Come un'onda d'improvviso

di _EverAfter_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Ricordi il suo nome? ***
Capitolo 3: *** 2. Baka ***
Capitolo 4: *** 3. I ricordi che ho di te ***
Capitolo 5: *** 4. Storia di un quattrocchi e d'una nuotatrice che lo minacciò di morte ***



Capitolo 1
*** Prologo ***








PROLOGO





    «A me piace il tuo nome.»
    Di tutte le cose che avrebbe potuto dire, quella era di certo la più stupida.
    Non che avesse mai pensato che lei fosse intelligente, al contrario: la maggior parte delle volte aveva creduto fosse debilitata cerebralmente. Certo, era sempre stato ben attento a non dirglielo.
    Sospirò.
    Ogni giorno, finiti gli allenamenti, doveva sorbirsela per un’intera ora, prima che il fratello venisse a prendersela. Si chiese spesso cosa provasse un ragazzo grande come lui a sopportare un continuo terremoto di bambina.
    Per questo era contento d’essere figlio unico.
    La fissò infastidito: s’era sempre sentito orgoglioso del suo modo di interagire col mondo, come se niente potesse sfiorarlo. Eppure, con lei era diverso: lo innervosiva come neppure i suoi erano in grado di fare. S’era chiesto spesso il motivo, ma non vi aveva mai trovato una spiegazione; non era una sorpresa che avesse smesso di pensarci.
    «Ho un nome da femmina, baka.» Ben le stava. Forse avrebbe finalmente capito quanto fosse meglio lasciarlo perdere. Ad uno come lui non era mai piaciuto parlare.
    La vide abbassare lo sguardo e prendere a strusciarsi un piede contro l’altro, dando vita ad un fastidioso strofinio. Stava per dirle di smetterla, quando un’improvvisa risata gli giunse alle orecchie, bella e piena di vita.
    Lo fissò e per un istante si sentì smarrito, senza sapere cosa gli stesse per dire. Stava sorridendo, con quella bocca priva di due denti come spesso capita quando si è ancora bambini.
    «E che importa se è da femmina?» gli domandò infine, sghignazzando. «È sempre un bel nome.»
    Voleva prenderla a schiaffi, ma sapeva che certe cose non si fanno, tantomeno su una bambina. Eppure non la sopportava. Decisamente non la sopportava.
    Scattò in piedi, serrando i pugni nelle mani. «Ti diverti a dire cose senza senso?»
    Non gli rispose, ma rimase a fissarlo con i suoi occhi strani, quegli occhi che tanto gli facevano paura – perché diavolo aveva quegli occhi?
    «Smettila di fissarmi!» le sbraitò contro, distogliendo lo sguardo. Sentiva il suo volto imporporarsi. Avrebbe volentieri voluto lasciarla lì, ma il coach Sasabe si sarebbe arrabbiato e gli avrebbe fatto una bella lavata di capo. Ci mancava solamente quello.
    Immerso com’era in quei pensieri, non s’era accorto che la bambina si era alzata, incamminandosi verso il fratello che, in lontananza, correva per raggiungerla. Odiava quel modo di fare, come se non vi fosse mai qualcuno con lei. Come se fosse autorizzata a non dover mai ascoltare nessuno.
    Sbuffò. Almeno per quella giornata sarebbe finita lì.
    La osservò mentre si voltava verso di lui un’ultima volta; il sorriso che vide non era lo stesso delle altre volte. Per un istante, si sentì privato di qualcosa di importante.
    La bambina chinò rispettosamente il capo verso di lui. Quando lo rialzò, si sorprese di vederle spuntare attorno alle palpebre delle piccole gocce d’acqua: lacrime che non si addicevano per niente al suo sguardo sempre spensierato.
    «Mi ha fatto piacere conoscerti, Nanase-kun.»
    Sbarrò gli occhi, mentre la guardava andare via.
    Non la vide, il giorno dopo. Né quello dopo. Né quello dopo ancora.
    Si sentiva sollevato, davvero. O almeno credeva .





    «Ohi, Haru! Ma che diavolo fai!?» Quel bambino era decisamente incazzato. Era la quarta volta che, nuotando, invadeva la sua corsia.
    «Scusa.»
    «Scusa?!» Si sentì afferrare per gli occhialini attorno al collo. «Stai dormendo?!»
    Non lo ascoltava davvero. L’infante continuava a scuoterlo, ma lui stava guardando da tutt’altra parte.
    Guardava l’ingresso principale. La porta degli spogliatoi. Le uscite di sicurezza.
    Non vi erano altre entrate. Strinse i denti.
    «Ho capito» sbottò infine, schiaffeggiando via la mano che lo scrollava bruscamente. «Non c’è bisogno che t’innervosisci così.»
    Il tono della sua voce era calmo come sempre, ma dentro di sé qualcosa gridava. Non riusciva a nuotare come avrebbe voluto, e tutto questo solo perché quella stupida ancora tormentava i suoi pensieri. Cosa diavolo doveva fregargliene, in fondo? Magari non sarebbe più venuta e basta, non era certo un buon motivo per nuotare così male.
    «E allora perché…?» Era un sussurro, il suo. Nessuno l’avrebbe mai potuto sentire. Però forse lei avrebbe potuto riuscirci. Perché era strana e faceva sempre cose che lui non credeva possibili.
    Socchiuse gli occhi, avvolto nella penombra degli spogliatoi. Makoto era fuori ad aspettarlo. Magari avrebbe potuto parlargliene, così da trovare una soluzione. Sì, dev’essere così.
    «Makoto.» Si fermò, mentre attendeva che l’amico si girasse a guardarlo. Quando lo fece, si era già dimenticato le parole. «A te… tu…»
    «Ti senti bene, Haru?» Il tono della sua voce era gentile come sempre.
    «A te…» Si morse la lingua. «A te piace il mio nome?»
    Makoto rimase un istante in silenzio, con la bocca semiaperta e lo sguardo sorpreso. Un timido sorriso apparve sul suo volto, mentre si passava goffamente una mano tra i capelli. «È un nome da femmina, no?»
    «Che importa se è da femmina?» brontolò, dandosi dell’idiota mentre l’amico gli appariva sempre più perplesso. «È sempre un bel nome.»
    Era ovvio che pensasse che fosse pazzo. D’altronde, una conversazione simile poteva apparire normale solo a lei, che era pazza a sua volta. Di quella pazzia che non aveva mai tollerato, senza un filo logico e priva di buonsenso. Quella pazzia così diversa da lui e che forse, un po’, aveva cominciato a piacergli. Quella pazzia che se n’era andata. E che non sarebbe tornata.
    «Makoto.»
    «Sì?»
    «Mi fa male il petto.»
    «EH?!» Il bambino gli si parò davanti, afferrandolo per le spalle. «Andiamo di corsa a casa, muoviti!»
    Non aveva nulla. Era sano come un pesce. Eppure, quel vuoto che sentiva dentro gli faceva male, un male che non aveva mai provato.
    Il signor Tachibana gli aveva sistemato il futon vicino a quello del figlio. «Ho avvertito i tuoi, Haru-chan. Puoi rimanere a dormire qui.»
    Avrebbe dovuto ringraziarlo, ed invece se ne stava zitto a contemplare il pavimento, in silenzio. Makoto non era ancora tornato dal bagno. Il signor Tachibana gli sedette accanto e il bambino si tranquillizzò: s’era sempre trovato bene a parlare con lui. Sentì la sua mano confortante sulla spalla. «Qualcosa ti preoccupa, non è vero?»
    «Signor Tachibana…»
    «Sì?»
    «Mi sento male.» Si schiarì la voce, ma abbassò lo sguardo, certo di stare per arrossire. «Come se mi mancasse qualcosa.»
    Non lo vedeva, ma era certo che stesse sorridendo. «Non sarà per lei? Sai, Makoto me ne ha parlato.»
    Sbarrò gli occhi, fissandolo come vittima di un brutto scherzo. «E che cosa le ha detto?»
    «Niente di particolare» si affrettò a rispondergli, aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Solo che da quando non viene più non nuoti bene.»
    Tornò a fissare dritto dinnanzi a sé. «Dunque, se n’era accorto.»
    «Haru-chan.»
    «Sì?»
    «Non è che ti piaceva?»
    Che sciocchezza. Non poteva certo trattarsi di quello. E poi lui l’aveva sempre trovata bizzarra, quella bimba.
    «Però…» sussurrò, come se il signor Tachibana fosse stato in grado di leggergli nel pensiero fino a quel momento. Abbassò lo sguardo e per la prima volta l’adulto che gli stava accanto intravide l’ombra di un malinconico sorriso. «Però come nuotava…»
    Il suo sguardo azzurro si smarrì al pensiero delle piccole gambe di lei sferzare veloci a cercare il contatto con l’acqua, le braccia esili e tuttavia energiche, lo sguardo inscurito dal riflesso degli occhialini e la schiena lasciata nuda dal costume ginnico, mentre s’immergeva nel suo elemento chiave, quell’elemento che tanto sentiva appartenere a lei quanto a sé stesso. E forse, se si fosse concentrato attentamente sull’acqua della piscina affollata, avrebbe ancora potuto vederla nuotare, tra quelle onde.
    «Come nuotava lei… nessuno riusciva a farlo.» Il bambino alzò la testa e il signor Tachibana vi scorse una tristezza così genuina da risultargli impossibile da consolare.
    «Questo è mal d’amore, ragazzo» si limitò a dirgli, grattandosi la testa.
    «E sarebbe?»
    L’adulto lo fissò, con quel fare paterno che spesso usava nei suoi confronti. Gli posò una mano sulla testa, strofinandogli delicatamente i capelli.
    «È un gran casino, Haru-chan. Davvero un gran casino.»





Lo sclero di ver

Ciao a tutte/i! Eccomi tornata con una nuova storia, è la prima volta che scrivo su Free! e spero davvero che questa storia possa piacervi.
Per considerazioni, critiche o addirittura per chi vorrebbe aiutarmi sullo sviluppo della storia, ogni consiglio è ben accetto! :D



_EverAfter_

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Capitolo 2
*** 1. Ricordi il suo nome? ***


Lo sclero di ver

Ciao a tutte/i! Appena postato questo primo capitolo, dopo tanto rimuginare se continuare o meno la storia - ne ho almeno tre all'attivo e stare appresso a tutte è diventato piuttosto complicato.
Alla fine ha avuto la meglio la voglia di continuare a scriverla, spero che vi piaccia! :D


_EverAfter_










CAPITOLO I
Ricordi il suo nome?





    Se ne sta tranquilla sulla balaustra della vasta terrazza della casa sul mare. È una cosa stupida, anche perché con quel freddo avrebbe potuto fare tante cose, decisamente più sensate di quella – ammesso che potesse avere il buonsenso di pensarci.
    Il vento agita le pagine di una lettera che sembra inghiottire ogni sua convinzione. Guardandola, si sente sempre mancare un po’ il respiro. Magari avrebbe potuto nasconderla sotto il letto e lamentarsi con la professoressa d’averla smarrita per la quarta volta. In fondo, non ci era mica tagliata per una cosa del genere.
    «Dovrai pur fare qualcosa, Hoshino.» Ricorda di averle sentito dire qualcosa del genere.
    Ed in effetti lei qualcosa la vuole fare davvero.

    «Voglio nuotare.»
    «E allora accetta quella proposta e partecipa.»
    «Ma lì si fa agonismo.»
    «E allora?»
    «Non voglio competere.»
    «E cosa vuoi fare?»
    «Voglio nuotare!»
    «Ma come fai a nuotare se non fai agonismo?»

    Mentre rimembra la conversazione disastrosa avvenuta con la docente, decide di fare una passeggiata lungo la spiaggia.
    Come se gliene fregasse ancora delle medaglie, dei trofei. Tuttora ce li ha tutti, e l’unica cosa che fanno è quella di accumulare polvere. Eppure sua madre non vuole buttarli, fiera dell’unica cosa decente che sa fare sua figlia.
    Il vento si fa più insistente e la sabbia le si rifrange contro ogni parte del corpo, appiccicosa a causa delle gocce d’acqua salmastra che le impiastricciano i piedi nudi e la stoffa di jeans che le ricopre le caviglie. I capelli corti le si scompigliano, alcune ciocche ribelli si sfilano dalla piccola coda che ha fatto frettolosamente. Ben le sta, la prossima volta almeno ci penserà due volte prima di andare lì.
    Rimane a fissare un punto impreciso d’innanzi a quell’orizzonte troppo vasto ed il suo occhio non riesce a tenere il passo con il magnifico blu che ha di fronte: l’aria è tersa, e limpida le risulta quella linea che divide beffardamente l’oceano dal cielo – supponendo che entrambi, da qualche parte, abbiano una fine.
    Pensa a tante cose, in quel momento. Così tante da non riuscire a porre un filo che interconnetta tutti i suoi impulsi nervosi. Anche questo giorno sta volgendo al termine; si sente consumare dal Sole calante e dalla mestizia che crogiola il suo animo perplesso e spaesato, mentre ciò che rimane della sua attenzione viene rapito dalla macchinosa danza di un gabbiano dal piumaggio spento, vittima dell’ennesima petroliera di passaggio.
    Lo afferra tra le piccole mani, richiudendo accuratamente le ali dapprima spiegate. Per qualche motivo, ha paura che quelli siano gli ultimi istanti di vita del volatile, ormai caduto sotto la morsa del veleno nero. La scena le incute un certo timore, mentre lo osserva divincolarsi in malo modo da una stretta che aveva creduto essere confortevole; il venerando pennuto s’accascia a terra, fissa il cielo con le belle iridi scure e più non si muove.
    «Avresti voluto tornare al cielo, immagino.» L’eco delle sue parole si perde nell’atmosfera tetra del primo crepuscolo, celando una malaugurata premonizione. Forse anche lei non sarebbe più riuscita a tornare all’acqua come avrebbe voluto fare.
    Forse qualcuno avrebbe davvero deciso per lei, per la sua vita. Forse non sarebbe più stata destinata al suo elemento.
    Allora sì, sarebbe stato meglio fare la fine di quel gabbiano.
    Ripensa alla lettera che ancora scotta sul tavolo della veranda. L’ha lasciata lì perché non debba sentirsi ancora osservata da quella risma, che imprime sulla cellulosa a basso costo la decisione più difficile, quella più detestabile. È come se le bruciasse via quel po’ di ossigeno che le serve per riprendere fiato: condannata ad un’infausta apnea, si sente come quando l’avversaria della corsia accanto le sta davanti e non può permettersi di sprecare neanche una bracciata, perché significherebbe che ha perso.
    La verità è che lei avrebbe potuto nuotare veloce quanto le pareva, ma tanto il tempo l’avrebbe sempre raggiunta.
    Avverte di nuovo quel senso di vuoto colmarle la cassa toracica. L’ironia della sorte è che non si può riempire il nulla con altro nulla, o almeno è quello che si era sempre detta. Eppure, in quel momento, sommersa dall’attacco di panico che ha preso possesso di lei, si chiede se non sia stato il suo destino a portarla lì, a vedere il mare, ad osservare lo spegnersi del gabbiano, a pensare di partecipare davvero a qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
    Socchiude gli occhi, mentre l’oscurità si porta via la nitidezza delle cose intorno a sé: forse se si concentra riesce ancora a vedere le belle lampade a sospensione della balconata di casa. Il buio la fa da padrone ben presto, ma il suo sguardo è ormai abituato alle ombre – poco importa che siano quelle del cuore o del mondo.
    Otto anni.
    La vecchia sé stessa avrebbe cercato d’intravedere, in quello scorrere inesorabile delle lancette, qualche positività. Dopotutto, era sempre stata brava a sorridere mentre nascondeva le lacrime. Dopo il nuoto, era decisamente la sua specialità.
    Inizia a sentire freddo; si stringe nelle spalle, sfregandosi gli avambracci con le mani e appressando il viso nella calda sciarpa di lana grezza che le punge il naso arrossato. Mentre ritorna verso la luce della calda dimora, ripensa che ormai quegli anni passati lì siano stati sufficienti e che forse la sua sensei ha ragione. Forse deve davvero tornare a casa, quella vera.
    Qui, in fondo, cosa mi è rimasto? Ci riflette su.
    Mette un piede davanti all’altro per inerzia, senza neanche pensare d’accelerare il passo stanco: se avesse potuto nuotare nell’aria forse sarebbe stata più veloce, ma non è questo il mondo in cui poterlo fare. Si maledice per essere nata nell’universo sbagliato; la sé stessa che può notare nell’aria sarebbe decisamente più felice: dannata ragazza dell’universo giusto.
    Alza lo sguardo verso la balconata ormai prossima. La sagoma longilinea dell’ormai adulto fratello si staglia lottando contro le luci che le offrono una visione sfocata del corpo atletico del suo consanguineo, ma nonostante questo riesce a distinguere chiaramente le salde mani di lui stringere la missiva incriminata. La alza verso di lei, facendo il gesto di consegnargliela.
    «Cos’hai deciso?» Il tono della sua voce è calmo, ma fitto di quell’impazienza che la sorella ha ormai imparato a distinguere.
    Sarebbe stato meglio chiederle “Hai deciso?”, ma si rende conto che non vi è spazio per un’ironia che lui non riuscirebbe a cogliere. È serio. Anche lei dovrebbe esserlo, ma le è stato insegnato che il metodo più semplice per defilarsi dalle scelte è quello di riderci su, per cui non riesce davvero ad essere onesta con il giovane uomo che le sta di fronte. Un po’ si sente in colpa.
    «Cosa vuoi sentirti dire?» gli chiede senza mezze misure. «Tanto anche se decidessi di non andarmene, tu mi cacceresti a calci in culo, giusto?»
    «Non farei mai una cosa simile.»
    «Ma ci penseresti.»
    Afferra la busta color avorio, indugiando sui caratteri dai tratti energici. Ha ancora un po’ paura di leggere quello che vi è scritto, ma non può farne a meno.


Oggetto: Convocazione Nazionali Giappone
Classe: 200 metri, stile libero
Sezione: Femminile
Girone: Eliminatorie
Batteria: 5ª

    Alla Sig.rina Mizuko Hoshino.
    Analizzato il quadro agonistico e la rapida ascesa in competizioni della suddetta disciplina di nuoto a stile libero, il comitato organizzativo per il Trofeo Nazionale Annuale, valuta la candidata alla 1ª selezione come IDONEA.
    Con la presente la invitiamo a ritornare quanto prima in Giappone, previa consultazione del personale preparatorio e della scuola di appartenenza, per essere trasferita in un istituto locale per l’ufficializzazione della sua partecipazione ai nazionali di nuoto agonistico.
    Certi di un suo riscontro positivo, le inviamo cordiali saluti.
    Staff per il Trofeo Nazionale Annuale.

    Tokyo, 2012-12-12


    Sbuffa, innervosita.
    «Analizzato il quadro agonistico» borbotta, facendo il verso al cerebroleso che ha inviato quella lettera. «Ma si può davvero scrivere una cosa del genere?»
    «Perché, cosa volevi che ti scrivessero? Ciao Mizuko, tutto bene in Francia?» Il fratello è più sarcastico del solito, per quanto riesca a constatare. Quando fa così vorrebbe solo prenderlo a pugni.
    Non risponde, ma rimane in silenzio a fissare l’oceano mentre viene inghiottito dall’ultimo albore crepuscolare. È subito sera.
    Prende coscienza del freddo improvviso, la cui testimonianza si cela nelle piccole nuvolette del suo respiro mozzato a contatto con l’aria frizzantina che la circonda. Sorride come un’ebete, nel ricordare l’infanzia passata fingendo che quelle nubi improvvisate uscissero da una sigaretta invisibile, stretta tra l’indice e il medio della sua mano destra.
    Un tempo le ci voleva davvero poco per essere felice. Cosa diavolo era cambiato?
    Ragiona attentamente e con dignitoso raziocinio – o almeno questo è quello che pensa. «Ne, Kaito.»
    «Che c’è?»
    Si sente fissata, ma non ha alcuna intenzione di ricambiare lo sguardo. «Il mare in Giappone è ancora lo stesso?»
    È ormai abituato alle bizzarre domande che gli pone ogni volta, per cui non si stupisce di vederla così assorta nei suoi pensieri sconnessi. Quesiti che non avrebbero mai avuto senso per qualcuno, ma per lei… quella è un’altra storia.
    «Suppongo di sì» si limita a risponderle, assecondando la vista della sorella e concedendosi anche lui di guardare l’orizzonte troppo scuro per poter essere ancora apprezzabile.
    La giovane sospira, frustrata all’idea di essere ancora vittima di un burattinaio astratto che si diletta a tirare i fili della sua vita a proprio piacimento. La verità è che non c’è mai stata una vera scelta da fare, lei questo lo sa bene.
    Deve solo chinare il capo ed accettare per l’ennesima volta d’essere quell’involucro fatto di carne che affronta il cambiamento sorridendo, come ogni bambola sa fare. E in effetti, se ci pensa, non ha mai visto una bambola triste. In fondo, cosa importa… sono vuote.
    Già. Vuote.





