Nero come il bianco

di Nemamiah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

“Moltissimi anni fa, in un’epoca di cui noi umani non abbiamo memoria, la magia non era diffusa sulla Terra. Ogni singola azione era svolta con le mani o con gli strumenti che l’uomo aveva saputo inventare: nulla poteva volare o essere trasportato dalla sola forza del pensiero come oggi. I ragazzi studiavano materie classiche come matematica o storia, non incantesimi e mutazioni.

Fu un periodo luminoso e ricco di scoperte, forse poco pacifico ma non per questo meno sereno e felice. Ma come tutte le luci hanno le proprie ombre, e come queste sono tanto più grandi quanto più brillante è luce, anche quella felicità si oscurò. Un giorno, nessuno ricorda più bene quando, apparvero sulla Terra due oggetti che infusero la magia in ognuno di noi. Per molti millenni la razza umana non si rese conto del grande potere che possedeva. Ignorò la magia che fluiva dalle sue mani, condannò coloro che l’accettavano e la praticavano.

Secondo le leggende, due arcangeli, il serafino Metatron e il cherubino Raziel, portarono sul nostro pianeta due elementi magici, custodi dei poteri dell’angelo dai due volti. Raziel teneva con sé Hikarihime, Principessa di Luce, e la depose in un tempio sperduto di un bosco di millenaria esistenza; Metatron trattò Benihime, Principessa Scarlatta, allo stesso modo, lasciandola però nelle rovine di una vecchia miniera di diamanti. A causa di ciò Lucifero, il primo e più splendente angelo del Paradiso, si ribellò, trascinando nel suo delirio centinaia di giovani angeli. La battaglia tra i ribelli e i fedeli fu lunga e dolorosa, con innumerevoli perdite da entrambi le parti. A nulla valeva quel sacrificio per Lucifero, poiché credeva di agire dalla parte della ragione.

La guerra si concluse con l’epica battaglia tra Lucifero e Michele. Entrambi estremamente abili nelle evocazioni, avevano una sola differenza: la potenza. Lucifero combatté Michele con tutte le proprie forze, ma non riuscì in alcun modo ad arginare il divario tra loro e uscì sconfitto: i ribelli suoi seguaci furono cacciati dal Paradiso, non più degni di risiedervi, e mai più vi rientrarono. Questa cacciata è anche nota come la “Caduta degli Angeli”. La leggenda racconta ancora di come Michele, con gli arcangeli rimasti, abbia creato un mondo nuovo, estraneo ed esterno al Paradiso, dove i ribelli avrebbero scontato il loro eterno esilio: un luogo freddo, lugubre, scavato nella roccia e nutrito dall’odio e dal rancore, dove Lucifero avrebbe regnato incontrastato. I ribelli non accettarono questa divisione e si ribellarono ancora, ma stavolta tutto fu represso nel sangue e non ebbero alcuna opportunità di negoziazione. Gli Arcangeli crearono poi un terzo regno a metà fra i due, in cui avrebbero vissuto i più degni delle due fazioni, uno per ciascuna, e avrebbero vegliato sulla pace per entrambi. Infine Michele pregò a lungo affinché il loro dio creasse un terzo angelo, un custode puro nato dalla luce, che potesse giudicare senza influenze, e lo facesse crescere sulla Terra per poi farlo salire al terzo regno al momento opportuno. Nessuno sa però se la sua preghiera fu mai esaudita.

In questo volume analizzeremo con obiettività la comparsa della magia sulle Terra, considerando gli effetti straordinari sulla vita e…”

 

‹‹È un peccato che non si possa leggere la vera leggenda anziché il libro di Storia della Magia, vero Dakota?››

‹‹Mah… Sinceramente queste storie sugli angeli non mi piacciono molto.››

‹‹Ma dai, Dakota! La magia viene dagli angeli e tantissimi misteri su di essa non sono ancora stati risolti. Non ho nemmeno una briciola di magia dentro di me e questo mi rende curiosa.››

‹‹Verity, sai che il motivo per cui Michelle si diverte a prenderti in giro è proprio questo tuo curiosare, vero?››

‹‹Già… Ma voglio sapere la verità. Forse scoprirò anche qualcosa su di me.››

Dakota recitò a memoria le motivazioni dell’amica come se fosse sul palco di un teatro e Verity ne rise, sempre contenta che la sua vita fosse banalizzata con poche parole ad effetto, alleggerendo la tristezza che si portava dietro.

Il sorriso di Dakota si spense quando volse lo sguardo verso l’ingresso della biblioteca. C’erano cinque ragazze disposte in cerchio intorno a Michelle. Era la più alta del gruppo e anche la più bella, almeno per i ragazzi della scuola: lunghi capelli lisci e neri e penetranti occhi color acquamarina. Le ragazze sedute ai tavoli sospirarono ammirando la camminata sensuale da pantera e i ragazzi si scambiarono sorrisi soddisfatti.

‹‹Ehy, senza-poteri! La professoressa Anna ti aspetta nel suo ufficio…›› le disse con un ghigno.

L’acquamarina e la nebbia si scontrarono: ‹‹Sempre a prenderla in giro, Michelle. Nessuno ti ha insegnato le buone maniere, eh››

‹‹E tu sempre a difenderla, vero Dakota?››

Le ragazze si guardavano con astio e la tensione era elettrica, ma Verity intervenne a far da paciere: ‹‹Non iniziate a litigare come al solito! Non ho voglia di sentirvi gridare e nemmeno chi studia qui ne ha››.

Disse a Dakota che si sarebbero incontrate più tardi all’area snack, raccolse i suoi libri e uscì velocemente.

Si concesse una lenta camminata nel corridoio. L’ala professori, con gli uffici, era dall’altro lato della scuola e il percorso sorpassava molte aule e il cortile interno.

Il corridoio era terribilmente lungo, ma estremamente bello secondo la ragazza. Grandi arcate, alternate a colonne imponenti, formavano le pareti color panna; le volte del soffitto erano affrescate con storie tratte dalla Bibbia e dalla mitologia greca, dettagliate e colorate. I suoi preferiti erano Orfeo ed Euridice, protagonisti dell’omonimo mito: la loro tragica storia d’amore faceva sognare la giovane, raggiungendo le corde di sentimenti e destini ancora avvolti nelle tenebre. Orfeo, bello e prestante come gli antichi dei, ed Euridice, piccola e delicata, formavano una coppia invidiabile.

Il dipinto cui si sentiva più legata era però quello dello scontro tra Michele e Lucifero, seguito poi dall’arcangelo intento a pregare. Sentiva che qualcosa di quell’atto le sfuggiva, che c’erano collegamenti da fare e misteri da risolvere.

Sorpassò le aula di fisica e scienze e poté sbirciare all’interno della seconda. La professoressa stava preparando una mistura dall’aspetto poco rassicurante: un intruglio azzurro che frizzava vivacemente. Certo, spaventava un po’ non sapere cosa sarebbe successo, se fosse esploso o no, ma le erano sempre piaciute le lezioni dove l’unica abilità che le serviva non era la magia, ma quel magico organo che è il cervello. L’insegnante aggiunse alcune gocce di un liquido rosso alla soluzione e nel giro di un decimo di secondo le esplose in faccia con una nuvoletta violacea: gli abiti erano bagnati e, mentre la donna cercava di togliersi la sciarpa senza ferirsi con i cocci del becher, la classe rideva rumorosamente. Si unì a loro in una risata leggera e si allontanò sorridendo, camminando fino alla grande porta finestra che dava sul cortile interno.

‹‹Signorina Verity! Stia attenta! In cortile ci sono delle matricole che si esercitano, ma non sono molto brave… Potrebbe farsi male.››

‹‹Grazie Mr.Jay, prometto che starò attenta.››

Mr.Jay era un bell’uomo sulla cinquantina, forzuto e simpatico. Amava ridere con gli studenti e con i colleghi, ma al tempo stesso sapeva essere serio e incutere timore con la voce grave che aveva. Condivideva con Verity un legame particolare e durante le lezioni di magia rimanevano insieme. Lei lo aiutava con alcune delle sue mansioni da bidello, poi lui la viziava offrendole la merenda. All’inizio la conversazione era stata scarsa a causa della natura timida di entrambi, ma con lo scorrere dei giorni il ghiaccio si era sciolto in un’amicizia sincera.

Appena uscita Verity si accostò al muro e procedette rasente ad esso calpestando le foglie rosse e gialle che coprivano la terra marrone. Gli studenti non erano solo poco bravi, ma dei veri e propri disastri e, pur tenendosi ben lontano dal “campo di allenamento”, rischiò più volte di essere colpita da un incantesimo mal riuscito o mal direzionato, mentre il giovane che avrebbe dovuto controllarli dormiva beatamente appoggiato contro la vecchia quercia. Nel torneo scolastico non sarebbero sopravvissuti nemmeno alle qualificazioni se non fossero migliorati. Alzò gli occhi al cielo, passò oltre la quercia e, felice di tornare al sicuro, rientrò nella scuola e bussò lievemente alla grande porta bianca che era l’ingresso della sala professori.

Attese qualche secondo e l’insegnante di Levitazione la fece entrare.

La professoressa Anna era seduta sul davanzale della finestra, respirando a pieni polmoni l’aria pura del grande parco in cui era immerso l’istituto. Di fronte a lei una larga scrivania in mogano piena di vecchie fotografie dominava la stanza. La luce illuminava le foto di studenti meritevoli del passato, familiari e illustri insegnanti ormai ritirati. Un gusto del passato permeava l’ufficio, donando la sensazione del ritorno a un tempo lontano: tantissimi libri veri, con le pagine di carta e le parole scritte con l’inchiostro erano chiusi nelle vetrine, quadri dipinti da veri pennelli erano appesi alle pareti. In un angolo della stanza un’antichissima macchina da scrivere era poggiata su un tavolino di vetro e molti altri oggetti trovati in chissà quale luogo della Terra erano conservati sotto teche trasparenti. Anche se la professoressa insegnava ai suoi studenti a usare la magia, non aveva mai smesso di credere che le azione compiute con le mani, con il contatto fisico e la fatica, fossero ancora importanti: ciò che caratterizzava un oggetto creato senza magia era ancora pregno di un potere che nessuna magia poteva eguagliare. Questo a Verity, che la magia non la possedeva, sembrava magnifico e forse anche per questo stimava Anna. C’erano dei valori in lei che la ragazza non aveva mai trovato in nessun altro.

‹‹Verity cara, come stai? Spero tu non ti sia troppo preoccupata, essere chiamata dalla preside spaventa sempre un po’…››

Scese dal davanzale e le versò una tazza di thè caldo, facendole cenno con la mano di sedersi, poi continuò a parlare.

‹‹Tua madre è venuta ieri a scuola, credo ti cercasse, ma le ho detto che eri fuori per una ricerca. Però è rimasta a parlarmi e ciò mi ha sorpreso non poco: mi ha chiesto come stessi, come ti trovassi a scuola e poi mi ha domandato come andasse la questione della magia.››

‹‹Lei cos’ha risposto?››

‹‹La verità, Verity, e cioè che nulla è cambiato da quando sei qui… Per favore, non guardarmi con quell’espressione, l’avrebbe scoperto prima o poi. Si è molto arrabbiata, accusando la scuola di non saper insegnare ai suoi studenti. Non sono riuscita a calmarla o a farle cambiare idea, mi spiace.››

‹‹Che idea scusi?››

‹‹Vuole che torni a casa. Dice che ormai hai tutti i titoli di studio che ti servono e che stare qui a sperare nell’impossibile non cambierà nulla.››

Verity era allibita. Sua madre che veniva a scuola era già un evento epocale, scoprire poi che aveva parlato con la professoressa Anna aveva qualcosa di incredibile e sapere che sarebbe dovuta tornare a casa la gettò in un baratro di tristezza. Forse, pensandoci in quel momento, avrebbe fatto meglio a preoccuparsi quando Michelle l’aveva chiamata: almeno avrebbe avuto una piccola preparazione per quello. Posò con lentezza esasperante la tazza sulla scrivania, terrorizzata dall’idea che, se solo avesse provato a dire qualcosa, le sarebbe caduta. Sentiva i palmi delle mani sudati e lo sguardo appannato di quando non voleva credere a ciò che udiva. Non poteva tornare a casa, non poteva tornare nell’unico posto al mondo dove nessuno le avrebbe più rivolto un sorriso di benevolenza o comprensione. In istituto Michelle la prendeva in giro, ma tanti l’avevano difesa nel corso degli anni e continuavano a farlo, professori inclusi.

Firmò il modulo di rinuncia volontaria trattenendo le lacrime e mordendosi il labbro inferiore fino a farlo diventare rosso e pulsante; firmò la sua condanna senza nemmeno provare a protestare. Si diresse lentamente verso la porta, carezzando con uno sguardo d’addio quei cimeli che non avrebbe visto mai più.

‹‹Verity, aspetta un minuto ancora! Anche se non vivrai più qui le mie porte sono sempre aperte per te. Vieni ogni volta che desideri e non lasciare che tua madre ti cambi, okay? Vali molto più di altri studenti con la magia…››

L’abbracciò dolcemente, stringendo quella ragazza così pronta a donare amore anche quando non ne riceveva nemmeno una briciola in cambio.

Per un’insegnante è sempre triste perdere un allievo, meritevole o meno, ma nel caso di Verity la tristezza era doppia: era entrata nella scuola sconsolata e senza speranze. Crepare la barriera gelida che indossava in ogni momento non era stato facile. Convincerla ad esporsi, a raccontarsi, a mostrare il grande cuore che possedeva era stato ancora più complicato.

La ragazza decise di abbandonarsi a quell’abbraccio tenero, assorbendo tutto quello che riusciva, ma appena sentì di non poter più trattenere le lacrime lo sciolse e uscì con un breve ultimo saluto.

Con gli occhi pieni di lacrime non vedeva bene dove stesse andando e inciampò nelle gambe di quel ragazzo appoggiato alla quercia. Si sbucciò i palmi delle mani che aveva proteso in avanti per attutire la caduta e sentì il sapore salato del pianto sulla lingua e sul palato. Il ragazzo si svegliò, guardandola incuriosito.

‹‹Ehy tu, ti sei fatta male?››

Verity non rispose e non accettò la mano che le porgeva per aiutarla. Si alzò da sola e scappò via, evitando per pochi centimetri un raggio congelante su una gamba. Gli occhi di lui la seguirono fino a che non scomparve all’interno della scuola. Che fretta poteva avere, si chiese, una ragazza con gli occhi rossi per le lacrime e un sorriso triste e finto sul viso? Guardò i due maghi in allenamento: non avevano notato la caduta di lei. Meglio così, pensò, non avrebbero notato nemmeno lui mentre andava via.

 

Rientrata al caldo Verity si appoggiò alla porta e scivolò giù, chiudendosi in se stessa. Mr.Jay provò più volte a farle raccontare cosa fosse accaduto, ma a ogni tentativo il mutismo della ragazza aumentava, tanto che finì per piangere in silenzio tutte le sue lacrime. La prese di forza e la depose su uno dei divani dell’area snack, poi mandò a chiamare Dakota, certo che in sua presenza avrebbe parlato.

L’arrivo dell’amica illuminò per un attimo gli occhi di Verity, per poi lasciarli tornare vitrei e distanti in quello successivo. Piano piano Dakota riuscì però a farla parlare e, sottile come un sussurro senza vita, Verity riferì le parole della professoressa. Parola dopo parola, frase dopo frase, i due ascoltatori passarono dallo stupore alla rabbia e alla tristezza.

‹‹Verity, devi parlare con i tuoi genitori! Convincili a farti rimanere. Tu appartieni a questa scuola. Sei qui da più tempo di qualsiasi altro studente, non hai nulla da spartire con i tuoi familiari. Poi, quanti anni sono che non si fanno vedere? Non possono pretendere che abbandoni tutto per stare da sola in quella casa enorme.››

Non serviva che Dakota glielo ricordasse, sapeva cosa avrebbe dovuto fare ma, allo stesso tempo, conosceva bene sua madre. Eleonore era una donna orgogliosa, primogenita di un’antica dinastia di maghi e streghe particolarmente potenti. In città tutti la rispettavano per il grande nome che portava sulle spalle e ne riconoscevano il fascino e la bellezza: pensare prima all’onore della famiglia che alla felicità di Verity era la normalità.

‹‹Dovrei andare a casa in ogni caso, ho già firmato il modulo, ma discutere con loro è inutile. Mio padre non c’è mai e mia madre… Non ne parliamo. Per l’intera mia famiglia sono uno scherzo della natura e hanno pure ragione: quando mai la figlia di due maghi nasce senza magia? Quando Non mi daranno spiegazioni e meno chiedo, meglio sarà.››

‹‹Ma sono i tuoi genitori!››

‹‹Questo non conta nulla, Dakota, nulla.››

 

Dakota decise di accompagnarla fino a casa, sperando di poter ancora farle cambiare idea, anche se sapeva di essere senza speranze. Sorpassarono un locale affollato e un parco dove dei bambini giocavano e si dondolavano sulle altalene. Verity non li notò. Chiusa nei suoi pensieri nulla la distraeva: non i profumi o i colori, non le risate cristalline dei piccoli. I passi erano lenti, le spalle incurvate come sotto il peso di un enorme macigno. Si salutarono con un cenno del capo di fronte al cancello.

Verity cercò la chiave arrugginita nel mazzo e varcò la cancellata. Il giardino era vivo, pulsante di energia positiva, ma la ragazza l’attraversò ignorandolo. Quel luogo era stato suo un tempo. Aveva piantato fiori di ogni specie e colore sotto lo sguardo attento del nonno, l’unico della famiglia a cui piacesse trascorrere del tempo con lei. Aveva lavorato al fianco dei giardinieri, aiutandoli così spesso che avevano riservato un angolo di prato solo per lei. Aveva riempito quel regno in poco tempo, trasformandolo in un arcobaleno di colori, anche se i fiori per cui aveva lavorato maggiormente erano state le rose nere, che la nonna le aveva portato da uno dei suoi viaggi intorno al mondo. Le aveva seguite gelosa, ammaliata dal profumo e dalla bellezza mozzafiato, e le aveva usate per decorare la tavola da pranzo, la porta della sua stanza, i mazzi di fiori che regalava a sua madre o che lasciava sul tavolino in ingresso per suo padre. Erano state l’unico dono che Eleonore aveva apertamente mostrato di gradire.

Si fermò sotto il portico mentre i ricordi si facevano spazio prepotentemente: si rivedeva seduta lì fuori, sulle gradinate, a mangiare gli acini d’uva sputandone la buccia; ricordava di aver cercato di arrampicarsi sull’edera che ricopriva il muro, di aver guardato la neve cadere infagottata nelle coperte, di aver cantato con i grilli nell’estate afosa di quando aveva cinque anni; sentiva sulla pelle il calore del vento e la sensazione di ruvidezza della barba non fatta di suo padre quando l’aveva salutata per  l’ultima volta prima che si trasferisse nel collegio dell’istituto, forse uno dei pochi abbracci che aveva ricevuto da lui e forse la prima volta che lo avesse visto in apprensione. Adesso c’erano solo foglie secche e una vecchia sedia di legno scurita dal tempo. Spalancò la porta con un sospiro: probabilmente non avrebbe rivisto più nessuno del dormitorio. Non che avesse particolari rapporti con i suoi vicini, ma le piaceva sentire la ragazza con cui divideva la stanza cantare sotto la doccia, incurante di essere stonata e di urlare per superare il rumore del getto o l’insegnante di musica che suonava sempre l’arpa dopo pranzo e si applaudiva da sola.

Le sarebbero mancati tutti quanti.

 

‹‹C’è qualcuno in casa?››

Non rispose nessuno… Non che se lo aspettasse, ovviamente.

Fece pochi passi ed entrò in quella che credeva essere la cucina, fu felice di non sbagliarsi e di ritrovarla spaziosa e brillante come ricordava. Aprì le antine e i cassetti fino a che non trovò dei biscotti e prese dal frigo il cartone del latte. Li lasciò su un mobile in cima alla grande scala e si chiuse a chiave nel bagno. Fece un doccia lunga, bollente e rilassante. Si insaponò con dolcezza, cercando di distendere i muscoli tesi con un massaggio, mentre seguiva le bolle di sapone che fluttuavano e scoppiavano a contatto con la parete. Uscita dal vapore quasi ustionante si fermò davanti allo specchio fissandosi con insistenza, attentamente. Era carina: aveva lineamenti delicati e il naso leggermente all’insù. I suoi tratti esprimevano tranquillità e calma, ma erano pochi quelli che le si avvicinavano a causa dei capelli rossi come il fuoco e degli occhi smeraldo. Si era spesso chiesta da quale antenato li avesse ereditati perché né Eleonore né Victor li avevano verdi. Non le piacevano. Troppo espressivi, troppo comunicativi, erano come un libro aperto dove si leggevano con facilità tutti i suoi sentimenti. Distolse lo sguardo e uscì, recuperò il mangiare e salì in soffitta.

 

Tutto era esattamente come lo aveva lasciato: il letto sfatto di quando era andata via, i barattoli di vernice in un angolo per terra e i pennelli posati sui gradini della scala che portava alla terrazza. Accese la musica di un vecchio giradischi e, intinto uno dei pennelli in uno dei barattoli ancora utilizzabili, dipinse con il rosso il soffitto inclinato sopra il suo letto, gocciolando un poco sulle lenzuola stropicciate. Aveva dipinto spesso, da bambina, sulle pareti della sua stanza, soprattutto quando i suoi genitori litigavano, magari svegliandola nel cuore della notte. Dipinse un grande fuoco, rosso e giallo, tanto bello da parere vero. Presa come da un’illuminazione controllò poi gli altri barattoli, scoprendo che quelli vecchi erano in realtà stati sostituiti e rimessi al loro posto. Aggiunse allora una lunga scia luminosa, bianca e celeste, che nasceva dalla mano aggraziata di un angelo dalla veste sontuosa e dai capelli biondi e riccioluti. Dalla parte opposta rappresentò invece un giovane dalla carnagione abbronzata, con i capelli neri e lucidi che cercava di deviare quella scia con un’altra molto più scura, ricca di riflessi violacei. Si allontanò per osservare meglio: Michele e Lucifero intenti a combattere, come li descriveva il primo libro che aveva letto sul loro scontro.

Continuò a dipingere fino a che non ebbe vuotato il cartone del latte e si rese conto che il viso di Lucifero assomigliava vagamente a quel ragazzo contro cui era inciampata quello stesso pomeriggio. Alla fine si accorse di non aver mangiato nessuno dei biscotti e decise di scendere in cucina per cenare con qualcosa di buono e salutare. Chiuse la porta a chiave e notò le luci dell’ingresso accese. Scese i gradini in fretta, sperando di trovare suo nonno o il suo cane. Non c’era nessuno, solo una luce leggera che filtrava da sotto la porta dell’antico salone. I genitori lo usavano solo per le cene importanti o per le festicciole con altre famiglie illustri di maghi. Nulla di tutto ciò aveva mai avuto a che fare con lei, ma non le era mai dispiaciuto davvero. Pensava sempre che si sarebbe annoiata e allora si chiudeva a chiave nella sua soffitta e dipingeva. Però era incuriosita. Si avvicinò senza fare rumore e poggiò l’orecchio sulla serratura per origliare la conversazione, anziché ignorarla come avrebbe dovuto.

La madre si stava lamentando di qualcosa, come al solito. Sbirciò allora nella serratura per sapere chi fosse nella stanza. Il nonno era seduto su una delle poltrone di velluto verde scuro e Kai era accucciato ai suoi piedi, mentre la nonna stava seduta sul divano insieme agli zii. Forse per istinto Kai alzò il muso in direzione della porta, aprendo la bocca come per sorriderle.

‹‹Finalmente Verity è a casa. Lasciarla a scuola era inutile.››

‹‹Eleonore aveva degli amici là, ora è sola…››

‹‹Ne abbiamo già parlato, Victor. Preferisco averla in questa casa, dove posso sempre sapere come sta e posso cercare di cambiarla.››

La nonna sbuffò annoiata, stufa di sentire sempre gli stessi commenti fatti dalla figlia: ‹‹Spero tu non pensi ancora che sia colpa sua!››

‹‹E di chi sarebbe, mamma Sia io che Victor sappiamo usare la magia, tutto dipende da lei.››

Ci fu un attimo di silenzio, come quando il temporale si acquieta un secondo e poi un fulmine più forte degli altri colpisce all’improvviso, e il nonno si alzò in piedi gesticolando con le mani.

‹‹La colpa non è nostra, tutto dipende da lei… Smettila di addossare colpe su quella povera ragazza e inizia a comportarti come una madre amorevole, Eleonore. L’hai trattata come un’emarginata per tutta l’infanzia e ora la riporti in questa casa vuota e sai benissimo, sapete entrambi benissimo, che sarà sola anche qui. Poi io rimango sempre della mia idea, è simile a Mary e ogni anno che passa le somiglia di più: se la genetica non è un’opinione, ha ereditato tutte le sue caratteristiche, compresa…››

‹‹Certo, Dante, perché l’esistenza degli angeli è un fatto scientifico e provato. Sei anziano ma smettila di credere in queste leggende senza fondo!››

‹‹Eleonore, sei la moglie di mio figlio, ma non ti permettere mai più di mettere in dubbio la mia intelligenza. Le antiche leggende non sono storielle per bambini e gli Ingranaggi avrebbero fatto bene a rimanere nascosti dov’erano.››

Il fratello di Eleonore disse al nonno di stare zitto, di smettere di ripetere ogni volta di lasciare in pace Verity e trattarla meglio di quanto non facessero: la ragazza era uno scherzo della natura. La moglie dell’uomo prese poi la parola, cercando di mitigare la tensione: ‹‹Signor Dante, ci ascolti: sono anni che studiamo gli Ingranaggi e non abbiamo ancora scoperto nulla di certo. Sono sicuramente una grande fonte di energia, ma da qui a parlare di angeli e guardiani protettori c’è ancora molta strada da fare.››

‹‹Certo, cerchiamo informazioni, andiamo a trovare angeli e guardiani. Se li hanno depositati in posti isolati ci sarà stata una ragione, no? Ve lo sarete chiesti spero!››

‹‹Papà, adesso basta! Sono storie senza capo né coda, e ti dirò di più, sono state le persone che facevano loro da guardia a consegnarceli. Secondo loro non c’erano problemi e se nessuno ci ha attaccato in questi anni non vedo come potrebbero farlo in futuro.››

Dante sgranò gli occhi e sedette sulla poltrona con un tonfo. Sapeva di non avere un figlio particolarmente saggio, ma credeva che la saggezza fosse un requisito fondamentale almeno per i monaci. Tutto quello che conosceva gli era stato trasmesso da loro e lui lo aveva tramandato a suo figlio, ma Victor non aveva mai compreso fino in fondo. Pochi nella famiglia in realtà avevano capito: la magia donava un senso di onnipotenza tale che l’esistenza di esseri divini, dalle capacità infinite, diventava inconcepibile, e credere nel trascendente era quasi impossibile. Era però abbastanza intelligente da sapere che parlare ancora avrebbe peggiorato l’umore di tutti e perciò uscì dalla stanza, premurandosi di sbattere la porta per esternare tutto il suo disappunto.

Verity si era allontanata già da un po’, e precisamente alle parole “scherzo della natura”, sedendosi sul primo scalino di fronte alla soffitta, stanca di sentirsi chiamare sempre allo stesso modo. Amareggiata e con le lacrime agli occhi, appena sentì i passi del nonno sulla scala si alzò di corsa ed entrò, lasciando la porta accostata e uscendo sulla terrazza. Il nonno la raggiunse e le posò una coperta leggera sulle spalle, sedendosi con fatica al suo fianco.

‹‹Cosa sono quelle lacrime? Non devi piangere, piccola mia.››

‹‹Non riesco a smettere, nonno. Perché devono sempre parlare di me in quel modo?››

‹‹Non lo so, amore. Tuo padre è così assente che non può permettersi di ribattere e gli altri… Bah, lasciali a cuocere nel loro brodo!››

Le lasciò un bacio sulla fronte e rientrò in casa. La ragazza rimase fino a che il cielo si trasformò in una notte buia e piena di stelle: la luna nera si confondeva con l’infinto. Guardando con attenzione scorse una luce in movimento: segnali inviati dagli astronomi, pensò. Eppure… Eppure non lampeggiava come al solito e lasciava dietro sé una scia violetta, appena percepibile sul manto scuro del cielo. Si avvicinò alla ringhiera, stringendola fino a farsi venire le nocche bianche e sporgendosi per vedere meglio, strizzando gli occhi. Sfortunatamente era troppo lontana e scomparve all’improvviso, anche se Verity avrebbe giurato di averla vista fermarsi per un secondo. Colpita dall’idea che si fosse arrestata per effetto dei suoi pensieri, decise di aggiungere quella scia al dipinto sopra il letto, pensando che potesse essere un angelo messaggero o un’altra creatura dei cieli.

Angolo dell'autrice

Non è la prima volta che pubblico su Efp, ma è assolutamente la prima che pubblico a) un originale nel fantasy e b)un storia originale con più di due capitoli. Spero che vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione, sia positiva che negativa. Sono entrambe estreamente utili per migliorare la mia scrittura e la storia. La trama è gia stata tutta scritta, quindi dovrò solo postare i capitoli. Cercherò di metterne uno alla settimana, ma siccome l'università mi impegna moltissimo, soprattutto al pomeriggio, alcune volte potrei saltare. Mi premurerò in ogni caso di postare sempre almeno due capitoli al mese. Se avete delle domande, chiedete pure. 

Un saluto a tutti i lettori!

Ci sentiamo la prossima settimana!

Nemamiah

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

 

 

‹‹Kai, smettila di leccarmi la faccia! Mi bagni di saliva, è disgustoso!››

Kai leccava la faccia della giovane padrona con cura, senza tralasciare nulla, per svegliarla e dirle che la casa era vuota. Quando Eleonore era in casa, Kai doveva rimanere in cortile o al primo piano poiché non gli era permesso salire le scale fino alla soffitta. Sapere di essere da sola in quella villa così grande la svuotò di ogni energia e voglia di fare: se non puoi condividere la tua esistenza con qualcuno che la renda completa, perché alzarsi e concepire mille mirabolanti idee?

Trascorse la mattina a girovagare per i corridoi della villa, cercando novità nelle stanze che sembravano essere sempre uguali e ignorando il telefono che continuava a squillare, insistentemente e senza sosta. La persona dall’altro capo dell’apparecchio doveva essere molto testarda, o molto stupida, per continuare a chiamare. Alla fine, presa dall’esasperazione, rispose, pregando tutti gli angeli che conosceva che ci fosse qualcosa di davvero importante.

‹‹Finalmente mi rispondi razza di degenerata! Mi stavo preoccupando seriamente!››

‹‹Pensavo, Dakota.››

‹‹Certo, e posso immaginare i risultati del tuo crogiolarti nelle disgrazie che ti accadono.››

‹‹Prima di risponderti erano ottimi, sai?››

‹‹Sei una pessima bugiarda! Scommetto che ti stai annoiando a morte, vestiti e vieni fuori, facciamo una passeggiata.››

Verity scostò una delle tende della sala e Dakota la salutò con la mano e con un ampio sorriso. Scosse la testa e andò a vestirsi, conscia che l’amica non l’avrebbe lasciata in pace fino a quando i suoi desideri non fossero stati esauditi.

Dakota era entusiasta: si sarebbe portata Verity in giro per tutto il giorno, distraendola e occupandosi di lei. C’erano molti preparativi da fare. Era bastata una mattinata lontana da scuola e mille novità erano giunte. Ci sarebbe stata una grande festa a scuola, con un ballo, e Verity era stata invitata direttamente dalla preside come ospite. Doveva assolutamente partecipare ed essere bellissima per fare invidia a Michelle che aveva sparlato di lei per l’intera giornata.

Girarono per i vicoli della parte storica della città, costellati di boutiques minuscole ma così piene da chiedersi come si potesse entrare dentro; si fermarono in un’antica, piccola pasticceria dove mangiarono qualcosa per pranzo; attraversarono i vicoli dei fiorai, profumati e ricolmi di fiori esotici, e quelli delle vecchie librerie e dei negozi degli antiquari fino a sbucare in una via appena più larga, quella degli abiti.

‹‹Dakota cosa facciamo qui?››

‹‹Te l’ho detto, ci prepariamo per la festa della scuola, no?››

Prese Verity per una manica e la trascinò su per una ripida scaletta scavata nella pietra: sul pianerottolo c’era scritto “Atelier del fuoco”.

I manichini erano in ogni angolo, vestiti e pronti per essere ammirati, anche se coperti da un sottile strato di polvere grigia. Sul grande tavolo da lavoro erano sparsi spilli con la capocchia colorata, un metro da sarto e alcuni gessetti, mentre in un mobile bianco erano ammassati rotoli di varie stoffe e tonalità.

Dakota, dopo aver salutato il nonno che cuciva nel laboratorio, andò nel retrobottega, che per qualche motivo era più grande del laboratorio stesso. Preparò alcune scatole e mandò l’amica nei camerini.

‹‹Dakota, vuoi mandarmi nelle case del piacere per caso?››

L’abito che stava indossando era corto e rosso, molto aderente nel corpetto e fluttuante nella gonna, con uno spacco che metteva in mostra la coscia. Dakota rise del commento e passò a Verity un vestito diverso, bianco e lungo, senza maniche. Aveva il collo alto, decorato con piccole pietre luccicanti, ed era abbinato a dei guanti lunghi fino al gomito di stoffa leggerissima, con un fiocchetto azzurro sul polso. Le stava molto bene, ma Dakota non era soddisfatta.

Per un’ora buona scartarono modelli e colori, ma nessuno sembrava essere quello giusto e Dakota cominciò a disperarsi, lanciando gridolini di rabbia e disappunto.

‹‹Ragazze, come state? Avete trovato qualcosa che vada bene?››

‹‹Nonno! Ho perso le speranze di trovare il vestito perfetto. Pensi di poterci dare qualcosa tu?››

Il nonno sorrise e richiamò una delle scatole dallo scaffale più alto con un gesto della mano. Questa scese dolcemente e si posò tra le mani di una Verity estasiata da quella magia così semplice ed elegante. L’abito era una delle creazioni magiche di Erald, il padre di Dakota, ma le rifiniture erano fatte a mano: era un vestito blu notte, lungo fino a terra. Il corpetto era ricamato a mano con minuscole perle blu disposte in brillanti arabeschi che scomparivano verso la vita; le maniche in pizzo arrivavano fino al gomito e le spalle erano coperte.

Dakota aveva gli occhi spalancati per la meraviglia e la soddisfazione, mentre Verity arrossiva sulle guance e si torturava le dita delle mani. Il nonno di Dakota si complimentò, dicendo che era molto bella, e riprese la sua occupazione.

Le due ragazze mangiarono qualcosa di veloce lungo la strada e tornarono a casa di Verity, chiudendosi nella soffitta. Lasciata la giacca su una sedia, Dakota cominciò a guardarsi intorno: non era mai stata nella camera dell’amica anzi, non era mai nemmeno stata a casa sua pur sapendo dove abitasse. Era incantata dai colori e dai dipinti sulle pareti e sul soffitto inclinato, stupefatta dalle meraviglie che Verity era in grado di creare, e sentiva il suo carattere sensibile diffondersi da ogni angolo. Accarezzò uno dei muri dipinto di blu scuro e punteggiato di costellazioni, riconoscendone qualcuna; osservò con attenzione le pieghe dei vestiti di alcune ragazze in un angolo. La maggior parte erano disegni dal tratto infantile, ma altri, come quelli fatti durante le vacanze quando si era obbligati a tornare a casa, erano splendidi e sfumati alla perfezione. Lo sguardo indagatore di Dakota sorpassò tutte le superfici e si fermò sul nuovo lavoro sopra il letto: i suoi occhi brillavano.

‹‹Quando lo hai fatto? Credo sia il più bello in questa stanza…››

‹‹Ieri pomeriggio… Avevo parecchia ispirazione.››

‹‹Non ti infastidisce dormirci sotto? Sembra che vogliano uscire dal soffitto tanto paiono reali e io ne avrei una paura matta.››

‹‹E cosa potrebbero fare? Uscire e uccidermi durante il sonno? Se sono sicura di qualcosa è che in questa casa nessuna magia potrà mai mettere i miei dipinti contro di me.››

Si sedette sul bordo del letto, grattando con l’unghia una gocciolina di vernice assorbita dalle lenzuola. Non aveva mai considerato un suo dipinto opprimente o inadatto a una camera, né disturbatore del sonno, e non aveva paura di svegliarsi nel cuore della notte e spaventarsi. I due angeli si fronteggiavano l’un l’altro, lei era solo l’osservatrice fuori campo di una grande, epica battaglia.

‹‹Certo che no… Ma non saprei, mi fanno sempre pensare a tristi futuri le scene di guerra, soprattutto se messe sopra un letto!››

Fece una linguaccia a Verity e tornò a guardarsi in giro, respirando flebilmente nel silenzio confortevole. Uscirono per un po’ sulla terrazza ad ammirare le stelle, quelle vere, con una coperta sulle spalle, e ascoltarono Kai abbaiare loro dal basso del cortile, poi rientrarono.

All’improvviso la madre di Verity, Eleonore, aprì la porta con la magia e la lasciò sbattere contro un prato verde.  La ragazza ebbe appena il tempo di sussurrare che solo in quella casa una porta chiusa non esprimeva un messaggio ben chiaro. Eleonore squadrò Dakota dalla testa ai piedi, concentrandosi molto sulle scarpe consumate della ragazza e la salutò, chiedendole poi di uscire.

‹‹Aspetterò fuori, non c’è nessun problema.››

‹‹No, per favore, potresti proprio andare via?››

Dakota si stupì ma raccolse la giacca dalla sedia e se ne andò, offesa, intercettando prima lo sguardo di scuse che le inviava insistentemente Verity.

‹‹Cosa faceva lei qui? Il padre non è un uomo molto intelligente né importante direi, preferirei che non vedessi quella ragazza.››

Per un attimo, per un minuscolo attimo Verity desiderò di poterla bruciare con il fuoco: non un’ustione grave, ma che le lasciasse un segno abbastanza duraturo da non farle dimenticare che poteva frequentare chi preferiva e non chi voleva lei. Anziché dirle la verità preferì però annuire, borbottando che era una ragazza molto sveglia invece. La madre aggrottò la fronte e sorrise, fingendo di non aver udito le parole della figlia e iniziando a parlare.

Nel frattempo Dakota si era seduta sulla vecchia sedia della veranda, cercando di ricordare dove avesse già visto quella donna. Era una delle poche ragazze a scuola, lei, che non avesse mai incontrato la famiglia di Verity, eppure il viso di Eleonore le era familiare, come se lo avesse visto da poco.

‹‹Dakota, cosa stai facendo qua fuori? Non fa così caldo…››

Il nonno di Verity, Dante, aveva già salito le scale e inserito la chiave nella toppa quando si era accorto della giovane. Era strano che la nipote lasciasse un’amica fuori dalla porta di casa ad aspettare, non era affatto un comportamento che le si addicesse.

‹‹Credo che la mamma di Verity mi abbia cacciato di casa.››

‹‹Niente di più probabile›› disse ridendo. ‹‹Non le stai molto simpatica. Se non sbaglio tuo padre non è venuto a una grande sfilata organizzata da lei per promuoverlo perché tu avevi la febbre: non andavano già d’accordo prima, ma quello è stato il massimo che Eleonore ha saputo sopportare. Non ha accettato nessuna scusa.››

Dakota era perplessa. Ricordava molto bene quella febbre, l’unica che avesse avuto, e che suo padre fosse rimasto accanto a lei tutte le notti, ma se avesse saputo che stava rinunciando a una serata tanto importante, lo avrebbe mandato fuori di casa con le poche forze che possedeva.

‹‹Prendi la scala coperta di edera nel retro… Sembri leggera, dovrebbe reggerti.››

‹‹Come fa a sapere che non posso volare?>>

‹‹Lo insegnano al decimo anno e tu sei al nono con mia nipote. Se ti avessero visto provare a levitare te stessa, ti avrebbero ricoverato con un braccio rotto: lo so per esperienza personale.››

Dakota scoppiò in una risata cristallina e quasi le venne male alla pancia. Sfogatasi ringraziò il nonno e girò l’angolo per arrampicarsi il più velocemente possibile.

Sporgendo appena la testa poté vedere Dante entrare nella stanza e parlare tranquillamente con entrambe, anche se la sua espressione tradiva la volontà di prendere Eleonore per un braccio e portarla fuori da quel luogo. Sghignazzò, cercando di contenere la voce, e tirò su con il naso per non soffiarselo, continuando a osservare. La mamma di Verity rimaneva a distanza dalla figlia e sembrava quasi che, per avendola messa al mondo, avesse paura di toccarla e di veder scomparire tutta la sua magia. Un po’ la comprendeva, all’inizio aveva avuto anche lei quella paura. Però era scivolata via man mano che aveva conosciuto Verity durante le lezioni, i lavori di gruppo e le nottate passate di nascosto nella scuola a farsi spiegare da lei tutta la teoria della magia che non aveva mai voglia di studiare. L’aveva vista per la ragazza semplice e sola che era e aveva deciso di essere più aperta con lei. Perché la madre non era in grado di fare lo stesso?

Appena entrambi furono usciti, tirò la finestra verso di sé ed entrò, sedendosi poi sul bordo del letto. Verity si era distesa subito, coprendosi gli occhi con l’incavo del braccio e respirando profondamente. Le molle del letto cigolarono per il movimento e lei sorrise all’amica. Rimasero a chiacchierare ancora un poco e si accordarono per vedersi il giorno successivo.

Rimasta poi sola, Verity continuò a guardare il dipinto sopra la sua testa, pensando a come la sua vita non potesse peggiorare ulteriormente. Non bastava averla tolta dalla scuola, l’ambiente che più le era congeniale, doveva anche starsene a fare da balia a quei cuginetti che la prendevano sempre in giro a Natale perché aveva pochi regali e camminava su e giù dall’albero per prenderli e scartarli. Soppesò la prospettiva della punizione con i piccoli e quella del premio che avrebbe ricevuto nel poter partecipare alla festa della scuola e pensò che sì, ne valeva la pena.

 

La mattina seguente si svegliò tardi, si vestì in fretta e uscì senza aver fatto colazione per riuscire a prendere l’unico bus volante che l’avrebbe portata in centro prima di pranzo. Prese alcune meringhe nella pasticceria di fronte alla fermata e raggiunse Dakota nell’ala dedicata alla pausa. Lei le offrì una meringa ed in cambio ottenne metà del pranzo: un scambio non molto equo ma che lasciò entrambe soddisfatte.

‹‹La professoressa Anna ha detto che devo pubblicizzare la festa e mi chiedevo se potessi avere qualche idea interessante… Ah, e ho notato una cosa strana.››

‹‹Potresti fare dei volantini a forma di vestito, o di rosa, con la magia e farli svolazzare per i corridoi, quando vengono toccati si dispiegano e appare la scritta della festa… Che cosa di strano?››

‹‹Idea geniale! Comunque, che il Lucifero che hai dipinto assomiglia enormemente al tizio che dorme contro la quercia nel cortile interno... Qualcosa da confessare?››

‹‹Sono inciampata su di lui. Ha cercato di aiutarmi ma l’ho respinto… Chi è?››

‹‹Bella domanda. Ho guardato tra i nomi degli iscritti degli ultimi anni, sai, il registro con le foto tenuto dal prof. di Evocazioni, e lui non esiste. Non esiste da nessuna parte.››

Verity rimase in silenzio masticando, cercando di farsi tornare alla mente il viso di quel ragazzo, senza riuscirci, e disse che avrebbero potuto chiedere qualcosa agli insegnanti o a Mr.Jay.

La bibliotecaria annunciò però che la pausa era finita e Dakota dovette tornare in classe. Verity decise che sarebbe passata nel cortile interno a dare un’occhiata, magari lo avrebbe trovato lì a dormire e si sarebbe ricordata il suo viso senza sovrapporlo a quello di Lucifero.

Le sue speranze non furono deluse. Appoggiato al tronco della quercia, quello strano ragazzo respirava profondamente. La testa era reclinata verso il basso e un ciuffo di capelli neri gli copriva la fronte; accanto alle ginocchia c’erano alcuni libri rilegati in una pelle lucida, legati da una cintura di cuoio chiaro che stringeva con la mano. Le ricordava i racconti di come il nonno portasse i libri, alla maniera antica, come diceva lui. Pensò inizialmente di salutarlo, ma alla fine voleva solo vederlo in faccia, e quindi si avvicinò senza far rumore e si sedette di fronte a lui a gambe incrociate, ringraziando di essersi messa un paio di pantaloni. Lui si svegliò appena inserì una mano nel sacchetto delle meringhe.

‹‹Ti sei ripresa dall’altro giorno?››

Si immobilizzò mentre tirava fuori il dolce ma, anziché rispondergli, cercò di sviare la domanda offrendogliene uno; il ragazzo rifiutò e le chiese di nuovo come stesse. Verity non voleva ripensare a quel pomeriggio e a come era stata cattiva verso di lui, che aveva cercato solo di aiutarla, ma dopo vari tentativi di cambiare discorso e vedendo che non riusciva a farlo desistere dal ripetere sempre la stessa frase, si forzò a dire che stava molto meglio. Appena ottenuta la risposta il ragazzo si alzò, tirando con sé la cintura con i libri e facendola galleggiare a mezz’aria. Poco prima che rientrasse, senza salutarla, Verity gli chiese se avrebbe partecipato alla festa della scuola.

‹‹Forse›› disse chiudendo la portafinestra.

Verity sorrise e pensò che un “forse” equivalesse quasi a un “sì” e molto poco a un “no”. Finì di mordicchiare la meringa che teneva in mano e anche lei tornò dentro la scuola, chiedendosi perché fosse così contenta di quella risposta.

 

 

 

Angolo dell’autrice

 

Ecco a voi il secondo capitolo! Mi spiace che il primo non abbia ricevuto recensioni, spero che questo ne riceva almeno una, almeno per sapere se io stia effettivamente andando nella giusta direzione e se la lunghezza dei capitoli sia abbastanza o vada aumentata.

In ogni caso ringrazio tutte le persone che hanno letto, pero che abbiate gradito e che vi venga voglia di lasciarmi un piccolo parere!

Un saluto a tutti,

Nemamiah.

 


 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
   Per qualche tempo trascorse le mattine a scuola e i pomeriggi nel parco cittadino pur di non rimanere troppo tempo a casa in compagnia di sua madre. Certo, là avrebbe potuto incontrare suo nonno e forse una sera avrebbe anche rivisto suo padre, che sembrava essersi chiuso nel suo laboratorio, ma alla fine non le dispiaceva rimanere all’aria aperta e tra la gente. Il pomeriggio della festa lo trascorse da Dakota.
La casa della ragazza si trovava vicino alla scuola, nella parte antica della città, ed era l’opposto della villa di Verity: alla larghezza e ai grandi spazi, si sostituivano infatti stanze dai soffitti alti ma molto strette e scale a chiocciola ripidissime che salivano in due angoli dell’abitazione, incastrata tra due palazzi molto più grandi. Lì ogni oggetto sembrava avere una specifica collocazione, ogni stanza sembrava che potesse solo trovarsi lì e non in un altro punto: due per il primo piano e tre per il secondo più una cantina oscura e un giardinetto minuscolo con una vecchia altalena cigolante. Le due scale a chiocciola erano disseminate di souvenir e ricordi portati dal padre di Dakota durante i suoi viaggi della sua giovinezza, i gradini erano incisi con frasi e discorsi tratti dai molti libri letti da entrambi.
   Quella casa era stata comprata con i risparmi dei nonni dai genitori di Dakota, subito dopo il matrimonio, quando erano ancora troppo innamorati per capire che un luogo simile sarebbe stato pericoloso per una bambina. Erald ed Emily si erano sposati giovanissimi, appena ventenni, ma erano bastati pochi anni di vita insieme perché nascessero le prime difficoltà: avevano due idee di vita diverse, che collidevano e si scontravano in ogni decisione da prendere, e l’incapacità di scegliere insieme, di ascoltarsi, si era riflessa sulla piccola che aveva imparato a convivere con se stessa e a cavarsela per quanto riuscisse. Con il tempo la situazione era peggiorata e la bambina li aveva visti spesso litigare nella cucina, nascosta sull’ultimo gradino della scala a chiocciola della stanza a fianco. La volta che avevano combattuto con la magia si era intromessa, spaventata da quei lampi di luce che diventavano sempre più brillanti e continui. Si era procurata una ferita grave alla spalla, ustionata dal vapore incandescente che la madre aveva creato, e non era mai guarita completamente. La pelle era ancora increspata come un’onda e nessuna magia dei medici era riuscita a distenderla.
   Eppure Dakota era cresciuta allegra, forte ed eccentrica. I vicini la vedevano sempre passeggiare per le vie del centro con gli abiti di Erald mentre mangiava enormi coni gelato o si fermava su un marciapiede mentre una penna le scriveva i compiti che avrebbe dovuto fare di suo pugno; quando tornava a casa, guardava le facce stanche dei genitori e si prometteva che sua figlia non l’avrebbe mai sentita urlare, lanciare fatture volanti o male parole al marito che un giorno avrebbe avuto.
   Quando, durante il terzo anno di istituto, si era nascosta nella stanza di Verity per due mesi interi, i genitori avevano deciso che non potevano andare avanti a litigare ogni volta che si rivolgevano uno sguardo e si erano separati definitivamente: lei si era trasferita in un'altra città, mentre Erald, dopo molti fallimenti, aveva convinto la figlia a tornare a vivere con lui.
   ‹‹Papà, siamo a casa!››
   Non rispose nessuno e così le due amiche salirono subito nella stanza di Dakota.
   ‹‹Ma dov’è tuo padre?››
   ‹‹Adesso in è in atelier, ma lo saluto ugualmente perché ha fatto una magia speciale e mi sente quando lo faccio. Sta lavorando su degli abiti cuciti interamente a mano e su alcuni modelli fatti di sola magia per una stilista. Dovrebbe guadagnare molti soldi questa volta: forse così riusciamo a pagare per intero il carico di stoffe che deve arrivare a giorni…››
   Dakota sospirò: ‹‹Non credo che riusciremo mai ad essere in ordine con i conti in quel posto, ma va bene, è anche questo che lo rende meraviglioso così com’è›› sorrise e fece sedere Verity sulla sedia di fronte allo specchio. Le raccolse i capelli in una treccia complicata, fermando le ciocche con delle perline bianche e creando due rose dietro la testa, facendo scendere la lunghezza sulla spalla destra. Si scambiarono i ruoli e, con l’aiuto di Verity che le divideva le ciocche, trasformò i suoi capelli lisci in boccoli color del pane, lasciandoli sciolti sulla schiena.
   Quando Erald, tornato dal lavoro, entrò nella stanza, bussando appena, scoppiò a ridere per la scena: sua figlia stava pregando l’amica di uscire dal bagno e farsi vedere.
   ‹‹Lascia perdere, angelo mio, la vedrò quando vi accompagnerò.››
   Dakota grugnì una specie di “va bene, papà” e lo lasciò andare via mentre anche lei si vestiva. Continuò a parlottare a bassa voce, commentando la timidezza dell’amica con parole poco amichevoli e spronandola a farsi ammirare durante la serata perché nessuna avrebbe potuto confrontarsi con lei, non quella volta. Mentre erano sulla macchina volante, Dakota sussurrò a Verity che il suo ragazzo si sarebbe imbucato alla festa e che glielo avrebbe fatto conoscere. La ragazza sospirò poco entusiasta, ricordando che l’ultima presentazione a cui aveva partecipato era stata un fiasco, varcò il portone della Sala della Rivoluzione, sperando che tutto filasse liscio per l’intera serata.
   La Sala della Rivoluzione era una delle stanze del piano nobile dell’istituto scolastico, l’unica in grado di accogliere insieme tutti gli studenti dei dieci anni di corso. Per l’occasione era stata decorata con fiori di ogni forma e colore, ma in particolare rose, basandosi sulla leggenda per cui il nobile che ne aveva commissionato la creazione, avesse cosparso il pavimento di petali di rosa una volta venuto a conoscenza della Presa della Bastiglia. Con il passare del tempo la tradizione era cambiata e quella data non rappresentava più il simbolo di una delle più grandi imprese rivoluzionarie della storia, era diventata solo un giorno di festa per la scuola. L’unica particolarità era che i ragazzi regalavano alle ragazze una rosa in base al significato o, se non lo conoscevano, a quale colore si abbinasse meglio al vestito per invitarle a trascorrere la serata con loro. Le più viste erano rose rosse, bianche o gialle, ma alcuni audaci donavano quelle blu o nere. Era un’usanza che Verity aveva sempre apprezzato, anche se non aveva mai ricevuto un fiore in nessuna delle feste. Sorpassarono un gruppo di ragazzi che cercavano di scegliere a chi donare il fiore che tenevano in mano e si fermarono in un angolo, proprio sotto al piano dell’orchestra che si stava preparando per suonare. Accennò le prime note di una melodia dolce e le due si spostarono, pensando di fare un giro: partirono dal colonnato a destra dell’ingresso e passarono di fronte a diverse salette dove ci si poteva sedere e rilassare sui divanetti o sulle poltroncine. Sotto le volte c’erano tavoli colmi di cibi e bevande provenienti da ogni parte del mondo: quattro erano dedicati solo ai dolci ed altrettanti alle bevande, alcoliche e non; i restanti erano per i piatti salati comuni e particolari come la parte indiana, africana e orientale. Le quantità esorbitanti sarebbero bastate per un esercito molto più numeroso della popolazione dell’istituto e l’avrebbero sfamato per almeno un mese, garantendo un pasto completo due volte al giorno, ma il bello della festa era anche quello, sapere di poter mangiare tutto quello che si voleva senza limiti. Passarono così un po’ di tempo e mentre Dakota sgranocchiava dei crackers in uno dei salottini, lei guardava le facce di tutti in cerca del suo “forse ma quasi si”: era certa che sarebbe riuscita a riconoscerlo anche nella calca, ma sembrava proprio sbagliarsi. Michelle si avvicinò a loro con le ragazze del suo seguito.
   ‹‹Guarda un po’ chi si è imbucato alla nostra festa. Cosa fai qui, senza-poteri?››
   ‹‹Mi godo quello a cui sono stata invitata.››
   ‹‹Accidenti allora temo di non poterti proprio dire nulla…››
   Voltandosi colpì con il gomito il bicchiere di aranciata che Verity teneva in mano e lo rovesciò sul vestito; in quel momento la rossa vide anche il ragazzo che cercava avvicinarsi.
   ‹‹Non posso ballare così, puoi provare a… No, vai a goderti il tuo cavaliere imbucato, io andrò in bagno.››
   Spinse piano Dakota sulla schiena incitandola ad andare, mentre questa inveiva contro Michelle promettendo una vendetta lunga e dolorosa. Allora la prese per mano e la portò al centro della sala, vicino ad alcune sue ex-compagne di classe che le erano simpatiche e poi tornò indietro, prendendo anche un pezzetto di torta di zucca. Si assicurò una buona visuale fermandosi nel lato opposto. Riusciva a vedere in tutta la stanza il turbinio delle gonne e del tulle, dei nastrini e dei fiocchi; sentiva i tacchi picchiettare sul pavimento e respirava un piacevole profumo di lavanda proveniente da dietro le sue spalle. Le coppie appena formatesi, o già consolidate, si abbracciavano o dondolavano fingendo di ballare. Guardò il suo vestito macchiato: non era possibile che quella ragazza fosse tanto infantile da doverle versare addosso del succo per rovinarle la festa, il solo fatto che nessuno la invitasse a ballare era di per sé una disfatta di cui Michelle avrebbe dovuto essere felice…
   ‹‹Hai intenzione di piangere per una macchia di aranciata?››
   Il ragazzo della quercia le tolse il piattino di mano, lasciandolo al primo passante, e fece scomparire la macchia con una piccola magia. Poi la portò in mezzo alla sala, vicino a una delle finestre, proprio nel momento in cui l’orchestra iniziava a suonare la musica di un lento. Le cinse la vita e lei portò le braccia intorno al suo collo, fissandolo negli occhi: erano stranamente viola, molto calmi ma animati da qualcosa che oscillava tra la rabbia contenuta e il rancore nascosto. Mai aveva visto simili occhi e continuò a specchiarvisi per l’intera danza, ipnotizzata dal loro magnetismo. Volteggiò tra le sue braccia e non si rese conto che la stesse portando fuori fino a che non sentì l’aria fredda sulle braccia.
   ‹‹Oggi è il tuo compleanno vero?››
   ‹‹Nessuno lo sa, in tutta la scuola.››
   ‹‹Uccellino… Verity.››
   ‹‹Come… Suppongo un uccelletto anche in questo caso, vero?››
   Lo vide sorridere e sentì la musica all’interno giungere al termine e gli studenti applaudire all’orchestra. Molti uscirono sul balcone, ma non in quello dove si trovavano loro due.
   ‹‹Sarebbe bello sapere il tuo nome adesso.››
   Poggiò i gomiti sul parapetto, cercando di distinguere qualche costellazione in cielo; lui sembrò esitare ma alla fine rispose lo stesso.
   ‹‹Scar.››
   ‹‹Significa “cicatrice”, sai? Ho sempre pensato che i nomi che abbiamo debbano rispecchiare una nostra caratteristica… Quindi qual è la tua cicatrice?››
   Si sporse leggermente con le mani e guardò il parco: era immenso e illuminato quasi a giorno, probabilmente lo avrebbe visto anche dalla terrazza. I vialetti pavimentati avevano lampioni da entrambi i lati e nascoste tra le piante c’erano molte luci. Sfortunatamente tutta quella luminosità impediva di vedere bene le stelle, eppure guardava avida, sperando di ritrovare quella scia che tanto l’aveva impressionata. Non sapeva cosa fosse, né se ne era fatta un’idea, ma desiderava rivederla. Un lacrima tonda le sfuggì dalle ciglia e rotolò dalla guancia, cadendo sul marmo.
   Era di tristezza o di commozione? La domanda nasceva spontanea in Scar: quali pensieri si aggiravano sotto quella chioma rossa finemente acconciata? Negli occhi verdi si erano susseguiti sorpresa, ammirazione, speranza, desiderio e poi quella lacrima. Quante emozioni poteva provare un umano tanto minuto quanto lei? Tante… E in fondo ne aveva causate altrettante.
   La vide rabbrividire e le posò la sua giacca sulle spalle. Aveva visto altri ragazzi farlo, poteva essere una buona idea.
   ‹‹Rischi di ammalarti se stai fuori al freddo.››
   ‹‹Forse, ma mi piace stare all’aperto, molto di più che rimanere dentro.››
   ‹‹Allora ho un dono per te… Sono i fiori preferiti di mio fratello, non sapevo quali scegliere.››
   Scar fece apparire dal nulla, nel palmo di una mano, una rosa appena sbocciata e senza spine, ancora con i petali setosi. La pose nella treccia, in modo che spuntasse alla base del collo e fosse bene visibile. Verity la sfiorò con le dita, cercando di capire solo grazie al tatto di che colore fosse.
   ‹‹È nera, come la notte.››
   ‹‹Significa “bellezza inconsapevole” … È la mia preferita, anche se non è così adatta a me.››
   ‹‹Forse non te ne rendi conto, ma sei molto bella.››
   C’era qualcosa nello sguardo di Scar, qualcosa che in quel momento sembrava tutto tranne che umano e Verity ne ebbe timore. Nessuno era su quella terrazza e non seppe decidere abbastanza in fretta se fosse il caso di chiedergli di rientrare che Scar sussurrò: ‹‹Ci sono così tante cose che dovresti sapere…››
   Lo vide volgersi completamente verso il parapetto, a fissare il cielo. Trascorse molto tempo, ma Scar non diede segno di volersi girare e il silenzio si fece sempre più pesante e meno confortevole. Si stava trasformando in quel tipo di silenzio in cui saresti disposto a donare una parte del tuo corpo pur di trovare una frase qualsiasi da dire per iniziare una conversazione, ma invece rimani a fissare l’interlocutore, sperando che sia lui a cominciare. Verity stava per parlare quando all’improvviso il cicaleccio delle cicale si fermò e il vento leggero smise di spirare e accarezzarle il viso. Non si sarebbe preoccupata se non si fossero interrotte anche la musica e le risate dei ragazzi: era come se una bolla insonorizzata li avesse avvolti, isolandoli da tutti.
   ‹‹Scar… Cosa sta succedendo?››
   Lo scosse per una spalla, aspettando una risposta che capì non sarebbe mai arrivata ed ebbe paura. Temette che stesse male o che avesse magari qualche problema a controllare la sua magia, anche se sarebbe stato strano, ma dopo pochi secondi tutto svanì e Scar si voltò verso di lei.
   ‹‹È freddo qua… Potremmo rientrare, che ne dici?››
   Verity lo guardò incerta, la fronte appena imperlata di sudore, le sarebbe piaciuto tornare dentro, magari ballare un’altra volta, ma poteva fidarsi? Era uno strano ragazzo, scostante: prima dolce, poi freddo e indifferente, poi ancora gentile… Non c’erano spiegazioni razionali per un comportamento del genere, a meno che non fosse bipolare, ma nemmeno magiche: chi perdeva il controllo distruggeva tutto quello che gli capitasse sotto mano; chi soffriva di disturbi da personalità provocava terremoti o temporali, o influenzava l’umore delle persone con effluvi di pura magia. Accettò la proposta per non insospettirlo e continuò a controllare tutte le nozioni che aveva imparato, cercando una risposta. Alla fine però smise di pensare, lasciandosi guidare in una danza che la distolse da tutti i suoi pensieri. Finita, Scar se ne andò, senza salutarla. Verity rimase seduta per un po’ in uno dei salottini e quando fu stufa uscì nel cortile, sedendosi su una delle panchine. Osservava la natura illuminata dalle luci: era bella, con il suo contrasto tra verdi di varie tonalità e neri e grigi. Era quasi completamente assorta, ma intravide con la coda dell’occhio due ombre che le si avvicinavano lente.
   ‹‹Verity, ti ho trovata! Non vedendoti dentro mi sono preoccupata un sacco! Lui è il mio cavaliere.››
   Al suo fianco c’era una ragazzo altissimo con i capelli lunghi e biondi, raccolti in una coda. Le strinse la mano e lei gli rivolse un sorriso imbarazzato.
   ‹‹Sono Liam! Dakota mi parla spesso di te… È un piacere conoscerti!››
   Dakota sorrise e poi lo spinse via, dicendogli che la serata era terminata e che dovevano tutti andare a casa. Rimase poi con Verity a guardare il giardino per un po’, camminando sui sentieri tra le piante e, alla fine, andarono via davvero dalla festa.
   Trascorsero il resto della notte a ridere e scherzare insieme, raccontandosi le reciproche serate, arrossendo e imbarazzandosi spesso. Verity non disse nulla delle stranezze di Scar, né tantomeno era così certa di quella che aveva visto: se fosse stato solo una sua allucinazione o un’illusione? Era davvero stato reale? Non voleva pensarci in quel momento e scelse di tenere per se stessa ogni pensiero sull’accaduto.



   Angolo dell’autrice:

   Bene, terza settimana e terzo capitolo. È un po’ triste non ricevere nessun parere su questa storia, ma ringrazio le persone che hanno letto i precedenti capitoli e che leggeranno questo. Spero che vi venga voglia di farmi sapere cosa ne pensate!
   Un saluto a tutti quanti e grazie per aver letto!





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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Angolo dell’autrice

Buongiorno a tutti! Oggi aggiorno di lunedì siccome ho un po’ di tempo libero. In università è il momento della pausa per gli esami, quindi mi rilasso e studio nel frattempo. Ringrazio le due persone che mi hanno lasciato un recensione, siete state gentilissime e mi ha fatto molto piacere leggerle.

Vi lascio alcune note per rispondere alla domande/critiche delle recensioni, ma che sono molto utili per tutti a mio parere. Mi piace descrivere i personaggi man mano che si procede nella storia, quindi non ci saranno mai descrizioni molto precise delle loro fisicità o dei caratteri, stessa cosa vale per la loro età. Sarà così per ogni personaggio. Per quanto riguarda la trama invece, è abbastanza complicata. Ci saranno spesso parti poco chiare o che non si riusciranno a collocare fin da subito in un punto preciso. Non preoccupatevi, ogni questione lasciata in sospeso verrà risolta e spiegata, e tutto, alla fine, avrà un senso sia nel momento, sia nel progetto globale.

Detto ciò, un saluto e un abbraccio a tutti voi che leggete soltanto! Lasciatemi un parere se avete voglia.

Buona lettura,

Nemamiah

 

 

Il pomeriggio successivo Verity tornò a casa sorridente e leggera come se potesse spiccare il volo con un piccolo salto. Entrò nella sua camera passando per la scaletta d’edera sul retro e rimase per un po’ sulla terrazza. Si distese come se dovesse fare un angelo sulla neve: il sole però era alto nel cielo e il tepore lieve dei suoi raggi riusciva ancora a scaldarle il viso.

Pensò di essersi addormentata perché quando aprì gli occhi la temperatura si era abbassata, il sole stava ormai tramontando e il cielo si faceva sempre più viola e blu. Nella cucina c’era un post-it di Eleonore, dove giustificava la sua assenza con la scusa di una cena di famiglia, e sulla segreteria telefonica c’era un messaggio di Victor che avvisava che sarebbe rimasto tutta la notte nel laboratorio, di nuovo.

Si rifugiò nella biblioteca di famiglia con la cena per cercare libri o saggi sugli angeli, sulla loro tipologia di magia, sull’apparizione e su quant’altro fosse collegabile o potesse illuminarla su quello che aveva visto, ma trovò un solo volume che sembrasse realmente promettente. Si accomodò sulla poltrona che usava da bambina, grande e morbida, e si immerse nella lettura. Sperava di trovare almeno un indizio, un appiglio per capire che genere di mago fosse Scar, perché, con tutte le probabilità, non era nemmeno quello.  Poteva essere uno di quegli stregoni potentissimi, che creano il futuro solo immaginandolo e nascono una volta ogni mille anni e più; forse era un essere ultraterreno, magari un messaggero degli angeli o qualcosa di simile. La seconda possibilità l’interessava di più e, soprattutto, la convinceva di più.

Quell’unico libro aveva il profumo della carta antica, tenuta chiusa per molti anni, e le pagine erano fragili, così sottili al tatto che Verity si impose di prestare estrema attenzione per non rovinarlo. Parlava delle apparizioni degli angeli nel corso dei secoli in modo molto accurato, ma trovando pochissimo di quello che già aveva letto sull’argomento, dubitò di molte delle informazioni in esso contenute. A metà lettura però non riusciva a tenere più gli occhi aperti e tanto era il sonno che finì per addormentarsi profondamente.

 

Un secondo prima era accoccolata sulla poltrona della biblioteca, un secondo dopo si trovava su una pianura rossa di sangue e arsa dal fuoco. Le fiamme avevano bruciato ogni sprazzo di vegetazione e ogni tanto si vedevano gli scheletri contorti degli alberi neri, che emanavano morte, e si tendevano verso il cielo quanto potevano in un atto di disperata richiesta di aiuto. Verity camminava lentamente e tutto quello che vedeva le faceva accapponare la pelle, la scarica della paura che si diffondeva per il midollo come il sangue tra le vene. Avanzò attenta a non inciampare tra i detriti e si fermò solo di fronte a quella che sembrava essere una fossa non troppo profonda. La vista era terrificante e orribile: cadaveri carbonizzati, appena riconoscibili, ammucchiati l’uno sull’altro come spazzatura, alcuni distrutti, altri dilaniati. Riusciva però a distinguere il volto di Dakota e quello di suo padre.

Arretrò di qualche passo, con una mano di fronte alla bocca contratta in una smorfia di puro orrore e gli occhi velati dalle lacrime. Perché vedeva il viso deturpato di coloro che conosceva?

‹‹Tu cosa ci fai qui?››

Si voltò appena sentì quella voce profonda, senza perdere la luce triste e amara dei suoi occhi, nella bocca ancora la voglia di gridare e piangere contemporaneamente. C’era un uomo dietro di lei… No, forse un uomo era troppo. Sembrava più un giovane adulto, retto nella postura e con un brillio sorpreso negli occhi. I capelli erano neri come il petrolio, lunghissimi e intrecciati con perle cremisi lucenti; gli occhi erano scuri con una vena viola, come quelli di Scar ma con i colori invertiti, eppure erano lucidi e rossi, e le guance erano ancora rigate dal segno delle lacrime. Ciò che era più impressionante però, al di là dell’aspetto, erano le due ali nere che si stagliavano eteree e bellissime.

