo delicatamente con l’indice. «Esatto, piccolo. E di solito la chitarra è perfetta per i bambini della tua età, per questo l’ho scelta. Alle maracas devi passare quando sarai più adulto, nella loro semplicità sono più complicate di quanto non sembrino!» fece, quasi con una nota d’orgoglio nei confronti delle sue bambine, sapendo bene quanto potessero essere sottovalutate le maracas agli occhi degli altri. «Ma non è solo per quello che hai detto. Sai, ogni tanto mi capita di parlare con le infermiere, e in quest’ultimo periodo le ho trovate parecchio contente. Non fanno che dire quanto la tua salute stia migliorando, Otoyan…» confessò, forse un po’ apposta, approfittando della presenza dell’intero orfanotrofio, così da poter risollevare tutti da qualsiasi preoccupazione nei suoi confronti. «Quindi ho deciso di cogliere al volo questa bellissima notizia per farti avvicinare al mondo della musica, ovviamente tramite le mie personalissime lezioni!»
«Rei-chan, sai suonare la chitarra?» chiese a quel punto Van, sorpreso da come il moro sembrasse saper fare praticamente qualsiasi cosa.
Questo si portò una mano a grattarsi la nuca. «In realtà sono più pratico con gli strumenti a percussione, ma in passato ho avuto modo di ricevere delle lezioni anche per quanto riguarda quelli a corde, quindi per le basi dovrei riuscire a cavarmela. E ho anche una canzone che voglio farti imparare a suonare, Otoyan. Sai, l’ho scritta io.»
Un coro di “wow” riecheggiò per tutta la stanza, divertendo Reiji.
Van lo affiancò, colpendolo sul braccio con un pugno. «Per caso da qualche parte hai nascosto anche la donna della mia vita? Giusto per sapere, visto che stai tirando fuori una sorpresa dopo l’altra. È anche il mio turno!»
Reiji scosse la testa con un sorriso, togliendosi dalla testa il cappello cilindrico per spostarlo sul capo di Van. «Prova a chiedere al cappello, magari esaudisce un tuo desiderio.» ammiccò.
Van si passò la lingua sul labbro superiore, colpendolo di nuovo, a metà tra il divertito e forse l’esasperato davanti a quell’apparente perfezione. «Sarà meglio, Grande Mago
Il moro gli diede una leggera spinta, tornando a concentrarsi sui bambini. Prese la chitarra e la appoggiò contro il muro, permettendo così anche a Otoya di usare entrambe le mani per seguirlo con quella sua piccola trovata.
«Allora! Vedete gli strumenti che Van-Van vi ha dato?» domandò, scatenando nei più piccoli un brusio di commenti riguardo a cosa potessero servire.
«Si chiamano cembali, e i vostri hanno una forma particolare detta mezzaluna. Sapete cosa voglio che facciate adesso? È importante, o non riuscirò a cantare al meglio senza il vostro aiuto!» si raccomandò, sapendo bene quanto quelle parole avessero effetto sui bambini della loro età: adoravano potersi sentire utili per qualcosa, migliorava la loro autostima e aumentava il divertimento dell’esperienza se il tutto, alla fine, includeva dei complimenti sulla loro bravura.
«Batteteli contro il palmo dell’altra mano. Non serve che facciate forte, quegli adorabili sonagli suonano che una meraviglia anche con delicatezza! Ecco, proprio così… Seguite il mio ritmo, adesso.» spiegò con tono calmo, gentile, iniziando poi a battere le mani a tempo, aspettando che tutti si sincronizzassero tra loro.
Poi sorrise e, continuando a tenere il ritmo, si avvicinò anche a Van e alla responsabile dell’orfanotrofio, invitandoli a fare lo stesso.
«Bravissimi, tutti assieme. Questa è una canzone che ho scritto tempo fa, e…» soffiò piano dal naso, lasciando la frase a metà. «No, non è così importante. Voglio solo che la ascoltiate, e che magari vi mettiate a cantare con me il ritornello.» tornò vicino al letto di Otoya, guardando uno ad uno i bambini, e osservando teneramente come i più grandi stessero aiutando i più piccoli a mantenere il tempo giusto.
Senza indugiare oltre, poi, iniziò a cantare.
Arigatou no Harmony, questo era il titolo della canzone, e il motivo per cui aveva scelto di esibirla e regalarla non solo a Otoya, ma anche al resto dei bambini, era perché sperava che il messaggio contenuto in quei versi arrivasse a tutti loro.
«I have my family, my friends and everybody who always supports me.»
L’importanza di avere accanto le persone a noi più care, sia nei momenti belli che in quelli meno felici, era qualcosa che gli premeva di poter infondere, specie nel tener conto del loro tipo di situazione.
Nella sua vita, la sola assenza di una figura paterna aveva influito considerevolmente nella sua crescita, nel modo in cui negli anni era maturato, forse prima del tempo rispetto ai suoi coetanei, ed era proprio per questo che non mancava mai di ripetere ai più piccoli di aspettare, di non desiderare così tanto di diventare subito grandi.
Quella spensieratezza tipica dell’infanzia doveva essere assaporata da ogni bambino, anche per chi, come Otoya, era impossibilitato dal viverla pienamente.
«That is a treasure more irreplaceable than anything else.»
In quel momento, nel vederli sorridere entusiasti ad ogni scampanellio di cembali, Reiji poté confermare ancora una volta quanto poco bastasse per renderli felici, e anche che forse non avevano davvero bisogno di lui e di quella canzone per capire quanto importante e forte fosse ciò che li univa.
Erano degli orfani, e probabilmente nelle loro giovani vite avevano passato dei momenti peggiori dei suoi, ma a differenza sua sembravano essere più che consapevoli di possedere – e di dover custodire – quel tesoro che aveva appena nominato.
Ironico.
Che avesse inconsciamente deciso di riportare a galla questo testo per se stesso, più che per Otoya e i suoi fratelli?
Sperava forse che quei bambini lo aiutassero a ricordare i motivi per cui aveva scritto quelle strofe?
«Okay, ora ripetete dopo di me, creiamo quest’armonia insieme.»
Pensieri, su pensieri, su altri pensieri… non era quello il momento.
Iniziò a tenere il ritmo anche con il piede destro, oltre che con le mani, e con un gran sorriso intonò il ritornello, aspettando che gli altri lo ripetessero, e poi lo cantò ancora una volta, ora in coro con tutti gli altri.
«Di nuovo! Mettiamoci un po’ più di voce!»
Che gli prendeva? Cos’era quel tono stridulo?
E no, perché Van-Van lo stava guardando in quel modo? L’aveva percepito anche lui?
 
