À Demian di lady igraine (/viewuser.php?uid=188055)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Attesa ***
Capitolo 3: *** Sarah ***
Capitolo 4: *** Inconciliabile ***
Capitolo 5: *** Per caso ***
Capitolo 6: *** Per caso ***
Capitolo 7: *** Sogni ***
Capitolo 8: *** Disarmato ***
Capitolo 9: *** Mi dispiace ***
Capitolo 10: *** Annie ***
Capitolo 11: *** Essere grandi ***
Capitolo 12: *** Contrasti ***
Capitolo 13: *** Il giorno più brutto ***
Capitolo 14: *** Non perdonarmi ***
Capitolo 15: *** Barbi ***
Capitolo 16: *** Edoné ***
Capitolo 17: *** Nessuno è fatto per stare da solo ***
Capitolo 18: *** Tre mesi ***
Capitolo 19: *** Nicolas ***
Capitolo 20: *** Normalità, quasi ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
ANGOLO AUTRICE
Ciao a tutti!
Questa è stata la mia prima storia, l'avevo pubblicata anni fa e poi rimossa prima di portarla a conclusione. Ora, per qualche astruso motivo, anzi, forse proprio per darmi una motivazione ad essere onesta, ho deciso di provare a condividerla di nuovo. Ci sono delle ingenuità, ed è una storia che può risultare pesante o difficile da seguire (non per il livello, solo per gli argomenti non proprio leggeri), ma è nata in un momento un po' particolare e quindi ci sono molto legata. Ci terrei molto ad avere un confronto, se avete qualcosa da dirmi o se volete ammazzarmi un po' con della sana critica, non esitate. Vorrei sistemarla, ma vedere i propri difetti è difficile, confido in voi!
Spero di ritrovare nuovi e vecchi lettori, vi affido il mio cucciolo - sì, per Dami ho un amore a dir poco materno!- dategli una possiblilità e forse non ve ne pentirete.
Ps: sono pigra e tragicamente lenta. La storia è già scritta, anche solo per una rilettura e un controllo rapido potrei metterci dall'una alle due settimane. Giuro, non di più! Cercherò di pubblicare sempre il mercoledì... così, perchè mi piace il mercoledì!
À Demian
Prologo
Ciao Dami,
come stai?
Non so come cominciare, mi rendo conto che questo dovrebbe essere il ventiquattresimo foglio che mi ritrovo a fissare dall’ultima volta che ci siamo visti. Mi chiedo sempre se assomigli ancora ai miei ricordi, ma ormai so che le mie lettere sono solo un monologo con me stesso a cui tu non risponderai.
Eppure, continuare a scriverti è l’unica soluzione che ho trovato per non perdere anche te.
Ti ricordi quando da piccoli giocavamo sulla discesa sterrata, dietro casa tua, e facevamo le gare con le macchinine?
Io le truccavo e vincevo sempre e quando lo hai scoperto hai pianto come un disperato e non mi hai voluto parlare per giorni.
Ci pensavo perché sei sempre stato così, inflessibile e ostinato, poco incline al perdono.
Un vero zuccone, insomma, per essere elegante.
Ci pensavo perché oggi sono andato a casa tua e ho sentito tanta nostalgia. Quella volta per farti smettere ho dovuto regalarti la mia Ferrari gialla. Quando Sarah l’aveva fatta cadere dalla mensola graffiandone la cromatura e si era messa a piangere, allora l’avevi buttata via e mi avevi detto che non ci avresti più giocato con le macchinine.
Era la mia preferita. Ti avrei ammazzato.
Ci pensavo perché Sarah è sempre stata l’unica a cui non sei mai riuscito a portare rancore e ora la invidio.
Eri davvero un bambino strano, e nonostante fossi un marmocchio insopportabile (e lunatico, odioso, passivo-aggressivo, con un gancio destro micidiale e tendenze omicide latenti… ma non voglio lusingarti troppo) mi mancano proprio i vecchi tempi.
Mi manca correre fino al ruscello nel bosco, tagliando per la pista ciclabile, mi manca fare a turno per portare Sarah in spalla e vederti diventare fucsia per lo sforzo e il fiato che ti mancava, perché dovevi resistere per non cederla a nessuno. Mi fai ancora sorridere.
E quella volta che siamo rimasti nel campo fino a sera perché lei voleva una corona di margherite ma nessuno dei due sapeva farla? Alla fine le abbiamo regalato un mazzo di fiorellini e ci siamo guadagnati un bacio e quel sorriso da fatina.
Oggi ti sembrerò più nostalgico del solito, neanche avessi settant’anni e un piede nella fossa, e forse ti chiederai il perché. Ma anche no, però te lo dirò lo stesso: mi sono reso conto che è da quando la zia si è ammalata che non abbiamo più giocato assieme, e tu che eri il mio migliore amico ti sei allontanato lentamente, a testa china, senza che potessi fare nulla per aiutarti. Con Annie ho avuto l’impressione di riaverti indietro come eri prima.
Avrei voluto che durasse per sempre.
Sono tornato a casa tua e mi sono seduto sul divano, i teli sono pieni di polvere e tutto sa di abbandono.
Stanotte l’ho sognata.
L’ho sognata come era poco prima che se ne andasse, quando mi ha supplicato di consegnarti quella busta. Mi chiedo se hai mai letto la sua lettera, ma non so nemmeno se hai letto le mie, non so più niente di te.
Odi anche lei al punto di non riuscire più nemmeno a riguardare una sua foto?
Non posso smettere di pensare a quel periodo e a cosa avrei potuto fare di diverso, di utile. È uno dei miei incubi ricorrenti, mi sento bloccato e non so come uscirne. E mi tormento pensando a te che sei a millequattrocento chilometri di distanza e sei solo, non riesco nemmeno a immaginare come tu possa stare. Ci sono momenti in cui mi ritrovo a contare i giorni per realizzare a che punto siamo arrivati.
Mi domando se il suo viso è la tua persecuzione come lo è la mia, e cosa avrei dovuto fare per aiutarvi di più.
Mi faccio raccontare tutto da Beau, non arrabbiarti se la costringo, dovresti sentire come si inorgoglisce parlando del tuo talento. Diventa un problema farla stare zitta, ma la sento preoccupata per la tua solitudine. Prenditi più cura di lei, lo sai che ti adora ed è nevrotica e fragile. Mi dice che trascorri ancora le ore delle tue giornate al cimitero, e io divento matto se ci penso, perché sono passati due anni Dami e tu ancora non parli. Non mi hai mai risposto, nemmeno una volta, ma non mi riesce di gettare la spugna.
Ti immagino da solo insieme ai tuoi demoni e io non ti ho mai difeso abbastanza da loro, ti ho sempre guardato mentre ti distruggevi. Anche adesso sto lontano da te e non servo a niente, Beau e Trix però mi hanno fatto chiaramente capire di starti lontano, dicono che ti farei del male e sarei egoista e che devo lasciarti i tuoi tempi.
Mi devo sempre ripetere queste cose per impedirmi di prendere il primo aereo e venire lì a tirarti fuori da quel buco senza fondo che ti ostini a chiamare vita. A volte vorrei veramente sapere quanto dureranno i tuoi tempi e perché, oltre a me, hai deciso di punire tutte le persone che sono ancora qua ad aspettarti.
Sapere che mi odi, proprio tu che sei come un fratello, non mi fa dormire la notte. Quindi ricordati che nessuno ti ha lasciato indietro e che per me sei e resterai sempre quel bambino capriccioso che frignava e si attaccava alla mia maglietta quando si faceva male.
Sei sempre il mio fratellino disadattato, e puoi metterci anche una vita intera se vuoi, ma apprezzerei molto se non mi facessi aspettare tutta la mia. Giusto per recuperare un po’ di tempo insieme, no?
Io lo capisco, lo capisco davvero Dami, lo so che ci sono perdite che sono impossibili da superare, ma ci sono sempre i vivi, noi non siamo scomparsi.
Il mondo non è finito, tu non sei morto. Non dimenticarti di noi.
Con affetto,
Jules
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Capitolo 2 *** Attesa ***
À Demian
Capitolo primo
Attesa
Le note basse di
una chitarra elettrica picchiavano secche, rimbombando tra le pareti
del
corridoio vuoto. Poi, l’urlo euforico della voce distorta e
grezza esplose
distintamente mangiando ogni altro suono, e su quelle grida di sfogo
liberato
Demian si mosse appena, sprofondando di più nella sedia,
alla ricerca inconscia
di una posizione più comoda.
L’auricolare
sinistro sfuggì al suo orecchio e, con la musica
d’un tratto ovattata, sussultò
e si raddrizzò con un sobbalzo e uno sprazzo improvviso di
consapevolezza. In
un primo momento di confusione non riuscì a mettere a fuoco
dove si trovasse e
l’istinto lo portò a guardarsi intorno con
sospetto, solo per pochi istanti,
prima di riprendere il controllo e lasciarsi avvolgere da
un’inaspettata
sorpresa.
Si era
addormentato.
Semplicemente addormentato.
Non ci era mai
riuscito, non in ospedale, passava le ore d’attesa in uno
stato di torpore e
dormiveglia nel migliore dei casi, ma riposare veramente era
impensabile per
troppe ragioni, per la tensione, il nervoso.
La musica doveva
essere riuscita, chissà grazie a quale miracolo, a riempire il vuoto apatico di tutto quel bianco
e la solitudine
dell’attesa, permettendogli di trovare tregua persino su una
di quelle seggiole
da ospedale, di ferro e finta pelle anallergica con
un’inesistente imbottitura
di gommapiuma.
Eppure,
come sempre, bastava un breve frammento di silenzio per farlo ricadere
nel
disagio e in quei pensieri sui quali si riprometteva di non indugiare
troppo
a lungo, per non permettere all’angoscia di scivolare nella
costernazione.
Nemmeno la stanchezza delle ultime quarantotto ore prive di sonno
bastava a
sedare l’ansia.
Lentamente,
ancora intontito, sollevò il viso per scrutare il cielo
oltre il finestrone
dagli infissi bianchi, scrostati, che dal fondo del corridoio lasciava
penetrare
tenui raggi di luce tiepida.
Stava
albeggiando, dovevano essere quasi le sette del mattino, anche se non
poteva
esserne del tutto certo, il cellulare si era scaricato la sera prima e
naturalmente non gli era stato possibile in alcun modo tornare a casa.
Quasi
due giorni senza dormire e quasi senza mangiare, si sentiva a pezzi e
forse
avrebbe dovuto farsi una doccia, ma non voleva muoversi, se lo era
ripromesso.
Sarebbe rimasto seduto lì fino a quando lei non si fosse
svegliata, sarebbe
rimasto finché non l’avesse vista respirare
normalmente, e sorridergli magari.
Si
sistemò sulla sedia come un essere umano e non come
l’invertebrato che si
sentiva essere, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e
cercò di trattenere
l’ennesimo sbadiglio e il dolore alla spalla e al
fondoschiena. Il corpo era
intirizzito, la spalla decisamente anchilosata e il collo
irrigidito per la discutibile posizione con cui aveva trascorso la
nottata.
Tentò
di farlo scrocchiare per liberarsi di
quella fastidiosa sensazione di non potersi muovere liberamente e
imprecò
sottovoce quando lo sforzo andò a vuoto. Ai vari
indolenzimenti, contribuivano
in maniera dolorosa i crampi allo stomaco per il lungo digiuno,
così dopo aver
contemplato la parete disadorna di fronte a sé e la porta
chiusa della camera,
pensò che forse, almeno, poteva concedersi di allontanarsi
qualche istante,
giusto il tempo di recuperare qualcosa che gli desse le energie per non
crollare e finire ricoverato a sua volta.
Si tolse
le cuffiette e le arrotolò impaziente
intorno al lettore CD, poi l’infilò malamente
nella grande tasca della felpa,
insieme alle sue mani irrigidite e screpolate dal freddo, e di
malavoglia si
costrinse ad alzarsi e a ripercorre quel maledetto, familiare,
corridoio vuoto.
Era
tutto tremendamente bianco lì dentro.
Erano
bianche le pareti.
Era
bianco il pavimento.
Persino le finestre malandate e piene di spifferi erano bianche e
l’unica nota
di colore erano le piccole e scomode seggiole beige stinto che
punteggiavano il
muro.
La
fissazione degli ospedali per il bianco
Demian non l’aveva mai compresa. Ci aveva provato, ma quello
restava ai suoi
occhi il colore più estraniante e triste, sapeva di ricordo
sbiadito e si
ritrovava spesso a pensare che lo odiava, con ogni fibra del suo essere.
Era
meravigliosamente paradossale che fosse
generalmente riconosciuto come la sfumatura della purezza, come
sinonimo di
salvezza. Tutto ciò che era candido era bianco, il bianco
rilassava le persone
normali.
Ma non
lui.
Demian
se ne sentiva sconfitto, risucchiato in
un nulla annichilente ogni volta che si ritrovava a camminare in tutta
quell’assenza
di colore. Il bianco accentuava solamente il senso di rovina che
permeava
l’ospedale e sapeva di resa, come una bandiera sventolata
tristemente a
ricordare che non tutti lì dentro potevano farcela.
Quella
verità nessuno la conosceva meglio di
lui.
Se fosse
uscito avrebbe trovato suoni, rumori,
vita.
Distrazioni.
Gli
bastava oltrepassare il perimetro
dell’ospedale però, per ritrovarsi in una
dimensione sospesa e senza tempo, fatta
di inquietanti silenzi e facciate in stile dopoguerra, con le camere
rigorosamente bianche dai soffitti alti quattro o cinque metri ma non
altrettanto larghe. Gli davano un malsano senso di claustrofobia e
instillavano
in lui un desiderio istintivo di fuga.
A
quell’ora poi non c’era nemmeno un’anima
nei
dintorni, solo lui, che neanche avrebbe dovuto poter stare
lì, ma, ogni volta
che accadevano quegli imprevisti, Marisa e il Primario del reparto gli
permettevano di aspettare fuori dalla camera fino all’orario
delle visite.
Chiudevano
un occhio perché Demian in ospedale,
davanti a quella stanza, ci aveva passato più giornate che
non seduto in un
banco di scuola, e la televisione con le sue stupide serie con medici
fantocci
tanto brillanti da curare ogni malattia non lo aveva mai illuso o
ingannato.
Lui la
verità la conosceva fin troppo bene,
sapeva che era tutto troppo grande e vuoto e che quel vuoto lasciava
dentro
solo una profonda tristezza che lo annientava ogni giorno di
più.
Aprì
una porta a due battenti e scese le scale
per raggiungere il piano terra, dove sapeva di poter trovare delle
macchinette.
Sperava di resistere un altro paio d’ore almeno,
però nonostante i crampi
l’idea di una qualunque forma di sostentamento lo nauseava,
per questo aveva un
allucinante bisogno di caffè.
La
macchinetta delle bevande era vicino alla
porta d’ingresso.
Un
capannello di persone aveva assediato
l’infermiera di turno al banco informazioni e stava facendo
un discreto
schiamazzo che acuì solamente di più il suo
già grande mal di testa.
Avrebbe
voluto parlare con Marisa, giusto
l’indispensabile per farsi un’idea un po’
più chiara della situazione e magari
ricevere una qualche forma di rassicurazione, non che ci avrebbe
creduto o
avrebbe apprezzato, ma non si sentiva abbastanza coerente in quello
stato per avere
certezza di cosa desiderasse veramente sentirsi dire.
Forse,
solo parole sterili da una persona
familiare, la solita storia ripetuta con affettuosa e sconcertante
ipocrisia.
La
povera infermiera non sembrava essere in
condizione di dedicargli qualche minuto in quel momento,
perciò si rassegnò a
recuperare dalla tasca dei jeans qualche spicciolo e
selezionò il caffè forte
con abbondanza di zucchero, nella speranza che glielo rendesse
più tollerabile.
Demian
detestava quella brodaglia amara ma non
aveva troppe alternative che lo tenessero in piedi.
Resisti
ancora un poco.
Continuava
a ripeterselo, solo qualche ora e poi,
quando avesse parlato con lei, sarebbe finalmente tornato a casa e
avrebbe
dormito tutto il giorno.
La
macchinetta iniziò a ronzare mentre
compariva il messaggio “attendere” sul display.
Dondolò da un piede all’altro e
quando finalmente il segnale scomparve estrasse il bicchiere bollente
dallo
sportellino.
Subito
imprecò: non era scesa la paletta di
plastica per mischiare lo zucchero. Un classico, non era di certo la
prima
volta che gli capitava, la sua esistenza non aveva mai brillato per
fortuna, ma
quella giornata nello specifico si preannunciava uno schifo peggiore di
quello
che era solito affrontare.
Rassegnato, lo buttò giù tutto d’un
sorso.
Non sapeva nemmeno di caffè, sembrava una pallida
imitazione. Come se, avendo
richiesto più zucchero, avesse perso proporzionalmente il
diritto ad avere la
stessa dose di caffè che viene normalmente data.
Gettò il bicchiere con stizza
nel primo cestino che riuscì a trovare e sfilò
dalla tasca dei jeans neri un
pacchetto di sigarette, per levarsi quel sapore ripugnante dalla bocca.
Non lo
avrebbe mai capito, perché odiava il caffè.
Forse, perché semplicemente gli
ricordava l’ospedale, e per uno strano binomio mentale
assumeva nella sua bocca
il sapore del catrame.
«Brutta giornata?»
Era
così concentrato che non comprese subito
che quella voce dalla delicata cadenza veneta si stava rivolgendo
proprio a lui.
Con fin troppa indolenza si volse per incontrare il viso
dell’infermiera. Era
difficile guardarla, per lui, e quando si soffermava sui suoi occhi
scuri di
cioccolata fondente, opposti ai suoi, si convinceva che lo sarebbe
stato
sempre, anche in futuro.
Quando
l’aveva conosciuta Elena era solo una
tirocinante del reparto di oncologia, anni prima, che
l’università aveva
assegnato proprio a quell’ospedale per due mesi. Ma ormai era
stata assunta
proprio lì, ironicamente, e questo l’aveva resa
odiosamente e faticosamente
familiare per lui.
Anche
troppo.
Annuì
impercettibilmente, irritato per averla
incontrata già di prima mattina e seccato dalla propria
irritazione. L’unica
nota veramente positiva, era che il suo umore con lei avrebbe potuto
essere
estremamente variabile, e ad Elena non sarebbe importato comunque, il
modo in
cui le si rivolgeva non la disturbava particolarmente.
«Che
dici, me ne offri una?»
Dem inarcò un sopracciglio e la squadrò con
sufficienza «Non dovresti
nell’orario di lavoro» le fece notare. Solo
perché odiava varcare quella
soglia, dove in bella vista stava un cartello “vietato
fumare”, per sentire
l’odore di fumo addosso a ogni dipendente che poi si prendeva
cura di malati
che, per quell’odore, stavano morendo. Certo, era un
ragionamento senza senso,
come la maggior parte dei suoi pensieri quando si trattava di quel
posto.
Probabilmente,
contestare Ellie per principio
contribuiva al suo sistematico contradditorio.
Certamente,
se Jenevieve non avesse avuto il cancro,
non gliene sarebbe fregato niente dell’odore del fumo o di
qualunque altra
cosa.
Avrebbe
persino regalato ad Elena il
pacchetto.
Magari
avrebbe smesso di avercela con lei.
Ellie,
come prevedibile, sorrise di quella sua
osservazione «Ho finito il mio turno, piccolo
moralista»
Non la guardò, scrollò semplicemente le spalle e
le porse il pacchetto di
sigarette. La ragazza ne prese una e, senza consenso, lo
seguì fuori dalla
porta girevole e si appoggiò al muro accanto a lui.
Quel giorno aveva voglia solo d’ignorarla e fingere che non
esistesse.
Era
bella Elena, il tipo di bellezza che
faceva voltare gli uomini quando passava per strada, con una folta
chioma castana,
due grandi occhi scuri, la carnagione olivastra e le gambe lunghe e
snelle. Il
tipo di ragazza che, quando era in vena, attirava anche la sua, di
attenzione.
Ma, forse per il rapporto che avevano, ormai non era più
particolarmente
toccato dalla sua presenza accanto a lui.
«Come
sta tua madre?» domandò ad un certo
punto lei, soffiando fumo.
Deglutì rumorosamente «Come ieri»
mormorò, cercando di tenere solida e sicura
la voce, mentre con gli occhi inseguiva gli inesistenti fili verdi del
cortile
interno dell’ospedale, per non rincorrere il guizzo di un
presentimento che lo
tormentava.
Era un
semplice rettangolo di terra morta
delimitato da alberi di magnolia spogli. Lo osservava sempre, dalla
finestra
del piano superiore, e si domandava a cosa servissero quei cespugli di
fiori
moribondi e mal curati.
Davvero
non capiscono che questa raccolta di natura morta rende il paesaggio
perfino
più triste?
Doveva
essere colpa sua, era lui ad aspettarsi
troppo, a pretendere più del dovuto da un posto che le
persone le accoglieva a
lungo solo per abituare i parenti a non averle più intorno,
per facilitare così
la fase “Perdita della madre/figlia/cugina di
terzo grado e così via”.
«Hai
passato di nuovo qui tutta la notte?» Elena
interruppe ancora il filo assurdo delle sue elucubrazioni, e dal suo
tono
trapelò una nota di profonda pena che lo ferì e
irritò più del dovuto.
«Non
ho bisogno del tuo conforto» chiarì,
scoccandole un’occhiata eloquente. Non sopportava la
compassione che tutti gli
riservavano, lo faceva sentire un animale ferito, e lui non era un
debole.
«Ok»
borbottò l’infermiera tranquillamente,
gettando a terra il mozzicone di sigaretta e schiacciandolo poi con il
tacco
della scarpa «Allora suppongo che ci vedremo
domani» continuò abbozzando un
cenno di saluto con la mano prima di allontanarsi senza aspettare una
sua
risposta, che comunque non sarebbe arrivata.
Osservò
la sua figura longilinea finchè non fu
scomparsa dal vialetto, poi imitò il suo gesto,
gettò il mozzicone e rientrò.
Sperava che maman avesse aperto gli occhi, nel frattempo, aveva il
sonno
leggero nell’ultimo periodo ed era raro che riuscisse a farsi
una completa
dormita.
Gli tremò la mano, quando la posò sulla maniglia
della porta della camera di
Jenevieve. Strinse le dita in una contrazione che sapeva di spasmo, e
schiuse
l’uscio piano per non disturbarla in caso stesse ancora
riposando.
La sera
prima, quando finalmente aveva
abbandonato la terapia intensiva e le avevano dato una stanza, Demian
era
rimasto con lei e le aveva tenuto la mano fino a che non si era
addormentata.
Dopo no,
non ce l’aveva fatta a fingere di
sopportare di vederla in quello stato, era semplicemente fuggito, aveva
preferito aspettarla altrove.
Il
sottile rumore della bombola di ossigeno
permeava l’aria e sostituiva il respiro un po’
affannato che aveva imparato ad
associare a sua madre. La trovò seduta, per non dire
abbandonata, contro la
spalliera del letto, con il capo leggermente reclinato sulla spalla.
La
guardò dalla soglia per qualche istante,
prima di palesarsi.
Guardò
il tubo che dal basso torace drenava il
liquido dai suoi polmoni, pensò che le cannule nasali erano
una visione quasi
quotidiana, ma quel tubo, quel foro all’altezza delle costole
più basse, quello
sarebbe sempre stato un qualcosa di irrimediabilmente estraneo.
Jenevieve
inclinò il viso sciupato verso di
lui e abbozzò un sorriso tirato sui denti rovinati, ma il
suo sguardo sembrò
trapassarlo come non l’avesse visto davvero.
«Sei
ancora qui tesoro?» la
sua voce arrochita e secca lo fece
sussultare. Aveva un aspetto tragicamente deperito e sgradevole, la
stanchezza
l’abbatteva brutalmente rendendo anche il gesto
più semplice un’impresa in
grado di prosciugarla. La pelle le aderiva alle ossa, la vedeva ogni
giorno,
eppure ora riusciva ad apparirgli persino più magra,
più spolpata.
A
quell’immagine distorta di maman non
riusciva ad abituarsi, per quanto di tempo ne fosse trascorso.
Jenevieve
era stata bionda come il sole, e
come il sole erano stati i suoi occhi, dorati e caldi, e il suo sorriso
raggiante e a tratti buffamente immaturo. E Demian aveva provato un
orgoglio
smisurato per la sua bellissima maman, al suo sguardo infantile
splendida più
di qualunque altra mamma avesse mai incontrato, perché tutte
erano serie e
antiche, mentre lei era distratta e giocosa.
Era
difficile ora sopportare che quegli stessi
occhi da cerbiatta furbi e dispettosi fossero resi così
offuscati e assenti a
causa degli antidolorifici, quasi vuoti avrebbe detto, se non si fosse
ripetuto
migliaia di volte che quella donna era sempre sua madre.
Si
costrinse a inventare una forma di sorriso
e si avvicinò a lei.
«Ti
senti meglio?»
C’era un altro posto-letto in quella stanza. Fortunatamente
era vuoto quel
giorno, non doveva bisbigliare, ma il tono uscì comunque
leggero e delicato,
come si stesse avvicinando ad una bambina dal ginocchio sbucciato e
dovesse
ricorrere a tutta la tenerezza che provava per lei.
Jen
sollevò gli occhi al soffitto «Sto bene,
tu invece hai una cera pessima. Devi tornare a casa a dormire, mon
amê. Non
puoi restare tutte le volte»
Demian si trattenne dal risponderle male.
Quella
mattina non era in vena di scherzare o
di tentare per l’ennesima volta di sdrammatizzare sulla loro
condizione, ma non
voleva nemmeno ferirla. Era facile chiedergli di tornarsene a casa come
se
nulla fosse, ma come avrebbe potuto dormire sapendola lì da
sola?
Non era
la prima volta che accadeva, di certo
non sarebbe stata l’ultima. Nonostante ciò, gli
era impossibile assistere alle
crisi respiratorie di sua madre e fingere che fosse tutto nella norma.
Era
stanco di vedere l’ambulanza che d’urgenza la
portava via, era stanco di tutto.
Desiderava avere solo più tempo, ma ogni volta che Jen stava
male realizzava
che il tempo stava iniziando a scadere e sentiva solo un gelido panico
dentro
di sé.
Si perse
nell’intreccio di fili che la
collegavano alle macchine, in quel bip che scandiva i battiti del suo
cuore, in
quegli aghi che le bucavano la bella pelle, sulle mani, pompando nel
sangue le
dosi di morfina necessarie e non farla soffrire, e gli
sfuggì una smorfia.
«Maman,
io sto bene» tagliò corto.
Capì
che aveva colto l’antifona, perché
esitò
un momento prima di parlargli ancora. Gli prese la mano e se la
portò al viso,
baciandogli il dorso.
«Dami, davvero, non devi preoccuparti in questo modo per me.
Va’ a casa e
riposati. Non serve che tu trascorra la notte qui ogni volta»
Si
lasciò andare ad un sorriso più dolce e si
aggrappò alle dita magre di lei per contenere
l’amarezza.
«Guarda
che io lo faccio per l’infermiera» la
prese in giro.
Era
ancora bella, quando aggrottava le
sopracciglia in un moto disappunto e arricciava le labbra, come pronta
a fare i
capricci più che a rimproverarlo.
Era
bella ed era soffice di una dolcezza che
lo scioglieva.
«Non
è troppo grande?»
Finse di
rifletterci un attimo, poi si morse
il labbro inferiore per non tradire con un sorriso il tono serio
«Credo abbia
ventitré anni. Ho sempre preferito le donne mature»
Sua
madre si drizzò all’istante,
scandalizzata, ignorando il fatto che avrebbe dovuto muoversi il meno
possibile
«Otto anni di differenza, te lo scordi! Ti proibisco di
rivederla
categoricamente. Ci manca solo che porti il mio bambino sulla cattiva
strada!»
Demian
provava un sottile piacere, quando Jen
giocava a fare il genitore. Era ovvio che fosse solo finzione, ma
riusciva
comunque a trasmettergli l’impressione di essere meno solo, e
dopo anche lei
sembrava più felice e soddisfatta.
«Sette,
ho quasi sedici anni!» la rimbeccò,
sollevando affettuosamente l’angolo della bocca in una
smorfia ironica. Si
chinò su di lei a stamparle un delicato bacio sulla fronte,
e sorrise fra i
capelli corti cercando di ricordare come fossero prima, lisci e morbidi.
«Rifiuterò
le sue avance da oggi» le promise con
finta condiscendenza.
Se maman
avesse saputo le cose che aveva già
fatto con Elena forse ne sarebbe morta oppure, se ne avesse avuto la
forza, lo
avrebbe appiccicato al muro con un sonoro ceffone. Eppure in parte
doveva
saperlo, che sulla “cattiva strada” ci era
già finito da un pezzo, da molto
prima che la malattia di lei peggiorasse al punto da renderle
impossibile il
vivere serena a casa sua.
«Se
ti senti meglio vado a chiedere quando
potrò portarti a casa» asserì infine.
Jen
però scosse la testa.
Demian
non le aveva notate, quelle occhiaie
profonde, e neanche la piega dolente della bocca.
Non
stava per niente meglio.
Non
poteva guarire, non era un illuso e lo
sapeva fin troppo bene, ma veramente non poteva impedirsi di sperare
che il
tempo si potesse dilatare ancora un poco.
Non era
assolutamente pronto a perderla. Non
sapeva neppure come spiegarlo alla sua Sarah, che maman un giorno
semplicemente
non ci sarebbe più stata e basta. Se poi pensava a sua
sorella, pensava che forse
anche lei avrebbe potuto non esserci più, si sentiva come se
il terreno sotto i
suoi piedi si stesse sfaldando e non ci fosse più nulla di
concreto a cui
potersi aggrappare.
«Ci
penseremo più avanti» stava intanto
dicendo Jenevieve «Lo sai che per routine mi terranno qui
almeno un paio di
giorni. Seriamente, adesso va’ a dormire, tresor»
Demian
voleva andarsene da quella stanza con
tanta intensità che stavolta accolse senza riserve il
desiderio della madre. Si
chinò a baciarla di nuovo sulla guancia e, dopo aver
respirato il profumo della
malattia che le aleggiava intorno, si congedò, promettendo
di tornare presto.
Uscì dall’ospedale a passo svelto, schivando
chiunque potesse riconoscerlo. Non
era il momento opportuno quello per sentirsi fare le solite domande. Si
calcò
il cappuccio della felpa sulla berretta nera da cui spuntavano ciuffi
di
capelli bianchi, e raggiunse il parcheggio dove aveva lasciato il suo
motorino.
Rimpiangeva di avere solo quindici anni, di essere così
inutile, di non poter
fare mai nulla di concreto per poter aiutare le persone che amava.
Erano le otto del mattino quando arrivò a casa.
L’ospedale
distava poco dal centro città e
quindi dalla sua scuola, ma casa sua era molto più lontano,
in un paesino
limitrofo, e per poter rientrare gli occorreva sempre almeno
mezz’ora.
Il campanile della chiesa vicina, con il fastidioso
“Don” delle sue campane che
scandiva il tempo implacabile, gli ridiede una dimensione temporale,
quella che
perdeva quando rimaneva troppo a lungo in quel luogo bianco tagliato
fuori
dalla vita vera.
In
teoria avrebbe anche potuto andare a
scuola, era da più di una settimana che non si presentava.
Già l’anno prima si
era preso troppe libertà a dire dei professori, aveva perso
la maggior parte
dell’anno e nonostante fossero stati molto permissivi niente
l’aveva salvato da
una disastrosa bocciatura. Ed ora, nel consiglio di classe ci leggeva
solamente
un’ostilità nei suoi confronti nata
dall’esasperazione, lo sapeva benissimo che
con il suo assenteismo cronico avrebbe probabilmente perso di nuovo
l’anno.
Non che
la cosa avesse un qualche peso.
Quando
vedeva sua madre capiva che di cose
stupide come la scuola o il futuro non poteva importargli di meno.
Chiuse la
porta blindata dietro di sé, diede due giri di chiave e
rilassò le spalle.
Entrare lì dentro, solo, senza nessun tipo di ansia gli
alleggerì per pochi
attimi il mondo. Ma poi la luce lampeggiante della segreteria
telefonica gli
ricordò quasi crudelmente che aveva ancora dei legami che lo
vincolavano a
tutto ciò che si stendeva oltre la soglia di casa.
Era troppo presto perché qualcuno gli avesse lasciato un
messaggio in
mattinata. Era più probabile che fosse della sera
precedente, forse di sua zia.
Premette il bottone e la registrazione rilasciò la voce d
zia Claire. Sembrava
agitata e Demian fu percorso dal brivido tipico di quando si aspettava
solo
brutte notizie.
“Ciao Dami, i medici ti hanno detto qualcosa? Come sta Jen?
Si è svegliata? E
tu come ti senti? Se hai bisogno basta che mi chiami e vengo
subito”
Demian inarcò un sopracciglio, perplesso. Zia Claire sapeva
perfettamente come
stava sua madre, cosa potevano avergli detto o qualsiasi altra cosa.
Quasi sicuramente
aveva già chiamato in ospedale per avere le informazioni che
ora stava
chiedendo a lui.
La voce della zia s’interruppe un momento, una pausa
abbastanza lunga da
permettergli di deglutire. Poi, incerta, la registrazione riprese
“sai… Sarah
aveva una visita ieri. Mi ha chiesto perché non
c’eri”
Questa volta impietrì. Se ne era completamente scordato.
In
verità se ne scordava quasi sempre, perché
odiava quelle visite più di tutto, e toccava sempre a Claire
coprirlo, per non
far rimanere male la sua sorellina. Si ritrovò a supplicare
mentalmente che
Claire non avesse aperto bocca con la bambina e che Sarah non fosse
terribilmente arrabbiata con lui. Ma in verità
già sapeva prima ancora di
sentirlo che la zia aveva vuotato il sacco, così come era
certo che la sua
petite peste non gli avrebbe mai tenuto il broncio.
“Si è un po’ spaventata” ecco,
le aveva detto della mamma, lo sapeva.
Un’altra
lunga pausa.
Una di
quelle che odiava sentire. Prima che la
voce potesse riprendere aveva già afferrato il giubbino nero
e lo stava
indossando di nuovo. Sarah non doveva preoccuparsi, per questo le
notizie che
le venivano date erano dosate e addolcite col miele, perché
lei non doveva
assolutamente provare ansia.
“Comunque ora sta meglio, davvero. Non stare in pensiero.
Sarah voleva che te
lo dicessi, dice che tu devi sapere sempre tutto altrimenti ti
preoccupi. È
molto dolce. Ti saluta e dice di ricordarti che ti vuole
bene… ciao Dami, ci
vediamo presto”
Anche quel giorno non avrebbe visto scuola. Afferrò il
cellulare e ricordò a
scoppio ritardato che era scarico. Attraversò a grandi
falcate il corridoio per
raggiungere la sua camera da letto, spalancò la porta per
ritrovarsi il cane
bellamente addormentato fra le sue lenzuola. Il cucciolo
alzò appena la testa
quando lo vide e prese a scodinzolare gioioso.
«Maledizione Lala! Lo sai che non voglio che sali sul
letto!» inveì
scacciandola malamente. Lalami, una piccola, soffice e pestifera
bestiolina che
amava riempirgli il letto di peli, con la lingua a penzoloni,
cominciò a
saltargli addosso.
«Giù Lala! Non è proprio il momento!
Levati dalle scatole!» riuscì ad
allontanarla con una gamba mentre infilava il braccio dietro al letto
per
raggiungere il carica batteria, sempre attaccato a quella presa
nascosta.
Collegò il cellulare e in maniera quasi frenetica
cercò nella rubrica il numero
di Claire.
Il telefono iniziò a emettere il suo snervante
“Tuuu” che sapeva quasi di
accusa. Come se qualcuno, dall’altro capo della cornetta, lo
stesse
apostrofando con una sorta di disprezzo.
Claire ci stava mettendo troppo a rispondere. Poteva star facendo
qualunque
altra cosa, non era detto che fosse accaduto niente di grave, ma il
pensiero di
aver lasciato Sarah da sola quando le aveva promesso che
l’avrebbe accompagnata
lo tormentava. Per non parlare di quel “ora sta
bene” che lasciava presupporre
un qualcosa di non troppo positivo prima.
«Pronto?»
«Zia!» esclamò lui tirando un sospiro di
sollievo «Che cosa le hai detto?» il tono
aggressivo celava malamente un’accusa.
«Solo che hai accompagnato Jenevieve all’ospedale
per dei controlli» chiarì lei
pacatamente.
Sembrava un’affermazione piuttosto normale e innocua, e non
riusciva proprio ad
afferrare cosa avesse in tutto questo allarmato la sorella. Come se gli
avesse
letto nel pensiero Claire osservò
«Non è una stupida Dami. Ha capito che qualcosa
non andava. E la mia bugia le
ha fatto credere che fosse più grave del dovuto»
Maledisse Sarah, perché per avere solo nove anni era
decisamente troppo
sveglia, oltre che terribilmente sfortunata.
«Ok, arrivo» si ritrovò a dire prima
ancora di averlo pensato
«Non è necessario, davvero. È stato
solo un attacco di panico, oggi stava così
bene che ha anche deciso di andare a scuola»
Si sentì sbiancare di collera per quanto la sua carnagione
pallida glielo
concedesse.
«E tu glielo hai permesso? Lo sai quanto è
instabile dopo un attacco, non
avresti dovuto permetterglielo!»
Staccò il cellulare. La conversazione non sarebbe durata
ancora a lungo, e per
quella manciata di secondi la batteria avrebbe retto prima di spegnersi
di
nuovo.
«Vado a prenderla. Chiama la scuola e avvisa che
uscirà prima»
Guardò l’ora: più che prima, sarebbe
praticamente uscita subito dopo l’inizio
delle lezioni.
«Avanti Dami, non esagerare. Non è il
caso»
«Ho detto che sto andando, quindi è meglio che
chiami o la porterò via di lì
senza il tuo consenso»
Riattaccò bruscamente senza aspettare risposta.
ANGOLO AUTRICE
Buongiorno!
Prima di
tutto, scusate, ho già trasgredito.
Avevo detto mercoledì e invece finisco con il postare di
sabato… ho tre motivi!
Uno
valido, l’altro discretamente valido, il
terzo diciamo forza maggiore!
Il
mercoledì mattina sono stata chiamata per
lavorare con poco preavviso e non pensavo che mi sarei liberata solo
sul
pomeriggio molto tardo (questo è il motivo valido), e poi ho
fatto male i miei
calcoli.
Perché
ok, ora partono le ammissioni
imbarazzanti.
Non ho
scelto il mercoledì a caso, l’ho scelto
perché la sera esce sempre una puntata di Yuuri! On ice e
beh, non mi sono
bruciata il cervello per questo anime giuro, sono tranquillissima,
smanio solo
come una pazza tutta la settimana e in giornata non riesco a pensare ad
altro,
tutto qui!
Quindi,
visto che l’attesa del mercoledì non
mi passa mai, mentre quando devo pubblicare per l’ansia mi
sembra sempre che il
tempo voli, ho deciso di sovrapporre le due cose…
Sì.
L’ho
fatto solo per l’anime, il mio senso
delle priorità fa schifo, ma davvero io ci muoio, la
curiosità mi ammorba!
E quindi
alla fine ho capito che pubblicare
mercoledì sarà impossibile, perché
penso solo a Yuri! E Yurio pure, è adorabile
Yurio…!
Terzo
motivo, il giorno dopo sono partita per
la Francia e solo ora ho recuperato un wifi, quando ho saltato la
pubblicazione
non avevo pensato che poi non avrei avuto tempo fino a oggi, vi chiedo
profondamente scusa.
Lato
positivo: non so quanti di voi vecchi
lettori ricordino questo dettaglio, ma in questo momento sono
esattamente a
Kerlaz, e proprio oggi ero esattamente su una scogliera non casuale, e
ho
mangiato un kouign amann ai piedi di un pozzo altrettanto non casule!
È
stato un po’ come ritrovare un luogo
familiare e ho provato un moto probabilmente immotivato di
nostaglia… ma forse
sono solo strana!
La
prossima volta non tarderò, giuro che farò
la brava.
Ah,
Fabula Nera grazie di essere tornata, non
sai quanto sia confortante ritrovare il tuo nome
|
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Capitolo 3 *** Sarah ***
Buon
Natale!
Lo so, un altro ritardo, ma
credo ormai l’abbiate capito… le scadenze uccidono
il mio spirito!
Comunque è una buona
occasione per fare gli auguri a tutti e in particolare a Fabula Nera,
Usagi e
Claddaghring8: grazie di tutto, per come mi avete riaccolto dopo un
lungo
periodo di assenza e per le vostre fantastiche parole
d’incoraggiamento. Siete
fantastiche!
Il ritardo è dovuto ad una
mia testardaggine, la solita: il francese!
Come ricorderete, forse, a
volte alcuni dialoghi sono in lingua.
Se ricordate altrettanto
bene, io non so il francese.
Un bel paradosso, me ne
rendo conto!
Perché insisto nonostante un
tale intoppo? Oltre ad una notevole dose di autolesionismo, soprattutto
perché
il rapporto tra Demian e Sarah perderebbe un qualcosa che solo andando
avanti
comprenderete, e quindi mi costringo a forza a colmare una lacuna
incolmabile.
Ho fatto del mio meglio (e
rispolverato tre anni di medie infernali con professori di francese dal
fortissimo accento siciliano che non mi hanno facilitato il compito),
siate
tolleranti e… beh, se sapete il francese e scorgete qualche
indecente obbrobrio
della vergogna, magari ditemelo.
Sarebbe un gesto davvero
apprezzato!
Per non ammorbarvi, l’ultima
postilla la lascio a fine capitolo, giuste per spiegare un paio di cose
se
aveste domande!
À Demian
Capitolo secondo
Sarah
Sarah era fragile.
Demian era cresciuto
ripetendoselo ancora e ancora, per non scordarlo mai.
Per imprimersela a fuoco
addosso, quella sensazione d’impotenza e paura, per
respirarla sempre, in ogni
momento, e non poterla mettere da parte mai.
Era la prima cosa che gli
era stata detta, quando la sua bellissima sorellina era nata. Non il
colore
degli occhi, il peso, quanto aveva pianto o se era come lui.
Niente di tutto questo, solo
che era fragile.
E allora l’aveva cercata,
con il naso spiaccicato al vetro ed il corpo sollevato sulle punte per
poter
vedere più lontano, aveva frugato con lo sguardo ogni
lettino, sforzandosi di
riconoscere fra quelle file di neonati uno simile all’altro,
la sua Sarah.
C’era Jules accanto a lui,
gli aveva messo un braccio attorno alle spalle e lo aveva attirato a
sé, e
Demian riusciva solo a ricordare di aver stretto la sua maglietta forte
e che
era stato il cugino a spiegargli quella verità troppo grande
e incomprensibile
che gli adulti gli avevano raccontato solo a metà.
Sarah soffriva di problemi
cardiaci.
Come a un fiore nato
prematuro quando ancora il gelo imperversa intorno a lui, le era stata
tolta la
possibilità di difendersi da sola, e Demian aveva capito, lo
aveva compreso
subito, un’ineluttabile verità che aveva falciato
con un solo colpo spietato e
preciso la sua età più tenera e pura: avrebbe
dovuto proteggerla, sarebbe
dovuto diventare forte, la campana di vetro che l’avrebbe
difesa dalle brutture
della vita, per poterla tenere al sicuro.
O l’avrebbe persa.
Perderla era l’unica cosa
che non sarebbe mai riuscito a sopportare.
Essere tanto forte però, non
si era rivelato facile, Demian aveva scoperto di non essere
all’altezza di quel
compito che si era assegnato da solo, illudendosi forse di poter dare
più di
quanto fosse in grado.
Poteva essere il timore
degli ultimi giorni a renderlo immotivatamente più ansioso e
isterico di quanto
la situazione non richiedesse, ma non poteva impedirsi di vedere in
ogni
svincolo e ogni deviazione da un percorso ben organizzato e preciso un
pericolo
per lei, e la loro situazione familiare era sempre una svolta
imprevista, un
filo teso che minacciava di spezzarsi e di spezzarla.
Solamente grazie a questa
consapevolezza aveva ammesso un anno prima, seppur con ritrosia, che la
sua
bestiolina sarebbe stata meglio lontano da loro, da lui e Jen, e
avrebbe avuto
una vita più tranquilla sotto la tutela di Claire.
E odiava vivere senza di lei
e saperla distante, ma all’idea che anche Sarah potesse
vedere la lenta
progressione della malattia di maman si sentiva peggio, allora il suo
conforto
era saperla ancora innocente e si aggrappava a
quell’innocenza pura, incontaminata,
per sopprimere la nostalgia e la solitudine.
C’erano dei momenti in cui,
senza un motivo apparente, lo sconforto gli pesava come un macigno e
gli
sembrava di essere slegato dal proprio corpo, in quei momenti si
pentiva,
capiva che, forse, aveva sbagliato tutto, avrebbe dovuto permettere che
fosse
zia Claire a farsi carico di Jenevieve, di lui e di Sarah, avrebbe
dovuto
affidare quel compito così delicato a qualcuno che ne fosse
all’altezza. Poi
però, la lucidità tornava e tornava una delle sue
poche certezze: era lui la
famiglia di maman, e quella malattia era un peso che solo lui doveva
prendere
su di sé.
Per quanto impensabile,
Jenevieve lo aveva assecondato.
Demian ne ignorava realmente
il motivo e non aveva mai avuto il coraggio di chiederlo, semplicemente
era
giunto alla conclusione che Jen dovesse aver pensato che, seguendo i
suoi
desideri, forse lo avrebbe aiutato ad accettare meglio la situazione.
La verità era che nulla
poteva renderla meno amara, ma questo poteva comprenderlo unicamente
Sarah.
La sua Sarah.
Giunse nel parcheggio di
fronte alla scuola elementare che erano quasi le nove, e già
gli sembrava di
averci messo un’infinità di tempo, e che in quel
lasso di tempo sarebbe potuto
accaderle di tutto.
Avrebbe persino potuto
provare una forma di ansia per il suo ritardo, bastava solo questa
consapevolezza
a farlo sentire un inetto e un incapace.
Sollevò gli occhi stanchi,
arrossati, sull’edificio giallo stinto, bucato da immensi
finestroni e
racchiuso da una ringhiera verde pallido che lasciava intravvedere un
grande
cortile maltenuto, ed anche se il luogo era completamente diverso
provò una
fitta allo stomaco, una sensazione di impiccio che poteva tradurre
più
onestamente con “ricordo”.
Poteva trattarsi di pura e
banale reminiscenza ma Dem era più portato a credere che,
probabilmente, tutte
le elementari si assomigliassero in qualche modo, ed era facile per lui
rivedere in un cortile spoglio una fetta consistente della sua infanzia.
Suonò al citofono e la voce
rude di una bidella su di età lo invitò a
introdursi nella scuola con un sordo
e fastidioso rumore che aprì il cancellino. Demian
salì correndo i gradini in
pietra calcarea che conducevano all’ingresso e solo di fronte
alla porta a
vetri rallentò per prendere un’andatura
più tranquilla e sicura.
Il salone, dalle pareti di
un giallo un po’ più acceso, era vivace e decorato
da disegni di bambini che
giocavano e si rincorrevano, da farfalle variopinte e dalle impronte
delle mani
degli alunni. Era un ambiente diverso dalle elementari che aveva
frequentato
lui, sembrava più accogliente e vivibile, sereno. Demian di
quei suoi anni
conservava un ricordo amaro, la scuola era sempre stato un luogo
difficile per
qualcuno come lui, risentire addosso l’umiliazione era
spontaneo, ma perlomeno
riconosceva un merito al periodo più ingrato della sua vita:
gli aveva
insegnato a farsi le ossa.
La scrivania della bidella,
a ridosso della parete opposta all’entrata, era presieduta da
una bassa donnina
dai ricci scapestrati biondo tinti, con un doppio mento prominente che
veniva
malamente nascosto dal dolcevita a collo alto.
«Buon giorno. Sono Demian
Lemaire, sono venuto a prendere Sarah Lemaire»
La bidella alzò
svogliatamente gli occhi dalla sua rivista, lo squadrò e,
senza perdere l’aria
annoiata, annuì piano «Sì, hanno
chiamato mezz’ora fa» confermò,
sollevandosi
con estrema riluttanza.
Indossava delle scarpe con
il tacco basso, il ticchettio snervante rimbombò nel salone
facendola apparire
come un piccolo gnomo dal grugno perennemente scontento. La
seguì fino a quando
non la vide fermarsi davanti ad una porta decorata con delle coccinelle
sotto
la scritta “5 B” e bussare con impazienza, come
avesse fretta di ritornare alle
proprie mansioni.
Anche quel piccolo momento
di attesa prima del “avanti!” della maestra
riusciva ad apparirgli come un
lasso di tempo sufficientemente lungo da dilatare la sua ansia. Di
ansia, per
Sarah, ne provava con una facilità disarmante, per qualunque
cosa, un respiro
più pesante, una smorfia incompresa, e diventava totalmente
incapace di
gestirsi. Era questo il motivo per cui, a conti fatti, nonostante tutto
il
tenero amore che provava per lei, la evitava come la peste.
Perché la salute di sua
sorella era la sua più grande paura, non sempre riusciva ad
armarsi per
affrontarla.
La bidella si sporse
dall’uscio discretamente e Dem, subito, infilò con
poco garbo la testa sopra
quella della donna, per poter vedere la classe. Il suo quasi metro e
ottanta
unito alla bassa statura della bidella non gli rese il compito
particolarmente
complicato, così gli riuscì di studiare
rapidamente le tre file di scolari
curiosi che lo fissavano confusi di rimando.
La chioma screziata di
biondo di sua sorella gli permise di metterla a fuoco rendendo
indistinto
qualunque volto la circondasse, e Sarah, dall’angolo della
seconda fila,
intercettò i suoi occhi e gli sorrise raggiante.
La bidella provvide subito
ad allontanarlo bruscamente.
«Il signore è venuto a
prendere Sarah Lemaire» sibilò gelandolo con
un’occhiataccia ben poco
convincente.
L’insegnante, dapprima
perplessa, gli sorrise affabile, e Demian per riflesso
considerò tra sé che
fosse la maestra di matematica. Aveva quel sorriso dal retrogusto
sadico che
sapeva di perfido, quando riconsegnava una verifica.
«Certamente. Sarah, hai
preparato tutto?»
La sua sorellina scattò
immediatamente dal posto come non stesse aspettando altro, si
caricò in spalla
lo zaino e afferrò il giubbino, un soldatino perfettamente
addestrato.
«Ci vediamo domani» le
sorrise la maestra, e Sarah ricambiò con entusiasmo,
sembrava un’incarnazione
della gioia e della spensieratezza così palese da risultare
sciocca. Demian non
riusciva a comprenderla, non del tutto, quasi diventava difficile
sostenere il
suo sguardo pulito e dolce, gli pareva che la sua anima potesse
illuminare
tutto e lo accecava.
Davanti alle fossette e alla
spruzzata di lentiggini sulla pelle chiara, si sentì
improvvisamente più
tranquillo e tutta l’inquietudine provata
nell’ultima settimana si dissolse
come non avesse mai avuto ragione di essere.
Sarah era una creatura
fatata nata sulle sponde di Ys, che si barcamenava tra il mondo dei
mortali e
il regno dei faerie e camminava come sollevata da terra, in una
leggerezza che
apparteneva a lei soltanto.
«Arrivederci» la bimba si
volse verso la classe sventolando la mano e ricevette un
“Ciao” corale in
risposta, poi tornò a posare le sue iridi di caramello su di
lui e Demian provò
la necessità di abbracciarla.
Mentre la bidella richiudeva
la porta, si accorse quasi distrattamente che i bambini
all’interno dell’aula
lo stavano studiando bisbigliando e ridacchiando.
Ok, la scuola sembrerà anche diversa,
ma certe cose non
cambiano mai.
La purezza infantile sarebbe
sempre stata meschina e crudele e l’avrebbe portato ogni
volta a sentirsi un
bambino di sette anni ferito.
«Fratellone!»
esclamò la
sorella, saltandogli tra le braccia tradimento «Pourquoi tu
es ici?»
Gli occhioni brillavano di
traboccante felicità e quella sua gioia lo travolse come
un’onda in piena,
facendolo ridere. La sollevò da terra e girò su
se stesso, lasciando che la
risata calda di Sarah riempisse qualunque silenzio e sradicasse ogni
tormento.
«Tu n'es pas heureuse de me
voir?»
Non sei felice di vedermi?
Sarah si aggrappò
tenacemente al suo collo e nascose il volto sulla sua spalla,
sentì le labbra
aperte in sorriso sincero sulla clavicola mentre le risa si
stemperavano
dolcemente e lei annuiva.
Fu l’indisposto colpo di
tosse della bidella a ricordargli che si trovavano ancora a scuola e
stavano
facendo troppo baccano.
A malincuore, lasciò che i
piedi di Sarah ritoccassero terra, ma si concesse almeno la gioia di
stringere
la sua piccola manina candida prima di congedarsi dalla donna e
avviarsi
all’uscita.
«Donne-moi le sac à
dos»
Dammi lo zaino.
La aiutò a sfilarselo dalle
spalle e si accorse con un’insensata punta di fastidio che
era pesante e
avrebbe voluto che lei non dovesse fare sforzi, seppur non troppo
eccessivi.
Non poteva ignorare che anche la più piccola fatica
l’appesantiva e rendeva il
suo respiro labile affannoso, anche quando le sue preoccupazioni
sfioravano il
ridicolo non riusciva ad accantonarle, perché il mondo
complottava
costantemente alle spalle della sua fragile bestiolina.
«Tu me ramènes à
la maison?»
Mi
porti a casa?
Lo guardava dal basso, con le sopracciglia
leggermente aggrottate e gli occhi dal taglio obliquo che, alla luce
pallida di
una giornata autunnale riflettevano mille sfaccettature
d’ambra sciolta. A
volte, gli sembrava di rivedere le espressioni di sua madre quando era
bambino,
ma macchiate di una consapevolezza diversa, più genuina e
viva.
Si morse l’interno della guancia e
cercò di
non mostrarle che quella domanda in qualche modo lo aveva ferito,
perché con
lei viveva di sensi di colpa e che Sarah desse per scontato che non
sarebbero
rimasti insieme se non il tempo necessario era solo
l’ennesima dimostrazione
concreta che sua sorella non si aspettava niente da lui. Non aveva
fatto nulla
per alleviare la loro separazione, la lasciava troppo tempo da sola.
Era per
lei la presenza più assenza, si mostrava solo per sparire.
Le sorrise dolcemente, senza guardarla in
volto, per non permetterle di leggergli dentro e farle capire che stare
con lei
era la sua cura, ma anche il suo personale inferno.
«En
vérité je pensais que nous aurions pu
rester esemble jusqu'au déjeuner»
In
verità pensavo che saremmo potuti stare insieme fino a
pranzo.
«Vraiment?»
Aveva l’aria sconvolta di qualcuno a cui
avessero appena confermato la vera esistenza dell’isola di
Ys, e allora Dami
sfoggiò il suo miglior sguardo da cucciolo ferito.
«Bien sûre, mais si tu
n’as pas envie ce
n’est pas un problème»
Certo,
ma se non hai voglia non fa niente.
Borbottò affranto.
Il viso di Sarah si aprì in uno dei
suoi più
raggianti sorrisi e le guance s’imporporarono di rosso per
l’entusiasmo.
L’ascoltò ridere, assorbì ogni
più piccolo gesto di quella bambolina e delle
sue manine da fata e pensò che non sarebbe mai riuscito a
comprenderla, non
davvero.
Era un mistero che non gli era dato di
svelare, ché la sua petite peste era un estremo ed insieme
il suo opposto: era
serena, candida, e allo stesso tempo cosciente di ciò che le
accadeva e che
accadeva alle persone che amava. I suoi aspetti più salienti
erano
inconciliabili, eppure questo non minava il suo essere, Sarah era piena
di
vita, era radiosa, sempre.
«Mais
tu ne
vas jamais à l'école?»
Ma tu non vai mai a scuola?
Si grattò la testa coperta
dal berretto nero, in un moto d’imbarazzo per la risposta che
quella domanda
innocente portava con sé, perché la
verità era tutto meno che innocente e non
desiderava mettersi in cattiva luce agli occhi della sua pestifera
sorellina.
Scrollò le spalle con noncuranza,
come bastasse un gesto a scacciare pensieri sgradevoli, e la frangia
bianca gli
ricadde sugli occhi.
«Porquoi
je devrais, si
tu études puor tous deux?»
Perchè dovrei, quando tu studi per
tutti e due?
La canzonò, facendo leva
sullo spropositato amor proprio della bimba, che come prevedibile si
gonfiò
d’orgoglio come un gufo impettito: riusciva ad apparire
persino più piccola e
tenera.
«J'ai
pris distinct!»
Ho preso distinto!
Cinguettò soddisfatta,
strappandogli l’ennesimo, irrimediabile sorriso storto.
E mentre Sarah lievitava nel
suo ego appagato, pensò che voleva solo avere una scusa per
strapazzarla come
fosse un peluche. A tradimento la sollevò e se la
caricò in spalla e Sarah fece
solo in tempo ad urlare senza possibilità di divincolarsi.
All’urletto stridulo
fece eco l’ennesima risata liberatoria.
«Seulement? Tu
devrais t’engager bien plus, si autrement tu ne me
égales plus! Je prenais seul
“excellents”»
Solamente?
Dovrai impegnarti di più o non mi batterai mai! Io prendevo
solo “ottimi”!
la punzecchiò, e infilò le
dita gelide sotto il suo
maglioncino per farle il solletico ai fianchi. Sarah per il solletico
ci
moriva, si dimenava come un’anguilla, tentava sempre, in ogni
modo, di
sgusciare alla sua presa e, soprattutto, rideva fino alle lacrime con
tanto
trasporto da splendere, per tutta quella gioia, e allora nemmeno lui
poteva
esimersi e si lasciava contagiare da quell’allegria che
sgorgava come fonte di
vita da una sorgente incontaminata.
«Menteur!»
Ridacchiò
«Je le sais, que à
l’école
tu n’était pas bravo!»
A
scuola andavi malissimo, lo so!
Prese fiato come non respirasse da una vita,
annaspò, rise e si mangiò le parole, non le
riusciva di scandire i suoni e più
faticava, più si lasciava trasportare dalle risa.
«Je te pries, laisse-moi! Je ne respire
pas!»
biascicò a stento.
Ti
prego, lasciami! Non respiro!
A sentirla tanto in difficoltà, con
quelle
gambettine magre che si agitavano e le mani affrancate alla sua felpa
disperatamente, gli veniva voglia di tormentarla ulteriormente. Quando
alle
risa spontanee subentrarono violenti colpi di tosse, Demian
però s’irrigidì e
venne colto da un panico inatteso.
La rimise subito a terra e
s’inginocchiò
davanti a lei, esclamando il suo nome con urgenza.
«Sarah! Sarah, tu te sens
bien?»
Le strinse il braccino sottile e le
scostò i
lunghi capelli che le coprivano il bel viso, nascosto dalle mani a
coppa.
Avrebbe voluto picchiarsi, lo sapeva benissimo che doveva far
sì che rimanesse
tranquilla, ma poi quando lei rideva e si lasciava andare tanto
spontaneamente
si scordava di tutto.
Sarah smise di tossire, scostò le mani
e
sfoderò un ghigno furbetto di chi la sa lunga.
«Eh eh, Je le savais que en ce moyen tu te serais arrêté!»
Eh eh, lo sapevo che così la smettevi!
Asserì soddisfatta, e a
Demian mancò il respiro per lo sbigottimento.
Si ritrovò a fissarla per un
lungo istante senza parole, sbatté le palpebre ancora e
ancora, sforzandosi di
focalizzare la situazione.
«Tu as feint?»
Hai fatto finta?
Mormorò allibito.
L’infarto era venuto a lui.
Come
può scherzare su una cosa smile?
Non
si rende conto di quanto mi tormenti costantemente?
Il sorriso le morì lentamente sulle
labbra,
gli angoli della bocca si piegarono verso il basso e Dami
realizzò, con
svilimento, di averla ferita, di nuovo.
«J’étais
en train de blaguer»
Stavo
scherzando
Sussurrò ad occhi bassi,
giustificandosi come
fosse in torto, e Demian sapeva che non lo era, che era stato lui,
ingiustamente, a metterla a disagio.
«Tu
es ainsi toujours trop
sérieux, je me sens bien, frère. Tu le sais que je ne te dirais jamais un
bougeoir»
Sei
sempre così serio… io sto bene, fratellone. Lo
sai che non ti direi mai una
bugia.
Le guance spruzzate di leggere lentiggini erano
arrossate dalla
colpa, e Demian ne provò una profonda vergogna e si
sentì anche peggio di uno
schifo. L’unica cosa che odiava più dello stato di
salute di sua sorella, era
solamente la propria capacità di ricordarle costantemente la
sua diversità e
fargliela pesare con la sua angoscia.
Non
importava quanto s’impegnasse o si
ammonisse, al minimo segnale diventava soffocante e non le permetteva
di vivere
la sua età come avrebbe dovuto, persino nelle piccole cose.
Sarah aveva quel
dono, il dono di fargli desiderare di essere altrove e, al contempo, di
fargli
desiderare di non allontanarsi mai da lei.
E adesso, di fronte a quegli
occhi d’oro, sarebbe scappato subito, ma come poteva scappare
dalla sua
bellissima bestiolina, se poi avrebbe avuto un disperato bisogno di
lei?
Di sapere che stesse bene?
Si morse ancora le labbra e
poi, sospirando la sua esasperazione, abbozzò un sorriso
compassato, nel vano
tentativo di rimediare.
«Alors,
qu’est-ce que tu
veux faire?»
Allora,
cosa vuoi fare?
Domandò,
in un miserabile sforzo di cancellare con un
colpo di spugna la sua inadeguatezza.
Sarah lo comprese perché
esitò, ma poi gli sorrise con quell’aria
dispettosa e furbetta ai suoi occhi
adorabile.
«Je veuz aller au parc!»
Voglio andare al parco!
Demian sbuffò e sollevò gli
occhi al cielo, ma in realtà era solo grato, infinitamente
grato, che sua
sorella fosse come era, che possedesse quella dolcezza e quella
comprensione
che non avrebbero dovuto appartenere ad una creatura tanto piccola e
indifesa,
così sguarnita davanti alla vita.
La guardava e tutto l’amore
che provava per lei lo travolgeva con tanta prepotenza da togliergli le
parole
per dirlo, per questo non ci riusciva, per questo forse era inabile a
mostrarle
l’affetto che provava e non riusciva a farle comprendere che
lei era il suo
nord in un’esistenza senza bussola.
«Et parc soit»
E
parco sia.
La aiutò a mettersi a cavalcioni sulle
sue
spalle e prima di avviarsi verso i giardini pubblici le prese una mano
e le
depose un leggero bacio sul polso.
«Et
je veux une crème glacee aussi!»
E
voglio anche un gelato!
Aggiunse Sarah, appoggiando il mento sulla
sua testa per poi dargli un pizzicotto.
In cambio ricevette solo sbuffi disperati.
«Tu es une
gâtée»
Sei
una viziata.
Quando raggiunsero i giardini pubblici,
davanti a loro si aprì una distesa verde punteggiata da
alberi sfioriti tinti
delle tonalità dell’autunno. I rami screziati di
rosso e di oro rendevano
vivace il sentiero della pista ciclabile e ombreggiavano gli scivoli e
le
altalene, le foglie secche ricoprivano il terreno di un caldo manto
marrone-dorato.
Sarah gli sfilò la berretta di lana e
la
indossò lei stessa, poi gli passò le mani fra i
capelli.
Lo faceva sempre anche da piccola, li faceva
scorrere fra le dita come fossero fili di seta, e Demian
all’aperto non si
scopriva mai il capo, per il disagio, a meno che non fosse sua sorella
a desiderarlo.
Per questo non le disse nulla e la
lasciò
giocare distrattamente, ma Sarah afferrò una ciocca e la
tirò con fastidio.
«To
dois mettre moins gel! Les cheveux
sont tous secs et je ne les aime pas»
Metti
meno gel! I capelli sono tutti secchi, non mi piacciono»
Si lamentò, e Demian sbuffò
divertito «Mais
je les aime», le fece notare con una punta di rimprovero che
in realtà era solo
troppa tenerezza.
Forse sarebbe diventato come suo nonno, a
volte lo pensava, burbero in maniera esasperante.
«Mais sans tes cheveux sont doux comme
la
soie!» insistè la bambina.
Ma
senza I tuoi capelli sono morbidi come seta!
Aveva sempre trovato insolito che Sarah non
gli avesse mai fatto domande a quel proposito, aveva sempre preso atto
delle
stranezze che lo riguardavano e che non concernevano nessun altro dei
suoi
conoscenti senza battere ciglio. Probabilmente, per lei le sue
prerogative
estetiche non erano nemmeno diversità, erano solo una
manifestazione di lui, perché
Sarah ragionava senza pregiudizi.
Era raro, per un bambino, e Demian lo aveva
già imparato da piccolo, tutti lo avevano sempre guardato di
traverso ed era
stato più facile, per i suoi compagni d’infanzia,
emarginarlo piuttosto che non
farsi domande.
Rimase in silenzio e la
aiutò a rimettere i piedi per terra.
Subito, Sarah indicò il
fortino di legno munito di scivolo e altalena.
«Je veux aller sur la
balançoire!»
Voglio
andare sull’altalena!
Esclamò, e prima che potesse anche solo
pensare di fargli delle raccomandazioni, si era già voltata
e stava correndo.
«Ehi,
arrête-toi! Tu le sais que tu ne dois pas courir!»
Fermati! Lo sai che non devi correre!
La rimproverò andandole dietro e in
risposta
ricevette un’impertinente linguaccia.
«Oui, oui, je le sais
“maman”!» lo prese in
giro.
Sì,
sì, lo so “mamma”.
«Ok j'ai compris»
borbottò
rassegnato «Mais
tu ne te déplaces pas. Je te pousse»
Ok, ho capito. Ma non muoverti. Ti spingo io.
Sarah si accomodò
placidamente sull’asse di legno e lo guardò colma
di aspettativa.
Era incredibilmente leggera,
così eterea che Demian talvolta ci aveva creduto davvero,
che fosse una silfide
di cristallo. La spingeva e nel mentre la studiava, osservava le gambe
magre
tese al cielo, i lunghi capelli castani screziati di miele che si
sollevavano
in un sinuoso strascico.
Era la bambina più bella che
avesse mai visto, e non perché fosse sua sorella.
Semplicemente, aveva una
dolcezza nei tratti, nello sguardo fermo, sicuro,
un’inesauribile vena
infantile nel sorriso e un atteggiamento da grande troppo in fretta che
la
rendevano adorabile.
«Fratellone?»
«Oui?»
Sarah volse il capo e lo
guardò da sopra la spalla, aggrappandosi saldamene alle
catene per non
sbilanciarsi.
«Comment
va maman?»
Come sta la mamma?
Lo chiese a voce sottile appena
sussurrata, con una cautela innaturale che stonava con la sua
esuberanza e
Demian si meravigliò ancora di quanto bene lo conoscesse,
tanto a fondo da
sapere perfettamente che bastava citare maman per ferirlo.
Sussultò e mancò di
spingerla, allora Sarah puntò i piedi nella terra e
fermò l’altalena.
Dami non lo sapeva, se
provava più pena per se stesso o per lei, che era stata
costretta a conoscere
il tatto quando invece avrebbe dovuto potersi esprimere liberamente e
chiedere
di sua madre senza dover temere le conseguenze.
«Maintenant
elle va mieux»
Ora sta meglio.
Non riuscì a infondere in
quelle parole la forza che avrebbe voluto, suonavano deboli anche e a
se
stesso, come la voce insicura e tremante ed infatti non gli
riuscì di
rassicurarla. Sarah s’incupì, chinò la
testolina bionda lasciando che i capelli
nascondessero alla sua vista ogni sua espressione, e si
mordicchiò il labbro.
Poi, fece per rialzare il
viso, ma esitò, e Demian comprese che desiderava tanto
dirgli qualcosa e
tuttavia non ne trovava il coraggio, i bei lineamenti puerili erano
mangiati da
un’attanagliante incertezza.
«Tu aussi ne me dis pas les
mensonges, c’est vrai?»
Anche tu non mi dici le bugie, vero?
Mormorò infine.
Seppe da quello sguardo
colmo di parole non dette che non era solo quel dubbio a tormentarla.
S’inginocchiò davanti a lei
e le prese le mani piccole fra le sue. Per uno sciocco momento, si
perse nel
contrasto di colori della loro pelle, perché le mani di
Sarah erano delicate e
rosee mentre le sue avevano la stessa, gelida consistenza del marmo, ed
era
assurdo, inspiegabile.
Era il cuore della sua
bestiolina a tradirla, il suo stesso cuore il nemico che doveva
combattere ogni
giorno, un nemico contro cui Demian era assolutamente impotente, eppure
anche
solo il colore di quella pelle morbida, di quelle guance spruzzate di
leggere
lentiggini, gridava vita.
«No, petite peste, je ne te
dis pas les mensonges»
No piccola peste, non ti dico le bugie.
Non riuscì a sostenere
quella menzogna guardandola negli occhi, era consapevole di starla
tradendo,
proprio lei che era la purezza incarnata ed era l’unica
persona della quale
Demian bramasse la fiducia come fosse una panacea contro ogni male.
Sarah allora gli sorrise facendo
mostra di un dentino mancante.
«Et quand je peux la voir?»
E quando posso vederla?
Demian abbassò le palpebre
in un sospirò profondo, cercando di riorganizzare i propri
pensieri, di trovare
qualcosa di sensato da dirle che non le causasse troppo dolore. La
richiesta di
sua sorella era lecita, non vedeva maman da mesi e la colpa era solo
sua, aveva
espressamente detto a Claire di non permetterle di incontrare Jen per non
condannare anche Sarah alla sua medesima sofferenza.
La stava tenendo lontano da
sua madre negli ultimi istanti della sua vita, facendole soffrire
entrambe di
nostalgia e mancanza, non aveva di certo bisogno di un indovino per
capire che,
un giorno, sua sorella non l’avrebbe perdonato.
Solo, non gli importava.
Doveva proteggerla dal
dolore di vedere maman in quella condizione penosa, se fosse stata al
sicuro
avrebbe potuto accettare anche di perderla in futuro.
«Je
ne sais pas. Maintenant
elle est toujours à l’hôpital»
Non saprei. Adesso è ancora in ospedale.
«Je peux venir avec toi. Je sais
que tu vas toujours à la voir, la tatie me l’a
dit!»
Posso venire con te. Lo so che vai sempre a
trovarla, me l’ha
detto la zia!
Scoraggiato si ripromise di
fare un bel discorsetto a zia Claire sulla sua bocca troppo grande, le
accarezzò la linea dolce del viso, quando però
parlò lo fece con fin troppa durezza
«Ce
n'est pas le moment appropriéè»
Non è il momento.
Tagliò corto e si pentì
all’istante, vedendo gli occhi di sua sorella farsi
tragicamente lucidi.
«Mais»
S’interruppe, incerto.
Vederla triste lo
tormentava, mentirle non gli permetteva di essere clemente con se
stesso, ma non
era minimamente intenzionato a cedere su quel punto con Claire.
Non aveva un’alternativa che
gli lasciasse la coscienza già martoriata in pace.
«Je
te promets que, au plus vite, je t'emmènerai la
voir» aggiunse infine.
Ti prometto che il, prima possibile, ti
porterò da lei.
Sarah sporse il labbro
inferiore in un broncio deluso amabile, ma annuì e Demian
l’abbracciò stretta,
le accarezzò e i capelli e le depositò un bacio
leggero sulla fronte,
sussurrandole piano come avesse fra le mani un uccellino spaurito
«Ne t’agite pas, reste
calme»
sta tranquilla, non agitarti.
La sua bestiolina si scostò
e gli sorrise più serenamente, scuotendo pianto la testa.
«Je
ne m'agite pas, ou à la fine tu te agites plus que
moi»
Non mi agito, o alla fine tu diventi
più nervoso di me.
Quella fossetta ingenua
all’angolo della bocca gli sciolse il cuore, le
rimboccò i capelli dietro le
orecchie, le sfiorò la guancia rossa e fredda. Era
così soffice da smuovergli
un’infinita dolcezza quando i suoi occhi di sole si
mostravano tanto forti e
determinati, ma Demian non era mai certo di quanto Sarah avesse
compreso, né di
quanto restasse ferita a causa sua. Quel suo sorrisino impenitente
lasciava
intuire un “so tutto, non c’è bisogno
che mi spieghi nulla”, che lo gettava in
un’incertezza costante.
«Dis-moi ce que tu veux
faire. Nous
ferons tout ce que
tu veux, sauf courir»
Dimmi che cosa vuoi fare. Faremo tutto quello che
vuoi,
tranne correre»
Le disse infine, rassegnato
a non poterla mai afferrare del tutto.
«Je veux ma
glacée!»
rispose, ridendo spensierata come se non avessero mai toccato
l’argomento
“maman” e tutto ciò che comportava.
Demian decise di rispettare la scelta della
sua bestiolina, si alzò stirando le braccia e la
guardò ghignando.
«Et?»
«Tutto tutto?»
inclinò la
testa come a rafforzare il proprio dubbio, come se stesse tastando un
qualche
limite. La sua dolcezza riusciva davvero a farlo sorridere anche quando
avrebbe
desiderato solo gettarsi sotto un treno.
Per questo Sarah doveva essere
necessariamente una fata, perché lo elevava, lo sollevava
come una carezza
lasciandolo sospeso e poi lo rigettava all’inferno con la sua
sola tristezza.
«tout ce que»
Qualunque cosa.
Un libro.
Sarah gli aveva chiesto di
aiutarla a leggere un libro.
Non se ne era sorpreso, sua
sorella amava leggere e ancora di più adorava che qualcuno
leggesse per lei,
era una bambina dagli svaghi troppo limitati che, fortunatamente, aveva
trovato
nella lettura la sua ancora di salvezza. Come aveva fatto anche lui.
Quello doveva essere uno dei
rari meriti di maman, che era stata una madre negligente e terribile,
ma in un
mare di errori eclatanti era stata all’altezza di trasmettere
loro almeno il
suo amore per l’arte ed il bello.
Pensava questo, mentre la
sua petite peste apriva lo zainetto e ne estraeva la sua copia consunta
di “Ar Priñs
Bihan”, Le Petite Prince.
Demian lo
prese dalle sue mani con solennità e lo contemplò
con calma nostalgica, ché
quel libro era l’unico cimelio di famiglia: la mamie lo aveva
regalato a maman
quando era bambina, Jen lo aveva ceduto a lui nell’infanzia
e, quando si era
ammalata, Dami lo aveva dato a Sarah.
Lo aveva fatto perché aveva
capito, nel momento in cui il cancro si era fatto più forte,
che non sarebbero
più tornati in Francia, non per molto tempo almeno, e non
voleva che la sua
bestiolina si potesse allontanare dalle loro origini.
L’edizione era però in
dialetto bretone e Sarah non lo capiva, la mamie lo parlava
inframmezzandolo
con il francese, quando si rivolgeva a loro, e se già Demian
lo comprendeva a
stento, per sua sorella risultava una lingua estranea che si sforzava
d’imparare.
Si erano seduti tra le
radici di un albero, Sarah si era sdraiata comodamente, usando le sue
gambe
come cuscino, e facendo sfarfallare le lunghe ciglia dei suoi
già adorabili
occhioni, lo aveva convinto a recitarlo per lei.
Non era stato impegnativo,
Demian quasi lo sapeva a memoria, ma aveva provato comunque
dell’imbarazzo.
«A! Priñs Bihan, komprenet
‘m eus, tamm-ha-tamm, da vuhezig velkonius.
E-pad
pell ne ‘z poa bet
evel didu nemet c’hwekted ar c’huzh-heol»
“Oh,
piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita
malinconica.
Per
molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei
tramonti.”
«Velkonius?» si era accigliata
Sarah, aggrappandosi alla sua manica e scuotendola, le sopracciglia
aggrottate.
«Mélancolique»
chiarì,
scompigliandole i capelli e trattenendo una risata al borbottio
scocciato della
bimba
«Elles ne se ressemblent pas»
e poi aveva aggiunto «Et
c’hwekted?»
Non si assomigliano.
Si era morso il labbro e
sorridendo aveva scrollato le spalle «Douceur»
Aveva ripreso:
«Desket ‘m eus ar munud
nevez-se d’ar pevare deiz, d’ar beure, pa
‘c’h eus lavaret din:
-Me
‘blij din ar
c’huzh-heol. Eomp da welout ur
c’huzh-heol…
-Met
ret eo gortoz…
-Gortoz
petra?
-Ez afe an heol da guzh.
Da gentañ e ‘c’h
eus
diskouezet bezañ souezhet-meurbet, ha goude e
‘c’h eus graet goap ac’hanout. Ha
lavaret ‘c’h eus din:
-Krediñ a ran emaon atav
du-mañ!»
Ho
appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando
mi hai
detto:
"Mi
piacciono tanto i tramonti. Andiamo avedere un tramonto..."
"Ma
bisogna aspettare..."
"Aspettare
che?"
"Che
il sole tramonti..."
Da
prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e
poi
hai riso dite stesso e mi hai detto:
"Mi
credo sempre a casa mia!..."
Sarah si era lamentata con
uno sbuffo
«Je
n'ai pas compris bien»
Non ho capito bene.
«Qu'est-ce
que tu n'as pas compris?»
Che cosa non hai capito?
Glielo aveva chiesto sapendo
che in realtà Sarah non aveva compreso quasi nulla, ed
infatti lei gonfiò le
guance e lasciò andare una pernacchia.
«Krediñ a ran emaon atav
du-mañ» aveva soffiato, e Demian si era concesso
quella risata divertita che
premeva per essere liberata.
«”Je me crois toujours chez
moi”» parafrasò, chinandosi a baciarle
ancora la testolina. Sarah aveva preso
la mano fra le sue, aveva giocato con le sue dita e aveva liberato un
sorriso
furbo.
«En
vérité j'ai compris,
mais je l'aime. C’est mon passage
préféré!»
In verità ho capito, ma lo amo.
È il mio passaggio preferito!
Il cellulare nella tasca allora
aveva vibrato e Demian si era interrotto.
Le aveva sorriso, le aveva
promesso che avrebbero continuato insieme un’altra volta e,
dopo averle preso
il tanto agognato gelato, così grande che neanche volendo
sarebbe riuscita a
finirlo, l’aveva riaccompagnata a casa dalla zia, in moto.
Non le aveva dato
possibilità di protestare.
Non era nemmeno entrato a
salutare, si era tenuto a distanza, guardando il cancello di casa da
lontano,
si era fatto dare un bacio frettoloso sulla guancia da una Sarah
chiaramente delusa
che non avesse trascorso la giornata con lei come le aveva promesso, e
se ne
era andato.
L’aveva fatto a testa china,
l’aveva fatto perché quando vivevano un momento
sereno e perfetto si sentiva
soffocare e provava l’impulso ancestrale di fuggire. Che
Sarah fosse la cosa
più importante della sua vita non era sufficiente, starle
accanto era una
sofferenza che, almeno a se stesso, non poteva negare, ironicamente
soprattutto
quando le cose andavano bene.
Perché non andavano mai
davvero bene e lui non riusciva ad ingannarsi, crogiolarsi in
un’illusione era
una sofferenza maggiore.
Quel messaggio improvviso
era stato la scappatoia che gli serviva per assecondare la propria
vigliaccheria e non aveva potuto fare a meno di coglierla al volo.
Quando Niko
chiamava e decideva di riunire il gruppo, tutti dovevano accorrere, era
la
regola, e questa regola spesso gli consentiva di evitare quelle
giornate in
famiglia alla Mulino Bianco che non aveva e non meritava.
Non riusciva più nemmeno a
mettere piede in casa di sua zia, si sentiva alienato, un oggetto fuori
posto
in quadro perfettamente ordinato.
Lui e suo cugino erano
diversi, lo erano sempre stati, fin da bambini.
Stava per perdere sua madre,
aveva perso suo padre tempo prima, quando li aveva abbandonati, e Sarah
era
fragile.
Non aveva ricevuto nulla di
perfetto, non poteva integrarsi in una famiglia affiatata e completa
come
quella di Jules, poteva solo ammirarla prendendo le distanze, poteva
solo
cercare d’immaginare come avrebbe potuto essere, se le cose
fossero andate
diversamente.
Si guardò allo specchio
ancora e ancora, ricambiando con disprezzo quel riflesso diafano che lo
tormentava.
Sei
una possibilità andata male.
Sei
un caso su trentacinque mila, un refuso di stampa.
Se lo ripeteva ogni volta, come se potesse
così indursi a cambiare, eppure l’immagine davanti
ai suoi occhi non mutava.
Su trentacinquemila, su quindicimila, dati
diversi a seconda della manifestazione della patologia, per lui erano
solo
numeri per descrivere un maledetto gene recessivo tramandato dalla
famiglia di
sua madre e manifestato in lui per beffa del destino.
Malattia
congenita.
Suonava tutto molto tecnico, quando erano i
medici a parlargliene, ma a Demian quelle cifre davano solo la nausea.
Si arrese davanti a se stesso, infilò
la
testa nel lavandino e fece scorrere l’acqua per risciacquarsi
i capelli, come
la sua petite peste gli aveva suggerito di fare poche ore prima. Poi
prese una
salvietta e li tamponò piano, asciugandosi il volto pallido.
Albinismo.
Tutto sommato non gli era andata male: anche
se la sua vista era abbastanza rovinata, non lo era così
tanto da impedirgli
una vita quasi normale con le lenti o gli occhiali, e il suo strabismo
era
sufficientemente leggero da passare inosservato tranne ad un occhio
attento.
Non tutti quelli come lui erano altrettanto
fortunati, sapeva di non potersi seriamente lamentare, a molti non era
possibile continuare a studiare a causa della vista, altri avevano la
pelle tanto
rovinata da sembrare piagata. Lui stava bene ed era molto bello, almeno
questo
se lo concedeva. Naturalmente era pallido come un fantasma e la luce
del sole
lo irritava da morire in ogni modo possibile, ragione per cui aveva un
rapporto
conflittuale con il sole e non era mai stato al mare, tranne sulle
fredde coste
dell’Atlantico vicino a casa della mamie, in Francia, dove
aveva trascorso ogni
giorno estivo della sua infanzia fino ai suoi dodici anni.
Gli occhi azzurro sporco, quasi grigio misto
ad una delicata sfumatura rosata, lo fissavano di rimando dallo
specchio mentre
cercava d’indossare le lenti a contatto colorate che
servivano a proteggerli
dall’eccessiva luce e a non mostrare quella strana sfumatura
sanguigna.
In passato aveva avuto altri problemi, era
stato fisicamente debole e vittima di bullismo da parte di quei bambini
che
consideravano la sua una diversità patologica. Aveva
imparato a sue spese la
crudeltà e il giudizio spietato delle persone che
lo avevano sempre circondato, che lo guardavano come fosse un poveretto
da
compatire, un caso umano con cui era impossibile interagire in maniera
normale.
Molto avevano avuto vergogna
anche solo a guardarlo negli occhi, un imbarazzo immotivato che lo
aveva ferito
e che ancora lo disturbava.
E allora si era ripromesso
che non avrebbe più concesso a nessuno di sopraffarlo, di
farlo sentire un
difetto, uno scherzo naturale.
L’unica distanza tra lui ed
il resto del mondo era banale mancanza di melanina che lo privava anche
del
fascino che altrimenti i suoi lineamenti gli avrebbero conferito. Era
stato più
difficile per lui, rispetto ad una persona normale, rendere il proprio
fisico
altrettanto forte, ma si era impegnato a fondo per limare ogni
possibile
differenza.
Si passò la salvietta umida
sul collo e sui muscoli delle braccia e dell’addome, ben
delineanti, prima di
indossare una maglietta nera che sbatteva incredibilmente in contrasto
con la
sua pelle.
Poi prese il tirapugni
appoggiato sul mobile, lo indossò sulla mano sinistra e lo
strinse, recuperò un
coltellino a serramanico e se lo mise in tasca.
***
La luce bassa del tramonto
tratteggiava in lontananza le sagome oscure dei suoi compagni, raccolti
contro
una staccionata logorata del parchetto vicino alla stazione dei treni.
Quelle erano le ore della
giornata in cui i ragazzi normali iniziavano a evitare quella zona,
quel
quartiere. Non era ben visto dalla gente per bene, con le case dimesse,
i muri
ricoperti di murales ai quali lui stesso aveva contribuito, con tutte
le risse
e i locali malandati e la droga.
Non era il luogo ideale per
passeggiare amabilmente a braccetto con le persone care.
Per questo ci andava.
Lì non si sentiva fuori
posto, ma esattamente dove doveva essere, confuso in una massa di
diseredati
non diversi da lui. Non erano propriamente amici, erano suoi simili,
condannati
quanto lo era lui stesso a tutto ciò che non avevano la
forza di sopportare.
Nicolas gli si fece incontro
e si salutarono stringendosi la mano e battendosi il pugno, in un gesto
che
aveva il sapore dell’abitudine.
Per qualche distorto motivo
quella routine aveva il raro dono di calmarlo, quando si trovava in
loro
compagnia poteva far cadere ogni maschera di compostezza e tolleranza e
annegare in ogni malessere vivendolo fino in fondo senza remore.
«Ehi Dem, hai sentito del
nuovo gruppo?» gli domandò Dave con un sorriso
colmo di allegria artificiosa,
mentre si avvicinava per porgergli la canna che si stava fumando e che
ormai
era quasi del tutto consumata. Gliela sfilò dalle dita e
fece un lungo e lento
tiro.
«No» soffiò insieme
al fumo «Chi
sarebbero?»
«Novellini» intervenne Niko
«Ragazzini
che hanno deciso d’interferire con il nostro giro»
snudò un ghigno perfido che
sottintendeva in maniera limpida come pensava di sistemare le cose.
Demian dubitava seriamente
che fossero davvero un problema, riteneva più probabile che
Nicolas avesse
semplicemente voglia di sfogare il proprio sadismo.
«Una lezione basterà per
ricordare a tutti che questo è il nostro
territorio» chiarì Alex, scrollando le
spalle con indifferenza, come stesse parlando di semplice, banale e
noiosa
burocrazia.
Teo, seduto sulla
staccionata con le braccia a penzoloni e una sigaretta in bocca, rise
di gusto
alla sola idea, Andrea invece abbozzò un sorriso distante,
non stava
ascoltando, forse pensava alla birra che si sarebbe scolato di
lì a poco.
«Età?» era stato un
sospetto nato
dell’espressione meschina di Teo a indurlo a farsi scrupoli,
sebbene fosse
ironico: lui per primo era il più piccolo del suo gruppo e
vi era entrato
nell’Estate dei suoi tredici anni, difficilmente avrebbe
trovato qualcuno più
giovane di come lui lo era stato.
Difficilmente però, qualcuno abituato
all’ambiente si sarebbe arrischiato a occupare un territorio
già gestito da
altri spacciatori, soprattutto se a gestirlo era Niko, un nome
piuttosto noto nel giro e nipote di un ancor più noto
spacciatore.
Le regole de gioco erano in realtà
piuttosto
elementari.
«Mocciosi che si divertono a fare i
grandi»
sputò Teo con la stessa, insofferente espressione con cui
avrebbe potuto
rigurgitare bile.
Demian piegò la bocca in una smorfia
amara.