    Le gocce gli cadono dalla chioma scura; una per volta scivolano veloci lungo i capelli lisci per precipitare nuovamente nell’acqua che riempie la vasca, creando piccoli cerchi che si disperdono tra le pareti del piccolo abitacolo.
    Non riesce ancora a sentire Makoto chiamarlo. Forse è ancora troppo presto.
    Poggia la schiena contro la parete bianca di ceramica; si sente più stanco degli altri giorni, ma non sa spiegarsi il motivo. Fissa il delfino posto sulla mensola d’innanzi allo specchio: da quando era piccolo, aveva sempre trovato una certa affinità con quel mammifero. Gli piaceva il suo modo elegante di nuotare e la fierezza dei salti, a contatto con l’aria densa delle gocce che il suo maestoso tuffo generava.
    Rivede nella sua mente lo sguardo del rosso al club di nuoto ormai abbandonato, il suo incedere pretenzioso, la voce carica di rabbia. Si chiede cosa possa essere successo per averlo fatto cambiare così repentinamente, ma prima che possa rispondersi una stilettata dritta nel petto sembra trapassarlo, mentre ripensa al suo primo anno di medie, alla loro sfida, alle lacrime del compagno troppo orgogliose per poter abbandonare le sue ciglia.
    Forse è davvero colpa sua, se Rin è in quelle condizioni. Prima di adesso non ci ha mai riflettuto troppo, per paura di trovare risposte scomode che avrebbero generato solo altri sensi di colpa.
    S’immerge sotto il pel d’acqua, lasciando le bolle che fuggono dalla bocca salire veloci a cercare la luce che penetra dalla finestra. Ha gli occhi chiusi, e nell’oscurità delle palpebre serrate si susseguono una serie di ricordi confusi, sbiaditi e senza apparente significato: l’alone nebbioso del suo passato plasma la fisionomia di un Makoto molto più giovane di adesso, un Nagisa decisamente piccolo e Rin, con ancora stampato in volto quel ghigno che aveva imparato a riconoscere come suo carattere distintivo.
    Lì, sperduto nel buio della mente, vede la vecchia felicità dell’infanzia svanire via e l’acqua voltargli le spalle. Come quella volta.
    Riemerge di colpo, non abbastanza svelto da evitare di ripensare a quegli occhi. Si sente scosso; avrebbe giurato di rivedere l’immagine distorta dell’amico mentre vince la loro recente sfida, ma ciò che gli si palesa davanti è la malinconica vista di uno sguardo dalle gemme preziose, l’una zaffiro e l’altra rubìno. Deglutisce a fatica, ingoiando parte dell’acqua della vasca, la quale scivola veloce lungo l’esofago, a strozzargli la gola che si ribella a suon di piccoli colpetti di tosse.
    «Haru?»
    Sente i passi rassicuranti di Makoto farsi strada nel bagno mentre riprende ancora fiato. Lo sente avvicinarsi al bordo della vasca, ma ancora non riesce a guardarlo. Respira col diaframma, certo di riuscire a ritrovare il contegno.
    «Tutto bene?»
    «Perché lo chiedi?» Sa di aver fatto una domanda stupida. In fondo da quando è entrato l’amico, non ha spiccicato parola e non s’azzarda neppure a guardarlo.
    Makoto si gratta la testa. Trattare con Haru, a volte, può risultare complicato. «Immaginavo che… beh, la faccenda di Rin, sai…»
    Si volta finalmente a guardarlo. Nel suo sguardo non vi è nulla che possa tradirlo, eppure in cuor suo avverte ancora il disagio per essersi concesso, anche solo per un istante, un ricordo proibito.
    «Va tutto bene.» Afferra la mano dell’amico che come sempre è il miglior sostegno al suo improvviso mal di vivere.
    Sente di essersi ripreso, ma non appena poggia il piede sul tappetino di spugna, un terribile macigno si salda attorno al suo petto come il più terrificante degli abbracci. Mantiene il controllo, nonostante tutto. Non vuole che l’amico si preoccupi inutilmente.
    Si avviano a passo svelto verso l’istituto, con le cravatte ben annodate attorno al colletto delle camicie lise. Il sole accecante s’afferma litigioso contro il freddo frizzante dell’aria di dicembre, mentre attorno ai due amici un clima sempre più natalizio prende vita attraverso lustrini e luci colorate – decisamente una cosa che non potrebbe essere più indifferente agli occhi azzurri del giovane nuotatore prodigio, che certo non ha mai apprezzato le convenzioni sociali.
    Natale può significare solo una cosa: fa troppo freddo per andare in acqua. La cosa lo urta parecchio, ma sa che esternando una simile puerilità il castano rischierebbe di scoppiargli a ridere in faccia, osservandolo con sguardo dolce e divertito al tempo stesso. Non ha decisamente voglia di rischiare d’essere preso in giro.
    Camminano silenziosi lungo la stessa strada di sempre, ma lo sguardo cobalto del meno alto non riesce a giovarsi del bel panorama terso dell’oceano alla loro sinistra, che come sfondo leggiadro diletta gli intraprendenti pescatori. Non riesce a bearsi di quell’immensità, poiché la mente intrisa di pensieri sconnessi ancora non vuol saperne di lasciar andare il nefasto ricordo sortogli di sfuggita mentre era ancora nella vasca.
    Erano anni che quello sguardo non sorgeva spontaneo ad irretirgli la mente; in cuor suo sperava di essersene disfatto.
    Dopo tanti anni passati a rimuginarci su, ancora non gli è chiaro come lo faccia sentire tutta quella storia. Non sa se provare tristezza, rabbia, delusione, felicità… è uno di quei ricordi cogitabondi e sopiti, fitti di mistero e che perciò devono essere dimenticati, o in altro modo si rischierebbe d’impazzire. Questo è ciò che si è sempre detto per giustificare la sua incapacità di porre un freno a quelle domande senza mai risposta.
    «Haru.» Non ha bisogno di fissare l’amico per capire come si sente.
    Per quanto voglia lasciarlo fuori da tutta questa faccenda, si rende conto che ormai ha compreso tutto. «Ho una domanda da farti.»
    L’aitante giovane presta subito l’orecchio. Per qualche motivo, Haru sembra imbarazzato. «Tu… ti ricordi il nome…»
    «Eh?»
    «Fammi finire» lo rimbecca il corvino, sbuffando. Non è semplice per lui parlarne, figurarsi ammettere di star pensando ancora ad una sciocchezza simile. «Ti ricordi il nome di quella bambina?»
    Makoto gli appare sempre più perplesso. Non è la prima volta che gli fa domande strane, ma questa le batte decisamente tutte. Se Nagisa o qualcun altro avessero posto a lui la stessa domanda, probabilmente si sarebbe limitato a voltar loro le spalle e a fare finta che fossero pazzi. La trova tuttora la soluzione più logica.
    «Haru…» Lo sguardo intenso dell’amico si oscura di una certa preoccupazione. «Non è che…»
    Vuole chiedergli se ci sta ancora pensando. In effetti, si dice il moro, è una domanda del tutto lecita. Si stupirebbe se non gliela facesse. «Voglio solo ricordarmi il suo nome.»
    «In realtà te lo ricordi perfettamente, non è vero?» sbotta Makoto, grattandosi nervosamente la nuca. «Non ne avevamo già parlato?»
    No, vorrebbe rispondergli, non l’abbiamo mai fatto. Se l’avessero fatto, probabilmente lui non starebbe lì a cercare disperatamente di dimenticarsi del peggiore tra i fantasmi del suo passato. Distoglie la mente dal dolce ricordo del sorriso sdentato che si allontana, soffermandosi sul volto incupito dell’amico. Vorrebbe dirgli ancora che va tutto bene, come la sua presunzione gli ha imposto quella mattina, quando Makoto era giunto a casa sua con la speranza che anche quella fosse una giornata normale.
    Beh, non lo è. Non lo è affatto.
    Il castano si schiarisce la gola, riacquistando la sua solita lucidità. Sa bene che turbare Haru risultandogli seccato non è un buon metodo per lasciare che si confidi, per cui decide di deporre l’ascia da guerra, inseguendo il deflusso rapido dei pensieri in piena del bruno.
    «È passato tanto tempo, però…» Cerca di pensare con tutte le sue forze a quel nome incastrato nella sua memoria, quel nome addormentato e che ricorda molto bene. Quel nome che deve avere il coraggio di pronunciare, se questo può liberare l’amico dai propri incubi. Lo vuole, lo desidera con tutto il cuore.
    Che Haru torni ad essere libero.
    «Si chiamava…»





    «Mizuko Hoshino. Yoroshiku onegai shimasu[1]
    Percepisce i mormorii dei suoi compagni di classe. È abituata a tutto questo: probabilmente si staranno già chiedendo chi sia, cosa ci fa nella loro scuola, perché si è trasferita a dicembre e soprattutto da dove sono sbucati i suoi occhi diversi ed intimidatori.
    Il sorriso perlaceo che rivolge ai compagni è lo stesso di sempre, bello e sfavillante come quello di tanti anni prima. Si sente spaesata, come se quel luogo non gli appartenesse più come un tempo, ma è certa di celare il suo disagio: lì, dopotutto, non la conosce nessuno.
    I mormorii si levano sempre più crescenti, mentre un ragazzo alza la mano, scambiando una gomitata di assenso con il suo vicino di banco.
    «Sei fidanzata?» Delle risatine si levano dal fondo dell’aula. Ha già capito che l’ultima fila è da evitare come la peste.
    «No» risponde senza scomporsi. «È morto.»
    Capisce subito che il suo scherzo non è stato considerato tale dal resto dei presenti, poiché un silenzio glaciale scende a rendere l’aula improvvisamente fredda. Non è mai stata molto brava, con quel tipo di goliardie.
    «Scherzavo.»
    Sente levarsi dei sospiri di sollievo e qualche risatina nervosa, ma il clima rimane teso fino a quando il sensei non le chiede di sedersi da qualche parte. Con sua insolita sorpresa, vede le mani di molti alzarsi per cederle i propri posti. Rimane impalata come uno stoccafisso, senza pronunciare parola.
    Non è più abituata a socializzare, si dice. Forse avrebbe dovuto ricominciare. China rispettosamente il capo, scegliendo uno dei posti accanto alla finestra: almeno, da lì, avrebbe potuto guardare il cielo, se proprio la vista le impediva di vedere l’azzurro dell’oceano.
    Sposta distrattamente lo sguardo alla sua destra, osservando le fattezze del suo vicino di banco. Sembra diverso rispetto al resto dell’omogeneità maschile. Capisce subito che deve praticare qualche tipo di sport che gli permetta di avere un fisico decisamente più allenato e asciutto del resto dei ragazzi presenti: forse basket, magari judo.
    Risalendo su a fissargli l’ampio petto nascosto dall’uniforme scolastica, si sofferma sui corti capelli blu e su uno sguardo che non riesce subito a focalizzare a causa degli spessi occhiali rossi che gli circondano le cavità oculari.
    Il ragazzo si volta nella sua direzione e arrossisce, distogliendo lo sguardo immediatamente, nonostante tenti ancora di studiare i suoi movimenti con la coda dell’occhio; le sembra quasi tenero, mentre è intenta ancora a comprendere il pigmento che gli caratterizza l’iride. Non si preoccupa affatto di apparire sfrontata, d’altronde prima o poi dovrà comunque fare la sua conoscenza.
    «Ohi» biascica d’un tratto, facendola sobbalzare. «Ho qualcosa in faccia?»
    La ragazza sbarra gli occhi, trattenendo a stento una risata. Se qualcuno vedesse lei in quel modo, probabilmente penserebbe che è pazzo, no di certo darebbe la colpa alla sua faccia.
    «No.»
    «E allora che hai da guardare?» È infastidito e, a giudicare dal rossore delle goti, piuttosto imbarazzato.
    «Ah.» Deve trovare qualcosa di sensato da dire, ma sa perfettamente che le sue sinapsi si divertono da morire a vederla in difficoltà. «Beh. È che non riesco a vedere il colore dei tuoi occhi.»
    Rimane a fissarla imbambolato, incerto se credere di aver capito male o pensare che sia davvero fuori di testa. Eppure, nonostante il suo penetrante sguardo, si rende conto che non ne è affatto spaventato, al contrario: perché diavolo un tappo del genere avrebbe dovuto incutergli timore?
    Con l’indice si porta gli occhiali più vicini all’attaccatura del naso, sbuffando. «Tecnicamente sono color malva
    Lo fissa. Teme di scoppiargli a ridere in faccia da un momento all’altro, ma si contiene; non ha voglia di apparire maleducata. «Sono viola.»
    «No, malva» la rimbecca nuovamente il ragazzo. «Viola è un altro colore.»
    «Che diavolo di differenza vuoi che ci sia tra malva e viola?!»
    Ecco. Niente, non riesce proprio ad avere un bel carattere; tuttavia, il suo interlocutore non sembra scomporsi minimamente. Si lascia sfuggire una risata supponente e decisamente isterica, mentre la guarda con fare superiore. «La malva possiede delle note purpuree che la rendono decisamente differente da un comunissimo viola.»
    La ragazza si sporge di colpo verso di lui, suscitandogli un improvviso rossore.
    «C-che stai facendo?» È perplesso, ma lei non ha alcuna intenzione di rispondergli.
    Lo fissa negli occhi, con lo sguardo di chi ha intenzione di svelare un mistero. Finita l’indagine si rimette a sedere composta sulla sua sedia, incrociando le gambe e imitando qualcuno che si sistema gli occhiali. «Non è presente alcuna nota purpurea nei tuoi occhi.»
    «Certo che sì!» Questa volta è lui a sporgersi verso di lei, alzando di scatto gli occhiali all’altezza della fronte ed indicandole l’iride con il dito. «La vedi? Eh!?»
    Lo fissa con sufficienza, preoccupata che possa accecarsi da un momento all’altro. Quel tipo è davvero strano – ma, in fondo, non sembra poi così male. Sorride sorniona, nascondendo il ghigno nella sciarpa di lana. «Ora che mi fai vedere meglio, si nota qualcosina.»
    La vena che ti sta per uscire dall’orbita, vorrebbe continuare, ma si trattiene, contenta che quella risposta sia sufficiente a risollevargli il morale. Sta per voltarsi nuovamente verso la finestra, pronta a perdersi in malinconici pensieri, quando il compagno si schiarisce la gola.
    «Ryugazaki» si limita a dire.
    Gli concede uno dei suoi migliori sorrisi, sorprendendosi di quanto sia autentico. Quel ragazzo strano e dall’aria allucinata gli sta già simpatico. Si sorprende di quanto abbia voglia di parlare con lui, nonostante la lezione stia ormai per cominciare: è la prima volta, dopo tanto tempo, che parla di qualcosa che non sia il nuoto.
    Economia domestica.
    Fantastico, pensa, maledicendosi per non essere mai stata attenta durante le lezioni della docente francese. È la materia dove va peggio, se possibile, dopo la matematica.
    Si china a prendere il quaderno dalla sua cartella, scorgendo in mezzo ai banchi un portachiavi a forma di pinguino che ricorda esserle famigliare. Aguzza lo sguardo, rimanendo rigida sotto al banco.
    Il ragazzo la studia come fosse ormai un caso clinico. «Ohi.»
    «Ai.» Nell’alzarsi velocemente, sbatte violentemente la testa contro la faccia inferiore del banco. «OUCH!»
    «Stai bene?!» La voce del giovane è troppo vicina, tanto da averle sfondato il timpano.
    Metà della classe sta sogghignando, mentre l’altra si sta ancora chiedendo cosa sia stato quel tonfo sordo. Mizuko fa un cenno timido con la mano, a tranquillizzare quei pochi che, insieme a Ryugazaki, hanno manifestato un po’ di preoccupazione.
    Bene. È lì da pochi minuti ed è riuscita a collezionare una serie di figure di merda che potrebbero bastare per anni. Si chiede come sia possibile che il contegno che era solita portare in Francia non abbia deciso di accompagnarla anche in Giappone.
    Dopotutto, la città d’Iwatobi è il luogo dove è nata, dove ha imparato a nuotare, dove per la prima volta ha nuotato in una vera gara, con vere persone che facevano il tifo e gridavano il suo nome.
    Eppure, da quando ha rimesso piede in quel luogo, non le è mai sembrato così sconosciuto come adesso: la placida città portuale di un tempo le appare priva di stimoli, un’istantanea del suo passato che non è più in grado di concederle niente. Un’insolita malinconia le piomba addosso, se ripensa a quanto abbia pianto pur di non dover lasciare quel posto.
    Alla ricreazione le si affiancano tutti, curiosi d’ascoltare la bella favola della ragazza giunta d’oltreoceano. Una favola che però lei non sa raccontare.
    «È vero che vieni dalla Francia?»
    «Sì.»
    «Com’è il tempo lì, in questa stagione?»
    «Freddo.»
    «Hai difficoltà a parlare il giapponese dopo tanti anni?»
    «No.»
    «Ohi.» Un ragazzo si sporge dalla calca, in preda ad un’isterica domanda. «È vero che sei una nuotatrice professionista?»
    Domanda sbagliata. Serra la mascella, pronta a gettare veleno contro il povero malcapitato, ma si accorge, alzando lo sguardo, che lui la sta fissando con gli occhi sbarrati.
    Immersa nelle sue grandi pozze rosate, Mizuko si vede riflessa come nel più limpido tra gli specchi. Rimane a bocca aperta, mentre l’eco del suo passato sfiora le mille sfumature dai petali di ciliegio di quegli occhi a lei tremendamente familiari.
    «Mizu-chan» lo sente sussurrare.
    Per un istante, è contenta di sentirsi chiamare con quel nomignolo. Cerca di non apparire troppo sorpresa, ma prima che possa rendersene conto è già in piedi, stritolando il giovane come fosse un pupazzo di pezza.
    «Nagisa-kun!»





    «Sei cambiata tantissimo!»
    Nagisa non riesce ancora a credere che la giovane ragazza di fronte a sé sia l’ingenua e dolce Mizuko che tanti anni prima faceva parte del loro stesso circolo di nuoto.
    Ripensano con nostalgia ai bei tempi andati, seduti lì sulla terrazza della scuola, certi di non essere disturbati. È contento di potersi concedere un po’ di tempo in compagnia di una vecchia amica, una conoscenza del passato che ritorna nel suo presente come se non se ne fosse mai andata.
    Si sente in difetto a non averne ancora parlato con Makoto e Haruka, ma si convince che fare il ruolo dell’egoista, per quella volta, non possa nuocergli più di tanto.
    «Quindi era vero che ti eri trasferita in Francia.»
    «Sì, assolutamente.»
    «E com’era lì?» La sua domanda cela un innegabile senso di curiosità.
    Mizuko se ne rende conto, ma non riesce a mentirgli, per quanto sia convinta che le sue parole possano risultargli presuntuose. Poggia le mani dietro la schiena, fissando il cielo. Forse a Nizza, in quel momento, il cielo non è poi così azzurro.
    «Era davvero adorabile» dice infine, persa nell’unico blu che le è consentito vedere.
    «È vero che hai frequentato un’accademia di nuoto professionale?»
    «Già.»
    «Racconta!»
    L’entusiasmo del giovane amico l’aveva sempre colpita, ma rimane sorpresa di vederlo così interessato alla sua vita passata: non le era mai sembrato tipo da interessarsi alle vicissitudini degli altri, nonostante fosse un rinomato impiccione.
    «Cosa vuoi sapere?»
    «Ogni cosa!» Sente le dita sfiorare la pelle morbida del compagno. La sua mano è decisamente più robusta dell’ultima volta che ne ha percepito la presenza. «Non biasimarmi! Sei scomparsa da un giorno all’altro senza dire niente!»
    Vorrebbe ancora scusarsi per quel comportamento, ma si convince che con il racconto della sua vita fino a quel momento potrebbe fare ammenda per l’incresciosa fuga di tanti anni prima.
    Sospira, soffocando una risata accondiscendente. «Gomen nasai[2]. Neanch’io sapevo che sarei dovuta partire.»
    Lo sguardo che il ragazzo le rivolge non potrebbe essere più dolce di quello che le riserva proprio lì, tra un boccone del bento[3] e l’altro.
    Mizuko si sorprende di quanto sia cresciuto il piccolo bimbo che tanti anni prima si tuffava in piscina con la spensieratezza di una gioventù ancora tutta da vivere; non avrebbe mai creduto che quegli occhi così fugaci e dediti solo alla leggerezza dell’attimo, potessero risultarle or ora così affidabili e saldi pur nella loro ancora celata acerbezza.
    «Sono stata un’atleta in una scuola molto antica che ha come scopo la formazione di nuovi talenti per l’agonismo a livello nazionale.»
    «Sugoi[4], Mizu-chan! Sei davvero diventata una professionista!?»
    Non vuole affatto deludere le aspettative dell’amico, ma invece di rispondere a quella domanda con la sicurezza di cui un esperto del settore si farebbe vanto, rimane in silenzio, nascondendo ciò che le risulta essere disagio. Nagisa rimane a fissarla, confuso.
    «Mizu-chan, ho detto qualcosa di sbagliato?» La sua preoccupazione è resa tangibile dal modo in cui le stringe la mano, spaventato all’idea di averle arrecato dell’imbarazzo.
    Gli sorride mestamente, rifiutandosi d’intristire il tanto entusiasta biondino. «No, affatto.»
    «E allora cosa? Sembri così triste.»
    Ridi, è la cosa migliore. Fa ciò che la sua mente gli ha acutamente suggerito, ottenendo l’effetto sperato: Nagisa sembra tranquillizzarsi.
    «Ma che dici!» lo rassicura, grattandosi la nuca coperta dai corti capelli biondi. «È solo che tornare dopo tanto tempo… beh…»
    «Dev’essere stata dura per te, in questi anni.» Come si aspettava, l’amico è davvero cresciuto.
    «Sì, forse è così.»
    «Le aspettative che le persone si saranno fatte su di te devono metterti sotto pressione.»
    «Già.»
    Rimangono in silenzio per un po’ di tempo. Vorrebbe chiederle così tante cose, Nagisa, da non riuscire a trovare un filo conduttore per rendere il discorso sensato. Non gli capita poi spesso di poter incontrare una persona dopo così tanto tempo.
    «Ne, Mizu-chan» la chiama infine, ponendo lo sguardo rosato sulle nuvole bianche che passano veloci sopra le loro teste. «Sei molto diversa, non è vero?»
    La ragazza china lo sguardo; d’un tratto le proprie scarpe le paiono molto più interessanti di quella scomoda conversazione. Nagisa comprende che non riceverà mai una risposta alla sua domanda, ma nonostante ciò continua, certo che lei lo stia ancora ascoltando.
    «Prima eri solare e piena di vita, adesso sembri…» Vorrebbe continuare, ma la voce di lei risuona grave nell’aria improvvisamente pesante.
    «Le cose cambiano sempre, Nagisa.» È tutto quello che riesce a dire, prima di sentire la gola divenire insopportabilmente stretta. Sa che continuando a parlare un singhiozzo potrebbe tradirla, per cui sceglie nuovamente la via del silenzio.
    «Mizu-chan…»
    «…»
    «So che magari può sembrarti presuntuoso da parte mia, cioè… io non sono un esperto di problemi così grandi… però… sì, beh… puoi parlarne con me, se vuoi.»
    Mizuko avverte l’impellente desiderio di abbracciarlo, ma si trattiene, certa che una manifestazione d’affetto come quella avvenuta in classe sia più che sufficiente per quella giornata. Gli afferra un lembo della manica, decisa a risollevargli il morale: non ha alcuna intenzione di essere considerata come la ragazza sensibile che non riesce a sopportare l’idea di essere stata costretta a lasciare la propria casa.
    Perché, in fondo, è di questo che si tratta.
    «Va tutto bene, Nagisa.» Gli sorride, ma in quella smorfia il biondo non riesce a riconoscere nulla che appartenga alla bella immagine della bambina che ricorda con tanta affezione.
    «Allora, perché sei tornata?»
    «È complicato.»
    «Davvero?»
    «Davvero.»
    Altri monosillabi, altri groppi alla gola. Si sente davvero una frana, nonostante abbia creduto di riuscire a fingere s’accorge di non esserne in grado. È una sconfitta che le brucia più di tutte le altre.
    Quando sta per cedere, pronta per vomitare via tutto ciò che il suo piccolo corpo non riesce più a contenere, Nagisa scoppia a ridere. «Pensare a quando ti vedranno Mako-chan e Haru-chan.»
    Sbarra gli occhi, sorpresa. «C-che?»
    «Ma sì! Non puoi non ricordarteli!»
    «N-no, li ricordo! M-ma…» Si maledice per non essere in grado di nascondere il nervoso.
    D’improvviso, come un tuono che rimbalza violento contro le finestre di una casa facendole sobbalzare, il suo cuore si ritrova in preda ad un tumulto d’emozioni che non è in grado di gestire: gli occhi blu che tanto le ricordano l’oceano le sfrecciano davanti come ricordi incustoditi e la cui presenza è stata celata solo dal tempo.
    «Frequentano anche loro questa scuola!» sbotta divertito Nagisa, senza sapere cosa si celi dietro l’apparente silenzio della compagna. «Mi sorprende che siano così in ritardo per il pranzo.»
    Mizuko scatta in piedi, con gli occhi sbarrati e il sudore che comincia a formarglisi dietro la nuca.
    No. Cosa dovrebbe fare? Sa di non essere nelle condizioni ottimali per poter fronteggiare una situazione di quel tipo: potrebbe anche riuscire ad ingannare Nagisa, ma non crede di essere all’altezza degli altri due vecchi compagni di squadra.
    «Eh…» Una serie sconclusionata di parole le rimane impacciata in gola, mentre un nodo sempre più evidente le si forma all’altezza dell’ugola. Parlare non le è mai sembrato così complicato come in quel momento. «Io…»
    Voglio andarmene. È quello che vorrebbe dire al biondino dagli occhi spaesati; se prima gli aveva dato solo una mera impressione del suo malessere, ora è ovvio che le cose siano più gravi di quelle che ha cercato di fargli sembrare.
    Indietreggia di qualche passo, guardando di sbieco la porta. I battiti impazziti del cuore le rimbombano incessanti dentro la cassa toracica, rendendo inesorabile il tempo che scorre veloce ad annullare la distanza tra i due compagni: Nagisa è al suo fianco, e la scuote come fosse vittima d’un improvviso sonno ad occhi aperti.
    «Mizu-chan!» si sente chiamare e le note di quella voce sono terribilmente impaurite.
    Mentre cerca di tornare padrone del suo corpo scosso dai tremiti, sente il suono stridente del metallo della porta che sfrega contro l’uscio. Trattiene il fiato, mentre Nagisa si volta in direzione delle due figure che emergono dall’ombra delle scale interne.
    Quando la poca lucidità le impone di voltarsi, Mizuko incrocia quello sguardo che tanto le ricorda il blu di casa.




NOTE:

[1] Letteralmente: “Vi prego di considerarmi anche in futuro”. Italianizzata, è uno pseudo-formale “Piacere di conoscervi”.
[2] Lett. “Chiedo perdono”.
[3] Vassoio contenitore con coperchio, di varie forme e materiali, adibito a servire un pasto.
[4] Lett. “Fantastico”.


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Capitolo 3
*** 2. Baka ***


Lo sclero di ver

Ciao a tutte/i!
Tra le vacanze di Natale, il lavoro, gli ultimi appunti dell'università da ricopiare e i ritardi incredibili nel postare i capitoli, spero questa volta di non avervi fatto troppo attendere. Che dire, questo capitolo mette la storia ancora in rodaggio - anche perché tra tutte le long che sto cercando di concludere questa ha visto la luce da poco - ma spero che qualcuno di voi possa apprezzare l'impegno che ci ho messo (anche perché lo ammetto, caratterizzare un Haruka romantico è abbastanza complicato, fosse uno tsundere forse avrei più possibilità).
Detto questo, godetevi pure la storia!
A presto!