‹‹Me lo sto chiedendo anche io… Tu lo sai?››

Il giovane la guardò con interesse, studiandola come se non credesse alla sua vista.

‹‹Siamo in una visione del futuro o meglio, uno dei possibili futuri della Terra. Sempre che Caliel non riesca a cambiarlo.››

‹‹Caliel? Chi è Caliel?››

‹‹Caliel è la giustizia e l’amore. È l’equilibrio tra i mondi angelici, tra i beati e i tristi dannati dell’Inferno; è il balsamo per la sofferenza e le tenebre che cura il mio cuore, l’unica che riesca ancora a dargli la forza di andare avanti dopo tutti le morti e tutta la solitudine che ha vissuto.››

‹‹Chi sei tu?››

‹‹Lucifero, prima e ultima luce del Paradiso.››

‹‹Il re dei traditori…›› sussurrò Verity, senza nemmeno accorgersene.

‹‹Traditori? Ho chiesto di poter amare, ho cercato l’amore e sono millenni che attendo. È forse peccato, è forse tradimento amare quando siamo stati creati per farlo?››

Si sentì in colpa, terribilmente.

Gli occhi di Lucifero erano lucidi, come se le sue parole lo avessero trafitto peggio di una spada: la sua espressione era sconsolata, triste, in cerca di comprensione, e lei non se ne era accorta. Lei che pensava di saper riconoscere il dolore e invece aveva parlato senza pensare.

‹‹No, non lo è. Perdonami… Io non volevo addolorarti.››

‹‹Non hai nulla da farti perdonare: so cosa dicono di me sulla Terra. Non lo considero nemmeno più, so che lei saprà guardare oltre tutto ciò.››

‹‹Spero sia così… Ma adesso perché io sono qui, sul campo di questo massacro?››

‹‹Lo scoprirai presto… Mia dolce Caliel.››

Verity sgranò gli occhi e cercò di avvicinarsi a Lucifero, urlando per attirare la sua attenzione, per ottenere risposte, ma l’angelo alzò lo sguardo verso i nuvoloni del cielo cremisi, dove i fulmini si rincorrevano tra loro, ignorandola e scomparendo. Si sentiva però ancora la sua voce rimbombare.

 

Guarda oltre tutto quello che ti diranno. Tutti gli angeli hanno un segreto, un sentimento a cui hanno paura di lasciarsi andare. Soffocano le loro emozioni. Svelale, falli comprendere.

 

I contorni dell’ambiente cominciarono a svanire, sfarfallando e sbrilluccicando nell’aria ancora pregna dell’odore del sangue, e poi tutto rimase bianco. Si respirava un’aria pura, incontaminata, e non si distinguevano gli spazi, come in quelle stanze create per testare la resistenza psicologica dei maghi e delle streghe. Una volta aveva provato ad entrarvi: aveva superato il tempo massimo di resistenza senza problemi ed era andata avanti ancora un po’. Non che avesse dimostrato chissà quali particolari capacità, ma il silenzio non le era dispiaciuto e aveva trovato modo di pensare e rimuginare senza che nessuno venisse a disturbarla. Le era addirittura piaciuto, all’inizio, poter sentire tanto chiaramente il battito del suo cuore, ma dopo averlo contato e ricontato per curiosità infinite volte, anche lei aveva iniziato a odiarlo. Il rimbombo nelle orecchie era perpetuo e inarrestabile: aveva visto dei ragazzi cercare di farlo smettere dopo solo pochi minuti in quella stanza. Quando chiese di uscire perché non riusciva più a sopportarlo, pensò che l’avrebbero presa in giro e che sicuramente avesse fatto un tempo molto inferiore rispetto a quello dei maghi esperti. Invece tutti le avevano fatto i complimenti e le avevano chiesto suggerimenti su come migliorare.

Allo stesso modo era a suo agio nel luogo in cui si trovava: non sentiva il battito del suo cuore ma solo le parole di Lucifero, anche se erano ormai lontane e poco più che sussurri. Il problema era la luce bianca abbagliante che la costringeva a stringere gli occhi per poter vedere almeno un poco e non essere completamente cieca. Nell’infinito scorse la sagoma di una donna in avvicinamento. Dapprima ne distinse i contorni, ma in pochi minuti fu abbastanza vicina da portela osservare in tutti i suoi particolari e di nuovo Verity quasi si spaventò. Era una donna anziana, con la fronte e gli angoli degli occhi segnati da molte rughe; aveva i capelli rossi come i suoi, ma molto più lunghi, e portava una treccia intorno al capo come una corona. Le sembrava di somigliarle e non solo per il colore dei capelli. Gli occhi avevano la stessa sfumatura di verde smeraldo, anche se quelli della donna trasmettevano saggezza e conoscenza. Ma la postura, il modo elegante in cui muoveva le mani, la piega amara del sorriso, la testa leggermente piegata di lato, erano tutte caratteristiche che Verity ritrovava in se stessa, che sapeva di avere perché le aveva viste riflesse negli specchi e negli occhi degli amici. E soprattutto vedeva la maschera: la donna fingeva di essere serena e tranquilla, come se andasse tutto per il meglio, ma occhi e bocca stonavano in quel quadretto, palesando l’animo sofferente. Come avrebbe potuto non accorgersi di quello che faceva lei ogni volta che si sentiva triste o sola?

La donna mosse le labbra ma Verity non udì un solo suono provenire da lei. Era certa però che stesse dicendo qualcosa e si concentrò di più sul movimento: ripeteva sempre la stessa frase, senza fermarsi, ma captò solo una parola in ciò, il suo nome. Provo a chiederle perché dicesse il suo nome con tale insistenza, ma quando si avvicinò e la sfiorò, la donna scomparve in un vortice di luce.

 

Verity si svegliò di soprassalto nella sua stanza, trovando Kai e il suo peso distesi sulla sua pancia, pronto a leccarle il viso come tutte le mattine. Lo spinse giù con un colpetto sulla schiena e si sedette, massaggiandosi le tempie e passandosi le mani sugli occhi per svegliarsi: le pareva di essere ancora dentro un sogno. E che sogno: Lucifero, una donna uguale a lei e una distesa di sangue e cadaveri bruciati, e morte, sopra ogni cosa. Ma se senza la magia non era possibile avere sogni premonitori, cos’era successo allora?

Probabilmente mi sono autosuggestionata leggendo quel libro, pensò vedendolo appoggiato sulla scrivania. Non c’erano notizie di guerre in corso anzi, erano secoli che di guerre e battaglie non se ne vedevano: la magia aveva portato un grande senso di pace e unità e aveva calmato la maggior parte degli animi più irosi e inclini al conflitto. Doveva essere stato solo uno spaventoso e terrificante incubo causato dal suo troppo pensare a storie macabre e violente. Ma se per caso fosse davvero una visione di un possibile futuro, come aveva detto Lucifero? Cos’avrebbe potuto fare lei a quel punto? Per iniziare una guerra però, e pensare di poterla vincere, era necessaria un’enorme quantità di energia e solo gli Ingranaggi potevano darla. Forse valeva la pena di chiedere a suo padre qualche informazione, solo per stare più tranquilla. Si vestì e scese al piano terra, dove sua nonna stava lavorando ai fornelli e il nonno era seduto a tavolo, ascoltando le notizie dal giornale. Lo aveva sempre trovato meraviglioso: la magia riproduceva le pagine di un giornale vero, ma anziché doverle leggere erano gli autori stessi che uscivano dalle pagine ed esponevano ad alta voce i propri articoli. Quando si finiva bastava un gesto della mano per farli dissolvere in una nuvola di fumo grigio e allo stesso modo si poteva far scomparire il giornale: così non si inquinava l’ambiente e tutti potevano sentire le notizie mentre erano occupati in altre attività.

‹‹Buongiorno, tesoro! Ti sei stancata molto in questi giorni… Dante ti ha dovuta portare su di peso dalla biblioteca, non c’è stato verso di svegliarti.››

‹‹Solo un po’, nonna, ma grazie mille. Cosa stai preparando?››

‹‹Niente di che, solo uova e bacon per la mia nipotina.››

Le servì un piatto abbondante e si sedette al suo posto sorseggiando un thè allo zenzero proveniente da chissà dove. Sembrava un duchessa, o una gran dama del passato, con i capelli grigi raccolti sulla nuca in una crocchia e il vestito di velluto verde scuro. Teneva gli occhi chiusi e annusava il profumo ancora non troppo forte.

Quale ricordo le porterà alla mente?

I viaggi erano sempre stati la passione della nonna e si poteva affermare con sicurezza che avesse visitato quasi tutti i paesi della Terra. Per questo motivo l’aveva sempre vista poco, ma ogni volta rimaneva affascinata dalle storie che raccontava. Portava dai viaggi abiti, oggetti tradizionali, cibi e tante ricette da ricreare a casa: un anno aveva mimato, per Capodanno, una danza aborigena; l’anno successivo aveva potato dal Giappone un kimono azzurro con un ricamo floreale fatto di fili d’oro e d’argento; per Natale preparava sempre una cena dove ogni piatto veniva da una tradizione culinaria diversa e la notte, quando Verity era ancora piccola, scivolava nel suo letto e le raccontava tutte le sue avventure e di come ogni volta uscisse da grandi pericoli per un colpo di fortuna. Conservava quei ricordi con grande gelosia e non li aveva mai condivisi con nessuno, scegliendoli con cura quando voleva rivederli e riponendoli con attenzione. Guardando i nonni provò un senso di indecisione: avrebbe potuto lasciare la questione degli Ingranaggi e andare a scuola per cercare Scar, oppure avrebbe potuto rivedere suo padre e scoprire qualcosa di interessante e potenzialmente utile per le sue ricerche. Si vergognava un po’ di dover andare dal padre dopo anni di silenzi e disattenzioni verso di lui… Non che lui si fosse molto curato di lei, ma era l’unico, insieme ai nonni, che le rivolgesse una parola, per quanto imbarazzato, quando tornava a casa per le feste, chiedendole come stesse e lasciandole un regalino sul letto prima di scomparire nel laboratorio.

Guarda oltre…

Proprio in quel momento doveva pensare alle parole di Lucifero? Forse non erano una sciocchezza; aveva sempre desiderato un padre presente nella sua vita, ma non aveva mai lottato per ottenerlo. Una volta accettata la sconfitta avuta con Eleonore, non aveva nemmeno avuto il coraggio di provare a creare qualcosa con lui, troppo spaventata di ricevere un secondo rifiuto.

Sarebbe andata da lui e se l’avesse mandata via, sarebbe entrata dalla porta sul retro; se l’avesse cacciata di nuovo, avrebbe corrotto qualche ricercatore per farla rimanere. In ogni caso c’era molto tempo, il messaggio nella segreteria del giorno prima diceva che sarebbe rimasto là per almeno tutta la settimana. Nel frattempo…

‹‹Nonna, tu sai che legame c’è tra la magia e gli Ingranaggi.››

La nonna non lo sapeva con precisione: le leggende erano tantissime ed estrapolare da esse la verità era complicato, soprattutto perché molte di queste erano in contraddizione l’una con l’altra. Si raccontava che due arcangeli tra i più potenti li avessero portati sulla Terra per salvarli dalla ribellione di Lucifero; altre dicevano che fossero i figli di Dio, creati dalla sua stessa materia divina, e che rappresentassero le sue due facce, quella di tenebra e di luce; altre ancora, appartenenti alle tribù e alle vecchie credenze, li vedevano come i creatori del mondo.

‹‹Interessante… Conoscevo solo la prima versione. Un’altra cosa, dov’è di preciso il laboratorio di papà?››

Per poco il nonno non si strozzò con il caffè e tossicchiò per un po’ prima di risponderle. Da padre aveva sperato che figlio e nipote riuscissero ad avere quello stesso rapporto che aveva avuto lui, ma si era reso conto che sarebbe stato necessario un miracolo per crearlo e adesso Verity chiedeva addirittura dove lavorasse Victor. Anche la nonna rimase molto sorpresa, ma aveva sempre creduto che Verity sarebbe riuscita, prima o poi, a sciogliere uno dei suoi genitori e se la scelta era ricaduta Victor, non avrebbe potuto essere più felice: conosceva bene sua figlia e sapeva che Eleonore non era adatta per essere il tipo di madre di cui la nipote avrebbe avuto bisogno mentre il padre poteva essere adatto.

‹‹Fuori città,›› disse il nonno, deglutendo rumorosamente ‹‹vicino al bosco. Ti basta uscire dalla città seguendo la strada per il mare e svoltare quando vedi l’indicazione.››

Ringraziò i nonni con una grande sorriso e finì in silenzio la propria colazione. Prese poi la bicicletta che aveva comprato con i suoi risparmi e pedalò fino a scuola, facendo un saluto di sfuggita a Dakota e fermandosi in biblioteca, decisa a leggere quanto poteva sugli Ingranaggi. Sapeva che, per quanto estesa, la libreria di casa non avrebbe potuto aiutarla perché tutti i libri sull’argomento li aveva presi Victor, portandoli nel suo ufficio. Per la maggior parte trovò leggende, molte delle quali a lei sconosciute, e rimase stupita dalla quantità di storie che l’uomo aveva ideato per creare una continuità tra magia e religione. La più interessante era stata sicuramente quella sui volti di Dio e su come esistessero una parte cattiva e una buona. Dio, diceva la leggenda, era un concentrato di tutti i sentimenti che l’uomo conosceva e ognuno di essi aveva, e ha, un valore positivo; gli Ingranaggi erano invece l’emanazione di alcuni dei sentimenti, ma mentre uno era in grado di resistere alle influenze esterne, l’altro era facilmente corruttibile, estremizzandosi e trasformandosi in un essere malefico. Verity aveva amato il fatto che la parte malvagia non fosse così per sua natura, ma solo perché spinta da forze esterne. La pensava esattamente a quel modo: nessuna persona nasceva, per natura, crudele o senza cuore, erano le circostanze della vita a trasformarla, a corrompere lentamente il bene insito in lei fino a cambiarla, anche completamente. Lesse anche le altre storie, ma nessuna l’entusiasmò come quella, e alla fine uscì dalla biblioteca con una grande confusione di nomi in testa e allo stesso tempo molta soddisfazione. In una sola giornata aveva imparato più di quanto si aspettasse, ma i giorni successivi furono fondamentali per riordinare accuratamente ogni cassetto della sua mente.

Fu Dakota ad accompagnarla fino al laboratorio, con la moto che suo padre le aveva regalato mesi prima, ma che solo in quel periodo aveva capito come guidare. Era una vecchia moto, con le ruote nere e due borse ai lati del sedile di pelle lucida. Faceva un rombo spaventoso ogni volta che Dakota accelerava e Verity le stringeva la pancia in una morsa. Le aveva chiesto perché non l’avesse stregata per farla volare e la risposta era stata: “ti sembro la ragazza che vola su una moto?”. Non le aveva più domandato nulla su quel mezzo infernale.

‹‹Verity, sei sicura di voler entrare da sola? Ti accompagno volentieri: sai anche tu che voci girano a scuola…››

La ragazza rise: ‹‹Non pensavo ti interessassero le dicerie!››

‹‹Infatti se dovesse entrare Michelle, non potrebbe importarmene di meno, ma tu sei tu ed è un'altra storia.››

‹‹Vai a casa, Dakota. C’è mio padre qui dentro, sono più al sicuro qui che in altri luoghi. Non mi farebbe mai del male.››

Dakota sospirò, riconoscendo come Verity avesse ragione, e ripartì velocemente per scomparire dietro una scia di polvere alla prima curva. Non c’era davvero modo di far cambiare idea all’amica quando si metteva in testa qualcosa.

Quando le aveva suonato alla porta quella stessa mattina con quel sorriso strano, troppo soddisfatto, l’aveva accolta a braccia aperte, sperando che qualsiasi cosa volesse fare non fosse pericolosa o azzardata, anche se il brillio negli occhi le rivelava idee bizzarre e problematiche. Dopo aver ascoltato tutto il suo “piano”, era corsa fino alla sua camera e si era chiusa dentro, ridacchiando appoggiata alla porta. Si era anche vestita fingendo di sbuffare per polemica, ma l’aveva accompagnata. Certo, era preoccupata perché le voci sugli strani esperimenti esistevano realmente, ma forse conoscere Victor nel suo ambiente naturale avrebbe prodotto un piacevole cambiamento nella vita dell’amica.

 

 


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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 

Verity respirò debolmente mentre apriva la porta, spingendola con poca forza ma trovandola più leggera di quanto pensasse. Visto da fuori il laboratorio sembrava una scatola bianca di quelle che si vedevano nei negozi di confetti, con qualche finestra sparsa per le facciate, mentre l’ingresso sembrava quello asettico di un ospedale, con le frecce a indicarti dove si trovassero i vari settori e un lungo bancone dove due ragazze in camice bianco parlavano con i vari uffici attraverso enormi schermi di particelle d’aria riunite.

All’inizio il bianco delle pareti l’abbagliò, costringendola a pararsi gli occhi con le mani, ma si abituò in fretta e si diresse, seguendo le frecce, al piano dei ricercatori. Così piccolo da fuori, all’interno quel luogo era un vero labirinto, con scale da ogni parte che salivano e scendevano, lettere e dati che volavano rasenti il soffitto e raggiungevano chi aveva bisogno di loro. Non conosceva la magia che permetteva di allagare gli spazi interni, dubitava che la insegnassero nelle scuole, ma sapeva che fosse molto utilizzata, soprattutto nelle fabbriche o nei luoghi di archiviazione cosicché occupassero il minor spazio possibile e fossero accessibili solo a coloro che avevano partecipato all’incantesimo iniziale o quelli cui veniva dato il permesso: se qualcuno esterno avesse provato ad entrare, sarebbe stato distrutto dalla magia. Teoricamente sarebbe dovuto valere anche lì, ma siccome erano tantissime le persone che entravano e uscivano, solo la parte più interna e importante era stata sottoposta a quel tipo di sicurezza. Oltrepassò vari uffici e la maggior parte degli scienziati e dei ricercatori la salutarono con un gesto frettoloso della mano, troppo impegnati con il proprio lavoro per potersi fermare ad aiutarla. Era piuttosto imbarazzata: nessuno era riuscito a dirle dove fosse suo padre e stava iniziando a chiedersi se non avesse sbagliato qualcosa. Aveva chiesto solo a quelli di cui si ricordava, le cui facce riusciva ad associare ai suoi ricordi. Nonostante nessuno riuscisse a darle una risposta, alcuni degli studiosi, rilassati e senza fretta, le avevano fatto delle domande, sorridendo e stringendole spesso la mano per complimentarsi, anche se non ne capiva il motivo. Un mago avanti negli anni, con la gobba, la salvò dall’assistente assillante che le si era attaccato da quasi un quarto d’ora, senza dare segni di volerla lasciare libera. La trascinò via per un braccio, urlando a tutti di tornare alle proprie mansioni, pena il saltare la pausa pranzo per tutto il mese, con una voce rauca.

‹‹Scusalo per l’attaccamento eccessivo… Bah, scuse in generale per tutti!››

‹‹Non era un problema, ma non capisco perché.››

‹‹Sono poche le donne che vengono qua, tuttalpiù Eleonore, che porta solo disordine e confusione… E urla, come me.››

Verity accennò una risata che cercò di trasformare, per decenza, in un colpo di tosse: ‹‹Eleonore è terribile alcune volte.››

L’anziano mago, che aveva sentito la risata molto bene, fischiettò non sapendo cosa dire ma pensando: È sua madre, perché la chiama con il nome di battesimo?

Non erano affari suoi e anche se era molto affezionato a Victor, non poteva occuparsi di altre questioni familiari: gestire sua moglie tutte le volte che veniva era già abbastanza stancante.

‹‹Questo è l’ufficio di Victor, arrivederci›› le rivolse un sorriso e tornò al suo lavoro.

Verity fissò per un po’ la maniglia della porta, poi l’abbassò ed entrò.

Non vedeva niente: la stanza era immersa nel buio, le imposte chiuse, le tende abbassate e nessun raggio di luce filtrava. Fece qualche passò in avanti e sbatté con le ginocchia contro quella che avrebbe potuto essere una scrivania; protese le mani in avanti e toccando a destra e a sinistra raggiunse la finestra. Tastò il vetro freddo e ne trovò il bordo, sfiorò poi la corda ruvida e vi avvolse le dita di entrambe le mani, stringendola e tirando su una delle tapparelle. Sentì un mugolio dietro di sé e si bloccò improvvisamente, mollando di colpo la corda. Un fruscio di fogli proveniva dalla scrivania, di cui adesso riconosceva i contorni e vedeva le forme. Era coperta quasi completamente da tomi spessi e polverosi, impilati l’uno sull’altro in torri instabili; la stessa cosa avveniva a terra, dove le pile erano ancora più alte e pericolanti. Sopra il libri c’erano dei fogli scritti fittamente in una calligrafia quasi illeggibile, plichi di ricerche e dati numerici, fascicoli di grafici e schemi. In uno spiraglio minuscolo riusciva a vedere la testa bianca di suo padre. Dormiva con una mano sotto la guancia come cuscino e aveva ancora la penna stilografica in mano. La riconobbe subito: gliel’aveva regalata sette Natali prima… Pensava che fosse a casa nascosta in qualche cassetto, inutilizzata. Il pensiero che la stesse usando da sette anni le scaldò il cuore, portandola a sorridere. Si accorse di un foglio seminascosto dal braccio di Victor e lo sfilò delicatamente. C’erano scritte delle misurazioni che ricordava di aver fatto dai vari dottori che l’avevano visitata nel corso degli anni, e tutti gli esami dell’ospedale uniti ad equazioni incomprensibili collegate a dei dati sugli Ingranaggi.

Cosa stava studiando che la riguardasse? E soprattutto cosa centrava lei con gli Ingranaggi e tutti quei dati?

Posò il foglio sopra uno dei plichi e si allontanò in silenzio. Si sedette sulla poltrona di pelle nera vicino alla finestra e guardò ancora l’ufficio. A lato della scrivania c’erano due minuscole librerie, perpendicolari al muro e parallele l’una all’altra: lo spazio tra le due bastava a far passare una sola persona, magra per di più. In un cestino erano ammucchiati scatolini di cibo take-away cinese, indiano e tailandese mentre ovunque, per terra, si calpestavano fogli di ricerche, immagini collegate a grafici e lunghe tesi e argomentazioni di cui non poteva capire nulla. Nella poca luce le sembrava di vedere delle formule scritte sul muro, oltre che sulle lavagne appese sulle quattro pareti. Rise tra sé e sé del disordine, che le sembrava tanto caratteristico di suo padre. Finì per assopirsi sulla poltrona, posando la testa su uno dei braccioli.

La svegliò Victor, passandole la mano sulla spalla più volte: ‹‹Verity, cosa fai qui? Eleonore lo sa?››

‹‹Ti sei svegliato finalmente, ma io quanto tempo ho dormito? Comunque Eleonore non sa nulla, è fuori tutto il giorno per qualcosa che riguarda l’anniversario della città…››

Victor alzò gli occhi al cielo, si passò una mano sul viso per svegliarsi e poi si allontanò, misurando i passi per apparire il più calmo possibile. Fece più volte il giro della stanza, quasi volesse calcolarne l’area con i piedi; aprì la porta e guardò a destra e a sinistra; la richiuse; ritornò alla scrivania e si sedette meccanicamente, raggruppando i fogli e infilandoli in una cartellina. Non era tanto il comportamento di Eleonore, che era sempre in giro con le sue amiche, a innervosirlo, ma il fatto che Verity fosse lì con lui, in quella stessa stanza, perché sapeva che lei doveva volere qualcosa da lui, che osservava e chissà cosa poteva pensare di un padre turbato dalla sola presenza della figlia.

Verity aveva seguito con lo sguardo tutti i movimenti del padre, riportando alla memoria i pochi momenti che aveva vissuto con lui: c’erano dei week-end quando era molto piccola, delle volte in cui l’aveva accompagnata a scuola con quell’aria ansiosa che aveva anche in quel momento, alcuni Natali in cui si erano ritrovati tutti insieme, come quello di sette anni prima. Il lavoro però lo aveva sempre assorbito, togliendogli ogni forza e concentrazione; anche quando erano a casa, il suo pensiero sembrava essere sempre volto a qualcosa di diverso dal momento presente. Non ricordava nemmeno di averlo visto prendere una posizione o mostrare sicurezza e autorità al di fuori dell’ambito lavorativo, era impacciato nel parlare e nei movimenti, come in quel momento. Vedeva bene che non aveva la più pallida idea di cosa fare.

‹‹Papà, senti, cos’è qual foglio pieno di dati su cui ti sei addormentato?››

‹‹È uno studio molto importante, è…››

Stava per iniziare a spiegare minuziosamente quando si rese conto a quale foglio si riferisse e ammutolì, interrompendo il contatto visivo con i suoi occhi smeraldo. Non voleva risponderle dicendo la verità, ma non era capace di inventarsi dal nulla una bugia credibile e cercò di sviare il discorso su un altro argomento.

‹‹È una ricerca importante ma ancora sterile al momento, non ci sono applicazioni pratiche. Ma immagino tu non abbia pranzato... È ora di pranzo vero?››

Verity rise, annuendo con il viso e lui sospirò sollevato.

‹‹Ottimo, allora vieni con me… A proposito, cosa fai qui alla fine?››

Non ottenne risposta dalla figlia, che si alzò e lo seguì fuori dalla porta, dicendo di avere molta fame. Nel corridoio stretto, che li costringeva a camminare spalla contro spalla, erano buffi da vedere. Sembravano amici, conoscenti, parenti alla lontana o addirittura sconosciuti, ma non padre e figlia. Verity era rilassata, la goffaggine del padre l’aveva calmata e in quel momento pensava solo a cosa avrebbe potuto trovare alla mensa del laboratorio; Victor era rigido come un manichino e cercava di ridurre al minimo il contatto, guardando sempre di sottecchi la figlia.

Al tavolo, seduti uno di fronte all’altra, erano rimasti in silenzio: lei osservava gli studiosi che si sedevano e alzavano velocemente senza godersi il pranzo, che leggevano sui loro schermi d’aria dati e grafici o parlavano dei progressi dei figli a scuola. Sbirciò il piatto di suo padre e lo vide ancora pieno. Si chiese perché non avesse mai notato quell’insicurezza, ma fu anche lesta nel darsi una risposta: non lo aveva mai osservato così da vicino. Quando erano a casa, lui rimaneva spesso lontano. Aveva realmente scambiato l’indecisione per indifferenza o forse era davvero stato così come lo ricordava? Non riusciva a risolvere quel dubbio. Decise che avrebbe aspettato: era ancora in tempo per allontanarla come avrebbe sicuramente fatto Eleonore una volta conosciuto il motivo della sua visita.

Victor aveva notato come l’umore di Verity fosse cambiato e al posto della curiosità il suo volto portasse i segni del dubbio e della domanda e pensò, per una volta, di saperne il perché: non sapeva come si sarebbe comportato. Non ne era certo nemmeno lui, pensava solo di non volerle dare l’impressione che l’avrebbe abbandonata presto. Mentre lei era catturata dalla conversazione di due suoi colleghi, colse l’occasione per osservarla bene, per imprimersi nella memoria quanto fosse cambiata dalla bambina con gli occhi tristi che conservava nei suoi ricordi. Era diventata grande, pensò, una ragazza bella e probabilmente anche buona se aveva stretto una così bella amicizia con la figlia di Erald ed Emily. Il modo con cui guardava quello che la circondava gli sembrava lo stesso dell’infanzia, quando girava per la casa prendendo in mano tutti gli oggetti che riusciva a raggiungere e li studiava con attenzione; il sorriso che faceva aveva ancora una nota di tristezza, nascosta nell’angolo delle labbra, che forse nessuno notava, ma che lui vedeva perché era lo stesso della sua mamma, eppure era cambiato, anche se non avrebbe saputo descrivere come e in cosa.

Una volta finito di mangiare le chiese di nuovo cosa facesse lì e la vide incrociare le braccia dietro la schiena e respirare profondamente: ‹‹Vorrei delle informazioni sugli Ingranaggi Sacri, se fosse possibile.››

Sorrise un po’ confuso ma sollevato: per un secondo aveva creduto che fosse stata Eleonore ad inviarla, per farlo ritornare a casa: si lamentava da molti mesi delle sue assenze troppo lunghe, dicendo che avrebbe dovuto essere più partecipe della vita della famiglia.

Le disse di seguirlo e la portò al piano superiore, sbloccando l’incantesimo di protezione per permetterle di entrare nella stanza ampia e luminosa dove custodivano gli Ingranaggi. Salutò i suoi colleghi e presentò velocemente Verity, per poi concentrarsi sulle due teche poste nel centro.

La ragazza si avvicinò e sfiorò il vetro freddo con le dita, guardando con attenzione mentre suo padre parlava. Una conteneva un ciondolo argenteo con un pietra rossa, forse un rubino, come pendente, mentre nell’altra, appoggiato su un cuscinetto di seta, vi era un bracciale dorato, spesso, del tipo che si intrecciano lungo l’avambraccio fino quasi al gomito con varie gemme incastonate: la più bella, che sembrava un enorme smeraldo, se indossata sarebbe finita appena sopra il polso.

‹‹Sono così banali?›› chiese ‹‹Mi aspettavo qualcosa di più grandioso, non so, uno spadone lungo o uno scettro magari…››

‹‹Hanno sorpreso anche me, ma così sono più semplici da studiare… Pensa come sarebbe stato difficile analizzare la lama tagliente di una spada. È nelle piccolezze che si trovano le cose importanti: se fossero state grandi come le avevamo immaginate, adesso saremmo ancora a cercare un modo per capirle. I dettagli minuscoli ci hanno aiutato molto… La collana si chiama Benihime, il bracciale Hikarihime. Se… Se vuoi puoi prenderle in mano.››

Alcuni ricercatori interruppero il proprio lavoro per lanciare uno sguardo preoccupato a Victor, ma l’espressione senza insicurezze del loro capo li fece ritornare ai propri dati con tranquillità. Due di loro aprirono le teche e misero gli Ingranaggi nelle mani appena tremanti di Verity.

‹‹Cosa sono? Di preciso intendo.››

‹‹Oltre a fonti di energia? Non lo sappiamo ancora. I monaci mi hanno raccontato che se vengono a contatto con le giuste essenze si animano e rivelano la loro vera forma, ma non abbiamo trovato nulla che reagisca. Però mi piacerebbe davvero scoprirlo: c’è poesia, equilibrio… Direi anche bellezza in loro. Chi le ha portate qui, se davvero sono state portate ovviamente, doveva trovarsi in un grande pericolo e non parlo della minaccia di Lucifero: concentrandosi a fondo si può sentire vita dentro quelle pietre, energia che fluisce. Certe volte penso che se riuscissimo a sfruttare tutto quel potere, potremmo fare grandi progressi e curare meglio di quanto stiamo già facendo i disastri che ci hanno lasciato i nostri antenati…››

Verity stava ascoltando con interesse quando qualcosa la distrasse. Non sapeva come fosse possibile e quasi neanche riusciva a crederci, ma sentiva quella forza di cui suo padre parlava. Sembrava come un flusso di vita che dalle gemme entrava direttamente dentro di lei, risvegliando qualcosa che era nascosto senza sapere dove. Era qualcosa di vivo che donava vita, ma anche speranza e desiderio, eppure c’era qualcosa di tremendamente sbagliato in tutta quella magia, una strana instabilità che non si spiegava in nessun modo e a cui suo padre non aveva minimamente accennato, come se ad un certo momento quelle gemme sarebbero potute esplodere diffondendo un miasma oscuro e demoniaco.

‹‹Sai dirmi solo questo? Non avete fatto altre scoperte in tutti questi anni?››

‹‹È imbarazzante ammetterlo, ma questo è tutto quello che abbiamo: due gioielli, dei macchinari precisissimi e la nostra magia. Non sappiamo da dove arrivino realmente o quale sia il loro scopo. Nessuna delle leggende sembra avere una spiegazione razionale e scientifica o anche solo dettagli utilizzabili per le ricerche, ci siamo solo noi con le nostre idee, spesso fallimentari.››

Perso nel raccontare, senza averne coscienza, Victor si era avvicinato a Verity, ma resosi conto di aver colmato la distanza che li separava quasi completamente, si allontanò, stringendo le mani. Rimasero nel laboratorio ancora un po’ di tempo, discutendo tra loro a voce bassa, ma alla fine Verity lo ringraziò e andò via.

Le piacque così tanto come si era svolta la giornata che finì per ritornare a trovare il padre e i suoi collaboratori. L’ambiente era serio ma al contempo appassionante, e spesso si sentivano battute e risate nelle stanze; la conoscevano tutti e anche per entrare nella stanza degli ingranaggi non era più vincolata a Victor, che molte volte rimaneva chiuso per lungo tempo nel suo ufficio impegnato a cercare un qualsiasi appiglio per ottenere buoni risultati con la ricerca. Era riuscita, anche se di sfuggita, a vedere gli zii tra una pausa e l’altra, ma questi non le avevano parlato e lei aveva fatto altrettanto, preferendo osservare le dolci reazioni imbarazzate del padre. In certe occasioni le si avvicinava da dietro e le lasciava un carezza sulla schiena per poi ritrarsi appena lei si voltava; spesso blaterava frasi a caso e senza senso come “Ma dove sono le ventose di questi polipi?” e arrossiva come un peperone quando si rendeva conto di averle dette ad alta voce, zittendosi. Certo, era strano e particolare, ma piacevole, e riusciva a vedere di che tipo di uomo si fosse innamorata sua madre da giovane. Eppure non vedeva in Eleonore la donna che avrebbe potuto renderlo felice e non perse l’occasione di chiedergli, la prima notte che rimase con lui nel laboratorio, perché l’avesse sposata.

‹‹L’amavo molto…››

‹‹L’amore non scompare all’improvviso… Cos’è successo?››

Victor era circondato di ricordi, indeciso se raccontarli o tenerli per sé, ma alla fine prevalse il desiderio di accontentare la curiosità della figlia.

‹‹La vidi per la prima volta a un congresso sull’ambiente: all’epoca ero solo il segretario dell’ex-direttore ed ero molto più imbranato di adesso. Tenevo in mano un pila di fogli che sarebbero serviti per la dimostrazione mentre altre cinque o sei pile volteggiavano dietro di me e non vedevo bene cosa ci fosse davanti. Ero quasi arrivato alla nostra postazione, intravedevo già il mio capo, ma non notai tua madre e le andai addosso facendo cadere tutto quanto. Mi aiutò a recuperare i fogli mentre il direttore teneva una mano sugli occhi, rifiutandosi di guardare il disastro che avevo combinato.

Era così bella quel giorno, delicata come una bambola e gentilissima… Fu un colpo di fulmine per me, mi piace credere che lo sia stato anche per lei. Le feci la corte ogni giorno, una corte spietata, e quando mi disse di sì, ignorai ogni avvertimento di mia madre sul fatto che secondo lei la conoscessi troppo poco e che fosse un matrimonio avventato e mal valutato. E i primi anni furono probabilmente il periodo più bello della mia vita: non immagini la dolcezza, il desiderio, la passione che condividevamo, ma anche il rispetto, la voglia di creare qualcosa di reale insieme.

Poi sei nata tu e mi sono risvegliato tutt’un tratto in un letto gelido, in una casa senza allegria ma piena di lamenti e con una donna al fianco che non riconoscevo più. Non era, non è, il mio posto quella villa immensa; non sono mie quelle ricchezze che Eleonore ama tanto. Sapere che tu non eri la figlia che desiderava mi ha fatto vedere quello che non avevo mai visto.››

‹‹Credi sia sempre stata così?››

‹‹Non saprei, forse. L’ho idealizzata troppo nel mio cuore, incidendo un ricordo che ora sanguina, ma questo non significa che non l’ami più: è un amore diverso, meno trascinante, ma più profondo. Lei ti ama, enormemente, ma non sarà mai in grado di mostrartelo. Eppure non avrei voluto che soffrissi così tanto per questo.››

Era così evidente che fosse innamorato di Eleonore! Forse lui non se ne accorgeva, ma per lei, che aveva visto Erald ed Emily insieme tanto tempo fa e aveva ben impressi nella memoria ogni loro gesto, per lei era chiaro come la luce di una candela nella notte. Ma a quella sensazione di ammirazione verso i sentimenti di suo padre, si sostituì in pochi secondi un moto di irritazione e non riuscì a tenere a freno le parole: ‹‹Potevi stare con me invece di piangerti addosso.››

‹‹Non sapevo come comportarmi,›› le disse ‹‹non lo so nemmeno ora e lo puoi notare da sola senza che sia io a dirtelo. Tu non hai la magia e io non ho mai saputo se usarla o meno in tua presenza, se ti avrebbe fatto sentire inferiore, diversa dagli altri bambini.››

‹‹E piuttosto che affrontare il dilemma con un esperimento, hai preferito lasciarmi da sola? Questo mi ha fatto sentire diversa: dover comprendere, a soli cinque anni, che non avrei mai avuto una famiglia come le altre ragazze mi ha davvero fatto sentire inferiore e sola.››

Avrebbe detto di tutto in quel momento, qualunque frase o parola che avesse potuto farla tornare indietro per rivivere l’infanzia e comportarsi come il padre che avrebbe dovuto essere. In quel preciso istante tutta la colpa che da vent’anni assediava il suo animo esplose colpendolo dritto al cuore, chiudendogli lo stomaco e lasciando la gola secca e la mente sgombra da pensieri. Verity la percepì per intero e, forse, ne condivise addirittura una parte: non aveva mai pensato che si sarebbe rivolta in quel modo a suo padre. Solo allora collegò l’espressione enigmatica che ricordava fosse appartenuta al suo volto ogni volta che si trovavano insieme alla paura di sbagliare e non all’indifferenza nei suoi confronti.

‹‹Ogni volta che ti vedevo andare via senza abbracciarmi, quando mi spingevi giù dalla macchina per andare a scuola, quando non tornavi a casa per giorni e giorni, in quei momenti ogni sogno infranto era più doloroso che mille colpi al cuore. Ora però sei qui, sei al mio fianco: mi saluti e scappi via, parli a vanvera e arrossisci. Ma sei qui e, alla fine, è l’unica cosa che conta, papà.››

Victor si affacciò dalla finestra e vide la Cintura di Orione brillare nella notte. La fissò senza nemmeno chiudere le palpebre: non voleva raffigurarsi gli occhi della figlia nella mente, non desiderava neanche incontrarli nella realtà. Avrebbero avuto la stessa sfumatura verde scuro, quasi nero, che aveva percepito ogni volta che in passato l’aveva delusa o rattristata, perché anche se parlava di un presente dove lui era lì, il passato non poteva essere cancellato, e Verity avrebbe sempre portato dentro di sé il ricordo di un padre assente e indifferente, incapace di rivelare i suoi sentimenti.

Verity gli prese la mano, la strinse con forza imprimendogli sulle nocche il segno degli anelli, e lui lo interpretò come un segno di fiducia, un incitamento a migliorare per quel futuro che potevano condividere, cambiare e modificare a loro piacimento fino a che non avesse raggiunto la forma dei loro desideri. Poi rimasero abbracciati.

 

Verity raccontò a Dakota tutto quello che si erano confessati in quei giorni. Dakota sorrideva e annuiva, recitando abilmente la parte dell’amica sorpresa e incredula: fin da quando aveva accettato di accompagnarla aveva saputo bene come sarebbe terminata quella visita e anche per questo non aveva mai chiamato Verity per farsi svelare i minimi dettagli che da sola non era riuscita a immaginare. L’unico difetto di quella felice situazione era l’attenzione che Verity poneva nelle parole con cui riportava i discorsi di Victor: c’era una diffidenza appena palpabile che mai l’abbandonava, come se non fosse convinta dell’intera faccenda. Poteva essere una sua sensazione, ma più Verity parlava e più si persuadeva che non lo fosse.

‹‹Sai che sei strana? Perché non ti vuoi fidare di lui? Non sto giustificando il suo comportamento, sia chiaro, ma un poco riesco a capirlo; quando ti ho conosciuta avevo anch’io la stessa paura di fare qualcosa di sbagliato e non sarebbe assurdo se lui l’avesse ancora. Poi nemmeno mio papà era molto degno di fiducia e pensa che adesso vivo con lui.››

‹‹Quanti mesi ti sono serviti solo per mettere piede in quella casa?››

Rise: le erano stati necessari sei mesi solo per trasferire tutta la roba che aveva portato via e messo nella stanza di Verity e ci era voluto quasi un anno per stabilirsi là definitivamente. Probabilmente non aveva così tanto diritto di criticare come credeva, ma non per questo avrebbe smesso.

‹‹Situazioni diverse. I tuoi non si lanciavano fatture oscure in salotto al posto di ben più innocui cuscini. Dagli tempo e vedrai che sarà un ottimo papà, anche se in ritardo.››

Verity rise di tutto cuore, riconoscendo che la sua situazione si sarebbe sicuramente trasformata in meglio, legandosi in un rapporto saldo.

 

 

Angolo dell’autrice

Buongiorno a tutti! Aggiorno oggi con il nuovo capitolo, sperando che vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione.

Ringrazio moltissime le persone che mi hanno lasciato il loro parere nei capitoli precedenti e a tutti voi lettori silenziosi che avete letto. Sono felice che leggiate J

Un saluto a tutti,

Nemamiah

 

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Angolo dell’autrice

Buongiorno a tutti, come state? 

Vi chiedo scusa se aggiorno solo oggi, so di essere in ritardo di una settimana. Quella appena passata è stata densa di impegni. Sono molto felice di dire che, finalmente, la trama inizia ad avanzare con il primo, grande momento. Spero che vi piaccia!

Un grazie enorme alle due persone che mi hanno lasciato il loro parere, siete stati meravigliosi. Spero che i lettori silenziosi abbiano voglia di lasciarmi un parere, in caso contrario spero solamente che vi godiate la storia.

Un saluto a tutti!

Nemamiah

 

 

 

 

Per alcune settimane ogni momento fu per Verity pieno di gioia e allegria: i pensieri tristi e i dubbi scivolarono nella nebbia più fitta e rimasero invisibili a lungo.

Continuò a vedersi con Victor quasi ogni giorno, osservandolo perdere via via imbarazzo e timidezza. Si interessava alle sue esperienze, curiosando tra i ricordi di vecchie gite e lezioni memorabili, divertendosi a coccolarla e ad ascoltarla mentre raccontava. L’unico dispiacere che entrambi condividevano era la mancanza di Eleonore: non erano riusciti a coinvolgerla nella loro relazione. Verity non aveva neanche tentato in realtà, mentre Victor aveva provato a persuaderla ad essere più partecipe ma aveva fallito senza ombra di dubbio.

Eppure Verity si sentiva felice anche con un genitore solo anzi, per un po’ di tempo sentì di non avere bisogno di null’altro per vivere appieno la sua vita, relegando lontano l’essere stata costretta ad abbandonare gli studi per tornare in quella casa vuota. Un giorno poi si chiese come stesse Scar e dove si trovasse in quel momento.

Non aveva più avuto sue notizie dalla fine del ballo, da quando lo aveva visto eliminare tutti i suono dal mondo e tornare normale in pochi secondi.

Un sera, distendendosi sul letto, affondò la testa nel cuscino, sbuffando: non era possibile sparire a quel modo. Nessuna persona, se di persona si trattava, poteva esistere per una sera e scomparire completamente dalla circolazione, pensava, soprattutto nell’ambiente scolastico dove si sapeva sempre ogni dettaglio della vita di tutti. Ci pensò sopra per parecchie sere dopo quella, sprecando il tempo prima di spegnere le luci con domande senza risposta e congetture prive di logica.

Anche la sera del sogno stava riflettendo: si addormentò prima di terminare anche un solo ragionamento. Fu un sonno senza incubi, senza il volto di Lucifero a popolarlo rendendo quasi reale il sogno precedente, ma risuonante di frasi per lei incomprensibili.

 

‹‹Io penso che dobbiamo imporre più regole… Non è possibile che non ci ascoltino. Dobbiamo intervenire e non posso farlo da sola!››

Un’altra voce, più squillante, replicò: ‹‹Ma sei tu che controlli l’Inferno. Lo conosci meglio di chiunque altro…››

‹‹State zitte entrambe! Mary, secondo te?››

‹‹Nulla, si aspetta. Senza la terza guardiana è difficile anche per me capire cosa sia il caso di fare e cosa no.››

‹‹Ma se sei tu la guardiana!››

 

La conversazione si interruppe in quel punto per Verity, lasciandola confusa e spaventata al risveglio; in un luogo sconosciuto il dialogo continuava.

 

‹‹Non sono più la custode di Eteria da una ventina d’anni carissime anzi, non ne ho nemmeno più i poteri. Sono un banale, comune angelo… Con tutto il rispetto possibile per i banali, comuni angeli del Paradiso.››

Un angelo dalle ali simili alla tavolozza di un pittore, tanto erano colorate, sgranò gli occhi e boccheggiò per lo stupore prima di rispondere: ‹‹Ma non esistono angeli di nome Caliel! E non posso credere che lui sia nel giusto… Siamo senza guardiana e basta.››

‹‹Hariel! Io non ero un angelo quando diventai guardiana, non lo fui per molti anni e cara, lui ha un nome, è Lucifero, e sarebbe bello se tu lo usassi.››

Un altro angelo, più tranquillo del primo, con i capelli neri prese la parola: ‹‹Potrebbe allora essere umana?››

‹‹Senza dubbio… Care custodi, e tu in particolare Lelahel, vi decidete a svegliarvi? Scar ne ha percepito l’aura appena questa si è fatta abbastanza forte, perché voi no?››

‹‹Io non sono brava a sentire le aure sulla Terra, sono troppe e così simili tra loro che si confondono›› disse Hariel.

Lelahel intanto fissava il bosco intorno alla radura, nel zona ombrosa e nascosta, certa che Lucifero fosse lì ad ascoltarle, magari anche sorridendo soddisfatto. Certo era strano che fosse umana, ma forse, considerando tutto, nemmeno poi così tanto. Propose di chiedere a Scar, ma appena si avvicinò questo rivolse loro un’espressione truce.

‹‹Lascia perdere Scar, mia cara. Da quando ha scoperto che Lucifero le ha parlato, è di quell’umore tetro e intrattabile.››

I due angeli avrebbero volentieri replicato, ma l’arrivo di un angioletto con le ali candide e uno sbuffo di neve sul naso fece loro rinunciare. Si sedette sull’erba, lasciando intorno a sé un brina leggera e salutò la compagnia con un sorriso cordiale: ‹‹Michele mi dice di richiamare la custode dell’Inferno e di ricordarle che dovrebbe controllare i dannati e non chiacchierare qui... E che i dannati stanno torturando alcuni Nephilim e vanno fermati.››

Lelahel replicò che anche Lucifero sarebbe stato capace di porre fine alla tortura, ma seguì lo stesso l’angioletto, facendo così terminare la conversazione.

 

Verity si alzò di soprassalto, buttando le coperte da un lato del letto e respirando affannosamente. Non bastava sognare che Lucifero le parlasse, doveva anche sentire voci sconosciute nella sua testa Camminò a piedi nudi sul pavimento gelido e aprì la porta della camera, passandosi contemporaneamente una mano tra i capelli per scostarli dal viso. Per poco non ruzzolò per tutta la scalinata, mancò solo alcuni gradini. Tornò in stanza e premette più volte l’interruttore, senza alcun risultato.

“Non c’è nessuno in casa e non c’è la luce… Perché quando serve la magia non c’è mai‽”

Cercò nei cassetti e nell’armadio una torcia per vedere qualcosa, ma si accontentò di una candela e un paio di fiammiferi per accenderla. Scese di nuovo le scale con le mani tremanti, la fiammella della candela illuminava debolmente i gradini creando ombre sinistre in ogni angolo. Provò altri interruttori, ma nessuno sembrava funzionare. Era strano…

Avrebbe dovuto cavarsela da sola, ma in fondo, si disse, era solo un po’ di buio. E allora… Cos’erano quel grattare leggero e quei mugolii bassi che provenivano dalla cucina? Forse il suo cane?

La luce della candela illuminava appena la porta della cucina e la cera le gocciolava bollente sulle dita, doveva per forza entrare lì dentro per trovare qualcosa su cui posarla, non avrebbe resistito molto al calore. Si accostò alla porta e origliò. Quel rumore proveniva davvero dall’interno. Ebbe per un secondo la tentazione di chiamare il suo cane ad alta voce, per assicurarsi che, ovviamente, non ci fosse nulla da temere. Fu solo una tentazione perché quando si rese conto che le stava leccando la mano, sentì il cuore fare una capriola nel costato e salire fino in gola, bloccandosi.

Fissò Kai con gli occhi spalancati dalla paura e mosse appena la mano libera, poggiandosi l’indice sulle labbra nel chiaro segno di non fare alcun rumore. Prese un respiro profondo, stringendo la presa delle dita sulla candela, e dopo aver contato fino a tre entrò all’improvviso.

Se non lo avesse visto con i suoi occhi, non avrebbe mai creduto al racconto dell’esistenza di un essere simile. Sull’isola di marmo al centro della cucina era seduta una piccola creatura con due ali minuscole che uscivano dalla schiena, rosso porpora, con i bordi frastagliati e artigli arcuati e affilati.  Appena si accorse di Verity, si alzò. Aveva il corpo acerbo di una ragazzina, il viso ancora tondo circondato da una criniera arruffata di capelli color cenere della stessa tonalità degli occhi in cui si rifletteva la fiamma. Un lampo di crudeltà li attraversò. Si pulì le mani dalle briciole nella canotta nera strappata e nei pantaloni.

Scese con un piccolo saltello e la fissò curiosa, analizzandola come se potesse vedere tutto di lei con una sola attenta occhiata. Piegava la testa a destra, a sinistra, sovrappensiero, e sorrideva maligna mettendo in mostra i canini brillanti.

‹‹La mia preda è venuta da me… Il mio signore sarà felice di sapere che ti ho eliminata tanto facilmente. Non muoverti, non soffrirai.››

La candela scivolò dalla mano di Verity, spegnendosi, mentre lei correva fuori dalla cucina e inciampava nel tappeto del corridoio. Nello stesso momento la diavoletta le saltava addosso, facendole sbattere la nuca contro lo spigolo di uno dei mobili in legno. Si azzuffarono, una cercando di liberarsi, l’altra provando a catturarla. La ragazza demoniaca riuscì a sussurrare alcune parole in una lingua sconosciuta e ammaliante nell’orecchio di Verity, che un secondo dopo si ritrovò bloccata contro il muro, tenuta da una forza invisibile per il collo.

‹‹Dimenati pure, presto non riuscirai nemmeno più a respirare.››

Creò una sfera concentrata di energia nel palmo della piccola mano e la scagliò nella pancia di Verity, che urlando per il dolore si piegò su se stessa, aumentando il senso di soffocamento. Fu solo il primo di una serie di attacchi che lasciarono Verity esausta e senza fiato: ad ogni colpo emetteva un sospiro sempre più sottile, un gemito sempre più flebile. Il petto era scosso da singhiozzi sempre più forti per immettere aria nel corpo quando la stretta mortale cessò.

Riuscì, a fatica, ad alzare la testa quel tanto che bastava a vedere cosa fosse successo.

Il grosso cane peloso, che era scappato a nascondersi quando aveva aperto la porta, era in quel momento seduto sopra la demone, scodinzolando a destra e a sinistra, sbattendole la coda sulla sua faccia. Guardò a distanza, respirando profondamente e a lungo. Kai si girò e iniziò a leccarle il viso e il collo mentre lei si dimenava, cercando di spostarlo. Tremò sempre più forte, usando tutta la forza bruta di cui disponeva, ma alla fine scoppiò in una risata rauca.

‹‹Smettila animale!›› Urlò tra una risata e l’altra ‹‹Lasciami andare, alzati!››

Anche Verity rise debolmente e strisciando cercò di avvicinarsi. Sfiorò con la punta delle dita la mano della diavoletta e questa si immobilizzò, rigida come una statua di ghiaccio. Voltò la testa meccanicamente e la fissò negli occhi. Un’infinità di emozioni li attraversavano, tali da dare a Verity la sensazione di barcollare dal cornicione dell’ultimo piano di un grattacielo. C’erano felicità e rimorso che si fondevano tra di loro, risentimento e gratitudine bruciavano nella cenere delle iridi: sembravano gli occhi di un cieco che vedesse il mare blu e la natura rigogliosa di un bosco per la prima volta, allo stesso modo di chi dopo anni di oscurità finalmente tornava alla luce e alla vita, alla pace. La diavoletta le prese la mano, stringendola appena, come se fosse stata senza forze, e Verity si lasciò accarezzare, ipnotizzata dallo sguardo calmo e agitato al tempo stesso.

‹‹Si sbaglia… Non posso credere che si sia sbagliato per così tanti secoli.››

‹‹C-cosa? Chi?››

‹‹Lui ha paura di te, crede che lo imprigionerai di nuovo e invece tu… Tu mi fai stare bene, mi fai sentire in armonia con me stessa e tutto il creato. Tu sei Amore e nemmeno te ne rendi conto... Solo Lucifero ti ha vista per quello che sei.››

La diavoletta sorrideva, parlava lentamente scandendo le parole, scegliendole con cura. Teneva la mano di Verity stretta nella sua e continuava a fissarla come per rassicurarla, come per assicurarle che capiva perfettamente che le sue parole non avevano senso per la ragazza.

‹‹Lui ti aspetta da millenni: non lasciarlo solo.››

Una lacrima rotolò sulla guancia di Verity e le cadde sulla mano, incontrando le dita della diavoletta: in quel punto il corpo cominciò a sbriciolarsi. In pochi secondi la carne si trasformò in cenere e scomparve con un inquietante bagliore.

 

La reazione di Dakota fu più che comprensibile, ritenne Verity, una volta finito il racconto: occhi spalancati, bocca asciutta, respiro a scatti e totale incapacità di articolare un pensiero razionale o di proferire parola per qualche minuto. Le notizie più assurde, le avventure più spaventose e terribili fanno sempre un effetto strano su chi le ascolta, se vengono raccontate con calma e senza farsi prendere dall’ansia di dire tutto subito. Diventano come fotografie di una storia dell’orrore, non lasciano niente sul momento ma bastano pochi secondi per riconoscere e riconsiderare i particolari agghiaccianti. E lei di particolari del genere ne aveva abbastanza.

Fiduciosa nell’amica l’aveva chiamata: aveva bisogno di aiuto e cure e non poteva pensare che sua madre o, peggio, suo padre potessero trovarla riversa a terra in quelle condizioni. Dakota l’aveva guarita ma aveva anche preteso una spiegazione più credibile di un banale “Sono caduta per tutte le rampe di scale della casa fino al piano terra”.

‹‹Quindi, tu mi stai dicendo che una diavoletta si è introdotta a casa tua, ha cercato di ucciderti, sei sopravvissuta per puro miracolo, si è pentita e l’hai trasformata in polvere?››

‹‹Direi di sì, Dakota.››

‹‹Verity, sarò sincera e non ti giudicherò, quali droghe hai provato? Non esistono, non possono accadere cose del genere e tu… Tu sei senza magia, perché attaccare te?››

Dakota camminava avanti e indietro per la sala, agitando le mani: non riusciva a parlare stando ferma né a controllare il volume della voce che aumentava di parola in parola. La guardò negli occhi: ‹‹Ho dubbi sulla tua lucidità, tanti, ma non mi hai mai mentito prima e io mi fido di te, ciecamente. Quindi mi sto sforzando di crederti, ma spero davvero che non ci sia altro, non so se riuscirei a sopportarlo.››

Verity l’abbracciò goffamente, le braccia e le spalle doloranti nonostante le cure. Il silenzio della ragazza stimolò le riflessioni di Dakota, che collegò tutti i suoi dubbi: ‹‹Non dirmelo, non dirmelo! Non posso credere che ci sia davvero altro!››

Verity coprì le mani con le maniche della maglia, arrossendo a quell’accusa che sapeva essere vera e accennò con un sussurro alla conversazione avuta con Lucifero in sogno. Dakota respirava profondamente, ma gli occhi scagliavano fulmini e la ragazza non riuscì a trattenere la rabbia. Urlò, furiosa come forse poche volte era stata. Le aveva deliberatamente nascosto ogni cosa, ogni stranezza accadutale solo perché aveva paura che l’avrebbe scambiata per una pazza visionaria. Avrebbe dovuto sapere che i sogni, le visioni e le voci non erano la normalità tra i maghi e che rappresentavano una preoccupante attività che da tenere sotto controllo. Non le aveva confidato nulla delle sue ansie e indecisioni quando invece le avrebbe accolte, come aveva fatto poco tempo prima con la “finta caduta dalle scale” e avrebbe cercato di aiutarla. Erano amiche da anni, si conoscevano meglio di chiunque altro e forse avrebbe potuto immaginare che le stesse accadendo qualcosa di strano e particolare, ma mai l’avrebbe forzata a rivelarlo. Avrebbe aspettato i suoi tempi se solo le avesse detto, almeno, di avere dei problemi. Avevano vissuto insieme ogni genere di esperienza tra dolori, speranze, allegrie, e poi i pianti, lo studio, le risate, le porte chiuse contro cui si erano scontrate e quelle che avevano aperto e spalancato insieme. Erano cresciute insieme; si erano corrette a vicenda i difetti e lodati i pregi, confessandosi tutte le passioni e gli hobby, anche quelli più assurdi e bizzarri che le facevano vergognare, e si erano sempre accettate; avevano litigato altre volte per questioni stupide e infantili ma mai, mai, si erano mentite. Dakota credeva fermamente che il loro legame, il filo che avevano tessuto, fosse più resistente del diamante e non effimero come il fumo del carbone.

‹‹Me ne vado. Non ti ripresentare fino a che non avrai visto quanto sei falsa e ipocrita, Verity! Non avremo mai più nulla da condividere fino a quel giorno.››

 

Costruire qualcosa con le proprie mani è sempre difficile. Un lampadario di cristallo, creato da un singolo artigiano, rappresenta un esempio di procedimento lungo e complesso. Si deve creare un centro che regga il peso, che sia solido ma piacevole alla vista; lavorare i bracci affinché siano eleganti e sembrino leggeri e slanciati; inventare un intreccio dove verranno inserite le sfere di cristallo più piccole che riflettano la luce omogeneamente; posizionare le gocce e le sfere più grandi, pendenti, per ottenere la migliore illuminazione possibile. Poi deve essere mantenuto: è necessario lucidarlo spesso perché altrimenti la polvere coprirebbe gli arcobaleni e la rifrazione sarebbe come sporca, contaminata, corrotta. Eppure basta un filo allentato, un punto fissato male, un colpo accidentale e il lampadario precipita e con lui anche la bellezza, la luce, la soddisfazione.

Anche le amicizie possono incrinarsi e perdersi e precipitare. Si dice che sia raro, che gli amici sinceri non si allontanino mai realmente e si portino via una minuscola parte del nostro cuore che nemmeno sappiamo di possedere e quando tornino la restituiscano. È vero, l’amicizia non termina mai. Per quanti torti possiamo aver subito, per quante delusioni possiamo aver sopportato, per quante manchevolezze possiamo aver ignorato, quella fiammella leggera che ci rende caro chi sta andando via continua ad ardere. Niente sostituisce la vertigine, la sensazione dell’oblio oscuro della solitudine che avevamo scordato in compagnia e che si torna a sentire scorrere nelle vene; l’insicurezza mischiata con l’orgoglio, la rabbia mista alla vergogna. Quando l’amico più caro che abbiamo si allontana, nulla rimpiazza il vuoto, nemmeno la certezza che un giorno tornerà per restituirci il cuore che ci ha rubato.

Verity guardava Dakota mentre attraversava il giardino, inciampando sulle sporgenze del terreno, e sentiva una corda tendersi tra le loro anime, diventandosi sempre più tesa e dolorosa man mano che l’amica si allontanava. Si sorprese nel non percepire il suono filaccioso della lacerazione e sospirò di sollievo, già così era abbastanza doloroso, ma non riusciva a frenare le lacrime che scendevano copiose dalle guance e si infilavano nel collo della maglia.

Per alcuni le tempeste più spaventose sono interne, coinvolgono il cuore e la mente; catturano lo stomaco, lo chiudono, mentre il cervello interrompe il pensiero e i singhiozzi si susseguono togliendo il respiro.

Si spostò dalla finestra e si raggomitolò sulla poltrona, poggiando la testa sulle ginocchia e cingendole poi con le braccia. Si rimproverava di non aver detto nulla, di non aver chiesto aiuto quando era ancora in tempo, quando avrebbe potuto addirittura ottenere delle risposte soddisfacenti. Invece era di nuovo sola con le sue domande. Certo, poteva confidarsi con il padre o con il nonno, ma non voleva coinvolgere qualcun altro in quell’assurda esperienza né essere giudicata a causa di essa. Non voleva altro che rimpiangere i propri errori e consumarsi nel rimorso fino a che tutte le lacrime non fossero evaporate. Per una volta fu contenta di essere a casa sola, senza nessuno che potesse consolarla o condividere la sua sofferenza: quel dolore era solo suo e nessun altro avrebbe dovuto conoscerlo. Si dondolò avanti e indietro, cullandosi con quel lento ma ritmato ondeggiare, e si alzò solo quando si sentì abbastanza calma da non scoppiare di nuovo in lacrime, tornando nella sua stanza. Sorrise solo per un secondo quando sentì il primo tuono e una pioggia scrosciante cominciò a cadere: il cielo, senza saperlo, era partecipe delle sue angosce.

 

Dakota trascorse il resto della giornata in silenzio, arrabbiata con Verity e con il mondo, ma la mattina seguente si svegliò con la testa pesante e un sapore amaro in bocca, il gusto delle parole sbagliate e ingiuste, e decise di rimanere a letto, facendo preoccupare suo padre per la sua salute.

Si sentiva in colpa e un’amarezza di cui non riusciva a percepire la profondità le appesantiva il cuore ripensando alla conversazione con l’amica. A mente lucida riconosceva di aver commesso un errore che non sapeva come riparare.

Verity era sempre stata restia a confidarsi e a condividere, anzi era molto introversa. Preferiva chiudere i sentimenti a chiave nel cuore e nella mente per metabolizzarli, lentamente ma dolorosamente, da sola e solo qualche volta era riuscita a cogliere una sfumatura delle sue emozioni nei dipinti e nei quadri. Certo piangeva, e anche tanto, ma, pur essendo lacrime sincere, raramente erano quelle che aveva bisogno di versare per liberarsi. Però rimaneva lo stesso la persona che la conosceva meglio di chiunque altro e anche se si era sentita delusa, tradita, ferita nel profondo, non avrebbe dovuto accusarla né allontanarsi da lei con una frase tanto definitiva quanto pronunciata d’istinto. Doveva trovare un modo per riconciliarsi, ma nessuna idea le pareva adatta. Verity non avrebbe mai accettato di rivederla e sarebbe scappata via come un uccellino se l’avesse seguita e fermata per scusarsi.

Nei giorni successivi, a scuola, non riuscì a prestare attenzione alle lezioni. Scrisse idee e le cancellò prima di terminarle, scartandole: nessuna era abbastanza efficace o soddisfacente o attuabile. Era sempre sovrappensiero, tanto che i suoi compagni iniziarono a preoccuparsi, chiedendole spesso se stesse bene o fosse invece ammalata. Camminando per i corridoi fissava insistentemente il foglio su cui scriveva, pensierosa, o controllava se c’erano messaggi o chiamate che non aveva sentito sul telefono. Non guardava neanche dove camminasse e senza accorgersene inciampò nei piedi di Scar, che dormiva sempre nel cortile interno e che era, stranamente, ricomparso. Alzandosi lo guardò stralunata e pensò che lui potesse essere l’idea migliore di tutte: nell’arco di pochi secondi pianificò qualcosa da cui Verity non sarebbe sicuramente potuta scappare.

‹‹Scar, ciao, sei libero sabato pomeriggio?››

‹‹Scusa, ci conosciamo?››

Il tono di lui era infastidito e scortese ma, in fondo, a chi piace essere svegliato da qualcuno che inciampa nei tuoi piedi e che nemmeno conosci?

Dakota lo prese per un braccio, tirandolo e obbligandolo ad alzarsi. Gli diede qualche breve informazione su chi fosse e sul perché dovesse aiutarla. Gli raccontò a grandi linee cosa fosse accaduto, tralasciando i dettagli, e gli spiegò la sua improvvisa idea.

‹‹È un’idea stupida, non funzionerà mai…››

‹‹Cosa ti importa che sia stupida o meno? Deve solo funzionare e tu non dovrai faticare così tanto, devi solo portarla fuori.››

Scar sbuffò, ma alla fine acconsentì ad aiutarla, più che altro per non sentirla parlare ancora. Dakota lo abbracciò e si allontanò di corsa, lasciando cadere dalle mani i fogli delle idee scartate e tirando fuori il telefono per organizzare ogni cosa. Scar però li raccolse e li lesse attento: erano tutte belle proposte, anche più belle di quella che aveva accettato. Ognuna di loro avrebbe avuto la stessa possibilità di successo e forse più di quell’ultima, ma era interessante per lui vedere come gli umani cercassero sempre di ricostruire ciò che essi stessi distruggevano. Avevano una perseveranza nelle relazioni che non riusciva a comprendere, che per lungo tempo aveva creduto non potesse esistere. Mise i fogli in una delle tasche posteriori dei pantaloni e andò a cercare Verity in biblioteca, certo che si fosse nascosta lì.

Non era particolarmente amante delle uscite anzi, da quando era sulla Terra non era mai uscito con nessuno, ma sarebbe potuta rivelarsi una buona occasione per studiare meglio la ragazza ed essere certo che fosse proprio lei. La trovò nel punto più isolato, seduta sul davanzale della finestra, con la testa poggiata sul vetro freddo: leggeva un libro sottile, con la copertina scura, ed era tanto concentrata che non si sarebbe accorta di lui se non le avesse posato una mano sulla spalla mentre la salutava.

‹‹Lasciami sola. Ho litigato con un’amica e non voglio parlare con te, che riappari all’improvviso senza nemmeno avere la decenza di scusarti.››

‹‹Non avresti voglia di sfogarti con me? ››

Verity mise un dito in mezzo al libro come segno e lo chiuse, voltandosi poi dalla sua parte: ‹‹Preferirei delle scuse prima…››

‹‹Non volevo scomparire, ma dovevo farlo per ragioni che non posso spiegarti. Scusami. Ora… Come mai avete litigato?››

Verity accennò una risata, trattenendosi: ‹‹Le tue scuse sono pessime, ma le accetto lo stesso… Non le ho raccontato alcuni fatti strani che mi sono accaduti e lei l’ha presa come falsità e mancanza di fiducia verso di lei.››

‹‹È così?››

‹‹Assolutamente no!›› si mise una mano sulla bocca, consapevole di aver alzato troppo la voce. ‹‹Ma allo stesso tempo ho paura di confidare tutto perché temo il giudizio degli altri. Non dovrei, lo so, ma non riesco ad evitarlo e allora sto zitta e mi tengo ogni cosa dentro, cosicché nessuno si preoccupi per me.››

Scar, in piedi, la fissava con interesse, chiedendosi come facesse un essere tanto piccolo a contenere così tanta insicurezza. Era incredibile ai suoi occhi come, nonostante la paura e la bassa autostima, andasse avanti con la vita, affrontandola ogni giorno, senza affogare.

“Forse, un giorno, sarà un buon angelo.”

Non avrebbe dovuto pensarci, non avrebbe dovuto sperare o commentare, ma era sceso lì espressamente per controllarla e capire se davvero poteva sostituire Mary. Ogni tanto capitava che la paragonasse a qualcuno che conosceva, ma la trovava sempre migliore. Guidò i suoi pensieri sulla missione che si era prefissato: non doveva lasciarsi distrarre.

‹‹Devi rilassarti e scordarti per un giorno della situazione›› disse ‹‹così ti sentirai meglio. Perché non vieni con me all’inaugurazione del parco dei divertimenti?››

Verity si stupì dell’invito ma accettò, quasi convinta che avesse davvero bisogno di svagarsi come diceva lui. Quel giorno si sarebbe divertita e avrebbe sommerso Scar di domande camminando da un’attrazione all’altra. Lo ringraziò e riprese a leggere.