A volte non capivano o non ricordavano, lo
definivano ridendo il piccolo del gruppo eppure sembrava che non si
rendessero
veramente conto di quanti anni lui stesso avesse. Se qualcuno giocava a
fare il
grande, Demian sapeva di essere il primo, e quei ragazzi con lui.
«Quindici, sedici. Non di
più» specificò Alex
con un sorriso maligno complice verso Nicolas «Con questi ci
divertiamo»
Dem gettò a terra il mozzicone della
canna
ormai finita e sollevò l’angolo della bocca in
un’espressione sarcastica.
«Non mancherò»
Niko sfoderò quella piega della bocca
che
osava definire in qualche modo sorriso
«Lo sapevo che eri dei nostri»
ANGOLO
AUTRICE
Nei miei sopralluoghi a
Finisterre, nei paesini che nel mio immaginario hanno riempito
l’infanzia del
mio cucciolo, mi sono accorta di una notevole mancanza della mia
vecchia
versione.
Questa mancanza è il
dialetto bretone, infatti hanno il bilinguismo (ovviamente il Piccolo
Principe
in bretone non potevo non regalarmelo e l’ho comprato al
volo!).
Per questo la scelta di
mettere il brano estratto dal libro della madre in bretone: Demian non
lo
parla, è vero, ma ho pensato che per loro sia un
po’ come per noi, quando i
nonni ci parlano in dialetto e noi lo capiamo soltanto senza essere in
grado di
masticarlo.
Almeno, parlo per me!
Non ho mai imparato una sola
parola di sardo nonostante gli sforzi di nonna, e il bergamasco mi
è estraneo
pur con tutto l’impegno di nonno =)
L’isola di Ys, che cita
Demian, è una leggenda locale propria del paesino della
nonna di Demian, nata
proprio nella baia di Douarnenez. Una specie di mito di Atlantide, per
intenderci.
Dovrebbe caratterizzare
meglio le sue origini… spero!
Detto questo, aggiornerò
prima di Capodanno, anche perché ho già corretto
il prossimo capitolo.
Ora mi ritiro, che la mia
famiglia minaccia di defenestrare il computer…
Buone feste e buon Natale!!!
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Capitolo 4 *** Inconciliabile ***
À Demian
Capitolo terzo
Inconciliabile
Nel buio della sera le luci al neon dell’insegna
dell’Edonè
andavano a intermittenza lanciando riverberi azzurri, tristi e tetri,
sugli
alberi spogli del viale.
Era
estraniante guardare il locale dall’esterno, ascoltare la
musica rimbombare tra quelle mura familiari e arrivare al suo orecchio
in
maniera indefinita. Si era seduto sul muretto del parco della stazione,
da
quella posizione aveva la perfetta visuale del parcheggio quasi deserto
non fosse
stato per un gruppo di motorini ammassati in un angolo e qualche
macchina non
messa troppo bene.
Forse
stavano suonando i Sex Pistols, non ne era certo ma le urla
stonate di “Anarchy in the U.K” erano difficili da
confondere, non bisognava
saper cantare, bastava urlarla con tutto il fiato e mangiare le parole
con il
nervoso e la rabbia. Insieme, grida chiassose d’incitamento,
risate sguaiate di
chi con l’alcool ci è andato giù
piuttosto pesante.
Non
bastava la strada che li divideva a rendere quel baccano meno
assordante, ma importava poco visto che il locale sorgeva sul viale
dietro la
stazione, in una zona particolarmente malfamata e frequentata solamente
da
quella parte di gioventù nostalgica ancora legata ad un
passato vecchio di
almeno un ventennio, di punk, di skinhead, di gabber.
Rilasciò
una piccola nuvola di condensa e si strinse nelle spalle,
per combattere il freddo di quella serata iniziata male. Le mani
pendevano nel
vuoto, tremavano, ma non era sicuro di non riuscire a tenerle ferme
solo per i
brividi. Si sentiva teso come una corda di violino e continuava a
tendere le
dita e a contrarle attorno al tirapugni, ancora e ancora, come per
instillarsi
una calma che proprio non riusciva a racimolare. I suoi amici ridevano
tra di
loro, chiacchierando del più e del meno con una
semplicità ai suoi occhi disarmante,
mentre Demian riusciva solo a restare raccolto nel proprio mutismo.
L’ilarità
con cui scherzavano lo turbava e scombussolava più di tutto,
iniziava a nascere
in lui la speranza che quella situazione si sarebbe risolta con un
nulla di
fatto, una spedizione punitiva a vuoto, ché lui non aveva
voglia di punire
nessuno, voleva solo tornarsene a casa e che la vita gli facesse meno
schifo.
Eppure
non finiva mai come desiderava, Dem stesso aveva iniziato
ad ignorare le proprie aspettative e a seppellirle, perché
lo sapeva fin troppo
bene che tutto sarebbe sempre andato storto e, volente o nolente,
avrebbe
dovuto ingoiare i sensi di colpa ed il disagio e tutto quello che si
portavano
dietro.
Si
convinceva ogni volta che sarebbe stata l’ultima, che avrebbe
lasciato perdere Niko e tutto lo schifo che circondava quella vita, che
non li
avrebbe più seguiti perché lui non era questo,
non poteva essere solo questo,
doveva esserci di più, doveva avere un luogo vero a cui fare
ritorno, non era
possibile che da qualche parte non ci fosse un cazzo di posto anche per
lui. Alla
fine però, la verità era soverchiante
più di qualunque sciocchezza di cui
tentasse di convincersi, il terrore di non avere qualcuno, di non avere
nulla a
cui aggrapparsi, era più forte di tutto.
Lo
rendeva vile, cieco e succube.
E
lo faceva vergognare di se stesso, della propria pateticità.
Demian
non sapeva sopportarsi, e questa era l’unica certezza nella
sua vita, non sopportava di accostarsi alle persone normali.
Guardò
distrattamente Nicolas ed i suoi ricci tagliati corti,
quell’aria crudele e il
suo sorriso strano, che sembrava una piaga, una linea tagliata netta
sul volto
duro; guardò Davide ed il suo non rendersi mai conto di
niente, una vena
d’innocenza che forse era solo troppo uso di acidi, gli
infiniti piercing e quei
modi goffi di muoversi, la cresta biondo platino e la testa rasata ai
lati. E
poi c’era Andrea, che non ascoltava davvero e nascondeva
parte del viso dietro
ai capelli lunghi e annodati, e Teo che voleva solo litigare ed emanava
la
familiare aura di sprezzo e collera repressa; Alex che fungeva da
cuscinetto
tra il più grande e incattivito del gruppo e il
più sciocco e inconsapevole.
Ironicamente
proprio loro, Niko in prima linea, lo avevano
accolto, raccolto quasi con il cucchiaino sulla strada dopo che era
stato
picchiato a sangue per l’ennesima volta tanto da non riuscire
più a rialzarsi.
«Sei forte piccoletto!» esclama
uno sconosciuto accostandosi a lui.
Demian sente solo la bocca piena di sangue, a malapena riesce
ad alzare gli
occhi sul nuovo venuto. Non si aspetta aiuto, si prepara solo ad
incassare
altri colpi, ma si ritrova un ragazzo più grande
accovacciato davanti a lui, a
fissarlo con un sorriso sghembo inquietante.
«Te la sei cercata» gli fa notare il
ragazzo, ma sembra più una presa
in giro che un rimprovero.
È vero, se l’è cercata, se si
può definire cercare rogne il mandare a cagare
un perfetto stronzo che non ha fatto altro che sfotterlo
definendolo
scherzo della natura.
Non
aveva potuto tacere, anche se loro erano
in tre e lui un fottuto albino del cazzo troppo debole per potersi
difendere in
qualunque modo.
Se
non voleva aiutarlo né pestarlo più
di quanto fosse possibile vista la situazione perché
diavolo restava lì a
umiliarlo con la sua sola presenza?
«Che
cazzo vuoi?» cerca di dirlo con
freddezza, la voce però è spezzata e le parole
biascicate.
«Mi piace il tuo carattere ragazzino,
veramente. Io sono Nicolas, ma
chiamami Niko, è decisamente meno da figlio di
papà!»
Questo
si è fumato il cervello, è certo.
Riesco a malapena a parlare, per non dire respirare, e lui mi elucubra
sul suo
stupido nome?
Suo
malgrado, per quanto gli riesca, abbozza
un sorriso, mostrando i denti sporchi di rosso.
«De…mia...n» sussurra e Niko,
allargando il sorriso, gli prende la mano e
gliela stringe. Poi lo aiuta ad alzarsi, passandosi il braccio di
Demian sulle
spalle e caricandolo quasi completamente di peso su di
sé.
«Mi piace il tuo stile, davvero. Vieni con me Dem,
la prossima volta vedrò
di coprirti io le spalle»
Chiuse gli occhi e rilasciò, insieme al fumo della sigaretta
appena accesa,
l’ennesimo, pesante sospiro di resa. Aveva un debito con
loro.
Aveva
un debito con Nicolas.
Era
sempre per quel debito che non sapeva dire di no, che si
apprestava ogni volta a compiere azioni che lo rendevano indegno a se
stesso,
che poi lo sapeva che ci avrebbe messo giorni, forse settimane, per
riuscire a
guardarsi allo specchio senza disprezzarsi troppo. Poteva solo
soffocare gli
scrupoli e i rimorsi o non sarebbe riuscito a fare nulla, solo a
causare
disappunto. Li avrebbe tenuti per dopo, tutti i suoi inutili
tentennamenti, li
avrebbe fatti sfilare davanti agli occhi prima di andare a dormire, nel
migliore dei casi li avrebbe vomitati nel primo bagno quando fosse
rimasto
solo.
La
realtà dei fatti era che non importava minimamente come si
sentisse, bastava avere l’aria giusta,
l’atteggiamento disinvolto, quasi
annoiato, per non deludere le aspettative di nessuno e non contrapporsi
all’entusiasmo dei compagni.
Ad
un tratto un ragazzo uscì discretamente dal locale e
attraversò
a passo svelto il parcheggio per raggiungere il parco, poco lontano da
dove si
erano appostati loro. Demian fu il primo a notarlo, alzò
pigramente la testa,
la sigaretta quasi del tutto consumata rimase mollemente sospesa fra le
sue
dita mentre lo seguiva con lo sguardo senza riuscire a parlare.
Aveva
trattenuto il respiro per qualche istante.
Sembrava
un ragazzino, una presenza molto poco significativa. Non
troppo alto, magro di quella corporatura scattante e nervosa, una
zazzera di
capelli spettinati che la luce porosa dei lampioni gli era parso avesse
colorato di biondo, ma non ne era certo, la sua vista era debole e
discutibile.
Ora
che finalmente lo aveva visto voleva veramente solo tornarsene
a casa e non saperne nulla, quello stupido era palesemente
più indifeso di
quanto non lo fosse stato lui stesso quel giorno, quando Niko lo aveva
aiutato
e persino respirare era troppo difficile.
Rimase
in silenzio, in attesa.
Quasi
si convinse che gli altri non ci avrebbero fatto caso, se
fosse rimasto rigido come nulla fosse, ma ovviamente aveva chiesto
ancora una
volta troppo: Niko gli tirò una leggera gomitata al braccio
ammiccando con la
testa verso il nuovo venuto, con un’espressione seria e
sadica che gli si inerpicò
in un brivido su per ogni vertebra della schiena.
Non
avrebbe potuto fermarli e quasi gli venne da ridere.
Era
ridicolo, non ci avrebbe nemmeno provato, avrebbe fatto la sua
parte. Spense il mozzicone della sigaretta contro il muro e scese con
un leggero
slancio. La colpa non era sua, era di quel ragazzino, doveva essere
proprio uno
sprovveduto per non averli notati in
quell’oscurità indefinita. Certe cose
erano semplice questione d’istinto di sopravvivenza, in un
mondo che ti
mangiava vivo se non ne possedevi un briciolo eri fottuto e la colpa
era solo
tua.
Niko
fece cenno a tutti di attendere sollevando un braccio.
Un’altra
figura, in quel parco abbandonato che era il loro quartiere e ritrovo,
si stava
avvicinando al ragazzino. Doveva essere l’acquirente venuto a
ritirare la sua
dose. Una sottile nausea gli lasciò in bocca il sapore di
bile quando realizzò
davvero cosa stesse per accadere. Sembrava troppo piccolo, si chiese se
anche
lui a suo tempo, nei suoi disagiati quattordici anni, apparisse tanto
grottesco
in quelle vesti. Tutto voleva meno che essere lì, ma non era
una novità. Quando
si trovava in un posto, immancabilmente desiderava essere altrove, in
nessun
luogo si sentiva a suo agio, era dannatamente inadatto a qualunque cosa
facesse. Per questo chiuse gli occhi, si concentrò sul
proprio respiro e ignorò
la nausea e il malessere che gli comprimevano stomaco e polmoni.
Non importa se quel moccioso è la
metà di
te, non importa.
Una
mano si poggiò sulla sua spalla, stringendola in un gesto
d’incoraggiamento «Ehi Dem, svegliati. Dobbiamo
dargli il benvenuto!»
Nicolas
non era del tutto malvagio, anche se poteva sembrarlo,
all’apparenza. Pretendeva solo ciò che sentiva
spettargli, non sapeva nemmeno
lui cosa volesse, ma sapeva come ottenerlo e il metodo importava poco.
Proteggeva ciò che aveva, e non era molto.
Era spietato sì, ma non malvagio.
La
vita attraverso quelle iridi d’acqua sporca era difficile da
comprendere, Niko non aveva la tradizionale idea di bene e male, se
sentiva l’impulso
di fare qualcosa, quella cosa doveva essere naturalmente giusta, e lui
seguiva
solo se stesso, in maniera grottesca e incurante. Demian lo aveva
capito nel
tempo, aveva anche condiviso quell’ideale, ma non aveva la
forza di perseguirlo
con la coscienza intatta, non aveva quella libertà di
spirito per convivere con
se stesso, dopo.
Decisamente però non gli riusciva di biasimarlo,
quell’assurdo ragazzo di
ventidue anni con un’esperienza di vita da far invidia ad un
cinquantenne e
l’entusiasmo di un bambino mentre tortura una lucertola, lo
disturbava solo il
fatto che i bersagli di Niko purtroppo fossero ben più
grandi di un semplice
animaletto raccolto in giardino.
La
bocca contratta in una linea dura ed esangue, non rispose
all’amico, si limitò a seguire Alex, Dave, Teo e
Andrea.
«Ehi,
pezzo di merda!» apostrofò Teo il ragazzino.
Questo
si volse, il volto smunto corrucciato, e Dem poté vedere i
suoi occhi enormi dilatarsi per lo stupore e sciogliersi in un istante
in paura
liquida. Era davvero biondo, con tondi occhi azzurri e tratti sottili,
un po’
efebici, troppo infantili. Doveva essere straniero.
Perché
un moccioso simile, un rametto secco e spigoloso fin troppo
incline a spezzarsi al minimo soffio di vento, era invischiato in
simili
affari? Lui e i suoi stupidi amici dovevano necessariamente dare
fastidio a Nicolas
nel loro giocare a fare gli adulti?
«Maledizione»
masticò a bassa voce, tra sé e sé, in
un moto
d’insofferente frustrazione. Il ragazzo nel frattempo era
indietreggiato di
qualche passo e stava cercando di dare un contegno alla propria
espressione.
«Volete
della roba?» mormorò in maniera vaga, con un
accento
decisamente straniero, forse slavo.
Un altro passo indietro ed incespicò nei propri piedi, gli
occhi spaventati
vagavano attorno, alla ricerca di una via di fuga o forse di qualche
amico che
fosse uscito a ripescarlo. Nessuno aveva fatto capolino
dall’ingresso del
locale però, era completamente solo, e forse era meglio
così. Niko non si
fermava davanti ad un mero numero, non aveva senso della misura, se
dovevano
far del male a qualcuno meglio fosse solamente uno.
I
suoi compagni si erano allargati avanzando e lentamente lo
avevano accerchiato, chiudendo ogni scappatoia.
Il
terrore su quel volto puerile Dem lo aveva conosciuto molto
bene, era stato il suo, molto tempo prima. Insieme al rammarico, a
quella mano
crudele che gli stringeva le viscere in una morsa dolorosa, come
un’onda
d’adrenalina che riscosse tutti i nervi gli montò
dentro una collera cieca a
meschina. Aveva subito tanto e così a lungo che era giusto,
ci doveva essere
una sana giustizia da qualche parte che riportasse
l’equilibrio, aveva bisogno
di sapere che non era l’unico ad aver dovuto sopportare
l’umiliazione e quel
maledetto senso d’impotenza che attanaglia solo chi non
è all’altezza di
potersi difendere.
E
se non era la vita a dimostrargli che tutti vivevano in un
maledetto pantano in cui ogni giorno si affondava un poco, allora ci
avrebbe
pensato da solo a tirare con sé altre persone. Anche il
ragazzino sarebbe
sopravvissuto, proprio come era sopravvissuto lui, e magari avrebbe
imparato
anche a fare meno cazzate in futuro e a difendersi.
«Non ho un cazzo adesso con me» aveva continuato
quello, la voce esile tremava
«State perdendo tempo»
«È
un peccato che sia da solo» osservò Teo con noia
«Avrei voluto
giocare di più»
Alex
sbuffò, sollevando appena le spalle «Meno
rotture» constatò
tranquillo, facendo scrocchiare le dita in un gesto intimidatorio.
Fu la risata di Niko però, il suono più
agghiacciante, ché Nicolas non rideva,
raschiava la gola in un ringhio quasi animalesco «Avete
sbagliato a venire qui»
disse gelido, con il volto sfigurato dal familiare sorriso pericoloso
da
attaccabrighe «Lo dirai anche ai tuoi amici, quando potrai
parlare di nuovo»
Il
ragazzo s’irrigidì, ora pienamente consapevole del
pericolo, e
si guardò ancora una volta attorno, calcolando le possibili
vie di fuga. Fu
naturale che i suoi occhi si posassero su di lui, Demian lo aspettava.
Prima
ancora che iniziasse a correre, Dem lo aveva capito, lo aveva sentito
che ci
avrebbe provato: aveva cercato il punto debole e l’aveva
individuato, tra
tutti, in lui.
Fremette d’indignazione nel rendersi conto di essere stato
considerato, come
sempre, il più scadente, l’anello debole. Strinse
i denti e quando il biondino
gli andò addosso cercando di abbatterlo con una spallata,
nonostante fosse
pronto quasi perse l’equilibrio, ma avendolo previsto
riuscì a placcarlo
tirandogli una ginocchiata nello stomaco con tutta la forza che aveva.
Voleva fargli male, punirlo per aver dubitato di lui solo per il suo
aspetto
diafano.
Lui
non era un debole.
Voleva
vendicarsi, ché in quegli occhi spaventati non riusciva a
vederci la disperazione, non più, vi leggeva unicamente
sprezzo, l’arroganza di
mille volti, di tutte le persone che lo avevano sopraffatto sempre
nella sua
vita solo perché avevano colto la sua fragilità,
la grettezza di chi non gli
aveva mai mostrato un briciolo di pietà, gli occhi di tutti
coloro che
l’avevano fatto sentire un lebbroso, sbagliato, inadeguato.
Impotente.
Che
lo avevano considerato o avvicinato soltanto per ricordargli
che non valeva niente.
Il ragazzo boccheggiò sulla sua spalla per un attimo, la
bocca spalancata in un
moto di stupore e dolore, poi cadde a peso morto su di lui e Demian lo
lasciò
scivolare a terra, pietrificato dall’improvvisa
consapevolezza.
Fu
Alex ad afferrare il ragazzino per la giacca, impedendogli di
abbattersi al suolo, lo strattonò bruscamente allontanandolo
da lui.
E
Demian lo guardò immobile, inaspettatamente stanco, come
svuotato. Perché era successo di nuovo, il suo orgoglio era
stato troppo spesso
ferito ed ora non riusciva a controllarlo, si sentiva spinto a reagire
come se
ogni gesto fosse un insulto alla propria persona. Ed ora era
già pentito,
avrebbe dovuto permettergli di scappare, lo sapeva fin troppo bene.
Teo
gli concesse un sorriso feroce e stranamente compiaciuto «Bel
colpo», gli disse in un raro apprezzamento, prima di caricare
il braccio e
colpire il ragazzo in pieno stomaco. Ne seguì un lamento
raccapricciante da
animale ferito, un singulto che non aveva voce.
Demian
chiuse gli occhi piano, poi li
strinse, strinse i pugni, prese fiato. Non fece nulla, non avrebbe
potuto
nemmeno volendo, rimase come paralizzato davanti agli amici che a turno
si
divertivano a massacrare un indifeso. Rimase fermo per un tempo che gli
parve
infinito, e non c’era lui, solo i suoni e il senso di colpa,
e quel “Perché non
l’hai lasciato andare? Lo sapevi
come sarebbe finita, lo sai sempre”.
I
gemiti erano ormai sfumati in un mormorio
leggero, non gli vedeva il volto perché era letteralmente
sopraffatto dai suoi
compagni, nessuno di loro conosceva la compassione, forse come lui ne
avevano
ricevuta troppo poca nella loro penosa esistenza, per poterne provare.
Al diavolo
cosa avrebbe pensato quel bastardo di Teo, avresti dovuto farlo
scappare.
Dovresti
fermarli.
Eppure
le mani avevano ripreso a tremare
troppo, non ci sarebbe riuscito, e non per paura di loro, quello mai.
Se si fosse
messo contro Niko conosceva bene quali sarebbero state le conseguenze,
piuttosto
prevedibili tra le altre cose, ma le avrebbe sopportate, non sarebbe
stato
nulla di diverso dal passato. Dopo però, che ne sarebbe
stato di lui?
Aveva
già perso a sufficienza, la vita gli
aveva chiesto sempre troppo e Dem aveva già pagato
abbastanza, non era giusto
rinunciare ancora per uno sconosciuto che non l’avrebbe
nemmeno ringraziato.
Come
prevedibile, Teo non gli permise di
restarsene con le mani in mano «Ehi scherzo della natura, non
ti prendi la tua
parte? O hai paura di sporcare le tue manine bianche?» lo
richiamò ad un
tratto, dopo essersi reso conto che non aveva fatto nemmeno un passo.
Era
una sfida quella, Teo lo riteneva uno
smidollato, aveva imparato ad accettare, pur con insofferenza, la sua
presenza
solo per Nicolas, ma non poteva sopportarlo ed il sentimento di sprezzo
era
reciproco. Gli altri ragazzi no, loro lo rispettavano, ma Teo era il
più
grande, il più violento e decisamente il più
figlio di puttana tra tutti,
quello che ci andava sempre troppo pesante qualunque cosa facesse e che
avrebbe
voluto prendere il suo faccino e spiaccicarlo al muro fin dal primo
giorno in
cui si erano incontrati.
Alex
stava tenendo il ragazzo da dietro,
ormai ne sosteneva quasi interamente il peso, quel corpo piccolo e
gracile era
spezzato, ogni respiro un rantolo disumano di dolore, il volto una
maschera
viola e pulsante rigata di lacrime e sangue. Non c’era
più l’azzurro limpido
delle sue iridi strafottenti e intimorite, gli occhi erano gonfi e
pesti. Aveva
perso qualche dente, probabilmente aveva qualche costola rotta visto la
contrazione del viso ogni volta che provava ad incamerare aria, e Dem
si chiese
come facesse ad essere ancora cosciente.
«Allora,
ti decidi a tirarti insieme?»
insisté Teo, provocatorio.
«Lui
non è un vigliacco» ribatté Niko con
astio, forse per difenderlo, Demian aveva l’impressione che
Nicolas si sentisse
oltraggiato ogni volta che Matteo lo accusava perché, in
qualche modo, con
quell’atteggiamento metteva in dubbio una sua scelta, come a
dirgli che aveva
sbagliato a permettergli di unirsi al loro gruppo.
E
Niko non sbagliava. Infatti si volse verso
di lui e annuì, come a incoraggiarlo a far finire
rapidamente la situazione a
far rimangiare a Teo il proprio commento. Dave e Alex lo osservavano
con la
medesima sicurezza, erano convinti che non li avrebbe delusi, e Dem
riusciva
solo a pensare che, davvero, avrebbe preferito non dover dimostrare
nulla a
nessuno, non voleva farlo.
Avrebbe
voluto essere a casa, magari
abbracciato a Sarah, a leggerle qualche storia, a stringere la sua
manina
sottile da bestiolina.
Sistemò
il tirapugni, distese le dita, le
strinse intorno agli anelli di metallo, in un gesto abituale.
Avrebbe
voluto che maman fosse nella sua
stanza per prendersi cura di lei, avrebbe voluto fare i compiti e
andare a scuola
la mattina, l’indomani.
Alzò
il braccio sinistro e caricò il colpo,
veloce, senza esitazioni.
Non
doveva pensare, non si sarebbe perdonato
più tardi, nella sua solitudine.
All’impatto
sentì la mandibola del ragazzo
rompersi, la pelle lacerarsi. Il biondino lasciò andare un
ultimo urlo
straziato, il suono abbandonò le sue labbra insieme ad un
fiotto di sangue, poi
la testa gli ricadde inerme sul petto, come una bambola rotta.
Finalmente il
dolore gli aveva permesso di svenire, le lacrime però non
smisero di bagnargli
le guance gonfie e segnate. Un’immagine grottesca e
angosciante così eccessiva
da sembrare finta. Alex liberò il corpo martoriato del
ragazzino che senza
forze cadde a terra indifeso, ricoperto di sangue in un tale stato che
sarebbe
potuto tranquillamente apparire morto, e Niko soddisfatto gli strinse
la spalla
e gli sorrise con orgoglio «Sei un grandissimo bastardo,
questo si che è un
pugno come si deve! Che dici Teo, hai finito di rompere il cazzo per
oggi?»
Il più grande scrollò le spalle, disinteressato.
«È
meglio andarcene» fece notare Davide,
allarmato. Aveva notato un movimento nel parcheggio, gli occhi di Dem
corsero
all’ingresso dell’Edonè, alcuni ragazzi
stavano uscendo, forse a controllare
perché il loro amico tardasse tanto. Teo diede un ultimo
calcio al corpo inerme
prima di avviarsi, e Demian e gli altri lo seguirono, lanciandosi in
una corsa
divertita, come avessero compiuto un’innocua marachella e
fossero riusciti a
sfuggire ad un rimprovero.
«Ignora
quello stronzo, io lo so che non sei
il tipo che si tira indietro» gli disse ancora Niko per
incoraggiarlo. Aveva un
modo assurdo, tutto personale, di cercare di infondere sicurezza.
Doveva
essersi convinto che gli importasse qualcosa delle parole di Teo e del
suo
veleno gratuito, ma a Demian quel loro concetto di “non
tirarsi indietro” era
del tutto estraneo e avrebbe riso di quella rassicurazione, se non si
fosse
sentito feccia. Non gliene importava niente, pensava solo
all’articolazione che
cedeva sotto il suo pugno, al dolore in quei lamenti, alla maschera
tragica
calcata sul volto di un ragazzo che sembrava più piccolo di
lui.
Quello
che aveva fatto ora non era diverso da
ciò che aveva subito, era diventato un carnefice che aveva
ancora l’ardire di
sentirsi la vittima, e si odiava. Almeno una cosa, una sola doveva
farla, o non
sarebbe più riuscito a guardare negli occhi la sua petite
peste senza sentirsi
indegno. Prese il cellulare e compose rapidamente il numero
«Serve
un’ambulanza»
Si
muoveva nell’oscurità come fosse lui stesso
inconsistente e potesse dissolversi, ed era quella
l’impressione, voleva
dissolversi. Non aveva acceso la luce ed il silenzio assordante premeva
come
una coperta asfissiante sul suo corpo, ne appesantiva i movimenti.
Raggiunse la
porta socchiusa della camera di maman, guardò attraverso lo
spiraglio alla
ricerca di una sagoma familiare che non avrebbe ritrovato, Jenevieve
era ancora
in ospedale e se lei era ricoverata Demian poteva solo aspettarla.
Aspettare
che lei tornasse era il mantra della sua esistenza, come
l’attesa davanti a
quella porta.
Lalami,
goffa a causa del sonno e delle
grosse zampine che scivolavano sulle piastrelle, gli si
avvicinò per
mordicchiargli il fondo dei jeans. Era brillo e aveva mal di testa, non
aveva
voglia di giocare. Si chinò, le lasciò una tenera
quanto rude carezza sul
testone, poi entrò in camera di sua madre. Si stese sul
letto matrimoniale che
profumava di lei e del sandalo che spargeva nella stanza per togliere
l’opprimente odore da malata, come lo definiva maman, mise il
cuscino in
posizione verticale e vi si aggrappò con forza, affondandovi
il volto.
La
odiava, quella donna, prendersi cura di
lei era l’unica ragione che riempisse le sue giornate, quando
veniva ricoverata
si sentiva sperso, non sapeva che fare, si lasciava trasportare.
Viveva
perché lei tornasse ancora a casa.
La
bombola dell’ossigeno era ancora accanto
al materasso.
Presto
Se
lo ripeteva come un mantra.
Solo qualche
giorno e poi basta silenzio
***
Pioveva a catinelle quella mattina, gocce di pioggia
implacabili e grandi
come chicchi d’uva gli frustavano il volto e senza un
ombrello, nel
ripercorrere a testa china la distanza tra il parcheggio sul retro
dell’edificio e l’ingresso della scuola, si
ritrovò con la felpa completamente
fradicia ed i capelli candidi appiccicati alla fronte.
Rassegnato
alzò gli occhi stanchi sulla
struttura, cercando di metterla a fuoco, di mettere a fuoco i ragazzi,
gli
insegnanti, le persone che si affrettavano come lui, solo ombre nella
sua
visione debole, figure dai tratti indefiniti, sfocate forse anche da
quell’atmosfera umida di acqua e nebbia leggera. Era
più di una settimana che
non partecipava alle lezioni, maman non era stata bene, gli era parsa
più
affaticata del solito. Le cure le causavano frequenti attacchi di
debolezza e
Demian non sapeva cosa fare di diverso per aiutarla a sentirsi meglio.
Aveva
potuto solo girarle costantemente attorno, soffocarla di attenzioni,
farle
mangiare tutti quegli stupidi cibi sani che non servivano a niente, ed
infatti
non era cambiato nulla, non serviva mai.
L’aveva
vista stare sempre peggio e non aveva
potuto fare assolutamente niente, e non riusciva a rassegnarsi a
quell’impotenza che gli mangiava l’anima, sentiva
solo che doveva impegnarsi di
più, avrebbe dovuto essere più concreto e, quando
fosse tornata a casa, avrebbe
trovato un modo per esserlo.
Non
era certo che gli insegnanti lo avrebbe
giustificato ancora a lungo, molti stavano diventando insofferenti e
non
perdevano occasione di far pesare il proprio disappunto. Alcuni non li
aveva
mai nemmeno visti, col nuovo anno erano cambiati e con le sue assenze
non sapeva
neanche che faccia avessero, ma era solo questione di
priorità, se lo ripeteva
continuamente: degli estranei non sarebbero mai stati la sua
priorità.
S’infilò velocemente le cuffiette del lettore CD
mentre saliva i gradini,
lasciando che i Blur nascondessero le voci dei ragazzi appostati come
avvoltoi
sulla porta a fumarsi una sigaretta prima della campanella. Era il modo
più
semplice per estraniarsi, la musica, lui avrebbe fumato dopo, preferiva
nascondersi nelle scale antincendio durante l’orario di
lezione perché era
l’unico modo che aveva trovato di non imbattersi in qualcuno,
preferiva essere
solo per rilassarsi. Gli estranei lo agitavano più di quanto
non fosse disposto
ad ammettere, odiava ritrovarsi circondato di persone, il disagio lo
attanagliava e non sapeva dove guardare, cosa fare, come muovere le
mani.
E
si odiava, ché quel malessere nasceva dagli
sguardi, non riusciva ad accettare come lo fissavano tutti, neanche
fosse un
fenomeno da baraccone o un raro animale in via d’estinzione,
e allora si
biasimava per essere tanto debole.
Ma
erano troppo pesanti, quegli sguardi,
perché potesse fingere di non vederli, e gli restava solo la
musica come muro,
anche se di prima mattina non la sopportava, aveva tremendamente sonno.
Non
c’era incentivo migliore delle cuffie per tenere gli altri a
distanza, e in più
davano l’impressione che fosse impegnato in altro che non
elucubrare sulle sue
assillanti fobie. Non voleva dare l’idea di essere
spaventato, preferiva essere
isolato grazie alla sua aria sprezzante e spavalda, ma in
verità lo sapeva che
non aveva davvero bisogno di quei sotterfugi per restare solo:
già il suo
aspetto metteva le persone a disagio. Gli parlavano come avessero
davanti un
paraplegico, con l’imbarazzo tipico di chi non sa dove
guardare per non dare
l’impressione di fissare troppo a lungo e in modo sfacciato.
Se poi aggiungeva
a questo anche la sua fama da spacciatore, teppista, drogato legato a
pessime
compagnie, lo stereotipo di persona da evitare se non si volevano
problemi, dal
carattere instabile in grado di spaccare la faccia a qualcuno per una
parola
sbagliata e più volte portato in caserma per rissa e
spaccio, beh, diventava
facile capire che non avrebbe avuto noie, e ci arrivava anche da solo,
ma non
lo accettava. Non aveva certo un curriculum invidiabile alle sue
spalle, eppure
non riusciva a trattenere un sorriso sardonico davanti
all’ipocrisia delle
persone che lo circondavano. Frequentava una scuola d’arte, e
lì le droghe si
sprecavano, difficilmente aveva visto studenti
“trovare” l’ispirazione senza
fumarsi almeno una canna.
Scrollò
la testa, a scacciare un pensiero
fastidioso.
Era
meglio così, doveva essere meglio. Se
avevano paura di lui lo lasciavano solo e non era costretto a dare
spiegazioni
di alcun tipo a nessuno. Essere soli, nel suo caso, poteva essere solo
un
vantaggio e l’unica cosa sensata, c’erano
verità di cui preferiva decisamente
non parlare.
Quella mattina aveva dato un’occhiata indolente
all’orario e aveva scoperto che
alla prima ora lo aspettava italiano, ma non aveva idea né
di dove fossero
arrivati con il programma né chi fosse il nuovo insegnante.
Ne provava un
leggero dispiacere, amava leggere ed era fondamentalmente quello che
faceva
durante le lezioni, per trascorrere il tempo. A casa era sempre troppo
nervoso e
troppo impegnato a prendersi cura di maman per poter trovare la
tranquillità di
aprire un libro, invece la scuola, per quanto paradossale, era una
specie di angolo
di paradiso, di quiete totale e assoluta dove se gli venivano
rivolte due
parole era un evento fuori dalla norma, quasi un miracolo.
Entrò nella sua aula, la 2C,
e andò dritto verso il suo banco, nell’angolo in
fondo vicino alla finestra.
Lasciò cadere la borsa a terra, con atteggiamento
insofferente, e fece scorrere
rapidamente lo sguardo sulla nuova classe prima di posarlo sul
paesaggio fuori
dalla finestra. Aveva fatto in tempo, con quella rapida analisi, a
vedere
capannelli di ragazzi che borbottavano fissandolo in tralice. Di alcuni
di loro
ricordava il nome, di altri solo il viso, ma aveva frequentato
così poco dall’inizio
dell’anno da non aver legato praticamente con nessuno dei
nuovi compagni.
Si ritrovava nuovamente in seconda perché la situazione di
Jenevieve si era
definitivamente aggravata l’anno precedente e lui aveva
scelto di vivere più
tempo in camera di sua madre che seduto ad uno stupido banco ad
ascoltare
stupide persone.
Ovviamente
gli insegnanti non glielo avevano
perdonato.
Quello
era probabilmente l’ultimo anno che
avrebbero trascorso insieme, lui e sua madre, ma aveva scoperto che la
pietà
aveva un limite, limite oltre il quale, stupidamente, gli insegnanti si
sentivano presi in giro. Avevano deciso di dargli contro, come se la
sua fosse
pigrizia. Come se il suo mondo ruotasse intorno a loro e prenderli in
giro
fosse la ragione del suo esistere, quando per lui loro non
erano altro che
ombre.
Ed ora si sentiva osservato e avrebbe voluto solo chinare la testa.
Lo
capiva, la classe doveva essere parecchio
incuriosita da lui, quelle attenzioni però non erano
reciproche, non erano
niente di speciale, non avevano nulla che potesse minimamente
interessarlo. Schiuse le labbra per accogliere un’altra
boccata d’ossigeno, e
continuò a perdersi oltre la finestra, lontano, dove era
più facile non
accorgersi di nulla. Quando s’innervosiva, cercava di
concentrarsi sui
dettagli, lo aiutava. Come quasi ogni edificio di inizio novecento,
giusto
perché la struttura della sua scuola non stava cadendo a
pezzi, le finestre
erano celate da un’inferriata di ferro battuto a ricami
floreali, che faceva
tanto carcere e celava parzialmente il cielo grigio quanto la strada, e
su quei
ricami decise di focalizzare la sua attenzione.
Non
sentiva il rumore della pioggia, ma gli
sembrava di poterne percepire la carezza, la morbidezza
dell’acqua sul viso.
Quell’odore di umido quando le gocce s’incontravano
con il calore dell’asfalto
Dem avrebbe potuto respirarlo ad occhi chiusi senza mai stancarsene, se
ne
sentiva riempito e si sentiva svuotato di ogni sentimento. Lo
tranquillizzava e
inebriava di una strana e calda esaltazione, forse lo lasciava
semplicemente
sereno. Era come lui, silenziosa, ovattata di malinconia, abbracciava
tutto ed
ingrigiva il mondo, lo velava di una tenue tristezza che non lo faceva
sentire
solo, adombrava ogni cosa con il fascino della decadenza.
La
voce timida di una ragazza lo riportò alla
realtà e gli ricordò che si trovava in classe.
Non era in ospedale con maman.
«Ciao
Demian»
Distrattamente
la squadrò, si sforzò di
riconoscerla o almeno di cogliere un brandello di
familiarità, ma non ebbe
successo. In realtà stava pensando ancora ad altro, cercava
gli sbuffi d’acqua
sulla strada con la coda dell’occhio, pensava a sua madre,
non gli pareva
nemmeno di avere davanti quella sconosciuta.
Non
era brutta, ma non era neanche bella. Una
ragazza nella media, piccola di statura come una bambina, forse troppo
morbida
per potersi permettere di fasciarsi in jeans tanto stretti e con troppo
trucco
sugli occhi castani. Senza sarebbe stato meglio, sarebbe parsa
più pulita e
innocente, come faceva pensare quel fisico indifeso. I capelli neri e
mossi le
arrivavano fino alle spalle, era impacciata da morire, dava
l’impressione di
non sapere cosa fare mentre si torceva le mani, le labbra troppo
sottili tese
in una linea d’ansia.
Involontariamente
inarcò un sopracciglio.
«Sono
Giulia» disse lei, notando la sua
perplessità.
Si
sarebbe staccata le dita, se avesse
continuato a tormentarsi le mani con tanto nervosismo.
Non
era tanto il suo nome a lasciarlo
dubbioso, quanto la situazione nel complesso. Nessuno gli rivolgeva mai
spontaneamente la parola se non per provocarlo, gli unici rapporti che
aveva
avuto con delle ragazze erano più o meno sempre dello stesso
stampo: lui era
bello, strano, “diverso” nella vera accezione della
parola, e quelle erano nel
migliore dei casi delle sciocche che facevano scommesse su chi sarebbe
stata la
prima che riusciva a farlo capitolare, per aggiungere alla propria
personale
lista dei “ragazzi che si erano fatte” anche un
malato; nel peggiore dei casi,
idiote che volevano solo il cattivo ragazzo di turno e si erano
convinte che
lui lo fosse per eccellenza.
Praticamente
era abbordato solo da soggetti
discutibili e per principio non se ne filava nemmeno una.
Giulia però non sembrava appartenere a nessuna delle solite
categorie, era
questo a spiazzarlo. Era carina, aveva un sorriso timido e gli occhi
bassi per
l’imbarazzo.
Cosa
diavolo voleva da lui?
In
che modo avrebbe dovuto mandarla via?
«Sei stato malato?» tentò ancora Giulia,
con un coraggio che lo sguardo
sfuggente tradiva. Eppure sembrava davvero decisa a parlare con lui e,
quasi a
seguire un copione, volse lo sguardo verso due ragazze, due sue amiche,
che le
sorridevano e sghignazzavano come due emerite idiote.
D’improvviso
capì cosa stesse succedendo ed
insieme al fastidio subentrò la familiare fitta di
umiliazione. Era una sfida
riuscire a catturare il suo interesse, lei non doveva essere diversa.
Lo vedeva
sulle sue, sgarbato, il classico cattivo ragazzo tenebroso che andava
redento,
con dei problemi irrisolvibili che risvegliavano in lei lo stupido
istinto da
crocerossina latente in quasi ogni ragazza.
Fece una smorfia di fastidio.
«Sono sempre malato, è difficile guarire quando ci
nasci»
Le
guance di Giulia s’imporporarono di
vistoso imbarazzo e le sue labbra sottili s’inclinarono verso
il basso, in una
sfumatura di delusione che non le riuscì di celare. Non si
sentì in colpa, odiava
quel tipo di attenzioni, non l’avrebbe di certo intenerito
con della pietà.
«Ti
servono degli appunti?» sussurrò lei
ancora, in un ultimo, disperato sforzo di comunicare, sbatacchiando le
palpebre
neanche le fosse entrato un moscerino nell’occhio, sperando
di essere
ammaliante forse, Dem non lo capì. Pensò solo che
fosse ridicola e che si stava
stancando, gli unici sguardi da cucciola desiderosa d’affetto
che riuscivano a
renderlo arrendevole e a conquistarlo erano quelli della sua Sarah,
magari
Lalami, perché era un’indifesa palla di pelo crema
troppo tenera per resistere,
tutto il resto era noia, imitazioni per nulla convincenti.
«Ti
sembra che mi interessi?» la freddò senza
frenare l’insofferenza nella voce, prima di voltarsi e
tornare a osservare la
pioggia sottile e scrosciante come aghi fuori dalla finestra. Sperava
davvero
che Giulia cogliesse l’antifona e si facesse da parte,
già quelle poche parole
cavate a forza lo avevano drenato.
Con
la coda dell’occhio notò la piccola bocca
della ragazza aprirsi in un cerchio di perfetto sconcerto e
indignazione, era
impallidita all’improvviso, le mani avevano smesso di
stritolarsi
vicendevolmente.
«Sei…
sei proprio maleducato!» sbottò sulla
difensiva, mordendosi l’inesistente labbro inferiore. Dem non
trattenne un
sorriso beffardo e sollevò un poco le spalle, in un gesto di
studiata noncuranza.
Giulia sospirò e gli diede la schiena, pronta finalmente ad
andarsene, gli
occhi avevano perso in un battito di ciglio quel guizzo da innamorata
persa.
Proprio vero
amore,
valutò
sollevando le iridi chiare al soffitto.
«Ehi»
La
compagna fece scattare il volto verso di
lui, illuminata da un barlume di speranza che gli fece storcere il
naso.
Pensava davvero che potesse chiederle scusa?
«Non
truccarti al buio la mattina. Non ti
riesce» l’apostrofò con un ghigno di
scherno, prima di rimettersi le cuffiette
con un gesto rapido e preventivo, per non udire la risposta inveita o
il
borbottare scocciato delle amiche impiccione. E infatti si accorse con
crescente insofferenza che la sua antipatica e gratuita osservazione
aveva
attirato l’attenzione degli altri compagni di classe, che ora
confabulavano
guardandolo in tralice senza nemmeno tentare di dissimulare la propria
curiosità.
Le
amiche della sua personale adescatrice la
presero a braccetto, gli riservarono un’occhiata rovente e la
condussero al suo
banco come due oche impettite.
Adelina
e Guendalina Blabla, avrebbe detto
Sarah, e pensare al commentino pungente che la bimba avrebbe fatto
migliorò un
poco il suo umore e gli strappò una breve ma profondamente
divertita risatina.
Scosse il capo e si passò una mano fra i capelli, inclinando
la testa
all’indietro per contemplare il soffitto costellato di
macchie di umidità. Con
fantasia poteva provare a vederci qualche immagine astratta, in quei
contorni,
il tempo stava scorrendo a rilento e iniziava a disperare per quegli
interminabili minuti che non avevano intenzione di esaurirsi.
Fortunatamente,
al suono della campanella l’insegnante fece subito capolino
dalla porta e, come
un operoso e poco pensante sciame d’api, tutti gli studenti
scivolarono
rumorosamente nei propri posti.
Non
si meravigliò nel constatare che il banco
accanto al suo fosse, ironicamente, vuoto. Era curioso di sapere chi
usufruisse
del suo posto durante le numerose giornate di assenza che
caratterizzavano la sua
carriera scolastica, perché sicuramente qualcuno
c’era. Forse, i due ragazzi
dall’aria scanzonata della seconda fila, che avevano il
classico atteggiamento
da piccoli bulli, il ragazzo pigro del centro che sembrava sul punto di
addormentarsi; o qualche ragazza desiderosa di un posto dove poter
spettegolare
non vista. Non che per Dem fosse un problema, era una legge non scritta
che
veniva rispettata puntualmente, quando frequentava le lezioni quel
posto era
suo, nessuno si era mai permesso di ridire sulla questione.
Doveva
però esserci un assente, visto che
accanto a lui non si era presentato ancora nessuno. Appoggiò
indolente la
guancia sulla mano, per non doversi sforzare nemmeno di dover tenere la
testa
sollevata, e seguì il professore con gli occhi mentre
iniziava a fare
l’appello. Faceva parte della nuova guardia, Demian non lo
conosceva, ma era
giovane e dall’aria un poco impacciata, c’era
qualcosa di goffo nel tentativo
autoritario del suo tono, nella rigidezza della sua postura. Sembrava
un bersaglio,
non un insegnante.
«Lemaire
Demian»
«Presente»
rispose automaticamente, e l’uomo
s’interruppe subito, con evidente stupore.
«Lemaire,
finalmente posso vederti. Sono
sorpreso di scoprire che esisti. Incominciava a girare la voce che tu
fossi una
leggenda metropolitana» lo punzecchiò, facendo
ridacchiare alcuni ragazzi più
per condiscendenza che per vero divertimento.
«Lo sono» osservò pacatamente, facendo
accigliare il professore.
Era
giovane, sulla trentina al massimo, un
accenno di barba incolta, altezza media e fisico da studioso letterato,
sopracciglia folte arricciate in disagio.
Accennò
un colpo di tosse per dissimulare la
perplessità «Le voci sulla tua sfacciataggine
erano vere più che una leggenda.
Comunque spero che a casa ora vada tutto bene e che tu possa
ricominciare a
frequentare le lezioni come si deve»
Perse
un battito davanti a quelle parole, il
sangue smise semplicemente di fluire e Demian si ritrovò
allibito a labbra
schiuse, un foglio bianco al posto dei pensieri coerenti. Non poteva
crederci,
lo aveva detto davvero, quell’uomo inetto e incompetente
aveva fatto un simile
commento in classe, davanti a tutti. La conferma che
quell’uscita non fosse
frutto del suo pensiero gliela diedero le voci dei compagni di classe
che
avevano seguito l’affermazione levandosi in un brusio
sommesso.
Le
prime file si erano voltate, i ragazzi lo
guardavano di sottecchi, alcune ragazze tenevano le mani sulla bocca
per
coprire i commenti che si stavano bisbigliando.
Assottigliò
gli occhi dal taglio obliquo in
una linea crudele e ostile: «Non è morto ancora
nessuno» sputò con ironia
incattivita «Ma ovviamente è solo questione di
tempo»
Lo
disse solo per far sentire l’insegnante
sbagliato e fuori luogo, perché doveva imparare, doveva
mordersi la lingua e
imparare a stare zitto, non doveva permettersi di far conoscere a
perfetti
sconosciuti la sua situazione. La sola idea di essere sulla bocca di
tutti per
qualcosa di reale, qualcosa che l’avrebbe reso ancora
più pietoso e patetico,
lo faceva impazzire.
Calò
un silenzio imbarazzato che lo riempì di
sprezzante soddisfazione. Si appoggiò con inerzia allo
schienale della sedia,
incrociò le braccia al petto e squadrò il
professore con un sopracciglio alzato
in un atto di sfida.
Arrogati
ancora il diritto di accennare alla mia famiglia, ti sfido a provarci.
L’uomo
abbassò il capo e si passò una mano
dietro al collo «Mi dispiace molto» si
limitò a mormorare «Io sono il professor
Morelli. Sei rimasto piuttosto indietro, al cambio dell’ora
mettiti d’accordo
con i tuoi compagni e fatti passare gli appunti»
Il
professore deglutì a fatica e distolse lo
sguardo, evidentemente turbato, aprì il libro di testo e
iniziò a sciorinargli
gli argomenti della lezione precedente, argomenti che Demian purtroppo
già conosceva
grazie all’anno passato. Si stavano concentrando
sull’analisi del testo e della
poesia, erano ancora fermi alle prime figure retoriche e, quel giorno,
era
previsto “Pianto Antico” di Carducci.
Sollevò gli occhi al soffitto e sbuffò
rumorosamente.
Era
prevedibile, studiavano sempre le stesse
cose, mai un sussulto di originalità. Più che
imparare, a volte aveva
l’impressione di essere semplicemente indottrinato,
studiavano a pappagallo di
generazione in generazione le medesime cose e solo quando erano
diventati un’infinità
di piccoli identici cloni erano liberi di uscire. La scuola non era
diversa da
un allevamento di polli e poi, fuori, lo avrebbe aspettato il macello.
Perché
arrischiarsi nel creare pensieri diversi, quando si poteva essere
tragicamente
banali e identici?
Il
diverso non piaceva davvero a nessuno, lo
doveva accettare e basta, faceva solo storcere le bocche, causava solo
ribrezzo, distanza, sospetto.
Istintivamente
allungò il braccio per
recuperare la borsa abbandonata a terra. Vi frugò dentro e
ne estrasse un libro
dalla copertina rigida di finta pelle, il titolo inciso con un elegante
corsivo
dorato riflesse vivacemente il colore della luce artificiale
dell’aula.
“Lès
misèrables”.
Lo
accarezzò pazientemente per qualche
istante, rapito dal titolo, dalla delicatezza di quei suoni.
Ovviamente, la
copia era in lingua originale, la sua vera lingua, più di
quanto lo sarebbe mai
stato l’italiano, ed era paradossale. Lui in Italia
c’era nato e cresciuto,
eppure riusciva a guardarlo ancora come un paese straniero, il luogo
natio di
suo padre. Forse era questo ad estraniarlo, Demian con l’uomo
che li aveva
abbandonati che Sarah era appena nata non voleva averci nulla a che
fare,
condividere il suo sangue lo allontanava da se stesso, non era mai
riuscito ad
accettare di avere qualcosa in comune con lui. L’Italia era
il paese dell’uomo
che non aveva più rivisto, che era scappato senza nemmeno
salutarlo e che, ora
che maman era ammalata e morente, non si faceva carico dei due figli
capitati
per errore in gioventù, si limitava solo a mandare un
sostanzioso mantenimento
per tenerli lontani dalla sua vita perfetta.
Era
il paese dell’altra donna.
Non ci riusciva proprio, a sentirsi parte di qualcosa di più
grande, si sentiva
solo estraneo in terra straniera e quando usava l’italiano
gli sembrava di
avvicinarsi a quell’uomo, di creare punti in comune che non
desiderava. La
Francia era sempre stata la sua unica, vera casa, la sua patria.
Lì era nata
maman, l’unica ad avergli dato un nome e un cognome, e solo
lì aveva, anche se
dispersa, ancora una famiglia pronta ad accoglierlo e che a volte gli
mancava
come l’ossigeno. Quando sua madre era una ragazzina, i nonni
per lavoro si
erano trasferiti in Italia, e quando qualche anno dopo avevano deciso
di ritornare
nella loro amata Francia, solo Jenevieve e Claire erano rimaste. La zia
aveva
conosciuto il suo futuro marito, maman si era illusa che una persona
squallida
sarebbe stata la sua famiglia, ecco perché si ritrovava
lontano da zio Jean, da
nonna Marie, da Isabeau e tutti i numerosi cugini.
Mentre
in Italia, beh, erano solo figli illegittimi
e indesiderati, lui e la sua Sarah, i nonni paterni nemmeno li avevano
mai
voluti conoscere, odiavano Jen troppo a fondo per poterli considerare
loro
nipoti. Se ci rifletteva, si sentiva patetico, per questo non voleva
mai pensarci
e non voleva che qualcuno sapesse. Nella sua vita aveva sempre detto
che suo
padre era morto, era meno penoso che ammettere di essere stato
rifiutato fin
dalla nascita.
Aprì
il libro nel punto segnato dalla foto
che aveva incastrato tra le pagine qualche giorno prima.
L’istantanea scivolò
sul banco, mostrando il volto angelico e radioso della sua bellissima
sorellina, tenera di una bellezza da bambolina di porcellana, una
fragilità
disarmante in quel corpicino minuto e pieno di vita. Si
soffermò sulle
lentiggini poco definite dallo scatto e sui suoi occhioni di ridente
caramello,
e ne provò un familiare e straziante dolore, un senso di
mancanza che sapeva
come di uno strappo improvviso e infelice nell’anima. Avrebbe
voluto trascorrere
con lei ogni minuto di ogni giorno, voleva ricordarle sempre che non
erano
soli, che lei lo avrebbe sempre avuto in un modo o
nell’altro, ma avrebbe
mentito anche a se stesso. Sarah era la sua vera famiglia,
l’unica che gli
restasse, e gli faceva così male guardarla e starle accanto
che non ci
riusciva, per quanto lo volesse. Averla e perderla sarebbe stato
troppo, non
riusciva a reggere il pensiero della sua assenza.
«Lemaire»
lo richiamò il professore.
Aveva
il libro in mano e un’espressione molto
seccata contraeva i suoi occhi piccoli in fessure rugose e sottili
«Potresti
trovare la lezione interessante se ascoltassi. Potresti spiegarci
perché il
poeta sceglie queste immagini per raccontarci il suo lutto?»
Demian
arricciò le labbra in un sorriso
ferino e beffardo. Non aveva il libro di testo e di certo non gli
serviva,
“Pianto Antico” era, appunto, una poesia che alle
medie veniva fatta imparare a
memoria oltre ad essere chiara e desolante in modo struggente.
«La
parafrasi in certi casi è superflua,
certe cose non hanno bisogno di essere spiegate, si spiegano da
sole» ribatté tranquillamente,
con un’alzata delle iridi chiare alle luci al neon del
soffitto.
«Sottolinea
l’ovvio per i comuni mortali»
insisté piccato il professore, e a lui venne solo da
sorridere. Non era una
punizione, era un gioco. Gli erano sempre piaciute le poesie, aveva
passato
interi pomeriggi con maman a leggerne per poi discuterne per ore, era
dolce
come solo un’abitudine poteva esserlo.
Era
un amore viscerale per le parole che
Jenevieve aveva trasmesso a lui e a Sarah fin dall’infanzia,
le parole di altri
per trovare un senso ed una voce alla sua anima che sapeva solo
dimenarsi e
contorcersi e urlare senza articolare suoni. Ed era questo,
ciò di cui parlava
Carducci, il suo singolo sentimento diventava comune, esprimeva una
sofferenza
che Dem non sarebbe mai riuscito a pronunciare.
«Parla
del dolore, il dolore di ciò che è
perduto e che non si può riavere» si
ritrovò a mormorare. Le dita accarezzavano
piano la superficie liscia della foto come se potessero attraversarla
ed
arrivare a sua sorella e sfiorarla con la medesima dolcezza
«Ci sta dicendo che
la natura non muore mai, non per davvero. Che se una foglia cade in
autunno
rinascerà sempre a primavera. Ma per l’uomo non
è così e non c’è nessuna
fede
che salvi… quando perdiamo qualcuno lo perdiamo per sempre,
la morte è solo
assenza e fa male come morirne. L’autore ha perso suo figlio,
il mondo attorno
a lui potrà anche rinascere e il tempo continuare a scorrere
ma questa realtà
non può cambiare… ed è una sorte
contro natura, quella umana, che non segue un
vero corso, perché un padre non dovrebbe mai sopravvivere al
proprio figlio»
Un pesante silenzio gli fece eco, Demian sollevò lo sguardo
dalla foto per
posarlo sulle file di persone sedute davanti a lui, quasi tutte intente
a farsi
i propri affari o almeno a fingere di farli. Alcuni suoi compagni, con
cautela
intimorita, lo studiavano, coprendosi la bocca con la mano per cercare
di
celare i mormorii di commenti inadeguati. C’era pena in
quegli occhi,
compassione, una pietà annichilente che lo spinse a mordersi
l’interno della
guancia per soffocare la morsa di disagio. Giulia era completamente
girata,
rivolta verso di lui in modo quasi sfacciato, non esitava a mostrargli
che lo
stava fissando ed anzi, sembrava proprio intenzionata ad intercettare
il suo
sguardo, forse per leggervi quelle parole che non avrebbe mai
pronunciato.
Era davvero dispiaciuta, c’era qualcosa di profondamente
innocente e buono in
lei e per questo non riusciva ad odiarla, nonostante gli fosse
tragicamente
facile pensarla un’insopportabile impicciona.
Chinò il capo ancora sulla foto,
sull’incredibile sorriso a trentadue denti della sua petite
peste, sui capelli
castano dorati che le incorniciavano il volto in una massa arruffata
mentre
mangiava il gelato, con la guancia sporca di panna montata e gli occhi
strizzati in mezzelune di brillante sole. Lo salutava con la mano
libera, era
seduta su uno scivolo rosso del parco giochi ed era radiosa quel
giorno, lo
ricordava, l’avevano scattata l’estate appena
trascorsa, zio Jean aveva portato
Jenevieve all’aperto e Sarah si era divertita moltissimo.
Il dolore di Carducci forse Demian poteva capirlo davvero, perdere
Sarah
significava per se stesso divenire un ramo secco e morto incapace di
sperare in
una nuova primavera, come se il sole venisse spento
all’improvviso ed il modo
scivolasse nel buio di un’esistenza vuota e apatica.
«Interessante»
borbottò Morelli con
meraviglia, prima di annuire per poi puntare l’attenzione su
qualcun altro e
proseguire l’analisi del testo.
***
Aveva
approfittato
subito del cambio dell’ora per uscire a fumare, si era
accomodato, quasi
sdraiato, sui gradini delle scale antincendio, con la schiena
appoggiata al
muro e la testa reclinata all’indietro, a guardare il
soffitto senza vederlo
davvero, una gamba piegata sosteneva il suo braccio, l’altra
restava mollemente
distesa, come priva di forze. Piovigginava ancora, acqua leggera come
polvere
sottile. Demian ne era incantato, si smarriva in quelle linee fini che
fendevano l’aria e allora una malinconia prepotente gli
pesava nel petto come
un nodo che andava stringendosi, e quel malessere era tanto familiare,
struggente, da portare con sé un po’ di
serenità che forse era, in realtà, solo
una rassegnazione impotente.
Il
cellulare vibrò
nella tasca dei jeans facendolo sussultare e strappandolo dal suo sogno
estatico. Lo tolse lentamente, provava sempre un moto di orrore quando
quell’aggeggio reclamava la sua attenzione, un permeante
senso di ansia nel
vedere chi l’avesse cercato. Quando leggeva il nome di Claire
gli tremavano
ogni volta le mani, poteva significare che Sarah era stata male, troppe
volte
si era dovuto precipitare dalla bimba, troppe volte il terrore
l’aveva
paralizzato e aveva pensato che doveva finire tutto, che non ce la
faceva a
sopportare quel panico.
Per
Demian ormai le
chiamate di Claire significano sempre e solo che Sarah aveva bisogno di
lui e
si odiava e si vergognava anche con se stesso nell’ammettere
che detestava
leggere il nome di Claire su quel dannato display, soffriva troppo e
non
riusciva a sopportarlo.
Zia
Claire
Buongiorno
Dami, sei a scuola?
oggi
dopo pranzo andrò a trovare Jen, devo
farle sapere qualcosa?
Ah,
Sarah ha chiesto quando potrà vederti di
nuovo
2/10/2001
9:08
Avrebbe
dovuto regalare un cellulare a sua
sorella, almeno avrebbero potuto sentirsi ogni volta lei lo desiderasse
senza
passare prima dalla zia, si sarebbe risparmiato un paio
d’infarti.
Ridacchiò
piano, sarebbe mancato solo un suo
infarto per chiudere il cerchio paradossale che era la sua vita.
Demian
Di a maman che arriverò sul tardo pomeriggio e
cenerò con lei e a Sarah che
passo a prenderla verso le tre
2/10/2001
9:13
Zia Claire
Ok,
ma non pensare che non mi sia accorta che
non mi hai detto se sei a scuola.
Ci
vediamo presto tesoro. Abbi cura di te, ti
voglio bene
2/10/2001
9.15
Non
smise di sorridere, anche se si sentiva
un poco triste e in colpa.
Sentirsi
chiamare “tesoro” lo turbava, di
certo un tesoro non lo era ma probabilmente la zia non voleva
ammetterlo.
Schiacciò il mozzicone della sigaretta contro il gradino e
si decise a
rientrare in classe. La lezione era già iniziata da almeno
dieci minuti, perciò
non si sorprese di trovare la porta dell’aula chiusa ed il
professore in piedi
davanti alla lavagna. Ciò che lo lasciò perplesso
abbastanza da fargli perdere
qualche secondo davanti all’ingresso, fu ritrovare il banco
accanto al suo
improvvisamente occupato da una figura sufficientemente minuscola da
apparire
insignificante. Un ragazzo mingherlino e dall’aria sfigata,
con grandi occhiali
a fondo di bottiglia, si dimenava sulla sedia neanche fosse posseduto
per
cercare d’intravvedere l’esercizio alla lavagna.
«Lemaire»
lo apostrofò subito il professor
Albani, uno dei pochi insegnanti che gli fosse familiare, visto che
aveva già
avuto il piacere d’intrattenere rapporti complicati con lui
l’anno precedente
«Quanto tempo»
«Buongiorno
prof. Sentito già la mia
mancanza? Sono passate solo un paio di settimane» Demian gli
sorrise con eccessiva
arroganza, per provocarlo. Era consapevole che la sua noncuranza era la
causa
principale dell’indispettirsi dei professori nei suoi
confronti, ma lui stesso
era sempre stato profondamente scocciato dalle stupide e inappropriate
frecciate dei docenti e non era mai riuscito a nasconderlo.
«Va’ al posto» sibilò astioso
Albani «E aspetta l’intervallo prima di andare a
fumare»
Annuì, sollevato di aver scampato l’alterco almeno
per una volta, e si diresse
pacatamente al suo posto. Non gli sfuggì il nervosismo del
ragazzino del banco
accanto al suo mentre lo studiava come un alieno, così come
non poté non notare
tre ragazzi voltarsi verso lo sfigato con un ghigno meschino e
derisorio.
Folgorato, comprese che probabilmente lo avevano costretto a sedersi
accanto a
lui, quello non doveva essere il posto abituale del mingherlino.
Pensavano
seriamente che l’avrebbe picchiato,
maltrattato o comunque praticato su quel ragazzino una qualsiasi forma
di
violenza?
La
sua fama in quella scuola doveva essere
precipitata ulteriormente, perciò si morse
l’interno della guancia e decise
d’ignorare il nuovo vicino per riprendere con la sua lettura
della mattinata,
giusto per non dare adito a strane idee di bullismo psicologico o
verbale.
Aveva
preso l’abitudine, quando trovava
qualche frase che lo colpiva particolarmente, di sottolineare il brano
con la
matita per trascriverlo successivamente, una volta arrivato a casa, su
un
qualunque spazio disponibile della superficie di legno con cui aveva
ricoperto
una parete di camera sua, in un vero e proprio collage di frasi
sconnesse.
Erano i suoi promemoria, i suoi mantra di vita, forse solo un tentativo
di
sostituire le classiche parole, i consigli, che avrebbe dovuto dirgli
un adulto
serio e presente quando fosse rientrato a casa. Le conosceva tutte a
memoria,
gli erano familiari e gli davano l’impressione che ci fosse
qualcuno ad
aspettarlo, anche se si trattava di un personaggio immaginario di un
qualche
racconto stravecchio di secoli.
“Tutti gli
uomini sono fatti della stessa argilla; nessuna differenza, almeno
quaggiù,
nella predestinazione; la medesima ombra prima, la medesima carne
durante, la
medesima cenere dopo”
Tastò
il banco alla ricerca di una matita,
senza distogliere gli occhi dalle pagine, e non si ricordò
subito di aver
dimenticato l’astuccio, quel giorno.
Imprecò
sottovoce e rimase a fissare truce le
lettere che gli danzavano davanti, incerto su come segnarsi la pagina
senza
rovinarla. Non voleva correre il rischio di scordarsi la citazione e
sapeva
che, matematicamente, di lì a qualche ora avrebbe
dimenticato dove ritrovarla,
quando il timido ragazzino accanto a lui, notando il suo improvviso
nervosismo,
gli porse titubante una matita.
«Ti
serve?»
Demian
arricciò le labbra, quasi risentito.
È evidente
che mi serve, che domanda idiota.
Avrebbe
voluto dirlo ad alta voce, ed invece
rimase zitto e cercò di non guardarlo. Non poteva prenderla
e basta, quella
stupida matita, sarebbe stato scortese, e tuttavia non voleva nemmeno
parlargli, non voleva correre il rischio di aprire una porta
che desse il
via ad un dialogo imbarazzante.
Si
morse la guancia e fissò le pagine con
finta ostinazione, studiando con la coda dell’occhio
l’intimidito compagno che
non aveva ancora guardato in faccia. Il
ragazzo con cui non voleva parlare, con
un’espressione tra il sollevato e
il rassegnato, appoggiò la matita nella sua parte di
bancata, abbozzò con
l’angolo della bocca un sorrisino contrito e tornò
a concentrarsi sul suo
esercizio.
Demian
ne rimase spiazzato. Esitò un istante,
il tempo che quello strano individuo senza nome ci mise per tornare a
seguire
la lezione, poi afferrò di soppiatto la matita e
sottolineò con decisione il
paragrafo. Si sentì immediatamente meglio, ma non era certo
fosse solo per
essere riuscito a soddisfare le proprie fissazioni.
Non l'avrebbe ringraziato, era sottinteso che fosse grato, non
c’era bisogno
di parole. Squadrò ancora quel profilo spigoloso e indeciso
e ne sorrise, si
sorprese nel provare una sorta di simpatia per quel piccolo secchione.
ANGOLO
AUTRICE
BUON ANNO A TUTTI!
E buon compleanno a
me! XD
Pensare
di
scrivere due righe tra Natale e Capodanno è sempre utopia,
ma io ci ho provo lo
stesso perché sono tenace e non mollo!
Ieri
sera,
per festeggiare il mio genetliaco, sono andata al cinema, e siccome non
sono
una persona, ma l’incarnazione di uno spazio pubblicitario
per le cose che amo,
vi inviterò ad andare a vedere il nuovo Star Wars per la
quale mi sto ancora
rotolando per terra.
Anche
solo
per gli ultimi tre secondi, bisogna vederlo, dico sul serio, non
supererò
facilmente il coccolone che ho provato per quell’unica
inquadratura che sa di
omaggio ed è tristissima (se siete fan della saga capirete,
se non lo siete che
cosa state aspettando? XD).
Concentrandoci
invece sul capitolo, con questo abbiamo più o meno vagliato
gli aspetti
principali della vita del nostro Dami, ovvero la famiglia, gli amici ed
ora la
scuola.
È
parecchio
complessato, lo so, ma proprio per questo è per me
tremendamente adorabile. Non
ho granché da dire, vorrei sentire cosa avete da dire voi,
mi piacerebbe
davvero moltissimo, fatevi avanti senza timore!
Vi
incentiverò
con la banale scusa che il mio compleanno è appena passato
per ammorbidire il
vostro cuoricino e magari spingervi a sprecare due minuti per me.
Sarebbe
un
gesto molto carino!
In caso non funzionasse, tanti auguri! Il prossimo
capitolo è anch’esso
già pronto e dovrebbe arrivare settimana prossima insieme ad
un nuovo
personaggio che spero vi piaccia!
Ps: quando dico che ascolta i Blur, in
realtà nella mia testa sono molto
più specifica, ascolta Song 2, uno dei brani rock
più famosi di sempre, giusto
per non essere un poco banale XD
|
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Capitolo 5 *** Per caso ***
À Demian
Capitolo quarto (prima parte)
Per
caso
Quando
la campanella suonò, decretando finalmente la fine di sei
ore interminabili di supplizio, Demian chiuse gli occhi e
inclinò la testa
all’indietro con un sospiro di sollievo, lasciandosi
scivolare scompostamente
contro lo schienale della sedia. Era stata una mattinata tragicamente
lunga e
solo le tre ore di modellato erano riuscite a distrarlo un poco.
Siccome era
ripetente, il professore invece di commissionargli ancora la scultura
di un
piede, che già si era dovuto subire, gli aveva permesso
insieme ad un altro bocciato
di entrare nella stanza dove la scuola conservava i modelli e di
sceglierne uno
autonomamente.
Davanti
a scaffali invasi da modelli di diversa difficoltà, Demian
aveva optato per una testa di tigre scuoiata. Le fauci aperte in un
ruggito
sofferente e i muscoli delineati ed esposti lo avevano stregato. Il
professor
Sala non ne era stato molto convinto, ma era l’unico a vedere
in lui un talento
e non un fallito perciò lo aveva assecondato con quel suo
scetticismo da acido
artista e Dem aveva scommesso con se stesso che ci sarebbe riuscito e
l’avrebbe
fatto in meno di dodici ore. Anche il suo compagno di classe lo aveva
imitato,
probabilmente per non essere da meno, e su quella scultura si erano
dannati
tutta la mattina.
Era
stato l’unico momento di tregua che aveva avuto.
Leggere
gli era risultato impossibile, non era abbastanza
concentrato, in due ore era avanzato di una manciata di pagine, si era
ritrovato più volte sulla stessa riga e aveva capito che non
sarebbe riuscito a
sfuggire ai propri pensieri.
Non
poteva smettere di pensare al ragazzino della sera prima, come
diapositive i ricordi di quel corpo inerme e devastato accasciato a
terra gli
scorrevano sotto le palpebre ogni volta che chiudeva gli occhi. Non
aveva
potuto accertarsi di come stesse, era dovuto fuggire come il
più vile codardo
per evitare problemi, ed ora avrebbe solo voluto sapere se stesse bene,
forse
sarebbe bastato a lavarsi un poco la coscienza.
Forse.
Ma
non ci credeva nemmeno lui.
Troppo
preso a rincorrere i propri sensi di colpa, Demian non si
accorse subito che il compagno di banco aveva rifatto rapidamente il
proprio
zaino e si stava già per avviare fuori dall’aula.
Dava l’impressione di avere
molta fretta, forse non vedeva semplicemente l’ora di
allontanarsi da lui, non
se ne sarebbe stupito. Allungò comunque una mano verso la
manica del ragazzo e
gli strattonò bruscamente il braccio, per attirare la sua
attenzione.
Il
compagno spalancò gli occhi resi enormi dalle lenti e
s’irrigidì, un cerbiatto braccato nella prateria.
Riuscì, con quel suo stare in
guardia fin troppo eccessivo, a strappargli un sorriso, e con quel
sottile
accenno sulle labbra Dem gli porse la matita.
Non
gli stava antipatico, era quella la verità, era piccolo e
minuto, con il volto un poco segnato dall’acne e
l’aspetto dinoccolato e
impacciato insieme, come una buffa caricatura di un adolescente
qualunque.
Conosceva quella postura, un po’ curva, di chi può
difendersi solo da sé e
cerca di farsi piccolo per poter sparire, era un peso a Demian fin
troppo
familiare. E, nonostante l’atteggiamento indisposto e
scostante e tutto
l’impegno che profondeva nel sembrare terribile, Dem non
voleva esserlo
davvero. Avrebbe solo voluto sapere come sarebbe stato trovare qualcuno
a cui
non importasse nulla di quella maschera fusa al suo volto, che
riuscisse a
vedere oltre il suo ridicolo tentativo di essere un rivestimento che
aderisse
alle idee altrui, per assecondare quella triste idea di sé
che tutti avevano,
perché a nessuno importava di leggere tra le righe, nessuno
glielo aveva mai
chiesto, come fosse in realtà, se ci fosse altro oltre a
ciò che avevano scelto
di vedere in lui.
Ogni
suo gesto andava letto tra le righe, ma si era quasi
rassegnato al fatto che nessuno parlasse la sua lingua dato che nessuno
aveva
mai davvero capito.
Non
si meravigliò quando il compagno di banco, con aria
preoccupata, fece guizzare rapidamente gli occhi da lui alla porta
prima di
afferrare frettolosamente la matita e allontanarsi quasi correndo,
senza dirgli
una parola.
Non
se ne meravigliò ma non poté esimersi dal provare
un leggero
moto di delusione.
Abbassò
la mano lentamente, assorto, lo sguardo fisso come a
cercare ancora una persona che era già sparita.
«Non
è come pensi»
La
voce sottile e delicata di Giulia lo aveva riscosso, si volse
per guardarla mentre con malcelata cautela la ragazza si avvicinava
piano al
suo banco, come aveva fatto quella stessa mattina. C’era una
prudenza diversa
ora nel suo rivolgergli la parola che riuscì a infastidirlo.
Inarcò un
sopracciglio in un’espressione eloquente di
perplessità, e incrociò le braccia
al petto, rilassandosi contro lo schienale della sedia come a darle un
invito
implicito a proseguire, per dare un senso alla sua invadente uscita.
Giulia
arrossì, chinò appena la testa e prese a giocare
distrattamente con una ciocca di capelli «Non è
scappato per colpa tua. Barbi
intendo, lui fa sempre così quando finiscono le lezioni,
scappa sempre. Te lo
dico perché mi è sembrato che ci fossi rimasto
male.»
Demian
si morse l’interno della guancia e deviò lo
sguardo.
Che
quella sconosciuta avesse colto il suo disagio lo faceva
sentire umiliato, ma non l’avrebbe mai ammesso. Rifiutava con
tutto se stesso
di potersi far ferire da simili sciocchezze, nella vita aveva ricevuto
rifiuti
come essere umano decisamente più dolorosi, doveva essersi
fatto le ossa, era
una questione di principio «Non ci sono rimasto
male» chiarì, lasciando
trapelare involontariamente una nota di infantile testardaggine di cui
Giulia
sorrise con condiscendenza.
«No,
infatti. Non sei il tipo, sei al di sopra di tutto, no?»
Aveva
assottigliato gli occhi in fessure ostili di freddo ghiaccio
e le aveva scoccato uno sguardo astioso, ma Giulia non aveva smesso di
sorridergli, le guance rosse velate d’imbarazzo. Lo aveva
salutato agitando la
mano, balbettando qualche incomprensibile parola di commiato, e se ne
era
andata come se la sua collera non l’avesse minimamente
sfiorata. Forse, aveva
valutato tra sé mordendosi l’interno della
guancia, con la fronte corrugata e le
sopracciglia chiare corrucciate in disappunto, rispetto al trattamento
che le
aveva riservato quella stessa mattina l’occhiataccia appena
ricevuta doveva esserle
sembrata un sorridente biglietto d’invito.
Ma che diavolo vuole quella, che
all’improvviso deve parlarmi per forza?
Non
era stato abbastanza sulle sue, doveva essere più scocciato
e
recalcitrante se voleva sperare di liberarsi di possibili, futuri
scocciatori,
ma non aveva pensato che nella nuova classe si sarebbe imbattuto in
soggetti
così seccanti.
Lasciò
cadere la testa a ciondoloni all’indietro e
sospirò ancora,
un’abitudine per scaricarsi e riprendere il controllo della
situazione quando
aveva l’impressione che questo gli sfuggisse. Erano usciti
praticamente tutti e
anche lui si decise finalmente ad abbandonare il proprio banco.
Era
una giornata storta, avrebbe voluto raddrizzarla vedendo
Sarah, magari portandola a prendere un cellulare, eppure non riusciva a
trovarne la voglia.
Più
grave, non riusciva a trovarne il coraggio.
Era
un bugiardo che mentiva a se stesso, ma aveva solo paura,
ciò
che gli faceva desiderare di stare lontano da sua sorella in quel
momento era
la sua vigliaccheria. Sarah era uno specchio in cui scorgeva la propria
imperfezione, lo sarebbe sempre stata con quei suoi occhi grandi e
limpidi,
puliti di un mondo incontaminato che lui non aveva mai conosciuto, uno
sguardo
sognante nella quale talvolta si smarriva. Quando poi la sua coscienza
era più
sporca del solito la evitava come fosse il peggiore dei mali
perché quel
sorriso aperto, quella sua dolcezza adorante da bestiolina che gli
riservava,
lo facevano sentire tragicamente in difetto, lo costringevano a fare i
conti
con se stesso e a ricordarsi costantemente che non era e non sarebbe
mai stato
quello che avrebbe dovuto essere per renderla fiera di lui, per essere
degno di
lei.
Si
sentiva fuori posto e si trovava costretto a mentirle piuttosto
che avere il coraggio di sopportare il suo biasimo. Sarah era tutto il
suo
mondo e ogni cosa che potesse desiderare, come poteva reggere un suo
ipotetico
rifiuto se non fosse riuscita ad accettare la terribile e imperfetta
persona
che era?
Come
avrebbe sopportato un pomeriggio accanto a lei?
Con
che coraggio le avrebbe parlato, con che forza avrebbe potuto
sorriderle, fingendo che tutto andasse bene, che fosse felice, che non
fosse
diventato esattamente come quelle persone che disprezzava dal profondo
e che
avevano reso la sua infanzia una strada lastricata di tormenti?
Si
coprì il volto con la mano, massaggiandosi
l’occhio in un gesto
di esasperata frustrazione. Gli bastava pensare a quella bambina per
lasciarsi
cadere in un circolo di paranoie e autocommiserazione, era evidente che
anche
quel giorno non ce l’avrebbe fatta a vederla, lo sapeva
perfettamente, ed era
un’autodifesa sciocca e controproducente perché
solo la presenza di Sarah in
realtà avrebbe riassestato il suo mondo e ridato un senso ad
ogni suo gesto.
E,
nonostante questo, si sarebbe negato la sua cura, perché
Sarah
era l’incarnazione della sua coscienza ancora limpida e
perfetta, completamente
fuori dalla sua portata, non la meritava, non quando era
così infangato.
Fuori,
l’aria fredda gli pizzicò il naso. Aveva smesso di
piovere
ed il sole, pallido vessillo riflesso su un cielo cangiante di nuvole,
emanava
una luce debole e fastidiosa che sembrava rimbalzare da una superficie
all’altra. Si ritrovò costretto a strizzare gli
occhi più volte, ma non bastò a
lenire il bruciore, allontanò i capelli dal viso e
rilasciò una boccata di fumo.
Mentre
si avviava lentamente verso il retro della scuola, nella
sezione del parcheggio nascosta dell’edificio e lontano
dall’ingresso perché
quella mattina era arrivato tardi e tutti i posti erano già
stati occupati,
riconobbe delle voci concitate, ma non ne distinse le parole.
A
causa della sua inutile fotosensibilità quando la luce era
così
iridescente diventava più cieco di una talpa, non riusciva a
tenere gli occhi
aperti e non vedeva a più di un metro di distanza, per cui
gli fu impossibile
mettere a fuoco i proprietari di quelle voci tanto rumorose.
Fortunatamente il
suo casco aveva la visiera oscurata o quel giorno sicuramente si
sarebbe
schiantato contro una pianta prima di raggiungere casa. Non vedeva
l’ora che
arrivasse l’inverno, con un po’ di fortuna e magari
un po’ di pioggia e di neve
si sarebbe risparmiato anche le lenti che mal sopportava visto che gli
irritavano la sclera rendendo i suoi occhi ancora più
arrossati ed inquietanti
di quanto madre natura avesse deciso. Sulla sua carnagione risaltavano
anche
troppo, due gocce di sangue in campo bianco.
Le
voci attirarono ancora una volta la sua attenzione e Demian,
tenendo la sigaretta tra i denti, si sforzò di mettere a
fuoco la situazione
facendosi ombra con le mani per vedere più lontano,
ingoiando l’umiliazione.
Gli
occhiali da sole erano la soluzione, sciocco lui che quel
giorno li aveva dimenticati a casa.
Finalmente
riconobbe il suo compagno di banco mingherlino e goffo
proprio mentre veniva spintonato da un ragazzo che, a intuizione, era
almeno il
triplo di lui e il doppio di Dem. Vide “Barbi”, se
questo era il suo nome,
cadere a terra, dritto in una pozza. I suoi occhiali scivolarono sul
suo naso e
caddero a terra, mentre il suo aguzzino gli urlava contro qualcosa.
Demian
si ritrovò a rallentare il passo fino a fermarsi, per poter
assistere alla scena.
Perché cavolo deve succedere
proprio mentre passo io?
Non poteva succedere dieci minuti
prima?
O anche dopo, putain, ma non
mentre io sono nei paraggi!
Rosicchiò
il filtro della sigaretta, combattuto sul da farsi. O
almeno, avrebbe voluto essere combattuto, ma in verità si
era fermato solo per
darsi del cretino per ciò che stava per fare e per cercare
di convincersi a non
andare e a starne fuori.
Ovviamente,
dopo le etiche azioni della sera prima, gli sarebbe
stato impossibile far finta di nulla o davvero stavolta si sarebbe
dannato
l’anima per tutta la vita.
«Lascialo
stare!» si era sfilato la sigaretta dalla bocca e lo
aveva urlato prima ancora di rendersene conto. Aveva gettato il
mozzicone a
terra e a passo deciso avanzava verso l’armadio a due ante
che sovrastava il
piccolo Barbi. Non sapeva se fosse o meno uno studente, se lo era
doveva essere
come minimo del quinto anno, al contrario di lui sembrava
già un uomo, un
adulto e non un ragazzino. Più l’immagine
dell’energumeno si definiva ai suoi
occhi più una parte di lui si pentiva di non essersi fatto
gli affari propri.
Non che non avesse esperienza nell’andare alle mani con
soggetti all’apparenza
più prestanti, ed infatti allo sconosciuto Demian
mostrò solamente la sua aria
spavalda e provocatoria che, sapeva, avrebbe fatto arrabbiare quel
gigante solo
di più.
«E
tu chi cazzo sei?»
Ormai
a pochi passi di distanza Demian si accorse che il ragazzone
non era più alto di lui, erano solo le braccia e i pettorali
pompati a farlo
apparire più ingombrante, nulla che fosse ingestibile.
Portava i capelli
cortissimi e in quella cortina di pochi millimetri compariva una
svastica
rasata grande tutta la nuca. Un naziskin era esattamente quello che gli
serviva
per dare il giusto brio alla sua giornata.
Anche
il suo compagno di classe stava assistendo alla sua comparsa
con altrettanta confusione, come fosse un’apparizione
sovrannaturale, e a
Demian venne spontaneo pensare che forse, con quella luce cangiante,
doveva
sembrare un rilucente fantasma.
Sorrise
ferino, mostrando con la sua smorfia provocatoria il
canino storto «Ti rigiro la domanda, bestione. Sei uscito
dalle pagine di Mary
Shelley, per caso?»
L’energumeno
rasato si accigliò, mostrando quella che doveva
essere probabilmente la sua espressione più brillante, da un
neonazista non si
aspettava di certo picchi di folgorante intelligenza.
«Frankenstein!?»
rincarò Dem, ironico, sperando che almeno
cogliesse la battuta, ma ne seguì solo un momento di
perplesso silenzio.
«È
amico tuo?»
Il
naziskin si rivolse al suo compagno di banco ancora sdraiato a
terra senza occhiali, e quello prontamente scosse la testa.
Eh, ti pareva. Aiuti un idiota e
quello ti pianta in asso proprio mentre gli tendi la mano.
Piccolo vigliacco
Non
che gli importasse davvero del supporto di quello smidollato,
non si era messo in mezzo per lui, non davvero. Lo stava aiutando solo
per
poter avere una ragione valida con se stesso per guardare di nuovo
negli occhi
la sua bestiolina, senza dannarsi l’anima e desiderare di
spaccarsi la testa
contro il primo spigolo utile.
Aveva
scrollato svogliatamente le spalle «Nessuno sarebbe amico di
un omuncolo» chiarì scoccando al ragazzino
occhialuto un’occhiata indifferente «Ma
gli devo una matita» sfidò Frankenstein con il suo
sorriso più beffardo «Mettiti
in coda se ne vuoi una anche tu»
L’espressione
dubbiosa del suo brillante interlocutore lo fece
ridere di sottile scherno, voleva restare impassibile ma proprio non ci
era
riuscito, quello sguardo vacuo era solo la conferma che non si trovava
di
fronte un genio, non che avesse nutrito dubbi a riguardo.
Gli
occhi di Barbi ora erano immensi sul suo viso smunto anche
senza gli occhiali che ne deformavano l’immagine.
«Mi
stai prendendo per il culo?»
Demian
si schiarì la gola per far scemare la risata e assunse il
suo atteggiamento inflessibile e senza traccia di timore, anche se da
qualche
parte ne provava «Quindici secondi per capirlo, non sei
così stupido! Pensavo
ce ne avresti messi come minimo trenta»
Nonostante
fosse estremamente prevedibile, Dem non fu abbastanza
svelto da schivare il pugno che, preciso e veloce, lo colpì
in pieno volto,
sullo zigomo. Il contraccolpo lo fece vacillare, già sentiva
il sapore
ferruginoso del sangue che si diffondeva in bocca, ma non ebbe il tempo
di
soffermarcisi. Frankenstein gli si avventò contro, caricando
ancora il destro
che Demian scansò prontamente, deviò il braccio
dell’energumeno e gli assestò un
pugno nello stomaco. Lo vide dilatare gli occhi per la sorpresa, mentre
la
bocca si apriva e gocce di saliva restavano sospese fra di loro. Fu
solo
qualche secondo esteso, poi Demian mirò a quella faccia
larga e informe da
ominide sotto steroidi. Ne seguì un grottesco
“croc” quando il naso di lui si
accartocciò come argilla sotto le sue dita, il naziskin si
lasciò sfuggire un
guaito animalesco e si allontanò velocemente di qualche
passo.
Aveva
colpito bene, il ragazzo si portò le mani sul volto e
imprecò chinandosi, come a contenere il male che provava
mentre un rivo di
sangue colava dalle narici e gli bagnava le labbra e il mento.
Il
viso di Demian pulsava terribilmente, ma strinse i denti e
ingoiò gli spasimi di sofferenza usando tutta la forza di
volontà di cui
disponeva per mascherare il dolore e restare dritto, sprezzante e
impassibile.
Aveva imparato molto tempo prima ad incassare ed aveva sviluppato una
certa
resistenza che forse era solo troppo orgoglio.
«Sparisci
cazzo, sparisci o giuro che ti ammazzo, ti spacco la
faccia!» urlò
Frankenstein, gli occhi
iniettati di collera e le vene del collo e della tempia che palpitavano
come
piccoli bruchi grassi, era talmente sfigurato dalla collera che Dem non
dubitò
nemmeno un istante che l’avrebbe fatto, ma non ne fu
minimamente preoccupato.
«Facciamo
che te ne vai tu. Oggi sono stanco e ho altri impegni,
trattare con voi bestioni non è il mio passatempo
preferito» gli sorrise
sfacciato, ignorando il dolore che si spandeva dallo zigomo al resto
del volto.