_EverAfter_










CAPITOLO II
Baka





    I momenti della giornata che Haru preferisce sono sempre stati due: l’alba e il tramonto. Di quello che sta in mezzo si disinteressa completamente. Non sono affari suoi.
    Ma l’alba è una cosa diversa, lui lo sa bene. Acerba e piena di tutte le aspettative che la notte ha portato alle persone, fatte di piacevoli sogni, d’incubi spaventosi. Qualsiasi cosa porti con sé, è sempre il principio di qualcosa di straordinario e imprevedibile.
    È sempre dolce, l’alba. S’alza in punta di piedi, a non voler recare alcun fastidio. È silenziosa e non pretende mai d’essere guardata, ma sorride placida a chi con coraggio affronta l’impresa di un risveglio mattiniero. L’alba premia sempre gli insonni e gli intraprendenti. E nessuno può odiarla, perché non si può mai disprezzare davvero qualcosa che sorge. È l’inizio.
    Tanto rimane incantato dalla sua umiltà quanto dal suo gemello lucente, il bel tramonto dalle mille sfumature purpuree che rincorrono nuvole dall’aspetto fiammante all’orizzonte, proprio lì dove un enorme cerchio dapprima giallo si colora di un fuoco prepotente e pronto a collassare dietro il circolo massimo del medesimo colore.
    È diverso dall’alba, il tramonto. È decisamente più egocentrico, con quei colori accesi che la sua opposta non s’arrischia neppure a pensare. È presuntuoso e pretende d’esser visto, perché lui è la fine della giornata e le persone lo sanno.
    Dopo di lui c’è solo la notte.
    Guardatemi, perché dopo di me non vedrete nient’altro, sembra dire a chi distoglie lo sguardo dalla sua dipartita. È sagace, il tramonto, e sa sempre cosa dire.
    Quanti amori deve aver visto sbocciare, quel meditabondo sornione, mentre la sorella se ne stava silenziosa ad accontentarsi di qualche ignaro passante che non riusciva a prendere sonno.
    Se le becca davvero tutte lui, le fortune.
    Ma questo, in quel momento, per Haru non conta. E non conta perché quei due gemelli estranei dall’azzurro pastello e dal rosso vivo, se ne stanno incastonati nei begli occhi della ragazza che di fronte a lui lo fissa smarrita.
    È abituato sempre a ragionare a mente lucida, per cui si convince che non possa essere davvero lei. Sarebbe quello che potrebbe chiamare destino, se così non fosse.
    «Haru-chan! Mako-chan!» esulta Nagisa, mentre si avvicina ai due amici. «La riconoscete? Eh? EH?»
    Se ne rimangono entrambi zitti, ma la cosa non sembra pesarle affatto. In fondo, preferisce il silenzio a commenti imbarazzanti. Cerca di parlare per allentare la tensione, ma Makoto sembra precederla.
    «Mizuko» mormora il castano, incerto sulla pronuncia del nome.
    Gli occhi di Haru tremano di un bizzarro luccichio, quando vede la ragazza alzare lo sguardo e concedere loro un bel sorriso perlaceo che non ha niente a che vedere con quello più sdentato e puerile di tanti anni prima. La fissa rapito, mentre dentro di sé una tempesta prende il sopravvento su ogni cosa che sente appartenergli.
    «Ciao, ragazzi.» Il tono della sua voce è dolce, come se fosse fatto da fili sottili pronti a spezzarsi.
    Vuole risentire ancora quel suono, ormai diverso dalle infantili note distorte dall’eco dei ricordi sbiaditi. Non riesce ad emettere alcun fiato, stordito com’è da una presenza per lui troppa da sopportare.
    La giovane sembra accorgersene; nel fissare i loro sguardi attoniti, si rende conto che è lei l’unica che può in qualche modo risolvere la faccenda. Inspira profondamente, com’è solita fare, mentre si porta con lo sguardo a fissare gli occhi sbarrati del delfino.
    «Ciao, Nanase-kun.» Poi, voltandosi verso il compagno più robusto sfoggia un altro dei suoi sorrisi. «Tachibana-kun.»
    Il corvino non emette un fiato; le sue labbra lo implorano di pronunciare qualcosa, qualsiasi cosa possa farle capire che anche lui si ricorda di lei, che non l’ha dimenticata – e come avrebbe potuto? Lei con quel suo fare stravagante, il suo precario equilibrio e l’incapacità di rimanersene zitta quando serve; lei con quegli occhi limpidi e strani, meravigliosamente strani; lei con quei bei fili dorati che le incorniciano il volto sorridente ed energico.
   «Mi…» Il groppo che gli blocca la gola si stringe quando la ragazza si gira verso di lui: si è dimenticato come si senta ogni volta che lei lo guarda a quel modo. Come lo faccia sentire sapere che è riuscito a catturare l’attenzione dei due momenti della giornata che preferisce.
    S’accorge di assomigliare decisamente più al tramonto: ha sempre voluto a tutti i costi che lei lo guardasse, ma incapace di comprenderlo ha sempre finto d’essere l’alba; in quel modo non avrebbe mai dovuto darsi spiegazioni del perché volesse a tutti i costi appropriarsi di quello sguardo.
    «Mizuko.» La voce sembra evaporare nel momento esatto in cui pronuncia quel nome.
    Si sente stranito, Haruka. Tanto da non capire cosa stia accadendo nel proprio petto. Qualcosa sbatte contro la cassa toracica ed aumenta d’intensità quando vede la giovane sorridere, mentre sospira d’entusiasmo.
    «Allora vi ricordate di me!» sbotta felice, strizzando le palpebre per la gioia.
    Sorride istintivamente il giovane talento, mentre l’amico dallo sguardo smeraldino rimane a fissarlo, preoccupato: si chiede se non sia qualcosa attinente al famoso detto “Uwasa wo sureba kage[1].
    Nonostante il suo status psicologico sia instabile, Makoto si scopre felice di rivederla, dopo tutto quel tempo: Mizuko non gli ricorda affatto la bambina di tanti anni prima. Il suo sorriso è più maturo, il suo sguardo più brillante di come lo ricorda. S’accorge di quanto sia cresciuta dal petto piccolo ma formoso, chiedendosi il perché sia rimasta così minuta nonostante gli allenamenti.
    Gli allenamenti… «Mizuko.»
    «Ai.»
    «Tu…» Neanche sa il perché glielo stia domandando, ma sente che è la cosa giusta da dire. «Tu nuoti ancora, vero?»
    Sente lo sguardo spaesato di Haruka spostarsi su di lui, mentre Nagisa precede la bocca più tentennante della giovane.
    «Ma certo!» sbotta il biondino, afferrando la mano dell’amica e spingendola in avanti. «La nostra Mizu-chan non avrebbe mai potuto smettere! Ne, Mizu-chan?»
    La ragazza annuisce poco convinta. Nagisa conosce parte della storia della sua vita, ma in cuor suo spera che il ragazzino se ne stia buono senza farne parola con gli altri due. Per qualche motivo, non vuole che Haruka ne venga a conoscenza.
    «Quando sei tornata?» Il tono coinvolto del corvino le sconquassa la testa, mentre fa appello a tutte le sue forze per rispondergli senza balbettare.
    «Da qualche giorno.»
    Rimane a fissare le pozze oceaniche che brillano di una particolare luce, mentre il ragazzo le si affianca facendole cenno di sedersi. Mizuko sbarra gli occhi, confusa. D’improvviso sente le nocche di Haru poggiarsi sulla propria fronte, ma il tocco è troppo delicato per poter essere anche solo definito come un colpo.
    «Noi non abbiamo ancora mangiato, baka
    Arrossisce, mentre viene rapita dal sottile sorriso delle labbra di lui. Sorriso che, se si concentra, riesce a vedere persino nel suo sguardo profondo.
    Si volta verso Makoto che, bisticciando con Nagisa per un wurstel a forma di polipetto, è già per terra, pronto ad aprire il suo bento. Quell’aria familiare le straripa violenta nel cuore, mentre la tranquillità s’impossessa del suo animo agitato.
    Haruka l’ha chiamata baka. L’ha chiamata come la chiamava di solito.
    Si sente una sciocca per essere contenta solo per questa idiozia. Eppure, non riesce a fare a meno di sorridere. Gli siede accanto, aggiustandosi la gonna; Haru vorrebbe chiederle tante di quelle cose che non ha idea di come lei possa rispondere a tutte le domande che ha da farle.
    «Mizuko, perché sei tornata?» Come sempre Makoto lo precede, disinibito da tutta quella riservatezza che è invece tipica del delfino.
    La ragazza accanto a lui intreccia le dita delle mani, ridendo nervosamente. Come sempre è strana, ma la cosa pare tranquillizzarlo. Non le sembra cambiata di una virgola.
    «È vero!» sbotta Nagisa, improvvisamente serio. «Non me ne hai ancora parlato!»
    «Beh, non che sia una storia tanto avvincente» esordisce, portando le braccia indietro per stiracchiarsi. «Anzi, a dirla tutta, non lo è per niente.»
    Haru la guarda, contrariato all’idea che possa aver parlato di sé all’amico di un anno più giovane di lui. Il motivo di un simile risentimento si cela nel fatto che, da quando è partita, non ha mai saputo niente sul suo conto.
    «È successo qualcosa?» Il suo tono è atono come sempre, ma alle orecchie attente dell’orca non sfugge una sfumatura di preoccupazione.
    «Nulla di particolare.»
    «Beh un motivo ci sarà senz’altro» dice Nagisa, mentre è intento a masticare l’ennesimo boccone del suo panino.
    Mizuko rimane in silenzio per qualche istante. È evidente che non voglia parlarne, ma sente l’improvviso bisogno di farsi forte agli occhi del ragazzo che le siede accanto: vuole che lui la guardi meravigliato, come non ha mai fatto in passato. Forse, a loro, avrebbe anche potuto dirlo.
    Giocherella distrattamente col pendolino che tiene attaccato al cellulare, evitando lo sguardo dei presenti. Sta cercando di pensare al modo migliore per dirlo senza risultare pretenziosa. «Sono...»
    Stata selezionata per i nazionali. È quello che vorrebbe dire, ma la sua bocca si rifiuta di pronunciare una frase simile. Decisamente troppo diretta, eppure quello è l’unico metodo che conosce per comunicare le cose.
    «Sono stata…» Lo sguardo curioso dei presenti si fa sempre più pressante. «Sono stata chiamata da mia madre, in realtà.»
    Ed ecco a voi una testa di cazzo, si rimprovera mentalmente, consapevole di essere un caso perso: si accontenta di raccontar loro una mezza verità solo per paura che possano giudicarla. E lei che in tutti quegli anni pensava di essere maturata quel tanto che bastava per essere più sicura di sé stessa.
    Lo sguardo di Makoto si rasserena, mentre le sorride placidamente. Come sempre il suo modo gentile di rapportarsi con le persone le scalda il cuore. È come vedere lo stesso bambino di sempre, solo più alto e con più muscoli; il suo sguardo, quello sguardo smeraldo ed intenso, è identico ad otto anni fa. Per certi aspetti, la tranquillizza.
    «Mizuko.»
    Le si ghiaccia il sangue, al suono della profonda voce di Haruka mentre la chiama per nome. Sbarra gli occhi, cercando di non apparire troppo sorpresa. «Ai
    Si perde nello sguardo intenso che le rivolge, rimanendo incantata a fissarlo. Si chiede se l’abisso sia davvero dello stesso colore degli occhi che la stanno guardando in quel momento. Il delfino non dice una parola; rimane in silenzio, mentre perfino l’attenzione degli altri due amici si focalizza sulla strana atmosfera che aleggia tra i due prodigi del libero. Non servono parole per descrivere ciò che sta accadendo, e anche a cercarle probabilmente non esisterebbero.
    È ciò che i romantici chiamano alchimia.
    Nagisa scambia una sottile occhiata d’intesa con Makoto, il quale gli fa un cenno affermativo col capo. «Ma guarda quanto è tardi!» sbiascica, lasciandosi scappare un risolino malizioso. «Dovremmo proprio andare adesso! Ne, Haru-chan?»
    Il bruno lo fulmina con lo sguardo, ma sa che non è ancora giunto il momento per chiederle dei chiarimenti che magari lei non sente di dovergli concedere. Eppure, più la guarda e più si rende conto che l’unica cosa che vorrebbe è capire perché è partita, perché ha deciso di non farsi più sentire… perché l’ha lasciato solo, magari. Forse è davvero questo il problema, in fondo.
    È frustrato. Arrabbiato.
    E terribilmente felice di rivederla.






    Cammina silenziosa, trascinandosi la tracolla con dentro i libri. È pomeriggio e l’aria le sembra più fredda del solito, ma la pigrizia le vieta di fermarsi a cercare la sciarpa in mezzo al caos della sua borsa, così aumenta il passo, certa di potersi riscaldare con una marcia più veloce.
    Percorre le strade tranquille del bel paese di mare, buttando l’occhio alla spuma bianca delle onde che si rifrangono sulla battigia. Si concede un attimo di respiro, avvicinandosi alla sabbia e chinandosi a sfiorarla con le dita.
    Chiude gli occhi, beandosi di quella sensazione di freschezza e libertà. Lì, vicino al mare, il freddo è più pungente, ma non le importa. A Nizza ci era più che abituata, dopotutto. Ripensa con somma nostalgia a quei giorni di libertà, mentre l’immagine di Haru le appare lesta a riempirle la mente: i begli occhi di cui si era dimenticata, quel giorno l’avevano rivista per quello che era diventata. Si chiede se anche lui sia stato sorpreso di vederla. Lo spera.
    Si siede sulla soffice arenaria, incurante di sporcare la gonna o le lunghe calze che le avvolgono le gambe sottili. Se potesse, nuoterebbe persino in quel momento, con quel ventaccio. Non le è mai capitato di fare il bagno a dicembre, ma si convince che sia un’esperienza da provare, prima o poi. Un raffreddore non sarebbe poi la fine del mondo.
    Si lascia cullare dalla bella emozione che le provoca l’aria salmastra nelle narici: pensa che, comunque lo si guardi, l’oceano è sempre uno e quell’acqua è la stessa di Nizza. Si convince che non dovrebbe mancarle così tanto, casa. Eppure, in cuor suo, sente di mentirsi spudoratamente, da brava vigliacca.
    Ha amato tutto, di quella vita. Ogni cosa. Non si pente del minimo passo.
    Si chiede cosa speri di ottenere adesso, partecipando a quelle selezioni – ammesso che decida davvero di parteciparvi – e che cosa possa pensare la gente attorno a lei. Ripensa allo sguardo curioso di     Makoto e sente il respiro mancargli: non è in grado di mentire, tuttavia lo fa. Lo fa perché non riesce a dire altro che non sia menzogna, perché ammettere di non riuscire più a nuotare solo per il gusto di farlo le sembra impossibile.
    Probabilmente Haru la odierebbe, a quel punto. Proprio lui, che le ha insegnato quanto sia facile abbandonarsi al bell’elemento, l’unica cosa a questo mondo che sia in grado di abbracciarla, ma di farlo davvero: ogni parte del suo corpo sfiorata dalla dolcezza di minuscole molecole d’H₂O che scivolano lungo l’epidermide, mentre con gli occhi semiaperti spia i raggi del Sole, gelosi di quell’affetto, e che tuttavia non riescono a raggiungerla; è ormai troppo lontana dalla superficie, lontana dall’ossigeno che non le sembra più così indispensabile: le sarebbe sufficiente quel tanto che basta per rimanere lì ancor un po’.
    Un tempo riusciva a provarle, quelle emozioni. Adesso non ne è più così sicura.
    Si alza in piedi a fatica, mentre riprende la via del ritorno senza voltarsi neppure una volta a riguardare l’oceano. Quella giornata può anche finire lì.
    Imbocca una stradina secondaria per allungare il ritorno verso casa: non ha proprio voglia di ritornarsene in quell’appartamento silenzioso, in compagnia di sé stessa. Si dice che dopotutto una camminata più lunga non può farle male.
    Si avvia per un piccolo sentiero che sembra portare sulla sommità della collina che torreggia su tutta Iwatobi: si chiede come possa essere il mondo, visto da lassù. S’incammina, accelerando il passo, mentre avverte i polmoni iniziare a boccheggiare man mano che la pendenza si fa più considerevole. Quando scorge la fine dello sterrato, un’improvvisa sferzata di vento la raggiunge, obbligandola a chiudere gli occhi.
    Quel vento così infuriato è come un toccasana, un dolce sussurro che le stordisce i sensi, obbligandola a non pensare. Se potesse davvero riuscirci, probabilmente tutti i suoi dubbi svanirebbero.
    Socchiude gli occhi, mentre soffia la nenia dell’aria. Le viene un’improvvisa voglia di togliersi le scarpe per sentire il solletico che le fanno i fili d’erba che oscillano leggeri sul bel praticello. Sta per afferrare i lacci, quando qualcosa in lontananza cattura la sua attenzione. Affila lo sguardo, scostandosi una ciocca di capelli dalla fronte. È quasi sicura di scorgere la bella chioma dorata di Nagisa sotto ad un gazebo.
    Cerca di farsi notare con un cenno della mano, ma l’amico è girato di tre quarti e sembra stia parlando con qualcuno. Quando se ne accorge, fa un passo indietro. Non ha voglia di disturbarlo, se è davvero in compagnia. Fa’ per andarsene, consapevole di quanto sia tardi, ora che il Sole sta scomparendo stanco dietro l’orizzonte.
    Sospira. Da dove è Nagisa si dovrebbe vedere, il tramonto. Sbuffa, mentre si avvia.
    «Mizu-chan!» sente infine chiamare, prima che possa scomparire all’ombra dei cedri del boschetto.
    Si volta; il braccio di Nagisa si muove da una parte all’altra come il pendolo di un orologio.
    «Ciao, Nagisa!» È contenta che lui si sia accorto in tempo di lei. Almeno così potrà capire cosa si vede da lassù.
    Man mano che si avvicina riesce a scorgere altre due figure: una è Makoto, cosa che la stupisce non poco.
    «Tachibana-kun.» Si gratta la nuca, imbarazzata per non essersi accorta di lui. «Pensavo tornassi sempre con Nanase-kun.»
    Il castano le sorride bonario, facendole un delicato cenno con la mano. «Va bene così, Mizuko. Non preoccuparti.»
    «Lei chi è?» Una terza voce fa capolino da uno degli scalini del gazebo.
    Quando Mizuko si volta a guardarla, il suo sguardo rimane improvvisamente colpito dalla presenza di una giovane ragazza – probabilmente della sua età – che la fissa con due grandi occhi purpurei. La vede inarcare le sopracciglia, sorpresa.
    «Non ti ho mai vista in giro.»
    Come avresti potuto, vorrebbe risponderle, ma si trattiene dal risultarle maleducata sin da subito. Le sorride, a disagio per la situazione creatasi. Dopotutto, neanche lei l’ha mai vista.
    «Mi chiamo Mizuko Hoshino» le dice, chinando leggermente il capo in segno di rispetto. «Hajimemashite[2]
    La giovane che la sta davanti fa altrettanto. «Gou Matsuoka. Ma per piacere, chiamami Kou.»
    «Kou?»
    «Sì.»
    Non ha voglia di fare altre domande, per cui acconsente con un gesto della testa. La rossa sembra rilassarsi, mentre si volta verso gli altri due ragazzi. «La conoscete?»
    «Sì, faceva parte del club di nuoto Iwatobi prima che arrivasse Rin.»
    «Rin?» Il nome le esce dalla bocca senza che possa fermarlo, mentre i presenti si girano a fissarla. Nagisa le batte amichevolmente una pacca sulla spalla.
    «Gomen, Mizu-chan. Non te ne abbiamo ancora parlato.»
    «Di cosa, esattamente?»
    «Beh…» Makoto si volta verso di lei. «È una lunga storia.»
    Gou annuisce, sorridendo. Un sorriso che a Mizuko non piace affatto, perché è finto e carico di tensione. Lei, che non è abituata all’ipocrisia delle cose, sbuffa irritata. La giovane orca se ne accorge e le si affianca, sfiorandole la spalla con una mano per tranquillizzarla. Quel contatto la fa subito chetare.
    «Allora, Gou, cosa ci facevi a casa di Haru?»
     C-che?
    Si volta verso la rossa, trapassandola con lo sguardo. Decisamente non le sta simpatica. Ha sancito la sua condanna a morte, lo sa per certo. Improvvisamente sente l’ansia montargli addosso, pensando che magari quella strana ragazza e Haru…
    Oddio, no.
    Certo, è proprio carina. Sicuramente più di lei, che al confronto è più bassa e più stramba. No, no, no.
    Attende impaziente una risposta alla domanda di Makoto, mentre giochicchia distratta con le dita, in preda ad una malcelata isteria.
    «Ah…» fa la giovane Matsuoka, prima di distogliere lo sguardo.
    Dio, vorrebbe prenderla a pugni. Cosa c’è di difficile a sputare fuori il rospo?
    «Volevo chiedergli di mio fratello.»
    Sente il cuore diminuire bruscamente le pulsazioni, mentre trattiene un sospiro di sollievo. Nonostante tutto, riesce a rilassarsi. Nagisa la fissa di sottecchi, trattenendo una risata. In fondo, l’amica non è affatto cambiata.
    «Allora Rin è davvero tornato dall’Australia?» La voce di Makoto è più intensa del normale.
    «Sì, lo scorso mese. Ora sta frequentando l’Accademia Samezuka. È un collegio, per cui non è mai tornato a casa.»
    «La Samezuka?» ripete il castano, tra sé e sé.
    Mizuko conosce la famosa nomea di quell’istituto. Ne ha sentito parlare spesso, persino quando era a Nizza: una scuola di prestigio, il cui club più rinomato è proprio quello di nuoto. Si chiede se quel fantomatico Rin non sia anche lui un nuotatore come tutti loro.
    Rimangono ancora lì a parlare per un po’ di tempo. Nagisa non sta più nella pelle, preso com’è dall’idea di andare a spiare gli allenamenti dei collegiali alla ricerca del loro amico.
    «Sarà divertente!» sbiascica, mentre l’afferra per le spalle. «Mizu-chan, devi assolutamente venire anche tu!»
    «Manco…»