 

Ritornò a casa solo dopo essersi accordata con Scar per l’orario e si sorprese nel trovare le luci accese e la porta aperta. Sperò che sua madre non stesse tentando uno dei suoi esperimenti culinari, perché erano sempre finiti male. Certe volte si era addirittura chiesta perché una persona dotata di magia dovesse cucinare manualmente, ma probabilmente doveva essere un’abilità di cui vantarsi con le amiche che non ne erano in grado. Poi aveva smesso di porsi domande, vedendo che, nonostante tutti i tentativi falliti, non aveva imparato nulla. In realtà, a parte suonare il piano, Eleonore non era capace di fare altro.

Verity aprì lentamente la porta della cucina, per non fare rumore, e sbirciando riconobbe sua madre che cercava di impastare qualcosa. La richiuse e camminò in punta di piedi fino alla soffitta, dove si concesse un sospiro di sollievo; non aveva davvero voglia di rovinarsi la serata, e lo stomaco, con gli esprimenti fallimentari della madre.

 


 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Angolo dell’autrice:

Buonasera a tutti, come state?

Io, nonostante i ritardi dei treni, i laboratori infattibili e la neve che cade sempre troppo lontana dal luogo in cui mi trovo, sto abbastanza bene. Il Natale si avvicina giorno dopo giorno e il mio migliora di conseguenza. Il 25 sarò un concentrato di euforia, allegria e cioccolata nelle vene al posto del sangue.

Mi spiace che gli ultimi due capitoli non abbiano ricevuto nemmeno una recensione, più che altro perché non so dove sto sbagliando, ma spero che questo vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi un parere, per quanto piccolo.

Un saluto e un bacione a tutti voi che leggete!

 

Nemamiah

 

I giorni che la separavano dall’appuntamento con Scar trascorsero velocemente e Verity si ritrovò quasi senza accorgersene affacciata alla finestra in attesa del suo accompagnatore. Quando il campanello suonò aveva appena deciso che avrebbe mangiato qualcosa per colazione, ma rinunciò per non farlo aspettare.

Non credeva che avrebbero viaggiato con la smaterializzazione, ma le piacque molto come magia: era più veloce e meno fastidiosa per lo stomaco, anche se più pericolosa del teletrasporto perché poteva capitare di ritrovarsi con un braccio al posto della gamba, o con i capelli o gli occhi o addirittura i cervelli scambiati se il mago non era davvero abile. Per questo era vietata a tutti i maghi al di sotto dei trent’anni. Non chiese nulla a Scar, anche se era ovvio dal viso che lui ne avesse molti di meno.

Mentre Verity rifletteva sul caso, scambiando poche parole cortesi con Scar, questo osservava con attenzione la folla, sperando di trovare Dakota e di andare via il prima possibile: quel luogo non era per niente adatto a lui. Era troppo caotico, quasi tutti urlavano per poter parlare tra di loro e i bambini piangevano disperati, stanchi della coda.

Quando si videro a vicenda, la ragazza si avvicinò.

‹‹Scar, Verity, che sorpresa trovarvi qui!››

Dakota era in compagnia del suo fidanzato e gli stringeva la mano.

Se la voce squillante di Dakota non fosse bastata a far sì che Verity volesse allontanarsi, la faccia complice di Liam era un ottimo incentivo. Il ragazzo però si appiccicò a Scar, coinvolgendolo in una conversazione sulla magia cui Verity non avrebbe mai potuto partecipare. Lei aveva sperato, ogni secondo di ogni giorno successivo all’invito, in una giornata all’insegna del divertimento e dell’allegria, e invece si ritrovava bloccata in una melma di tensione: giocare alle “finte coppiette felici” non era mai stato il suo programma.

Nessuna attrazione sembrava minare la parlantina di Liam: si lamentò della nausea appena sceso dall’ottovolante ma continuò a parlare; la giostra delle tazze gli fece girare la testa ma non smise di porre domande a Scar. Non c’era verso di farlo smettere e la pazienza di Scar, nell’arco di poche ore, scomparve come fumo. Quando si fermarono di fronte alla ruota panoramica, Scar vide la sua opportunità di liberarsi di Liam e spinse le due ragazze dentro una delle cabine, abbandonando poi il ragazzo con un brusco saluto.

 

Entrambe guardavano fuori dal vetro, tese e allo stesso tempo imbarazzate: Dakota, che si era preparata un discorso, non sapeva come cominciare e ogni parola che avrebbe dovuto dire le sembrava sbagliata; Verity guardava fuori e basta, decisa ad aspettare e a passare l’intera mezz’ora del giro in silenzio se fosse stato necessario. Si sentiva morire dentro al pensiero di quello che stava facendo, a come la stesse ignorando, ma non avrebbe parlato quella volta: aveva la sua parte di colpa in quel litigio, ma di chiedere scusa per prima nemmeno a parlarne. Malediceva Scar nella mente, capendo che quell’uscita era stata programmata da Dakota e che non aveva nulla di spontaneo da parte sua, e si ripromise di vendicarsi in qualche modo, magari portandolo a fare qualcosa di triste e noioso.

Improvvisamente percepì un leggero profumo di cioccolata. Cercò di ignorarlo, ma piano piano diventò sempre più intenso e non voltarsi verso Dakota divenne sempre più complicato. Pensò che avrebbe potuto girarsi, non sarebbe sembrato un segno di resa o di perdono anzi, non avrebbe significato nulla.

Dakota le stava porgendo un terzo della tavoletta e lei la prese, voltandosi di nuovo verso il vetro, notando il suo viso riflesso, con le guance rosse e gli occhi lucidi.

‹‹È tutta opera mia. Ho obbligato Scar a invitarti, ma ha recitato molto bene, sembrava davvero felice di essere con te. Glielo si leggeva negli occhi. Però volevo trovare un modo per riappacificarmi e nessuno di quelli che avevo ideato sembrava efficace…››

‹‹Avrei dovuto immaginarlo.››

‹‹So che è stato un colpo basso coinvolgerlo, ma mettiti nei miei panni: non mi avresti mai parlato e questa ne è la dimostrazione. Preferisci guardare quel vetro che me.››

‹‹Almeno riflette.››

‹‹Questa freddura non è degna di te›› disse ridacchiando ‹‹ma è abbastanza vera. Non ho riflettuto. Non ho pensato che quelle parole avrebbero potuta ferirti così nel profondo; che non ti saresti avvicinata a me per giorni, ignorandomi anche quando scorgevi i miei occhi fissi nei tuoi. E avrei dovuto sapere che avresti reagito così, come avrei dovuto capire da sola che se non mi avevi detto nulla prima, era perché non ti sentivi pronta. Probabilmente nemmeno io ero pronta ad ascoltarti, ma potrei esserlo adesso: sarà difficile perché me la prenderò ogni volta che mi rivelerai un nuovo segreto, ma mi impegnerò a comprendere. Sarò nel posto giusto, al tuo fianco, ad aiutarti in ogni modo possibile, senza giudicarti né inveire contro di te. Ho sbagliato a scappare via dopo averti accusato di essere un’ipocrita, non lo sei e non serve che sia io a dirtelo, lo sai da te. Ho sbagliato e sono giorni che il senso di colpa mi tortura. Puoi perdonarmi?››

Verity si voltò verso di lei e la vide sconsolata come mai era stata: quando si era rifugiata da lei a causa dei litigi dei genitori era infuriata con il mondo, pronta ad esplodere con chiunque le desse fastidio. Adesso era diverso. Aveva gli occhi lucidi, come i suoi, e sapeva perfettamente che fosse pentita di ogni parola, di ogni gesto. Lo stesso provava lei, meno acuto e doloroso; diverso nella forma ma uguale nella sostanza. Era triste allo stesso modo, sola ugualmente.

‹‹Ti ho perdonata nel momento in cui mi hai voltato le spalle, lo sai, e una parte di colpa è mia. Ho preteso che tu comprendessi i miei dubbi e le mie paure quando nemmeno io ero in grado di dire con precisione perché non volessi parlarti di questa storia assurda. Possiamo dividere le colpe, anche se tu ne avrai sempre di più per me. Ma non posso evitare di volerti con me: sei tutto quello che di fisso sia mai esistito nella mia vita; l’unica che mi è sempre gravitata intorno nonostante in certi momenti diventassi insopportabile. Adesso però… Potremmo finire quello che avevamo iniziato, non credi?››

Dakota sorrise, saltando addosso a Verity, e quasi la stritolò nel suo abbraccio, chiedendole ancora scusa almeno un centinaio di volte, fino a quando non scesero dalla cabina della ruota.

All’ingresso trovarono Liam, che si lamentò di come Scar l’avesse abbandonato bruscamente lì ad aspettarle.

‹‹Amore, ascoltami, Verity ed io adesso dobbiamo proprio andare via. Ti spiace se ti lascio tutto solo a goderti le giostre mancanti?››

‹‹No, però...››

Dakota lo baciò su una guancia e si allontanò in fretta, prima che Liam capisse esattamente cosa implicassero le sue parole. Non che fosse uno sciocco, tutt’altro, ma alcune volte Dakota sfruttava la dolce tranquillità che lo faceva ragionare con calma. Finiva così per lasciarlo solo a pensare mentre lei era già molto lontana. Non si comportava spesso in quel modo, non le piaceva, ma l’amicizia con Verity era più importante dell’amore per Liam e se avesse speso il suo tempo a cercare di spiegargli il perché, avrebbe perso l’intero pomeriggio e forse anche la serata: l’elenco di tutte le motivazioni sarebbe stato troppo lungo.

Scar invece, nascosto nell’ombra, le osservò andare via.

Aveva pensato di scomparire subito dopo aver mollato Liam per strada, ma anche che sarebbe stato interessante vedere come si sarebbe risolto il litigio tra le due ragazze. Si scoprì a fissarle con invidia, rivedendo in quella coppia ciò che erano stati un tempo molto lontano lui e suo fratello. Erano stati affiatati, complici, fratelli e amici al tempo stesso; si erano confidati a vicenda ogni strana idea che avevano e proprio a causa di una confidenza si erano irrimediabilmente divisi.

Scosse la testa per scacciare tutti i ricordi, sia quelli felici che rimpiangeva sia quelli tristi, e si concentrò solo su Verity.

Umana a tutti gli effetti o angelo?

Pensandoci, somigliava davvero a Mary e forse era vero, aveva tutti i suoi poteri, ma allora perché non sentiva nulla di quello che si stava diffondendo sulla Terra?

Decise di aspettare ancora un poco, poi sarebbe intervenuto. Nel frattempo richiamò la sua scia magica e vi scomparve all’interno, certo che nessuno lo avrebbe notato.

 

Le ragazze erano uscite dal parco e con un semplice teletrasporto si erano ritrovate all’interno della camera di Dakota, e ancora una volta Verity espresse la sua invidia per quell’utile magia, aggiungendo però quanto fosse stata incredibile la smaterializzazione di Scar.

‹‹Ma non ha trent’anni.››

‹‹Questo non significa che non la sappia fare.››

‹‹Mio Dio, non voglio immaginare la tua testa sul corpo di Scar o quale altra assurda combinazione sarebbe potuta uscire se avesse fatto il minimo errore: sei stata fortunata ad uscirne tutta intera. Non voglio sentire parlare di quella magia, abbiamo ancora cinque anni di attesa e non ho intenzione di passarli a crogiolarmi nella depressione: finisci il tuo di racconto, invece.››

Verity annuì, anche se si dispiacque nel realizzare che lei, quella magia, non l’avrebbe mai eseguita.

Raccontò lentamente, ogni ricordo ma dosandone l’effetto: l’abito che indossava la sera della festa e la sensazione di gelido calore mentre era sola con Scar; la distesa di sangue e morte del sogno e i volti nella fossa; le lacrime di Lucifero e la donna che aveva le sue stesse sembianze; le voci che aveva sentito nell’altro sogno, che discutevano su una guardiana; la diavoletta che prima l’aveva attaccata per ucciderla e poi le aveva chiesto di non abbandonare Lucifero.

‹‹Cosa centri tu con tutto ciò? Sei senza magia, non ha senso.››

‹‹Nulla ha senso dell’intera storia, ma c’è un altro particolare, e questo è strano davvero, forse più di tutto il resto. Nel laboratorio, mio padre mi ha lasciato tenere in mano i due Ingranaggi contemporaneamente: ho sentito qualcosa. Emanavano vita, speranza, le sentivo scorrere nelle mie vene e, allo stesso tempo, c’era qualcosa di instabile, come se potessero esplodere da un momento all’altro in qualcosa di terribile.››

‹‹Ne hai parlato con tuo padre?››

Verity scosse la testa per negare: non voleva diventare parte dell’esperimento, non più di quanto già non fosse, quanto meno. Dakota si ritrovò d’accordo con lei, in parte, ma allo stesso tempo era spaventata all’idea di non dire nulla. Per quanto la situazione fosse assurda e incredibile, era anche spaventosa e innaturale: erano accadute troppe anomalie una dopo l’altra per essere solo una serie di coincidenze. Era paradossale e folle pensare che si fosse messo in moto un qualche strano meccanismo, ancora sconosciuto, ma non riusciva a eliminare quell’idea dalla mente, troppo ingombrante.

Pensò che se avesse esposto quel pensiero a Verity l’avrebbe fatta preoccupare e agitare più di quanto non fosse già, e allora lo tenne per sé, deviando l’attenzione sui piccoli cuscini nascosti dietro la schiena dell’amica. Ne sollevò uno in silenzio, continuando a fingere di riflettere e lo lanciò sulla nuca dell’amica. Certo, pensare era importante ma anche divertirsi e svagarsi sinceramente poteva rivelarsi utile.

‹‹Non vale attaccare mentre l’altro è distratto e di spalle però!››

Verity recuperò un cuscino da terra e provò a lanciarlo contro Dakota, ma questa si fece scudo con quello che teneva in mano, per poi colpirla contemporaneamente con altri due, facendoglieli volare addosso non troppo forte.

Iniziò una battaglia dove Verity capì subito di essere svantaggiata e cercò di sfruttare tutti i momenti in cui Dakota abbassava le difese magiche o la colpiva di sorpresa: fu l’unica a spostarsi per la camera, riparandosi dietro tutto quello che trovava, mentre l’amica rimaneva seduta comodamente sul letto. Le risate che nascevano ad ogni colpo andato a segno, dall’una o dall’altra parte, crebbero velocemente nel volume, rimbombando lungo la scala a chiocciola ed entrando nella sala, dove Erald stava disegnando nuovi modelli, fischiettando allegro.

Suonò il campanello ed Erald si mise la matita dietro l’orecchio, andando ad aprire.

‹‹Eleonore, cosa fai qui? Non ti si vede mai in questa parte della città.››

La donna batteva velocemente la punta del piede per terra. Si lisciò un lungo ciuffo, inserendolo con un dito nella complicata acconciatura.

‹‹Vivo in un quartiere completamente diverso da questo, è ovvio che non mi si veda mai. Comunque sono venuta a prendere mia figlia, lasciami entrare, Erald.››

‹‹Dai, Eleonore! Le loro risate si sentono fin dalla strada: lasciala dormire qui. La riporto a casa domani.››

La donna lo fulminò con gli occhi, prendendo un respiro profondo: ‹‹Non la lascerò qui consapevolmente: domani sera c’è la festa per la fondazione della città. Dobbiamo preparaci e anche tua figlia dovrebbe farlo, so che il sindaco l’ha invitata.››

‹‹Sì, un onore inaspettato ma gradito. Rimane il fatto che Verity non sia la tua bambola, lasciala divertire! So che desideri solo il meglio per lei, ma se ti continuerai a comportarti come so, finirà per credere il contrario.››

‹‹Fammi entrare, Erald. Non voglio litigare, non ora e non con la possibilità che tua figlia ci ascolti: ha già visto troppa violenza per essere così giovane.››

L’uomo sgranò gli occhi e si fece da parte per lasciarla passare, scuotendo la testa sconsolato quando la vide salire la scala a chiocciola ed entrare nella stanza della figlia.

Dakota e Verity interruppero la loro battaglia con i cuscini e la prima li liberò dalla magia con cui fluttuavano all’improvviso: sfortunatamente uno cadde in testa a Eleonore. La donna emise un gridolino di spavento, ma disse lo stesso a Verity di uscire dalla stanza e tornare a casa con lei. La ragazza salutò l’amica e si avviò fuori. Coprirono l’intera distanza tra le due case con un preciso teletrasporto che lasciò la giovane nella sua stanza.

Verity lesse sul biglietto lasciatole sul letto che avrebbe dovuto essere di fronte alla porta di casa la mattina successiva. Sbuffò irritata e lanciò il pezzo di carta nel cestino.

Perché sua madre si ostinava a cercare di manovrarla come un burattino? Era andata a prenderla solo perché ci sarebbe stata quella stupida festa, non perché fosse preoccupata per lei: allora perché avrebbero dovuto passare l’intera giornata insieme? L’avrebbe usata solo per fare una bella impressione sui ricchi maghi presenti, o magari l’avrebbe spinta a fare amicizia con i loro figli nonché eredi.

Alla fine riprese il biglietto stropicciato dal cestino e lo distese sulla gambe, lisciandolo e rileggendolo. Lamentarsi da sola non sarebbe servito a nulla e fare felice sua madre avrebbe diminuito l’irritazione per tutta quella mascherata.

 

Si fece trovare al piano terra con indosso il vestito azzurro pastello che era apparso nell’armadio quando lo aveva aperto e anche se non si era pettinata bene i capelli, lasciandoli un po’ disordinati, Eleonore sorrise quando la vide e poi la portò in un piccolo angolo di paradiso.

Erano in uno dei pochi caffè del centro dotati di un cortile interno, dove si poteva stare sia in estate che in inverno, quando il freddo diventava pungente e le dita rigide. Nelle fessure tra le piastrelle ruvide spuntava ancora qualche coraggiosa margherita, incurante del cambio di stagione, mentre i fiori più belli erano nascosti nella piccola serra dai vetri trasparenti. Verity vi entrò, fermandosi per annusare il profumo dei fiori e accarezzarne i petali. Erano setosi e morbidi ed emanavano una fragranza dolce e delicata.

Vide attraverso il vetro una donna dai capelli corvini chiedere a Eleonore qualcosa e decise di uscire per andare a sedersi al suo fianco. In pochi secondi tè e pasticcini si posarono delicatamente sul tavolo per magia e iniziarono a mangiare.

‹‹Allora Verity, come sai stasera il sindaco organizza il tradizionale ballo per la fondazione della città e quest’anno ti vorrei con noi. Quindi oggi cercheremo un vestito adatto e metteremo in ordine i tuoi capelli spettinati, che ho notato, e ci ritroveremo con tuo padre. Sperando che non si sia dimenticato dell’appuntamento…››

A Verity non andava di partecipare alla festa, men che meno di passare il pomeriggio tra i negozi e i parrucchieri. Aveva già tanti vestiti a casa e un colpo di spazzola sarebbe bastato per metterla in ordine. Però, contemporaneamente, non voleva litigare con la madre e sapeva che Dakota sarebbe stata lì. Non avrebbe potuto abbandonarla.

‹‹Che ruolo avrei in questo ballo, mamma?››

Eleonore le sorrise, socchiudendo leggermente gli occhi, e disse: ‹‹Tu scenderai le scale con il figlio del sindaco. Non hai idea della cortesia di quel ragazzo e della piacevolezza della sua compagnia. Cerca di piacergli almeno un po’, tesoro.››

Capì subito a cosa alludesse: una bella relazione, magari vantaggiosa per l’onore della famiglia. Sorrise, cercando di non mostrare il disgusto e la repulsione che si stavano diffondendo nelle vene, e finì il suo tè, rimanendo in silenzio per il resto della colazione, ascoltando sua madre parlare e riparlare.

Si prestò, sempre con un finto sorriso, ad entrare e uscire dai negozi senza comprare nulla per la maggior parte della mattina; a chiacchierare con maghi e streghe che non aveva mai visto o con cui, da sola, non avrebbe scambiato una parola, un po’ per l’imbarazzo e un po’ perché non avrebbe mai avuto argomenti di conversazione.

Dopo quattro negozi, Eleonore raggiunse il suo preferito e Verity sospirò di sollievo: finalmente si sarebbero fermate e avrebbe potuto riposare i suoi poveri piedi.

Appena entrate furono accolte da una giovane commessa e da un anziano signore che doveva essere il proprietario. Lui, settantenne, indossava un completo bianco e nero e dei gemelli brillanti sui polsi della camicia che spuntava dalla giacca; lei, appena trentenne, aveva un abito verde pastello, stretto sotto il seno con una fascia di seta.

Eleonore parlò brevemente con loro, voltandosi di tanto in tanto verso la figlia, gesticolando con le mani, poi si sedette su una delle poltrone e accavallò le gambe, in attesa.

La commessa, il cui nome era Vittoria, prese con gentilezza Verity per un braccio e l’accompagnò al camerino.

L’uomo aveva già preparato alcune scatole con abiti di varie forme e colori quando sentirono Eleonore urlare che voleva un abito vecchio stile.

La maggior parte degli stilisti creava gli abiti mediante la magia: muovevano forbici, gessetti, aghi, fili, macchine da cucire con la levitazione controllata o altre tecniche magiche più precise. I risultati erano ottimi, mai difetti nel tessuto, mai fili da strappare o cuciture imperfette.

Insieme a questo genere esistevano altri due tipi di stilisti: i Nostalgici e gli Innovatori.

I primi seguivano la via tracciata dagli antichi artigiani: cucivano a mano o a macchina, sceglievano attentamente i tessuti in base alla consistenza e, all’occasione, ricamavano le decorazioni a mano. La magia non veniva impiegata in nessuna delle fasi della produzione.

I secondi creavano abiti magici nel vero senso della parola. Non c’erano stoffe o fili, né strumenti di altro genere: ogni singola parte dell’abito era realizzata modellando la magia emanata dallo stilista in una forma solida e stabile, resistente ma, allo stesso tempo, abbastanza morbida da poter essere indossata. I maghi dell’aria e del fuoco erano i più quotati per questo genere di abiti, soprattutto perché erano le due magie più semplici da controllare. L’aria donava ai capi una leggerezza maggiore della seta più delicata; il fuoco li rendeva caldi e confortevoli più della lana e del cachemire ed erano in grado di scaldare o rinfrescare il corpo in base all’emissione magica di chi li indossava. Se si aveva freddo, bastava pensarlo e l’abito aumentava temperatura; se si aveva caldo, il contrario.

Quindi un abito vecchio stile era creato a mano dai Nostalgici.

L’uomo sbuffò e cacciò via con la mano alcune scatole che stavano arrivando e altre che, invece, erano già poggiate sul tavolo, sostituendole con pacchetti polverosi. Guardò prima Verity, poi i vestiti, e rise sommessamente, cercando di non farsi udire.

‹‹Sembrano vecchi e sporchi fuori, ma dentro saranno nuovi, non preoccuparti.››

La ragazza sorrise. In effetti, visto il dito di polvere che copriva i pacchetti, si era chiesta da quanto tempo quegli abiti fossero lì, ma aveva anche allontanato la domanda, pensando che la madre sapesse a cosa andasse in contro.

‹‹Immagino sia dura vivere con una donna simile…›› disse l’uomo scartando i vari pacchetti e lanciandole ogni volta un’occhiata veloce per misurarla con lo sguardo.

‹‹Dopo un po’ ci si abitua.››

‹‹Menti con chiunque, ma non con me. La vedo la faccia di Victor quando l’accompagna qui: vorrebbe solo andare via, magari nel suo laboratorio… Hai un colore che preferisci?>>

‹‹Va bene uno qualsiasi›› disse. ‹‹Non sapevo che mio padre venisse qui…››

‹‹Raramente, e mai molto volentieri mi è parso… Metti questo, dovrebbe andare bene: non ti farò provare mille vestiti. Credo che tu ti stia annoiando molto più di quanto dia a vedere.››

Verity sorrise, ancora. Non riusciva a fare altro che sorridere quando qualcuno vedeva ciò che cercava di nascondere. Prese il vestito e si cambiò in camerino.

Per la seconda volta nel giro di poco tempo stentò a riconoscersi nello specchio: prima l’abito di Erald, ora quello. Si sentiva diversa, come se non fosse più lei ma qualcun altro avesse preso il suo posto. E se da una parte quella sensazione le era scomoda e fastidiosa, simile a un sassolino nella scarpa, dall’altro lato le piaceva. Essere diversa dalla solita sé la inondava di una soddisfazione che non sperimentava spesso: si sentiva all’altezza di qualsiasi cosa si aspettassero da lei.

Verity uscì lentamente, camminando piano per timore di rovinare la gonna lunga, color panna, ricamata di roselline di velluto nero che risalivano dall’orlo fin quasi sulla vita, diminuendo nel numero. Il corpetto era liscio, sempre chiaro, e il bordo era rifinito con un pizzo nero arricciato. Era senza maniche e l’uomo le posò sulle spalle uno scialle, anch’esso di colore scuro.

Gli occhi di Eleonore si illuminarono nel vederla così bella e per qualche secondo non seppe cosa dire. Si riprese in fretta e si complimentò con il proprietario per il bellissimo modello e con Verity, dispensando apprezzamenti e gentilezze come l’abbraccio con cui la strinse.

‹‹Sei splendida tesoro, davvero splendida.››

Si cambiò con calma, cercando di trattenere tutto il calore che quella semplice frase le aveva provocato, poi si sedette sulla poltrona.

La sua ricerca era stata breve, ma quella della madre sarebbe durata molto di più. Sfogliò alcune pagine di una rivista, ma alla fine si decise a guardare gli abiti che uscivano da soli dalle scatole e che, sempre da soli, si infilavano su Eleonore, stringendo fiocchi e nastrini e chiudendo cerniere o bottoni. Solo alla fine delle prove realizzò che l’uomo non aveva usato la magia con lei e ne fu colpita: probabilmente doveva sapere della sua situazione e l’aveva tenuta in considerazione. Non lo fece notare a Eleonore, che si gongolava nel nuovo vestito, ma si prestò con più allegria al pranzo. La madre le diede consigli su come fosse meglio comportarsi ogni secondo; su quali argomenti si potessero affrontare e quali no, aggiungendo informazioni su tutte le famiglie famose della città che sarebbero state presenti e alle quali avrebbe dovuto presentarsi.

Fu un pranzo quasi insopportabile e quando credette di non riuscire più a resistere, Eleonore si alzò da tavola, trascinandola dal suo parrucchiere.

 

Era un uomo giovane, di non più di quarant’anni, alto e dal fisico asciutto. Aveva i capelli rossi, e furono la prima cosa che Verity notò: li teneva legati in una coda bassa che scendeva lungo le spalle per una buona spanna. Rimase colpita però dalla barba, lunga ma nera.

‹‹Daniel, ciao!›› lo salutò Eleonore con un sorriso che Verity non avrebbe mai pensato di poter vedere sul viso della madre.

 ‹‹Potresti riordinare i capelli di mia figlia? Stasera andremo alla festa del sindaco.››

‹‹Come desidera, madame. Le consiglio allora di fare una lunga passeggiata: la signorina e io impiegheremo molto tempo.››

Eleonore annuì e se ne andò; Verity seguì lentamente l’uomo, camminando dietro di lui e accomodandosi su una delle poltroncine di pelle. Daniel finì una signora anziana e, una volta che questa fu uscita, chiamò la ragazza e si occupò di lei sola.

Rimasero in silenzio per la maggior parte del tempo: il riflesso di Daniel allo specchio sembrava molto concentrato e la giovane non si sentì di interromperlo, anche se era curiosa del suo aspetto. Si beò delle sue dita, delicate come una cascata di petali di ciliegio, percependone appena il movimento. La pettinava lentamente, sciogliendo i nodi con dolcezza e le tagliò i capelli quasi senza fare rumore, come se fosse un rito sacro da compiere in silenzio. Trovò quasi commovente la dedizione con cui faceva il suo lavoro e pensò che dovesse piacergli molto e che gli desse un grande appagamento.

‹‹Continui a fissarmi nello specchio›› disse sorridendo ‹‹Sei curiosa vero? Sono i capelli o la barba?››

‹‹Entrambi in realtà…››

‹‹Beh, ovviamente i capelli sono tinti, ma li ho sempre desiderati rossi piuttosto che neri: li coloro dal primo anno di Accademia Magica, quindi sono parecchi anni.››

‹‹Non ti piacevano neri?››

‹‹Sì, e molto anche. Penso che si debba amare ciò che Dio ci ha dato, è quello di cui abbiamo bisogno ma, allo stesso tempo, ho sempre avuto una spiccata vena artistica e il rosso era il mio modo di parlare al mondo: secondo le ragazze ero un teppista e mi tenevano a distanza, ma questo isolamento mi ha permesso di avvicinarmi a persone incredibili. Senza di loro non sarei qui ora››.

‹‹È meraviglioso…››

‹‹No, tu lo sei e stasera, quando ti farò un’acconciatura bellissima con mille perline, lo sarai ancora di più.››

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Angolo dell’autrice:

È un mese che non aggiorno, chiedo scusa! Mi sono goduta le vacanze anche troppo, quindi torno a lavorare con regolarità.

Spero che il nuovo capitolo vi piaccia e che abbiate voglia di lasciarmi un piccolo parere!

Un saluto a tutti!

 

 

 

 

Si fissava insistentemente nello specchio, cercando un solo segno che indicasse che fosse effettivamente lei e non qualcun altro: sbirciava tra i riflessi dei boccoli e nei luccichii delle perle fissate lungo le ciocche lisce; spostava lo scialle a destra e sinistra, coprendo prima una spalla e poi l’altra. In nessun caso si riconobbe. Era lei, ma al tempo stesso non lo era. Indossava una pelle bellissima ricamata che tutti i presenti avrebbero sicuramente invidiato, ma la vera lei rimaneva sempre da qualche altra parte.

In quel momento non le dispiacque così tanto trovarsi lì. Stava accontentando i capricci della madre dopo averle negato per anni una risposta affermativa, eppure stava apprezzando il profumo d’arancio che fluttuava nell’aria e la musica bassa e delicata che proveniva dal piano inferiore. Ma dover scendere la grande scalinata della villa del sindaco implicava anche attendere l’arrivo del figlio chiusa in una stanza da sola, e l’attesa la stava logorando. Voleva superare al più presto quella stupida formalità, fuggire gli occhi di tutti coloro che avrebbero guardato, e passare l’intera serata con Dakota e, forse, con Scar, che le era sembrato di scorgere per un attimo in un angolo.

Quando sentì la porta aprirsi si voltò, speranzosa che fosse arrivato il suo momento, ma ad entrare fu Victor. Le fece molti complimenti, lodando quanto fosse bella con quell’abito e le sussurrò, abbracciandola, buona fortuna, promettendo che sarebbe stato alla base della scalinata, pronto a prenderla per portarla lontano dalla sala principale a un suo cenno. Lo vide, fuori dalla porta, prendere per il braccio Eleonore e scendere giù.

‹‹Eleonore, non ti sembra un po’ tranquillo? L’anno scorso mi avevi parlato di bambini che correvano da una parte all’altra e di una grande confusione, anche poco prima di questo momento…››

‹‹Zitto, Victor. È da quando sei entrato che continui a lamentarti della tranquillità. Inizierà tra qualche secondo, è ovvio che ci sia silenzio.››

Victor si guardò intorno, deglutendo rumorosamente, e scosse le spalle per scacciare la tensione.

 

La discesa fu lenta e tesa. Verity guardò negli occhi ogni ospite, spostando lo sguardo da un invitato all’altro, imbarazzata e con le guance colorate da un lieve rossore. Victor era esattamente dove aveva promesso di stare e questo, seppur solo in parte, la tranquillizzò; Eleonore la guardava soddisfatta e si passava un fazzoletto sugli occhi, come se avesse le lacrime, e davvero Verity non ne vedeva il motivo; Dakota le faceva, con finta discrezione, un segno di approvazione con i pollici mentre, proprio in fondo alla sala, Scar la osservava sorseggiando qualcosa da un flûte che rifletteva l’arcobaleno. Pensandoci a posteriori si chiese come avesse fatto a scendere tutti i gradini senza guardarli nemmeno una volta, ma ne diede il merito al figlio del sindaco, fissato molto poco discretamente da tutti coloro che non guardavano lei. E avevano ragione. Era impeccabile nel suo smoking nero, cucito su misura da un sarto di un’altra città, più grande e famosa della loro, e non si stupì minimamente di avere tutti gli occhi puntati su di lui.

Ogni tanto sbirciava verso Verity e sorrideva fulmineo. Impiegava meno di un secondo e la ragazza al suo fianco non si accorse di nulla. Nemmeno gli invitati notarono quei sorrisetti, troppo ammaliati dalla bellezza che i due, come coppia, emanavano. Solo Scar se ne avvide, ma si obbligò a pensare che quel ragazzo stesse solo progettando di approfondire la conoscenza durante il resto della serata. Non erano fatti suoi.

‹‹Allora sono stata brava?›› chiese Verity a Dakota.

La ragazza trovò che un abbraccio sarebbe stato molto più comunicativo di mille parole e preferì stringerla piuttosto che farle gli stessi complimenti insipidi ma sinceri che le aveva riservato la madre. Ammirò però l’acconciatura elaborata e meravigliosa al tempo stesso, pregandola di insegnargliela in futuro. Poi la prese per mano e l’accompagnò in giro per i vari salottini che occupavano il piano terra della villa, approfittando di un momento di distrazione di Eleonore e del figlio del sindaco.

A Verity piacquero immensamente. I soffitti erano affrescati con cieli tersi e angioletti paffuti che giocavano o suonavano strumenti musicali; alle pareti erano appesi quadri antichi e originali che il primo cittadino aveva collezionato durante i suoi lunghi viaggi; i pavimenti erano coperti da tappeti pregiati o da marmi colorati e lucidi; i mobili erano sontuosi e tutti in legno, decorati con intarsi e piccole sculture; ovunque erano esposte porcellane, busti, antichi reperti archeologici che sarebbero stati più sicuri in un museo ma che la moglie del sindaco amava mettere in mostra durante le occasioni mondane più importanti.

Il breve tour terminò davanti a un cameriere biondo che serviva flûte di Champagne. Ebbero appena il tempo di prenderne uno che si trovarono coinvolte in una conversazione con il figlio del primo cittadino e altre persone sconosciute. Il ragazzo era un abile oratore, capace di far convergere su di sé l’attenzione degli interlocutori, modulando la voce già suadente in modo da enfatizzare i concetti che dovevano essere più importanti. Probabilmente erano argomenti interessanti, ma Verity, piuttosto che ascoltare e capire, preferì estraniarsi dalla conversazione, lasciandosi trasportare dalle frasi e dal ritmo cadenzato delle parole del ragazzo, finendo per rimanere con lui per gran parte della serata.

Scar, a distanza, li seguiva con lo sguardo, sempre sorseggiando qualcosa che sembrava non finire mai. Aveva una sensazione, come un segnale che cercava di farsi strada nel suo cervello e che, allo stesso tempo, veniva fermato, e tutto arrivava da quel ragazzo che aveva tanto ammaliato Verity con la sua parlantina. Le parlava con familiarità, tenendola per il fianco come se fossero una coppia a tutti gli effetti, stringendole a volte la mano, e lei sembrava troppo intossicata dalla sua presenza perfino per accorgersi di quanto viscido potesse sembrare quel comportamento quando non si conoscevano da più di tre ore.

Per caso si trovò vicino a Dakota, che già da qualche tempo vagava per i salottini sperando che l’amica abbandonasse la conversazione per tornare da lei, e le espresse i suoi dubbi. Lei ne rise allegramente.

‹‹Sei solo geloso, caro mio. Se ti infastidisce così tanto, vai e portala via.››

Scar si portò una mano alla fronte.

Le aveva confessato una preoccupazione e lei l’aveva scambiata per un’infantile scenata di gelosia, come poteva esistere una maga tanto sempliciotta? Pensò che le streghe di quella città fossero davvero strane, troppo concentrate su se stesse per cogliere i segnali, quasi urlati oltretutto, che giungevano da ogni dove, ma alla fine l’idea che gli aveva suggerito non era tanto male: avrebbe adempito al suo scopo quantomeno. Prese Verity letteralmente per un braccio e la portò via, attraversando mezzo piano terra e rifugiandosi nell’ingresso, sotto gli sguardi attoniti del gruppo in cui stava parlando. Questi però, rassicurati da una battuta del figlio del sindaco sulla possessività di certe persone, ritornarono a parlare fitto, dimenticandosi in fretta della ragazza.

‹‹Non credi che sia eccessivo lasciare che ti tocchi a quel modo, come se fossi di sua proprietà?››

‹‹Scar, cosa vuoi?›› Gli chiese indispettita, liberandosi della stretta sul suo braccio con uno strattone.

‹‹Lui non mi piace.››

Tra tutte le frasi che avrebbe potuto dire, tra tutte le scuse che avrebbe potuto inventare, si chiese come avesse fatto a tirarne fuori una così stupida e insensata, nemmeno fosse un novellino alle prime armi.

‹‹Scar, sei geloso di non so cosa?››

Anche lei. Ma possibile che le donne sapessero collegare ogni comportamento alla gelosia e che non fossero in grado di pensare a qualcosa di più importante?

Negò con insistenza quell’affermazione e dopo un po’ anche Verity desistette dal cercare di farglielo ammettere, anche se continuò ironicamente ad alludervi mentre parlavano e passeggiavano per le sale insieme a Dakota.

Tenendola vicino a sé le apprensioni di Scar si affievolirono velocemente, ma rimase deciso a mantenere i sensi vigili, pronti a captare il minimo cambiamento nell’aria e nell’umore dei presenti. Anche se si sentiva più sicuro, qualcosa continuava a turbare la sua quiete. Non proveniva più dal figlio del sindaco ma persisteva, estenuante. Pensandoci continuamente non avrebbe risolto nulla, lo sapeva in partenza, ma non riusciva ad allontanare la sensazione che qualcosa stesse per accadere. Cercò di nascondere al meglio le sue preoccupazioni, concentrandosi soprattutto sulle parole di Verity, ma i suoi discorsi lo riportavano indietro alla giovinezza insieme al fratello. Sentiva un dolore lancinante, un tormento possessivo perché per una sola, piccola ragazza, anche se certamente bella e piacevole, erano nati un conflitto e un odio mai placati completamente. Anzi, ogni generazione aveva alimentato, a modo suo, la cattiva fiamma. Eppure Verity lo affascinava: così fragile nella sua bellezza insicura, così semplice e ingenua nello sguardo smeraldino. Considerato tutto, era ovvio che suo fratello si fosse innamorato di lei alla follia.

La serata stava quasi volgendo al termine quando il sindaco propose un ultimo ballo per concludere e la maggior parte delle ragazze esultò, felice di poter volteggiare ancora una volta con il proprio accompagnatore. La maggior parte tranne Verity, che sarebbe volentieri tornata a casa tanto era stanca e assonnata, ma che accettò lo stesso l’invito di suo padre.

‹‹Ti sei divertita, tesoro?››

Lei sorrise e annuì, ma durò poco: ‹‹Papà, continui a guardarti intorno come Scar. Cosa non va?››

Lui negò ridendo, ma quando il figlio del sindaco si fece avanti e la lasciò ballare con lui, li osservò allontanarsi con un velo di preoccupazione sulla fronte e sobbalzò quando un tuono squarciò il cielo con il suo fragore. Si allontanò dalla finestra, da sempre spaventato dal rombo dei temporali, e si affiancò a Scar. Entrambi avevano la stessa sensazione negativa e, mentre fuori la pioggia scendeva sempre più violenta e rumorosa, fissarono intensamente il figlio del sindaco, troppo affabile per essere il bambino che aveva conosciuto anni fa secondo Victor e troppo diverso dagli altri per essere addirittura un umano secondo Scar.

Un altro tuono e un fulmine vibrarono nell’aria e tra gli ospiti in disparte cominciarono a susseguirsi mormorii e lamenti preoccupati perché il rumore sembrava essere diventato più forte e, soprattutto, più vicino. All’improvviso un fulmine cadde proprio nel cortile della villa, illuminandolo a giorno, e spaventando tutti i presenti: i musicisti interruppero il valzer e i camerieri si fermarono in mezzo alle stanze mentre la luce andò via, lasciando tutti al buio. Certo, era solo un temporale e non erano rari in quel periodo dell’anno, ma mai avevano visto e sentito una tale furia provenire dal cielo. Dopo i primi attimi di paralisi però i maghi e le streghe crearono ciascuno un piccolo fuoco fatuo, in grado di illuminare l’ambiente come prima.

‹‹Scar!›› disse Dakota stringendo il braccio del ragazzo. ‹‹Non trovo Verity… Era nell’altra stanza ma adesso non c’è più e ho già girato quattro stanze qua sotto…››

‹‹Si sarà nascosta per lo spavento, tra qualche secondo tornerà.››

Ma Dakota aveva il viso pallido e gli occhi sgranati, appena illuminati dal fuoco che le vorticava a fianco. Scar e Victor vi aggiunsero i propri, rendendolo più forte e luminoso, e si fecero dire precisamente dove l’avesse vista l’ultima volta prima che saltasse la luce. Verity aveva cambiato stanza, era vero, ma Dakota non l’aveva persa di vista un solo secondo, anche lei contagiata da quella strana apprensione che si respirava stando con i due uomini. Ma erano bastati quei pochi, insignificanti secondi e lei era scomparsa nel nulla, per questo si era rivolta a loro e loro non avevano la minima idea di dove potesse essere finita.

 

‹‹Edward, lasciami! Dobbiamo rimanere giù con gli altri invitati, sarebbe meglio, non credi?››

‹‹Per te, sicuramente›› ghignò appena, cercando di darsi un contegno per non spaventarla ulteriormente mentre la trascinava su dalle scale di forza, tenendole una mano sulle costole e una intorno al polso sottile. Bastò pensarlo e la porta che dava sulla terrazza si aprì e si trovarono investiti dalla pioggia scrosciante. Da quando aveva iniziato a cadere la sua intensità era aumentata ed Edward ne respirò a pieni polmoni l’odore: si sarebbe complimentato con Veuliah per l’ottimo lavoro svolto. Lasciò andare Verity, che scivolò sul pavimento e cadde a terra, rimanendo a fissarlo dal basso, troppo sconvolta per trovare la forza di muoversi.

‹‹Edward, cosa sta…››

Il ragazzo la guardò sorridendo, mettendo in mostra i denti bianchissimi, e mosse le dita lungo la gamba come se stesse suonando i tasti di un pianoforte invisibile. Lenti e silenziosi, sottili fili di magia uscirono dalle fughe del pavimento e si arrotolarono intorno ai polsi e alla caviglie di Verity, che provò a divincolarsi per liberarsi.

‹‹Non credi che fidarsi degli sconosciuti sia pericoloso? Io l’ho sempre pensato. Mai ballare con chi non conosci: potrebbe pestarti i piedi o annoiarti a morte. E poi, ti hanno avvertita in tutti i modi i tuoi amici, possibile che tu non li abbia ascoltati? Sei già stata attaccata una volta…››

La demone di tante sere prima si materializzò nella mente della ragazza e la conclusione fu una sola: lui, come lei, voleva ucciderla e probabilmente questa volta ci sarebbe anche riuscito. Nessuno avrebbe potuto salvarla da lì poiché nessuno l’aveva vista allontanarsi.

Intanto nuovi fili di magia si erano attorcigliati intorno al collo mentre quelli già esistenti si stringevano sempre più risalendo lungo le braccia. Verity si rimproverò di non aver dato ascolto a Scar mentre sentiva rivoli di sangue fresco scivolare e li vedeva macchiare il vestito chiaro, mescolandosi alle lacrime salate che precipitavano dalle guance. Il demone si voltò verso la porta, come se aspettasse qualcuno: li sentiva arrivare e rideva malignamente dentro di sé.

Scar infatti aveva girato tutte le stanze una seconda volta prima di percepire qualcosa di più definito di quella sensazione di pericolo: c’era magia oscura, corrotta, che si diffondeva nell’aria leggera e che permeava i muri di quella villa. E il centro era uno e uno soltanto ed era proprio sopra di loro. Aveva chiamato Dakota e Victor, ordinando loro di seguirlo. Si era poi precipitato su per la scale, prestando in realtà ben poca attenzione se i due fossero dietro di lui e pregando chiunque gli venisse in mente di proteggerla, anche se probabilmente era inutile. Pregare era ormai diventato un parlare vano. Sarebbe dovuta morire lo stesso per prendere il post di Mary, ma non in quel momento.

Spalancò la porta e tirò un sospiro di sollievo: lei era ancora lì, ancora cosciente e viva. La magia, anche se il demone guardava dalla loro parte, agiva e la trasportava verso il parapetto, avvinghiandosi come un tralcio di vite. Eppure la ragazza respirava e sembrava aver capito che agitarsi avrebbe solo aumentato la stretta, ma l’unica cosa importante era che respirasse: fino a quel momento sarebbe stati sicuri che fosse viva.

Edward mostrò i canini a Scar, emettendo uno spaventoso ringhio gutturale, come fosse una bestia pronta a caricare il nemico. Dakota e Victor, ancora dietro il ragazzo, indietreggiarono di un passo mentre Scar ne fece uno in avanti. Si fissarono a lungo mentre Verity, appena cosciente di quello che accadeva, mugugnava per il dolore dei tagli, brucianti al contatto con la pioggia e le sue lacrime salate. I due cercavano punti deboli, sondando le reciproche intenzioni, ma alla fine entrambi cedettero: gli angeli non lasciavano trasparire le proprie debolezze in battaglia.

‹‹Scar, non fare un passo in più o la tua amichetta non farà una bella fine e dalle sue labbra non passerà nemmeno il più flebile dei sospiri.››

Scar era indeciso: attaccarlo significava correre il rischio che la ragazza morisse, ma rimanere inerte l’avrebbe uccisa allo stesso modo. Si concesse un secondo per osservarla. I polsi erano pieni di tagli e sanguinavano copiosamente, il collo era graffiato, come se in quel punto non fossero solo fili ma corde ruvide. La magia si era intrufolata sotto la gonna e non si sarebbe sorpreso di trovare tagli e sfregi anche sulle cosce intorno alla vita. Piangeva per il dolore e per la paura. Non doveva morire, era chiaro come il sole. C’era, da qualche parte, la mossa giusta da fare, ma quale? I secondi passavano e lui era sempre più dubbioso: in tutte le tattiche che scorreva nella mente era sempre presente una falla, un minuscolo dettaglio che la rendeva inutilizzabile. Quel pensare frenetico però lo distrasse e mentre lui si concentrava solo su Edward, non si accorse di quello che facevano le due persone dietro di lui. Troppo concentrato non percepì Dakota, resa invisibile da una delle magie di Victor, scivolare dietro di lui e raggiungere Verity; non vide Victor compiere lo stesso incantesimo su se stesso e avvicinarsi a Edward da dietro. Lui però se ne accorse. Anzi, lui li vide nonostante la magia e li lasciò agire indisturbati fino a che la ragazza non toccò Verity e credette di poterla salvare.

Chiuse gli occhi e schioccò le dita con un ghigno.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Angolo dell’autrice

Buongiorno lettori, come state? Io sono finalmente in pausa dagli esami e quindi posso aggiornare con tranquillità, soprattutto perché non ho esami da dare (paura per giugno, quando avrò gli esami annuali che non posso dare adesso). Con questo capitolo inizia una nuova parte della storia, che si sviluppa finalmente verso l’alto. Spero che vi piaccia! Un bacione a tutti!

Nemamiah

 

 

La prima cosa che vide fu il sorriso sghembo di Edward, poi le sue iridi rosse come il sangue, e le sembrò strano, perché le ricordava marroni, calde come il cioccolato fuso. Poi ci fu Scar, accasciato a terra, indifeso, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e le nocche delle mani che sfioravano il pavimento, i capelli scuri che coprivano in parte il volto. Ed era strano, perché Edward rideva ma lei era lì, e le sembrava di essere viva, e allora non capiva il perché di quell’arrendevolezza da parte di Scar. Dakota era al suo fianco, ma sembrava non vederla. Guardò il padre, che la fissava allibito, eppure le pareva che non stesse davvero fissando lei. Si alzò, avvicinandosi a lui, turbata da quello sguardo avvilito. Lo chiamò e lui non si accorse di nulla. Indietreggiò di alcuni passi e, mentre Edward continuava a ridere, raggiunse Scar. Nemmeno lui sembrava notare la sua presenza. Tuttavia… Tuttavia lui piangeva, e anche suo padre, e le lacrime si mescolavano alla pioggia e la pioggia…

La pioggia dov’era?

Perché non sentiva il picchiettio continuo sulla pelle?

La vedeva, distingueva le gocce una ad una: stava cadendo, lo sapeva! Ciò nonostante rimaneva asciutta.

Chiuse gli occhi e contò. Uno, due, tre.

Si girò verso Dakota. Stava scuotendo il suo corpo, tenendolo per le spalle, le mani sporche di sangue, impastando il suo nome con le lacrime come se fosse una litania, un incantesimo complicato. Se avesse saputo che le persone che più amava avrebbero dovuto vederla morire, sarebbe scappata in un angolo isolato della Terra pur di evitarlo loro. Ma non possiamo sapere quando moriremo, né in quali circostanze, né chi sarà con noi nel nostro ultimo secondo. Non possiamo preparare chi amiamo, né salutarli o abbracciarli o dir loro quanto siano stati importanti per noi. Non importano le premure e le precauzioni, siamo destinati a capitolare dal nostro ultimo gradino e l’incapacità di accettarlo ci spinge a relegare la morte in un anfratto della nostra mente, fino a che non arriviamo a quel fatidico momento. Un momento, un secondo che ci proietta nell’infinito.

Verity non era pronta ad accettarlo e urlò contro Dakota, disse di essere lì e di essere viva e di alzare lo sguardo poiché avevano ancora una lunga vita da condividere. E urlò a Victor, e a Scar allo stesso modo, rimanendo sempre sola, sempre ignorata, mentre Edward rideva e rideva come se avesse fiato solo per quello. Provò a colpirlo, a saltargli addosso in un impeto di rabbia, ma era tutto inutile: ogni tentativo era un fallimento, ogni volta lo attraversava e cadeva sul pavimento. Anche questo era strano, era uno spirito, ma oltrepassava solo le persone, e anche se Edward non reagiva ai suoi attacchi, era certa che la vedesse, percependo la sua presenza. Camminò all’indietro, senza rendersi conto di farlo realmente fino a quando non toccò il parapetto. Ci salì sopra, guardando dall’alto il gruppo e vide due ali blu come la notte spuntare dalla schiena di Edward. Lo vide prendere il volo e scomparire ignorandola, ma non fu abbastanza attenta che una folata d’aria la investì e la fece precipitare giù dal parapetto. Non riuscì a urlare che un’altra folata di vento la trasportò dall’altra parte della strada, depositandola malamente sul terreno fangoso. Non era sporca, e nemmeno dolorante, doveva essere stata solo una sensazione, come l’idea che la pioggia le stesse cadendo addosso. Ne percepiva l’odore, poteva udire l’ululato del vento e lo stormire delle fronde degli alberi, ma il tatto, il brivido freddo e il bagnato non li avvertiva. Sentì di voler correre e corse, a occhi chiusi e a occhi aperti, credendo di piangere ma scoprendo in realtà di non avere lacrime da asciugare. Non si capacitò del come, ma raggiunse la sua casa e riuscì ad attraversare tutte le porte fino alla sua stanza. Non si pose nemmeno la domanda, accettò quella concessione sfruttandola quanto poteva, ma alla fine non le rimase altro da fare che sedersi vicino a Kai, senza poter comunque sentire la pelliccia morbida sotto le mani.

Sarebbe dovuto accadere altro? Non c’erano angeli messaggeri o qualcosa di simile che l’avrebbero portata in un paradiso o in un inferno? O doveva aspettare, e pregare un dio che non aveva mai sentito vicino, neanche nel momento più spaventoso? Si sentiva in pericolo, anche se era nella sua stanza, nella casa dov’era cresciuta. Chiuse gli occhi e poggiò la testa sulle ginocchia, sperando di riaprirli e non vedere più nulla.

Ma smise di piovere.

E sorse la luna.

Poi il sole tramontò.

Scese la neve che assorbì il raggi della stella e si sciolse.

Le api si scontrarono contro il vetro.

La luce entrò prepotente dalla finestra e illuminò la polvere.

Risentì quei suoni un’infinità di volte.

E riaprì gli occhi.

Era come se si fosse risvegliata da un lungo sonno ma, al tempo stesso, non c’erano l’intorpidimento e la confusione del primo risveglio. Forse non aveva davvero dormito, forse era stata solo immobile per ore, ma era strano, perché la porta era chiusa mentre lei ricordava di averla trovata aperta. Ricordava degli scricchiolii ad un certo punto, dei sospiri fare avanti e indietro e i guaiti di Kai, che avrebbero spezzato il cuore anche alla più dura delle pietre. Si alzò e attraversò la porta prima con una mano e poi con tutto il corpo. Adesso riusciva ad attraversare gli oggetti: forse era solo un questione di volontà. Scese al piano di sotto.

La biblioteca era aperta e c’era una donna, davvero simile a Eleonore, ma meno curata, che parlava al telefono e gesticolava. La stanza era in disordine, i libri sparsi ovunque, ma era diversa da come la ricordasse.

La donna sbuffò e Verity la riconobbe. Solo sua madre sbuffava in quel modo, come se l’intero mondo cospirasse contro di lei e dovesse combatterlo da sola. La seguì e riuscì a infilarsi nella macchina prima che la porta si chiudesse. Forse avrebbe potuto attraversarla, ma meglio non tentare. Riconobbe subito la strada. Si stava dirigendo al laboratorio di Victor.

Victor aveva sempre vissuto nel suo ufficio e aveva lavorato con ossessione dalle sue ricerche: non usciva quasi mai dall’edificio e aveva il minimo contatto umano indispensabile, ma Eleonore non avrebbe mai creduto di poter trovare la stanza in quelle condizioni. Sulla poltrona erano accumulati camici da laboratorio e abiti da lavare, calzini pantaloni magliette e fazzoletti; in un angolo, dove un tempo ricordava dei libri, c’erano due paia di scarpe che avrebbero tanto avuto bisogno di vedere la luce del sole; appese in giro c’erano cravatte colorate ma stropicciate. Sul tavolinetto basso erano impilati libri aperti uno sopra l’altro, macchiati dai residui unti del cibo pronto. Per terra, fogli di carta con diagrammi, calcoli incomprensibili e ancora libri su libri. Victor non si vedeva da nessuna parte, ma la moglie sapeva dove trovarlo. Chiuse la porta. Era lì dietro, accucciato per terra con ancora la matita in mano ma profondamente addormentato. Lo svegliò delicatamente e all’inizio, nella semioscurità, non la riconobbe, boccheggiò qualche suono e scosse la testa.

‹‹E-Eleonore? Cosa fai qui?›› chiese massaggiandosi le tempie con le mani.

‹‹Sono venuta per portarti fuori di qui, quasi mi sorprende che tu sia ancora vivo. Sono mesi che nemmeno ti vedo la notte, che sei rinchiuso qui dentro e-››

‹‹L’ho sognata, ancora.››

‹‹Victor, mi ascolti?››

L’uomo si alzò a fatica e, nonostante inciampasse nei libri sparsi a terra, riuscì a raggiungere la finestra e a tirare su la tapparella. Poi aprì e respirò l’aria della calda primavera che tra non molto sarebbe diventata estate.

‹‹Camminava su quel prato, laggiù, e mi correva incontro e, no, ci correva incontro perché sai, c’eravamo entrambi, e aveva un cestino in mano. Stavamo organizzando un picnic ed eravamo così felici e ridevamo così tanto. La sento qui, oggi più di altri giorni›› Verity rabbrividì e si nascose nell’ombra ‹‹e non va mai via. Ha quell’abito panna meraviglioso, e gli sfregi delle corde sui polsi, sul collo, le macchie di sangue sulla gonna, e c’è Dakota al suo fianco, ma piange, e urla, proprio come quella notte e io sono impotente e inutile e incapace e inadatto e…››

Eleonore lo prese per un braccio, facendolo girare verso di sé: ‹‹Basta Victor! Basta sogni, basta pianti, basta ricordare quel dannato momento. Basta piangerti addosso ogni giorno della tua vita perché non è stata colpa tua, non potevi proteggerla. Forse nessuno poteva. Perseguiti te stesso, ma ti ricordi ancora di me? Sono mesi che non ti vedo, mesi che nemmeno sento la tua voce; sono mesi che dormo nel letto da sola e piango insieme a quel dannato cane e tuo padre viene a svegliarmi la notte quando ho gli incubi e mentre mia madre mi guarda e dice che appassisco ogni giorno di più e che devo riprendermi perché solo così posso aiutare i bambini della casa e non posso piangere tutta la vita. Ma le lacrime non si fermano, non ci riesco. Se sono in compagnia mi isolo, sento che l’unica che vorrei vedere è lei e lei non c’è, e so che avrei dovuto capirlo prima, ma adesso non riesco a fermarmi dal sentire da sua mancanza, dal volerla al mio fianco. Vorrei sapere quali fossero i suoi interessi e i suoi divertimenti, e vorrei sentirli dalla sua voce, vorrei ascoltarla cantare, suonare il piano e…››

Scivolò a terra e vi rimase, tremante. Era troppo da sopportare perché anche se non aveva visto Verity, era bastata la descrizione del marito per sentirsi lì con lui. Ma come avrebbe potuto aiutare lui se non riusciva nemmeno ad aiutare se stessa? Era stata superficiale ed egoista, ma aveva un cuore dopotutto, e questo stava sanguinando ormai da più di tre anni. Non aveva amato la figlia come avrebbe dovuto, ma non poteva amare il marito se questo la lasciava sola, non poteva condividere nulla se l’abbandonava in una casa troppo grande per lei. Doveva alzarsi e reagire.

Il tremolio diminuì quando Victor le accarezzò la testa dolcemente e scomparve quando la abbracciò, con lo stesso impeto con cui si abbraccia qualcuno in procinto di scomparire dalla nostra vita.

‹‹Perdonami, perdonami, amore. Non avrei mai dovuto scappare da te, ma lavorare mi impediva di pensare a lei, almeno durante il giorno. Era la nostra unica figlia e mi sentirò sempre in colpa… Dai vieni, c’è una cosa che devi vedere. Io so che tenevi a lei, so quanto l’amassi sotto tutta quell’alterigia e credo che anche lei, in qualche modo, lo sapesse.››

Le prese la mano, stringendola delicatamente, e la portò fuori dal laboratorio, verso il sentiero che si inoltrava nel bosco. Costeggiarono per un lungo tratto il ruscello, ascoltando la monotona ninnananna del gorgoglio dell’acqua. Eleonore avrebbe voluto fermarsi, cogliere un fiore e annusarne il profumo, ma Victor camminava troppo veloce e lei voleva tenere il passo per non perdersi nel bosco. Raggiunsero una radura minuscola, un gioiello nascosto, e in fondo, dove gli alberi si infittivano nuovamente, c’era una piccola serra in vetro. All’interno, rose nere, molte e bellissime.

‹‹È magica…››

‹‹Sì, più piccola all’esterno, ma enorme all’interno e la possiamo vedere solo noi della famiglia. Ci sono parecchi sigilli magici sopra, ma doveva essere sua, il suo rifugio segreto nel luogo più tranquillo del mondo...››

E Verity lo ringraziò, con parole senza suono che non arrivarono mai alle sue orecchie. Aveva osservato ogni passo da dietro, scoprendo con piacere che non faceva rumore nel calpestare il terreno ma che poteva inciampare nelle radici. Avrebbe voluto essere visibile in quel momento, poterlo abbracciare e ringraziare perché quel regalo era meraviglioso e si odiava per non poterlo fare. Le sarebbe piaciuto parlare con la madre, sorriderle e abbracciarla invece di poterla solo guadare piangere e ridere contemporaneamente. Ma la meraviglia più grande, ancora più della serra, era che percepiva la magia che permeava i vetri e usciva da ogni fessura in una nuvola che la investiva violenta. C’era anche qualcos’altro che non riusciva a identificare, come una presenza che la stava osservando nascosta nelle ombre degli alberi e che si avvicinava a lei. Cercò di ignorarla: non poteva essere Edward. Probabilmente gli esperimenti del laboratorio creavano qualche campo magico che si espandeva fino a lì.

No, non poteva essere vero, lei non sapeva percepire la magia. Doveva solo essere un’autosuggestione.

In quel momento nel bosco nulla era più tranquillo e, contemporaneamente, agitato dell’animo di Verity. Da un lato sarebbe voluta rimanere con i suoi genitori, a guardarli invecchiare insieme, dall’altro voleva andare via, lontano, dove nessuno l’avrebbe mai trovata. Magari poteva trovarsi un castello o una casetta piccola e malconcia da infestare come fantasma. A detta di Eleonore erano passati mesi della sua morte, non aveva capito esattamente quanti, e lei era rimasta chiusa in una stanza per tutto quel tempo. Cos’era accaduto nel mondo? Dakota stava bene o anche lei si era dimenticata di vivere? C’era anche un’altra domanda, adesso che aveva voglia di pensare, cui avrebbe dovuto rispondere: perché le era sembrato che per Scar, quella notte, Edward non fosse un completo sconosciuto? Se assumeva per vera l’idea che Scar non fosse umano, allora era possibile che lo conoscesse e tutti i fatti strani del passato diventavano sensati, quasi ovvi, e rimaneva una soluzione sola: o era un demone, come Edward, o un angelo, sempre che esistessero. Non poteva essere cattivo, in fondo aveva cercato di proteggerla, e se per caso avesse voluto ucciderla, avrebbe potuto sfruttare i loro numerosi faccia a faccia solitari. Ma se esistevano i demoni, anche gli angeli dovevano esistere, angeli con le ali bianche, grandi e setose. Quindi anche gli Arcangeli e quella sua antenata che il nonno citava sempre perché identica a lei… Doveva solo trovare lui e tutti i pezzi sarebbero, in qualche modo, finiti al posto giusto.

Il problema era tornare indietro: aveva perso completamente l’orientamento e non riconosceva più il bosco. Il cielo era quasi invisibile tanto fitta era la rete delle fronde e intorno a lei diventava sempre più umido e tetro. Le foglie erano di un verde troppo scuro per essere vero, le radici uscivano prepotenti dalla terra scivolosa, pronte a ghermire una caviglia con la loro stretta. Si guardò intorno più volte, ma continuava a non ritrovarsi. Allora si voltò, pensando di fare il percorso all’indietro, ma la strada le fu sbarrata da un gigante nero che la fissava dall’alto con un paio di occhi bianchi. Quell’essere la guardava, la vedeva sul serio, come un uomo vede un fiore o un dipinto, e aveva la bocca profonda spalancata. Un fruscio nell’erba poco lontano lo distrasse per un secondo e Verity ne approfittò per scappare, cercando di mettere la maggior distanza possibile tra di loro. Sentì un ruggito rabbioso e cercò di correre più veloce, inciampando più volte in una pietra o una radice troppo sporgente, voltandosi per controllare la posizione di quell’essere. La stava seguendo, era vero, ma era molto più lento di lei e quando scomparì, Verity si fermò per un secondo a riprendere fiato, stremata. Si sentiva abbastanza al sicuro: non lo vedeva arrivare da nessuna parte. Un altro fruscio alle sue spalle la fece trasalire, ma si rivelò essere un coniglio selvatico, inoffensivo. Rise di se stessa, riconoscendo di aver avuto paura della creatura più mansueta del mondo.

Si girò e lo trovò di nuovo a sbarrarle la strada. Non l’aveva sentito arrivare, non aveva fatto il minimo rumore, ma questa volta era pericolosamente vicino e Verity ebbe appena il tempo di portare le mani di fronte al viso che la creatura la inghiottì.

Il mostro poi tirò un sospiro di sollievo e prese in braccio il coniglietto. Lo coccolò qualche secondo e, dopo averlo riposato a terra, la creatura scomparve risucchiata da se stessa.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Angolo dell’autrice:

Buongiorno a tutti! Come state? Io mi godo ancora per un po’ la pausa universitaria, divertendomi a scrivere e mangiare dolcetti. Vi lascio il capitolo nuovo, sperando che vi piaccia!

Buona lettura a tutti!

Nemamiah

 

 

 

Verity si risvegliò immersa nel buio, mentre galleggiava dentro qualcosa di inconsistente. Provò a muoversi un paio di volte e scoprì che bastava desiderare uno spostamento e questo avveniva, anche se molto lentamente. Lo spazio in cui era immersa rispondeva ai suoi impulsi e desideri, faceva esattamente quello che lei voleva. Ripeté infinite volte nella testa la parola sinistra e alla fine sbatté la testa contro una parete. Quello spazio non era illimitato. Fece la stessa cosa a destra, in alto e in basso: si trovava in una specie di tunnel. Camminava tenendo una mano fissa sulla parete, mentre ordinava con la mente al suo corpo di andare avanti, sperando di aver preso la direzione giusta. Man mano che avanzava, il mal di testa cresceva: inizialmente non aveva sentito nulla, poi un ronzio leggero e in quel momento la testa le pulsava dolorosamente. Il dolore aumentava proporzionalmente alla forza che attraeva in avanti il suo corpo e diventa sempre più fastidioso. Quando non riuscì più a resistere decise di lasciarsi trasportare. Non fu per niente una buona idea. Sentiva l’aria tagliarle il viso e chiuse gli occhi, riaprendoli appena in tempo per urlare un “FERMATI!”. Si era fermata a pochi centimetri da un’affilatissima punta nera. La sfiorò con le mani, opponendosi alla forza la spingeva verso di essa. Aveva una forma conica e la punta l’avrebbe trafitta senza troppi problemi se non fosse riuscita a fermarsi. Pensò allora ardentemente ai movimenti che desiderava compiere e lentamente raggiunse la base del cono, tastandola con le dita. Percepì lettere scolpite, lettere come quelle che usava per scrivere e che formavano, insieme, una frase: “È uno scherzo della natura”. Spostò la mano sulla parete e la fece scorrere verso l’alto. C’era un altro cono con un'altra incisione. La decifrò, lo fece con ogni cono che incontrò nella salita. Erano tutte frasi, buone o crudeli, che aveva pensato o che le erano state rivolte dalle persone più disparate. L’ultima frase Verity ricordò di averla detta un Natale di tanti anni prima, quello che aveva passato da sola, quando era andata in centro a trovare Babbo Natale: “Vorrei non essere mai nata”.

Una fitta alla testa più forte delle altre la fece piegare in due e lasciò la presa sul cono, mentre la forza che prima la sospingeva verso l’alto la fece precipitare verso il basso, come se si fosse lanciata da una scogliera a capofitto nel mare. Affondò in quello spazio che ora era viscido e melmoso fino a che la forza non la trasse fuori, di nuovo. Ricordava tutti i dettagli di ogni frase, non solo chi l’avesse pronunciata, ma anche in quali circostanze, che età avesse in quel momento, lo sguardo di chi parlava. E ogni frase le si appiccicava addosso, su braccia e gambe, sulla pancia; si attorcigliava intorno al collo e alle dita; si intrecciava nei riccioli e a ogni contatto sentiva nuovamente la sensazione che aveva provato, riviveva quel momento e, anche se avrebbe preferito dimenticare tutto, non riusciva a staccarsi di dosso quelle scritte. Tuttavia non pianse. Nel turbinio di emozioni contrastanti che le affollavano l’anima e che avrebbe fatto impazzire chiunque lei era rimasta lucida: gli occhi vedevano, le orecchie sentivano. Parlava, balbettava, chiedeva scusa, ma non piangeva. Allora tutte le scritte tornarono al loro posto, incidendosi nuovamente sui quei coni che cambiavano forma e diventavano scalini, scivolosi e instabili, ma pur sempre scalini. Li salì, con attenzione, uno alla volta, puntando alla luce che scendeva dall’alto e si faceva sempre più intensa, diradando le ombre. Era tanto intensa che non riuscì a tenere gli occhi aperti quando raggiunse la cima e uscì guidata dal tatto e dai suoi piedi che sapevano dove andare senza che lei lo pensasse.