Era più inquieto per lo stato della sua faccia che per
l’innocuo bestione
domestico che sapeva solo sbraitare ma non aveva i denti.
«Questo
stronzo mi deve dei soldi!» urlò ancora il ragazzo
rasato.
Era frustato ma non accennò ad avvicinarsi più.
Demian
si passò stancamente una mano fra i capelli appiccicati
alla fronte per l’umidità, si soffermò
prima sul gigante, poi sul piccolo Barbi
ancora seduto a terra come incredulo. In un primo, astruso pensiero,
tutto
passò in secondo piano e riuscì a domandarsi solo
il perché di quello stupido
soprannome: giocava con le bambole? Lo prendevano in giro
perché era gay? lo
avevano beccato al Toys Center nel reparto bambine?
Gli
ci vollero un paio di secondi buoni per focalizzarsi sulla
questione importante, la più paradossale: Frankenstein in
versione mansueta che
cercava quasi di intenerirlo per portarlo dalla sua parte. Ci voleva un
certo
coraggio, Dami gliene dava atto, considerando che probabilmente aveva
reso la
sua faccia abbastanza malconcia da non poter nemmeno pensare di
mostrarla alla
sorella.
Barbi
sembrava un cucciolo passivo e spaventato.
«È
vero?» gli chiese soltanto, senza particolare interesse.
Stentava a crederlo possibile, ma il compagno di classe
annuì titubante.
«Da
un mese» rincarò Frankenstein, strappandogli un
altro, ironico
sorriso.
Gli
era difficile pensare che un ragazzino come Barbi,
dall’apparenza
innocua e cheta, un tipo tutto “casa e chiesa”,
avesse comprato delle droghe di
qualunque tipo. Se l’apparenza ingannava però,
allora la sua teoria sulla
possibile perversione che spiegasse quel soprannome femmineo prendeva
corpo.
Si
massaggiò la radice del naso con il pollice e
l’indice, prima
di decidere «Senti, ti pagherò io. Passa stasera
nel parco vicino alla
stazione, dal lato del parcheggiò
dell’Edonè e avrai quanto ti deve»
Il
naziskin s’irrigidì e si drizzò come
fulminato. Lo sguardo
vacuo si era ad un tratto illuminato di consapevolezza «Tu
sei quel fottuto
albino, quello che gira con Niko»
Non
era una domanda, la vena di rispetto e timore che aveva
permeato la sua voce era un chiaro segnale che lo conoscesse, in molti
lo
conoscevano. Nicolas era noto nell’ambiente e così
lui, che lo accompagnava
ovunque ed era il suo protetto, lo era di rimando. Inoltre il suo
bizzarro
aspetto non gli permetteva di passare inosservato.
Abbassò
le spalle «Sono io»
Voleva
solo sussurrarlo, ma la vergogna gli grattò la gola in un
ringhio ostile.
Frankenstein
si pulì con la manica il sangue che si stava seccando
sulla barba e le labbra e annuì cauto «Se non ci
sarai stasera, verrò a
cercarlo ancora. E troverò anche te»
***
L’asfalto
era ancora umido di pioggia ma Barbi era rimasto
accasciato a terra, anche dopo che il suo aguzzino se ne era ormai
andato. Gli
tremavano le mani, era troppo agitato perché Demian potesse
lasciarlo solo in
quello stato così, senza dirgli una parola, lo aveva aiutato
a rialzarsi, aveva
raccolto i suoi occhiali e alla bell’e meglio li aveva puliti
nella sua felpa
prima di renderglieli.
Barbi
si era trascinato fino al muro del retro della scuola e lì
si era seduto. Quasi rannicchiato, colto da brevi spasmi.
Pur
non volendo, Demian si era seduto accanto a lui, in silenzio.
Con
il passare dei minuti il compagno di classe sembrava essersi
calmato, ma non parlava e restava con le ginocchia tra le braccia, come
un
bambino spaurito, e Dem proprio non sapeva che fare. Non era mai stata
la
persona giusta per dare conforto, non lo aveva mai realmente ricevuto,
lo aveva
sempre rifiutato e quindi, per assurdo che fosse, non era
all’altezza di
confortare a sua volta.
E
allora si mordeva l’interno della guancia e con ostentata
indifferenza studiava quel piccolo secchione mingherlino mangiato dai
vestiti
troppo larghi, un chiodo dai capelli neri, corti, e l’aria da
bambino sperso,
con il naso dalla linea morbida e gli occhi chiusi.
Come
era possibile che un’esistenza dall’apparenza tanto
fragile
avesse deciso di appoggiarsi ad un ragazzo pericoloso e
dall’aria evidentemente
poco raccomandabile?
Dove
lo aveva trovato il coraggio Dem proprio non se lo spiegava.
Anche avesse voluto drogarsi, non si spiegava come fosse entrato in
contatto
con quel decerebrato poco di buono.
Chinò
il capo, oppresso dalla malinconia di un pensiero che non
voleva prendere consistenza perché sarebbe stato troppo
svilente, eppure che
gli piacesse ammetterlo con se stesso o meno la verità non
mutava: lui stesso
non era diverso, non aveva nulla di raccomandabile, non era migliore di
Frankenstein, persino quell’energumeno senza cervello aveva
esitato quando
aveva capito chi fosse.
Nella
catena alimentare di quel sistema, Demian sapeva di essere
persino peggiore e se ne vergognava al punto di non sopportarsi.
«Grazie»
La
voce di Barbi era labile e consumata, leggera di un sussurro
stentato.
Demian
seguì il profilo del suo corpo in tralice, per leggervi
anche solo un segnale che gli facesse capire cosa avrebbe dovuto fare o
dire,
ma il compagno restava rigido. Ne dedusse che doveva essere ancora
molto scosso
e perciò si sforzò di abbozzare un sorriso di
circostanza.
Non
sapeva come muoversi, era consapevole di essere lui stesso,
per quel ragazzo, una presenza minacciosa, e questa realtà
lo rendeva imbarazzato
e reticente.
«Te
lo dovevo» borbottò altrettanto piano, stringendo
e tirando la
manica della felpa per coprirsi le dita pallide, la pelle arrossata e
spaccata
sulle nocche.
Barbi
aveva corrugato la fronte e finalmente si era voltato per
guardarlo negli occhi, non con timore, solo con una muta domanda.
«Sai,
la matita» spiegò arricciando le bocca
nell’angolo destro «Prima
non stavo scherzando»
L’espressione
di Barbi si distese lentamente, lasciando spazio
alle labbra socchiuse in un cerchio di perfetta sorpresa «Per
una cosa così
sciocca? Non è un gran debito» lo
apostrofò.
Demian
s’incupì, risentito a causa di quella leggerezza
che
sminuiva uno dei pochi gesti che aveva apprezzato davvero «Lo
è per me. Mi
serviva» disse lapidario.
Al
suo sguardo gelido seguì un breve attimo di silenzio, come
ponderato. Poi, con sua sorpresa, la postura di Barbi si
rilassò e il ragazzo
iniziò a ridere, quasi istericamente, come una liberazione.
«Non
ci credo, non è possibile. Dicevano che sei un mostro,
quando
quegli stronzi mi hanno costretto a sedermi accanto a te ho temuto di
dovermela
vedere con un altro bullo… ero terrorizzato! E
invece…» continuò a ridacchiare
e si asciugò una lacrima di divertimento e tensione
rilasciata «E invece tu sai
pensare solo ad una matita!» concluse, riversando nel riso
che stemperava tutto
il suo sollievo.
Demian
accennò un sorriso mite scrollando le spalle «Beh,
senza
avrei dovuto segnare il libro. Non sopporto di rovinare i miei
libri»
Il
compagno di classe lo ponderò senza esprimersi tanto a lungo
che Dem iniziò a provare disagio. Non era abituato ad essere
studiato in quel
modo, come se nemmeno si vedesse il colore delle sue iridi o la sua
apparenza.
Si sentiva scrutato fin nelle ossa e si ritrovò quasi
costretto, per sua
personale umiliazione, a deviare lo sguardo.
Alla
fine Barbi gli porse la mano, il volto contratto in
un’espressione
seria e solenne, e Demian non capiva e non ne era sicuro, ma
afferrò comunque
quella mano da artista come lo era lui stesso, che qualcosa in comune
lo
avevano, non erano troppo diversi.
«Mi
chiamo Diodoro Barbadico» disse tutto d’un fiato e
le orecchie
gli divennero assurdamente rosse «Grazie mille per il tuo
aiuto, senza di te
sarei stato nei guai sul serio»
Diodoro Barbadico,
lo ripetè mentalmente, per esserne sicuro.
Almeno ora capiva l’origine di quello stupido soprannome.
«Quando
ho sentito che ti chiamavi Barbi, ho pensato fossi un
pervertito dei giochi per bambine» commentò
involontariamente ad alta voce,
dando suono a quell’immagine per lui buffa del ragazzino
fanatico conciato da
Sailor Moon. Nel complesso trovava quel nome altisonante e terribile,
una
punizione crudele di genitori spietati.
Diodoro
arrossì e fece una smorfia «No, mi prendono solo
in giro.
Sai non sono esattamente virile. E i miei con i nomi sono un disastro.
A me
ovviamente è andata peggio che alle mie sorelle»
A
sentire la parola “sorella”, Demian
sussultò.
«Com’è
la mia faccia?» quasi lo aggredì, cambiando
all’improvviso
atteggiamento e tono di voce, tanto che Diodoro incespicò un
momento, vittima
della sorpresa, prima di riuscire a raccogliere le parole.
«Direi
viola» valutò piano, osservandolo con aria critica.
E
Demian desiderò sprofondare piuttosto che accettarlo
«Molto?»
Ancora
silenzio e Barbi che si mordeva le labbra prima di annuire
«Sufficientemente
per capire che ti sei beccato un bel pugno in faccia»
Dem
si stropicciò il volto con la mano in un gesto di stanchezza
prima di sollevare gli occhi al cielo e liberare l’ennesimo,
pesante sospiro.
Si lasciò scivolare scompostamente contro il muro in un moto
di sconforto. Non
sapeva cosa fare, di certo era consapevole di non potersi presentare
alla sua
bestiolina con il viso devastato, sorriderle e dirle ancora
“tranquilla amore,
sono solo caduto e mi sono beccato uno spigolo infido in piena
faccia”. Sua
sorella non era una sciocca e tantomeno una sprovveduta, non gli
avrebbe
creduto e lui non voleva spiegarle nulla, voleva tenerla fuori da certi
aspetti
della sua esistenza, da certe sue tendenze che la bambina ignorava.
Si
alzò per guardare il proprio riflesso, appena accennato,
nella
finestra di un’aula del piano terra. Il vetro smerigliato gli
rimandava
un’immagine poco definita, ma abbastanza nitida per
identificare la grande
macchia violacea che occupava parte del suo viso. La sfiorò
con le dita e
riconobbe al tatto il profilo in una lacerazione poco profonda ma
comunque
sanguigna.
Una
ferita banale che non gli era però possibile nascondere in
alcun modo.
«Maledizione»
imprecò tra i denti, tastandosi piano la guancia per
non farsi male. Contemporaneamente recuperò il cellulare
dalla tasca della
felpa e iniziò a digitare un messaggio veloce per avvisare
sua zia della buca
che avrebbe dato a Sarah.
La
collera che provava nel dover dare alla sua petite peste
un’altra delusione la stava sfogando con fin troppa foga sui
tasti del
cellulare, e il suo cipiglio doveva essere davvero terribile
perché Diodoro,
rimasto in silenzio durante tutte le sue manovre, domandò
cauto «Tutto bene?»
Demian
lo incenerì con tutta la collera e l’astio che i
suoi occhi
obliqui dal taglio affilato potevano trasmettere. Era indisposto al
punto che,
per quel livido, avrebbe preso a calci anche la Barbi se non si fosse
tolto
rapidamente dai piedi.
«A
te cosa cazzo sembra?» ringhiò in un impeto
d’irritazione «Dimmi
quanto devi a quel fottuto stronzo e facciamola finita»
rimise il cellulare in
tasca e continuò a osservarlo con ostentata rabbia
dall’alto in basso, tanto
che Barbi la sua risposta la mormorò appena, intimidito.
«Non sei costretto
a fare
quello che hai detto» aggiunse poi, sempre a voce sussurrata,
ma Dem si limitò
ad alzare di nuovo gli occhi al cielo «Se non lo faccio
quello ti pesta per
davvero. E comunque non è un regalo, è un
anticipo. Almeno a me potrai ridarli
con calma. Ma domani mi dovrai dare parecchie spiegazioni che ora,
sinceramente, non me ne frega un cazzo di sentire» si
caricò lo zaino in spalla
e si avviò al proprio motorino.
«Tutto
qui?» gli urlò dietro Diodoro.
Ma
Demian scrollò ancora solo le spalle e non gli rispose.
ANGOLO
AUTRICE
Oggi
è una giornata un po’ insolita e quindi non sono
in grado di
trovare parole.
Non
mi succede spesso, ma quando non ho voglia di fare nulla non
faccio proprio nulla, ed infatti non ho ancora incontrato un essere
vivente che
non sia Eldry (il mio cane), né ho comunicato con
alcunché. Per tirare le
somme, questo è il mio primo contatto con il mondo oggi, e
non so che dire,
tantomeno sul capitolo.
È
solo una metà, tra l’altro.
Credo
che tornerò a fissare il soffitto, la verità
è che mi è
stata fatta una proposta insolita che non so se accettare, ma stimo
molto il
lavoro della persona che me lo ha chiesto e per questo sono in dubbio.
E quando
sono in dubbio, vegeto in attesa che lo spirito santo o chi per lui mi
dia in
mano il senso della vita.
Evviva!
Sarebbe
bello se aveste voi qualcosa da dire a me, perciò chiedo
un favore ai nuovi lettori silenziosi, sarebbe un vero onore sentire
anche le
vostre voci, e comunque grazie di esserci, una storia ha valore solo in
relazione a chi la segue.
Nell’apatia
generale mi ritirerò, a presto!
|
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Capitolo 6 *** Per caso ***
ANGOLO AUTRICE
Ben ritrovati viandanti lettori!
Ora, provo un leggero imbarazzo per quello che
state
per leggere, quindi, ehm… beh, ecco… non
c’è niente di peggio che balbettare
pure per iscritto, come se non lo facessi già abbastanza dal
vivo!
Allora, niente, io a scrivere di certi momenti
delicati sono un disastro, soprattutto qui dove non doveva essere
nemmeno un
momento troppo delicato…
Argh, insomma, significa che potrei aver fatto
scempio, ma doveva succedere e quindi sto pazientemente cercando di
mettermi l’anima
in pace e di non seppellirmi in giardino dopo essermi tirata una pala
in testa
da sola!
Se avete consigli per migliorare quel particolare
momento, fatelo, vi prego, perché sono veramente
un’inetta. Sarà che nero su
bianco tutto sembra sempre terribilmente più volgare, non
è incredibile?
Ah, scusate le volgarità, mi ero
ripromessa di
scusarmi anche in passato per il lessico non troppo candido usato dai
personaggi. Normalmente sono contraria alle parolacce nei libri, ma
dipende
sempre dal racconto e, con i personaggi presenti in questa storia,
dialoghi dai
toni colti sarebbero suonati troppo fuori luogo.
Grazie dell’attenzione!
À Demian
Capitolo quarto (seconda parte)
Per
caso
L’ospedale non era lontano dal suo liceo
e, più per
abitudine e istinto che per scelta, Demian si era ritrovato nel grande
parcheggio adiacente al pronto soccorso e lì aveva lasciato
il proprio
motorino.
Gli Ospedali Riuniti avevano due grandi parcheggi,
uno
dei quali sul retro del padiglione principale, e vantavano una
struttura
estremamente singolare, una serie di edifici scollegati l’uno
dall’altro
raccolti intorno ad un grande cortile centrale e raggiungibili
attraverso dei
sentieri di sampietrini consumati.
Demian non aveva più avuto bisogno di
passare dalla
reception per sapere che sua madre era collocata nel padiglione
centrale, a
volte si fermava lo stesso solo per dare a Marisa un saluto, quel
giorno però
non ne aveva avuto voglia.
Aveva preso una cioccolata prima di entrare nella
camera di maman, e quando lei lo aveva visto aveva smaniato come una
bambina.
«Hai già bevuto?»
Le aveva sorriso con condiscendenza «No
maman, non
ancora»
Allora lei, proprio come se una bambina lo fosse
davvero, aveva teso le braccia strizzando le dita «Dammi
subito quel
bicchiere!»
Rassegnato le aveva consegnato la bevanda e
Jenevieve
l’aveva assaggiata appena, facendo schioccare le labbra
secche con
soddisfazione «Ok, puoi berla».
Gli aveva restituito il bicchierino di plastica e
Demian aveva sbuffato «Lo sai che non è necessario
tutte le volte, vero? Va
bene che le infermiere non mi sopportano, ma nessuno proverà
ad uccidermi
nell’immediato futuro… spero»
A Jenevieve non importava niente, era un rituale
suo
che Demian non comprendeva ma assecondava, perché lei
sembrava incredibilmente
felice e appagata dopo, e sorrideva con tutti i denti tra sé
e sé, una sua
piccola e poco chiara soddisfazione personale.
Aveva preso una sedia e si era accomodato accanto
a
lei, ma maman era stanca e poco dopo si era addormentata, lasciandolo
nel suo
contemplativo e abituale silenzio davanti alla parete bianca e spoglia.
Il
letto accanto a sua madre non era ancora stato occupato da nessuno ed
il
silenzio assoluto riusciva solo ad amplificare il senso di risucchiante
vuoto
che tutto quel bianco gli causava.
Era una parola strana
“bianco”, sbiadita, che si
ripeteva all’infinito come un’eco nella sua testa
fino a perdere senso, o forse
se la ripeteva proprio per non pensare ad altro.
Quando Jen dormiva le stringeva piano la mano e
con la
punta delle dita leggere ripercorreva il corso delle vene di lei su
fino
all’incavo del gomito e poi ancora al polso. Sembrava tanto
fragile e dolce che
non poteva fare a meno di diventare estremamente delicato con lei,
sapeva d’indifeso,
un corpo friabile di ricordi lontani.
Inizialmente aveva deciso di raggiungerla quella
sera,
ma al pensiero di non poter vedere la sua Sarah, per ricevere quel
perdono che
sapeva di benedizione, era stato preso da un tale attacco di nostalgia
e
solitudine da non potersi impedire di correre da sua madre, come un
bambino
alla disperata ricerca di un posto sicuro dove rifugiarsi.
Maman
era sempre stata il suo rifugio dal mondo e quando la
rivedeva, evanescente sotto le coperte di cotone, provava solo un
profondo
senso di mancanza e capiva con quanta disperata angoscia la rivoleva a
casa con
sé. A volte era davvero difficile prendersi cura di lei e il
peso di quella
responsabilità lo opprimeva, ma la verità era che
era troppo debole per avere
solo se stesso, non riusciva a sopportarlo. Ogni volta che la
ricoveravano Demian
finiva con il girare a vuoto cercando di restare ovunque meno che in
casa sua,
dove un silenzio fatto di vuoto e abbandono lo uccideva lentamente, lo
demoliva
lasciandolo spossato, fragile e insicuro come quando era piccolo.
Era
tragicamente facile allora, in quei momenti di debolezza,
lasciarsi trasportare dalla corrente per ricadere nel solito baratro di
errori
e ricordi che voleva seppellire, che fingeva di archiviare senza mai
riuscirci
davvero, perché lui era un nostalgico e sapeva solo vivere
delle proprie ferite
e delle cose che aveva saputo perdere, di quelle che avrebbe perso, che
non aveva la forza
di affrancarsi a
nulla e aveva la sensazione che ogni cosa fosse destinata a cadere
oltre il
baratro della sua esistenza per lasciarlo solo nel nulla.
Era
tragicamente facile allora ricordare la voce di suo padre,
ricordare di come fosse tornato a casa un giorno e, semplicemente,
papà non ci
fosse più su quel divano, con la sua chitarra e una birra e
quel volto
annebbiato che Demian non riusciva più a tratteggiare nella
propria memoria.
Era
facile risentire le parole che non avrebbe mai dovuto
ascoltare e che gli avevano sfregiato l’anima. Non era colpa
di suo padre, Dem
se lo era ripetuto spesso, era normale che quell’uomo
sconosciuto lo avesse
vissuto come un difetto di fabbrica, che parlasse di lui con quel tono
accorato
per la sua condizione fisica che lo disturbava. Non era il figlio che
dei
genitori avrebbero voluto e non si era mai fatto illusioni, non
più, non dopo
aver sentito papà manifestare la propria speranza di una
secondogenita sana
perché non avrebbe sopportato che anche lei fosse
così.
Era
stato quel giorno che Demian lo aveva capito con chiarezza, in
lui qualcosa era sbagliato, non era normale e non avrebbe mai potuto
esserlo.
Era
facile poi risentire la mano fra i capelli, in una carezza
leggera e labile, quando gli avevano detto con fin troppa
tranquillità, come se
davvero lui non fosse in grado di comprendere la portata di quelle
parole, che
Sarah era fragile, era unica e debole e andava protetta.
Che
se non fosse stato attento l’avrebbe persa, e
l’avevano detto
così, pacificamente, senza rendersi conto di quanto in
realtà gli stessero
facendo male in un modo nuovo da cui non poteva ancora difendersi.
Era
tragicamente facile ricordare Il Giorno Più Brutto e pensare
ogni volta che suo padre era solo questo, una raccolta di frammenti
sfocati
dalla nebbia dell’età e marciti per il
risentimento di dieci anni di amarezza.
Si
soffermò sulla pelle morbida e sottile come carta velina del
polso di maman e ascoltò il pulsare lento del sangue a ritmo
con il suo cuore.
Era ancora bella come durante l’estate appena passata, sul
suo viso c’erano
ancora tracce di delicato sole e a Demian sembrava quasi di vederla nel
giardino di casa, sul dondolo usurato con una bandana vivace in testa mentre
guardava
Jean che litigava con il vecchio tagliaerba e rideva.
Ci si aggrappava al suo sorriso, alla tenerezza con cui le dita
affusolate di
maman sfogliavano libri di poesie, ma se lei non c’era quel
ricordo non
bastava, e i bocconi amari tornavano e restavano incastrati in gola ed
il senso
d’inadeguatezza lo attanagliava.
Come
poteva non vedere Sarah per giorni?
Si
sentiva ridicolo e meschino ad avere sempre un bisogno tanto
disperato di lei che era troppo piccola.
Bussarono
piano alla porta, più per attirare l’attenzione di
lui
che per chiedere il permesso visto che Jenevieve dormiva.
Demian
alzò lo sguardo da sua madre per incontrare le iridi
d’oro
liquido di zia Claire.
Ed
eccola, la nostalgia, Claire era una fotografia vivente di
maman ringiovanita di qualche anno, quando ancora la malattia non
l’aveva
sfibrata. Erano cresciute come gemelle e come gemelli i loro volti si
ricalcavano.
Gli stessi incredibili occhi dal taglio obliquo e indagatore, ornati da
pesanti
ciglia che quando si abbassavano lasciavano appena intravvedere stralci
d’ambra, gli stessi tratti magri, levigati nella mandibola,
la stessa linea
della bocca, ma le labbra di Claire erano piccole, rosa pastello,
mentre maman
era come lui, aveva labbra carnose e piene.
Entrambe erano bionde, una colata di miele denso, il medesimo che
screziava
anche la chioma un poco più scura di Sarah, solo che la zia
aveva i capelli
mossi e ribelli, con qualche buffa ciocca che si arricciava in molle e
che lei
tratteneva con forcine e fermagli, mentre quelli della sorella maggiore
erano
lisci e disciplinati.
Si
alzò senza far rumore e si avvicinò piano alla
zia, per
salutarla con un bacio sulla guancia. Dovette chinarsi per poter
arrivare a
lei, che era tutta contenuta in una botte piccola che sfiorava il metro
e
sessanta.
La
mano di Claire corse subito al viso, tastandogli lo zigomo, e
Demian sussultò per la sorpresa e il leggero bruciore
«Che cosa ti sei fatto?»
Era sbiancata e non si contenne nel manifestargli tutta la sua
apprensione.
Continuò ad esaminargli il livido, premendo verso
l’esterno, come se così le
fosse stato possibile capire quanto fosse estesa la lesione e se si
fosse rotto
qualcosa. Un brivido di dolore lo obbligò a chiudere gli
occhi, le afferrò i
polsi e la costrinse con delicata fermezza ad abbassare le mani,
scuotendo il
capo «Ne parliamo dopo» sillabò con le
labbra, e le sorrise con affettata
serenità prima di uscire e di chiudersi la porta alle spalle.
Si
appoggiò alla superficie di legno con tutto il corpo,
liberando
un pesante respiro. Doveva andarsene prima che Claire avesse finito,
quella era
una spiegazione scomoda che non avrebbe mai dato a sua zia. Certe cose
non
poteva condividerle con Sarah come con un qualunque altro membro della
famiglia, visto che nessuno s’immaginava davvero che genere
di vita facesse o
che tipologia di persone avesse preso l’abitudine di
frequentare negli ultimi
due anni.
Si
avvicinò alla finestra bianca in fondo al corridoio e la
spalancò, accogliendo a pieni polmoni l’aria
fredda d’inizio autunno. Era una
brezza leggera ma il contrasto con il calore dell’ambiente
interno gli
intorpidì comunque il viso, Demian si sporse oltre il
davanzale per poter
respirare a fondo quel clima umido.
Avrebbe
voluto che Julian fosse già di ritorno perché era
l’unico
a cui avrebbe potuto parlare con onestà dei propri
turbamenti o almeno l’unico
con cui avrebbe potuto condividerli in silenzio. Quando lo avesse
rivisto non
glielo avrebbe detto però, che aveva sentito la sua
mancanza. Doveva solo
stringere i denti, sopportare e sopportare ancora un poco, con
più pazienza,
poi sua madre sarebbe stata dimessa, Jules avrebbe ricominciato a
girargli
intorno e il suo mondo si sarebbe riassestato. Solo un altro poco
ancora, prima
della prossima tregua.
Prese
una sigaretta dal pacchetto custodito nella tasca dei jeans
e la posò mollemente fra le labbra, tornando a guardare
fuori il cortile
interno di magnolie moribonde. L’autunno non gli dispiaceva,
bastava che non ci
fosse troppo sole per farlo, se non felice, almeno vagamente contento,
aveva un
rapporto conflittuale con la luce che fin dall’infanzia lo
aveva perseguitato.
Notò
allora, distrattamente, una macchia arancione comparire come
un fiore in campo verde, e senza accorgersene iniziò a
seguire quel colore
inaspettato con la coda dell’occhio, quasi sorpreso,
ché lì in ospedale c’era
solo bianco e tutto era pesante, eppure in quei movimenti
c’era una strana
leggerezza che aveva già conosciuto e mai compreso.
Quell’unica
nota di vita tra gli alberi nudi e scheletrici si
traduceva nella fragile e sottile figura di una ragazza, troppo sfocata
dalla
distanza. Soffiò fumo e si sporse istintivamente un poco
più fuori, per
soddisfare la curiosità che quella buffa creatura, vestita
da zucca matura che
si muoveva candidamente su un letto di foglie morte, aveva appena
risvegliato.
Riconosceva del celeste nella gonna che le si agitava leggera attorno
alle
gambe, parzialmente nascosta da una grande felpa arancio violento,
metteva a
stento a fuoco una matassa di capelli probabilmente ricci che si
agitava come
la coda a batuffolo di un coniglietto esagitato. Tutto di lei dava
quell’impressione naturale di buffo e tenero, come di bambina.
Come
Sarah, gli veniva da pensare, ed era un pensiero strano e
nostalgico, perché in quella sconosciuta riconosceva come
un’intuizione, un
inspiegabile impulso ancestrale, quella delicatezza ingenua che amava
tanto nei
gesti e nell’esistenza stessa di sua sorella.
Stonava,
nella tristezza apatica che gli aveva sempre trasmesso
l’ospedale,
in quel mondo bianco e vuoto di cespugli secchi e natura in declino
sapeva solo
provare sensazioni stantie e si sentiva vecchio e stanco, sfibrato da
una
spossatezza così prevaricante da lasciarlo inerme. In tutto
questo lei era una
nota di colore fuori dalle righe, un contrasto inadeguato e tanto
assurdo da
rasserenarlo.
Non
si accorse subito di aver appoggiato la testa piano al telaio
della finestra, si era adagiato con la pacatezza con cui riposava sul
seno di
sua madre talvolta, quando voleva solo essere cullato e sentiva il
cuore
svuotarsi di ogni oppressione. Non si accorse nemmeno di aver inclinato
le
labbra nel primo accenno spontaneo di sorriso mentre la guardava
chinarsi,
forse per cercare qualcosa, Demian non riusciva a capire cosa ma non
gli
importava.
Un
blocco di cenere cadde senza rumore dalla sigaretta che
stringeva tra le dita e che andava consumandosi, ma non aveva
più voglia di
nicotina, voleva restare immobile a respirare la vita labile di quella
ragazza
che riusciva a stordirlo anche solo da lontano.
Avrebbe
voluto avvicinarsi forse, per vederla meglio, per sapere
la sua espressione e conoscere la linea del suo viso, per sentire quel
peso
sullo stomaco sciogliersi in una nuvola di nulla e scivolare via,
perché era
quello il vuoto che provava, un vuoto sereno che sapeva di cielo terso
dopo
settimane di tempesta.
Spense
il mozzicone e richiuse la finestra con lentezza, ancora
avvolto dalla calda coperta di un sentimento inspiegabile e familiare
che aveva
conosciuto solo attraverso la sua piccola bestiolina.
Era
l’apparente spensieratezza che l’aveva ingannato,
non aveva
potuto fare a meno di sovrapporre alla figura sfocata di
un’estranea Sarah,
perché era lei che aveva desiderio di vedere ed era lei che
avrebbe voluto
osservare giocare.
Non riusciva mai a pensare a sua sorella adulta, e questo lo tormentava
terribilmente, più di quanto volesse ammettere con se
stesso, la paura di
perderla lo ancorava al presente e il domani non esisteva, nulla gli
faceva più
male di questo. Non sapeva contenere il terrore primordiale di non
poterla
rivedere ed ogni volta che era troppo in difetto con se stesso, forse
per
fatalismo, non riusciva a non essere sopraffatto dall’ansia,
come se non
potesse incontrarla più se avesse perso anche solo una
minima occasione di
trascorrere del tempo con lei.
In
quella ragazza però, per la prima volta, aveva intravisto
come
avrebbe voluto che fosse Sarah da grande, ancora leggera, ancora
spontanea,
piena di un’innocenza mai sporcata.
Era
sempre terribilmente in ansia se si trattava di sua sorella e
troppo irrazionale, il suo naturale pessimismo lo abbatteva sempre
prima che
riuscisse a costruirsi delle speranze e il suo traballante equilibrio
interiore
vacillava al punto che bastava una semplice sconosciuta vestita da
zucca che
gliela ricordasse per fargli tirare un’insospettata boccata
d’ossigeno tra il
malessere.
Decise
di andarsene mentre la zia era ancora impegnata nella
camera di maman, per risparmiarsi una scenata che avrebbe intaccato il
suo fin
troppo instabile buon umore.
Si sentiva ridicolo ma non voleva ammettere di star decisamente
impazzendo,
voleva illudersi ancora un poco di essere abbastanza forte da poter
sopportare
quella situazione a lungo, ché la forza doveva inventarsela
se non c’era e lui
di scelte alternative non ne aveva. Sapere di non avere
possibilità però non lo
aiutava a restare lucido, e niente a suoi occhi era più
drammatico del
diventare irragionevole e ingestibile.
Non
voleva spezzarsi.
Non
voleva anche quell’umiliazione, controllarsi era
ciò che gli
aveva permesso di restare in piedi e non riusciva nemmeno a concepire
cosa ne
sarebbe stato di lui se non ci fosse più riuscito.
Raggiunse
la hall e cercò da lontano Marisa, ma l’infermiera
non
era nei paraggi e dietro al banco informazioni, a parlare con una donna
bionda
dall’aria sfatta, c’erano solo volti poco noti.
Si
rassegnò a non vedere la signora per quel giorno e fece
nuovamente per uscire all’aperto, quando due braccia si
serrarono con
inaspettata decisione attorno al suo collo.
Riconobbe
il familiare profumo d’ibisco e la morbidezza di quella
pelle di caramello sciolto, così in contrasto con la
propria, candida.
«Sei
di buon umore oggi?» gli sussurrò sfiorandogli
l’orecchio con
le labbra grandi. La sua cadenza veneta gli parve la cosa
più scontata e ovvia
del mondo e ne provò un affilato fastidio, un disagio
insopprimibile di cui non
riusciva a sbarazzarsi.
Sentiva
il seno soffice e abbondante contro la schiena e le mani
di Elena aprirsi sul suo petto, facendolo sussultare.
«Dami,
sei più distante del solito» avvertì il
sospiro caldo di
lei sul collo e si morse l’interno della guancia per non
rabbrividire «So che
non lo facciamo spesso, ma puoi anche parlarmi»
«Non
servi per parlare» rispose pacatamente, e lei
s’irrigidì
contro di lui per un breve istante, il tempo di ferirla e che quelle
parole
attecchissero.
Poi
Ellie annuì «Hai ragione» le mani dalle
dita lunghe, quelle
dita da pianista mancata e infermiera fallita, scivolarono lentamente
verso il
bordo dei suoi jeans e lì si insinuarono accarezzandolo con
esasperata lentezza
«Se ne hai voglia allora…» gli prese il
lobo tra i denti e lo succhiò e lambì
con la lingua, in una provocazione che lo fece eccitare.
Le
bloccò subito il polso e si voltò di scatto,
guardandosi
attorno per controllare che nessuno avesse notato i giochetti
istigatori di
Elena e quella sceneggiata da denuncia per atti osceni in luogo
pubblico, il
personale però era completamente dedito alla signora bionda
e non aveva prestato
loro nessuna attenzione. Per il resto, le seggiole della saletta
d’attesa
davano loro la schiena e sembrava che le poche persone sedute non li
avessero
notati.
Allora
si concentrò su Ellie, che dai pochi centimetri in meno che
aveva lo studiava con i grandi occhi da cerbiatta liquidi di desiderio,
i corpi
che si sfioravano. Avrebbe voluto baciarla, ma con cattiveria, avrebbe
voluto
morderla fino a ferirla e sentirla lamentarsi e sopportare e trattenere
il
pianto con quelle sue immense iridi lucide di voglia e dolore.
Avrebbe
voluto e se ne vergognava.
Perché, perché le permetto
ancora
di toccarmi?
Eppure
non riusciva a farne a meno in qualche modo, anche se non
la sopportava e la trovava sì bellissima, ma in maniera
così superficiale da
risultarne scialba. Non sapeva nemmeno come avrebbe dovuto
considerarla.
A
volte la vedeva come un’amica o almeno s’imponeva
di crederlo,
ma lei era la prima e l’unica con cui avesse fatto sesso e
l’unica da cui
accettasse di essere toccato e per questo si ritrovava ad odiarla la
maggior
parte delle volte.
Gli
piaceva, il tocco di Elena, era sensuale e eccitante. Gli
piaceva quel tipo di rapporto che avevano sviluppato, in cui non doveva
aspettarsi o desiderare di più: semplicemente lei era bella,
disponibile a
sopportare i suoi malumori in silenzio e disponibile anche in molti
altri
sensi.
Provava
per lei solamente attrazione e i loro bisogni
s’incastravano perfettamente, che poi Ellie fosse sciocca e
indisponente non
contava, che la odiasse, che lui fosse solo un altro della sua lista da
femme
fatale, non doveva importargli, andava bene lo stesso.
Elena
lo conosceva molto bene ed era brava a leggerlo, gli si
spalmò addosso e gli prese la mano libera, quella che non le
stava trattenendo
il polso, per portarsela fra le gambe.
Dem
riuscì a stento a deglutire e si accorse di essersi indurito.
«Quando
vuoi» gli ammiccò maliziosa, un sorriso
soddisfatto sul
volto da strega. Avrebbe voluto sbatterla contro il primo muro
accessibile e
scoparsela, che tutti vedessero che dannata, prevedibile stronza era e
di come
nascondesse sotto il sorriso affabile e dolente e il suo aspetto
avvenente
tutto il suo egoismo e la sua superficialità da prostituta
d’alto borgo.
Ritrasse
la mano e, continuando a tenerla saldamente per il polso,
attraversò le porte scorrevoli e abbandonò il
padiglione principale. Aveva
paura di non riuscire a frenare il proprio istinto e di finire
veramente con il
compiere un’azione riprovevole davanti a tutti,
perché quello era l’effetto
terribile che Elena aveva su di lui e non era mai riuscito a
combatterlo. La
trascinò malamente sul retro dell’edificio,
stringendo con più forza del dovuto
e ignorando le lamentele di lei che piagnucolava con scarsa convinzione.
«Dami
mi fai male»
La
spinse contro il muro e la congelò con un’occhiata
furibonda
che la zittì all’istante. Ellie deglutì
a fatica, ma poi gli sorrise e Demian
pensò ancora, con rabbia, che tutto il male che desiderava
farle lei lo
meritava sempre, sapeva solo distruggere tutto e rovinare la sua
perfetta bolla
di pace. Le infilò la mano fra i capelli e la
baciò con cattiveria,
schiacciandola contro la parete e mordendole le labbra fino a farla
gemere per
il dolore. Le mani di Elena gli aprirono la felpa e la gettarono da
qualche
parte, poi s’infilarono sotto la sua maglietta. La pelle
fredda di lei che
seguiva il percorso degli addominali gli dava brividi di freddo e
piacere.
Demian interruppe il bacio e le aprì la bocca con le dita
perché le succhiasse.
Quando furono abbastanza umide, con poca grazia le scostò
l’elastico dei
pantaloni di cotone della sua divisa e il bordo delle mutandine, per
infilare
poco gentilmente due dita dentro di lei.
Elena
mugolò, con quella nota dolente che Dem aveva sentito troppo
spesso. Poi l’infermiera s’inarcò in
avanti tra le sue braccia e cercò ancora
le sue labbra, in un bacio che Demian non riuscì a non
ricambiare, anche se non
avrebbe mai voluto darle della tenerezza. Quando Elena sospirava nella
sua
bocca la sua eccitazione in quel modo la sua erezione pulsava in
maniera
dolorosa e la desiderava con un tormento inaccettabile.
Non
aveva smesso di lubrificarla e di giocare con le dita durante
quello scambio, e quando si accorse che il respiro di Elena si stava
facendo
troppo pesante ed era ad un passo dal piacere, Demian
ritrasse la mano suscitando in risposta un ringhio di disappunto.
Allora
le sorrise ironico, mostrandole il canino «Tocca a
te» le
sussurrò all’orecchio, mordicchiandole poi la
pelle del collo per lasciarle un
vistoso segno.
Sapeva
di non doverlo fare, Elena era sempre stata chiara, non
dovevano restarle dei segni o Simone avrebbe dubitato di lei, ma non
gli
importava niente, trasgrediva ogni volta e lei alla fine non opponeva
resistenza. Ed infatti ancora una volta Ellie inclinò il
collo per facilitargli
il compito.
«Sei
un viziato, ti ho abituato troppo bene» si lamentò.
S’inginocchio
davanti a lui e gli abbassò la cerniera dei jeans
senza esitare, ma non fece in tempo nemmeno a sfiorarlo, entrambi si
bloccarono
nel sentire un urlo improvviso alle loro spalle.
Demian
allontanò Ellie facendo pressione sulle sue spalle,
richiuse i jeans e si volse con sgomento, sperando di non essere stato
beccato.
Lo sgomento si trasformò in orrore quando riconobbe poco
lontano una ragazza
con la felpa arancio e la gonna celeste e una matassa di riccioli. Si
sentì per
un istante così svuotato che pensò davvero
sarebbe svenuto, le gambe erano
molli e probabilmente doveva essere più bianco di un cencio.
Di
tutte le persone che avrebbero potuto imbattersi in quello
scabroso spettacolo, quella sconosciuta era l’unica da cui
non avrebbe mai
voluto essere visto, perché sembrava ingenua e tanto sciocca
e sembrava Sarah…
e gli veniva da vomitare.
La
ragazza però non li stava nemmeno guardando, Demian ci mise
qualche secondo per realizzare questo dettaglio. Era caduta a terra, il
ginocchio magro e spigoloso le sanguinava e lei, a così
pochi metri da un
momento tanto inopportuno, era concentrata solamente a tamponare, con
le labbra
arricciate in malumore, la piccola ferita.
L’orrore
scomparve rapidamente e Demian rimase perplesso a
studiare quella rara creatura ignara del resto del mondo mentre con uno
sbuffo
si rialzava, spazzolandosi gambe e gonna, e poi si chinava a
raccogliere delle
foglie sparse a raggiera intorno a lei. In un lampo di comprensione
Demian capì
che poco prima, nel cortile, era probabilmente questo quello che stava
facendo,
stava raccogliendo le foglie cadute.
Valutò
che non doveva essere un genio, ma era terribilmente
carina, così corrucciata e assorta.
Finalmente
la ragazza alzò il viso permettendogli di vederla per
davvero e Demian, che aveva pensato di avvicinarsi, di aiutarla forse,
si
ritrovò immobile e senza parole, con le ghiandole salivari
che lo avevano
abbandonato e la bocca arida come il Sahara.
I
due boccoli scuri sfuggiti alla coda riccia incorniciavano un
volto candido di porcellana e in contrasto con la pelle chiara e i
capelli
scuri, le labbra morbide sembravano rosse come lamponi. Era alta e la
sua
magrezza la faceva apparire ancora più sottile ma non goffa,
quasi aggraziata
nonostante l’imbarazzo infantile che caratterizzava ogni suo
gesto. Ciò
che più lo aveva spiazzato di
quell’incredibile volto dall’aria distratta e
serena erano gli occhi grandi dal
taglio orientale. La distanza non gli permetteva di distinguerne il
colore, ma
erano abbastanza espressivi da manifestare tutta la
perplessità e l’imbarazzo
che l’avevano colpita.
Demian
non ne comprese il motivo, se non fosse stato che fino a
pochi attimi prima era lui quello in procinto di compiere atti osceni
in luogo
pubblico, avrebbe giurato dalla reazione che la ragazza aveva avuto che
era lei
ad essere stata colta in flagrante mentre stava facendo qualcosa che
non
avrebbe dovuto.
Come a supportare quest’impressione, la vide arrossire fino
quasi a sfiorare il
colore della propria felpa.
«Non è come sembra!» esclamò
nascondendo dietro la schiena le foglie che aveva
appena raccolto «Cioè io…
non…»
Demian
era troppo sconcertato per andarle in aiuto, riusciva solo
a esaminarla con le sopracciglia aggrottate ed una notevole confusione
di
congetture in testa. Lei si guardò attorno rapidamente, come
alla ricerca di
una qualche giustificazione che non le veniva, e Dem comprese
dall’aria
spaesata e innocente che non si era resa conto di aver interrotto
qualcosa.
«Io
devo andare!» balbettò imbarazzata e senza
permettergli di
ribattere qualunque cosa, quasi con un pirouette, si volse e corse via.
Rimase
immobile ancora per un momento e si sentì uno sciocco. Ellie
che si schiariva
la gola lo risvegliò dalla catalessi nella quale era caduto.
Si era dimenticato
della presenza dell’infermiera, altrettanto confusa ma
decisamente meno
affascinata di quanto non fosse lui dalla ragazzina appena scomparsa.
Decise di
non guardare più Elena in volto, recuperò invece
la sua felpa e se la rimise
senza chiuderla, prima di raggiungere il punto dove la ragazza era
caduta. Era
rimasta una foglia a terra, una foglia rossa che sfumava nel giallo. La
raccolse e rigirò il gambo sottile tra le dita, facendola
ruotare.
Era
bella, non sapeva perché ora questo pensiero lo stesse
folgorando come una verità assoluta, non gliene era mai
importato nulla e non
erano mai state altro che un elemento di corredo
dell’autunno, le foglie,
eppure ora la fissava e ci credeva davvero, che fosse bellissima.
Ché se tutti
gli alberi avessero avuto quella gradazione il cortile di
quell’ospedale
sarebbe stato meno triste, eppure forse quella sfumatura
l’avevano avuta per
tutto il tempo e lui per abitudine e noia non ci aveva mai prestato
attenzione.
Nondimeno
gli bastava pensare a quella ragazzina che come la
peggiore delle bambine di cinque anni si dedicava ad un passatempo
tanto
sciocco e ci trovava un senso ed una bellezza che gli erano sempre
sfuggiti. Disorientato
si guardò attorno come se fosse potuta ricomparire da un
momento all’altro.
Raccoglie foglie, non deve essere
sicuramente un genio. Anzi, sembra non aver nemmeno capito in che razza
di
situazione è incappata. No, non è un genio.
E,
nonostante questo, gli piaceva il suo volto, era bella in modo
anticonvenzionale, anche con quel corpo spigoloso. Era bella per quegli
incisivi che aveva notato essere divisi, per come in pochi secondi
aveva
mostrato venti espressioni diverse e aveva arricciato le labbra in modi
astrusi
e ridicoli, era bella per quegli occhi dal colore sfuggente,
perché
nell’insieme era una presenza tanto luminosa da risultare
abbacinante. Davanti
a persone come lei Dem sapeva solo chinare lo sguardo, erano come
l’estate e
lui non riusciva a sopportare la presenza del sole, non riusciva
più a vedere
nulla. L’aveva intuito già da quella finestra, che
lei era questo, lo aveva
capito perché con la sua sola presenza lo aveva riempito in
qualche maniera di
lei, di quel modo di essere che era l’opposto del suo.
Aveva
su di lui un effetto stordente.
«Dami?»
La
voce di Ellie ancora una volta lo riscosse. La vide appena,
d’un tratto l’ascendente che con un solo sguardo
aveva sempre esercitato su di
lui non lo scalfì, al contrario quasi si
meravigliò di trovarla ancora lì
quando lui già l’aveva scordata.
«Dami
stai bene?»
Infilò
la foglia nella tasca della felpa e annuì distrattamente.
«Ci
vediamo» bofonchiò, e se ne andò
dedicandole uno sbadato gesto
della mano.
La
verità era che si sentiva stranamente bene e non voleva
vedere
Ellie, non voleva rischiare che di nuovo distruggesse la quiete che
stava
provando da quando aveva incrociato il volto di quella ragazzina troppo
bella
per essere vera.
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Capitolo 7 *** Sogni ***
À Demian
Capitolo quinto
Sogni
Demian non sognava mai
molto, o meglio, non ricordava mai i propri sogni. Gli restavano
addosso come
un sentore, un presentimento di dejà vu indistinto che si
traduceva in una
leggera e impalpabile patina di sudore sulla pelle che evaporava in un
disagio
inespresso con i primi respiri consapevoli. Appena stendeva le braccia,
queste
sensazioni svaporavano e restava come sospeso tra realtà e
dormiveglia con gli
occhi socchiusi volti al soffitto, come nel tentativo di riafferrare
un’impressione perduta per sempre.
Erano i gesti, sua madre
diceva questo quando era bambino. La sera, quando rientrava - non
importava
quanto fosse tardi- maman andava in camera da lui per baciargli la
fronte e gli
sussurrava di fare sogni d’oro. Per Dami quelle parole erano
un rituale senza
senso compiuto, un incantesimo, non le aveva mai scisse per coglierne
il
significato, non ne avevano. “Sognidoro” suonava
proprio come una formula
magica ed anche se avrebbe dovuto dormire, restava sveglio fingendo il
sonno
solo per poter sentire la voce dolce di maman che lo faceva
addormentare.
Al mattino però i sogni non
li ricordava mai, erano un quadro impressionista, una raccolta di
sensazioni
sfocate in un insieme di colori, come il soleil levant
di Monet, con la
sua barca che sapeva solo di ombra confusa nel calore aranciato della
luce. Allora maman gli
aveva spiegato che erano i gesti che facevano dimenticare i sogni,
azioni
istintive come stropicciarsi gli occhi o stirare le braccia. Compiere
questi
movimenti abituali era come dare un colpo di spugna
alla lavagna della memoria.
Demian le aveva creduto,
maman aveva sempre tante storie irreali per ogni cosa, una cantastorie
moderna
che trovava nel suo Io ogni spiegazione, non importava quanto sensata,
e lui
non era mai riuscito a metterla in dubbio veramente, anche le volte in
cui non
le credeva.
Così, era rimasto
meravigliato quando, il mattino seguente, al risveglio, aveva impresso
come un
dipinto ad olio il sogno appena avuto, a pennellate chiare e definite.
Era meravigliato, ma aveva dato
all’episodio il peso che si dà alle banali inezie
quotidiane, non fosse stato
che, il giorno seguente, l’evento si era ripetuto,
lasciandogli addosso un
languido desiderio di qualcosa ancora poco definito.
L’immagine che restava
incancellabile sotto le palpebre, incisa, era sempre la stessa.
Era un parco di alberi
frondosi e antichi, lo stesso dove portava la sua Lalami a passeggio
quando
aveva voglia di sfogare la propria solitudine, eppure nel sogno sapeva
con
certezza sconcertante che quel parco non era “quel
parco”, ma il più semplice
cortile di un ospedale, e lui si ritrovava seduto in placida attesa tra
delle
radici nodose, rannicchiato per combattere un freddo inconscio quasi
annichilente. L’erba era secca e irrigidita e tutto era
avvolto da una caligine
surreale che lo rendeva stranamente consapevole di essersi addentrato
in un
sogno.
Allora, colmo di quella
consapevolezza, aspettava finché lei non compariva.
Cosa sognava, se le
parlava, quei dettagli gli sfuggivano, impressa restava solo
l’idea di una
felpa arancio e di un corpo delicato dai contorni definiti in
un’immagine
appena accennata che di definito non aveva nulla. Gli restava addosso,
come un
parassita, la curiosità di poter sentire la sua risata,
perché la immaginava
scrosciante come un tintinnare di campanelli mossi dal vento, uno
scacciapensieri di carne e sangue e sorrisi infantili, la
curiosità di sapere
la sfumatura di quegli occhi da gitana incantatrice.
Al risveglio, tutto ciò che
gli era rimasto delle proprie fantasie erano una manciata di parole e
un
ricordo che non era mai esistito.
“Non è come sembra”
Quattro
parole, le uniche che le avesse
sentito pronunciare, dette non con la leggerezza
dell’imbarazzo del loro primo
incontro, ma sussurrate con un’inclinazione di disarmante
malinconia, una
fragilità inerme che la rendeva ai suoi occhi evanescente
come un raggio di
luce poroso appena filtrato tra i fitti rami di un’ombrosa
radura.
L’esuberanza
che la caratterizzava ed
era stata evidente anche così, in un incontro di pochi
minuti, lasciava poco
spazio alla tristezza velata che Demian le cuciva addosso nelle sue
fantasie,
eppure l’istinto gli sussurrava che, sotto
l’apparente spensieratezza, la
malinconia le apparteneva, come in
una forza di
opposti che si attraggono.
Se
la prima volta aveva soppresso il
sogno, rotolandosi tra le lenzuola e succhiando il benessere che gli
aveva
gettato addosso come fosse nettare, rifiutandosi di uscire di casa e di
andare
a scuola per non sporcarsi ancora del mondo, il secondo giorno lo aveva
invaso
una nostalgia tale che, finalmente, gli era stato chiaro non avrebbe
mai potuto
lasciar correre.
Allora,
se non era possibile sopprimere
la smania che lo attraversava, la soluzione più semplice era
stata prendersi il
proprio tempo e sparire, almeno per qualche giorno.
Aveva
preso Lalami con sé e si era
trasferito da Nico.
L’appartamento
dell’amico era un luogo
singolare.
Sorgeva
sotto un palazzo di appartamenti a sei piani, in
periferia, e, a causa del dislivello del terreno, dal lato
dell’ingresso risultava
interrato. Se ne si seguiva il perimetro, si trovava che il retro era
un
susseguirsi di vetrate opache che conducevano ad un grande ingresso a
due
porte, forse un tempo destinato ai garage o ad una rimessa. Non aveva
l’abitabilità, ma importava poco,
l’affitto era più basso così e con il
piccolo
ingresso indipendente, interrato di una decina di gradini,
c’era una privacy
diversa. Ogni membro del gruppo aveva la propria chiave ed una stanza,
se di
stanze si poteva parlare. Quella di Demian si trovava nella grande
rimessa sul
retro, non aveva finestre e solo lo spazio per il materasso gettato a
terra, ma
a lui andava più che bene. Nicolas gli aveva ceduto tutto
quello spazio
illuminato dalle vetrate, era la zona più fredda della casa
e d’inverno si congelava
lì dentro, ma era anche lo spazio più grande, e
lui l’aveva fatto proprio negli
ultimi due anni. L’arredamento era essenziale, la si
raggiungeva attraverso un
piccolo corridoio che dava sulla camera di Dave, illuminata da un
lucernario,
e, appena varcata la soglia, sulla destra si trovava la cosa
più simile ad una
cucina che ci fosse in tutto l’appartamento: fornelli da
campeggio appoggiati a
spaiati mobili di legno, un mini frigo pieno più di alcolici
che di viveri, e
poi scaffali in metallo stipati di cibi in scatola a lunga
conservazione, il
tutto racchiuso in una conca a forma di L del muro, una rientranza
dovuta allo
sgabuzzino che era camera sua. In centro svettava una vecchia stufa a
legna che
talvolta accendevano d’inverno, ma non potevano usufruirne
troppo a lungo, i
vicini tendevano a lamentarsi del fumo e per questo, quelle rare volte
in cui
si trovavano tutti insieme a mangiare sul tavolo lì vicino,
corredato da sedie
di diverse misure, dovevano avvolgersi in felpe e maglioni.
Demian
aveva appeso ai muri fogli di carta leggera alti quanto lui
e parzialmente disegnati, lavori alla quale si dedicava sporadicamente,
quando
sentiva la voglia di sporcare qualcosa senza un fine; il tavolo della
cucina
era invaso da album, cartelle e pastelli, ma i colori a olio e le
tempere,
quelli li conservava su uno sgangherato carrello che si spostava di
volta in
volta insieme a lui, a seconda della voglia che lo trascinava.
C’erano
a terra, parallele ai lati opposti dell’ambiente, due file
di assi di legno che, se rimosse, rivelavano dei nascondigli, come
sgabuzzini
interrati, forse usati per conservare i viveri in passato, Dem ci aveva
fantasticato sopra a lungo ma non era mai giunto a comprendere il loro
utilizzo. C’erano delle scale a muro per potersi calare e
aveva trovato pratico
sfruttare quei ripostigli per conservare il materiale più
ingombrante, i secchi
di vernice, i rulli, le casse di bombolette spray e altro ancora. Niko
anche li
utilizzava, ci nascondeva le partite di cocaina, tra i suoi strumenti.
L’unica nota che
non gli
apparteneva era la bicicletta scassata di Nicolas, gettata malamente
contro la
grande porta a due ante della rimessa, accanto a un vaso pieno di fogli
arrotolati, tentativi di disegni mal riusciti.
Aveva
trascorso lì dentro i successivi quattro giorni,
concentrandosi
solo sul lavoro, perché quello era il problema, quando la
smania lo prendeva
doveva sfogarla per darle un senso, sfogarla fino ad esaurirla per
poter
tornare a respirare.
Si
sentiva languido, colmo di un’esasperazione dolciastra,
sollevato come da una carezza. Creare in quello stato di grazia era
come fare
l’amore, assecondare una frenesia che trovava piacere solo
nella sua massima
espressione.
Dave
però doveva essere nuovamente in rotta con i suoi genitori,
perché anche lui aveva occupato in maniera più o
meno fissa la tana di Niko e
proprio per questo non lo aveva abbandonato un attimo. Aveva passato i
pomeriggi seduto per terra contro il muro, magari con una canna, una
volta con
dell’Lsd che Demian aveva accettato di buon grado: gli acidi
lo rendevano
sensibile ai colori, li amalgamavano in maniera imprevista, un guizzo
di luce,
una lucentezza che non avrebbe mai considerato da lucido, una
folgorazione che
dava un senso ad ogni cosa.
E
in tutto questo Dave, come un cagnolino fedele non dissimile a
Lalami ed altrettanto desideroso delle sue attenzioni, non lo aveva
lasciato un
momento con se stesso.
«Cazzo
Dave! Ti levi dai coglioni?»
E
il ragazzo dalla cresta per l’occasione blu, sbuffava e si
lagnava «Mi rompo. Ma non molli mai quei pennelli di merda?
Dai usciamo,
andiamo a fare una partita a biliardo! Mi sto rompendo il cazzo,
Dem!»
Demian
aveva perso il conto di quelle uscite fastidiose e delle
volte in cui aveva ribattuto «Tu scopi mai quando qualcuno ti
guarda?»
Dave
la prima volta si era accigliato
«Che domanda del cazzo è?»
«È
come se stessi scopando e tu mi
stessi guardando. Non vengo se un uomo mi guarda»
Le
volte seguenti l’amico aveva riso e
basta «Ehi Dem, non è che ti ecciti se ti guardo
io? Ti sta venendo duro
fratello, ammettilo!»
«Vaffanculo
stronzo»
Il
quarto giorno era sbottato, aveva
preso a calci Davide in un moto d’ira, sotto gli occhi
indifferenti di Niko che
sorseggiava il proprio caffè con totale nonchalance, aveva
recuperato cane,
cartelletta con gli schizzi e giusto due o tre tele, e se ne era
tornato a
casa.
La
vena creativa non si era esaurita,
nonostante i suoi sforzi, al contrario come un fiume in piena lo
colmava e
soffocava al punto che si sentiva costretto a svuotarsi come un
naufrago cerca
di svuotare d’acqua la propria scialuppa per restare a galla
il più possibile.
I
sogni non erano cessati, non si erano
prosciugati nemmeno dopo la sua marcia forzata con poche ore di sonno,
poco
cibo e troppe droghe creative, non si prosciugavano nemmeno ora che era
tornato
a casa.
Il
sesto giorno si era svegliato con un
grande mal di testa e la voglia di annegare nel Brufen per
anestetizzarsi come
si doveva. Aveva aperto gli occhi piano, la stanza era già
illuminata a giorno
e senza le lenti a contatto e i suoi occhiali da sole vedeva poco e
male.
Qualcosa di umido e caldo continuava a posarsi con dovizia sul suo
volto,
lasciando una scia bagnata dietro di sé, ma era
così intontito che ci mise
qualche istante per mettere a fuoco Lalami, la sua immensa lingua rosa
penzolante e la coda morbida che si agitava gioiosa.
Quando
finalmente riconobbe i suoi
occhioni neri tra il pelo crema balzò all’indietro
con uno scatto, finendo
oltre il bordo del letto. La caduta rovinosa in un groviglio di
lenzuola che ne
seguì gli costò una dolorosa botta al fondoschiena.
«Lala!»
si lamentò cercando con
movimenti spastici di districarsi dalla coperta.
Lalami
non coglieva mai il suo tono di
rimprovero, la sua sola voce bastava per farla scodinzolare di
più e forse non
era il cane più brillante che potesse capitargli, ma nella
sua dolce dedizione
c’era qualcosa di profondamente commovente che la rendeva
adorabile. La
cucciola lo raggiunse subito per ricominciare a leccare con cura il suo
braccio
destro, che spuntava oltre la stoffa come un invito palese, per lei, a
giocare.
Con
rassegnazione e un moto di tenerezza che lo aveva fatto
sbollire all’istante, Demian afferrò la piccola
palla di pelo, accettando così
il suo affetto bavoso, e a sua volta iniziò a grattarla
dietro l’orecchio e sul
pancino.
Come
Lalami si contorceva per potersi mettere pancia all’aria era
una cosa che lo faceva sempre ridacchiare, non aveva
dignità, solo un morboso
desiderio di coccole ed una zampina che si dimenava come posseduta se
toccava
il punto giusto.
Perso
nel suo rituale mattutino ripercorse con la mente, ancora
una volta, il sogno appena trascorso.
Perché
aveva sognato, di nuovo, lo stesso episodio, era la quarta
notte che gli capitava e non riusciva a darsene ragione.
Senza
dubbio qualcosa di lei aveva risvegliato un impulso sopito,
ma Demian stesso ignorava cosa fosse quella sfumatura che il suo
inconscio
aveva colto e che lo tormentava tanto profondamente. Capitava
d’incrociare il
viso di un estraneo e di esserne irrimediabilmente attratto, come a
seguire un
filo invisibile, eppure non aveva mai provato un tale trasporto per
qualcuno e
questo lo frustrava. Se lo avesse capito, quel di più,
sarebbe riuscito a
mettere da parte un’immagine senza importanza che cresceva
nella sua memoria in
maniera forzata e artificiosa, un ricordo che non lo era davvero ma che
lui
stesso continuava a vivere come tale.
«La
tua storia d’amore con il cane è sempre
affascinante, devo
ammetterlo»
Al
suono imprevisto di quella voce, Demian si dimenò,
scacciando
il lenzuolo, e si mise a sedere sul parquet, gli occhi spalancati con
meraviglia.
Sulla
porta, appoggiato allo stipite con le braccia conserte e
l’aria da fighetto per cui lui lo avrebbe volentieri preso a
pugni, c’era suo
cugino.
«An?»
la lingua impastata dal troppo silenzio si attorcigliò
facendogli biascicare il nome e rivelando il suo stato di poca
lucidità.
Acchiappò Lalami e la attirò a sé,
ché già la sua adorabile palla di pelo si
stava precipitando verso il nuovo venuto scodinzolando, e a Dem
l’idea non
piaceva. Lala, per protesta, gli morse le dita e si dimenò,
puntando le zampine
contro il suo petto per allontanarlo e raggiungere Julian, ma lui non
mollò la
presa e non glielo permise. Era assurdamente geloso di Lalami, era la
sua
cucciola e l’amava al punto che provava fastidio quando
tentava di accogliere
un estraneo con lo stesso entusiasmo riservato a lui. Il cane non era
una
persona, era solo una cucciola, e razionalmente sapeva di non poterla
trattare
come un essere umano e pretendere
che
lei capisse la differenza di comportamento che, secondo la sua testa da
padrone
problematico, avrebbe dovuto adottare per farlo felice; saperlo
però non gli
impediva di essere possessivo come fosse una donna pronta a tradirlo.
Nel mentre il cugino aveva abbandonato la sua posa da fotomodello solo
per
scostarsi, con fare teatrale, il ciuffo biondo dagli occhi.
«Non
sono la persona che speravi di vedere? Dalla tua faccia
potrei quasi credere che finalmente tu ti sia trovato una
ragazza» si fermò
solo per squadrarlo con la fronte corrucciata ed un sorrisino ironico
«Ma da
come stringi Lala direi che la tua vita amorosa con il cane procede
come
sempre!»
Canzonarlo
era la ragione di vita di Julian, da quando poi aveva
portato a casa Lalami, due mesi prima, Demian si era dedicato a lei
come un
padre premuroso e ossessivo, soprattutto quando sua madre o sua sorella
non
erano nei dintorni. Sfogava solo su Lala tutto il suo amore represso e
questo
atteggiamento gli aveva valso la beffa dei familiari tutti, di Jules in
particolare.
Si
morse l’interno della guancia e decise che, per quella volta,
si sarebbe trattenuto dal fargli notare che non faceva ridere mai
neanche un
po’.
«Cosa
ci fai qui? Non eri in America?»
Julian
sorrise apertamente, uno sfavillare di denti e labbra stese
che facevano pensare ad un tonto senza pensieri, un libero sciocco che
della
vita sapeva vedere solo il bicchiere mezzo pieno, come se il male non
potesse
scalfirlo. Jules era così, completamente diverso da lui,
carico di una serenità
e di una forza interiore che, forse, avrebbero dovuto farlo sentire in
difetto,
ma che grazie alla sua spontaneità senza riserve si
trasmettevano anche a lui
quando erano insieme, come una boa di salvataggio in mare aperto a cui
affrancarsi per non affogare. Con quel sorriso ebete, Julian gli porse
la mano
per aiutarlo ad alzarsi e Demian l’accolse, non liberando
però Lalami.
«Sei
il solito stordito, sono tornato domenica! Te lo avevo anche
scritto, ma tu i messaggi non sai nemmeno cosa siano, vero?»
lo rimproverò
bonariamente, scuotendo la testa e il suo ciuffo biondo da idolo delle
teenager.
Era
stato via per un mese.
Era
stato pesante, quel mese. Era stato come essere soli, senza
avere qualcuno con cui parlare almeno un poco. Era partito alla fine di
agosto
per New York e Demian, considerati i giorni trascorsi e
l’inizio dei corsi
universitari, avrebbe dovuto saperlo già da sé
che sarebbe rientrato a breve,
solo che Jenevieve in quel mese aveva avuto uno dei tracolli peggiori e
non era
stato in grado di pensare ad altro che a maman.
«Sarah
mi ha detto che sei sparito da una settimana. Ha detto che
non ti sei più nemmeno fatto sentire»
Incassò
la testa tra le spalle.
Quelli
erano i momenti in cui si rendeva conto di quanto le parole
di Julian potessero pesare su di lui: un suo rimprovero, anche detto
con tono
giocoso, lo sviliva tanto da farlo tacere, da abbassare gli occhi. La
verità
era che Demian invidiava Julian e lo ammirava, a modo suo, per quanto
lo
reputasse uno sciocco che non sapeva far altro che correre dietro alle
donne.
Gli
invidiava la leggerezza di vivere e gli invidiava Sarah.
Perché
Jules viveva con lei, la adorava e poteva trascorrerci
insieme più tempo di quanto non fosse concesso a lui da un
anno a quella parte.
«Non
c’è bisogno poi che ti dica che mia madre
è sul punto di
chiamare la Guardia Nazionale per recuperarti. Solo prima di uscire mi
avrà
ripetuto almeno quindici volte che gli risponde sempre la segreteria
telefonica» aveva incrociato le braccia al petto ed assunto
la sua espressione
eloquente da ti conviene parlare,
l’unica che, a volte, riusciva a cavargli qualcosa da quella
gola senza voce
che si ritrovava.
«Come
sta lei?» lo sussurrò con tono labile e i suoni
strozzati da
uno spasmo, e lo guardò appena, con il capo chino.
L’ombra morbida delle
proprie ciglia abbassate offuscava il volto del cugino: era il senso di
colpa
che non gli permetteva di affrontarlo a viso aperto, aveva paura della
risposta, odiava il proprio egoismo che lo spingeva a scappare e
ritrarsi ogni
volta che qualcosa lo sfiorava, lo odiava perché poi
l’imbarazzo e la vergogna
gli rendevano difficile tornare dalla sua piccola peste. Temendo la
risposta
abbracciò Lalami con più dolcezza, permettendole
di ricominciare a leccargli la
mano.
Julian
scosse la testa sbuffando «Potrà meravigliarti, ma
a parte
un fratello cretino Sarah sta benissimo. Che tu ci creda o meno la mia
cuginetta è tosta, non si lascia abbattere da
nulla» socchiuse gli occhi in
un’espressione scrutatrice e sospirò
«Contrairement à toi, direi»
Demian
inclinò il capo e si morse ancora la guancia, per
seppellire l’imbarazzo. Si rendeva conto di non avere un
bell’aspetto in quel
preciso istante, si era curato poco.
Succedeva
sempre così, era un istinto che non poteva combattere,
quando creava pensava solo a creare, a dipanare quel filo di pensiero
ingarbugliato per cercare di arrivare al bandolo, bandolo che non
afferrava
mai. Ed infatti, come a punirlo, ogni sua opera era incompleta, vuota,
nonostante vivesse solo per quel momento, l’attimo
dell’ultima pennellata,
dell’ultimo sguardo ad un lavoro finito.
Non
si faceva la doccia da qualche giorno, aveva dormito male,
mangiato meno e fumato troppo. Non sapeva come giustificare quella sua
condizione da rifiuto.
«Ho
avuto da fare»
Posò
a terra Lala, che non aveva smesso un solo istante di
muoversi, e subito la cagnolina corse a rosicchiare il lenzuolo. Gli
strappò un
sorriso intenerito, tutto di lei era tenero e da coccolare. Jules aveva
la
fronte corrucciata, una piccola ruga si stava scavando fra le sue
sopracciglia,
stava rimuginando sul senso delle sue parole e Demian non se ne
meravigliò: se
c’era qualcuno nella sua vita che non prendeva mai per buona
una sua
affermazione ma ne ricercava sempre un senso nascosto, come un
messaggio in
codice, quel qualcuno era suo cugino.
«È
tornata?» la ruga si appianò all’istante
e il volto di Julian
si aprì un sorriso entusiasta che lo imbarazzò,
se possibile, più di tutta la
conversazione cuore a cuore appena avvenuta.
«Oui»
mormorò, senza distogliere la propria attenzione da Lalami.
«Mon
dieu, ti è tornata l’ispirazione finalmente, dopo
mesi di
facce lunghe neanche t’avessero ammazzato il cane, e il
massimo che sai fare è
quella smorfia e dirmi questo stupido
“oui”?»
Julian
si lasciò andare ad un’energica manata
d’incoraggiamento
amichevole fin troppo sentita sulla sua spalla, manata che
riuscì perfino a
farlo vacillare sui propri piedi. Demian si passò la mano
sul collo, a
scompigliare i capelli già di per loro arruffati in un
groviglio di lana
bianca, mentre cercava di trovare le parole e di domare il proprio
imbarazzo.
Era vero che da mesi aveva sofferto una crisi da tela bianca che
l’aveva
abbattuto fino alla depressione: non riuscire a dipingere era per lui
come non
riuscire ad urlare, a cantare, a piangere, una frustrazione costante e
un
dolore sordo che lo faceva sentire impotente e inutile, ma avrebbe
preferito
riuscire a tenere per sé quegli stati d’animo da
donna in fase premestruale, e
che fosse stato tanto evidente persino ai suoi parenti lo poneva in uno
strana
e immotivata condizione di mortificazione.
Julian,
troppo entusiasta per lui per rendersi conto della
vergogna in cui stava sguazzando, riprese «Come minimo ora
devi farmi vedere
che cosa sei riuscito a tirare fuori»
Demian
sussultò e finalmente sollevò il volto per
guardare in viso
il cugino, aveva gli occhi grandi dal panico. Jul non se lo
lasciò sfuggire e arricciò
ancora le sopracciglia, in un moto di
perplessità.
«Tutto
bene?»
Il
momento peggiore per lui era sempre quello delle spiegazioni, e
sulle tele conservate nell’altra stanza sapeva di doverne
dare molte, e non le
conosceva nemmeno con certezza. Si sentiva in difetto
se considerava che non gli era più riuscito di fare neanche
uno schizzo a
carbone degno di nota per mesi e poi, semplicemente, era bastato un
incontro
puramente casuale e anonimo per portargli una ventata
d’ispirazione sbocciata
in maniera imprevista e morbosa. Piuttosto che ammettere la vera
ragione di
quel momento creativo, avrebbe preferito poter tornare allo stadio di
monotona
apatia e di sentimenti inespressi precedente quei suoi sogni ricorrenti.
Lo
sapeva perfettamente, che Jules non gli avrebbe più dato
tregua
se avesse visto i suoi disegni.
«Ehi
Dami? Ci sei?» la
mano
di Julian sventolò insistentemente a pochi centimetri dal
suo naso. La scacciò
con un gesto secco del braccio «Quanto sai essere noioso.
Sì, ci sono. No. Non
ho intenzione di farti vedere nulla»
Il
suo migliore amico abbozzò un leggero sorriso che doveva
essere
di comprensione, ma che nascondeva una finta condiscendenza che Demian
conosceva fin troppo bene. Nonostante lo sapesse, non riuscì
comunque a
precederlo: con una rapida svolta Julian corse fuori dalla stanza e
attraversò
sbandando il corridoio. Quasi sbattè contro la porta di
quella che un tempo era
stata la lavanderia di casa e che ora era diventata il suo personale
atelier.
Riuscì a raggiungerlo e ad afferrargli il braccio per
strattonarlo poi
bruscamente, solo che ormai era troppo tardi, il cugino si era
già irrigidito
davanti all’ultima tela abbandonata sul cavalletto, e si
guardava attorno
sbigottito.
La
pupilla sembrava mangiare il verde dorato dei suoi occhi
grandi, così simili a quelli di suo padre e distanti dal
taglio obliquo ed
esotico di Claire.
Demian
si sentì colto in flagrante, abbandonò
stancamente le
braccia lungo i fianchi e chinò un poco le spalle, come per
prepararsi
istintivamente ad incassare i commenti che sarebbero seguiti a
quell’analisi
indesiderata.
Sul
muro, fissati con delle puntine, e appesi ad asciugare con
delle pinze ad un filo, decine di fogli facevano sfoggio di un unico,
ricorrente
soggetto.
E
il soggetto era quella ragazza sconosciuta incontrata più
nel
mondo onirico che nella vita vera.
Si
stropicciò il viso e rosicchiò la guancia nel suo
abituale
gesto di nervosismo, alla ricerca delle parole giuste che spiegassero
un’ossessione
che sfuggiva a lui stesso. Era tormentato dalla presenza soverchiante
di quella
ragazza, c’era qualcosa in lei, nella sfumatura non colta dei
suoi occhi, nei
movimenti infantili e nella piega aggraziata del suo capo in una muta
confusione, qualcosa che razionalmente non riusciva a identificare, ma
che il
suo inconscio doveva aver riconosciuto. Una sfumatura di nostalgico
forse, un
senso di appartenenza, come se solo guardandola avesse potuto sapere in
un
istante che loro erano della medesima sostanza, un’essenza
condivisa nata dalla
stessa fonte. E non importava rivederla, non era nei suoi interessi
conoscerla,
semplicemente l’aveva riconosciuta come sua eguale ed era
rimasto affascinato
dalla sua bellezza ingenua e inconsapevole.
«Non
ha gli occhi» constatò Julian, parlando dopo
qualche minuto
di silenziosa contemplazione.
«No,
infatti»
«Io
te lo dico, è un po’ inquietante»
Dem
sollevò l’angolo destro della bocca in un cenno
divertito, per
il tono petulante che Julian aveva usato e per quel suo familiare
quanto
terribile vizio di affermare una sua personale verità con un
“io te lo dico”.
Si concesse una vanitosa e auto celebrativa occhiata a tutti i propri
lavori,
con un sottile compiacimento per l’uso dei colori ad olio ed
una punta di
indisposizione nel realizzare, ancora, che mancava qualcosa alle sue
tele,
qualcosa di essenziale.
L’incapacità
che sentiva di
afferrare l’essenziale era solo un’altra
manifestazione dell’inettitudine che
lo caratterizzava e che proprio non riusciva a combattere. In quasi
tutte le
opere, la ragazza era rappresentata da lontano, sottile come un giunco,
appoggiata con delicatezza ad un albero o magari di schiena, con quella
massa
di ricci indistinta disciolta sulle spalle. Era questo che mancava, il
suo
viso, era questa l’assenza principale.
Si
conosceva abbastanza da sapere che, finché non fosse
riuscito a
raffigurarla per come era davvero, disciogliendo nei colori
l’impressione
onesta di quello che gli aveva lasciato addosso, non si sarebbe mai
liberato di
quell’asfissiante momento di sfogo artistico.
Jules
tossicchiò con fare forzato «Allora sulla ragazza
ci ho
visto giusto, eh?» ammiccò, dandogli una leggera
gomitata sul braccio.
Demian
si ritrovò ad alzare gli occhi al soffitto, esasperato a
prescindere «No. Sei completamente fuori strada»
Suo
cugino si accigliò nuovamente, e questa volta
accompagnò il
gesto con un arricciamento grottesco del naso. Dem avrebbe solo voluto
essere
inghiottito dal pavimento, per non dover dire chiaramente che, in
qualche modo,
aveva assunto l’atteggiamento di uno psicopatico, potenziale
stalker.
«Non
è la mia ragazza. Non la conosco. Non ci ho mai
parlato»
Maledì la propria scarsa
capacità
di eloquenza e il sorrisetto provocatorio dell’amico.
«Beh,
da questi non si direbbe! Sei diventato uno stalker
cuginetto mio?»
«No!»
urlò subito.
Non
riuscì a darsi un contegno e cadde dritto nella provocazione
di Jules, per questo si maledì di nuovo all’istante.
Per quanto non fosse solito alla sua persona, stavolta si
ritrovò ad arrossire,
come colto in fallo, e d’altronde era tremendamente facile
con la sua
carnagione, ancora più facile se le frecciatine ricevute
erano perfettamente in
linea con i suoi stessi pensieri.
«Senti,
putain, è bella
va bene? È un buon modello di base. Niente di più
e niente di meno!»
Jul
scoppiò in una fragorosa risata che lo irritò.
«Quindi
è solo una musa ammirata da lontano?»
«Solo
intravista» sibilò a denti stretti.
Il cugino lo soppesò un istante, facendo scorrere le pupille
attente dalle dita
dei piedi scalzi alla punta dei capelli spettinati, poi gli cinse a
tradimento
il collo, trascinandolo fuori dalla stanza.
«Fratellino
mio, tu hai seriamente bisogno di una ragazza!»
Dem
lottò per liberarsi da quella stretta e quando non ci
riuscì
si ritrovò a sbuffare, esasperato e imbronciato come un
bambino.
Con
tutto l’affetto possibile, avrebbe voluto restare solo, non
di
certo in compagnia di Jules, non in quel momento. L’immagine
del sogno era
labile e i contorni della sua memoria iniziavano già a
slabbrarsi come bordi sdruciti
di una tovaglia senza orlo. L’intreccio si dissolveva e
così il ricordo, e lui
non aveva avuto ancora il tempo di acciuffarlo per fermarlo nel tempo e
rendere
eterno nella sua memoria quell’incontro onirico - la piega di
quel collo
morbido e candido, sottile, la voluttuosità di quei
riccioli, e il sorriso,
quel sorriso da Esmeralda.
Era
triste sentirlo scivolare via, avrebbe voluto dipingerla ad
arcobaleno, quel mattino, come se il corpo di lei fosse stato un prisma
di luce
dalle mille facce che rimandava tutti i colori insieme,
perché quella notte la
sensazione che gli era rimasta addosso, viscosa e molle, indefinita,
non aveva
un solo colore e non era reale, non era terrena, era una sensazione
sospesa e
languida, indolente come un gatto disteso a prendere il sole.
Non
aveva colore, aveva solo luce.
Quella
ragazza sapeva di luce, forse ne aveva anche la consistenza
e l’odore, quel profumo di terra calda e aria rarefatta,
quella sensazione di
bruciore sulla pelle gradevole e soffocante insieme. Senza che se ne
accorgesse
il pensiero era ancora scivolato su di lei e si stava domandando, per
la
millesima volta, perché quella sconosciuta si trovasse nel
cortile
dell’ospedale quel giorno e cosa stesse facendo e per quale
ragione. Gli
piaceva, a volte, idealizzare il tutto e rivedere quei ricordi con le
tinte di
un quadro antico, rinascimentale, toni vividi e ombre nette e taglienti
come
lame, a plasmare figure corpose e solide simili a statue.
Un’immagine sacra
dove lei quasi lo metteva in soggezione, dove ogni gesto era poesia e
aveva
qualcosa di nascosto, che gli sfuggiva, ma che dava
profondità a quel momento
sopra ad ogni altro. Una verità celata a lui preclusa ma
che, immaginava, lei
potesse vedere e sentire, come se fosse Lachesi.
Allora
tutti quei colori e quella luce assumevano un senso arcano
e lo rasserenavano.
Lalami,
nel frattempo, li aveva seguiti scodinzolando senza
togliergli gli occhietti vispi di dosso, e aveva cercato di richiamare
la sua
attenzione, per ricevere anche solo una carezza. La notò e
gli venne da ridere
«Cosa me ne faccio di una ragazza? Io ho Lala,
ricordi?»
Lala
lo osservava davvero con la tenerezza che si riserva ad un
amante, innamorata persa, e Demian la adorava per questo, la cagnolina
era
l’unica intima compagnia che si era concesso da quando Sarah
era andata a
vivere da sua zia e sua madre faceva avanti e indietro
dall’ospedale. Per
questo aveva sviluppato una dipendenza assurda e irragionevole verso
l’affetto
incondizionato che Lalami gli dimostrava ogni giorno.
«Sei
un caso perso. Hai quindici anni: i tuoi ormoni si può
sapere
dove cazzo sono?»
Arrivati
in sala Dem si staccò da lui, ridendo e scuotendo insieme
il capo. Si trovava sempre senza parole davanti alle sue affermazioni
troppo
indiscrete.
«Almeno
dimmi che non sei più vergine! Devi rispettare le
tradizioni di famiglia!» continuò Jules
imperterrito, ignorando il suo
palpabile imbarazzo, magari non visibile dalle sue espressioni ma
certamente
percepibile nei gesti.
«Non
è una tradizione di famiglia, ma una tua
tradizione» gli fece
notare dandogli le spalle per chinarsi sulla televisione e accenderla
insieme
alla Playstation «E solo perché eri un
puttaniere!» specificò, nella speranza
di fargli tagliare il discorso.
«Non
puoi capire. Io ero il tuo modello, ero responsabile della
tua istruzione! È stato un grande peso per me sapere di
essere il tuo maestro»
Dem
scosse con rassegnazione la testa: speranza vana.
«Risparmiami
le tue stronzate di prima mattina»
Gli passò un joystick e Jules lo prese al volo.
«È quasi mezzogiorno Dami. Capisco che il mondo
reale ti va stretto, ma non è
proprio “prima mattina”»
Allora
Demian si raddrizzò e scrollò le spalle con
noncuranza «Non
è che mi cambi granché. Fifa ti va
bene?»
Era solo di un torneo alla Play di cui aveva bisogno, per distrarsi in
maniera
sana, una volta tanto, senza fare sciocchezze. Questo era
ciò che gli suggeriva
una vocina nella sua testa, una petulante, fastidiosa voce che Demian
associava
al suo latente spirito di sopravvivenza che cercava, talvolta, di farsi
sentire.
Di
cose sciocche e senza senso ne aveva fatte fin troppe
nell’ultimo periodo e ora che Julian era tornato, forse
poteva concedersi una
tregua e ricominciare a respirare invece che cercare di soffocarsi da
solo.
«Ovvio»
rispose spiccio Jules.
Dem
si lasciò andare in modo poco elegante accanto al cugino e
tacque in attesa che il gioco si caricasse, per godersi quella piccola
parentesi e ricollocarla finalmente nella sua quotidianità
fin troppo scossa.
Gli era mancato davvero, trascorrere la domenica pomeriggio con Julian,
a bere
Ceres perché l’amico apprezzava solo la birra
doppio malto, a fumare e giocare
tutto il tempo a calcio. Era stato solo un mese, ma gli era parso di
più, forse
era stato solo il mese più difficile.
Demian
iniziava a sentirsi senza speranza e questo gli faceva
paura, forse per questo era stato il più difficile.
Probabilmente
maman non sarebbe tornata a casa.
Per
questo era stato difficile.
Come
se avesse letto l’improvviso incresparsi dei suoi pensieri,
Lala lo chiamò grattando insistente la sua gamba con la
zampetta morbida. La
sollevò e la poggiò delicatamente sul divano
accanto a lui, permettendo che gli
leccasse la guancia quando la piccola palla di pelo si sporse con la
lingua a
penzoloni verso il suo volto.
La
mollezza viscida della sua linguetta gli faceva il solletico e
si ritrovò a ridacchiare.
«È
la cosa più schifosa che io abbia mai visto!» non
perse
occasione di apostrofarlo Jul, con una smorfia disgustata. E poi,
ancora «L’hai
viziata troppo»
Dem
lo incenerì con una delle sue occhiate più ostili
«La mia Lala
può fare tutto quello che vuole!»
soffiò gelido.
«Sì,
certo. Tu e quel cane avete un rapporto malsano, io te lo
dico! Ti sbaciucchi lei quando sei depresso?»
Una
cosa di Julian che non gli era mancata era la sua sfacciataggine
e sì, anche quella capacità rara di dire sempre
la cosa sbagliata e di fare
osservazioni demenziali gratuite.
«Senti,
scegli la tua squadra e non rompermi»
Jules
sorrise condiscendente, inclinando il
capo come un cucciolo perplesso prima di sollevare le mani in un gesto
di resa
«Ok, ok. Concetto afferrato, non toccare Lalami. Piuttosto,
ricordami di darti
il regalo che ti ho portato dopo, ti piacerà un
sacco»
Mugugnò
un “Ok” scarsamente interessato,
tanto lo sapeva che il cugino non si sarebbe offeso per la sua mancanza
di
entusiasmo. Aveva un rapporto discutibile con i regali, lo mettevano in
imbarazzo e allora cercava di tenersi sul leggero per non pensarci.
«Ah,
Dami» riprese ancora quello, dopo un
altro istante di silenzio «Prima che inizi la
partita…» esitò, e a sentirlo
esitare Demian mise in pausa il gioco per alzare finalmente lo sguardo
assonnato su di lui, in un barlume di lucidità
più consapevole: Julian era
privo di tatto, senza speranza, e nei suoi confronti anche una grande
carogna.
Era insolito vederlo trattenersi, come alla ricerca delle parole
giuste, quando
in genere sparava a zero.
«Quella
ragazza, perché non aveva mai gli
occhi?»
Deglutì
rumorosamente un groppo di saliva che
minacciava di soffocarlo e si morse l’interno della guancia e
poi succhiò il
labbro inferiore, in una concatenazione di gesti abituali che gli
davano il
tempo di raccogliere i pensieri.
Anche
il ricordo di quella notte era perso,
di nuovo, come ogni giorno negli ultimi sette giorni. Eppure, Demian ci
provava
davvero, era sicuro di riuscire a distinguerli, nei suoi sogni, quegli
occhi da
gitana incantatrice.
Era
sicuro di riuscire a vederne il colore e
quella sfumatura sconosciuta che, in quel parcheggio, non era riuscito
a
mettere a fuoco abbastanza velocemente prima che lei se ne andasse.
Doveva
essere quello, il buco nero d’incompletezza e frustrazione
per cui non riusciva
ad essere soddisfatto e non riusciva a smettere di provare ad afferrare
l’essenza di lei.
«Perché
non me li ricordo» chiarì a voce
bassa, mentre le dita scivolavano nel morbido pelo di Lalami per dargli
un
contatto con il reale e non farlo perdere nei propri pensieri
«Non sono
riuscito a vederli, o forse li ho visti, ma non riesco a ricordarli.
Credo di
sognarli quasi ogni notte, però quando mi sveglio, al
mattino, sono già
scivolati via e mi resta solo l’impressione di quello sguardo
sulla pelle.
Vorrei solo catturarlo, solo per un momento, allora forse tutte quelle
immagini
avrebbero un senso»
ANGOLO AUTRICE
Questo è un capitolo insolito,
almeno è l’impressione che ne ho ricavato
rileggendolo ancora e ancora, per
essere sicura di non aver creato una situazione eccessivamente onirica,
eppure
temo sia proprio quello che è successo e, come sempre,
sconfitta dai miei
stessi impedimenti getto la spugna!
L’ispirazione, che sia
nello scritto come nell’arte figurativa, è sempre
difficile da afferrare, va e
viene e a volte sono proprio le sciocchezze più impensabili
a far nascere un
germoglio di creatività, uno sguardo, un movimento, una
frase o una situazione.
Personalmente, mi capita di
far trascorrere quasi un anno tra un disegno e l’altro, e non
è che nel mentre
non scarabocchi, ma un lavoro vero, intriso di tutta me stessa e della
mia
fatica e della mia passione, quello mi capita così raramente
da farmi
disperare.