§§§§
 
 
«Tutto okay?»
Van chiuse il suo armadietto, sistemandosi poi il colletto della camicia bianca che aveva appena indossato.
Reiji soffiò piano dal naso, a mo’ di risata. «Perché me lo chiedi?»
«Non rispondermi con un’altra domanda, dimmi solo se va tutto bene o meno.»
Il moro guardò brevemente l’amico negli occhi, sfuggendo poi al suo sguardo.
«Certo che va tutto bene! È stata una bella giornata, no? I bambini si sono divertiti, la canzone ha avuto succes-»
Van picchiettò un paio di volte le nocche sul metallo dell’armadietto, interrompendolo, poi sospirò.
«Sei libero questa sera?»
Reiji non si fece troppo sorprendere da quell’interruzione e da quel repentino cambio d’argomento: dopotutto aveva ben intuito dove volesse andare a parare con quella proposta.
«In realtà non credo di essere molto in vena per uscire…»
«Perfetto! Allora ti aspetto al solito campo, è da un po’ che non ci dedichiamo al baseball! Facciamo per le nove, vedi di essere puntuale!»
Van non gli diede nemmeno il tempo per ribattere. Ammiccò e se ne uscì semplicemente dallo spogliatoio con una risata, chiudendosi la porta alle spalle.
Reiji, ormai solo, si lasciò andare ad un profondo sospiro, strofinandosi il viso con le mani.
Non passò molto, però, che la porta dello spogliatoio si aprì di nuovo.
Quando Reiji si voltò nella speranza di trovare di nuovo Van, e di potergli dire che per quella sera proprio non se la sentiva, preferendo riservarsi del completo relax per il resto della giornata – così da potersi anche ricaricare in vista di un nuovo inizio di settimana -, si ritrovò a rilasciare un “ah” alquanto deluso nell’appurare che quello appena entrato non era l’amico ma Satou-san.
«Che cos’è quell’espressione?! E quell’ah?! Guarda che potrei offendermi! Anzi no, mi sono offeso!»
Reiji sorrise, scuotendo la testa. «Scusi, Satou-san, è che speravo in Van-Van! Ho una cosa da dirgli, per quello, ma le assicuro che non sono per nulla scontento di vederla! Ha finito il turno di oggi?»
L’infermiere incrociò le braccia, riservandogli ancora un’occhiataccia che risultò comunque poco credibile.
Poi sospirò. «Te la faccio passare per questa volta, ma solo perché no, non ho ancora concluso il turno, e ti stavo cercando per dirti una cosa. Ah, sono anche andato a fare gli auguri a Otoya-kun, e mi ha detto che si è divertito molto, quindi ottimo lavoro!»
«Sì, fortunatamente sia lui che i bambini dell’orfanotrofio- uh?» si fermò quando l’altro portò una mano aperta a pochi centimetri dal suo viso, perplesso.
«Alt, alt! Mi racconterai un altro giorno, non ti stavo cercando per questo.»
Satou alzò l’altra mano, osservando l’ora sull’orologio da polso. «Spero tu non abbia nulla in programma per adesso, perché Kou-chan-» alzò gli occhi al cielo, mordendosi la lingua. «Sakagami, scusa, il veterinario della clinica di stamattina, mi ha chiamato poco fa chiedendomi se potevo farti fare un salto veloce da lui. Ha detto che dovrebbe trattarsi di una cosa di pochi minuti.»
Reiji si accigliò un attimo: di cosa doveva parlare con lui?
«Non le ha detto il motivo?»
Satou scrollò le spalle. «Che ne so, mi ha solo detto di chiedertelo! Anche se ti confesso che sono perplesso quanto te, non capisco perché voglia vederti. Oh beh, fammi sapere non appena ci vediamo! Ora purtroppo devo tornare alle mie cose.» fece, soffocando malamente uno sbadiglio quando si voltò verso la porta.
«Ah, Satou-san!»
«Uh? Dimmi.»
Il moro tentennò un attimo.
Dopo la conversazione che era finito per origliare quella mattina, aveva davvero il diritto di fargli qualche domanda sul rapporto che aveva con Inoue-san e Sakagami-sensei?
Inoltre la tensione che sembrava esserci tra il veterinario e il primario lo incuriosiva parecchio…
Alla fine scosse la testa, grattandosi con fare impacciato la nuca. «No, nulla di che. Mi era solo parso di capire che tra lei e Sakagami-sensei c’è una forte amicizia…»
Satou allargò gli angoli della bocca in un ampio sorriso, e il suo sguardo si fece molto più affettuoso.
«Io e Kou-chan ci conosciamo da più di dieci anni, quindi direi di sì, ci supportiamo e sopportiamo da un bel po’ di tempo…»
 