Sbucò in un prato, o meglio, in una grande radura circondata fittamente dagli alberi. Uscì del tutto e si guardò intorno incuriosita. Non era la stessa di prima, di quello era certa. Ma allora poteva essere solo un luogo…

‹‹Il Paradiso…››

Lo sussurrò piano, timorosa che qualcuno potesse sentirla. Era andata qualche volta in chiesa, con la madre, ma non aveva mai creduto davvero all’esistenza di Dio, del Paradiso e di tutte quelle belle parole che pronunciava il sacerdote. Le piaceva discutere con lui, sentirlo spiegare la teologia, gli angeli, i santi e tutta la storia della religione, ma crederci era un’altra storia. Adesso però le parole di quell’uomo erano le uniche che aveva in testa, quelle di quando le aveva parlato del Paradiso come di un luogo meraviglioso per la vita dopo la morte. Quello lo era. C’era anche una graziosa fonte che rifletteva le nuvole bianche che volteggiano sopra la sua testa. Parlando di testa, qualcosa la stava accarezzando… Era il mostro che l’aveva ingoiata, che adesso le sorrideva e non sembrava più tanto pericoloso.

‹‹Tu mi hai portata qui? E io che sono scappata spaventata.››

‹‹Già, Lidwig è stato bravo, vero?››

‹‹Perché parli di te in terza persona?››

‹‹Forse perché non è lui a parlare, mia cara.››

Sbirciò dietro le spalle di Lidwig e vide una donna venirle incontro. Verity quasi non poteva credere a quello che i suoi occhi stavano vedendo: la donna era quella del suo sogno con gli stessi capelli rossi, raccolti in un treccia, e gli stessi occhi di giada incastonati come pietre tra le ciglia. Era sicuramente avanti con l’età ma non avrebbe saputo dargliene una precisa. L’aspetto suggeriva una donna anziana, ma c’era qualcosa che la faceva sembrare giovane. Indossava un abito bianco, molto leggero, stretto in vita da una brillante cintura d’oro rosa; pareva un dea immortale. La donna le si avvicinò lentamente, per non agitarla. Ogni passo era una lieve carezza all’erba, l’incedere solenne ma terreno, umano. Eppure era troppo aggraziata, troppo elegante: semplicemente troppo. Tutto quello che avrebbe mai potuto sognare di essere era davanti ai suoi occhi e le sorrideva.

Le circondò le spalle con un braccio, controllata, dolce, e sussurrò piano nelle sue orecchie parole di benvenuto in una lingua sconosciuta, traducendole subito dopo.

‹‹Ben arrivata in Paradiso, Verity. Ti aspettavamo da molti anni…››

‹‹Mi… Cosa?››

‹‹Angeli, custodi, diavoli, ognuno di loro aspettava la quarta luce. Forse gli arcangeli sono meno interessati a te, ma avrai cose più importanti da fare che stare con loro per adesso.››

‹‹E con voi cosa dovrei fare?››

‹‹Crescere, proteggere, imparare, forse amare. Suvvia, non guardarmi con quello sguardo scioccato. Sei un angelo e devi comportarti come tale.››

‹‹Cosa intendete dire?››

La donna rise dolcemente e la prese per mano, guidandola verso la fonte al centro della radura.

‹‹Imparerai che non tutti gli angeli sono buoni e generosi e che proteggerli tutti può essere difficile, soprattutto quando non desiderano la tua protezione, ma è quello che facciamo qui in Paradiso, cerchiamo di aiutare tutti, anche chi è ritenuto immeritevole di aiuto, umano, angelo o dannato che sia. C’era un tempo in cui si viveva in pace, ma quel tempo è un ricordo molto lontano…››

‹‹Non vivete in pace adesso?››

‹‹Non esattamente. Il Paradiso non è più in pace da quando ha dovuto cacciare fratelli e sorelle dalle sue radure e…››

‹‹La caduta! Stai parlando della caduta, vero? Con l’istituzione dei tre regni e delle Guardiane, lo so, conosco la storia molto bene!››

La donna la guardò dubbiosa ma ugualmente sorridendo: ‹‹Temo non sia andata esattamente così, ma nemmeno io conosco cosa accadde veramente. Penso però che troverai qualcuno che possa raccontartelo, prima o poi.››

Verity si sentì spaesata. Poteva davvero esserci qualcosa su quella vicenda che davvero non sapesse? Impossibile, categoricamente impossibile. Aveva letto ogni libro, ogni leggenda e storia studiandone analogie e differenze, confrontando i passi comuni. Lucifero voleva diventare il più potente dei beati e allora aveva mosso guerra a tutti coloro che gli si erano opposti, aveva perso e poi erano stati creati i regni. Punto. Stop. Fine del racconto. Non c’era nulla che potesse aver saltato o dimenticato, nulla da aggiungere a una questione già abbastanza complicata di per sé. E lei era morta. Tanto per aggiungere qualcosa di importante ma non troppo. In fondo che dire, suggerirle nemmeno tanto velatamente di dover proteggere mezzo mondo doveva sembrare una bazzecola se confrontata con l’essere ammazzata di fronte a suo padre e alla sua migliore amica. Una cosa da niente.

La donna, vedendola assumere quell’espressione prima spaesata e poi arrabbiata, si chiese se non avesse detto troppo in così poco tempo. Eppure non aveva nominato nessuno, né parlato di fatti macabri o fuori luogo. Forse l’aveva spaventata l’idea di dover proteggere gli angeli o forse ancora era lei a spaventarla, anche se si erano viste nel sogno. In fondo le sembrava quasi di essere un’amica di lunga data di Verity, con tutte le volte che il signor Dante le aveva parlato innalzandole una preghiera. Doveva rassicurarla e calmarla per poter completare la trasformazione in angelo.

‹‹Verity, ascolta, so che ti senti smarrita. Il sogno con me, Lidwig, la tua morte e quello che ti ho detto sono difficili da accettare, da capire e so che ci vorrà tempo perché tu diventi davvero parte di questo mondo… Beh, ci ho messo molto anche io ad ambientarmi all’inizio. Ero decisamente più agitata di te e continuavo ad andare da un parte all’altra urlando per lo spavento, ma volevo che tu sapessi almeno un po’ della verità.››

‹‹Questa verità è sconvolgente.››

‹‹Facciamo un patto, va bene? Io ti racconto esattamente tutto quello che devi sapere, che io so, dall’inizio alla fine, se tu fai il bagno nella fonte, accetti?››

‹‹Dov’è l’inganno? Perché sa, dopo essere stata trascinata e uccisa da un pazzo che mi ha detto di volermi salvare, non mi fido…››

‹‹Qui nessuno ti farà del male, per nessuna ragione al mondo, di questo puoi essere certa.››

Verity fissò la fonte, non vedendo come potesse essere di alcuna utilità fare un bagno lì dentro. L’acqua era cristallina e sembrava fresca, ma non abbastanza invitante da tentarla. La verità però… La promessa di sentire tutta la verità, nient’altro che quella, era allettante. Si ritrovò divisa tra il desiderio di voler entrare e quello di allontanarsi e rifletterci sopra ancora un po’ di tempo. Era così concentrata su quei pensieri che non si accorse della mano in movimento ma sentì solo la spinta.

Altro che fresca! L’acqua era gelida e si infiltrò nelle ossa e nei recessi della sua anima come un guanto ruvido, portando via tutto quello che sentiva appartenerle e sostituendolo con qualcosa di sconosciuto, una leggera pesantezza. Non capiva.

 

C’era del nero, ordinato, come una capigliatura color carbone e una macchia rossa, molto scura, sembrava un vestito, ma non avrebbe saputo definirlo con certezza.

 

Annaspò, sentendo i polmoni bruciare mentre riprendeva fiato a respiri profondi e tossendo per l’acqua ingerita. Quando riuscì a uscire dalla fonte rabbrividì per il freddo, ma c’erano due ragazze a fissarla, giovani e sorridenti.

Le due avevano osservato Verity nascoste dietro un cespuglio fin dal momento in cui aveva salutato Lidwig e l’avevano trovata interessate, così diversa da Mary, ma così simile allo stesso tempo. Si era guardata intorno incredula e aveva addirittura cercato di parlare con Lidwig, cosa mai accaduta prima. Poi era carina. Si vedeva che era interessata a quello che Mary stava dicendo eppure, allo stesso tempo, era stata curiosa e poi arrabbiata e dopo di nuovo curiosa ma dubbiosa.

Verity le osservò attentamente, rimanendo vicina al bordo della fonte.

Non si era sbagliata del tutto. L’abito della ragazza con i capelli neri, che ora notava pettinati in un incrocio di perline colorate dal rosso al viola, era di una calda tonalità porpora stampato con arabeschi neri in velluto, stretto sotto il seno da un nastrino bianco. Era meraviglioso, certo, ma quello che spuntava dalla sua schiena lo era ancora di più. Il cielo, quello che nasce dopo il tramonto del Sole, si era nascosto nelle ali della ragazza. Il blu della notte appena accennato si fondeva con il viola, sciogliendosi nel rosa della stella morente e svegliandosi nell’arancio verso le estremità delle piume. Il trionfo della luce, della natura. Non che, ovviamente, le ali della ragazza al suo fianco fossero meno belle. Ogni singola piuma era di un colore diverso dall’altro, come se fossero la tavolozza di un pittore impressionista. Risaltavano moltissimo sull’abito bianco e corto, stretto dall’alta cintura argentea che indossava.

‹‹Cosa volete da me?››

Mary sorrise divertita. Era certa che Hariel le avrebbe spiate, ma non avrebbe mai pensato che Lelahel si sarebbe aggiunta. Disubbidire agli ordini non era mai un buona idea nel Paradiso, nemmeno in una circostanza speciale come quella. Eppure sorrise ancora e, mentre posava le mani sulla loro spalle, disse a Verity: ‹‹Loro sono Lelahel, custode dell’Inferno e Hariel, custode del Paradiso. Sono tue amiche e dovresti vedere le tue ali, sono magnifiche.››

Ali? Ma lei non poteva avere delle ali, lei non poteva essere un angelo, era solo un’anima…

Tastò la schiena, salendo piano alla loro ricerca e le trovò, spuntavano dalle scapole. Sembravano così resistenti e pesanti al tatto, mentre lei le sentiva leggere e inconsistenti. Si specchiò nella fronte, sperando che riflettesse abbastanza bene da poter distinguere i colori. Erano di un giallo pallido, tenue come un acquerello, e sfociavano, scurendosi, nel verde del muschio. Non erano maestose come quelle delle due ragazze, per niente, eppure le piacquero anche di più. Le davano una strana sensazione di pace interiore ed equilibrio che non credeva di poter provare. Quella sensazione, per lei, valeva più di mille colori meravigliosi.

‹‹Ti piacciono le tue ali, Verity? Secondo me sono bellissime!››

Hariel, scuotendo la coda di capelli bianchi, le fece il complimento e la ragazza ringraziò riconoscente, non abituata a ricevere apprezzamenti e a stare al centro dell’attenzione. Anzi, la fissavano un po’ troppo insistentemente rispetto alle sue abitudini, come se si aspettassero qualcosa di particolare da lei, come una magia spettacolare che sapeva di non poter dar loro.

Mentre era immersa nei suoi pensieri, Hariel e Lelahel si alzarono in aria sbattendo le ali. Verity desiderò ardentemente poterle raggiungere e mosse inconsciamente le proprie, facendo increspare l’acqua della fonte in piccole onde trasparenti. Quando guardò giù, vide Mary salutarla da terra e si bloccò: stava davvero volando! Si girò sorridendo verso la direzione che avevano preso le due guardiane, ma vide solo dei puntini lontani.

Che antipatiche a non avermi aspettato!

Poi il vento la sospinse in avanti e lei rotolò per aria, incastrandosi in una nuvola. Si appoggiò ad essa, stupendosi della consistenza spumosa ma che non la faceva affondare. I batuffoli di panna la tenevano su. Ma il problema non era la nuvola. Non aveva la minima idea su come far funzionare quelle ali che spuntavano dalla schiena. Era impossibile riuscire a controllarle se nemmeno le sembrava di averle attaccate al suo corpo tanto erano leggere. Fece un respiro profondo e saltò fuori dalla nuvola spingendosi con le gambe. Non riusciva a volare in avanti, certo, ma almeno poteva galleggiare.

Due mani abbronzate la presero per i polsi. Erano quelle di Scar.

‹‹Allora avevo ragione a pensare che tu non fossi umano!››

Aveva sempre creduto che quel ragazzo avesse qualcosa di strano, troppo particolare persino per un mago e adesso lo vedeva sotto forma di angelo di fronte ai suoi occhi. Così vicina al suo viso, si perse ancora nei suoi occhi che erano così simili a quelli del Lucifero del suo sogno, solo che i colori erano invertiti e dove ci sarebbe dovuta essere una venatura viola, ce n’era una nera. Erano occhi in cui annegare come nel mare in tempesta, guidati dal lento fluire dell’anima viola dell’iride. Perché erano così simili, anche se opposti, a quelli di Lucifero? E perché, soprattutto, lei ricordava così bene quelli dell’angelo caduto? Perché a guardare bene, anche i capelli neri e lisci di Scar erano simili a quelli di Lucifero.

Indossava un camicia bordeaux e pantaloni in pelle strettissima che evidenziavano i muscoli delle gambe. Ma non aveva ali. Come faceva a volare senza ali?

‹‹Scar, ma come…››

‹‹Concentrati. Chiudi gli occhi, senti le tue ali. Se non lo fai, non volerai mai.››

Concentrarsi… Come se fosse facile concentrarsi mentre galleggiava per aria a cento metri da terra, con il rischio di cadere giù e chissà cosa sarebbe potuto accadere. Però chiuse gli occhi lo stesso, stringendo con più forza le mani intorno ai polsi dell’angelo. Ascoltando attentamente riusciva a sentirle, ma non a muoverle.

‹‹Non pensare. La magia non si pensa, si sente. Ascoltala parlare e trova le tue ali.››

Verity si concentrò ancora di più, visualizzando l’immagine delle ali e cercando di percepirne meglio la presenza.

La sentì.

C’era qualcosa, qualcosa che scorreva velocissimo dentro di lei, qualcosa che non aveva mai sentito prima ma che sembrava essere lì da sempre. Era una rete complessa, che attraversava tutto il suo corpo, diramandosi fin sulle punte della dita; ogni terminazione nervosa, ogni fibra del suo essere sembrava essere percorsa da quel fluire magico così potente che si chiese come fosse stato possibile non averlo mai percepito prima.

‹‹Qualcosa scorre… È fresco, come la brezza che sale dal mare, ma più veloce e devastante di una valanga. Mi travolge dall’interno, ma mi dà energia…››

‹‹Usala, comandala. Desidera con essa, così potrai volare.››

Verity lo abbracciò, sorridendogli gentile, ma il sorriso si spense subito. Lui non sembrava per niente felice, tutt’altro. Era come se stesse provando nostalgia per qualcosa o forse qualcuno. Vide Hariel e Lelahel tornare indietro, così prese per mano Scar e si diresse verso di loro, volando in modo incerto.

‹‹Scusaci tantissimo Verity, non avremmo dovuto abbandonarti così›› disse Hariel non appena la raggiunse. ‹‹Se lo desideri, possiamo farti vedere il Paradiso, così da poterlo conoscere. D’ora in poi sarà la tua casa.››

Verity accolse la proposta con gioia, piena di curiosità e di emozione alla prospettiva di conoscere qualcosa di nuovo, ancora euforica grazie all’adrenalina che il volo faceva circolare nelle sue vene. Si girò verso Scar e gli sorrise, di nuovo, chiedendogli di rimanere con lei. Lui tentò di rifiutare, ma alla fine cedette.

Sorvolarono un boschetto minuscolo e poi salirono verso l’alto. Verity faticava a tenere il ritmo delle due ragazze, ma faceva del suo meglio, aiutata ogni tanto da Scar che la spingeva con le braccia, trascinandola poi con sé. Fu però enormemente felice quando la fecero atterrare di fronte a un arco di marmo bianco, nella punta estrema del luogo in cui erano giunte. Sull’enorme arco erano scolpiti innumerevoli fiori: alle basi due piante di rose, insieme all’edera, si arrampicavano intrecciandosi tra loro in un vortice di boccioli, gemme nel culmine della loro bellezza e giovani foglioline. Si aggiungevano margherite minuscole, violette e non-ti-scordar-di-me talmente reali da poter essere sfiorati sentendo la morbidezza dei petali. In alto, incisa tra i fiori, vi era una scritta: “Dobbiamo amare ognuno in modo diverso”.

‹‹Da dove arriva quella frase?››

Lelahel guardò Verity, ma non ebbe il coraggio di dirle la verità.

‹‹Lo disse un angelo tanto tempo fa. Ma agli abitanti del Paradiso non piace ricordare questo. È legato alla guerra.››

Il tono di Scar diceva chiaramente che non avrebbe risposto a nessun’altra domanda. Eppure Verity aveva carpito dolore e una nota di tristezza oltre la rabbia. Era qualcosa che stava nascosto, in fondo all’anima, e che probabilmente nessun altro aveva percepito. Forse gli avrebbe chiesto spiegazioni, quanto meno per conoscere meglio quella storia.

Lelahel la prese sottobraccio, raccontandole qualche piccola interessante notizia per farla ambientare.

Gli angeli vivevano nella parte bassa del Paradiso, precisamente sugli alberi in piccole case che per magia erano più grandi all’interno di quanto paressero all’esterno. Alcuni da soli, altri come famiglie, si ritrovavano l’uno a casa dell’altro per passare il tempo; altri ancora tornavano su una volta ogni tanto, quando riuscivano a prendersi una pausa dal ruolo di custodi, anche se accadeva raramente. Nella parte alta, invece, vivevano gli Arcangeli. Lì era sempre notte, anche se quando brillavano le stelle emettevano così tanta luce da indurre l’osservatore a pensare che fosse giorno. Era un mondo nel mondo, un’atmosfera completamente diversa.

Quando si immersero nel bosco, poco dopo essere passati sotto l’arco, Lelahel continuò a spiegare. Ogni punto del Paradiso era un ingresso e non si doveva necessariamente passare sotto l’arco. Ciascun angelo poteva fare quello che più gli aggradava, andare e venire con la frequenza che preferiva. L’unica regola era che non si avvicinassero per nessuna ragione al portale per l’Inferno.

‹‹E immagino che nessuno lo faccia, vero?››

‹‹No, ma non per rispettare la regola. È solo per paura. Da quando i Nephilim hanno portato qui gli ultimi caduti, tutte le volte che un angelo comune ha attraversato il portale, è stato trovato morto.››

Verity rabbrividì, stringendosi maggiormente al braccio di Lelahel. Avrebbe voluto saperne di più sui Nephilim, sia perché non aveva mai incontrato il loro nome sulla Terra, sia perché sembrava un argomento fondamentale nella storia del Paradiso, ma in quel momento aveva troppa paura per pensare di chiederlo.

Intanto loro continuavano a camminare e in poco tempo Verity cominciò a vedere la natura diradarsi, lasciando posto solo a un grande prato pallido. Prima che questa svanisse del tutto, il gruppo uscì dal sentiero calpestato, seguendo poi un percorso silenzioso. Raggiunsero le rive di un grande lago. Sulla sabbia, disposti lungo il perimetro, si trovavano angeli senza ali, con il volto coperto da un velo azzurro sul cui bordo erano attaccate dracme argentate. Cantavano. Verity si sedette al fianco di una di loro e guardò dentro le acque del lago: adagiate sul fondo, protette dalle alghe verdi, c’erano uova dorate. Alcune erano piccole, come quelle delle galline; altre erano grandi come noci di cocco. Verity, lo sguardo ancora fisso sulle uova, sentì la necessità impellente di distendersi e dormire, una sonnolenza così forte che non sentì le mani di Scar tirarla indietro, prenderla in braccio e riportarla sul sentiero. La depose sull’erba, con la schiena appoggiata al tronco largo di una quercia.

‹‹Cosa mi è successo?››

Hariel, seduta accanto a lei, le rispose con dolcezza: ‹‹Sei rimasta catturata dal canto dei Sognatori. Non sei la prima, succede continuamente, è successo anche a me! Ma io sono riuscita a svegliarmi da sola prima che mi suicidassi affogandomi nel lago: per questo Michele mi ha nominato guardiana… I Sognatori sono angeli caduti che, quando hanno capito che la guerra non stava andando a loro favore, sono corsi dagli Arcangeli a chiedere perdono.››

‹‹Non ne hanno trovato.››

‹‹Dovevano punirli. Li hanno costretti a tagliarsi le ali da soli, poi hanno imposto loro di indossare quel velo. Non possono toglierselo, né vedere attraverso. Sono completamente ciechi. Però sognano, e da qui il nome. Sognano il futuro e il passato ma non possono parlarne con nessuno e quindi cantano. Il loro canto dona energia alle uova che così possono mantenere la barriera che circonda l’Inferno. Se qualcuno si lascia ammaliare dal canto prima si addormenta, poi cerca di uccidersi. Pochi sopravvivono e chi non si sveglia diventa un uovo.››

‹‹È spaventoso…››

‹‹Gli Arcangeli sono stati cattivi con i dannati, ma anche giusti.››

‹‹Quella è crudeltà, non giustizia, Hariel… Ma grazie per avermi spiegato e grazie a te, Scar, per avermi portata via.››

Verity si alzò, affidandosi alla mano che Scar le aveva offerto e raggiunse Lelahel, camminando a fianco lei. Intanto pensava. Forse anche Scar era stato punito in qualche modo e per questo non aveva le ali. Ignorò Hariel, che le si era affiancata, e seguì solo Lelahel.

Eliminato il Lago di Sognatori, il Paradiso si estendeva come un’enorme foresta dove crescevano piante di ogni specie, alberi che non avrebbero mai potuto convivere sulla Terra perché abituati a climi diametralmente opposti; radure su radure che creavano spazi vuoti, coperti solo di erba verde e gialla. E, al di sopra delle cime degli altissimi abeti, si ergevano le guglie del Palazzo degli Arcangeli. Passarono di fronte all’enorme portone nero, chiuso, ma non si fermarono. Hariel disse che l’avrebbe accompagnata in un altro posto, molto più utile. La portò in un punto dove la luce delle stelle splendeva meno anzi, era quasi inesistente. In quel buio in cui Verity non riusciva a distinguere nulla, Hariel si mosse sicura dei suoi passi, accedendo con una scintilla una piccola candela. La luce di questa era appena sufficiente a illuminare una porta di legno scuro con un pomello tondo in ottone al centro.

‹‹Questo è un portale magico: in pochi secondi è in grado di trasportarti nel luogo in cui ti sei svegliata, Eteria. Mi spiace, ma adesso devo proprio andarmene perché ho delle cose molto importanti da fare.››

Li salutò e li lasciò attraversare il portale con un sorriso. Appena il portone fu chiuso, Hariel tornò velocemente indietro, verso la sua casa vicino all’ingresso del Paradiso. Una volta dentro emise un sospiro appoggiandosi alla porta. Nessun arcangelo era all’interno ad attenderla. Raffaele non credeva che una terza guardiana potesse essere di alcun aiuto. Non che fosse realmente cattivo, tutt’altro. Solamente aveva paura che si scatenasse una nuova guerra con Lucifero per la ragazza. Hariel non pensava che il demone avrebbe mai lottato ancora, anzi, secondo quello che diceva Lelahel, lui stava cercando da secoli di calmare gli animi dei dannati per evitare che gli arcangeli intervenissero e commettessero un genocidio. Si accasciò a terra, respirando profondamente e chiuse gli occhi, sperando di non ritrovarsi una brutta sorpresa al risveglio.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Angolo dell’autrice:

Oggi nessuna nota particolare, vi auguro solo buona lettura!

Un saluto a tutti.

Nemamiah

 

Verity aveva dormito cullata dal leggero dondolio di una nuvola color panna, appoggiata sul petto di Scar che si era offerto di farle da cuscino. Fu un fulmine a svegliarla. Un fulmine che era passato proprio vicino alla spalla di Scar, tanto vicino che lei era saltata all’indietro, spaventatissima.

‹‹Verity, cosa succede?››

‹‹Mi è appena passato un fulmine davanti agli occhi!››

‹‹Non è nulla di grave, tranquilla. Significa solo che siamo molto vicini all’Inferno e che il nostro viaggio è quasi finito. Hai passato una buona nottata?››

Verity annuì intimorita, mentre pensava a come era morta, di fronte a suoi occhi, la diavoletta che l’aveva attaccata quando era sulla Terra. Lelahel le sorrise, spiegandole poi che le nuvole li avrebbero portati verso l’alto, molto più in alto del Paradiso. Il cielo, azzurro al livello di Eteria, diventava sempre più scuro, cupo e pericoloso. Più ci si avvicinava alla barriera, più tuoni assordanti e fulmini si rimbombavano l’uno sull’altro, frequenti e imprevedibili. Pochi angeli erano riusciti, volando da soli, a passare indenni quel percorso.

‹‹Nemmeno io passo di qui, se non davvero raramente. Preferisco il portale che non solo è più sicuro, ma mi porta più vicina alla mia solita meta.››

La nuvola li lasciò vicino a uno spuntone roccioso, da cui scendeva una scaletta.

Da lì avevano una visione completa di gran parte dell’Inferno. Il paesaggio era completamente diverso dal Paradiso. Al posto dei prati verdi e degli alberi, si sostituivano un’enorme distesa di roccia rossiccia e rilievi aguzzi che creavano ombre terrificanti, pronte ad imprigionare chi si fosse immerso nella loro oscurità. Sullo spuntone dov’erano atterrate c’era un arco, come nel Paradiso, ma scolpito con facce spaventose, smorfie terribili che facevano accapponare la pelle e venir voglia di scappare via ad ali spiegate. Lelahel strinse la mano di Verity per incoraggiarla e questa si girò verso Scar, invitandolo a seguirle.

‹‹Non vengo con voi. Non ho intenzione di entrare qui dentro.››

Verity non riuscì a dirgli nulla poiché andò via tanto velocemente che era già in mezzo al cielo prima di riuscire anche solo a pensare a una frase. Lo vide schivare un fulmine e atterrare su una nuvola in discesa.

Lelahel scosse la testa sconsolata: Scar scappava sempre quando si trattava di entrare nell’Inferno…

‹‹Lascialo andare. Non è un posto piacevole per lui. Porta alla mente brutti ricordi…››

‹‹Che ricordi?››

‹‹Una parte della sua famiglia è qui. Forse un giorno te ne parlerà. Posso solo dirti che entrambi eravamo presenti quando Lucifero si è ribellato. Io approvavo la sua causa, ma ho scelto di non combattere mentre Scar… Beh, lui ha scelto di tagliarsi le ali. Ha una volontà di ferro quel ragazzo.››

‹‹A te invece è successo qualcosa?››

‹‹Ho perso la vista. Michele mi ha punito in questo modo perché ho guardato la guerra da lontano ma non ho partecipato. È una pena per insegnare ai nuovi angeli: o fai qualcosa fino in fondo o non te ne interessi nemmeno. Penso ancora che sia sbagliato, che ognuno debba dare ciò che può, al massimo delle proprie possibilità, ma non posso contestare la sua decisione. In ogni caso dopo mi ha nominata guardiana dell’Inferno. So che lo ha fatto solo perché conosco bene Lucifero e desiderava che controllassi i suoi movimenti, ma lo ritengo lo stesso un onore. Ora però andiamo avanti. Mettiti questo addosso e non alzare il cappuccio: guarderanno con invidia le tue ali ma non ti devono riconoscere, almeno per ora. Avvisami se qualcosa, qualsiasi cosa, ti turba. Sento tante emozioni, ma non le tue.››

Verity indossò il mantello marrone che Lelahel le stava porgendo e si calò il cappuccio sul capo, nascondendo i capelli rossi. Poi attraversarono l’arco e non fu come in Paradiso, questa volta le sembrò davvero di oltrepassare una barriera.

La barriera non solo impediva ai dannati di uscire, ma aveva effetto anche sui colori: le montagne non erano rosso mattone ma molto più scure, color porpora, e le ombre sembravano ancora più spaventose e buie, mentre i tuoni rimbombavano contro le pareti rocciose e il vento ululava affamato tra le cime aguzze.

Lelahel e Verity scesero la scaletta e proseguirono sul bordo di un profondo dirupo, di cui non si vedeva la fine. Camminarono per alcune ore prima di costeggiare un muretto in pietra grigia e calda che le portò all’ingresso di una città con case basse, di un colore chiaro e consumato dal tempo, con tante piccole finestre. Sospesi in aria, di fronte a ogni porta e ad ogni incrocio, brillavano piccoli fuochi fatui: centinaia di fiammelle che illuminavano l’aria a giorno, rendendola una città fantastica, mistica e sfuggente. Inafferrabile.

Verity sorrise a quella vista, stringendo la mano di Lelahel. Si era aspettata un luogo tetro e spettrale, ma si stava rivelando esattamente l’opposto.

Nella parte alta, dove stavano camminando, si aprivano botteghe e bazar di ogni genere, come se fosse una comune città terrestre: banchetti di vasellame di terracotta, dipinti con mille colori vivaci; uomini abbronzati che urlavano per vendere frutta e verdura. Si distinguevano negozi di stoffe e vestiti dove donne con lunghi mantelli si fermavano a osservare o comprare qualcosa. Tutti quanti, e questo sembrava strano, indossavano quei mantelli marroni e, cosa anch’essa strana, erano pallidi ed emaciati e tenevano lo sguardo sempre basso. Alcuni pronunciavano parole con loro stessi, altri si sussurravano tra loro e sembrava il sibilo dei serpenti.

‹‹Sembra un mercato della Terra…››

‹‹Lo è. I Nephilim sono i figli che i caduti hanno avuto sulla Terra, sono praticamente cresciuti come umani, con le vostre abitudini. Loro vivono qui, prima della voragine, alla luce. Però lasciali stare, non parlare con loro: hanno tradito i loro padri, consegnandoli agli arcangeli. Nessun dannato rivolge loro parola da quel giorno e li lasciano qui fuori, anche quando i fulmini riescono a oltrepassare la barriera e a raggiungere la città… Ma proseguiamo, non è qui che dobbiamo fermarci.››

Uscirono dalla città e scesero in un tunnel appena illuminato da alcuni fuochi chiusi in gabbie di roccia attaccate alle pareti, sempre più ripido man mano che ci si avvicinava alla fine. Sbucarono in un’enorme pianura, arsa dal fuoco e nera come il carbone. Ombre scure si spostavano veloci tra le rovine della città bassa. Bastava fare pochi passi, superare la prima barriera di rocce e si incominciavano a distinguere le prime macerie: colone distrutte, tagliate a metà, consumate dal tempo e dal fuoco che bruciava ancora sulle porte e anneriva le pareti delle case.

I bisbigli dei Nephilim, la loro storia, avevano rattristato Verity. Aveva provato compassione per la loro solitudine, ma la profonda desolazione di quel mondo sotterraneo le opprimeva il cuore. Lì sotto tutto decadeva, moriva e si trasformava in cenere e polveri inafferrabili. La disperazione dei dannati aveva eliminato qualsiasi speranza di una vita, se non piacevole, quantomeno serena, la induceva a scappare, allontanandosi da quegli angeli maledetti che con i loro sentimenti avevano contaminato anche la terra, impregnandola con il loro odio e della loro sete di vendetta, rendendola buia, infeconda. L’avevano uccisa senza pensare alle conseguenze, dimenticandosi che quella terra tanto odiata avrebbe potuto ospitarli e crescerli. Quella terra infernale li avrebbe amati, avrebbe dato loro tutto quello di cui avrebbero potuto avere bisogno: luce, acqua, cibo, sogni, vita. I caduti invece l’avevano attaccata e maltrattata. Senza rispetto avevano distrutto la loro nuova madre, riducendola a pezzi, l’avevano fatta piangere e poi annegare nelle sue stesse lacrime di sangue scarlatto; l’avevano accecata con i bagliori della magia e assordata con le grida di dolore. La sconfitta nella guerra, il tradimento dei figli, l’essere esiliati e isolati dal mondo natio avevano originato rancori e risentimenti che erano germogliati nei cuori aridi ma avidi di riconquistare la libertà perduta e quegli stessi sentimenti, come piante maligne, avevano attecchito nella terra, contaminandola e indebolendola.

Verity sentiva tutto questo.

Era chiaro e lampante nonostante avesse la mente frastornata da un battito assordante che palpitava senza mai fermarsi. Sentiva le urla strazianti della terra e migliaia di cuori che pulsavano all’unisono. 

Si girò verso Lelahel, scoprendo che questa la stava fissando intensamente con i suoi occhi ciechi.

Certo, Lelahel non poteva vedere, ma sapeva guardare. Perdere la vista l’aveva privata del senso che maggiormente aveva sfruttato in giovinezza, quello che aveva sviluppato nel modo più profondo, ma non aveva dimenticato. Tutto ciò che aveva imparato, tutti i traguardi faticosamente raggiunti erano rimasti incisi a fuoco nelle sue iridi vuote. Riusciva ancora a guardare. Vedeva, grazie alla magia, ogni cosa intorno a lei; percepiva i sentimenti e le preoccupazioni di ogni angelo vicino, almeno di quelli che li lasciavano uscire dalla barriera che ognuno teneva sempre alzata intorno alla propria anima. La barriera di Verity si era annullata completamente appena era entrata nell’Inferno. Era rimasta talmente presa da quello che la circondava che la sua istintiva protezione era venuta meno, senza che lei se ne accorgesse. Aveva camminato in mezzo alle rovine, ascoltando la voce della terra, e le aveva ricostruite sfiorandole con le mani. Tutto senza avvedersene. Poi si era girata verso di lei. La guardava come in attesa di una risposta, ma non aveva sentito nessuna domanda. Le sorrise e basta, sperando che bastasse a incoraggiarla.

‹‹Lottano tra loro, lo sento. Perché? Perché distruggersi tra fratelli?››

Aveva gli occhi lucidi e le lacrime scivolavano dalle guance come perle rotonde. Lelahel corse verso di lei e l’abbracciò stretta. La capiva perfettamente. Anche lei soffriva per il destino dei caduti, sebbene non potesse ammetterlo ad alta voce ma solo cercare di aiutarli con piccole concessioni.

‹‹Perché sono arrabbiati. Dopo millenni sono ancora arrabbiati e si scontrano tra loro per placare questa rabbia.››

Percepiva, nascosti dietro alcune macerie, il fremito delle ali e lo stupore perplesso di alcuni dannati che sbirciavano le loro azioni, ma quando lasciò Verity per proseguire, questi si allontanarono, scappando per non essere visti. Non era una cosa rara che i più tranquilli controllassero la situazione di nascosto, così da essere certi di non finire in mezzo a una battaglia, ma sospirò lo stesso di sollievo quando non captò più la loro presenza: sperava solo, per una volta, di non doverne sentire altri.

Condusse Verity lungo quello che avrebbe dovuto essere il grande viale di una città: la strada era cosparsa di massi e rocce, la magia residua di uno scontro ancora percepibile nell’aria, sui lati, case, tetti crollati e muri bruciati. Quanto recente deve essere questa? Si chiese Lelahel e si augurò di non dover trovare nessun morto cui dare una sepoltura, non con Verity al suo fianco.

Il viale terminava contro un’alta parete rocciosa, così liscia da non poter essere scalata in alcun modo. Lelahel poggiò una mano contro la pietra e pronunciò alcune parole in una strana lingua, ripentendole più volte. Spuntarono quattro gradini proprio di fronte a loro. Lelahel salì direttamente sul secondo e poi sul terzo, allo stesso ritmo in cui Verity era salita sul primo e poi sul successivo. Man mano che salivano i gradini scomparivano dal fondo e riapparivano davanti a loro fino a che non arrivarono su una piattaforma altissima, quasi completamente irriconoscibile dal fondo, che dava accesso a un loggiato scavato nella pietra, particolarmente profondo.

Ogni oggetto era scolpito nei minimi dettagli come una scultura di Michelangelo o Bernini: linee morbide, che davano l’idea della vita e del movimento della roccia. Molte statue e busti emergevano dalle pareti con un’espressione ora serena, ora malinconica, ma mai davvero triste, simile ai volti dei quadri di Botticelli. Emanavano calma e rassegnazione da ogni loro forma, immobili ed eterne. Anche la mobilia era stata ricavata dalle pareti e dal pavimento, come piante, spuntavano un tavolo e delle sedie. Primo fra tutti spiccava però il divano, che sembrava nascere dalla roccia e si sviluppava in un vortice di onde e increspature sui braccioli, mentre quelli che avrebbero dovuto essere rigidi cuscini di pietra erano veri, morbidi e comodi. Le stoffe sembravano le stesse che aveva visto nella città di Nephilim ed erano ricamate con figure nere, simili a quelle dipinte sui vasi dell’antica Grecia. Proprio su quel divano stavano seduti due angeli dall’aria stanca e annoiata. Avevano lo sguardo perso nel vuoto, le mani di uno raccolte in grembo e quelle dell’altro abbandonate sul bracciolo. Sembravano disinteressati a ogni cosa potesse accadere intorno a loro. O forse non accadeva mai nulla di interessante in quel luogo, pensò Verity. Uno di loro però, appena le vide, si alzò e tese la mano a Lelahel, pressando poi i palmi tra loro in quello che sembrava un “cinque” lento, angelico, avrebbe detto Verity, se non avesse perfettamente saputo che quelli che aveva davanti era angeli in tutto e per tutto. La mano di Lelahel era abbronzata, molto più scura rispetto a quella pallida dell’angelo che aveva la pelle bianca come la neve e gli occhi rosso porpora. I capelli erano biondi alla radice, ma si scaldavano in un rosso carota man mano che ci si avvicinava alle punte: li teneva racchiusi in una treccia lunga e voluminosa, dov’erano incastonati piccoli smeraldi. Era molto bello, e alto, e magro. Dakota si sarebbe subito attaccata a lui, magari circondandosi le spalle con la toga romana color avorio. Dietro le sue spalle si vedevano le ali, imponenti anche se chiuse: un verde scuro brillante, screziato da pennellate di una tonalità più chiara. Donavano un’aura di forza e impetuosità ad un angelo che dava l’impressione di possedere un’immensa calma e saggezza. Separatosi da Lelahel si voltò verso di lei, baciandola su entrambe le guance, pungendola con la barba rossiccia, ispida. Le sorrise e si inchinò con estrema grazia. L’altro angelo si alzò, cercando il primo con lo sguardo per ottenere risposte, mentre Verity rimase immobile, incapace di muovere un qualsiasi muscolo.

‹‹Non preoccuparti Hesediel, è lei.››

L’angelo la osservò perplesso, scrutandola da sotto la frangia liscia e nera con gli occhi azzurri: la stava esaminando, passando da un particolare all’altro senza mai soffermarsi veramente. Verity espirò, muovendo le dita e congiungendo le mani, spostando il peso da un piede all’altro e provando a ricambiare lo sguardo che l’analizzava con la stessa intensità. Anche quell’angelo era bello, di una bellezza magnetica. Alcune ciocche bianche erano tenute ferme da mollette orizzontali ricoperte da pietre viola, forse ametiste, mentre il caschetto di capelli neri si fermava poco prima delle spalle. Indossava solo una lunga gonna bianca, che ricordò a Verity quelle che aveva visto nel libro di storia, nel capitolo relativo al popolo egizio; le braccia erano tatuate con geroglifici neri, verde e oro che si susseguivano in cerchi. Anche lui teneva le ali chiuse, eppure trasmettevano lo stesso la sensazione di uno smisurato potere. Queste però erano solamente bianche, come quelle che chiunque assocerebbe all’immagine di un angelo.

Verity era senza parole nel vedere in entrambi così tanti riferimenti a popolazioni tanto antiche e rimase a fissarli basita anche dopo che Hesediel ebbe finito la sua analisi. Fu sul punto di chiedere qualcosa ma tacque, chiudendo la bocca.

‹‹Credo che si stia chiedendo il perché di quelle righe lunghe sulle palpebre, Hesediel. Cosa che tra l’altro continuo a chiedermi anche io.››

Verity aprì ancora di più gli occhi, se possibile, perché era esattamente una delle domande che aveva avuto intenzione di porre.

‹‹Sono nato dalla prima piena del fiume Nilo, nell’attuale Egitto. Ho vissuto con il popolo egizio fino a che non sono diventato un peso per la loro cultura, poi mi sono fatto da parte. Non ho voluto, però, dimenticarmi chi sono stato e ho deciso di conservare su di me ciò che mi hanno insegnato.››

Verity arrossì, ma riuscì a ringraziarlo con un filo di voce, sentendosi un po’ meno imbarazzata. L’inchino del primo angelo l’aveva davvero messa in soggezione, ma sentirli parlare, e vedere che sembravano scherzare tra loro, l’aveva leggermente rilassata.

‹‹Verity, loro sono Raziel ed Hesediel. Sono due dei tre arcangeli che si sono schierati con gli angeli caduti.››

Raziel la invitò a sedersi sui cuscini al suo posto con un cenno della mano mentre Hesediel chiedeva a Lelahel se poteva lasciarli soli. Verity li guardò spaventata, ma Raziel fu lesto a tranquillizzarla: ‹‹Lelahel tornerà presto, non appena avremo finito di parlare. Siamo felici che tu sia qui e vorremmo conoscerti. Ci sono così tante cose che non sai su questo mondo e scommetto che nemmeno te le hanno spiegate.››

Gli occhi della ragazza si illuminarono per la curiosità e si accomodò meglio sui cuscini, pronta a ricevere delle vere informazioni. La paura di essere abbandonata scomparve in un decimo di secondo, così com’era venuta.

‹‹Allora, cosa sai degli angeli?››

‹‹Nulla. Ho letto tantissimo sulla Terra, ma non ritrovo quasi nulla di ciò che ho studiato…››

‹‹Gli umani hanno un modo strano di vedere gli angeli… In realtà hanno un modo strano di intendere tutto il creato, ma non importa. Andiamo con ordine. Ognuno di noi ha un nome particolare, che indica l’essenza dell’anima dell’angelo, il dono accordatogli da Dio. Indica una caratteristica specifica del carattere, ma anche qualcosa che accadrà in futuro o che è accaduto nel passato, a seconda del tempo in cui consideri il nome››.

‹‹Cosa significano i vostri nomi? E quelli degli altri? E perché avete supportato Lucifero nella guerra? Siete stati solo voi tre? E il terzo dov’è?››

‹‹Calma, bambina, calma. Una domanda alla volta, altrimenti me le dimenticherò per strada. Noi siamo arcangeli e ognuno di noi rappresenta un potere enorme che cambia a seconda della gerarchia di appartenenza. La gerarchia rappresenta la nostra migliore caratteristica che in alcuni casi si è rivelata il difetto peggiore. Gli angeli custodi sono divisi e protetti dai vari arcangeli, ma hanno un potere magico minore.››

Raziel apparteneva al Coro dei Cherubini, secondo nella gerarchia angelica, Potenza dell’Amore e del Sapere. Era uno studioso, un filosofo e un filantropo. Era nato in Grecia, prima dell’avvento delle polis e delle grandi guerre tra Atene e Sparta. Aveva sfruttato al meglio il tempo concessogli nella sua patria, trasferendosi dalle montagne alla città per conoscere Talete, Socrate, Aristotele e Platone. Aveva studiato con loro, ascoltato e compreso tutte le loro magnifiche idee, sia che fossero in accordo sia in contrasto, senza mai interferire nel loro pensiero. Aveva vissuto poi a Roma, vedendo di persona le grandi personalità politiche di Cesare e Ottaviano, e aveva letto per primo i versi ardenti di Virgilio, ascoltato i discorsi di Cicerone, commentato lo scorrere inesorabile del tempo insieme a Seneca pur non essendone toccato. La caduta di Roma e del suo immenso impero l’avevano obbligato tornare definitivamente in Paradiso, dove con gli anni aveva stretto legami forti con tutti gli abitanti, Michele in particolare. Tornando a casa perse però i contatti con gli arcangeli che amava di più e si ritrovò costretto a scendere nuovamente. Ritrovò Hesediel non molto tempo dopo, presso la corte di Lorenzo de Medici, travestito per non essere riconosciuto. La prosperità e la ricchezza di quel luogo avevano attirato entrambi ed erano stati felici di ricongiungersi, anche perché in poco tempo erano riusciti a trovare un altro arcangelo che aveva vissuto per secoli mimetizzato tra le statue di marmo candido delle chiese fiorentine. Poi, tempo dopo, la caduta.

Quell’ultimo arcangelo era lo stesso che stava osservando Verity dal momento in cui era entrata, ben attento a non far vedere il minimo movimento. Molte volte Metatron aveva pensato che essere nato con l’aspetto di una statua fosse alquanto scomodo, ma nel corso degli anni si era dovuto ricredere, anche grazie all’abilità di mascherare le sue sembianze: così era molto più semplice ascoltare o vedere qualsiasi tipo di conversazione, soprattutto quelle che si svolgevano all’interno dell’Inferno, venendo facilmente a conoscenza di chi nasceva. Metatron aveva infatti il compito, come arcangelo del Paradiso, di dare il nome agli angeli custodi. Prima della caduta aveva nominato Lelahel con l’essenza della luce per la sua capacità di vedere sempre la luce del bene in tutte le persone che la circondavano. Luce che non aveva mai abbandonato, anche se aveva perso la vista, e che anzi era cresciuta di giorno in giorno. Quando erano ritornati in Cielo per il tradimento dei Nephilim, Lelahel aveva portato da lui un giovanissimo angelo che aveva chiamato Hariel. La ragazza non era nata guardiana, Michele aveva indotto lo sviluppo di quella particolare accezione, ma l’essenza almeno era quella giusta.

‹‹Abbiamo combattuto per Lucifero perché ci sembrava la scelta giusta, ma ormai chi può più dire cosa sia veramente accaduto in quei giorni… Nessun angelo o arcangelo dell’Inferno ha più visto qualcuno proveniente dal Paradiso, a parte Lelahel, e abbiamo qualche notizia in più solo grazie alle sporadiche visite di Lucifero dall’anziana Mary…››

‹‹Lucifero esce dall’Inferno Ma non è pericoloso››

‹‹Potrebbe essere qualunque cosa, ma non pericoloso. Prima o poi lo incontrerai anche tu, come presto o tardi incontrerai l’assemblea degli arcangeli al completo. Il problema è che nessuno di noi può davvero raccontarti cosa successe nella guerra. Solo Lucifero può farlo, almeno credo… È l’angelo che ha sofferto più di tutti, quello che ha perso di più.››

Verity non era per niente convinta. Anzi, era più che certa che la colpa delle disgrazie che aveva passato Raziel fosse interamente di Lucifero, che li aveva coinvolti in una sua battaglia personale contro il bene e la giustizia e… E più si concentrava su questi pensieri, più nella sua mente vedeva il Lucifero sconfitto del suo sogno, troppo addolorato per essere realmente malvagio, troppo afflitto per essere davvero senza scrupoli. Nello spesso tomo delle sue certezze le frasi stavano sbiadendo, le pagine si staccavano e tutto quello che rimaneva erano fogli intonsi da coprire di inchiostro. La spaventavano. Senza quel castello di certezze si sentiva scoperta, vulnerabile, senza mezzi per capire di chi fidarsi o meno. Certo, Raziel sembrava sincero con la sua voce calda e pacata, e spontaneamente gli avrebbe creduto, ma come poteva davvero affidarsi alle sue parole quando lo aveva incontrato da non più di una mezz’ora e non viveva in Cielo da più di due giorni?

‹‹Non ti ha convinta nemmeno un po’, vero? Lo vedo riflesso nei tuoi occhi. Aspetta però a giudicarlo, attendi di conoscerlo e, per favore, fidati di noi. Te lo chiedo come favore a titolo personale.››

Verity sbiancò di colpo: non aveva visto che la statua si era staccata dal muro e aveva camminato fino ai suoi piedi. Quella statua pallida le aveva appena parlato. Una statua, marmo freddo, si era appena comportata come se fosse stata viva.

‹‹Metatron! Potevi aspettare che ti nominassimo almeno. Ora è spaventata a morte.››

L’angelo di pietra si inginocchiò, prendendole la mano calda con la sua, gelida.

‹‹Verity, piccola giovane Verity, non dirmi che ti ho davvero spaventato: hai avuto pietà per tutto quello che hai visto, perché non averne un po’ anche per me?››

Verity fissò Metatron negli occhi. Il suo tocco gelido infondeva stranamente calore, un tepore tenue che si diffondeva nel corpo. Lo sentiva sulla lingua, aveva un sapore dolce, ma anche nelle orecchie come una lenta ninnananna e nel naso, come un odore di fiori bianchi. La testa cominciò a girarle, un cerchio alla volta.

‹‹Metatron, cosa…››

‹‹Michele sta venendo qui, Hesediel, ma Lelahel lo sta trattenendo. Non voglio che la conosca prima di Lucifero.››

‹‹Michele non è una minaccia e, se lo fosse, sarebbe la minore!››

‹‹Appunto per questo, Raziel. So che Michele non è la minaccia più grave, ma se vogliamo che funzioni, non possiamo permettere che la incontri. È troppo influenzabile.››

Raziel annuì gravemente e prese la ragazza, ormai svenuta, in braccio, portandola in un'altra parte del loggiato mentre i due arcangeli rimasti preparavano l’incantesimo.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Dopo aver lasciato il loggiato Lelahel era tornata indietro per la strada dell’andata, sorridendo tra sé e sé. Verity era completamente al sicuro insieme ai tre arcangeli e lei poteva prendersi il proprio tempo per guardare con calma la ricostruzione della ragazza. Le porte distrutte si erano completamente riformate: il legno era vivo, i cardini d’argento lisci e i pomelli d’oro erano gelidi al tatto, ma riusciva a vedere il loro brillio nell’oscurità. L’arco che conteneva il portone era tornato liscio e scolpito, integro in ogni tratto di nuovo. Rimaneva spaventoso, con quelle facce contorte in smorfie malvagie, ma era la scultura dell’Inferno. Non poteva essere cambiata. La strada era di nuovo lastricata uniformemente e anche lei poteva camminare senza prestare attenzione. Si soffermò di fronte a un dipinto: non lo aveva mai visto dal vivo, ma Raziel lo aveva descritto nei minimi particolari. Aveva deciso di usarlo per decorare le strade della città, ma pochi dannati vi avevano prestato attenzione e meno ancora lo avevano apprezzato. I rimanenti però non avevano potuto fare altro che ammirarlo, estasiati dalle capacità degli uomini. A causa delle battaglie molti pezzi erano stati perduti e in altri i colori si erano schiariti, ma nel complesso rimaneva ancora abbastanza ben conservato. A sinistra vi era un uomo, nudo e muscoloso, disteso su un lembo di terra verde, che tendeva il braccio e quasi sfiorava con l’indice quello di un’altra figura maschile, muscolosa anch’essa ma vecchia e con la barba grigia. Questa indossava una tunica chiara fino alle ginocchia e dietro di essa un gruppo di bambini paffutelli teneva un grande mantello color porpora. Raziel l’aveva chiamata “La creazione di Adamo”.

‹‹Quale artista l’ha dipinta? Boroti? Marotti?››

Sussultò, ma riprese in fretta il controllo di sé, rispondendo all’angelo: ‹‹Buonarroti, Michelangelo Buonarroti, Michele.››

Si voltò per guardarlo in faccia. Come ogni volta entrambi trattennero il fiato, lui per la visione, vera, degli occhi ciechi di lei; lei per la visione, magica, della bellezza disarmante di lui. Nessuno avrebbe mai potuto credere che un viso tanto bello e sensuale e delle mani così leggiadre potessero trasformarsi in un combattente spietato se necessario. Si concesse il tempo di lasciare che la magia formasse nella sua mente un’immagine precisa e se la godette profondamente. Aveva i capelli bianchi e corti, con alcune ciocche che sfumavano nell’azzurro, ed erano costellati da cristalli di ghiaccio che scricchiolavano ogni volta che li toccava con le mani. Aveva la pelle pallida ma morbida e liscia come seta, mentre le guance erano arrossate, come se avesse appena finito di correre. Gli occhi, ancora fissi sul dipinto, erano color pervinca, con pagliuzze blu vicino alla pupilla. Quando si arrabbiava diventavano del colore del mare in tempesta, grigio, violetto e azzurro mescolati insieme caoticamente. Non riusciva a smettere di guardarli quando assumevano quella tonalità. Si ricordava ancora quando, da giovane, prima che tutto precipitasse, prima ancora di aver mai visto Lucifero, gli tirava la tunica gallica color ocra per convincerlo a giocare insieme a lei o a insegnarle qualche semplice magia per stupire gli altri angeli. Dopo la caduta invece non avevano più parlato così spontaneamente: lei aveva appoggiato Lucifero e Michele si era sentito tradito, abbandonato da una delle persone di cui si fidava maggiormente. Negli ultimi secoli si erano riavvicinati, ma il loro rapporto era ancora teso per le ragioni mai spiegate e i chiarimenti mai fatti.

‹‹Michele, cosa fai qui? Non vieni mai nell’Inferno.››

‹‹Camminavo vicino al portale dei giardini di Eteria e stavo per andarmene, ma ho sentito la sua magia. Dov’è lei?››

‹‹Lei ha un nome›› rispose stizzita la guardiana.

‹‹Dimmi dove si trova e basta, Lelahel. Sento che è qui, ma non riesco a comprenderla bene…››

‹‹Ci credo, ha un potere molto più grande del tuo!›› disse sorridendo sprezzante.

‹‹Lelahel, rispondi, non te lo chiederò una seconda volta.››

‹‹Dammi un motivo valido. Se hai solo voglia di conoscerla puoi aspettare che sia lei a venire da te.››

Michele la spinse contro il muro, la mano che le stringeva il collo.

Le ali, schiacciate tra il suo corpo e la parete, le dolevano e si muovevano freneticamente, come quelle di un colibrì, cercando di liberarsi, ma Michele era, in quel momento, molto più forte di lei.

La osservò, sicuro che entro pochi secondi avrebbe confessato senza esitazioni, come le altre volte in cui aveva agito così violentemente con qualcuno che non fosse lei. Era così debole Lelahel in confronto a lui, così poco potente per essere una guardiana che riusciva a farsi obbedire con facilità quasi sempre. Eppure ogni volta, dopo averlo soddisfatto, lo guardava con una dolcezza e una comprensione tali che gli sorgeva il dubbio che fosse sempre e solo lei a decidere di rispondere alle sue domande. La lasciò, fissandosi poi la mano e chiedendosi perché dovesse essere violento. Non desiderava essere violento.

La ragazza rispose con un filo di voce: ‹‹È con Raziel. Ma non so cosa stiano facendo quindi torna a casa Michele e… Smettila, smettila con tutto.››

‹‹Grazie, mi hai detto esattamente tutto quello che volevo sapere. Me ne vado, come desideri tu.››

Le carezzò appena la guancia e poi spiccò il volo, raggiungendo in pochi minuti il loggiato ed entrando senza pronunciare le parole magiche. Aveva il diritto di entrare come e quando volesse, uno dei tanti privilegi degli arcangeli.

Le ali di pietra di Metatron spuntavano da una porta, ma il corpo era completamente all’interno di una stanza: forse stava facendo un incantesimo, forse stava solo lì, fermo immobile, e non sarebbe stata la prima volta. Lo guardò per un secondo, ma non percepì nessun effluvio magico provenire da lui e così passò oltre. Scandagliò l’intero loggiato e non sentì nulla. Non c’era più nessuna traccia della magia se non una lieve presenza, come se la ragazza si fosse fermata per un po’ e poi fosse ripartita. Rivolse uno sguardo a Raziel, certo che ne avrebbe compreso l’implicita domanda e vi avrebbe dato risposta, ma gli occhi dell’arcangelo erano indecifrabili. Erano fissi sulla sua figura eppure sembravano guardare oltre.

Raziel fece un passo in avanti e si inchinò profondamente, poggiando il ginocchio a terra. Quando si alzò, Michele era visibilmente a disagio: lo guardava sorpreso, spaesato e aveva, inconsciamente, fatto un passo indietro e alzato un braccio. Raziel sorrise e si trattenne dal ridere apertamente. Il grande Michele, che l’aveva rinchiuso in quel luogo tetro, si innervosiva e si imbarazzava nel vederlo rendergli onore. Buffo.

‹‹Michele, per cosa ti imbarazzi? Tutti gli angeli si inchinano quando passi davanti a loro, perché io non dovrei?››

‹‹Non ho mai detto che questa storia degli inchini mi piacesse, men che meno fatta da un arcangelo del tuo grado, Raziel.››

Il rosso rise di nuovo, stavolta davvero. Erano anni che non vedeva Michele e dovevano disquisire sulle tradizioni come primo argomento. Non era minimamente cambiato: sempre orgoglioso, gli faceva domande silenziose con lo sguardo e lui fingeva, con una certa abilità, di non averle comprese. Sospirò e si convinse di non potergli assolutamente dire cosa stesse succedendo, ancora una volta.

‹‹Non è qui, Michele. Torna a casa. Sono certo che verrà da voi non appena si sentirà pronta a conoscervi… È solo una ragazzina spaventata, concedile il tempo di ambientarsi.››

Michele annuì, credendo per metà alle parole di Raziel. Era certo che non fosse lì, su quello non gli stava mentendo, ma stava omettendo una qualche verità che non vedeva. Fece una smorfia di disappunto mentre cercava di afferrare cosa non avesse compreso, arrendendosi dopo poco. Pensò di andarsene, ma un desiderio impellente lo fece rimanere.

‹‹Raziel… Mi dispiace per le tue ali. Ho saputo che non puoi più volare a causa della mia magia.››

‹‹Una guerra non può essere vinta senza distruggere adeguatamente il nemico. Io e Metatron abbiamo portato via gli Ingranaggi prima che contagiassero altri e...››

‹‹Faceste bene. Dopo il discorso sconclusionato di Lucifero e il suo abbandono del Paradiso avevamo completamente perso l’equilibrio. Combattere quella guerra è stato solo il nostro vano tentativo di aggiustare qualcosa che non poteva essere aggiustato, senza capire che in realtà stavamo distruggendo quel poco che avevamo… Io…››

‹‹Sai, sulla Terra alcuni umani, quando rompono cose come vasi o ciotole, li riattaccano e riempiono la crepa con dell’oro, per valorizzarla: penso rappresenti i cambiamenti della vita e come essa possa essere sempre più bella man mano che si modifica. Certo, la guerra è stata dolorosa, ma gli angeli hanno potuto vendicarsi. Se non lo aveste permesso, avrebbero rimediato da soli con conseguenze ancora peggiori… Credo inoltre che tu sia l’unico ad essere pentito per essa, e immagino sia per Lelahel. Sei troppo orgoglioso per chiederle scusa per il trattamento che le hai riservato.››

‹‹Sono stato crudele e lei non hai mai smesso di mostrarmi gentilezza e pazienza, anche dopo secoli di maltrattamenti continua a comportarsi nello stesso modo.››

‹‹Eri sotto l’effetto di Benihime all’epoca e sei un arcangelo: quell’influenza ci ha messo secoli per scomparire del tutto, e forse ancora non è del tutto svanita, e Lelahel era con te quando tornasti dalla guerra, non avresti potuto...››

‹‹L’ho privata della vista perché mi sono sentito tradito quando ha dato ragione a Lucifero, mentre io desideravo da lei lo stesso amore che quel dannato ha cercato e cerca tutt’ora!››

‹‹E lei continua a vederti come un angelo meraviglioso nonostante tutto.››

‹‹Non dovrebbe››.

Se Scar era uno degli angeli che avevano sofferto di più per la ribellione di Lucifero, Michele era certamente quello non ancora guarito dalle cicatrici che la guerra gli aveva lasciato. Dopo anni di conoscenza, dopo aver visto Lelahel crescere, trasformarsi in una giovane donna e imparare a usare la magia, si era affezionato a lei in un modo particolare, che non riusciva a comprendere né a spiegarsi. Si sentiva irrimediabilmente attratto da lei, dallo sguardo vitreo, dalle ali color del tramonto e dai modi sempre gentili e comprensivi che gli riservava. Non si era reso bene conto di cosa provasse fino a quando non aveva sentito Lucifero parlare con Raziel dell’amore per la prima volta e, impaurito, aveva chiuso il suo cuore a quel sentimento, ignorandolo. Aveva fatto di tutto per affievolire l’affetto della ragazza, che cresceva di giorno in giorno, ma nulla era riuscito a cancellare quello che provava lui stesso, nemmeno la delusione cocente dell’attimo eterno in cui si era schierata a favore della prima luce. Aveva creduto che quell’angelo, l’unico che amasse, gli avesse voltato le spalle e accecato dalla rabbia, resa doppia dalla decisione condivisa da Raziel, aveva combattuto nella guerra. Se non si fosse sentito terribilmente coinvolto, avrebbe fatto compagnia a Gabriele, lontano dal campo di battaglia. Solo finita la guerra si era reso conto che Lelahel non aveva combattuto e solo una volta tornato al palazzo aveva capito che lo aveva atteso pazientemente seduta sul suo trono. Poi… Poi era accaduto quello che non sarebbe dovuto accadere.

Raziel sorrise tristemente vedendo con quanta convinzione Michele si ostinasse a volersi incolpare, come se fosse stata una sua lucida decisione e non, come realmente era stato, una scelta dettata da Benihime. Probabilmente non riteneva possibile che l’Ingranaggio potesse avere tanto effetto sulla sua mente, in fondo gli arcangeli erano esseri materiali, molto più lontani dai sentimenti rispetto agli angeli comuni. Avrebbe dovuto resistere più facilmente al richiamo delle emozioni. Eppure, pensava Raziel, era proprio per questo che l’effetto era stato così devastante. Un animo non avvezzo al potere dei sentimenti difficilmente è in grado di tenerli sotto controllo. Chi non conosce il male, chi non ha mai dovuto affrontarlo, viene manipolato più facilmente e non riesce a liberarsi, a riprendere il controllo di sé abbastanza in fretta da evitare che questo prenda decisioni prima della sua coscienza.

Michele si passò una mano sugli occhi, bisbigliando scuse e se ne andò, salutando appena Raziel, troncando quella conversazione.

Metatron liberò il corpo di Verity dall’incantesimo cui l’aveva costretta per eliminare le tracce della magia e, assicuratosi che la ragazza fosse tranquilla tra le braccia di Hesediel, sfiorò appena la mano di Raziel che fissava il puntino di Michele volare via.

‹‹Pensi che vorresti volare?››

‹‹Un po’…››

Metatron, capendo che non avrebbe ottenuto di più dall’amico, tornò da Verity e aiutò Hesediel a farla distendere sul divano, lasciandola completamente alle sue cure. Questo le poggiò la testa sulle sue gambe e le carezzò lentamente la fronte, applicando una minima emanazione di magia cosicché l’effetto dell’incantesimo svanisse prima.

L’arcangelo di pietra non si era sbagliato, Raziel stava pensando davvero alle sue ali che non potevano più volare, che non potevano fare più nulla se non stare attaccate alla sua schiena, ma non perché sentisse la mancanza dell’atto in sé. Ricordava con nostalgia e malinconia la sensazione liberatoria del vento sul viso, il dondolio delle correnti tiepide dell’aria del Sud, ma non era quello il problema. Il punto era che, se avesse ancora avuto delle ali funzionanti, non avrebbe lasciato che Michele andasse via da solo. Lo avrebbe seguito, lo avrebbe obbligato a sfogare tutti i demoni che lo consumavano, a urlare o piangere se ne avesse avuto bisogno. Avrebbe fatto quello che nessuno in Paradiso aveva pensato. Prima della caduta erano stati amici, avrebbero potuto esserlo anche dopo se solo lo avesse voluto. Raziel aveva sofferto a lungo per quella e per tutte le separazioni che l’esilio l’aveva obbligato a sopportare in silenzio. Aveva tenuto tutti i suoi sentimenti per sé, anche se pensava che Metatron ne avesse intravisti molti frammenti.

Si sedette sul bracciolo del divano e fissò il volto addormentato della ragazza. Poteva davvero essere lei? Assomigliava molto alla ragazza di cui Lucifero gli aveva parlato, la cui bellezza era stata lodata e descritta come l’unica luce negli anfratti oscuri della sua anima, ma non aveva il suo sguardo. Era imbarazzata, spaventata da tutto e da tutti, ignorante del passato e del futuro; era influenzabile, plasmabile come creta nelle loro mani. Avrebbe potuto dirle che il suo destino era distruggere il Paradiso e forse ci avrebbe addirittura creduto. Lo sguardo che aveva descritto Lucifero invece… Era quello di una donna di sensuale coraggio e infinta dolcezza, di un’anima che mai nessuno avrebbe potuto sottomettere. Dov’era l’anima che aveva descritto quell’angelo così sfortunato? Forse, pensò, dovevano solo aspettare che si abituasse a quella nuova vita.

Forse doveva solo incontrare Lucifero.

 

Quando si svegliò, una luce innaturale si diffondeva nel loggiato, come se una finta luna pallida si divertisse a rendere inquietante la distesa di terra arsa dell’Inferno. Si stropicciò gli occhi e si guardò intorno, sorridendo intontita a Raziel, che la osservava malinconico. Hesediel la aiutò ad alzarsi e le disse che doveva andare via. Non potevano trattenerla ancora, né proteggerla. Verity corrugò la fronte, dubbiosa, pensando che avrebbero dovuto dirle qualcosa di importante senza però ricordare cosa in particolare. Metatron le posò una mano sul braccio e la ragazza lo allontanò, spaventata che potesse farla addormentare di nuovo.

‹‹Scusami Verity, non ho intenzione di farti svenire di nuovo e, se possibile, vorrei che non avvenisse più. E so che pensi che abbiamo ancora informazioni importanti da darti, ma ti assicuro che conosci già abbastanza. Ho fatto sì che tu ricordi cosa è stato detto mentre dormivi: presto ti tornerà alla mente. Dopo farai ciò che ritieni più opportuno.››

‹‹Lelahel è fuori?››

‹‹No, sarà Hesediel ad accompagnarti fino al portale per Eteria.››

Si salutarono in modo sbrigativo, come se gli arcangeli avessero fretta di mandarla via, ma nell’attimo prima di uscire Metatron la chiamò ancora una volta: ‹‹A presto, Caliel!››

 

Hesediel la prese per un polso e la trascinò lontano, senza darle il tempo di rispondere all’angelo e camminando velocemente. 

Verity avrebbe preferito essere sola, la differenza sarebbe stata minima. Hesediel proseguiva lesto, senza mai fermarsi, senza lasciarla riprendere fiato e, soprattutto, senza parlare. Dopo un po’ l’aveva anche liberata dalla stretta, ma non le aveva chiesto se le avesse fatto male.

Era rimasto zitto, non l’aveva guardata e aveva sempre tenuto lo sguardo fisso davanti a sé in una marcia serrata. Ogni tanto incontravano qualche caduto e questo, non appena vedeva l’arcangelo, scappava via nascondendosi dietro le rocce, tra le ombre. La ragazza per un po’ sopportò il silenzio, seguendolo senza fiatare, ma infine trovò quella convivenza sconfortante: una parola o due non le avrebbero dato fastidio. Eppure non era tutto completamente silenzioso, almeno non nella sua testa. Sentiva come un doloroso mal di testa crescerle dentro, pulsando e appannandole la vista. C’erano momenti in cui non vedeva proprio e tutto si tingeva di nero. Le pareva che qualcuno stesse percuotendo il suo cranio come un tamburo e man mano che avanzava, il dolore era più intenso. Era simile al pulsare che aveva sentito con Lelahel, solo amplificato e più insistente. Camminò dietro a Hesediel arrancando e sbuffando fin quasi all’ingresso del portale: lì si accasciò a terra stremata, tenendo la testa tra le mani e contorcendosi come in preda agli spasmi. Quel suono, quel battito, risuonava violento nella mente e il dolore era così dilaniante che avrebbe preferito non averla più, quella testa sofferente. La vista la stava abbandonando. Lo spazio era distorto, sproporzionato, mentre i contorni si facevano vaghi e indefiniti fino a che non scomparvero completamente. Per un po’ tutto rimase buio poi, lentamente, si ricreò nella sua mente l’immagine del loggiato che aveva lasciato.