Il disegno è il mio grande
amore non corrisposto che si fa desiderare, e per questo ho scelto
d’impostare
questo capitolo in questo modo, potrà sembrare assurdo ed
ognuno effettivamente
percepisce i periodi di vuoto creativo a modo proprio, ma in questo io
e Dami
siamo simili (ovviamente lui è più talentuoso, ma
non vale visto che le sue
doti artistiche sono ispirate a quell’idiota di mio fratello
e beh, la statua
della tigre scuoiata fatta durante il suo secondo anno ancora mi fissa
con
baldanza e ho passato giornate intere a farne bozzetti, senza farmi
vedere per
non omaggiarlo troppo!) e volevo che almeno qualcosa di me lo avesse!
Per esempio, e lo condivido
così, anche se non vi interessa, questa storia è
nata in una giornata d’attesa
in ospedale. Ero così esasperata che ero scesa a prendermi
una cioccolata alle
macchinette insieme a mia cugina, ma ovviamente quando avevo ritirato
il
bicchiere non c’era la paletta, ed ero tanto irritabile da
averci fatto un
monologo sopra! Poi, tornata in camera, avevo preso un giornale sul
tavolino e
avevo letto la notizia di un gruppo di ragazzi arrestati per spaccio.
Ecco, adesso sapere da dove
nasce il mio Dami!
Oggi sono in vena di
chiacchere a vuoto, ma tra qualche giorno sarà
l’anniversario di quel giorno,
ed io sono una nostalgica, è come se parlassi del mio
bambino troppo cresciuto
e mostrassi le foto della sua infanzia alle vicine di casa annoiate che
non
sanno come sottrarsi al monologo!
Mi ritiro e spoilero (sì,
sono un’immensa, carognosa spoileratrice!) dicendovi che
finalmente, nel
prossimo capitolo la ragazza avrà un nome, ché
forse è anche il caso di
iniziare a conoscerla!
Ps: finalmente, evviva
Julian!
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Capitolo 8 *** Disarmato ***
À Demian
Capitolo sesto
Disarmato
Alle sei e mezza del mattino faceva freddo,
non solo per il vento. Era l’aria ad essere fredda, intrisa
della pioggia che
forse sarebbe caduta, un odore pungente e fresco, di pulito, pensava
Demian,
come se il mondo non l’avesse ancora insozzata di smog e
fumo.
La sfumatura nera del cielo era ben lontana
dall’impallidire e dava l’insolita e inquietante
sensazione che non ci fosse
nulla all’orizzonte, oltre le pozze di luce che macchiavano
l’asfalto. Solo la
luce calda dei lampioni rendeva definiti i contorni delle strade. Un
clima a
metà che lo lasciava in un torpore fiacco e con un malumore
abbastanza forte da
fargli intuire senza problemi quanto anche quella giornata gli sarebbe
parsa
pessima e insostenibile.
In mezzo ad un parcheggio desolato, con lo
zaino appeso mollemente alla spalla e il naso arrossato per
l’umidità, ancora
cercava una ragione che lo illuminasse sul perché, quella
mattina, avesse deciso
di puntare la sveglia tanto presto.
Dopo aver trascorso il pomeriggio con Jules
aveva provato la familiare nostalgia per sua madre, un sentimento amaro
che lo
avvolgeva ogni volta che si concedeva di trascorrere del tempo con la
sua
famiglia. Voleva vederla soprattutto per lavare via il senso di colpa,
perché
quando maman era costretta in ospedale, Dami non riusciva ad impedirsi
di
diventare latitante, un istintivo ribrezzo gli intimava di tenersi
lontano da
quelle grandi stanze bianche, e lui a combattere contro le proprie
ansie non
era mai stato bravo.
Imboccò un vialetto rivestito di foglie
accartocciate che sotto i suoi piedi crepitavano la propria agonia, e
ad un
tratto si bloccò, esitante, non sapeva nemmeno lui per quale
motivo. I contorni
delle foglie che rivestivano il cortile e inghiottivano le radici degli
alberi
erano appena percepibili, ma quella percezione discreta bastava a
rapire la sua
attenzione.
E a farlo pensare a lei.
La verità che non voleva raccontarsi e
negava
con tutto se stesso era tanto ovvia quanto irritante: era il pensiero
d’imbattersi ancora in quella ragazza, anche solo per errore,
a frenarlo dal
tornare in ospedale nel pomeriggio.
Era colpa sua se si stava presentando da sua
madre fuori dall’orario di visite, colpa di lei e di Julian
anche, che l’aveva
assillato con mille domande e ossessionato con le sue congetture. Dopo
aver
condiviso quell’unico, sciagurato momento in cui, per vie a
Dem sconosciute,
era stato ghermito dal fascino discutibile di quella ragazzina, Julian
aveva
completato l’opera e provveduto a rendergli un incubo
l’idea di incontrarla
ancora.
Non voleva vederla, ma perché avrebbe
dovuto
ritrovarla di nuovo lì?
Lo sapeva fin troppo bene, che le persone
normali avevano una vita, non trascorrevano il loro tempo in ospedale.
Soprattutto
non alla sua età.
Scosse la testa e si costrinse ad andare
oltre, a non fermarsi a guardare il paesaggio più banale
della sua vita come se
fosse l’unico collegamento che gli era concesso con quella
rara creatura.
Il cugino lo aveva davvero condizionato
troppo, aveva persino rinunciato ad assecondare la propria vena
artistica, dopo
tutte le frecciatine ricevute, ed il risultato prevedibile era che si
sentiva
compresso e a disagio, come fosse troppo grande in un corpo troppo
piccolo.
Continuare però a tentare di afferrare quello sguardo ora
gli faceva pensare di
star veramente diventando uno stalker.
Si appoggiò alla maniglia della porta
in
vetro, e questa sotto la leggera pressione girò lentamente.
Lo accolse la calda
luce soffusa della hall e una vampata di calore che lo colpì
in pieno viso, quasi
soffocante in contrasto con la freschezza dell’aria che
precedeva l’alba.
L’ambiente a quell’ora era sonnacchioso e pigro, ma
non mancava comunque una
fila di persone in attesa che occupava con sonnolenza le seggiole in
plastica
blu. Tutti genitori con i propri figli, bambini accoccolati alle madri,
altri
più grandi con lo zaino di scuola vicino ai piedi.
Doveva essere la mattinata degli esami del
sangue, pensò, e lo pensò con una punta di
amarezza, perché gli ricordavano
Sarah, Sarah che doveva controllare costantemente i suoi valori, Sarah
che dopo
gli sorrideva, pallida come un piccolo fantasmino buffo e dolce, e non
aveva
paura o, se l’aveva, non l’aveva mai mostrata.
Per un motivo che lui stesso non sapeva
spiegarsi e nonostante si fosse ripetuto che no, assolutamente, in lei
non
voleva imbattersi neanche sotto la più atroce tortura, fece
scorrere con
un’occhiata veloce tutti i volti, alla ricerca di una massa
di ricci e di una
felpa vivace.
Ovviamente la ragazza non c’era,
com’era
normale che fosse, eppure questo non bastò a lenire la
delusione e il moto di
vergogna per essersi sentito quasi tradito, come fosse una colpa che
lei non
fosse lì, seduta in quel mare di sconosciuti come una tinta
di colore fuori
luogo.
Accantonò quel misto di sentimenti
contrastanti e si decise a raggiungere il banco informazioni, dove
Marisa, con
i suoi occhiali a ellisse pericolanti sul naso adunco e le rughe sul
collo
morbido, era troppo concentrata su alcuni documenti per notarlo.
Sembrava stanca ed anche più anziana.
Non
aveva mai portato bene i suoi cinquant’anni, ad occhio
chiunque ne avrebbe
aggiunti almeno una decina, ma quella mattina era sfibrata non solo
nell’apparenza, era qualcosa che si leggeva nella linea bassa
dello sguardo.
«Buongiorno Marisa.
Giornataccia?»
L’infermiera sussultò,
alzò gli occhi su di
lui ed il volto le si sciolse in un sorriso dolce che
accentuò le rughe
d’espressione e la rese quasi tenera, una dolce vecchina.
«Demi! Tesoro, come mai già
in piedi? Non
vorrai mica scatenare l’apocalisse!»
Demian ammiccò con un ghigno verso la
sala
d’attesa «No, per oggi mi accontento di farmi due
risate mentre cerchi di gestire
madri mansuete in menopausa»
Marisa
si lasciò andare ad una risata leggera, scrollando
il capo «Sei terribile» commentò
soltanto, poi però lo guardò con
un’intensità
diversa, che celava una qualche tribolazione a lui poco chiara.
«Tu
come stai?» gli domandò cautamente, dopo un lungo
momento di silenzio contemplativo, e con esitazione aggiunse
«Jen mi ha chiesto
di te in questi giorni. Era preoccupata, non ti ha più visto
e nemmeno sentito»
La
piega ironica del labbro di Demian si abbassò quasi a
rallentatore, non riuscì a camuffare il proprio turbamento
né riuscì a non
incupirsi.
«Tutto
normale» pronunciò veloce, come a giustificarsi.
Poi si passò piano una mano sul collo e chinò
appena il capo «Tu sai… sai
quando potrò…» la guardò da
sotto le lunghe ciglia e la trovò corrucciata
«Quando potrà tornare a casa?»
Il
cambio repentino d’espressione della donna lo gelò.
«Avevo
questo brutto presentimento» sospirò lei, come
affranta, e ancora «Non te lo hanno detto, vero?»
Il
braccio gli ricadde inerte lungo il fianco, mentre con
lo sguardo confuso e gli occhi grandi di panico e infantile paura,
Demian
cercava nel viso familiare dell’infermiera una calma e un
conforto che
dissipassero l’ansia.
Non
riuscì a trovarli, Marisa era misurata e pacata, fin
troppo cauta, come dovesse disinnescare una bomba pronta a esplodere
senza
preavviso.
Gli
mancò il respiro, strinse i pugni, cercò
d’inalare
aria, di non fasciarsi la testa, ma conosceva quella donna da sette
anni ormai,
la conosceva bene, gli era stata vicino, gli aveva accarezzato i
capelli e
offerto cioccolate calde e parole dolci, si era seduta accanto a lui.
E
gli aveva sempre dato le notizie più difficili della
sua vita.
Gliele
aveva date con quell’espressione contrita.
Gliele
aveva date con l’afflizione di non poter fare
altrimenti, come se almeno la verità, almeno quella, gliela
dovesse.
Quello che stava
per sentire non gli sarebbe piaciuto.
«Cosa?»
la nota di accusa non sfuggì a Marisa, lo seppe
nel momento esatto in cui gli occhietti contornati da una fitta rete di
rughe
si fecero lucidi a tradimento.
«Non
la dimettono Dami. Tua madre… Jenevieve non vuole
tornare a casa, ha deciso di restare qui. Non dovrei essere io a
dirtelo, ma
pensavo fosse per questo… pensavo fosse per questo che non
ti ho più visto.
Pensavo non volessi vedere»
Non
si era mai sentito tanto intontito, con la testa
leggera e sospesa, non c’era un senso e se non
c’era un senso allora non poteva
essere reale.
«Le
parlo io… le dirò che va bene, che può
tornare. È
solo preoccupata»
Marisa
scosse piano la testa, rassegnata in modo
insopportabilmente doloroso.
«Tua
zia si è già occupata di tutto, Jen è
decisa tesoro,
vuole restare qui»
Deglutì
a fatica e rimase in silenzio, non riusciva
neanche a pensare di muoversi. Si rese conto, e questo lo fece sentire
ancora
più sgomento, di non avere niente da dire, assolutamente
niente. Si era
immaginato infinite volte quel momento, come una premonizione o un
presentimento costante di catastrofe sopra di lui, ed aveva sempre
creduto che
avrebbe combattuto lo strano buco nero che gli si stava aprendo nel
petto con
tutte le parole che aveva sempre taciuto.
Si
era sbagliato.
Quando
la terra mancava sotto i piedi, all’improvviso, a
tradimento, anche le parole venivano risucchiate dal buco nero insieme
a tutto
il resto, ad ogni speranza, ad ogni castello in aria costruito con la
stessa
tenacia con cui un bambino si ostina a creare torri in riva al mare. Le
onde si
erano portate via ogni cosa e gli rimaneva solo sabbia tra le dita ed
un vuoto
nel petto, un vuoto strano che stava trasformando in nulla ogni cosa
intorno a
lui.
Come
se il tempo si fosse arrestato, e la sua vita fosse
rimasta sospesa a quel frammento di esistenza, quel momento crudele, a
quel
“non la dimettono” che faceva più male
di un pugno in pieno viso.
Cercava
di riflettere, ma riusciva solo a stringere un
meschino pensiero: aveva deciso senza di lui.
Non
lo aveva consultato, non ne avevano parlato, aveva
scelto da sola, come sempre. Si era illuso che almeno nella malattia,
forse, le
cose sarebbero state diverse, non sarebbe stato lasciato indietro, ed
invece al
momento cruciale maman non era cambiata, aveva fatto la sua scelta e la
sua
scelta non lo contemplava.
«Dami...
stai bene?»
Per la tensione delle braccia e di quei pugni, serrati forte come se da
soli
potessero tenerlo in piedi, ogni muscolo gli doleva, eppure ne era
consapevole
solo vagamente, perché non stava pensando, non stava
vedendo, era tutto
assurdamente ridicolo.
Come
avrebbe potuto stare bene?
poi un barlume di realtà: doveva essere colpa di Claire, era
senz’altro colpa
di Claire, ché la zia non era mai stata d’accordo,
non voleva che fosse lui a
prendersi cura di sua sorella, non voleva che stessero loro due soli in
una
casa tanto grande. E maman non poteva volerlo lasciare, non ci credeva,
doveva
essere stata Claire e maman non aveva avuto il coraggio di dirgli che
lo
abbandonava.
No,
non aveva avuto il coraggio neanche di lasciarlo.
«Dami?
Mi stai facendo paura»
Alzò
gli occhi su di lei, cercò di metterla a fuoco e ci
riuscì appena, come trovarsi di fronte un’ombra
indistinta, ma la lingua era
appiccicata al palato e secca come carta vetrata.
«Posso?»
Marisa
abbozzò un sorriso stanco e triste, di chi sapeva
comprendere anche senza parole. Infatti, annuì piano e
cercò d’infondere
dolcezza nella sua aria dolente.
«Certo
che puoi andare tesoro. Non restare lì troppo e
non svegliare nessuno»
Le
solite regole quando visitava fuori dall’orario.
Si
volse meccanicamente e con lentezza esasperante superò
l’ascensore per raggiungere le scale. Sentiva il bisogno di
camminare per
ossigenarsi il cervello forse, sapeva solo, una certezza assoluta, che
se fosse
rimasto immobile in un piccolo spazio claustrofobico avrebbe perso la
ragione.
Con
lo schiocco della porta si ritrovò solo.
Non
era vero che non aveva nulla da dire, aveva così
tanto che sentiva la gola ostruita e gli venne un conato di vomito. Si
chinò in
avanti con una mano sulla bocca e l’altra stretta
spasmodicamente al giubbino,
sullo stomaco, come potesse strapparselo dall’addome.
Deglutì a stento un
groppo di saliva insieme alla bile ed un fievole lamento
abbandonò appena le
labbra dischiuse.
Aveva
caldo, gli bruciavano terribilmente gli occhi, e il
lamentò scivolò in un singulto leggero. Strinse
con più forza la mano sulla
propria bocca, cercò di tapparsela con tutta la cattiveria
che possedeva, ma
non ci riuscì.
Il
singulto divenne un singhiozzo, e le palpebre erano
umide e vischiose di pianto e non voleva piangere, non voleva davvero,
ma non
sapeva come smettere, gli mancava il fiato e bruciava anche la gola e
bruciavano i polmoni.
No,
non riusciva a pensare, non riusciva a dirsi nulla.
Era
solo nella tromba delle scale come era solo sempre,
un’altra patetica metafora della sua esistenza, e davanti a
quella solitudine
sapeva solo arrabbiarsi con tutto se stesso, non riusciva a
rassegnarsi. Afferrò
lo zaino e lo scagliò con tutta quella collera compressa
contro il muro,
guaendo il suo dolore da animale ferito, ma non bastò a
lenire la frustrazione.
Si
passò nervosamente una mano sul volto, tra i capelli
scompigliati, e in quel momento, nascosto dal mondo, capì,
capì davvero.
Pensava di essere stato disperato in passato e che il mondo fosse un
luogo
abietto e crudele, invece era lui a non aver capito niente, non lo
aveva mai
davvero assaggiato, il dolore, non ne aveva sentito
l’amarezza sulla lingua, la
costernazione più nera non lo aveva mai ghermito, mai.
Era
solo uno sciocco e un patetico, triste, drammatico ed
inutile ragazzino che non sapeva nulla, che pensava sarebbe stato in
grado di
gestire quel dolore ed invece non era minimamente preparato, si era
solo illuso
di una forza che non esisteva e non era mai esistita.
E
allora, di fronte a tutta la sua debolezza, si ritrovò
arreso, a piangere, a singhiozzare sempre più forte, in
lamenti tanto
strazianti che forse Marisa avrebbe sentito, ma cosa importava?
Cosa
importava se lei stava morendo?
Stava morendo.
Non voleva
tornare a casa perché stava morendo.
Moriva, e non
aveva nemmeno il coraggio di dirglielo.
«Merde!»
Tirò
un pugno al muro, urlando, e poi lo fece di nuovo e
di nuovo ancora.
«Merde!
Merde! Merde!»
Una
fitta si propagò con uno spasmo dalle nocche a tutto
il braccio. Si fermò a guardare estraniato quelle dita che
tremavano e non
riusciva più a chiudere, la pelle raschiata da cui
scivolavano rivoletti di
sangue, una gabbia di linee astratte come pittura colata. La carne viva
pulsava, ma quasi non riusciva ad accorgersene, la gola ostruita gli
rendeva difficile
respirare, il fiato era pesante e non riusciva a placare i singhiozzi
inconsapevoli. Si appoggiò al muro, cercò di
accumulare aria, ma persino stare
in piedi era uno sforzo che gli costava troppa fatica.
Le
ginocchia gli cedettero e Demian si lasciò andare
piano, scivolò contro la parete fino a ritrovarsi
rannicchiato a terra.
Nascose
il viso fra le gambe e si passò nervoso una mano
tra i capelli, non riusciva a fermare l’attacco di panico,
non riusciva a non
piangere e non provava vergogna, non era abbastanza lucido per
controllarsi.
Perché
era ovvio, e solo lui non era stato in grado di
comprenderlo: era il punto di non ritorno.
Era
la fine.
E
lo sapeva, che sarebbe dovuto accadere, lo sapeva che
maman non sarebbe rimasta per sempre e nemmeno il tempo che ad altri
era
concesso, e allora perché non riusciva a respirare?
Era
solo un bambino.
Si
sentiva come da bambino, come quando aveva sei anni e
sapeva solo farsi piccolo davanti alle urla e alla rabbia, come quando
ne aveva
otto e si raccoglieva ai piedi della porta chiusa della camera da letto
di
maman per ascoltarla piangere. Non era cambiato nulla in quei dieci
anni,
restava un inutile inetto incapace di camminare da solo, ché
Dami lo aveva
sempre saputo di non valere niente, ma non gli importava, non gli
importava
della paura di sua madre, era troppo sopraffatto dalla sua stessa.
Lei
non ci sarebbe più stata, e senza maman c’era solo
un
punto fermo in quel suo piccolo mondo che aveva iniziato a sgretolarsi
tra le
sue mani quando ancora non aveva la forza per afferrarlo.
Poi pensava a Sarah, e sarebbe voluto morire davvero, a lei non avrebbe
avuto
la forza di dirlo, non aveva mai avuto neanche il coraggio di spiegarle
veramente cosa stesse accadendo.
Come posso
proteggerla da qualcosa più forte di me?
Fu
solo il pensiero di Sarah a spingerlo a riaprire gli
occhi, il pensiero di doversi preoccupare solo e soltanto di lei. Come
stesse
Jenevieve a quel punto diventava del tutto contingente, che Claire
avesse agito
alle sue spalle, che nessuno lo avesse ancora una volta considerato,
che stesse
per restare solo; niente di tutto questo poteva avere valore alla luce
di
Sarah.
Il
groppo che gli stringeva la gola e minacciava di
soffocarlo non accennava a sparire, ma Demian riuscì a
ricacciare il pianto sfregandosi
bruscamente gli occhi fino a sentirli gonfi bruciare di un altro
dolore,
pungente e superficiale. I singhiozzi si affievolirono e
così, immobile a terra
come un giocattolo spezzato senza più padrone,
pensò che non era quello il
momento di lasciarsi andare.
Non
lì, non in quel modo.
Razionalmente
sapeva di doversi alzare, di dover
raggiungere maman e parlarle.
E
urlare, se serviva, ma non doveva crogiolarsi in una
non-reazione, non questa volta che la situazione era tanto importante e
delicata, o ne avrebbe fatto le spese la sua bestiolina. Avrebbe
costretto
Jenevieve ad essere onesta, l’avrebbe costretta a dirgli in
faccia le sue
scelte e le avrebbe gettato addosso tutta la sua collera, al diavolo se
era
malata, era colpa sua, era sempre stata colpa sua fin
dall’inizio.
Si
era arresa.
Aveva
rinunciato.
Come aveva
potuto rinunciare a tutto?
Come aveva
potuto anche solo pensare di lasciarsi dietro ancora una volta lui e
Sarah,
come se non importasse, come se non valessero abbastanza?
Perché, perché
non gli era stato concesso un solo genitore che volesse fargli da
genitore?
Riuscivano
unicamente ad andarsene, tutti quanti, e ciò
che gli restava era a malapena l’idea di una madre astratta
ed egoista e la
figura spezzata di un padre che aveva solo saputo abbandonarli e
rinunciare.
E
Jen lo sapeva, che stava per lasciarsi alle spalle
macerie, ma ancora una volta scuoteva la testa e andava per la sua
strada, e
Claire neanche immaginava cosa significasse perdere gli unici
riferimenti della
propria vita ed ora la odiava, odiava che avesse gestito tutto senza
consultarlo e la odiava per aver appoggiato maman nella sua scelta
anziché
spronarla ad essere forte, a resistere ancora un po’.
Solo un altro
po’.
Con
lentezza strascicata - ché il corpo non lo avvertiva
suo, gli pareva di muovere qualcosa di estraneo -si rialzò a
fatica e costrinse
le gambe ancora tremanti a trovare la forza di reggerlo. Poi raccolse
il
proprio zaino, non si era reso conto di averlo tirato, in uno sprazzo
di
ingenua ignoranza del momento e di tutto ciò che lo aveva
appena sopraffatto,
sperò di non aver rotto le mine delle matite o sbriciolato
il carbone.
Forse,
avrebbe disegnato dopo. Forse avrebbe raccolto
tutto, ricomposto la realtà pezzo per pezzo incidendola
sulla carta, e forse
così avrebbe rimesso insieme i frammenti di sensazioni che
come schegge
impazzite di un vetro esploso vagavano nella sua testa e si
conficcavano a
tradimento nella carne, incidendolo a fondo, da dentro.
Forse.
Prima
però sarebbe andato da sua madre.
Con
questo pensiero si trascinò sulle scale, lasciando
scorrere le dita sul corrimano di ferro. La mano gli pulsava
tragicamente,
iniziava a sentire il bruciore e a percepire ogni singolo osso delle
falangi
come indipendente, si morse l’interno della guancia e si
augurò davvero di non
essersela rotta. Quando raggiunge la stanza occupata da Jenevieve
rimase
sospeso sulla soglia.
Si
era sopravvalutato di nuovo, se ne rese conto con un
sorriso amaro sulle labbra gonfie e martoriate dai denti. Era troppo
appesantito e troppo vile, se ne vergognava, ma non voleva vederla, non
voleva
vederla più.
Se
non fosse tornata a casa, vederla non aveva senso e
lui voleva essere ovunque, ma non lì con lei, non desiderava
trascorrere
nemmeno un altro istante accanto a lei.
Avrebbe
voluto che non ci fosse stata, per non doversi
trovare in bilico a scegliere e non doversi biasimare ancora e ancora,
che
tanto qualunque scelta avesse compiuto lo avrebbe reso infelice e
già si
sentiva schiacciato da una fin troppo opprimente, malinconica e
rassegnata
tristezza.
La
rassegnazione del non riaverla con sé, la
consapevolezza di tutti quei dettagli di sfibrata stanchezza che aveva
voluto
ignorare e che ora avrebbe senz’altro notato sul suo bel
volto, la certezza che
quella pelle morbida sarebbe parsa diafana e trasparente come un velo
che non
voleva ancora toglierle di dosso per vederla come era diventata
davvero, tutto
questo gli fece comprendere che non era all’altezza di
affrontarla.
Poteva fare lo spavaldo quanto voleva con se stesso, a conti fatti
però serviva
a poco, perché quella forza di essere onesto e di sentirsi
dire la verità non
l’aveva e forse non l’avrebbe mai avuta.
«Ehi,
ciao! Mi ricordo di te!»
La
pressione delicata di una mano sulla spalla lo fece
sussultare. Era un tocco leggero, timido quasi, appena accennato,
eppure lo
percepì come uno spintone imprevisto, incespicò
in avanti e dovette appoggiarsi
con la mano offesa allo stipite della porta, ingoiando il dolore con un
morso
spietato alle labbra. Con gli occhi lucidi di male ed un tremore strano
all’altezza del petto, come una contrazione dei polmoni in
risposta al suono
morbido di quella voce, si volse lentamente.
Come
comparsa dal nulla, l’estranea eppure fin troppo
nota figura di una ragazzina minuta lo fissava con gli occhi grandi
socchiusi
in mezzelune ridenti e le labbra incurvate in una linea irriverente.
Con
uno sguardo rapido percorse la sua discreta altezza e
si soffermò sui dettagli più familiari: la spalla
ossuta e sporgente messa in
mostra dallo scollo largo della maglietta, la linea cedevole del collo
lungo e
sottile, la curva morbida della guancia, quella insolente del nasino
con la punta
all’insù in un moto di sfida. La guardò
tutta con un solo sguardo, la guardò
fino ad abbracciarla completamente, per poi raggiungere gli occhi
grandi,
spalancati in un verde che sapeva smarrire.
Erano verdi.
Aveva
tentato di riacciuffare quel colore ogni giorno e
in ogni sogno, eppure quella sfumatura sfacciata e assurdamente limpida
gli era
sfuggita come acqua corrente, l’aveva percepita, solo
percepita, per poi
sentirla sparire con rassegnazione. Ed ora, ora non avrebbe saputo
nemmeno come
dipingerla, che tonalità avrebbe potuto scegliere,
perché era troppo intensa e
destabilizzante, piena quasi ad apparire irreale, finta, una pennellata
di
verde su frammenti di ceramica.
Si
perse nel silenzio di quella sua contemplazione estatica,
e il fatto che fosse trasandata come non mai, lontanissima
dall’idea sacrale e
sublimata della sua memoria, non lo sfiorava. I ricci erano un
garbuglio inestricabile
raccolto alla meglio sul capo, i jeans larghi e stinti le ricadevano
sulle
gambe magre con malagrazia facendola apparire persino più
magra e sottile sotto
tutta quella stoffa, ed il suo volto sonnacchioso e stropicciato dalla
stanchezza, come se si fosse alzata da poco, emanava la dolce tenerezza
di una
bambina arruffata.
Demian
se ne rese conto come una folgorazione improvvisa.
Era
bella sì, ma non era una bellezza abbacinante,
sarebbe potuta apparire estremamente anonima con il suo viso pulito,
tutta
quell’esuberanza puerile e gli occhi grandi senza trucco.
Sarebbe potuta
apparire banale, eppure banale non lo sembrava per nulla,
perché era quella la
sua bellezza, era lì che risiedeva tutta
l’ispirazione: era di una purezza luminosa,
nuda e disadorna, tanto limpida da poter essere contemplata solo
così, nella
sua forma più naturale e istintiva.
Era
bella proprio perché nulla in lei pareva essere
curato e tutto appariva selvatico e spontaneo e emanava come un senso
di tutto
il suo essere e della la sua indole soverchiante con un solo sorriso,
timido e
adorabile.
Si
riscosse quando si rese conto che fissandola in
maniera insistente aveva fatto nascere in lei un sorriso furbo dalla
vena
maliziosa.
«Sei
solo, oggi?» domandò infatti ammiccando, con una
sfacciataggine tale che Demian colse subito il riferimento ad Elena e
si riebbe
distogliendo gli occhi.
«Cosa
ci fai tu qui?»
Il
tono gli uscì più scontroso e sgradevole di
quanto
avrebbe voluto, ma era la sorpresa d’incontrarla sul serio a
prenderlo in
contropiede, come se Julian gli avesse lanciato addosso un anatema. A
rafforzare il tono ostile, scacciò malamente la mano di lei,
ancora posata con
delicatezza sul suo braccio.
La
ragazza non parve turbata, si limitò ad ampliare quel
suo sorriso zingaresco che tutto appariva tranne che innocente.
C’era come
un’antitesi tra la sua bocca provocatrice e lo sguardo
candido velato da
un’aria giocosa, un gioco di opposti annichilente che lo
lasciava senza parole.
«Stai
per andare a scuola?» la ragazza indicò
incuriosita
lo zaino «Che liceo frequenti? Quanti anni hai?»
insisté, amplificando
ulteriormente quella sensazione di smarrimento che causava
già solo con la sua
presenza.
Demian sbatté le
palpebre un paio di volte, come per metterla di nuovo a fuoco o
rimettere a
fuoco la situazione surreale nella quale si sentiva incastrato,
rialzò gli
occhi sul volto entusiasta di lei e venne colpito da
un’altra, improvvisa
certezza: quella ragazza era come un ariete pronto a sfondare un
portone, e lui
avrebbe solo perso.
Era
evidente, viaggiavano su due frequenze completamente
differenti, e lei non era intenzionata a spostarsi dalla propria. Non
lo
avrebbe ascoltato, avrebbe continuato ad ignorarlo e a fargli domande
se non si
fosse adattato lui, non la conosceva per niente eppure questa era una
verità
già fin troppo ovvia.
Disarmato
ed esasperato, si passò lentamente una mano sul
viso, la squadrò con circospezione e decise, infine, di
accontentarla.
«L’artistico»
bofonchiò, e lo travolse un inaspettato
imbarazzo, come se avesse condiviso con lei chissà quale
segreto, imbarazzo che
crebbe nel vedere il sorriso di lei farsi, se possibile, più
grande e
raggiante, traboccante di soddisfazione.
«Lo
sapevo, te lo giuro, me lo sentivo tantissimo! Hai
quell’aria da bohemien, o almeno, io uno come Modigliani me
lo immagino tipo
te, un po’ eccentrico e con scritto in fronte qualcosa come
“ce l’ho con il
mondo”. Sai, un po’ stravagante, dai
l’idea di esserlo un sacco»
Lo
disse tutto d’un fiato, arricciando il naso e annuendo
tra sé come se fosse giunta alla verità
più profonda del suo essere con una
sola, superficiale occhiata.
E
Demian si sentì totalmente sprovvisto di difesa,
perché
davvero era troppo confuso. Proprio lei, che emanava da ogni poro
stranezza e
disagio, lei che ai suoi occhi era la quintessenza
dell’anormalità aveva il
coraggio di dare a lui, che cercava di fondersi con i muri il
più possibile pur
di sparire, dello stravagante?
Non
era solo disarmato, si sentiva con le spalle al muro
e stava ricambiando quell’espressione trionfante con tutto lo
scetticismo che
non sapeva mettere nelle parole, infatti la ragazza lo colse,
alzò gli occhi al
soffitto in un cenno di simulata esasperazione e gli ricordò
candidamente
«Vorrei farti presente che non sono io a… ehm,
“accoppiarmi” è la parola
giusta? Davanti a sconosciuti sul retro di un ospedale. Settimana
scorsa ero
io, oggi magari il postino. Chi lo sa, la vita è
imprevedibile!»
Con
quel colpo basso riuscì a fargli chinare il capo per
la vergogna.
Sconosciuta 1 -
Demian 0.
La
spensieratezza e le mille espressioni che erano in
grado di fare capolino sul suo bel volto gli avevano ricordato un
po’ Sarah,
per quanto fosse possibile visto che Sarah aveva solo nove anni, ma la
nonchalance con cui aveva appena fatto riferimento a
quell’episodio era al
limite del sopportabile e di certo cancellava con un colpo di spugna
tutta la
sua prima impressione di purezza e innocenza.
Non
era vero che era stata tanto sciocca da non rendersi
conto della situazione, semplicemente, era così lontana da
loro che non
potevano sfiorarla.
Ancora
una volta, in maniera fastidiosamente dolorosa,
Demian si sentì un’ombra, e si odiava
perché bastava il commento di una
sconosciuta a rigettarlo sempre nello sconforto della propria
nullità.
«Hai
frainteso» tentò di giustificarsi, ma lei
ridacchiò
smorzando immediatamente ogni tentativo.
«Oh,
io non credo proprio. Non che abbia una qualche
importanza, comunque!»
Demian
incassò la testa nelle spalle e si morse l’interno
della guancia, dedicando tutta l’attenzione alle righe delle
piastrelle.
«Piuttosto»
proseguì invece lei con aria giocosa
«Parliamo di qualcosa d’interessante!
Perché sei qui? Questo non è orario di
visite, come mai ti hanno fatto passare lo stesso?»
Raggelato
Demian sollevò di scatto la testa e la inclinò
per guardare alle sue spalle la porta socchiusa. La mortificazione lo
sbatté
nella realtà con la stessa forza di un pugno in faccia.
Maman era a pochi passi
da lui, erano separati solo da una porta sottile, e lui non riusciva ad
aprirla.
Maman
stava morendo, e lui non voleva più vederla, ed era
bastata una stupida ragazzina dagli occhi grandi ad allontanarlo da
tutto, come
se la malattia di sua madre non fosse importante e potesse resettarla
in un
istante e vivere una vita dove lei non c’era mai stata.
Sarebbe
stato più facile, fingere che maman non fosse mai
esistita, uscire dall’ospedale e continuare senza il pensiero
di doverci
tornare ancora e ancora.
«Jenevieve…
lei è tua madre, non è vero?» la
ragazza lo
richiamò di nuovo, con voce ad un tratto timida e
l’aria colpevole, remissiva.
Sembrava così piccola ora, come se il timore
l’avesse portata a raccogliersi e
restringersi, a renderla d’improvviso indifesa.
Aveva
il capo inclinato e gli occhi sciolti in una
torbida oscurità, cupa e inadatta al suo viso pulito e
solare. Anche così, era
bella, e lo coglieva impreparato, come se non sapesse fare altro. Tanto
impreparato che gli fece paura.
«Come
la conosci?» la domanda suonò come un ringhio, e
lei gli rispose abbozzando un sorriso sottile e discreto e abbassando
appena il
mento, in un moto d’insicurezza infantile terribilmente
tenero e familiare.
Iniziò ad attorcigliare un riccio ribelle intorno al dito
indice, e quel gesto
introverso, quel fragile e dolce timore stemperarono la sua collera sul
nascere.
Pensava, nella sua vita, che l’unica fragilità in
grado di distruggerlo fosse
quella di Sarah, eppure ora guardava una sconosciuta in volto e ne
provava una
tenerezza tale da annientare ogni sentimento negativo sul nascere.
Sembrava
veramente una bambina, beccata con le mani nella marmellata prima di
cena, e
c’era troppa ingenuità in quel suo modo di fare
dispettoso, provocatorio e
malizioso, troppa spontaneità perché potesse
riversare su di lei la propria
frustrazione.
«Qualche
volta le ho parlato. La conosco, un pochino»
confessò arrossendo, senza però distogliere lo
sguardo, fu questo a turbarlo
ancora, di nuovo, a non fargli trovare le parole. Per questo, con la
gola secca,
si limitò ad annuire e a darle la schiena, per spezzare il
potere di quello sguardo
verde senza ombre. Si affrancò ancora allo stipite per
creare una sorta di
muro, e pensò che avrebbe voluto che lei se ne andasse,
voleva potersi
crogiolare nella propria vigliaccheria senza la vergogna di essere
giudicato,
ma continuava a sentirsi quello sguardo attento e vivo addosso, lo
sentiva come
un peso leggero, come se avesse spessore.
Un
momento di silenzio e poi, con attenzione, quella mano
piccola e morbida tornò a cercarlo, sfiorò piano
le sue nocche ferite, le dita
già livide, le strinse con delicata fermezza e
accompagnò la mano offesa a sé,
costringendolo ancora una volta a notarla.
La
osservò inclinare impercettibilmente il capo mentre un
riccio sottile si posava sulla guancia ridisegnandole il profilo
«Questa va
curata».
Lo
disse con estrema dolcezza, accennando ancora un
soffice sorriso intriso di una lieve malinconia, uno sguardo che forse
avrebbe
potuto tradire della compassione, ma Demian non la vide, non
riuscì ad andare
oltre quelle labbra appena arcuate, ci si affrancò quasi,
perché erano calma,
sapevano di sicurezza, sapevano di un luogo caldo quando fuori pioveva
e lui
voleva solo una coperta nella quale rintanarsi.
Ecco,
quel sorriso sapeva di una calda coperta che
scacciava ogni turbamento, e per questo si ritrovò ancora ad
annuire, ché la
voce non voleva uscire eppure aveva il sentore che non servisse, che
lei
potesse capire anche così.
Senza
sciogliere quel contatto leggero e sicuro, la
ragazza gli fece cenno di seguirla e Demian, con
un’arrendevolezza che non
sapeva di poter provare, le andò dietro osservando la sua
schiena e quel
braccio teso verso di lui, allacciato al suo in un gesto tremendamente
infantile eppure incredibilmente rassicurante.
Si
fermarono davanti alla porta di uno sgabuzzino e lei,
come fosse la cosa più naturale del mondo, vi
entrò e iniziò a frugare fra gli
scaffali. Demian era confuso da tanta sicurezza, rimase docile sulla
soglia,
immobile, e pensò che quella perfetta estranea sembrava
davvero un animale raro
e lui avrebbe solo voluto dirglielo, ma non trovava le parole.
«Lo
fai spesso?»
Non
si stupì della mancata risposta.
Lei
lo guardò da sopra la spalla per un istante, forse
lesse tutta la perplessità che sentiva sul suo viso,
perché reclinò il capo
all’indietro e si lasciò andare ad una risata
spensierata, argentina e
selvaggia come un tintinnare di scacciapensieri.
Allora
Demian si morse l’interno della guancia e non
disse altro, si limitò a seguire, spinto da una
curiosità morbosa, ogni suo
movimento e come lo compiva fino a quando lei, dopo aver recuperato
bende e
disinfettante, non gli indicò con aria autoritaria una
piccola scala a tre
gradini a ridosso di uno scaffale.
«Siediti»
Annuì
di nuovo con circospezione e si vergognò di se
stesso, della scarsa capacità di eloquenza che stava
manifestando e della
completa mancanza di argomenti che non lo facessero apparire come un
perfetto
sciocco.
Aveva
molte domande che avrebbe voluto rivolgerle, non
tanto per il sapere fine a se stesso, ma perché erano i
dettagli a dare forma
ad un’anima, e i dettagli avrebbero arricchito la sua arte e
forse lo avrebbero
persino liberato da quel disperato e schiacciante senso di
incompletezza che da
giorni lo pungolava. Eppure lo aveva capito, chiedere non sarebbe valso
a
nulla, non a lei, quella ragazza non gli avrebbe mai risposto, per non
dargli
soddisfazione probabilmente.
Respirò
piano, socchiuse gli occhi e si accontentò di
sentirla, di percepire le sue mani piccole e morbide, un po’
goffe rispetto
alla sua figura slanciata, ancora immature, mentre lo medicavano
delicatamente.
Quando
ebbe finito, la osservò catturare l’altra mano,
sospesa
pigramente nel vuoto, e prenderla fra le sue, accarezzando
distrattamente con
il pollice i rilievi sottili sulle nocche.
«Non
dovresti farti del male» sussurrò assorta, per poi
guardarlo
appena dal basso e sorridere serenamente, cancellando ogni traccia di
paternalismo dalla sua uscita.
«Non
mi faccio male» ringhiò sulla difensiva,
più per
abitudine, salvo pentirsene all’istante.
Aveva
la sensazione che ogni affermazione di quella
ragazza fosse in realtà sempre una semplice constatazione
priva di qualunque
accusa o giudizio. Non la conosceva per poterne essere tanto sicuro,
eppure
inconsciamente ne era certo ed era la prima volta che gli succedeva di
provare
una tale, istintiva fiducia verso un estraneo. Era quella fiducia a
farlo
sentire a disagio, era quel confidenziale contatto tra le loro mani a
rilassare
i suoi muscoli e a far risuonare, contemporaneamente, un campanello di
allarme
nella sua testa.
Alzati, voltati
e vattene.
Era
troppo incuriosito da lei per dare retta a se stesso,
incuriosito dalla tranquillità con cui aveva nuovamente
ignorato la sua
simulata freddezza come se neanche avesse aperto bocca. Era immune ad
ogni suo
abituale tentativo di scacciare chiunque, ascoltava solo quello che
voleva e
dava l’impressione di un’imperterrita testardaggine
con cui sarebbe stato
meglio non collidere.
La
osservò studiare il reticolo di cicatrici perlacee
della sua mano, appena percepibile a occhio a causa del pallore che lo
caratterizzava,
seguendone il percorso con le dita.
D’un
tratto si bloccò, le palpebre appena abbassate si
spalancarono e la ragazza alzò gli occhi grandi, lucenti sul
suo volto tanto da
illuminarla tutta.
«Io
sono Arianna!» si presentò, un sorriso
così grande e
soddisfatto, felice in modo abbacinante per una sciocchezza, da avere
il sapore
agrodolce della sincerità più genuina e
spontanea, una dolcezza guastata dal
retrogusto amaro dei suoi ricordi, ché quella naturalezza
ricordava la sua
Sarah.
Arianna
Ne
saggiò le vocali e le consonanti, per decidere se il
suono gli piacesse, se fosse adatto a lei, ma ancora aveva le idee
troppo
confuse per capirlo e allora proseguì nel suo ostinato e
inconcludente
silenzio.
Arianna
lo canzonò subito, pizzicandogli la sottile pelle
del dorso della mano «Ora toccherebbe a te» gli
fece notare, stirando ancora le
labbra il più possibile, fino a creare una fossetta puerile
all’angolo della
bocca.
La
guardava e provava quell’impulso: alzati, voltati,
vattene. Poi però, s’incagliò in quegli
occhi da gatta smaltati di verde, e si
sentì smarrito, come di fronte a qualcosa di troppo grande
che non riusciva a
cogliere.
Come
se il piano della sua esistenza si stesse inclinando
gradualmente, e lui non riuscisse a restarvi affrancato, e allora
poteva solo
scivolare lentamente e inesorabilmente verso il basso, e sul fondo ora
ci
vedeva lei e un brivido di panico lo percorreva come una scossa
elettrica dalla
punta delle dita fino alla nuca.
Abbassò
gli occhi e accompagnò quel gesto di vile difesa
con una smorfia «E se non mi andasse?»
lo disse sperando di ferirla e che lei lo liberasse da quelle mani
morbide
ancora strette alle sue, ma Arianna scosse la sua testolina riccia in
un’onda
di boccoli arruffati e scuri, e rise sommessamente, tra sé e
sé quasi, come se
in qualche modo se lo aspettasse.
«Beh,
sarebbe un bel problema. Ma potrei sempre chiamarti
“Marpione”, sai, come un titolo. Tipo
“Ah, ecco, guarda là: quello è il
marpione del parcheggio”! Non è proprio conciso,
ma ti identifica con poche
parole, che ne pensi?»
Sussultò
e allontanò le mani da lei con un movimento
brusco e ostile, assottigliando gli occhi in un’affilata
linea accusatoria «È
questa l’idea che ti sei fatta di me?»
soffiò, senza curarsi di non far
trasparire l’enorme indignazione che l’aveva
travolto.
Perché
che non si fossero incontrati in circostanze
propriamente normali lo capiva anche da sé, e di certo
comprendeva con sentita
vergogna di non aver fatto mostra dei suoi pregi migliori, ma era con
Elena, si
trattava di Elena, non di chiunque. E forse era già tutto
irrimediabilmente
sporcato, ma non avrebbe accettato altro fango su di loro, non avrebbe
sopportato di vedere un qualcosa di già fin troppo logorato
venire svilito
ulteriormente fino a divenire feccia.
Arianna
per un momento parve incupirsi, si portò un dito
al mento e arricciò il nasino sottile dalla punta
all’insù con fare pensieroso,
poi si mordicchiò il labbro inferiore e abbozzò
un sorrisino ironico e
impertinente «Scarmigliato, con una mano dentro i pantaloni
di una fanciulla
indifesa. Chissà perché mi sono fatta una simile
idea, non riesco proprio a
capirlo» si tirò un leggero buffetto sulla
guancia, in un finto rimprovero
«Brutta Ari, brutta e maliziosa!»
Demian
era basito e sentiva le guance scottare di nuovo
imbarazzo, imbarazzo che doveva risultare palese perché
Arianna lo guardò in
viso e si lasciò andare ad un’altra, allegra
risata. Si stava divertendo alle
sue spalle e in tutta quella situazione non era questo il paradosso
più grande:
ben più paradossale era che non se ne sentiva assolutamente
infastidito.
Il
semplice fatto che riuscisse a stare nello stesso
spazio vitale con lui, ridendo tanto spensieratamente senza provare
alcuna
sorta d’imbarazzo o disagio, in qualche modo lo esaltava e
leniva la disperazione
che sentiva nel non riuscire a formulare un solo pensiero coerente.
Sembrava
che Arianna non lo guardasse nemmeno, che non
notasse nella sua apparenza nulla di anomalo. Lo faceva sentire, con
una
facilità sorprendente, un ragazzo normale in compagnia di
una persona
inconsueta, e Demian non era certo di cosa avrebbe dovuto provare,
perché non
si era mai realmente trovato in una situazione simile.
Arianna
non giudicava, nonostante ne avesse la
possibilità ed i motivi, per ciò che aveva visto
quel giorno, si limitava a
giocare e ridere, con quel sorriso sfuggente che sembrava gridare che
nulla era
davvero così importante da incrinare la sua innata allegria.
Quando
l’aveva vista la prima volta, aveva avuto la
stessa, sconcertante impressione, che il disagio e la confusione che
avevano
attraversato quel suo bellissimo viso fossero dovute ad una qualche,
futile
inezia che riguardava lei soltanto e non l’imbarazzante
momento che aveva
interrotto.
«Ti
ripeto che hai frainteso» mormorò debolmente,
più per
dire qualcosa che non per difendersi davvero, perché quella
limpidezza con cui
lo guardava uccideva qualunque tentativo di giustificazione.
Arianna rispose con un’immatura linguaccia «Eh no,
bello. Dovrai decisamente
impegnarti di più se vuoi convincermi!»
Demian
poté solo accigliarsi, ancora, e pensare che sì,
era ufficiale: Arianna lo confondeva.
«Cioè?»
La
osservò mentre, in un gesto consueto, si arrotolava un
riccio intorno al dito, muovendo le labbra in strane smorfie che
dovevano
essere abituali e involontarie espressioni di quando elucubrava fra
sé. La
trovava buffa, e adorabile quella vena innocente.
Completamente fuori
dal suo controllo, Demian sentiva nascere una curiosità
malsana e controproducente,
sentiva nascere il desiderio di imparare a conoscere ogni singola
smorfia, per
poterla leggere, per poter aver accesso a quell’anima
insolita che si
nascondeva dietro a sorrisi furbi e sguardi giocosi; perché
Arianna sembrava
ermetica nei suoi silenzi, eppure l’aveva colpito
l’impressione che, in realtà,
quelle stesse parole che non venivano espresse avrebbe potuto leggerle
sul suo
viso come un libro aperto, se avesse imparato la sua particolare lingua.
«Non
saprei» stava mugugnando intanto lei, assorta
«Però,
possiamo lavorarci. Oggi pomeriggio» si prese il labbro
inferiore fra il
pollice e l’indice e lo torturò per qualche
istante, raccolta nella sua
riflessione che lo comprendeva solo in parte, solo come spettatore
senza
volontà. Per questo, Demian deglutì un vuoto
d’aria e di sottile panico «Come
scusa?»
Arianna
batté le mani soddisfatta e finalmente lo guardò
con un sorriso raggiante «Sì, oggi pomeriggio
è perfetto!»
Avrebbe
voluto obiettare, ma ogni protesta, davanti al
suo entusiasmo, si spense, e rimase solo la meraviglia per quel
sorriso, per
come riuscisse davvero a farla splendere, per come riuscisse ad
accecarlo, a
inibire ogni suo senso o istinto di autoconservazione. Arianna non
sorrideva
solo con le labbra, sembrava che tutto il suo corpo tendesse a quello
splendore, persino il più piccolo movimento tradiva la sua
gioia straripante e
Demian si limitò, di nuovo, a chinare il capo, per paura di
essere arrossito.
«Allora
ti aspetto alle quattro qui fuori, però non fare
tardi. Odio la mancata puntualità»
Demian
continuò a guardarla a labbra schiuse, senza
trovare nulla da dire.
Interessante, è
sempre bello avere voce in capitolo.
Nel
mentre, decidendo da sé che ormai il loro incontro
era giunto al termine, Arianna si era avvicinata alla porta pronta ad
abbandonare lo sgabuzzino, ma poi, come folgorata, si bloccò
e tornò a
guardarlo.
«Non
mi hai detto il tuo nome alla fine. Me lo dici, o ti
devo davvero chiamare “Marpione”? No
perché se vuoi lo faccio»
Un
discreto blocco di saliva gli andò di traverso e
questa volta, ne fu certo dalla vampata di calore che gli
bruciò le guance,
doveva essere arrossito per forza.
Ne
era più che certo, che se non l’avesse
accontentata si
sarebbe ritrovato quello sciocco nomignolo appiccicato addosso come una
targhetta d’identificazione indesiderata.
«Demian»
borbottò in un soffio che aveva il sapore della
timidezza, ed invece era solo uno sforzo di vincere le proprie
resistenze
personali.
Sussultò
e quasi si ritrasse, come spaventato, quando la
vide avvicinarsi e, in un attacco di confidenza a lui inspiegato,
allungare la
mano per scompigliargli i capelli come se fosse un bambino.
«Demian»
ripeté sorridendogli ignara «Mi piace,
è un bel
nome. Non fare tardi Demi, o diventerò il tuo
incubo!»
Troppo tardi, lo
sei già e neanche lo sai
«Lo
sai che non hai risposto nemmeno ad una mia domanda?»
trovò da qualche parte le parole per apostrofarla, irritato
dalla sua
sfacciataggine forse, o da quella mano che gli aveva accarezzato i
capelli come
solo sua madre e le persone più vicine si erano mai permesse
di fare.
Ma
non la colse impreparata, Arianna fece mostra della sua
migliore espressione angelicata e ingenua, fin troppo scaltra, di chi
la sa
lunga ed innocente non lo è per nulla.
«Fa
parte del gioco Demi, do un valido motivo alla tua
mente di mettere a tacere la tua stupida coscienza per venire
oggi»
Demian
si accigliò e sbatté le palpebre più
volte, per
mettere a fuoco la ragazza o forse solo quel discorso, assurdo quanto
lei,
altrettanto incomprensibile.
Riuscì
solo a ricavarne un molto poco intelligente «Eh?»
che la fece ridacchiare ancora di gusto, con la mano sulla bocca a
nascondere
gli incisivi divisi.
«Se
verrai oggi, ti spiegherò perché sarai venuto
davvero, così potrai capire perché ho detto
ciò che ho detto» si fissarono
negli occhi per qualche secondo, e Demian pensò che forse in
quello sguardo
poteva leggerci qualcosa, ma poi Arianna rise di nuovo, strappandolo a
qualunque speranza di capirla.
«Non
scervellarti, è inutile. A dopo, Demi»
Va bene, ok. È strana. Troppo
strana.
È strana oltre
ogni mia logica.
E
non era quella la vera frustrazione. Più frustrante era
sapere che aveva dannatamente ragione, era ovvio, non c’era
nemmeno possibilità
di fingere una scelta.
Era
chiaro come il sole che quel pomeriggio sarebbe
andato da lei senza neanche pensarci.
ANGOLO
AUTRICE
Rieccomi, anche se con un leggero ritardo.
Prima di
tutto, vorrei lanciare un piccolo e
logorroico appello: ho premesso all’inizio -e sono ancora
decisa a mantenere la
parola- che questa storia vedrà la sua fine
indipendentemente dalla
partecipazione dei lettori, ma è il bisogno di ogni autore,
credo, sapere cosa
passa nella testa di chi legge.
Se
qualcosa non va, se invece qualcosa vi viene
trasmesso, non nego che avrei davvero piacere di saperlo, mi darebbe
una
bussola per capire se mi sto o meno muovendo nella giusta direzione e
mi forse
mi darebbe anche un pochino di sicurezza sui miei deliri.
In
particolare a chi l’ha inserita nelle
preferite, perché se l’avete fatto un motivo pure
ci sarà, e sarebbe bello se
lo condivideste con me!
Ma non
voglio essere pedante (eh, sì, troppo tardi!
XD)
Dami qui
riceve la notizia che già aleggiava
nell’aria dai capitoli precedenti, la situazione gli crolla
addosso e da adesso
avrà un modo forse un po’ discutibile di gestire
il suo stato emotivo. Di contro,
finalmente conosce Arianna, che è in realtà
più logica e sensata di quanto non
possa apparire ad un primo impatto, ma spero imparerete a conoscerla.
È
stato un capitolo estremamente impegnativo
per me, soprattutto nella prima parte, cercare di descrivere la sua
reazione
alle parole di Marisa mi ha… sfiancata!
Ho fatto
del mio meglio e sono molto curiosa
di sapere Arianna che impressione vi ha fatto!
Ah,
forse il prossimo arriverà tra due o tre
settimane, perché sono un poco impegnata!
|
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Capitolo 9 *** Mi dispiace ***
À Demian
Capitolo settimo
Mi dispiace
La linea scura
della grafite, seguendo il percorso della sua mano, si
delineò precisa come una
ferita netta sulla carta spessa da disegno.
Demian ne ascoltava
il rumore, un grattare leggero, un minimo attrito della mina,
piacevole,
confortante. Riusciva a non pensare al dolore affilato che
s’inerpicava su per
le dita e rendeva i movimenti più lenti e scostanti.
Nonostante il male non
voleva aspettare, sentiva che, forse, quello era il momento giusto,
forse
sarebbe riuscito dove aveva fallito costantemente negli ultimi giorni.
La benda lo intralciava,
ma tutto era sopportabile, aiutava a non concentrarsi su altro e Demian
sapeva
di non dover pensare, doveva guardare solo lei, vedere solo lei.
Incastrò tra i
denti la matita che stava utilizzando per poter sfilare la 8B da dietro
l’orecchio, poi iniziò a marcare con
più decisione le zone d’ombra del volto
morbido, la linea sbarazzina del naso. Ripose nuovamente la 8B tra
l’orecchio e
i capelli e passò ancora alla più rigida B, per
sfumarle dolcemente e far risaltare
un punto di luce.
Ogni gesto era
vittima dell’abitudine, Demian si aggrappava
all’istinto come un bambino al
filo di un aquilone e cercava di assecondare il vento per tenerlo
sollevato un
poco, ancora un poco, il tempo di acciuffare l’immagine che
non aveva
definizione e si presentava come una strana, informe idea pronta a
prendere
struttura solo nel momento in cui la mina trovava la sua impressione
sulla
carta. Riusciva ad ignorare il disagio del dolore proprio
perché quell’istinto,
come la voce incantatrice di una sirena, era più forte di
tutto e pretendeva,
con una prepotenza inaccettabile, di essere ascoltato, di diventare
ciò che era
nato per essere.
Strinse la matita
fra i denti e recuperò lo sfumino.
Un tocco leggero,
una carezza soffice alla carta ingiallita, poi interruppe il movimento
e si
fermò ad osservare la figura che andava tratteggiandosi, a
ricercarne i
difetti, a frugare le imperfezioni che l’avrebbero resa
più “lei”. Era sui
difetti che lavorava, erano le mancanze i punti di riferimento a cui si
aggrappava con forza per ricreare un viso, eppure quel volto levigato
lasciava
troppo poco spazio alle imperfezioni con le sue linee dolci e gli occhi
a
goccia da gitana.
Avrei dovuto usare il
carboncino
Lo realizzò
mordendosi la guancia e maledicendosi insieme, ché sarebbe
stato più semplice,
avrebbe potuto sbozzare l’immagine, usare un tratto
più grezzo e impreciso, più
spontaneo e meno ponderato, ma nella concitazione del momento si era
semplicemente limitato ad afferrare il primo astuccio che aveva
trovato, e le
matite erano ciò che ne era uscito.
Ogni suo muscolo si
oppose di fronte alla sorpresa di quello sguardo, inciso su un foglio
eppure
ammaliante del fascino che ammantava la controparte reale.
Arianna aveva degli
occhi incantatori impossibili da afferrare, ed ebbe la sensazione che
non ci
sarebbe mai riuscito, che avrebbe potuto provarci ancora e ancora,
eppure alla
fine non sarebbe giunto ad altro che ad un mero tentativo di avere
quell’anima
tra le sue mani. Avrebbe potuto illudersi, di aver colto la sua
profondità più
oscura, ma si sarebbe solo ingannato.
La ragazza del
disegno forse assomigliava ad Arianna, forse Demian poteva avere
l’ardire di
credere di essere riuscito ad imprimere la sua essenza più
intima, ma sarebbe
stato solo un inganno volto a nutrire il proprio ego.
Mancava ancora
qualcosa.
Mancava una
sfumatura selvaggia in quelle iridi torbide, sporcate
d’innocenza, mancava la
vena maliziosa intrisa di semplicità e purezza.
Con amarezza
realizzò di essere ben lontano dallo stringerla.
Arianna lo guardava
sfrontata e troppo candida persino da un ritratto ricco
d’ingenuità, segnato da
assenze che lo rendevano povero, solo un’immagine vuota.
Eppure, non riusciva a
smettere di ricalcare con la memoria il percorso tondo della mandibola,
l’irriverenza di quel nasino dalla punta appena sollevata
verso il cielo, gli
incisivi infantili leggermente divisi che davano al suo sorriso una
luce nitida
e pulita, chiara di aria tersa in una giornata di primavera. Non
riusciva a
smettere, e quel ricordo si sovrapponeva senza pietà al
disegno e lo sviliva
crudelmente.
Era stato
l’incontro più disarmante della sua vita, eppure
provava della gratitudine
verso quella sconosciuta, destabilizzante ragazzina. Grazie a lei, era
riuscito
a rendere più piccolo e distante il pensiero di maman, a
ridimensionarlo per
infilarlo a forza in qualche scomparto della sua mente a cui potesse
prestare
meno attenzione.
Ed anche se
continuava ad inciamparci, nella consapevolezza di Jenevieve,
dell’ospedale,
del tempo e di Sarah, poi guardava il suo lavoro e Arianna, in un
qualche modo
a lui sconosciuto, riusciva a concorrere per intensità a
tutti i nodi di
pensieri che gli si dibatteva dentro, tutti stretti in
un’unica rete perché non
riuscissero a fuggire e nessuno prevalesse sull’altro.
Abbassò il braccio,
quella mano dolorante ancora sospesa, in dubbio se lasciare ancora un
altro
segno o fermarsi e basta, e accontentarsi di aver quasi sfiorato
un’idea, ché
forse già solo riuscire a percepirla, quell’idea,
era più che sufficiente, era
già troppo.
Era pretendere di
varcare un confine sacro, era credere di poter conoscere la
Fatalità.
E Dem proprio non
sapeva cosa avrebbe dovuto fare, se sarebbe stato meglio restarsene a
casa o
incontrarla, se avrebbe o meno fatto meglio a chiedere a Julian qualche
consiglio, prepararsi qualche ipotetica domanda da farle per non
restare
completamente in silenzio o, più sensato, qualche risposta.
Si passò la mano
sano sul volto e si stropicciò gli occhi in un vano gesto di
esasperazione.
Stava sguazzando in
fisime allucinanti degne della più scalmanata teenager di
fronte a Jesse
McCartney ma ripetersi da solo, come un mantra, di darsi una calmata
non stava
portando alcun aiuto alla sua causa.
Il suono della
campanella lo riportò bruscamente alla realtà:
l’ora di Figura si era appena
conclusa, e lui aveva bellamente ignorato quello che avrebbe dovuto
essere il
soggetto imposto dal professore.
Il cavalletto di
legno nel centro dell’aula, così vuoto e inutile,
aveva un retrogusto di antico
e abbandono, e Demian lo guardò forse per la prima volta con
il labbro tra i
denti e le palpebre socchiuse. Alcuni esercizi di profondità
erano per lui
estremamente complessi e quasi inutili, motivo per cui tendeva ad
ignorarli: la
sua visione stereoscopica era ridotta e l’astigmatismo, per
quanto non
eccessivo, unito a questo difetto gli rendeva difficile riprodurre
fedelmente
il reale da una certa distanza. Invece, con il volto di Arianna era
stato
diverso, i dettagli si erano incisi a fuoco nella mente in maniera fin
troppo
nitida, poche volte gli era parso di aver percepito tanto chiaramente
qualcosa
o qualcuno al di fuori di Sarah e di maman.
I suoi compagni di
classe avevano raccattato le proprie cose e stavano rapidamente e
disordinatamente abbandonando l’aula per ritornare alla loro,
al secondo piano.
Demian li osservò, una macchia dai contorni un poco sfocati,
poi guardò ancora
Arianna, provò il noto senso di delusione e disillusione e
si decise a
raccogliere il suo materiale e a riporlo finalmente nello zaino.
«Sbaglio o questo non
è un cavalletto?»
Dem alzò pigramente
il viso ed incrociò gli occhi nocciola di Giulia ed il suo
sorriso intenerito
da mamma.
Non sono un cane, non
ho gli occhioni sberluccicosi, non
c’è nessun inutile motivo per cui tu mi debba
guardare così.
Fu tentato di
dirglielo, ma poi avrebbe dovuto dare importanza ad uno sguardo e non
gli
andava. Scrollò le spalle «Perspicace come
sempre» la pungolò con scarsa
convinzione, ed infatti Giulia non si offese, si chinò sopra
la sua spalla e
dedicò tutta la sua attenzione al ritratto.
La sua espressione
mutò rapidamente, da seria ad incantata.
«Wow» la sentì
soffiare piano, corrucciando la fronte senza più aggiungere
altro.
Quel silenzio lo
mise inaspettatamente a disagio, il non sapere se a colpirla era stata
la sua
tecnica o il soggetto di per sé, plausibilissimo dato che la
ragazza sul foglio
tutto era meno che comune.
«Ha degli occhi
incredibili, ma sembrano… finti. Come le immagini dei
cartelloni pubblicitari o
cose così. Non sono troppo irreali?»
Demian accennò un
sorriso, perché almeno Giulia gli aveva appena confermato
che non era un pazzo
fissato, che gli occhi di Arianna erano davvero particolari, fuori dal
comune.
E tuttavia, quel tratto finto che la compagna aveva colto era
probabilmente da
imputare alla vuotezza che proprio non gli riusciva di colmare con la
sua arte,
e questa verità era svilente.
«È davvero bella.
Forse, mhm, la spalla. Non è troppo ossuta?»
continuò a valutare ancora Giulia
fregandosi il mento tra pollice e indice. Aveva abbandonato
completamente la
veste della reticente, timida fanciulla per calarsi nei panni della
studentessa
di arte dall’atteggiamento critico, un riflesso naturale dopo
più di un anno di
lavaggio del cervello sull’importanza delle proporzioni e il
dramma degli occhi
a forma di “olive schiacciate”.
Era un modo di
porsi comune, e se per primo si fosse trovato di fronte ad una simile
immagine
avrebbe avanzato la medesima osservazione. Il problema era che Arianna
era
veramente troppo magra, gli pareva quasi miracoloso che il suo apparato
muscolare così rarefatto riuscisse a tenerla in piedi,
sembrava avesse solo
pelle sulle ossa.
Bravo, mi sembra
giusto, ragiona anche tu come se stessi
guardando un modellino in scala invece di una persona.
«Lo so. Ma volevo
restare fedele all’originale»
«Oh» si lasciò
sfuggire la compagna, con una vaga inclinazione di delusione che
però scomparve
subito «Hai più sentito Barbi? Abitiamo vicini, ma
è da una settimana che non
viene a scuola e non lo vedo»
Il rapido cambio di
argomento lo spiazzò un istante, non gli era chiaro
perché Giulia avesse
interrotto la sua analisi, ma forse doveva essere stato un brutto colpo
all’autostima sapere che Arianna esisteva davvero, eccome, e
non sapeva cosa
significasse la parola silenzio tra l’altro. Ci mise quel
momento più del
dovuto, per registrare la nuova domanda.
«Perché avrei
dovuto?» aveva risposto d’istinto, senza
riflettere, senza nemmeno associare un
volto a quel nome. Poi però, in pochi secondi
ripescò i ricordi della settimana
precedente, del ragazzino rachitico e di quel favore che avrebbe dovuto
fargli.
Che avrebbe dovuto,
ma che aveva scordato.
Lo aveva scordato
perché aveva incrociato Arianna.
«Beh, mi ha detto
che lo hai aiutato, che non sei così male» gli
stava spiegando Giulia nel
mentre, il volto decorato da quel suo sorriso fiacco e timido.
Riuscì a farlo
vergognare e mentre deglutiva la saliva gli rimase come un pesante
groppo in
gola.
Non lo ho aiutato, mi
sono dimenticato di lui.
Ho visto quella
sconosciuta e ho visto Elena e sono
scappato.
Non solo non si era
presentato all’incontro, soprattutto si era fatto travolgere
dalla propria
egoistica vena creativa e aveva spento il cellulare, per cui si era
reso
impossibile da rintracciare e magari Frankenstein si era anche
presentato
all’appuntamento, ma se anche Alex l’avesse
incontrato al suo posto, non aveva
avuto comunque modo di contattarlo per poterlo avvisare.
Sperò di non aver
messo Barbi in guai, se possibile, ancora più grandi.
«Tu hai il suo
numero, giusto?»
«S-sì, ci
conosciamo da quando siamo piccoli»
Demian accese il
cellulare per farselo dettare e questo iniziò a vibrare
inoltrandogli tutti i
messaggi ignorati nell’ultima settimana di eremitaggio.
Bastava solo il
pensiero di doverli leggere tutti a fargli desiderare di spegnere di
nuovo quel
dannato apparecchio e magari di sparire per altri sette giorni. Se
avesse osato
però, quasi sicuramente si sarebbe ritrovato fuori casa
vigili, carabinieri,
pompieri e quant’altro.
Meglio non giocare
troppo con l’apprensione della zia
Con un sospiro
rassegnato ignorò la cartellina lampeggiante dei
“messaggi ricevuti”, si limitò
a salvare subito il numero di Barbi in rubrica e a inviargli un
messaggio per
sapere dove fosse, come stesse e di chiamarlo immediatamente se
Frankenstein
gli aveva creato qualunque problema.
Per quanto lo
ritenesse assurdo e cercasse di convincersi che non era
così, si sentiva
responsabile di quel ragazzino, sapeva di aver peggiorato in qualche
modo la
sua situazione intromettendosi e si sentì improvvisamente in
colpa, quasi a
tradimento.
Giulia lo stava
guardando, intimidita, e Demian realizzò che erano rimasti
solo loro, lo stava
aspettando. Si concentrò sul suo viso ordinario, piccolo,
gli occhi dal taglio
pigro e i capelli tirati indietro da una fascia fucsia che mostrava la
fronte
bassa e liscia e i tratti regolari del naso. Si era truccata in modo
leggero e
fine, rispetto alla volta precedente, il delicato tocco di perla dava
più luce
ai suoi occhi scuri.
Infilò il disegno
nella cartelletta, ripose tutto nello zaino e si alzò
abbozzando un sorriso
verso la piccola ragazza che gli arrivava poco sotto la spalla.
«Così stai meglio»,
commentò semplicemente, per rimediare forse inconsciamente
alla scortesia che
le aveva dimostrato. Non chiarì a cosa si riferisse e non ce
ne fu bisogno, Giulia
doveva aver capito, perché arrossì abbassando il
capo e mormorò un “grazie”
impacciato dalla vergogna.
Si avviarono insieme
verso la loro classe, Demian ad un tratto si rese conto della completa
mancanza
di disagio nell’avere Giulia accanto come fosse davanti ad
una rivelazione
dalla portata immensa: era una presenza discreta e tranquilla, serena
come la
placida superficie di uno stagno, un’acqua cheta
eccessivamente timida.
Era difficile,
provare un desiderio di accanimento di fronte a qualcuno dalla
personalità
tanto buona da sembrare persino fin troppo manipolabile. Non se ne era
reso
conto, in quel primo incontro, eppure ora lo sentiva con una certezza
quasi
presuntuosa: Giulia era il tipo di persona disponibile al punto che per
affetto
si sarebbe perfino abbassata ad un livello secondo lui umiliante.
La sua discrezione
poi la rendeva piacevole, per nulla invadente.
«Era la tua
ragazza?» sussurrò lei, prendendosi le mani come
non sapesse che farne.
Eh, come non detto.
Demian la squadrò
dall’alto e si rimangiò tutti i bei pensieri
appena formulati.
«No»
La risposta secca e
brusca fece sussultare Giulia, che però si lasciò
sfuggire un sospiro dalla
sfumatura sollevata.
«Però deve piacerti
molto» insinuò, forse per tastare la sua reazione.
Dem ci rifletté un
momento, scavando in maniera superficiale le impressioni che lo avevano
colpito
alle spalle quando aveva parlato con Arianna, alla ricerca di una
definizione
che ponesse fine alla curiosità della compagna di classe.
La verità era che trovava
Arianna bella in modo imprevisto e per lui evidentemente fatale, ma se
ci
rifletteva, doveva trattarsi solo di questo, di un capriccio estetico
perché
questo era tutto ciò che aveva conosciuto di lei.
«È bella»
constatò,
ma non si sentì soddisfatto da quella conclusione, la
trovava riduttiva,
suonava inappropriata, non bastava a coprire ogni gradazione del suo
turbamento.
Accompagnò le
proprie parole con una smorfia di disappunto che fece ridacchiare
Giulia.
«Oh Demian, dovrai
superare questa cosa del non riuscire mai a parlare, lo sai? Ho
l’impressione
che dici sempre ciò che non pensi, solo perché
credi sia la cosa giusta da dire»
Erano giunti sulla
porta della loro classe e Giulia, prima di accomiatarsi, gli
dedicò un altro
sorriso colmo d’indulgenza e tenerezza «S-senti,
credo di aver capito che sei
un po’ un caso perso, ma io non riesco a vederti terribile.
Se…. Non lo so, se
avessi bisogno di una mano, anche con la tua bella, puoi sempre
chiedermi tutto
quello che vuoi. Un parere femminile magari ti è
d’aiuto»
Le sue guance
raggiunsero lo sgargiante colore della sua fascia per capelli fucsia,
lo
congedò con un goffo cenno della mano e si
precipitò dalle sue due amiche oche.
Demian invece
rimase immobile, a ponderare quelle parole e la purezza
dell’intenzione, una
disponibilità regalata con troppa ingenuità e che
pure, in sé, portava qualcosa
di quasi commovente.
Non gli dispiaceva,
Giulia, pensò che probabilmente, fuorviato dal suo malumore,
l’aveva giudicata male,
aveva reagito sulla difensiva e lei invece desiderava solo potergli
parlare.
Certo, il giorno del loro primo incontro non era stato un buon giorno,
questo
però doveva aver influito troppo sulla sua
capacità di giudizio perché ora
pensava che avrebbe potuto parlarci ancora, averci un rapporto civile.
Con uno sbuffo
sconfortato raggiunse il suo banco.
***
Demian aveva perso
la cognizione del tempo trascorso a tormentarsi la benda della mano
come fosse
il suo più acerrimo e fastidioso nemico, ma per quanto ogni
minuto era pesato
doveva essere passato come minimo un quarto d’ora.
Nonostante tutti i
tentennamenti da fanciulla innocente al primo appuntamento, alla fine
era sceso
a patti con se stesso e aveva deciso di presentarsi
all’incontro.
Certo, essere
arrivato con mezz’ora d’anticipo l’aveva
fatto sentire un cretino, ma mai
quanto il successivo appostamento davanti all’ingresso con
tanto di marcia
avanti-indietro come il peggiore degli avvoltoi. Le quattro erano
passate da
molto, eppure di Arianna non c’era la minima traccia e Dem
era scisso tra il
sospiro di sollievo che premeva in gola per uscire e la profonda
indignazione
per la buca appena ricevuta.
Si sentiva
umiliato, per tutta la mattinata si era tormentato inutilmente ed ora,
invece
di continuare a tenere quell’atteggiamento scanzonato da figo
che in realtà
celava più disagio che altro - appoggiato alla parete con il
cappuccio
sollevato, i capelli nascosti nella berretta nera e le cuffie nelle
orecchie-,
avrebbe voluto prenderlo a testate, il muro.
Giusto per punirsi
un poco per la propria semplicità infantile che
l’aveva portato davanti
all’ospedale ad aspettare qualcuno che non si sarebbe
presentato.
Le ultime ore di
scuola erano state infinite, aveva avuto la percezione distorta che il
tempo
non stesse assolutamente scorrendo. Anzi, pareva ostinato a restare il
doppio
del solito su ogni minuto, rendendogli l’attesa un inferno.
In quella
sospensione temporale in cui il suo cervello si era dato
all’apnea, solo l’ora
di Figura era stata di un qualche sollievo, mentre tutti gli altri
tentativi di
riempire uno spazio vuoto si erano rivelati fallimentari.
Quando si era reso
conto di aver riletto dieci volte la stessa pagina senza aver
assimilato
neanche una frase, aveva gettato la spugna e si era lasciato scivolare,
senza
più opporsi, in uno stato vegetativo deprimente.
D’altro canto, se “Notti
Bianche” non era stato una lettura sufficiente a risvegliare
i suoi sensi,
nulla sarebbe servito alla sua causa.
Con le spalle
contro il muro e gli occhi intrecciati ai sampietrini, Demian
provò una strana
sensazione, un’analogia tra se stesso e il libro che aveva
abbandonato sul
banco di scuola poche ore prima. Forse era in quel modo che si era
sentito
l’anonimo protagonista nell’aspettare pazientemente
ogni sera la comparsa di
Nasten’ka, forse era quello il sentimento disperato della
ricerca di un raggio
di sole a cui aggrapparsi quando si era in mezzo ad una tempesta, come
un
singulto affranto che strinava la gola per gridare aiuto, per
assicurarsi alla
vita.
Un brivido scivolò
con una scarica elettrica nei muscoli, percorrendo ogni terminazione
nervosa
per permettergli di percepire a fondo l’angoscia.
Ti stai facendo
suggestionare troppo.
Ti stai attaccando non
a lei, ma all’idea che ti sei
fatto di lei, al tuo inutile bisogno.
Eppure, quel
bisogno doveva necessariamente soddisfarlo, aveva la
necessità primaria di un
momento d’illusione, di una beatitudine fittizia che poi
sarebbe anche potuta
svanire, ma almeno gli avrebbe concesso il tempo di risollevarsi.
Doveva crederci,
che fosse possibile, doveva convincersi che Arianna fosse la
possibilità di una
distrazione felice, e paragonarla a Nasten’ka non gli portava
alcun conforto,
non conoscendo il finale del racconto.
Smise di
giocherellare con il bordo della garza quando la chitarra di
“Sometimes I Feel
Like Scremiang” venne sostituita da una pianola dalla
dolcezza nauseante.
Recuperò subito l’mp3 dalla tasca del giubbino e
stoppò “Reality”
immediatamente.
Julian gli aveva
portato quel piccolo aggeggio dall’America come regalo,
Demian alla fine lo
aveva aperto quel pomeriggio, per distrarsi, e aveva trovato un
biglietto del
cugino che sosteneva fosse più pratico del suo Lettore CD e
che aveva
provveduto lui stesso a riempirlo delle sue canzoni preferite.
Provò l’immenso
desiderio di strozzarlo: la colonna sonora de “Il tempo delle
Mele” decisamente
non era una delle sue canzoni preferite.
Si guardò
rapidamente intorno, quasi temendo di essere stato colto in flagrante
ad
ascoltare un brano tanto smielato e imbarazzante, ma si
tranquillizzò subito
costatando – con una certa amarezza, doveva ammetterlo
– che non c’era nessuno.
Proprio nessuno.
La sua, di
Nasten’ka, era persino peggiore della controparte cartacea,
non aspettava la
quarta notte per scaricarlo, evitava direttamente di presentarsi alla
prima.
Demian guardò la punta delle scarpe da ginnastica, si morse
il labbro e pensò
che, probabilmente, al posto di lei nemmeno lui si sarebbe fatto vivo.
Il cellullare
segnava già le quattro e venti, ma decise di provare
ugualmente a concederle il
beneficio del dubbio per un altro quarto d’ora,
ché forse era davvero solo in
ritardo, anche se questo avrebbe contraddetto l’affermazione
di Arianna
sull’odiare i ritardatari.
Credere che si
sarebbe presentata avrebbe lenito l’umiliazione che lo
tormentava.
Nel frattempo,
cambiò canzone e scrisse a Julian
Demian
Reality? Sto
seriamente pensando di pestarti, per questo.
9/10/2001
16:20
Poi si guardò
attorno ancora ma, non vedendola all’orizzonte si arrese,
decise di attenderla
nell’atrio dell’ospedale, al caldo.
Scivolò lentamente in una delle seggiole di
plastica blu legate insieme, e pensò che forse erano ancora
meglio quelle del
reparto di Oncologia, ché la finta pelle anallergica a
confronto era velluto.
Il cellulare vibrò,
il nome del cugino faceva capolino sullo schermo.
Jules
Ahahah non mentire,
tanto lo so che in realtà la stai ascoltando stringendo Lala
fra le tue
braccia! L’ho scelta con amore! XD
9/10/2001
16:24
Ecco dove vuole andare
a parare quell’idiota. E ti pareva
se non tirava in mezzo il cane.
Demian
Sei un cazzone e ti
prenderei a pugni… con tanto amore s’intende
9/10/2001
16:26
Jules
Non hai senso
dell’umorismo =)
9/10/2001
16:30
Sono quasi totalmente
sicuro che sia il tuo senso
dell’umorismo a fare schifo
Era passato il
tempo che aveva pattuito con se stesso, e di Arianna alla fine non
c’era
comunque traccia, perciò si rassegnò a tornarsene
a casa.
Potrei sempre andare
da Jules a rendergli il pugno
promesso.
Fece per alzarsi
quando lo sguardo gli cadde sulla schiena di una donna seduta in
attesa,
proprio come lui, due file di sedie più avanti. I capelli
erano di un biondo
slavato, raccolti in un disordinato chignon, le spalle ricurve davano
l’impressione di un’eccessiva stanchezza e il
picchiettare impaziente del suo
piede destro, mentre si mangiava un’unghia, era un indice
sufficiente della sua
ansia. Demian aveva avuto la sensazione di conoscerla, ma ci mise
qualche
istante a realizzare che si trattava della medesima persona trafelata
che aveva
attirato la sua attenzione e quella di tutte le infermiere la settimana
passata, prima che Elena entrasse nel suo campo visivo e lo distraesse,
ovviamente.
La osservava e ne
provava tristezza e tenerezza insieme, doveva trattarsi di una madre,
una di
quelle vere, che senza i propri figli non sanno respirare, che sanno
amarli
come e più di loro stesse.
Demian era sempre
stato affascinato, da quel tipo di madre che sa fare la madre.
Avrebbe voluto
vedere quell’ansia, quell’apprensione, rivolta
anche lui, avrebbe voluto vedere
maman dedicargli quel tipo di amore, qualche volta. Ma maman era una
madre che
dava spazi, anche troppi, che concedeva errori anche quando erano
troppo grandi
e non si sarebbero dovuti compiere.
Lei non si rendeva
conto della portata della sua tolleranza, così eccessiva da
trasformarsi in
indifferenza.
«Pensavo non
saresti tornato oggi» la voce dolce di Marisa lo costrinse a
riscuotersi. Si accigliò
un attimo, non cogliendo a cosa si riferisse, poi si lasciò
sfuggire un’altra
smorfia, un piegarsi scontento di labbra che non avrebbe voluto
condividere ma che
era stato troppo istintivo per essere comandato.
Anche io
Però, non lo disse.
Abbassò gli occhi e
si sentì ancora bambino, davanti ad una donna che non era
mai riuscito a
guardare davvero in volto, per paura, perché lei in certi
momenti non era più
“Marisa”, mutava in qualcos’altro,
diventata il suono di ciò che non aveva la
forza di ascoltare.
«Come ti senti,
tesoro?»
Come in un
déjà-vu, come quando mi guardavi in silenzio e
non avevi nulla da dirmi. Come quando a malapena mi sfioravi, come se
con il
semplice tocco avessi potuto trascinarti nel mio abisso insieme a me, e
speravi
che quel tuo disagio io non lo vedessi.
Era una brava
donna, si era sempre presa responsabilità che non le
competevano, solo per
amicizia verso Jenevieve, per un senso del dovere che probabilmente era
stato
pesante quanto un macigno. Demian si arrabbiava a volte,
perché lei non aveva
fatto di più, ma poi si crogiolava nel calore della sua
infanzia e allora il viso
di Marisa tornava ad essere un’immagine gentile e
rassicurante, una signora che
l’aveva coccolato di dolci e viziato di cioccolate, che era
rimasta seduta
accanto a lui in silenzio ogni volta che maman aveva degli esami e lui
rimaneva
ad attendere da solo, senza aver nulla da fare e senza poter capire
davvero la
situazione.
Le voleva molto
bene e non desiderava biasimarla, né sfogare su di lei la
propria frustrazione.
«Sto bene. Dovevo
solo… assimilare la notizia» accennò un
sorriso debole velato di colpa. In
quella manciata di parole aveva raccolto tutta la sua ipocrisia,
ché in realtà
non aveva la minima intenzione di assimilarla, aveva deciso che
l’avrebbe
ignorata e basta.
Avrebbe ignorato
Jenevieve come se non fosse mai esistita, e forse sarebbe stato meglio
dopo,
forse sarebbe riuscito ad abituarsi prima a quando non fosse
più esistita
davvero. Arianna era parsa un buon compromesso: una bellezza che
riusciva a non
lasciarlo indifferente ed una personalità che riempiva bene
gli spazi. Sembrava
il lenitivo perfetto, ma era una possibilità sfumata in
partenza e dissolta con
la stessa rapidità con cui si era formata.
Questo rifiuto
senza possibilità di replica non si era limitato a ferire il
suo orgoglio, gli
aveva lasciato addosso anche un’inspiegata amarezza, la vaga
percezione di aver
appena perso qualcosa di bello senza una ragione.
Non riusciva a
capire perché, se la sua intenzione era quella fin dal
principio, Arianna gli
avesse chiesto di vedersi neanche fosse una questione fondamentale.
«Le hai parlato?»
A maman non ad
Arianna. Concentrati, Crétin!
«Non mi va»
In sottofondo, restava lo snervante ticchettare
del piede
della signora bionda che ora iniziava a seccarlo.
«Posso chiederti cosa aspetta quella
donna? L’ho
riconosciuta, anche settimana scorsa era qui»
Non era veramente interessato né
curioso, semplicemente la
nevrotica sconosciuta gli era parsa il miglior pretesto per distogliere
l’attenzione da sé e da quell’argomento
spinoso che era più che deciso a non
toccare più. Marisa seguì il suo sguardo e si
soffermò a sua volta sua quella
figura fragile prima di liberare un sospiro.
«È una brutta storia. Sembra
che suo figlio sia stato preso
di mira da un gruppo di ragazzi, forse è un caso di bullismo
ma anche fosse, si
è rifiutato di parlare quindi c’è poco
da fare. Comunque l’hanno conciato per
le feste, povero ragazzo.»
Marisa inclinò il capo verso di lui e
gli regalò un sorriso
dolce e materno «Anche se ha la tua età,
è così mingherlino che, quando l’ho
visto, mi ha ricordato di quando eri bambino»
Demian deglutì a vuoto mentre
un’idea, che in realtà era solo
consapevolezza, si faceva strada dentro di lui.
«È straniero? Biondo, piccolo
di statura?»
Marisa aggrottò la fronte e
abbassò le palpebre in quella sua
espressione indagatrice troppo poco severa perché potesse
davvero avere effetto
«Lo conosci forse?»
«Puoi dirmi il reparto e la
camera?»
«Non mi hai
risposto»
«Nemmeno tu»
Demian cercò
d’imprimere nei propri occhi tutta l’urgenza che
stava provando, un nuovo nodo
allo stomaco alla sua infinita lista di sensi di colpa che sperava
davvero
l’infermiera potesse scorgere leggendo tra le righe.
La vide esitare,
portarsi alla fronte la mano segnata dal lavoro e
dall’età, sospirare e
arrendersi come faceva sempre, con una rassegnazione che sapeva sempre
di un
“almeno questo te lo devo” che Dem non sapeva
spiegarsi.
«Non voglio sapere
perché è così importante. Sai come
funziona, cerca di essere discreto»
Con il suo tatto
dovuto probabilmente ad una vita dedicata alla cura degli altri, Marisa
si
risparmiò qualunque domanda inopportuna,
l’esperienza le aveva insegnato tutto,
Demian lo percepiva ogni volta che l’infermiera arriva fin
quasi a toccare un
suo limite, limite che lo avrebbe spinto a ritrarsi, e si fermava da
sola.
Prima di avviarsi
al padiglione dove era stato ricoverato il ragazzo, per
un’ultima, amara volta,
si soffermò sull’orologio dell’atrio,
giusto per avere un’ulteriore conferma
che fossero le quattro e quaranta e che Arianna, evidentemente, non si
sarebbe
più presentata.
Maximilian Aderca
Era quello il suo
nome.
Non c’erano margini
di dubbio, dal vetro della porta Demian lo vide seduto nel suo lettino
bianco,
con la schiena irrigidita e il capo fasciato, e lo riconobbe.
Quello era davvero
il ragazzino che avevano picchiato lui e i suoi amici, e gli bastava
un’analisi
veloce per capire che lo avevano ridotto male. Bussò piano
prima di aprire la
porta, e Max volse il capo nella sua direzione con lentezza esasperante
ed una
smorfia che gridava quanto ogni movimento gli costasse dolore.
Demian vide la sua
espressione perplessa trasformarsi in terrore, gli occhi grandi per
quel viso
smunto dilatarsi, e gli sembrò quasi di tornare a quella
sera, davanti ad una
creatura così piccola e spaurita, un animaletto selvatico in
trappola.
«Tu sei quell’albino
di merda, sei uno di loro. Perché sei qui? Non ho detto un
cazzo a nessuno» il
tono era ostile, ma la voce soffiata, leggera, e le parole articolate
male a
causa del bendaggio che limitava i movimenti della bocca. Doveva
costargli
fatica anche parlare, con quel pugno la mandibola, se non
gliel’aveva rotta,
gliel’aveva almeno slogata.
Sollevò le mani in
un gesto di resa e abbozzò un tentativo di sorriso cordiale
«Volevo sapere come
stavi» mormorò, e si vergognò di se
stesso e della propria sfacciataggine. Non
sapeva nemmeno lui dove aveva trovato il coraggio di presentarsi ancora
davanti
a quel ragazzo, dove risiedeva la faccia tosta che gli aveva permesso,
proprio
a lui che era il colpevole di quella sua condizione penosa, di porgli
una
simile domanda.