    «Morto.»
    Haru non è dell’umore adatto per quel tipo d’avventura.
    È rimasto tranquillo nella vasca, quando ha sentito entrare le voci dei due compagni e quella più squillante di Mizuko, che a quanto pare è stata trascinata da Nagisa a casa sua.
    Al vederli nuovamente così vicini distoglie lo sguardo, mentre si tampona la chioma bagnata con un piccolo asciugamano. La osserva di sottecchi: è imbarazzata al vederlo con addosso solo il costume e ancora fradicio dal recente bagno.
    Ha lo sguardo rivolto altrove; si chiede cos’abbia pensato al sentire la storia di Rin. Probabilmente i due non le hanno raccontato tutto per filo e per segno – specie perché non sanno davvero tutto.
    «Andiamo alla Samezuka!» sbotta entusiasta il biondino, afferrando Mizuko per le spalle. «Mizu-chan, diglielo anche tu!»
    Il modo con cui l’amico si avvicina con tanta disinvoltura alla compagna d’infanzia lo infastidisce. Non riesce neanche lui a capire il perché di tanto astio, ma ogni volta che Nagisa le sta vicino, lui sente dentro di sé una rabbia che neppure Rin è mai riuscito a tirar fuori. Fa per afferrargli il braccio e allontanarlo da lei, ma le parole di Makoto sembrano bloccarlo.
    «Non vuoi rivedere Rin?» gli domanda semplicemente, mentre dentro di sé la rabbia cede il posto all’angoscia che il ricordo del rosso porta con sé.
    Certo che lo vuole rivedere.
    «Lo abbiamo incontrato ieri.»
    Mizuko si sorprende della freddezza con la quale risponde il corvino. Lo fissa stralunata, incrociando per un istante il suo sguardo e non riuscendo a fare a meno di pensare che stia mentendo. È così, lo può sentire dall’eco delle sue parole, lo può vedere dal leggero tremolio dei suoi occhi blu. Ha detto esattamente il contrario di quello che vorrebbe fare.
    Cerca di dirgli qualcosa, ma ancora una volta la voce di Makoto la interrompe. «Credevo finalmente che saresti tornato a nuotare, se ci fosse stato lui
    La ragazza spalanca la bocca, confusa. «C-che significa che finalmente sarebbe tornato a nuotare?»
    Haru si volta a fissarla; è chiaramente turbata da quelle parole, i suoi occhi sono sbarrati in una dolce espressione disorientata, la bocca rimane semiaperta e fatica a inspirare. Il delfino sa che, se potesse posare un orecchio sul suo piccolo petto, sentirebbe i battiti accelerati del suo cuore intristito.
    Di tutte le notizie, quella è l’unica di cui non vuole parlare. Desidera risponderle, ma si accorge che non ha nulla di concreto da poterle dire. In effetti, neanche gli altri sanno il perché abbia smesso davvero di nuotare. Eppure, a lei vuole parlarne. Vuole che capisca, questa volta senza allontanarla.
    «Mizuko» la chiama, allungando una mano a carezzarle la corta chioma bionda. «Va tutto bene.»
    La ragazza china il capo, consapevole che non sia quella la situazione per poterne parlare. Si sente imbarazzata dal suo gesto, mentre gli sguardi complici degli altri due compagni rimangono inebetiti a fissare il piccolo siparietto di una dolcezza che di solito non appartiene al delfino. A lui non importa, in realtà. Finché può di nuovo aver vicino la sua personale rompiscatole, gli va davvero bene tutto.
    «La Samezuka in teoria ha una piscina al coperto» dice infine il castano, sorridendo sornione.
    I due liberi si guardano, scambiandosi un’occhiata d’intesa che rende manifesta la loro decisione.
   Qualche istante dopo sono tutti fuori casa, in attesa di prendere il treno che arriva puntuale come suo solito. Nagisa impiega pochissimo tempo per appisolarsi sulla spalla di Haru, mentre la testa di Makoto oscilla silenziosamente a causa del suo imprevisto pisolino.
    La ragazza si mette in ginocchio con i gomiti poggiati sul finestrino della cabina. Il suo sguardo fugge veloce lungo la distesa azzurra che s’intravede in lontananza; sul viso si cela mal nascosta un’insolita gaiezza. È la vista del mare che la rassicura, ancora una volta. Lì dove il suo cuore non trova pace, ci pensa l’oceano. È sempre stato così, d’altronde.
    Haru rimane in silenzio, a guardarla. I begli occhi della giovane sono altrove, persi in chissà quali assurdi pensieri.
    «Mizuko» la chiama infine. Sente il suo sguardo addosso e china il capo, imbarazzato.
    Vorrebbe dirle tante di quelle cose… a cominciare dal dispiacere che ha provato nel vederla andare via. A quanto le sia mancata, nonostante le avesse sempre detto di non sopportarla. A tutte le volte in cui ha cercato il suo sguardo senza più poterlo vedere. Alla rabbia, alla frustrazione, alla paura di non essere più in grado di nuotare, se non ci fosse stata ancora lei.
    Non le dice niente di tutto questo, perché è un codardo che non ha neanche il coraggio di confessarle che lui, in tutti quegli anni, non ha mai smesso di pensare a lei. Non gli è mai importato di capire il perché. Lo ha fatto e basta. Se glielo dicesse, lei penserebbe che sia davvero patetico.
    «Ne, Nanase-kun.» Si volta a fissarla, rimanendo stordito dalla vista del suo bel sorriso spontaneo. «Quanti pesci stanno in mare?»
    È proprio lei. Una domanda senza senso, esattamente come tutte quelle che gli poneva alla fine degli allenamenti, quando rimanevano ad aspettare il fratello. Sul suo volto corrucciato e serioso appare l’ombra di un sorriso. Vuole risponderle seriamente, questa volta. «Non saprei. Forse miliardi.»
    La giovane ridacchia, poggiando il capo sulle braccia e lasciandosi illuminare dalla luce calda del tramonto.
    «È un peccato che non si possano contare» sospira infine, reprimendo uno sbadiglio. «A me piacerebbe sapere quanti sono.»
    «Perché?»
    «Chissà se stanno stretti, nel mare.»
    Lei non risponde mai alle domande che le vengono poste. Haru lo aveva dimenticato, ma adesso gli è di nuovo chiaro. Sotto certi aspetti, l’atteggiamento immutato della compagna lo tranquillizza. È come un ricordo che non è mai andato perduto, una piccola parentesi che, in qualche modo, riesce ad annullare il terrore che ha di rivedere di nuovo il rivale.
    «Mizuko.»
    «Ai
    «Questa volta…» Deglutisce, incapace di esternare per bene quello che sente.
    Si era dimenticato di come si sentisse quando lo guardava. Adesso che avverte nuovamente quegli occhi addosso, è come se una parte di sé implori per venire a galla; una parte ingenua e irrazionale, quella che più adora nuotare. Quella che spera di poterla vedere nuotare. La ragazza avvicina il viso al suo, afferrandogli la testa con entrambe le mani. Sorride, osservando come Haruka sia improvvisamente arrossito. «O-ohi!»
    «Che c’è?»
    «Sei… troppo vicina.»
    «Voglio vedere.»
    «Cosa?»
    «I tuoi occhi.» Poggia la fronte contro quella del corvino, mentre sente il suo respiro farsi sempre più strozzato. È imbarazzato, ma a lei non importa. Vuole capire. «Nanase-kun… perché sei così triste?»
    Haruka si sente mancare l’aria; capisce che la colpa non è della vicinanza dell’amica, ma della domanda che gli è appena stata posta. Uno strano tremolio gli consuma gli occhi, mentre schiude le labbra per raccontarle ogni cosa, stanco di lottare contro quello sguardo preoccupato, quello sguardo che sa leggergli addosso tutte le sue emotive sfumature.
    Non può vincere, contro di lei. Quand’era piccolo si sentiva sempre pronto a sfidare quel suo modo di fare invadente ed indisciplinato, ma adesso non riesce a immaginare cosa più confortante di quella: una domanda che farebbe un bambino. Una domanda semplice, che richiede una risposta complicata.
    «Io…» Voglio rivedere Rin. «Non voglio rivedere Rin.»
    La vede storcere la testa, confusa. «Non gli vuoi più bene?»
    Sente la risposta morirgli in gola. Non è questo, il problema.
    Si libera sgarbatamente dalla delicata presa delle piccole mani, distogliendo lo sguardo dalle sue iridi indagatrici. Lei è troppo semplice, per capire uno come lui – o forse è solo preoccupato di scoprire che la realtà è davvero facile come la vedono quegli occhi diversi.
    «Non voglio parlarne» mormora glaciale, tornando a fissare il paesaggio fuori dal finestrino. «E piantala di fissarmi in quel modo, baka
    Mizuko sorride. Si aspettava che lo facesse: da quando la conosce, non l’ha mai vista offendersi per i suoi modi scontrosi.
    Abbassa lo sguardo, mentre cerca a tentoni la mano di lei. Quando la trova, sente la delicatezza delle dita sottili sfiorargli il palmo. Non gli è mai piaciuto il caldo, ma il tepore delle sue mani è diverso da qualsiasi altro. È materno e dolce, come il respiro vaporoso di una nenia di mezza estate.
    Il delfino sente una strana vampa sfiorargli le guance, mentre lentamente serra le proprie dita attorno a quelle di lei; non lo farebbe mai, in altre circostanze. Si convince che, per una volta, può anche gettare via quella maschera d’indifferenza che si porta sempre addosso.





    Ha le palpebre serrate dalle mani, mentre sente la voce isterica di Makoto implorare Haru di non spogliarsi proprio lì, davanti alle vetrate della piscina della Samezuka. Non riesce neanche ad esprimere l’imbarazzo per quella paradossale situazione; si volta di spalle, al fruscio della cinta che viene sfilata dai passanti dei pantaloni.
    «Ma aspettare, no?!» gli strilla addosso il compagno di una vita.
    Mizuko schiude una palpebra, sbirciando maldestramente il corpo del ragazzo con addosso solo il suo costume preferito. Sospira di sollievo, mentre cerca di far sparire via il rossore che ancora le ricopre le guance. La forma del delfino è sempre perfetta, si dice, mentre distoglie lo sguardo per paura che Nagisa possa prenderla in giro.
    Attendono pazientemente la fine degli allenamenti – Makoto, nel frattempo, è riuscito nella titanica impresa di far rivestire l’amico. Quando il Sole cala dietro l’orizzonte, finalmente il più giovane si appresta ad aprire la porta che s’affaccia direttamente sulla piscina. È emozionata e al tempo stesso ha il terrore che qualcuno possa scoprirli: non è certamente il miglior modo per cominciare a rifarsi una vita.
    Richiudono la porta alle loro spalle e subito la ragazza avverte il richiamo dell’acqua, quel fatidico incontro tra i suoi occhi e il grande specchio che riflette il grande tetto vetrato, dipinto da migliaia – no – milioni di stelle sbrilluccicanti. Spalanca la bocca, esterrefatta.
    «Oh, Kamisama[3]!» esclama, portandosi le mani alla bocca per evitare di urlare. «È meravigliosa!»
    «Continuo a pensare che sia una pessima idea» sussurra il castano, le cui parole non sono abbastanza veloci da raggiungere l’orecchio di Haru, già spogliato e in procinto di tuffarsi. «Aspetta!»
    Il delfino è ormai lontano da quell’insopportabile chiacchiericcio. Si tuffa con impazienza, mentre Mizuko l’osserva con la stessa intensità di tanti anni prima: non è affatto cambiato, continua ad essere ancora bellissimo quando è circondato dall’acqua.
    «Haru mi ricorda un delfino, anche ora» sente mormorare dal biondino, arrossito per l’emozione di rivedere l’amico nuotare con tanta intensità.
    Pensa le stesse cose anche lei, mentre il suo sguardo si perde a contemplare quel corpo votato al nuoto più di qualsiasi altro, elastico ed energico, che sembra liquefarsi ad ogni bracciata. Un po’, deve ammetterlo, l’ha sempre invidiato.
    «Mako-chan! Entriamo anche noi!» sbotta infine Nagisa, mentre si allenta il nodo della cravatta ed ammicca all’amica, invitandola con lo sguardo a fare lo stesso.
    «N-non è possibile!» gli sbraita subito contro lei, arrossendo.
    «Se ci scoprono saranno guai! E poi dobbiamo cercare Rin.» Come sempre, Makoto sembra essere quello più razionale, in mezzo a quel mare di teste calde.
    «Possiamo farci comunque una nuotatina prima! Non ci scoprirà nessuno, se non accendiamo le luci!»
    «Però il costume non ce l’hai!»
    «Pazienza, anche nudi va bene.»
    «Ma anche no!» sbotta infine la ragazza, voltandosi di spalle con le mani che le sfondano i bulbi oculari. «Non ti azzardare!»
    Sente un tuffo improvviso. Le pare subito ovvio come l’amico non abbia prestato attenzione alle sue parole. Sospira, voltandosi piano a guardare il misero scherzo che il pinguino ha appena fatto all’amico più robusto, che se ne sta in acqua senza dire una parola, con la camicia fradicia a disegnargli i contorni tipici di un nuotatore di dorso.
    Mentre intraprendono una bizzarra acchiapparella subacquea, la ragazza avverte l’improvvisa necessità di cercare anche lei quel contatto che le manca più di tutto. Si avvicina maldestramente al bordo della piscina, sfiorando la patina d’acqua con l’indice: tanti piccoli cerchi si dipartono dal suo dito, perdendosi in quella vastità trasparente. Rimane in contemplazione del fenomeno, con lo sguardo perso in ricordi troppo lontani per poter essere agguantati tanto facilmente: la prima volta che ha visto l’oceano; la prima volta che ha nuotato senza i braccioli; la prima gara.
    Sorride, ma non come è solita fare. Chiude gli occhi, inebriandosi della bella sensazione che le offre l’acqua. Rimane ferma per degli istanti interminabili, convinta di poter indugiare così in eterno, se solo potesse. In fondo, a lei è sempre interessato solo quel contatto.
    «Mizuko.» Chissà per quale motivo, ma quando lui la chiama così non riesce a fare a meno di pensare di essere speciale.
Schiude le palpebre, trovandosi la mano del moro tesa verso di lei, come un dolce invito a pretendere di più di quella semplice vicinanza. Si sente improvvisamente tesa.
    «Non ho il costume» mormora, contenta che il suo rossore rimanga nascosto nel buio della sera.
    «Non importa» le risponde lui. Non ha voglia di lasciarla andare. Non questa volta.
    La ragazza si slaccia le scarpe, levandosi le lunghe calze che le coprono le gambe fin sopra alle ginocchia. Quando la fioca luce della sera mette in risalto il suo pallido piedino, Haru lo afferra delicatamente, guidandolo a cercare la freschezza dell’acqua. Mizuko si porta una mano sul viso, cercando di nascondere la porpora che le dipinge la faccia d’imbarazzo.
    Non è mai stata abituata, a questo tipo di Haru. Ha sempre conservato gelosamente i ricordi di un giovane ragazzo prodigio che sembrava non sopportarla. A lei era sempre andato bene così, in realtà. Ma questo ragazzo… questo ragazzo che ha di fronte le piace, forse anche più del precedente bimbo che è stato.
    «G-grazie» biascica, titubante.
    Il giovane distoglie lo sguardo imbarazzato, schizzandola leggermente sulle ginocchia. «Non c’è bisogno che mi ringrazi.»
    «Devi chiamarmi baka, altrimenti non vale.»
    La fissa stranito, schiudendo la bocca per la sorpresa. Di tutte le cose senza senso a cui si è preparato, quella è decisamente la meno ovvia. Sorride, anche se lei non può vederlo; poggia le braccia a bordo piscina, rimanendo a fissarla come in trance.
    Per un istante, un singolo maledettissimo istante, ritratta su tutto ciò che ha sempre pensato di lei sin da piccolo: Mizuko le sembra una ninfa, di quelle che sostano nelle pozze argentee per bearsi di un bagno di mezzanotte; gli piace com’è diventata e gli piace il suo sguardo quando è riflesso nello specchio trasparente che lo sta avvolgendo.
    Forse, in realtà, gli è sempre piaciuta.
    Le afferra un polso, rimanendo con il capo poggiato sul braccio a bordo piscina. «Baka
    Quando rivede il bel sorriso di lei risplendere nell’oscurità della notte, sente l’improvvisa voglia di farsi più vicino, ma il rumore di una porta che sbatte contro il muro lo desta dall’imbarazzante intento.
    Mizuko sobbalza, col cuore in gola. Non riesce a scorgere perfettamente la sagoma che si avvicina minacciosamente al lato della piscina più vicino a Nagisa e Makoto. Sembra alto e atletico, ma di più non riesce a dire. Persino se affila lo sguardo, si rende conto di scorgere solamente una divisa bianca.
    Haru si allontana da lei, immergendosi nello specchio d’acqua. D’un tratto, un dubbio l’assale.
    Che sia…
    «E voi che diavolo ci fate qui?» domanda una voce carica d’astio.
    Quelle note così aspre le stridono sonore tra le orecchie; non le piace affatto quel tono di voce così perentorio.
    «Rin!» Vede Makoto sbarrare gli occhi per la sorpresa.
    Nagisa, al contrario, sembra perfettamente a suo agio. «Siamo venuti qui per veder…»
    «Andate via, subito!»
    «Rin-chan…» sussurra il biondino, improvvisamente intristito dall’atteggiamento brusco del compagno.
    Lo sguardo del rosso passa in rassegna i volti familiari dei vecchi amici, fermandosi infine su di lei. Mizuko non muove un muscolo, persino quando sente addosso quegli occhi cremisi carichi di disprezzo. La ragazza avverte uno strano senso d’inadeguatezza, come se non dovesse trovarsi lì in quel momento.
    «Tu chi diavolo sei?» mormora turbato, quando incrocia gli occhi dissonanti di lei.
    Vorrebbe rispondergli, soprattutto per rimproverargli di essere stato così scontroso con persone che volevano solo rivederlo, ma Haru la precede, emergendo dal pel d’acqua.
    «Libero…» sussurra il corvino, come se parlasse a sé stesso.
    «Eh?» Rin sembra confuso, mentre il suo sguardo continua a passare freneticamente dall’insolita immagine della giovane a quella fin troppo conosciuta del rivale.
    «Non ricordi? Ti ho detto che nuoto solo in stile libero.»
    L’atmosfera carica di tensione sembra affilarsi quando il delfino s’issa sul bordo della vasca, uscendo dalla piscina per ritrovarsi faccia a faccia con i due perplessi occhi cremisi. Sorride sornione, mentre si scrolla di dosso l’acqua in eccesso. «Voglio che mi mostri ancora quella parte di te. Ho dimenticato ciò che ho visto in passato.»
    «Certo, con piacere.» La bocca dello squalo si distorce in un ghigno spaventoso, mentre gli occhi si trasformano in due sfere fiammeggianti. «Ma stavolta non sarà la stessa cosa. Ti mostrerò qualcosa di totalmente diverso.»
    Mizuko rimane in silenzio a contemplare la scena. Non riesce davvero a credere che quella persona possa essere il Rin di cui ha tanto sentito parlare dagli altri: davvero hanno fatto tutta quella strada per incontrare un tipo del genere?
    Si domanda come mai Haru sia cambiato così drasticamente al solo vederlo. Non gli piace per niente, quando si comporta a quel modo. Eppure, non riesce a fare a meno di pensare che ci sia sotto qualcosa.
    S’accorge delle gambe che le tremano solo dopo essersi alzata in piedi. La verità è che quel tipo la spaventa, e non poco come vorrebbe credere. Per un istante, quando lui l’ha guardata, è stato come se le succhiasse via l’aria. Non ha alcuna voglia di riprovare ancora quella sensazione, per cui s’avvicina goffamente ai due amici con ancora i piedi nudi e le gambe scoperte, mentre i due sfidanti s’avviano ai blocchi di partenza.
    Vorrebbe dire qualcosa, ma le parole le muoiono in gola quando sente nuovamente lo sguardo del rosso su di lei. Non alza la testa, per paura di dover ancora incrociare quegli occhi; il braccio di Makoto giunge veloce a cingerle le spalle, facendola spaventare.
    «Va tutto bene, Mizuko» le dice, cercando di tranquillizzarla.
    «Ai.» Non sa se sia davvero così, ma si convince che, se sta bene anche a lui, allora non può essere una scelta così sbagliata.
    In fondo, non ha mai visto Haruka perdere.




NOTE:

[1] Lett. “Se si parla, appare”. Questo famoso detto giapponese lascia intendere che se si parla di una persona, questa alla fine appare. È il corrispettivo giapponese dell’italiano “Parli del diavolo, spuntano le corna”.
[2] Lett. “Piacere di conoscerti”. Si usa in un contesto informale.
[3] Il corrispettivo di Dio in giapponese.

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Capitolo 4
*** 3. I ricordi che ho di te ***


Lo sclero di ver

Ciao a tutte/i!
Sono tornata anche con questa storia, che per qualche motivo era finita nel dimenticatoio. Non che motivi non ce ne siano stati, ma avevo - ed ho tutt'ora - molti dubbi sulla sua continuazione, perché ad essere onesta non sono molto convinta di come proseguirla. Però non preoccupatevi, troverò il modo di farla continuare in qualche modo.
A presto!


_EverAfter_










CAPITOLO III
I ricordi che ho di te





    È Makoto a dare il via a quella competizione. Una competizione che, agli occhi di chi guarda, sembra una sfida destinata a rimanere aperta; sebbene la gambata del rosso sia più potente, le bracciate che spingono il corvino a stargli dietro sono decisamente più poderose.
    Mizuko sa che, nonostante siano solo cento metri, quella è a tutti gli effetti una gara di resistenza: il primo che rinuncia alla bracciata decisiva, perde.
    Rimane con gli occhi sbarrati a fissare la curva longilinea dello squalo, colpita dal suo modo violento di nuotare. Le sembra subito che l’acqua attorno a lui si sposti da sola, per paura d’essere picchiata. Non riesce ad essere sorpresa come i due compagni che le stanno a fianco; lei può vederla, l’acqua, può sentire cosa prova: Haruka l’accarezza dolcemente, perfino a quella velocità non vuole arrecarle nessun tipo di danno; è accorto, attento e magnificamente in armonia con il suo elemento.
    «Incredibile, Haru è davvero bravissimo!» esclama Makoto, mentre una goccia di sudore gli scivola lungo la tempia.
    «È vero.» Nagisa si sporge in avanti per osservare meglio i due rivali. «Ha perso terreno ad ogni virata, ma l’ha quasi raggiunto!»
    Lei rimane zitta, rapita dall’espressione decisa del libero; per qualche istante si sente mancare l’aria nei polmoni, desiderando anche lei di tuffarsi in quella vastità e dimenticare tutto, la sua paura di non essere all’altezza, le selezioni, le mezze verità dette a chi di lei si fida ciecamente, l’incapacità di ricordarsi la gaiezza che le procura l’acqua, ogni volta accogliendola con ciò che ha sempre ritenuto essere due confortanti braccia.
    «Vai, Nanase-kun!» grida, facendo sobbalzare gli altri due.
    Non le importa. Non le importa se appare strana, non le importa se gli reca fastidio incitandolo. Vuole trovare anche lei quell’inconscia forza di superare il grande muro che le sormonta l’anima, perché è troppo alto e da lì non riesce a vederlo, il grande oceano delle sue emozioni.
    Rin stringe i denti, infastidito da quell’incitamento non richiesto. Si domanda ancora chi diavolo sia quella ragazzina tutta pelle e ossa, mentre la virata lo porta nuovamente in vantaggio rispetto al delfino. Si dice che questa volta potrebbe davvero vincere, se rimane concentrato. Eppure…
    «Vai, vai!»
    Che cazzo ha da strillare!? Sente il sangue pulsargli più del dovuto lungo la tempia sinistra; comprende subito come non sia dovuto allo sforzo fisico, ma alla voce della ragazza, divenuta quasi isterica per l’entusiasmo. Tappati quella bocca, mocciosa.
    S’accorge che il rivale ha perso un po’ di velocità, ma non se ne spiega il motivo. Di colpo, la sua potenziale vittoria gli sembra inutile con il suo avversario in quelle condizioni.
    Haruka è lontano da tutti quei pensieri. Mentre nuota, sente improvvisamente giungere all’orecchio la voce di lei, come l’eco di un ricordo lontano e che risorge dal fondo della piscina.


    ˪ È lei. La sente, lo sta chiamando. «Nanase-kun! Nanase-kun!»
    Si sente un attimo imbarazzato, mentre con l’ennesima bracciata sorpassa l’ultimo bambino accanto alla sua corsia, toccando per primo la parete della vasca. La ragazza grida di gioia e lo raggiunge al suo blocco, spintonando per sbaglio l’amico ch’è solito afferrargli la mano.
    «Mizuko» la rimprovera docilmente Makoto, afferrandola per un braccio per evitare che cada in piscina. «Stai attenta, quando cammini. Qui si scivola.»
    Haru sposta di lato lo sguardo, indispettito dal contatto tra i due.
    «Ohi» chiama infine, puntando gli occhi sulla figura gracilina della bambina. «Non gridare in questo modo. È solo un allenamento.»
    Lei si sporge dal bordo vasca, avvicinando il volto al suo. Il giovane delfino si allontana di qualche centimetro, mentre le guance gli si colorano di rosso. «C-che fai?»
    Gli sorride, chiudendo gli occhi. «È che quando nuoti sei davvero bellissimo, Nanase-kun.»
    Per un brevissimo istante, le iridi azzurre del corvino tremano al sentirle pronunciare quelle parole; sente le orecchie ancora tappate dall’intermittente apnea della gara, ma la voce squillante di Mizuko non ha bisogno di un udito che senta, ma di un cuore che l’ascolti.
    Fatto savio di questa verità, Haruka la fissa per la prima volta, rendendosi conto di quanto gli piaccia che lei lo inciti a quel modo, che lo sostenga e sia sempre lì ad attenderlo ai blocchi di partenza.
    Guardami, vorrebbe dirle. Non smettere mai di guardarmi, Mizuko. ˥


    Adesso la ricorda, quella sensazione. Capisce quello che stava cercando, perché gli torna tutto alla mente: non ha bisogno delle altre persone, fino a quando riesce a stare da solo con l’acqua. Però, quella voce… quella voce non avrebbe mai potuto dimenticarla.
    Era lei, nei suoi ricordi. Lo è sempre stata.
    Tocca per secondo la parete della piscina; quando si toglie la cuffia e gli occhialini, una strana felicità prende possesso di ogni suo muscolo, mentre la vede correre verso di lui, seguita dagli altri. Rimane fermo, con la testa tutta gocciolante, speranzoso che lei gli dica qualcosa. Quando la vede accovacciarsi accanto a lui, il delfino sta ancora ansimando per il colossale sforzo di raggiungere il rivale.
    «Ne, Nanase-kun» lo chiama, con il sorriso più bello che le abbia mai visto dipinto addosso. «Sei ancora bellissimo quando nuoti, lo sai?»
    Rin rimane impietrito a fissare l’avversario che le sorride. Per un istante, tutta la grinta che sente straripargli addosso per la vittoria si placa. Haru non sembra affatto dispiaciuto di aver perso, al contrario: s’è accorto di come la guarda. Eppure, non ricorda di aver mai sentito parlare di quella ragazza. Mai. Neanche una volta.
    Fissa cogitabondo la giovane, incapace di distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Si sorprende di come uno dei due assomigli tanto ai suoi; è rosso, ma di quel corallo delicato e dai tratti leggeri. Si sente smarrito al solo guardarla ed una rabbia cieca prende possesso di ogni suo nervo quando vede il vecchio compagno voltarsi verso di lui; reca sul volto un insolito sorriso.
    «Hai vinto» gli dice solamente. «Bravo, Rin.»
    «Bravo?» ripete, sputando via tutto il rancore che nutre per il delfino. Lo afferra per gli occhialini che gli cingono il collo, avvicinandolo a sé. Se potesse, gli tirerebbe volentieri un pugno.
    «Ehi, tu!» sente infine sbraitare dalla stessa voce isterica che ha sentito prima. «Lascialo in pace, che diavolo vuoi?»
    Si volta indispettito a cercare lo sguardo di lei. È chiaro che non capisca cosa significhi rimanere al proprio posto in momenti come questo.
    «Chiunque tu sia, mocciosa…» sta per replicare, ma le parole gli muoiono in gola.
    Qualcuno ha appena aperto la porta della piscina.
    «Perfetto» la sente mormorare. «Ora sì che siamo fregati.»