C’erano Raziel e un altro angelo che non conosceva e ad ogni pulsazione corrispondeva un movimento delle loro bocche, poi a parole singole e infine a intere frasi che riusciva ad ascoltare. Probabilmente stava osservando la scena con gli occhi di Metatron e si chiese come avesse fatto a osservare con così accurata attenzione quando doveva occuparsi di lei e del suo incantesimo. Eppure lo aveva fatto ed era incredibile notare come dietro a ogni sguardo si celassero migliaia di parole inespresse: la curiosità morbosa ma controllata con cui Michele era entrato nel loggiato e lo sconcerto nascosto nel vedere Raziel ignorarlo e subito dopo inginocchiarsi, perché mai avrebbe pensato che un arcangelo, che considerava un caro amico anche se non lo avrebbe ammesso per nulla al mondo, si sarebbe abbassato al di sotto della sua gerarchia anzi, aveva sperato che lo  abbracciasse e che gli parlasse come ad un fratello. I pensieri di Metatron e di Verity si fondevano, l’uno completando l’altro, alternandosi alle facce allegre ma grevi di Raziel, che sorrideva e ridacchiava tra sé per le reazioni di Michele e, contemporaneamente, si dispiaceva di non poter dire le verità che avrebbe voluto confessare per una qualche ragione che nemmeno Metatron aveva compreso perché non era quella che avevano concordato insieme, proteggere la guardiana.

Proteggere la guardiana? Intendevano lei? Sicuramente Hesediel doveva saperlo, ma visti i precedenti sarebbe sicuramente rimasto zitto… Forse allora Michele avrebbe potuto spiegarle qualcosa.

In fondo cercava me, no?

Concentrata sul flusso dei suoi pensieri aveva perso una parte della conversazione e tornò a guardare i ricordi. Michele si era scusato con Raziel per qualcosa inerente alla perdita delle ali e poi era scoppiato in una crisi, urlando di essere colpevole e di essere stato crudele, e l’altro lo aveva osservato sempre con quel sorrisetto che incominciava a trovare odioso. Cercò di smettere di guardare, ma la visione non se ne andava. Se provava a scacciarla dalla sua mente questa tornava più forte di prima, provocandole un insopportabile dolore. Vide ancora Michele spiccare il volo dal loggiato, allontanandosi con potenti colpi d’ala. Da lì il ricordo cominciò a sfumare e ritornò il buio con cui tutto era cominciato. Si risvegliò tra le braccia di Hesediel che la stringeva a sé e contemporaneamente si guardava intorno, analizzando ogni oscuro anfratto della roccia come in attesa di un nemico.

‹‹Hesediel… Perché non mi ricordo altro? Mi sembra di aver dormito così tanto.››

L’arcangelo la osservò perplesso: perché non gli chiedeva spiegazioni su quello che aveva appena visto, o sul nome con cui Metatron l’aveva salutata? Cosa c’era nel cervello di quella ragazza che non funzionasse nel modo giusto? Non sapeva nulla di lei o di quello che avrebbe dovuto essere, solo Lucifero e Raziel la conoscevano e anche su questo aveva dei dubbi, ma per essere la guardiana di Eteria era ben sciocca e tralasciava i dettagli importanti. Ma in fondo lui, che per anni aveva scambiato gli incontri tra Raziel e Lucifero per una semplice amicizia, come se nella loro immortale vita qualcosa potesse essere davvero semplice, poteva davvero permettersi di giudicare? Si era ritrovato immerso fino al collo nella guerra e si era schierato con loro solo perché si fidava ciecamente di Raziel e del suo giudizio. Non era migliore di lei alla fine. Non si era pentito della sua scelta, ma anche lui aveva tralasciato i dettagli davvero importanti.

‹‹Il ricordo è finito quando Metatron ha sciolto la magia. È servito tempo al tuo corpo per riprendersi ma non è accaduto nulla nel frattempo.››

Verity cercò di alzarsi, sfruttandolo come appoggio. Il dolore alla testa stava scemando velocemente, mentre il battito, pur affievolito, non smetteva di rimbombare nella sua mente. Si voltò. Davanti a lei c’era un enorme specchio di magia che nasceva dal centro in un susseguirsi di onde che si muovevano lentamente. Chiuse gli occhi, concentrandosi su gli altri sensi: respirando profondamente sentiva il profumo salino del mare e ascoltando lo sciabordio rotondo e lieve delle onde riempieva il silenzio dell’Inferno. Si avvicinò e sfiorò le increspature con le dita. Queste iniziarono a generarsi più velocemente fino a trasformarsi in una visione di più angeli contemporaneamente: Mary affacciata sulla fonte mentre osservava all’interno; Scar seduto sul ramo di una quercia che lanciava a terra ghiande prontamente raccolte dai tanti scoiattoli che lo fissavano; Hariel da qualche parte stava chiacchierando con degli angeli. In un’altra parte del bosco invece un angelo avanzava tra le radici, lento e guardingo, con le ali chiuse dietro la schiena. Hesediel, che guardava anch’egli nello specchio, cambiò espressione vedendo quell’angelo. Se prima era stato assente e distratto, adesso era molto attento, soprattutto perché la ragazza non dava nessun segno di riconoscerlo e se lo avesse incontrato senza avere la minima idea di chi fosse, sarebbe potuto essere un problema. Ma non era lui a doverle parlare di quell’angelo e quindi la incitò ad entrare nel portale. Si sarebbe ritrovata in uno dei tanti boschi di Eteria, da quel momento in poi avrebbe solo dovuto volare verso l’alto e proseguire verso l’unico spazio vuoto dell’intero regno. Lì si sarebbe ricongiunta all’anziana Mary. Anche lui, come Metatron, la salutò con il nome di Caliel e una volta che ebbe attraversato, ritornò verso il loggiato.

‹‹Non le hai parlato di Lucifero, arcangelo Hesediel. Eppure dovresti sapere che sta a Eteria per vederla, la aspetta da millenni…››

‹‹Yelahiah. Non ti basta mai quello che hai? Hai un regno dove nessun arcangelo possa controllarti, devi davvero cercare di corrompere altri, come me o lei?››

Yelahiah era sempre stato un pessimo angelo, litigioso e polemico, costantemente impegnato a pianificare guerre e battaglie. Non era completamente colpa sua, la sua essenza era l’arte militare, ma lui aveva portato all’esasperazione l’aspetto più violento del suo carattere, sembrando uno dei primi angeli a favore di Lucifero.

Solo perché pensava che fosse un guerra contro il Paradiso, ricordò Hesediel.

Quando poi, durante l'assemblea, aveva scoperto che Lucifero era stato mosso da un fine molto più alto della carneficina, era esploso in tutto il suo odio e aveva cercato l’angelo in ogni remoto angolo della Terra dopo la caduta. Fortunatamente non lo aveva trovato. Dopo il ritorno di tutti loro in cielo, aveva cercato di aizzare contro Lucifero i dannati dell’Inferno e in parte ci era riuscito: molti si sarebbero apertamente schierati con lui in caso di una nuova guerra. Per fortuna altri erano rimasti fedeli a Lucifero, anche se questo era praticamente scomparso dall’Inferno.

Yelahiah si passò una mano tra i capelli, tirando indietro i ribelli ciuffi biondo cenere e ridacchiò a bassa voce. Sembrò più il ringhio di un cane rabbioso. Con uno scatto si affiancò ad Hesediel, che non si spostò ma chiuse le ali davanti a sé, in uno scudo contro cui la spada di Yelahiah si spezzò, cadendo a pezzi.

‹‹Da quando usi armi tanto deboli?››

‹‹Da quando lo trovo un interessante passatempo.››

‹‹Lascia perdere e cerca di vivere in pace, Yelahiah››

‹‹Pace? Per chi? Lucifero ci ha trascinato in questa prigione e solo per amore di una stupida umana che ho personalmente ucciso. Arriverà il momento della resa dei conti, Hesediel, e vi consiglio di scegliere bene da che parte schierarvi, perché ti assicuro che ucciderò Lucifero con il potere degli Ingranaggi.››

‹‹Non avete modo di recuperarli. Tutte le vie di accesso alla Terra sono chiuse per noi.››

‹‹E secondo te come ho fatto a uccidere l’amore di Lucifero?››

Hesediel realizzò solo in quel momento, quando lo disse la seconda volta, che il dannato doveva aver trovato un modo per scendere tra i mortali.  Rimase fermo a fissarlo e questo colse l’occasione per volare via.

Hesediel pensava, rifletteva, frenetico, su come si potesse risolvere la spinosa questione dei portali senza interpellare gli arcangeli in Paradiso. Giunse alla conclusione che non c’era modo. Michele doveva recuperare entrambi gli Ingranaggi per prima cosa, e metterli al sicuro. Il problema era che Michele ne sarebbe rimasto influenzato, come durante la guerra, e si sarebbe aggiunta una nuova complicazione; forse Raziel… No, nessun arcangelo avrebbe mai potuto recuperare gli Ingranaggi senza essere influenzato, ma forse un angelo comune, uno che conviveva con le emozioni da molto tempo… Forse Lucifero ne sarebbe stato capace. Sì, decise che sarebbe stato sicuramente così. Tutta quella situazione era una conseguenza delle sue decisioni e vi avrebbe posto rimedio, volente o nolente. Spiccò il volo, dirigendosi verso il loggiato per informare Raziel.

 

 

Angolo dell’autrice:

Buongiorno a tutti! Una news importante: la prossima settimana non so se riuscirò ad aggiornare in quanto ho delle visite da fare, tuttavia cercherò di fare del mio meglio. Spero che il nuovo capitolo vi piaccia e che la storia continui ad interessarvi J.  Sfortunatamente è da un po’ che non ricevo recensioni. La cosa mi rattrista un po’, mi piacerebbe ricevere il parere dei lettori. In attesa di ricevere qualche parere da voi, vi saluto e vi ringrazio per aver letto J

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


 

Uscita dal portale, Verity si era ritrovata nella folta foresta che aveva intravisto poco prima. Controllò lo specchio dietro di sé. La vegetazione si stava naturalmente muovendo verso il centro, così velocemente che coprì l’intera superficie in pochi secondi. Il gorgoglio delle onde e l’odore del sale erano spariti, lasciando il posto al frinire dei grilli e al muschio umido cresciuto sui tronchi degli alberi.

Era sola. La testa le pulsava ancora un po’, ma era felice di trovarsi lì. L’Inferno era un regno doloroso. La disperazione emanata dalle rovine faceva paura e si insinuava nelle vene, scorrendo lenta e contaminando il sangue di una tristezza che arrivava al cuore e poi si diffondeva in tutto il corpo. Quella foresta era tutto il contrario. In quel polmone verde, fitto e intricato, dove la luce filtrava appena rendendola un poco lugubre, sentiva una pulsazione vitale che le ristorava le forze. Le ispirava fiducia e tranquillità, sicurezza. Luce e vita al posto della morte, un verde speranza a sostituire il rosso del sangue. Camminò un poco sul sentiero segnato di fronte a lei, calpestando un po’ del muschio sulle radici e godendo della sensazione di frescura. Cercò un punto dove le fronde degli alberi si snodassero, creando uno spazio abbastanza grande per poter spiccare il volo e raggiungere la fonte, come le aveva detto Hesediel. Aveva appena spiegato le ali quando uno scricchiolio la distrasse. Avrebbe dovuto ricominciare da capo a concentrarsi per volare, ma quel rumore leggero, appena percepibile, continuava a catturare la sua attenzione. Però non c’era nulla in movimento, nessun agitarsi dell’erba a segnalare l’arrivo di qualcuno. In realtà anche il frinire dei grilli sembrava scomparso e gli usignoli avevano smesso di cinguettare. Si girò più volte in tutte le direzioni, trovando sempre silenzio e immobilità. Riconsiderò l’idea della foresta come un luogo sicuro man mano che la paura di essere attaccata da qualcuno prendeva il sopravvento sulla razionalità, che sempre più debolmente le ricordava come nessun demone potesse uscire dall’Inferno né utilizzare il portale. Aveva così tanta paura che scordò completamente di poter volare via e tutto quello che le era stato raccontato solo poche ore prima e, passo dopo passo, si inoltrò nella foresta, allontanandosi dal cono luminoso. Si accorse del suo movimento solo quando la schiena e le ali cozzarono contro il tronco di un abete. Urlò, facendo scappare tutti gli uccelli appollaiati sugli alberi vicini in un frenetico sbattere d’ali.

Però vide qualcosa. All’inizio fu solo un ombra scura in avvicinamento, poi una figura sempre più delineata. Si fermò esattamente di fronte a lei.

Aveva un bel sorriso quell’angelo, bianco e luccicante come la neve e, se l’aggettivo poteva essere adattato, generoso. Dava l’impressione di essere una persona simpatica, disponibile, che avrebbe sicuramente provato ad aiutarla. Lo sguardo di Verity si abbassò sulla camicia che gli fasciava il petto ma scivolava morbida sulle maniche, stringendosi su polsi. In vita c’era una fascia nera che la teneva ferma cosicché la scollatura non si spostasse mai. I capelli, nerissimi, erano tanto lunghi da sfiorargli le mani e alcune ciocche erano intrecciate con perle rosse simili a preziosi rubini.

‹‹Ti ho spaventata vero, Caliel?››

Quella voce…

Aveva già sentito quella voce, ne era certa, anche se non riusciva a ricordare con precisione quando o a chi appartenesse. Cercò di forzare i ricordi della sua mente a farsi avanti, ma rinunciò al primo fallimento: non aveva la forza per pensare. Era ancora stanca e i tamburi avevano ripreso a battere, ritmici e veloci. Alzò il volto, guardando finalmente l’angelo negli occhi e tutto le fu chiaro.

Scar… Ma certo, il sogno! E continuo lo stesso a non ricordarmi il nome!

Rammentava perfettamente il viola misto al nero, così simile al colore di Scar eppure così diverso. E gli occhi di quell’angelo erano neri, come le ali e i capelli, e sfumature viola si confondevano e scomparivano. Quelli di Scar erano invertiti ma l’attrazione era la stessa: potevi solo guardarli, perderti all’interno e risvegliarti confuso, così affidabili e convincenti che avresti ascoltato e obbedito ad ogni ordine pronunciato, perdendo quasi il controllo del tuo corpo, ammaliato.

‹‹Cal… Verity, stai bene?››

‹‹Non ti avvicinare. S-Stammi lontano.››

Come aveva fatto un passo in avanti, ne fece uno indietro, calmo ma fissandola preoccupato. La ragazza aveva lo sguardo assente, ma questo non lo sorprendeva più di tanto. Molti angeli avevano assunto, in passato, quell’espressione vacua. Lei però stava sudando e non era sicuramente per il caldo. Gli chiedeva chi fosse e cosa volesse, intimandogli di rimanere lontano: probabilmente aveva nascosto una buona parte dei suoi ricordi attraversando il tunnel. Non importava. Averla trovata, averla vista era abbastanza. Stava attraversando la foresta per recarsi dall’anziana Mary e l’aveva vista di sfuggita muoversi tra i cespugli. Il cuore aveva perso un battito, il respiro si era fermato: anni passati a lasciarsi cullare dai ricordi, a vederla nella fonte, a sognarla e tutto era lì a portata di mano. A pochi passi da lui. Poteva sfiorarla e parlarle, poteva stare insieme a lei e conoscerla.

‹‹Noi ci siamo già visti. Non ricordi il sogno?››

Certo che lo ricordava. Ogni dettaglio, ogni particolare era impresso nella sua memoria eccetto che, in quel momento, il suo nome le sfuggiva. E più si ripeteva di non saperlo, più il battito dei tamburi aumentava, rimbombando nei timpani e stordendola. E poi quell’angelo che la fissava con quello sguardo preoccupato e le si rivolgeva con quel tono dolce… Non riusciva a mantenere la minima concentrazione.

L’angelo non capiva invece cosa le stesse succedendo. Verity si agitava e negli occhi smeraldo si mostravano lampi di dolore e sofferenza.

La ragazza si accucciò su sé stessa, portandosi le mani alla testa. Le pulsazioni che aveva sentito all’Inferno erano niente in confronto a quelle di quel momento. Le scorrevano lungo la colonna vertebrale, provocando scosse e tremori in tutto il corpo.

Solo quando vide le lacrime affacciarsi dalle ciglia l’angelo capì: il ricordo sepolto si stava facendo strada, da solo, attraverso gli strati della memoria e siccome era un momento della sua vita passata, questo era ancora più doloroso di un normale battito.

Le si avvicinò e la prese per le spalle, cullandola un poco per calmarla, e la prese in braccio. Camminò in fretta, scegliendo tutte le scorciatoie per arrivare il prima possibile alla sua casa, situata su un’imponente quercia. La depose sul letto di foglie e petali di fiori dove lui dormiva quando non andava a trovare l’anziana Mary. Anche la vecchia guardiana aveva sofferto per quel tormento, ma aveva, con il tempo, anche imparato a conoscerlo e controllarlo. Perché invece Raziel non aveva detto nulla alla ragazza Un dolore troppo forte avrebbe anche potuto ucciderla, come se non fosse già abbastanza in pericolo a causa degli agguati che tendevano i seguaci di Yelahiah.

Si sedette al suo fianco e la accarezzò lentamente dalla fronte lungo la guancia. La tirò un poco su e appoggiò la guancia di lei sulla sua spalla, sfiorando piano le ali e la schiena affinché non si svegliasse. Chiuse gli occhi e cercò di ampliare i suoi poteri verso di lei per diminuire il dolore.

Dannazione!

Non ci riusciva. Poteva distruggere qualunque cosa con il suo potere, ma non era in grado di governarne la luce. Dalla fine della guerra quella era stata la sua punizione. La luce nascosta nel suo animo non brillava più come quando era giovane anzi, era sempre più difficile trovarla dentro di sé, complici la maledizione della solitudine e il desiderio malsano di isolarsi da chiunque volesse aiutarlo, la tristezza di aver perso il suo adorato fratellino forse per sempre. Cercò di sforzarsi, concentrandosi il più possibile, scavando con insistenza nelle pieghe oscure della sua anima alla ricerca di una minima fiammella che potesse aiutarlo. Trovò i ricordi delle visioni di Verity. Solitamente li conservava gelosamente, tirandoli fuori appena il necessario. Nemmeno Raziel, cui aveva raccontato ogni memoria sin dall’inizio, li aveva mai visti. Pensò di poterli usare. Il calore che emanavano sarebbe stato abbastanza forte da ridurre i tremiti della ragazza. Quando la sentì rilassarsi tra le sue braccia, fu certo di averne fatto buon uso e la strinse, beandosi della morbidezza della sua pelle.

Se Scar lo avesse visto in quel momento, gli avrebbe lanciato volentieri una maledizione, ma da molto tempo non si vedevano. La delusione che aveva provato a causa sua lo aveva obbligato a tagliarsi le ali da solo. Era riuscito a farsi odiare anche dal suo fratellino, come se la maggioranza degli angeli del Paradiso non fosse bastata. Non era più tornato a trovarlo dopo il confinamento nell’Inferno e l’unica volta che, per un caso del destino, si erano incontrati a Eteria, Scar lo aveva insultato, intimandogli di andare via prima che lo uccidesse con le sue stesse mani. Dopo era volato via, senza ali. Se quelle parole non lo avessero distrutto, avrebbe trovato la scena quasi comica.

Guardò Verity. Aveva quasi smesso di tremare e il respiro si stava regolarizzando. Si era addormentata tra le sue braccia. Le sue mani piccole stringevano la camicia e il fiato caldo gli solleticava il collo. La strinse a sé ancora una volta, poggiando poi la testa al tronco della quercia al centro della stanza.

Si lasciò andare al sonno, riscaldato dalla sensazione insolita di averla, fisicamente, vicino a lui.

 

Il cielo era incredibilmente azzurro. Poche volte lo aveva visto con quella tonalità così accesa, completamente privo delle sfumature delle nuvole che lo facevano impallidire. Quell’azzurro così deciso era un inno alla vita, all’idea che tutto possa trasformarsi in una versione migliore di sé stesso, anche dopo essere caduto nel baratro più profondo. Eppure, nonostante quella bellezza, si sentiva incompleta: la mancava la Terra, la presenza dirompente e sfacciata di Dakota, l’imbarazzo di suo padre che non sapeva mai come comportarsi con lei e allora fingeva freddezza quando in realtà era solo alla ricerca della sua approvazione. Perché però stava guardando un cielo azzurro? Era stata in un foresta fitta solo pochi secondi prima e aveva visto un angelo che le aveva parlato di qualcosa e… E dopo?

Mi era venuto di nuovo male alla testa ma ora è scomparso… E c’è così tanta luce qui, Eteria non è così luminosa…

Si alzò e con attenzione si guardò intorno, anche se non notò nulla di strano se non che si trovasse su una nuvola. Decise di saltare giù, sbattendo appena le ali per rallentare la discesa. Si trovava esattamente sopra la fonte.

Nello stesso istante in cui Verity saltava, l’angelo dalle ali nere si svegliava intontito. Lui non si chiese dove si trovasse, né perché fosse lì. Tutte le volte che dormiva si ritrovava lì. Faceva sempre lo stesso sogno, deludente e senza soluzione. Si avvicinò alla fonte e si sedette su bordo, fissando la sua immagine riflessa. Le acque vorticarono, ricreando l’immagine di una Verity sorridente seduta su quello stesso prato, con le briciole di una torta nascoste tra le pieghe di una gonna ampia mentre si rivolgeva a Mary teneramente. Un sorriso nacque spontaneamente sul suo volto: pensava, e soprattutto sperava, che un giorno si sarebbe rivolta così anche a lui, senza la minima paura. Sapeva però che l’avrebbero avvertita di stargli lontano. Eppure l’aveva incontrata in quel sogno e intercettata nella foresta e l’aveva reso così felice senza nemmeno saperlo. Dopo anni passati a osservarla solo in quel riflesso, l’aveva potuta ammirare dal vivo, anche se lei non l’aveva riconosciuto.

Forse è stato meglio così. Forse sarebbe scappata via prima che avessi potuto anche solo parlarle.

Il fruscio di un battito d’ali lo costrinse a girarsi. Mai qualcuno si era introdotto in un suo sogno, ma mai avrebbe immagino chi stava in piedi dietro di lui.

Verity, scendendo, aveva notato quelle ali nere, troppo scure per quel luogo vibrante di vita, e le aveva riconosciute: erano quelle dell’angelo della foresta. Era atterrata a pochi passi da lui, incuriosita, ma questo si era voltato prima che potesse coglierlo di sorpresa.

‹‹Cosa ci fa tu qui? E non mi ha nemmeno ancora detto il tuo nome!››

‹‹Io… Io guardo nella fonte. Da visioni del passato o del futuro, anche se l’immagine che mostra è sempre la stessa una volta che hai guardato. Però è meglio che tu non sappia il mio nome, andresti via altrimenti.››

‹‹Dimmi chi sei! Altrimenti andrò via lo stesso.››

No, non può andare via ora che l’ho trovata.

L’angelo si era alzato di scatto, in tutta la sua statura, mentre le ali tremavano leggermente, in tensione.

‹‹Lucifero. Il mio nome è Lucifero.››

‹‹Cosa mi hai fatto? Ero nella foresta e ora sono qui e…››

‹‹Caliel, calmati, fermati! Questo è solo un sogno, non ti ho fatto nulla!››

‹‹Non chiamarmi con quel nome. Non lo usare, me l’ha dato Metatron e tu… Tu sei solo un mostro. Ne ha già condannati tanti, ti servo anche io nella collezione Non toccarmi!››

Lucifero, difatti, le si era avvicinato e la stava per prendere per un polso quando la ragazza fece un passo indietro e urlò di non toccarla. Non gli avrebbe dato nessuna possibilità di spiegarsi o di raccontarle qualcosa per discolparsi.

Verity lo guardava disgustata. Raziel le aveva chiesto di trattarlo bene, provare a conoscerlo, ascoltare le sue parole, ma come poteva? Come poteva ascoltare l’angelo che aveva condannato gli angeli che lo avevano appoggiato a vivere nell’Inferno? Non sarebbe rimasta lì, con lui, ma se davvero era all’interno di un suo sogno non avrebbe potuto svegliarsi…

‹‹Voglio andare via.››

‹‹Per favore ascoltami! Non ti ho fatto nulla e tutti ti chiameranno con quel nome, Metatron te l’ha donato apposta. Io… Ti avevo detto di ascoltare il tuo cuore, davvero ti sta ordinando di andartene?››

‹‹Si›› rispose decisa.

‹‹Allora desideralo, basterà a farti svegliare.››

 

Verity volò via e lasciò Lucifero a guardarla fino a che non diventò un punto lontano nel cielo. Chiuse gli occhi e cadde all’indietro sul prato, che attutì la caduta ma non gli risparmiò il dolore. Eppure il male alla schiena e alle ali era nulla se comparato al martellare incessante del cuore nel suo petto: l’impressione di un vuoto colmato e svuotato nello stesso momento che si ampliava ad ogni respiro, imprigionandolo nella realtà fuori dal sogno. La speranza di poter trovare la sua unica metà, la fiducia che Raziel gli aveva trasmesso avevano rinchiuso quella spaventosa sensazione in un anfratto della sua anima, anche se gli sembrava costantemente di precipitarvi dentro e senza mai raggiugere il fondo di quel baratro. Lui, che era stato il primo angelo, la prima luce del Paradiso, che indicava la via a chi tornava nel mondo ultraterreno, che era in grado di illuminare la notte più confusa, non era mai stato in grado di combattere l’oscurità che si portava dietro. Senza più nessuno con cui confidarsi e che potesse confortarlo con la sua presenza, aveva iniziato a soccombere ad essa. Aveva aspettato così tanto che lei arrivasse in Paradiso per poterla amare di quel sentimento che aveva conservato come la perla più preziosa. Si portò un braccio sugli occhi e rimase fermo immobile, chiedendosi come potesse essere ancora tanto debole da non riuscire a contrastare la parte negativa di se stesso.

Verity intanto si era svegliata. Per qualche motivo il dolore alle tempie era scomparso anche se, concentrandosi attentamente, riusciva ancora a sentire quel battito. Sembrava non doversi mai fermare. Riconobbe vagamente la casa dove si trovava, l’aveva appena intravista tra le ciglia. Alzò la testa. Era lo stesso angelo che aveva visto nel sogno, non c’erano dubbi a riguardo.

Guardandolo ancora addormentato si rese conto di non sentire davvero il bisogno di allontanarsi e fuggire lontano anzi, non le sarebbe dispiaciuto rimanere lì ancora. Forse aveva esagerato nel sogno. Forse avrebbe dovuto essere più gentile ma, pensandoci, perché si erano parlati di nuovo in un sogno? Si scostò per osservarlo. Non sembrava realmente pericoloso o malvagio, tutt’altro. Era più come se stesse soffrendo terribilmente.

In fondo non lo provava. Lo sapeva, lo aveva sentito nel momento in cui aveva detto di volersene andare, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce: il suo cuore non voleva, né le imponeva di scappare via.  Eppure la testa le intimava di allontanarsi da quella casa, anche se non aveva in mente dei veri e propri motivi se non una storia che pareva essere molto lontana dalla realtà. Stava cominciando a sentirsi in colpa per averlo giudicato solo dal suo nome, senza nemmeno ascoltare cosa avesse da dirle. Lui, che era stato così gentile con lei.

Si alzò in piedi e si sistemò la gonna, lisciandola con le mani e lanciò un’ultima occhiata a Lucifero. Doveva sapere cos’avesse veramente fatto e perché prima di parlarci ancora e, forse, l’unico del Paradiso che poteva aiutarla era Michele… Forse.

Una lacrima era scesa lungo la guancia del diavolo e altre erano intrappolate tra le ciglia chiuse. Baciò gli occhi di Lucifero delicatamente per non svegliarlo, asciugò la guancia con una manica e uscì. Si arrampicò sui rami della quercia fino a raggiungere un punto abbastanza alto da cui spiccare il volo e con un salto si ritrovò guidata da una corrente tiepida e piacevole che la cullò fino al cuore di Eteria. Planò lentamente e si fermò vicino all’anziana Mary, seduta all’ombra di un albero.

 

Mary le piaceva. Non perché fosse identica a lei, anche se questo era un punto a suo favore, ma perché era stata gentile e comprensiva, concedendole spazio e tranquillità, mentre le altre guardiane, Hariel in particolare, la portavano da un posto all’altro, tormentandola con infinite domande. Ogni giorno era stato una scoperta e un’avventura per lei, mentre le guardiane erano rimaste per lo più deluse dalle risposte evasive della ragazza, che preferiva tenere per sé discussioni e pensieri. Infastidite dal non ricevere mai spiegazioni le due avevano deciso di insegnarle a controllare la sua magia.

Ogni angelo e arcangelo aveva la propria specifica essenza magica, anche se era possibile, ma raro, che due o tre essenze convivessero in contemporanea nello stesso corpo. Insegnare a usare la magia senza conoscere l’essenza era un procedimento lungo, ma solo in quel modo si potevano apprendere tutte le tecniche più comuni.

Hariel dominava l’arte del fuoco. Le aveva mostrato più volte come, stringendo lentamente una o tutte e due le mani a pugno, fosse in grado di scaldare ogni oggetto intorno a lei fino a renderlo ustionante. C’erano però alcune limitazioni. Per esempio scaldare le piante risultava molto complicato e spesso finiva per appiccare un incendio e carbonizzarle del tutto. Concentrando calore tra i palmi delle mani invece riusciva a creare piccoli fuochi fatui in grado di riconoscere scie magiche e analizzarle, risalendo all’essenza corrispondente. La prima volta che Verity aveva sperimentato la magia di Hariel era successo il disastro: la guardiana aveva provato a scaldare la corteccia di una delle querce senza riuscire però a interrompere il processo. Il tronco aveva preso fuoco, spaccandosi a metà in pochi secondi. Lelahel aveva sospirato irritata. Il cielo si era scurito e i capelli neri alzati per il vento. Aveva mosso le mani, formando più volte cerchi concentrici e le nuvole del cielo avevano replicato lo stesso movimento, riunendosi in un’unica grande nube e piovendo sopra l’albero in fiamme.

Lelahel aveva detto che tutte le volte era lei a salvare Eteria dalla distruzione e Verity aveva riso a quell’affermazione. Aveva riso così tanto che le era venuto male alla pancia e aveva contagiato tutte loro, lasciandosi andare alla sensazione di euforia e respirando a pieni polmoni l’odore umido della pioggia che aveva completamente coperto quello del fuoco e della legna.  Era stato bello ridere e scherzare con quella strana nuova buffa famiglia ma, per quanto l’avesse riempita di gioia, sentiva sempre la triste consapevolezza che non sarebbe durata. Non sapeva il motivo, ma l’istinto le diceva che non poteva rimanere tutto così splendido. Doveva risolvere la questione di Lucifero e questa, sicuramente, pressava la parte più spensierata della sua mente. Quei momenti così familiari la costringevano anche a ripensare alla sua vecchia vita e a chi aveva lasciato indietro, da solo: Dakota, la sua famiglia, quei pochi amici che aveva avuto. E anche quello la rattristava, ma preferiva, ancora una volta, nascondere ogni ansia dietro un sorriso.

Mary le strinse la mano e Verity quasi tremò a quel contatto: la pelle della donna era rugosa, gelida come il ghiaccio ma morbida come quella di un’infante. Sorrise, avvicinando l’indice alle labbra in un chiaro segno di smettere. Doveva essersi accorta dei suoi pensieri. Si dissero appena qualche parola, ma bastò per attirare l’attenzione delle guardiane che, appena Mary si fu allontanata, le chiesero di riferire tutto. Verity non rispose e scosse la testa in segno di diniego. Tanta era la testardaggine nel non voler condividere una sola frase che le due finirono per arrendersi e posero fine all’interrogatorio, cominciando finalmente a spiegarle come usare la sua magia. Il problema non era tanto la posizione delle mani o le parole speciali da pronunciare ma, piuttosto, percepire quel nocciolo magico dentro alla propria anima e riuscire a materializzarlo in qualcosa di solido e, potenzialmente, letale. Alcuni angeli ci mettevano pochi secondi a trovare il collegamento, altri non ci riuscivano in una vita intera. L’essenza magica era una forza alquanto singolare. Generalmente debole e sottomessa, era in grado di entrare in contatto con la sfera emozionale dell’angelo, mostrandosi come uno spirito o addirittura parlando, c’erano sempre argomenti di cui discutere con la propria Magia. Così facendo si riusciva a risvegliarla con lentezza e questa si abituava ad essere utilizzata. Allora si diffondeva nel corpo con facilità, prendendo prima il controllo delle ali e poi, gradualmente, quello della mente, raggiungendo per ultimo il cuore, l’organo più difficile in cui insediarsi. C’erano, ovviamente, angeli in cui il cuore era il primo luogo dove rintracciare la magia, ma era anche improbabile che questa vi rimanesse a lungo: un singolo battito fuori misura, un’emozione imprevista e incontrollata rischiavano di accendere la Magia con un potere incontenibile. E gli angeli custodi erano sentimentali, diversamente dagli arcangeli.

Dopo l’insediamento, la magia cominciava a fluire placidamente in tutto il corpo: per alcuni era un caldo scorrere, per altri freddo, gelido o appena tiepido.

Ma non sempre tutto procedeva secondo gli schemi. In rari, rarissimi casi, erano gli angeli a piegare la Magia, obbligandola a collaborare se questa si rifiutava, assoggettandola con violenza. Molti dei diavoli, diceva Hariel, avevano tiranneggiato sulla propria Magia durante la guerra. Ne avevano piegato l’essenza perché sapevano che questa non avrebbe mai accettato di uccidere un fratello o una sorella. In realtà, solo gli angeli incredibilmente potenti ne erano capaci e quando, una volta raggiunto lo scopo, la Magia veniva liberata, questa poteva scegliere di uccidere il possessore tra le sofferenze più atroci. Forse questa era la parte più spaventosa. Concepire la Magia come un essere senziente, dotato di una coscienza, era un sentiero tortuoso ma percorribile; accettare che fosse spietata e dotata di istinti vendicativi era quasi inconcepibile. La Magia si risvegliava soprattutto grazie ai ricordi di intensa gioia: la crudeltà non avrebbe dovuto appartenerle.

Per questo Verity cercava di concentrarsi su ricordi più felici che avesse, riprendendo quelli che usava per volare. All’inizio non si applicò molto: Hariel la fissava insistentemente, come se fosse un curioso cucciolo da crescere o un esperimento sconosciuto. Si concentrava su un ricordo e lo sguardo della guardiana la distraeva, mandando in fumo qualsiasi tentativo serio. Riuscì appena a percepire le sue ali un paio di volte, ma e la sensazione che ne derivò la ripagò dello sforzo. Tremavano, fremevano costantemente, pronte a schiudersi e a farla volare come un freccia scoccata dall’arco in tensione, desiderose di cavalcare le correnti e fare a gara con gli uccelli. Era un istinto fresco e veloce che si scaldava man mano che si avvicinava all’attaccatura delle ali ma da lì non riusciva a seguirlo. Sapeva che scendeva giù lungo la spina dorsale, che saliva sulle spalle e formicolava sulla punta delle dita, ma nulla di più. Se si inoltrava nel suo corpo il flusso scompariva.

Incrociò le braccia al petto, indispettita: non sopportava di non riuscire a fare nulla, anche perché ci stava già provando da qualche settimana. La irritava perché non era possibile che, pur avendo la magia, non potesse usarla a meno che questa non glielo permettesse. L’avevano avvisata che ci sarebbero potuti volere mesi per risvegliarla, ma lei la voleva subito.

 

 

Angolo dell’autrice:

Buongiorno a tutti! Mi dispiace di non essere riuscita a pubblicare il capitolo la settimana scorsa, ma tra ospedali e viaggi su e giù da casa è stato un po’ complicato. Ringrazio moltissimo Humor_Girl per le recensioni, sono stata felicissima di ricevere il tuo parere! Spero che anche gli altri lettori avranno voglia di lasciarne una.

Sono felicissima che siate arrivati a leggere fin qui e mi auguro che la storia, insieme ai suoi personaggi, continui a piacervi.

Un bacio e un saluto a tutti voi :P

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Mentre Verity si infervorava, nascosto su un albero, lontano dalla vista, Scar la osservava con attenzione. Non si sentiva a suo agio a spiare gli angeli, soprattutto le guardiane che mai avrebbero potuto creare guai, ma Verity era un’altra questione. Era minuta, inesperta, ancora disabituata a visitare tanti luoghi, con il rischio di essere attaccata da un diavolo ancora arrabbiato con Lucifero o da Lucifero stesso, anche se, forse, lui non sarebbe stato così pericoloso…

Scese dal larice e si incamminò verso il bosco delle querce, certo che lo avrebbe trovato lì da qualche parte.

Come facesse Lucifero a volare lì dentro, sarebbe sempre rimasto un mistero per Scar. I rami erano contorti e si ostacolavano tra loro, l’edera si avviluppava intorno ai tronchi e il muschio cresceva libero sulle radici; foglie e rametti si impigliavano nelle ali, provocando dolorose piccole ferite. Camminare non era certo meno difficoltoso e più volte era scivolato e caduto, come un bambino goffo e distratto. Le foglie erano di un meraviglioso verde smeraldo, ma l’aria era pesante: le ragnatele di rami lasciavano penetrare solo poche scie di luce e la nebbia, il respiro del suolo, si infittiva man mano che il portale per l’Inferno si avvicinava.  Perse più volte l’orientamento, circondato da alberi e piante tutte uguali secondo lui, e continuò a girare in tondo, allargando e restringendo il giro, scoprendo parti di quella foresta che non aveva mai visitato in vita sua. Usava come riferimento i nidi degli usignoli e dei gufi, le tane degli scoiattoli e delle volpi. Quel bosco era, e sempre sarebbe rimasto, un labirinto in cui perdersi ogni volta che vi entrava. In più la magia di Lucifero si nascondeva nell’oscurità, rendendosi difficile da individuare, se non completamente impossibile una volta giunta la notte.

Quando, dopo essere passato sotto quell’enorme quercia per almeno tre volte, capì che quella era la casa di Lucifero, era quasi il tramonto e la foresta appariva già lugubre.

Ad una sua occhiata dal tronco si svilupparono gradini tozzi e grossi che usò per salire. La porta era chiusa. Strano. Vi tirò un calcio, spalancandola, ed entrò in quella casetta così tanto più grande di dentro rispetto a fuori. Era triste, come tutte le volte che l’aveva visitata, se non di più: non c’erano fiori, né pareti colorate. Giusto il minimo indispensabile per vivere ed essere in armonia con l’umore del proprietario. Camminò fino alla camera da letto, sorpassando la sua senza guardarla. Non l’aveva mai usata e mai avrebbe voluto farlo.

Lucifero era disteso sul suo letto di fiori freschi e petali. Giocava con un fuoco fatuo nero, con una piccola sfumatura bianca all’interno. Sembrava divertirsi, sembrava aver pianto. Lo fissò volare dalle sue mani al soffitto, fare un giro intorno alle pareti, una capovolta e tornare al punto di partenza fino a che non lo fece scomparire. Alzò appena gli occhi: ‹‹Ciao, Scar.››

Ora non gli sembrava più che avesse pianto, ne era certo. Gli si strinse il cuore. Lo ignorò.

‹‹Lucifero. Devo parlarti della Guardiana.››

Lucifero pensò di essere stato scoperto e che Scar fosse lì per punirlo: doveva aver davvero spaventato quella povera ragazza.

‹‹Stalle lontano. Non sa niente di questo mondo, meno ancora della guerra o di te. Le causeresti solo problemi, come hai fatto con me.››

Touché.

Quello era un colpo basso, ma insistere sul senso di colpa di Lucifero era sempre stato il modo migliore per convincerlo ad agire come volesse lui. Non si sarebbe mai perdonato tutto il male che aveva fatto, e questo lo rendeva buono, ma lo aveva fatto, e questo lo rendeva cattivo.

‹‹Sei crudele, fratello.››

‹‹Non sono tuo fratello, non voglio essere il fratello di un traditore.››

‹‹Questo non cambia il fatto che condividiamo lo stesso sangue nelle vene. Però arrivi tardi, ci siamo già conosciuti.››

Non doveva accadere.

Scar immaginò mille scenari in un secondo solo, fino a pensare a lui che cercava di rapirla e lei che scappava urlando. Non poteva essere, non lei. Non era possibile. Non poteva averlo incontrato e non aver detto nulla a nessuno. Non era il tipo di ragazza che nascondeva segreti, lei era sincera e pura. L’aveva osservata su ordine di Michele da quando era nata.

‹‹Cosa le hai fatto?››

Scar credeva davvero che Lucifero avrebbe potuto farle del male. Si era ribellato a mezzo Paradiso pur di poter guardare, amare solo lei e lo stesso credeva che avrebbe potuto essere stato violento.

‹‹Quello che non avete fatto voi, l’ho curata. A quanto pare vi siete dimenticati che i ricordi della vita umana tornano a galla quando meno lo si aspetta e anche quanto siano dolorosi, come se l’esperienza di Mary non vi avesse insegnato nulla.››

Scar fece un passo indietro, colpito dall’aura di magia che Lucifero emanava senza nemmeno accorgersene. Era vero, si era dimenticato dei ricordi, ma in fondo lui non era mai stato toccato da una tale esperienza e anzi, avrebbe preferito perderli piuttosto che doverli ricordare ogni giorno.

‹‹Tu non hai più magia bianca…››

‹‹Ti sei dimenticato anche gli insegnamenti di Sandalphon? Luce, ricordi, amore…››

‹‹Sai solo parlare come lui, criptico e incomprensibile. Ci occuperemo di lei, lo faremo meglio, ma tu non ti avvicinare mai più. Sei già fortunato a poter stare qui.››

Lucifero scosse la testa, per nulla sorpreso. Scar non gli avrebbe mai più concesso la sua fiducia e nemmeno lo avrebbe mai ascoltato. Lo lasciò andare, controllandolo mentre si allontanava.

Scar intanto si criticava per non essere riuscito a rimanere di più, a terminare quel discorso appena accennato. Sentirsi chiamare fratello però… Una piccola parte di lui, quella sentimentale senza dubbio, aveva gioito, mentre un’altra, quella seria e razionale che sapeva quale fosse il suo dovere, ne era rimasta disgustata. Il legame di sangue non contava più nulla da molti anni. Era solo e andava bene così. Anche se… Gli tornò alla mente l’espressione serena e sognante con cui Lucifero guardava nella fonte e sospirava. Non gli sarebbe dispiaciuto poter guardare qualcuno a quel modo, potergli parlare e sfogare tutti i sentimenti che avrebbe volentieri cancellato dal suo cuore. E nel momento in cui aveva sentito quel bisogno farsi insopportabile aveva sbriciato nella fonte e aveva visto lei. La stessa lei di Lucifero. Non aveva capito cosa volesse rivelargli la fonte con quella visione, quale oscura profezia si nascondesse dietro a quelle immagini. Perfino in quel momento continuava a non capire, ma andava bene lo stesso. Non amava Verity, non l’avrebbe mai amata, e questo era abbastanza.

 

Sere dopo quell’incontro Verity era andata a dormire nella casa di Hariel per non rimanere completamente sola con i propri pensieri. La guardiana non era stata di grande compagnia e si era addormentata quasi subito, lasciandola lo stesso sola a girovagare per le numerose stanze. Erano tutte accoglienti, piacevolmente colorate di arancio, rosso, rosa e ocra. Le aveva raccontato di essere stata sulla Terra una volta sola, in un paese chiamato India e ne era rimasta affascinata. Ricordava di essersi sentita male la prima volta che aveva mangiato il curry, troppo saporito per il suo palato abituato ai cibi neutri del Paradiso. La seconda volta era andata meglio. Alla terza se ne era innamorata.

Allora aveva deciso di portare un pezzo di India con sé, per non dimenticarla mai. Cuscini sparsi in giro, morbidi e dai colori vivaci, tende rosa e arancioni appese alla finestre, un legno caldo che bene si intonava con i colori e un intenso profumo di spezie a permeare l’aria. Forse era un India un po’ idealizzata, ma riempiva una casa che altrimenti sarebbe stata senza personalità.

Così Verity si era ritrovata a fissare il cielo, sperando che le desse qualche risposta su cosa dovesse fare e cosa le sarebbe accaduto. Erano giorni che quelle domande le affollavano la mente e non riusciva a darvi risposta. Non c’era modo di liberarsi di quelle fastidiose presenze e, pur non riuscendo ad ammetterlo ad alta voce, era confusa. Confusa da Lucifero, da Scar, da Mary, dalle guardiane, dagli arcangeli. Tutti sembravano avere un ruolo speciale in quell’enorme famiglia e lei sentiva di essere l’unica fuori posto. Era il giocattolo nuovo di cui presto si sarebbero stancati.

Non aveva più intravisto Lucifero da nessuna parte. Un pomeriggio, saltando le lezioni di magia, era andata nel bosco per trovarlo anche se stava scendendo la sera. Non avrebbe mai lasciato quel pensiero attraversarle la mente, ma voleva rivederlo e conoscerlo. Era come se loro due fossero l’ago della bussola e il Polo Nord, anche se non sapeva chi fosse cosa. Aveva girovagato tra le piante a lungo prima di riconoscere la grande quercia, ma la casa era vuota. I fiori del materasso schiacciati e ammassati vicino alla finestra, come se le ali, strusciando sul pavimento, ne avessero trascinata una parte. Si era affacciata e aveva notato l’erba e il terreno segnati in direzione del portale per l’Inferno. Poi il coraggio le era mancato. Aveva avuto paura di chi avrebbe potuto trovare dall’altro lato dello specchio. Quando finalmente, dopo ore, era ritornata a casa, Scar l’aveva sgridata, proibendole di aggirarsi da sola per la foresta.

Ecco, Scar era decisamente strano. La costringeva ad allenarsi tutti i giorni, provando mille volte gli incantesimi ed esasperandola; ostentava allegria quando era chiaro che si stesse annoiando terribilmente e questo la faceva infuriare ancora di più. Mary e le guardiane stavano zitte ad osservare le loro sfuriate, le curavano le ferite che si procurava e Hariel rideva sotto i baffi ogni volta che sbagliava un movimento. Qualsiasi cosa volesse fare, Scar la precedeva e la fermava. La disturbava quando provava a usare la magia per conto suo e, soprattutto, quando provava ad andare dall’arcangelo Michele. La portava in angoli del Paradiso che non aveva ancor visitato, piccole radure con specie di fiori odorosi che non aveva mia visto. Era bello ma noioso, e avrebbe preferito spendere il suo tempo libero diversamente. Fortunatamente, alcune volte Mary era intervenuta portandola nella sua casa, lontano da Scar, dove trovava sempre Lelahel. Mary le aveva mostrato solo una piccola parte della sua casa, la biblioteca. Era anch’essa sottoposta all’incantesimo per ingrandirla, ma la quantità di libri era spaventosa: migliaia di prime edizioni di libri antichissimi, manoscritti e testi provenienti dai più disparati periodi storici. C’erano il Corano, l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e a fianco le opere dei drammaturghi più famosi, le commedie e le tragedie delle corti italiane del Rinascimento. Le aveva raccontato che generazioni di angeli avevano contribuito a creare quel tesoro di umanità, lei aveva solo avuto la fortuna di abitare in quella casa.

Verity amava lasciarsi ammaliare dalla poesia orientale, dei versi d’amore dei poeti inglesi e dalle affascinanti prose russe. Eppure anche lì si ritrovava a pensare e a riflettere su Mary e sugli sguardi preoccupati che alle volte le rivolgeva, soprattutto quando lei e Scar rimanevano soli.

Gli arcangeli invece non li aveva più visti da quel giorno nell’Inferno. Le avevano chiesto, o meglio Metatron lo aveva fatto, di ascoltare Lucifero e si sentiva terribilmente in colpa per non aver provato ad adempiere a quella semplice richiesta. Loro però non erano stati molto chiari. Non le avevano detto nulla riguardo alla ribellione dei caduti né del motivo per cui l’Inferno era in rovina quando avrebbe dovuto essere il contrario.

C’era qualcosa che non le era stato riferito. Un dettaglio che forse avrebbe fatto abbastanza chiarezza sui suoi dubbi. E se fossero rimasti zitti per sempre, sarebbero usciti fuori da soli e con violenza: anziché proteggerla l’avrebbero solo danneggiata. Tutti gli angeli cercavano sempre di distrarla dai suoi pensieri, di non lasciarla mai sola. Lei era abituata. Era una di quelle persone che fanno paura perché sanno stare sole, senza aver timore della solitudine. Lei era avvezza all’indipendenza, alla solida realtà di scegliere liberamente se fermarsi, con chi e per quanto tempo. Lì decidevano al suo posto. Forse credevano di farle una cosa gradita, ma la irritavano ogni giorno di più fino a rendere insopportabile la loro compagnia. E Scar era il primo della lista. C’erano momenti in cui pareva che volesse raccontarle qualcosa. La osservava come se cercasse di entrare nella sua mente e leggervi, boccheggiava parole mute; accennava una carezza o una abbraccio e si fermava a metà. Era oltremodo strano.

 

Lucifero invece sapeva che Verity era andata a cercarlo. Nell’esatto momento in cui Scar gli aveva intimato di non avvicinarsi a lei, aveva avuto la conferma che sarebbe stata lei a venire per opera di una qualche forza cosmica che iniziava a muoversi nel verso corretto. Scar aveva promesso che si sarebbero presi cura di lei e, almeno fisicamente, lo stavano facendo: la costringevano a mangiare quando si rifiutava e Scar stesso si assicurava che andasse sempre a dormire senza nessuna ferita. Eppure le si leggeva negli occhi che non era serena nemmeno la metà rispetto alle guardiane.

Aveva un buon rapporto con Lelahel, ma non era il caso di tediarla con i suoi problemi e allo stesso modo non aveva intenzione di svegliare Raziel o Metatron, che sarebbero stati ben felici tenergli compagnia. Voleva parlare con qualcuno, ma in fondo sapeva di desiderare solo lei. Qualche tempo prima che Verity lo andasse a cercare, aveva parlato con Mary a lungo, mentre la ragazza era a leggere nella biblioteca. In realtà all’inizio l’aveva solo spiata, ma l’anziana donna lo aveva scoperto e si così era fermato a parlare con lei. Le aveva raccontato del loro primo incontro, e di come fosse stato un fallimento su tutti i fronti anche se, orgoglioso, aveva affermato di essere riuscito a curarla con la sua magia. La discussione non aveva portato a nessuna conclusione, era stato solo un dolce ritrovarsi tra vecchi amici, scoprendosi d’accordo solo sull’aspettare i tempi della ragazza. Quando poi lei si era decisa, lui era rimasto nascosto, temendo che fosse in compagina di Scar. Era certo però che avrebbe avuto un’altra occasione.

 

Verity emise un sospiro. Aveva una bruciatura sul braccio destro e lividi ovunque. Quel giorno non si era lasciata curare da Scar, la sua compagnia era stata così insopportabile, che appena aveva intravisto l’opportunità di liberarsi di lui, l’aveva colta. Aveva anche un taglio sulla tempia, ma quello non era colpa dell’allenamento, era semplicemente caduta inciampando nei suoi piedi.

Decise di essersi stufata di rimanere affacciata alla finestra. Tese un orecchio verso Hariel. Dalla sua stanza provenivano i respiri regolari di un sonno profondo. Uscì di casa. Scese lentamente dall’albero, ma una volta a terra non seppe dove andare. Si guardò intorno, fece il giro tra i cespugli per assicurarsi che Scar non fosse nei paraggi.

Almeno di notte non mi fa la guardia, ci mancherebbe solo quello…

Camminò per un po’ lungo il sentiero senza una direzione precisa fino a che non sentì dei sussurri lievi tra gli alberi. Li seguì fino al lago cristallino che brillava come ricoperto da un pezzetto di cielo. Si tappò le orecchie con le mani.

I Sognatori non smettevano mai di cantare per mantenere la barriera dell’Inferno. Verity li guardò con curiosità, chiedendosi quale potesse essere l’aspetto nascosto dal velo azzurro, quale fosse stato il loro passato e di che colore fossero state le loro ali. Si avvicinò alla riva del lago e vide su quella opposta qualcuno, e non era Scar, le ali nere parlavano per lui. Stava seduto al fianco di un Sognatore e ne ascoltava il canto senza assopirsi, dondolando appena la testa per seguire la melodia. Fece per togliersi le mani dalle orecchie a cambiò idea: se l’avesse fatto si sarebbe addormentata e lui sarebbe andato via. Corse lungo il perimetro del lago, scansando i Sognatori, ma Lucifero non si mosse e anzi, le fece cenno di inoltrarsi nel bosco e allontanarsi da lì. Quando il canto divenne di nuovo appena un sussurro, si tolse le mani dalle orecchie e lo guardò.

Verity aveva le occhiaie. Lucifero alzò la mano per accarezzarle il viso, ma lei si scostò e lui abbassò il braccio. Aveva promesso a Scar e lui cercava sempre di mantenere le promesse, in particolare quelle fatte a suo fratello.

‹‹Io… Io non mi fido molto di te, ma ricordo che mi hai curata e io non ti ho nemmeno ringraziato. Anche se non capisco perché tu l’abbia fatto.››

Lucifero sorrise. Aveva fatto bene a infiltrarsi in Paradiso ancora una volta. Lei lo aveva trovato. La vedeva fremere per l’impazienza di ricevere una risposta e lo fissava. Stava per risponderle, ma lo sguardo gli cadde sulla tempia. La sfiorò appena e lei non si ritrasse: era un brutta ferita, com’era possibile che Scar non l’avesse curata?

‹‹Scar avrebbe dovuto…››

‹‹L’ho cacciato via. Avevo bisogno di tranquillità.››

La capiva piuttosto bene. Si era comportato in modo analogo anche con lui quando ancora vivevano insieme. Ma era un buon angelo, e questo bastava ad attenuare i suoi difetti.

Fece un passo avanti: ‹‹Posso?››

Gli fece un cenno con la testa e lui concentrò abbastanza energia per richiudere completamente la ferita. Era una sensazione piacevole, un tepore che purificava la pelle.

‹‹Ne hai altre? Vanno curate, sempre.››

‹‹Solo qualche livido e… Non mi hai risposto!››

Lucifero le propose di seguirlo fino a casa sua: lì avrebbe risposto ad ogni sua domanda.

Verity non avrebbe dovuto andare, la parte razionale della sua mente le stava urlando di allontanarsi da lui invece di seguirlo. Ciò nonostante gli disse di sì. L’istinto le suggeriva di fidarsi, lo sguardo di lui le suggeriva di fidarsi, tutto quello che la sua anima era le suggeriva di fidarsi.

Lucifero pose la gemma della sua collana nelle mani di Verity, stringendole, e pronunciò poche parole. Un cerchio di fuoco bianco crebbe intorno a loro e quando Verity riaprì gli occhi, si ritrovò nella stessa stanza dove aveva lasciato l’angelo dormiente. La fece sedere sul quel letto improvvisato di fiori e foglie e l’abbracciò. La ragazza cercò di divincolarsi, opponendo con forza le braccia e le ali ma Lucifero la stringeva troppo forte perché lei riuscisse a liberarsi.

‹‹Lasciati curare…››

Di nuovo quel tepore salutare la investì, rilassandole i muscoli e cullandola, obliandole i sensi e la mente. Poggiò il capò sulla spalla dell’angelo e le sue ali nere si chiusero intoro a loro.

Sorrideva Verity, mentre inconsciamente stringeva tra le dita la camicia di Lucifero e le lacrime scivolavano tonde sulle sue guance. Non disse nulla, continuando a emanare energia fino a che tutti i lividi non furono scomparsi e anche la bruciatura, che non aveva visto ma sapeva esserci, fu curata. Eppure la ragazza non smetteva di piangere e anzi, tremando aveva iniziato a lamentarsi nel sonno. Si agitava esattamente come quando l’aveva trovata nel bosco e di nuovo si chiese come fosse possibile che nessuno si accorgesse della precarietà delle condizioni psichiche della ragazza, costretta ad ascoltare quel battito incessante senza sapere come fermarlo. Lei lasciò la presa sulla camicia e si tenne la testa, dondolandola a destra e a sinistra.

Lucifero fece una smorfia. Curare le ferite fisiche era un questione, il battito delle anime un’altra.

Cercò di nuovo i vecchi ricordi, convinto che fosse un bel modo per consumarli, e placò ancora gli spasmi della ragazza. Possibile che non riuscisse davvero a fermare il battito? Anche quando, prima di lei, si era occupato dei ricordi dolorosi di Mary, era sempre e solo riuscito a farla addormentare profondamente. Un ottimo risultato a breve termine, ma che diventava inutile sui lunghi periodi.

In fondo, però, non gli dispiaceva troppo quella situazione: avrebbe potuto guardare la sua Verity dormire tra sue braccia per l’intera notte.

Invece non puoi.

La sua coscienza rovinava sempre i momenti idilliaci della sua esistenza ricordandogli effettivamente cosa dovesse fare, e aveva sempre ragione. Doveva svegliarla, altrimenti non sarebbero mai riusciti a parlare.

 

 

Angolo dell’autrice:

Buongiorno a tutti! Come state? Scusate se aggiorno con una settimana di ritardo. Sono stati giorni intensi e faticosi, ma ora dovrei tornare ad aggiornare con regolarità J Spero che abbiate apprezzato il capitolo! Lasciatemi un parere please <3

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Angolo dell’autrice:

Siccome la scorsa settimana non ho aggiornato, oggi capitolo doppio, così da non rimanere indietro con la mia tabella marcia immaginaria. Quindi, di nuovo, buona lettura!

 

 

Il cielo era di nuovo azzurro, di quella stessa tonalità di azzurro pastello appena velato dalle nuvole che vedeva spesso dalla terrazza di casa sua. Si guardò intorno e per poco non urlò per lo stupore: era davvero a casa sua! Incredula si affacciò dal parapetto per guardare nel giardino: le rose erano fiorite ed il prato era coperto di fiorellini bianchi e blu.

‹‹Che posto è questo?››

Dietro di lei, Lucifero la osservava confuso. Credeva che si sarebbero ritrovati nella finta radura di Eteria o quantomeno alla fonte, ma non aveva la minima idea di dove si trovasse.

‹‹Siamo sulla Terra… Ma tu cosa fai qui? Mi hai seguita?››

La Terra… Probabilmente Verity doveva aver desiderato di tornarci e la gemma che teneva ancora in mano li aveva condotti lì. Ora doveva solo capire se erano fisicamente sulla Terra o se era solo un momento del tempo che la gemma aveva scelto di far rivivere loro o se, invece, solo le loro anime erano lì.

‹‹La gemma deve averci condotti qui…››

Verity sembrò fermarsi a riflettere per un secondo, ma si asciugò gli occhi e sorrise ancora una volta.

‹‹Allora è meglio che non ti allontani troppo da me, penso sia passato troppo tempo dall’ultima volta in cui tu sei stato sulla Terra e… Non corrompere nessuno, almeno per ora.››

Lucifero annuì. Nessuno a quanto pareva le aveva raccontato perché lui si fosse ribellato e andava bene così: lo avrebbe fatto lui.

Giravano strane voci per l’Inferno, voci che preannunciavano rivolte e nuovi combattimenti, tutti comandati da Yelahiah. Avrebbe dovuto metterla in guardia contro di lui, ma c’era ancora tempo. Avrebbe trovato il momento opportuno. Nel frattempo l’avrebbe seguita, assicurandosi che non decidesse di fermarsi nel sogno, sempre che di sogno si trattasse.

La vedeva correre da una parte all’altra della casa, chiamando oggetti che lui non conosceva con familiarità e nostalgia, con felicità. Eppure c’era qualcosa di sbagliato. Verity sembrava essere il pezzo del puzzle sbagliato: si adattava a una forma ma non era mai esattamente nel posto giusto. Non c’erano tracce di lei in quella casa, come se non vi avesse mai veramente vissuto o avessero provato a dimenticarsi della sua esistenza. Non c’erano sue foto nei bei quadretti appesi al muro o negli album sopra i mobili, eppure gli sembrava che gli umani facessero spesso cose del genere per avere sempre vicini i propri cari, vivi o defunti.

Intanto ricordava della Terra… Aveva passato la maggior parte dei propri anni da caduto a nascondersi dai Nephilim e dagli arcangeli, ma ogni tanto, prima che il destino lo obbligasse a vivere nascosto tra le ombre, aveva assistito anche a piccoli miracoli. Anita era stata uno di questi. Quella però era una storia che non gli apparteneva, almeno non direttamente.

Seguì Verity nella biblioteca e poi nella cucina senza mai parlare, diventando un attento osservatore. La casa svuotata di lei non sembrava averle fatto effetto, tutt’altro. Verity camminava, sfiorava antichi tomi, salutava ogni oggetto con lo sguardo quasi come se fosse sempre stato così e nulla fosse cambiato. Era uscita di casa con un piccolo sorriso e aveva camminato veloce, conducendolo in quella che probabilmente era una scuola. Lì cominciarono a tornargli i dubbi sul realismo di quel momento. Nessuno si accorgeva della loro presenza. Passò più volte davanti agli occhi degli studenti e nessuno di loro diede mai segno di vederlo. Verity non se ne avvedeva ancora e decise di non dirglielo, sperando contemporaneamente che non provasse a parlare con qualcuno e che le bastasse trovare la faccia della persona che stava cercando. Quando la vide entrare in un laboratorio capì che avrebbe dovuto fermarla prima: gli occhi degli studenti erano spalancati e la professoressa fissava immobilizzata la porta, mentre la mano con cui teneva il gessetto era rimasta a mezz’aria. Verity salutò l’insegnante come una vecchia amica, la quale però non rispose né diede segno di aver sentito il saluto; un’altra ragazza, seduta in prima fila, si alzò per chiudere la porta e le passò attraverso.

Verity chiamò ancora la sua amica e ogni volta il cuore di Lucifero si batté contro la cassa toracica. Si avvicinò per confortarla un poco, ma lei si scostò, passandosi una mano sugli occhi e scappando via.

La lasciò andare. Se l’avesse seguita si sarebbe solo sentita peggio. Decise di lasciarle il tempo per calmarsi da sola e solo dopo andare a parlarle. Fece un secondo giro nella scuola, ma senza di lei era noioso e finì per camminare senza meta nel corridoio dei laboratori, il viso rivolto verso i soffitti ad ammirarne i dipinti. Gli piacevano quelli dei miti greci: Raziel gli aveva spesso narrato della nascita di quelle storie meravigliose e magiche dove l’uomo spiegava ciò che non capiva, o almeno tentava. C’era un racconto particolare di quando, un giorno di pioggia, si era rifugiato nel grande tempio di Atene. Una sacerdotessa pregava, con canti e lamenti, affinché la dea concedesse alla città una tregua dalla pioggia; Raziel, invece, una volta vista l’imponente statua di Atena, aveva iniziato a raccontare il mito della nascita come lo aveva sentito anni prima da un pastore a Sparta. Raziel sapeva che le preghiere sarebbero servite a ben poco, e preferì intrattenere i bambini che si erano rifugiati con lui.

Sulle volte però il dipinto più bello era quello di Orfeo ed Euridice, seguito dall’epico scontro tra lui e Michele, dove l’arcangelo otteneva la vittoria e lo scagliava giù dal Paradiso.

Smise di guardare il soffitto. La guerra non era mai un argomento piacevole.

Si spostò lungo il lato sinistro del corridoio, dove non c’era nessuno. Essere attraversati dagli umani era al quanto disturbante. Sentivi l’inconsistenza di ogni parte del tuo corpo e al passaggio la nausea e la confusione si fondevano per un attimo in un intruglio orribile. Evitando i ragazzi cercava nella folla la giovane che Verity aveva salutato nell’aula. Avrebbe potuto ritornare subito in classe e seguirla, ma non ci aveva pensato e adesso doveva guardare tutte le facce di centinaia di studenti per trovare quella giusta. Gli sembrò di averla vista entrare nella mensa, ma si accorse tardi di essersi sbagliato.

‹‹Ci vediamo oggi pomeriggio, vero Dakota?››

Forse non era così sfortunato.

Seguì quella ragazza per un po’ tra le mille svolte per i corridoi e le scale della scuola, fermandosi un secondo di fronte alla portafinestra di un cortile interno. Scorse Verity attraverso il vetro, accucciata contro il tronco della quercia, ma la lasciò sola. Entrò nella biblioteca e rimase con la ragazza per tutto il tempo della sua conversazione con un bidello. Chiacchierarono per parecchio tempo sugli argomenti più disparati come se fossero amici da lungo tempo: un atelier, una bambina, le vacanze che si avvicinavano e come le avrebbero trascorse. Eppure aleggiava intorno a loro un’aura di tristezza, come se mancasse qualcuno di importante. Di nuovo la donna di poco prima chiese a Dakota se si sarebbero viste e questa rispose tristemente: ‹‹Oggi vado in cimitero, Anna, magari stasera…››

Dakota uscì dalla biblioteca con un sorriso stanco e lui lasciò la ragazza e andò da Verity, credendo di poterle sollevare il morale. Si fermò a pochi passi da lei, sperando che alzasse lo sguardo, ma fu un attesa vana. Non lo avrebbe mai guardato per prima. Quando le posò una mano sulla spalla, scoppiò a piangere di nuovo, lagnandosi ad alta voce… Nessuno, in fondo, l’avrebbe sentita.

‹‹Nessuno si ricorda di noi dopo la morte…››

E forse Verity diceva il vero, pensò Lucifero, ma nessuno veniva mai messo completamente da parte.

‹‹Le persone che ci hanno amato non si scordano facilmente di noi. Spesso capita solo che queste inizino ad ascoltare le nostre parole quando la nostra voce non può più pronunciarle.››

Verity si alzò e si appoggiò a lui alla ricerca di un conforto; lui le chiese di portarlo al cimitero, almeno per vedere Dakota un’ultima volta.

 

Il cancello del cimitero era nero e lucido. Si vedeva come fosse molto antico e decisamente ben tenuto. Da uno spiazzo di sassolini bianchi e brillanti si diramavano quattro stradine: la prima, molto breve, portava alla casa del custode; la seconda e la terza avanzavano tra lapidi grigie, incorniciate dai fiori finti che i parenti avevano portato in ricordo dei cari defunti; la quarta, che saliva lungo la collina, portava alle cappelle delle famiglie facoltose che avevano preferito come ornamento gelide statue d’oro e d’argento.

Non erano mai piaciute a Verity, né a Dakota: sapevano che quelle ricchezze non erano amore.

La cappella della famiglia della ragazza era sulla cima della collina, dove il prato era coperto di margherite e non-ti-scordar-di-me. Era un edificio squadrato in marmo rosa, circondato da un cancello d’argento scintillante; ai lati dell’ingresso c’erano due leoni neri pronti a spiccare il salto e sul tetto un angelo con la spada sguainata lo proteggeva. Pur rimanendo a distanza, Verity e Lucifero riuscirono a vedere all’interno e la ragazza si sorprese. C’erano Dakota e Jay da una parte, isolati, mentre Victor cingeva le spalle di Eleonore, che pregava, con un braccio. Verity si asciugò gli occhi, grata a quella piccola assemblea di fronte alla sua foto sbiadita, circondata da candele profumate e da un mazzo di rose nere avvolto in una carta trasparente, fermato da un nastro rosso. Dakota teneva dei fiori di campo e di rosmarino in mano. Li posò vicino alle candele, stando attenta che non prendessero fuoco per la cera calda che colava. Finita la preghiera Eleonore diede un bacio alla Verity di carta e uscì, seguita da tutti gli altri.