Decise però di
andare fino in fondo, per una volta.
«E…» non
riuscì a
sostenere quegli occhi, di un azzurro completamente diverso dal suo,
vivo e
vivido, senza cedimenti, e per questo le parole gli morirono in gola.
il
silenzio colmo di attesa e quello sguardo, lo sguardo di qualcuno che
si
trovava di fronte ad un incubo incarnato che sperava potesse dileguarsi
presto,
erano demotivanti «E volevo chiederti scusa.
Veramente»
Si sentì
d’improvviso più leggero, privato di un peso che
non si era reso conto di star
portando fino a quel momento.
Non si aspettava
nulla da Max, assolutamente nulla, ma essere lì in quella
stanza era
sufficiente, perché per una volta stava affrontando la
conseguenza di un suo
errore e, anche se non c’era alcun modo di rimediare, sapere
di non star
scappando con la coda fra le gambe lo faceva sentire meno vile.
Per una volta, non
si stava disprezzando, per una volta stava pensando che, magari,
c’era ancora
qualcosa di salvabile in lui.
«Dalle sei alle
otto settimane solo per la mandibola. Un mese e mezzo di gesso al
braccio,
frattura scomposta. Tre costole incrinate, trauma cranico. Non sto bene
stronzo»
sibilò Maximilian con ritrovato coraggio «Se pensi
che ti perdono non hai
capito un cazzo. Quando esco, lo giuro che ti troverò, a te
e a quei figli di
puttana dei tuoi amici, e vi faccio ingoiare i denti a calci in
faccia» la
rabbia e il rancore trasparirono con tale forza che Demian
deglutì a stento e
provò l’impulso di andarsene.
Non per la
minaccia, da quel corpicino spezzato non perveniva nemmeno volendo un
senso di
pericolo, e poi ne aveva ricevute così tante nella sua vita
che difficilmente
potevano riuscire a sfiorarlo, ma l’odio era
un’altra cosa.
L’odio, in una
forma così autentica e sentita, lo spaventava, non sapeva
come muoversi su un
terreno tanto ostile, né era sicuro di averne il diritto
solo per sentirsi un
poco meglio.
Avrei dovuto lasciarlo
andare. Non avrei mai dovuto
fermarlo.
È colpa
mia, se è conciato così.
J'ai
été stupide
«È equo. Mi sembra
giusto, non proverò nemmeno a fermarti, potrai restituirmi
tutto con gli
interessi. Ma tornerò a trovarti»
riuscì a sostenere quegli occhi limpidi di
acqua fresca e ad accennare un sorriso più sincero davanti
allo sconcerto di
Maximilian.
«Oltre che albino
sei pure scemo? Sparisci, io qui non ti ci voglio più
vedere» lo sconcerto
aveva fatto esitare il ragazzino, era suonato meno duro di quanto non
avrebbe
voluto, probabilmente, e a quell’esitazione Demian si
aggrappò con sollievo.
«Sono Demian
Lemaire, Scuola d’arte Fantoni, secondo anno corso C. Dillo
pure ai tuoi amici,
così sapranno dove trovarmi» gli diede le spalle a
alzò la mano in un gesto di
commiato «Ci vediamo, verrò presto»
Ignorò i numerosi e
coloriti improperi che Maximilian gli lanciò, neanche
fossero oggetti
contundenti pronti a ferirlo, e se ne andò a testa china.
Cosa ti aspettavi, che
ti perdonasse?
Pensavi davvero di
poterti redimere così facilmente?
Che bastasse
così poco?
In momenti di
lucidità come quello, quando riusciva a guardarsi
dall’esterno, come stesse
contemplando non se stesso ma la vita di qualcun altro, riusciva a
vedersi
nella sua interezza, e allora poteva distinguere con chiarezza il
circolo
vizioso nella quale era scivolato, a riconosceva razionalmente la falla
nel
sistema della sua vita. Il suo però era un impulso acquisito
dopo anni di
abitudine e svilimento personale, era una falla che non riusciva ad
aggiustare.
Si scavava la fossa
da solo, più si svalutava più era portato a
commettere gesti che lo portavano a
svalutarsi ulteriormente.
Il breve incontro
con Max lo aveva sfibrato, pensò a casa sua, a come si
sarebbe affogato nel
divano con Lalami stesa addosso e una birra in mano magari, a guardare
qualche
film sciocco che avrebbe potuto distrarlo, perché di questo
andava avanti, di
distrazioni. Ogni cosa che lo circondasse era una forma di distrazione
che gli
permetteva di continuare a trascinarsi, e supplizio il tempo che
trascorreva in
attesa dell’uno o dell’altro passatempo.
A guardarsi ora,
provava quasi pietà per se stesso.
Passò per l’atrio
del padiglione centrale solo per poter salutare Marisa, poi
uscì nuovamente
all’aperto, ad occhi chiusi, ad ispirare un’aria
fredda satura dell’aroma
dell’autunno, un ultimo barlume di calore crepitante
catturato dalla natura e
rilasciato dalla terra come un estremo spasmo di vita.
«Ehi ciao! Speravo
tanto che avresti aspettato»
Al suono di quella
voce trafelata, Demian spalancò gli occhi. Istintivamente si
portò una mano al
viso a proteggere le iridi chiare, investite dall’improvvisa
luce che aveva
trasformato il mondo in un informe macchia gialla e i contorni delle
sue dita
in infuocate linee rosse. La macchia si ritirò lentamente,
delineando un volto
estraneo eppure noto come avesse trascorso ogni giorno contemplandone
il
candore.
Una goccia di
sudore sulla fronte, il fiato ancora un poco pesante ed un sorriso che
mangiava
tutto il resto con il suo splendore soverchiante.
Avresti dovuto
saperlo, idiota.
Guardala, lei compare
solo quando non la aspetti.
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Capitolo 10 *** Annie ***
À Demian
Capitolo ottavo
Annie
«Ehi! Speravo che
avresti aspettato»
Arianna era bella.
Era una vertigine
improvvisa, l’ultimo gradino mancato della scala che mozzava
a tradimento il
respiro, una strana voragine nel petto in cui i battiti si perdevano
risucchiati in un’emozione troppo complessa e inattesa per
essere definita. Un
brivido che gli aveva afferrato la nuca e si era sciolto nel sangue in
ebrezza
liquida, in un languore depositato dolcemente sullo stomaco di fronte
alla
sfuggevolezza di quel sorriso solare, leggero come un raggio di luce e
tiepido
di una stanchezza vaga, appena percepibile, un piegarsi di labbra che
accennava
due morbide fossette agli angoli della bocca.
Tutto il resto, la
comprensione più completa di lei, della sua presenza, venne
solo dopo qualche
istante di rapimento, una visione sgranata che lentamente acquisiva
nitidezza.
Arianna era bella e
incurante, non si sapeva vestire. La sua aria trafelata era solo
accentuata
dalla maglietta grande. La scollatura a barca scopriva la delicata
linea del
collo che si congiungeva, levigata e sensuale di una
fragilità tenera, con un
arco cedevole alla spalla sottile, mangiata dalle maniche larghe. Le
braccia
magre, nascoste da una doppia manica, sembravano piccole come quelle di
una
bambina e, come se una bambina lo fosse, le mani erano nascoste dalla
stoffa
abbondante. Le dita giocavano con l’orlo in movimenti che
smascheravano il
sentimento di calma apparente emanato dal suo volto.
I fuseaux neri
rendevano le sue gambe all’apparenza persino più
magre e lunghe come steli, modellate
in curve delicate.
Demian
le accompagnò con lo sguardo, sentendo
la bocca arida.
La
ripercorse lentamente, notò le scarpe da
ginnastica dal colore verde fluorescente, ed infine si
riaggrappò ai dettagli
del suo viso, i capelli sciolti e sconvolti che le coprivano le
orecchie e i
ricci sfatti che come ragnatele crepavano la porcellana della fronte.
Arianna strinse la
cinghia di stoffa della sua borsa a tracolla e si appoggiò
leggera al muro,
senza aggiungere una parola. Lo studiava con
un’intensità disturbante,
un’espressione di profonda, pacata calma accompagnata da un
guizzo
inafferrabile come il riflesso delle scaglie di un pesce appena
intravvisto
sotto la superficie piatta di un lago e subito scomparso. Dava
l’idea di una
serenità quieta, eppure Demian continuava a percepire la
sensazione di
mulinelli d’acqua imprevisti, in quelle iridi chiare,
l’impressione che, se non
avesse fatto attenzione, un’oscillazione di quello sguardo
l’avrebbe trascinato
in un vortice in cui avrebbe finito con l’affogare.
Strinse le labbra e
si decise a domandare, in modo brusco, per riprendere una certa
distanza che in
quei pochi istanti aveva sentito sfumare «Non odiavi i
ritardi?»
E pensò comunque di
essere stato fin troppo delicato, considerato quanto aveva aspettato,
quanto
era stato idiota a restare in attesa senza neanche conoscerne il motivo.
La ragazza piegò il
capo, come un cucciolo curioso di fronte a qualcosa di sconosciuto
«Perché sei
rimasto?»
Un’altra vertigine,
un battito mancato, per la vergogna, la cocente, bruciante vergogna di
non
avere nulla con cui ribattere.
Perché non
puoi semplicemente rispondermi?
Sono io a pretendere
troppo?
Arianna si scostò
dal muro, scrollò le spalle e gli occhi si accesero di
comprensione, una luce
che dava una sfumatura di curiosità e intelligenza viva al
suo viso.
«Mi ero
dimenticata, sono io che devo dirti perché sei rimasto,
giusto? Ho promesso di
rispondere»
Inclinò le labbra
in un gesto ironico, che lo spiazzò.
Arianna si avvicinò
e gli strinse la mano senza pensarci troppo, poi con una pressione in
realtà
molto debole, dal sapore dell’invito, cercò di
trascinarlo con sé «Non
parliamone qui però. Non abbiamo molto tempo prima che sia
buio, e questo posto
mi deprime davvero tanto! Andiamo da un’altra parte»
Fu come ricevere
una scossa.
Demian puntò i
piedi, strinse le labbra tanto da farsi male e, quando Arianna si volse
a
guardarlo con la fronte corrucciata per il suo silenzio, ebbe la
certezza che
lei avesse già capito, ma stesse cercando un modo di uscirne
senza doversi
sbilanciare.
Forse, non aveva
colto solo la sua rabbia, ma anche l’affilata umiliazione che
aveva provato
pensando ad un rifiuto. La osservò prendere un profondo
respiro, piegare ancora
la testa lasciando che i ricci le scivolassero sulle guance chiare,
come a
studiarlo da una diversa prospettiva, e constatare solamente
«Ti sei offeso»
Non arrabbiato:
offeso.
Comprese che era
vero: non era semplicemente incollerito, era offeso. E si
meravigliò quando si
accorse che gli bastava che Arianna lo avesse capito, perché
quel sentimento
svilente si riducesse e ritirasse nei recessi del suo essere.
«Mi dispiace. Cioè
mi dispiace davvero, intendo! Non quei “mi
dispiace” da convenzione, effetto
contentino che si usano quando qualcuno ti tiene il muso e tu proprio
non ne
hai voglia, io dico uno di quelli onesti, anche se non hai un motivo
vero per
credermi in effetti, e io non saprei nemmeno che dirti per convincerti
del
contrario perché, dai, non mi conosci neanche e quindi, o ti
fidi sulla parola
o mi molli qui e adesso, che poi ne avresti tutte le ragioni, ma a me
dispiacerebbe comunque tantissimo, perché sono stata
trattenuta contro la mia
volontà e ti assicuro che non vedevo l’ora di
essere qui e ho dannato l’anima a
tutti quanti perché mi lasciassero uscire prima, ma al
solito non mi ascolta
mai nessuno. Che poi quando ti ho detto che odio i ritardi avrei dovuto
essere
più onesta, io sono sempre in ritardo, ma odio aspettare i
ritardatari….
Paradossale, eh? Anche un po’ da carogna probabilmente,
però non posso farne a
meno, aspettare mi mette l’ansia e tu hai l’aria di
uno che si fa i cavoli
propri, mi spiace davvero!»
Demian spalancò gli
occhi e schiuse la bocca. Aveva pensato di interromperla almeno dieci
volte, ma
Arianna lo aveva sommerso con quell’ondata di parole senza
prendere mai fiato
e, alla fine, di tutto il discorso Dami aveva colto a malapena il
senso.
Sollevò subito la mano, approfittando della pausa di respiro
un poco più lunga,
per farle cenno di fermarsi, perché sembrava intenzionata a
ricominciare il suo
sommergente monologo e non solo il viso di lei era divenuto rosso in
maniera
preoccupante, ma soprattutto non era sicuro di avere la forza di
sopportare
ancora minuti interi di frasi prive di qualsivoglia logica.
Di tutto, forse
l’unica cosa che avrebbe avuto interesse a conoscere, sarebbe
stata la ragione
del ritardo, e normalmente -almeno secondo le convenzioni
più banali- sarebbe
stata quella la prima cosa che si sarebbe dovuta dire per tirarsi fuori
d’impaccio.
Eppure, se ne
accorse con disappunto, Arianna aveva glissato su
quell’argomento con palese
ovvietà, pungolando così la parte più
curiosa del suo essere, costretta a
languire dal freno spietato della propria indole discreta che non gli
avrebbe
mai concesso di esprimere apertamente quella domanda.
Accettò con un
sospiro dimesso di restare nell’ignoranza più
completa, ché aveva un buon
intuito, e l’intuito gli diceva che quella ragazza strana non
si era
semplicemente dimenticata di dirgli i suoi motivi, aveva chiaramente
deciso di
non condividerli e basta.
«Oui, oui, bien
sûr, je comprends, mais arrêtez
ça,
s'il te plaît!»
«Eh?»
Arianna lo fissò
sgomenta e, con ancor più sgomento, Demian si accorse di
essersi lasciato
sfuggire la propria lingua. Era un istinto che normalmente emergeva
solo con
sua sorella, eppure qualcosa di esasperante e tremendamente familiare
in quella
sconosciuta lo aveva indotto a rilassarsi.
«Tranquilla, non fa
nulla. Va bene così» balbettò
riannodando i bordi sfilacciati delle proprie
sensazioni.
La situazione gli
stava sfuggendo di mano, il terreno sotto i suoi piedi era mutato in
una
scivolosa lastra di ghiaccio pronta a creparsi al primo passo falso, e
lui
riusciva solo a restare immobile, in precario equilibrio in attesa di
un
miracolo che non lo facesse ingoiare dal gelo.
«Allora andiamo?»
ripeté
lei, calda di un sorriso estatico e soddisfatto, tenero da suscitare il
desiderio di afferrarle la guancia e strizzarla, come faceva sempre sua
nonna.
Arianna gli porse
la mano, Demian la fissò incerto, ne studiò la
forma infantile, le dimensioni
piccole e dall’apparenza soffice e debole, una mano fatta per
accarezzare, per
accogliere nel suo palmo solo dolcezza.
La strinse, ma
senza convinzione, mollemente. Lasciò che fosse lei a
scegliere l’intensità di
quel legame mentre Arianna intrecciava spensieratamente le loro dita, e
decise
di restare in disparte, a osservare quello squarcio di bellezza che lei
gli
stava donando come uno spettatore dubbioso, perché non lo
sapeva, fin dove
voleva spingersi. L’ingenuità primordiale di
Arianna non gli permetteva di
comprenderne le intenzioni.
L’ospedale distava
quasi venti minuti dal centro proseguendo a piedi, eppure la ragazza
non
accennò a dirigersi alla fermata del bus e Demian, senza
porsi troppe domande,
tenne il suo passo docilmente.
Arianna trasmetteva
un senso di pace, emanava una forza interiore solida e insondabile in
perfetto
accordo con il suo essere, in un equilibrio incomprensibile che avrebbe
quasi
potuto stonare, con quel suo aspetto stropicciato da bambina arruffata.
Eppure Demian la
guardava, non riusciva a smettere di guardarla dall’alto di
quei suoi dieci
centimetri in più, con riserbo, un pudore che pensava di non
possedere più e
invece aveva giaciuto in qualche luogo remoto e inutilizzato del suo
sé in
attesa di essere rispolverato, una veste che aveva abbandonato fin
dall’età più
tenera e forse era ancora intatta, non era perduta.
Nonostante gli
atteggiamenti infantili, i gesti di Arianna erano accompagnati da
un’insolita
eleganza, per nulla ricercata, spontanea nella dolcezza di un movimento
inconscio. Una sensualità latente e immatura nel modo
delicato con cui fletteva
il collo o camminava, dritta come un fuso, come se il suo corpo
tendesse verso
l’alto, leggero, appeso ad un filo teso da cui si sgranavano
una ad una le
vertebre della sua schiena, in una curva leggera e raffinata.
Ed allora gli si
seccava la gola ed un calore che non avrebbe voluto provare si annidava
nel
basso ventre e capiva che quello era il potere di Arianna, il suo
essere acerba,
l’ingenuità della sua essenza che si rifletteva
nel suo aspetto esteriore
rendendola fragile in maniera disarmante.
Almeno fino a
quando non parlava e fino a quando i suoi occhi vispi guardavano altro,
inseguivano la linea dell’orizzonte e pensieri che Demian non
poteva nemmeno
immaginare.
Perché poi, quando
di tanto in tanto, pareva ricordarsi di lui, ricambiava le sue occhiate
fugaci
con una forza che spazzava via ogni sua spavalderia per costringerlo a
distogliere lo sguardo. Se non lo avesse fatto, se avesse provato e
sostenere
occhi tanto belli e ruffiani, avrebbe finito con lo strapparsi
l’anima e
donargliela spontaneamente, per non dover tentare lo sforzo di
resisterle.
In questo, Arianna
gli ricordava Sarah.
L’asfalto aveva
ceduto il posto ai sampietrini e, dopo aver attraversato un incrocio,
imboccarono un lungo porticato medievale di grosse pietre grigie che
conduceva
alla zona pedonale, senza dedicare particolare attenzione ai negozi di
antiquariato e mobilia che si srotolavano alla loro destra, oscurati
dall’assenza di luce naturale.
Solo quando
superarono il colorificio Demian ebbe un sussulto di esitazione. Quello
era il
suo negozio preferito, dove si procurava sia il materiale scolastico
che quello
ad uso prettamente personale. In vetrina, una valigia da centoventi
pastelli in
gradazione cromatica gli fece desiderare di entrare seduta stante e
farsi un
regalo. Non ebbe però il coraggio di far presente la voglia
di potersi fermare
anche solo un momento. La ragazza al suo fianco lo scrutò
arricciando le
labbra, come avesse intuito un suo repentino cambio di umore, come una
bambina
dagli occhi grandi, e allora si affrettò a scuotere la testa
per deviare
l’attenzione.
Forse concederle
quel pezzo di mondo, anche se quel negozio era solo un buco, era
troppo, era
darle l’accesso alla sostanza che componeva la sua essenza
vitale. L’arte era
un pensiero sublime che inchiodava la sua anima inerme, un segreto che,
se
condiviso, l’avrebbe spogliato di ogni difesa per lasciarlo
nudo di fronte alla
realtà, debole.
Un mollusco senza
conchiglia.
E Arianna era
bellezza, bellezza che avrebbe forse potuto arricchire
quell’arte, ma ad un
prezzo che non poteva sapere se sarebbe stato equo, per questo non le
disse
nulla.
La piazza
triangolare in cui sfociava il porticato era riempita da una fontana
centrale, dal
taglio moderno e disadorno, asettico, che Demian non aveva mai
particolarmente
apprezzato. L’aria era fresca ma non fredda, per questo i
tavolini all’aperto
di un bar, protetti da ombrelloni squadrati e delimitati da eleganti
fioriere,
erano invasi da persone e bambini. La calma che li aveva accompagnati
si saturò
di suoni. La strada proseguiva in salita, conduceva ad una chiesa
antica e
discretamente famosa, sulla destra invece, si snodava la principale via
del
centro: un susseguirsi di negozi di vestiario, gioiellerie, e tre
librerie - a
cui di solito Demian faceva tappa, prima di comprare un libro, per
scegliere
un’edizione che lo soddisfacesse- tutti incastonati in
edifici storici dai
colori vivaci. C’era una grande quantità di gente,
gruppi di ragazzi, signore
con cagnolini di piccola taglia vestiti come imbarazzanti bamboline.
Sul bordo
della strada pedonale, alcuni artisti intrattenevano capannelli di
persone
raccolte in cerchio tutt’attorno, ed un paio di bancarelle
vendevano fiori
spiegazzati.
«Vieni di qua, ti
porto nel mio posto preferito!» lo incoraggiò
Arianna, con un sorriso che
avrebbe potuto tranquillamente accecarlo.
Il suo posto
preferito, si rivelò essere un bar-gelateria, con
l’ingresso in una galleria e
pochi tavolini da esterno bianchi con le seggiole rosse.
Demian ci era
passato davanti molte volte e lo conosceva, tutta la facciata che si
offriva
alla strada era in vetro ed era possibile osservare
l’interno, ma non ci era
mai entrato. Sembrava un luogo per famiglie, e Dem non aveva mai
frequentato
luoghi per famiglie negli ultimi anni.
Il bancone offriva
una notevole varietà di gelati nonostante il periodo
dell’anno, ma era
impensabile avvicinarsi visto il gruppo di bambini chiassosi e genitori
petulanti che si accatastavano gli uni sugli altri neanche quella fosse
l’ultima scorta di cibo sulla terra e dovessero fare prima
per non morire di
fame. Arianna si fece notare da un cameriere prima di salire al piano
superiore, attraverso una scala a chiocciola con la balaustra
d’acciaio, nascosta
in un angolo, che non aveva notato tanto era discreta. Si accorse anche
di un
piano inferiore passando davanti all’ingresso ad arco della
taverna, perché
arrivava il crepitio di una televisione, la telecronaca di una qualche
partita.
Di sopra, le pareti erano rivestite di finta pietra e il parquet chiaro
unito
alla luce naturale proveniente dalle vetrate dava a locale un aspetto
arioso.
Solo un paio di tavoli erano occupati, separati da piccoli muretti
decorati da
piante, ma c’era la musica a colmare l’assenza di
brusii che avrebbe reso
l’ambiente triste e Demian tirò un sospiro di
sollievo per quella calma
ritrovata. Aveva voglia di fumare, ma non voleva farlo davanti ad
Arianna,
voleva farle una buona impressione.
Nell’insieme era un
bar come un altro, abbastanza banale perché non riuscisse a
capire cosa lo
rendesse speciale per la ragazza.
«Che fortuna, il
mio posto preferito è libero!» si
entusiasmò lei, trascinandolo in fondo alla
sala, vicino alla vetrata. Si poteva osservare il viale sottostante e
c’era
qualcosa di pittoresco in quella visione dall’alto che Demian
non si sarebbe
mai aspettato, per questo ancora non parlò, rimase perso
nella contemplazione
di quelle figure sfocate come macchie di colore disciolte
nell’acqua, un quadro
impressionista dalle sfumature ombrose del sole che calava e mostrava
l’oscurità di quel mondo, l’altro lato
della medaglia.
Un viaggio oltre lo
specchio.
Arianna ridacchiò
«Lo sapevo che ti piaceva. Era coerente con quel tuo aspetto
da bohemien»
Demian si schiarì
la voce e tornò a concentrarsi su di lei, allora Arianna gli
passò il menù e
adagiò il viso nelle mani a coppa, sfoggiando
l’espressione furba di una
bambina pronta a fare un dispetto. Forse leggeva davvero troppo,
ché
quell’atteggiamento lo fece pensare a Tom Sawyer e
quell’associazione lo fece
sorridere.
«Tu non ci guardi?»
«No, so già cosa
prendere» rispose sicura.
Demian, in
imbarazzo, si passò una mano sul collo e si morse la parte
interna della
guancia. Arianna era disagiante, non la smetteva di fissarlo senza
filtri,
dritto negli occhi, senza un motivo apparente.
«Cosa?»
La osservò
raddrizzarsi immediatamente, ridacchiare e portarsi la mano davanti al
volto,
per tenere il conto con le dita, come se davvero fosse una bambina.
Doveva aver
conservato certe puerili abitudini che la rendevano adorabile e
stemperavano il
suo nervoso.
«Ci sono ben due
motivi per venire qui!» dichiarò con un sorriso
incompleto, una sola fossetta
all’angolo della bocca «Primo: fanno un
frappè al cocco che è la fine del
mondo, il più buono della mia vita. Ne berrei a litri!
Secondo: se gli chiedo
di farmi il cappuccio in un certo modo, me lo fanno come lo voglio
io»
A leggere tutta
quella soddisfazione per qualcosa di tanto banale, Dem non
riuscì a trattenere
una risata «Tutto qui?»
«Ehi, sono validi
argomenti!»
«Mi aspettavo
qualcosa di più»
Arianna fece
spallucce e storse il naso «Ti aspetti troppo
dall’abitudine, vengo qui con mio
fratello da sempre, non c’è nessun racconto epico
dietro»
In quel momento si
avvicinò il cameriere con il taccuino alla mano.
Demian non aveva
scelto niente, né aveva una qualche idea di cosa prendere in
un bar di quel
genere e in compagnia di una ragazza come lei. Normalmente si sarebbe
dato ad
una birra, ma poi la guardava e gli sembrava di accostare due elementi
che non
avevano nulla da spartire.
«Un frappè al
cocco» lo disse senza rifletterci, ed Arianna
s’illuminò come un albero di
Natale.
«Allora ti ho
convinto!» si gonfiò di orgoglio, poi
tornò a guardare il povero ragazzo in
attesa, in piedi accanto a lei.
«Io vorrei una
tazza di caffelatte, per favore» lo disse con un entusiasmo
eccessivo che gli
fece corrugare la fronte per la confusione. Non capiva
perché, aveva
l’impressione che qualsiasi cosa potesse animarla, come
traesse da qualunque
sciocchezza un soffio di vita. Il cameriere annuì e fece per
andarsene, ma
Arianna lo richiamò all’istante «Mi
raccomando: caffelatte, non cappuccio!»
«Sì, signorina»
Si voltò e Arianna
lo fermò di nuovo «Niente schiuma! E non esagerate
con il caffè. Deve essere beige,
tipo. Il colore è fondamentale, ricordalo. Beige chiaro,
altrimenti non ha
senso»
Demian rimase
basito, schiuse le labbra e pensò che forse, più
stranito di lui c’era solo il
povero ragazzo a cui era toccato in sorte di servire il loro tavolo. La
sua
aria smarrita davanti ad una richiesta che non lasciava
possibilità di salvezza
era sconcertata e grottesca. Il cameriere si affrettò ad
annuire ancora e a
defilarsi velocemente, solo allora Arianna posò i suoi occhi
verdi da gatta
viziata su di lui e snudò tutti i denti
nell’ennesimo, abbagliante sorriso.
«Non mi chiedere il
perché!» lo precedette, dondolando i piedi sotto
la sedia e inclinando ancora
la testa, in quel gesto che doveva essere un vezzo «Non
è una cosa che si possa
dire ad un primo incontro, lo troveresti strano»
Demian squadrò la
sua figura minuta, si accigliò ancora, ma solo
un’istante: era arruffata,
assurda ed emanava una naturalezza che lasciava tranquillamente intuire
che ci
credeva davvero, in quello che aveva appena detto. Era convintissima
delle sue
parole, probabilmente, secondo i suoi standard, Arianna si stava
contenendo, e
la sola idea di quello che avrebbe potuto dire o fare senza alcun freno
lo fece
ridere di gusto.
«Ma hai visto la
faccia di quel poverino?»
Arianna increspò le
labbra in un broncio a paperella «Ora puoi capire
l’importanza del punto due»
osservò risentita, aumentando solo il suo buon umore.
«Ok, visto i
pessimi risultati non credo valga la pena di contenersi. Dimmi il
motivo»
«Ma Dani mi ha
detto che certe cose, se qualcuno non mi conosce, sono
inquietanti»
«Dani?»
«Mio fratello»
Il grumo di
fastidio che già si stava addensando all’altezza
dello stomaco si sciolse
subito, era corrucciata, giocava con le mani sul tavolo e seguiva i
movimenti
delle proprie dita distrattamente.
«Non mi inquieto
facilmente, sono cresciuto con una delle donne più
eccentriche mai esistite» la
tranquillizzò, e Arianna allora si distese, e nel sorridere
i suoi occhi si
strizzarono in due gocce di rugiada verde che lo lasciarono senza
parole.
Il cameriere si
avvicinò di nuovo con le loro ordinazioni, quando
posò la tazza di caffelatte
davanti alla ragazza, lei non perse la sua aria felice «Ok
allora te lo faccio
vedere»
Spostò la tazza in
mezzo al tavolino rotondo, e Demian si sporse a guardare, non sapeva
nemmeno
lui cosa. Una brodaglia beige chiaro, latte sporco, era tutto
ciò che vedeva, e
l’odore nauseante del caffè lo prese a tradimento.
Si scostò con fastidio.
«Non lo assaggi?»
«Non mi piace il
caffè»
«Nemmeno a me, è
amaro» gli fece presente Arianna, confusa «Ma
questo non è semplice caffè,
dovresti berlo. Se non lo bevi, non puoi sentire la magia»
Demian tornò a
sedersi il più lontano possibile, strinse la cannuccia del
suo frappè e la
mosse piano, per prendere tempo.
Non capiva.
«Forse è
inquietante» si ritrovò a dire, con un mezzo
sorriso sghembo che
sdrammatizzasse la sua uscita, ed infatti Arianna scosse la testa,
riprese la
tazza e sbuffò «È solo
perché non capisci. Questo è il colore
dell’universo»
«Che?»
«Ma sì, non lo
sapevi? Il colore dell’universo è caffelatte. Non
è stranissimo?»
Demian, quasi
contagiato, si sorprese a inclinare il capo a sua volta, forse per
capire la
prospettiva con cui guardava lei le cose, ma non gli cambiò
nulla «No, il caffè
non mi piace lo stesso» le fece notare con un sorriso sincero
«Non mi farai
cambiare idea, non lo renderai bevibile»
Allora, sotto il
suo sguardo divertito, Arianna s’imbronciò
metodicamente, arricciò ancora le
labbra sembrando una buffa e sciocca papera, e quell’aria
volta solo ad arruffianarlo
gli strappò l’ennesima, sottile risata.
«È solo perché sei
un bruto, non ci vedi la poesia» borbottò lei,
nascondendosi dietro il muro
delle proprie braccia intrecciate.
«Quale sarebbe?»
Le iridi di Arianna
si accesero di quel suo puerile e tenero entusiasmo che già
gli sembrava di
conoscere da tutta la vita «Quando ho una tazza di caffelatte
tra le mani, mi
viene il buon umore. Hai presente quella storia noiosa che ti dicono
sempre,
che sei pulviscolo, una particella di polvere nell’universo,
praticamente
rispetto al tutto non sei nulla?»
Faceva fatica, a
seguire la sua logica, non gli era chiaro quale volo pindarico quella
testolina
riccia e scapestrata avesse appena compiuto, perciò si
limitò ad annuire.
«Ecco, quando bevo
il caffelatte, è come se fossi io a bere
l’universo ed è lui a essere così
piccolo da stare nelle mie mani» concluse soddisfatta,
prendendo la tazza in
questione e bevendone un lungo sorso.
«Arianna uno,
universo zero. Questo mi mette di buon umore!»
Demian rimase
inizialmente allibito, forse perché ad un certo punto, era
sembrata tanto seria
che era riuscita ad alzare la sua aspettativa, pensava che
l’avrebbe folgorato
con qualcosa d’inimmaginabile. E alla fine l’aveva
anche fatto, a modo suo, ma
un modo tanto assurdo che davvero, davvero per quanto si sforzasse
riusciva
solo a ridere.
E allora lo fece,
diede sfogo a quel divertimento sincero che gli fece venire gli occhi
lucidi.
«Sul serio?»
«Sul serissimo!»
«Mitomane» articolò
a fatica, lasciandosi andare sulla sedia e piegando la testa
all’indietro. Non
era importante che ci fossero altre persone, che guardassero pure, che
vedessero che animale raro aveva davanti, puro e ingenuo come fosse
appena
venuto al mondo.
Arianna si allungò
sul tavolo, distese il collo in un gesto sensuale che quasi gli
strozzò il
respiro, e poi lo ripagò con una linguaccia divertita.
Avevano abbandonato
il locale che il sole era già tramontato.
La via cittadina
era illuminata dai lampioni e dalle vetrine dei negozi. Quella
gradazione calda,
in opposizione con l’oscurità, affascinava Demian,
che osservava il profilo
distratto di Arianna modellarsi nei contrasti di luci e ombre.
Sembrava rilassata
e appagata, aveva l’aria di una persona che era riuscita ad
ottenere tutto ciò
che potesse desiderare, e lui proprio non si spiegava come fosse
possibile. In
quell’atmosfera pacata e serena, dove ormai solo coppiette si
aggiravano
tranquille e la maggior parte della gente si era ritirata per andare a
cenare,
anche Demian si sentì finalmente sciolto da ogni nervosismo.
Si concesse di
osservare Arianna senza provare vergogna, ché tanto lei era
sfuggente e
raccolta nelle sue riflessioni, con quel sorriso che le bagnava il
volto, e i
suoi occhi grandi, scuri come pozzi profondi a causa dei riflessi,
scivolavano sui
manichini esposti nelle vetrine senza un vero interesse, a confermare
che i
vestiti non erano esattamente la sua passione.
Ad un tratto,
inchiodò bruscamente.
Avevano abbandonato
la strada pedonale e si erano inoltrati nel Viale principale che
conduceva alla
stazione, costeggiato da immensi alberi e siepi curate tratteggiate con
più
chiarezza dai fari delle macchine di passaggio. Arianna aveva lasciato
la sua
mano solo per aggrapparsi con irruenza alla manica di pelle della sua
giacca,
ed ora lo strattonava emettendo un acuto verso a lui poco chiaro.
«Che ti prende?»
«Sono
trotolinissimi!» chiosò a voce sufficientemente
alta da far voltare alcuni
passanti. Allora Demian si accorse che a pochi passi da loro
c’era un negozio
di peluches. Arianna quasi si spiaccicò al vetro, e
continuò con entusiasmo
«Guarda quello, quel tucano là in alto che occhi
che ha!»
La sua risata ebbe
l’effetto scrosciante di una cascata e ispirò in
Demian lo stesso senso di
meraviglia e limpidezza. Assecondò l’insistenza
con cui lo invitava ad
avvicinarsi, e si trovò di fronte un pupazzo dalle fattezze
caricaturali, con
gli occhi tondi immensi e vagamente allucinati, ed un corpo
grottescamente più
piccolo e cicciotto.
«È orribile»
constatò senza riflettere, causando il disappunto immediato
di Arianna che
rispose con una non troppo delicata gomitata nel fianco.
Sobbalzò per la
sorpresa e la guardò ad occhi spalancati, ma poi
cozzò contro il suo broncio
infantile e gli sfuggì un sorriso «E tu sei
violenta!»
«No, sei tu che non
capisci niente! Guardalo, è la cosa più bella e
tenera al mondo. Sembra
così morbidoso! Potrei passare ore a
punzecchiargli il pancino»
Davanti a
quest’imprevista rivelazione, Demian non poté
frenare il suo sopracciglio
dall’inarcarsi istintivamente, gesto che fece gonfiare le
guance di Arianna
d’indignazione. Veniva voglia di farle scoppiare come
palloncini, solo per
vederla svuotarsi e poi infiammarsi ancora di più per il
fastidio.
«Non mi guardare
così» bofonchiò, allontanandosi da lui
e liberandogli il braccio.
Dem riacciuffò la
sua mano prima che Arianna potesse intrecciare le braccia al petto, la
trattenne e si ritrovò a guardare sgomento quelle dita
piccole e morbide fra le
sue. Perché quello non era un gesto da lui, normalmente non
lo avrebbe mai
fatto, eppure non aveva potuto farne a meno. Quello avrebbe potuto
essere il
loro unico incontro nella vita, e gli sarebbe stato anche bene, sarebbe
stato
accettabile, ma almeno per una sera, voleva succhiare fino in fondo il
midollo
dell’essenza di Arianna, voleva assorbirla il più
possibile.
Voleva che
quell’incontro casuale, nato da una situazione casuale,
potesse restare
cristallizzato nel tempio della sua memoria come un momento colto e
sublimato,
reso eterno.
Un ricordo di
perfetta serenità di cui poter essere geloso.
«No» le sussurrò
leggero, cercando di nascondere il tremore dell’imbarazzo con
un tono appena
sussurrato.
Arianna lo guardò
negli occhi, sorrise timidamente, una vena di pudore innocente nella
piega
delle labbra, e contraccambiò la stretta.
Con un colpo di
tosse simulato, cercò di riacquistare il giusto
atteggiamento «Non preferisci
qualcosa di più classico? Tipo
quell’orsetto?»
La ragazza arricciò
il naso e le labbra in un’espressione di disgusto eccessiva e
estremamente
buffa «No, sono banali e noiosi. Quel fenicottero
è bello. Mi fa morire dal
ridere!» chiosò di nuovo, additando un altro
peluche con evidenti problemi di
linea.
Ok, le piacciono le
cose inquietanti e possibilmente in
sovrappeso.
Demian rientrava
nella prima categoria, ma si rifiutava perentoriamente di entrare a far
parte
della seconda. Osservò il loro riflesso sfocato nel vetro e
pensò all’effetto
strano che dovevano dare in coppia, erano così diversi: lui,
pallido e vestito
di nero, con le orecchie piene di anelli ed il capo coperto, non
trasmetteva
esattamente un senso di tranquillità e fiducia; per contro,
Arianna era il suo
opposto, con la maglia colorata da hippie e quell’aspetto da
creatura innocente
e serena.
Si sentì fuori
contesto, fermo davanti a quel negozio, per questo le fece una leggera
pressione con la mano, nella speranza di farle intuire il suo disagio.
E Arianna lo guardò
dal basso, spensierata, e capì senza dire una parola,
perché annuì e lo invitò
a seguirlo imboccando una via perpendicolare alla strada principale,
che
conduceva ad una zona residenziale isolata. Quella parte di
città era più
calma, salvo qualche locale notturno che ancora non aveva potuto
esprimere il
meglio visto che non era orario. Passavano molte macchine, ma non
incrociarono
quasi più nessuno sul loro cammino.
La mente di Dami
era annodata in mille domande, non riusciva però a dargli
corpo. Nonostante la
tranquillità che li circondava e il solo rumore del traffico
lontano come
accompagnamento costante di sottofondo, si sentiva soffocato, una mano
sulla
nuca che pesava come se il mondo fosse presente, ad osservare quello
squarcio
di vita che non gli apparteneva e aveva in sé qualcosa
d’intonso, una tela
pulita che aspettava la prima pennellata per definire se stessa.
Quando giunsero in
fondo alla strada, ad una rotonda presieduta dai resti di una torre
arroccata,
rimasuglio delle antiche mura trecentesche della città,
venne folgorato da
un’idea.
«Vieni con me!» e
senza aspettare risposta, si mise a correre trascinandola con
sé, svoltando a
sinistra.
Arianna si lasciò
andare ad una risata che le tolse il respiro e la fece incespicare,
cercò di
riprendere il controllo e alla fine lo superò e si
voltò a guardarlo con le
iridi lucide di divertimento e le guance colorate di rosso per lo
sforzo «Come
sei lento!»
Il dono di quella
ragazzina sottile e all’apparenza fragile, era la
capacità di rendere semplice
anche la situazione più assurda, con una facilità
tale che sentirsi a proprio
agio, con lei, era come respirare, necessario. Che l’avesse
appena conosciuta
era irrilevante, c’era attorno alla sua persona
un’aura di familiarità dolce
come di qualcuno amato da una vita intera.
Ridendo la tirò a
sé, Arianna per la sorpresa inciampò e gli cadde
addosso. Allora, Demian se la
caricò in spalla, in un gioco naturale che aveva sempre
condiviso con Sarah.
Arianna rise
sguaiatamente, cercando di sgusciare alla sua presa come
un’anguilla esagitata,
ma questo rendeva solo più divertente trattenerla.
«Mettimi giù Demi!
Dai!»
A rafforzare quella
sua richiesta strascicata dalla risata, Arianna gli tirò
qualche fiacco pugno
sulle spalle, a cui rispose prontamente con il solletico. La
sentì scattare con
tanta forza che quasi gli cadde, ma non per questo smise di
tormentarla, ne
provò solo un sadico, maggior piacere.
«Smettila, ti
prego!» supplicò con un tono talmente lamentoso
che Demian percepì il pianto
nelle risa, un’ilarità incontenibile a cui si era
lasciata andare senza opporre
resistenza.
«Solo se stai
ferma!»
Si accorse di star
ridendo: proprio lui, rideva come un matto, come non ricordava di
essere in
grado di fare.
«Ok, ho capito,
giuro che ho capito! Faccio la brava, lo prometto, non mi muovo
più!»
Lo distrasse ancora
Arianna, riportando l’attenzione, che per un secondo aveva
allontanato, di
nuovo su di lei.
Avvertì il suo corpo leggero irrigidirsi in maniera
innaturale e la voce di
Arianna uscire forzatamente seria, come se si stesse trattenendo a
fatica ma
non volesse in alcun modo darlo a vedere «Sono una statua,
visto?»
«Le statue non
parlano» le fece notare divertito «Tu è
un miracolo se stai zitta!»
Non
poteva vederla in volto, ma aveva imparato
velocemente che con lei non era necessario. Arianna parlava con ogni
parte del
suo corpo, come se la sua gioia dirompente fosse troppa, e non
riuscisse ad
essere contenuta e allora fuggisse dai pori della sua pelle per
ammantarla di
un alone di spensieratezza.
Il
suono di una pernacchia seguì il respiro
più profondo che le aveva sentito prendere.
«Ti sto facendo una
linguaccia, sappitelo!» sibilò infatti lei, con
atteggiamento fintamente
indisposto.
«Ah, beh, molto
maturo»
Arianna gli abbassò
il cappuccio della felpa e gli sfilò la berretta nera, in un
primo momento
Demian quasi non se ne rese conto.
Solo Sarah si
permetteva un contatto tanto intimo.
Quando il disagio
della consapevolezza si fece avanti, rimase atterrito dalla sua stessa
leggerezza che lo aveva portato a dare troppa confidenza ad
un’estranea. La
rimise a terra, molto bruscamente, ma Arianna non parve farci caso. Si
calcò la
berretta sopra i riccioli scuri e gli sorrise esaltata come una
bambina, con
tutti i denti in bella mostra e le fossette adorabili sulle guance.
Non aveva reagito a
quel suo aspro cambio di reazione, con gli occhi grandi pieni di
meraviglia gli
ricordò un poco Sarah e questa realizzazione improvvisa
delle affinità che le
due streghe avevano lo turbò profondamente.
Mi ignora, non
c’è altra spiegazione
«Dove mi hai portata?» domandò lei,
senza minimamente considerare l’espressione
truce che doveva avere in quel momento per guardarsi attorno, un
animaletto
curioso dal sorriso grande.
Demian accarezzò
con lo sguardo la ringhiera che, dall’altro lato della
strada, celava il parco
più grande della città alla loro vista.
L’aveva portata lì perché Arianna, quel
pomeriggio, aveva condiviso un pezzetto di sé, un luogo che
amava, e forse
avrebbe potuto farlo anche lui, avrebbe potuto condividere qualcosa per
non
essere dimenticato.
Anche fosse stato
solo un giorno, solo quel giorno, sarebbe stato un toccarsi per
lasciarsi un
ricordo, e gli piaceva, il pensiero di essere una piccola spina
nell’anima di
quella ragazza, un fantasma impalpabile che non poteva vedere, ma che
sarebbe
potuto riemergere a volte, donandole un senso di nostalgia. Gli piaceva
l’idea
di poter essere legato, anche solo così, da uno scomparto
seppellito nella
memoria, a qualcosa di bello come lo era lei, a
qualcuno di felice come lei.
«Ti faccio vedere»
Non cercò più un
contatto, ed Arianna non parve accorgersene o finse di non
accorgersene, gli
trotterellò accanto senza spegnere mai la luce dei suoi
occhi.
A Demian quel parco
piaceva particolarmente. Ci portava spesso Sarah quando era
più piccola. L’area
giochi era grande e sua sorella ci si perdeva come una bambina al Luna
Park, ed
era un luogo appartato, sufficientemente grande da permettergli di non
incrociare nessuno se lo desiderava. Ci andava a correre a volte, dopo
la
palestra, e, nei momenti di creatività maggiore, era facile
trovare un buono
spunto per disegnare: gli alberi nodosi ombreggiavano le grandi distese
verdi e
i laghetti artificiali davano una sensazione rinfrescante, come
un’oasi isolata
a cui aggrapparsi nel caos cittadino.
C’erano poi
numerosi sentieri costellati di panchine, poco battuti soprattutto la
sera,
quando la luce dei lampioni e il pesante silenzio davano
un’aria spettrale che
inquietava le persone. I cespugli ben curati delimitavano le aree di
gioco e la
pista dei kart e mentre Arianna lo seguiva taciturna, Demian
contemplava quei
luoghi familiari con un’insolita stretta al petto.
Per molto tempo,
avevano rappresentato momenti felici, vissuti con maman e Sarah, mentre
ora
erano semplicemente mutati in un rifugio riparato dove fuggire quando
la
presenza di sua madre era troppo opprimente. Negli ultimi mesi ci
portava
Lalami, la solitudine pesava anche ad uno come lui, che la cercava
morbosamente, ma con la cagnolina ne soffriva di meno ed allo stesso
tempo
poteva risparmiarsi di parlare.
«Non so perché, ma
credo di esserci già stata» considerò
Arianna ad un tratto, e la trovò con il
mento tra le dita ed i pensieri attorcigliati che le si leggevano in
viso.
«Tutti ci sono
stati almeno una volta»
«Perché sei voluto
venire qui?»
A quella domanda,
gli saltarono i nervi.
Per tutto il tempo
ne aveva ricevute e aveva risposto quasi sempre con
un’onestà inadeguata per
una persona sconosciuta, ma lei si era ben guardata da dargli
soddisfazioni.
Scavava senza remore nell’anima altrui, ma proteggeva la sua
con un egoismo
irritante.
«Non dovevi essere
tu a rispondermi?» l’accusò, vanificando
il pomeriggio trascorso insieme. Si
guardarono negli occhi, e Dem ebbe l’impressione di essere
tornato a qualche
ora prima, davanti all’ospedale, dove aveva seppellito tutte
le rimostranze che
ora premevano per avere il loro spazio.
Ed anche questo, in
realtà, era sorprendente. Non gli succedeva spesso di non
riuscire a reprimere
se stesso, non si spiegava quel cattivo umore che lo aveva pugnalato a
tradimento, ma che potesse esprimerlo tanto facilmente in maniera
diretta e non
con sotterfugi, questo era davvero destabilizzante.
Arianna abbozzò un
sorriso disarmante, velato da una malinconia che lo spinse a
distogliere lo
sguardo e lo svuotò come un palloncino. Riusciva a farlo
sentire meschino per
il semplice fatto di aver provato della rabbia verso di lei.
«Certo, tutto quello
che vuoi» gli disse, poi scrollò le spalle e la
sua espressione si distese e
tornò tersa «Però non con quel tono di
voce»
Si sedette su una
panchina e lo invitò silenziosamente a raggiungerla
picchiettando
insistentemente con la mano sul posto accanto al suo. La
studiò con sospetto,
insicuro, ma alla fine si disse che era una cosina, Arianna, un
fuscello di
ragazza dal sorriso bello, e non avrebbe potuto fargli concretamente
nulla, era
inutile guardarsi le spalle con tanta insistenza.
Si diceva questo,
eppure la sensazione che quella ragazza fosse più pericolosa
di chiunque avesse
mai incontrato non lo abbandonava. Gli si accomodò accanto e
lei gli prese le
mani e lo guidò, rivolgendo i suoi palmi verso
l’alto.
«Che staresti
facendo?»
Davanti alla sua
perplessità, Arianna sollevò gli occhi al cielo,
in un gesto di simulata
esasperazione che gli gridava come facesse ad essere tanto ottuso da
non
comprendere certe “ovvietà”.
«Ristabilisco il
tuo stato zen, ovviamente»
Quel suo assurdo
modo di fare riuscì a spiegargli le labbra in un accenno di
sorriso,
un’increspatura serena che la portò a sua volta a
rilassare le spalle e a
mostrargli ancora tutti i denti in una delle sue espressioni pure e
inermi.
«Perfetto. Bravo
ometto. Ora prendi un bel respiro»
«Ometto?» storse la
bocca e Arianna si accigliò
«Preferivi
soldatino?»
Ci mise qualche
istante a realizzare che era seria e gli stava parlando come fosse un
bambino.
E malgrado fosse paradossale, e fosse anche piuttosto scettico sui
metodi di
quella piccola maliarda dagli occhi verdi, comprese che non era
importante
nulla: con lei non c’era un senso di priorità e
probabilmente nemmeno della
logica, ma non farla contenta era più difficile che opporsi
e cercare di
capirla.
Scosse subito la
testa e chiuse gli occhi, pronto ad assecondarla, prese un grande
respiro, poi
un altro ancora.
«Cosa intendevi
dire, stamattina?»
Arianna piegò la
testa, ormai era certo che solo così quella buffa creatura
manifestasse la
propria perplessità.
«Sì dai, non puoi
non ricordare. Quando hai detto che non dovevo scervellarmi»
In un primo
momento, Arianna arricciò le sue labbra piccole, poi le
distese e ridacchiò
«Quindi ci avevo visto giusto, era questo il tuo problema. Lo
sapevo. Era solo
un modo per incastrarti, tu sei un razionalista, ti si legge in faccia,
prima
di decidere di fare qualcosa ti danni l’anima, non
è vero? “sì, no, forse”, se
non ti avessi messo addosso dei sani dubbi e un briciolo di
curiosità, era
matematico che non mi avresti incontrata. Sicuramente fai
così con tutto»
Dopo essersi
espressa, lo guardò in viso e si tappò
immediatamente la bocca con la mano,
abbassando le palpebre in un’espressione da vittima pentita
volta ad
intenerirlo. Se non fosse stato tanto offeso avrebbe riso di quella
reazione
infantile nel rendersi conto di aver parlato troppo. Non ci
riuscì però, quel
discorso aveva urtato in qualche modo il suo orgoglio, toccando una
corda
inerme che vibrando lo feriva. Cercò di darsi un tono per
non farglielo capire,
ma gli occhi di Arianna parlavano per lei, e quel pentimento sincero
gli
gridava che non c’era riuscito, ad essere indifferente.
Quella ragazza
dall’apparenza angelica, di angelico non aveva nulla.
«E perché avresti
dovuto volermi vedere per forza?» attaccò, non si
accorse di sembrare semplicemente
un randagio messo alle strette, un gattino che si sentiva una tigre e
tentava
di scacciare con la sua zampina un mostro più grande di lui.
Quel viso si
adombrò di un dispiacere sottile ed anche la sua voce
vibrò di una velata e
struggente tristezza, una malinconia latente, soppressa con la
volontà ma
presente in lei come un’altra faccia del suo sorriso
abbagliante. E lui l’aveva
sognata, la sua tristezza, l’aveva intuita, per istinto, fin
dal primo giorno,
aveva colto la sfumatura celata oltre la sua esuberante allegria come
un
contrappeso.
Forse non era un caso, che Arianna lo avesse colpito tanto a fondo,
forse
qualcosa di lei lo aveva capito, un’affinità di
un’anima ferita come la sua,
ritirata dietro a mura dall’aspetto pacifico, ma altrettanto
alte e
inespugnabili.
«Perché sembravi
uno che voleva restare solo» mormorò a disagio,
mordicchiandosi le labbra come
in dubbio, esitante.
E nonostante il
dubbio, gli occhi erano incatenati a suoi, gli occhi di Arianna non
cedevano
mai, erano forti di incrollabili certezze e sicuri delle proprie
fragilità.
Demian si scoprì ad
invidiarla.
«E?» la invitò a
esplicitare un sottinteso che aveva percepito come una stonatura in una
delicata sonata.
La guardò sospirare
e, con quel sospiro, spogliarsi di ogni insicurezza «E
sembravi anche una di
quelle persone che è meglio non lasciare sole quando
vogliono esserlo»
La sua spavalderia
si consumò con quelle poche parole. Arrossì tutto
in una volta e si nascose
calando sugli occhi la berretta nera che, Demian non si era accorto,
stava
indossando ancora lei.
Avrebbe voluto ribattere qualcosa di forte, di distaccato, che non lo
facesse
scivolare nella pateticità del suo essere, ma non gli
sovvenne nulla alla
mente.
Non sapeva come
prendere ciò che gli era appena stato detto con tanta
innocenza, si sentiva
stranamente scollato da quel momento, come potesse guardarsi da fuori,
guardare
lei, l’irrealtà di un attimo che nella sua
esitazione si stava già consumando.
Demian non sapeva
mai come muoversi, di fronte all’interesse altrui. Se ne era
sempre sentito
ferito, perché non aveva mai percepito nulla di genuino
nella pietà, solo un
sentimento che lo declassava e lo faceva apparire debole, mortificato.
In difetto con
tutti, ma soprattutto con se stesso.
Eppure, in Arianna c’era un’acutezza diversa,
familiare, una comprensione che
andava oltre il pietismo di circostanza. Arianna aveva letto tra le
righe ciò
che lui per primo non era in grado di esprimere a voce, aveva raccolto
la sua
solitudine come un fiore e aveva ammirato le sfumature di sole sulla
corolla
martoriata.
Arianna aveva
provato compassione, nella sua radice più profonda e pura,
si era specchiata in
lui e nell’immagine del suo respiro inerme aveva ritrovato se
stessa e aveva
bevuto di sé attraverso i suoi occhi.
Demian rimase
sgomento da quel barlume di certezza, lei aveva compreso
perché erano anime
dissanguate dalla medesima ferita.
«Perché eri in ospedale fuori
dall’orario di visite?» lo domandò con
cautela ed
una nota di tenerezza che era solo partecipazione ad un male che
conosceva, che
lo dilaniava e che sospettava, con amarezza, condividesse anche lei.
Arianna sussultò,
perse per qualche secondo la maschera di compostezza spensierata, un
frammento
di cedimento tante breve che Demi pensò di averlo solo
immaginato, perché poi
la vide sorridere ancora.
Allora sorridere
gli sembrò per la prima volta uno scudo, e pensò
che forse era questo il modo
che lei aveva scelto per gestire la vita, si difendeva da tutto con un
sorriso.
«Questa me
l’aspettavo» ridacchiò, scrollando piano
le spalle, per togliere importanza
alla risposta «È abbastanza complicato. Diciamo
che non stiamo vivendo
situazioni molto diverse, ecco. Conosco tua madre perché
conosco tutte le
persone che sono ricoverate. Mi aiuta a farmi un’idea di come
la cosa sarà
dopo. Non credo ci sia altro da dire»
Demian annuì piano
e non disse altro.
Non c’era molto da
aggiungere, era stata vaga, ma lui per primo conosceva
l’orribile sensazione di
non poter esprimere certe verità ad alta voce,
ché il suono dava corpo ai
mostri e li rendeva più grandi e sovrastanti, più
difficili da tenere a bada.
La confidenza che le aveva strappato bastava, sapere che anche lei
stava
perdendo qualcuno, proprio in quel reparto, per la stessa malattia che
lo
allontanava da maman, illuminava le ombre di
quell’affinità che sentiva per
lei, un elastico teso che pretendeva di potersi riavvicinare, e Arianna
era
l’altro polo, il punto di ritorno.
Il buco nero oltre
il piano inclinato della sua coscienza.
Le prese la mano, la strinse.
Voleva che anche
lei sentisse la medesima consapevolezza che lo aveva attraversato in
quel
preciso istante, un’illusione forse, che però
annientava tutto il resto, non lo
spingeva verso il baratro che gli stringeva il petto, quel senso di
vuoto,
quella voragine, la guardava dall’alto ora, ne provava una
vertigine, e restava
affrancato a quella mano per non scollarsi dalla realtà e
non scivolare nello
sconforto.
Poi lei gli sorrise
in modo diverso, spezzò quel filo di tristezza che li aveva
uniti e rabbrividì
«È già parecchio tardi» gli
fece notare, risvegliandolo «Ci ho messo troppo
oggi ad arrivare, ci siamo persi il pomeriggio. Mi sembra di aver
buttato un
sacco di tempo»
Ormai il buio era
diventato pesante e viscoso, s’intravvedevano le stelle e gli
alberi
scheletrici stringevano il cielo in una morsa di rami.
«Ho lasciato il
motorino in ospedale. Torniamo indietro, così ti accompagno
a casa»
Arianna scosse la
testa «Hai il telefono? Avviso Dani di venirmi a prendere
qui. Conoscendolo è
già là a divorarsi il fegato perché
non mi vede arrivare!»
Si avviarono
lentamente lungo il sentiero, oscuro in lontananza, solo dopo che si
era
accordata con suo fratello. Non avrebbe voluto rientrare, ma faceva
freddo ed
Arianna, vestita con abiti troppo leggeri, tremava un poco e si
rannicchiava
ingenuamente tra le proprie braccia per riscaldarsi. Era disarmante, la
tenerezza che riusciva a suscitargli con un gesto tremendamente banale,
eppure
il modo delicato in cui si raccoglieva nelle proprie spalle e la linea
fragile
del collo che disegnava un leggero arco di luna
nell’oscurità, gli smuovevano
un senso di morbidezza, e capiva che in lei c’era qualcosa di
prezioso. Una
fragilità ignota che la rendeva forte, le conferiva una
bellezza imprevista.
Si sfilò la giacca
di pelle e gliela porse, solo per sentirla ridere di nuovo.
«Ok, questo è un
cliché, caro mio. Mi sembra di essere finita in un film di
serie C, se fai
queste cose!»
Sollevò l’angolo
della bocca nella sua espressione provocatoria «Io non mi
preoccuperei, la
serata non finirà con un bacio, quindi sei al sicuro da
qualunque cliché»
Lo disse per
orgoglio, ma era già pentito di essersi tagliato le gambe da
solo. Era da
quando gli era comparsa davanti che i suoi occhi avevano seguito la
linea di
quelle labbra, sempre umide perché le mordeva assiduamente,
ed un languore
penoso si raccoglieva in un grumo nella gola secca lasciandolo in uno
stato di
sospesa agonia.
Tanto lo sai, non
l’avresti mai nemmeno sfiorata.
Non ne avresti avuto
il coraggio, una ragazza come lei
non merita di essere sporcata.
Arianna indossò la
giacca, incrociò le braccia al petto e gli rispose con un
finto broncio
«Sappi che non
giocherò all’infermierina perversa per farmi
baciare da te!» lo punzecchiò con
precisione millimetrica.
La saliva gli andò
di traverso e si ritrovò a tossire, cercando di riprendere
fiato, con gli occhi
lucidi e l’aria sconvolta. Più per tormentarlo che
per aiutarlo, Arianna lo
supportò con qualche pacca ben poco delicata sulla spalla.
La vergogna per
l’episodio avvenuto la settimana prima tornò a
pungolarlo, sperava davvero che
potesse dimenticarsi di Elena ma, lo intuiva da
quell’espressione malandrina,
la sua era una speranza vana.
Lo costrinse a
distogliere lo sguardo e a pensare che, davvero, gli conveniva fare
attenzione
a non provocarla se non desiderava pagarne le conseguenze.
Arianna cercò la
sua mano, si sorrisero mossi da un imbarazzo diverso, più
consapevole, che lo
liberava di qualsiasi tormento.
Fosse anche stasera,
solo stasera, andrò bene.
Me lo farò
bastare.
Eppure avrebbe
voluto altro, avrebbe voluto di più, anche se era
più semplice convincersi del
contrario per non soffrire di un desiderio mancato. Mentre aspettavano,
Demian
non perse l’occasione di osservare ancora il suo profilo, la
linea morbida
della fronte che scivolava nell’incavo del naso per poi
sollevarsi sulla punta
insolente, come in un moto di orgoglio.
«Noi…»
Annaspava in un
pozzo di parole non dette che lo sommergevano e non gli permettevano di
afferrarle, le cercava nel suo viso sereno, ma quella bellezza
sfacciata non
gli andava incontro, lo sfidava soltanto rendendo più
difficile trovare un
senso.
«Ci… ci vediamo
ancora?»
Arianna sollevò le
sopracciglia, contrasse le labbra belle e alla fine rise di lui
«Ok, io ci
provo a stare buona, ma fai proprio delle domande idiote! Se devi stare
sui
cliché almeno scegline uno utile. Tipo “mi daresti
il tuo numero?”. Almeno
avrebbe senso»
Demian abbassò gli
occhi e si passò una mano sulla nuca, per sentirla scoperta.
Provava sempre una
vergogna bruciante, a restare senza il suo berretto, era quasi come
essere
nudo, eppure quella ragazza aveva superato anche quel disagio senza
neanche
averci provato.
Era venti passi
avanti a lui, se ne sentiva disarmato, come se davanti a quelle iridi
verdi e
intonse perdesse consistenza e forma, per diventare solo desiderio.
Puro e
semplice, primordiale desiderio.
bofonchiò imbronciato «Mi daresti il tuo
numero?» per
sentirsi rispondere «Non ho il cellulare!»
Rideva con
l’espressione furba di chi si stava prendendo gioco di lui e
le mani sullo
stomaco, quasi a contenere quell’ilarità che le
rendeva gli occhi lucidi.
«Ma sei stata tu a
dirmi di chiedertelo!»
Arianna scosse la
testa ed i capelli, una massa oscura e indefinita nel buio, si mossero
ridisegnando i contorni del suo volto «Erroneo. Ti ho detto
che sarebbe stato
più logico chiedermi il numero, non che avresti dovuto
chiedermelo»
Dem si passò ancora
una mano fra i capelli candidi, poi la fece scivolare sul viso
stropicciando
rudemente la pelle, un rito per scacciare la disperazione.
«E quindi? Che
dovrei fare?»
«Dovresti darmi il
tuo numero. Ti chiamerò io, sarà più
semplice»
Si tolse il capello, liberando la massa indomita e scarmigliata di
ricci, si
alzò sulle punte e glielo calcò in testa,
tirandoglielo sugli occhi. Non la
vedeva, ma sentiva le dita fredde sulle guance, percepiva quel leggero
ridacchiare che scovava in ogni dettaglio qualcosa per cui valeva la
pena
ridere. Arrotolò il bordo del berretto e ricambiò
il sorriso che lo aspettava,
con gli incisivi divisi, oltre l’oscurità della
stoffa.
Una macchina
rallentò costeggiando il marciapiede pochi metri
più avanti, proprio mentre
Demian finiva di dettarle il numero. Il finestrino si
abbassò con un ronzio,
mostrando il volto di un ragazzo piazzato, con i capelli ricci e iridi
forse
verdi.
La linea da felino
indolente degli occhi dallo sguardo pungente, li rendeva indubbiamente
fratelli
nonostante i tratti del volto di Daniele più rudi, sbozzati
come incisioni
nella pietra, spigolosi.
«Puffetta, potevi
avvisarmi prima. Ti stavo aspettando già da
un’ora»
Demian si concentrò su di lui, alla ricerca di
qualcos’altro nella sua persona
che non gli trasmettesse un rigetto a pelle, poi si dedicò
ad Arianna, si
accorse che era arrossita.
«Devo andare»
Fece per togliere
anche la giacca, ma Demian la fermò con un leggero sorriso
«Tienila pure. Così
sono sicuro che ti rifarai viva» glielo disse chinandosi
sulla sua figura
minuta, per non farsi sentire dal nuovo venuto.
Daniele non aveva
distolto l’attenzione da lui, nemmeno un attimo,
l’espressione arcigna e
sospettosa non lo abbandonava.
«Puffetta, muoviti»
«Arrivo, arrivo!»
urlò quasi, non preoccupandosi di non far trasparire tutta
la sua irritazione.
Tornò a guardarlo, e Demian s’intenerì
di quell’aria mesta.
«Buonanotte Demi,
vedi di fare il bravo!»
Non riuscì a
risponderle, non con prontezza. Era carina quando
s’imbronciava, era un buon
“ultimo ricordo”, nel caso non avessero avuto altre
occasioni. Arianna,
rinunciando ad un suo congedo, abbozzò l’ultimo
saluto con la mano e fece per
voltarsi, allora Dem allungò il braccio verso di lei,
pietrificandola per la
sorpresa.
Era una carezza di
dita leggera, la sua, sulla guancia morbida. Si abbassò un
poco, per portarsi
all’altezza del suo viso, e sorrise lieve quando la vide
abbassare le palpebre
lentamente, come un invito. Posò le labbra in un bacio
soffice sulla sua
fronte, si scostò e le sorrise ancora, per la bocca schiusa
e l’aria scossa,
per la dolcezza che emanava.
«Visto? Nessun
cliché. Buonanotte Annie»
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Capitolo 11 *** Essere grandi ***
À Demian
Capitolo nono
Essere grandi
«Fratellone!
Je veux une crêpe avec la Nutella
et les fraises!»
La
voce di Sarah era sempre morbida e confortante, permeata di una
tenerezza
fanciulla fragile come le sue spalle sottili. Demian la guardava
trotterellare
allegra qualche passo più avanti, con la sua chioma
d’oro brunito che le
nascondeva la schiena e Lalami tra le braccia. La cucciola era
cresciuta molto
nell’ultimo mese, pesava troppo e le stava scivolando
lentamente, così la
povera Lala restava sospesa in una posizione improbabile che pareva una
tortura, a guardarla provava per lei un’incredibile pena.
«Petite Sarah, ma
chèrie, ti prego metti giù quella palla di pelo
dannata, rischi di diventare
come tuo fratello»
«Che sarebbe
comunque meglio che diventare come quell’idiota di tuo
cugino» Demian freddò
Jules con una gelida occhiataccia ammonitrice.
«E la
crêpe?»
A volte Sarah gli
ricordava il Piccolo Principe: non demordeva mai. Poteva porgli ancora
e ancora
il medesimo quesito ignorando completamente tutto il resto, come gli
abituali
battibecchi tra suocere che caratterizzavano qualsiasi interazione tra
lui e
Jules, e restava sempre depositato sulle sue labbra di rosa un sorriso
velato
in grado di scioglierlo.
Quasi
«Trop gâteaux
te font mal»
Troppi dolci ti fanno
male
La piccola peste tramutò
immediatamente il suo sguardo adorante in un broncio dispettoso da
fatina
ammaliatrice. Si strinse la cagnolina al petto con più
enfasi, come a cercare
di creare un’immagine davanti alla quale Dami potesse
capitolare, e Lalami
emise un guaito di disperazione.
«Mais j’adore trop
les gâteaux!» supplicò con vocina
sottile e tenera.
«Ignoralo Sarah, ha
solo il braccino corto»
«Jules!»
Il cugino ghignò,
ignorando il suo richiamo con una sfacciataggine ai limiti del
sopportabile.
Sua sorella aveva aggrottato le sopracciglia e la sua espressione
confusa, da
cucciola che andava soffocata di baci, fu un chiaro indice che qualcosa
le era
sfuggito. Forse perché in casa Demian le si era sempre
rivolto in francese,
Sarah aveva qualche problema con alcune sottigliezze
dell’italiano, come i modi
di dire. Davanti al suo musino era difficile riuscire a racimolare un
briciolo
di fermezza.
«”Braccino
corto”?»
«Oui, il est un
radin!»
«Putain, Jules!»
Sarah si aggrappò
piano alla sua manica, rendendo la situazione già precaria
di Lalami estrema, e
tentò ancora una volta di vincerlo con il suo atteggiamento
tenero e indifeso,
tutto da viziare. Distendeva le palpebre, increspava la boccuccia, e
Demian
capitolava come neve davanti ad un sole troppo caldo.
«Tu ne dépenserais pas trois
mile lires non plus pour moi?»
Il desiderio di
dirle di sì lo inchiodò un istante.
«Ce n’est pas pur
l’argent, mais trop gâteaux ne te
font….» le
parole gli morirono sulle labbra,
schiuse in un
sospiro strappato a tradimento. Era sempre difficile restare fermo
nelle
proprie convinzioni propedeutiche quando quella piccola viziata
s’impuntava e
lo travolgeva con tutta la sua dolcezza.
Julian lo
precedette prima che gli riuscisse di provare a resistere al fascino di
sua
sorella con risoluzione «Ne t’inquiète
pas, chérie, te la compro io» sorrise,
guardandolo in tralice con quella sua espressione sorniona da carogna
incarnata, solo per provocarlo. Aveva gli occhi di zio Lorenzo, linee
morbide
che scivolavano nel soffice, ma che con la sua pessima
personalità Jules
riusciva a sporcare di malizia e sottile ironia.
«Jules, Christos,
cosa non hai capito della parola “no”?»
Sarah lasciò libera
Lalami, che scivolò a terra con un rantolo di sollievo, e
corse subito a
braccia aperte verso il cugino. Jules raccolse il suo invito con un
sorriso
raggiante, la sollevò in aria e a Demian sembrò
incredibilmente leggera, un
riflesso fragile in controluce.
«Sei il mio
preferito!»
Lo esclamò con
impeto solo per guardarlo poi da sopra la linea della propria spalla e
regalargli una linguaccia provocatrice. Basito osservò il
bel volto della
bimba, ed il pensiero fu automatico e spontaneo.
Passa troppo tempo con
Julian
Lalami gli si era
già accostata e grattava la sua gamba come a supplicarlo di
non lasciarla più
nelle mani di quella disgraziata di Sarah, che poco prima quasi le
staccava la
testa. Recuperò il guinzaglio che stava strisciando a terra
con un sospiro
rassegnato.
E tu, brutta bestia,
tu forse sei pure peggio di Sarah!
«ok, va bien, tu as
gagné»
Va bene, ok, hai vinto
mormorò come se
sconfitto lo fosse davvero, ed in parte era proprio così,
amava quella bambina così
tanto che scorgere i suoi occhi inumidirsi, pur nella consapevolezza
della
finzione volta a piegarlo, bastava a piegarlo davvero.
«je
t'achète cette stupide crêpe. Mais j’ai
veux comme minimum un câlin!»
Ti prendo quella
stupida
crepe. Ma voglio come minimo un abbraccio!
Jules
si aggrappò a lei come un polipo «Troppo tardi,
adesso è mia!» scatenando la
risata soddisfatta di Sarah, limpida e argentina come un bicchiere di
cristallo
appena sfiorato. Sentirla così serena lo mise di buon umore,
ma durò solo una
manciata d’istanti, il tempo di vedere la sua bestiolina
stampare un bacio
sulla guancia di quel suo inutile cugino.
«Ok,
basta effusioni, ridammi mia sorella!»
Gliela
sfilò letteralmente dalle braccia di forza, guadagnandosi
un’occhiata divertita
e derisoria insieme di Julian e il sottinteso che non aveva bisogno di
essere
esplicato a parole: sei proprio uno scemo a prendertela per davvero.
Demian
si sforzava sempre, di contenere la propria gelosia, ma con Sarah era
impossibile. Con sua sorella perdere il filo logico era fin troppo
semplice
delle volte, anche nei casi più ridicoli che lo facevano
apparire come un
bambino sospettoso e possessivo. L’aiutò ad
arrampicarsi sulle sue spalle e le
afferrò le gambe sottile per trattenerla e darle
stabilità, visto che la sua
peste di stare immobile proprio non ne era capace. Sentire il suo peso
morbido
addosso, sentirla appoggiare la guancia tra i suoi capelli, aveva su di
lui
l’effetto benefico di un balsamo su una piaga.
Era
per quella sensazione di rigenerante freschezza che amava stare con la
bambina,
abbracciarla forte e pensare che il mondo poteva anche andare al
diavolo, tanto
c’erano loro due, ci sarebbero sempre stati solo loro due,
ché da soli erano
distrutti, ma insieme si proteggevano, non erano persi, avevano un
attracco in
quella loro vita di solitudine e mancanze.
Sarah
stava canticchiando a bocca chiusa un motivetto, un suono familiare che
non
subito gli riuscì d’inquadrare, almeno fino a
quando non la sentì mormorare,
con la vocina cullata dal suo passo
«Toutouig
la la, va mabig,
Toutouig la la»
Le
lasciò una carezza dolce sulla gambina, mentre gli sembrava
quasi che Sarah gli
si adagiasse contro completamente, senza più forze, come
sfinita ad aderire
alla sua schiena. Gli faceva provare una tristezza delicata, la
malinconia di
una nostalgia struggente, di momenti condivisi che sembravano
così lontani, ed
invece erano solo un anno prima, una manciata di mesi che li avevano
però
allontanati. E allora non poteva non chiedersi se Sarah fosse
consapevole di
cosa gli ricordasse quella melodia, di che valore avesse per lui.
Se
quella ninna nanna sussurrata fosse un modo per fargli sentire
rimpianto e
mancanza di lei.
«Da vamm a
zo amañ, koantig
Ouzh da luskellat,
mignonig»
Aveva lo stesso
accento di maman, ma gli errori di pronuncia Demian li riconosceva come
i
propri, influenza delle mille volte in cui gliel’aveva
cantata al posto di
Jenevieve. Perché quella non era una ninna nanna qualunque,
era la ninna nanna.
Era la canzoncina
infantile che aveva sempre accompagnato i suoi ricordi più
intonsi, di quando
sua sorella ancora non esisteva e sua madre gli dedicava il suo amore
prima che
potesse prendere sonno. E poi, a sua volta, ci aveva trascorso le
serate a
sussurrarla a Sarah, anche quando lei già dormiva ma lui era
troppo triste e
stanco per riuscirci, di una stanchezza diversa e opprimente di vivere
che non avrebbe
ancora dovuto conoscere.
«Dami?»
«Dami? Incominci a
preoccuparmi»
«Fratellone?»
Una scossa, la voce
preoccupata di Sarah come un filo che lo strattonava e lo risbatteva
nel reale.
Chiuse gli occhi, li riaprì e rimise a fuoco i negozi, le
persone nel
corridoio, e Julian.
«Oui?»
«Tu
t'es
enchanté!»
Ti sei incantato!
lo prese in giro la
sua bestiolina, allacciandogli le braccia al collo in un improbabile e
problematica stretta, visto la posizione in cui la bambina si trovava.
«Eh certo, io ti chiamo per un’ora e non mi
consideri nemmeno se ti prendo a
calci negli stinchi, a lei rispondi subito! Bene. Questa me la segno,
io te lo
dico!»
«Jules, sei una
piaga che cammina!»
«Ingrato, con tutto
quello che faccio per te!»
«Tipo? A parte
imbucarti nei miei appuntamenti con mia sorella, rovinando giornate
altrimenti
perfette ovviamente»
«Ehi! Sei un
egoista. Io ero a casa da solo a far nulla, con che cuore mi avreste
abbandonato? Sarah mi voleva, vero Sarah?»
La bambina gli
dedicò una linguaccia «No!»
Julian non perse
l’occasione per bofonchiare le proprie rimostranze da
martire, fortunatamente
erano giusto arrivati e davanti a loro si profilò
l’insegna del negozio. Demian
i centri commerciali li odiava, ma aveva finalmente deciso di portare
Sarah a
comprare quel benedetto cellulare, così avrebbero potuto
contattarsi
direttamente senza passare dalla zia, e quindi quel giorno aveva fatto
un’eccezione.
Sarebbe stato un
pomeriggio perfetto… se non ci fosse stato Julian!
«Quel téléphone
portable tu m'achètes?» gli chiese lei, tutta
soddisfatta.
Che cellulare mi
prendi?
Sarebbe stata
l’unica bambina della sua età ad avere un telefono
e ne era estremamente
orgogliosa. Non che Demian nutrisse dei dubbi sull’impiego
che avrebbe finito
con il farne: avrebbe passato ore a giocare a
“Snake” esattamente come faceva
quando si appropriava impunemente del suo.
« Je
peux l'avoir comme le toi?» continuò, facendolo
ridere.
Lo posso avere uguale
al tuo?
« Tu peux avoir ça
que tu veux, bestiole! Jules, prendi Lala in braccio»
Puoi avere tutto
quello che vuoi, bestiolina!
Il cugino sbuffò
prontamente «Puzza. Non è giusto. Tu hai voluto
portare il cane, perché devo
tenerlo in braccio io?»
Perché il
cane dà meno fastidio ti te
«E se poi non la
lasciano entrare? Dai, fallo per me!»
Dem non poteva
vederla, ma non ne aveva bisogno per sapere che Sarah gli stava
certamente
facendo gli occhi dolci e il broncetto.
«Solo perché me lo
chiedi tu» cedette infine sbuffando, prima di prendere Lala
tra le braccia.
S’inoltrarono nell’ampio negozio e cercarono di
orientarsi con scarso successo,
affiancando gli scaffali dedicati alla playstation e ai videogiochi,
attraversando il reparto dei computer di ultima generazione, per
incappare poi
nella sezione televisori, videoregistratori e videocassette.
Raggiunsero infine
la jungla di cellulari e telefoni fissi e davanti a quelle infinite
quanto
sconosciute possibilità Demian provò un senso di
smarrimento caricaturale e
ridicolo.
«Cristo, una
commessa! Guardala come brilla dello splendore della
salvezza!»
«Sei davvero un
idiota»
Jules sorrise
impenitente prima di raggiungerla e placcarla con chissà
quale sconveniente
battuta da provolone fallito e Dem rimise a terra Sarah scuotendo la
testa per
quel caso umano con cui condivideva il sangue.
«Sapete già che
modello desiderate?»
La voce della donna
era modulata e formale, un sorriso affabile da venditrice veterana le
increspava il volto. Dietro quell’apparenza angelica e
disponibile si vedeva
perfettamente che già stava valutando tutte le ultime uscite
da proporre.
«Nokia 3330»
Demian decise di
interrompere il suo ipotetico flusso di pensieri sul nascere. Sarah
subito si
affrancò alla sua felpa e la tirò con poca
discrezione
« C'est
comme le toi?»
È come il
tuo?
Le scompigliò i
capelli e le sorrise, c’era qualcosa di dolce in lei persino
in gesti così
banali «Oui, sûre»
Mentre aspettavano,
l’occhio gli cadde su un modello di cellulare
dell’anno precedente in esposizione,
scontato. Non riuscì a non pensare ad Arianna, che era
tagliata fuori dal mondo
e dalla sera prima non gli era più stato possibile
contattarla perché, per
qualche assurda ragione, non aveva un telefono.
Si appuntò
mentalmente di segnalarle quell’occasione, se mai si fossero
rivisti.
All’idea di restare
sospeso per giorni, senza poterla sentire come in quel momento, si
frustrava
pure di più e aumentava il malumore, uno scontento
immotivato che non gli
riusciva di sopprimere.
Perché
diavolo non ti sei ancora fatta sentire?
***
«Terra chiama Dami.
Si può sapere che ti passa per la testa? Dai, sei
insopportabile quando fai il
tormentato assorto»
Da quando avevano
abbandonato il negozio Julian non aveva cessato un solo istante di
fargli il
terzo grado, camuffato dal suo abituale tono canzonatorio, un tentativo
di
rabbonirlo forse. Poco importava, Demian aveva deciso di non dargli
soddisfazione.
Dopo essersi
fermati ad un bar della zona ristoro del Centro Commerciale, avevano
occupato
una panchina ed ora Sarah, comodamente seduta sulle sue gambe, era
troppo presa
a godersi la sua tanto agognata crềpe alla Nutella per prestare loro
particolare attenzione. Lalami, sdraiata ai suoi piedi, era concentrata
a
rosicchiare il bordo sdrucito dei suoi jeans, e nell’insieme
Demian non
riusciva a trovare un appiglio a cui aggrapparsi per distrarre Jules.
Proprio mentre
disperava, il cellulare nella tasca vibrò, avvisandolo
dell’arrivo di un
messaggio. Non si mosse subito, per un istante trattenne il fiato,
quasi
paralizzato dalla possibilità che, finalmente, Arianna si
fosse fatta viva. L’aspettativa
era stata tanta che ora quasi temeva di leggere, il responso a tutta
quell’attesa avrebbe potuto deluderlo.
Si accorse che il
cugino lo stava fissando con le sopracciglia aggrottate, cercando di
leggere
nei suoi sguardi e nei suoi gesti quei pensieri che rifiutava
strenuamente di
condividere. Quegli occhi indagatori bastarono a dargli la spinta che
gli
serviva.
La delusione aveva
il sapore di una congestione.
Il nome sulla
schermata era quello di Nicolas, il tono del messaggio particolarmente
aggressivo lo invitava a farsi vivo presto.
Con un sospiro fece
scivolare di nuovo l’apparecchio nella tasca dei jeans, poi
guardò Sarah,
assorta e buffa, con l’angolo della bocca arricciato in
un’espressione di
soddisfazione gongolante. Non voleva rispondere a Niko, aveva bisogno
di
prendersi una pausa da lui e dal resto del gruppo. Dopo quella sera non
era più
riuscito ad incontrarli, il disagio per ciò che avevano
fatto gli era rimasto
addosso. Era assurdo, non era stata la cosa peggiore che avesse
combinato con
quei disastrati casi umani, eppure qualcosa era scattato nella sua
testa, un
interruttore che aveva acceso una luce, illuminando consapevolezze
impreviste.
Probabilmente, era
stato vedere Maximilian di persone a impedirgli di ridimensionare
l’avvenimento
fino a renderlo un’inezia.
«Non mi hai più
detto se hai o meno rivisto quella ragazza» colpì
il centro Julian scostandosi
il ciuffo biondo, con quella sua capacità di cogliere sempre
il problema con
naturalezza e nonchalance «Sei un po’ strano in
questi giorni. E non è
necessariamente una cosa negativa»
Aveva le braccia
intrecciate al petto, la sua aria saccente, la consapevolezza di
vederci anche
troppo bene era scritta in ogni angolo del suo volto affilato.
Sarah sussultò e
come un papavero appena svegliato, tutto stropicciato e distratto,
alzò i
grandi occhi da falco su di lui, aggrappandosi stretta alla maglietta
per
attirare la sua attenzione.
« Tu a
une fiancée, frère?»
Hai una ragazza
fratellone?
La sua vocina
labile intrisa di preoccupazione, simile a qualcuno che ha taciuto
troppo tempo
ed ora non sa più come parlare, gli trasmise un profondo
dispiacere. La guardò
ancora, pensò che Sarah aveva solo lui, che era il suo tutto
esattamente come
lei lo era per lui. Pensò che quel panico inespresso poteva
capirlo, già la sua
assenza era costante senza bisogno d’interventi esterni che
li allontanassero
ancora.
E si sentì
meschino. Forse la paura in quegli occhi gialli era proprio quella di
essere
sostituita, accantonata definitivamente, e lui invece aveva pensato
soltanto a
se stesso, aveva cercato un modo per stare meglio senza la sua
bestiolina.
Le sorrise, le
lasciò un bacio fugace tra i capelli di sole brunito.
«No, jamais. Je
n'ai pas du temps pour le femmes , j'ai toi, juste?»
No, mai. Non ho tempo
per le ragazze. Io ho te, giusto?
Sarah esitò, c’era
come una vena di malinconia impigliata nel suo sguardo, ma poi sorrise
tutta,
s’illuminò di gioia, si accoccolò a lui
come un gattino randagio in cerca d’affetto
e Dem poté solo chinare il capo, sconfitto dalla dolcezza.
Neanche tu mi dici le
bugie, vero?
Le domande di sua
sorella, quelle richieste implicite d’amore incondizionato e
purezza assoluta,
gli restavano conficcate come spine nell’anima. Non lo sapeva
nemmeno lui, dove
trovasse il coraggio di mentire ad una creatura tanto ingenua, ma
riuscirci con
tanta facilità lo faceva vergognare di se stesso.
«Non dovresti farlo»
sibilò Julian severo, come se gli avesse letto nel pensiero.
Allora Demian
scosse il capo e decise di non incrociare il suo volto carico di
rimproveri che
davanti a Sarah non poteva rivolgergli. La bambina aveva la bocca
sporca di
Nutella ed i capelli spettinati le uscivano dal nastro rosso. Li fece
scorrere
tra le dita e ricordò quando compiva quel gesto abituale con
maman, in quei
momenti che erano i loro pochi momenti. Ed infatti, sua sorella li
portava
acconciati con le ciocche laterali fermate dietro la testa con un
fiocco da
quando aveva trovato una foto della mamma da ragazzina. Così
raccolta, Sarah
sembrava ancora di più una bambolina, gli mancava la vena
diabolica di
Jenevieve che riusciva a dare malizia persino ad
un’acconciatura tanto
semplice.
«Ok, si sta facendo
tardi ora. Andiamo a casa?»
Dem sussultò, e con
lui Sarah, che abbassò le mani strette attorno al tovagliolo
come in una sorta
di resa totale e silenziosa. Quando sua sorella era triste si spegneva
in
maniera inspiegabile, ogni parte di lei si chiudeva e gridava silenzio,
orecchie occhi e naso, ogni senso si ritraeva al sicuro,
irraggiungibile, e
sembrava un corpo vuoto all’improvviso.
Assente e pallida,
come non la stesse più tenendo tra le braccia.
C’era qualcosa di
tremendamente triste nella distanza che l’allontanava da lui.
Le ore erano
trascorse in fretta, ma non sembravano mai abbastanza, avrebbe voluto
avere il
coraggio di dire che non voleva separarsi da lei, non ancora, non quel
giorno.
Avrebbe voluto che Sarah avesse lo stesso coraggio, invece restavano
sospesi
nel silenzio, cercando negli occhi dell’altro il medesimo
dispiacere.
Julian sospirò,
stropicciandosi la radice del naso «Dami, perché
non resti a dormire da noi per
una sera?»
Demian esitò, si
morse piano l’interno della guancia e valutò che,
forse, per una volta poteva
farlo, poteva accontentare Sarah. Ma poi immaginava il disagio, e
già poteva
sentirsi un intruso nell’altrimenti perfetto quadretto
familiare della zia, e
gli montava l’angoscia inspiegata che lo prendeva quando
contemplava qualcosa a
cui non poteva appartenere.
Scosse piano la
testa, un sentimento di leggero rimpianto per un’occasione
sfumata e
rassegnazione nel dover guardare sempre da lontano la fiaba di qualcun
altro,
uno spettatore indesiderato aggrappato come un parassita al mondo.
Con la mano cercò
quella di sua sorella, la strinse e iniziò a giocare
distrattamente con le sue
piccole dita.
«Tu
veux tourner chez nous, pour une soirée?»
domandò
abbozzando un sorriso pieno di mestizia
Vuoi tornare tu a casa
nostra, per una sera?
« Demain
Matin t'accompagne à l'école»
Domattina
poi ti
accompagno io a scuola
aggiunse, quasi
potesse rendersi una figura più affidabile così,
per convincerla forse. Perché
non aveva idea di come la sua bestiolina vivesse realmente
quell’allontanamento
dalla propria casa, né quanto ci stesse male. A confermare
le sue incertezze,
anche Sarah indugiò.
Assurdo, come il
piccolo tentennamento che non le permetteva di trovare le parole
potesse essere
per lui più doloroso di una verità meschina
gettata in faccia. La sua
bestiolina distese un sorriso e annuì
« Seulement
si tu termine de me lire le livre et puis tu dors avec moi»
Solo se finisci di
leggermi il libro, e poi dormi con me
« Évidemment je dors avec toi!
Nous ordonnons une
pizza?»
Certo che dormo con
te! Ordiniamo la pizza?
« Oui!
Cela Avec le frites!» esclamò subito raggiante.
Quella con le patatine
fritte!