    Sente il telefono vibrare per l’ennesima volta; è inutile cercare di dormire, quando sua sorella si ostina a mandargli messaggi. Sbuffa incazzato, afferrandolo di malavoglia e leggendo accigliato il contenuto dell’ultima mail.

Da: Gou Matsuoka
A: Rin Matsuoka
Sei andato da Nanase e gli altri?

    «’Fanculo» sbraita, lanciando via il dispositivo elettronico.
    Poggia la testa sulle braccia muscolose, socchiudendo lo sguardo; è stanco e arrabbiato, ma non per il messaggio. È incapace di pensare ad altro che non sia la vittoria rubata di quella sera, lo sguardo luminoso del rivale mentre raggiungeva il blocco di partenza. Perché non era arrabbiato, perché gli ha sorriso?
    I pensieri confusi lo spingono a cercare una risposta che forse non riesce ancora a darsi, fino a quando distrattamente focalizza l’attenzione sul nitido ricordo dello sguardo più insolito che ha visto quella sera: è certo di non averla mai incontrata prima, eppure sembrava intima con il resto dei suoi vecchi compagni. Ripensa confuso allo sguardo dell’avversario quando l’ha vista correre verso i blocchi di partenza.
    Non ricorda di averlo mai visto sorridere a quel modo, prima. Non avrebbe mai creduto, in passato, che una mocciosa del genere potesse scuotere l’animo imperturbabile di uno come Haruka. Se ben presta attenzione a ciò che ha osservato, ricorda perfettamente di averli visti vicini quando ha aperto la porta.
    È impossibile, si dice, sfociando in pensieri totalmente incompatibili con ciò che conosce dell’ex compagno. Non è proprio il suo tipo.
    Vinto dalla curiosità e dalla rabbia per non essere riuscito ad andare avanti, afferra lo smartphone. Prende un profondo respiro, mentre pigia coi pollici sulla tastiera del touchscreen.

Da: Rin Matsuoka
A: Gou Matsuoka
Chi diavolo è quella ragazzina?

    Non vuole rispondere alla precedente domanda postagli dalla consanguinea, ma sa per certo che lei risponderà alla sua. In fondo, è solo una sorella che ricerca l’affetto del fratello maggiore, troppo cambiato per essere ancora un buon esempio da seguire.
    Rimane in attesa di un chiarimento, mentre la sua mente si rifiuta di lasciar andare lo sguardo conosciuto quella sera, la voce squillante e quell’aria trasognante che sembravano esser frutto della sua immaginazione, se non fosse che quella ragazza lui l'ha vista davvero. E, con lei, ha visto Haru cambiare, divenendo una persona a lui del tutto sconosciuta.
    Il telefono vibra, risvegliandolo dai pensieri; s’affretta ad afferrarlo, mentre cerca di concentrarsi.

Da: Gou Matsuoka
A: Rin Matsuoka
Non so di chi tu stia parlando, ma credo si tratti di una ragazza che andava con loro all’Iwatobi Swimming Club prima del tuo arrivo.
Credo si chiamasse Mizuko o qualcosa del genere, non ricordo bene.

    Ricorda che Makoto l’ha chiamata proprio con quel nome, per cui è certo che debba essere lei.
    Una ragazza dell’Iwatobi SC? Si ritrova a pensare, non riuscendo a focalizzare il suo viso in nessun ricordo tangibile. Lo innervosisce il pensiero che gli altri potessero aver avuto una vita prima del suo arrivo e non si spiega la strana sensazione che gli stringe il petto, mentre con lo sguardo vaga lungo le doghe del letto a castello, ingelosito dal fatto che l’ignaro compagno di stanza riesca a trovare il sonno molto più facilmente di quanto non faccia lui.
    Un’improvvisa curiosità l’assale: se è andata via dal circolo, vuol dire che è partita da qualche parte. E dove? E, soprattutto, perché è tornata?
    Sa perfettamente che non ha il diritto di farsi simili domande; in fondo, la vita privata di una ragazza che ha visto di sfuggita non è certo materia che possa interessargli, ma non riesce a togliersi dalla testa lo sguardo di Haruka mentre la guarda.
    Si convince che persino la sua immeritata vittoria abbia a che fare con lei e non ha alcuna intenzione di continuare a tormentarsi con domande a cui non può trovare una risposta. Si alza, facendo attenzione a non svegliare il compagno: a volte, su un letto a castello, dormire sotto non è poi così male.
    S’avvia circospetto lungo il perimetro della Samezuka, con le mani nelle tasche della felpa e lo sguardo fisso dinnanzi a sé, preda della voglia di sapere chi diavolo sia quella mocciosa e il perché stava con loro.
    Magari l’hanno vista di sfuggita. Certo, Rin, come no.
    Si dà mentalmente dello stupido, crollando sfinito su di una panchina lì vicino. Lascia andare la testa all’indietro, venendo colpito dal bel cielo stellato di quella notte. Si chiede come mai tutti siano riusciti ad andare avanti tranne lui.
    Quel malessere che sente montargli addosso gli fa rabbia, perché è la prova di quanto lui sia infinitamente più debole rispetto agli altri. Rispetto ad Haruka, che sembrava completamente diverso dal ragazzino apatico conosciuto cinque anni prima.
    Scatta a sedersi composto, come scottato dal pensiero appena avuto: se era nel club di nuoto, allora anche lei nuota.
    Allora, forse…


    ˪ Il rosso scruta attentamente l’armadietto accanto all’amico. Incuriosito, sfiora con la punta delle dita la piccola antina in acciaio, ma quando cerca di aprirla, la rigida manata del corvino richiude il piccolo spiraglio che Rin era riuscito ad aprire.
    Sbuffa, innervosito. «Ohi, Haru!»
    Il giovane delfino non ha voglia di rispondergli, gliel’ha già ribadito molte volte: quell’armadietto non deve essere toccato.
    «Haru!» insiste a chiamarlo il rosso, gonfiando le guance per il disappunto. «Ma perché non posso aprirlo?»
    «Perché non è il tuo.» Lo sguardo blu minaccia di divenire presto un mare in tempesta.
    Il piccolo squalo si sorprende ogni volta; non vi è cosa che faccia infuriare quell’apatico bambino, ma quando qualcuno sfiora – anche solo per sbaglio – quell’armadietto, i suoi occhi s’incupiscono al punto tale da far desistere chiunque dall’intento di aprirlo.
    Rin osserva di sbieco le iniziali sbiadite sul piccolo cartello dell’antina: M. H.
    Si volta verso il bambino. «Non ho mai visto nessuno aprirlo, da quando sono qui. Dì un po’, non è che lo conosci, questo M.H.?»
    Vede quello sguardo blu tremare leggermente al suono di quella domanda. Si chiede se non abbia esagerato con la sua continua invadenza, ma l’intervento repentino di Makoto distoglie entrambi dalla conversazione.
    «Rin» lo chiama, col suo solito sorriso. «È una storia vecchia, non dovresti…»
    «Non è una storia vecchia.» La voce del bruno è incrinata, ma non per il pianto. Quella è rabbia. «Non ha mai detto che non sarebbe tornata.»
    «Haru» cerca di consolarlo l’amico più caro, ma il rosso si stupisce di come il delfino respinga il suo aiuto.
    «Non ti riguarda!» sbraita, prima di correre via dalla stanza.
    Rin fissa Makoto, spaesato. L’orca non ha voglia d’incrociare altri sguardi, per quella giornata.
    «Perché Haru è così affezionato a quell’armadietto?» chiede infine, sulla strada per tornare a casa.
    «Apparteneva ad una persona speciale.» Non ha voglia di aggiungere altro, questo Rin lo comprende facilmente, ma non riesce proprio a trattenersi.
    «A chi?»
    «Una bambina.»
    «EH?!»
    Vede comparire sul viso dell’amico l’impronta di un nostalgico sorriso. «Voleva avere l’armadietto accanto a quello di Haru.»
    «U-una femmina?!» domanda Rin, in preda al panico. «Nello spogliatoio maschile?»
    Makoto fa spallucce. «Lei ed Haru erano sempre gli ultimi ad uscire dalla piscina. Il coach Sasabe ha pensato che non vi fosse nulla di male, dopotutto.»
    Il castano ha compreso male, non è per quello che il rosso è così sconvolto. È semplicemente l’idea d’immaginare Haruka, che già di suo non esterna alcun tipo di emozione, affezionato ad una bambina. Congettura subito su come possa essere: bionda, castana, bruna? Alta, bassa? Robusta, gracile?
    Fatica a immaginarla. E chissà che occhi deve avere, magari azzurri oppure verdi. Gli piacerebbe che fosse bruna con gli occhi di smeraldo, come il suo amico Sosuke. Però non riesce proprio a fantasticarla robusta, immagina possa trattarsi di quelle graziose bimbe che però non hanno un filo di muscolo oltre ai tendini.
    Il suo entusiasmo straripa facilmente a sorprendere l’amico che gli sta accanto. Non vede l’ora di vederla. «Quando torna?»
    Lo sguardo smeraldino si rabbuia, distogliendosi dagli occhi cremisi pieni d’energia dello squalo.
    «Non credo tornerà mai» mormora, rivolto al mare. Se potesse andrebbe lui stesso a cercarla, sperando di ritrovare quella parte di Haru che è partita con lei.
    Rin se ne sta zitto, mentre osserva le iridi spente di Makoto illuminarsi debolmente di una pallida luce.
    «È un peccato che tu non possa conoscerla» dice infine l’orca, tornando a sorridere. «Lei era davvero speciale.»
    «Ah?» Il rosso è confuso, ma non ha voglia d’interrompere l’amico. Per qualche motivo, gli sembra che non sia Haru il solo ad essere rimasto ferito.
    «Makoto» lo chiama infine, arrestando il passo. «Non è che…»
    «Come ho detto prima» lo interrompe l’orca, dandogli le spalle. «È una storia chiusa, ormai.»
    Il rosso rimane a fissare inebetito la schiena del dorsista, pensando a quanto dolore debba ancora celarsi in quella faccenda per ferire così i suoi amici. Per un istante sente di odiarla, quella bambina. Anche se non la conosce. Anche se non l’ha mai vista.
    E nonostante tutto, Haru la sta ancora aspettando, non comprendendo il perché l’abbia abbandonato.
    Lui si dice che non l’avrebbe mai fatto.
    Non li avrebbe mai abbandonati. ˥


    La sorte è davvero ironica, o almeno è quello che pensa ora, mentre la sua colpa sfocia a lacerargli il cuore: lui ha fatto peggio, perché non solo li ha lasciati, ma adesso è anche il rivale peggiore che Haru potesse trovare.
    È arrabbiato, incattivito dalla sua incapacità di superare un muro per lui troppo alto, e tuttavia gli fa ridere l’idea che se lo sia costruito da solo, mattone dopo mattone, ostacolo dopo ostacolo, senza più essere in grado di capire perché l’ha fatto. Ha davvero il diritto di giudicare qualcun altro, proprio lui che ha deciso di andarsene per realizzare il suo sogno senza curarsi di ciò che si lasciava alle spalle? Una domanda del genere non se la sarebbe mai posta prima, ma ora è diverso. Lui è tornato.
    E forse ha davvero sperato di vedere il fallimento anche negli altri, per convincersi di non essere stato il solo a non aver raggiunto il suo sogno. Si sarebbe sentito meglio, se avesse visto Haruka ridotto alla sua stessa maniera; sa di essere un egoista, ma non può fare a meno di pensare che, se lei non ci fosse stata, magari il rivale si sarebbe davvero sentito come lui adesso.
    «Dannazione!» sbraita, sbattendo violentemente un pugno contro un tronco lì vicino. Si lascia cadere in ginocchio accanto all’albero, affaticato dai troppi pensieri e dalle poche ore di sonno.
    Tra qualche ora sarebbe sorta l’alba. Peccato che lui non sarebbe stato lì per poterla vedere.






    «Razza d’idioti!»
    Beh certo, se lo meritano dopotutto. Rimane in disparte, mentre il sensei sbraita contro i compagni. «Almeno mostratevi pentiti per quello che avete fatto!»
    «Ci dispiace» rispondono in coro, Nagisa e Makoto chinando lo sguardo, Haruka con gli occhi ben piantati sulle lenti inspessite del docente.
    «Prima vi intrufolate in un edificio abbandonato, ora nella piscina di un altro istituto!» continua l’uomo di mezza età, ignorando le loro scuse. «Diamine. Per fortuna che hanno deciso di minimizzare l’accaduto e di non sporgere denuncia.»
    Rimane zitta, pensando al perché i suoi amici siano stati beccati in un edificio abbandonato. Allora forse è divenuta un’abitudine, trovarsi dove non devono.
    È in piedi accanto ad Amakata-sensei; vorrebbe intervenire nella conversazione, spiegando il tutto e scusandosi anche lei – in fondo, era lì con loro. Dà qualche colpetto di tosse per attirare l’attenzione ed evitare così che il professore possa inveire ancora contro i suoi amici.
    «Sensei.» Sorride imbarazzata, consapevole di essere dalla parte del torto, ma comunque ostinata nel cercare di mettere una pezza a colori. «Non deve prendersela solo con loro. La colpa è anche mia.»
    L’uomo la fissa sbalordito, mentre si alza in piedi e le va incontro, afferrandole le mani con fare protettivo. «Hoshino-san, la colpa non è tua. Sono loro che ti hanno sicuramente trascinata in questa situazione. Una ragazza a modo come te, che viene da un istituto di prestigio come…»
    «V-va bene così professore, è davvero anche colpa mia!» interviene, senza dargli il tempo di finire il discorso. Non vuole certo parlarne adesso, di quanto sia una brava ragazza ed una studentessa diligente.
    Alle orecchie dei presenti, tuttavia, risulta evidente come lei tenti di sviare il discorso. La cosa non va affatto bene, si dice, mentre una frase fuori luogo di Amakata-sensei riesce in qualche modo a confondere il docente, che li lascia andare senza ulteriori prediche.
    S’incamminano silenziosi lungo i corridoi; spera davvero che nessuno di loro faccia domande su quanto hanno sentito. Si ricorda di averne parlato con Nagisa, ma è convinta di non aver rivelato nulla di compromettente che possa in qualche modo insospettirlo. Ma, come ben sa, Haruka e Makoto sono un’altra storia.
    Mentre cammina non si accorge di aver distanziato gli altri di qualche metro; rimane in attesa ad aspettarli. Haruka è il primo a raggiungerla, mentre gli altri due sono rimasti indietro, catturati dalla parlantina frenetica di quella ragazzina incontrata qualche giorno prima sulla collina.
    «Andiamo» lo sente dire, mentre l’afferra per un polso e la invita a camminare insieme a lui.
    «Ai» si limita a rispondere, assecondando la sua andatura svogliata.
    Rimangono in silenzio per un po’ di tempo. Per strada, a quell’ora del pomeriggio, non c’è mai nessuno. La tranquillità di quel momento della giornata l’è sempre piaciuta, ma godere di quella pace insieme al corvino è tutta un’altra storia.
    Ora che sono soli vorrebbe fargli tante di quelle domande da stordirlo, eppure quando finalmente trova la forza per iniziare a parlare, sente la voce di lui giungerle all’orecchio. «Dove sei stata?»
    È una domanda semplice e precisa, esattamente come quelle che è solito fare. Ammette d’essersi trovata spiazzata più di una volta, in passato.
    «In Francia.» A domanda diretta, risposta diretta.
    «Per fare cosa?»
    La brezza fredda le attacca il viso, obbligandola a chiudere gli occhi per qualche istante. Quando li riapre, Haruka la sta fissando.
    «Che c’è? Ho qualcosa in faccia?»

    Il corvino sospira, distogliendo lo sguardo. «Rispondi e basta.»
    «Non che dovessi proprio fare qualcosa» borbotta, mentre i suoi occhi si puntano a fissare il rosso di un semaforo che sembra non volerli far passare. «È stata mia madre. Ha deciso così.»
    «E allora perché non mi hai detto che te ne andavi?» Giurerebbe di vedere un leggero rossore proprio sotto i suoi occhi mentre le pone quella domanda.
    Si sente un po’ a disagio, al pensiero di non riuscire ancora a dirgli tutto. Però in fondo lui è Haruka… magari a lui potrebbe dirla, la verità. Si blocca, puntando i piedi e con la mano ben stretta attorno alla tracolla che porta ciondolante sulla spalla. «Perché non lo sapevo.»
    Sa che è giusto così, sa che tra tutti lui sia l’unico che non potrebbe mai giudicarla. Il delfino è fatto così, quando è con lui sente di non dover mai dare spiegazioni, nonostante adesso le pretenda. Si chiede se non abbia sofferto, per non averla più vista.
    «Ne, Nanase-kun.» Gli afferra maldestramente un lembo della giacca, costringendolo a fermarsi. «Hai smesso di nuotare davvero?»
    La terrorizza l’idea che quella voce possa essere fondata. Il panico che prova all’idea di non poterlo più vedere nuotare le riempie il cuore di angoscia. Ha lo sguardo chino e non accenna minimamente a guardarlo: ha improvvisamente paura che quel silenzio sia un monito per ricordarle di non immischiarsi in affari che non le riguardano.
    Vorrebbe dirgli che va tutto bene, che anche se ha smesso c’è sempre un buon motivo per ricominciare – ma certo, lo dice proprio lei che neanche ricorda perché nuota.
    «Io» continua, sapendo che il corvino non le risponderà. «Io adoro il modo in cui nuoti. Non sopporterei l’idea che tu… che tu…»
    È così stupida che le viene da piangere. Vorrebbe continuare a parlargli, ma il groppo in gola non riesce più a sciogliersi. Sente le labbra tremare ed il cuore mancare il battito man mano che ripensa a tutto ciò che ha visto la sera precedente. Non può aver smesso di nuotare. Non lui. Non Haruka.
    Si preme una mano contro la bocca, per evitare che possa sentirla singhiozzare. Cerca di togliersi una lacrima che le scende lungo la guancia con la manica della divisa scolastica, ma prima che il tessuto possa dissipare via quell’improvvisa tristezza, la mano del delfino è già lì, e con il pollice asciuga via il piccolo rivoletto che le solca lo zigomo.
    Quando alza lo sguardo, le due iridi blu la stanno già aspettando. Si tuffa sconvolta tra le sue braccia, certa che lui non sbaglierà la presa.
    «Scusa!» strepita infine, lasciandosi andare ad un pianto liberatorio. «Io non voglio che smetti di nuotare! Non voglio che lo fai, voglio continuare a vederti, voglio continuare a gridare il tuo nome, Nanase-kun!»
    Haruka rimane assorto ad ascoltare il piagnisteo della ragazza; è appagato nel vederla finalmente così vicina a sé, spaventata e tremante, mentre gli sputa addosso tutta la paura che prova, e l’ansia, e il dolore. Sorride impercettibilmente, serrando la presa attorno alla sua piccola vita e posando la testa sulla sua bella chioma bionda.
    «Ohi, baka» le sussurra infine, interrompendo di colpo il fiume in piena dei suoi discorsi senza senso. «Se continui così, farai girare tutta Iwatobi.»
    Con il volto immerso nel calore del suo petto, Mizuko si guarda intorno circospetta, poi torna con lo sguardo gonfio e ancora lucido a fissare quello divertito del delfino. «Bugiardo! Qui non c’è nessuno!»
    Gli occhi di Haruka brillano di un’insolita luce; è qualcosa che va ben oltre il vacuo senso di felicità che prova quando è in acqua. È più profondo e terribilmente più dolce: è la serenità della normalità, il sapere che lei è di nuovo lì con lui e che si comporta esattamente come ha sempre fatto, come la bambina che è stata, che è ancora.
    S’inebria del dolce profumo dei suoi capelli, tranquillizzandosi all’idea che lei non riesca a vedere quanto il suo sguardo sia rilassato. «Mizuko.»
    «Ai.»
    Sorride, con le labbra premute contro la sua pelle morbida. «Rimani.»
    Non gli importa di altro, al momento. Vuole strapparle l’insana promessa di non andarsene più, perché gli si squarcia il petto al solo pensiero di perderla nuovamente. Non vuole, è una cosa a cui non può sopravvivere.
    Rimani con me, vorrebbe dirle, se ne avesse il coraggio. Rimani per me.
    La sente aggrapparsi alla sua camicia, affondando il volto nell’incavo del suo petto, mentre parte dei capelli dorati s’intreccia all’ebano dei suoi.
    «Non mi lasciare più.» Lo dice con una tale spontaneità da non riuscire neppure a sorprenderlo. Da lei se l’aspettava una richiesta assurda come quella.
    Trattiene a stento una risata. È inutile. Con lei proprio non riesce ad essere l’indifferente di sempre. Dipenderà dal fatto che puntualmente, ogni volta che prova a trattarla come se fosse una persona qualsiasi, Mizuko se ne esce con qualche frase assurda e senza senso. Le stesse frasi di tutte le volte, quelle che l’hanno indissolubilmente legato a lei fin da quando l’ha vista cadere dal blocco di partenza il primo giorno che l’ha incontrata.
    Lo sa; resistere a quell’emozione, per quanto assurda sia, è del tutto inutile. Il suo cuore, quando è con lei, batte più velocemente. Chissà se riesce a sentirlo in questo momento.
    «Perché?» domanda infine, immergendo il volto nel fitto dei suoi capelli e inspirando tutta l’aria che riesce a far entrare nei polmoni. «Perché devi essere così?»
    La vede alzare il capo, confusa. «Così come?»
    Haruka sorride, mentre il suo sguardo inizia a tremare, riflesso nelle iridi cangianti della piccola ragazza che stringe in un abbraccio di quelli che non vengono definiti tali, ma che celano l’essenza stessa di un sentimento troppo forte per poterlo esprimere a parole.
    Già, così come? Vi sarebbero una marea di aggettivi che potrebbe attribuirle, ma in quel momento non gliene viene in mente neanche uno per poter descrivere ciò che prova.
    Forse un giorno la troverà, quella parola che vorrebbe tanto dirle. Quella parola che la rappresenta, che appena la pronuncia le viene in mente lei. Chissà se esiste davvero, una parola simile.
    «Vieni a casa mia» le dice infine, privo di malizia.
    Gli occhi ancora umidi della giovane sembrano sorridergli e sente il calore delle sue mani proteggergli il petto dal freddo sempre più aggressivo. Se potesse concedersi ancora del tempo, rimarrebbe in quella posizione ancora per un po’, ma a giudicare dal nasino arrossato di lei il vento è diventato decisamente troppo turbolento.
    «Andiamo?» chiede la compagna, asciugandosi le ciglia umettate. «Prometto di non piangere più.»
    Haruka le accarezza i capelli, stropicciandoglieli delicatamente. «T’inventerai un’altra sciocchezza per potermi abbracciare.»
    Mizuko arrossisce di colpo, portandosi una mano a coprirsi le guance.
    «N-no, non lo farò! Brutto cattivo!» sbotta, incalzando il passo e portandosi un po’ distante da lui.
    Il delfino la osserva da lontano, contemplando il bel quadro che vede dipingersi in ogni istante da quando è tornata. Si sente bene, nonostante l’ombra di Rin continui a perseguitarlo.
    Se sarà brava, forse lei riuscirà a farlo smettere di scappare.