La Verity di carne e ossa era sbalordita. Aveva dimenticato la discussione a cui aveva assistito nel bosco, nascondendo anche la sensazione di gioia che quelle parole le avevano portato perché per una delle prime volte della sua vita si era sentita amata da sua madre. Tutte le immagini che aveva rimosso stavano ritornando, seguite da dolori alla testa che però sembravano rimanere sopportabili, e diventavano nitide e precise, e lei aveva di nuovo le lacrime agli occhi in un ciclo che pensava si sarebbe ripetuto per sempre. Camminò con gli occhi appannati, seguendo la sua famiglia che, silenziosa, accompagnava Jay e Dakota nel parcheggio. Lucifero osservava con interesse ogni movimento e ogni reazione della ragazza: gli procurava una strana sensazione allo stomaco, come farfalle, ma piacevole. Era un brivido che sapeva di non aver mai provato prima, ma che adorava ogni secondo di più. Avrebbe fatto di tutto affinché lei si sentisse al sicuro insieme a lui. Manteneva una certa distanza, non si fidava di lui, e la capiva perfettamente, ma le avrebbe fatto cambiare idea. Il rombo della moto di Dakota risvegliò la sua concentrazione sul mondo intorno. Era andata via lasciando una scia nera sull’asfalto, mentre il bidello partiva lentamente con la sua bicicletta. Victor ed Eleonore si stavano avviando verso la loro villa a piedi, abbracciati l’uno all’altra. Vide Verity accennare un passo per seguirli, ma si bloccò, girandosi a guardarlo. Gli mimò con le labbra di seguirla e camminò nella direzione opposta a quella presa dai genitori. Proseguirono a lungo sul bordo della strada e poi deviarono su uno sterrato che si trasformò in breve tempo in un sentiero appena riconoscibile tra le felci e le radici degli alberi. Quel bosco oscuro era tanto simile a quello in cui viveva a Eteria, quasi come fosse un gemello: la stessa oscurità scivolava dai rami e dalle foglie, concedendo a pochi raggi isolati di filtrare, e così l’ambiente era umido, ricco di un muschio fresco e morbido. I suoi passi era sicuri, diversamente da quelli di Verity che più volte era scivolata o inciampata in una radice. L’aveva sempre aiutata a rialzarsi, anche se cercava di opporsi. Ad ogni caduta si alzava da sola, probabilmente per orgoglio, per non sembrare una bella principessa in attesa del cavaliere. Nonostante l’insicurezza e l’accondiscendenza, Verity era molto orgogliosa: non di sé stessa, non lo era mai stata, ma di tutto quello che aveva imparato a fare, sì. Era stata una delusione per i suoi parenti, per sua madre che aveva sperato in un grande maga come figlia, per suo padre che non aveva mai saputo come comportarsi con lei ma che, a conti fatti, era stato più dispiaciuto per sé stesso. Però aveva imparato a ridere delle prese in giro e delle malignità che dicevano alle sue spalle, aveva imparato a vivere senza magia in un mondo dove sembrava impossibile esistere senza. Anche nei momenti peggiori, quando si era sentita inutile e sbagliata, aveva imparato a trovare la bellezza in ciò che possedeva. Per ogni parola che l’aveva lasciata affondare nella tristezza era riuscita, un po’ con l’aiuto di Dakota e un po’ da sola, a rialzarsi. Giorno dopo giorno, senza che se ne accorgesse, era cresciuta forte e orgogliosa delle proprie capacità, poco contava che fossero magiche o meno.

Camminarono a lungo, inoltrandosi nella vegetazione in un silenzio tale che Lucifero cominciò a preoccuparsi, pensando che si fossero persi e che Verity non volesse confessarlo. La ragazza ogni tanto si guardava intorno per orientarsi, ma rimase zitto. Fece bene. Pochi passi e arrivarono a una serra da vetri opachi, scura all’interno. Verity entrò e si sedette sul piano da lavoro, aspettando Lucifero con impazienza: sarebbe stata un lunga notte con tante domande cui dare risposta.

‹‹Immagino tu adesso voglia le tue risposte.››

‹‹Si… Pensi di poter rispondere a tutto?››

‹‹Tutto quello che so è tuo. Niente segreti.››

Verity sorrise, contenta di sentire quella che pareva una promessa, e accarezzò con una mano un bocciolo di rosa nera che presto si sarebbe mostrato nella sua poetica bellezza. Disse a Lucifero di voler conoscere tutto: chi erano Dio e Gesù, se mai fosse esistito; come nascevano gli angeli, cosa l’avesse portato a ribellarsi e cosa fosse successo quel giorno; cosa sarebbe accaduto in futuro e quale fosse il suo ruolo.

Sarebbero state necessarie molte ore per rispondere a ogni domanda, pensò Lucifero, ma la prospettiva lo entusiasmò. Chiuse gli occhi cercando di mettere insieme almeno un paio di argomenti per cominciare quando Verity lo interruppe.

‹‹Torniamo a Eteria. Voglio che parli là, a casa tua, nel bosco.››

Lucifero sorrise e concentrò la sua magia nella pietra e chiese alla ragazza di desiderare di tornare a casa. Era ancora lei a tenerla in mano, un suo desiderio non sarebbe servito a nulla. Fiamme bianche li avvolsero ancora e si ritrovarono nella realtà, abbracciati come quando si erano addormentati. Solo che Verity non si mosse e chiese che le spiegasse anche il battito nella sua testa. La preoccupava.

‹‹Ogni domanda a suo tempo›› disse, e poi cominciò.

‹‹La religione della Terra vi insegna che Dio abbia creato l’universo così come voi lo conoscete, nella sua materialità, in sei giorni, ma mi pare che i vostri studiosi, millenni fa, abbiano anche scoperto come non sia andata realmente così: da una lato hanno entrambi ragione, dall’altro hanno entrambi torto. Dio ha partecipato alla creazione, è vero, ma sotto una forma molto più adatta alla sua natura, ineffabile e spirituale. La sua forza sono le emozioni, buone o cattive che siano: amore, bontà, coraggio. Quanti sono i sentimenti che tu riesci a immaginare o che hai incontrato, tante sono le accezioni di Dio e tanti ne dona, ancora oggi, a chi ne ha bisogno, che venga chiesto con una preghiera o no. Dio è l’emozione, la qualità dell’anima, la caratteristica che fa parte della tua essenza e della mia ed è in ognuno di noi senza esserci veramente. Pensa a una qualità semplice come la bellezza, quella interiore che rende splendido ciò che esteriormente non lo è: è un dono di Dio, una concessione che Dio non sceglie di fare, ma di cui ha l’obbligo perché è la sua natura, e riguarda anche le piante e gli animali. Ogni essere vivente porta dentro di sé l’amore di Dio e lo sviluppa in maniera diversa. Le piante per esempio hanno effetti particolari sugli umani e gli animali…››

‹‹Come quando hanno effetto sull’umore? Ma non è questione di chimica quella?››

‹‹Ci metti poco a capire. È un misto di entrambi, non credere mai che sia tutto scritto e facile.››

‹‹Vai avanti.››

‹‹Stavamo parlando di animali… Sì, anche loro hanno qualità divine come la fedeltà incondizionata al padrone o l’istinto di proteggere i propri cuccioli o come quando specie naturalmente nemiche riescono a fare amicizia e gli uomini le studiano perché non trovano fin da subito una risposta razionale. Una parte di tutto ciò è data dalla sensibilità, ma Dio ha un ruolo in tutto questo. La manifestazione maggiore è però nell’uomo. In lui è sconvolgente e spettacolare perché basta un’influenza minima per creare qualsiasi cosa, una sola piccola scintilla di speranza o di immaginazione o bellezza e nasce un mondo intero. Chi aveva scolpite nell’anima la bellezza o la passione ha creato opere che mai si smette di ammirare tanto ci coinvolgono, che hanno sempre una consiglio da suggerire o un spunto per riflettere e generare altre bellezze con cui adornare quella cornice alla vita che è il mondo: statue, dipinti, libri e musiche che non mi stancavo mai di ascoltare quando ero sulla Terra…››

‹‹Sei stato sulla Terra? Quando?››

‹‹Fammi finire, ti ho promesso di raccontarti tutto e lo farò. Stavo dicendo… Ci sono stati uomini che con poca immaginazione hanno inventato quanto di più sconvolgente potesse esistere e con la speranza hanno trovato la forza di affrontare i recessi più oscuri della propria anima, seguendo solo le proprie idee e cambiando il mondo. Dio è emozione, ideale, amore. Tutto ciò che non capiamo, quanto di sentimentale e spirituale esista. Dona così tanto che ho sempre trovato questo suo obbligo meraviglioso. Per me Dio è sempre stato meraviglia, prima di ogni altra accezione. L’uomo però ha sempre avuto difficoltà nel vederla, nel guardare oltre la superficie, concentrandosi sugli altri e non su sé stesso… Beh, diciamo che non è il solo nell’universo: anche noi angeli non brilliamo per amore e umiltà. Siamo stati capaci di grande odio e di caparbia arroganza, io per primo. L’amore è un emozione individuale, nasce solo e deriva da Dio solo, ma è anche un sentimento collettivo e noi l’abbiamo dimenticato. Per qualche ragione dentro di noi sappiamo che l’unico amore che ci è permesso provare dovrebbe essere quello verso Dio, ma a molti angeli non basta. L’amore è caldo, è rosso come il fuoco che brucia e consuma la vita, ma se è a senso unico con il tempo si trasforma in un ghiaccio affilato che distrugge chiunque lo riceva. Per me, almeno, è stato così, ma sono felice dell’amore che ho provato. Senza, non sarei lo stesso.››

Parlando dell’amore Lucifero aveva aumentato la stretta in cui teneva Verity e lei aveva sentito il battito del suo cuore accelerare. Gli occhi di Lucifero erano fissi davanti a lui e guardavano il vuoto, ricordando qualcosa, sicuramente doloroso. Forse, pensò Verity, poteva accontentarsi e non farlo soffrire oltre...

‹‹Andiamo avanti, altrimenti la notte finirà e noi non saremo nemmeno a metà discorso. Mi avevi chiesto di Gesù e…››

‹‹Non mi interessa! Dimmi degli angeli, com’è possibile che sentiate dentro di voi chi dovete amare?››

‹‹Come vuoi tu, va bene. Allora, da dove posso iniziare… Certo! Dio ha generato, fisicamente, due persone dai suoi sentimenti. Voi le chiamate Benihime, che è nata dalla passione, e Hikarihime, nata dalla speranza. Io in realtà non le ho mai viste in tutta la mia vita, ma sono cresciuto con l’angelo che loro hanno concepito, quindi per forza credo nella loro esistenza. La sua nascita è un po’ strana come fatto, ma è la pura verità. Loro sono nate dai due sentimenti più potenti che Dio possiede, che uniti insieme sono l’amore, e quindi sono esse stesse energia e la emanano, diffondendola intorno a loro, ma sono anche in grado di assorbirla, mostrandone poi i caratteri. Avendo vissuto a contatto con Dio esse hanno potuto assimilare ogni suo sentimento, spartendoli poi equamente. Loro sono due gemelle, completamente identiche, e l’angelo che mi ha cresciuto diceva che nemmeno Dio era in grado di distinguerle. Anziché rimanere nei cieli però, queste hanno preferito scendere sulla Terra e vivere lì: l’uomo non esisteva ancora. Benihime e Hikarihime hanno vissuto millenni sulla Terra, assorbendo parte dell’energia che essa emanava così come avevano fatto con Dio e, contemporaneamente, restituendo la loro magia al pianeta. Da questo ammasso informe di energia sarebbe nato un angelo che chiamarono Sandalphon. Sandalphon era… Non conosco parole abbastanza belle per descriverlo. Non è mai esistito un angelo, o meglio un arcangelo, come lui. Grazie al potere enorme che gli scorreva nelle vene, creò tutti gli angeli custodi che vivono nel Paradiso o nell’Inferno. Nel corso dei millenni alcuni sono morti e sono stati sostituiti da umani speciali, come te, ma il numero dei custodi rimane sempre lo stesso, poi si aggiungono tutte le anime che diventano angeli per qualche motivo. Lui ci ha dato la vita con i sentimenti di Dio e un corpo materiale con l’energia della Terra. Per molti di noi è stato come un padre, per me e Scar più di tutti. Gli chiedevamo spesso di giocare con noi, distraendolo dai suoi doveri, e ogni volta accettava, insegnandoci qualche trucco magico…››

‹‹Vi ha dato lui i nomi? So che sono collegati all’essenza, al passato o al futuro di un angelo.››

‹‹Sì, e no. Fu lui a chiamarmi Lucifero, e in passato mi sono sempre sentito adatto a questo nome, ma fu solo Metatron, molti secoli dopo, a nominare tutti gli altri, Scar escluso. Per qualche motivo fu lui ad ereditare la conoscenza del futuro di ognuno di noi, la stessa conoscenza che possedeva Sandalphon. E mai dono fu più adatto a un arcangelo se non questo: Metatron non ha mai sbagliato un nome, né si è mai approfittato del suo potere per conoscere il futuro. Preferisce le sorprese.››

‹‹Cosa significa Lucifero?››

‹‹Portatore di luce… Ma Sandalphon soleva chiamarmi prima luce: sono stato il primo angelo tra tutti.››

‹‹Ti sarai sentito solo.››

‹‹No. Con me c’era Sandalphon e quando poi ha creato Scar mi ha fatto il regalo più bello che potessi chiedere: un fratello. Essere il fratello maggiore mi ha fatto prendere sul serio la faccenda del portare la luce, dell’essere una guida per gli altri angeli… Ultimamente non ho svolto molto bene il mio ruolo, ma un tempo gli arcangeli raggiungevano il Paradiso solo grazie alla mia luce bianca e…››

‹‹Cosa non va?››

Lucifero non rispose, ma gli occhi brillavano di tristezza e nostalgia.

Gli mancava la sua precedente esistenza, quando ancora la sua luce si diffondeva nella notte fino all’alba, quando era con suo fratello e non aveva bisogno di nascondersi. Da quando aveva consacrato la sua vita all’attesa di lei, era stato solo. Certo, Raziel e Metatron erano rimasti sempre al suo fianco, ma sentiva la mancanza del suo fratellino e la solitudine l’aveva morso lentamente, affondando i denti ogni giorno di più. Senza che se ne accorgesse era diventato oscuro, cupo e non brillava più.

‹‹Quando Sandalphon ha ritenuto di aver creato abbastanza angeli, è sceso sulla Terra. Sai, noi non eravamo esattamente una comunità ordinata. Lottavamo, litigavamo spesso. Nessuno accettava gli ordini di un altro, ubbidivamo solo a lui e così lui creò qualcuno che avrebbe potuto tenerci tranquilli. Si fuse con il nucleo della Terra e in varie epoche storiche nacquero gli arcangeli, ognuno ottenendo un diverso bagaglio di conoscenze.››

‹‹Praticamente, tutto deriva da Dio come in una lunga catena. Siete tutti collegati a lui.››

‹‹Sì… Ma la cosa bella è che lui non ci controlla. Non gli interessa cosa facciamo, se ci piace il rosso o il blu, se scherziamo tra noi o combattiamo: lui ci ama in ogni caso perché ci ha fatto il dono più grande, la libertà. La coincidenza di materia spirituale però ci spinge verso di lui come una marea, e sentiamo di dovergli amore e riconoscenza. Gli arcangeli, che però di spirito ne hanno molto poco, ci hanno sempre detto che non potevamo amare nessun altro all’infuori di Dio, che sarebbe stato irrispettoso.››

‹‹Allora è per questo ti sei ribellato, vero? Perché non potevi amare chi desideravi.››

‹‹Sì, qualcosa del genere. Anche se non è andata esattamente come speravo andasse. Ho trascinato con me molti angeli che erano felici lo stesso. Non so se Sandalphon sarebbe orgoglioso del mio comportamento, a volte penso che non lo sarebbe affatto››.

Tutto il castello che Verity aveva costruito negli anni di studio sulla Terra era crollato nel giro di poche conversazioni. E se Lucifero non si era ribellato per superbia, chissà quante altre cose erano sbagliate nei libri che aveva letto! Ma diversamente da quando aveva parlato con Raziel, quella volta non le sembrò di sentirsi cadere il mondo addosso. Lucifero parlava tranquillamente, e provava in tutti modi a metterla a suo agio; tutto quello che diceva aveva un filo logico, una direzione che non poteva essere cambiata. Se fosse stato tutto falso, sarebbe stata una menzogna troppo dettagliata. Sarebbe bastata una domanda specifica fuori programma e l’avrebbe smontata. Eppure non riusciva a fare a meno di credere ad ogni singola parola, come se sentisse, nel suo profondo, che fosse tutto vero. Decise di non fingere allora, e di esprimere solo quello che realmente pensava.

‹‹Non credo. Ti sei battuto per i tuoi sentimenti in fondo… Forse il metodo era un po’ sbagliato, ma non penso che tu lo abbia deluso.››

Lucifero, per la prima volta in quella discussione, sorrise, pensando a quanto l’essenza di Caliel fosse presente in quella ragazza. Chiuse gli occhi un secondo e si beò del calore di Verity: la sua sola presenza bastava a rasserenare la sua anima nera. Ascoltava dentro di sé e sentiva la sua forza crescere e cementificarsi mentre occupava lo spazio vuoto della sua immortalità; percepiva la luce leggera che gli scorreva come sangue nelle vene e rifioriva come i gigli bianchi, riscaldandolo.

Si era sempre chiesto cos’avrebbe provato nell’abbracciare la donna che amava, nel tenere stretta a sé l’unica donna per cui avrebbe perso tutta la sua luce pur di vederla brillare e parlarle, raccontarle la sua vita e le sue avventure. Aveva provato a immaginarlo nella sua mente, chiudendosi tra le ali nere, ma nulla era paragonabile alla realtà. C’erano leggerezza e responsabilità, coraggio e paura mescolati.

‹‹… Di chi eri innamorato?››

‹‹Di una donna bellissima›› sussurrò, guardando per un istante fuori dalla finestra.

Verity avrebbe voluto essere guardata negli occhi mentre pronunciava quelle parole. Qualcosa le prese lo stomaco, lasciandole l’amaro in bocca, come se si sentisse offesa dal sentirlo parlare di un’altra donna mentre la stringeva tra le sue braccia. Non era accettabile… In fondo, però, perché avrebbe dovuto importarle? Certo, le sorrideva con un sorriso che avrebbe fatto sciogliere anche un castello di ghiaccio, ma lui si era ribellato per una donna che non era lei e lei doveva sapere cosa fosse accaduto per decidere se fidarsi di lui o meno, se credere alle sue belle parole o meno. Si stava pentendo di aver fatto quella domanda così spontaneamente.

Lucifero si era probabilmente accorto dei suoi pensieri, perché posò la guancia sulla testa di lei e la strinse ancora un po’ di più a sé.

Questa volta fu Verity a guardare fuori dalla finestra. Balzò in piedi vedendo le nuvole rosee dell’alba, preoccupata che non sarebbe riuscita a tornare indietro prima che Hariel andasse a svegliarla. Si mosse di pochi passi intorno e si voltò verso Lucifero: la fissava disorientato, sfiorando con la mano il punto dove aveva tenuto la camicia. Sembrava un bambino abbandonato dalla madre, non un angelo. Sembrava solo un uomo.

‹‹Perché mi fissi così?›› gli chiese in un sussurro.

‹‹Speravo avessimo più tempo, che avremmo potuto parlare di più.››

Lucifero però sapeva che la ragazza doveva tornare da Hariel il prima possibile se non voleva essere scoperta e rimproverata per essere uscita sola. Le disse di desiderarlo come ogni volta e la gemma l’avrebbe riportata a casa. Lei scomparve tra le fiamme bianche, mimando scuse invisibili con le labbra.

Lucifero sbatté la nuca contro la parete, non riuscendo a credere che il tempo fosse passato così velocemente. Non le aveva nemmeno accennato cosa fosse accaduto durante la guerra e sicuramente aveva frainteso la donna per cui si era ribellato. Avrebbero dovuto chiarire al più presto quella questione… Ma quando si sarebbero rivisti ancora?

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

Verity si svegliò emettendo un sonoro sbadiglio. Era rimasta a chiacchierare con Hariel fino a notte fonda, lasciandola raccontare tutto quello che le veniva in mente e rispondendo gentilmente ad ogni sua domanda. Rimase nel letto a dormicchiare ancora un po’, poi si alzò e fece colazione con l’amica, scoprendo che quella mattina l’allenamento si sarebbe svolto solo con Scar.

Com’è possibile? Nemmeno Lelahel a farmi compagnia o ad aiutarmi…

Sbuffò quando fu costretta a dividersi da Hariel al bivio e proseguì da sola verso la radura dove si era svegliata la prima volta, planando lentamente dal Paradiso. Scar l’aspettava già, seduto sul prato ancora fresco per la rugiada, e la osservò fino a che non lo raggiunse.  La salutò educatamente ma in modo freddo e Verity si chiese se fosse ancora arrabbiato per averlo cacciato il giorno prima.

Le spiegò a parole qualche incanto per difendersi in caso di necessità, glieli fece vedere e lavorarono su di essi gran parte della mattinata.

All’inizio non riusciva nemmeno a concentrare abbastanza energia e canalizzarla al di fuori del proprio corpo, facendosi scudo dagli attacchi di Scar solo con le ali che irrigidiva. Alcune volte però, accadde che, mentre spostava le ali, una piccola parte di magia venisse abbandonata, aggregandosi spontaneamente in una forma circolare che svaniva quasi subito. Dedicò l’intera mattina solo a quello e alla fine poteva dire di essere, almeno un minimo, migliorata, passando da piccoli scudi inconsistenti a vere e proprie protezioni che la coprivano completamente, anche se duravano una manciata di secondi e non resistevano ad un attacco debole. Crearli la stancava, soprattutto a livello mentale.

A pranzo mangiò appena qualche fragola, distendendosi sull’erba all’ombra di una quercia. Lo sforzo le aveva chiuso lo stomaco e sentiva un po’ di nausea. Nonostante la delusione dipinta sul volto di Scar, si rifiutò di mangiare altro.

Sulla radura scese un silenzio assordante, interrotto appena dal timido gorgoglio della fonte. Né Verity né Scar sentivano il bisogno di parlare, entrambi perfettamente a loro agio nella quiete. La ragazza guardava il cielo, ancora stupita dal fatto che quel giorno non ci fosse nessuna nuvola a coprirlo. Era bello, ma piatto come uno specchio, senza la possibilità di cambiare espressione. Aveva smesso di contare i giorni passati da quando si era risvegliata e così fissava il cielo, distratta ogni tanto dal volo di una farfalla o di una coccinella che riposavano sul suo naso e ripartivano. Pensava a Lucifero, e non capiva perché occupasse una così grande parte dei suoi pensieri. In ogni argomento, in ogni ricordo che affiorava alla sua memoria, Lucifero si infiltrava anche se non era per nulla connesso. Anche mentre Scar parlava, la voce del caduto si sovrapponeva alla sua, distraendola dal filo del discorso. E mentre pensava non sentì Scar chiederle qualcosa, come non lo aveva sentito avvicinarsi.

Più Scar la osservava, più sentiva che lei poteva aiutarlo: gli donava tranquillità e serenità, liberando la mente da ogni pensiero.

Chissà se per Lucifero è la stessa sensazione, si chiese.

Alcune sere prima era andato da Hariel per scusarsi, ma non l’aveva trovata nel suo letto. Per un attimo aveva sudato freddo, pensando che qualcuno l’avesse rapita o le avesse fatto del male, ma non c’erano segni di lotta nella stanza. Hariel dormiva profondamente e si era tranquillizzato. Se fosse accaduto qualcosa, sarebbe stata in piedi, a girare come una disperata per la casa, senza sapere cosa fare. Convinto che fosse al sicuro e non sapendo dove cercarla, era tornato sulla Terra per eseguire gli ordini di Michele.

Quella mattina aveva sospirato di sollievo vedendola arrivare, ma non lo aveva mostrato, rimanendo freddo. Eppure desiderava mostrare a Verity le gentilezze di cui era capace e farle sapere che lui era lì per lei, per aiutarla. L’aveva scossa appena per la spalla, ma non aveva dato segno di accorgersene. Pensò che fosse svenuta dato che aveva mangiato pochissimo, ma dopo un po’ si risvegliò.

‹‹Dobbiamo allenarci ancora?›› gli chiese con la voce impastata dal silenzio.

‹‹No, possiamo aspettare ancora un po’… Però volevo sapere, dove hai dormito alcune notti fa? Sono venuto a controllare che stessi bene, ma non c’eri.››

Verity sgranò gli occhi, come se si sentisse insultata dalla domanda.

‹‹Controllarmi? Scar basta, non sono un cagnolino, mi sono stufata di essere guardata a vista, e comunque non sono affari tuoi quello che faccio o non faccio.››

Scar la prese per un polso mentre si alzava, trattenendola al suo fianco: ‹‹Sono affari miei invece, dato che ho il compito di proteggerti.››

Verity guardava dall’altra parte, di fronte a sé, irata. Provò a liberarsi con un primo strattone ma fallì.

‹‹Non te l’ho chiesto io.››

Strattonò ancora una volta e Scar la lasciò andare. Sbatté le ali con forza e si alzò in volo, dirigendosi verso il bosco.

Scar fissò quel puntino fino a che non scomparve completamente nell’azzurro del cielo. Cosa passasse per la testa di quella ragazza davvero non riusciva a capirlo: perché non poteva lasciarlo essere la sua ombra senza mostrarsi così risentita? Era solo per lei…

 

Verity volava veloce sopra una corrente gelida. Tremava per il freddo, ma in quel momento non le importava. Il volo non durò molto e atterò di fronte all’entrata del bosco di Lucifero. Vi si avventurò seguendo il sentiero per il portale. Non voleva vedere angeli, e sicuramente lì dentro non ne avrebbe incontrati: era un luogo troppo oscuro per un angelo comune. Si sedette sul muschio umido e appoggiò la schiena, le ali, a un tronco verde scuro, pensando alle parole di Scar.

Da quando proteggermi è un suo compito? Deve farlo perché lo desidera, ma perché? Forse può avergli detto qualcosa Lelahel, chissà…

Una gazza spiccò il volo da un cespuglio, spostandone leggermente i rametti. Spuntò un pezzo del portale.

Verity si alzò e spostò la vegetazione, guardando dentro quella finestra sull’Inferno. Non c’erano dannati in vista, né sembravano essercene nascosti nell’ombra. Forse poteva andare da Raziel e Metatron: avrebbero fatto apparire la scala per salire al loggiato anche senza parole magiche. Sfiorò il portale. Sembrava di vetro, ma era scivoloso e fluido al tatto. Spinse la mano all’interno e la sentì anche uscire, come se lo strato fosse spesso poche decine di centimetri. Si immerse fino alla spalla, poi fece uscire la testa e infine il resto del corpo con le ali.

Sorrise tra sé, spostando il peso da un piede all’altro e inclinando la testa a sinistra, con un’espressione eccitata e sorpresa. Guardò la landa desolata di fronte a lei. Era sempre arsa dal fuoco, ma le pareva meno spaventosa della prima volta. In lontananza vedeva le rovine della vecchia città e decise di muoversi verso di loro, sperando di non incontrare nessuno. Non avrebbe saputo cosa dire, né cosa fare. Probabilmente avrebbe potuto volare fin lì, ma camminare le piaceva di più, anche se stava impolverando l’orlo del vestito, macchiandolo di terra rossa. La terra era tiepida e il contatto piacevole anche se i sassolini ogni tanto le davano fastidio.

Proseguì con calma per un po’, guardandosi intorno come non aveva fatto con Hesediel, quando cercava solo di sopportare il mal di testa. Non l’aveva quasi più infastidita dalla prima volta in cui aveva incontrato Lucifero. Il suono dei tamburi si era molto affievolito e, anche se lo sentiva ancora rimbombare lontano, non la faceva soffrire. Com’era riuscito a quietarlo?

L’aveva abbracciata e dopo aveva emanato quel calore meraviglioso e rilassante, ma ricordava solo di essersi svegliata tra le sue braccia, cullata dolcemente e fissata dai suoi occhi neri.

Quando qualcuno le picchiettò sulla spalla destra si girò con naturalezza. Udì una melodia dolce e cadde tra le braccia di qualcuno.

 

Scar era rimasto sotto l’albero ancora qualche ora dopo la fuga di Verity, sapendo di aver sbagliato qualcosa, anche se non capiva cosa. Si stava arrovellando per trovare l’errore quando fu raggiunto da Hariel, che proveniva dal palazzo degli arcangeli e cercava la ragazza.

‹‹È scappata via da qualche parte.››

Hariel guardò Scar un po’ sorpresa, poi abbassò gli occhi. Si concentrava per trovare la sua anima.

Hariel era in grado di percepire l’anima di ogni angelo. Sentiva quelli del Paradiso, gli arcangeli, gli umani defunti che vegliavano sui propri cari, ma Verity… Lei non la sentiva.

‹‹Hariel, la senti?››

‹‹No›› disse lei con gli occhi già pieni di lacrime ‹‹Dobbiamo trovarla, potrebbe essere in pericolo!››

Scar la prese per un braccio e mormorando parole sottovoce li smaterializzò di fronte alla casa dell’anziana Mary.

‹‹Mary, siamo noi! È urgente, dove sei?›› urlò Hariel appena entrata, ma nessuno le rispose.

La casa di Mary era anch’essa più grande all’interno, ma molto di più rispetto a quella di Hariel: c’erano molte stanze, collegate da porte di legno scuro, liscissime, dai pomelli dorati. All’interno i mobili erano di ebano nero, coperti da centrini in pizzo e vasi di fiori; le pareti erano cilindri di legno posti l’uno accanto all’altro e l’aria era impregnata di resina e cannella, che pungeva le narici e faceva starnutire Hariel di continuo.

Attraversarono alcune stanze, sempre chiamando la donna, ma ancora non rispondeva.

In cucina videro la teiera sui fornelli spenti, a fianco una teglia di biscotti e un dolce di pan di spagna tagliato a metà. Profumava di rose e Scar si irrigidì. Conosceva una sola persona che mangiasse torte alle rose e non aveva la minima voglia di incontrarla.

Uscirono e percorsero un lungo corridoio coperto di tappeti che si susseguivano in un arcobaleno di colori caldi e freddi. Tutte le camere che si affacciavano erano però vuote.

Cominciarono a preoccuparsi.

Il corridoio terminava con un altro portone, simile a quello d’ingresso, ma con una finestrella in vetro giallo al centro. Sbirciarono e sospirarono di sollievo: Mary era dentro, seduta su una poltrona dall’aspetto confortevole, in stoffa verde, con un libro in mano e una pila di libriccini sul tavolino alla sua destra. C’era anche la metà mancante del dolce, dei piattini e un coltello. Su uno dei ripiani liberi della libreria vi era invece una fila di tazzine di porcellana azzurra, una teiera argentea e dei cucchiaini in una scatola trasparente.

Agli angeli piacevano gli oggetti creati dagli umani e Mary non era da meno nella sua collezione. Per tutta la sua vita aveva raccolto, catalogato e utilizzato come preferiva ogni reliquia che i giovani le portavano, la biblioteca era solo una piccola parte.

Entrarono spingendo la porta insieme: loro avevano il fiatone, mentre Mary alzò con calma lo sguardo dal libro, accogliendoli dolcemente.

Probabilmente era la persona più enigmatica del Paradiso, ancora più di Kamael, per via di quel sorriso sempre benevolo che sembrava stampato sul suo viso. Scar non ricordava di averla mai vista arrabbiata o averla sentita urlare. Quello sarebbe stato il giorno.

‹‹Scar, Hariel, che piacere vedervi. Accomodatevi pure, volete della torta?››

I due si guardarono rapidi. Hariel diede una gomitata al costato di Scar, che sobbalzò.

‹‹Io e Verity abbiamo avuto una discussione. È scappata via e non riusciamo a trovarla.››

Il sorriso scomparve sul viso dell’anziana, che posò il volume sopra gli altri. Si alzò e si avvicinò a Scar, lentamente. Gli accarezzò la guancia con materno affetto.

‹‹Razza di idiota!›› disse schiaffeggiandolo.

‹‹Mary, che succede?›› chiese una voce dal davanzale della finestra.

Il volto di Scar, voltato a sinistra, era rivolto verso la parete della biblioteca; Mary si era girata a destra per rispondere al nuovo arrivato come se nulla fosse accaduto; Hariel continuava a spostare lo sguardo da una persona all’altra, sconvolta da tutti e tre. Scar non reagiva, Mary gli aveva tirato una sberla e Lucifero stava scendendo dal davanzale come se fosse la cosa più normale del mondo.

Ora che ci pensava era una delle prime volte che vedeva Lucifero in circostanze così informali. Si erano seduti sulle poltrone e sul divano e stavano mangiando la torta alle rose. Tolto Scar, e lei stessa, gli altri due sembravano a loro agio, come se eventi del genere accadessero ogni giorno.

Lucifero si era accomodato sulla poltrona senza invito, come se conoscesse già il suo posto a fianco a Mary. Sicuramente era stupito dalla loro presenza, ma non lo aveva dato a vedere più del necessario, salutandoli cordialmente. Si era soffermato su Scar, indugiando sul suo volto, e aveva sospirato tristemente. Sapeva che non andavano d’accordo, anche se non aveva ben chiara quanta distanza li dividesse. In realtà non le era importato più di tanto all’inizio e anche in quel momento le sembrava una questione marginale. Solo che le loro divergenze avrebbero potuto impedire una collaborazione per trovare Verity. Ritornò nella stanza anche con la mente per ascoltare la conversazione, che sembrava vertere sulla bontà della torta.

Lucifero aveva più volte cercato di cambiare argomento, con poco successo.

Alla fine ci riuscì: ‹‹Mary, perché hai schiaffeggiato mio fratello?››

Hariel vide i nervi di Scar tendersi, le mani stringere con forza gli avambracci, come se avesse avuto paura di una reazione del caduto.  Certo, Lucifero possedeva un fisico invidiabile, ma qualcosa nell’espressione le suggeriva che non avrebbe mai fatto seriamente del male all’angelo al suo fianco.

‹‹È scappata dopo una discussione con lui e non riescono a trovarla›› disse Mary.

Lucifero scattò in piedi, rovesciando il thè, i libri e il divano e sbatté Scar contro il muro, a fianco alla finestra, tenendolo per la gola. Gli sussurrava qualcosa in un’antica lingua e lui rispondeva in rantoli strozzati: lo stava strangolando. Hariel si era alzata in piedi e li fissava sconvolta. La manica della camicia di Lucifero, lasciata sbottonata, scivolava sul braccio e mostrava il muscolo in tensione. Non era fuori controllo, tutt’altro. Lucifero stava stringendo molto meno di quanto avrebbe voluto.

‹‹Avevi promesso, Scar.››

‹‹L’ho fatto, lei… Lei non vuole essere controllata…››

‹‹Certo! La soffochi, la soffocate tutti!›› urlò l’angelo.

Mary posò una mano sulla spalla sinistra di Lucifero e questo lasciò la gola di Scar, indietreggiando di qualche passo e appoggiandosi allo schienale del divano che aveva rimesso a posto mentalmente con una magia. Si coprì il viso con un braccio, respirando pesantemente e cercando di dominare la rabbia.

Non guardare nessuno probabilmente lo aiuta, pensò Hariel.

Improvvisamente le venne in mente un’altra idea: quanto poteva essere stato terribile e instancabile quell’angelo durante la guerra? Era scattato come un animale selvatico, come una madre che vede i suoi cuccioli minacciati, senza pensare che avrebbe potuto ferire seriamente Scar o forse lo aveva fatto… Questo avrebbe spiegato il controllo della forza, ma non lo scatto ferino di pochi secondi prima.

Mentre Hariel pensava tra sé e sé, gli altri avevano iniziato a parlare, discutendo animatamente. Le voci si accavallavano così tanto che era difficile capire chi avesse proposto prima una determinata idea, ed erano solamente in tre.

‹‹Hariel, tu cosa proponi di fare?›› le chiese Scar.

Le guance le si colorarono di un rosso acceso: non aveva capito una sola parola di quello che avevano detto fino a quel momento. Sorrise imbarazzata e Scar le spiegò che pensavano di parlare con Michele e chiedere il suo aiuto.

‹‹Aspetta, dove hai detto che si è diretta?›› chiese Lucifero.

‹‹Verso il tuo bosco, perché?››

‹‹Nel bosco c’è il portale per l’Inferno, Scar, e credo che lei sappia della sua esistenza.››

Più che un’ipotesi, quella di Lucifero sembrava una certezza.

‹‹Se fosse vero sarebbe in grave pericolo! Un qualunque dannato potrebbe attaccarla senza pietà.››

Lucifero fissò Hariel, stupito che avesse parlato. La guardiana aveva una strana visione degli angeli dell’Inferno. Sapeva per certo che fosse scesa nella voragine una sola volta e perciò i suoi commenti diventavano automaticamente invalidi. Ma lei era la custode del Paradiso, e il solo fatto di non essere legata a nessuno di quel luogo probabilmente doveva elevarla molto al di sopra degli angeli caduti, o almeno così dovevano averle insegnato. Restava il fatto che ben pochi avrebbero mai fatto del male alla custode di Eteria: i più vendicativi avrebbero preferito farla schiava e sfruttare il suo immenso potere per combattere un’altra guerra; gli altri erano pezzi di pane che l’avrebbero accolta nelle loro misere abitazioni. Eppure conosceva ogni angelo rinchiuso lì e gli angeli crudeli non si contavano sulla punta delle dita. Oppure Verity avrebbe potuto anche solo nascondersi per rimanere sola. L’avrebbe capito. Ricordava bene l’oppressione del controllo e quella sensazione di impotenza e prigionia che ne deriva e che ti blocca mattone dopo mattone nel mezzo della tua esistenza.

‹‹I dannati non possono superare la barriera, è molto più probabile che l’abbia oltrepassata lei.››

Mary guardò Lucifero e lui le porse il braccio, invitandola a uscire.

‹‹Dove state andando?››

‹‹Nell’Inferno, Hariel. Ed è bene che ci segua anche tu, dovrai localizzare l’anima di Verity una volta là o, almeno, provarci›› disse l’anziana.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

Lelahel si svegliò all’improvviso, sentendo un gruppo di angeli attraversare il portale, precisamente quattro. Lo sguardo cieco fissava il buio, cercando di collegare le anime ai nomi, per decidere se accoglierli o portarli dagli arcangeli.

Riconobbe Scar, Hariel e… Lucifero? Allora chi aveva attraversato lo specchio poche ore prima?

Si congedò dagli arcangeli, che la osservavano allarmati, con un sorriso forzato e la fronte corrugata nello sforzo di espandere quanto più possibile i suoi sensi per trovare la prima anima entrata nel Regno.

Volando velocemente verso il primo gruppo, si fermò davanti ad un palazzo in rovina, interamente bruciato. Sentiva la presenza di qualcuno sotto le macerie anzi, di tanti angeli che contenevano la propria anima in un’emanazione minima, tanto bassa che tutte insieme non ne formavano una intera. Atterò su un masso sporgente, ma nulla intorno a lei suggeriva la presenza di un ingresso nascosto, a meno che… Una singola colonna era rimasta in piedi, per nulla rovinata dal fuoco e dal fumo. Strano, pensò. Picchettò con le nocche. Era cava, dunque leggera, dunque poteva calarsi.

La cavità si sviluppava in un tunnel non molto lungo, illuminato dal bagliore che arrivava dalla fine. Avrebbe dovuto raggiungere il gruppo, sapere perché fossero insieme lì, forse avrebbe addirittura dovuto portare gli arcangeli con lei per sicurezza.

No.

La guardiana era lei, il resto avrebbe aspettato i suoi tempi.

Non c’era motivo per i dannati di nascondersi tra di loro, né da lei: se lo facevano, c’era allora qualcosa che non funzionava. Era quasi giunta alla fine del tunnel quando notò due angeli a fare da guardia all’apertura nella roccia che si apriva dall’altro lato.

Non voleva fare loro del male.

Non poteva fare loro del male, erano suoi fratelli.

Scelse di addormentarli con una vecchia ninnananna insegnatale da Haniel, che ogni sera gliela cantava quando era piccola. Li avrebbe fatti dormire profondamente per alcune ore e avrebbero sognato soltanto felicità e allegria.

La nenia raccontava di una donna che aspettava il marito, marinaio, partito per mare, e delle avventure che questo viveva sul veliero. Finiva in modo ambiguo: l’uomo si innamorava di una sirena, ma non si capiva se, alla fine, rimanesse con lei o tornasse dalla moglie. Era da tempo però che non cantava il finale. Tutti si addormentavano sempre prima e lei non aveva il cuore di terminare la strofa. Mai.

Li sorpassò con un sospiro stanco: erano, ancora, Harael e Lecabel. Ciò significava solo che dall’altra parte della stanza c’era Yelahiah con chissà quali altri suoi seguaci. Non c’era modo di far cambiare idea a quell’angelo e fargli capire le motivazioni di Lucifero. Lui doveva sempre avere un motivo per creare discordie e per lottare. Scivolò silenziosa lungo il corridoio di pietra, fino a una sporgenza nella roccia che sfruttò per nascondersi. Stava per ripartire quando sentì Yelahiah parlare e le gelò il sangue.

‹‹Bene, bene, bene. Da quando una custode viene nell’Inferno tutta sola? Non te l’hanno insegnato, piccola Verity, che questo luogo è pericoloso?››

Da quanto tempo Verity era rinchiusa sottoterra? Quante ore potevano essere passate da quando era entrata nell’Inferno? Quante ancora ne sarebbero trascorso prima che la lasciassero andare?

Verity non rispose al dannato, anche se le sarebbe piaciuto farlo. L’aspetto da angelo lo aveva cambiato. Era diventato più muscoloso, incredibili le trasformazioni fisiche che la magia poteva compiere. Avrebbe però riconosciuto quegli occhi ovunque e su qualsiasi corpo li avesse visti, anche in mezzo ad una folla di iridi rosse. Non si dimenticano facilmente gli occhi di chi ti ha ucciso.

‹‹Perché non mi rispondi Dov’è il tuo orgoglio, andiamo! Lelahel avrebbe combattuto, forse ci avrebbe uccisi tutti e…››

‹‹Hai un’idea sbagliata di Lelahel. La conosco poco, ma so per certo che non vi ammazzerebbe mai.››

Verity cercava di conservare tutte le energie che riusciva a racimolare: la testa le girava vorticosamente, in un girotondo infinito che le rendeva difficile anche solo pensare al suo nome. La frase che aveva appena detto le era costata molto. I muscoli le dolevano per gli sforzi che aveva fatto nel cercare di liberarsi da quell’incantesimo immobilizzante; il fianco pulsava dolorosamente per ferite che nemmeno più ricordava di aver subito. Gli insegnamenti di Scar erano valsi a ben poco ed era solo colpa della sua ingenuità se era andata in giro distrattamente come una sciocca ragazzina.

E si era fatta catturare.

‹‹La conosco molto meglio di te, e so che farebbe qualsiasi cosa…››

‹‹A parte uccidere un fratello, Yelahiah.››

Lelahel era uscita dal suo nascondiglio indignata dalle parole dell’angelo: ‹‹Non ho combattuto contro di voi durante la guerra, non potrei mai farlo ora. Lo sai benissimo.››

La guardiana era adesso faccia a faccia con l’angelo e aveva aperto le ali come un’aquila, per cercare di intimorirlo. Non lo avrebbe mai spaventato così tanto da perdere la sua maschera di spavalderia, ma abbastanza da fargli riconsiderare l’idea di attaccarla, con il rischio di far crollare tutto il sotterraneo.

‹‹Dammi Verity e me ne andrò senza fare nulla.››

‹‹Dici di non voler combattere ma mi minacci?››

Lelahel stava calcolando il tempo, cercando di farne passare la massima quantità possibile in attesa che arrivassero Scar e Lucifero. Così la minaccia sarebbe stata più reale ma, soprattutto, avrebbe avuto la certezza che non si sarebbero scontrati.

‹‹Lucifero sta arrivando. Io non vorrei essere al tuo posto quando lui la vedrà in questo stato. Rimane l’angelo più potente dell’intero creato, con o senza luce.››

La minaccia di Lelahel era diventata un consiglio: Lucifero non avrebbe avuto pietà di lui. E nemmeno i dannati che parteggiavano per Lucifero.

Lelahel sperava di evitare una nuova lotta e un’ulteriore distruzione dell’Inferno, soprattutto perché Verity, anche se quasi incosciente, l’avrebbe percepita e ne avrebbe sofferto. Era così distrutta che lei stessa riusciva a sentirne le emozioni: sarebbe crollata da un momento all’altro. Le arrivavano ondate di paura e sconforto. Tutte le difese della ragazza erano scomparse.

‹‹A una condizione›› disse Yelahiah.

‹‹Cosa vuoi?››

‹‹L’accesso alla Terra. Voglio poter attraversare la barriera quando desidero, senza infrangere la legge.››

Che bastardo!

Yelahiah sapeva uscire senza essere visto e ritornare senza che nessuno, neppure lei, si accorgesse della sua assenza e pretendeva un accesso regolare Era un diavolo, non un angelo, e per giunta un diavolo pericoloso e violento. Eppure, per quanto ardentemente lo desiderasse, non poteva rifiutargli la richiesta, a meno di non abbandonare Verity o scatenare una battaglia con Lucifero.

Sospirò a malincuore: ‹‹Accetto.››

Non avrebbe mai abbandonato Verity.

Yelahiah si spostò di lato, sotto lo sguardo un po’ stupito dei due angeli che erano con lui, e Lelahel poté avvicinarsi alla guardiana. La prese in braccio, rendendosi conto che non c’era spazio per passare entrambe a quel modo.

‹‹Vai tranquilla, Lelahel. Non abbiamo intenzione di attaccarvi: ora ho tutto quello di cui ho bisogno.››

Fece levitare Verity di fronte a lei e ripercorse il tunnel, tirando un sospiro di sollievo quando uscirono nella piana. Lì la prese in braccio. Si allontanò volando, cercando di intravedere Lucifero, Scar e Hariel in lontananza. Li vide ad appena qualche minuto di distanza, al livello del suolo. Scese di quota e disse loro di seguirla fino dagli arcangeli: ‹‹Adesso è lei la priorità.››

L’unico arcangelo presente era Raziel, che non fece domande e si prodigò per fornire tutto quello che aveva per prendersi cura della ragazza. Questa si era abbandonata tra le braccia di Lelahel durante il volo, perdendo i sensi. La distesero sul divano, poggiando la testa sulle gambe di Mary, che le pulì il viso e le braccia con un panno inumidito. Raziel, in piedi accanto alla donna, osservava con preoccupazione le ferite della giovane. Le avevano tolto l’abito bianco, lasciandola solo con la sottoveste azzurra, macchiata di sangue.

Hariel la osservava spaventata. Lei non ricordava bene quello che aveva visto la prima volta che era entrata nell’Inferno e nemmeno aveva mai voluto sentire i resoconti delle battaglie a cui gli arcangeli avevano assistito. Non voleva ammetterlo ma, per la prima volta da quando era stata nominata guardiana, aveva paura. Lei non avrebbe saputo come gestire una situazione come quella. Non sarebbe risuscita nemmeno a tirare fuori un solo incantesimo utile per salvare la guardiana. Placare le controversie in Paradiso era molto più semplice che nell’Inferno, bastava discutere civilmente. Andò da Lelahel: voleva sapere tutto, voleva essere pronta per il futuro.

Scar e Lucifero, in un angolo, fissavano Verity animati da diversi stati d’animo.

Scar non osava incontrare lo sguardo di Lucifero. Non voleva essere sbattuto contro il muro e quasi strangolato un’altra volta, anche se sentiva di meritarlo. La colpa era sua, e lo sapeva, ma non aveva idea di come avrebbe potuto evitarlo. Non comprendeva le ragioni di Verity e men che meno perché avesse deciso di rifugiarsi proprio nell’Inferno. Non era stato in grado di relazionarsi con lei: o si ignoravano completamente o litigavano, e a quel punto giurare di volerla proteggere diventava ininfluente. Aveva promesso che si sarebbe occupato di lei, ma la sua presenza era mal tollerata. Tanto valeva allora che Lucifero si preoccupasse di lei. Però dovevano chiarire, doveva sapere. Guardò Lucifero, senza muovere il volto per non farsi scoprire. Avrebbe riconosciuto quello sguardo ovunque, quell’espressione in qualsiasi momento. Era quella che indossava quando era furioso con se stesso e, contemporaneamente, deluso; quando tratteneva il desiderio di compiere una strage perché sapeva che dopo se ne sarebbe pentito. Anche se aveva tagliato i rapporti e cercato di dimenticare quella che era stata la loro fratellanza, non riusciva a fare a meno di volerlo aiutare, di voler alleviare ciò che provava. Non poter fare nulla acuiva il senso di colpa.

Verity iniziò a lamentarsi nel sonno, prima sommessamente con appena qualche sussurro e poi sempre più rumorosamente. Lucifero fu in un secondo accanto a lei mentre Mary le rinfrescò la fronte con più frequenza. Cercarono per qualche minuto di calmarla con le parole e di tenerla ferma per paura che le ferite sanguinassero ancora. Funzionò poco. Alla fine Verity si liberò della stretta di Mary e di Raziel, che si era avvicinato per aiutare, mentre Scar e le guardiane rimanevano a distanza.

‹‹Sta ricordando qualcosa della sua vita passata?›› chiese Hariel, incerta.

Aveva sentito che i ricordi portavano alle anime umane una grande sofferenza nella mente, soprattutto se queste si incarnavano in angeli custodi, anche se non aveva mai approfondito l’argomento.

Lucifero rispose prima ancora che Mary potesse pensare a una risposta: ‹‹No, abbiamo recuperato la maggior parte della memoria in un sogno… Questi sono i battiti dell’anima.››

‹‹Battiti… Come quelli che sente Gabriele?››

Hariel adesso era curiosa. I battiti dell’anima erano qualcosa di sconosciuto. Fino ad allora solo Gabriele li aveva sentiti, e, anche se lui raccontava molto poco di quello che provava, lei aveva cercato di scoprire quanto più possibile.

‹‹Ma è una cosa fantastica, incredibile, è un…››

‹‹È un dolore immenso, Hariel. Smettila di esaltarti! Anzi, smettila di comportarti come un angioletto stupido e superficiale.››

‹‹Lucifero, non è il caso…››

‹‹E invece si, Mary. Deve aprire gli occhi: il Paradiso è bello e piacevole, ma all’Inferno si cresce in fretta. E lei, che è una guardiana, dovrebbe saperlo. Ora andate a fermare quel pazzo! Se lo facessi io non risponderei di me stesso e non voglio aggiungere altre vite spezzate di cui pentirmi.››

Lelahel fece un cenno con il capo e ordinò ad Hariel di seguirla fuori dal loggiato; Scar, capendo che non sarebbe stato di nessuna utilità lì, decise di andare con loro. Inoltre, senza di lui, Lucifero si sarebbe calmato prima.

 

Mary continuò ad accarezzare la fronte di Verity e Lucifero le rimase accanto, entrambi sopportando le grida e le lacrime della guardiana. Raziel, che si era allontanato lasciando il suo posto a Lucifero, rifletteva tra sé e sé, passando freneticamente da un pensiero all’altro, pieno di dubbi su quello che fosse accaduto alla ragazza. Se avesse potuto, ne avrebbe parlato con Michele, che sicuramente avrebbe formulato un teoria in pochi secondi. Non importava. Avrebbe discusso con Metatron non appena fosse tornato dalla città dei Nephilim.

‹‹Lucifero, non è meglio se riduciamo il battito? Ha già sofferto abbastanza per le ferite di Yelahiah.››

L’angelo dai capelli neri annuì, guardando dolcemente Verity che si agitava e digrignava i denti. Le poggiò una mano sul cuore e chiuse gli occhi per concentrarsi.

‹‹Lo è. Dammi un po’ di tempo e lo abbasso.››

‹‹Lo posso fare io, non serve che ti sforzi.››

‹‹Stai tranquillo, Raziel. Te l’avevo detto no? Lei mi fa brillare.››

Raziel sorrise, ma rimase vicino a lui, ad osservare con attenzione quello che l’amico stava per compiere; Mary fece per alzarsi, ma Lucifero le disse che non era necessario che si spostasse. Scavò dentro di sé, alla ricerca della scintilla che l’avrebbe aiutato. Trovarla diventava ogni volta più facile e veloce, soprattutto se doveva richiamarla per lei. Lasciò che quel potere gli scorresse nelle vene insieme al sangue, mescolandosi con esso, fino a che non sentì le dita formicolare. Lo emanò piano, a flussi regolari e aumentò per gradi man mano che Verity si calmava, creando intorno a sé una bolla di magia semitrasparente che li inglobò per qualche tempo e che Raziel guardò con speranzoso interesse.

Quando Lucifero aprì gli occhi, la sfera si dissolse e Verity sembrava essersi addormentata tranquillamente. Si girò sul lato sinistro, verso l’angelo, posando la mano sul suo avambraccio con un sospiro di dolore: le ferite non erano state guarite. Si alzò e le sfiorò la fronte fresca con la mano. Le tolse il ciondolo, lo rigirò tra le dita per qualche secondo, assicurandosi che non avesse assorbito l’energia appena emanata e lo lasciò a Raziel, che continuava a sorridere. Lucifero non ne capiva il motivo. Erano secoli che non bruciava a quel modo, quello era vero, ma non giustificava il suo sorriso. Nemmeno vederlo accanto a Verity poteva… E allora? Lasciò perdere e si voltò verso la ragazza, concentrando un po’ del suo calore nel palmo delle mani e chiudendo le ferite. Verity mugolò di piacere a quel calore purificante e si sistemò meglio sul divano, mettendo un braccio sotto la testa mentre i capelli scendevano sugli occhi. Lucifero li scostò e le lasciò un bacio sulla fronte, un bacio lungo e dolce, e uno sulla guancia. Quando si rialzò, trovo Raziel a fissarlo.

‹‹Raziel, cosa non va?››

‹‹Le tue ali sono diventante bianche mentre usavi la magia. Sono solo felice di essermi sbagliato.››

‹‹Su cosa?››

‹‹Avevo giudicato male Verity. L’avevo vista debole, influenzabile, diversa dalla guardiana che mi avevi descritto con tanto ardore. Pensavo che fosse l’angelo sbagliato e che lei non potesse fare nulla per te, o per noi. Eppure vedo che la sua sola presenza ti riporta indietro a quello che eri, all’angelo guida che ho conosciuto. Certo, è ancora piccola e insicura, ma può crescere.››

Lucifero sorrise, guardando Verity.

‹‹Te l’ho sempre detto, lei è tutto. Se penso poi che gli arcangeli non dovrebbero nemmeno avere rapporti con lei… E invece sei stato il primo tra loro a conoscerla.››

Per poco Raziel non scoppiò a ridere, pensando che quelle stesse parole, come gli aveva riferito Lelahel, erano state pronunciate da Michele quando aveva investito delle loro cariche le guardiane. Era un bel ricordo. Aveva riso a lungo, mescolando l’allegria e il divertimento verso un ordine tanto stupido con lacrime di disperazione poiché quella decisione non usciva dalla testa di Michele ma dall’influenza di Benihime. In quel momento però non era il caso di rivangare il passato: avrebbe fatto volentieri dell’ironia con Lucifero, ma avrebbero potuto svegliare Verity.

‹‹Lucifero, cos’hai in mente di fare ora?››

‹‹Non lo so. Per il momento rimarrò da qualche parte nascosto, fino a che la situazione non si sarà calmata. Poi… Chi lo sa.››

‹‹Lei chiederà di te questa volta. Potrebbe cercarti.››

‹‹La terrete lontana, almeno per un po’. Spero solo di aver risolto i miei dubbi per allora.››

Le rimise la collana, spalancò le ali e si buttò giù dal loggiato, allontanandosi in volo a grande velocità.

Raziel guardò Mary, cercando risposte, ma la donna era altrettanto perplessa: nemmeno lei aveva inteso le parole di Lucifero. L’arcangelo si sedette a terra, di fronte al viso sereno di Verity: ‹‹Aspetteremo che si risvegli, dopo di che dovrà tornare in Paradiso.››

‹‹Credo anche io che sia l’idea migliore›› rispose Mary con un ampio sorriso.

 

Scar e le guardiane avevano fermato Yelahiah e i suoi compagni, obbligandoli a smettere di distruggere le macerie della città e mettendoli in fuga. Non avevano impiegato molto in realtà: avevano iniziato a scappare non appena li avevano visti arrivare. Solo Yelahiah era rimasto, salutandoli con un profondo inchino e un ghigno cinico e inquietante sul viso. Spaventoso, pensava Scar, come un angelo potesse essere corrotto così facilmente dal desiderio di vendetta e come potesse essere così tranquillo alla prospettiva che avrebbe dovuto uccidere i suoi fratelli per soddisfarla.

Lasciò quei pensieri da parte quando Lelahel, tornata in Paradiso, fece agli arcangeli il resoconto di ciò che era accaduto, omettendo la parte in cui Lucifero era presente. Li informò soprattutto della concessione che aveva dovuto dare a Yelahiah per salvare la ragazza. La Sala del Consiglio era il cuore del palazzo, un luogo senza finestre né sbocchi diretti verso l’esterno. Una volta terminato il racconto, Lelahel andò a sedersi al fianco dei suoi compagni mentre gli arcangeli la fissavano, chi deluso, chi comprensivo, chi completamente indifferente.

‹‹Dov’è la guardiana ora?›› chiese l’arcangelo Gabriele. Non era minimamente interessato al rapimento o al comportamento preoccupante e pericoloso di Yelahiah, ma le condizioni della ragazza e la possibilità che fosse gravemente ferita lo angustiavano. Tutto ciò, unito al battito ritmato che sentiva in testa, lo innervosiva, dissolvendo l’aura di calma con cui solitamente si presentava ai consigli per non essere interpellato.

‹‹Adesso si trova con Mary. L’abbiamo lasciata appena siamo stati certi che fosse al sicuro.››

Gabriele annuì con un cenno del viso mentre un altro arcangelo, Kamael, prendeva la parola.

‹‹E Yelahiah invece? Cosa abbiamo intenzione di fare con lui?››

Lelahel rispose che avrebbero solo potuto aspettare: quello tra lei e il dannato era un accordo e non poteva romperlo, anche se lo avrebbe fatto volentieri.

Un altro arcangelo, alzandosi in piedi, parlò: ‹‹La ragazza è ben lontana da Lucifero, spero. Michele non parla mai di lui e incomincio ad insospettirmi.››

Lelahel non era pronta ad una simile affermazione. Non aveva una storia credibile a portata di mano da raccontare per tirare Michele e tutti loro fuori dalle domande di Raffaele. Scar fu più lesto di lei a rispondere.

‹‹Non c’è nulla di cui insospettirsi, Raffaele. La guardiana non sa nulla di Lucifero e lui difficilmente esce da casa sua. Lo controllo io.››

Raffaele sorrise compiaciuto e lo ringraziò, iniziando poi a parlottare con Gabriele e perdendo qualsiasi interesse nella compagnia.

In realtà, dalle parole di Scar fino a quando non furono congedati, nessuno si preoccupò più della loro presenza eccetto la bella Haniel, che ogni tanto lanciava loro occhiate pensierose, tentando contemporaneamente di prestare attenzione alle parole concitate di Binael, che non sembravano mai giungere alla fine. Fu Michele, quando entrò nella sala, a lasciarli liberi: ‹‹Qualunque cosa abbiate fatto, andatevene. La sentirò un’altra volta.››

 

Il trio uscì dalla sala, il consiglio si divise e Michele tornò nelle sue stanze senza parlare con nessuno.

Non ne aveva bisogno.

Aveva origliato tutta la conversazione, eccetto i saluti iniziali, seduto sul pavimento lucido e appoggiato alla porta. Le pulsioni che aveva sentito, nel cuore e nella mente, erano completamente diverse. Il cuore gli aveva detto di entrare, ascoltare con attenzione e rassicurare Lelahel che la sua scelta non fosse stata un errore. Non avrebbe dovuto lasciare a Yelahiah il permesso di uscire dall’Inferno, ma era anche stato l’unico modo per salvare la custode e per questo non l’avrebbe mai sgridata. L’avrebbe portata via con sé finita e l’assemblea e avrebbe… Cos’avrebbe fatto? Non lo sapeva nemmeno lui. Voleva abbracciarla e dirle che tutto si sarebbe concluso per il meglio, ma come avrebbe potuto dopo averla trattata con sufficienza per anni? Nemmeno lei, con quel suo sguardo dolce e adorante, avrebbe accettato un gesto d’affetto senza chiedersi il motivo, senza pensare che fosse solo per ottenere qualcosa in cambio. La mente invece gli ordinava a gran voce di punirla, di mostrarle quanto grande in realtà fosse stato il suo errore e quanto sbagliato lasciare un dannato libero di muoversi sulla Terra a suo piacimento. Sarebbe stato duro e antipatico, ma a Raffaele sarebbe piaciuta una simile dimostrazione di autorità.

Come se ne avessi davvero bisogno.

Alla fine non aveva realizzato nessuna delle due alternative, limitandosi a un freddo congedo quando aveva capito che nessuno avrebbe più parlato.

Ed ora, nella sua stanza, osservava la guardiana allontanarsi insieme a Scar e Hariel.

‹‹Ti piacerebbe essere con lei, vero Michele?››

Solo Haniel avrebbe avuto, tra tutti gli arcangeli rimasti, un tono di voce tanto dolce nei suoi confronti. Ed era lei, non si sbagliava.

I capelli biondi, lunghi e mossi, erano tenuti fermi da un cerchietto di corallo e minuscole stelle marine bianche. Lo guardava con occhi blu come zaffiri e un sorriso appena accennato che metteva lo stesso in mostra i denti bianchi, mentre si rigirava un lembo del mantello nero tra le dita. Lo slacciò e lo posò sulla poltrona, lasciando che sfiorasse il pavimento, e prese la mano di Michele, coprendola con l’ampia manica dell’abito viola, accarezzandola con il pollice.

‹‹No, pensavo se punirla o meno, Haniel.››

‹‹Sono l’arcangelo dell’amore, Michele. Non starai davvero cercando di prendermi in giro, giusto? E poi conosco molto bene sia te che Lelahel, e i vostri cuori.››

Michele arrossì ma non disse nulla, e Haniel continuò a parlare.

‹‹Dovresti parlarle. Sono certa che ti ascolterebbe più che volentieri se tu le dicessi la verità anziché comportarti come quel ghiacciolo di Raffaele. Ti capirebbe. È sempre stata istintiva, non ha mai avuto problemi ad accettare i sentimenti degli altri né i propri e la cecità le ha donato una sensibilità particolare: vede, scusami il gioco di parole, ciò che non si vede come se fosse chiaramente inciso su una roccia. Forse non comprende all’istante le sfumature dell’anima, ma le riconosce. Pensi davvero che non capirebbe te, che l’hai vista crescere e l’hai ammirata da lontano per così tanti anni?››

‹‹L’ho resa cieca io. Non potrebbe mai perdonarmi.››

‹‹Michele, è ovvio che non lo possa fare: l’ha già fatto. E te l’ha dimostrato tornando qui ogni giorno ad occuparsi di te mentre smaltivi gli effetti devastanti di Benihime. È stata lei a portare qui Mary per curarti, anche se avrebbe dovuto abbandonarti dopo la punizione che le hai inflitto, io lo avrei fatto. Ma sei tu che non riesci a perdonarti, che non riesci a fare altro se non accusarti e privarti di quanto ci sia di più bello al mondo. Sei troppo orgoglioso per chiedere scusa e troppo legato alle regole per cedere ai tuoi sentimenti. Ma saresti felice se lo facessi.››

Michele replicò con poca convinzione: ‹‹Finirei per soffrire come Lucifero e sperare in un sogno irrealizzabile che Raffaele ostacolerebbe in ogni modo possibile.››

‹‹Scusa, chi ti ha detto che Lucifero soffra? Ha sofferto in passato, quando era solo con la sua solitudine e nessuno voleva ascoltarlo; ora sta meglio invece, e gli angeli lo sentono. L’amore lo rende forte, lo fa tornare a brillare com’era in principio. Lo stesso accadrebbe a te. Non ti curare di cosa direbbe o farebbe Raffaele, la vostra fratellanza sulla Terra non conta se si tratta dei tuoi sentimenti. Lo so che la nostra natura ci spinge verso Dio, vedendo solo in lui il padrone del nostro cuore, ma per una volta arrenditi a quanto di più buono e bello possa vivere in te. Credici. Dimostrami di essere abbastanza intelligente da scegliere la tua felicità e non quella di qualcun altro.››

Strinse con più forza la mano di Michele e lo abbracciò teneramente, sussurrandogli ancora di fare la scelta giusta per se stesso. Riallacciò il mantello di velluto nero con un fiocco, si assicurò che la spilla di perle fosse ben salda e si calò il cappuccio sulla testa.

‹‹Haniel! Ho sempre desiderato chiedertelo, ma non ho mai trovato l’occasione: perché non hai seguito Lucifero se credi così tanto nell’amore? Lui, in fondo, se n’è andato per quello.››

Lei si girò verso l’arcangelo, gli occhi azzurri scintillavano sotto il cappuccio.

‹‹Non avrei mai potuto abbandonare Gabriele. Non avrei mai sopportato di non poter sentire mai più il suono della sua voce.››

‹‹Lui non ha mai…››

‹‹Lo so. Ma il fatto che tu non lo abbia notato o che lui non lo abbia mostrato apertamente, non significa che non ci sia. Abbiamo solo preferito non buttare via la possibilità di costruire qualcosa dall’esperienza di Lucifero, tutto qui.››

‹‹Vi amate?››

Non era una domanda vera, ma il tono incerto la fece sembrare tale.

‹‹Credo tu abbia già la risposta.››

Lo salutò con un altro sorriso e uscì dalla stanza con il passo saltellante di una bimba, soddisfatta del discorso appena tenuto.

Michele rimase all’interno e si distese sul letto, pensando che forse Haniel poteva avere ragione e che tutti i problemi fossero nella sua testa. Quando gli aveva dato dell’orgoglioso, aveva provato un senso di déjà-vu, ricordandosi che Raziel gli aveva detto la stessa frase il giorno in cui era andato a cercare la guardiana.  Gli venne quasi da ridere a pensare che entrambi lo reputavano tanto orgoglioso da non riuscire a chiedere scusa, ma avevano ragione. Era in grado di riconoscerlo anche da solo, ma doveva necessariamente trovare un modo per togliersi quel peso gravoso. Chiuse gli occhi e si addormentò in pochi minuti, con la mente impegnata da piani e progetti.

 

 

Angolo dell'Autrice!

 

Buonsalve a tutti!

Sono davvero dispiaciuta del ritardo stratosferico di questo aggiornamento. Potrei dire che si avvicina la sessione esami, ma non è una scusa accettabile, almeno secondo me. Quindi sono davvero spiacente e spero che nonostante tutto abbiate ancora voglia di proseguire nella storia.

Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e sia sempre interessante.

Lasciatemi una piccola recensione se avete voglia, mi farebbe molto piacere!