Sarah era
un’abitudinaria, prendeva sempre la stessa, era confortante
che certe sue
abitudini non fossero cambiate in quel lasso di tempo.
«Ve bene se vado
con lui, vero Jules?» domandò ancora, il tono
della voce più basso, insicuro,
una bambina che aveva appena realizzato di aver preso una decisione
senza avere
il consenso degli adulti.
Anche Demian se ne
rese conto a tradimento, non poteva decidere da sé di
riprendersi Sarah, anche
lui era un bambino agli occhi della zia, e forse lo era davvero e
basta,
nonostante fosse convinto di potersela cavare da solo poi, a conti
fatti, nei
momenti cruciali, doveva volgere a Julian il medesimo sguardo di
supplica
speranzosa che animava gli occhioni di Sarah. Era di Julian il compito
di
riportarla a casa, Dem lo sapeva.
Lo aveva capito,
che il cugino in realtà non si imbucava nei suoi incontri
con sua sorella, ma
si univa sempre per supervisionare il suo comportamento con la bambina
al posto
della zia. Claire non era mai troppo contenta di lasciar dormire Sarah
fuori
durante la settimana scolastica e in aggiunta non si fidava per nulla
di lui,
lo viveva come un distratto e un irresponsabile, incapace di prestarle
le
giuste attenzioni e di ricordarsi banalità come, per
esempio, farla arrivare
puntuale a scuola.
Oltretutto, era
minorenne e unico abitante della casa, la somma di tutte queste
motivazioni era
per la zia un discreto deterrente, e nell’esasperazione del
cugino Demian ci
leggeva tutto il suo combattimento interiore.
Julian si concentrò
sul visetto dolce di Sarah, poi alzò gli occhi morbidi a
incrociare il suo
sguardo, sospirò e annuì.
«La porto a casa a
prendere la borsa di scuola e i vestiti, te la riporto tra
un’ora, ok? Alla
mamma lo spiego io»
Sarah scoppiò a
ridere per la contentezza incontenibile, si aggrappò al suo
collo con forza e
quasi lo strozzò, ma poi gli stampò decine di
baci a schiocco sulla guancia e
Demian pensò che respirare in fondo non era così
essenziale.
Sarah, solo lei era
essenziale.
«Magnifique! Puis
Je veux jouer avec lala! Au
contraire, je veux jouer à “Mickey
Mouse”! Tu me fais jouer une série, juste
frère? Je ne joue pas depuis beaucoup de temps!»
Che bello! Voglio
giocare con Lala! Anzi, voglio giocare
a “Topolino”! Mi fai fare una partita, vero
fratellone? Non ci gioco da
tantissimo tempo!
Demian le cinse il
corpicino sottile e la stritolò in una morsa possessiva che
aveva poco della tenerezza
di un abbraccio, una stretta da orso burbero che fece ridere la sua
bestiolina
un poco di più.
« Tout
ce que tu veux petite peste! Mais rapide, tu vas avec quel idiote.
Après tu vas, après tu retournes»
Tutto quello che vuoi,
piccola peste. Ma ora muoviti e
vai con quell’idiota. Prima vai prima torni!
Le lasciò un ultimo
bacio fra i capelli prima che Sarah balzasse a terra, sulle sue gambine
sottili, e si precipitasse infantilmente da Julian per afferrargli la
mano «Su,
forza! Andiamo!»
Jules scosse il
capo in una risata allegramente disperata, incrociò ancora i
suoi occhi e Dem
riuscì quasi a sentire le parole non dette “che ci
vuoi fare? È impossibile
dirle di no!”.
«Come vuoi, ma chérie!
Ci vediamo Dami»
Demian accennò un
sorriso a metà, addolcito da quella concessione.
«Grazie»
Lo sussurrò che
ormai il cugino era lontano, quasi nascosto da gruppi di persone a
passeggio
tra i negozi nel loro pomeriggio libero. Jules non poteva sentirlo, ed
era
meglio così.
Rimase seduto
ancora, in silenzio, e nonostante fosse immerso in un luogo pubblico
pieno di
gente, si sentì solo come quando restava in camera sua a
contemplare
un’immagine inafferrabile. In quell’esatto modo,
scollato dall’ambiente, con
solo la consapevolezza di Lalami ai suoi piedi ancora intenta a
rosicchiare i
suoi jeans, Dem cercava di afferrare un senso nel collage di immagini
sparse e
slegate che creava la sua vita.
Sarah ancora non
sapeva che maman aveva scelto di non tornare più a casa,
Jules glielo aveva
confermato quando avevano parlato, prima di uscire. Zia Claire aveva
deciso di
parlarne alla bambina solo quando lui si fosse fatto vivo, e di questo
almeno
Demian gli era grato. Aveva bisogno ancora di un po’ di tempo
per riflettere
meglio sul futuro e capire cosa fosse meglio fare, per sé
stesso e per la
bimba. Una parte di sé cercava di convincerlo che doveva,
che era assolutamente
necessario spiegare a Sarah l’evoluzione della malattia di
maman, non solo per prepararla
ad un “dopo” inevitabile che Demian aveva
accantonato fino alla fine, ma anche
perché era giusto che potesse vivere a fondo gli ultimi
momenti con Jenevieve
per non provare rimpianto.
Non voleva essere
la causa di quel rimpianto.
Eppure, la paura
istintiva che lo portava a proteggerla da qualunque forma di bruttura,
lo
spingeva al silenzio. Avrebbe voluto che Sarah potesse rimanere intonsa
e
innocente, ignara della morte, ignara della perdita.
Voleva che nulla
potesse turbarla e offuscare la sua luce limpida.
In quel garbuglio
di incertezze, l’unica possibilità che gli si
palesava davanti era anche
l’unica che non avrebbe mai desiderato: doveva affrontare la
zia. Aveva evitato
incontri prolungati con lei, aveva evitato di parlarle di questioni
importanti
negli ultimi mesi, perché Claire lo distruggeva. Eppure, non
vedeva soluzioni
al vicolo cieco in cui la malattia di sua madre li aveva incastrati,
aveva
bisogno lui stesso di comprendere appieno la situazione, cosa che, per
vigliaccheria, aveva scelto di non fare.
Se il momento di maman
è giunto, devo permettere a Sarah
di andare a trovarla.
Devo farlo
Se non lo avesse
fatto lui personalmente, questa volta Claire avrebbe scavalcato i suoi
desideri
e sarebbe andata avanti per la sua strada senza più
considerare il suo volere.
Non l’aveva ancora fatto senza il suo consenso grazie anche
alle parole di
maman, ma ora era tutto diverso.
Ora non lo avrebbe
più ascoltato.
Se Sarah deve vedere
maman, devo essere con lei.
Non ci sono scusanti,
sarò con lei.
***
«Prends quelle
pommes, cela dans le coin!»
Prendi quella mela,
quella nell’angolo!
la incitò Demian,
allungando istintivamente la mano per sfilarle il joystick. Sarah
schivò
rapidamente lui, ma non fu altrettanto pronta nell’evitare il
fungo appena
comparso nello schermo. Topolino ruzzolò malamente, si
rialzò e ricominciò a
correre verso di loro, l’espressione terrorizzata e
l’ombra del gigante che lo
inseguiva sempre più grande e incombente.
«Une pomme peste!
Tu dois prendre une pomme, tu es en train de ralentir trop!»
La mela, peste! Devi
prendere una mela, stai rallentando
troppo!
Sua sorella si
dimenò, piegandosi ora da un lato ora dall’altro
come se Topolino fosse
direttamente collegato ai suoi movimenti.
«Voila, tu l'a
manqué encore!»
Ecco, l’hai
mancata di nuovo!
«C'est ta faute, tu
n'es pas silencieux!»
È colpa tua
che non stai zitto!
ribatté la bambina,
alzando il joystick verso l’alto, a simulare un salto del
personaggio, come se
muovendosi lei stessa Topolino avesse potuto saltare più in
alto.
Guardarla giocare
era ciò che ci fosse di più divertente, per Dami:
era un vero disastro, non
stava assolutamente ferma e, quando veniva colpita o sbagliava,
s’infervorava
come mai le accadeva, inveiva contro il gioco e contro di lui,
mostrando un
lato del suo carattere solitamente sopito.
«No, c'est ta faute
parce que tu ne sais pas jouer! Je suis inquiété,
tu es comme nôtre cousin, je
dois vous enseigner tout!» la canzonò Demian,
mentre sullo schermo compariva la
scritta “Game Over”.
No, è colpa
tua che non sai proprio giocare! Sono
preoccupato, sei come tuo cugino, devo insegnarvi tutto io!
Sarah sbuffò e tirò
con stizza il joystick contro un cuscino del divano, poi
incrociò le braccia al
petto e gonfiò una guancia per palesare tutta la sua
irritazione da pulcino
indisposto
«Tu es un
porte-malheur, la prochain fois je réussira, tu verra! Mais
tu dois cesser de
me regarder!»
Tu mi porti sfortuna,
la prossima volta ci riuscirò,
vedrai! Però tu devi smetterla di fissarmi!
Fece per riavviare
la Play Station per ricominciare la partita dall’inizio, ma
Dem fu più rapido,
la afferrò per la vita e la sollevò come non
avesse peso, tenendola sotto
braccio con le gambe e le braccina che penzolavano buffamente. Sarah
però rispose
altrettanto prontamente con un calcio di punta sullo stinco,
strappandogli un lamento
tanto di sorpresa, quanto di dolore.
«Malédiction Sarah!»
Con
quell’aria angelica che si ritrova mi dimentico
sempre che è una bestiolina selvatica
«
Mets moi
par terre! Je veux jouer encore!»
Mettimi
giù! Voglio giocare ancora un po’!
«Eh non petite
peste, tu n'as pas bien compris. Il est dix heures et demie e demain tu
dois
aller à l'école. Tu dois aller à
dormir»
Eh no, piccola peste,
non hai capito bene. Sono le dieci
e mezza e domani hai scuola. È ora di andare a letto
«Je ne veux pas
aller à l'école, je veux rester à la
maison avec toi!»
Non voglio andare a
scuola, voglio stare a casa con te!
Demian aprì la
porta della camera di maman con il gomito e spinse con il ginocchio,
Sarah
riuscì a strappargli una risata e quasi la bambina gli
cadde. La scaricò
velocemente sul lettone matrimoniale morbido e fresco di lenzuola
appena
cambiate e il suo corpicino rimbalzò facendola scoppiare a
ridere.
«Qu'est ce que tu
voudrait faire?» domandò incuriosito, arricciando
il naso.
E che vorresti fare?
Sua sorella sollevò
le braccia al cielo e declamò soddisfatta «Nous
allons à Gardaland!»
Lo fece sorridere
ancora, per quella sua piccola follia infantile, perché
l’avrebbe portata a
Gardaland ogni giorno dell’anno se fosse servito. Si sedette
accanto a lei e si
lasciò cadere di schiena, per ritrovarsi supino a
contemplare il soffitto
dipinto a metà. Maman tempo prima aveva iniziato a pitturare
la sua camera da
letto, ma poi si era stancata e quella era rimasta incompleta, con la
quarta
parete e il soffitto spaccati da una linea di colore diverso.
«Cet été
sûrement.
Quand il sera plus chaud»
Questa Estate di
sicuro. Quando farà più caldo
Sarah si sollevò a
carponi, gli posò le manine sul petto e iniziò a
scuoterlo con tutta la sua
forza «Mais tu me lis au moins l'histoire?»
Almeno la storia me la
leggi?
Lo sporgere del suo
labbro inferiore in un broncio istintivo gli faceva venire voglia di
afferrarlo
e tirarlo, solo per sentirla lamentarsi.
«Sûre, après vas
à
te mettre le pyjama. Et tu vas à te laver aussi, au
contraire la tante me tue»
Certo, vai a metterti
il pigiama prima. E a lavarti, o la
zia mi ammazza
La bimba saltò a
piè pari giù dal letto e corse in bagno gridando
una canzone resa
irriconoscibile dalle sue terribili steccate. Demian sentì
la porta chiudersi e
la serratura scattare.
Gli sembrò assurdo,
Sarah non si era mai chiusa dentro, non avevano mai avuto problemi a
condividere il medesimo ambiente, era piccola e inconsapevole, non
aveva mai
provato vergogna. Non era vero, che non era cambiato nulla, la sua
sorellina
stava sviluppando il senso del pudore, provava timidezza ora, persino
con lui.
Era normale a nove
anni?
Gli sarebbe sempre
sembrato troppo presto, con lei, che fosse giusto o meno. Quando
vivevano
ancora insieme, la sua bestiolina nemmeno ci pensava che era un uomo,
non se ne
rendeva proprio conto, non con consapevolezza. La distanza iniziava a
cambiare
certi dettagli che gli era impossibile notare nei loro brevi incontri
giornalieri, era una realtà triste da realizzare.
Con uno sbuffo si
costrinse ad alzarsi.
Andò a sciacquarsi
con una doccia rapida nel bagno della taverna, per non disturbare Sarah
e
concederle tutto lo spazio da signorina che le serviva. Il getto
d’acqua calda
lasciò una scia di macchie rosse sulla pelle pallida, ma
nonostante il bruciore
sottile gli sciolse i muscoli tesi e lo rilassò. Non si
trattenne a lungo
quanto avrebbe desiderato per potersi godere il tepore, uscì
in fretta e si
asciugò i capelli frizionandoli con una salvietta.
Infilò una maglietta pulita,
i pantaloni della tuta, e con ancora la salvietta in testa fece di
corsa le
scale per ritornare dalla sorellina.
Sarah si era già
appallottolata sotto le coperte, accoccolata come il guscio di una
lumaca sul
cuscino, “Le Petite Prince” abbandonato vicino al
suo capo. Fissava assorta la
copertina consunta, una mano scivolava nel pelo di Lalami che le si era
acciambellata contro, aderendo alla linea del petto e delle gambe.
«Quatre éléphants
qui se balançaient
Sur une toile toile
toile,
Toile d'araignée…»
Stava canticchiando
con la voce impastata dal sonno che doveva averla travolta come sempre
dopo la
doccia. Quando era più piccola si addormentava quasi
all’istante, ora lottava
per restare sveglia aggrappandosi alle canzoncine infantili che avevano
accompagnato i loro giochi con i cugini, quelle imparate da Tristan e
Isabeau
nelle loro estati a Douarnenez.
Abbandonò la
salvietta sul comodino, scostò il piumone piano, per
segnalare la sua presenza
a Sarah, tanto concentrata da non averlo ancora notato. La bambina
alzò gli
occhi gonfi di sonno su di lui e gli sorrise dolcemente.
«Où nous sommes
arrivés?»
Dove siamo arrivati?
La sua bestiolina
si stropicciò gli occhi, a riprendere il contatto con il
presente, ma le sue
parole uscirono comunque impastate di stanchezza
«Sixième chapitre»
Demian prese tra le
mani il libricino usurato come stringesse una reliquia pronta a
disfarsi tra le
sue mani. Ciò che percepiva, ogni volta, era la sensazione
di riuscire ad
afferrare un’emozione, un ricordo cristallizzato che aveva
preso forma in un
libro. C’erano le sue speranze puerili, tra quelle righe, i
ricordi di sua
madre, dei momenti trascorsi insieme, di quando si era sentito tanto
solo da
aver supplicato disperatamente Jenevieve di regalargli una Volpe,
perché anche
lui voleva addomesticare qualcuno, anche lui desiderava avere qualcuno
che
fosse speciale per lui e solo per lui.
Lalami starnutì
strappandogli un accenno di risata.
Beh, alla fine ho
addomesticato Lala.
Circa
Forse era vero il
contrario, era stata Lalami ad addomesticarlo, dato che dormiva
impunemente sul
letto per quanto Demian si ripromettesse ogni volta di insegnarle a non
farlo e
quando lo guardava, con la sua espressione vittimistica più
collaudata, vinceva
su tutto, esattamente come Sarah.
Probabilmente, era
troppo debole di fronte alle cose che amava.
«Ya. Pa vez kreisteiz er
Stadoù-Unanet, an heol, an holl a oar se a ya
da guzh, e Bro-C’hall. A-walc’h e vefe gallout mont
da Vro-C’hall en ur
vunutenn evit arvestiñ ouzh ar
c’huzhheol»
Infatti.
Quando agli
Stati Uniti è mezzogiorno tutto il mondo sa che il sole
tramonta sulla Francia.
Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al
tramonto.
«Arvestiñ?»
lo interruppe Sarah al solito, ché
anche da assonnata, più nel mondo onirico ormai che in
quello reale, restava
sufficientemente lucida da porsi troppe domande.
«Assister»
chiarì, sistemandosi meglio il cuscino dietro la schiena.
Sarah annuì piano e richiuse gli occhi, lasciandosi cullare
dalle sue parole,
da quell’accento tutto sbagliato che aveva in sé
qualcosa di rassicurante. La
lingua della nonna, era la lingua della buona notte.
«Met, siwazh, Bro-C’hall zo
kalz re bell. Hogen,
war da blanedenn ken bihan, a-walc’h oa dit sachañ
da gador eus un nebeut kammedoù.
Hag e selles ouzh ar serr-noz bewech ma ‘z poa
c’hoant…
-Un deiz,’m eus gwelet an heol o kuzhat
pergont teir gwech!
Un tammig diwezhatoc’h
ez ouzhpennes:
-Te ‘oar… pa vezer ken trist,
eo plijus
sellout ouzh ar c’huzh-heol…
-Deiz ar pergont teir gwech e oas ken trist
neuze?
Met ar priñs bihan ne
respontas ket»
Basterebbe poter
andare in Francia in un minuto per assistere al tramonto.
Sfortunatamente la
Francia è troppo lontana. Ma sul tuo piccolo pianeta ti
bastava spostare la tua
sedia di qualche passo.
E guardavi il
crepuscolo tutte le volte che volevi...
-Un giorno ho
visto il sole tramontare quarantatré volte!
E più tardi hai soggiunto:
-Sai... quando si è molto tristi si amano i
tramonti...
-Il giorno delle
quarantatré volte eri tanto triste?
Ma il piccolo principe non rispose
Sarah si avvicinò a
lui, si strinse al suo braccio come alla ricerca di qualcosa di solido
a cui
aggrapparsi, un gesto che raccoglieva in sé una tale
fragilità da turbarlo. La
cinse e la portò a sé, lasciò che quel
piccolo capo di Sole e vita si posasse
sul suo petto.
«Tu ne crois pas
qu'il a raison?»
Non pensi che lui
abbia ragione?
borbottò lei,
sfregando la guancia sulla sua maglietta come un micio indolente che
faceva le
fusa. La voce però, quella era lamentosa e debole, la voce
di qualcuno che
sentiva montare il pianto più affranto e lottava per
trattenerlo.
«Qu'est ce que tu
veux dire?»
Cosa intendi?
«La France… semble
vraiment trop loin. Il semble que nous ne la réviseront
plus. Et si la mère
meurt, peut être que nous ne la réviseront plus
vraiment, nous ne retourneront
jamais à la maison»
La Francia…
sembra veramente troppo lontana. È come se
non la dovessimo rivedere mai più. E se la mamma
morirà, forse non la vedremo
più davvero, non torneremo più a casa»
Iniziò a piangere.
Lo faceva piano,
con una discrezione così forte da ricordargli maman. Se non
l’avesse avuta tra
le braccia, se non avesse sentito attraverso il corpo sottile il cambio
del suo
respiro, non l’avrebbe notato.
Capiva cosa voleva
dire, era una mancanza che a sua volta lo tormentava. Erano due anni
ormai, che
non tornavano a casa. Proprio loro, che a Kerlatz ci erano cresciuti,
vi
avevano trascorso ogni Estate e ogni Inverno della loro vita e avevano
lasciato
là non solo la famiglia, ma anche gli amici più
cari, d’improvviso si erano
sentiti tagliati fuori dal quel mondo.
Gli sembrava solo
il giorno prima, l’ultima volta che si era rincorso per le
strade sterrate tra
i campi, a ridosso della scogliera, con Beau, Jules, Trix, Adrien e
Chris.
Gli sembrava ieri,
eppure erano già trascorsi anni.
La loro vita si era
fermata a quell’ultima volta, si era fermata al sogno di
poter rientrare a casa.
Ed invece, l’ultimo frammento vissuto con la sua famiglia era
stato il funerale
del nonno, e ci era andato da solo con Claire e Jules, senza maman,
senza sua
sorella.
Cosa doveva dirle?
Come poteva anche
solo sperare di lenire il senso di una mancanza che era anche la sua
stessa
ferita più grande?
«Si elle meurt, je l'a oublierai»
Se lei non ci
sarà più, la dimenticherò
Pianse più forte,
come piangono i bambini, non come piangeva lei.
Doveva essere stato
il sonno a spingerla a scoprire quelle sue primordiali paure. Dopo il
primo,
momentaneo attimo di smarrimento, in trance, Dami si sentì
scosso da quel pianto
come risvegliato da un coma profondo. Mise da parte il libro, la
strinse più
forte, nascose il viso tra i suoi capelli ed un nodo stretto attorno
alla gola
minacciò di soffocarlo. Forse, avrebbe potuto piangere anche
lui, avrebbero
potuto sfogarsi insieme, avrebbe potuto essere quell’inetto
che si sentiva.
Non trovava le
parole.
«Ne pas dire ça,
amour. Je te porterai à la maison, chaque fois tu voudrait.
Nous allons y avec
maman aussi... je»
Non dire
così, amore. Ti ci porterò io a casa, ogni volta
che vorrai. Ci andremo ancora anche con maman vedrai… io
si morse la guancia
per non crollare, per ritrovare nel dolore una logica. Per non
smarrirsi nelle
bugie che le stava raccontando, bugie che in realtà erano
solo le sue speranze,
erano quei sogni a cui si aggrappava ostinatamente prima di andare a
dormire.
Che tutto sarebbe
andato bene.
Che non sarebbero
rimasti soli.
Che maman non li
avrebbe lasciati a loro stessi.
«Je ne permettrai jamais que tu puisses l'oublier,
Sarah»
Non
permetterò mai che tu possa dimenticarla, Sarah
Prese le distanze, le
scostò i capelli dal
volto piccolo e molle di lacrime, le lentiggini erano semi gettati sul
campo
rosso delle sue guance.
«Je te parlerai
toujours d'elle, nous la rappèllerons ensemble.
Nous… nous ne la laisserons pas
aller loin. Tu ne oublieras jamais maman, je te le promets»
Ti parlerò
sempre di lei, la ricorderemo insieme. Noi…
noi non la lasceremo andare via. Non dimenticherai mai maman, te lo
prometto
Sarah non rispose,
ma annuì debolmente e gli occhi dorati ritrovarono un
barlume di lucidità in
quella tristezza profonda, nascosta agli occhi del mondo e ai suoi,
tanto
insospettabile da fare ancora più male una volta intravista.
«Ne pas oublier moi»
Non dimenticare
nemmeno me
Lo sussurrò, aveva
il sapore di una preghiera.
Demian ne rimase
agghiacciato.
Quelle parole gli
parvero quasi irreali, era impossibile che Sarah le avesse pronunciate
per il
semplice fatto che gli era impossibile credere che Sarah potesse
concepire un
pensiero tanto aberrante.
«Comme je pourrai
t'oublier?»
Come potrei
dimenticarti?
Tu sei il Sole attorno
al quale gravita la mia vita, sei
l’unica cosa bella.
Sei la prova che la
vita non è del tutto insensata.
Davvero non lo sai?
Se Sarah non lo
sapeva, se non lo capiva, allora aveva sbagliato ogni cosa e la sua
breve
esistenza era stata veramente inutile e priva di qualunque scopo.
L’idea che la sua
piccola peste covasse nel suo animo una solitudine tanto grande gli
fece male e
mai gli era parsa più fragile, mai il suo cuore si era
rivelato tanto insicuro.
Lo ascoltava battere forte, preda dell’agitazione, e sentiva
il proprio
sincronizzarsi a quello della bimba in un disperato tentativo di
raccordare le
loro anime.
Tornò a stringerla
forte, pensò che doveva calmarla, acquietare
quell’inquietudine che l’aveva
crocifisso al letto e gli aveva tolto il respiro.
Rimasero a
crogiolarsi nel calore della reciproca presenza e, lentamente, Demian
si
accorse che nonostante quel tamburellare sempre un poco nervoso, il
corpo di
Sarah si stava lentamente rilassando, piangere doveva averla spossata,
forse le
sue erano state solo lacrime di nervoso e stanchezza, forse non era
vero
niente.
Si stava
addormentando, ma lottava testardamente per tenere gli occhi aperti,
ancora un
poco, e cercava di guardarlo negli occhi quando le palpebre non si
facevano
troppo pesanti.
Sussurrò
«Ce n’est pas vrai.
Quand je ne serai plus ici, tu pourrai me oublier si tu te sens
mieux… je ne me
facherai pas, si tu es heureux»
Non è vero.
Quando non ci sarò più, potrai dimenticarmi
se ti farà stare meglio… non mi
arrabbierò se sei felice
Demian sentì una
lacrima colargli, come slegata da sé, sulla guancia.
Un’unica goccia che
sembrava estranea al suo corpo, estranea a lui e a tutto ciò
che cercava di pensare.
Non riusciva a raccogliere un’oncia di raziocinio per dirle
qualcosa di
profondo, di maturo e di rivelatorio che le avrebbe cambiato la vita.
No: ora sapeva, ora
capiva.
Sarah gli stava
facendo conoscere la disperazione più implacabile, la
sviscerava per lui, gli
mostrava il dolore. Ed era un male tanto grande che non riusciva quasi
a
percepirlo, a scinderlo dal proprio essere, era un malessere tanto
radicato da
identificarsi con la sua stessa persona e allora il suo corpo si
rivoltava e lo
rigettava, non poteva assimilarlo.
Lo liberava sotto
forma di una lacrima.
Lo inchiodava al
panico più assoluto.
«Tu seras ici toujours, tu ne dois pas
penser ces choses. Promets
le moi, to dois me promettre que tu ne le penseras plus»
Tu ci sarai sempre,
non devi pensare queste cose.
Giuramelo, giurami che non ci penserai mai più
«Je ne sais pas. Être adult doit être
beau… j’aurais voulu essayer»
Non lo so. Essere
grandi deve essere bello… mi sarebbe
piaciuto provare
Le manine si erano
contratte sulla sua maglietta, si erano aggrappate in un attimo di
disperazione
a lui, una stretta convulsa che Demian riuscì solo a
ricambiare. La
catastrofica sensazione d’impotenza e frustrazione lo
travolse e si trovò di
fronte alla realtà che meno era in grado di accettare: non
avrebbe mai potuto
fare davvero nulla per lei. Non c’erano campane di vetro
abbastanza grandi per
custodirla al sicuro senza ucciderla e certamente lui non aveva la
forza né le possibilità
per essere un vero scudo dalla sofferenza. Gli sembrava quasi di
vederla
scivolare, risucchiata dal senso di mancanza, la perdeva, perdeva
l’idea dell’ingenuità
di quell’anima candida, e non riusciva ad afferrarla.
Dove era,
l’ingenuità di Sarah?
Dov’era tutta la spensieratezza che con un solo sorriso si
trasmetteva attorno
a lei ridando lustro e colori al grigiore di un’esistenza
vuota?
Non lo pensa davvero,
non lei. Non è possibile, è solo un
momento, sono solo pensieri momentanei portati dalla stanchezza, che
scompaiono
in fretta.
Sarah non
può realmente credere a ciò che sta dicendo.
«Tu seras grand, tu pourras faire tout ce
que tu veux. Quand tu seras
grande nous les ferons ensemble. Tu seras une splendide adulte un jour,
et tu
seras toujours avec moi»
Tu sarai grande,
potrai fare un sacco di cose. Quando
sarai più grande le faremo insieme. Sarai una splendida
adulta un giorno, e
sarai sempre con me
Lo sussurrò tra i
suoi capelli, le baciò la nuca ancora e ancora, in un gesto
che era uno
scacciapensieri, una dolcezza che sperava potesse cancellare le
brutture
dell’idea della perdita che li avvolgeva.
Percepì il sorriso
della bambina irradiarsi come ne fosse scottato.
Il più piccolo
gesto di Sarah valeva ogni cosa, valeva il mondo.
«Tu a raison. Je serai
toujours avec
toi»
Hai ragione.
Sarò sempre con te
biascicò piano, con
tono impastato. Sbadigliò, si raccolse ancora, un piccolo
animaletto selvatico
ammansito dal calore e dall’amore, che in sé
però continuava ad avere una sorta
di diffidenza, un’energia latente pronta a scattare persino
nel sonno, un
nervosismo che era troppa vita, compressa in un corpo minuscolo
impossibilitato
a sopportarla.
«Tu me chantes une
berceuse?
Mi canti la ninna
nanna?
Come facevi prima, lesse Demian
tra le righe.
Si raccolse su un
fianco, per poterla avvolgere meglio nelle sue coccole,
accostò il viso al suo,
spiegazzato dalla stanchezza e dai pensieri troppo oscuri, troppo
inadeguati
per una bambina così piccola. Più che cantare,
Dem bisbigliò leggero al suo
orecchio, per frenare la voce ed evitare che si potesse spezzare, un
sussurro
per gridare che la sua era un’anima oppressa che minacciava
di frantumarsi.
Era un debole,
avrebbe voluto piangere.
Ma non ci riusciva.
«Toutouig la la, va
mabig
Toutouig la la
Da vamm a zo amañ,
koantig,
Ouzh da luskellat,
mignonig»
Come poteva parlarle
della morte, della perdita, dare una ragione di
essere al dolore, proprio alla sua sorellina, che la sofferenza della
sua
condizione doveva affrontarla ogni giorno?
Come poteva dirle che
anche avere una mamma le sarebbe stato negato?
«Toutouig la la…
Da vamm a zo amañ,
oanig
Dit-te o kanañ he sonig
En deiz all e ouele kalzik
Hag hiziv e
c'hoarzh da vammig»
Ogni parola aveva
il sapore di maman. Sapeva dell’infanzia che aveva perduto,
sapeva di tutte
quelle cose che non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare,
perché erano
troppo, erano memorie di un tempo che gli spezzava il cuore.
Era allora, che
aveva scoperto che la paura paralizzava, che si era riscoperto
vigliacco,
quando la malinconia lo colpiva a tradimento e si sentiva solo da
morire, e
avrebbe voluto urlare contro maman ancora e ancora, di guardarlo, di
guardare
Sarah, di ricordarsi di loro, ma poi non ci riusciva mai, non trovava
le parole
e il coraggio.
Restava, immobile,
davanti ad una porta chiusa, restava ad ascoltare sua madre piangere in
camera
sua quando credeva che lui e sua sorella non potessero accorgersene,
per lo
stesso terrore e la stessa sofferenza che lo imprigionavano.
Due solitudini
simili a rette parallele destinate a non incrociarsi, a non poter mai
condividere il proprio male. In quei momenti c’era solo
Sarah, l’unico conforto
a cui ancorarsi era la manina pallida, quasi bluastra, della sua
indifesa
sorellina. Era così bella, così ingenua, da
scacciare qualunque angoscia, e
guardarla stringergli l’indice e sospirare era tutto
ciò che di pulito e buono
restasse nella sua vita. Poi Sarah si era fatta più grande,
e lui aveva potuto
solo restarle accanto ad assicurarsi che chiudesse gli occhi e
riposasse bene,
accarezzandole i capelli con esasperata mestizia e quella ninna nanna
tra le
labbra.
«Toutouig la la,
'ta paourig
Poent eo serrañ da
lagadig
Toutouig la la,
bihanig
Ret eo diskuizhañ
da bennig
Toutouig la la,
rozennig
Da zivjod war va
c'halonig
Da nijal d'an neñv,
va aelig
Na zispleg ket da
askellig»
La mano della sua
bestiolina si era rilassata ed ora restava mollemente appoggiata al suo
petto.
Il corpo aveva perso ogni rigidità e mentre dormiva le sue
labbra schiuse
liberavano sbuffi di respiri che sembravano frammenti di pene liberate.
“Sai, quando si è
molto tristi si amano i tramonti” diceva il Piccolo Principe,
ed un sorriso
malinconico temprò il suo volto.
Sarah era il
tramonto su cui si posavano i suoi occhi quando la vita era troppo
triste.
Le donò un ultimo
bacio sulla fronte, con la delicatezza con cui si sfiorano i petali di
una
margherita recisa.
«Bonne nuit, Sarah»
ANGOLO AUTRICE
Non sono morta!
Poteva sembrarlo, e
invece no!
Né volevo mollare
la pubblicazione, ma sono stata immersa in grandi problemi e molto
lavoro, e
quindi non ho avuto il tempo di correggere i dialoghi in francese per
parecchi
mesi, essendo io un’analfabeta senza speranza.
La vera difficoltà
poi stava nel fatto che essendo qui molti, non ero certa di come
gestirli. La traduzione
direttamente sotto la frase mi è sembrata la più
pratica per il lettore,
sebbene visivamente fastidiosa, e quindi ho optato per questa
soluzione. Se ne
avete di migliori accetto suggerimenti, gli asterischi con
così tante frasi mi
sembravano pessimi!
Come sempre, non ho
granché da dire sulla storia, ho voluto mantenere la vecchia
struttura di
questo capitolo, ovvero un inizio leggero che scivola nel tragico,
forse troppo
calcato, ma desideravo mantenere lo spirito ingenuo della storia
originale, per
affetto almeno.
Dovrei pubblicare,
se tutto va bene, un altro capitolo prima di agosto, poi
entrerò in pausa perché
il 4 agosto partirò finalmente per la Cambogia e
starò via tutto il mese. Dovrei
ricominciare a pubblicare intorno a metà settembre.
Non che possiate
morire di trepidazione nell’attesa, ma almeno sapete
perché sparirò di nuovo!
A presto e buone
vacanze!
Ps: lo
ammetto, il capitolo era lungo… non ho
corretto la punteggiatura! Troppo stress!
|
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Capitolo 12 *** Contrasti ***
À Demian
Capitolo decimo
Contrasti
Attorno a lui c’era solo
oscurità.
Buio fitto e denso, viscoso. Aveva la sensazione
che gli si fosse
appiccicato addosso, se ne sentiva soffocato. Gli ostruiva la gola, gli
mancava
il fiato e l’aria rarefatta pareva opporsi ad ogni suo
tentativo di inspirare
ancora e ancora, faceva freddo e il sudore gli imperlava la fronte e il
corpo
come un secondo strato di pelle impalpabile.
Avrebbe voluto
agitarsi, scalciare quel dannato piumino che pesava addosso facendolo
sentire
come se ogni movimento gli fosse precluso e fosse legato polsi e
caviglie,
avrebbe voluto cercare una posizione più comoda che gli
desse una qualche
tregua.
Invece restava
fermo, schiacciato ad afferrare un buio annichilente.
Sarah dormiva
ancora stretta a lui, raccolta nel suo abbraccio con il volto angelico,
nascosto dalle ombre della notte, che posava placidamente sul suo
petto. Demian
si chiedeva come riuscisse a riposare quando il suo cuore batteva tanto
forte e
ostinatamente da sembrargli che volesse solo sfondargli la cassa
toracica. D’altronde,
in realtà voleva che sua sorella rimanesse proprio
lì, dove si trovava, dove
era il suo posto.
Non voleva
allontanarsi da lei, non aveva mi sentito tanto la necessità
di tenerla vicino
a sé, al sicuro, come se un suo abbraccio potesse bastare a
combattere un male
che Sarah si portava ingenuamente dentro.
A soffocarlo era
solo la paura di tutto ciò che si erano detti, di quello che
non avevano avuto
il coraggio di dire. Sarah aveva incarnato con poche parole i suoi
incubi più
oscuri, ed ora le ombre avevano mani acuminate ed artigli che si
aggrappavano
al suo corpo e facevano a brandelli la pelle, dilaniavano la carne e il
sangue
e l’ultimo dei suoi respiri, lo spingevano, cadeva in un
baratro di insicurezze
senza fondo.
La cosa peggiore
era il sentimento di sospensione che lo tormentava, quel fondo mancato
che
forse avrebbe fatto male, lo avrebbe frantumato, ma l’avrebbe
anche liberato di
un peso. Un unico, grande dolore, e poi basta.
La fine.
Frantumarsi insieme
a lei e sparire.
Perché lo sentiva nei
loro cuori sincronizzati sullo stesso battito, se mai le
verità di Sarah
fossero diventate realtà, schiantarsi a sua volta, toccare
quel fondale di
amarezze e morirci, per quello schianto, sarebbe stata
l’unica cosa sensata che
gli sarebbe rimasta.
Il corpo della sua
bestiolina si abbassava e si alzava al ritmo con il respiro, ed era
delicato e
labile, una visione destinata a dissolversi con l’alba. Se
avesse acceso la
luce, come nelle migliori storie di spiriti, il suo corpicino cangiante
si
sarebbe disgregato in polvere, ma il suono del suo soffice soffio di
vita non
era sufficiente a fornire conforto, gli sembrava di potersi ingannare
senza la
vista.
Sarah sa.
Conosce la sua
condizione.
E se Sarah sapeva,
se conosceva la natura della propria condizione, se era consapevole
delle poche
garanzie del suo esistere, Demian allora era perso.
Incapace d’azionare
gli ingranaggi del proprio pensiero e di raccogliere le proprie
sensazioni
appannate dall’attanagliante dubbio che lo rendeva inerme.
Nessun esame, nessun
controllo potrà garantire nulla.
Nonostante tutto il
tempo trascorso da quel giorno, non è
cambiato niente.
E almeno non fingere
di poter dormire, non fingere che
vada tutto bene.
Non ci sono sicurezze.
Blandi tentativi di
preservare la sua fragilità e
nient’altro.
Smettila di mentirti,
guardati.
Sei patetico.
Si premette un
pugno sull’occhio, schiacciò fino a farsi male,
per ricacciare l’angoscia e
forse il pianto che minacciava di strabordare dagli occhi lucidi.
Quanto ancora puoi
resistere?
E anche se volessi
cedere, pensi sul serio di averne la
possibilità?
Cosa credi di fare,
come pensi di lasciarti andare?
La tua apatia non ti
salverà.
Scivolò fuori dalle
lenzuola che il sole era ben lontano dal mostrarsi. Erano quasi le
cinque, sul
balcone faceva freddo e la luce spettrale della lampada esterna
tratteggiava le
linee di un giardino lasciato all’incuria del disuso.
Accese una Lucky Strike,
inspirò una profonda boccata di fumo e lo trattenne a lungo,
prima di
rilasciarlo. Le volute opache di grigio si confusero rapidamente con le
nuvole
di ardesia che incorniciavano la luna.
Si accomodò su una
seggiola di vimini sgangherata, retaggio di maman come la compagna,
abbandonata
in un angolo e occupata da un cestone di panni da stendere ormai quasi
del
tutto asciugati. Forse, sua zia si era anche raccomandata
perché se ne
occupasse lui, con qualche post-it o una chiamata, ma non ci aveva
prestato
attenzione. Il tavolino intrecciato era sormontato da una lastra di
vetro opaca
e sporca, i fiori nel vaso si erano seccati, alcuni erano caduti, altri
erano
rimasti tetramente attaccati per un soffio e dondolavano leggermente,
come in
una poesia di Ungaretti.
Il vento muoveva le
ombre degli alberi ridisegnando il confine del suo sguardo, e il rumore
delle
foglie che frusciavano riempiva il vuoto silenzio.
Non distolse mai la
sua attenzione da quell’ondeggiare pacato e metodico,
finì la sigaretta
lentamente, lasciò che una parte si consumasse da
sé mentre i suoi occhi
inseguivano complicati pensieri che s’intrecciavano ai
ricordi.
Ricordi di Sarah a
cinque anni, di quell’anno vissuto in ospedale per la
bambina, quando ancora
maman stava bene.
Ricordi di
Jenevieve con quella piccola bestiolina sulle spalle, per i corridoi di
un
reparto infantile, e la mano aggrappata al treppiede delle flebo che le
seguiva
impietoso.
Schiacciò il
mozzicone in un posacenere già ricolmo. Appoggiò
i gomiti alle ginocchia,
guardò il fiato condensarsi.
Forse avrebbe
piovuto.
Mai una notte gli
era parsa tanto lunga.
Il campanile della chiesa,
ben visibile dalla finestra della cucina, lo ridestò dal suo
torpore rintoccando
le sette. Più stanco della sera precedente, Demian
abbandonò la sua seggiola e
un posacenere ricolmo di mozziconi che il cielo albeggiava, con nuvole
sfiorate
dal rosa e dall’indaco.
Le erbacce del
giardino e il gazebo di legno sfibrato dalle piogge e dal sole
perdevano la
loro poesia alla luce del giorno e lasciavano al loro posto solo un
sentore di
degrado, un’impressione di tristezza simile a quella che
coglie un adulto
quando osserva l’altalena su cui giocava da bambino ormai in
rovina. Si
affacciò alla porta della camera di maman e
ritrovò una Sarah profondamente
addormentata. Non aveva notato la sua assenza, e il suo posto accanto
alla
bambina alla fine era stato preso da Lala, che si era completamente
distesa
supina con le zampe tese al vuoto, rigide come nel rigor mortis.
La parte più
irresponsabile e inadeguata di sé valutò
velocemente se farle o meno saltare
scuola. Pensò al cinema, scandagliò tutte le
locandine di film Disney in
uscita, ricordò che Sarah doveva avergli accennato ad
Atlantis.
Qualunque
sciocchezza morì sul nascere, su quella soglia, infranta sul
visino piccolo e
lentigginoso della sua bestiolina. Si passò una mano fra i
capelli per
ravvivarli, dalla nuca le dita scivolarono sul collo e lì si
ancorarono, in
attesa del passo successivo.
Con un sospiro
amaro liquidò l’idea di passare la giornata con
lei e andò in cucina, a
recuperare le arance che aveva comprato apposta il pomeriggio
precedente per farle
una spremuta.
Stava profondendo
tutta la sua attenzione in quei gesti meccanici e banali, quando la
vocina
impastata di Sarah lo riportò bruscamente sul pianeta terra,
nella sua cucina
intoccata da settimane, in una mattinata di una settimana che voleva
non solo
non vivere, ma nemmeno considerare.
«Fratellone?»
Il pigiama era
largo e sgualcito ed i capelli un groviglio di nodi che avrebbe fatto
concorrenza ad una gorgone. Sua sorella si stropicciò gli
occhi pigramente, con
il dorso della manina. Sembrava avesse una domanda inespressa sul suo
visino da
cucciola.
«Bonjour, bestiole»
La confusione si
acuì, gli occhi della bimba si assottigliarono, lo
studiarono con un sospetto
buffo, poi si spalancarono lentamente, riempiti di consapevolezza, ed
allora le
sue labbra di rosa si schiusero gradualmente in un sorriso soffice e
felice.
«Bonjour, mon
frére!»
Gli corse incontro
e Demian fece appena in tempo a gettare la scorza vuota
dell’arancia per
afferrarla al volo. Si esaminarono ancora, e Dami lesse in lei il suo
medesimo
stupore, il medesimo sconcerto nel vivere quell’istante come
un frammento di
ricordo cristallizzato e ormai perduto. Poi, Sarah gli
schioccò un bacio veloce
sulla guancia e ridacchiò soddisfatta.
«Tu fais quoi?»
«Un jus d'orange»
«Adore le jus!»
batté le manine con entusiasmo.
Stirò un sorriso
compassato, per non farle pesare il suo malumore «Pendant va'
te préparer pour
l'école»
La rimise a terra,
Sarah sfoderò un ghigno malandrino e si drizzò
come un soldatino ubbidiente
esibendosi in un pomposo saluto militare. Infine si voltò e
corse verso il
bagno, i piedini nudi che scivolavano sulle piastrelle.
«Et mets-toi les pantoufles, avant que tu
tombes malade!»
E mettiti le
pantofole, prima che ti ammali!
«Oui, maman!»
Sarah scomparve nella
camera da letto della mamma lasciando come strascico solo
l’eco della sua
risata. Averla in casa, sveglia e normale, gli riassestò un
poco l’umore
guastato dal sonno, dall’angoscia e dal troppo fumo che gli
aveva scorticato la
gola. Finì di prepararle la colazione, sistemò la
tavola con una tovaglietta di
Topolino, ricordo di una gita a Disneyland con Beau e Tristan, e
tagliò una
fetta di torta al cioccolato comprata solo per lei.
Non era certo che
la bimba avesse conservato intatte le sue abitudini mattutine, ma nel
dubbio si
era attenuto alla colazione che abitualmente consumava con lui tempo
prima.
Personalmente non aveva fame, lo stomaco si era contorto e ristretto e
se
provava a immaginarlo, non doveva essere più grande di una
noce per le
contrazioni e la nausea che gli causava, perciò mise sul
fuoco la moka del caffè,
giusto per darsi una spinta a restare sveglio.
Lalami aveva fatto
in tempo a mangiare ed il caffè a risalire con un gorgoglio
di protesta, ma
Sarah non si era più mostrata. Bussò alla porta
del bagno con una leggera
apprensione, che si smorzò non appena riconobbe i lamenti
mugugnati della
sorella che inveiva, poco elegantemente, in francese. La
musicalità del suo
accento mascherava le barbarie che bofonchiava, ma Dem si
appuntò comunque
mentalmente di non imprecare più nemmeno per errore davanti
a lei.
«Qu'est-ce que tu
fais?»
Entrò senza
consenso, e Sarah si volse a guardarlo con un broncio frustrato e le
guanciotte
rosse di sforzo «Je ne peux pas!»
piagnucolò la propria indignazione pestando
un piede.
Davanti a tutto
quel fervore solo perché non le riusciva di sciogliere i
nodi, Demian si
concesse il primo ghigno sincero.
«Tu es vraiment un
désastre!»
Le sfilò la
spazzola di mano e Sarah emise uno sbuffo contrariato, l’aria
avvilita di un
cucciolo maltrattato «Di solito me li pettina la
zia»
Potevi chiederlo a me
La vita sarebbe
stata più semplice, se certe verità gliele avesse
mai dette a voce. Invece si
limitò come sempre a pensarle, a pensare che lo voleva
davvero, che sua sorella
dipendesse un poco da lui, ma alla fine andava bene come le veniva
spontaneo ed
era meglio se non avesse ricercato nulla. Concentrato sui filamenti
dorati che
scivolavano tra i denti della spazzola, non si accorse subito che la
maglietta
della bimba, con lo scollo a barca, lasciava intravvedere una spessa
cicatrice
a lisca di pesce, testimonianza dell’importante operazione di
quasi cinque anni
prima.
Per un po’
s’incantò sul quello sfregio, bianco perla su
bianco latte, e quando notò che
Sarah lo studiava dallo specchio con le sopracciglia corrucciate, il
malumore
gli ripiombò addosso.
«Habille-toi, mets-toi
un sweat»
Vestiti, mettiti una
felpa
la rimproverò
istintivamente.
Finì di legarle con
un elastico le ciocche laterali, poi le diede le spalle e si
allontanò, per non
doverla guardare in viso. Per non vedere lo sguardo che le aveva
lasciato,
perché non vedesse l’espressione di disappunto e
rigetto che temeva di avere,
quasi di ribrezzo.
Perché Sarah era
piccola, non poteva capire che il suo malessere era paura per lei e nient’altro, e lui
non era in grado di trasmetterlo in
maniera sana, normale.
«Il fait trop froid
puor toi ici» aggiunse, per smorzare la crudeltà
delle proprie parole, ma il
tono freddo confuse solo sua sorella. La vide annuire e vestirsi
subito, come
in imbarazzo. E quel silenzio inquieto e colmo di disagio si protrasse
per
tutta la durata della colazione. Sorseggiava il caffè a
fatica e guardava Sarah
di sottecchi mentre mangiava e dondolava le gambine sotto il tavolo,
gli occhi
fissi nel vuoto davanti a sé, per non sbagliare nemmeno per
errore ad
incrociare i suoi.
Demian, il peso di
quel silenzio, lo sentì come un macigno di vergogna sotto il
quale avrebbe
voluto finire schiacciato, come punizione per le sue mancanze.
Sua sorella non si
espresse più, lo seguì ad occhi bassi, si fece
aiutare ad indossare il casco e si
sedette davanti a lui nel tragitto fino a scuola, aggrappandosi alle
sue
braccia. Compì ogni gesto con la timidezza di una paura
latente, Demian non
sapeva se per le parole che le aveva rivolto o per il tono aggressivo
che
l’aveva spaventata. Quando si fermò nel parcheggio
e la vide posare i piedi a
terra, provò una fitta allo stomaco. Sarah gli porse il
casco, poi alzò gli
occhi su di lui, con timore.
Abbozzò un sorriso.
«Au revoir,
fratellone»
Si mise sulle
punte, per poter arrivare a lasciargli un bacio sulla guancia, e Demian
assecondò quel gesto candido che riusciva solo a rivelargli
la sua costante
inadeguatezza verso qualcosa di bello. Maman gli aveva insegnato ad
amare il
bello, non gli aveva insegnato come proteggerlo però, ed
allora per tenere stretto
ciò che amava Demian finiva con l’aggrapparvisi
con troppa forza, distruggendo
tutto.
«Au revoir, mon trésor,
tiens-toi bien»
Arrivederci mio
Tesoro, fai la brava
La sua bestiolina
sorrise con più tranquillità, annuì e
gli diede la schiena per raggiugere i compagni
di classe raccolti in capannelli davanti al cancello della scuola.
«Et ne pas courir!»
aggiunse, dopo un breve momento di riflessione. Questa volta Sarah lo
guardò da
sopra la spalla e scoppiò a ridere «Oui
maman!»
***
La casa di zia
Claire s’inseriva in un complesso di villette a schiera dai
muri intonacati di
rosa e finta pietra agli angoli. Demian era seduto da dieci minuti
buoni sul
suo sgangherato motorino, a studiare oltre le siepi basse,
perfettamente
potate, che avvolgevano la ringhiera, il piccolo rettangolo di prato
altrettanto perfettamente curato, un piccolo giardino in miniatura
decorato di
fiori come una bomboniera.
Una perfetta casa
borghese insomma, con un sentierino che conduceva al portico,
lastricato di
grosse pietre e ombreggiato da un acero rosso. Le imposte delle porte a
vetri
erano spalancate e dalla soglia schiusa della cucina usciva una musica
leggera,
ovattata dalle pareti eppure sufficientemente nota perché
dal minimo suono
Demian potesse riconoscerne il brano.
L’ombre et
la lumiere aveva
quel
ritmo pacato e sonnacchioso che ricalcava la personalità
della zia nei suoi
momenti oziosi da animale pigro. Momenti così rari, che se
ci pensava forse
poteva contarli sulle dita di una sola mano.
Sorrise, al
pensiero di Claire che probabilmente ci stava ballando su quella
musica, come
faceva maman ascoltando Elton John quando era bambino e lei doveva fare
le
pulizie. Con uno slancio delle mani si staccò dal sellino,
attraversò la strada
e sostò di fronte al cancello marrone come irrigidito, prima
di decidersi a
suonare. La testa della zia fece capolino quasi immediatamente dalla
porta
della cucina e, appena lo riconobbe, fece subito scattare il cancellino
che si
aprì spontaneamente, senza emettere il minimo cigolio.
Qualsiasi
serramento di casa sua cantava appena lo si sfiorava, ma lì,
in quella casa
perfetta, tutto era impeccabile e funzionale, oliato come fosse nuovo.
E in
quel semplice quanto banale confronto Demian ci leggeva i dettagli che
mettevano in risalto quanto il suo mondo fosse sempre stato in bilico
sul
disastro, sul punto di andare in pezzi perfino su inezie come quelle.
«Ciao, tesoro!» la
zia lo accolse con un grande sorriso.
Aveva labbra
sottili e chiare che nel tendersi quasi scomparivano lasciando solo un
accenno
di contorno. Quell’espressione amorevole si oscurò
in un attimo «Hai portato
Sarah a scuola, vero?»
Gli strappò un
sorriso quell’accusa permeata da un senso di minaccia latente.
Annuì, ma non
aggiunse nulla.
Era fermo sulla
soglia di una casa in cui cercava sempre di non entrare. Se possibile,
nemmeno
voleva avvicinarcisi, perché bastava la vista di tutta
quella vita, raccolta in
una casa che vissuta lo era davvero, lo era da una famiglia, per
causargli
smarrimento e tristezza.
Alla luce di una
tersa giornata autunnale Claire era bellissima, anche in quella sua
tenuta da
casalinga inquieta, con i capelli biondi raccolti in un mollettone
sconclusionato e una maglietta blu elettrico larga e bucherellata, con
qualche
macchia bianca dovuta quasi certamente alla candeggina.
«E perché invece tu non sei a scuola?» per
avvallare il
suo rimprovero brandì il piumino delle polveri neanche fosse
un’arma
contundente e gliela puntò al petto. Claire cercava di
approcciarsi in modo
scherzoso alla sua negligenza, per trovare un punto
d’incontro, un dialogo tra
la precisione che la caratterizzava e il suo essere sconclusionato
all’opposto.
Qualcosa nel suo viso dovette farla desistere però,
perché abbassò il braccio
quasi a rallentatore e lo studiò con un cipiglio da rapace.
Demian aveva
esitato fino a quel momento perché non aveva idea di come
introdurre
l’argomento.
L’espressione della
zia si ammorbidì in un sorriso accomodante
«È successo qualcosa?»
Quando arrivava il
momento di farsi avanti, riusciva sempre e solo a tacere, incapace di
reagire.
E così, tutti i sentimenti che nei giorni precedenti lo
avevano animato,
scomparvero. Persino la collera immensa verso la zia,
quell’odio bruciante, si
era già consumato lasciando solo cenere dietro di
sé, braci appena tiepide che
covavano un rancore sopito.
Claire non aveva
alcuna colpa, per questo non gli riusciva di sfogare sulla sua minuta
figura la
sua frustrazione e il senso d’impotenza. L’unica
persona che riusciva davvero
ad odiare era maman ed il suo egoismo. Lui e sua zia erano sulla stessa
barca,
trascinati dalla corrente della volontà di Jenevieve, che
potevano solo
assecondare, senza realmente opporsi al volere di una donna viziata ed
egoista
in grado di vedere solo se stessa.
Anche sua zia stava
perdendo qualcuno di amato.
Anche lei non
avrebbe mai desiderato che maman si arrendesse.
Ma Jenevieve aveva
sempre preso da sé le proprie decisioni, e
l’avrebbe fatto fino alla fine,
senza considerare il loro dolore.
Annuì ancora e
strinse le labbra fino a renderle persino più esangui
«Devo parlarti di maman»
chiarì, con una voce ferma e distante che non credeva
sarebbe riuscito a
sfoggiare e gli suonava estranea «E anche di Sarah»
Il sorriso materno
della zia si spense piano e una nuova determinazione
illuminò quel volto che,
non fosse stato per i segni del tempo, riusciva a conservare in
sé una traccia
genuina di fresco e giovinezza. Entrò in casa e
lasciò la porta aperta, come
invito affinché la seguisse.
La sala era in
perfetto ordine, Demian non trovava altro aggettivo per definire
l’ambiente
arioso e accogliente. Il parquet scuro era tirato perfettamente a
lucido, il
tappeto persiano ai piedi del divano crema era di ottimo gusto, come
ogni cosa
scelta da Claire, e i libri erano ordinati per grandezza sulle mensole
del
grande mobile che occupava tutta una parete. I soprammobili erano
perfettamente
spolverati e le superfici di legno, la televisione ed il computer erano
immacolati in maniera quasi maniacale, nemmeno in controluce gli
riusciva di
individuare un granello di polvere.
Tutto curato nei
minimi dettagli, come lo era Claire, a rimarcare che con sua madre
condivideva
l’aspetto e la genetica, ma nient’altro.
La zia si era
compostamente accomodata sul divano, appena sul bordo, e con le mani si
massaggiava le tempie «È per questo che non sei
più andato a trovarla, vero?
Hai scoperto cosa ha deciso di fare»
«Sì»
«Te ne volevo
parlare, ma sei sparito. Non sono più riuscita nemmeno ad
incrociarti» spiegò,
fermando i movimenti circolari delle dita per alzare lo sguardo e
fissarlo
negli occhi. Si mordeva il labbro sottile, forse era il senso di colpa
per una
mancanza che non aveva realmente avuto. Perché era vero,
aveva assecondato i
suoi soliti colpi di testa e aveva fatto in modo di non essere
reperibile, di
questo Claire non aveva motivo di biasimarsi. Forse almeno, avrebbe
potuto
saperlo prima, ma anche ad esserne informato, non cambiava il fatto che
non
avrebbe avuto comunque voce in capitolo su quella scelta.
Valutò se sedersi,
per provare ad avere un dialogo tranquillo e sereno, ma il suo corpo
rigettava
quella possibilità, sedersi era l’ultima cosa che
avrebbe potuto fare, aveva
addosso troppa adrenalina, troppa ansia per quello che avrebbero dovuto
dirsi,
perché rispettava Claire e inconsciamente, e neanche tanto
inconsciamente,
aveva paura di lei.
Prese un respiro
profondo, chiuse gli occhi un istante, per allontanare
l’immagine stranamente
prostrata di una donna indistruttibile.
«Non voglio che
Sarah la veda»
«Sarah non dovrebbe
vedere sua madre?» sussurrò Claire, basita.
«Sì» lo disse con
voce ferma e sicura, un tono che non ammetteva repliche, ma era
già evidente
dalla luce di quegli occhi ferini che la zia non avrebbe esitato a
ribattere.
Infatti, Claire si
alzò, tentando di far valere tutta la sua altezza, un metro
e cinquantotto di
donna con la brutalità di uno scaricatore di porto celata
dietro l’apparenza da
nobildonna. Ogni traccia di comprensione e benevolenza era stata
soppiantata da
una destabilizzante decisione.
«Non ci siamo mai
capiti bene, Dami, quindi questa volta sarò molto chiara e
moto diretta e al
diavolo i moralismi. Non sono mai stata d’accordo con nessuna
delle decisioni
prese negli ultimi anni. Mia sorella è
un’irresponsabile, e io sono convinta
che tutti i suoi tentativi di assecondarti ti abbiano fatto
più male che bene.
Ma l’ho ascoltata, perché non avevo nessun diritto
di intromettermi. Non volevo
che ti sobbarcassi del peso che ti sei preso, non volevo allontanare
Sarah da
voi, eppure vi ho aiutati a farlo, in fondo anche io temevo che potesse
stare
male.
Ma ora le cose sono
diverse. Sono cambiate Dami, devi aprire gli occhi»
Fece un passo verso
di lui, e Demian dovette sopprimere l’istinto di
allontanarsi. Avevano parlato
fino allo sfinimento di ciò che Claire aveva sempre pensato,
sentirlo però lo
poneva ogni volta in uno stato d’inadeguatezza che non sapeva
come gestire. La
zia gli prese il volto tra le mani, lo inchiodò con lo
sguardo impedendogli
qualunque tentativo di sottrarsi alla sua brutalità.
«Jenny sta morendo»
Lo scandì
lentamente, con crudeltà quasi, e davanti agli occhi della
donna che lo aveva
cresciuto, occhi gemelli a quelli di sua madre, di sua sorella,
provò il panico
di non riuscire a raccordare i propri pensieri.
Pensi davvero che non
lo abbia capito, zia?
Non riesco a pensare
ad altro ormai, ci provo, ma non ci
riesco.
L’unica cosa di cui
fosse consapevole, era di star perdendo maman. Accettarlo era
un’altra
questione, una questione che magari avrebbe affrontato da solo, un
giorno.
Forse.
Le afferrò i polsi
e strinse con troppa forza, lo comprese dal lamento appena stentato che
le
sfuggì tra i denti, ma non gliene importò. Voleva
essere altrettanto cattivo e
riuscire a farle almeno un poco del male che riceveva da lei con una
manciata
di parole.
Si chinò e soffiò
ad un palmo da suo volto, con gelida indifferenza «Lo
so»
«Jenny è mia
sorella. Non te lo dirà mai perché non vuole
ferirti, ma desidera rivedere sua
figlia prima di morire» la voce
s’incrinò su un’esitazione, la zia
s’irrigidì e
il viso si congestionò in una smorfia di sofferenza
«Anche Sarah vuole solo
rivedere sua madre. Non hai alcun diritto di decidere per lei»
La rabbia della
vergogna lo travolse «Nemmeno tu!»
ringhiò, solo perché non voleva pensarci,
non voleva ascoltare ciò che sapeva, non voleva ritrovarsi a
gestire i suoi
sensi di colpa e la durezza della zia contemporaneamente, era una
battaglia da
cui avrebbe potuto uscirne solo sconfitto. Sfogò la sua
inadeguatezza
aumentando la stretta, finché gli occhi strizzati nel dolore
di Claire non gli
fecero capire di star esagerando. Allentò la presa e la zia,
con un movimento
secco e un’espressione rancorosa, si liberò. Dei
cerchi rossi segnavano la
pelle morbida dei suoi polsi sottili.
«Io non lo faccio
infatti! Faccio decidere lei!» gli urlò contro,
indignata, massaggiandosi il
polso destro con troppa energia, come a scacciare il senso della sua
mano
avvinghiata a lei per ferirla.
«Sarah è troppo
piccola per capire, non sa a cosa va incontro. Non ha idea di cosa
dovrà
vedere!»
«Lo so che vuoi
proteggerla, Dio solo sa se non è quello che vorremmo fare
tutti, ma Sarah
conosce la morte più di quanto tu possa anche solo
immaginare! La affronta
tutti i giorni, muore dentro tutti i giorni e la colpa è
anche tua! Non puoi
proteggerla e poi abbandonarla, quando lei aspetta soltanto che tu le
dedichi
un’ora, una dannata ora della tua vita!»
Demian indietreggiò
di un passo, non riuscì a deglutire.
Lo sguardo di fuoco
della zia lo inceneriva e ammutoliva, la donna avanzò
puntandogli l’indice al
petto, decisa a sputare le parole come veleno succhiato da una ferita
infetta.
«Tu hai veramente
idea di come sia la quotidianità di tua sorella? O ti
è più facile far finta di
aver dimenticato? Non può giocare, non può
correre, si affatica per un nonnulla
e l’unica cosa che le riesce è guardare gli altri,
ed io posso solo guardare
mia nipote che si lascia vivere come una spettatrice impotente!
Vegliarla, e
sperare che non stia male e non abbia crisi, perché quando
sta male lei vuole
soltanto te, e la metà delle volte tu non ci sei!»
Lo colpì al petto,
ripetutamente, un tocco debole in realtà, ma reso forte
dalla collera e per
Demian così insostenibile che indietreggiò
finché non incontrò il bordo della
scrivania del computer. Cercò di restringersi, quasi di
appollaiarvisi sopra,
di scomparire.
Era quella la forza
della zia, lo faceva sentire minuscolo.
Un altro colpetto e
l’indice sollevato in un gesto di velata minaccia
«Non ci sei perché sei un
vigliacco, perché hai paura! È pietoso dover
vedere una bambina di nove anni
che lotta per non farti preoccupare, perché non credere, lei
lo sa che
scapperesti! Sa perfettamente che se ti rendessi davvero conto dei suoi
limiti
la lasceresti sola!»
S’interruppe,
solamente perché da qualche parte in quel suo sfogo aveva
iniziato a piangere,
ed ora non le riusciva più d’ingoiare i singhiozzi
di nervoso. Avere quegli
occhi da falco, gli stessi occhi della sua coscienza, mietitori della
sua
anima, puntati addosso con tanta energia, gli toglieva le parole.
Aveva sempre
pensato che la malattia di maman gli avesse rovinato la vita,
l’avesse segnata
al punto che l’unica cosa che gli restasse di sopportabile
era la certezza che
almeno Sarah si sarebbe salvata, che l’unica cosa buona della
sua vita era
stato farsi carico di quel dolore per non doverlo spartire con la
propria
sorellina.
Solo quello.
Ed ora gli era
appena stata tolta quell’unica possibilità.
Non hai mai capito
niente
Sei solo un vigliacco
ed un bastardo, credi di avere
tutte le risposte, ed in realtà sai solo girare in cerchio.
Sarah fa bene a
dubitare di te, sei solo un vile su cui
non si può contare, sai soltanto scappare.
S’illudeva di
essere forte, si aggrappava alla convinzione di poter affrontare tutto,
ché se
non cedeva, se riusciva a rimanere tutto d’un pezzo, anche
solo nell’apparenza,
sarebbe passato indenne attraverso i paradossi della sua vita. Il mondo
era
orribile, chi non era forte abbastanza veniva masticato e sputato, e
lui aveva
trascorso anche troppo tempo della sua esistenza provando un opprimente
senso
di mortificazione.
Per questo se lo
era imposto, si era costretto a essere forte, una muraglia
impenetrabile. Ma
forse, aveva ottenuto solo di essere ermetico, e dentro quelle mura
aveva
nascosto un’anima indifesa che soffriva da sola, senza
speranza di ricevere
aiuto.
Si sentì inerme, le
braccia gli ricaddero lungo i fianchi, come non gli appartenessero
più. La
verità, per qualcuno come lui, era qualcosa di atroce che lo
faceva avvizzire
da dentro. La mano di Claire raggiunse il suo viso, gli
accarezzò la guancia e
un brivido, come un sussulto, lo attraversò. Fu come un
risveglio dal suo
torpore apatico.
La guardò negli
occhi, gli parve di vederla per la prima volta. La mano della zia lo
stava
afferrando e lo tratteneva, impedendo al vuoto senza ritorno dei suoi
pensieri
di risucchiarlo lontano. Il suo calore, la sua tenerezza affettuosa,
erano un’ancora
che lo affrancava alla realtà.
Aveva la pelle
bagnata.
Forse stava piangendo,
non se ne era accorto, era un inetto succube della vita, non era in
grado
nemmeno di trattenere quel male per sé. Quando si parlava di
Sarah, l’impotenza
lo annientava.
«Dami, non le hanno
dato più di tre mesi di vita. È
l’ultima possibilità che abbiamo di rimettere a
posto le cose, non voglio avere questo rimorso. Non volevo
ferirti… lo so che
la ami, so che Sarah è la persona più importante
della tua vita. Non volevo
mettere in dubbio il tuo affetto, ma il tuo amore non deve
soffocarla»
«È tutto ciò che
mi
resta»
Si vergognò di
doverlo sussurrare. Si vergognò di dover ammettere una
verità tanto deprimente,
la voce roca s’incrinò. Per quanto le volesse bene
non era in grado di
proteggerla, la vita era troppo più forte di lui
perché potesse tenergli testa
con la sua debolezza.
Chinò il capo,
appoggiò mollemente la fronte sulla spalla di Claire ed un
singhiozzo strozzato
venne soffocato dal corpo piccolo e snello della zia.
«Non è tutto,
c’è
molto di più. Questa è casa tua Dami, se solo
volessi vederlo. Quando vorrai,
questa porta sarà sempre aperta per te, avrai sempre un
posto dove tornare. Tu
non sarai mai solo» un sospiro tremulo, la sua mano fra i
capelli, ad
accarezzargli la nuca «Non sei solo»
ribadì con più forza. Glielo ripeté a
lungo, come una litania, un lento e pacato incantesimo che intesseva
attorno
alla sua anima stanca una rete di sicurezza a cui si
aggrappò con tutte le sue forze.
Il tono calmo, dolce eppure incredibilmente fermo di Claire, gli
trasmise la
giusta calma; ricacciò l’angoscia, si
staccò da lei. Si guardarono negli occhi
ancora una volta, Demian trattenne un brivido.
«Ascoltami ora. Io
non lo farò senza di te. Voglio che tu le sia accanto quando
le diremo di
Jenny. Anche tu per lei sei tutto, e voglio che sia tu a sostenerla. Ma
per
farlo, devi prima affrontare Jen. Devi giurarmi che lo farai»
Le dita sostarono
con leggerezza sicura sulla sua guancia e Demian faticò a
deglutire. Accennò ad
abbassare il capo, ma Claire non glielo permise, con ferma dolcezza lo
costrinse ad affrontarla.
«Giurami che sarai
con lei, quando le diremo che Jen sta per morire»
Ebbe paura, così
paura che le mani tremarono. Le chiuse in due pugni serrati,
cercò un
equilibrio, di domare quel terrore di non essere all’altezza,
di non poter
sostenere Sarah. Paura di deluderla, di soffrire troppo e di essere
tanto
compreso dal proprio dolore da non essere in grado di curare la
sofferenza di
sua sorella.
Pensò a Sarah e si
disse che almeno per una volta, qualcosa le doveva.
«Je promets»
***
Il
cellulare aveva ripreso a vibrare.
A
contatto con la superficie di legno del
tavolo faceva un baccano assurdo, un rumore che gli stava trapanando il
cervello
acuendo un mal di testa già di per sé epocale.
Si
interruppe, ma solo per pochi istanti. Il
tempo di qualche sospiro e vibrò di nuovo. Era la decima
volta e Demian
iniziava ad essere intollerante. Abbandonato il proprio corpo in
maniera
scomposta sul divano, il movimento più esteso che gli
riusciva di compiere era
inclinare la testa all’indietro. Persino la bottiglia di
birra, piena a metà,
che stringeva fiaccamente tra le dita, risultava troppo pesante.
Osservò la
linea di quel liquido ambrato dondolare pigramente, ipnotizzato. Di
come fosse
arrivato a casa ricordava poco, la mente era annebbiata. Sapeva solo
che dopo
aver parlato con la zia si era sentito troppo male, così
male che non sapeva
nemmeno come gli riuscisse di restare in piedi. Sapeva solo che era
stanco,
stanco, e aveva freddo di una disperazione che lo svuotava. Era tutto
più
facile, se ogni cosa si sfocava. A terra, ai suoi piedi, altre quattro
bottiglie vuote erano accatastate e una, sdraiata, gocciolava sul
tappeto già
largamente macchiato. Non ne aveva mai rette più di tre, ma
quel giorno aveva
accettato una personale sfida con se stesso. Eppure non bastava, a quel
senso
di leggerezza, di ovatta nella testa, si era aggiunta una nausea
prepotente che
sembrava solo il riflesso fisico di un malessere che non sapeva
esprimersi.
Lalami
era una palla di pelo raccolta sul
divano, al lato opposto, lo guardava inquieta e non aveva il coraggio
di
avvicinarlo. Il suo musino appuntito che ricordava una volpe era
infossato
nella sua coda e quegli occhietti vigili lo studiavano con
un’attenzione che
rasentava la paura. Quando beveva, il cane gli stava sempre a debita
distanza,
come non lo riconoscesse, e allora Demian ricambiava quelle occhiate
intimorite
con una pena infinita, per se stesso, per tutto ciò che
amava in modo troppo
maldestro per essere amore.
Lo prese
un altro conato di vomito, non sapeva
quanto fosse colpa dell’alcol e quanto di quella giornata del
cazzo. Quanto di
Claire, quanto di quella sua vita.
Quanto
di maman.
Sta
morendo
Faceva
quasi ridere. Stava morendo da anni,
eppure era una possibilità che veramente non poteva prendere
forma, non
attraverso i suoi occhi. Restava una verità sospesa e
irreale, improbabile,
messa in conto più per evenienza e convenzione che per una
certezza.
Il
cellulare ricominciò a vibrare.
Aggrappandosi
allo schienale del divano si
aiutò ad alzarsi, barcollò pericolosamente ed i
contorni degli oggetti si
sfaldarono e riunirono e separarono di nuovo, stritolandogli lo stomaco
in un
nuovo impulso a rigettare. Ciondolò verso la cucina,
afferrò il telefono e
interruppe quel rumore martellante rispondendo senza guardare il
numero.
«Ehi!
Buon giorno amante dei clichè!»
La voce
così squillante e allegra lo colpì a
tradimento, allontanò l’apparecchio dal viso e lo
studiò assottigliando gli
occhi, quasi cercasse di ricordare cosa fosse e come funzionasse. La
verità era
che non era sicuro di aver riconosciuto l’altra persona o, se
ci aveva visto
giusto, non poteva essere vero, sarebbe stato troppo ironico,
un’altra presa in
giro della vita.
«Annie?»
biascicò, pronunciando la prima
parola sensata dopo ore di sconclusionati borbottii. Scoprì
di avere la bocca
impastata, una sensazione sgradevole come se gli avessero fatto
l’anestesia
alla lingua.
La
ragazza non gli rispose, non subito. Lasciò
trascorrere un lungo momento di silenzio, e Demian sentì che
le gambe
iniziavano a flettersi, gelatinose e assolutamente non in grado di
reggerlo
ancora per molto.
«Cosa è successo»
ogni traccia di ilarità si era dileguata, ed ora quella voce
allegra si era
fatta seria e indagatrice. Se fosse stato più lucido,
avrebbe provato a
leggerci altro, ma non riusciva a concentrarsi. Riusciva a pensare solo
che era
Arianna, ed era veramente ingiusto. Aveva atteso e desiderato fino allo
sfinimento
una sua chiamata, ed il grande momento era giunto solo ora che era
troppo in
aria per poterne gioire.
Registrò la domanda
e si accorse, con sgomento, che non era una domanda, che quella ragazza
aveva
nei suoi riguardi un intuito spaventoso.
«Niente» borbottò.
Si sfregò gli
occhi, la stanza non la smetteva di ondeggiare, si appoggiò
al tavolo con la
mano libera.
Una canna, ecco cosa
devo farmi. Con una canna mi rilasso
di sicuro
«Demian… hai
bevuto?»
Si sentì punto sul
vivo come se Arianna lo avesse fisicamente pungolato.
«Perché?»
scattò
sulla difensiva. Non capiva come lo avesse compreso, così da
poche parole, ma
si vergognava, era ancora sufficientemente lucido forse, per la
vergogna.
«Perché ho visto
persone sfondate dall’alcol abbastanza spesso da riconoscere
subito quando
qualcuno non è lucido» ribatté pratica
«E il tuo “perché” da bambino
che
nasconde le caramelle è decisamente una conferma»
Tutte quelle parole
dette con la rapidità della sua parlata, lo lasciarono
stordito. Demian sbatté
le palpebre un paio di volte, cercando di mettere a fuoco quel discorso
decisamente troppo articolato per la sua momentanea condizione.
«Ok, hai ragione»
mormorò arreso.
Barcollò verso il
divano, si lasciò cadere fra i cuscini e portò un
braccio a coprirsi gli occhi.
Così nascosto, il mondo smise un istante di girare, ma la
testa pulsava e tutto
andava male, lo stomaco si restringeva ancora e ancora e forse avrebbe
vomitato.
Che importanza
aveva negare l’ovvio?
C’era troppa luce e
lui voleva solo finire di bere, in quella bottiglia nera ci vedeva
tutto un
senso.
«Cosa è successo
Demi?»
«Niente» sussurrò.
Mai una parola gli era parsa tanto vuota, così vuota che gli
venne ancora
l’assurdo desiderio di piangere.
«Tutto»
Arianna non rispose,
poi Dem riconobbe uno dei suoi pesanti sospiri dal sapore della resa
«Dimmi
cosa devo fare»
Suonava categorico
come un ordine e Demian pensò che fosse tipico di lei, che
le si addicesse,
perché Arianna parlava sempre con una sicurezza assoluta che
la faceva apparire
indistruttibile e irreale. Tutta quella sicurezza metteva solo in luce
la
propria debolezza, quella pateticità che cercava di
nascondere ma restava
comunque davanti ai suoi occhi senza che potesse contrastarla.
Lo faceva sentire a
pezzi, non riuscì a frenare il pianto quieto che lo prese a
tradimento, né ci
provò, quasi non se ne accorse, era troppo ubriaco per avere
la lucidità di
biasimarsi. Desiderava solo qualcuno a cui appoggiarsi e un
nascondiglio dove
infossare il suo viso, come da bambino, quando cercava riparo nel collo
di
maman e la sua spalla sembrava l’unico porto sicuro di tutta
la vita. Voleva
essere cullato e che qualcuno gli dicesse che sarebbe andato tutto bene.
E non era
importante che fosse vero, lui la verità non la voleva.
Voleva essere illuso,
voleva essere protetto, almeno un poco per una volta.
«Vieni qui Annie?
Vieni da me…»
Gli mancò il fiato
«Ti prego… ti prego
vieni da me, non lasciarmi solo»
«Arrivo subito.
Metti via quella bottiglia Demi, siediti e aspettami»
La sua risposta
arrivò immediata e senza ombra di esitazione, e il suo corpo
rispose
immediatamente a quella dolce fermezza, le spalle si sciolsero e Demian
si
raccolse. Il tono materno, melodioso di una sfumatura infantile, aveva
un che
di severo, ma la sua durezza riuscì solo a farlo sentire
più tranquillo, era
come se qualcun altro stesse prendendo il timone e lui potesse
finalmente
smetterla di preoccuparsi della direzione della sua nave.
«Aspettami, ti
prometto che arrivo presto. Sono con te… non ti lascio
Demi»
Guida tu Annie,
fa’ quello che vuoi. Io la strada non la
conosco più
|
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Capitolo 13 *** Il giorno più brutto ***
À Demian
Capitolo undicesimo
Il giorno più brutto
La
casa della nonna, talvolta, era avvolta da una leggera caligine che ne
sfumava
i contorni.
Era
un evento particolare, che si verificava d’inverno e che
Demian associava al
Natale, alle feste e alla famiglia. La nebbia s’infittiva, il
sentiero di terra
veniva inghiottito da un velo latteo e i campi in lontananza mutavano
in
un’indistinta macchia opaca, l’accenno di qualcosa
di nascosto. Gli alberi
allora erano solo ombre ritorte, abbozzi di mostri in un mondo
incantato e
spaventoso. Quando succedeva, Jenevieve lo accompagnava lungo la
scogliera
attraverso l’erba alta. Si fermavano vicino ad una panchina
di legno mangiata
dall’umidità che si affacciava sul mare e maman,
con quel suo inafferrabile
sorriso malandrino, lo aiutava a superare dei cespugli spinosi, per
arrivare
fino al limite fra terra e vuoto, dove non si poteva andare.
Lì,
in quel piccolo spiazzo erboso, maman inclinava il capo
all’indietro e Demian
restava rannicchiato tra le sue gambe ad assorbire il calore.
La
battigia della baia di Douarnenez, sempre umida e lucida
d’acqua salmastra,
distorceva le luci del porto, e la città di ombre
rischiarata da lumini sospesi
torreggiava velata sul mare color fumo.
Maman
non lo guardava, ma lo stringeva fra le braccia, forte forte per non
fargli
sentire il freddo.
Era
una sensazione simile, quella che gli intorpidiva il corpo e le
braccia,
l’impressione di quella stretta avvolgente, di un affetto un
poco distante,
appena percepibile.
Un
calore di un tempo in cui era tanto piccolo che Sarah nemmeno era nata,
e lui
s’infilava nel lettone di maman mentre lei era fuori fino a
tarda notte per
lavoro. Sentiva sulla guancia la stessa morbidezza del cuscino a cui si
aggrappava per cercare il suo profumo quando era lontana, le dita
leggere
intrecciate ai suoi capelli avevano la leggerezza delle carezze che
riceveva
quando, al rientro, maman lo riportava in dormiveglia nella sua
cameretta e gli
scostava i capelli per baciargli la fronte prima della buonanotte.
Quel
momento, piccolo frammento di gioia rubata, era vivido e puro come un
sogno
vissuto mille notti.
Si
sentiva esattamente così ora, incredibilmente,
inaspettatamente bene. Al caldo
e al sicuro, avvolto da una morbidezza che sapeva di una madre mai
esistita e
solo sospirata, di un amore mai conosciuto. Avviluppato in una
tenerezza
protettiva dall’amaro retrogusto di una casa perduta. Non era
ancora sveglio,
ma in quello stato sospeso tra sonno e veglia in cui la
realtà non si era definita
ed era facile ritracciare i confini delle cose con le proprie memorie.
Gli piaceva,
crogiolarsi in quello stato di beatitudine, si sentiva così
stanco che anche il
solo pensiero di muovere un muscolo gli era insopportabile. La
pesantezza del
suo corpo in quel momento era sfiancante eppure gli donava una nuova
tranquillità.
Quando
cercò di alzarsi però, realizzò che
non solo era affrancato a qualcosa, ma
qualcosa era affrancato a lui. Strizzò gli occhi e alla
prima luce che gli ferì
le pupille gli venne subito un capogiro. Abbassò le palpebre
e soppresse la
nausea e il moto di debolezza che lo rendeva uno straccio. In casa non
portava
mai le lenti a contatto colorate e la luce traditrice era quella bassa
e troppo
calda del tramonto, che filtrando dalle finestre gettava nuove zone
d’ombra
nella sala.
Sussultò
per la sorpresa, stava posando il capo sulle cosce di qualcuno, e non
gli ci
volle molto per capire che, per assurdo, quelle erano le gambe di
Arianna. Per
i suoi movimenti, la ragazza mugolò di protesta.
Cercò di scivolare
delicatamente fuori dalla sua presa, ma Annie si era addormentata in
una
posizione improbabile e lo circondava. La testa di lei penzolava
debolmente in
avanti, le palpebre distese disegnavano un sonno sereno e pacato e le
labbra
schiuse un’espressione infantile, coronata da un filo di bava
all’angolo della bocca.
Un sospetto lo spinse a toccare il cappuccio della felpa, che Dem
ritrovò
umido.
Storse
la bocca.
Bene
ma non benissimo. Mi ha
sbausciato la felpa.
Sarebbe
pure riuscita ad apparirgli come una visione, non fosse stato per quel
piccolo,
ed anche un pochino disgustoso, dettaglio.
Eppure
riusciva a restare bella, così chinata su di lui, come a
proteggerlo, con le
lunghe ciglia nere che le accarezzavano la pelle tenera delle guance ed
i suoi
ricci che gli sfioravano il collo. Veniva voglia di tratteggiare il
profilo
morbido della mandibola con la punta delle dita, di svegliarla con un
bacio,
come nelle peggiori tradizioni di fiabe. Ma Annie non era la Bella
Addormentata, e lui certamente non era un principe, era più
che altro un Sidney
Carton privato anche della possibilità di una redenzione e
condannato solo al proprio
vizio autodistruttivo e ad un amore non corrisposto. E come a
confermare che di
Carton era l’erede, la bocca era troppo impastata, come se il
malto della birra
stesse fermentandogli in bocca, a ricordargli che per il romanticismo
di bassa
lega non era il giusto momento.
Riuscì
a sfuggire alle braccia sottili di Arianna, la guardò
ancora, cercò di
ricordare qualcosa delle ore precedenti ma l’eccessivo tasso
alcolico doveva
averlo steso. Sapeva di aver incontrato Claire, e che subito dopo, si
era
fermato in un supermercato e si era comprato due pacchi di du demon.
Aveva
sempre odiato quella birra, ogni sorso sapeva di benzina, ma in passato
aveva
già sperimentato che niente lo metteva al tappeto come
quella roba, ed infatti
non ne era rimasto deluso.
Era
Arianna a sfuggirgli, lei e il fatto che, nonostante non se lo
aspettasse, non
era rimasto per nulla turbato dalla presenza di lei in casa sua. Troppo
pesante, la testa di Annie, inclinata in avanti, trascinò
con sé in maniera
comica tutto il corpo. Demian arrestò la caduta rovinosa
puntellando la sua
fronte con un dito, il collo della ragazza si piegò
grottescamente e finalmente
Arianna spalancò gli occhi.
Ti
prego, vieni da me, non lasciarmi
solo
L’aveva
chiamata lui, era stato lui a portarla a casa sua.
Arianna
sbatté gli occhi un paio di volte, lo mise a fuoco e si
sciolse subito in un
sorriso raggiante, di quelli che le diottrie agli altri le bruciavano
«Ben
svegliato finalmente!»
Che
una persona potesse sorridere in maniera tanto spontanea e sincera
sapeva di
miracolo, se non la avesse avuta davanti, se non fosse stato tanto
palese che
in lei scorreva costante una sottile vena d’entusiasmo
inspiegato, Demian non
ci avrebbe creduto. Avrebbe pensato fosse solo una falsa e
un’ipocrita.
«Come
va il tuo mal di testa, piccolo ubriacone?»
Abbozzò
un accenno di sorriso, offuscato dall’imbarazzo
«Potrebbe andare meglio»
«Aspetta, ti
prometto che arriverò presto. Non ti lascio,
Demi»
Iniziava a sovvenirgli
ciò che si erano detti, il proprio tono, affranto e
infantile, lo metteva ora
in un certo imbarazzo
«Demi, devi
dirmi il tuo indirizzo. Riesci a ricordarlo?
«No»
«Non posso
venire da te se non mi dici dove sei.
Concentrati, su! Se non mi dai il tuo indirizzo non riuscirò
a trovarti»
La nausea lo aveva
sfibrato e il senso di vomito aveva fatto il resto. Era riuscito a
snebbiarsi
il necessario per dirle ciò che doveva, poi non ricordava
granché. Solo
Arianna, che gli ripeteva di restare sveglio, eppure proprio la sua
voce doveva
aver spinto le palpebre pesanti a cedere del tutto.
«Mi piace la
tua voce, Annie»
«Continuerò
a parlarti allora, ma tu ascoltami e resta
sveglio, non ho idea di quanto hai bevuto»
«…sì…»
Che Arianna fosse
lì aveva un senso, si era precipitata non appena aveva
sentito il suo bisogno,
c’era qualcosa di commovente oltre l’imbarazzo,
quegli occhi grandi così
carichi di aspettativa, il capo appena proteso verso di lui, smuovevano
una
tenerezza infinita. A pochi centimetri, le iridi erano verdi come i
fili d’erba
toccati dal sole dopo una giornata di pioggia.
Estraniavano, non
poteva credere che in natura fosse possibile una tale sfumatura. Per un
istante, respirare gli sembrò impossibile. Poi, Arianna si
stiracchiò come un
gatto, protendendo le braccia e il corpo in avanti, e quel gesto banale
spezzò
l’incredibile ascendente di quel suo sguardo da felino
indolente che lo
soggiogava. Istintivamente, Demian si riappropriò delle sue
gambe, nascose il
volto contro i jeans di Annie e così protetto dal suo
sguardo pungente si sentì
riparato. Sfregò la guancia contro di lei, mugolando piano,
in sottili fusa di
apprezzamento, ad occhi chiusi per godersi l’attimo. Arianna
non reagì subito,
il suo corpo in un primo momento si era irrigidito, ma dopo una
manciata di
dilatati secondi, la ragazza intrecciò le dita magre ai suoi
capelli, in
movimenti lenti ed esasperanti che ricordavano le dolci attenzioni di
una madre
paziente.
Demian non ci
vedeva nulla di Jenevieve in Arianna, né lo desiderava,
tutto ciò che voleva
era quel tipo disinteressato di conforto ed affetto, in una forma
totalmente
gratuita e forse, proprio per questo, incredibilmente appagante.
Alzò piano una
palpebra, per poterla sbirciare di nascosto, eppure la visione che lo
colse gli
lasciò un brivido freddo di spaesamento.
Stava sorridendo.
Arianna sorrideva
sempre, sembrava non sapesse fare altro, sorrideva in continuazione, e
nonostante quell’espressione di ostentata serenità
era facile cogliere l’ombra
scura nel suo sguardo, una macchia di umida malinconia che si spandeva
nell’iride chiara e sporcava la piega morbida delle labbra di
un’angoscia
inspiegata. Anche quando non voleva pensarci, era inevitabile per lui
percepire
quell’impressione costante nei riguardi di Annie: la
osservava e in lei vedeva
due anime opposte che dilaniavano un corpo fragile.
«Sono già le sei»
constatò Arianna dopo un’occhiata rapida al
proprio orologio da polso,
abbassando le spalle con la stessa resa con cui si abbassa una difesa
per
mostrare sconforto «Io e te le giornate le bruciamo, non
sappiamo proprio
sfruttare il tempo» ridacchiò appena, ma non
sembrava una risata felice, e
Demian accennò un sorriso di circostanza vuoto e confuso.