    Non è felice, Mizuko. Per niente.
    O almeno è quello che si dice quando vede apparire sull’uscio della porta di casa Nanase gli sguardi curiosi dei compagni, più un paio di occhi cremisi che tanto ricordano il ragazzo sfacciato della sera precedente.
    «Mizu-chan! Ci sei anche tu!» strilla Nagisa entusiasta, buttandosi tra le sue braccia. Dovrebbe capire di essere ormai troppo grande per credere che il corpo gracilino della giovane sia in grado di sostenerlo. «Pensavamo fossi tornata a casa.»
    L’idea era quella, vorrebbe rispondere, ma si limita a sorridere. «Sì, beh… Haru mi ha chiesto di venire.»
    Si blocca di colpo; da quando lo chiama Haru? Scuote la testa, tirandosi tanti piccoli schiaffi sulle guance; mentre Nagisa la fissa sbigottito, Makoto le si affianca, sfiorandole la testa con la mano. Conosce la ragazza abbastanza da sapere che non si perdonerebbe mai se le scappasse un’altra volta di chiamarlo per nome. A volte il suo essere così rispettosa è quasi troppo formale.
    «Dov’è Haru?» le chiede, ignorando la sua piccola sceneggiata. «Dobbiamo parlargli di una cosa molto importante.»
    Mizuko fa un cenno con la mano. «È a farsi un bagno.»
    E adesso si ritrova incastrata in una situazione terribile, nella quale i suoi tre amici stanno discutendo animatamente al piano superiore, mentre lei è vittima del sorrisetto falso della ragazza che le sta di fronte. No, decisamente non riesce a sopportarla, neppure quando non parla. È ovvio che sia un’antipatia di pelle, nonostante ammette di non capire il motivo preciso per cui non riesce a farsela andare a genio – anche se, ad essere onesta con se stessa, non ricorda di aver mai avuto delle amiche vere.
    Vorrebbe chiederle alcune cose su suo fratello; per esempio, perché diavolo sia così incazzoso. Si rende conto che potrebbe tranquillamente mandarla al diavolo, se ponesse la sua domanda in maniera sbagliata. Non trova una scappatoia e si sente un po’ in trappola, almeno fino a quando gli altri ragazzi non fanno capolino dalla porta del corridoio.
    Tira un sospiro di sollievo; non dovrà confrontarsi con una ragazza di cui non vuole sapere niente, e questa è davvero una cosa fantastica, si dice, mentre continua a fissarla. Lei non sembra guardarla, ma sembra aver posto l’attenzione su altro. Si volta a fissare i ragazzi e le parole le muoiono in gola.
    «N-Nanase-kun!» sbraita, mentre arrossisce lievemente. «Ma p-perché sei nudo?»
    Il delfino non fa in tempo a rispondere; vede l’attenzione della ragazza rivolta alla figura che si è voltata di spalle non appena l’ha visto. Sembra una ragazza della stessa età di Mizuko, con lunghi capelli rossi avvolti in una folta coda.
    La giovane nuotatrice si chiede subito il perché di tanta vergogna. In fondo è solo un ragazzo nudo, una cosa normale da guardare. Per certi aspetti, l’atteggiamento imbarazzato della ragazza che le sta accanto la indispettisce, cosa che sembra peggiorare nell’esatto momento in cui la vede portarsi un indice alla bocca, vittima della perfezione anatomica del corvino che, incurante di tutto, si sta togliendo l’acqua in eccesso sulle braccia con un asciugamano.
    Potrebbe ammazzarla, si dice. In fondo, è una ragazzina come tante altre nel mondo. Non importerebbe a nessuno, o almeno si convince che sia così.
    Il suo sguardo oscuro viene colto dal placido Makoto, che le afferra un braccio, trascinandola al suo fianco.
    «Cerca di non ucciderla» le sussurra, facendosi scappare una risata. «A quanto pare è l’unico modo che abbiamo per avvicinarci a Rin.»
    Perché dovremmo avvicinarci ancora a Rin? Vorrebbe domandare, ma si rende conto di trovarsi nel contesto sbagliato. Non c’è tempo, adesso, per discutere di una cosa tanto futile come quella.
    «Ah, già» interviene Nagisa, salvandoli da un certo imbarazzo. «Haru non era con noi l’altra volta.» Il biondino fa un cenno con la mano verso l’ospite. «Lei è la sorella minore di Rin.»
    «C-ciao» risponde Gou, con la vocina sottile. «Da quanto tempo.»
    «Matsuoka…» fa Haruka, ignorando il rossore sulle guance della giovane. Cerca di ricordarsi la pronuncia esatta del suo nome. «… Kou.»
    «Sì!» risponde la ragazza, entusiasta che qualcuno l’abbia denominata col nome con il quale preferisce sentirsi chiamare. «Mi scuso per il comportamento di mio fratello.»
    Scusati per il tuo, di comportamento, vorrebbe gridarle addosso la bionda, fulminando di sottecchi gli occhi trasognanti della giovane che le sta seduta accanto.
    «Tranquilla» le risponde il ragazzo, indossando una felpa. Non sembra troppo coinvolto dal discorso accorato della piccola Matsuoka, mentre s’annoda un grembiule da cucina attorno alla vita per avviarsi ai fornelli col suo solito atteggiamento svogliato.
    «Ah, se prepari il thè, ho anche dei calamari da mangiarci insieme» gli dice Makoto, alzando la voce affinché possa sentirlo.
    Nagisa non sembra entusiasta all’idea. «EH!? Ma il cioccolato è decisamente meglio!»
    «Allora faccio lo sgombro e vi accontento entrambi» asserisce infine il ragazzo ai fornelli, afferrando una padella da sotto il piano cottura.
    «Beh, “accontento” mica tanto!» si lagna il biondino, buttandosi sulla spalla dell’amica. «Mizu-chan! Diglielo tu!»
    Haruka si blocca, voltandosi a fissarla. È chiaro che stia aspettando una sua conferma e la cosa, sotto certi aspetti, la gratifica più di quanto si aspettasse. Si è detta che avrebbe dovuto sembrare più normale nei confronti del corvino quando ci sono anche gli altri, ma quel blu che la guarda è come un fiume in piena per il suo cuore, che non riesce affatto a controllare.
    «E-ehm…» cerca di dire, schiarendosi la voce. «Effettivamente a me piacciono i calamari.»
    Ma che cazzo dico!? I calamari, con il thè!? Pensa, mentre l’ombra di un sorriso appare sul volto rilassato del delfino, che si volta non concedendo a nessuno quella rara visione.
    «Meglio che ti aiuti!» sbotta infine Nagisa, avvicinandosi ai fornelli.
    Mizuko tira un sospiro di sollievo, mentre Gou sofferma lo sguardo su quello che ha tutta l’aria di essere un trofeo datato, posto accanto al chabudai[1]. «Ma questo…»
    La rossa non riesce neppure a concludere la frase che il dorsista le sorride, portandosi una mano a grattarsi la nuca. «È il trofeo che abbiamo vinto tempo fa. Rin ci ha detto che non gli serve più.»
    La giovane Matsuoka avvicina la mano ad una fotografia lasciata lì vicino, afferrandola con le dita sottili.
    Non sono affari miei, pensa distrattamente la nuotatrice che le sta accanto, ma ignorando completamente il flusso dei suoi pensieri butta un occhio, convincendosi che non stia facendo nulla di male. Quando assottiglia lo sguardo, riesce a vedere distintamente i tre amici e un bambino che ricorda in tutto e per tutto il ragazzo scontroso della sera prima; si stringono in un abbraccio vittorioso, con le medaglie al collo e Rin che stringe tra le mani il trofeo del primo posto.
    «State tutti ridendo…» sussurra triste la giovane sorella dello squalo, ricordando i bei tempi in cui il fratello ancora ricordava come si sorride.
    «Beh, tranne Haru, in realtà» fa notare l’orca, sorridendo gentile.
    Mizuko sofferma lo sguardo sul bel bambino che ricorda con tanto affetto, rimanendo colpita dal suo viso. Non è affatto come dice Makoto, si dice. Solo guardando quella foto riesce a sentirlo, quanto sia stato felice quel giorno. Le sue guance arrossiscono, mentre i ricordi della piscina Iwatobi le tornano alla mente freschi e pieni di dolci sentimenti.
    «Ma lui in cuor suo sorride sempre.» La frase esce sbadatamente dalla bocca del biondino che ha portato loro le tazze colme di thè. Mizuko pensa per la prima volta che Nagisa abbia fatto davvero centro: non avrebbe saputo descrivere meglio Haruka di come non abbia fatto lui con quell’asserzione.
    Gou ride, dimenticandosi per un istante della malinconia che si porta addosso. «Così lo fai sembrare una persona brutta e cattiva!»
    Al contrario, vorrebbe rispondere, ma qualcosa nello sguardo cremisi che le sta accanto la fa desistere dall’intento di screditarla ulteriormente. S’accorge di non riuscire affatto a provare empatia per quella ragazza e la cosa sembra destabilizzarla più di quanto non dia a vedere; è sempre stata molto fiera della facilità con cui riesce a leggere le persone, ma lei – così come il fratello – le appare molto più distante di quanto non abbia creduto la prima volta che l’ha vista. Forse è per questo che crede di non sopportarla; è frustrante pensare di non riuscire a leggerle addosso la storia della sua vita.
    Si alza impensierita, avvicinandosi ai fornelli. «Serve una mano?»
    «Sì, passami i calamari» le risponde Haruka, poi s’avvicina al suo orecchio, abbassando il tono della voce. «Visto che gli sgombri non ti piacciono.»
    Gli tira una gomitata amichevole, trattenendo una risata, mentre nel piccolo salottino Nagisa, Makoto e la Matsuoka intraprendono una conversazione su Rin dai toni decisamente alti.
    «Allora, è la prima volta che Rin torna in Giappone?» chiede l’orca, cercando di fare conversazione.
    «Eh? Veramente è tornato ad ogni Capodanno.» La confessione di Gou sembra turbarli, come dimostra lo sguardo agitato del giovane nuotatore a rana.
    «Perché non ce l’ha mai detto?» domanda, sconvolto.
    La nuotatrice non riesce affatto a capire come mai quella risposta li inquieti in quel modo; avverte l’improvvisa tensione del corpo che le sta a fianco: è tranquillo come al solito, ma se posa l’attenzione sul suo sguardo, le sembra subito che stia tremando. Nonostante la penombra non le permetta di focalizzare il suo viso, Mizuko è certa d’averlo sentito trattenere il respiro per qualche istante.
    Si è sempre sentita inutile, quando anche in passato lo vedeva in quello stato: solo, indifferente e completamente senza difese. Si rimprovera per non essere in grado d’intervenire neppure adesso, mentre il ricordo del vecchio amico lo ferisce, ma cosa può farci lei, se neanche conosce la radice di quel male? Vorrebbe gridargli di smetterla d’essere così impassibile e di concedersi d’essere un po’ più umano almeno sotto quel punto di vista. Lo vorrebbe tanto.
    Si volta a guardare Makoto, certa che abbia sussurrato il nome dell’amico. Quando incrocia il suo sguardo, capisce quanto anche lui sia preoccupato per quella faccenda.
    È come vedersi riflessa in uno specchio.
    Un grande, immenso specchio che riflette nel castano tutte le preoccupazioni che assillano anche lei, senza però la certezza di poterle risolvere.





    «Visto che siamo tutti d’accordo, ho preso il modulo per la formazione del club!»
    Mizuko rimane imbambolata, con il boccone a mezz’aria che le cade distrattamente dalle bacchette. È certa di aver sentito male. «Co-come?»
    I tre amici la fissano, sorridendo tra di loro; per qualche motivo, è convinta che di lì a poco possa scoprire qualcosa di scioccante.
    «Ragazzi» continua, riacquistando il controllo di sé. «Spero vivamente che non stiate combinando nulla di stupido.»
    «È solo un club» sbotta Nagisa, buttandosi sulle sue spalle. «Non fare la bacchettona!»
    Haruka lo strattona via, irritato. È inutile, da quando Mizuko è tornata il biondino non riesce a staccarsi da lei; deve ammettere che la cosa lo indispettisce un po’, specie perché lui ha tanto tempo da poter passare con lei, comprese le lezioni e l’ora di educazione fisica. «Ohi, Nagisa. Cerca di spiegarle meglio.»
    «Ai!» risponde entusiasta il giovane nuotatore, ricomponendosi. «Dunque… Abbiamo deciso di aprire un club di nuoto.»
    «Eh?!» Il suo stupore è del tutto lecito, ma sembra non sorprendere affatto gli altri due ragazzi, che continuano a consumare tranquillamente il loro pasto.
    Nagisa continua, ignorando la sua incredulità. «Dunque, vediamo…» Osserva il foglio che stringe tra le mani. «Lo scopo di questo club è di allenare mente e corpo tramite il nuoto e migliorare la nostra esperienza scolastica.»
    Mizuko sospira, ormai consapevole di non essere in grado di fermare in alcun modo l’entusiasmo senza freni dell’amico. Lo fissa di sbieco, schiaffeggiandosi il viso per non essere stata in grado d’accorgersi prima del suo progetto senza speranze. «Nagisa.»
    «Sì, Mizu-chan?»
    «Credi che basti questo per approvare un club?» gli chiede, strappandogli di mano il foglio ed osservando minuziosamente le diciture.
    «Devo aggiungere altro?»
    La ragazza si volta verso Haruka, che fissa quella scenetta senza dire una parola, poi verso Makoto, che mastica tranquillamente un boccone di riso bollito. «Non avete da dirgli niente, voi due?»
    «Cosa dovremmo dirgli?» Makoto sorride, pulendosi il contorno delle labbra dai chicchi bianchi. «Nagisa è quello più informato.»
    Haruka si limita a fare spallucce. Perfetto. È ovvio che debba aiutarlo lei, nonostante non le abbia chiesto ancora niente.
    Sospira, sconfitta. «Per prima cosa devi specificare la motivazione principale per la quale vuoi aprire il club. Hai qualche idea migliore di quella di prima?»
    Nagisa la fissa, senza capire.
    «Non saprei» continua Mizuko, cercando di spronarlo. «Avete intenzione di partecipare a delle gare?»
    «È un po’ presto per dirlo, no?» domanda il castano, improvvisamente incuriosito dalla piega che quella conversazione sta prendendo.
    Mizuko sbuffa, infastidita. «Certo che no. Se scriviamo che lo scopo del club è quello di competere a livello agonistico, i risultati potrebbero portarci ad ottenere più fondi, i quali potrebbero essere impiegati per i più svariati motivi – attrezzature, costumi, persino per le trasferte fuori porta.»
    «Potrebbero portarci?» Nagisa la fissa con sguardo malizioso. «Ti unirai anche tu al club, vero Mizu-chan?»
    È certa di riuscire subito a replicare dandogli picche, ma prima di rispondere il suo sguardo cerca quello blu di Haruka, già in attesa d’incrociare i suoi occhi. Il corvino la fissa intensamente, con uno strano luccichio che gli riempie le iridi cerulee. «Dovresti farlo.»
    Chissà perché, ma non riesce a pensare di contraddirlo. È la stessa sensazione di sempre, quella che pone il delfino su un piano più alto rispetto agli altri e che la rende incredibilmente fragile in sua presenza. China lo sguardo, cercando di non apparire troppo imbarazzata. «M-ma non vedo come potervi aiutare, pur iscrivendomi.»
    «È facile!» sbotta Nagisa, che vede nell’intervento di Haruka la possibilità di coinvolgere l’amica. «All’inizio ci saranno quattro membri: Mako-chan sarà il capitano.»
    «Aspetta» lo ferma il castano, confuso. «Non dovrebbe essere Haru, il capitano? È il più veloce tra noi, in piscina.»
    «Sì, ma qui la velocità non c’entra. Ogni persona è portata per qualcosa» spiega il biondino, mentre l’orca immagina la scena esilarante del corvino che sbraita ordini ai suoi sottoposti. Decisamente poco credibile.
    «Haru-chan sarà il vicecapitano!» continua imperterrito Nagisa.
    «Ohi» lo interrompe il prodigio, irritato. «Non decidere per me.»
    «Dai! Il titolo di vicecapitano in realtà non implica alcuna responsabilità, perciò non preoccuparti» cerca di consolarlo Nagisa, poi, voltandosi verso la ragazza: «Io sarò il tesoriere e tu, Mizuko, sarai la nostra coordinatrice.»
    «Coordinatrice?» ripete la ragazza, non capendo cosa le voglia dire l’amico.
   «Assolutamente.» Nagisa le afferra un braccio con entrambe le mani, scuotendola entusiasta. «Sarai impegnata in molte cose: dalla scelta degli orari per gli allenamenti, all’agenda, al rendimento settimanale di ogni esercizio, sarà divertente!»
    «Per te, forse!» sbraita la bionda, in preda ad una crisi di nervi. «Ti rendi conto che razza di lavoro mi stai affibbiando?»
    Il compagno s’imbroncia, guardandola di sottecchi. «Sei tu quella brava in queste cose, Mizu-chan. Immagina uno di noi tre a ricoprire un tale ruolo. Come pensi che possa concludersi?»
    Lei sospira, convinta che anche se provasse a rinunciare ad un incarico simile, Nagisa gliela farebbe pagare per il resto della sua misera vita. China il capo, alzando le mani in segno di resa, mentre il giovane nuotatore si sporge per saltarle al collo dalla gioia.
    Haruka rimane a fissare quella scena, chiedendosi per quale motivo sia così innervosito dal fatto che il pinguino sia sempre appiccicato a lei. Non è da lui irritarsi senza un vero motivo, eppure si sente male ogni volta che la vede anche solo sorridere a qualcun altro che non sia lui. Perché mai? In fondo, anche Makoto e Nagisa sono suoi amici.
    Non dovrebbe importargli, si dice, mentre la parte più inconscia di lui vorrebbe che il ragazzo dagli occhi rosei s’allontanasse da lei in quel preciso istante. Quel desiderio che ha di poterla avere per sé diviene ben presto più urgente, e con sguardo accigliato si ritrova a fissare il suo cestino da pranzo ormai vuoto.
    Un’idea, seppur piccola, gli balena nella testa.
    Potrei invitarla a mangiare da me, pensa, ignorando completamente il brusio di sottofondo che sente provenire dalle voci del piccolo gruppo. Sorride, mentre immagina quali piatti poterle preparare, dopo tanto tempo che è stata lontana da casa.
    Sì, una cena. Soltanto io e lei.




NOTE:

[1] Tavolo a gambe corte, usato nelle case giapponesi tradizionali.

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Capitolo 5
*** 4. Storia di un quattrocchi e d'una nuotatrice che lo minacciò di morte ***


Lo sclero di ver

Ed eccomi tornata!
E' passato un bel po' di tempo dall'aggiornamento di questa storia, ma spero comunque mi perdonerete. Mi sto improvvisamente rendendo conto di quanto sia complicato gestire il tempo a disposizione per ogni singolo lavoro di scrittura, e questa storia ne è la prova lampante.
Tuttavia, giacché amo Free! ed ormai ho cominciato, porterò avanti questo lavoro che mi appassiona, per cui a chiunque segua la storia chiedo solamente un po' di comprensione per questi capitoli che si fanno sempre attendere! ^^"
Detto ciò, spero che il proseguo vi piaccia, a presto!

_EverAfter_










CAPITOLO IV
Storia di un quattrocchi e d'una nuotatrice che lo minacciò di morte





    Quella sera è stanca ed affaticata, ma non ha alcuna voglia di tornare a casa.
    Ha lasciato gli altri da poco, utilizzando la banale scusa di dover disimballare i cartoni, ma la realtà è che vuole rimanere da sola. Le capitava spesso anche in Francia, quando aveva troppi pensieri per la testa.
    Cammina svogliata lungo la strada, con le mani nascoste dai profondi tasconi del cappotto; la sciarpa riesce a proteggerla dal freddo che soffia impetuoso dal mare, ma le dita intirizzite l’ammoniscono di non sostare ancora a lungo all’aria aperta. Dopotutto, è ancora inverno.
    Durante il tragitto non fa che sentire il suo fastidioso scalpiccio. Dannate scarpe nuove, se le avesse indossate un po’ di più quando le ha comprate non farebbero tutto quel casino.
    Ha la testa invasa da mille pensieri: l’ansia di non essere ancora riuscita a raccontare la verità agli amici, l’istituzione del nuovo club di nuoto, la voglia di nuotare e la paura di non riuscirci… non più, almeno. Iwatobi, persino in quel momento, non le pare casa sua.
    Alza lo sguardo, stupita di trovarsi di fronte all’ITSC, o almeno a quello che ne rimane. Si sente triste; nessuno le ha detto che fosse ormai abbandonato.
    Rimane in silenzio a contemplare la grande scritta rossa e il bambino dipinto sopra che scorrazza felice in mezzo alle onde. Ricorda d’essere stata gelosa da piccola, di quel bambino. Era talmente felice da farla innervosire. Adesso, al contrario, sembra pianga lacrime di ruggine.
    L’iscrizione bianca dell’ingresso cattura la sua attenzione: Iwatobi Swimming Club.
    Se ripensa ad ogni momento passato lì dentro, non riesce a trovarne uno che non abbia un bel ricordo associato. È come un’istantanea della sua vita passata, quando la bambina dentro di lei ancora si dilettava a nuotare per passione, non per punteggio.
    Serra i pugni; a volte sa di essere troppo severa con se stessa, ma va bene così. Se non lo facesse lei, non lo farebbe nessuno al suo posto.
    Fa per riprendere la via del ritorno, ma s’accorge che il portone d’ingresso è stato lasciato socchiuso e da dov’è lei può tranquillamente sbirciare dentro il lungo corridoio che porta nella hall. Si morde un labbro, certa che l’idea che l’è appena venuta in mente sia davvero pessima.
    Si guarda intorno, accertandosi che non vi sia nessuno nei paraggi. Fissa il pomello della porta semiaperta, chiedendosi se sia davvero una buona idea gironzolare per un edificio abbandonato. Preme delicatamente le dita contro il vetro opaco; un allarmante scricchiolio le conferma che l’uscio è ormai del tutto spalancato.
    «Coraggio, baka» si dice, mentre intraprende i primi passi lungo il corridoio buio. «In fondo, ci sei venuta un sacco di volte.»
    Deglutisce a fatica; l’aria è decisamente pesante, la polvere e lo sporco accumulatisi nel tempo hanno reso quel luogo una sciagura anche per i polmoni più allenati.
    S’appoggia alla parete vicina, facendo scivolare la mano lungo di essa per cercare d’orientarsi nell’oscurità che avvolge l’androne. Espira profondamente con la bocca; le tremano le gambe e sente il fiato corto, ma si dice che vuole arrivare agli spogliatoi a tutti i costi.
    Dei passi riecheggiano per il circolo; Mizuko è sicura non si tratti dei suoi: sono più pesanti, molto più lenti. Si blocca sul posto, nascondendosi dietro un angolo.
    Ma come cazzo faccio a finire in queste situazioni? Si rimprovera, mentre affonda il viso nella sciarpa per soffocare l’improvviso affanno. Oddio… e se fosse un serial killer?
    Si porta una mano alla gola, affacciandosi leggermente sul corridoio per controllare che sia libero. Prende un profondo respiro, prima d’incamminarsi in punta di piedi verso l’uscita. Appena s’accorge che i passi in lontananza si sono fermati, intraprende una corsa impazzita verso l’ingresso, stando ben attenta a non inciampare.
    Dovrei esserci, pensa, svoltando l’angolo della hall. Quando lo fa, il suo cuore esplode come impazzito: le da la schiena una sagoma indistinta avvolta nel nero, con addosso un capello che rende impossibile il riconoscimento facciale.
    Si lascia scappare un grido, mentre la figura sobbalza, voltandosi a guardarla. Mizuko ha gli occhi serrati nelle palpebre e la voce isterica; la parte più inconscia di sé la implora di scappare e di non rimanere lì impalata a farsi uccidere.
    «P-passavo di qui per caso!» urla disperata. «Non mi uccidere, ho una lista di cose che voglio fare prima di morire e non ne ho ancora completata la metà e poi devo risolvere un sacco di…»
    «Ohi.» Il cuore le si ghiaccia non appena sente la voce roca dello sconosciuto.
    «S-sì?» balbetta, mentre sente il sudore infradiciarle la nuca.
    «Cosa ci fai qui?» le domanda, con un tono che le appare alquanto perplesso.
    Deglutisce rumorosamente, rifiutandosi di aprire gli occhi. «È stato il mio circolo di nuoto.»
    Sente silenzio; è come se la sagoma si fosse dissolta, ma non può ancora accertarsene fin quando continuerà ad avere lo sguardo avvolto nell’oscurità delle palpebre.
    «Sei tu, allora.» Sobbalza, al sentire di nuovo quei toni bassi.
    Schiude un occhio, permettendo alla sua curiosità di vincere sulla paura. Quando mette a fuoco l’ambiente, rimane sorpresa di trovarsi davanti al ragazzo dagli occhi rossi conosciuto durante la loro incursione alla Samezuka. Gli punta un indice contro, cercando di ricordarsi il nome che tanto ha sentito pronunciare durante quei pochi giorni in cui è tornata. È assurdo che l’abbia completamente rimosso, ma alla fine si convince che sia soltanto una riprova di quanto non lo sopporti.
    «Ren» dice, sorridendo vittoriosa.
    Il ragazzo la scruta, alzando un sopracciglio. «Rin, tonta.»
    Sbuffa, infastidita dal canzonatorio nomignolo che le ha conferito. «Sarò pure una tonta, ma alla fine pensavo avessi un nome da maschio» borbotta tra i denti, ma con tono abbastanza alto perché lui possa sentirla.
    Lo squalo si porta le mani nelle tasche della felpa, scrutando l’esile corpicino davanti a lui: non può davvero fare nuoto, quella figura così gracile. Fa un passo verso di lei, sogghignando non appena la vede indietreggiare. «Guarda che non mordo.»
    «Un po’ presto per dirlo, non credi?» constata lei, aguzzando lo sguardo. Le appare subito come una di quelle vipere d’acqua pronte ad azzannarlo. Probabilmente ce l’ha ancora con lui per la storia della sera prima.
    Sospira, alzando le mani in segno di resa. «A questa distanza riesci a parlare senza che ti tremino le gambe?»
    Lo guarda indignata, mentre gira la testa di lato. «Tanto per essere chiari: tu non mi fai affatto paura.»
    «Detto dalla stessa persona che un minuto fa mi ha implorato di risparmiarle la vita» le fa notare, con un insopportabile sorriso dipinto sul volto.
    «Che diavolo avrei dovuto pensare, solamente uno psicopatico verrebbe qui a quest’ora della notte» gli risponde, incurante dell’assurdità di quell’affermazione.
    «Vorrei ricordarti che ci sei anche tu, qui.» Il rosso la scruta. È divertito dalla paradossale situazione, ma più di tutto dallo sguardo vigile di lei, che lo fissa in cagnesco. «Hai finito di guardarmi come se mi volessi uccidere?»
    «Affatto.»
    «Esattamente, con chi pensi di parlare?»
    «Rin Matsuoka.»
    «E tu sei…» Il cremisi attende paziente una risposta.
    Vorrebbe davvero staccargli dalla faccia quel sorriso sornione, ma si convince che apparirgli come una schizzata pazza non sia una delle migliori soluzioni.
    «Mizuko Hoshino.» Cavolo, avrebbe potuto inventarselo, un nome dell’ultimo secondo. Si dà mentalmente della stupida per non essere mai abbastanza sveglia da pensare preventivamente a piani perfetti.
    Lentamente riporta l’attenzione su di lui, agganciando il suo sguardo che sembra squadrarla da capo a piedi. Arrossisce di colpo, stringendosi nelle spalle. «C-che c’è?»
    Rin avvicina di scatto il viso al suo, cercando il bizzarro sguardo iridescente.
    «O-oh!» sbotta la ragazza, inarcando la schiena all’indietro per mantenere le distanze da quel corpo così minaccioso. «Che ti prende?»
    «Dì un po’» le chiede infine. «Nuoti davvero?»
    La guarda trattenere il respiro per un attimo e non può fare a meno di pensare che sia buffa. Si chiede se non sia stata la mascotte del club prima del suo arrivo. A quei tempi, avrebbe anche potuto trovarla adorabile.
    La osserva mettere uno strano broncio, misto tra rabbia e incredulità. Trattiene a stento una risata non appena la vede.
    «Mi stai dicendo che non ho il fisico per farlo bene?!» sbotta infine, flettendo la schiena verso di lui con fare minaccioso.
    Adesso che è più vicina, s’accorge di quanto sia anche terribilmente bassa. Un tappo con le braccia, per essere più specifici.
    «Ti sto solo chiedendo se nuoti» sbiascica infine, al colmo dell’esasperazione. Sono lì da minuti ormai e lei ancora si ostina a mostrargli la diffidenza di un cane randagio.
    Al sentir pronunciare quella domanda, qualcosa cambia nell’atteggiamento della ragazza; la scheggia impazzita che si trovava di fronte a lui qualche istante prima sembra placarsi e uno sguardo raddolcito prende forma dalle iridi cangianti, mentre un sorriso le si dipinge addosso, lasciandolo sbigottito.
    «Sì, nuoto anche io» gli risponde semplicemente, mentre s’accosta alle fotografie appese sulla parete alle sue spalle. «È in questa piscina che ho gareggiato per la prima volta.»
    Anche il tono della sua voce è cambiato; è più mite e sobrio, come se abbia dimenticato il motivo della sua precedente indisposizione.
    Rin s’accorge di averla vista solo due volte, eppure non gli ha mai concesso di sentire il timbro pacato di adesso – d’altronde l'ha sentita solo sgridarlo o sbraitargli addosso.
   Lo fissa, indicandogli con l’indice sottile una foto posta in mezzo alle altre. Lo squalo le si affianca, studiando attentamente il soggetto immortalato, nonostante la polvere abbia ormai sbiadito quel ricordo su istantanea.
    Non ha dubbi che si tratti di lei. È una bambina piccola, con il sorriso sdentato e gli occhi pieni di gioia. Stringe a sé un piccolo trofeo, reso ancora più altisonante dalla medaglia che le sbrilluccica al collo, che sembra decisamente troppo grande su quel petto da infante.
    S’abbassa a leggere l’etichetta posta sotto la cornice e rimane stupito di trovarla senza alcuna usura.