§§§§
 
«Okay, deve essere uno scherzo.»
Quando arrivò in prossimità della clinica veterinaria, Reiji abbassò il finestrino del lato del passeggero e si sporse verso questo, rallentando poco per volta, fino a quando l’auto non si fermò del tutto e mise il freno a mano.
«Ran-Ran, che cosa ci fai qua? Sei venuto ancora per i tuoi nipotini?»
L’albino sospirò e rilasciò un leggero ringhio, visibilmente scocciato, poi si avvicinò all’auto e approfittò del finestrino abbassato per lanciare sul sedile quello che Reiji riconobbe come il lecca-lecca che gli aveva dato quella mattina.
Il moro lo guardò alzando entrambe le sopracciglia, con in viso un’espressione quasi rassegnata. «Terrò a mente che il limone non ti piace, va bene.»
«Te lo sto ridando per un altro motivo, scendi da quell’auto, adesso. Doc, è arrivato!»
Reiji aprì la portiera e uscì, come dettogli, ma ancora non riuscì a capire per quale motivo Ranmaru si trovasse lì – e soprattutto come mai sembrava essere lui quello interessato alla sua presenza.
Sakagami raggiunse presto i due, uscendo dalla clinica con gli occhiali da vista in mano, impegnato a pulire le lenti con uno dei lembi del camice bianco.
«Oh, ragazzo, ben arrivato.» disse, rivolgendogli un leggero sorriso. Poi si rivolse a Ranmaru. «Preferisci parlarne dentro?»
«No, va bene qua.» rispose, incrociando le braccia nel rivolgere il corpo verso Reiji. «Io e te abbiamo ancora un conto in sospeso.»
Reiji spostò più volte lo sguardo sui due, iniziando ad avvertire un po’ di inquietudine per la sua incolumità. «U-Uhm, Sakagami-sensei, lei non farà da arbitro per un incontro di boxe o qualcosa del genere, vero? C-Credevo che avessimo già risolto! Conoscenti, ricordi?!»
Il veterinario si rimise gli occhiali addosso, potendolo guardare più chiaramente con fare confuso. «Perdonami, non credo di aver capito il perché di questa domanda.»
«Che diavolo vai blaterando, pezzo d’idiota?» fece Ranmaru, schiaffandosi una mano sul viso.
Ancora dubitava davvero del fatto che quella fosse la scelta giusta, anzi, era più che convinto di starsi per infilare in una delle seccature più grandi della sua vita, ma al momento quel demente lì davanti rappresentava la sua unica alternativa.
«Abbiamo un conto in sospeso riguardo al giorno in cui mi hai quasi fatto fuori. E dato che la tua idea per metterti la coscienza a posto è andata a farsi benedire, ti dirò direttamente io che cosa devi fare per sanare il debito.»
«Kurosaki-kun, questa non dovrebbe suonare come una minaccia.»
Reiji, però, si ritrovò a ridere di gusto, avvertendo anche il cuore molto più leggero rispetto a prima: aveva già iniziato a temere il peggio.
«Assolutamente, non c’è problema! Cosa vuoi che faccia? Chiedimi pure qualsiasi cosa, sarò ben felice di accontentarti una volta per tutte, Ran-Ran!» assicurò, battendosi un pugno sul petto e ammiccando, fiducioso.