«Mi piacerebbe
stare sempre così»
«Dovresti lavarti
Demi, puzzi di alcol, sei quasi insopportabile»
ghignò come la strega
Salamandra davanti al suo imbarazzo, e gli pizzicò un
fianco, forte abbastanza
da farlo sussultare. Arricciò il naso, si sforzò
di sentire il proprio odore,
ma più pungente dell’olezzo che lo accompagnava e
a cui era probabilmente
assuefatto, c’era il profumo di detersivo. Sollevò
il collo della maglia, lo
portò al viso e storse la bocca per la vergogna.
Ricordo i barboni
della stazione, fantastico
In tutto questo,
Arianna non aveva smesso di osservarlo, le sopracciglia espressive
sollevate e
le labbra bagnate da un ghigno malizioso che riusciva a metterlo in un
imbarazzo tragico, quasi epocale. Dovette provare per lui una minima
forma di
pietà però, perché non
infierì oltre, si limitò a ridacchiare piano,
accarezzandogli ancora i capelli e la fronte, con
un’indulgenza tenera
riservata ad una creatura fragile. Questo forse, era ancora
più svilente.
Piegò la testa,
osservò la stanza pur di non guardarla, e si rese conto che
le bottiglie che
avevano accompagnato il suo abituale tentativo di discesa
nell’autodistruzione
erano sparite. La sala era tirata a lucido, l’orrida macchia
di birra sul
tappeto si era ridotta ad un alone scuro.
«Quando sono
arrivata, ti eri addormentato. Ah, giusto per avvisarti in caso i
vicini
sospettino qualcosa, per entrare ho scavalcato il cancello! Dovresti
chiudere
la porta a chiave, sai? Chiunque potrebbe entrare se lasci tutto
aperto!»
«Se parli in questo
modo, mia madre finisci con il sembrarla davvero»
Sarebbe stata una
donna petulante ed una madre asfissiante in futuro, gli sembrava
già di poterla
vedere, eppure più che fastidio, quell’adolescente
bambina riusciva a strappare
un sorriso. Arianna gli fece una pernacchia, dondolando la testa
«Sei un
ingrato, ho pulito tutto da cima a fondo. Non che avessi troppo da
fare, mentre
dormivi»
«Non avresti
dovuto, non eri tenuta»
La vide adombrarsi
ancora e mordersi le labbra, gli incisivi separati davano al suo volto
magro un
aspetto dimesso e delicato, terribilmente infantile. Si
allontanò da lei, per
prendere le distanze, perché d’improvviso la
consapevolezza del suo corpo
esile, la portata della sua presenza in un momento così
soverchiante della sua
vita, gli franò addosso.
Se quel suo brusco
gesto l’aveva turbata, Arianna non lo diede a vedere,
c’era un pensiero nei suoi
occhi, il filo di un aquilone che stava per scivolare via, e lei era
troppo
indecisa, non sapeva se afferrarlo e trascinarlo a terra, dove avrebbe
dovuto
condividerlo con lui, o perderlo per il momento, e sperare di
ritrovarlo in
futuro, chissà quando.
«Ti lamenti molto,
quando dormi» iniziò, come
un’osservazione casuale, ma poi arrossì, e Demian
sentì il corpo farsi di sale. Non c’era nulla di
casuale.
«A volte» sussurrò,
e la bocca non era più solo impastata, sembrava impossibile
articolare i suoni
ormai.
Si fissarono in
silenzio per una manciata di lunghissimi secondi. Non aveva il coraggio
di
chiedere nulla, nemmeno riusciva ad immaginare cosa avrebbe potuto aver
detto,
non ricordava di aver sognato, era solo stanco e la mente una tavola
bianca, un
reticolo di nebbia che non gli permetteva di focalizzare nulla.
«Hai chiamato
Sarah» lo disse alla fine, ritrovando un tono risoluto che
Demian non sapeva
spiegarsi. Non riusciva a spiegarsi come Arianna riuscisse a non
tirarsi mai
indietro, anche quando l’argomento era spinoso, la situazione
scomoda. Se
succedeva, si limitava ad affrontarla, guardandolo sempre negli occhi,
così
categorica e determinata da risultare spaventosa.
«Sarah è tua
sorella, non è vero?» gli domandò con
un sospiro rassegnato, la rassegnazione
di chi aveva già compreso che parlare sarebbe stato duro,
quasi impossibile.
Demian la fissava
come faceva con le ombre della sua cameretta che
s’ingigantivano nella penombra
e lo terrorizzavano da bambino. Cercò di deglutire, ma non
ci riuscì, la bocca
era secca e il suo corpo aveva cessato funzioni basilari come la
salivazione.
«Lo sai già, no?
Sai già tutto. Cos’è, sei andata in
giro a fare domande? Hai chiesto a qualcuno
di quel caso umano con la madre con un piede nella fossa? Scommetto che
ne
avrai sentite di cose interessanti, ne hanno di aneddoti da
raccontare»
La sfidò con tutto
lo sprezzo che riuscì a mettere dentro ogni sillaba, la voce
venefica vibrava
di una noncuranza calcolata che mirava a ferirla. Voleva che se ne
andasse, che
gettasse la spugna, lo mandasse a quel paese e uscisse da quella casa
per non
ritornarci mai più.
Non sopportava il
nome della sorella detto da lei, non poteva sopportare che la
conoscesse.
Arianna
non fece una piega «Sì, ne ho sentite. Ma io
l’ho chiesto a te»
Non si era
minimamente scomposta e questo lo prese in contropiede, facendolo
vacillare.
Nessuna smorfia, nessuna contrazione delle mani, era completamente
immune alla
sua ritrosia, Demian non trovava altra spiegazione. Forse, nemmeno lo
ascoltava,
lo ignorava e lo trattava con la condiscendenza che si dedica ad un
bambino
capriccioso.
«Non ti ho dato il
permesso di parlare di lei»
«Demi, che cosa ha
Sarah?»
Cercò di sorridere
con sarcasmo, ma gli uscì una smorfia amara «Hai
parlato con maman, non te lo
ha detto?»
Arianna sbuffò «È
così difficile rispondere?»
La guardò in
tralice e pensò che l’espressione seria non le si
addiceva, che era troppo
spietata, a voler sapere a tutti i costi qualcosa di tanto penoso,
soprattutto
in quel frangente, mentre già si sentiva fin troppo provato.
«È malata. Punto. E
tu dovresti andare a casa»
Scattò in piedi e
le diede la schiena per frapporre tra loro una maggiore distanza
fisica, che lo
aiutasse a placare la nauseante repulsione che sentiva per lei. Odiava
quell’integrità, voleva che lei lo odiasse, doveva
ricambiarlo e sparire, il
solo pensiero che si fosse già spinta tanto a fondo da
chiedergli di Sarah lo
turbava troppo profondamente.
Perché mi
fai questo, perché se già sai?
Io lo so che maman ti
ha detto tutto, ne sono sicuro.
La sentì ridere con
una spontaneità destabilizzante che gli irrigidì
ogni muscolo e lo fece
deglutire a stento. Non ebbe il coraggio di voltarsi a guardarla,
assorbì
quella risata sottile come uno scampanellio di scacciapensieri mossi
dal vento.
«Demi, facciamo uno
scambio equivalente? Io ti parlo di me, se tu mi parli di te.
È equo, no?»
Demian esitò, trovò
l’audacia di girarsi.
Era seduta,
leggermente in penombra perché la luce bassa del tramonto si
era quasi del
tutto ritirata dalla sala e si infiltrava appena come filamenti
luminosi tra le
tapparelle a mezza altezza, spaccando in ragnatele chiare la stanza
scura.
Aveva i capelli raccolti in una coda che le scopriva la fronte, se ne
accorgeva
solo ora che ci prestava attenzione, come se fino a quel momento non
l’avesse
vista davvero. Un foulard spuntava tra i ricci incolti, forse a ricami
floreali
o a macchie di colore, e nella sua salopette di jeans larga le sue
braccia
sottili e le spalle raccolte sembravano minuscole, mangiate
dall’eccesso di
stoffa. Stava osservando un piccolo spaventapasseri dal sorriso grande,
una
creatura contro cui pareva vergognoso arrabbiarsi, perché
aveva in sé
l’atteggiamento di una bambina dispettosa e irriverente, a
cui era impossibile
prestare un rimprovero.
Ci si poteva fidare
di una persona così? E se la risposta fosse stata anche
sì, perché allora
sentiva dentro una tale diffidenza? Soppesò rapidamente i
pro e i contro di
quella strana situazione: Arianna si era presa cura di lui, senza
motivo e
senza tornaconto, per un intero pomeriggio; d’altro canto,
dava la sensazione
sgradevole, con quella sua indifferenza spietata che su di lui aveva lo
stesso
effetto di una mattonata in faccia, di volerlo incastrare, anche se gli
sfuggiva il come e il perché. “dovevo
incuriosirti”, era questo che gli aveva
detto una volta. Anche in quel momento aveva scommesso tutto sulla sua
assurda
curiosità per lei, era furba.
Aveva già capito
tutto, lo incatenava così, banalmente, solo con la
curiosità intrinseca che era
in grado di produrre con quella sua aria intonsa da fata che attraversa
un
mondo mortale in punta di piedi. Storse la bocca, realizzò
che Arianna e Sarah
in comune avevano molto, avevano un modo di vivere che gli sarebbe
stato sempre
incomprensibile.
Arianna appoggiò i
gomiti alle ginocchia, si chinò in avanti e raccolse il viso
morbido nelle mani
a coppa. Giocava con il labbro inferiore, lo torturava e liberava solo
per
riprenderlo. Ad un tratto si scosse, come un animaletto che si
scrollava di
dosso l’acqua, si scrollò di dosso ogni
incertezza, lo fissò ancora negli occhi
e Demian capì immediatamente che doveva prepararsi ad
incassare.
«Io non sono un
genio e di solito mi faccio gli affari miei. Per essere precisi, mi
faccio sempre
gli affari miei» affilò gli occhi da gatta,
soppesandolo «Ma ti è mai successo
di sentire che non puoi lasciar perdere? Ecco, è questo che
penso. Non riesco a
smettere di pensare che lasciar perdere sarebbe la più
grande scemenza della
mia vita» inclinò la testolina ed i ricci,
quell’unica, lucida massa compatta
scura come l’ebano con quella luce, la seguirono
«Però proprio non riesco a
capire e non sono sicura di come si debba fare, a non lasciar perdere.
Non è
solo che Sarah è malata, a farti stare male. Quella mi
sembra solo la punta
dell’iceberg, ed io non so vedere così a fondo,
però lo capisco che c’è un
fondo. Il tuo senso di colpa non è giustificabile con la
sola malattia di tua
sorella»
In un primo
momento, l’impatto lo lasciò comunque a bocca
aperta. Anche a prepararsi,
Arianna non era prevedibile, era difficile armarsi contro di lei, ma
soprattutto contro le sue considerazioni, dette con la
semplicità delle cose
ovvie, eppure ovvie per nulla.
Nessuno si era mai
accorto, e se anche qualcuno avesse notato quella sua verità
nascosta, nessuno
aveva mai avuto il coraggio di chiedergli, anche indirettamente, cosa
covasse
sotto tutto il suo amore per quella bambina.
«Tu non sai nulla»
digrignò i denti.
«Sarebbe strano se
lo sapessi, non ti pare?» gli sorrise ancora, e ancora in lei
prevaleva quella
sottile indulgenza che sembrava perdonargli tutto e lo indisponeva
tanto «Che
cosa ti fa sentire così responsabile?»
«Io sono
responsabile di Sarah. Sono suo
fratello, non ci deve essere un motivo» cercò
disperatamente di dirlo con
convinzione. Era quasi spaventoso, che fosse in grado di cogliere le
gradazioni
che alteravano la superficie della sua anima, Demian stesso non ne
sarebbe
stato capace, ma ora che lei aveva scelto quella parola precisa fra le
tante,
si rendeva conto che era proprio così
che si sentiva, schiacciato per una vita intera, corta, miserabile
vita, da
quella responsabilità che ormai coincideva con lui stesso.
Arianna era
spaventosa, faceva paura.
«Io non credo che
tu sia così responsabile, qualunque cosa sia
successa»
Gli venne da
ridere, una risata terribilmente isterica e spiritata. Doveva portarsi
ancora
dietro gli strascichi della sbronza, non trovava altra spiegazione al
magone
bastardo che gli aveva appena annodato la gola.
Sarah una vita normale
non potrà mai averla
Non so nemmeno se
avrà una vita
Tutta la sua
punizione e la sua redenzione si racchiudeva nella vita labile di sua
sorella,
spiegare cosa potesse significare, quanto fosse invivibile e opprimente
questo
per lui, era impossibile.
«Certo che lo sono»
la voce gli cedette, tutta la collera che si era gonfiata in un fiume
in piena
pronto a schiantarsi su di lei, si ridusse ad un rivolo di panico.
«Ehi» Annie lo
richiamò, sembrava dolente, il suo sorriso era
più pacato ed empatico, e per un
momento Demian si sentì ancora sulla panchina del parco,
quella sera, quando un
filo li aveva uniti e parlare era diventato, se non più
facile, necessario.
Non importava
quanto il baratro fosse profondo e le vertigini gli procurassero
nausea, con
quel filo di ragnatela sottile e delicato che creava un ponte tra loro,
la
verità diventava impossibile da occultare e l’odio
si placava nella disperata
ricerca di comprensione.
«Sono qui» gli tese
una mano, proprio come quella sera, e vederla piccola e pallida nel
crepuscolo
dalle sfumature azzurrognole, gli fece pensare a Sarah, alla sua pelle
cianotica e trasparente, quando stava peggio. La curiosità
lo spinse ad
avvicinarsi, sfiorarla piano, con circospezione. Sembrava davvero la
mano di
una bambina, senza tendini e muscoli, liscia e rotonda nelle forme.
«So anche ascoltare»
gli disse, sollevando l’angolo della bocca, come a imitare la
sua smorfia
provocatrice. Se aveva capito qualcosa di lei, probabilmente era vero
che gli
stava facendo il verso, era il suo modo personale di sdrammatizzare e
prendersi
gioco di lui.
«Lo sai. Sarah
soffre di problemi cardiaci. Ci è nata, non
c’è molto che si possa fare al
momento. È in lista per un trapianto da anni, ma non
è così semplice, in fondo
non lo è mai niente, no? È così
delicata, che ho perso il conto dei ricoveri»
Non che potesse
perdere il conto sul serio. L’ultimo anno prima che maman si
ammalasse, Sarah
aveva quattro anni e loro avevano vissuto più in ospedale
che a casa.
L’immagine della mamma un po’ china mentre portava
sua sorella al trotto e la
faceva giocare trasformandosi nelle gambe che la bimba non poteva
usare, era
impressa come un marchio a fuoco nella sua memoria.
La mano di Annie
scivolò via dalla sua, la ragazza stava scuotendo il capo,
contrariata.
«Non voglio sapere
cosa Sarah ha clinicamente, voglio sapere cosa è Sarah per
te. Credo che
dovresti dirlo a voce. Perché te lo giuro, hai
l’aria di uno che non lo ha mai
detto. Certe cose, finché non le dici sul serio invece che
limitarti a pensarle,
non diventano definite. Puoi ancora nascondertele. E se ti nascondi
qualcosa
del genere, non riuscirai mai a superarlo. Non girarci
intorno» si addolcì sul
finale, Demian abbassò la testa.
Cercò le parole che
non gli erano mai uscite, erano molte le cose che non poteva dire.
Quando era
bambino, quella era una di quelle cose che lo facevano vergognare
tanto, troppo
per avere il coraggio di dirlo a qualcuno. Nemmeno Julian lo sapeva, se
la zia
ne era a conoscenza era solo perché maman con lei
condivideva tanto,
praticamente tutto. Lui però non aveva mai imparato a
condividere niente, e
l’accumulo di quel tutto lo faceva sprofondare.
«Cosa le hai fatto,
per sentirti così?»
C’era qualcosa di
comico, una cosmica presa in giro. Concretamente sarebbe quasi potuto
sembrare
che non le avesse fatto nulla, che non potesse avere quel potere quando
era
solo un marmocchio incapace, in grado sempre e solo di assistere alle
brutture
perpetrate da quell’uomo. Eppure, il suo torto era il
peggiore.
«L’ho odiata»
Ammetterlo lo
lasciò senza fiato.
Si lasciò cadere a
terra, ai piedi del divano. Si rannicchiò nella conca
dell’angolo, portò le
mani ai capelli e ci si aggrappò con una cattiveria
dolorosa. Poi rise senza un
motivo, si vergognava così tanto che poteva solo ridere di
se stesso.
Annie era rimasta
in silenzio, così lo ripeté, per farle capire
quanto fosse vile e rivoltante.
«Io la
odiavo» il ricordo feriva ancora
nello stesso identico modo spietato, proprio come quando era lui ad
avere
cinque anni ed era un ammasso informe di paure primordiali e ossessioni
che già
delineavano l’omuncolo che era destinato ad essere
«E lei nemmeno era nata. Ma
odiarla era facile, era più semplice odiare Sarah, piuttosto
che ammettere che quello non mi
volesse bene perché in me
qualcosa non andava»
Si piegò su se
stesso, incastrò la testa tra le ginocchia e con le mani
sulla testa pensò che
avrebbe voluto potersi riassorbire, proprio come un buco nero, una
stella
pronta a implodere.
«Non sono sicura di
aver capito»
«Perché non puoi!
Come potresti, tu non lo sai che bestia era!»
E Sarah, pur non
volendo, sarà sempre legata a lui.
La sua stessa malattia
è legata a lui
«Io gli ho permesso
di farle del male, è questa la mia colpa. È a
questo che mi ha portato essere
geloso di lei»
Arianna era
confusa, c’era quasi una vena di panico in lei, Demian
comprese senza
difficoltà il motivo: lo vedeva sprofondare in
un’agitazione compulsiva e non
sapeva se toccarlo. Restava protesa verso di lui, incerta, e le labbra
schiuse
tradivano l’indecisione delle parole.
Scoprì che voleva
che lei capisse, perché non era pazzo, era la sua ferita
più grande e se
Arianna non lo capiva dopo averlo messo davanti ad una tale voragine di
fragilità, non sapeva se l’avrebbe sopportato.
Strinse con più
violenza i capelli «Il giorno più brutto
è il giorno in cui è nata Sarah»
Annie s’acquietò
tutto d’un tratto, gli occhi spalancati sulla sua
perplessità.
«Sarah è nata
prematura, fu un incidente. Tu non lo sai quanto la odiavo. Lo sapevo
che lui
l’avrebbe preferita, che mi avrebbe sostituito,
perché io ero un malato del
cazzo e di un peso del genere non se ne faceva nulla»
Gli sfuggì un
singhiozzo, una costernazione che straripò tutta insieme. Fu
incredibilmente
semplice, all’improvviso, dirle ogni cosa. Dirle che
quell’infanzia era ricca
di ricordi slabbrati e stinti, ma quell’unico giorno era fin
troppo nitido, il
più avvilente della sua vita.
«Un figlio non
dovrebbe mai vedere una madre umiliata dal proprio padre»
No, un figlio non
avrebbe mai dovuto assistere a certe forme di violenza. Per questo non
era mai
riuscito a dire a nessuno che i suoi genitori litigavano tanto, sempre.
Non era
mai riuscito a dire che quell’uomo picchiava maman, e nella
sua ingenuità di
bambino aveva creduto che nascondersi nel sottoscala e coprirsi gli
occhi e le
orecchie bastasse a dimenticare.
A fingere che non
fosse mai accaduto.
Eppure, per quanto
desiderasse, non aveva potuto scordare il bastardo che li aveva
abbandonati,
non aveva potuto dimenticare quel ventisette dicembre dei suoi sei
anni. Non
ricordava le parole, quelle no, erano sfumate, ma restavano impresse
vividamente nella sua mente le voci, la rabbia crudele di sua madre, le
urla.
Maman diventava cattiva quando perdeva il controllo, diceva cose in cui
magari
non credeva, lo faceva per ferire.
Lui invece la
minacciava.
La minacciava di
tacere, di smetterla, si esasperava e voleva sopraffarla, ma maman era
una
donna forte, che non stava mai zitta, non si tirava indietro e non
permetteva a
nessuno di schiacciarla. Così negli anni le urla erano
diventate spinte, alle
spinte si erano aggiunte le mani.
L’aveva picchiata
più volte, ne conservava frammenti confusi ma vividi, come
vivida era stata la
paura. La prima volta erano in bagno, Jenevieve l’aveva fatto
sedere sul mobile
accanto al lavandino, gli cantava una filastrocca infantile per
convincerlo a
tagliarsi le unghie. Poi era arrivato suo padre. Non aveva mai saputo
il motivo
di quel gesto, da lì però la situazione era
degenerata e scivolata in una
spirale di violenza che lo aveva fatto sentire minuscolo e inutile,
terrorizzato.
Maman non si
fermava, più le violenze aumentavano, più lei si
infervorava e lo feriva,
metterle le mani addosso era diventata l’unica soluzione che
quel maledetto
aveva trovato per prevaricarla quando non ci riusciva con le parole.
«Maman ha sempre
avuto un brutto carattere» quanto mancava il respiro, ad
ammetterlo, ammettere
che con quella sua meschinità aveva aggredito anche lui, non
solo quello che
era stato suo padre, e lo aveva umiliato, perché quello era
l’unico modo di
insegnare che Jenevieve aveva trovato.
«Avrei voluto
proteggerla. Ero un inutile nano da giardino, buono solo a
piagnucolare, ma
persino io avevo capito che la sua rabbia non l’avrebbe
difesa dal dolore
fisico. Poteva essere coraggiosa e forte quanto voleva, ma fisicamente
davanti
a lui era minuscola»
Aveva chiuso gli
occhi, e gli sembrava di scivolare di nuovo a quella mattina, davanti
al
pianoforte lucido e aperto, i tasti bianchi e neri esposti come un
sorriso
perverso di uno stregatto ingannatore. Poteva ancora sentire le note
suonate da
maman, e il tono alterato, l’odio che serpeggiava tra loro
quando litigavano.
Se gli occhi erano chiusi, lo rivedeva mentre con la sua ombra
sovrastava
maman, piccola, fragile con le sue braccina sottili e la pancia
pronunciata.
Quella pancia era
Sarah.
Quegli spintoni
erano l’inizio della fine. La mamma piangeva disperatamente,
con una furia
inedita persino per lei.
«Odiavo che le
facesse del male, io ci provavo a tenerlo lontano da lei»
Non ci era riuscito
però, maman era caduta, una scivolata così banale
da sembrare ridicola. Solo
che non era stata banale, era stato un incubo. Sbattendo contro il
pianoforte
non era riuscita ad attutire la caduta, aveva urlato di dolore, quel
grido gli
era rimasto dentro. Poi erano solo frammenti di memorie e di sangue,
tanto
sangue, dappertutto.
«Era maman a
sanguinare»
Lo pervase una
calma assoluta, una rassegnazione esasperata. Liberò i
capelli, abbandonò il
nascondiglio delle sue ginocchia e scoprì che Arianna era
una bambola trascurata
e turbata davanti a lui, immobile. Le sorrise mestamente
«Sarah è nata a sei
mesi, per colpa di suo padre»
Era sua sorella,
avrebbe dovuto difenderla da un male a cui non era preparata, ma non lo
aveva
fatto.
«Ero troppo geloso
di lei. Geloso che potesse essere amata da quello come io non ero
riuscito a
farmi amare»
Ed invece, era
stato proprio lui, che l’aveva messa al mondo e avrebbe
dovuto amarla più di
ogni altra cosa, a rovinarle la vita.
«Non l’ho più visto
da allora. Sono stato dalla zia, mentre maman era in ospedale. Quando
l’hanno
dimessa e siamo tornati a casa, lui non c’era più.
Se ne era andato e aveva
portato via tutto ciò che testimoniava la sua
esistenza»
Scosse il capo,
quasi ridendo, perché gli veniva da piangere ancora, tanto
tutto era stato
ridicolo e paradossale.
«l’aveva detto una
volta, che non avrebbe sopportato di avere un altro figlio malato.
È stato
onesto, non mentiva. Non ci ha più cercato»
Non era stato
presente nemmeno per sapere se sua figlia ce l’avesse fatta,
non aveva vissuto
i mesi di ansia con il terrore che Sarah potesse non vivere, non sapeva
cosa
significasse, restare oltre un vetro a guardare quella piccola figura
nell’incubatrice e pensare che era sola, che aveva perso la
persona che più di
tutti doveva proteggerla. Capire che, allora, se non ci fosse stato un
padre,
sarebbe stato lui il nuovo scudo e non avrebbe permesso più
a nessuno di
ferirla in quel mondo di merda che l’aveva tradita prima
ancora che vedesse la
luce.
«Sarah era forte
già allora, è sopravvissuta nonostante
tutto»
Nonostante il suo
cuore.
Il suo cuore
debole, che non aveva avuto il tempo di svilupparsi come avrebbe dovuto.
«Ha perso tutto
prima di nascere, ed io ho avuto il coraggio di essere invidioso di
lei. Forse,
sarebbe stato diverso, se non l’avessi odiata, se fossi stato
meno egoista. Ora
lei ha solo me, ed io ho solo lei. Ho già rischiato di
perderla…»
Non sapeva come
spiegare il vuoto di quel giorno, quando Julian gli si era accostato e
Demian
aveva pianto come non si era più permesso dopo. Sapeva che
il cuore di Sarah
probabilmente non avrebbe retto, lo avevano detto i medici. In quel
momento
poteva anche apparire tutto normale, ma gli interventi alle spalle,
l’edema che
quasi l’aveva uccisa a quattro anni, erano cose che non
riusciva a fingere non
ci fossero state.
Senza di lei non ce la
faccio
No, non era un
qualcosa che potesse spiegare a voce, era solo la certezza assoluta che
se
avesse perso Sarah qualcosa dentro si sarebbe spezzato inesorabilmente,
per
sempre, senza speranza di tornare integro. Cosa poteva comportare
questa
rottura, nemmeno lui osava pensarci né voleva davvero
saperlo.
Annie allungò una
mano verso il suo viso.
Pensò di scansarsi,
per istinto, ma poi, con un gesto delicato del pollice, Arianna
strofinò una lacrima
sulla sua pelle. Allora capì di aver ricominciato a
piangere. Succedeva, se
pensava troppo a sua sorella, era uno di quei pensieri dolorosi che
corrodevano, come una goccia d’acqua che picchiava sempre
nello stesso punto e
scavava il cervello.
Anche Arianna
piangeva, doveva averla ferita.
Questa era una
delle ragioni per cui non raccontava mai quella fetta specifica della
sua vita:
non voleva suscitare pietà e pena, non voleva apparire un
debole, un omuncolo
pietoso che provocava sorrisi compassati di disagio.
Piuttosto, era più
semplice non pensare a nulla e fingere di non sentire nulla, essere
disprezzato
per il suo menefreghismo che compatito per la tristezza che
trasmetteva. Aveva
ancora abbastanza amor proprio per cercare di difendersi dagli sguardi
indiscreti delle persone a cui in realtà non importava
niente.
«Ehi» Arianna lo
richiamò con un mormorio sconsolato, velato da un leggero
senso di colpa.
Però lo fissava
ancora, dritto in viso, pure con quelle due grosse lacrime che stavano
rotolando piano sulle guance rosse come piccoli ciottoli da una
scarpata.
«Non è colpa tua»
Gli venne da ridere
«Cosa?»
Abbassò gli occhi,
non riusciva a reggere la serietà con cui veniva scrutato,
l’incrollabile
certezza che guidava Arianna era destabilizzante e faceva davvero
paura, a
qualcuno come lui, qualcuno che nella vita non aveva idea di come
muoversi.
«Sono seria Demi,
non è colpa tua, eri un bambino. Non avresti potuto fare
nulla nemmeno volendo»
Razionalmente lo
sapeva.
Nella realtà la
razionalità non trovava posto.
Cercò di sorriderle
più genuinamente, di annuire pure, ma gli sfuggì
un singhiozzo. Arianna si
sporse, lo avvolse con le sue braccia sottili e Demian nascose il viso
nel suo
collo e pianse. Da molto tempo non si sfogava così
liberamente, senza freni e
senza alcol, e fu strano sentire il fiato che mancava, le lacrime che
si
raccoglievano in gola in un peso soffocante, e allo stesso tempo
sentirsi
svuotare, privo di ogni energia, mentre si accasciava completamente sul
suo
corpo, con un’innocenza che non aveva più provato
con nessuno.
Si sentiva davvero
un bambino, provava la stessa leggerezza di quando si sfogava nei
giochi con
tutto se stesso e correva come un matto sulle scogliere e la spiaggia,
e poi
quasi non si reggeva in piedi e Julian lo portava in spalla fino a
casa. Nello
stesso modo si acquietò su Arianna, il respiro smise di
tremare e ad un tratto,
il pianto era diventato una semplice linea traslucida in controluce.
Arianna,
con le sue mani leggere, un po’ goffe, gli asciugò
le guance umide. La pelle
tirava, ma Annie sorrideva tranquilla ed ogni disagio passava in
secondo piano,
se lei sorrideva in quel modo così onesto e sereno.
«Ora stai meglio»
sentenziò, con la solita certezza assoluta che ormai Demian
associava già a lei
e solo a lei «E non mentirmi, lo so che stai meglio. Sfogarsi
ti toglie le
energie per poter star male»
Riuscì a farlo
ridacchiare con quel tono da maestrina esperta. Annuì
debolmente, perché in
realtà aveva ragione, era così sfibrato da
sentirsi vuoto, ma non di un vuoto
annichilente, semplicemente libero da emozioni opprimenti,
eccessivamente
forti.
«Dai, ora
concentrati» rise lei «Hai a disposizione una
domanda. Una sola! Quindi
giocatela bene!»
Una domanda
Eccola, esuberante
ed esasperante insieme, lo guardava con l’aria furbetta e una
luce giocosa
nelle iridi chiare. Arianna assomigliava davvero troppo a sua sorella,
c’era
qualcosa in lei che gli richiamava in qualche maniera la bambina, e
forse
proprio per questo aveva trovato gradevole, accettabile ed ora quasi
indispensabile la prima, perché già era abituato
alla seconda.
Erano molte le cose
che avrebbe voluto chiederle, avrebbe voluto sapere perché
fosse tanto
sibillina, così criptica con quel sorriso da Esmeralda che
ingannava e lasciava
intendere che ci fosse sempre un segreto da qualche parte, ben
custodito e
irraggiungibile. Avrebbe voluto chiederle quale fosse, quel segreto, e
di
dividerlo con lui, come lui stesso aveva appena fatto.
Ci rifletté in
silenzio, la osservò mentre le sue labbra da bambina
restavano incurvate in una
piega inafferrabile che lo confondeva e lo faceva sentire insicuro e al
contempo più stabile. Con quello stratagemma sciocco,
Arianna lo aveva
distratto.
L’aveva colto:
aveva letto il suo disagio ed era riuscita in qualche modo a colmarlo,
questo
lo scioccò abbastanza da non dargli ancora una volta,
possibilità di replica
immediata. Come faceva ad intuire quale sentiero fosse meglio seguire
con lui,
restava un mistero.
«La foglia»
sussurrò, come illuminato all’improvviso.
Arianna inclinò la
testa e con un gesto del mento lo invitò a proseguire,
sebbene perplessa.
«Quel giorno in
ospedale. Quando ero con Elena»
«L’adorabile nonché
pudica infermiera?» lo pungolò con la solita
precisione millimetrica,
costringendolo a chinare gli occhi per contenere l’impaccio
«Sì, proprio lei.
Quando sei andata via hai lasciato una foglia.
Tu…» si morse l’interno della
guancia e con voce più labile chiese «Che cosa
stavi facendo?»
Tra tutte le cose
che avrebbe potuto chiederle, quella era forse la più
stupida. Eppure si era
tormentato per cercare di capirla, era persino arrivato ad idealizzare
un’azione tanto banale e aveva bisogno, ora, di
ridimensionarla, per riportare
quella ragazzina strana in una dimensione terrena più
concreta e accessibile.
Arianna si lasciò
andare ad una risata profondamente divertita, che però non
riusciva a
nascondere l’imbarazzo. La guardò alzarsi in
piedi, passarsi una mano tra i
capelli, muoversi con un certo nervosismo «Cavolo, e io che
speravo non te ne
fossi accorto!» si giustificò.
Si era allontanata
da lui, la luce era poca, un alone giallo proveniente dal lampione
acceso
fuori, sulla strada. Non riusciva più a leggerle le
espressioni se poneva tra
loro una distanza. Era quella manina tra i ricci scompigliati, in un
gesto irrequieto,
a tradirla.
«Domanda di
riserva?» lo supplicò.
Dem fece scattare
l’interruttore e la luce artificiale delle lampade
inondò il viso di Arianna,
accentuandone il pallore e dando una sfumatura languida agli occhi da
cucciola
volta a intenerirlo. Era bella davvero, incredibilmente, la sua
espressività
aveva un ascendente su di lui che non avrebbe creduto possibile,
perché fino ad
allora era stato proprio solo di Sarah, tutto quel potere. Ed invece,
quella
ragazzina dall’aria sfatta e disordinata possedeva il
medesimo dono di muoverlo
a pietà. Si morse l’interno della guancia, poi
sfoderò il suo miglior ghigno
provocatore
«Una domanda per
una domanda, giusto? Scambio equivalente» le fece il verso,
profondamente
divertito dalla faccia di Annie, che si sciolse subito in una smorfia.
La
ragazza sospirò sconfitta, scuotendo piano la testa
«Touché, hai vinto»
Prese un grande
respiro, come stesse per confessare un delitto
«Sì, raccoglievo foglie. No, non
sono un’idiota!» aggiunse dopo aver visto il
sorrisino derisorio che già si
disegnava sulle sue labbra. Demian ne rise, alzò il
sopracciglio per calcare
ulteriormente la sua confusione e metterla a disagio
«Delucidami»
Arianna gonfiò le
guance in un moto di stizza «Tengo un diario, ok? Un
banalissimo diario, ci
scrivo le cose e ci incollo qualunque cosa io associ alla giornata.
Quel giorno
era un perfetto giorno autunnale. Non volevo dimenticarlo»
incrociò le braccia
al petto e gli sembrò tanto un piccolo riccio offeso che in
lui nacque
spontaneo un sorriso di tenerezza. Si era raccolta in un angolo della
cucina,
vicino alla finestra, il broncio che arricciava le sue labbra era
troppo
spassoso e infantile.
Con quello che mi ha
fatto raccontare, ha un bel coraggio
ad arrabbiarsi per una sciocchezza simile
I pensieri di
Arianna erano estranianti per qualcuno come lui, Demian non li capiva.
Non
capiva cosa intendesse dire, quando parlava di una giornata che sapeva
perfettamente d’autunno, solo perché per lui ogni
giorno aveva lo stesso penoso
sapore del successivo e del precedente, era un nostalgico che viveva
attaccato
alle proprie amarezze e non vedeva molte sfumature. Viveva
l’autunno o
l’inverno semplicemente come stagioni tristi e morte che si
confacevano a
qualcuno morto dentro come lo era lui.
Arianna lo studiò e
si rilassò, una vena malinconica le attraversò lo
sguardo, una patina di
tristezza inconciliabile con la spensieratezza che trasmetteva con una
sua
risata, eppure palese, presente.
«Sai, se ci pensi
in un anno è racchiusa una vita intera, tutta concentrata.
La natura è
fantastica da questo punto di vista, in trecentosessanta giorni
rinasce, vive e
muore, e tu puoi vedere tutto ciò che di essenziale
c’è in un’esistenza così,
concentrata in un tempo brevissimo. La neve, il sole, la pioggia, la
nebbia; i
papaveri, le castagne e le fragole! Tutto contenuto in un numero
limitato di
giorni» chinò un poco la testa, distolse lo
sguardo da lui, scostò la tendina e
guardò fuori. Fissava la strada ora, i sampietrini che
circondavano la casa.
Demian si avvicinò,
colse la figura sfocata di una persona sotto la pioggerellina leggera,
in
lontananza, il colore dell’ombrello era una macchia fugace,
un acquerello
leggero non ancora asciutto che si spandeva indefinitamente sulla carta.
«Non è strano?»
mormorò ancora, dopo un attimo di silenzio. Un sorriso
sfuggente le accarezzava
le labbra belle «L’autunno è bello,
anche se sai che le foglie muoiono e gli
alberi sembrano sofferenti. Eppure è bello lo stesso, e
caldo. Quando vedo quei
colori, quelle foglie gialle, mi sembra che la natura abbia catturato
l’estate
e la trattenga ancora per sé, ancora per poco. Allora penso
che in fondo ne
valga la pena davvero, di nascere in primavera per poter bere il sole
fino a
morirne. È un bel modo di vivere»
scrollò le spalle, per scacciare la vergogna,
e ridacchiò imbarazzata.
«Ecco, pensavo una
cosa del genere, per questo raccoglievo quelle foglie» si
scompigliò ancora i
ricci e Demian non trovò nulla da dire, rimase in silenzio.
«Scusa, lo so che
ho detto un sacco di stupidate! È che ogni tanto non posso
non pensarci, alla
morte intendo. Tu lo sai cosa voglio dire, quando passi troppo tempo
lì dentro
diventa quasi scontato. La morte intorno a te non puoi ignorarla, ci ho
provato
tante volte ma non sono proprio immune. Purtroppo non sono molto
brillante, anzi
sono davvero stupida, non giungo mai a nulla che abbia un
senso»
Forse perché la
morte non poteva ignorarla, Demian un senso riusciva a vederlo. Quando
quel
giorno aveva raccolto la foglia che Arianna aveva abbandonato, per la
prima
volta aveva pensato che l’autunno era bello, che quella era
l’incarnazione di
un’idea ed era bellissima.
Era la prima volta
che gli si apriva uno squarcio sulle emozioni di Jenevieve: quelli
dovevano
essere i sentimenti di fatalità che maman provava davanti ad
un giorno di pioggia,
ad una foglia… davanti a lui; la fatale sensazione
dell’ultima volta.
La fine.
Una raccolta di
ultimi momenti concentrati in due mesi, forse meno. Ed ora capiva che
era
egoistico privare maman e Sarah della loro ultima volta, lo capiva
davvero. Ciò
che più lo disturbava però, era realizzare che
quel sentimento disfattista
Arianna era stata in grado di coglierlo come se le appartenesse.
Ora vorrei solo
chiederle la sua storia, ma la domanda me
la sono già giocata e so che non mi risponderebbe. Non
davvero.
«Ti sei accorto che
è ora di cena?» gli fece presente, scuotendo la
manica della sua felpa per
attirare l’attenzione «Devi andare da qualche
parte?»
A disagio scosse
piano la testa «No»
Non aveva nulla da
fare, non c’era nessuno che lo aspettasse. Avrebbe potuto
ordinare la pizza o
risparmiare ripescandone una surgelata dal congelatore.
«Bene, perfetto!»
gioì con un tono così entusiasta da risultare
stordente, tanto che Demian rimase
spiazzato a fissarla come fosse un’aliena «Allora
muoviti e vai a lavarti, i
miei ci stanno aspettando. Sono molto puntuali con la cena»
«Cosa?»
Arianna sollevò gli
occhi al soffitto in una finta esasperazione «Ricordi? Sei
uno che è meglio non
lasciare solo!»
Rimase pietrificato
di fronte a quella convinzione sicura e di nuovo serena.
«Su, muoviti» rise
lei, poi sbatacchiò gli occhioni con un velo di malizia che
gli tolse il fiato «So
che preferiresti che sia io a lavarti, ma ti ho già detto
che non farò l’infermierina!
Quindi fa’ il bravo ometto, io ti aspetterò
qui» si lanciò goffamente sul divano,
afferrò il telecomando e iniziò a scorrere i
canali davanti ai suoi occhi
attoniti.
I suoi genitori?
Casa sua?
Cena?
Riuscirò
mai ad avere voce in capitolo con lei?
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Capitolo 14 *** Non perdonarmi ***
À Demian
Capitolo dodicesimo
Non
perdonarmi
«Volevi sembrare un ragazzaccio di
strada, di quelli che
fumano, si drogano e gozzoviglino tutto il giorno? No,
perché se l’intento era
questo ci sei riuscito perfettamente!»
Non sapendo che ribattere, Demian si
passò una mano sul collo
e rimase in silenzio. Arianna lo squadrava con aria critica, gli girava
intorno
e sembrava tanto un avvoltoio sopra una carcassa malmessa. Aveva
spulciato ogni
anfratto del suo armadio e gli era toccato scendere a compromesso con
la
realtà: il suo guardaroba era quello che era. Nessun abito
elegante, niente di
vagamente formale, il nulla assoluto. Una camicia non sapeva cosa
fosse, di
giacche non ne aveva mai comprate ed era già tanto se le sue
magliette non
erano di qualche concerto rock o non avevano stampe gotiche.
Era andato sul semplice, una maglietta
monocromatica…
ovviamente nera, giusto per non far risaltare troppo il suo incarnato
pallido.
«Loro, per esempio, sono proprio
necessari?» Arianna accennò
ai guanti senza dita. Demian si grattò la testa sopra il
berretto nero,
attanagliato da un crescente senso d’inadeguatezza.
«Non sono fatto per queste
cose»
Poteva anche sembrarle una scusa, una pessima
giustificazione, d’altro canto non sapeva come spiegarle che
lui era un teppista di strada, di
quelli che
fumano, si drogano e gozzovigliano tutto il giorno. Non aveva il
coraggio di
dirglielo, non voleva che lei potesse malgiudicarlo, per quanto si
rendesse
conto che, più che un mal giudizio, il suo sarebbe stato un
semplice constatare
la realtà. I jeans larghi e rotti, il berretto nero, la
felpa con il cappuccio
sollevato e il giubbino di pelle, contribuivano a renderlo un
cliché banale e
prevedibile del teppistello inquieto, non esattamente il bravo ragazzo
che le
figlie presentavano ai genitori.
È un fallimento.
E pensare che ho
pure evitato il gel
Arianna si concentrò sul teschio
grottesco che decorava la
felpa e aggrottò le sopracciglia «Non so
perché, ma non ti facevo tipo che
ascoltava questo genere di musica»
Ci mise qualche istante a collegare
l’immagine alla sua osservazione,
quando realizzò gli venne da ridere «Infatti non
la sopporto. Il teschio però è
figo» sfoderò il suo miglior ghigno provocatore ed
Arianna rimase spiazzata, ma
in un secondo dissimulò scrollando le spalle e rispose con
l’espressione più
sorniona e meno impressionabile che Demian avesse mai visto.
«Banale» ammiccò.
Poi, rapita da un pensiero suo, giocò con
le labbra. Doveva essere una riflessione irragionevole, per forza. Lei
sapeva
fare solo quel tipo di pensieri, Dem ne era quasi del tutto certo.
Pensieri che lui non era in grado di concepire.
Alla fine di quel complesso cameo di espressioni,
si mise a
ridere «Sarà divertente. Farai venire loro un
infarto!»
«Se vuoi posso cambiarmi
ancora» borbottò rassegnato. Non che
nutrisse speranze di un miglioramento, ma iniziava a vergognarsi per
quel suo essere
disastroso. Fortunatamente, Arianna non sembrava veramente preoccupata.
Scrollò
le spalle, lo prese per mano e lo trascinò fuori casa dopo
aver lasciato una
veloce carezza a Lalami, che già li guardava come la
stessero abbandonando su
un’autostrada.
«Andiamo a piedi?» si
ritrovò a chiedere con una certa
sorpresa, perché la ragazza, con piglio particolarmente
deciso, stava tirando
dritto ignorando il suo motorino.
«Ah, sì. Come credi che sia
venuta? Ho scoperto che
praticamente abitiamo a un paio di chilometri di distanza. non avrei
mai
immaginato che fossi del paese vicino!» tese le braccia al
cielo e si
stiracchiò come un gatto, l’espressione serena di
una bambina felice «E poi
l’aria è così fresca stasera. Non ha un
profumo buonissimo? Mi fa venire voglia
di camminare per ore a vuoto. anzi, sai cosa?» lo
afferrò per la manica e lo
scosse, per passargli l’improvvisa ondata di entusiasmo
«Avrei voglia di andare
sull’altalena!»
Arianna lo lasciava fondamentalmente senza parole,
per cui la
fissò confuso, a bocca appena schiusa senza riuscire a
ricavarne un suono. Era
davvero una bambina, aveva qualcosa d’incontaminato, di
qualcuno che il mondo
reale non l’aveva conosciuto. Ingenua, sciocca, furba,
dannatamente diabolica:
non poteva inquadrarla. Riusciva ad essere una cosa e
contemporaneamente il suo
opposto, aveva aspetti così antitetici nella propria persona
da risultargli
eccessivamente complessa. Era la prima volta che di fronte a qualcuno
si
ritrovava completamente spiazzato e il dubbio lo assillava.
Possibile che sia
davvero candida come si mostra?
Quanto c’è di reale
in lei?
Inspirò ed espirò
profondamente l’aria fredda e corroborante
della sera. Arianna aveva ragione, con le strade deserte ed un assoluto
silenzio, con la sola luce dei lampioni a bagnare l’asfalto e
a tratteggiare le
sagome delle case e degli alberi, si creava un’atmosfera
sospesa e surreale, in
cui si rilassava perfettamente.
«A volte mi piace, uscire di notte e
fare lunghe passeggiate.
Mio fratello lo odia, ma alla fine mi accompagna sempre. Sai quanto
è bello
quando anche le strade principali sono vuote e puoi muoverti come vuoi?
ti
sembra di essere l’unica persona al mondo»
Le sorrise discretamente, accompagnato
dall’abituale senso di
disagio che non riusciva mai del tutto a scacciare, nonostante quella
sensazione di quiete totale riuscisse a percepirla. Capiva cosa
intendesse, con
il cielo terso si vedevano anche le prime stelle.
O forse erano satelliti, non faceva molta
differenza. Ai suoi
occhi restavano abbozzi di vita proiettati nel tempo per giungere a
loro dopo
millenni, fotografie di un passato così remoto che in
confronto la sua
esistenza si trasformava in un blando, rapido battito di ciglia. Che la
vita
fosse labile lo sapeva fin troppo bene, eppure il pensiero della fine,
della
fugacità dell’essere, lo sopraffaceva ogni volta e
gli toglieva le forze. Cercò
la mano di Arianna e la strinse senza esitazione, intrecciando le dita
alle
sue. In quel momento, con l’accenno di nuvole trasportate dal
vento e il
silenzio interrotto da un’upupa lontana, quel fastidioso peso
sullo stomaco
venne a mancare.
La guardò meravigliato dal potere della
serenità che era in
grado di emanare solo con la presenza. Camminava assorta, guardando in
alto
senza accorgersene, con un sorriso appena scolpito sulle labbra, una
piega
lieve che però le accendeva gli occhi. A volte li chiudeva,
inspirava a fondo
si affidava solo alla stretta della sua mano come guida, mentre la
brezza
serale ogni tanto soffiava più intensa e le scompigliava le
ciocche ribelli
uscite dalla coda.
Era una bellezza che rendeva felice, ecco
perché era bella.
Magari un solo istante, un breve frammento rubato ad un mondo che
scorreva, ma bastava
per lasciargli addosso un senso di pienezza che quasi strappava il
respiro.
Immotivatamente contento, solo perché
gli stava camminando
assorta accanto.
«È quella, siamo
arrivati!»
Aveva esordito dopo un periodo di silenzio
così prolungato
che Demian sussultò per la sorpresa. Aveva indicato una
villetta a schiera, con
la ringhiera in ferro battuto che lasciava intravvedere un piccolo
rettangolo
d’erba.
Iniziarono a sudargli le mani per il nervoso,
cercò di
lasciare la mano di Arianna perché non lo notasse, ma si era
avvinghiata con
tanta decisione che fu impossibile porre un minimo di distanza.
«Non scapperai, non ci
provare» lo redarguì immediatamente,
con il tono di un sergente militare irritato.
Gli sfuggì un sospiro affranto di resa.
«Non sono cannibali, non ti scuoieranno
vivo!»
Demian inarcò scettico un sopracciglio.
Aveva un vago ricordo
di come il fratello di lei lo avesse squadrato, l’ultima
volta che si erano
incrociati, ma quel vago ricordo era più che sufficiente per
farsi un’idea
piuttosto precisa di come lo avrebbe accolto.
«Ricordami perché sono
qui» sibilò accusatorio, mentre lei
già suonava il campanello.
«Perché cenare da soli
è piuttosto deprimente»
«Non per me»
«Soprattutto per te!» lo
rimproverò aggrottando ancora le
sopracciglia e affilando gli occhioni da gatta «Risparmiami
quella faccia da
duro. Almeno con me è un po’ tardi, non
credi?»
Provò l’irrefrenabile impulso
di mandarla a quel paese, ma
commise il banale e imperdonabile errore d’incrociare il
disarmante sorriso
serafico a trentadue denti che lo mise spalle al muro. Qualunque
imprecazione si
spense sulle labbra.
«Ari?»
La voce del citofono era gracchiante e metallica,
non riuscì
a definirne le sfumature, capì solo che all’altro
capo c’era una donna
impaziente.
«Sono io, apri!»
Demian la seguì sul breve tratto di
selciato come un
condannato che percorreva la strada verso il patibolo.
«Stai tranquillo, è solo una
cena. Dovrai semplicemente
mangiare, non è troppo difficile. Apri e chiudi la bocca.
Dovessi avere dei
dubbi sarò accanto a te, ti ricorderò come
fare!» lo prese in giro. Era così
euforica che finì con il ricambiare debolmente il suo
sorriso raggiante,
nonostante ogni parte di lui gli intimasse di voltarsi e andarsene
senza dirle
una parola.
«Arianna Selene Alessi!»
sbraitò la voce di donna spalancando
la porta «Dove diavolo eri finita? Sei sparita da ore, ti
abbiamo cercata
dappertutto, a tuo fratello stava venendo un
infart…» il monologo le morì in
gola quando lo mise a fuoco, e la signora rimase a bocca aperta,
irrigidita
come una statua grottesca di fronte a loro.
Anzi, di fronte a lui.
L’unica
cosa che desse
l’idea che ancora respirava erano gli occhi che lo stavano
squadrando da capo a
piedi, ancora e ancora. Il tempo di un battito di ciglia e si
ricompose, senza
riuscire però a seppellire del tutto quel cipiglio confuso.
Arianna sfoderò ancora il suo sorriso
sfrontato, con la
dentatura smagliante in bella vista.
«Scusa mamma! Lui è un mio
amico, si chiama Demian»
La donna individuò le loro mani
intrecciate, Dem cercò subito
di liberarsi ma Arianna non glielo permise.
«Tesoro, sei sicura
che…»
«Certo. Sono sempre sicura di quello che
faccio. Ah, Dem,
come avrai capito lei è mia mamma, Melissa»
Demian si sentì spiazzato. Non era
certo di cosa avrebbe
dovuto fare in una simile situazione, tanto più che Melissa
sembrava davvero
turbata. Improvvisò porgendole impacciato la mano.
«È un piacere
signora» bofonchiò a sguardo chino.
La madre di Annie dovette provare una forma di
simpatia per
compassione, davanti al suo comportamento intimidito, perché
provò almeno a sorridergli.
Non che quel tentativo di cameratismo lo mettesse a suo agio, ma
perlomeno era
un inizio.
«Accomodati pure Demian. Non volevo
sembrarti scortese, ma
non capita spesso che Ari porti a casa qualcuno. Ero solo
sorpresa»
Oltre alla sorpresa era evidente una forma di
disagio
differente, ma non gli parve il caso di recriminare, perciò
si limitò ad
annuire e a seguire Arianna, che già stava trotterellando
dentro casa
trascinandoselo dietro come un peluche privo d volontà. La
ragazza si lanciò
letteralmente sul divano con una risata, facendolo inciampare
goffamente tra
cuscini. Mentre Annie si distendeva comodamente, appoggiando la testa
sul suo
ginocchio e gettando le gambe oltre il bordo del divano, volutamente o
meno
ignara del mutismo selettivo che lo aveva appena colpito, Demian si
guardò
attorno. Quella casa era diversa dalla sua, sempre disordinata e
caotica come
se un’orda inferocita di rinoceronti fosse passata di corsa
nel salotto, e
nemmeno era calda e perfettamente sterilizzata come quella di Claire.
C’era un
ordine sterile, essenziale, pochi oggetti tutti in vetro, qualche vaso
decorativo, pavimenti in marmo grigio chiaro e pareti bianche passavano
una
sensazione di straniamento. Però la luce dei lampadari dalle
composizioni
strane -erano calzascarpe in vetro,
quelli?- scaldava i mobili di mogano e illuminava di
baluginii le numerose
fotografie. Non c’erano quadri, ma foto ovunque, di Arianna
da bambina, con due
ragazzi più grandi, di un altro bambino abbracciato al suo
pupazzo di peluche;
di comunioni, cresime e compleanni. Tante piccole cornici disposte a
schieramento riempivano le superficie di vetro, e c’erano
rumori, una pienezza
di vissuto che sembrava coccolare gli abitanti nonostante i colori
freddi,
eccessivamente moderni.
Tornò a osservare Arianna e
provò una sorta di tenerezza
indulgente per lei.
Però è davvero
tutto, meno che elegante. Se non fosse così minuta, sarebbe
un ottimo uomo.
Ai rumori delle stoviglie in cucina, alle
lamentele di un
bambino da qualche parte nella casa e al programma televisivo in onda
in quel
momento, si aggiunse il passo di carica di qualcuno che stava scendendo
le
scale trottando per poi urlare «È pronta la
cena?»
Demian si inclinò per guardare il nuovo
venuto. Riconobbe
Daniele, il fratello più grande che era venuto a prenderla
quel giorno al
parco. Il ragazzo
notò le gambe di
Arianna fare capolino oltre il bordo del divano, prese la ricorsa e le
saltò addosso
senza pietà.
Arianna gridò subito come
un’aquila e quasi gli causò un
infarto e l’irrimediabile perdita dell’udito
all’orecchio sinistro.
«Ehi, puffetta! Dove eri
finita?» Daniele le scompigliò i
capelli con entrambe le mani e Arianna mugolò
d’indignazione.
«Ero con lui!» cercava di
allontanarlo premendo con i palmi
delle mani sul suo viso, ma evidentemente il fratello era troppo
pesante e più
forte di lei, perché non riuscì a smuoverlo di un
millimetro. Solo a
quell’esclamazione Daniele s’irrigidì,
alzò gli occhi su di lui, considerandolo
finalmente degno di presenza e constatò, con tutta la
simpatia che poté mettere
nella voce velenifera: «Ah, ancora tu»
Demian già lo odiava, un istinto a
pelle. Quello era solo il
loro secondo incontro, ma il fratello di Annie riusciva a guardarlo
dall’alto
in basso con un disprezzo così radicato da risultargli
insopportabile per
principio. Fu solamente per non apparire eccessivamente scortese che si
risparmiò una risposta acida. Si limitò a
sollevare l’angolo della bocca in un
ghigno ironico.
«Così sembrerebbe»
«Lui è mio fratello
Daniele» si frappose Arianna come arbitro.
Con quella matassa di capelli incolti che si ritrovava, tutti
sparpagliati sul
viso grazie al dispetto del fratello, non poteva vedere gli sguardi
ostili che
si stavano lanciando, ma i loro toni lasciavano difficilmente pensare
ad
un’amicizia appena nata.
Daniele corrugò la fronte
«Puffetta, sei sicura?»
Sembrava preoccupato, in modo serio e adulto, non
da
antipatico gratuito. Annie sbuffò infastidita
«Sì, sì, sì! Se qualcuno me
lo
dovesse chiedere di nuovo potrei non rispondere di me!»
A quell’uscita Daniele
scoppiò a ridere e iniziò a farle il
solletico.
«Mi stai minacciando?»
l’apostrofò con finto risentimento.
Arianna stava soffocando nelle sue stesse risate «No, te lo
giuro! Non oserei
mai! Lasciami, dai!»
Daniele la bloccò con più
fermezza e non smise di torturarla,
finché le esclamazioni di Annie non rasentarono la pura
disperazione.
Li guardava di sottecchi, in imbarazzo
perché ogni volta che
si soffermava più del dovuto gli sembrava di rubare qualcosa
che non gli
apparteneva. Non riuscì a trattenere un sorriso, ma insieme
alla tenerezza di
quel legame, cresceva dentro di lui il disagio. In un quadro
così perfetto e
armonioso si sentiva una macchietta nera, un refuso di stampa. Quella
sensazione di straniamento che già era causa di tormento
quando visitava sua
zia, in un contesto al di fuori della propria famiglia
risultò ancora più
forte.
La felicità degli altri, meschinamente,
lo sviliva.
«Ragazzi, la cena è
pronta!» li richiamò Melissa dalla
cucina, ponendo finalmente fine a quel supplizio. Daniele
scattò in piedi,
liberandola solo per esortarla, come se Arianna stesse cincischiando
volutamente «Avanti Ari, ho fame!» la
afferrò per le braccia e la sollevò senza
alcuna difficoltà.
Annie non smise di ridere «Tu hai sempre
fame, ti mangeresti
anche Giorgi se potessi!»
Il fratello le rispose con una smorfia costipata
«Nah, quella
peste mi resterebbe sicuramente sullo stomaco!»
Demian contemplò di fondersi con la
tappezzeria. L’ultima
volta che si era sentito così piccolo e meschino e aveva
desiderato di sparire
era un bambino incapace ed inutile. Tutta quella complicità
e il fatto che la
ragazza lo avesse completamente scordato non stavano aiutando la sua
autostima
sempre in bilico sul disastro.
D’un tratto Arianna si volse e gli tese
una mano «Vieni?»
Esitò solo un momento, poi si
aggrappò a lei con una
disperazione tale che Annie ridacchiò ancora.
La seguì in bagno e mentre si lavavano le mani
Arianna aggiunse, in
imbarazzo «Non prendertela con Dani, non lo fa apposta. Non
gli piace chi mi
gira intorno» le sue guance si erano appena colorate di rosso.
In quale modo
quest’informazione dovrebbe farmi sentire meglio?
Non glielo chiese per non infierire, né
specificò che volendo
osservare i fatti in maniera più oggettiva, si poteva
benissimo dire che fosse
lei quella che gli girava attorno, più che il contrario.
Quindi borbottò
melanconico «Deve succedere spesso»
Arianna era davvero bella e spigliata, certamente
avere un
seguito di ragazzi desiderosi di trascorrere con lei almeno qualche
minuto non doveva
essere insolito. Si sentì grato di tutta
l’iniziativa che Arianna stava
dimostrando nei suoi confronti, ne era contento soprattutto
perché non sarebbe
mai riuscito a fare altrettanto, non possedeva quella
spontaneità e quella
schiettezza.
«In realtà meno di quanto
pensi. Sai, mi considerano strana.
Hai sentito mia mamma, non porto nessuno a casa»
Non le chiese il motivo per non costringerla ad
affrontare un
argomento che per lei poteva essere spinoso.
«Vinco un premio?»
ghignò strafottente, gongolando per il
rossore che le macchiò il volto.
«Se vai avanti così vinci un
calcio nello stinco!»
A tavola la sua famiglia era già
raccolta: oltre a Daniele e
Melissa, c’era un bambino che doveva avere più o
meno l’età di Sarah ed un
altro ragazzo, o meglio un uomo.
«Lui è Giorgi»
Arianna indicò il più piccolo, intento a
sterminare briciole di pane sulla tovaglia «E lui
è Luca, il maggiore»
Il fratello più grande,
dall’aria decisamente più cordiale di
Daniele e l’espressione discreta di qualcuno in grado di
farsi gli affari
propri e non sparare giudizi senza riflettere, abbozzò un
sorriso gentile «Piacere»
«Lui è Demian»
chiarì allegra.
Giorgi abbandonò il genocidio di pane
per guardarlo mentre
Arianna si sedeva. La imitò in imbarazzo, gli occhi di tutti
i presenti si
puntarono su di lui e provò uno spiacevole
déjà-vu. I ragazzi a scuola lo
trattavano nello stesso modo, alla stregua di un animale da zoo, quando
cambiava classe e dovevano ancora abituarsi alla sua presenza.
«Sei il ragazzo di Ari?» la
sua voce infantile lo fece
sussultare.
Piccolo demonio
Arianna tossì e sputacchiò
briciole per la sorpresa.
«Ari non starebbe mai con uno
così» borbottò Daniele, e non
perse l’occasione d’incenerirlo. Non poteva nemmeno
dire che fossero partiti con
il piede sbagliato, non erano partiti proprio e basta.
Uno così come,
brutto stronzo? Cosa avrei che non va?
«È un amico»
tagliò corto Arianna, con un sorriso indulgente
al bambino, ignorando deliberatamente Daniele che sembrava davvero non
fare
sforzi per risultargli sgradevole. Melissa stava distribuendo equamente
le
porzioni di spaghetti quando si accorse che indossava ancora il chiodo
e il
berretto nero calcato in testa.
«Demian, non hai caldo? Puoi spogliarti
caro, rischi di
ammalarti se resti imbacuccato in quel modo»
Aveva lo stesso sorriso di sua figlia
all’apparenza, ma c’era
una nota stonata. La stessa piega delle labbra e le stesse fossette
appena
accennate non gli restituivano il medesimo calore, c’era
qualcosa di freddo in
lei, di forzato. Non avrebbe mai voluto mettersi a nudo di fronte a
persone
così maldisposte nei suoi confronti, conosceva
già i risultati, ma opporsi
sarebbe sembrato forse più insolito e disagiante.
«Dai, non preoccuparti, dammi pure il
giubbino. Te lo appendo
all’ingresso» insistette la donna andandogli
vicino. Con riluttanza le cedette
la giacca di pelle e liberò i capelli spettinati. La frangia
bianca si sparse
sulla fronte, senza il gel gli copriva gli occhi, la spostò
con un gesto
nervoso e fissò con ostentata sfida Melissa, che si era
bloccata di fronte a
lui in un’espressione di aperta e non troppo benevola
sorpresa.
«Ah. Beh, torno subito, mangiate
intanto» si defilò
rapidamente, lasciandosi alle spalle un imbarazzato silenzio. Demian si
scompigliò i capelli, si grattò il collo e
guardò Annie in una disperata
richiesta d’aiuto.
«Ari, il tuo ragazzo è
vecchio!» il piccolo nano malefico,
una spudorata finzione d’innocenza che avrebbe volentieri
defenestrato, se ne
uscì con la peggiore esclamazione scandalizzata che gli era
mai toccata sentire
«È più bianco del nonno!»
«Zitto stupido, è
albino» lo rimproverò Daniele con uno
scappellotto, mentre a sua volta veniva squadrato con biasimo e
disappunto da
Luca.
«Impara a stare zitto anche tu,
Dani»
Campioni di tatto e
diplomazia. Mi chiedo come abbia attraversato la vita intero
‘sto stronzo,
senza che nessuno gli abbia mai fatto ingoiare i denti per la sua
innata
simpatia
«Che cos’è un
albino?»
Arianna si colpì la fronte con il palmo
aperto della mano,
Demian fissò la pasta nel suo piatto e considerò
seriamente di affogarcisi
dentro o di spalmarla sulla faccia del bambino,
all’occorrenza.
«È un malato»
continuò Daniele mal celando il disprezzo «Giusto
quello che ci mancava»
Serrò i pugni e trovò la
forza interiore, un nirvana che
nemmeno sapeva di possedere, per non alzarsi, lanciarsi
dall’altro lato del
tavolo e prenderlo a calci ripetutamente. Piuttosto,
arrangiò un sorriso
tranquillo e scrollò le spalle.
«Per essere “un
malato” non sto tanto una merda»
Avrete anche gli
stessi occhi, ma con tua sorella non c’entri proprio un
cazzo, brutto stronzo
Daniele fece per rispondere ma Arianna fu
più lesta e feroce «Sei
un vero idiota!»
Demian lo vide trasalire e indignarsi come una
vecchia comare
offesa «Che?»
«Per carità Dani, ho sempre
saputo che non sei proprio un
genio, ma così stronzo non posso crederci! Sei un
cazzone»
Poteva quasi scorgere il fumo che le usciva dalle
orecchie,
era rossa di collera ed era scattata in piedi, come per cercare di far
valere
il suo sdegno con maggior forza. Demian si rilassò contro lo
schienale della
sedia. Era abbastanza deciso a mettere da parte le buone maniere per
litigare,
fosse stato necessario, ma era impossibile pensare di provarci se
Arianna
s’infervorava a tal punto al posto suo.
«Io
sarei un cazzone? E tu allora, che ti dai ai fenomeni da circo? Ma
dico, lo hai
guardato? Dove cavolo lo hai pescato questo! Porca miseria Ari, di
tutte le
cose di cui puoi aver bisogno, lui è sicuramente
l’ultimo della lista!»
Arianna
diventò pericolosamente paonazza «Tu che ne sai di
cosa ho bisogno? Fatti gli
affari tuoi!»
Si
depositò uno strano gelo tra i presenti, come se Annie
avesse toccato un tasto
dolente che a Demian sfuggiva. Daniele divenne mortalmente ostile,
nella sua
voce Dem rintracciò un profondo rancore «Adesso
devo farmi gli affari miei? D’improvviso
io non ne so nulla? Dimmi che non sei seria»
«Sono
stanca»
«Chiedimi
scusa, Ari»
Arianna
digrignò i denti e quei suoi occhi felini divennero linee di
gelido verde «Sei
tu che dovresti imparare il limite»
Giorgi
si era spaventato, era incredibilmente piccolo su quella sedia, si era
ritratto
e guardava i fratelli litigare con gli occhi grandi e allibiti. Anche
Melissa
era tornata, ma si era fermata sulla soglia della cucina e non sembrava
intenzionata a intervenire nella discussione dei suoi figli.
Questo
parve a Demian più assurdo di tutto. Non li fermava
né li riprendeva, era
l’immagine dell’impotenza. Fosse stata Jenevieve lo
avrebbe già appiccicato al
muro a suon di schiaffi, ma Melissa pareva che nemmeno respirasse. Luca
si
massaggiava la fronte esasperato ed anche lui dava
l’impressione di volere che
se la sbrogliassero da soli.
«Non
ci sono già abbastanza problemi? Devi preoccuparti per te
stessa, non fare la
crocerossina per un caso umano come questo qui! Basta guardarlo per
farmi
venire i brivi…»
«Ok, adesso basta. Vi ho lasciato fare a
sufficienza» il tono
perentorio di Luca bloccò Daniele dal concludere
l’adorabile lista di complimenti
che gli stava rivolgendo «Ora smettila di fare
l’idiota» la mano del fratello
più grande stritolò la spalla del minore
abbastanza forte da fargli fare una
smorfia scontenta.
«Non sei preoccupato che
lei…»
«Hai esagerato. Scusati
immediatamente»
Demian non era un genio, ma non gli ci volle molto
per
identificare in Luca il capobranco di quella marmaglia di fratelli
simpatici
come una manciata di ortiche nella maglietta. Davanti a quel tono secco
che non
ammetteva repliche, calò il silenzio.
Daniele tentò un’ultima volta
di ucciderlo con gli occhi,
fortunatamente doveva aver perso la lezione fondamentale sulle macumbe
nel suo
corso serale per stronzi, perché non riuscì a
dargli fuoco nemmeno questa
volta. Demian ricambiò l’occhiata con altrettanta
intensità, ma ci aggiunse un
sorrisino di scherno per rincarare l’odio.
Era l’unico ancora seduto e tranquillo,
non si era mosso di
un millimetro, non aveva fatto una piega nonostante la caterva
d’insulti, e
forse era proprio quel suo atteggiamento menefreghista che innervosiva
Daniele
più di tutto.
Con stronzetti come
te ci ho a che fare da che sono nato, sei un illuso se pensi che ti
darò
soddisfazione
«Scusa» sibilò
infine il fratello di mezzo, con la stessa
intensità con cui avrebbe potuto dirgli
“affogati”. Sbatté la mano sul tavolo e
spinse la sedia che cadde a terra con un tonfo pesante «Non
ho più fame»
Uscì dalla stanza teatralmente,
lasciandosi alle spalle un
profondo imbarazzo. Melissa, con la mano sulla bocca e gli occhi
spalancati,
gli sembrò uno scomodo e gratuito oggetto
d’arredo. Giorgi aveva le iridi
lucide, era solo un bambino e ci era rimasto male. Non gli piaceva
molto, non
gli piacevano i bambini in generale, ma avrebbe comunque preferito che
quella
discussione non si fosse consumata davanti a lui, era troppo piccolo e
non era
giusto.
Luca si passò ancora la mano sugli
occhi, sembrava stanco,
aveva profonde occhiaie e l’atteggiamento di un vecchio.
Tornò a sedersi e si
prese la testa tra le mani. In tutto questo, Arianna non si era
più mossa,
fissava la porta che aveva imboccato Daniele ma non la vedeva davvero,
gli occhi
umidi le appannavano la vista, inseguiva un pensiero che
l’aveva allontanata da
quella stanza. Le colò una lacrima, quando la
sentì scivolare sulla guancia si
riprese e con un gesto brusco si asciugò il viso. Poi si
voltò a guardarlo e
gli sorrise, senza riuscire però a cancellare la
mortificazione che provava.
«Scusa Dem, pessima idea. Avrei dovuto
saperlo, sarebbe stato
meglio non portarti qui»
La situazione gli sembrava troppo delicata e
incomprensibile
perché trovasse qualcosa da dirle, perciò scelse
ancora il silenzio.
«Vuole solo difenderti Ari, lo sai. Si
preoccupa per te, ti
adora» intervenne Luca, con la fatica di una persona che
quella frase l’ha già
ripetuta decine di volte e non sa più che strade tentare per
essere creduto.
«Al diavolo»
imprecò infatti Arianna, a confermare le sue sensazioni
«Per una volta, una volta soltanto, poteva rispettare una mia
scelta. Lo so che
gli ho rovinato la vita, ci provo in ogni modo a non fargli pesare le
cose,
però ci deve essere un limite, non posso annullarmi per lui!
Se le cose non
andassero come devono andare…»
s’interruppe, Demian sentì quella voce collerica
incrinarsi in un tremito di orrore. Stava per piangere.
«Voglio solo che ne stiate
fuori»
Luca era sbiancato, l’incarnazione della
pura costernazione «Ari
noi…»
Ho ascoltato
abbastanza, mi rifiuto di guardare oltre queste assurdità
Mi rifiuto di
sentire altro da queste persone, che vadano al diavolo
Scattò in piedi, afferrò la
mano di Arianna e la costrinse a
seguirlo senza permettere a Luca di continuare il loro discorso.
«Dem!»
«Andiamocene»
chiarì, diretto alla porta d’ingresso.
Incrociò
gli occhi grandi, nocciola, di Melissa e aggiunse per scrupolo
«È stato un
piacere signora. Non si preoccupi per Annie, non le farò
fare troppo tardi»
***
«Com’è che finiamo
sempre in un parco, io e te?» urlò Arianna
mentre correva verso lo scivolo, guardandolo da sopra la spalla con
quel
sorriso furbo che ormai, poteva anche ammetterlo, adorava.
«Ho un animo puro e innocente, anche se
sembro un teppista
drogato che gozzoviglia tutto il giorno. Ecco
perché!»
Mentre Arianna si arrampicava sul complesso di
legno con
l’ilarità di una bambina, Demian le andava dietro
tenendo il cartone di una
pizza margherita ritirata da poco eppure già tiepida. Visto
l’orario, erano
stati più che fortunati a riuscire a farsene fare almeno
una, ma già sapeva che
non gli sarebbe mai bastata. Guardò Arianna sparire dentro
la costruzione
simile ad un castello e la rivide spuntare poi sulla torretta.
A
modo suo, visto il
sorriso da paresi facciale, si stava divertendo.
«Muoviti, ho fame!»
Salì le scalette e si sistemarono in
mezzo ad un ponte di legno
sostenuto da catene traballanti che univa lo scivolo alla costruzione
adiacente, munita di altalene. Era strano vedere quei grandi spazi
verdi
completamente vuoti, le poche volte che Demian era stato lì
era d’estate,
durante la Festa della Birra, e in quelle occasioni oltre ad una
fiumana di
persone c’erano gli stand del cibo, tavoli sparsi ovunque e
il palco per i
concerti. Nel buio della tarda serata, l’unica cosa che
faceva loro compagnia
era una vecchia villa sopraelevata, un rudere posizionato su una
collinetta che
sovrastava il parco e che era stato eletto a biblioteca comunale.
Non ci andava mai, c’era sempre un clima
umido lì dentro, e
per raggiungerla bisognava attraversare una distesa di fanghiglia che
con le
piogge si trasformava in sabbie mobili.
«La Coca-Cola ce l’hai
tu?»
Arianna la recuperò dalla tasca della
giacca e gliela
sventolò davanti agli occhi come un trofeo. Si accorse
troppo tardi che la
peste la stava aprendo.
«No, aspetta!»
Il liquido fuoriuscì in
un’eruzione di schiuma che travolse
Arianna completamente. L’espressione basita gli
strappò una risata senza
ritegno «Non puoi agitarla così e poi aprirla,
genio!»
Ari fissava le mani appiccicose e la bottiglia
ormai
dimezzata con una perplessità incredula, neanche avesse
assistito a chissà
quale incredibile reazione chimica. Alla fine ridacchiò
anche lei, più per
l’imbarazzo.
«Non ci avevo pensato. Passami un
tovagliolo!»
«Non ti conviene andare alla fontana a
lavarti? Sei più
appiccicosa della carta moschicida»
Arianna rispose con una smorfia insofferente da
bambina
testarda «Dopo, adesso ho troppa fame!»
In quel momento a guardarla non si sarebbe mai
detto che meno
di un’ora prima avesse avuto una furiosa discussione di
famiglia. Demian aveva
deciso di restare neutro e non farle domande, non aveva nemmeno capito
cosa
fosse successo e non sapeva quanto avrebbe dovuto effettivamente
preoccuparsi
per lei.
Aveva capito soltanto che Arianna era fin troppo
brava a
nascondere le cose. Certo, non mentiva, però neanche gli
diceva la verità. Se
non fosse stato presente, non avrebbe mai saputo della discussione,
Arianna
seppelliva le emozioni negative da qualche parte e fingeva che tutto
fosse in
ordine. Non se la sentiva di biasimarla, nessuno poteva comprenderla
meglio di
lui, era il primo che faticava a scendere a patti con la
realtà.
Per questo non faceva domande, non era suo diritto
costringerla ad affrontare situazioni che non voleva vedere, non la
conosceva
abbastanza, non conosceva nemmeno le sue ragioni e senza quelle, ogni
parola
detta sarebbe stata vuota, un pour parler gratuito.
Non che Arianna avesse avuto con lui lo stesso
timore, ma
forse era diverso, forse lo aveva forzato perché lo aveva
capito, che Demian
aveva sfiorato il proprio limite di sopportazione. I pesi che si
trascinava
dietro lo stavano inchiodando e ormai non si muoveva quasi
più. Gli sembrava di
potersi cementificare al suolo.
Quanto è grande il
peso di Annie?
Lei che cosa deve
sopportare?
Arianna, completamente ignara dei suoi pensieri,
canticchiava
mentre sventrava la pizza con le mani
«Cazzo, gli avevo detto di tagliarla
già a fette» borbottò
quando si accorse di quel disastro. Annie, le dita sporche di pomodoro
e l’aria
malandrina, rise «Così è più
divertente. Se vuoi ne strappo una fetta anche per
te!»
«Hai un opinabile senso del
divertimento. Ci vuole un certo
coraggio per chiamare fetta quella cosa»
Arianna arricciò le labbra
«Ti sfido a fare di meglio»
Guardò la carcassa di quella che era
stata la sua pizza
margherita con desolazione «L’hai distrutta, anche
volendo non posso fare di
meglio. Guarda come l’hai ridotta!»
Arianna lo imitò e sollevò
l’angolo destro della bocca in una
linea saccente «Non devi vergognarti se ti serve
aiuto»
«No grazie. Me la
caverò»
Dieci minuti dopo, la situazione era disastrosa e
Arianna non
perse l’occasione di prenderlo in giro per tutta la durata di
quella cena
improvvisata. Finì con lo spalmarle il pomodoro sulla
faccia, per ripicca,
senza considerare che l’indole dispettosa della ragazza
avrebbe segnato la sua
fine. Quando si ritrovò incastrato nell’angolo,
con le braccia a tenerle i
polsi mentre Arianna si dimenava grottescamente con le dita sporche per
macchiargli il naso, capì che al di là di tutto
lei non fingeva. Non
accantonava tutto, non si fingeva entusiasta e infantile,
quell’esuberanza era
reale, era lei.
Glielo leggeva negli occhi felini accessi
d’entusiasmo, in
quella risata contagiosa che lo portava a ridere a sua volta.
Alla fine di quello scontro tra titani, Demian si
passò la
mano sulla guancia e considerò «Devo farmi una
doccia»
«Ne hai un po’ anche sui
capelli!» ridacchiò sommessamente
lei, accasciandosi sulla sua spalla «Però non
è così male mangiare insieme.
Visto?»
La cinse con un braccio ridendo, gli sembrava di
avere
accanto una bambina che aveva sfogato tutte le sue energie ed ora era
sfinita e
letargica.
«Magari la prossima volta cuciniamo
qualcosa a casa mia, ok?
Sei peggio dei bambini, sei tutta sporca» ridacchiarono e si
picchiarono dentro
con le spalle.
Le parole che Daniele le aveva rivolto gli
ritornarono alla
mente però, ed un tratto s’incupì.
Anche la risata di Arianna andò smorzandosi.
Avrebbe voluto sapere perché suo padre
non ci fosse, a quel
tavolo, quale fosse esattamente la situazione che lei diceva
condividessero.
Pensò che forse era proprio il padre di Arianna a stare
male, gli altri
sembravano stare tutti bene e lui era l’unico assente
inspiegabile.
Anche lei parla come
una persona che sta perdendo qualcuno
Non posso chiederle
una cosa tanto importante se non se la sente di dirmelo.
Io non gli avrei
detto di maman, se non l’avesse già conosciuta
«Annie…»
Tatto, usa il tatto
Non puoi ignorare
quello che è successo… non è sano
«Come stai?»
Silenzio.
Il buio sembrava più fitto in
quell’improvviso nulla di
parole.
Arianna gli si accoccolò al petto, la
fronte gli sfiorò la
clavicola, alla ricerca di un rifugio, lo stesso che quel pomeriggio
anche lui
aveva trovato nell’abbraccio di lei. Sentì che non
poteva abbandonarla, che
erano due anime simili in maniera dolorosa, si portavano addosso una
solitudine
diversa, una seconda triste pelle che respingeva il mondo. Era un
sentimento di
comunione così raro che andava preservato.
«Sto bene, tranquillo. Non dare troppo
peso a quello che è
successo. Tra fratelli è normale litigare, no?»
prese fiato e si scostò per
guardarlo negli occhi e sorridere «Ma probabilmente tu non lo
fai mai. Tu adori
Sarah»
«Anche tuo fratello ti vuole
bene»
Era tanto affezionato a lei da diventare morboso,
non ci
voleva uno scienziato per capirlo. Il labbro inferiore le
tremò, le iridi
smaltate di verde si inumidirono ancora e Demian pensò che
avrebbe pianto: per
qualcuno come lei, che aveva imparato ad esprimere solo la propria
gioia e non
il dolore e la frustrazione, sarebbe stato un bene. Però
Annie si piantò gli
incisivi buffi nelle labbra e si costrinse a sorridere ancora, con gli
occhi
tristi.
«Lo so. Davvero, non ne ho mai
dubitato»
Demian le sfiorò la linea della
mandibola con la punta delle
dita, a definire il contorno del suo viso tanto bello,
deglutì e un groppo si
incastrò in gola.
«Un giorno mi dirai di cosa stavate
parlando?» gli sfuggì. Non
voleva chiederle nulla ma sì, realizzava, quasi con
meraviglia, che avrebbe
voluto sapere, che era davvero interessato a sapere. Arianna prese le
distanze
e scrollò la testa in un gesto di noncuranza
«È una sciocchezza di poco conto»
Demian riabbassò il braccio lentamente,
si sentiva già
svuotato, non era bravo a discutere e due muri non si scavalcavano a
vicenda,
restavano radicati nella loro rigida posizione. Strizzò le
labbra in un moto di
stizza e annuì piano, colmo di rancore per quella
confessione mancata.
Lui le aveva dato Sarah, le aveva parlato
dell’unica ragione
per cui esisteva. Arianna era stata un incentivo abbastanza grande da
spingerlo
a parlare di sua sorella, ma lo scambio non era stato vicendevole, non
le aveva
trasmesso il medesimo senso di sicurezza.
«Non prendertela»
«Non me la sono presa»
Arianna sospirò e nel suo viso spianato
dalla serenità tornò
il tormento «Sì invece»
torturò il labbro inferiore «Lo farò,
ma non ora. È
meglio, veramente. E poi davvero è meno importante di quanto
sembri»
Annuì ancora, si era già
rassegnato a rispettare il suo volere.
Per i propri standard si era spinto fin troppo oltre
l’insistenza e non avrebbe
tollerato di farle altra domande. Che Arianna facesse qualunque cosa
pur di non
dare mai spiegazioni era ormai evidente, e Demian si ripromise che, da
quel
momento in poi, qualunque cosa fosse successa, avrebbe aspettato che
fosse lei
a confidarsi e avrebbe ingerito qualunque pretesa di risposte che in realtà
non lo riguardavano.
«Ho
promesso a tua madre che non ti avrei fatto
fare tardi» le fece notare, per cambiare argomento. Annie si
aggrappò al
cordoncino del suo giubbino e iniziò a giocarci
distrattamente
«Non è tanto tardi»
«Non è nemmeno
presto»
Gli mise il broncio, una paperella stizzita sporca
di
pomodoro secco.
«Non vuoi andare a casa»
Annie scosse la testa in segno di diniego, senza
dipanare la
fronte corrucciata e alzare gli occhi dal cordoncino, come fosse la
cosa più
incredibile e particolare mai vista invece di un pezzetto di corda
usurato dal
tempo.
Demian prese fiato e raccolse un po’ di
coraggio
Più autolesionismo
che coraggio, non prenderti per il culo da solo
«Resti a dormire da me
stanotte?»
Arianna abbandonò quel maledetto
cordoncino per guardarlo
negli occhi, nel momento meno opportuno visto l’imbarazzo
infantile che lo
stava ghermendo
«Non pensare male, volevo solo stare con
te. Per non
lasciarti sola intendo. Se non vuoi vedere tuo fratello, intendo!
Sarò un
perfetto gentiluomo»
La disgraziata rilassò le spalle e gli
sorrise «Come avere
una sorella, insomma!»
«Vorrei
continuare a fare la pipì in piedi, se non ti dispiace! E
non ti farò le
treccine» stranamente, riuscì a farla ridere di
gusto. La simpatia non era mai
stata il suo vessillo, strapparle una risata sincera e diventare il
Gauguin del
duemila sembravano imprese impossibili allo stesso livello.
«Ok, va
bene» ridacchiò lei, sollevando gli occhi al cielo
«Però domani dovrei essere
in ospedale per le nove»
«Nessun
problema»
«Potresti
non sorridere come un pirla? Sarai la mia sorellina per una notte, non
farti
strane idee, caro il mio marpione del parcheggio!»
Se il
ponticello di legno gli fosse mancato sotto il sedere e fosse
precipitato a
terra dritto sull’osso sacro, avrebbe desiderato di meno
avere una pala da
tirarsi in testa per poi auto-seppellirsi.
«Non
stavo pensando niente di strano, non sono un marpione!»
urlò in un’istintiva
difesa inconscia per la quale si vergognò ancora di
più. Aveva la pelle calda,
doveva essere arrossito.
La situazione
non poteva peggiorare.
«E
comunque non c’è problema. Ti do un passaggio
io» riprese per far cadere
l’argomento e spostarsi su lidi più tranquilli e
agibili anche per lui. La
osservò asciugarsi gli occhi lucidi, questa volta per
l’eccesso di risate.
Bene, prendermi in giro ormai è
diventato
uno sport.
«Posso
mandare un messaggio a Luca con il tuo cellulare?»
Ancora
immusonito, se lo sfilò dalla tasca e glielo porse. Arianna
iniziò a digitare
velocemente sulla tastiera, ma prima di spedirlo si fermò a
guardarlo a sua
volta, con perplessità
«Ma tu a
scuola non ci vai mai?»
Scosse i
capelli e si mise a ridere. Lei e Sarah avevano davvero molto in comune.
«Sono un artista.
Io non studio, io creo!»
***
«Non
hai mai pensato di andare a vivere con i tuoi zii?»
Demian
non si aspettava quella domanda. Sdraiato sul suo letto,
scostò il braccio che
gli copriva il viso per poterla guardare mentre si aggirava incuriosita
per la
stanza, un animaletto selvatico in cattività.
«Qualche
volta»
Lalami,
appallottolata contro il suo petto, si stiracchiò stendendo
le zampine goffe da
orsetta. Era troppo tenera in quei momenti, quando dormicchiava e
poteva
scorgere solo la linea rosa degli occhi chiusi, sembrava eccessivamente
piccola, delicata, gli veniva voglia di stringerla fortissimo e
riempirla di
baci. A volte le faceva le pernacchiette al pancino, ma questo non lo
avrebbe
mai ammesso nemmeno sotto tortura.
Vista
la presenza di Arianna nella camera, si
limitò ad accarezzare la cucciola con fare distratto. Annie
nel mentre non
aveva smesso un solo istante di osservare ogni dettaglio: si era
incantata di
fronte all’unica parete sgombra e la studiava con lo stesso
rapimento dedicato
ad un’opera d’arte. Demian ne provava un discreto
imbarazzo. Aveva rivestito
lui stesso il muro con un pannello di legno e nel tempo lo aveva
riempito di
immagini e scritte.
Era
il suo muro delle meraviglie, o meglio la più banale e
becera espressione della
sua giovinezza ribelle e incompresa. Lo faceva stare bene riportare per
iscritto le citazioni che più lo affascinavano, eppure
davanti ad un estraneo
che frugava quei pensieri si sentiva ridicolo.
«”Il
n'y a pas de néant. Zéro n'existe
pas. Tout
est quelque chose. Rien n'est
rien”» lesse Arianna
goffamente a bassa voce, in un sussurro, e
poi si voltò appena, lo guardò con le labbra tra
i denti e una guancia gonfia,
il cipiglio aggrottato e buffo di chi cerca di sbrogliare un pensiero.
Era
terribilmente espressiva, Demian gliene dava atto. In realtà
era proprio quella
sua capacità di giocare con il proprio volto, neanche fosse
di gomma, a
renderla già di partenza, senza bisogno di parole,
così dannatamente
interessante.
«”Non
c’è il nulla. Zero non esiste. Ogni cosa
è qualche cosa. Niente non è niente”»
tradusse istintivamente per lei.
«L’ho
già sentita»
Le
sorrise «È una citazione di Hugo. Lès
Miserables, per l’esattezza. Se guardi
nell’angolo in basso ce n’è
un’altra
sempre sua» esitò, si grattò il collo
pigramente e aggiunse incerto «È uno dei
miei scrittori preferiti»
Guidata
dalle sue parole, Arianna si era già chinata ad esaminare il
luogo incriminato «”Tous
les hommes sont la même argile. Nulle
différence, ici-bas du moins, dans la
prédestination. Même ombre avant, même
chair pendant, même cendre
après”»
«”Tutti gli uomini sono fatti della stessa
argilla; nessuna differenza, almeno quaggiù, nella
predestinazione; la medesima
ombra prima, la medesima carne durante, la medesima cenere
dopo”» Arianna si
lasciò sfuggire un sospiro gravido di rammarico.