 

Un saluto a tutti,

Nemamiah

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18
Per qualche giorno nessuna delle guardiane ebbe contatti con Mary o Verity, che alla fine erano rimaste nell'Inferno. Metatron era ritornato la mattina dopo il salvataggio della ragazza, trasportato in volo da Hesediel, ed era rimasto molto sorpreso nel trovare quel bizzarro trio addormentato sui cuscini del divano. Bastò uno sguardo con Raziel per capire che la questione era molto più complicata di quanto sembrasse ad un primo sguardo. Per tutta quella giornata i due arcangeli discussero tra loro a bassa voce mentre Verity continuava a dormire vicino a Mary. La donna ascoltava le loro parole senza replicare, dando ragione all'uno o all'altro con un cenno del capo.
Metatron si domandava perché Yelahiah avesse voluto l'accesso libero alla Terra in cambio della ragazza quando era evidente che non ne avrebbe ricavato nulla di buono: non poteva pensare di rubare gli Ingranaggi né di accumulare abbastanza energia per aprire un varco per l'Inferno. Qualsiasi azione sarebbe stata una perdita di tempo. Dopo qualche argomentazione contraria, Raziel si trovò d'accordo, per lo meno sull'apparente inutilità della richiesta, rimanendo però dell'opinione che, nascosto, esistesse un progetto più grande e ambizioso. Raziel diresse la sua mente verse Hesediel, cercando di cavargli le sue impressioni: vide un'altra volta il ricordo dell'ultimo incontro con Yelahiah. Il dannato voleva vendetta su Lucifero, punirlo per quello che reputava fosse stata solo una presa in giro e, probabilmente, usare gli Ingranaggi per uccidere gli arcangeli. Loro forse non sarebbero stati toccati da quella purificazione, ma tra i loro compagni in Paradiso non sarebbe sopravvissuto nessuno. Dare una piccola lezione a qualcuno di loro sarebbe stato uno sfizio non da poco, ma non erano dei sadici: con qualche graffio e qualche livido tutto si sarebbe risolto. Sarebbe stata solo una piccola zuffa per rimettere al proprio posto gli arcangeli degli ordini inferiori, per ricordare loro, senza cattiveria, che non potevano dettare legge e giudicare da soli, senza il consiglio al completo.
Questa volta però era necessario riflettere sulla possibile prossima mossa di Yelahiah. Aveva sempre agito da solo, impartendo ordini ai suoi sottoposti e controllando ogni movimento nell'ombra. Se adesso era uscito allo scoperto con un'azione tanto eclatante doveva esserci qualcosa di davvero rilevante.
Il giorno dopo Verity si svegliò, passandosi più volte le mani sugli occhi mentre Raziel le offriva sorridente una colazione. La trangugiò di tutta fretta, percependo crudeli i morsi della fame.
‹‹Felici che il pasto ti sia piaciuto!›› disse Metatron.
Impiegò qualche secondo a riconoscerlo e a pronunciare il suo nome, timorosa di scambiarlo per qualcun altro.
‹‹Mi hanno raccontato la tua triste avventura, ma vedo che te la sei cavata egregiamente.››
‹‹Non ricordo nulla da quando sono svenuta, credo in braccio a Lelahel, ma perdonatemi!››
Metatron sorrise e Mary le accarezzò una guancia, dicendole che non aveva nulla di cui scusarsi o dispiacersi; era piuttosto comune non ricordare e le sue azioni non dovevano essere perdonate da nessuno. Le raccontarono brevemente come Lucifero l'avesse curata e di come fosse poi andato via, aggiungendo di non sapere né dove fosse né quando sarebbe tornato.
Il viso di Verity si incrinò in una piega amara a quelle parole e le sue guance arrossirono quando si accorse che tutti la stavano fissando incuriositi, Hesediel compreso.
‹‹Io credo che tornerà presto›› disse Raziel alzandosi. ‹‹Non ti starà molto lontano ora che ha conquistato la tua fiducia.››
‹‹Io non mi fido di lui... Io...››
Non sapeva come proseguire. Non voleva proseguire.
Le sarebbe piaciuto credere che fosse la verità, ma, come quando lo aveva lasciato in lacrime nella sua capanna, il cuore le diceva che in realtà si fidava di lui e che avrebbe solo detto una bugia. Abbassò la testa. Non se la sentiva di ammetterlo, né di negarlo completamente.
‹‹Lo hai conosciuto un poco allora. Mi basta sapere questo, che tu sia stata giusta e lo abbia ascoltato.››
‹‹Non credo di aver fatto una cosa così strabiliante. Mi ha solo spiegato come siete nati›› rispose la ragazza incerta, non avendo inteso bene le parole di Metatron.
‹‹È già abbastanza, anzi è molto. Non hai idea di quanto la tua presenza faccia nascere in lui, di quanta luce lo inondi. Lui ti ha sempre a...››
‹‹Metatron! Stai zitto e non divagare su questioni che non ti riguardano›› lo interruppe Raziel prima che terminasse.
‹‹No! Lo voglio sapere ora.››
Era curiosa. Era interessata. Fremeva per il desiderio di sentire la conclusione di quella frase, quale fosse la parola con la A. Non aveva idea del motivo, ma desiderava soltanto che la completasse, anche a costo di cucire la bocca a tutti i presenti per farlo parlare.
Metatron guardò allarmato Raziel, che alzò impercettibilmente le spalle, e alla fine non negò a Verity la risposta.
‹‹Attesa. È più di qualche millennio che ti aspetta. Perdonami, pensavo ti avesse parlato della fonte di Eteria.››
‹‹Credo non ne abbia avuto il tempo.››
‹‹Te ne parlerà quando vi rincontrerete, Caliel.››
Ancora quel nome.
La prima volta che si erano incontrati l'aveva congedata con quel nome e anche Lucifero l'aveva chiamata così nel bosco. Solo loro due, ed Hesediel, l'avevano usato: come potevano conoscerlo quando anche le altre guardiane la chiamavano Verity? Ricordava bene che Lucifero le aveva detto che era Metatron a scegliere il nome degli angeli, in base alla conoscenza del loro futuro o passato e che ognuno rappresentava un'essenza particolare.
‹‹Perché quel nome? E come fa Lucifero a conoscerlo?››
‹‹Diciamo che, in qualche modo, Lucifero lo ha pronunciato per primo. Ti ha vista e ti ha chiamata così, senza una motivazione particolare. Quel nome mi è piaciuto, mi è sembrato adatto e deciso di nominarti così. Non ho guardato nel tuo futuro, né nel tuo passato, nel caso tu te lo stia chiedendo.››
Metatron cercava di dosare le sue parole e controllare i pensieri, selezionando con attenzione quali esprimere ad alta voce e quali tenere per sé. In caso contrario, avrebbe raccontato tutto quello che sapeva mentre era Lucifero, a tempo debito, che doveva confessare alla ragazza il suo passato. Anche se era abbastanza certo che Verity avesse già capito qualcosa o, quantomeno, lo avesse immaginato.
‹‹Va bene... E quale sarebbe la mia essenza?››
‹‹Nessuno te lo ha detto?››
Metatron era sinceramente stupito: non era possibile che non sapesse. Tutti gli angeli dovevano essere a conoscenza della sua essenza.
‹‹Nessuno sa del nome, credo, e io non ne ho mai parlato alle altre guardiane.››
Metatron sorrise, pensando che alla fine fosse stato meglio così. Molti angeli, dopo aver conosciuto la propria essenza, avevano assunto determinati comportamenti solo per dimostrare di esserne all'altezza, dimenticando che era la normalità a mostrarla e non la sua ostentazione. Se Verity non la conosceva, voleva solo dire che tutto quello che aveva fatto, detto e pensato era stato spontaneo: era venuta a patti con sé stessa. Aveva ascoltato Lucifero perché sapeva che fosse giusto; era scappata da Scar perché, pur non capendolo, era giusto; non aveva giudicato né Lucifero né Yelahiah, né alcuno di loro perché non li conosceva abbastanza, perché quasi tutto quello che aveva imparato sulla Terra si stava rivelando falso.
‹‹Giustizia. La tua essenza è la giustizia, Caliel. Non te ne sei accorta da sola, vero? La giustizia è parte fondamentale della tua anima, la governa da dentro. Non è la capacità di distinguere male e bene, dividere bianco e nero: è l'equilibrio delle parti. Scegliere cosa sia meglio fare, indipendentemente dalla morale; saper ascoltare e saper rimanere in silenzio. Sapere quando è il momento di uccidere e perdonare; amare in silenzio ma dirlo ad alta voce. È un'essenza molto forte, che condizionerà le tue scelte molto più di quanto altre essenze potrebbero fare, ma è anche una delle più sfaccettate e belle, almeno secondo me.››
Verity si sentì importante all'improvviso e sorrise, abbassando lo sguardo, e ripensando alle parole di Mary queste assumevano all'improvviso un significato più chiaro.
‹‹Ti avevo detto che eri importante, no?›› disse Mary abbracciandola, con l'espressione di chi sapeva molto più di quanto rivelasse.
‹‹Grazie. Metatron, adesso cosa si fa? Con Yelahiah intendo.››
‹‹Aspettiamo›› si intromise Hesediel. ‹‹Le tue ferite sono chiuse, ma ti faranno male per un po' e noi da soli non possiamo uscire dall'Inferno, né tu puoi uscire dal Paradiso senza il permesso degli arcangeli per seguirlo e scoprire cosa stia facendo.››
Raziel lo guardò contrariato: non era quello che avevano concordato di dirle...
‹‹E Lucifero? Devo parlargli e ottenere alcune risposte.››
Raziel le disse di lasciarlo ai suoi impegni: era andato a controllare qualcosa per conto suo e se non aveva chiesto aiuto, non era il caso di proporglielo.
‹‹Ha bisogno di stare solo per qualche tempo. Non è un comportamento raro da parte sua.››
Verity cedette alle parole di Raziel e accantonò l'idea di cercare Lucifero. Per un secondo pensò di scomparire con la pietra che portava al collo, ma decise di lasciar perdere. Se avesse aspettato pazientemente, Lucifero sarebbe tornato da lei.
Rimase nell'Inferno fino a che i dolori per le ferite non furono scomparsi completamente, trascorrendo la maggior parte del tempo avventurandosi fuori in compagnia di Raziel. Metatron scomparve insieme ad Hesediel e Verity non lo vide più fino al giorno in cui se ne andò. Raziel fu invece così gentile da intrattenerla sempre, passeggiando per l'Inferno e raccontandole aneddoti della sua vita passata, sia in Paradiso che sulla Terra. E a lei piaceva ascoltare, immensamente.
Era un'opportunità meravigliosa e imparare le era sempre piaciuto.
Raziel aveva più di cinquemila anni di vita, quindi di esperienza, e poteva insegnarle molto su come trattare con angeli e arcangeli. Aveva infatti deciso di conoscere Michele. Aveva riflettuto a lungo su quali sarebbero potute essere le conseguenze e, fattasi spiegare nel particolare quali fossero i suoi compiti di custode, aveva deciso di non attendere il ritorno di Lucifero nel torpore.
‹‹Non ti faranno parlare direttamente con Michele, di questi tempi preferiscono accogliere gli angeli mettendoli in soggezione. Ovviamente non sono tutti così spavaldi, ma litigare non piace e se possono, soprattutto dalla fine della guerra, seguono Raffaele. È stato il fratello di Michele sulla Terra e spesso prende decisioni al suo posto. Da quel che so, si comporta così da quando Michele ha iniziato a smaltire gli effetti che la magia di Benihime ha avuto su di lui: non era in grado di prendere decisioni all'epoca. Quindi dicevo, devi preoccuparti solo di Raffaele. Se convinci Raffaele di essere completamente e devotamente fedele a lui, non troverai mai una porta chiusa in Paradiso. Ovviamente è un po' difficile che si fidi di te fin da subito, ma puoi riuscirci.››
Le parole di Raziel erano state rassicuranti e, mentre camminava per i sentieri del Paradiso con Hariel, Verity se le ripeteva nella mente come un mantra. Lelahel e lei si erano scambiate: la guardiana aveva preferito tornare nell'Inferno per essere pronta a sedare ogni eventuale iniziativa dei dannati. Scar aveva invece deciso di andare sulla Terra e Verity fu felice della notizia, Hariel non avrebbe potuto comunicargliene una più piacevole. Avevano così percorso la strada dal portale dell'Inferno di Eteria fino alla Roccaforte. La guardiana non aveva smesso per un attimo di parlare, raccontandole dello spavento che aveva provato quando aveva smesso di percepire la sua anima e nel vederla ferita tra le braccia di Lelahel. Verity aveva ascoltato solo con un orecchio, e, sfruttando la distrazione di Hariel, era riuscita a sbirciare nella casa di Lucifero dal basso, sperando di cogliere un movimento indice della sua presenza. Fu una speranza vana.
Davanti alle scale che conducevano al portone centrale l'attenzione verso Hariel crebbe: stava parlando di quando Lucifero era entrato a casa di Mary e dell'impressione rimastale.
‹‹Mi ha spaventata terribilmente! È scattato verso la gola di Scar come un animale. Ho pensato che in guerra dovesse essere stato un vero mostro...››
‹‹Da quel che so, si diventa spesso mostri quando si difendono i propri desideri...››
Verity sapeva più di lei sulla ribellione di Lucifero, anche senza aver sentito la versione ufficiale, e stava per dire qualcosa di più quando pensò che non fosse il caso di pronunciare parole in suo favore su quella scalinata. Salì alcun gradini fino a che Hariel le disse che non sarebbe entrata.
‹‹Come‽ Avevi detto che saresti venuta con me!››
‹‹Gli arcangeli mi hanno sempre innervosito, e non penso che Raffaele sarebbe felice di rivedermi dopo l'ultima sgridata che mi ha fatto.››
‹‹Ha paura anche io. È come se stessi andando a visitare il mio patibolo, tutti hanno descritto questo luogo come qualcosa di terribile. In due andrà meglio, no?››
E Hariel si sentì convinta da quelle parole perché portò Verity nella Sala del Consiglio, tenendola a braccetto.
Senza che un solo arcangelo fosse presente, quella sala riuscì a metterla in soggezione. C'erano nove gradoni di nove colori diversi, disposti in cerchi concentrici dal più piccolo al più grande, come in un teatro greco, ognuno indicante il nome di un arcangelo con una targa di ottone. Il marmo colorato emanava pesantezza e Verity percepì un senso di impotenza, quasi il desiderio di uscire di corsa da quella sala. Diede un'occhiata veloce, cercando il nome di Raziel. Aguzzando la vista riuscì a scorgerlo sulla targa del secondo cerchio in alto, Metatron era sul primo ed Hesediel sul quarto. Dopo di lui venivano Kamael, Raffaele, Haniel, Michele e Gabriele. Si accorse in quel momento che, sul cerchio più basso, c'erano due arcangeli.
Gabriele era infatti disteso sul suo gradone e Haniel al suo fianco gli spostava un ricciolo dagli occhi con una mano, mentre con l'altra intrecciava le dita a quelle dell'altro.
Verity arrossì nel vedere la loro intimità, fu solo grazie ad Hariel, che si schiarì la gola, se si riprese e osò pensare a qualcosa da dire.
Non riuscì a pronunciare una parola.
Emise un grido acuto e cadde in ginocchio tenendosi la testa tra le mani. Hariel le circondò le spalle con un braccio, provando a farla alzare, ma la ragazza voleva rimanere accucciata e rifiutava di muoversi. Haniel guardò Gabriele e questo scese dal gradone per affiancarsi alla ragazza, dicendo alla guardiana di allontanarsi.
‹‹Gabriele cosa sta succedendo?››
‹‹L'eco della Terra. Non è che io non lo senta, ma sono così abituato alla sua presenza che per me questo è un banale mal di testa.››
Haniel suggerì di portarla via prima che qualche altro arcangelo entrasse e la vedesse.
‹‹Perché?›› chiese Hariel.
Gabriele le rispose che dovevano trovare il modo di calmarla. Se avesse sopportato un dolore così lancinante troppo a lungo, sarebbe finita con il cercare di placarlo da sola e la conclusione sarebbe stata una e definitiva.
‹‹Inoltre è meglio che Raffaele non la incontri. Farebbe di tutto per trovare l'origine dell'eco invece di farlo diminuire.››
Scostò le mani di Verity dalle orecchie e la ragazza lo fissò con gli occhi pieni di lacrime, mordendosi le labbra così forte da farle sanguinare. Tenendola per i polsi, Gabriele la fece alzare lentamente, mantenendo il contatto visivo. Haniel li precedette e andò ad aprire la porta che conduceva all'appartamento più alto, quello di Metatron. Almeno sarebbero stati certi di non essere disturbati da nessuno.
Il corridoio che percorsero era personale: nessuna intersezione con altri corridoi o con porte e scale.
La fecero sedere sul letto impolverato mentre Gabriele le parlava con sussurri che solo lei riusciva ad udire, stringendole le mani.
Le diceva di smettere di pensare al dolore, di lasciarlo scorrere in tutto il suo corpo e dopo di richiamarlo indietro per eliminarlo. Doveva immaginare di rinchiuderlo in un posto irraggiungibile, con chiavi e lucchetti pesanti, difficili da aprire. Si doveva allontanare lentamente, guardando il dolore dibattersi tra le sue mura e morire. Ripeté quegli ordini fino a che la stretta di Verity non si allentò completamente e questa smise di torturarsi le labbra. Piangeva, certo, ma non tremava più eccetto che per brevi scrolloni delle spalle tra un singhiozzo e l'altro.
Gabriele si guardò intorno: né Haniel, né Hariel erano nella stanza. Probabilmente dovevano essersi dirette nella Sala del Consiglio per capire insieme agli altri arcangeli cosa fosse successo di preciso, forse anche grazie all'aiuto di Scar. Se nessuna era venuta a cercarlo, voleva dire che Haniel aveva convinto tutti che stesse davvero male. Guardò fuori dalla finestra. L'incantesimo che Metatron aveva applicato millenni prima, affinché dall'interno vedesse la luce del sole e non delle stelle funzionava sempre. Ritornò dalla ragazza, che lo osservava stringendosi le braccia intorno al corpo, confortandosi da sola.
‹‹Cos'è successo?›› gli chiese.
‹‹Un attacco magico, abbastanza forte tra l'altro.››
‹‹Dove?››
‹‹Sulla Terra.››
Verity si alzò di scatto e mosse qualche passo in avanti. Inciampò nei suoi piedi e cadde tra le braccia di Gabriele, che prontamente la intercettarono. Le consigliò di tornare a sedersi e di non fare sforzi. L'eco l'aveva stancata abbastanza senza che lei cercasse di sabotare la sua salute da sola.
Doveva essere accaduto qualcosa di davvero terrificante sulla Terra per richiamare un'eco tanto potente da un luogo fisicamente tanto lontano e Gabriele si sforzò per recuperarne la scia e vederne le immagini nella sua mente.
All'inizio era solo fumo, grigio e fitto, come un enorme mare di nebbia tossica. Nulla era riconoscibile e dovette attendere un po' prima di poter avanzare nella visione. C'era caldo però, e persone che gridavano spaventate, chiedendo di essere liberate. All'improvviso una trave cadde di fronte a lui e sentì il grido strozzato di una donna. Era rimasta schiacciata. Ancora non vedeva chiaramente, ma passo dopo passo la visibilità migliorava: cominciò a distinguere i contorni ed intravedere i colori.
Non era fisicamente lì, ma rabbrividì ugualmente: stava iniziando a farsi un'idea abbastanza precisa degli eventi. Aggirò la trave, non amando la sensazione dell'attraversare gli oggetti, e camminò in giro, creandosi una planimetria del luogo nella testa per orientarsi. Prima aveva attraversato un cortile circondato da una vegetazione in fiamme. C'erano bambini distesi sulla pietra sporca della pavimentazione: alcuni respiravano ancora, ma nessuno sarebbe riuscito a salvarli. Sentì uno di loro spegnersi.
Gli adulti erano all'interno del tempio, in un'ala laterale, abbracciati l'uno all'altro, mentre i più coraggiosi lanciavano incantesimi di difesa e protezione. A prima vista l'unico pericolo sembravano le fiamme, ma non poteva esserci solo quello.
Gli umani morivano ogni giorno e nessuno di loro generava un'eco del genere: c'era qualcun altro o qualcos'altro appartenente al suo mondo lì, pronto ad agire. Sperò non fosse lui. Lasciò gli adulti e proseguì verso il cuore del tempio, dove nascevano le lingue di fuoco. Il cadavere di un sacerdote, coperto di sangue, era riverso sull'altare. La gola era ancora stretta in una sottile corda nera. C'era un angelo sull'altare, ali blu e capelli color cenere. Bisbigliava furioso, conficcandosi le unghie nei palmi delle mani. Sentì la parola laboratorio soffiata tra i denti.
Verity guardava Gabriele con attenzione: sembrava assorto e pensieroso, come se si fosse incantato a guardare qualcosa nella sua mente e nessuno potesse distoglierlo.
‹‹Cos'hai visto?›› gli chiese appena si destò.
Non rispose subito, diviso tra raccontarle esattamente la verità o rimanere vago.
‹‹Quello che è successo sulla Terra.››
Verity aspettò un secondo, indecisa su cosa chiedergli ancora. Voleva sapere di preciso cosa fosse accaduto, ma anche come Gabriele ci fosse riuscito. Optò per la seconda domanda.
Gabriele aveva compreso perché aveva seguito la traccia, le rispose.
Il dolore che sentiva costantemente nella testa, alcune volte più forte altre più debole, lui lo chiamava battito o eco dell'anima. Era una sorta di collegamento, una vicinanza lontana che legava lei, lui e tutte le altre creature. Si trattava di una percezione simile a quella Hariel, ma mentre lei percepiva solo la posizione delle anime, l'eco era molto più personale. Era il battito del cuore, il dolore e la tristezza; era una condivisione profonda della propria esistenza che pochi erano in grado di percepire. Chi sentiva si ritrovava nell'interiorità degli altri, partecipando senza volerlo alle sensazioni e ai sentimenti, fino a che questi non diventavano parte integrante dell'anima, rivelando indizi sul loro futuro. Accedere ad anime sfaccettate poteva però rivelarsi un'esperienza distruttiva per i meno esperti. Fino a che i sentimenti rimanevano positivi poteva anche essere divertente perché niente come le emozioni dava sollievo alla mente ed al corpo, ma, quando l'anima ascoltata soffriva o era triste o provava una qualsiasi sensazione negativa ed esasperata, diventava pesante. Si trasformava in un logorante ed insopportabile battito, ritmato come la percussione dei tamburi da guerra, che perforava il corpo, provocando un dolore incommensurabile che condizionava le azioni di chi non riusciva a resistere. Qualche volta le conseguenze erano solo parole non pensate, piccole ferite; altre volte, quando il dolore raggiungeva il limite, gli angeli finivano per ferirsi seriamente o addirittura uccidersi.
Per fortuna non accadeva spesso, anche perché connessioni così profonde erano difficili da creare. Nella maggior parte dei casi l'eco nasceva solo in concomitanza con gradi stragi, soprattutto se causate da attacchi divini, o quando umani dotati di una fede incrollabile venivano a mancare.
Era anche per questo che lei era stata così male: tra i tanti morti del tempio c'era stato uno dei sacerdoti, forse il più anziano, discepolo del precedente, ma non ne era certo. Sapeva però che la fede di quell'uomo era talmente profonda e sincera da distinguerlo da tutti gli altri fedeli che avevano varcato la soglia del tempio e per questo era stato la prima vittima di Yelahiah. Il dannato doveva essere andato lì per recuperare uno degli ingranaggi, chissà quale, e per sfruttarne il potere immenso.
‹‹Ma perché? A cosa gli servirebbe?›› chiese Verity.
Quando l'aveva rapita, Yelahiah non aveva mai, nemmeno per sbaglio, rivelato un solo insignificante dettaglio del suo piano ed era stato ben attento che non lo facessero i suoi compagni.
‹‹Vuole vendetta probabilmente. Su Lucifero, su noi arcangeli. Lo abbiamo confinato noi nell'Inferno, non mi stupisco che covi un po' di rancore nei nostri confronti. Anche se, in realtà, io non ho combattuto in quella guerra, né mi sono interessato particolarmente alle parole di Lucifero nell'assemblea. Vorrei potermi permettere il lusso di non schierarmi nemmeno questa volta, ma adesso c'è Haniel da proteggere e non posso rimanere completamente in disparte. L'unica che mi interessa è lei.››
‹‹Sei egoista, non credi?››
Era stata posta come una domanda, ma Verity credeva che fosse la verità.
‹‹Ognuno è egoista a modo suo. È egoista la madre che mette al mondo un figlio, è egoista chi salva una vita, è egoista chi odia. Alcuni lo sono per orgoglio, altri per rancore o per invidia. Io lo sono per amore. Non mi giustifica, certo, ma ho paura di rimanere solo e allora farò qualunque cosa per Haniel, fosse anche l'ultima che faccio come arcangelo del Paradiso.››
Verity annuì, capendo in parte il punto di vista dell'arcangelo, mantenendo nonostante tutto un'espressione poco convinta.
‹‹Ti leggo negli occhi che non sei d'accordo. Non è giusto quello che dice, non sta in equilibrio, pensi. La mia non è l'affermazione tipica di un arcangelo, non dovrei lasciarmi controllare dai sentimenti, ma non posso fare altrimenti. Sono certo che prima o poi capirai quello che intendo.››
Detto ciò si alzò,lasciando la presa sulle spalle di Verity che sicuramente sarebbe stata in gradodi rimanere seduta da sola. Era un bene che riuscisse a parlare senzainterrompersi o doversi fermare a pensare più del necessario. Significava cheil dolore alla testa, così com'era nato, era anche scomparso. Era un bene cheavesse reazioni così diverse dalle sue. Lui agli inizi era stato male persettimane, almeno fino a quando non aveva imparato ad ignorare stoicamentetutti gli echi, anche quelli che lo rendevano felice.


Angolo dell'autrice

Buongiorno a tutti! Oggi giornata di aggiornamento, spero vi faccia piacere!
Sono un po' in ritardo, mi scuso moltissimo, ma la sessione esami estiva mi sta prendendo molto più tempo del previsto, soprattuto consideratto che devo dare almeno 5 dei 7 esami che ho...
Ad ogni modo, spero sia stata una piacevole lettura e che abbiate voglia di lasciarmi un parere!
Un saluto a tutti,

Nemamiah

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Angolo dell’autrice:

Buongiorno a tutti, oggi giornata di aggiornamento!

Siccome è da un po’ che non venivo su Efp sono contenta di pubblicare oggi. è arrivato il momento per Verity di inserirsi ancora di più nel mondo degli angeli, andando direttamente a parlare con Michele.

Ma niente più spoiler, vi auguro semplicemente buona lettura, sperando che abbiate voglia di lasciarmi un piccolo parere.

 

Nemamiah

 

 

 

Rimasero insieme in quella stanza per almeno tre ore, aspettando che qualcuno venisse a chiamarli, mentre la luce delle stelle fuori scemava, lasciando solo il nero opaco della notte. Lui guardava fuori dalla finestra, scrutando nell’oscurità, accarezzando con lo sguardo le piccole luci lontane delle case degli angeli. Verity si era addormentata sul letto e respirava regolarmente, come se non fosse accaduto nulla.

Haniel entrò piano, socchiudendo la porta con attenzione per non svegliare la ragazza. Entro qualche minuto sarebbe arrivata Hariel e avrebbero dovuto parlare tutti insieme.

Insieme alla guardiana giunsero anche Scar e Lelahel, che rimasero in piedi in silenzio. Dopo essersi fissati l’un l’altro negli occhi per un po’, Gabriele si decise a richiamare Verity dai suoi sogni. Salutò con un sorriso assonnato le donne nella stanza e quando lo sguardo si posò su Scar, lo abbassò all’improvviso, vergognandosi delle parole che gli aveva rivolto. Non riuscì a dirgli nulla perché Haniel parlò per prima.

‹‹Verity, perché sei venuta? Mi fa certamente piacere, ma non credo che tu sia qui per fare conoscenza.››

‹‹Mi piacerebbe parlare con Michele, se possibile.››

‹‹Perché?›› chiese Gabriele. ‹‹Non ti ascolterà.››

Lo avrebbe fatto invece, si disse Verity, perché era stato lui a cercarla per primo nell’Inferno. Era stata colpa sua se era stata male la prima volta e gli avrebbero già parlato se non ci fossero state questioni più importanti.

‹‹Sono quasi certa che lo farà. Lasciatemi provare.››

Gabriele guardò Haniel e, appena questa fece un cenno di assenso, disse che per lui andava bene. Non era sbagliato fare un tentativo. Decise allora di raccontare alla ragazza tutto quello che aveva visto nella scia e poi uscì dalla stanza, portandosi dietro tutti eccetto Scar, che si mantenne a distanza ma la osservò intensamente.

Era lo stesso sguardo che indossava quando la voleva controllare: le bastava vederlo per innervosirsi. Prese un respiro profondo e cercò di alzarsi, spingendosi con le braccia. Le gambe l’abbandonarono una seconda volta e dopo pochi secondi ricadde sul letto, sentendosi come una bambina. Era abituata ad affrontare i problemi da sola e non riuscire nemmeno a reggersi in piedi era frustante: non aveva nemmeno l’autonomia minima necessaria per andare da Michele.

‹‹Vuoi un aiuto?››

Le chiese Scar con il tono di voce più gentile che riuscì a trovare tra le mille sfumature sgarbate e sarcastiche che possedeva. Voleva che la ragazza si trovasse a suo agio e non provasse a scappare ancora. Le tese la mano, diminuendo la distanza tra loro.

‹‹Si, grazie. Ma non prendermi in braccio, vorrei provare a camminare.››

Scar sorrise e fece ancora un passo avanti, stringendo la mano di Verity e passandole un braccio intorno alla vita per sostenerla. La aiutò ad alzarsi e, un passo alla volta, la condusse fuori. Percorsero un tratto del corridoio verso nord e poi svoltarono dentro una porticina bianca, nascosta nelle striature del marmo. Scar la chiuse con attenzione dietro di sé e poi iniziarono a scendere le scale verso il piano inferiore. Entrambi erano silenziosi. Scar pensava a quanto fosse dolce il profumo della pelle e dei capelli di Verity, così facile da riconoscere; lei pensava a cosa avrebbe detto a Michele e quale sarebbe potuta essere la sua reazione. Giunse alla conclusione che non aveva senso programmare le parole da dire o i gesti da compiere, intanto avrebbe potuto rimediare a qualcos’altro.

‹‹Scar, scusa se sono scappata. Hariel mi ha raccontato che sei stato sgridato da Raffaele insieme a lei.››

L’angelo le rispose che non era stato un grosso problema e che l’importante era che lei stesse bene.

‹‹Mi ha anche parlato della reazione di Lucifero… Ti ha fatto molto male?››

Scar si schiarì la voce, dicendole che nemmeno quello era stato un problema, anche se avrebbe evitato volentieri di ripetere l’esperienza. Era, in genere, un angelo che imparava dai propri errori: non le avrebbe mai più permesso di fuggire. Verity rabbrividì a quell’affermazione, credendo che le stesse prospettando tristi giornate sempre in sua compagnia. Non sarebbe riuscita a sopportarlo. Scar rise invece.

‹‹Sei libera. Basta che mi informi se vuoi fare qualche gitarella fuori programma.››

È un buon compromesso, pensò, anche perché mi osserverà sicuramente a distanza…

Non espresse a voce alta questo pensiero, ma chiese dove fosse Lucifero.

Fu il turno di Scar di irrigidirsi. Non si aspettava quella domanda. Forse poteva ritardare la risposta, la scala era quasi terminata e lui avrebbe dovuto aprire un’altra porta, ma Verity era impaziente: ‹‹So che è tuo fratello. Se sai qualcosa non nasconderlo, non a me.››

Scar sospirò, lasciandola libera dalla stretta: ‹‹Non so nulla›› e scomparve nell’aria come fumo tra le dita.

Sbattendo piano le ali, scoprì di essere in grado di sostenersi senza troppa fatica e aprì la porta, entrando nella stanza.

La camera di Metatron, dove era stata prima, era impersonale e anonima; quella in cui si trovava in quel momento era invece estremamente particolare. A metà stanza c’era un gradino che la divideva in due parti. Quella più bassa era di un lucente marmo verde che proseguiva anche sulle pareti in venature ordinate, simili a una foresta rigogliosa, illuminata da smeraldi di varie dimensioni. Vasi neri e arancioni, dipinti con immagini e nomi di angeli sconosciuti, erano sulle mensole attaccate al muro. Al di là del gradino il pavimento si trasformava in una distesa di quadrati concentrici blu su fondo bianco, mentre sulle pareti rimaneva lo stesso motivo, anche se lì erano incastonati zaffiri e non smeraldi. Da quel lato si trovavano anche un letto a baldacchino ricoperto di cuscini candidi e quello che sembrava un trono coperto da un telo azzurro.

Nell’aria galleggiavano cristalli di ghiaccio, brillanti nella notte. C’erano fiori gelidi coperti di goccioline congelate e stelle che rimanevano rasenti il soffitto; in un angolo una fontanella lasciava che l’acqua scorresse lungo i lati della stanza in un gioco di arcobaleni. Sul vetro dell’enorme finestra invece si diramavano ghirigori ghiacciati che Michele espandeva accarezzandone l’origine. Verity rimase ad ammirare lo spettacolo fino a quando il vetro non fu completamente coperto.

‹‹Cosa fai qui?›› le chiese l’arcangelo.

Come ha fatto a sentirmi?

La porta non aveva cigolato, né la maniglia aveva fatto rumore nel chiudersi e il fruscio delle sue ali era impercettibile.

‹‹La temperatura della stanza è cambiata dopo il tuo ingresso. Il tuo respiro è molto caldo.››

In quel momento la guardò e a Verity parve molto stanco. Non sembrava un angelo capace di così tanta crudeltà da privare della vista un’amica, l’angelo che lei aveva immaginato era altezzoso e arrogante.

Aveva solo un sguardo affaticato e il viso pallido tipico degli ammalati: però gli angeli non potevano ammalarsi…

‹‹Come mai sei qui? Per la disgrazia accaduta sulla Terra?››

Verity rispose che in parte era per quello anzi, era maggiormente per quello, ma che voleva anche conoscerlo e parlare con lui come aveva già fatto con altri arcangeli. Era una custode, era uno dei suoi doveri.

‹‹Non ho il carattere accomodante degli arcangeli che hai conosciuto, né la loro pazienza. Non sono il più simpatico e, attualmente, sono quello più pietoso, oserei dire.››

‹‹Ma sei un amico di Raziel, ne sono certa. Ho una grande stima di lui e se ti considera suo amico, allora anche io lo farò.››

Verity volò fino al letto, sedendosi per non sforzare le ali. All’inizio aveva pensato di andare sul trono, ma aveva accantonato l’idea pensando che era stato coperto per un motivo e che quel motivo non era evitare la polvere. Michele aveva invece sgranato gli occhi per la sorpresa sentendo la considerazione che Raziel aveva ancora per lui. Non meritava, né aveva mai meritato, l’amicizia di quell’arcangelo così saggio e giusto, sempre gentile con tutti. Era come se avesse ricevuto un grazia da quella ragazza che fino a pochi mesi prima desiderava ardentemente dalla propria parte. Per fortuna non ci era riuscito. Le sue migliori azioni erano sempre state il frutto di un piano miseramente fallito, mentre il raggiungimento dei suoi personali obiettivi non aveva quasi mai portato ad una felice conclusione.

‹‹Perché dici questo? È stato Raziel a confessartelo?››

‹‹No, l’ho visto quando sei andato al loggiato e hai parlato con lui. Metatron mi aveva inglobata con la sua magia, ma mi ha lasciato il ricordo della vostra conversazione, soprattutto delle vostre espressioni. Alla fine, Raziel sorrideva. Mi era sembrato un sorriso inopportuno, quasi odioso: quando mai si sorride se qualcuno sfoga con te i suoi sentimenti? Ma ho visto il suo sguardo quando ti nominava, prima che io venissi qui, ed era preoccupato. È lo stesso sguardo che ha Haniel, anche se non credo se ne accorga. Non ci preoccupiamo per chi ci è indifferente: è una lezione che ho imparato in fretta da umana, quando vedevo le persone intorno a me fingersi gentili nei miei confronti come se fosse un obbligo. Ma basta una scintilla, magari la prima di una lunga serie o l’unica che mai conosceremo, e ci sentiamo così legati che la preoccupazione nasce spontanea. E se ci interessiamo, spesso e volentieri ci consideriamo amici. È tutta una mia deduzione ma, come ho già detto, ne sono certa.››

Michele rimase sorpreso, ancora, ma per qualche motivo sentirla parlare gli scaldava il cuore. Era gentile, ma determinata, con una sicurezza e una dolcezza nella voce che la rendevano amabile e simpatica. Parlava degli altri e di se stessa unendoli con semplicità, socchiudendo un poco gli occhi verdissimi quando riportava a galla il passato ma guardando con attenzione l’interlocutore. Il tono della voce, da solo, portava neve leggera sulle ferite della sua anima, riempiendo di ghiaccio caldo gli anfratti bui.

‹‹È confortante ciò che dici. Se poi penso che non mi sono nemmeno accorto della tua presenza… Lelahel ha concesso a Metatron molto tempo.››

Verity non sapeva che l’avesse fatto.

‹‹Oh sì, è da quando sei arrivata che l’anziana Mary dirige la banda a ritmo di danza. Un valzer lento per far sì che nessun arcangelo del Paradiso ti portasse a odiare Lucifero prima di averlo conosciuto; cosicché tu imparassi da sola da chi soffre ancora delle conseguenze della guerra come comportarti con noi, con me. Lelahel deve averti raccontato cosa le ho fatto.››

Indicò il trono, avvicinandosi al letto: ‹‹Era seduta lì sopra quando sono tornato dalla guerra, passava le dita tra gli intarsi del legno. Appena l’ho vista, l’ho resa cieca, urlandole contro che fosse una vigliacca e che dovesse andarsene con quella feccia angelica che aveva approvato durante la votazione. Invece non è mai scappata via. Per quanto ogni volta la cacciassi, lei tornava sempre. Rimaneva con me anche la notte, quando gli incubi di Benihime prendevano il controllo e io non sapevo nemmeno come mi chiamassi. Una volta guarito, è rimasta lontana per un po’, facendomi visita e raccontandomi con gentilezza cosa accadesse in Paradiso, portando il cibo che aveva cucinato e imboccandomi se opponevo resistenza. Tutte le visite erano una sofferenza quando inciampava sul gradino o sbatteva contro il trono, quando non trovava la maniglia della porta…››

Michele si sedette sul letto a fianco alla ragazza e lei gli prese la mano: ‹‹Ti sarai sentito immensamente in colpa, vero? Scommetto che, ancora oggi, non riesci a perdonarti. Io…››

Michele si alzò di scatto, gridando: ‹‹Cosa pensi di saperne, tu››

I fiori di ghiaccio si trasformarono in frecce affilate, pronte a essere scoccate da un arco invisibile.

‹‹Non riesco a dissolvere questo peso… Cosa puoi capire tu, che di pesi sull’anima non ne hai mai avuti?››

La reazione improvvisa spaventò Verity e gli occhi le si riempirono di lacrime, come accadeva quando era ancora umana. Non ebbe la prontezza di replicare con forza alle parole dell’arcangelo e finì per asciugarsi le lacrime nelle maniche del vestito, provando a contenersi. Michele la guardò stralunato. Non capiva più nulla. Possibile che così poche ingenue parole fossero sufficienti a far emergere la parte più irrazionale e violenta di sé? Possibile che i desideri, mai ammessi ad alta voce, nemmeno a se stesso, bruciassero ancora il suo autocontrollo? Si passò una mano sulla faccia e si spostò di fronte alla finestra, lontano dalla ragazza, sussurrando scuse su scuse fino a che Verity non lo zittì lanciandogli uno dei cuscini.

‹‹Non sei l’unico ad avere dei pesi, anche se i miei appartengono a un’altra, irrecuperabile vita… Lasciamo perdere la questione, senza amore siamo come fiori appassiti, senza speranza di trovare un’altra fioritura. Sono sicura che Lelahel tenga molto a te e tu, in qualche modo, devi risolvere questa stupida situazione con lei. Non voglio che tu ti sfoghi con me, o che mi confidi i tuoi sentimenti; il mio bagaglio è abbastanza, ma lei sarebbe felice. Credo che voglia parlare con te e che non ti odi per ciò che le hai fatto. Ti ama in un modo tutto suo e…››

Michele la fermò, chiedendole se fosse davvero sicura delle sue parole.

‹‹No. Sto tirando a indovinare, ma non gioco con i tuoi sentimenti. Penso davvero che tu la ami, in un modo strano e contorto, ma sempre amore è. Vivere senza amare è il primo passo per non vivere. Senza amore finiamo come i fiori, appassiamo e non rinveniamo mai completamente. Allo stesso modo penso che lei possa amarti ma, se non le dici nulla, rimarrà solo un’occasione sprecata.››

Possibile che tutti quanti gli suggerissero di aprirsi? In fondo, però, aveva già deciso di farlo. Un consiglio in più rappresentava solo un incentivo, una sicurezza contro la collezione di indecisioni che si affollavano nella sua mente. Guardò fuori dalla finestra si lasciò andare ad un profondo respiro, cambiando poi argomento e tornando a quello con cui avevano iniziato.

‹‹Rifletterò sulle tue parole. A parte questo, cosa vuoi realmente da me?››

Tono di accusa: Fantastico! pensò Verity. Come faceva a trasformarsi così velocemente? Prima accomodante, poi minaccioso e arrabbiato, adesso indisponente.

Verity raccontò allora tutto quello che le era stato detto nei giorni precedenti, chiedendo poi cosa lei dovesse fare. Era a suo agio con le questioni sentimentali, ma in quelle pratiche aveva bisogno di aiuto.

‹‹Continuiamo a osservare quello che succede. Aspettiamo la prossima mossa. Spero solo che questa volta non moriranno altri innocenti… E ancora non sappiamo cosa indichi la parola laboratorio.››

Laboratorio… Laboratorio

All’inizio non l’aveva analizzata seriamente anzi, l’aveva completamente ignorata. Era stata una parola come un’altra nella frase, stupidamente ininfluente, scomparsa in fretta nella moltitudine di parole e informazioni che aveva assimilato. Yelahiah voleva ottenere Benihime per vendicarsi e si era recato in un tempio per recuperarla, ma non era mai stata lasciata in un tempio. Yelahiah cercava gli Ingranaggi nei loro luoghi originari, ma non li aveva trovati perché non erano più custoditi là, e lei questo lo sapeva. Anzi, lei sapeva molto di più.

‹‹Io so dove si trova! So dov’è Benihime, so dove ha intenzione di andare Yelahiah!››

Raccontò di come suo padre stesse studiando l’Ingranaggio con la magia, insieme alla gemella Hikarihime. Sperava di poter trovare un nuovo potere e utilizzarlo per migliorare la Terra e aiutare la popolazione. Era un esperimento importante e interessante in cui erano state coinvolte le maggiori personalità del mondo magico terrestre. Lei li aveva visti, gli Ingranaggi, e sapeva in quale parte del laboratorio si trovassero: ‹‹Possiamo andare lì e assicurarci che Yelahiah non le trovi!››

‹‹Tu non puoi scendere sulla Terra, sarebbe troppo pericoloso per te, che non sei nemmeno capace di combattere e proteggerti.››

Verity mise il broncio, cercando di protestare, e Michele scoppiò a ridere: ‹‹Qualcuno ti insegnerà a farlo, ma devo prima parlare con gli arcangeli. Decideremo noi se inviare qualcuno, e chi.››

Verity tornò normale, pensando che le rimanesse ancora un’opportunità di partecipare, ma le sorse un dubbio su un’altra questione, irrilevante riguardo il recupero degli ingranaggi: ‹‹Perché cambi umore così facilmente?››

Michele impiegò qualche secondo per rispondere: ‹‹Benihime ha lasciato una traccia su di me una volta smaltitone l’effetto. A volte capita che, con certe parole o certi discorsi, questa influenzi i miei comportamenti. Spero sempre di liberarmene, ma mi porterò questo peso nella tomba, probabilmente… Sempre che ci arrivi, in una tomba.››

La accompagnò alla porta, promettendole riluttante che avrebbe provato a farla partecipare a un’eventuale spedizione.

Fuori dalla stanza trovò Lelahel, appoggiata al muro, quasi addormentata, ad aspettarla. Michele la chiamò e la svegliò scuotendola appena per un braccio. Lei sbadigliò un poco e salutò entrambi mentre si stropicciava gli occhi con le mani. Prese poi Verity in braccio e salutò l’arcangelo in un sussurro. Lui rimase a osservarle per un po’ mentre si allontanavano e rientrò nella sua stanza, pensando di dormire un poco. Avrebbe indetto la riunione solo dopo aver recuperato qualche ora di sonno.

 

Uscita dalla roccaforte Verity chiese all’amica di lasciarla a terra e così camminarono fino alla casa di Hariel lentamente. Passarono di fronte al luogo dove aveva incontrato Lucifero e la ragazza sbirciò fra gli alberi sperando di intravederlo nell’oscurità, ma i suoi occhi trovarono solo abeti alti e scuri. Hariel le aspettava sulla soglia e sorrise vedendole arrivare, entrando poi per accedere una luce. Lelahel accompagnò Verity fino al letto, mentre Hariel le guardava preoccupata.

‹‹Lelahel, hai visto Lucifero?›› sussurrò Verity una volta distesa.

La guardiana le rispose che non aveva la minima idea di dove si trovasse. Però, in quel momento, era meglio che dormisse e riposasse. Non mancava poi così tanto all’alba.

‹‹Appena Michele avrà discusso con gli altri arcangeli te lo farò sapere, adesso pensa solo a questo›› uscì dalla stanza, chiudendo piano la porta, e la lasciò sola.

Le due guardiane parlarono tra loro ancora per un po’, ma la ragazza non riuscì a sentire nulla tanto basse erano le loro voci, e alla fine si rigirò nel letto un paio di volte, fermandosi sul fianco cosicché la ferita che aveva non dolesse. Era guarita, ma ancora la faceva soffrire. Cercò di calmarsi con respiri profondi e di addormentarsi, ma nulla le fu utile. La notte, anche se avrebbe preferito dormire, finiva sempre per pensare a Lucifero e a cosa stesse facendo in quel preciso momento; se, per qualche motivo, anche lui non stesse pensando un poco a lei. Lucifero la confondeva non poco. Non poteva essersi già affezionata a lui, non dopo così poco tempo di conoscenza. Erano parecchi mesi, non sapeva nemmeno quanti, nell’arco dei quali i loro incontri erano stati i due in cui avevano veramente parlato e altri in cui si erano scambiati occhiate casuali quando lo scopriva a guardarla di nascosto. Chissà quante volte doveva averla spiata in quel modo.

Non aveva la risposta, ma era ugualmente preoccupata che non fosse tornato da lei e che fosse completamente sparito dai Regni. E perché nessuno andava a cercarlo? Quasi nessuno era in pensiero per lui e Raziel le aveva spiegato come non fosse raro che trascorresse del tempo in solitudine, ma non era un buon motivo per lasciarlo solo. Non avrebbe mai dovuto essere solo, lui.

Poi non ha ancora finito di raccontarmi il suo passato e voglio sapere di più sulla giovane per cui si è ribellato…

Un altro pensiero geloso che non voleva analizzare. Non voleva pensare a cosa quel dannato significasse per lei, non in quel momento. Era più comodo pensare che quella non fosse gelosia, e che tra di loro non sentisse alcun legame, nonostante lui si infiltrasse in tutti i suoi propositi e l’avesse abbracciata e stretta a sé. Al momento preferiva davvero la sua falsa comodità alla prospettiva di aggiungere altri problemi. Nascevano già senza il suo intervento.

Alla fine, continuando a pensare tra sé, la ragazza si addormentò, ma il sonno non durò a lungo. Né quella mattina, né quelle successive riuscì a dormire abbastanza da poter dire di aver recuperato le energie spese durante il giorno. Le ore passavano placide senza nessuna notizia dagli arcangeli e passarono così tanti giorni che credette di essere stata messa da parte nell’intera questione, quando era stata lei a fornire l’informazione più importante di tutte. I primi tempi camminava per il Paradiso, chiacchierando con gli angeli che incontrava per i sentieri. La maggior parte di loro indossava abiti antichi, lasciti di chi li aveva preceduti come custodi o gli stessi che avevano indossato quando ancora erano in vita. Fu felice di scoprire quanto il mito degli angeli biondi con gli occhi azzurri fosse solo una fantasia terrestre: il Paradiso era un turbinio di colori. Capigliature brune, nere, rossicce, ma anche grigie e bianche, con ciocche celesti, verdi e viola. C’erano acconciature di tutti i generi, dai banali capelli sciolti a meravigliosi giochi con le trecce che si era divertita a commentare tra sé e sé, ammirandone la semplicità o la ricercatezza. Alla lunga si stancò però anche di quel gioco, annoiandosi nel parlare sempre dello stesso argomento.

Finì per trasferirsi da Mary, che l’accolse raggiante. Verity si chiedeva come mai vivesse lì da sola. Qualche volta degli angeli andavano a trovarla, ma solitamente trascorreva le sue giornate a leggere all’ombra degli alberi o a passeggiare piacevolmente di radura in radura o a cucinare dolci leggeri e gustosi. Ogni tanto metteva in ordine la casa o fingeva di curare le piante selvagge del giardino. Aveva un’espressione distesa e dolce mentre lavorava con le sue adorate piante, in contatto con la natura.

Stando con lei aveva però imparato novità interessanti, come il fatto che anche gli angeli invecchiassero, proprio come gli umani. L’unica differenza è che lo facevano molto più lentamente e ad un certo momento della loro esistenza si fermavano, diventando immortali. La maggior parte smetteva di crescere a un’età compresa tra i trenta e quarant’anni, mentre pochissimi oltrepassavano i sessant’anni d’età. Mary ne aveva novecento, ed era ferma alla veneranda età di settant’anni da poco più di trecento, circa da quando aveva smesso di essere una guardiana.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


 

 

‹‹Michele mi aveva promesso che qualcuno mi avrebbe insegnato a combattere…›› disse Verity un giorno, stanca di stare seduta a leggere.

‹‹Possiamo farlo. Tempo fa anche io sapevo combattere, sai? Posso insegnarti molto più di quello che oseresti immaginare, ero pur sempre la precedente guardiana›› rispose Mary.

Ricordava abbastanza bene le lezioni che la giovane aveva avuto con le altre guardiane, e come queste non fossero state brillanti, ma era certa che, senza la loro pressione, sarebbe migliorata facilmente.

Anziché allenarsi vicino alla fonte, la portò in un’altra radura, più piccola e nascosta dagli alberi, vicino a casa sua. Inoltrandosi tra olmi e querce incontrarono un piccolo prato circolare, superati un paio di tane di volpi e alcune cespugli di more esso si apriva in tutta la sua bellezza. Era un soffice tappeto erboso, coperto di margherite e violette, a sinistra un nuovo sentiero scompariva nel bosco, conducendo chissà dove. L’aria profumava di erba fresca e l’odore dei fiori pungeva appena le narici, lasciando la sensazione di uno starnuto in arrivo. Verity si passò la mano sul naso per scacciare il prurito e fece qualche passo all’interno. Mary la portò a destra, verso un tozzo tavolo di pietra e sedette a terra.

‹‹So che Scar ti ha insegnato a creare degli scudi ma, secondo la mia esperienza, uno scudo serve a ben poco senza una buona base d’attacco. Prima devi sapere come distruggere qualcuno, dopo come difenderti nel caso sia sopravvissuto. Questo non significa che tu debba concentrarti solo sull’attacco, ma nel tuo caso è più importante.››

Verity trovò l’idea del distruggere un po’ troppo violenta per i suoi gusti ma motivante al tempo stesso, e pensò che avrebbe avuto ben pochi problemi ad imparare.

Per prima cosa, le disse Mary, doveva ascoltarsi.

Non c’era nulla di più difficile che ascoltare se stessi e la propria magia. Lì non contava tanto la concentrazione, ma la volontà di riuscire a conoscere qualcosa di sconosciuto e, potenzialmente, pericoloso.

‹‹La Magia è viva, Verity. È un’altra te stessa.››

Verity teneva gli occhi chiusi, pensando che in qualche modo l’avrebbe aiutata a percepire la sua Magia. La sentiva fluire dentro di sé, scorrere come sempre nelle ali e nelle vene, ma anche scendere lungo la schiena e attraversare le gambe e le braccia, espandersi e concentrarsi nel suo cuore. Ma come avrebbe mai potuto ascoltarla? Non parlava, non c’erano sussurri o sibili, solo sensazioni.

Mary, dall’esterno, la vedeva in difficoltà, come anche lei era stata la prima volta. La ragazza faceva smorfie esilaranti, sbuffava infastidita e cambiava posizione. Era evidente come non riuscisse a comunicare.

‹‹Immaginala come un’altra te stessa, estrai il flusso dal tuo corpo e plasmalo secondo le tue sembianze.››

Verity annuì appena, ascoltando le parole della donna con un solo orecchio per non deconcentrarsi, e creò la sua gemella nella mente.

All’improvviso rilassò i muscoli, rendendosi conto solo in quell’istante di quanto fosse tesa, e aprendo gli occhi scoprì che la figura che aveva creato la osservava con insistenza. Per lo spavento perse il contatto.

Mary la stava sollevando per un braccio, dicendo che aveva fatto abbastanza.

‹‹Ma l’ho vista! Posso andare avanti, ancora un pochino, ti prego!››

L’anziana disse che avrebbero riprovato il giorno dopo, assoggettare la Magia sarebbe stato complicato ed era meglio che riprovasse il giorno dopo.

 

Si rese conto del perché nessuna delle guardiane l’avesse approcciata alla magia con quella tecnica: i progressi erano minuscoli e impercettibili. Prima la sua copia l’aveva osservata da lontano, poi si era avvicinata un passo alla volta, senza mai smettere di studiarla. E Verity l’aveva vista sempre più uguale a lei, e allora aveva provato a salutarla con un filo di voce, ma questa era scomparsa. Non era riuscita a richiamarla per giorni e Mary finì per chiedersi se non fosse la stessa Magia a non volersi far vedere, ma relegò il pensiero in un angolo della mente, ignorandolo.

Un giorno in cui era più rilassata del solito, la copia le rispose, dicendole di smetterla di importunarla dandole tutte le volte quella forma.

‹‹Io… Scusami. Mi è stato detto che per poter controllare la magia devo ascoltarla e-…›

‹‹Cosa ti fa pensare che io voglia essere controllata? Hai vissuto per anni senza magia, non puoi accontentarti di svolazzare in giro?››

‹‹Pensavo che avremmo potuto trovare una specie di accordo o…››

‹‹O cosa? Non saresti capace di controllarmi nemmeno se ti dessi il permesso. Hai paura di te stessa, di quello che provi. Non sei nemmeno capace di accettare i tuoi sentimenti e preferisci dire bugie a tutti quanti. E lo so perché sono dentro di te, sento tutto quello che senti tu. Sono qui da quando sei nata, ho vissuto tutto quello che hai vissuto tu.››

Verity si risentì a quelle parole, smettendo di provare a parlare.

‹‹Non isolarti come facevi da viva. Non sei una bambina piagnucolona, anche se lo sembri. A tutti.››

Era vero, quando si sentiva minacciata, si isolava dal mondo per non sentirsi debole e indifesa. Fingere di essere da sola le dava il tempo di pensare e analizzare chi aveva davanti per rispondergli, anche se la maggior parte delle volte rimaneva in silenzio e resisteva fino a quando non poteva scoppiare a piangere liberamente per allentare la tensione. Però la sua copia aveva detto che non era una bambina piagnucolona…

‹‹Non piangi più, sciocca. Non hai pianto nemmeno quando Yelahiah ti ha torturata.››

Non le era sembrato così importante quel dettaglio, ma aveva ragione. Era stato ovvio non farlo: non voleva concedere un’altra soddisfazione a quel dannato. E la stessa cosa era accaduta quando aveva difeso Lelahel. Lo aveva fatto per… Per cosa?

‹‹Orgoglio, almeno credo sia stato quello. E felicità. E gratitudine. Sei così grata della considerazione in cui ti tengono che non ti sogni neanche lontanamente di creare problemi. Anche se alla fine lo fai lo stesso. Il punto, però, è che sei un bel burattino nelle loro mani. Hai sempre paura. Per non parlare di Lucifero. Non fai mai nulla quando sei con lui. Sembri un baccalà nelle sue braccia. Hai una paura enorme che ti giudichino.››

Aveva ragione, almeno in parte. Lo riconosceva, lo sapeva. Quando Raziel aveva affermato che avesse fiducia in lui, lei aveva negato, cercando una scusa che alla fine non aveva trovato. Non si vergognava di fidarsi di lui, e nemmeno dell’aver provato gelosia quando aveva nominato la ragazza bellissima che amava, ma, al tempo stesso, aveva avuto paura che qualcuno giudicasse sbagliate le sue azioni e non ne aveva parlato con nessuno. Credeva che non l’avrebbero appoggiata, o, peggio, che l’avrebbero isolata: la bastò pensare a come Hariel le aveva raccontato di Lucifero. Il tono di voce era stato spaventato, quasi terrorizzato.

‹‹Avresti paura anche tu, al posto mio›› disse alla sua copia.

‹‹Forse. Ma pensa, ti sei lasciata manipolare da tua madre e dalle sue idee: non le piacevi senza magia, ma ti voleva bene, e la visione con Lucifero ne è stata la prova. Adesso ti dicono di lasciarlo solo e tu, da bravo cagnolino, ubbidisci, mentre potresti raggiungerlo solo desiderandolo grazie alla pietra che porti al collo. Non capisco cosa tu voglia fare. La tua mente passa da una decisione all’altra, ritorni indietro sulle tue scelte e obbedisci agli ordini. Mi confondi, il tuo modo di scegliere mi confonde e ne ho avuto abbastanza di angeli incerti e insicuri.››

La copia aveva parlato con agitazione, calcando sull’idea di confusione e incertezza. Verity sorrise, pensando che la sua Magia accusatrice e scorbutica non fosse poi così diversa da lei, era solo più spavalda.

‹‹Voglio vederli felici. Voglio che non soffrano perché la guerra, per quanto poco io ne sappia, ha già portato abbastanza dolore. Ho visto la crudeltà di Yelahiah, so cos’ha fatto nel tempio, anche tu. Non voglio che si ripeta, non voglio vederli morire.››

Verity parlò con sicurezza. Stava dicendo la verità, era esattamente ciò che intendeva fare, anche se avrebbe sicuramente cambiato tattiche e piani almeno altre mille volte. La sua copia sembrò sollevata nel sentire quelle parole e sorrise con un ghigno.

‹‹Saresti disposta a morire per loro, senza nemmeno conoscerli veramente?››

Non aveva pensato a una simile eventualità, a una simile conclusione della sua avventura da guardiana.

‹‹Forse sì. Non lo so, non credo di poterlo sapere adesso. Ora ti direi assolutamente sì, ma non so se sceglierei lo stesso in una situazione critica. Preferirei non dover scegliere.››

La Magia sorrise nuovamente, stavolta in una dolce tensione delle labbra.

‹‹Pensavo avresti detto no. Pensavo che, pur di non far soffrire chi ami per la tua morte, avresti cercato un accordo, come volevi fare con me. È interessante scoprire che non sei ovvia come credevo, potrei anche darti un po’ del mio potere dopotutto. Ma ti consiglio di non dimenticare qual è il prezzo della morte, nemmeno quando sembra l’unica soluzione possibile…››

Gli occhi di Verity brillarono di speranza.

‹‹In ogni caso, ti avviso, non sono un potere facile da usare, nemmeno se mi concedessi completamente a te. Avresti enormi difficoltà. Derivo da un’essenza un po’ complicata, un po’ antipatica a volte, nonostante Metatron mi consideri una delle più affascinati.››

‹‹Derivi dalla giustizia, cosa c’è di complicato?››

‹‹Chi pensi decida cosa sia giusto e cosa sbagliato? Il nero è bianco, e il bianco è nero, tutte le sfumature dell’esistenza sono racchiuse tra di loro e nulla può essere definito da una sola tonalità. Non siamo solo cattivi, non siamo solo buoni. Siamo amori che sono anche odio, e felicità che è anche tristezza. Tutto ciò che di buono conosci è anche cattivo. Chi sei tu per decidere dove inserire qualcuno o qualcosa? Non prendermi mai sottogamba, io sono la giustizia, l’equilibrio tra essere e non essere. Tutto quello che io rappresento e sono è complicato, non scordarlo mai.››

Verity non le rispose subito, riconoscendo la veridicità delle sue parole e pensando a come avesse avuto la stessa idea mentre era sulla Terra. Non aveva mai collegato quei pensieri a principi di giustizia ed equilibrio, ma in effetti erano concetti vicinissimi…

‹‹Prometto di non sottovalutarti mai, e di impegnarmi per controllare il tuo potere senza opprimerti!››

La Magia sgranò gli occhi: come poteva la ragazza sapere dell’oppressione?

Verity disse che Hariel e Lelahel ne avevano parlato con lei, specificando come durante la guerra alcuni angeli avessero costretto la propria magia ad andare contro la propria natura: ‹‹Io ho bisogno di te per proteggermi, altrimenti sarà sempre qualcun altro a morire per me.››

‹‹E sia›› disse la copia. ‹‹Mi concedo a te. Sei impaurita e debole, indecisa, ma puoi diventare una guardiana vera, ho fede in questo. Sei disposta a sacrificarti, e questo per me è segno di grande forza.››

Mentre parlava, piano piano aveva iniziato a scomparire. Era diventata pallida come un fantasma e poi trasparente, inconsistente, dissolvendosi nell’aria in una polvere argentea. Si era ricomposta poi in un diadema nelle mani della ragazza. Al centro della fronte si sarebbe trovata una pietra nera e brillante, al di sotto della quale si snodava un incrocio di fili terminante in un piccolo diamante. Ai lati la struttura si intrecciava nuovamente, creando il cerchio per la testa da cui pendevano altri fili sottilissimi che si riunivano sulla nuca con un’altra pietra nera.

La voce intanto parlava.

‹‹Questa è la mia forma. Sarò sempre sulla tua fronte, ma interverrò solo se avrai bisogno di me. Non farmi pentire della mia scelta.››

Si dissolse per riapparire sulla fronte di Verity e l’illusione finì, lasciando lo sguardo della giovane libero di vagare nella radura.

Ci sono riuscita… Aveva davvero parlato con la sua magia, l’aveva ascoltata, aveva la sua fiducia.

“Adesso non esagerare. Ho detto che ti aiuterò, non che mi fido di te.”

Verity trasalì, non avrebbe davvero dovuto ascoltarla ogni giorno? Sarebbe diventata pazza.

“Non parlerò, ti voglio sana di mente. Era solo per chiarire la questione della fiducia. Penso che non mi farò viva per molto tempo.”

Verity tirò un sospiro di sollievo e si rivolse a Mary, che già da tempo la osservava incuriosita. Le disse che la Magia si era concessa a lei.

‹‹E che forma ha? Cambia da angelo ad angelo.››

Era bellissima, come mai si sarebbe aspettata. Era un gioiello degno di una regina e si perse nel descriverlo in ogni dettaglio, dove e come brillasse e come, nonostante sembrasse fragile, fosse in realtà resistente e forte. Le raccontò della sensazione di tenerlo in mano e quella spettacolare dell’indossarlo. Ed era strano, perché la faceva sentire imbattibile, come se fosse pronta a compiere le più grandi imprese. Avrebbe potuto distruggere Yelahiah solo volendolo, tanto si sentiva audace e coraggiosa.

Mary le sorrise come una madre e la prese sotto braccio, complimentandosi con lei e consigliandole di tornare a casa e riposarsi per potersi allenare ancora il giorno dopo.

 

La mattina dopo tutto fu strano, e anche le giornate successive lo furono. Mary la obbligava a rimanere seduta sull’erba, dicendole di concentrarsi ed emanare la magia lentamente, irradiandola da tutto il corpo per creare un sfera intorno a sé. Scoprì di non avere una magia elementale: non fuoco, né acqua, terra o aria; non usava le loro particolarità come ghiaccio o calore. Non era nemmeno una magia di luce o buio. Mary la faceva stare ferma in quella posizione per cercare di capire cosa fosse, ma nemmeno lei riusciva davvero a comprendere quella magia che non cambiava in modo consistente nulla intorno a sé.

Per settimane continuarono quel buffo esperimento, ma alla fine arrivarono a una soluzione, anche se non fu tutto merito loro.

Verity, concentrata com’era nell’emanazione, non si accorse della presenza di quattro angioletti nascosti tra gli alberi, antichi e giovani al contempo, anch’essi figli di Sandalphon. Erano quattro fratelli messaggeri che da tempo cercavano di parlare con le due donne, ma che erano affascinati da quella strana e rara magia, così tanto da scordarsi ogni volta di riferire il proprio messaggio. Mary li aveva intravisti mentre si sporgevano sempre più fuori dalle chiome degli alberi e un giorno, mentre Verity riposava, li aveva fatti scendere, iniziando a discutere con loro. Tutti e quattro le avevano dato la stessa risposta anche se con modi differenti. Fuyu, con le ali candide e il naso coperto di neve, aveva solamente annuito al fratello della primavera; questo, chiamato Haru, aveva parlato a bassa voce, spostandosi i riccioli biondi e sbattendo appena le ali, profumando di fiori appena sbocciati l’ambiente. Natsu aveva quasi urlato, rischiando di svegliare la guardiana appisolata, ed era rimasto ben lontano da Fuyu per paura di scaldarlo. L’unico che aveva parlato tranquillamente era stato Aki, che aveva nominato la magia torturando una delle foglie rosse che ornavano la sua corona.

‹‹Purificazione e corruzione… È un potere molto raro. Ed è strano che si sviluppi associato all’essenza della giustizia. Capirei la purificazione, ma la giustizia non dovrebbe fare del male.››

‹‹Gli angeli dell’Inferno hanno piegato la propria magia per uccidere i propri fratelli. Anche la magia ha un suo lato oscuro, non pensi, Mary?››

Pensò che ci mancasse solo quello.

I quattro angioletti corsero via spaventati dallo sguardo severo che il possessore della voce aveva rivolto loro, mentre Mary si voltava lentamente, sforzandosi di assumere un’espressione cordiale.

‹‹Buongiorno, Raffaele, come mai sei venuto a trovarci?››

Osservò Verity. Gli sembrò ingenua, e forse non era nemmeno il primo a pensarlo, e rise al pensiero di una cosina così piccola che combatteva.

‹‹Michele ha inviato a voi tutti e quattro i messaggeri, mi domandavo il motivo. Non mi ha raccontato nulla, non lo fa da molto ormai…››

Mary disse che probabilmente doveva solo parlare con loro e che li avesse inviati tutti perché non erano tornati indietro con una risposta.

‹‹Avrebbe potuto parlarmene ugualmente.››

No, non avrebbe potuto, pensò Mary, lo avresti bloccato o non avresti capito.

La risposta che diede fu però più cortese: ‹‹Probabilmente non era così importante, oppure non ha pensato di chiedere il tuo parere.››

Forse, pensò Raffaele, anche se non era poi così convinto.

Michele era cambiato dalla fine della guerra, da quando si era ripreso da Benihime. Lentamente si era allontanato da lui e il sentimento fraterno che li aveva uniti sulla Terra si era sfilacciato, assottigliandosi sempre più.

Lui era un po’ come Scar. Era stato un fratello generoso, ma le attenzioni che aveva dedicato a Michele erano state opprimenti alcune volte. Pensare che non condividessero più le stesse idee lo aveva spaventato, portandolo a credere che sarebbero potuti persino essere nemici o che potesse aver avuto dei ripensamenti sulle passate decisioni. Parlare però di Michele con l’anziana Mary sarebbe stato uno spreco di tempo e lui non si voleva confidare con quella donna, non con tutti gli aiuti che quella dispensava a Lucifero e al suo amore impossibile.

Lui si sarebbe concentrato solo sulla piccola guardiana dal viso di porcellana.

‹‹Purificazione e corruzione quindi… Su quale vi concentrerete? È opportuno che vi concentriate su un aspetto, no?››

Quella che aveva posto come una domanda era in realtà una decisione ovvia per lui, non c’erano nemmeno discussioni da fare.

‹‹Perché scegliere? Sono due facce della stessa medaglia e, come hai detto poco fa, anche la magia ha un suo lato oscuro, no? Favorirne solo una potrebbe sbilanciarla. Materia e anima devono rimanere in equilibrio.››

Raffaele sgranò gli occhi, percependo una sottile accusa, come se in lui ci fosse qualcosa di sbagliato e cercasse di farglielo notare delicatamente.

‹‹Non sono in equilibrio già normalmente, soprattutto in noi arcangeli. Non so quanto lei sia diversa da noi, era pur sempre un’umana.››

‹‹Ha molta più anima di quanto tu creda, è la grande forza degli umani. I sentimenti li smuovono dal torpore e dall’immobilità. Li fanno diventare coraggiosi, intrepidi e incuranti del pericolo. Dio non poteva fare loro un dono più magico e tu, come Arcangelo della Volontà, dovresti aver provato la forza dei sentimenti almeno una volta, anche se non la condividi.››

Raffaele strinse i pugni per l’irritazione, controllando l’istinto di far tacere la donna con la violenza, come assolutamente non avrebbe dovuto fare. Non che lui non condividesse i sentimenti umani, il problema era che quelli gli avevano portato solo sofferenza e disperazione. Avrebbe vissuto senza volentieri.

Amava suo fratello Michele in un modo che non sapeva spiegare, lo amava di un attaccamento che non riusciva ad accettare nemmeno nel profondo del suo cuore e che non sapeva definire. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di renderlo felice, ma, allo stesso tempo, nulla gli aveva portato più angoscia di quelle idee. All’inizio, in Paradiso, era stato combattuto su come comportarsi e se mostrare anche lì la stessa premura che aveva usato sulla Terra, ma aveva visto come Scar agiva nei confronti di Lucifero e si era sentito disgustato all’idea di abbassarsi al livello di un patetico umano quando era ben superiore. Prese un respiro profondo e chiese a Mary se potesse aiutarlo nell’allenamento.

‹‹Siamo in grado di fare da sole e, in ogni caso, non scomoderemmo mai un arcangelo della tua levatura.››

Si inchinò e lui capì che doveva andarsene.