1° Posto
Sezione: Stile libero
MIZUKO HOSHINO


    «Fai stile libero, eh?» sussurra, non aspettandosi di ricevere una risposta.
    Studia minuziosamente la fotografia; s’incupisce man mano che focalizza l’attenzione su un dettaglio alle spalle della piccola vincitrice. Non ha dubbi: quello è Haruka, e il suo sguardo sta proprio fissando la giovane nuotatrice.
    «Non ci posso credere» scatta infine, con le mani tra i capelli. «Oddio, sei proprio tu!»
    Mizuko lo fissa, con uno sguardo che chiaramente lascia intuire la sua perplessità. Rin la squadra da capo a piedi, certo ormai di trovarsi di fronte alla famosa M.H.
    «Dì un po’, per caso il tuo armadietto era accanto a quello di Haru?»
    La vede sgranare gli occhi e prova un inappagabile senso di soddisfazione nel constatare che finalmente ha potuto conoscere il fantasma che perseguitava l’amico già cinque anni addietro. Si sente un po’ deluso onestamente: è davvero quella ragazzina sciatta la ragione del malessere profondo che si celava nelle profonde iridi blu del compagno?
    Gli scappa un’altra risata.
    La ragazza lo fissa senza dire niente. Non ride, a stento respira, in quel mare di fuliggine risvegliatosi dal lungo torpore.
   Quel ragazzo ha davvero qualcosa di spaventoso: non riesce a capire se associare il suo disagio ai denti aguzzi o agli occhi che brillano di un’insolita rabbia repressa. Per qualche istante è convinta che non sia la polvere a farle mancare l’aria.
   Pian piano il ghigno malefico dello squalo scompare; si sente osservato dallo sguardo indagatore e perfido della piccola ragazza che gli sta di fronte, ma non riesce a capire come mai se ne stia zitta senza proferire parola. Sbuffa, infastidito da quell’atteggiamento supponente. «E adesso che hai?»
    La vede fare spallucce. «Niente.»
    «E allora piantala di guardarmi.»
    «Non ti sto guardando.»
    «Ah!?» Ma com’è possibile che neghi l’evidenza fino a questo punto? È davvero assurda. «Non ti hanno mai insegnato che fissare le altre persone è da maled-»
    «Perché sei tornato?»
    Mizuko non è una persona che risponde facilmente alle domande che le vengono poste. Forse sarà dovuto al fatto che ha troppi interrogativi in testa da non avere altro spazio anche per risolverli. Il rosso non ha alcuna intenzione di risponderle. È teso come una corda di violino, incapace di poter spiegare ad una sconosciuta cosa l’abbia portato nuovamente in Giappone, quale problema si celi dietro la sua apparente spavalderia. È certo che una tipa come lei non sia abbastanza sveglia per capirlo.
    «Potrei farti la stessa domanda» brontola acido, voltandole le spalle. «Non sei stata tu la prima ad andartene?»
    «Sì.»
    Deve ancora abituarsi a quei modi così diretti, si dice, mentre torna a fissarla. «Perché allora lo domandi a me?»
    La ragazza si stringe nelle spalle, arrossendo leggermente. «Beh, perché vedi… tu sembri davvero triste.»
   Per la prima volta da quando l’ha incontrata, lo sguardo cremisi trema; non sa spiegarsi bene il motivo, ma la facilità con la quale riesce a leggerlo lo destabilizza. Una maledetta mocciosa che puzza ancora di latte non potrebbe mai capirlo, è ovvio che stia solo cercando di soggiogarlo.
    «Che diavolo ne puoi sapere tu, stupida!» sbraita, improvvisamente incattivito.
    Mizuko non sembra scomporsi affatto, ma rimane passiva a fissare lo sguardo infuocato di Rin, sempre più rabbioso e senza controllo. È ovvio che in lui ci sia qualcosa che non va, ma quella rabbia non riesce a giustificarla neanche ipotizzando che c’entri la rivalità con il delfino. È più dura, la realtà. Lo sente. Gli fa più male di quel che dovrebbe.
    Trattiene un sospiro; non vuole irritarlo, sa che certi pensieri possono annebbiare la mente, a volte. Lei ne è un esempio vivente.
    ‘Fanculo, pensa, arrendendosi. In fondo, non credo ci riparleremo più.
    «Sono tornata perché voglio trovare delle risposte» dice, ignorando il fatto che nella testa dello squalo ci siano domande ben più importanti di quella che le ha fatto. «Su me stessa.»
    «Risposte?» Lo sguardo amarantino sembra placarsi, vittima di un’improvvisa curiosità.
    La bionda sorride, sfiorando con le dita sottili la fotografia polverosa di una lei molto più felice. «Sì, risposte. Sai, quelle che si danno quando si fanno delle domande.»
    «Anche spiritosa» lo sente mormorare, ma nella sua voce non vi è più alcun accenno di cattiveria.
    «Oh, certo.» Mizuko gli si para dinnanzi. «Sono un vero spasso.»
    «E modesta.»
    Rin si lascia scappare una risata, riuscendo a dimenticare per un istante il suo inferno personale. Quella ragazzina è strana come poche. S’accorge che, nonostante i suoi modi siano assolutamente insopportabili, il suo modo spicciolo di vedere la vita gli piace. È come avere a che fare con una bambina, con i suoi grandi occhi cangianti che scrutano un mondo solo a colori.
    «Ohi.» Sa che non dovrebbe parlarne proprio con lei, ma non riesce a frenare la curiosità. Quando riesce ad attirare la sua attenzione, le labbra si muovono da sole. «Cosa c’è tra te ed Haru?»
    La giovane nuotatrice rimane a fissarlo, sorpresa da quella domanda inaspettata. Di tutte le cose che ha pensato potesse chiederle, quella sicuramente non rientra nell’elenco.
    Oddio, e adesso cosa risponde? Trovare una risposta ad un quesito così complesso è tutto fuorché facile. Deve pensare a qualcosa di sensato da dire, ma ogni volta che prova a rispondere, i magnetici occhi blu del libero le occupano la testa e si sente come una di quelle teenager che stravedono per l’idol di turno.
    Dio, che scena raccapricciante.
    «E-ehm» prova a dire, schiarendosi la voce. «In realtà è difficile spiegarlo.»
    Magari riuscirà ad eludere la domanda, ma non appena osserva gli occhi impazienti che le stanno di fronte capisce che non ha alcuna via di fuga.
    Respira profondamente, mentre con un unico forte sospiro butta via tutta l’aria accumulata nei polmoni. Bene così, dovrà pur trovare un modo per parlarne. Meglio con lui che con Makoto o, peggio, Nagisa. Già se lo immagina, il coetaneo, mentre lei si confida e lui la scruta con gli occhi rosei illuminati dalla luce della malizia.
    Giammai.
    «Io non lo so» sbotta infine, passandosi una mano tra i corti capelli biondi. «Per lui in realtà credo di essere una palla al piede.»
    «Credi questo?» Il rosso sembra sorpreso, ma non riesce a spiegarsene la ragione.
    La ragazza fa spallucce, strofinandosi il naso infreddolito contro la sciarpa. «Quando eravamo più piccoli passavamo molto tempo insieme – ah beh, non farti strane idee, solo in piscina in realtà – e credo di averlo fatto spesso arrabbiare.»
    «Davvero?»
    «Eh, già. Ero sempre molto chiassosa e imbranata e goffa e…»
    «Eri?» Rin ripensa alla crisi isterica che le ha visto fare durante la sera precedente, trattenendosi dal canzonarla. Crede davvero di essere tanto cambiata?
    Mizuko lo fissa, immusonita. «Sono un po’ migliorata» borbotta, girando lo sguardo di lato.
    Lo squalo sorride sotto i baffi: si sorprende di trovare la sua compagnia piacevole. «E adesso?»
    «Adesso è diverso.» La ragazza sospira, portando le mani dietro la schiena e strofinandosi le dita. «Se è vero che io non sono cambiata, allora forse è cambiato lui. Anche se…»
    «Anche se…?»
    «Il modo in cui nuota.» La osserva sorridere. Un sorriso del tutto nuovo, dolce e malinconico al tempo stesso, di quelli che quando si vedono impediscono allo sguardo di guardare altrove. «Il modo in cui nuota è sempre meraviglioso.»
    Rin non riesce a capire cosa prova. Sente di essere arrabbiato e tuttavia vuole sentirla parlare ancora, con quegli occhi illuminati dal pensiero del rivale e col cuore in mano, trasognante. Come esistere all’interno della sua bella favola rosa, fatta dei più variopinti colori. Si convince che dev’essere bello, vivere lì.
    «Sembri davvero felice quando parli di lui» le dice, maledicendosi per l’astio vagheggiante della sua voce.
    Mizuko abbassa lo sguardo, fissandosi le punte degli stivaletti.
    «Beh… è perché io amo Nanase-kun» sussurra, con lo sguardo perso in chissà quali dolci ricordi.
    Rimane a fissarla, turbato al pensiero di quelle parole; allora è vero che tra loro c’è davvero qualcosa. Mentre cerca di replicare, lei lo ferma, scuotendo freneticamente le braccia.
    «Ma non c’è da preoccuparsi!» sbraita, improvvisamente conscia di quanto appena detto. «È un amore a senso unico! Decisamente a senso unico! Figurati se una come me può piacere ad uno come lui, cioè mi hai vista?»
    Ride così come parla, pensa il rosso. Istericamente.
    Non dev’essersi accorta in tempo di quello che ha detto, è certo che non glielo avrebbe mai confidato se fosse stata presente a se stessa. In effetti, non può che essere d’accordo con lei: come potrebbe mai piacere ad uno come Haruka? È nevrotica, irragionevole, maldestra e dice sempre cose che non dovrebbe dire, risultando per lo più fuori luogo.
    Ha tutte le carte in regola per essere il peggior incubo dell’avversario. Dovrebbe essere così. Eppure, il ricordo degli occhi blu del rivale che la cercano, che s’illuminano a guardarla… quello Rin non l’ha sognato, ne è sicuro.
    Sbuffa infastidito, afferrandola per un braccio.
    «Oh!» grida lei, colta di sorpresa. «Dove diavolo stiamo andando?»
    Il rosso la fulmina con lo sguardo. «Non avrai intenzione di tornartene a casa da sola, mocciosa.»
   Mizuko lo fissa, socchiudendo la bocca e rimanendo imbambolata a fissarlo, mentre Rin le fa un cenno con la mano, cercando di destarla da quella improvvisa catalessi. È proprio un caso perso, si dice, mentre s’incammina all’uscita dell’edificio trascinandola di forza – non che sia un problema in realtà, la ragazza pesa a stento un terzo di quanto pesi lui.
    Sul serio Haru, come fai? Vorrebbe chiedergli. Come riesci a tenere il passo di questa qui?
    «Ohi, Rin» si sente chiamare.
    «Cosa vuoi?» Non si volta a guardarla, né si ferma. È stanco e vorrebbe solamente andare a dormire.
    Per un attimo è tentato di controllare che stia bene; qualche istante dopo la sente mugugnare qualcosa di incomprensibile.
    Sospira, ormai arresosi al suo atteggiamento bipolare. «E adesso cos’hai detto?»
    «Non è importante.»
    «Dillo e basta!»
    «Ho detto grazie, ok!? Però dato che faccio ancora fatica a ricordarmi l’accento di alcune parole non volevo sbagliare!» sbraita, dimenandosi come una pazza.
    Non ridere, si ammonisce. Non ridere o lei s’incazzerà ancora di più.
    «Sono arrivata» dice, una volta giunti in prossimità di un bel cancello in ferro battuto. «Buonanotte, Matsuoka-san.»
    «Mi hai chiamato Rin per tutto questo tempo, perché adesso te ne esci con Matsuoka-san?»
    La ragazza si stringe nelle spalle, arrossendo di colpo. «N-non mi ero accorta di chiamarti per nome.»
    Il rosso si dà una manata sulla fronte, frastornato. «Lascia stare. Va bene Rin.»
    «O-ok.»
    «Buonanotte, Mizuko.»
    Quando finalmente la vede chiudere la porta di casa, lo squalo non riesce a smettere di sorridere.
    È decisamente fuori di testa, quella.





    Amakata-sensei studia attentamente i volti dei presenti, facendo svolazzare un foglio vicino ai loro nasi. «Dunque, per quanto riguarda il modulo del club di nuoto che avete compilato… dopo un’attenta analisi da parte del nostro istituto…»
    Ha sempre odiato chi si diletta con la suspense altrui. Sarà dovuto al fatto che in Francia c’era una docente che non faceva altro che parlare per puntini di sospensione.
    «… 
È stato approvato!»
    Le mette subito tenerezza l’espressione sollevata del bel castano, mentre l’isteria del più piccolo tra i presenti prende il sopravvento su qualsiasi altra forma d’esultanza.
    «Magnifico! Sapevo che potevamo contare su una ex dipendente di una compagnia di costumi!» esclama, mentre la sensei sdrammatizza le sue lusinghe, risultando più falsa di quel che crede.
    «Ragazzi, c’è una condizione in particolare…» s’affretta a dire poco dopo la docente, dissipando l’ilarità generale. «Beh, vedete…»
    Una volta fuori, la piscina appare come un campo abbandonato. Mizuko la studia attentamente: le recinzioni sono del tutto arrugginite, strozzate dall’edera rampicante che sembra soffocarle; la piscina, oltre agli evidenti segni dell’usura temporale, sembra territorio di caccia d’erbacce e piante opportuniste insinuatesi lungo le crepe allargate dalle intemperie; vi sono anche dei considerevoli tronchi di legno marcio e qualche cartone buttato qui e lì a mo’ di deposito. È impossibile distinguere persino le linee bianche che separano le corsie.
    «Wow, sembra l’Amazzonia» mormora il biondino, ancora con l’argento vivo addosso.
    «Vuol dire che…» prova a dire Makoto, ma la professoressa lo precede.
    «Esatto, dovrete rendere utilizzabile questa piscina.» Il tono perentorio della sua voce manifesta subito una rilevante necessità, non c’è dubbio.
    Senza piscina, in effetti, nuotare è abbastanza difficile.
    «Il va y avoir du ménage à faire[1]» sussurra la ragazza, portandosi una mano sulla bocca per non apparire troppo stupita del disastro dinnanzi ai suoi occhi.
    Haruka la fissa, confuso. «Cos’hai detto?»
    «Ah!» Scuote freneticamente la mano, sdrammatizzando il suo commento poco felice. «Niente di importante. È un riflesso incondizionato, scusa!»
    Il libero la guarda perplesso; distoglie lo sguardo da lui, ripensando alla confessione fatta al suo rivale la sera prima.
    Sono un’idiota! Si dice, ripensando allo sguardo incuriosito del rosso. Oddio e se dovesse dirglielo?! Ma no, in fondo non si parlano, giusto?! Però sono amici, potrebbero anche fare pace e allora vuol dire che lui potrebbe in qualche modo confidargli quello che gli ho detto, oddio no impossibile…
    «Mizuko.» Scatta sull’attenti al suono della voce sospettosa del corvino. «Qualcosa non va?»
    Si volta, cercando di mantenere il contegno. Quando lo vede, lo sguardo blu che tanto adora è visibilmente preoccupato. Si rimprovera per essere lei la ragione della sua angoscia.
    «No.» Certo, come no. «È tutto ok.»
    Perché diavolo quando gli sta così vicino deve comportarsi da stupida? Non può far finta d’essere una ragazza normale, magari riservata, un po’ misteriosa, capace di attirare la sua attenzione?
    Certo che no. Lei è la solita vecchia amica infastidente e con lo scarso senso d’equilibrio, si dice, mentre inizia a strappare ogni ciuffo d’erba che osa sfidare la sua forza fisica. Incazzarsi con se stessa è ormai diventata una delle prerogative più urgenti.
   Dà uno sguardo veloce alle crepe delle pareti della piscina, interrogandosi su chi abbia mai permesso di trascurarla a quel modo. Studia la situazione, cercando di ricordarsi come fare per poterle riparare.
    «Mizuko.» Makoto le si avvicina, accovacciandosi vicino a lei. «Sei stanca?»
    Scuote la testa, tornando a fissare il muro d’azzurro sbiadito. «Sto pensando ad una soluzione per questo schifo.»
    «T’intendi di riparazioni?»
    «Assolutamente no» ride lei, sfiorando con le dita la crepa. «Però possiamo provare a stuccare e poi ridipingere sopra. In fondo, queste spaccature non sono poi così profonde.»
    «No, hai ragione» conviene il castano, mentre li raggiungono gli altri due membri del club.
    Haruka le si accosta, porgendole una mano per farla alzare da terra. Arrossisce un po’, ma le ciocche non permettono al moro di notarlo. Santi capelli.
    «Cosa facciamo, quindi?» domanda Nagisa, portando le braccia dietro la nuca. «Abbiamo ancora un po’ di tempo.»
    «Beh, potremmo provare ad andare da DolphinS, sicuramente avrà tutto l’occorrente» fa notare Makoto, mentre s’avviano verso lo studio di Amakata-sensei.
   Una volta in macchina con la docente, l’allegro gruppetto si lascia andare ad una serie di fantasticherie su come verrà su la piscina a lavoro finito, ognuno emozionato a modo suo su come possa apparire nuova e tirata a lucido.
    Prendono tutto il necessario per riparare le fessurazioni e il colore per ridipingere; Mizuko dà una rapida occhiata alle vernici bianche, poi si fa indicare da un commesso dove poter trovare le barre galleggianti – certa che quelle conservate non siano più utilizzabili. Afferra decisa il portafoglio, mentre Makoto e Nagisa tentano disperatamente di dissuadere il libero dal buttarsi dentro una vasca ricolma d’acqua – a volte la vita degli amici di Haruka Nanase può essere particolarmente difficile.
    Nei giorni a seguire proseguono la loro tabella di marcia, continuando ad allestire la piscina affinché sia pronta in poco tempo; Nagisa ed Haruka si danno al disegno, coadiuvati dal club di arte per la produzione di locandine al fine di sponsorizzare l’apertura del nuovo club – lavoro in cui l’arte cubista del primino incontra quella più classicheggiante ed apprezzata del nuotatore prodigio.
    Mizuko passa il suo giorno di meritato riposo sulla terrazza, intenta a fissare in lontananza un giovane ragazzo che pulisce la piscina. Persino da quella distanza riesce a vedere come brillino i suoi occhi al pensiero di poter finalmente tornare a nuotare.
    Sente aprirsi alle sue spalle la porta d’acciaio ed una voce chiamare proprio il ragazzo che sta in piscina. Sorride ad un Makoto chiaramente sorpreso di trovarla lì. «Mizuko!»
    «Buongiorno, Makoto» gli dice, affacciata alla ringhiera. «Se cerchi Nanase-kun è lì.»
    Indica un piccolo omino immerso nella nuova pittura azzurra della piscina. Il castano non può fare a meno di sorridere. «S’impegna tanto, eh?»
    «Più di tutti noi» gli fa notare la ragazza, con lo sguardo trasognante. «Mi chiedo se esista davvero al mondo qualcuno che possa competere con l’amore che prova per il nuoto.»
    L’orca la fissa, contento di trovarsi lì con lei. Gli è sempre piaciuta, Mizuko.
    Non nel senso vero del termine, o almeno crede. È che lei è quel tipo di ragazza che, una volta che entra nella vita altrui, non si può proprio dimenticare. Haruka non c’era riuscito, ma se è per questo neanche lui. S’era interrogato più volte, in passato, per sapere come stesse, se fosse felice; non ha mai sopportato l’idea che potesse essere triste, forse perché è sempre stato abituato a vederla sorridere.
    Forse chiamarlo amore è inesatto. No, non lo chiamerebbe affatto amore. Forse per paura o forse solo perché è troppo semplice: è quel tipo di affetto che non pretende d’esser visto; è piccolo e forte, capace di sbocciare anche nel mese più freddo; non è geloso, non è arrogante né narcisista; non è vanitoso o violento.
    È il volere che lei sia felice, null’altro.
    Vorrebbe tanto chiederle cos’abbia vissuto lontana da Iwatobi, se abbia riso, pianto, se abbia trovato qualcosa d’importante o sia stato solo un lungo viaggio per poter tornare lì. Eppure, ogni volta che è sul punto di domandarglielo, il suo sguardo incrocia quello di Haruka e improvvisamente si sente in difetto, proprio come se lui non avesse diritto di starle così vicino, d’essere al fianco dell’amica.
    Sa che è solo una sua fissazione: l’amico non dubiterebbe mai di lui, questo lo sa bene, ma forse è proprio per questo che si sente messo da parte.
    Non ha mai potuto competere in acqua, con Haruka. E adesso non può farlo neanche per lei, perché anche ad un orbo parrebbe evidente come Mizuko non abbia occhi che per il delfino.
    Non è un tipo che rischia, Makoto. Forse è per questo che non ha mai potuto davvero essere se stesso; nel suo atteggiamento paterno e protettivo si è dimenticato com’è essere bambino. Quando le persone sognavano di se stesse, lui sognava di loro, nel suo piccolo mondo sentimentale fatto solo di amicizie preziose, d’affetti sinceri, dove non ha mai trovato spazio per le menzogne. È difficile da trovare, una persona del genere.
    «Makoto» si sente chiamare dalla voce canterina. «Tutto ok?»
    «Sì» le risponde subito, portandosi una mano a carezzarsi il collo tornito. «Perché?»
    Mizuko lo guarda con quei suoi adorabili globi luminescenti, preoccupata che possa essergli accaduto qualcosa. «Sembri strano.»
    Si lascia scappare una risata nervosa, mentre porta lo sguardo a cercare la figura dell’amico intento a pulire la piscina. No, non può decisamente competere contro di lui. Non su questo.
    «Non è niente» risponde, reprimendo il flusso di quei pensieri ingiusti, troppo lontani da quella che è la sua persona, il suo essere.
    Quel sentimento non è un oceano in cui è in grado di nuotare. Rischierebbe di affogare. Per cui, perché tuffarsi? «Non è niente.»
    Fa per andarsene, con una decisione che gli pesa addosso più di tutto il resto. La sente, la parte di sé che sta affondando, quella che sta urlando. Ma non importa.
    Lui è Makoto. L’amico su cui si può sempre contare. La spalla su cui piangere.
    Non è proprio fatto per l’egoismo, lui. Per una volta, però, avrebbe tanto voluto essere diverso.
    Peggiore di così.