Ranmaru lo guardò impassibile. «Terrai in casa tua i gatti che hai visto oggi per un periodo di tempo indeterminato, quindi mi auguro che tu viva in un posto quantomeno decente.» spiegò, osservando il sorriso dell’altro spegnersi poco per volta per lasciare spazio a un’espressione che non sembrava più trasmettere tutta quella sicurezza delle parole di poco prima. Prevedibile.
«Detto questo, Doc, le carte sono già pronte?»
«N-No, un attimo! Un attimo! Questo non penso di poterlo fare!»
Ranmaru si accigliò, minaccioso, e Reiji si ritrovò di riflesso a fare un passo indietro.
«Hah? Sbaglio o fino a un minuto fa te ne sei uscito con “sarò ben felice di accontentarti una volta per tutte”? Prenditi la responsabilità delle tue parole e taci.»
«Ma non credevo mi avresti chiesto questo!»
«Allora va’ a buttarti da quel ponte, così risolviamo!»
«Puoi chiedermi anche cose più normali, come un massaggio ai piedi!»
«Disgustoso.»
«Perché non hai mai avuto un massaggio dal sottoscritto!»
«Ragazzi, vi prego.» si intromise ancora una volta tra i due il veterinario, sperando di non dover trasformare quel genere di situazione in una quotidianità, quantomeno per se stesso. «Reiji-kun, posso chiederti di entrare un attimo per discuterne meglio? Poi se dopo averne parlato la tua risposta sarà ancora no, allora non importa, non è qualcosa per cui devi sentirti obbligato.»
«E invece dovrebbe.»
«Kurosaki-kun.»
Ranmaru scambiò una breve occhiata col veterinario, e per quanto avesse voluto ribattere, sapeva bene di essere nel torto in quel momento. Era vero, non poteva di certo obbligarlo a prendere in casa non uno, ma ben quattro gatti, di cui due cuccioli, ma se non lui, a chi altro avrebbe dovuto chiedere? Con Hiroto e Hisoka non voleva avere alcun debito che potessero poi rinfacciargli se anche le cose con questo gruppo non fossero andate per il verso giusto; Yume e Satoshi avevano già fin troppi pensieri con il locale, e Satoshi, oltretutto, non era mai stato un grande amante degli animali, mentre Kurou… beh, su di lui il pensiero non era nemmeno andato.
Usare come pretesto la storia del “quasi incidente” per convincere almeno Reiji era l’unica cosa a cui aveva pensato, ma dopo il comportamento che aveva avuto la sera del karaoke, in realtà, potevano definirsi pari. Nemmeno quello valeva più.
«Allora fa’ come ti pare, non starò qua a pregarti.» sibilò acido, senza guardarlo più in faccia.
Reiji guardò Ranmaru con fare dispiaciuto, adesso, ritrovandosi con le spalle al muro, senza sapere più che fare.
In tutta la sua vita non aveva mai avuto degli animali domestici, e anche se non aveva mai nascosto il desiderio di poterne possedere uno, quattro gatti in una volta forse erano troppi…
«Reiji-kun?» lo chiamò Sakagami, ridestandolo dalle sue riflessioni.
«Beh…» iniziò, spostando di nuovo lo sguardo su Ranmaru, il quale ormai sembrava non avere più intenzione di considerarlo. «Accetto di parlarne, e poi vedrò di decidere cosa fare.» disse, suonando già non troppo convinto.
Il veterinario annuì, posando una mano sulla spalla di Ranmaru.
«Allora entriamo, forse riusciamo a risolvere la situazione.»
 