‹‹Un arcangelo della sua importanza?›› domandò Verity fingendo di svegliarsi. ‹‹Raziel mi ha detto che se lo convinco a fidarsi di me, avrò la fiducia di tutti gli altri. È davvero così influente?››

‹‹Ora sì; un tempo, prima della guerra, meno. Sai, c’è una specie di gerarchia tra gli arcangeli, immaginala come una scala da uno a dieci in cui ogni numero indica il Coro cui appartengono. Raffaele appartiene al Sesto Coro, quello della Virtù. Da quando Metatron, Raziel ed Hesediel sono stati banditi, ha preso il controllo della situazione. È l’arcangelo dal carattere più deciso e, all’apparenza, quello che è uscito con meno danni di tutti dalla guerra.››

‹‹Mary, raccontamela. Per ogni parola o evento che accade, fate sempre riferimento a quella maledetta guerra, e io non ne so nulla!››

Mary le disse che non poteva. Non aveva partecipato, non era nemmeno nata a quel tempo: ‹‹Sono certa che Lucifero voglia essere il primo e l’unico a parlartene.››

‹‹E allora dove diavolo è? Sono passate settimane, se non almeno un mese, e non è ancora tornato! Io… Io…››

Le lacrime le appannarono la vista e Mary l’abbracciò di slancio, stringendola e aspettando che le sfogasse tutte. Verity in realtà non pianse. Singhiozzò fino a calmarsi e cercò di terminare quella frase. Aveva fisicamente bisogno di finirla. Se non lo avesse fatto, probabilmente sarebbe implosa. Doveva ammettere qualcosa, almeno una piccola verità.

‹‹Io voglio vederlo. Non voglio andare da lui, Raziel mi ha detto di lasciarlo in pace, ma ho bisogno di sentirlo parlare con me…››

E ho bisogno del calore confortante del suo abbraccio.

Lo avrebbe sicuramente rivisto presto, le promise Mary, doveva solo aspettare e pazientare ancora un po’ di tempo.

 

 

Angolo dell’autrice

Buonasera a tutti, come state? Come al solito sono un poco in ritardo, ma spero mi perdonerete visto che siamo ormai quasi a metà storia. Verity ha finalmente conosciuto la sua Magia, con tutte le riflessioni che dovranno derivarne ed è entrato in scena ance l’arcangelo Raffaele. Spero che entrambi i personaggi vi piacciano!

Grazie a tutti per aver letto il capitolo J

Lasciatemi un parere per sapere se vi è piaciuto o se posso migliorare.

Un abbraccio,
Nemamiah

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Capitolo 21

Raffaele si era allontanato velocemente, sforzando la resistenza delle sue ali, dirigendosi prima verso il palazzo e poi virando all’improvviso verso la porta del Paradiso, preferendo continuare la strada a piedi. Rimaneva sempre un luogo tranquillo e poco frequentato. Oltrepassò l’arco bianco con passo lento ma deciso, senza prestare attenzione alle finissime decorazioni né alla scritta incisa. Le risposte di Mary lo avevano irritato, accendendo il suo orgoglio già offeso dalla poca considerazione che gli aveva riservato. Continuò a stringere i pugni fino a che le nocche non impallidirono e le mani formicolarono per la mancanza di sangue. Quella donna lo aveva quasi ignorato, trattandolo come un comune angelo e non l’arcangelo che aveva preso le redini del Paradiso per evitare che andasse in mille pezzi. E addirittura lo aveva mandato via.

Camminò tra i cespugli che aumentavano man mano che si inoltrava nel bosco, nascondendosi dietro la vegetazione. Non aveva voglia di essere fermato da un qualche angelo e perdere tempo. Voleva muoversi e tornare al più presto al palazzo, ma prima doveva fermarsi da un’altra parte.

Il canto dei Sognatori faceva addormentare chiunque tranne lui: aveva imparato a resistervi per il tempo necessario per una conversazione. Si sedette al fianco di un Sognatore, uno con cui aveva già parlato precedentemente, ordinandogli di smettere di cantare e rispondere alle sue domande.

‹‹La custode di Eteria è stata qui da sola? O con Lucifero?››

Il Sognatore, anzi sarebbe meglio dire la Sognatrice, disse che la ragazza era stata lì tempo fa, insieme alle altre guardiane, e non era più ritornata; Lucifero era stato bandito, non poteva entrare in Paradiso.

‹‹Non è vero. Sono certo che Lucifero sia stato qui, sento la traccia del suo passaggio.››

La Sognatrice rispose nuovamente che era impossibile, nulla del genere poteva essere accaduto.

‹‹Posso accettare che tu menta alle guardiane magari, ma non a me. Ho bisogno di sapere la verità.››

Gli disse che lei non era in grado di mentirgli e che nemmeno desiderava farlo. Il suo compito era mantenere la barriera, non coprire le scappatelle amorose di un angelo bandito. Riprese a cantare e ignorò le successive domande di Raffaele.

L’arcangelo, ancora più irritato, si alzò e si diresse, senza più intenzione di fare deviazioni, verso il palazzo.

Quando si fu allontanato abbastanza e non poteva più sentirli, un Sognatore smise di cantare e si rivolse alla donna: ‹‹Tu non menti mai, vero?››

Non potevano vedersi negli occhi a causa del velo e delle visioni, ma entrambi sapevano che stavano sorridendo.

‹‹Qualche volta, per un amico, sono disposta ad andare contro la mia natura sincera.››

‹‹Sarà›› disse l’angelo. ‹‹Ma non mi pare una buona idea. Pensa se Raffaele lo scoprisse.››

Lei rise, dicendo che non avrebbe potuto punirla in un modo peggiore di quanto non avesse già fatto, e ritornò a cantare. Il Sognatore sbuffò, esasperato dall’ottimismo della donna e dalla punizione che da molti secoli non sopportava più, e anche lui iniziò a cantare, ignorando le visioni sotto le palpebre.

 

Raffaele entrò nel palazzo, dirigendosi velocemente verso la stanza al piano inferiore ma, non trovando nessuno, salì nella Sala del Consiglio. Non era nel suo cerchio, né in nessun altro. Gli arcangeli presenti, Binael e Kamael, lo salutarono, chiedendo poi dove fosse stato, ma Raffaele uscì di corsa, salendo le scale fino all’appartamento di Raziel.

Lo trovò affacciato alla finestra che aveva coperto con una lastra di ghiaccio che filtrava la luce accecante delle stelle. A Raffaele si strinse il cuore nel vederlo guardare fuori e per un momento si dimenticò del proposito di fargli confessare cosa stesse tramando. Durò poco, meno di un secondo, e andò a sedersi sul trono.

‹‹Raffaele, levati da quel trono. Sai che non mi piace che venga usato.››

‹‹È vero, fratello. Ma volevo vedere se riesco ad attirare ancora la tua attenzione. E ora che ne sono certo, mi alzo subito. Sono qui perché ho visto i quattro messaggeri andare dall’anziana Mary, mi chiedevo perché li avessi inviati.››

‹‹Abbiamo delle informazioni su Yelahiah e sugli Ingranaggi. Pensavo fosse importante trasmetterle alla custode e alla precedente guardiana.››

Ma non me ne hai parlato, pensò Raffaele e se ne rattristò, deluso dall’amato fratello. Lo fissava, aspettando che parlasse ancora e condividesse anche con lui quelle preziose informazioni.

‹‹Yelahiah vuole controllare Benihime, ma possiamo evitarlo se lo precediamo. Sappiamo già dove si trovano i due Ingranaggi e possiamo prenderli prima di lui. Non ci saranno battaglie o guerre se rimangono nelle nostre mani.››

Aveva ragione, pienamente ragione: ‹‹Ma perché chiamare la custode?››

Era giovane, debole e inadatta al combattimento, per non aggiungere una certa inutilità e paura di agire, disse Raffaele.

‹‹Non è debole, fratello. È sicuramente giovane, ma tutt’altro che debole o paurosa. Anzi, ha avuto il coraggio di sgridarmi e dirmi cosa fosse meglio fare. È stata lei a svelarmi dove si trovino gli Ingranaggi.››

Raffaele perse ogni eccitazione e felicità, analizzando Michele con gli occhi, incredulo. Non poteva essere vero, aveva parlato con la custode? E lei lo aveva sgridato?

‹‹Michele, ti sei fatto rimproverare da una ragazzina? Dov’è finito il tuo orgoglio di arcangelo? Siamo fratelli, non di sangue, ma comunque fratelli: come hai potuto non dirmi una cosa del genere! Michele! Non ridere, non ridere di me, hai disubbidito a un mio ordine.››

Michele stava ridendo della reazione assurda di Raffaele, provando a trattenere quel suono melodioso tra le labbra ora serrate. Non avrebbe offeso il fratello più di quanto non avesse già fatto. Impiegò alcuni minuti per calmarsi completamente, mentre Raffaele lo guardava in silenzio, severo.

‹‹Il mio orgoglio ha creato molti danni durante e dopo la guerra e ricorda che una custode, per quanto inesperta, rimane sempre più forte di noi. Ha più capacità, più sensibilità e comprensione di noi: riesce a capire i sentimenti. È una giovane particolare e non ti ho detto della sua visita perché non la consideravo importante o, quantomeno, gli Ingranaggi e la loro ubicazione lo erano maggiormente e ancora più di questo volevo muovermi con discrezione. Le voci passano dal Paradiso all’Inferno come se non ci fosse una barriera a dividerci, quindi calmati. Potremo lavorare insieme d’ora in poi, lei sarà con noi e vinceremo questa guerra.››

‹‹Non ci sarà nessuna guerra, Michele.››

‹‹Così crederanno tutti gli angeli e possiamo solo sperare che sia così. Sai bene quanto me che Yelahiah non si arrenderà tanto facilmente, ha accumulato abbastanza desiderio di vendetta da poterci seppellire solo con quello. Dobbiamo prendere le necessarie precauzioni.››

Raffaele espirò profondamente. Era ancora arrabbiato, irritato e infastidito per essere stato tenuto all’oscuro delle sue azioni ma, contemporaneamente, sapeva di non essere l’unico a non conoscere la situazione nei dettagli e questo lo calmò, rendendolo un poco più razionale. Ragionò sulle decisioni del fratello e le trovò corrette.

‹‹Ti aiuterò, voglio davvero credere che non ci sarà un’altra guerra, faremo in modo che non accada. Ti ho già visto impazzire una volta e non permetterò che si ripeta. Non farai nulla direttamente: rimarrai a dare gli ordini. Sei sempre stato più bravo di me.››

Michele rimase amareggiato dalla conclusione. Chiunque si sarebbe arrabbiato con Raffaele, probabilmente cacciandolo via a male parole per quella che sarebbe sembrata una mancanza di fiducia, ma lui lo conosceva bene. Raffaele aveva davvero paura per lui e, forse, ne avrebbe sempre avuta. Sorrise un po’ incerto e si lasciò abbracciare dal fratello, che lo strinse teneramente come quando era piccolo e le nevicate ricoprivano la Gallia.

Si separarono e discussero ancora sulla custode, cercarono di trovarle un ruolo d’azione nel recupero degli Ingranaggi, anche se alla fine decisero che avrebbero fatto un’assemblea per informare tutti gli angeli che avrebbero voluto partecipare.

Infine Raffaele se ne andò e Michele si lasciò cadere sul letto, pensando a come suo fratello non capisse nulla di sentimenti. Non che lui fosse migliore ovviamente, ma almeno percepiva la tenerezza e la dolcezza dei suoi abbracci e sapeva che non era tutto amore fraterno. Avrebbe dovuto dirgli di lasciar perdere, ma non aveva mai trovato il coraggio. Forse, un giorno, avrebbe affrontato quella discussione; per il momento si sarebbero concentrati sul Paradiso e su come proteggerlo.

 

In pochi giorni si diffuse in tutto il Paradiso la voce di una riunione nel palazzo degli arcangeli. Era bastato dirlo agli angeli giusti e tutti ne erano venuti a conoscenza, anche se pochi avevano intenzione di andare. Tra quelli, Hariel fu la prima a varcare la soglia della sala e andò a salutare Verity, seduta nel cerchio di Michele. La ragazza si ripassava un lembo del vestito tra le mani e fissava insistentemente la porta, chiedendosi chi altro sarebbe entrato. Gli unici furono Lelahel e due angeli tremanti che rimasero per quasi tutta la discussione vicino alla guardiana del Paradiso, l’unica che conoscessero. Michele sospirò, mentre Haniel guardò Gabriele dall’alto del suo cerchio con un sorriso a metà tra te l’avevo detto e peccato che siano così pochi e si alzò per dare il benvenuto a tutti loro. Gabriele si distese sulla sua gradinata e chiuse gli occhi. Raffaele iniziò a parlare e Verity si spostò, raggiungendo l’arcangelo e sedendosi di fianco alla sua testa. La voce di Raffaele riempiva lo spazio della sala, una voce basse che rimbombava contro le pareti e colpiva prepotentemente tutti loro. E li spaventava.

Raffaele non se ne curava. Incutere timore non era mai stato un problema. Sapere che bastava la sua sola voce per farsi obbedire, senza dover ricorrere ad altri espedienti, era una sollievo. Non aveva effetto su tutti, Gabriele rimaneva la sua eccezione, ma poco importava. Quest’ultimo non era mai stato un arcangelo disponibile a combattere anzi, era già tanto che qualche volta si fosse mosso e avesse fatto un giro sulla Terra per osservarne gli abitanti anziché perdersi in lunghe dormite e momenti meditativi proprio come in quel frangente. Continuò a spiegare ai due angeli la situazione, calcando sulla pericolosità di Yelahiah e sulla necessità che nessun angelo dell’Inferno avesse il minimo sentore delle loro azioni, soprattutto Lucifero e gli arcangeli là rinchiusi. Quest’ultima richiesta era rivolta più alle guardiane, ma vedere la mano di Verity stringere spasmodicamente la gonna al nome del dannato gli fece credere di non averlo nominato in vano. Lo preoccupò non poco, ma lasciò scorrere la preoccupazione via dal suo sguardo, dando ordini e istruzioni.

‹‹Smettila di stringere la gonna. Lo ha notato e ti assicuro che non gli piace per niente.››

Verity sussultò nel sentire Gabriele, non credendo che avrebbe parlato e troppo concentrata sugli ordini di Raffaele che avrebbe dovuto eseguire anche lei. Pensava però anche a quando si erano parlati quella stessa mattina, prima della riunione.

Si erano fissati negli occhi, in silenzio, per un po’. Lei cercava di capire che tipo di angelo fosse, che segreto nascondesse; lui l’aveva analizzata e studiata attentamente, concentrandosi sull’aura leggera che emanava. Come lui sfruttava la propria magia per guardarla dentro, lei faceva lo stesso, ma senza risultati. Poteva spiare dentro di lui quanto volesse, non avrebbe mai trovato nulla, solo un velo che ostacolava la sua vista e che le avrebbe impedito di superare la sua barriera.

Verity ricordava bene quando Lucifero le aveva suggerito di svelare i segreti degli angeli e ogni tanto ci provava, anche se non aveva mai successo. Aveva capito qualcosa di Michele, ma era stato solo un leggero increspamento della superficie. Non aveva davvero raggiunto qualcosa.

Dopo alcuni minuti era stato Raffaele a rompere il silenzio, chiedendole come procedessero gli allenamenti e se avesse imparato ad usare la sua magia. Doveva essere pronta a combattere, ad uccidere se necessario.

‹‹Uccidere non penso proprio!›› gli aveva risposto e dopodiché era entrata nella Sala.

Tornando al presente, pensò che Gabriele dovesse avere ragione. Raffaele era sicuramente l’arcangelo più intollerante di tutti ed era meglio non contrariarlo, anche se non le piaceva che descrivesse Lucifero come un alleato di Yelahiah. Aveva paura che l’arcangelo capisse che aveva incontrato Lucifero più di una volta e che aveva intenzione di farlo ancora. Sapeva di non poter reagire e cercò di contenere la voglia di protestare con decenza, ma non riuscì a impedire alle sue mani di torturare se stesse e la gonna del vestito. Non c’era volontà che riuscisse a controllarle.

Una volta finito di parlare, Raffaele sorrise a Michele e uscì dalla sala, seguito poi dagli altri arcangeli. Rimase solo Gabriele, che ancora fingeva di dormire.

 

I due angeli si chiamavano Reiyel ed Elemiah. Il primo aveva una barba ispida, color caramello, dello stesso colore dei capelli, intrecciati con fili d’argento. Indossava un paio di pantaloni bianchi, di lino, e una tunica color sabbia da cui spuntavano ali simili alla corteccia degli alberi per le mille sfumature di marrone e verde. Aveva l’aspetto di un anziano e l’atteggiamento di un giovane, timido e insicuro, rimanendo dietro Hariel. Elemiah aveva i capelli corti e neri, con appena un accenno di barba. Si guardava intorno con occhi blu come zaffiri che si spalancarono quando incontrarono quelli smeraldo di Verity.

Lei strinse le mani a entrambi e questi si inchinarono, sfiorando il pavimento con le ginocchia e abbassando lo sguardo. La ragazza li fece alzare, imbarazzata.

‹‹Tu sei la custode, sei molto più potente di noi. Dobbiamo omaggiare il tuo ruolo e il tuo potere›› disse Reiyel. ‹‹Sono gli ordini di Raffaele, lo ha detto poco fa.››

‹‹Temo di non aver sentito tutto il discorso, ma non fatelo, ve ne prego. Mi mette solamente in imbarazzo e non serve a nulla.››

Lelahel sorrise. Lei aveva ascoltato tutti gli ordini dell’arcangelo con finto interesse ed era felice che Verity avesse rifiutato quella formalità.

‹‹Verity, hai sentito qualcosa delle istruzioni per la missione? Tipo che non puoi partecipare perché è troppo pericoloso…››

Verity disse di non aver sentito nulla a proposito.

‹‹La custode andrà, con o senza la benedizione di Raffaele. I guardiani sono liberi, non dipendono dalle nostre regole, anche se ci piace crederlo. Basterà che parta dopo di lui e non ci saranno problemi›› disse Gabriele spostandosi dagli occhi colore cenere i capelli castani, alzandosi lentamente. Fissò Lelahel e Hariel con insistenza, come a dire di lasciarli soli. Poi prese per un braccio Verity, obbligandola a camminare con lui, e si allontanò dal gruppetto.

‹‹Non parlare mai, per nessun motivo, di Lucifero in presenza di Raffaele e smettila di reagire ogni volta che viene pronunciato il suo nome. Più lo fai, più la sua mente penserà al motivo e ti assicuro che ho già dovuto ascoltare le sue teorie abbastanza. E… Stai attenta a controllare l’eco. Non so quanto Yelahiah possa diventare pericoloso, ma l’eco sarà molto più forte sulla Terra. Sentirai le morti molto più precisamente e sarà doloroso. Cerca di ignorarlo, sempre.››

‹‹Gabriele, perché cerchi di aiutarmi? So che vuoi proteggere Haniel, ma io cosa c’entro?››

Gabriele si fermò all’improvviso, aprendo poi una porta con pannelli d’oro.

‹‹Vedi, io amo Haniel, e questo è vero, ma sono anche un arcangelo. Sono l’Arcangelo della Riproduzione e della Fecondità, tengo molto alla Terra. Desidero che l’umanità sopravviva, che nascano ancora donne e uomini dal cuore buono che con il loro amore nutrano il mio potere in Paradiso. La guerra di Lucifero non avrebbe mai influenzato la Terra e non me ne sono interessato, non più di altre faccende angeliche. Inoltre è meglio che io non combatta, l’eco me lo rende quasi insopportabile. Ma Yelahiah… Yelahiah ha ucciso delle persone, persone che non dovevano ancora morire ed è mio dovere aiutarti nei limiti delle mie possibilità. Molti in Paradiso credono che io sia un pessimo combattente, ma il problema è che l’eco mi ruba energia, causandomi un dolore insopportabile quando lo sfrutto, e che cerco di conservarne il più possibile per Haniel. Se sarò obbligato, combatterò anche io, ma se posso evitarlo… Tu invece sei il mio opposto. Tu hai un potere immenso, talmente grande che l’eco lo scalfisce appena, l’unico problema è che devi imparare a controllarlo ed usarlo per proteggerti. Inoltre sei la custode di Eteria, sei l’angelo che deve vegliare su entrambi i regni, hai un compito molto importante. Per questa, e per molte altre ragioni, stavolta devo intervenire e non fare l’indifferente. E, in ultimo, Lucifero ha il diritto di amare chi vuole. In passato non votai nell’assemblea, ma questo non significa che non mi fossi fatto un’opinione.››

Gabriele sorrise, di un sorriso confortante che piacque molto alla ragazza, di quelli che le facevano credere che il mondo fosse ancora un luogo accogliente. Si perdeva in quei sorrisi che erano come quelli che le riservava il nonno. Navigava letteralmente, andando con lentezza alla deriva, affogando consenziente nella fiducia di un sorriso amico. Strinse la mano di Gabriele in un gesto riconoscente e attraversò la porta che, secondo le sue parole, l’avrebbe portata a Eteria.


Angolo dell'autrice :)

Buongiorno a tutti, come state?
Come anticipato ieri nella mia pagina facebook da oggi torno ad aggiornare il più regolarmente possibile, pregando che l'università mi dia il tempo di farlo...
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbiate voglia di lasciarmi un parere :)

Un bacione a tutti i lettori ^^
Nemamiah

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Dall’altro lato Scar la stava aspettando e prima che Verity dicesse una qualsiasi cosa in merito alla promessa, alzò le mani in segno di resa, dicendo che doveva solo aiutarla.

La ragazza per poco non scoppiò a ridere, abbassandogli le mani e lasciandosi accompagnare fino alla radura centrale, vicino alla fonte. Scar si chiese cosa rendesse la ragazza così allegra, mai aveva mostrato tanta felicità e, strano a dirlo per lui, lo contagiò. Lentamente sbocciò un sorriso anche sul suo volto, meno convinto di quello di Verity ma altrettanto sereno.

Ancora una volta la presenza della ragazza gli distendeva i nervi, drogandoli con quella dolce influenza che lo inebriava e abbassava le barriere di intransigenza che teneva sempre sollevate. E nel mentre nasceva il desiderio di raccontarle un po’ del suo passato, pensando che lei vi avrebbe letto l’invisibile e che avrebbe consolato la sua anima come nessun’altro. Nonostante tutto non le avrebbe parlato. Avrebbe aspettato il momento in cui sarebbe stata lei a chiedergli, a voler conoscere i suoi segreti. Adesso doveva solo aiutarla ad andare sulla Terra senza essere percepita.

‹‹Dimmi, cosa devo fare?›› Verity era ferma, con la schiena rivolta alla fonte, e lo fissava aspettando di ricevere gli ordini.

Lelahel aveva concordato, insieme a Mary, che la ragazza avrebbe viaggiato attraverso la scia di Scar, così da arrivare a destinazione senza intoppi.

La scia angelica era sicuramente il metodo più veloce per viaggiare: era un lungo corridoio in grado di allargarsi o allungarsi a seconda di dove l’angelo dovesse dirigersi. Ne esistevano di fisse, scie legate a un luogo di partenza preciso, oppure potevano essere create sul momento, adattandole alle esigenze. La scia di Scar era una delle più precise.

Il giovane chiamò Lidwig ad alta voce e questo si materializzò in pochi secondi, salutando Verity con un carezza che le scompigliò i capelli. Si arrotolò su se stesso, guidato dalla magia di Scar, e si trasformò poi in un portone nero e tondo.

‹‹Tieni gli occhi chiusi, per favore. Preferirei che per ora non vedessi i ricordi che contiene.››

Verity annuì e li chiuse, ma Scar li coprì lo stesso con una benda scura; la prese per mano e la condusse all’interno.

Scar camminava in silenzio, sospirando quando si imbatteva in uno dei ricordi felici della sua infanzia, mentre Verity arricciava il naso ogni volta che lo sentiva, chiedendosi cosa si stesse perdendo e perché non potesse vederlo. Non poteva avere un passato così terribile.

Nella sua mente intanto la Magia aveva preso a sussurrare, commentando acida il comportamento di Scar e distraendo la ragazza dal prurito al naso che la benda le causava.

“Ti sta nascondendo qualcosa. Non si fida di te probabilmente, quindi perché tu dovresti?”

Verity le ordinò, mentalmente, di stare zitta e non importunarla. Lelahel diceva che Scar era uno degli angeli che aveva sofferto maggiormente in guerra. Non la condivideva, ma capiva in parte la decisione di non mostrarle il suo passato.

“Certo, perché tu di ricordi tristi non ne hai. Sei la custode, non dovrebbe nasconderti nulla, men che meno memorie della guerra di cui abbiamo disperatamente bisogno.”

Non aveva mai creduto che il suo titolo le desse il diritto di curiosare indiscretamente nei ricordi degli altri angeli e nemmeno che sapere della guerra fosse necessario in quel momento. Cosa le avrebbe portato? Non avrebbe cambiato la sua opinione su Lucifero né sugli arcangeli.

“Perché ti sei fatta un’opinione su di loro, sul serio? Credevo che stessi ancora cercando di capire cosa tu stia facendo qui di preciso.”

Non avevamo deciso di avere un rapporto civile, senza sarcasmo?

Aveva una piccola opinione, nulla di importante, e che sarebbe sicuramente cambiata col tempo, man mano che scopriva nuove sfaccettature degli angeli. Ma in quel momento doveva arrivare sulla Terra e cercare di dare una mano.

“Va bene, pensala come vuoi. In ogni caso io starei molto attenta con quei due Ingranaggi, avevi sentito una certa energia provenire da loro. Qualcosa di decisamente instabile.”

Come diamine?

“Devo ricordarti ancora che vedo tutti i tuoi ricordi? Qualche volta mi perdo quelli recenti, non li condividi con me, ma alla fine forzo la barriera e li guardo.”

Poteva conoscere proprio tutti i suoi ricordi quindi…

“Non quelli di Lucifero: li tieni troppo stretti a te. Oserei dire che ne sei quasi gelosa, ed è un bene. Così nessuno potrà mai vederli, nemmeno forzando le tue barriere, e smettila di sorridere perché so che lo stai facendo e non credo che apparirebbe molto nomale agli occhi di Scar. Sii felice internamente. Raffaele non capirà mai quanto tu ami quell’angelo.”

Io non lo amo!

“Certo, stavi solo per scoppiare a piangere mentre chiedevi a Mary dove fosse… Ops, troppo sarcasmo?”

Ero solo tesa, nulla di più, e sì, troppo sarcasmo.

“Certo, la stessa tensione che hai provato quando hai provato a dire a Metatron e Raziel che non ti fidi di lui…”

Erano solo indecisione e imbarazzo.

“Certo, lo stesso imbarazzo di quando sei scappata da lui la prima volta, lo stesso di quando ti sei ingelosita per la donna bellissima per cui si è ribellato. Puoi prendere in giro chiunque, davvero tutti, anche te stessa se decidi di farlo, ma non me. Io sono te.”

Verity si sentì colpita nel vivo questa volta e non pensò a nulla.

“Non mi rispondi? Hai esaurito le scuse? Finalmente, temevo non sarebbe mai giunto questo momento.”

Verity non aveva mai pensato che quell’affezione per Lucifero, non aveva senso negarla, potesse essere amore. Non ci aveva ragionato sopra, non…

“Non serve a nulla. Non puoi ragionare sui sentimenti, è inutile, oltre che doloroso. Cuore e ragione non camminano a braccetto, altrimenti Lucifero non si sarebbe mai ribellato. Non puoi analizzare ciò che è irrazionale con il razionale, è come far crescere fiori con il veleno anziché con l’acqua. Al momento giusto capirai da sola, senza aver dovuto ragionare, quali forze invisibili siano nascoste in te, e saprai anche cosa sarai disposta a sacrificare per esse.”

Cos’è questa improvvisa gentilezza?

“Qualche volta anche io sono gentile. Ma sai, è molto più divertente sgridarti, non posso farne a meno.”

Stava per ringraziarla, ma non percepì più la sua presenza; sentì le dita di Scar allentarle la benda e sfiorarle gli zigomi. Fu felice di poter rivedere la Terra, anche se era inverno e la natura era addormentata. Il cielo era limpido e brillava un sole pallido; i rami degli alberi si innalzavano nudi verso il cielo in una tacita richiesta di calore; il suolo era coperto da un sottile strato di neve ghiacciata e luccicava. Guardando attentamente riconobbe il vialetto e il giardino di una casa vicina alla sua, pensò a quanto tempo fosse passato.  

Scar la riscosse dai suoi pensieri saltando giù dalla terrazza e Verity gli chiese se non fosse il caso di nascondere le ali.

‹‹Non ne avremo bisogno. Fino a quando non libererai la magia rimarranno nascoste e sembreremo dei comuni umani, anche se in realtà staremo volando. E ora, muoviamoci.››

Verity annuì e fece segno a Scar di seguirla, invece di dirigersi verso la strada.

‹‹Se passiamo per la strada ci metteremo una vita, è meglio tagliare tra i giardini delle case in periferia. Arriveremo prima e senza farci notare.››

Scar la seguì, mantenendo il passo lesto della ragazza. Quando arrivarono alla porta sul retro del laboratorio fu costretto a darle ragione. Avevano impiegato pochissimo tempo, anche se più volte l’aveva quasi persa tra gli alberi a causa del frequente inciampare tra le radici.

Verity sfiorò la maniglia della porta e una scarica elettrica le percorse il corpo, scaricandosi nelle ali, facendola arretrare di alcuni passi. Sentiva un ronzio nella testa, diverso dal battito dell’anima, come se uno sciame di api la seguisse. Doveva ignorarlo, come le aveva detto Gabriele.

Scar aprì la porta come se non si fosse accorto della scossa e camminò lentamente all’interno. Sapeva che Raffaele non avrebbe mai messo nessuno a guardia delle scale sul retro, troppo sicuro delle proprie capacità. Salirono al piano di sopra, scoprendosi nascosti da uno dei grandi macchinari presenti nella stanza e per poco non inciamparono nei cavi che uscivano da un suo angolo. Sbirciarono con gli occhi, velocemente, ma non trovarono nulla di diverso da come avrebbe dovuto essere: non c’erano né angeli né dannati nella stanza. I ricercatori stavano lavorando e nessuno si era accorto della loro presenza, concentrati com’erano nelle loro analisi. Ogni tanto guardavano lo schema dei dati di Verity che la ragazza aveva trovato molto tempo prima, osservando poi i grafici relativi alla magia degli Ingranaggi.  E Verity lo trovò strano. Strano perché suo padre non era lì a direzionarli; strano perché erano come automi che non parlavano, non scherzavano, non si scambiavano occhiate di complicità e soddisfazione come avevano fatto quando lei era andata lì per la prima volta. Sbirciò più volte l’intera stanza, cercando qualcosa che spiegasse quel comportamento, mentre Scar si spostava in avanti, lasciandola indietro. Notò un minuscolo movimento dietro un altro macchinario, una piuma macchiata di rosso e la riconobbe subito: era una delle piume colorate di Hariel. Notò anche la comoda disposizione dei macchinari, che le avrebbe permesso di raggiungerla senza mai uscire dalla loro protezione. Hariel la riconobbe e fu abbastanza calma da farle solo segno di avvicinarsi. Le parlò con un tono di voce appena udibile.

‹‹Raffaele è in un’altra stanza, ma sono tutti così. Sono sicuramente sotto un incanto della mente, ma non sappiamo da dove arrivi.››

Verity annuì e si sostituì ad Hariel per osservare la stanza da un altro punto di vista. E colse una nuova stranezza: alcuni ricercatori si muovevano appena prima degli altri, come se non fossero controllati.  Era però una differenza quasi impercettibile, e si stupì di averla notata, pensando che fosse un’illusione creata dal suo desiderio di vedere qualcosa.

All’improvviso Victor entrò nella stanza, proprio mentre uno dei ricercatori che sembravano liberi scostava la teca in vetro che conteneva Benihime.

‹‹Fuori di qui! Non avete il diritto di stare qui e men che meno di toccare gli Ingranaggi.››

Fermato di colpo, gli occhi blu del ricercatore si colorarono di rosso e questo pronunciò alcune parole a bassa voce.

Fu l’unica a riconoscerlo, l’unica a muoversi prima di tutti gli altri.

‹‹Papà!››

Si parò di fronte a lui, chiudendo le ali ricche di magia davanti a sé come uno scudo e respinse l’onda di fuoco nero. Victor aveva inutilmente portato le braccia di fronte al viso, generando un piccolo scudo, sapendo che non sarebbe bastato. Credette di sognare sentendo qualcuno chiamarlo papà e quando riaprì le palpebre trovò i meravigliosi occhi smeraldo di Verity che lo guardavano fisso. La ragazza fece un sorriso veloce e ritornò seria, ma quel breve attimo bastò a fargli capire come quella di fronte a lui fosse davvero sua figlia, la sua dolce figlia che lo proteggeva.

Yelahiah aveva ripreso la propria forma angelica insieme agli altri dannati del gruppo: tre in quella stanza. Sentirono un’esplosione e delle urla provenire dalle stanze adiacenti, mentre Raffaele e gli altri entrarono indietreggiando e l’ombra di Lelahel si affacciò sul tetto a forma di cupola.

Yelahiah sorrideva con gli occhi e con la bocca, come se fosse stato contento di avere lì tutti loro: ‹‹Immagino non siate qui per giocare, e nemmeno per parlare, ma non abbiamo intenzione di andarcene senza il premio.››

Raffaele aveva colto un momento per voltarsi mentre il dannato parlava, rispondendo a un attacco subito dopo.

“Stai pronta. Stai pronta e qualsiasi cosa faccia Yelahiah, fermalo. Chiamami.”

La voce della Magia impartì a Verity il suo ordine e il diadema si fece visibile sulla testa, mentre le gemme cominciavano a brillare.

Yelahiah si librò in volo nel momento in cui Lelahel provò a colpirlo con due colonne d’acqua che al suo posto investirono Lecabel e Yeiayel, facendo svenire quest’ultimo, e contemporaneamente Harael intonò un canto che obbligò i ricercatori ad alzarsi e ad attaccare Hariel, ancora nascosta, e Dakota, che aveva seguito Victor nel laboratorio. Veuliah proteggeva la compagna e le bastò aprire gli occhi per lanciare una scarica elettrica che creò un cortocircuito in tutti i macchinari, costringendo Hariel ad uscire allo scoperto.

Raffaele cercò di limitare i poteri dell’angelo dell’elettricità alzando muri di terra intorno a lei che però resistevano troppo poco perché potessero sortire un effetto importante. Dakota si avvicinò a Victor, incredulo, e cercò di trascinarlo via, ma si ritrovò costretta a fronteggiare Lecabel.

Scar si stava occupando di Yeiayel, assicurandosi che non si risvegliasse nel mezzo della battaglia, ma guardò esterrefatto Verity alzarsi in volo verso Yelahiah quando nessuno si stava curando degli Ingranaggi.

In aria, tra scariche elettriche, colonne d’acqua e di fuoco, detriti di terra e massi volanti, per Verity era quasi impossibile volare senza prestare anche attenzione a quello che accadeva sotto e non si accorse subito di come Yelahiah stesse concentrando magia nera nelle sue mani.

Gli piaceva. A Yelahiah piaceva Verity. Era l’unica a non avere paura di lui e questo, ai suoi occhi, la rendeva immensamente interessante. C’era agitazione sottopelle, ma anche adrenalina e voglia di rivincita; il battito accelerato di un cuore che stava richiamando la magia senza chiamare chi la possedesse. Non aveva però né il tempo, né la voglia di giocare con quella ragazzina che recitava la sua parte di custode, per quanto superba fosse l’interpretazione.  Sbirciò in basso: Lecabel stava combattendo con quell’umana e con Hariel mentre Yeiayel era ancora a terra svenuto; Harael continuava a cantare con la sua bellissima voce, controllando i ricercatori e attaccando nello stesso momento i due banali angeli custodi che si erano aggiunti alla comitiva; Veuliah teneva occupati l’arcangelo e Lelahel con un campo elettrico impenetrabile; Scar combatteva contro i ricercatori mentre l’uomo che Verity aveva protetto prendeva gli Ingranaggi dalle teche. Doveva sbrigarsi.

‹‹Allora piccola custode, stiamo qui a fissarci o ti senti in grado di combattere? Sai, anche gli angeli possono morire… Moriresti due volte, pochi possono dire di aver vissuto un tale miracolo.››

‹‹Vattene via, Yelahiah. Non hai nessuna opportunità, richiama i tuoi e torna nell’Inferno. Non voglio sentire nessuna parola uscire dalla tua bocca.››

Yelahiah sorrise di nuovo, ghignando: ‹‹Hai per caso paura di quello che potrei dire? Non serve fingere di non volermi ascoltare, lo so che lo vuoi.››

Verity prese una lunga boccata d’aria. Certo che voleva ascoltarlo: ogni sua parola avrebbe potuto aiutarli a capire come intendesse sfruttare gli Ingranaggi e che trattamento avrebbe riservato ai Regni Angelici.

‹‹Dirò solo questo, è tutto quello di cui ho bisogno. Specchiati nella fonte di Eteria e fammi sapere di che morte morirai.››

Sorrise ancora, allargò le ali e aprì le mani.

Verity ebbe appena un battito di ciglia per decidere cosa fare e, istintivamente, allungò le mani, emanando magia pura dal cristallo bianco sulla fronte. Sentì Yelahiah ringhiare e aprì gli occhi. Aveva purificato il fuoco nero del dannato, trasformandolo in una bianca fiamma che roteò per la stanza, favorendo i compagni della ragazza nella battaglia.

Fu il fuoco bianco a tradirla, impedendole di guardare i movimenti di Yelahiah. Questo rideva tenendo gli Ingranaggi in mano, ai suoi piedi il corpo del padre di Verity si contorceva su se stesso, nel dolore che il fuoco nero provocava nelle sue carni mortali. Scomparve in una nube di fumo nera insieme ai suoi quattro seguaci, mentre Verity l’osservava impotente, incapace di muoversi.

La sua risata maligna risuonò nelle orecchie di Verity a lungo, mentre abbracciava il corpo senza vita di Victor, piangendo lacrime amare.

Avrebbe dovuto muoversi; avrebbe dovuto dire a Michele di proteggere suo padre, di farla partecipare fin da subito a quella spedizione invece di lasciare a Raffaele la scelta; avrebbe dovuto diventare molto più potente e fermare Yelahiah, farlo soffrire così tanto da obbligarlo a chiedere pietà, a implorarla di non ucciderlo. Sì, in quel momento lo avrebbe ucciso, pur sapendo che si sarebbe pentita successivamente, ma lo avrebbe condannato senza dubbi.

Dakota si era avvicinata a Victor, ma era anche indietreggiata appena aveva riconosciuto il volto di Verity nascosto dalle ali, rimanendo a distanza con il cuore spezzato, senza parole come gli angeli presenti nella stanza. Erano tutti feriti, chi più gravemente come Raffaele, che si stava ricucendo malamente con un filo magico il braccio squarciato da un fulmine, chi meno come Hariel o Scar. Nessuno osava parlare e si sentivano appena i respiri pesanti, coperti dai lamenti della ragazza. Dopo un po’ Dakota decise di avvicinarsi, inginocchiandosi al fianco della giovane, posandole delicatamente una mano sulla spalla. Qualsiasi cosa fosse appena successa, pensava Dakota, quell’angelo era Verity e aveva bisogno di lei perché, per quanto quella situazione sembrasse un sogno, l’uomo morto tra le braccia della ragazza era reale. Verity si girò a quel tocco, e le sue ali cambiarono colore per un istante, diventando rosse come il sangue, ma appena riconobbe Dakota si rilassò, lasciando che la ragazza l’abbracciasse. E nel tornare del colore abituale, le ali rilasciarono la magia di cui ancora erano impregnate, curando le ferite di chi le stava intorno senza averlo desiderato. Raffaele guardò il suo braccio di nuovo sano, poi Verity e, nonostante la rabbia per averla trovata lì quando sarebbe dovuta essere in Paradiso, pensò che non fosse stata un tragedia la sua presenza. Era stata utile, almeno un poco.

‹‹Dovremmo seguirli, possiamo ancora prenderli›› disse l’arcangelo.

Verity alzò il viso dalla spalla di Dakota, le guance rosse rigate di lacrime, e lo fulminò con lo sguardo: ‹‹Sta zitto. Tornatene nel Paradiso e sta zitto. Lasciami in pace. Mio padre è morto e...››

‹‹Quello non è più tuo padre, lo dovresti sapere.››

Nessuno si sarebbe aspettato la reazione della ragazza. Si alzò in piedi, fermandosi di fronte all’arcangelo e lo schiaffeggiò.

‹‹Ho detto che mio padre è morto e io non ho potuto salvarlo. Lui sarà sempre mio padre, anche se non sono più un’umana. Non osare parlare, non osare commentare ciò che non vuoi comprendere. Torna a fare il capitano delle truppe e vai via.››

‹‹Dovrei punirti per l’affronto che mi rivolgi.››

‹‹Fallo. Ma pensi davvero che mi farei qualche scrupolo prima di ucciderti, ora?››

Raffaele non replicò, vedendo nello sguardo spento della custode la ferma intenzione di distruggerlo nel caso l’avesse affrontata in quel momento. Preferì andarsene da solo e tornare a casa.

Dakota prese Verity a braccetto, portandola fuori da quella stanza, al piano di sotto, nell’ufficio di Victor. Dopo di che tornò al piano di sopra, dicendo che li avrebbe teletrasportati tutti in un altro luogo, dove avrebbero potuto riposare. Nessuno si oppose e li portò nell’appartamento dove abitava, certa che lì nessuno li avrebbe visti.

Una volta messa a letto Verity e assicuratasi che non si sarebbe risvegliata per parecchie ore, si sedette su una delle sedie della cucina, cercando di dare un senso a ciò che aveva appena vissuto. Da qualche parte c’era una spiegazione per tutto quello e forse ne avrebbe afferrata una parte. Mentre pensava, non si accorse degli ordini impartiti da Lelahel e che inviarono Hariel, insieme ai due angeli ancora presenti, in Paradiso e di come Scar avesse salito le scale. Si risvegliò quando Lelahel si sedette su una sedia vicina, chiedendole se volesse sapere i dettagli di quella faccenda. Lentamente le spiegò cosa fosse avvenuto sotto i suoi occhi, e quanto fosse stato importante, procedendo all’indietro e arrivando a raccontarle delle origini, descrivendo brevemente la posizione di Verity in quella confusione di intrecci. Ci vollero tutte le ore in cui la ragazza avrebbe dovuto dormire e una volta che Lelahel ebbe terminato, nonostante il caos di pensieri che le affollavano la mente, le era tutto un po’ più chiaro e sembrava anche meno spaventoso.

 

 

 

Angolo dell’autrice

 

Aggiornamenti regolari, questi sconosciuti… Mi dispiace davvero per non essere riuscita ad aggiornare prima di oggi, mi rendo conto di non essere molto affidabile. Tuttavia vi ringrazio per aver continuato a leggere, vi vedo carissimi, e spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

 

Alla prossima,

Nemamiah

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


In quello stesso momento di placida calma, Verity sedeva sul letto di Dakota e Scar era al suo fianco. L’aveva vegliata nel sonno e, quando l’aveva vista agitarsi per un incubo, l’aveva risvegliata, cominciando a parlare di tutto quello che gli passava per la mente. All’inizio Verity pensò che fosse un bene, il suo parlare ininterrotto le impediva di scoppiare a piangere nuovamente e dava sollievo alla sua mente, ma si stufò quando Scar diede inizio a una serie di lamentele sulla sua vita che non aveva né la voglia, né la forza per ascoltare.
‹‹Perché? Perché hai fermato l’attacco di Yelahiah purificandolo? Dovevi farlo, era necessario, altrimenti ora saremmo tutti morti, ma perché non hai provato ad avvisarmi? Avrei potuto fare qualcosa, avrei potuto proteggere tuo padre. Ogni volta che ti accade qualcosa, io sono impotente. Ogni singola volta io guardo gli eventi scorrere di fronte ai miei occhi senza poter intervenire. Non sono io il fratello importante, lo so. Sono sempre stato il secondo, il secondo più luminoso, il secondo più saggio. Mai considerato, mai amato abbastanza da mio padre. E mi sarebbe piaciuto fare di più, dimostrare a me stesso che non sono un fallimento come angelo.››
‹‹Scar, smettila. Cosa stai dicendo?››
‹‹E sai perché sono un fallimento?›› disse lui senza aver dato segno di averla sentita, preso dalla sua macchinazione. ‹‹Perché sono pieno di odio e risentimento e a causa loro creo problemi dal nulla. Le persone intorno a me finiscono per allontanarsi ed escludermi. Lucifero ne è un esempio, anche tu. Quando ancora vivevamo insieme in Paradiso, Lucifero ed io, non ci separavamo mai. Ero preso da un attaccamento morboso verso di lui su cui avevo basato la mia intera esistenza, credendo che se lui fosse scomparso, lo stesso avrei fatto io. Poi lui ha iniziato a passare più tempo con gli arcangeli che con me, ha guardato nella fonte. Non sopportava più che io stessi costantemente con lui, diceva di avere bisogno di spazio e che non si trovava bene in Paradiso, che doveva scendere sulla Terra. Solo ora riconosco quanto io debba essere stato fastidioso: lui aveva bisogno di aiuto e io pretendevo che si occupasse di me, senza mai considerare le sue necessità. Come lui era cresciuto solo con Sandalphon, io ero cresciuto solo con lui e non volevo condividere mio fratello con nessun’altra creatura, angelica o terrestre. Poi mi raccontò di essersi innamorato e io fuggii inorridito a quella dichiarazione. Quello divenne il nostro personale muro invalicabile. Sandalphon mi aveva detto poco dell’amore, ma ero certo che avrebbe portato Lucifero via da me e non potevo permetterlo. Ero ancora giovane, egoista e infantile. Non ci fu scala, corda o magia in grado di aprire una crepa in quel muro altissimo. Odiai Lucifero con tutto il mio cuore e anche se avemmo occasioni per riappacificarci, le ignorai tutte. Una volta terminato il Grande Consiglio, una volta che Lucifero ebbe chiesto il permesso di amare qualcun altro oltre a Dio, decisi di tagliarmi le ali, non volendo più essere associato a lui. L’ho fatto da solo, in pieno giorno. Urlavo dal dolore e pregavo che un angelo saggio mi fermasse, ma se questo si avvicinava, gli intimavo di allontanarsi e lasciarmi in pace. Desideravo entrambe le cose, che qualcuno mi fermasse e che mi lasciassero andare avanti.››
Scar guardava davanti a sé mentre parlava, come se in pochi minuti avesse rivisto quelle immagini, sentendo le sue grida di dolore rimbalzargli nella mente. Non sapeva di preciso nemmeno cosa stesse dicendo a Verity, le parole scorrevano via come acqua tra le dita e non ne rimaneva un ricordo preciso. Verity, già… Si ripromise di stare attento a non dire che lei fosse la causa di tutto. Non gli sarebbe dispiaciuto mettere Lucifero in un problema più grande di lui ma, allo stesso tempo, l’opportunità di essere nuovamente strangolato contro una parete non lo attirava. Conseguenza sicura nel caso avesse davvero detto una cosa del genere. Lucifero voleva gestire la situazione a suo modo e lui doveva accettare che si vedessero di nascosto e parlassero, fingendo di non esserne a conoscenza.
‹‹Scar, smettila. Sono esausta, non ho la forza per ascoltarti. Sono triste e arrabbiata eppure il mio corpo mi obbliga a farlo per questa stupida essenza che pensa sia giusto. Quindi smetti di dire stupidaggini che non meriti.››
‹‹Vedi, io invece le merito. Anche tu ti sei allontanata da me. Io ti ho braccata come un cane da quando sei arrivata qui perché volevo proteggerti da Lucifero e da chiunque altro in questo mondo, perché io ti ho vista nella fonte e non ne capisco il motivo. Ho fatto tutto quello perché nel mio immaginario tu non avresti dovuto mai incontrarlo. Non saresti nemmeno dovuta morire, se non ad una veneranda età e con un sacco di figli e nipoti a portare avanti la tua stirpe. Penso che saresti stata una buona madre, e invece sei condannata a non provare mai la gioia del tenere una vita tra le braccia.››
Verity lo guardò sorpresa. Non aveva mai pensato che Scar avesse una sua personale idea di quella che sarebbe dovuta essere la sua vita. Nemmeno lei ci aveva molto riflettuto, né quando sulla Terra avrebbe dovuto pensare al futuro che desiderava, né una volta giunta in Paradiso, catapultata in un mondo di magia e misteri che l’avevano rapita nel loro vortice. In quel momento però la prospettiva di avere una famiglia le risultava quasi sgradita, sentendosi completamente inadatta a una vita simile. Tornò a pensare a Scar. Forse era lui a desiderare di nuovo una famiglia. L’aver abbandonato Lucifero doveva averlo distrutto molto più di quanto le avesse mostrato, non era affatto pieno d’odio e rancore. Era triste, spesso indisponente, ma soprattutto era solo.
‹‹Io non cerco di allontanarmi da te, almeno non sempre, e non voglio mettermi in mezzo al tuo rapporto disastrato con Lucifero. Non puoi incolparti di quello che faccio o non faccio. Nessuno in Paradiso voleva che mi incontrassi con Lucifero, né che morissi, credo. Se non fosse accaduto però, ritengo che mio padre non sarebbe morto e forse adesso saremmo insieme, a leggere i dati dai computer e ad imbarazzarci l’un con l’altro.››
Si era alzata, mettendosi davanti al viso di Scar, abbassandosi alla sua altezza. Lei aveva le lacrime agli occhi, ma non riusciva a versarle, probabilmente a causa dell’influenza dell’essenza magica, e le guance rosse.
‹‹Non si può cambiare il passato, Scar, l’ho imparato sulla Terra fin da piccola. L’unica cosa che possiamo fare è provare a migliorare giorno per giorno il nostro futuro.››
Scar la fissava, anch’egli con gli occhi lucidi, chiedendosi da quali parole del suo discorso la ragazza avesse percepito nostalgia riguardo il suo passato e come potesse percepire quella strana fiducia nel futuro che non c’era mai stata. Verity era confortante, si disse. Pura, fiduciosa e abbastanza forte da soffrire in silenzio mentre lo ascoltava vaneggiare.
Era stato insensibile e rude, un vero bruto a sfogarsi con lei, lasciandosi trasportare e senza pensare alle conseguenze.
Che stupido che sono.
Abbassò il capo e si alzò in piedi. Rifletté un secondo se parlare o meno, ma Lelahel entrò nella stanza.
‹‹Verity, sei sveglia! Che bello! La tua amica Dakota ci permette di rimanere qui fino a domani. Riposa ancora amica mia, domani sarà una giornata migliore.››
Le strinse una mano e la portò fuori nel corridoio, sorridendo, lasciandola con Dakota.
Andarono nella camera da letto del padre di Dakota, la più ampia della casa, e mentre la ragazza di distese sul letto, Verity si guardò solamente intorno, un po’ a disagio.
‹‹Quell’angelo con i capelli neri mi ha raccontato molte cose. Erano strane, ma dopo quello che ho visto oggi risultavano alquanto facili da credere. Come ti senti? Accomodati, siediti anche tu.››
Dakota le sorrideva per tranquillizzarla e Verity ne fu felice.
‹‹Sei cambiata›› disse in un sussurro sedendosi.
‹‹Sono passati quattro anni da quella sera e sono accadute tante cose. Ormai gli studi sono finiti da un po’, anche se qualche volta do una mano a scuola, e lavoro all’atelier di mio padre: sono la nuova proprietaria, mentre lui si è ritirato. E comunque anche tu sei cambiata, sai?››
Dakota si era tirata un po’ su, poggiando la schiena sulla testiera rigida del letto, vedendo come Verity non riuscisse a comprendere in cosa fosse cambiata. Dakota sapeva leggerla senza problemi lei. Tutti gli altri angeli avevano ancora molto da imparare.
‹‹Sembri più determinata, e non è la magia a renderti tale. Non so cosa tu abbia visto in questi anni, ma prima non avresti mai urlato per la disperazione in faccia a qualcuno. Avresti pianto, molto e a lungo, avresti dipinto un muro e ti saresti isolata nel silenzio, trincerandoti dietro di esso ed evitando qualsiasi contatto umano. Ti conosco bene, io.››
Verity guardava Dakota parlarle in quel modo tanto familiare, come se fossero passati pochi giorni dalla loro separazione e non quattro anni. E se da un lato credeva che fosse un’allucinazione incredibilmente reale, dall’altro desiderava ardentemente confessarsi con la sua amica, raccontarle tutti i dubbi e le domande che aveva, sapendo che lei l’avrebbe capita. Decise anche che non lo avrebbe fatto. Era abbastanza forte da sopportare il suo fato da sola, tenendo la maggior parte dei pensieri solo per sé.
‹‹Forse mi conosci anche meglio di me stessa. Credo che le persone che ho incontrato mi abbiano cambiata. Sono tutti incredibili…››
‹‹Posso immaginarlo… Quella con cui ho parlato prima era di una calma inumana, quasi spaventosa oserei dire. Non vorrei incontrarla da arrabbiata!››
‹‹Lelahel… È stata una delle prime che ho incontrato. Lei è cieca, ma vede più di chiunque altro. È gentile e intelligente, è una vera amica. Se non fosse per lei sarei ancora prigioniera di Yelahiah…››
‹‹È lui, vero?››
‹‹Si. È quello che ha ammazzato mio padre e verrà punito anche per questo, un giorno.››
‹‹È crudele da pensare, ma non possono eliminarlo fisicamente una volta per tutte?››
‹‹Possono, ma non vogliono. Gli angeli sono tutti fratelli, tutti nati dallo stesso padre, e non si sentono capaci di uccidere un fratello per punizione.››
Dakota annuì poco convinta. Era certa che ci fosse qualcosa che Verity non le stava dicendo, non le aveva confermato nemmeno se gli angeli potessero morire o fossero immortali.
‹‹Lui ha detto che gli angeli possono morire. L’ha detto mentre volavamo uno di fronte all’altro. Poi mi ha suggerito di sbirciare nel mio futuro e dirgli come sarei morta.››
Verity si era alzata e svolazzava per la stanza sovrappensiero, riflettendo sulle parole di Yelahiah a cui, in altre circostanze, non avrebbe prestato attenzione. Yelahiah era però riuscito a fuggire con i suoi compagni e aveva entrambi gli Ingranaggi. La situazione non era normale, richiedeva attenzione, anche ai dettagli insignificanti. Doveva pensare al significato delle sue parole, capire se avessero potuto influenzarla sensibilmente o se fossero solo minacce vane.
‹‹Io guarderei, anche se ti ha parlato di morte, e smettila di svolazzare per la stanza. Fai aria, e fredda per di più.››
Risero insieme per un secondo e poi Verity posò dolcemente i piedi a terra. Dakota le fece spazio tra le lenzuola disfatte e l’angelo si distese su un fianco, lasciando le ali a penzoloni fuori dal letto. Dakota lo pensò e la luce si spense. Nel buio la guardiana si sentì a proprio agio.
C’è qualcosa di tranquillizzante nell’oscurità, nel sapere che nessuno a parte te stesso potrà mai sapere come ti stai muovendo o conoscere le tue reazioni. In quel momento tu solo sai chi sei, nella confusione e nella calma. Non ci sono gesti, solo increspature di luce che si percepiscono nell’aria, come un profumo che pizzica le narici ma alla fine non fa starnutire. Tutti amano l’oscurità, anche chi lo nega, perché porta la speranza della luce e, la maggior parte delle volte, è l’unica certezza di cui necessitiamo.
Dakota sapeva di poter sfruttare l’oscurità a suo vantaggio e si girò verso Verity, ritrovandosi a pochi centimetri dal suo viso.
‹‹C’è altro. Io ti conosco, so quando pensi e so anche a cosa pensi: la tua amica ha accennato a un qualcuno, ma si è guardata bene dal pronunciare il suo nome o dal darmi indizi precisi. Ma ti fa pensare, e molto.››
‹‹Si… Ma non c’è nulla che io possa fare. Si è allontanato da noi da un po’ di tempo, gli altri dicono che tornerà.››
‹‹Non è questo quello che devi confessarmi.››
‹‹Sono preoccupata e non so perché, ma l’idea di non poterlo rivedere mai più mi fa piangere e ci metto l’intera notte a calmarmi.››
Dakota mormorò un capisco con tono fraterno e preferì non intervenire ulteriormente. Aveva una vaga idea di cosa stesse provando Verity e doveva aiutarsi da sola. Lei non poteva nulla in quell’ambito. Aveva lasciato che Liam si prendesse gioco di lei come una sciocca, non poteva proprio dispensare consigli.
Verity si abbandonò ad un sospiro di sollievo quando sentì il respiro dell’amica normalizzarsi. Il suo corpo non sembrava intenzionato a lasciarle scaricare nel sonno la tensione della magia che ancora non aveva smesso di fluire. Rimase però distesa, immobile. Non aveva nulla da confessare a Dakota, non l’avrebbe caricata dei suoi dubbi, ma forse era arrivato il momento di ammettere un’altra piccola verità con se stessa, e non solo che desiderasse vederlo come aveva confidato a Mary.
Si era affezionata, lo sapeva, ma quanto profondo era il suo attaccamento? Si fidava di lui, e più cercava di trovare lati negativi in quella relazione, più ne spuntavano di positivi, rinforzati dai ricordi della bontà e della comprensione che le aveva mostrato. Se si concentrava a fondo, poteva sentire addirittura il calore del suo abbraccio e rappresentava la sicurezza, la certezza della sua presenza. Non bastava questo a decretare che ci fosse molto più di una leggera affezione? La sua Magia aveva parlato di amore… Lei, che non aveva mai amato, poteva davvero amare qualcuno che conosceva così poco? Forse era solo amicizia, lo stesso tipo di affetto sincero che condivideva con Dakota, ma questo non le sembrava sufficiente, Lui era lì con la dolcezza nello sguardo e aveva notato come si preoccupasse di ogni sua reazione, anche involontaria, come se avesse sempre paura che lei si allontanasse. Era scappata la prima volta, ma fin dal principio aveva saputo che non lo aveva realmente desiderato e che fosse sbagliato. Solo non aveva avuto il coraggio di credere in se stessa anziché in nozioni terrestri che non avevano senso in Paradiso. Le leggi che governavano quei due mondi erano diverse, e si era resa conto di come non potesse comprenderne uno se non accettava l’altro. Ma accettare il Paradiso avrebbe comportato l’accettazione di Lucifero e del suo particolare bisogno di averla per sé, e accoglierlo con sollievo l’avrebbe rimandata all’amore che aveva citato la Magia. Doveva evitarlo. Lui amava già una donna, quella bellissima donna per cui si era ribellato, ed era giusto che lei non cercasse di appropriarsi di quell’anfratto del cuore del dannato dedicato all’amata. Non era il suo. Rinchiuse il pensiero dell’amore in un angolo della mente, dietro una porta massiccia, e ne chiuse la serratura, conscia che la voce nella sua testa contraria a quell’idea non avrebbe mai gettato la chiave, conservandola sempre a portata di mano.
Trasse ancora un profondo respiro e sperò di riuscire ad addormentarsi.
 
Avrebbe dormito ancora qualche ora se Lelahel non fosse entrata trafelata nella stanza, dicendole che dovevano tornare in Paradiso al più presto, anche perché non ne vedeva il motivo.
‹‹Sento la presenza di Yelahiah nei paraggi, e voglio lasciare questa città prima di scatenare una nuova battaglia con nuovi morti… Non la svegliare, sarà più sicuro per lei, fidati di me.››
Verity annuì lievemente, ancora assonnata, e guardò Dakota sbadigliando. Adocchiò una penna e un foglio di carta sul comodino e decise di scrivere un piccolo messaggio, cosicché capisse che non l’aveva abbandonata. Uscì dalla stanza e trovò Scar ad aspettarla, appoggiato al muro. Lo seguì nella strada ancora illuminata dai lampioni galleggianti. Lelahel aveva già aperto la sua scia e li salutò con una mano. Scar ricreò la sua, ma non mise la benda sugli occhi di Verity come la prima volta. La sera prima aveva detto molto, un ricordo in più non avrebbe fatto la differenza nel suo patetico sentimentalismo e delle scuse non avrebbero sortito l’effetto di cancellare le parole dette.
Verity fu felice di entrambe le scelte. Una parte di lei comprendeva perché Scar si fosse sfogato con lei proprio quella sera ed era felice che non volesse nasconderle altre memorie dietro un pezzo di stoffa nera. Preferì comunque non guardare, non sentendosi in diritto di conoscere così intimamente Scar, e tenne lo sguardo fisso sui suoi piedi per quasi tutto il viaggio. Quasi tutto perché fu Scar a chiederle di osservare un ricordo che, pensandoci successivamente, avrebbe evitato volentieri. Scar spiegò che risaliva al periodo appena prima della guerra, dopo la votazione, quando alcuni angeli si erano schierati dalla parte di Lucifero e altri dalla parte del Paradiso. Scar era seduto su un prato e alcuni angeli lo osservavano da lontano. Era immerso in una pozza di sangue scuro che gli scivolava lungo le braccia e sul petto nudo. Piangeva e urlava.
Ci mise qualche minuto a collegare la scena cui stava assistendo e il ricordo della sera prima. Si era concentrata talmente tanto sull’espressione agonizzante e sulle urla raccapriccianti da non notare la presenza di una sola, grande ala nera sulla schiena dell’angelo.
‹‹Non avresti mai dovuto infliggerti tanto dolore… Perché?››
Glielo chiese anche se lo sapeva già e, pur non approvandolo, riusciva a comprenderlo. Tante volte lei stessa si era guardata allo specchio e aveva sorriso felice scoprendosi sempre diversa dalla sua famiglia, riconoscendo negli occhi verdi e nei capelli rossi la distinzione che cercava. Aveva avuto i suoi momenti di profonda tristezza proprio a causa di quella differenza, ma l’aveva anche rincuorata.
Poteva sentire le emozioni di Scar, comprenderle allo stesso modo. Il dolore dell’uguaglianza superato da quello fisico, l’idea della fratellanza scucita filo dopo filo fino a lasciar posto a un rassicurante senso di vuoto e di armonia con la visione di se stessi. Forse non si era mai ferita di proposito per quello. Aveva paura di quella completezza che avrebbe rappresentato il raggiungimento del suo traguardo personale, il timore che recidendo anche l’ultimo legame con i suoi familiari avrebbe perso completamente la sua identità senza guadagnarne una nuova. Quella finitezza che credeva di poter ottenere l’avrebbe resa forte ma, con il passare del tempo, anche sola.
Riteneva che Scar dovesse aver affrontato lo stesso dilemma ma che, alla fine, la prospettiva della solitudine non lo avesse spaventato così tanto.
‹‹Il ricordo non è ancora finito… C’è una parte che non conosci.››
Gli occhi verdi si aprirono più profondamente: a quale altra tortura avrebbe dovuto assistere? Scar intercettò quello sguardo e le disse che non si trattava di lui.
Verity tornò a guardare. Un paio di ali nere si erano avvicinate alla testa ciondolante di Scar e un paio di piedi nudi spuntavano nell’erba. Le ginocchia si piegarono, inzuppando i pantaloni bianchi di sangue, si sentirono dei singhiozzi e Verity seppe fin da subito a chi appartenessero.
 
‹‹Scar, cos’hai fatto? E perché poi? Ti prego, non dirmi che sei scappato appena finita l’assemblea per farti questo, ti prego…››
Scar alzò la testa, fissando suo fratello con gli occhi pieni di lacrime, annuendo, dicendo che lui non era un traditore
‹‹Scar, io non ho tradito Dio, sforzati di capire. Entrambi desideriamo la felicità, e come io voglio la tua, tu vuoi la mia. Non...››
‹‹E allora perché ti ribelli? Perché chiedi di poter amare qualcuno che non sia Dio, abbandonandomi? Così non farai mai la mia felicità.››
‹‹Io eseguo ordini da quando vivo qui e cerco di fare tutto quello che posso affinché tutti vivano bene. Ho te, ho gli arcangeli che sono diventati come una seconda famiglia, ma mi manca la sensazione che provavo quando stavo con Sandalphon, quando lo amavo, quando ero ancora libero, Scar, e felice. La mia luce si assottiglia, giorno per giorno, e ho bisogno, necessito di aiuto per non soccombere alle tenebre nel mio cuore. Tutti gli angeli hanno il loro sollazzo, che lo ammettano o meno, mentre io non l’ho mai avuto. Ora che finalmente trovo qualcuno a cui donare il mio cuore, e che potrà custodirlo e amarlo, non voglio che mi venga negato. Non dico di non amare Dio, voglio solo poter amare qualcuno così forte e pienamente e quel qualcuno non è Dio. Riesci a capire almeno una piccola parte di quello che dico?››
Il viso di Scar era diventato rosso e gli occhi, prima sofferenti, mandarono saette verso Lucifero.
‹‹Esiste un solo amore, quello verso Dio. Io capisco solo che ti importa di te stesso. Non hai interesse verso di noi, non hai rispetto verso chi ci ha creato e ci ha dato un ruolo in questo cosmo confusionario. Capisco che tu non sia un angelo, ma solo un pazzo visionario a cui non voglio più essere associato. Ho troppo rispetto per il creatore per togliermi la vita e allora mi farò bastare le ali. Passeranno i millenni e gli angeli dimenticheranno che sono stato tuo fratello.››
‹‹Scar, cosa stai dicendo! Tu… Perché non puoi sforzarti un poco e guardare oltre la tua realtà? Sono secoli che soffro, fratello, perché non lo vedi!››
‹‹E per cosa soffriresti, di preciso? Quella donna che hai visto nella fonte non ti amerà mai, e lo sai bene. Allora ti do io un motivo per soffrire: io non sono tuo fratello. Non avrò mai più nulla da spartire con te e non tornerò indietro.  Sei un pericolo per l’equilibrio, sei un estraneo e un traditore. E ora lasciami in pace, vattene.››
 
Il ricordo non proseguì oltre, dissolvendosi nell’aria e lasciando i due angeli soli nel tunnel. Insieme ad esso si dissolse anche la tranquillità di Verity ed il senso di compassione e comprensione che aveva provato fino ad allora. Non era più così sicura dei suoi sentimenti. In un angolino sentiva ancora pietà per il suo dolore, ma la maggior parte era diretta verso Lucifero, che si era visto chiudere in faccia ogni possibilità di riconciliazione dall’unica persona che avrebbe dovuto aiutarlo e supportarlo. C’erano anche delusione e risentimento verso Scar per le parole che aveva pronunciato, per non essere stato capace di guardare oltre la propria felicità. Eppure non lasciò quella mano che stringeva forte la sua, aggrappandosi a lei: non voleva lasciarlo solo. Alla fine lo sentì emettere un sospiro e la trascinò via dal quel punto dove il ricordo si stava riformando per cominciare nuovamente.
In pochi minuti si ritrovò fuori dalla scia, ancora indecisa su quali emozioni dedicare a Scar e quali a Lucifero. Ma forse non era importante decidere in quel momento, avrebbe potuto riflettere più tardi.
‹‹Ho sbagliato, non dovevo farti vedere nulla. Ora sei agitata.››
‹‹E invece hai fatto la cosa giusta, come posso aiutarti se non conosco la verità? Hai scelto il momento sbagliato. Ieri ti dissi che non volevo ascoltare, ed era vero, ma voglio ricambiare il tuo sostegno sulla Terra e questo è l’unico modo che ho.››
Gli sorrise un’ultima volta e si voltò, riconoscendo subito la radura di Eteria e chiedendosi come avrebbe dovuto agire da quel momento in avanti per onorare tutti gli impegni che aveva preso con se stessa. Soprattutto avrebbe dovuto trovare un modo per scusarsi con Raffaele per la scenata e una tattica per recuperare gli Ingranaggi dalle mani di Yelahiah. Non sapeva bene cosa stava per abbattersi sul Paradiso, ma l’istinto le suggeriva che non sarebbe stata una fortuna.
‹‹Verity, te la senti di rimanere qui sola? Io dovrei andare da Michele…››
Disse a Scar che poteva andare, lei sarebbe stata bene anche da sola. Lo guardò volare via fino a che non scomparve dalla sua vista, poi si inoltrò nei boschi per raggiungere il portale. Anche lei avrebbe parlato con gli arcangeli.


Angolo dell'autrice 
E rieccoci agli aggiornamenti saltuari e completamente a caso... Me ne dispiaccio molto, ma è stato un periodo particolarmente duro e faticoso. Detto ciò... Spero che questo capitolo vi piaccia e se avete voglia lasciatemi una recensione! 

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