    «L’avete ripulita proprio per bene!»
    Per una volta deve convenire con Amakata-sensei. La piscina è sempre più bella, si dice, mentre ripassa per l’ennesima volta le strisce delle corsie con un pennello per l’imbiancatura.
    «Non potrebbe alzarsi da lì e darci una mano?» sbotta innervosito il biondino, con attorno un mucchio d’oggettistica che non sa bene come utilizzare.
    Il solito imbranato, le viene da pensare, udendo in sottofondo la voce della docente che accampa la scusa dei raggi ultravioletti per godersi ancora la tranquillità della sua sdraio.
    A pochi metri di distanza da lei, un Makoto entusiasta dipinge la parete più lunga della vasca.
    «È divertente» lo sente dire, rivolgendosi al corvino. «È come se fossimo tornati alle elementari.»
    «Alle elementari di sicuro non ti chiedono di sistemare una piscina» gli risponde, irritato.
    Mizuko sorride; è proprio da lui non sopportare l’idea di attendere ancora per potersi tuffare in acqua.
    Come se percepisse il suo sguardo addosso, il corvino si volta a fissarla. Rimangono in silenzio per qualche istante: ormai non vi è più alcun imbarazzo, quando i loro sguardi s’incontrano. È un tacito accordo tra colori dissonanti, il blu profondo dello sguardo del delfino che brama d’esser visto, scrutato dal corallo e dall’azzurro di lei.
    È il cuore a lanciarle i primi segnali; sembra esploderle dal petto non appena lo vede sorridere.
    Oddio. Non ha pensato a nulla di intelligente da dirgli. Maledetto cervello che non pensa mai a niente.
    Quando è ormai sul punto di avvicinarsi a lui, avverte alle sue spalle la voce fastidiosa della giovane Matsuoka. Tempismo perfetto, e lei che sta
ancora lì a si chiedersi come mai non la sopporti.
    «Ah Gou!» sente esclamare il coetaneo. «Sei venuta ad aiutarci?»
    «Ti ho detto di chiamarmi Kou, altrimenti non ti darò nulla!» gli risponde acida, indicandogli il sacchetto con dentro i rinfreschi.
    Ti chiami Gou, perciò non rompere. È quello che pensa, ma sta ben attenta a non parlare. Non è la prima volta che rischia di fare una figuraccia a causa della sua indole troppo impulsiva.
    «Eh?! Sei cattiva!»
    «Nagisa» lo chiama, puntando i piedi ed attirando l’attenzione degli altri due ragazzi. «Andiamo.»
    Il biondo la guarda, confuso. «Dove?»
   Mizuko s’aggrappa al bordo della piscina, issandosi sulle braccia per poterne uscire. È arrabbiata, ma non ne capisce bene il motivo. Forse è perché la rossa davvero non le piace – insomma, come diavolo fa a sbucare sempre nei momenti meno opportuni?
    «Andiamo a fare pubblicità, no?» Fissa il compagno, attendendo che la raggiunga.
    Quando si allontanano, Makoto non può fare a meno di notare quanto Haruka sia turbato. Ha sempre creduto fosse solo frutto della sua immaginazione, ma adesso ne è fermamente convinto: l’amico è geloso di Nagisa, anche se forse neanche lui sa bene cosa sta provando. Lo fissa, sorridendo.
    «Che c’è, Haru?»
    «Niente» mugugna, continuando a dipingere.
    Perciò è questo, pensa il castano, osservando lo sguardo sempre più accigliato del compagno. È proprio un libro aperto.
    Mentre i due senpai continuano le rifiniture della piscina ormai prossima all’apertura, Mizuko e Nagisa corrono per i corridoi come due esaltati, in cerca di qualcuno abbastanza folle da unirsi al loro club. È difficile, si dicono, mentre ogni studente che incontrano trova una scusa qualsiasi per potersi defilare quanto prima dai loro filosofici discorsi su quanto sia salutare nuotare.
    «Ragazzi! Nuotiamo e divertiamoci insieme!» esclama Nagisa, con addosso gli occhialini e una tavoletta azzurra con sopra un pinguino.
    «Perché dovremmo nuotare in una piscina, quando c’è il mare a due passi?» rispondono due ragazzi del primo anno.
    «Se vi iscrivete subito, avrete in regalo una fornitura annuale della mascotte dell’Iwatobi: Iwatobi-chan!» continua il biondo, ad un altro gruppo.
    «No, grazie» rispondono tutti in coro.
    La ragazza appare sempre più arrendevole: il nuoto non è uno sport che va per la maggiore, dopotutto. Non è popolare come il basket o energico come il calcio.
    Si dice che preferisce trovare poche persone che abbiano davvero voglia di nuotare insieme a loro e, per la prima volta, sente davvero la necessità di potersi tuffare anche lei nel primordiale elemento e gustare appieno l’adrenalina di ogni falcata, di ogni bracciata. Non vede l’ora.
    Persa a fantasticare su come potrebbe essere nuotare di nuovo insieme ai suoi vecchi compagni, sbatte la testa contro qualcosa d’estremamente duro. Tiene la mano premuta contro il naso, sperando di non iniziare a sanguinare. «Ma si può sapere che cos-»
    La frase le muore in gola, mentre mette a fuoco la sagoma sorpresa del suo vicino di banco: Ryugazaki.
    «Oh!» gli grida contro, facendolo sobbalzare. «Ma guarda dove vai!»
    «Io?! Ma sei tu che mi sei venuta addosso!» sbraita lui di rimando.
    «Mizu-chan!» Nagisa le si affianca dopo qualche istante, preoccupato. «Mizu-chan, ti sei fatta male?»
    «No, sto bene» risponde, lasciando cadere la mano sul fianco.
    Rimane zitta, mentre i due compagni di classe intraprendono una sciocca lite sul perché Ryugazaki non presti attenzione alla gente più bassa di lui. In realtà, sta osservando da vicino il bel fisico del turchino: sarebbe davvero perfetto per il nuoto.
    Scruta attentamente i deltoidi, dà una rapida occhiata ai polpacci ben evidenti anche da sotto il pantalone. Sì, potrebbe davvero funzionare.
    «Senti, Ryugazaki-kun» lo chiama, distogliendo la sua attenzione dal biondino. «Perché non ti unisci al club di nuoto?»
    La fissa perplesso – stessa espressione che vede ben presto dipinta sul volto dell’amico, che comprende subito il motivo per il quale la ragazza sia così interessata al giovane che sta loro di fronte.
    «Impossibile» risponde infine il blu, distogliendo lo sguardo. «Mi sono già iscritto al club di atletica.»
    Mizuko non sembra voler desistere. «Il club di atletica è davvero noioso.»
    «E tu che ne sai?!» le urla addosso, irritato dalla sua fastidiosa supponenza.
    La nuotatrice fa spallucce. In realtà non sa molto di quello sport, per cui non avrebbe il diritto di poterne parlare. Forse, in realtà, non riesce proprio ad ammettere che possano esistere persone che apprezzino altre discipline all’infuori del nuoto. La cosa è alquanto indigeribile.
    «Cosa c’è di emozionante in un tizio che fa un salto con l’asta?» chiede, seriamente dubbiosa.
    Rei la fissa sconcertato, aggiustandosi gli occhiali che sembrano scivolargli dal naso. È chiaro come lei non abbia mai visto davvero un atleta, si dice, mentre trattiene una delle sue solite risate maniacali.
    «Non capisci, vero?» le domanda, lasciando da parte la rabbia di poco prima. «Non può capire chi fa uno sport esteticamente brutto come il nuoto.»
    Mizuko sgrana gli occhi, mentre sente un fuoco divamparle dentro come il peggiore degli incendi. Nagisa l’afferra al volo, avendo previsto la reazione spropositata dell’amica. Come sempre, non è cambiata neanche in quello.
    «Ripetilo se hai il coraggio!» urla, mentre l’amico la trattiene per le braccia. «Quattrocchi esaltato!»
    «I-io non sono esaltato!» Rei si nasconde dietro una porta, certo che se la ragazza dovesse sfuggire a quella presa probabilmente lo ucciderebbe.
    «Rimangiati quello che hai detto!»
    Se si concentra, può veder uscire del fumo dalle sue narici. Deglutisce, certo delle sue convinzioni. «No!»
    «Ah!?»
    «Ho detto no!»
    «Nagisa, lasciami andare!» grida contro l’amico, in procinto di perdere l’equilibrio.
    «Mizu-chan, sta’ calma!» la rimprovera quest’ultimo, sperando di guadagnare tempo. Se ci fosse stato Makoto, sicuramente trattenerla sarebbe stato più semplice.
    «Sarà lento e doloroso, mi senti?!» Rei trema al sentire quella voce così iraconda. «Ti farò morire di atroci sofferenze, sai dove te la puoi ficcare quell’ast…»
    «Hoshino-san!» La voce del docente la riporta alla realtà, distogliendola dal suo soliloquio. «Che stai facendo?!»
    «Mi sto prendendo una vita sensei, ne stia fuori!» continua a rimbeccare, contorcendosi come una biscia. «Nagisa, lasciami andare!»
    «Aiuto! Makoto!» grida il biondino, nella speranza che l’amico più robusto possa sentire la sua richiesta.
    L'indaco, terrorizzato, proprio non riesce a capire il perché di quella reazione. Non osa muoversi da dietro la porta, certo che lei gli salterebbe addosso, pronta a spezzargli la cervicale.
   Deglutisce, immaginando la scena. È da quando l’ha vista in classe che quella ragazza non gli piace, e adesso sa anche il perché: oltre a quell’aria trasognante che si porta sempre addosso, il giovane atleta non sopporta lo sguardo con cui studia tutti, certa di poter avere tutte le risposte. Lui, che è così vittima di se stesso, non può comprendere cosa si celi dietro quel comportamento sconsiderato.
    Mizuko non è in grado di esprimere ciò che prova, se non così. D’altronde, non è mai stata brava a spiegarsi e, spesso, ha anche dovuto rinunciare a farlo. In fondo, quale beneficio avrebbe mai potuto trovare in persone che non la capivano?

    Si è sentita spesso sola, questo non lo nega. Eppure, in cuor suo ha sempre saputo di parlare una lingua che gli altri non capiscono; quella silenziosa e che non esprime mai, se non quando è in acqua.
    Mizuko, quando è arrabbiata, nuota. Quando è triste, nuota. Quando è felice, nuota.
    Non conosce un altro modo per pronunciarsi.
    Questo Nagisa lo sa perfettamente, e perciò non si meraviglia affatto che l’amica voglia scuoiare vivo un ragazzo che ha osato insultare ciò che le è più indispensabile. In realtà, gli viene da sorridere.
    Nonostante la tenga ferma e senta la voce del sensei tentare di farla ragionare, il nuotatore di rana pensa a tutt’altro, ormai lontano da quel furioso battibeccare.
    È per questo che lei ed Haruka sono così vicini, pensa. Perché provano le stesse cose.
    È malinconico, quel pensiero. Perché lui, che è tanto bravo a farsi comprendere, non ha la minima idea di che cosa si provi.
    Quando parli, ma nessuno ti capisce.





    Qualche ora dopo Mizuko esce dall’aula professori, sfinita. Suppone d’aver finalmente sfatato il mito d’essere una ragazzina per bene. Peccato, cominciava a piacerle l’idea d’essere trattata con un occhio di riguardo – nonostante il sensei non sia stato affatto duro con lei, ma si sia limitato semplicemente ad ammonirla.
    Tutto per colpa dell’orbo narcisista.
    Cos’ha provato durante la lite neanche riesce a ricordarlo. Sa solo di non essere stata abbastanza svelta da sottrarsi alla presa altalenante di Nagisa, che in qualche modo è riuscito a contenere la sua furia.
    Si dà della stupida, mentre ripensa al modo poco ortodosso di relazionarsi col compagno di classe. In fondo, è stata lei a cominciare.
   Percorre svogliata il corridoio d’ingresso agli spogliatoi, pronta alla ramanzina che sicuramente anche Amakata-sensei le avrebbe fatto – e d’altronde non si stupisce affatto, persino lei si sarebbe autopunita per il gesto sconsiderato di pensare d’uccidere un suo coscritto.
    Quando apre la porta che la separa dall’ingresso del club, Nagisa è già lì, con la faccia di chi ha voglia di fare un mare di domande. «Mizu-chan!»
    Haruka la guarda di sottecchi, continuando ad intagliare Iwatobi-chan dall’aria spenta, mentre un Makoto sempre più in ansia le si avvicina circospetto.
    «Cos’ha detto il sensei?» domanda, sperando che gli occhi verdi non tradiscano la sua eccessiva preoccupazione.
    «Niente di particolare» lo tranquillizza lei, portandosi una mano dietro la nuca. «Suppongo fosse solo sorpreso del mio atteggiamento.»
    Il bruno si alza in piedi, scrutandola con fare minaccioso. Mizuko sobbalza, vittima di quello sguardo blu che tanto ama e che adesso si sta avvicinando a lei sempre più iroso.
    «Ti rendi conto cosa sarebbe potuto accadere?» Il tono della sua voce è baritonale, non molto diverso dal solito timbro apatico, ma uno strano luccichio del suo sguardo rende manifesta una rabbia mal celata. «Ti avrebbero potuta sospendere.»
    «Lo so, ma io…»
    «No!» sbotta infine il delfino, afferrandola per le spalle. «Tu non lo sai, baka! Altrimenti non lo faresti.»
    Makoto e Nagisa rimangono in disparte, inquietati dalla scena mai veduta del loro amico così arrabbiato. Sotto certi aspetti sono quasi sollevati che qualcuno riesca a suscitargli un simile istinto. Si scambiano una veloce occhiata, prima di congedarsi silenziosamente da quella lite che sembra non riguardarli affatto.
    L’orca si volta a fissarli, prima di richiudere la porta alle sue spalle. Sorride. A vederli così, sembrano proprio una coppia di giovani innamorati, si dice, mentre raggiunge il primino.
    Mizuko rimane in silenzio, chinando il capo; vuole piangere, lo avverte dal modo in cui le tremano le palpebre.
    Tutti. Può davvero litigare con tutti, ma con lui proprio non ci riesce. Non riesce a rispondergli, a dirgli la verità, che lei non voleva, che l’è partita la testa nel momento stesso in cui ha sentito una voce insultare ciò che lei ritiene più prezioso.
    «Io…» prova a dire, ma si blocca.
    Le labbra le tremano, gli occhi gonfi non mettono a fuoco più nulla di ciò che un istante prima riusciva a vedere del pavimento, la gola secca le vieta qualsiasi tipo di spiegazione.
    Haruka è arrabbiato e lei si sente come una bambina insultata dal proprio genitore, mentre avverte la presa sulle sue spalle divenire sempre più stretta.
    «Mizuko» si sente chiamare, ma non ha il coraggio di guardarlo in faccia. «Di’ qualcosa.»
    Attende paziente una risposta della giovane, sperando si volti a guardarlo e gli conceda di vedere nel suo sguardo il motivo che l’ha spinta a comportarsi in quel modo. Sa cosa pensa lei; è convinta che lui sia arrabbiato – ed in effetti lo è – ma non riesce affatto a comprendere quanto si sia preoccupato quando Nagisa ha spiegato loro ciò che era accaduto.
    Gli succede solo con lei, di preoccuparsi. Forse perché tutte le persone di cui si è sempre circondato non sono così pazze da voler spellare vivo un liceale.
    China il capo, posando la fronte contro la sua chioma bionda; socchiude gli occhi, mentre trasforma la presa attorno alle sue spalle in un abbraccio pacato, privo di rabbia. Le sfiora la schiena con le dita, cercando di tranquillizzarla, quando i primi singhiozzi fuoriescono dalla sua piccola bocca, scuotendole la colonna vertebrale.
    «Scusa» la sente dire, mentre avverte le sue piccole mani stringergli la camicia. «È quello che ha detto lui… lui… non doveva dirlo.»
    «Cosa?»
    «Io ho solo l’acqua» continua la ragazzina, lasciando le lacrime scivolare lungo le guance. «Io non me ne sono accorta, davvero, volevo solo che si rimangiasse quello che aveva detto.»
    «Cos’ha detto di così sbagliato?» le domanda, cercando di trattenere un sorriso. Quando fa così gli sembra davvero di parlare a una bambina.
    «Che il nuoto è uno sport brutto» risponde, imbronciandosi. «Ma lui che ne sa, mica l’ha mai fatto, no?»
    Haruka sospira, serrando la presa attorno alla minuta vita di lei. «Sei proprio una baka
    «Lui lo è di più.» Mizuko alza la testa per fissarlo e, per un istante, si sente smarrito nel vedere lo sguardo di lei inumidito dalle piccole gocce attorno alle ciglia. «Lui è proprio un bako
    «Si dice baka anche per gli uomini» la riprende il corvino, dimenticandosi d’essere ancora incollerito.
    «Ah» gli risponde, scoppiando a ridere.
    Il delfino osserva la scena: stringe tra le braccia una ragazza dagli occhi rossi e gonfi che ha il sorriso perlaceo e il collo solcato da tanti piccoli rivoletti di frustrazione, rabbia e paura. Una ragazza completamente sbagliata, che attenta costantemente alla sua vita puntando a farlo ammattire.
    E c’è solo un modo per evitare che questo accada. «Smettila di andartene in giro solo con Nagisa.»
    Mizuko lo fissa, mentre il bel sorriso scompare. Studia attentamente il ragazzo di fronte a sé e riesce a scrutare un lieve rossore in prossimità degli zigomi.
    «A-allora la prossima volta vieni tu con me» dice, affondando il viso nella sua camicia. Se la guardasse adesso, il delfino vedrebbe solamente una grande faccia rossa.
    Haruka sorride. Quelle parole gli piacciono, gli piacciono terribilmente. Persino lui si sorprende d’accontentarsi di così poco.
    «U-uhm.» È un’affermazione, anche se non riesce a esprimerla come vorrebbe.
    È così rilassato da non rendersi neppure conto di quanto quell’abbraccio sia divenuto insolitamente lungo e intenso, ma non gli importa. Fin quando può stare con lei in quel modo, a lui non importa davvero.
    «Amakata-sensei mi sgriderà» continua a dire la piccoletta stretta tra le sue braccia. «Credi che se la raccontassi la verità mi perdonerebbe?»
    «Probabilmente» le risponde, lasciando scivolare le sue dita lungo i fili dorati di lei.
    Mizuko adora quel contatto. Adora sentire le mani di lui, così gentili e piene di riguardo. La fanno sentire speciale.
    Gli occhi le tremano, ma questa volta non è affatto per una crisi di pianto. Ogni volta che gli è vicina, non può fare a meno di pensare a quanto possa essere bello stare sempre con lui, bearsi del suo sguardo, tranquillizzarsi al suono della sua voce.
    Ripensa alle parole rivolte a Rin la sera prima: è vero, ad uno come lui non può piacere una svampita come lei. Ne è certa.
    E allora, perché? Perché vuole tanto illudersi che non sia come pensa? Perché vuole tanto credere di poter essere più di quello che è?
    La gente normale si accontenterebbe, in fondo. Quando due persone sono così incompatibili, di solito è un bene porre delle distanze. Eppure, lei non riesce a farlo. Ha paura.
    Paura di perderlo, paura di non poter più sentire le sue dita sfiorargli i capelli, il suo respiro giungerle lieve all’orecchio.
   Vorrebbe tanto trovare la forza per chiederglielo, ma sa di non essere coraggiosa abbastanza per farlo. È troppo imbarazzante, ma soprattutto la verità può farle male, e lei non ha alcuna voglia di soffrire ancora.
    «Sei ancora arrabbiato?» gli chiede, cercando il suo sguardo. Quando lo incontra, l’oceano si è finalmente placato.
    «No» risponde. «E comunque lo sapevo.»
    «Cosa?»
    «Che avresti trovato un’altra scusa assurda per abbracciarmi» le fa, sorridendo.
    La giovane sbarra gli occhi, evitando a tutti i costi di arrossire. È avvinta dal calore di quel corpo che le sta pressato contro e una strana sensazione la porta a credere d’essere un po’ vittima del ragazzo che le sta accanto: Haruka la conosce, sa cosa le piace, sa cosa la fa arrabbiare; fa esattamente quello che lei fa con tutti. Studia.
    Solo che lei lo fa un po’ più rumorosamente, ecco tutto.
    «A me piace abbracciarti, Nanase-kun» gli dice, con un sorriso nascosto nel bianco della sua camicia.
Il ragazzo rimane a contemplare la chioma bionda, cercando di scorgere il viso che vuole tanto vedere: come sempre Mizuko non è in grado di mentirgli, né di nascondere ciò che prova. Non vuole ammetterlo, ma quell’aspetto del suo carattere gli piace, e tanto.
    Non le risponde. Sa che con lei non ce n’è bisogno. Capisce i suoi silenzi meglio di chiunque altro.
    «D-dovremmo andare» la sente dire, mentre le piccole mani s’allontanano dal suo petto.
    Istintivamente stringe la presa, riportandola contro il suo torace.
    Non sa bene cosa fare, non è nella sua indole comportarsi in quel modo; si sorprende d’essere così vulnerabile quando è con lei. Come se si dimenticasse di tutto il resto. Persino in questo momento, con la piscina quasi pronta e gli amici in attesa di vederli, a lui non va di staccarsi da lei. Non gli va proprio.
    «N-Nanase-k…»
    «Haru.» Sente il cuore di lei accelerare i battiti. «Solo Haru.»
    Finalmente si volta a guardarlo; i suoi occhi disorientati sono davvero magnifici, si dice il corvino, mentre la osserva schiudere la bocca per lo stupore.
    Quella bocca, che è così tremendamente vicina alla sua.
    Le si appressa, sfiorando la punta del suo naso con la propria. Il respiro flebile di lei è un piacevole invito ad assaporare la dolce brezza di quei margini schiusi e tremanti. Nonostante questo ancora s’interroga, ancora si domanda cosa prova. Eppure, è ormai così evidente.
    Che desidera quelle labbra tanto quanto desidera nuotare.





NOTE:

[1] Dal francese: “Ci sarà un gran casino da pulire”.

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