 
 
           
 
 
 
 
 
 
 
Angolo autrice:
Giuro che sono viva, o almeno credo.
In ogni caso, sono riuscita a ritagliarmi del tempo per poter pubblicare anche questo capitolo (che penso sia il più lungo che abbia mai scritto tra tutte le ff che ho pubblicato su Efp, non scherzo 30 pagine). Diciamo che fino al prossimo vi ho “saziato” anche fin troppo con il quinto, spero che non abbiate un’indigestione e che tutto alla fine abbia un senso visto che alcune scene ho dovuto “tagliarle” per non creare un libro solo su questa giornata (ne avevo ancora di roba da scrivere, e sì, lo so che state tremando al pensiero in questo momento). Come minimo ad aprire la pagina del nuovo aggiornamento scapperanno tutti, quindi tanto di cappello a chi riuscirà ad arrivare alla fine, aspetto sempre con ansia qualche commentino per sapere se questa roba sta piacendo a qualcuno o meno :”)
Per il resto, vi avverto che per il prossimo aggiornamento probabilmente arriverò a pubblicare sempre verso la fine del mese, dato che tra cose legate all’università/lavoro non riesco a gestire il tempo come vorrei, e per rivedere/pubblicare vi assicuro che quasi un’ora la devo perdere *sigh*
Quindi vi chiedo di avere pazienza, e ah, se potete, vi consiglio caldamente di ascoltarvi “Arigatou no Harmony” di Osari Hikaru, la canzone cantata da Reiji in questo capitolo, sono certa che riuscirete a immaginarvi meglio la scena <3
Evito di aggiungere altro perché penso che non ne possiate più di leggermi, quindi alla prossima!
 
 
 
 
 
 

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