D’un tratto pareva afflitta,
avvolta da un nuvolone carico di pioggia. Demian non la capiva, aveva
uno
spettro emotivo così vario da mandarlo in confusione.
Tentò ancora di sorriderle
«Cosa
ti prende adesso?»
I
suoi eccessivi sbalzi d’umore gli davano il capogiro, un
momento sembrava
avesse raggiunto il Nirvana, l’attimo dopo si oscurava e una
tristezza
inspiegabile rendeva la sua aura nera e pesante.
«Ti
pesa molto, non è vero?»
Il
muscolo della mascella si contrasse in uno spasmo involontario. Finse
confusione, non aveva effettivamente afferrato che cosa intendesse, ma
lo
intuiva e quella domanda non gli piaceva per nulla. Sperava di
scoraggiarla, ma
Arianna accennò un sorrisino compassato.
«Sono
una stupida, non ci avevo mai pensato. In verità nemmeno ci
ho mai fatto caso.
Ma il resto del mondo sì, né? L’ho
capito dalla faccia della mamma… e da quello
che ti ha detto Dani» si afferrò il braccio
sinistro, stretta in se stessa in
quel modo sembrava ancora più sottile «Mi dispiace
di essere stata… indelicata.
Avrei dovuto avere più tatto, pensarci. Era per questo che
non volevi venire a
casa mia?»
«Non
voglio che ci pensi» il tono eccessivamente lapidario la fece
sussultare. Si
mise a sedere e abbozzò un sorriso che voleva essere
rassicurante, per farle
capire che non era arrabbiato. Quando esitava, gli occhi di Arianna si
spalancavano e ingrandivano al punto che gli sembrava potessero
inghiottire
qualunque cosa, un buco nero senza ritorno, lo scivolone più
spaventoso e
imprevisto della sua vita. Dubitava ci si potesse realmente abituare
alla
profondità di uno sguardo tanto innocente.
«Io
non ci penso mai, quando sto con te. È bello, per una volta.
Essere “normale”
intendo. Almeno, esserlo più o meno» solamente ad
osservarla gli veniva da
ridere, aveva un’aria disastrosa e arruffata, una piccola
catastrofe che si
aggirava in casa sua con l’aspetto di una ragazzina gracile
dai capelli ricci
ribelli e spettinati raccolti in una coda quasi del tutto sfatta, una
bretella
della salopette scivolata sgraziatamente dalla spalla esile
«Accanto a te
praticamente chiunque risulta normale, anche io!»
Arianna
si gonfiò come una vecchia gallina offesa e
sfoderò una linguaccia infantile
accompagnata da una poco elegante pernacchia. Le si leggeva in viso che
comunque era sollevata e le aveva tolto un peso.
Di
lei gli piaceva l’inconsapevolezza. Quando ci rifletteva, gli
pareva quasi che
Annie avesse vissuto una vita fuori dal mondo e le mancassero alcune
nozioni
base che si apprendono solo a contatto con gli altri. Come i
pregiudizi. Per
questo preferiva che un argomento delicato come il suo albinismo non
venisse
toccato più, non con lei almeno: il solo pensiero che
potesse iniziare ad
apparire estraniante anche agli occhi di Arianna era insopportabile,
non
avrebbe retto la pietà da lei, la sua diversità
sarebbe stata troppo reale, se
anche un occhio privo di giudizi a priori lo avesse compatito.
«Beh,
visto che dormo qui, dammi qualcosa da mettere. Non ho il
pigiama!»
Si
risvegliò bruscamente dal suo stato ideale e
realizzò in che situazione era
andato a cacciarsi. La saliva gli andò di traverso e quasi
si soffocò.
Tossicchiò,
cercando di riprendere il controllo.
Sei
un idiota. Come avevi fatto a non
considerare che avrebbe messo qualcosa di tuo?
Il
pensiero di vederla con indosso una delle sue magliette era
estremamente
eccitante, fece un rapido calcolo e imputò la colpa di
quell’improvvisa
perversione al troppo tempo trascorso dal suo ultimo incontro con
Elena. Era in
astinenza, e non era il massimo avere intorno una ragazza come Arianna,
per lui
evidentemente ideale e bellissima.
«Primo
cassetto» raffazzonò una risposta senza guardarla,
schiarendosi poi la voce
arrochita. Arianna recuperò dalla cassettiera vicino
all’armadio la prima
maglietta della pila, che risultò essere quella dei Bon Jovi.
«Quindi
è questo il tuo vero genere?» constatò
con un ghigno.
«Ovviamente!
E quella è nuova, vedi di trattarmela bene»
Arianna
la girò per guardare le tappe del Tour sul retro
«Ah, ma è di quest’anno!»
Demian
si lasciò andare ad un sorriso gongolante pieno di
soddisfazione, che poco
aveva a che fare con le sue consuete smorfie sornione
«Ventisette giugno,
esatto! Abbiamo fatto una fatica assurda ad andare, Jules aveva la
maturità e
ha fatto un sacco di storie, ma ne è valsa la pena.
È stato uno dei concerti
più esaltanti della mia vita! E poi vuoi mettere? Sentire Livin’ on a player dal vivo
è tutta un’altra cosa, ha proprio
un’energia diversa! E vogliamo parlare di
Bad Medicine? Credo di non aver mai urlato tanto! Se ci penso
mi viene
voglia di cantarla ancora!»
Ammutolì
perché Arianna era scoppiata a ridere «Credo di
non averti mai sentito parlare
tanto! Te lo giuro, è la primissima volta. Me lo devo
annotare che la musica ti
esalta parecchio!»
Si
morse l’interno della guancia e per dignità
personale tentò di mascherare il
disagio sollevando gli occhi al soffitto.
«Non
è che mi esalti… mi aiuta a creare.
Circa»
Una
verità a metà era meno dannosa di una completa
bugia. Era la droga a renderlo
creativo, la musica era più che altro una reminiscenza
infantile,
un’associazione mentale a sua madre.
Forse
anche a suo padre.
Probabilmente.
Ma
non lo avrebbe mai ammesso e nemmeno accettato.
«Bene,
vado a cambiarmi. Il bagno dove è?»
Abbassò
la testa e borbottò le indicazioni, poi si sdraiò
dandole la schiena, per non
mostrarle chiaramente che il pensiero di lei nuda bastava a farlo
arrossire.
Pensava di essere diventato abbastanza immune, Elena lo aveva abituato
a
situazioni molto più estreme e imbarazzanti, ma
c’era qualcosa in Arianna che
gli rendeva tutto più difficile.
Mi
verrebbe voglia di andare a dare
un’occhiata, giusto per farmi un’idea.
La
trovata peggiore che avrebbe potuto avere, Annie gli avrebbe spaccato
la testa
senza remore. Poche ore prima l’aveva vista in uno stato di
alterazione
abbastanza aggressivo da renderlo più consapevole dei rischi
in cui sarebbe
incappato se l’avesse fatta arrabbiare.
Non
ne vale la pena, è troppo
violenta. Se mi prende è la volta che è lei ad
uccidermi
«Ehi Dem, mi senti?»
la sentì urlare oltre la porta chiusa del bagno.
«Sì»
«Che altro ascolti?»
Si grattò la testa,
riflettendoci senza troppo sforzo «Mhm, non saprei. Direi
tutto»
La sentì ridere
ancora «Troppo generale, non riesco a farmi un’idea
così. Potrei pensare, che
so, che magari ascolti Gigi D’Alessio»
Aggrottò le
sopracciglia «E chi sarebbe?»
«Appunto!» esclamò
ancora lei con tanta ovvietà e forza che quasi gli pareva di
averla lì accanto
e non ci fosse un tratto di corridoio e un muro a separarli. Anche sua
madre
aveva la brutta abitudine di parargli da camere di distanza, era una
cosa che
lo faceva impazzire perché maman era sorda e non sentiva mai
le sue risposte,
così lo costringeva sempre o a raggiungerla, interrompendo
qualunque cosa
stesse facendo, o ad urlare ancora più forte.
Ci si scorticava la
gola, a parlare con quella donna impossibile.
«Voglio dei nomi,
sei sempre troppo vago!»
Scattò nuovamente a
sedere, basito «Che eresia hai appena detto? Io sarei troppo
vago? Vogliamo
parlare di te?»
Il cigolio della
porta del bagno che si schiudeva e la voce nitida di Arianna che
sbuffava
impaziente «È completamente diverso come lo faccio
io!»
Si ritirò lasciando
la porta aperta, perché Demian sentiva perfettamente il
rumore dell’acqua che
scorreva nel lavandino.
«Io non ci vedo
questa grande differenza»
«Pensi di
rispondermi o no?» non lo disse nitidamente, Demian dovette
decodificare le
parole della frase, bofonchiata a bocca piena. Si stava lavando i denti
con lo
spazzolino di riserva che le aveva ceduto, ma questo non bastava di
certo a
zittirla.
«Scorpions, Ufo,
Police, Rolling Stones, Green Day, Red Hot; è difficile,
davvero ascolto di
tutto. Ah, gli Iron Maiden, Nightwish, i Clash. Oh, e sopratutto i Sex
Pistols
e i Led Zeppelin»
In realtà pensare a
qualche nome apriva la porta ad un’infinità di
nomi, era difficile fare una
selezione musicale per lui, che spaziava dal genere classico al rock,
dal metal
al pop. I suoi gusti erano incongruenti quanto la sua stessa persona.
Nella sua
testa la lista proseguiva, un vano tentativo di non pensare ad Arianna,
nella
stanza vicina, che si spogliava per indossare i suoi vestiti. Una prova
di
forza di volontà inaspettatamente difficile.
«Ci sono! Lavata e
vestita, non potrai più lamentarti che sono appiccicosa di
Coca Cola» Annie
spuntò nel suo campo visivo raggiante e soddisfatta, e
Demian rischiò di nuovo
l’auto-soffocamento.
«Vestita è una
parola grossa!»
La maglietta, per
quanto su di lei immensa, la faceva sembrare più svestita
che altro. Le
arrivava a metà coscia e concedeva una perfetta visuale
delle sue gambe, un po’
magre ma lunghe e flessuose come le aveva immaginate. La taglia
eccessiva
rendeva lo scollo troppo ampio e questo era finito per caderle, come
quasi ogni
maglia, sulla spalla, mostrando la linea perfetta della clavicola e
dando un
colpo definitivo alla sua già galoppante fantasia sessuale.
Ha le spalle troppo
sottili, non c’è altra spiegazione,
non è possibile che qualsiasi maglietta metta il risultato
sia sempre lo stesso!
Le avesse gettato
addosso un sacco di iuta probabilmente avrebbe ottenuto ancora un
effetto da
cartone giapponese osé di dubbio gusto. Con i riccioli
sciolti sulla schiena e
le spalle, ad accarezzarle la pelle candida, era davvero bellissima. Se
poi
sommava al suo corpo quell’aria da bambina innocente e
smarrita appena uscita
dal paese delle meraviglie, le sue sinapsi collassavano per
surriscaldamento e
tanto valeva gettarsi ai suoi piedi e dirle che sì,
effettivamente poteva fare
di lui quello che voleva.
Arianna non aveva
una grande percezione di se stessa, e questo era ciò che
più di ogni altra cosa
lo fermava dal farle qualunque forma di avance o apprezzamento, era
assurdamente inconsapevole e si muoveva con una nonchalance disarmante.
«Guarda che non è
colpa mia se la tua maglia non è abbastanza lunga. E
comunque, di tutti quelli
che hai detto conosco solo i Green Day»
«Lo immaginavo»
borbottò, ma non stava veramente prestando attenzione. Stava
solo cercando di
non fissarla come un pervertito.
«Allora mi dai dei
pantaloni o devo davvero restare così?»
Demian sollevò
appena l’angolo destro della bocca, in un sorriso ferino con
il canino storto
scoperto «Potrei seriamente pensarci»
Annie s’imbronciò e
lasciò vagare gli occhi inquieti per la camera
«Almeno dimmi dove dormo»
Si sentì
decisamente provocato, in quel contesto, così decise di
renderle l’imbarazzo,
batté la mano sul letto accanto a lui e sfoderò
tutta la malizia di cui fosse
capace «Qui ovviamente» ammiccò.
Arianna trasalì e
quasi gli venne da ridere
Ecco, adesso come
minimo attenta alla mia vita. Ma almeno
ne è valsa la pena!
Sottovalutava
sempre quella ragazzina pestifera. Dopo un breve frammento di
smarrimento,
Annie sbatacchiò gli occhioni in una morbida espressione
colma di languore che
gli seccò la bocca. Mentre cercava di deglutire, o perlomeno
di respirare
scacciando qualunque pensiero non adeguato ad un’anima acerba
e candida come
quella di lei, Arianna si avvicinò lentamente, quasi
studiando ogni passo.
C’era una goffaggine immatura, in quel tentativo di fare la
predatrice, eppure
era tanto bella che persino la sua inesperienza la rendeva
più affascinante.
La osservò chinarsi
verso di lui, accostare pericolosamente il viso al suo.
Demian deglutì a
vuoto e pensò che forse non era vero che doveva accantonare
tutte le sue
fantasie sessuali, forse Annie ci sarebbe anche stata.
Era veramente
troppo bella per non sperare che ci stesse.
Arianna strusciò la
punta del naso sul suo collo, ne sentiva il respiro caldo e leggero,
trattenuto, e il contatto di quella punta irriverente che disegnava una
linea
invisibile sulla sua gola, fino all’orecchio. Quelle labbra
dispettose gli sfiorarono
la guancia nell’accenno di un bacio
«Dem…»
«Mmm?»
La sentì
allontanarsi bruscamente. Spalancò gli occhi, colto alla
sprovvista, e la
ritrovò a pochi centimetri da lui, con un sorriso immenso e
provocatorio «Ma
dai, davvero avresti voluto una cosa simile? È
così un cliché!»
Il suo ghigno
perfetto e perfettamente irritante che lo sfidava con irriverenza, lo
umiliò.
Le dedicò un’occhiataccia colma di disprezzo, per
riassumere un contegno e
nascondere la portata della delusione.
Sei un idiota, ha
ragione lei. Come cacchio hai fatto a
pensare che fosse seria.
«Ti stavo solo
assecondando» arricciò il naso.
Arianna gli sorrise
e scrollò le spalle «Quindi, quando mio fratello
si guarda i porno veramente
vorrebbe certe cose. Adesso sono un po’ turbata! Dai, fammi
posto»
«Che?»
«Hai detto che
dormo qui, no?»
Ora il turbato sono io!
Considerando che
aveva davanti un’ingenua senza speranza, forse più
di quanto non lo fosse stato
lui qualche minuto prima, e considerando che era bella, bella in modo
assurdo,
che gli rimestava qualcosa che proprio non riusciva a spiegarsi, la
situazione
per lui stava sfiorando un limite pericoloso. A pensare di toccarla si
sentiva
sbagliato, come se facendolo stesse provando a sporcare qualcosa di
pulito. La
medesima impressione che gli restava addosso quando nevicava ed era
costretto a
rovinare la purezza e la compattezza di tutto quel bianco con le
proprie
impronte, scalfendo così un’ideale di perfezione.
Arianna era perfetta, forse
in quel momento più di quanto non lo sarebbe mai stata in
futuro. Forse perché
pecche ancora non poteva averne, non gli era dato di conoscerle,
avvolta com’era
in quel suo alone di sorrisi furbi e traviatori.
Quel limite, per
quanto davvero lo desiderasse, non lo avrebbe mai varcato. Avrebbe
fatto il
bravo
Arianna non
è Elena
In realtà, in quel
preciso istante, Annie era esattamente ciò che era stato lui
a suo tempo di
fronte all’infermiera: un’inconsapevole.
Però nemmeno lui sarebbe stato Ellie,
non avrebbe commesso lo stesso errore, non avrebbe fatto mosse che lo
avrebbero
fatto pentire in futuro, non mentre Arianna gli si affidava con cieca
fiducia
in un momento di debolezza e sconforto in cui cercava solo un luogo
sicuro dove
nascondere la testa dalle cose brutte.
Avrebbe rispettato
il suo bisogno e le avrebbe permesso di fare lo struzzo e di cacciare
la testa
sotto la sabbia, almeno per quella notte. Aveva perso il conto delle
volte in
cui lui stesso avrebbe desiderato quella gentilezza e quella
comprensione per
sé.
Si alzò e recuperò
dall’armadio un paio di pantaloncini neri da calcio, che le
passò senza dire
nulla. Arianna li afferrò al volo, ridacchiò e li
indossò senza fare storie.
Poi scostò Lalami,
ancora stravaccata sopra le coperte, e si infilò nel letto.
«Su, ti faccio
posto, muoviti!»
«Ma che stai…»
Arianna si sfregò
gli occhi con le mani a pugno, un gesto che aveva il gusto di una
regressione
all’infanzia dovuta alla stanchezza.
«Dormo, ovvio. Ho
tanto, tanto sonno. Spegni la luce, per favore?»
Demian rimase
interdetto, immobile per qualche istante, a fissare
quell’alieno in forma umana
che aveva impunemente occupato il suo territorio. Poi
sospirò rassegnato, prese
Lala in braccio e si arrese «Allora io vado in camera di
maman. Buona notte»
Arianna si sporse
subito e si affrancò alla sua maglietta per trattenerlo con
inaspettata forza
«Non serve, resta
qui. Tanto ci stiamo. Non sono abituata a dormire da sola, condivido la
stanza
con Giorgi, se sono sola non prendo sonno»
Tentennò, rimase in
piedi di fronte a lei come un perfetto sciocco. Lalami, tra le sue
braccia,
aveva preso a leccargli e smangiucchiargli parte della maglietta,
Arianna
restava a guardarlo dal basso, quasi con supplica, come se davvero il
pensiero
di dormire sola le mettesse angoscia. La sua aria spaurita gli diede
l’incentivo che non riusciva a trovare.
Non è una
buona idea, è una pessima idea
La sua sanità
mentale sarebbe andata definitivamente in pensione, ma si riteneva in
bilico
già da così tanto tempo che una spintarella in
più verso il baratro non avrebbe
fatto una differenza eccessiva. Sistemò Lala in fondo al
letto, spense la luce
e la raggiunse sotto la coperta. Le diede la schiena, ma questo non
fermò
Arianna che si accoccolò vicino a lui prima di cacciare un
profondo sbadiglio.
Gli sembrava
impossibile contemplare seriamente di addormentarsi.
La sentiva a
ridosso del suo corpo, sentiva le gambe fredde che sfioravano le sue,
sentiva
la presa a pugno di quelle mani tonde affrancate alla sua maglia.
Il profumo dei
riccioli sparsi sul cuscino.
E si meravigliava
di se stesso. Negli anni si era convinto di aver sviluppato uno
standard troppo
alto con le donne, per colpa di Elena. Qualunque ragazza gli si fosse
avvicinata, non era mai riuscito a provare più di un banale
apprezzamento,
un’attrazione pigra e blanda. Arianna invece pareva la
bellezza personificata,
ed era ridicolo perché non era vero. In uno spietato
confronto con Elena, Annie
razionalmente avrebbe perso. Ellie era l’incarnazione della
bellezza da rivista
patinata, inarrivabile e da togliere il respiro, concreta. Troppo
concreta, una
bellezza profana.
Eppure,
l’attrazione che in quel momento lo rendeva una statua di
ghiaccio non l’aveva
mai sentita prima e ne provava quasi un senso di panico.
I piedi di Arianna
s’infilarono a tradimento tra i suoi.
Questa ragazza non
conosce pietà!
«…Ehm. E tu Annie?
Che musica ascolti?»
La sentì mugugnare
una risata contro la sua spalla «Inorridirai di
sicuro»
«Prometto che non
farò l’acido»
«Mi piacciono gli
883. Ah, anche i Beach Boys» nel momento stesso in cui lo
disse si mise di
nuovo a ridere «Le loro canzoni mi mettono sempre di buon
umore!»
Aggrottò le
sopracciglia nello sforzo di ripescare qualcosa dai meandri della sua
memoria,
ma si rese conto ben presto di non avere idea di chi fossero.
«E chi sarebbero?»
Ed eccola che
sbuffava già esasperata «Lo sapevo. Dai, non puoi
non conoscerli per davvero!
Hai presente Surfin USA?»
Si morse l’interno
della guancia, ma non fece in tempo a negare che Arianna si era
già lanciata in
un canto in falsetto terribilmente stonato
«If everybody
had an ocean
Across the U.S.A
Then
everybody’d be surfin’
Like
California…»
Demian rotolò sul
fianco per potersi girare e tapparle la bocca prima che si spingesse
troppo
oltre
«C’est bon! J’ai
compris!»
Percepì sulla pelle
le labbra di quella disgraziata incurvarsi in un ghigno divertito, e
subito si
scostò da lei come scottato. Era già ustionato,
se proprio avesse voluto essere
onesto con se stesso, ma piuttosto si sarebbe tagliato una mano.
«Ecco, più o meno
ascolto questo» riprese lei, ignorando quasi certamente di
proposito il suo
improvviso irrigidimento. Poi sbadigliò ancora e Demian ne
approfittò per
scacciare il disagio
«Dovremmo dormire»
Le diede nuovamente
la schiena, sperando di salvarsi e di porre fine ad una conversazione
che non
avrebbe mai dovuto iniziare, ma Annie tornò ad appoggiarsi a
lui.
«Qual è la cosa
più
bella che hai mai fatto per qualcuno?» gli mormorò
ad un tratto, soffocando le
parole nella stoffa.
Demian deglutì e
provò una vertigine strana, l’impressione di
cadere dal letto dopo uno spasmo.
Che domanda del cavolo
Pensò di ignorarla,
di fingere sonno. Però quelle parole gli giravano in testa e
frugavano nella
sua memoria. Non riteneva di aver fatto molte cose belle nella sua
vita, se ci
rifletteva si accorgeva di quanto fosse ristretto il campo delle sue
buone
azioni.
Ad un tratto, il
sorriso di maman affiorò tra i ricordi. L’aveva
fatta sempre più piangere che
ridere, ma era capitato che gli riuscisse di renderla felice, qualche
volta.
«Un fiore»
bisbigliò a sua volta, senza sapere davvero
perché sentisse la necessità di
condividere con lei quell’ombra di se stesso, del bambino che
era stato. Forse,
non voleva sembrare vuoto, una raccolta di fallimenti, forse voleva che
Arianna
sapesse che almeno una volta non era stato un mostro. «Una
volta, da bambino,
ho fatto un fiore di carta colorata. Pour maman»
Ricordava quel
giorno come un momento surreale della sua vita, una dimensione di sogno
troppo
distante, che se si fosse stiracchiato in quel momento forse avrebbe
scordato
subito. Jenevieve si era chinata, alla sua stessa altezza gli aveva
scompigliato i capelli.
Gli aveva sorriso.
Gli aveva sorriso
veramente, un sorriso rivolto a lui e solo a lui, intriso di una tale
dolcezza
che per una volta si era sentito come l’unica cosa preziosa
al mondo per lei.
La ricordava con i capelli raccolti in una coda morbida sulla spalla,
di un biondo
dorato e splendente alla luce, la ricordava con un grembiule, forse
stava
cucinando.
Nella sua memoria maman
non era mai stata più bella di quel momento, con quel
sorriso sottile e
malinconico.
«Quella volta mi ha
sorriso»
Non gli aveva più
sorriso così, non era mai più riuscito a farla
felice come quel giorno. Per
questo gli occhi di sua madre non si erano più soffermati su
di lui ma
l’avevano sempre attraversato per andare oltre, e quella
piega delle labbra,
calda e triste, era diventata sfuggente e fatata, inafferrabile.
Lontana da
lui.
Eri così
bella, maman. Come stai ora?
Pensarla era
troppo. Avrebbe davvero voluto andare a trovarla, ma non ci riusciva,
non
riusciva a sopportare l’idea di trovarsela di fronte, spoglia
di ogni
possibilità di salvezza.
Perché stai
così male.
Perché devi
morire?
Avrebbe voluto che
lei avesse le risposte. Maman aveva una risposta per tutto, eppure non
era in
grado di spiegargli perché dovesse restare da solo. E se non
poteva dare un
senso a tutto, allora Demian voleva solo dimenticarla, per non sentire
più quel
vuoto immenso al centro dello stomaco.
«E la cosa più
egoista che potresti chiedere a qualcuno?»
Demian si inquietò
«È
una domanda strana»
«È una domanda come
un’altra. La risposta?»
«Probabilmente
chiedere di amarmi. E tu, Annie?»
La immaginò
arricciare le labbra nel buio, lo faceva quando rifletteva seriamente
su
qualcosa.
«Non farlo»
«Eh?»
«Non soffrire»
specificò «Non stare male»
Demian valutò di
alzarsi e accendere la luce, perché voleva capire il senso
di quelle domande e
voleva vedere quel viso chiaro dargli le risposte più oneste
che le parole
celavano. Eppure non si mosse
«Perché sarebbe
egoista?» chiese invece.
Annie sembrò
incerta, esitò «Perché non puoi ferire
qualcuno e chiedergli di non stare male
per avere la coscienza a posto, no?»
Non le rispose.
Paradossalmente,
aveva un senso, ma questo lo turbava solo di più.
Arianna gli
picchiettò la spalla con la mano «E tu
perché?»
«Perché ci sono
persone che non sono amabili e pretendere amore sapendo di non aver
fatto nulla
per meritarlo è egoismo»
Questa volta fu
Annie a tacere, probabilmente cercava a sua volta
d’interpretarlo. Nessuno dei
due possedeva la chiave per comprendere l’altro, Demian lo
capì come una
rivelazione. Si esponevano, ma non lo facevano davvero.
Per questo osò
porre una domanda a sua volta.
«E invece qual è la
cosa più brutta che hai fatto?»
Dubitava seriamente
che Annie avesse mai avuto occasione di fare qualcosa di veramente
brutto nella
sua candida vita. Certamente di cose belle doveva averne fatte molte,
però un
segreto c’era, una vena di senso di colpa irradiava dalla sua
piccola figura
appallottolata come un cucciolo contro la sua schiena, e avrebbe voluto
capirne
il motivo.
La sentì
ridacchiare e seppe che non ne avrebbe ricavato nulla. Quando iniziava
a
sorridere, Arianna decideva di nascondersi, questo lo aveva capito,
stava già
stemperando la serietà di una conversazione che aveva
iniziato lei.
«In realtà devo
ancora farla» lo colse di sorpresa, con la sua voce sottile
velata di
malinconia «Quando la farò, promettimi che non mi
perdonerai mai. Proprio mai.
Che ogni volta ti verrà in mente e sarai arrabbiato con
me»
Basito, lasciò che
le braccia di Arianna lo cingessero e lei si aggrappasse completamente,
restando rigido.
«Non so se
riuscirei ad avercela con te»
Ebbe paura delle
sue stesse parole, perché erano fin troppo oneste e vere,
non era sicuro di
poter provare rabbia o odio per una creatura tanto fragile, leggera in
quel
mondo e fuori posto per la realtà. Da una persona come lei,
Demian si rendeva
conto che avrebbe potuto farsi distruggere, glielo avrebbe permesso,
questo era
l’ascendente che riusciva ad avere su di lui.
Arianna sospirò,
sfregò la guancia contro la sua spalla e gli sorrise sulla
pelle «Non
preoccuparti, ce la farai. Scoprirai che odiarmi non è
così difficile»
Avrebbe voluto
sapere, ma non aggiunse nulla.
Rimase in silenzio
ad ascoltare quel respiro estraneo che si acquietava nel sonno.
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Capitolo 15 *** Barbi ***
À Demian
Capitolo tredicesimo
Barbi
“Se fosse possibile
sapere quel che ci sarà dopo la morte, allora nessuno
di noi avrebbe paura nemmeno della morte. Eppure si ha
paura. Si ha
paura dell'ignoto, ecco di che. Per quanto si dica che l'anima
andrà in
cielo... noi sappiamo pure che il cielo non esiste e non c'è
altro che
l'atmosfera.”
Demian
richiuse Guerra e Pace con un
sospiro. Non aveva la pazienza per sopportare
le paturnie mentali e le paure di Nikolaj, quando era lui il primo a
sguazzare
senza ritegno nelle proprie ossessioni. Si era pentito della
vigliaccheria che
aveva dimostrato la sera precedente. Le parole di Arianna avevano
gettato su di
lui una coltre di disagio troppo spessa, e sotto il peso
dell’incertezza e di
tutte le implicazioni che non aveva il coraggio di considerare, si era
lasciato
soffocare e si era tirato indietro.
Era la prima
volta che riusciva a
parlare, parlare davvero, con
qualcuno, che sentiva il bisogno di dare risposte che avessero un senso
e lo
aiutassero a farsi comprendere. Eppure, nonostante tutto, quando era
giunto il
momento si era di nuovo tirato indietro e aveva trovato più
semplice fingere di
dormire.
Sei
il
solito vigliacco in pratica
«La
vuoi smettere di venire qui a
rompermi?»
«E
tu la vuoi piantare di lamentarti? Sto cercando di fare una
buona azione se non te ne sei accorto» rispose secco al
biondino, rigidamente
seduto sul suo lettino d’ospedale. Max, che da dieci minuti
buoni stava
cercando di dargli fuoco con lo sguardo, abbozzò un sorriso
di scherno.
«Fai
anche il letterato oltre che il drogato? Non convinci un
cazzo di nessuno»
Demian
accarezzò lentamente la copertina del libro, trattenendo un
sorriso, un misto di tenerezza per l’oggetto che stringeva
tra le mani e di
divertimento per quel ragazzino patologico e le sue uscite infelici.
«Dovresti
leggere, Max. Passeresti il tempo almeno. Quando ti
dimettono?»
Il rumeno
sollevò gli occhi al soffitto, senza provare minimamente
a mascherare tutta l’insofferenza che sentiva nei suoi
confronti.
«Grazie
a te ho ancora dieci giorni. Ma si può sapere che cazzo di
pugno hai? Me l’hai sbriciolata la mascella, brutto bastardo
di un albino di
merda» la bocca gli si piegò in una smorfia di
dolore, borbottare troppo gli
faceva male ma, d’altro canto, Demian aveva imparato che era
impossibile
zittire Maximilian, al diavolo il dolore.
Gli sorrise
sornione «Tirapugni, pivello. È quello che ha
fatto il
danno, non io» ribatté ignorando gli insulti.
Doveva ancora decidere se fosse
per i sensi di colpa o per pura, inspiegata simpatia, che Max potesse
rivolgersi al lui in quel modo, utilizzando certe parole che in passato
lo
avevano fatto imbestialire. C’era qualcosa di stranamente
fresco, in quel
ragazzino dai capelli paglierini, nonostante l’atteggiamento
discutibile e la
volgarità intrinseca.
Era diretto,
onesto, e nonostante i precedenti non si tirava
indietro se doveva dire la sua, a costo di prenderle di nuovo.
«E
io che pensavo eri una mezza sega. Sembri una mozzarella
scaduta. Ma cazzo, non puoi toglierti quel berretto di merda? Sembri un
fantasma, veramente. Preferirei che spariresti!»
Demian
corrugò la fronte, analizzò rapidamente i
costrutti
sintattici e verbali di quel ragazzo e si sentì male
«Che sparissi Max, che
sparissi» si concentrò sull’orrore
peggiore, ignorando il resto «Ecco perché
leggere non ti farebbe male»
Max
cambiò rapidamente colore, dall’umiliazione alla
rabbia in un
istante «Me lo tieni tu il libro, cazzone? No
perché grazie ad un fottuto
stronzo a caso non posso muovere il collo. Accontentati che riesco a
parlare
per mandarti a cagare, brutto coglione»
Dem
sbuffò e si alzò per sgranchirsi le gambe dopo
l’ultima ora
trascorsa a leggere. Era piuttosto abituato ad un linguaggio scurrile,
Nicolas
e gli altri non erano propriamente signorine dell’alta
società e lui stesso si
era trasformato in uno scaricatore di porto senza quasi accorgersene,
ma Max,
Max vinceva su tutti. Non era in grado di formulare un pensiero che non
contenesse un “cazzo” o un
“fottiti” da qualche parte.
Quando sentiva
la necessità di andare a trovare maman, aveva preso
l’abitudine di fermarsi da Maximilian, praticamente passava
da lui a giorni
alterni e per questo aveva fatto il callo a quel discutibile modo di
fare.
E
all’odio mortifero che il rumeno nutriva per lui.
In generale,
ormai lo trovava piuttosto divertente. Perlomeno i
suoi insulti erano abbastanza coloriti, spesso fin troppo astrusi e
originali,
diversi dalle banalità che gli venivano tirate dietro di
solito. Controllò il
cellulare e si accorse ancora una volta di aver superato il tempo
limite per
impedirsi di andare a trovare maman.
E
anche oggi salta
Quella
mattina, dopo aver scaricato Annie
davanti all’ingresso degli Ospedali Riuniti, aveva deciso di
affrontare
Jenevieve, ma alla fine si era rifugiato da Max come da recente
abitudine. Si
passò una mano sul collo, i denti a tormentare
l’interno della guancia, mentre
si malediceva ancora per quella sua eterna e vigliacca indecisione
sempre
presente nei momenti importanti.
«È
tardi, vado da mia sorella» avvisò Max,
stiracchiando anche le braccia.
Gli occhi
chiari, azzurro tiepido, del
ragazzino, lo incenerirono «Ma chi te l’ha chiesto!
Ti sembra che me ne freghi
qualcosa? Va’ dove cazzo ti pare e non rompermi
più i coglioni. Spero che cadi
dalle scale e ti spacchi qualcosa, bastardo che non sei altro,
così almeno stai
qui per un fottuto motivo del cazzo e non solo per rompermi le
palle!»
Tempo scaduto.
Si accorgeva di aver superato
il limite massimo con Max quando il ragazzo non riusciva più
a dire una frase
che contenesse più parole che parolacce. Appoggiò
il libro sul comodino,
accanto all’infortunato, e gli sorrise con condiscendenza.
«Lo
so che per te sarà veramente troppo
difficile da leggere, ma te lo lascio qui. Non sia mai che in un lampo
d’intelligenza acuta tu non riesca a capirci qualcosa.
Potresti farti una
cultura, fa meno male di tutte le canne che ti fumi»
Maximilian
s’imbronciò, era quasi ridicolo
vederlo offeso dopo tutti gli auguri di morte che gli aveva propinato
nell’ultima ora.
«Stronzo,
sei tu che mi porti il fumo»
«Idiota,
sei tu che me lo hai chiesto»
Max
aprì la bocca, poi la richiuse. Rimase in
silenzio per un breve istante, in ponderazione.
«Portatelo
via, quel cazzo di coso. Non ce lo
voglio qui, che poi magari rincoglionisco come te. Forse non
è perché sei
albino che sei stronzo, ma per tutti quei cazzo di libri che ti
leggi»
Demian
scoppiò a ridere di gusto «Cristo, tu
si che sei un profondo conoscitore dell’animo
umano» scrollò le spalle,
scioccato e divertito. Si era aspettato di più dalle sue
riflessioni, ma c’era
davvero qualcosa di troppo spassoso in quel moccioso dalla bocca
grande. «Ci
vediamo, Max. Leggi quel libro»
«Vaffanculo
stronzo»
Demian si
richiuse la porta alle spalle, ma
attese ancora un attimo prima di andarsene. Dal rettangolo di vetro
della
porta, studiò le mosse di Maximilian. In un primo momento,
il ragazzo rimase
imbronciato e irritato, sulle sue. Poi però lo vide esitare,
afferrare il libro
e sfogliarlo con la stessa aria di un uomo che maneggiasse materiale
radioattivo.
Era veramente
spassoso.
Stava per
attraversare la porta girevole per
uscire dal complesso ospedaliero, quando vibrò il cellulare.
Lo tolse con calma
dalla tasca, pronto a ricevere l’ennesima minaccia di Nicolas
che voleva sapere
che fine avesse fatto.
Sul display
però capeggiava un nome
tutt’altro che familiare e atteso.
Erano passate
quasi due settimane da
quell’episodio e Demian si era completamente scordato del
compagno di classe
rachitico, con le lenti degli occhiali a fondo di bottiglia. Il suo
messaggio
lo aveva colto alla sprovvista.
“Scusami
se ti disturbo, ma ho
bisogno di parlarti.
Mi
serve il tuo aiuto. Potresti
raggiungermi all’uscita
della
scuola alla quinta ora?”
Lo aveva
riletto una decina di volte, poi nel dubbio lo aveva
riletto ancora. Ovviamente il pensiero di tirarsi indietro non lo aveva
nemmeno
sfiorato, mettendosi in mezzo per poi sparire di certo aveva
incrementato i
guai del ragazzo e non voleva dargli più problemi di quanti
già non ne avesse.
Ricontrollò
l’ora: era in ritardo di quindici minuti. Gli aveva
scritto subito che probabilmente, con la mezz’ora di tempo
necessaria a
raggiungere l’Istituto, avrebbe fatto tardi, ma Barbi
semplicemente non gli
aveva più risposto. Rimise il cellulare in tasca e
parcheggiò il motorino, non
c’era anima viva su quel lato dell’edifico,
l’ingresso della scuola era deserto
e il silenzio profondo gli mise addosso un senso
d’inquietudine.
Non
so neanche se è ancora qui o
se è già andato via
Sentiva che
c’era qualcosa di storto e questo lo innervosiva, ma
anche a scrutare con attenzione l’ambiente circostante
più e più volte era
piuttosto evidente che lì non vi fosse nessuno, eccetto le
file di macchine e
motorini. Molte classi avevano la sesta ora, forse anche la sua ma non
ne era
sicuro perché era ben lontano dall’imparare
l’orario. Probabilmente non lo
avrebbe imparato mai, stava valutando di mollare la scuola
quell’anno.
È
l’ultimo obbligatorio e non è
che io qui ci faccia molto
Considerò,
dedicando un’occhiata pigra e annoiata
all’edificio.
Quel complesso di cemento non gli trasmetteva nulla, solo una fredda
indifferenza. Lentamente, ponderando tra sé quella strana
impressione che gli
agitava lo stomaco, raggirò l’edificio per
raggiungere il parcheggio sul retro.
C’era una luce fiacca tipica di un cielo gonfio di nuvole
dopo un temporale, proprio
come quel giorno, il giorno in cui aveva incontrato Diodoro la prima
volta.
Esattamente come in quell’occasione, tra l’altro,
aveva dimenticato gli
occhiali da sole e la sua vista debole gli stava creando problemi nel
mettere a
fuoco tutto ciò che fosse ad una distanza superiore ai venti
metri. Tuttavia,
riconobbe subito la figura di Barbi che lo attendeva nervosamente
accanto ad
una macchina. Aveva le braccia conserte e sembrava incapace di stare
immobile.
Spostava smarrito il peso da un piede all’altro ed ogni suo
gesto era specchio
di un’impazienza inquieta, un timore malcelato.
Demian fece un
cenno con la mano per attirare l’attenzione e Barbi
in risposta scattò sul posto, come un soldatino ripreso dal
proprio generale.
«Ehi»
lo salutò con la flemma più pacata di cui era
capace, sia
per non farlo agitare ulteriormente che per non lasciare trapelare il
proprio
turbamento. In quella manciata di anni in cui si era trovato a
fronteggiare
situazioni pericolose per la propria incolumità, Demian
aveva sviluppato un
forte istinto di sopravvivenza che lo metteva in allarme non appena
qualcosa
non gli tornava.
Come in quel
momento, mentre leggeva sul volto smunto e butterato
del ragazzo una traccia di paura.
Non
paura, disperazione rende
meglio.
Che
sia per colpa mia?
«C-ciao»
balbettò Diodoro, esitante.
Se avesse
dovuto descriverlo, Demian avrebbe scelto l’immagine di
un cerbiatto braccato, consapevole di non avere più alcuna
via di fuga. Gli
occhi lo fuggivano e frugavano attorno a loro con costernazione
assoluta.
Demian cercava di capirlo, in fondo avevano parlato solo una volta, non
si
conoscevano e aveva liquidato Barbi con una certa rudezza, dopo averlo
per
giunta aggredito e avergli promesso un aiuto che non gli aveva mai
dato.
Nell’insieme, i motivi per avere paura di lui non mancavano,
ma questa
consapevolezza non lo aiutava ad acquietarsi. Né riusciva a
far tacere il
sospetto, l’istinto gli gridava di guardarsi le spalle.
Sfilò
una mano dalla tasca e si grattò distrattamente la nuca, a
disagio, tirandosi le corte ciocche bianche alla base del collo.
«Tutto
a posto, Barbi? Hai più avuto problemi con quel
drogato?»
Ad averlo
davanti ora, a vederlo tanto incapace e indifeso e
pensarlo in balia di un armadio a due ante decisamente incline a
menarlo, si
sentiva malissimo, capiva il danno che aveva fatto con il suo
menefreghismo.
«Ehi,
che ti prende ora?» domandò ancora, confuso.
Barbi tremava.
Apriva la
bocca, esitava, poi la richiudeva con l’aria
terrorizzata di un bambino chiuso in una stanza buia.
«Lemaire»
riuscì ad articolare in un soffio «Mi dispiace.
Perdonami, non volevo»
Ogni muscolo
del suo corpo s’irrigidì immediatamente, i suoi
sensi
si tesero inconsciamente ed il nervosismo latente si
trasformò in ansia e
accusa «Di che cazzo parli?» sibilò
ostile. Si guardò subito attorno, studiò
rapidamente il parcheggio e solo allora si accorse di quattro ragazzi
che
stavano uscendo da una macchina, gli sguardi fissi su di lui e sul
secchione.
Barbi era ad
un passo dalle lacrime e da un possibile attacco di
panico.
«Mi
hanno costretto, non volevo attirarti qui. Credimi» lo
supplicò con gli occhi lucidi, enormi su quel viso smunto e
sbattuto. Demian
non gli prestò attenzione.
Osservò
i nuovi venuti che lo avevano palesemente puntato. Dopo
essersi dati di gomito, si avviarono verso di loro, i volti sfigurati
da ghigni
provocatori perversamente soddisfatti. Quell’atteggiamento
attaccabrighe Dem lo
conosceva anche troppo bene, sapeva esattamente cosa sarebbe accaduto
di lì a
breve. E si sorprese nel realizzare che non era arrabbiato con Barbi,
per
quanto una parte di lui avrebbe voluto tirargli un pugno in un occhio
per
averlo venduto così vigliaccamente: era solo preoccupato.
Dopo aver pestato
lui, se la sarebbero presa con quel ragazzo, e pur con tutta la buona
volontà
Diodoro non aveva proprio l’aspetto di una persona in grado
di uscire ancora in
piedi da un pestaggio.
«Vattene»
sibilò gelido.
Diodoro
rispose con un singhiozzo stentato.
Cristo,
è una donna non un
ragazzo. Questi lo massacrano.
È
già bastato Max
«Allora,
vuoi toglierti dai coglioni?» lo aggredì per il
nervoso
«Qui me la sbrigo da solo, vedi di sparire
all’istante»
«Ma…»
Dem non gli
diede il tempo di proseguire, lo inchiodò con la sua
occhiata più truce «Non sei di aiuto, sei solo un
peso morto»
Sperava di
spingerlo a levarsi velocemente dai piedi, ma il
ragazzo pareva troppo disperato per prestargli ascolto, probabilmente
il senso
di colpa lo fissava al suolo e gli impediva qualunque movimento.
Si
passò una mano sul volto, esasperato «Cristo
Barbi. Ti credo,
porca puttana ti credo! Ora sparisci, è un problema che ho
creato io. A loro
non interessi, sono io che li ho provocati»
Ottenne da lui
solo un impercettibile movimento, un accenno al
voltarsi. Un solo, minuscolo contrarsi dei muscoli, poi Diodoro lo
fissò ancora,
con il labbro tra i denti «Ma tu da solo… loro
ti…»
Demian
sospirò, i quattro erano a pochi metri da loro, ormai
riusciva a distinguere perfettamente i lineamenti di ognuno,
distingueva le
parole che si dicevano.
«Se
stai qui, questi ti massacrano. Va’ via. Per favore»
Barbi si morse
le labbra, ma doveva averlo convinto con
quell’ultima supplica, perché si decise e corse
via. I quattro ragazzoni,
capitanati da niente meno che Frankenstein, non gli prestarono
un’oncia della
loro attenzione, concentrati come erano a squadrarlo da capo a piede
con i loro
ghigni sprezzanti.
Frankenstein
era tatuato e brutto come lo ricordava, con il
cerotto che nascondeva il naso enorme risultava ancora più
grottesco.
«Questo
sarebbe il fottuto cagnolino di Niko?» domandò uno
dei
suoi compari, testa rasata e svastica sul collo. Erano tutti
così simili che se
gli avessero chiesto un riconoscimento facciale non sarebbe stato in
grado di
farlo, erano fotocopie malriuscite di uno stereotipo «Come
cazzo hai fatto a
prenderle da lui? è un albino di merda, guardalo»
Demian
serrò i pugni, non abbassò lo sguardo ma fece
appello a
tutto il proprio autocontrollo per non peggiorare la propria situazione
«Perché
il vostro amichetto del cuore non è solo un coglione, ma
pure
una mezzasega» gli sfuggì dalle labbra con il tono
più provocatorio e
sprezzante del suo ampio repertorio.
Ok,
appello fallito
Magari
provocarli non è proprio
l’idea più brillante che potessi avere, ma tanto
lo sai che ti menano lo
stesso, tanto vale non andare per il sottile
Frankenstein
divenne paonazzo in un istante
«Brutto
pezzo di mer….»
Non gli diede
l’occasione di concludere. Appena lo vide aprire
bocca, Demian lo caricò con un pugno allo zigomo, senza
neanche rifletterci.
Se
deve iniziare che inizi
L’effetto
sorpresa durò appena il tempo di un gemito, i tre
compari non gli diedero la possibilità di fare altro. Uno di
loro lo afferrò
alle spalle, la braccia sotto le ascelle lo imprigionarono in una morsa
senza
possibilità. Tentò di divincolarsi, lo
usò come perno, si sollevò da terra e
riuscì a tirare un calcio al ginocchio del secondo Naziskin
che gli si era
fatto sotto per prenderlo a pugni. Un urlo accompagnò la
gamba del ragazzo che
cedeva, cadde a terra e Demian gli sferrò una pedata in
faccia con tutta la
forza di cui era capace.
Lo schizzo
rosso che uscì dalla sua bocca gli sporcò la
scarpa, ma
non se ne accorse, era troppo concentrato nello sforzo di liberarsi
dalla presa
ferrea che gli immobilizzava le braccia. Il ragazzone alle spalle
strinse di
più, con una mano sotto il mento gli bloccò la
testa e Frankenstein gli rese
subito un cazzotto in pieno viso.
Il dolore
assordante si tradusse in un fischio prolungato che lo
intontì. I sensi intorpiditi dal colpo non mettevano a fuoco
i suoi aggressori,
la visuale si era riempita di puntini luminosi e indefiniti e tutto
sembrava
mosso al rallentatore.
Pochi secondi,
una manciata, poi tutto tornò a muoversi
velocemente, troppo.
Iniziarono a
colpirlo senza pietà allo stomaco, al viso, e Demian non
riuscì più a distinguere chi o cosa gli stesse
andando addosso con tanta
violenza, né dove provasse effettivamente dolore, tanto era
diffuso. Cercò
ancora di liberarsi, si sforzò di allontanarli con le gambe,
ma lo stomaco gli
doleva ed anche usare l’energumeno dietro di lui per
sollevarsi si faceva più
difficile. Con tutta l’energia che riuscì a
raccogliere tirò una testata al
ragazzo che lo bloccava.
Sentì
i denti di quello entrargli nella carne della cute, gridò un
lamento, ma anche il suo aguzzino imprecò e fu costretto a
liberarlo. Senza un
sostegno, Demian cadde quasi a carponi, attenuò il ruzzolone
con le mani, una
fitta gli trapassò il ventre da parte a parte e a denti
stretti trattenne un
altro gemito. Stava per rialzarsi quando un calcio allo stomaco lo fece
capitolare. Venne sbalzato da terra per ricadere più
duramente sull’asfalto del
parcheggio, un metro più lontano. Batté la testa,
un bruciore allucinante gli
afferrò la nuca e si diffuse a raggiera in tutto il corpo,
inumidendogli gli
occhi per il dolore.
«Brutto
bastardo maledetto! Dove credi di scappare?»
Non distinse
chi dei quattro caricò il calcio alla bocca dello
stomaco che gli tolse il respiro e lo lasciò boccheggiante.
Sputacchiò gocce di
saliva e quasi gli venne da ridere
Come
se avesse importanza chi è
stato, sono un coglione
Si
rannicchiò a terra, in un bozzolo di braccia e gambe per
proteggere al meglio il volto e il petto dai calci che i quattro
cominciarono a
tirargli con tutta la cattiveria di cui erano capaci. Che raggiunta una
certa
soglia il dolore cessasse era una vera stronzata, lo aveva
già sperimentato in
passato. Si centuplicava, semmai, e gli dava l’impressione di
un dolore esteso
e tanto intenso da avere tutte le ossa rotte. Il ronzio nelle orecchie
gli
impediva di districare la rete di insulti che gli stavano riversando
addosso,
percepiva lo scherno, la rabbia, ma i suoi sforzi erano troppo volti a
restare
lucido, per non svenire e rimanere totalmente indifeso in balia di quei
maledetti, per dare a tutti quei suoni anche solo il minimo peso.
Mi
viene da vomitare
Un urlo.
Un grido
più forte degli altri, che sovrastò il brusio dei
suoi
aguzzini.
Bastò
quel grido perché il tempo si fermasse. Ed un tratto se ne
aggiunsero altri, uno sciame di parole confuse di cui non era in grado
di
cogliere il senso. Sapeva solo che era grazie a quel borbottio che i
quattro
ragazzi si erano fermati. Aprì piano gli occhi, stordito, e
si accorse che,
spiaccicati al vetro delle aule, facevano capolino gli studenti.
Avevano
assistito alla scena ed ora chiamavano aiuto.
«Cazzo,
dobbiamo filarcela!»
«Aspetta
un attimo, questo stronzo mi deve dei soldi»
Frankenstein
si chinò su di lui, le sue mani viscide, sbeccate
sulle nocche di rosso, frugarono nella tasca interna del suo giubbino
fino a che
non trovarono il portafoglio. Avrebbe voluto avere la forza per
fermarlo, ma
rimase inerte, le dita gli formicolavano ed anche contrarle in leggeri
spasmi
era uno sforzo immenso, in quel momento. Gli occhi però
restavano vigili e con
tutto il disprezzo con cui poteva caricarli, Demian osservò
ogni gesto
dell’energumeno e quel suo orribile volto, sbozzato malamente
da una
leopardiana madre natura. Il naziskin sfilò i soldi e
rigettò il portafoglio a
terra, accanto al suo naso, con quell’aria di
superiorità che si dedica solo
agli insetti. Gli afferrò i capelli e lo costrinse a
reclinare il capo
all’indietro per guardarlo fisso negli occhi. Demian
sentì la cute tirare e
bruciare dove già si era ferito nella colluttazione.
Trattenne una
smorfia, osservò la grossa faccia goffa da idiota,
che nemmeno il contesto riusciva a rendere temibile o almeno vagamente
sveglia.
«Adesso
siamo pari, albino di merda. Non metterti più tra i
piedi»
Anche se non
poteva muoversi, anche se si sentiva a pezzi e doveva
sembrare ad un passo dalla fossa, anche così quelle parole
gli risultavano
insopportabili. Assottigliò gli occhi gonfi con sfida e gli
sputò in faccia.
A
rallentatore, basito, Frankenstein si passò una mano sulla
guancia, guardò le dita sporche di saliva e
cambiò colore in un secondo «Brutto
bastardo!»
Strinse
brutalmente la presa sui capelli candidi e gli sbatté la
testa sull’asfalto.
La vista si
annebbiò e Demian non vide più nulla
«Alza
il culo, dobbiamo andare cazzo!»
«Molla
quello stronzo e andiamo!»
«Stanno
arrivando!»
Lo scalpiccio
di passi frettolosi che si allontanavano fu l’unico
segnale del fatto che ora era solo, abbandonato in un parcheggio, a
terra. Era
tutto ovattato, eppure non era ancora svenuto, e con quella poca
consapevolezza
che gli restava si meravigliava di questo.
Quanto
può sopportare il mio
corpo?
Quanto
può resistere?
È
passato un po’ dall’ultima
volta che le ho prese così,
se
mi trovano in questo stato,
crolla il mondo.
La
scuola, la zia… maman.
Sarah
Sbatté
e strizzò le palpebre finché le macchine intorno
a lui non
ripresero una certa nitidezza. Poi, si costrinse a rotolare prono e con
una
lentezza esasperata, che gli dava il nervoso perché mal
sopportava di non poter
avere controllo sul proprio corpo, fece leva sulle braccia. A tratti
gattonando,
a tratti sollevandosi in modo grottesco, attraversò il
parcheggio e si trascinò
dietro un gruppo di macchine, vicino all’uscita.
I professori e
le bidelle comparvero, fortunatamente, quando ormai
si era già nascosto.
«Erano
qui!»
«Quei
delinquenti sono scappati»
Appoggiò
la testa alla portiera, trattenne il fiato.
«Dobbiamo
chiamare i carabinieri» esclamò una voce maschile.
Reclinò il capo e si sporse abbastanza per vederli
allontanarsi.
Sospirò
stancamente.
La parte
più razionale e sensata di sé gli diceva di
trovare la
forza di alzarsi e di andarsene. I carabinieri, quando fossero arrivati
lo
avrebbero certamente trovato, e Demian aveva addosso anche del fumo, un
quantitativo sufficiente per accusarlo di spaccio e non di uso
personale.
Alzati,
cazzo!
Prese fiato,
si appoggiò al cofano della macchina e si issò
barcollando peggio di un ubriaco. Le gambe molli minacciavano di
mollarlo da un
momento all’altro, perdeva sangue dalla testa, se ne accorse
per il piccolo
rivolo rosso che gli colò parzialmente
sull’occhio, sfasando la sua vista già
poco ottimale. Le labbra tumefatte gli dolevano, non osava immaginare
quanto la
sua faccia fosse viola e contusa e il dolore che gli tormentava il
costato non
gli lasciava presagire nulla di positivo.
Fantastico,
conciato così dove
pensi di andare, coglione?
Già
non possi inosservato di
norma, ora hai anche l’aspetto di uno appena finito in un
tritacarne.
Imprecò
e scivolò di nuovo a terra, con un tonfo arreso.
Aspetta
che arrivino, che ti
portino in ospedale e poi che succeda quel che deve succedere.
Chi
se ne importa della zia?
Non
è tua madre, smettila di
darle più potere di quanto non ne abbia, maman sta morendo,
al diavolo anche
lei.
Cosa
importa se ti accade
qualcosa?
La
tua vita non è più un suo
problema, lei se ne sta andando, sei tu l’idiota che
resterà qui, da solo,
quello che ti succede è solo un problema tuo, non hai
nessuno, di che ti
preoccupi?
Però,
Sarah, lei avrebbe pianto.
L’unica
che aveva sempre pianto per lui era Sarah. L’unica per cui
doveva avere un minimo di cura di se stesso e non lasciarsi del tutto
marcire,
era sempre e solo lei. Si colpì piano la guancia, in un
gesto di
auto-rimprovero che sperava gli ridesse un minimo di
lucidità e contegno. A
volte si vergognava profondamente di sé, quando scivolava
nel pantano
dell’autocommiserazione e concepiva pensieri aberranti che,
ringraziava il
cielo, maman non poteva sentire. Se avesse saputo quanto era marcio
dentro e
quanto era putrida la sua mente, le avrebbe spezzato il cuore.
Del tutto
insperato, ma con un ottimo tempismo, comparve Diodoro
che non appena lo identificò, gli corse subito incontro
«Demian!»
Difficile dire
se fosse più sconvolto o disperato, non che facesse
una qualche differenza. Il compagno di classe esitò e lo
squadrò attentamente,
prima di avvicinarsi. Quell’esitazione confermò i
suoi sospetti: doveva avere
un aspetto a dir poco pessimo.
«Sto
bene, Barbi» biascicò precedendo qualunque futile
cicaleggio.
«Non
stai bene per niente! Devo portarti in ospedale! Mi dispiace
così
tanto, davvero. Mi hanno costretto e minacciato e
io…» un singulto e gli occhi
sotto quelle lenti spesse sembrarono ancora più
spropositatamente grandi «Ho
avuto paura. Sono stato un vigliacco, non avrei
dovuto…»
Demian
frenò le sue ammissioni di colpa con un gesto stanco della
mano. Si accasciò del tutto contro la portiera della
macchina e piegò il collo
alla ricerca di un sostegno per la testa troppo pesante che scoppiava
dal
dolore.
«Se
vuoi farmi un favore, portami via da qui. Non mi serve un
ospedale. Stanno per arrivare i carabinieri, sarebbe meglio se non mi
trovassero»
Barbi si morse
le labbra, poco convinto, ma per una volta colse
l’urgenza sul suo viso e non fece storie. Demian gli
passò un braccio sulle
spalle e si lasciò andare di peso sul suo corpo minuto che
lo aiutò a
camminare.
Ci volle molto
tempo prima che Demian decidesse di fermarsi, un
po’ perché anche solo stare in piedi si stava
rivelando un’impresa, una fatica
imprevista, un po’ perché voleva allontanarsi
dalla scuola quanto le sue gambe
glielo avrebbero permesso.
Quando si
sentì al sicuro, ad una valida distanza di sicurezza,
disse a Barbi che potevano riposare. Il compagno di classe lo
aiutò, con fin
troppa solerzia e premura, a sedersi all’ombra di un albero
che gettava le sue
fronde sulla strada e le file di macchine che li nascondevano alla
vista. Tossì
e sputò un grumo di sangue. Non era preoccupato, la carne
tenera della guancia
si era lacerata, non era nulla di pericoloso ne era quasi del tutto
sicuro. In
compenso, anche se il dolore era aumentato in maniera vertiginosa e
disomogenea, riusciva di nuovo a muoversi autonomamente.
Più
o meno
«Quindi
cosa facciamo? Non dovresti andare in ospedale?»
Dovevo
proprio trovarmi una Barbi
ansiosa, come compagno di fuga, mi sembra giusto
Sospirò
e ripeté per la millesima volta «In ospedale non
ci vado»
Anche
se probabilmente Maximilian
sarebbe più che contento di vedermi conciato in questo stato
«Ma
hai bisogno di aiuto!» insisté Doro, sistemandosi
nevroticamente, in un tic collaudato e inutile, gli occhiali dalle
immense
lenti a fondo di bottiglia. Li sistemava sulla cima del naso, poi si
guardava
attorno in un moto ansioso di sospetto, come se davvero pensasse che
qualcuno
li avesse seguiti.
«Hanno
avuto ciò che volevano, non ci daranno più
fastidio.
Rilassati. Mi stai angosciando»
Barbi si
affrettò ad annuire spasmodicamente, rimarcando ancora,
con un’inconsapevolezza ingenua, quanto fosse in ansia. Le
labbra stritolate
dai denti, si decise finalmente a sedersi accanto a lui. «Ho
racimolato tutti i
soldi che volevano» iniziò a raccontare, la voce
tremula che tradiva
l’imbarazzo e il ricordo della vergogna subita «Ma
quando glieli ho dati, mi
hanno detto che non bastavano, che ci avevo messo troppo»
l’ombra della paura
era ancora depositata su quel viso magro e butterato da secchione.
Demian
reclinò stancamente la testa all’indietro,
appoggiò la nuca
dolorante al tronco dell’albero e con le iridi chiare
inseguì le fronde degli
alberi spogli, accarezzate da un’opalescente luce irreale. Le
poche foglie
colorate pendevano precariamente, attaccate alla vita per un soffio. Le
tinte
forti e vivaci sembravano tempere ad olio e assumevano connotati
differenti,
erano così allegre da ricordare Arianna, per analogia.
Arianna quel
giorno, in quel cortile misero.
Non era
passato troppo tempo, ma sembrava ne fosse trascorso molto
di più. Anche quella volta aveva un occhio nero, ne aveva
portato fieramente
l’alone fino a pochi giorni prima.
«Volevano
troppo. Io non li avevo, tutti quei soldi. La mia famiglia
non li ha. Non potevo chiederli alla mamma» a quella
confessione tremò ed ebbe
una leggera battuta d’arresto, un’esitazione
colpevole «Mi hanno detto che se
ti avessi portato da loro avrei saldato il mio debito. Altrimenti me
l’avrebbero fatta pagare»
«Hanno
preso anche i miei soldi» chiarì Demian
laconicamente, la
voce ruvida e i suoni strascicati vennero accompagnati da un altro
sospiro.
Respirare gli
causava una fitta acuta al petto, forse aveva una
costola incrinata.
«Mi
dispiace»
«Non
dispiacerti» lo bloccò subito, perché
era troppo stanco per
sentire sciocchezze «Sono stato io a dire che glieli avrei
portati. Per una
serie di motivi inutili, non mi sono presentato a
quell’incontro. Scusa, non
volevo peggiorare la tua posizione. Volevo davvero aiutarti»
Barbi
boccheggiò, gli occhi grandi un poco sconvolti «Ti
hanno
pestato a sangue per colpa mia, perché mi chiedi
scusa?»
Dem si
accigliò, ed anche se ogni movimento della testa gli
causava capogiri, inclinò appena il capo verso il ragazzino
che, per l’ennesima
volta, sembrava ad un passo dal pianto isterico.
«Perché
ho sbagliato io» affermò con una certa, perplessa
ovvietà «Cioè,
non fraintendermi, quando ho capito quello che avevi fatto,
lì per lì avrei
voluto farti ingoiare gli occhiali. Però va bene
così, non è che avessi molta
scelta» tossì di nuovo, in bocca gli restava quel
fastidioso e ferruginoso
sapore di sangue. Si pulì le labbra con il dorso della mano
e lo ritrovò sporco
di rosso.
«Devi
andare in ospedale» ribadì Barbi, ora con un tono
deciso e
perentorio che non ammetteva repliche. Quella
mostra di carattere lo fece sorridere,
era una sensazione estraniante vedere qualcuno al di fuori del suo
mondo che si
preoccupava per lui. Di solito le persone lo evitavano, lo
abbandonavano in un
angolo a curarsi da solo le sue ferite, ma Diodoro aveva qualcosa
d’intonso in
sé che gli faceva superare le sue immense e soverchianti
paure.
«No»
«Allora
chiamiamo la tua famiglia. Bisogna curarti!»
Così
vedresti che non ho una
famiglia
«No»
«Sei
intenzionato a restare in questo parcheggio a morire? Ti
porterei a casa mia, ma è lontana e tu, messo
così male, non puoi andare molto
lontano!»
Demian si
contemplò un momento, in silenzio, cercando una
soluzione. Barbi non aveva torto, anche solo alzare un braccio era un
grande
sforzo e certamente non avrebbe potuto restare lì troppo a
lungo, specie con un
ragazzino isterico come complice. Scorse rapidamente una lista di nomi
alternativi, perché sapeva chi avrebbe dovuto chiamare e il
pensiero lo inorridiva.
Tuttavia, non
ne aveva, di alternative. Arianna era impensabile,
non si sarebbe mai mostrato a lei in quelle condizioni, soprattutto
perché poi
avrebbe dovuto darle spiegazioni, ed era più che
intenzionato a tenere Annie
lontano da quella sua fetta di vita sporca e imbarazzante. La zia
nemmeno,
avrebbe fatto venire un infarto sia a lei che a Sarah. Jules era uno
scavezzacollo, ma di altro livello: se la spassava con le ragazze, si
fumava
qualche canna all’occorrenza, ma i loro mondi erano
radicalmente diversi. Julian
non sapeva che razza di vita stesse conducendo e Demian preferiva
davvero che
continuasse a non saperlo.
Niko e gli
altri lo avrebbero malmenato anche peggio, per fargli
pagare di essere sparito. Si rassegnò con un ultimo sospiro
di resa a chiamare
l’unica persona che c’era sempre, quando aveva
bisogno.
«Prendimi
il cellulare dalla tasca» borbottò seccato.
Diodoro
eseguì con l’impaccio di una ragazzina pudica.
«Cerca Ellie in
rubrica e
chiamala» fece una smorfia, un misto tra dolore e disappunto
«Dille che ho
bisogno di lei, subito»
«Si
è svegliato?»
«Per la
centottantesima volta in due minuti: no. Sta
ancora dormendo»
«Non
dovremmo svegliarlo? È strano che dorma così
tanto»
«Non
è strano, è sotto morfina. Se non fosse stato
messo così male non avrei dovuto drogarlo»
Finalmente, lo strano
e smunto ragazzino che al
telefono aveva scambiato per una ragazzina isterica, si decise a
tacere, ma non
smise di studiarla con sospetto.
Elena non era mai
stata troppo empatica, non ai
malumori di chiunque perlomeno, ma non le ci volle molto per scorgere,
sotto
tutti quei dubbi, nervosismo e imbarazzo.
Dopo quella chiamata
si era precipitata in macchina a
prenderli. Ritrovare Dami tanto malconcio e ormai addormentato
l’aveva
rigettata in un momento di panico che sperava davvero di non dover
provare più.
Un déjà-vu amaro che si sovrapponeva al presente
e le restituiva il suo
ragazzino gracile e fragile come appariva nei suoi ricordi.
«Che legame
hai con lui?»
Diodoro,
così si era presentato, continuava a
squadrarla, forse in cerca di qualche lineamento in comune che potesse
ricollegare ad una qualche parentela lontana, ma al di là di
ogni sforzo, non
avrebbe trovato nulla: lei e Dami erano diversi, lo erano sempre stati
in ogni
modo possibile, tristemente.
Dami lo ripeteva in
continuazione, quando ancora
riusciva a parlarle. La guardava cauto e poi borbottava, strappandole
un sorriso
per la tenerezza che riusciva a causarle anche solo così,
con quel broncio
puerile incredibilmente delicato.
Si
soffermò sul suo volto a tratti pallido, a tratti
sporcato da una violenza feroce che su di lui risaltava come uno
sfregio su di
una parete bianca, tanto il contrasto era forte e disturbante, tanto le
linee
che disegnavano il suo viso erano candide e pulite. Lo trovò
tragicamente bello,
e provò l’insostenibile desiderio di accarezzarlo,
abbracciarlo e tenerlo per
sé, ancora un poco, almeno mentre Dami non poteva scacciarla
con il suo
rancore.
Invece, fece un tiro
di sigaretta, soffiò una grigia
nuvola di fumo e poi accennò un sorriso divertito.
«Lui cosa
ti ha detto?»
Lo chiese
sfrontatamente, con la consapevolezza fin
troppo chiara che Demian non avesse raccontato nulla, non di lei.
Demian non parlava
più di lei, nemmeno per errore, ed
infatti Diodoro confermò ogni sua certezza abbassando
svilito il mento e
scuotendo piano la testa, come rassegnato a restare
nell’ignoranza.
Elena allora si
rannicchiò il più possibile e si
sforzò di non lasciar trasparire neanche una punta
dell’amarezza che la
travolse, perché s’impegnava ad accettarlo
continuamente, l’odio di quel
ragazzino dai capelli candidi e l’aria eterea.
Perché non poteva lasciarsi
distruggere da lui anche dalle parole non dette, o non ne sarebbe
uscita viva,
da quella loro ambigua relazione.
Si passò
la mano tra le ciocche arruffate che le
ricadevano sulla fronte, pettinandole con le dita e allontanandole dal
volto,
poi la nascose nella tasca della felpa e fece un altro tiro di
sigaretta.
Mentre il fumo le riempiva i polmoni, le parole di Demian le riempivano
i
pensieri. Si sentiva patetica, ma da quando lo aveva conosciuto era
sempre
stato così, non era mai riuscita ad impedirsi
d’ingigantire qualunque cosa lo
riguardasse, e per questo ogni riflessione, anche detta per errore, una
considerazione espressa per caso ad alta voce, le restava impressa
nella
memoria come un monito. Non appena quel ragazzino rientrava nella sua
sfera
personale, tutto le si riversava addosso e la soffocava, di dolcezza e
colpa e
amarezza e tenerezza.
Demian le diceva
sempre che quel suo modo flemmatico di
fumare, di scivolare in vestiti troppo grandi, di appoggiare il filtro
fra le
labbra piene e di muovere il proprio corpo, la rendevano
l’incarnazione della
femme fatale. Forse, proprio a causa di queste reminiscenze aveva
deciso di
indossare quella felpa fra tante. Voleva che Dami la riconoscesse, che
la
vedesse e ricordasse qualcosa di bello, ché qualcosa di
bello c’era stato anche
fra loro, anche se per poco.
«Non
fartene una colpa» disse con una vena di
esasperazione, invece di esternare la propria delusione, abbozzando un
sorriso
sfuggente. Si alzò in piedi e si avvicinò a Dami,
tese una mano verso di lui,
esitò, ma poi il desiderio di toccarlo, di sentire la sua
concretezza sulla
pelle, fu più forte e la spinse ad affondare le dita fra
quei capelli morbidi.
Quando dormiva,
quando le sue lunghe ciglia bianche
gettavano ombra sulle sue guance stanche, Elena riusciva a vedere in
lui il
ragazzino raccolto sulla seggiola di un ospedale, con le gambe strette
al petto
e lo sguardo vacuo. Lo ricordava come lo aveva conosciuto, e ne provava
un
sentimento soverchiante, un affetto immenso, una dolcezza materna di
stringerselo al seno e baciargli piano il viso e accarezzarlo fino allo
sfinimento, come avrebbe fatto solo con un cucciolo spaurito.
«Demian non
è un ragazzo facile» le venne da ridere
perché era stata ancora troppo delicata, Dami era un demone
sotto mentite
spoglie o un angelo dalle ali spezzate, non era stata onesta
«Anzi, non lo è
proprio per niente. È autodistruttivo, è come se
passasse il tempo a escogitare
nuovi modi per ferirsi, e io posso solo aiutarlo quando si presenta
alla mia
porta in questo stato»
Il ragazzino con gli
occhiali deglutì a stento,
sembrava avere un sacco di domande, eppure ne formulò solo
una e lo fece
balbettando il proprio sconcerto
«E succede
spesso?»
Elena distolse gli
occhi da Dami per posarli su
Diodoro, quasi sorpresa da quella domanda. Era lecita e estremamente
sensata,
eppure non la aspettava. Nel suo scenario immaginario i commenti di
Doro
sarebbero stati altri, forse acidi, più sprezzanti,
perché Demian l’aveva
abituata a questo probabilmente, solo ai giudizi che sapeva ricevere.
Con le dita aveva
continuato a percorrere quel
profilo, solo per il piacere personale di tenere un contatto sottile,
con
l’adorazione con cui avrebbe potuto guardare una scultura di
marmo
perfettamente levigata ma sfregiata dal tempo, perché quegli
sfregi potevano
solo adornarlo, incrementavano la purezza di quel suo animo ferito.
Elena
quell’anima avrebbe voluto sfiorarla ancora, ma
sapeva di averne perso ormai il diritto.
«Abbastanza
spesso. È così che ci siamo conosciuti»
Era
così che era riuscita ad avvicinarlo la prima volta, quando
era solo un ragazzino e aveva tredici anni e sì, di brutture
ne aveva già
conosciute molte, ma non le aveva ancora assaggiate tutte, e lei lo
guardava da
lontano ogni giorno, desiderando sapere perché quegli
incredibili occhi da
creatura del nord fossero tanto adulti su un corpo ancora acerbo e
ingobbito
dalla propria fragilità.
Un guizzo
offuscò lo sguardo di Diodoro, ed in quel frammento di
cedimento Elena riconobbe quello che si sarebbe aspettata fin da subito.
Paura.
Sconcerto.
Dubbi.
Lo sguardo di
qualcuno che non voleva essere coinvolto, lo sguardo
che aveva già conosciuto molti anni prima, che
l’aveva fermata e le aveva
suggerito di farsi da parte, di stare lontano da quel ragazzino pieno
di
problemi e con poche speranze.
«Non
abbandonarlo» le sfuggì istintivamente, un
mormorio che
invece della supplica aveva l’amaro sapore
dell’accusa. Era stanca delle persone
che fuggivano, era stanca di guardare la schiena di Demian mentre lui
si
perdeva a guardare quella degli altri, in un infinito cerchio infelice.
Doro
sussultò e spalancò gli occhi resi ancora
più grandi dalle
lenti spesse, scioccato.
«Come?»
sussurrò, troppo basito per formulare tutto il pensiero.
Elena non sapeva se quella sorpresa nascesse dalla sua intuizione che
lo faceva
sentire smascherato, o se davvero non avesse colto il senso di quella
sua
supplica, ma non importava, perché lei aveva inteso. Era
un’espressione tanto
nota, quella del ragazzino, che non poteva non interpretarla subito per
ciò che
era: un altro abbandono.
«Se
quello che mi hai raccontato è vero, non puoi
abbandonarlo»
prese fiato, cercò un modo per spiegargli, per fargli capire
che davvero doveva
andare oltre, che non doveva necessariamente capirlo, sarebbe bastato
che lo
accettasse e forse Dami si sarebbe condannato di meno.
Forse, per una
volta, non si sarebbe disprezzato.
«Tu
gli piaci. Dico sul serio. Non so perché, ma è
raro che Dami
faccia qualcosa per gli altri. Si è sentito così
tradito, che ha deciso di
ignorare il mondo e chiunque ne faccia parte. È
indifferente, non gli importa
di nessuno»
Deglutì
il peso di quelle parole, la colpa che portavano con loro.
Una colpa che solo lei conosceva e che era la sua croce quando
incrociava quegli
occhi tanto freddi di brina e asfalto sporco di sangue.
C’erano errori che
difficilmente potevano essere espiati e forse, questo sarebbe sempre
stato il
suo più grande errore.
«Gli
importa solo di sua sorella. Tu devi avere qualcosa che gli
ha permesso di vederti. Lui ti ha visto, lo capisci? Non sei stato solo
un’ombra»
Lasciò
cadere la cenere a terra, sul bel pavimento lucido, poi
spense il mozzicone sul comodino accanto al letto. Era tutta roba di
suo padre
quella, e per lei non aveva valore. Ora poi, che aveva minacciato di
non
aiutarla più se avesse proseguito per la sua strada contro
ogni scelta che lui
ritenesse logica, Elena aveva deciso di togliersi almeno lo sfizio di
rendergli
il tutto degradato come lo erano lui ed ogni membro della sua
disfunzionale
famiglia.
Diodoro aveva
stretto il fondo della felpa con le sue mani strane,
da mantide religiosa, le veniva da pensare, e guardava il pavimento con
le
labbra contratte in una riflessione che lei poteva solo ignorare.
S’inumidì
le labbra e decise di proseguire, nonostante tutto «Se
sapesse che ti sto dicendo questo, probabilmente mi toglierebbe
definitivamente
il saluto, ma è la verità: Dami è una
bella persona, anche se può non sembrare.
È solo… triste»
Il ragazzino
finalmente prese fiato e alzò i grandi occhiali su di
lei «Io non ho fatto nulla. Quando ci siamo conosciuti, mi ha
protetto da un
tizio che voleva picchiarmi» disse a raffica e poi
arrossì ancora di più e le
orecchie divennero stranamente fucsia «L’ho capito,
che è una bella persona.
Nessuno dei miei compagni mi ha mai aiutato, lui non aveva motivo di
mettersi
in mezzo… ma l’ha fatto lo stesso»
Nonostante
quelle parole la voce aveva tremato, aveva ancora paura
di Demian, Elena lo sentiva. Poteva provare a capirlo ma davvero, non
le era
mai riuscito di afferrare come potessero avere paura di un leoncino
spaurito
senza criniera. Il racconto di Doro era stato rivelatore, ancora una
volta, di
quanto il suo Dami fosse innocuo e terribilmente ingenuo, a modo suo.
Sospirò
e tornò a concentrarsi solo sul suo volto, ché
Dami era
una calamita, sapeva catalizzare ogni suo sguardo, pensiero e ogni
desiderio
della sua anima. Sotto tutta quella strafottenza, sotto tutti i suoi
sbagli,
restava di una purezza disarmante e intonsa, dolorosa per lei
più di qualunque
cosa. Gli
scostò i capelli appiccicati
alla fronte dal sudore, si chinò e gli lasciò un
bacio delicato in quell’unico
punto che
non aveva dovuto coprire con qualche medicazione.
«Allora
è per quello» constatò soltanto, tra
sé e sé, e Diodoro si
corrucciò «Cosa?»
Elena
scrollò le spalle «Dami sa cosa significa essere
indifeso.
L’ho conosciuto che aveva tredici anni e posso giurare di non
averlo visto un
solo giorno senza qualche livido. Era sempre più viola che
bianco. I ragazzini
sanno essere spietati, ma con lui erano a dir poco crudeli. Certo, non
ci vuole
molto per capire che il suo carattere non ha mai aiutato la
causa»
Guardarlo
riposare la rilassava, la aiutava a tirare le fila dei
suoi ricordi disordinati. In qualche modo, Demian le aveva sempre dato
un
ordine, un punto di partenza da cui dipanare la sua vita. Era stato
così fin
dal primo momento, era proprio quella sensazione di chiarezza e
pienezza che
l’aveva spinta ad accostarsi a lui.
«Io
avevo iniziato infermieristica, ero al secondo anno ed ero
stata assegnata a questo ospedale per il mio tirocinio. E questo
ragazzino
dall’aria tormentata era lì, tutti i giorni a
tutti le ore, come un’anima in
pena»
Diodoro
giocava con le lunghe dita, assorto e perplesso «Ma cosa ci
faceva…» si fermò da solo, come avesse
ricordato qualcosa, ed Elena decise a
quel punto di fugare ogni dubbio, anche se non ne aveva il diritto.
«Sua
madre sta morendo»
Era sempre
terribile dirlo.
Aveva
conosciuto Jenevieve proprio durante quel tirocinio, quando
ancora stava bene ed aveva un sorriso sbarazzino cosparso di lentiggini
ed
un’aria sognante da bambina. Ricordava il proprio
smarrimento, tutt’ora le
bastava trovarsi di fronte a quella donna per sentirsi ancora una
tirocinante
sciocca e impreparata che non sapeva nulla del dolore e della vita.
«All’epoca
Dami non aveva afferrato del tutto la situazione. Era
solo un bambino. Non che ora non lo sia più, ma ha dovuto
fare i conti con la
vita molto presto. La verità è che mi ha
costretto a farli insieme a lui»
sorrise, per nascondere l’amarezza di quel periodo, per
nascondere che insieme
all’amarezza si mischiava una gioia diversa, innocente. Il
periodo più bello
che avessero vissuto insieme, il momento che aveva segnato una svolta
nella sua
vita, a discapito di Demian. «Prima di conoscerlo, non avevo
ben chiaro in cosa
stessi andando a cacciarmi, con il corso di studi che avevo scelto. Ero
stata
quasi costretta dai miei genitori, cercavo solo delle scappatoie. Lui
è stato
lo schiaffo di vita che mi serviva, tutta la passione che mi
mancava»
Elena si
stiracchiò, un gesto istintivo per nascondere
l’imbarazzo
di una confessione troppo intima. Non riusciva a pensare a nulla di
superficiale, quando parlava di Demian o anche solo lo pensava, era
stato tutto
sempre troppo profondo e schiacciante per ridurlo, anche solo in
apparenza, ad un
nulla. Se mettendo a nudo una sua intimità per una volta
fosse riuscita ad
aiutarlo, a fare qualcosa di buono per lui, allora si sarebbe esposta
senza
rimpianti «Comunque aveva sempre un aspetto orribile. Un
giorno sono riuscita
ad avvicinarlo, mi ero sentita una domatrice di leoni. Lo avevo
convinto a
farsi medicare. Era chiuso sì, ma non tanto quanto ora,
prima mi era possibile
parlargli. Così è diventata
un’abitudine, ogni volta che si fa male, per
istinto viene da me. In passato lo picchiavano spesso o si faceva
coinvolgere
in qualche rissa. Era ingestibile, sembrava volesse farsi del male ad
ogni
costo. Ad un prezzo troppo alto sono riuscita a diventare una delle
poche
persone fidate per lui» si fermò solo
perché la voce le mancava e l’amarezza
assumeva il peso di un groppo in gola, un rimpianto raggrumato in
lacrime mai
versate per una colpa che non meritava espiazione «Non sono
mai riuscita a
farlo smettere… e nemmeno a farlo stare meglio. Per lui sono
più uno sfogo
ormai»
Abbozzò
un sorriso malinconico scrutando il volto pallido del
dormiente. C’era una bellezza eterea che le abrasioni
accentuavano, perché
quelle macchie di colore lo rendevano reale, per lei che aveva sempre
l’impressione che Demian potesse sfuggire dal concreto in
ogni istante «Ma va
bene così, se almeno questo lo aiuta. Glielo devo»
Diodoro,
corrucciato, era in imbarazzo, li guardava di sottecchi
come se si sentisse di troppo in quel momento, e in parte poteva essere
vero,
eppure davanti a quel desiderio l’aggrediva la tristezza
dell’irrealizzabile.
«Ma
perché lo picchiavano?» chiese perplesso, la voce
titubante
della discrezione, in palese contrasto con la viva curiosità
che gli animava i
grandi occhi nocciola.
Demian
mugolò nel sonno e si mosse appena.
Sta
per svegliarsi, non resta
molto tempo
«Non
credo lo abbiano mai picchiato senza un motivo. Lo prendevano
in giro, questo sì, per ciò che è. E
lui ha un animo attaccabrighe, c’è poco da
fare. Non ci è mai passato sopra, anche quando erano in
dieci e lui uno solo»
Il ragazzo
magro si raccolse nelle spalle e sospirò arreso. Poi,
forse finalmente più sicuro o magari solo stanco di
ascoltare, abbastanza
rilassato per esprimersi, borbottò «Io non lo
capisco»
Elena non
aggiunse né chiese nulla, gli si leggeva in viso che la
frustrazione che Doro provava avrebbe trovato il suo sfogo da
sé senza bisogno
di esortazioni.
Ed infatti,
Diodoro si morse l’unghia dell’indice e riprese
«Anche
io sono sempre stato preso in giro, ho l’aria da sfigato
stampata in fronte,
diciamocelo. Quindi non riesco a capirlo, perché non ha
tenuto un basso profilo
e basta? Mi fa sentire un vigliacco, quando invece è lui
quello fuori di testa.
Io capisco l’orgoglio, ma non è che
l’abbia portato granché lontano»
Elena lo aveva
ascoltato, ma gli occhi erano tornati su Demian e
faticavano ad allontanarsi da lui, tanto che Diodoro sbuffò
«Sembri
una leonessa che protegge il cucciolo» bofonchiò
con
maggiore enfasi e frustrazione «Lui ti piace»
constatò poi in un sussulto. Elena
si irrigidì, un solo momento in cui il corpo
tradì la sua tensione. Cercò di
rilassarsi, sorrise piano e non disse nulla.
«Ok,
forse non è proprio la cosa più opportuna da
dire, ma vista
la situazione di opportuno ci vedo gran poco»
sottolineò Diodoro «E poi scusa,
ma quanti anni hai?»
A quel punto
le venne spontaneo alzare gli occhi al cielo per
esasperato divertimento e ridere di gusto. Lo guardò
obliquo, con la sua
migliore espressione da seduttrice incallita e il piccolo e logorroico
secchione arrossì pesantemente e chinò la testa.
«Ne
ho ventitré»
«Ventitré?»
fece un mezzo strillo smorzato solo dalla saliva che
gli andò di traverso, provocandogli una serie di colpi di
tosse convulsi «Ma
quindi voi siete…?» lasciò la domanda
in sospeso, vergognoso e pudico come un
ragazzino beccato dalla madre a nascondere riviste porno sotto il
letto. Elena
un’innocenza così autentica non ricordava di
averla posseduta nemmeno quando
sedici anni era lei ad averli.
«Vuoi
sapere che relazione abbiamo?» sorrise maliziosa e Doro
rimase immobile, occhioni vigili e bocca asciutta «Diciamo
che sono la sua
scopa-infermiera, ma preferisco definirmi sua amica»
Almeno in
passato, sua amica lo era stata davvero. Avevano
condiviso tutto, tutte le loro fragilità e le loro tenerezze.
Come
potrei mai spiegare che per
me è sempre stato più di un ragazzino?
Diodoro si
massaggiava le tempie, preda di una quasi imminente
crisi isterica, ad occhio e croce.
«Perché!»
sbottò infine «Mi sembra impossibile che una come
te
possa dare attenzioni ad un ragazzino! Lemaire poi, il carattere
peggiore che
io abbia mai visto! Non ha senso» sputò tutto
dando fiato alla bocca senza
filtri, il disagio e l’inquietudine per il rapporto che si
stava rivelando
davanti ai suoi occhi parlavano più del pudore e del buon
senso.
Elena se ne
vergognò, se ne era sempre vergognata. Perché
Doro non
aveva torto, poco di quella relazione che lei stessa aveva contribuito
a creare
aveva una logica. Era tutto sbagliato, e non era mai riuscita ad
impedirsi di
continuare nonostante tutto. Frenò la risata che premeva per
uscire, un po’ per
la pantomima con cui l’ospite si esprimeva, un po’
per l’amarezza che le
premeva addosso e sfociava spesso in un riso amaro.
«Mi
ha sorriso» rivelò senza più remore,
scrollando le spalle. Nel
dirlo le labbra s’incurvarono istintivamente in un moto di
tenerezza sconfinata
«Sembra assurdo, lo so, ma mi ha guardata negli occhi e mi ha
sorriso. Non lo
puoi sapere, cosa significa ricevere un sorriso da Demian» si
voltò, fissò
Diodoro apertamente, voleva passargli con tutta la forza di cui era in
grado
quel sentimento, voleva che capisse senza giudicare che alla base di
tutto
c’era stato tanto, non solo sesso, non era mai stato un
gioco, anche se nessuno
dei due a voce lo avrebbe mai ammesso
«C’è una bellezza così
fragile e
disarmante, in lui, da annientarmi. La verità è
che Demian ha un sorriso che dà
senso a tutto il resto, e se lui te lo concede tu puoi solo amarlo
incondizionatamente. Non ho mai avuto davvero scelta»
«Tu
lo sai che c’è qualcosa di malato in quello che
hai detto,
vero? Nel fatto che ti piaccia un ragazzino. Per carità,
dicessi a scuola che
Demian se la fa con una otto anni più grande, diventerebbe
l’idolo della folla
maschile, ma non sono sicuro che questo renda la cosa più
sana»
Elena
chinò il capo, sconfitta da una realtà immutabile
e da un
tentativo fallito. Era la prima volta che provava a condividere con
qualcuno al
di fuori di Demian quel loro mezzo rapporto, e comprese con tristezza
che
sarebbe stata l’ultima.
Sorrise con
derisione «Non sono infatuata di lui. Ho sempre
desiderato proteggerlo, questo sì, e ci diamo sollievo a
vicenda. Non c’è nulla
di strano e niente di più. Ci usiamo per scopare, talvolta,
quando ne abbiamo
voglia» ghignò maliziosa «Ti assicuro
che è parecchio consenziente»
Si
alzò di scatto, prima che Diodoro decidesse di aggiungere
altro
ad un discorso già fin troppo doloroso.
Stiracchiò le braccia al soffitto e si
lasciò sfuggire uno sbadiglio «Sarà una
lunga veglia, vado a fare del caffè.
Tu, se vuoi, puoi andare a casa. Ci penso io a lui»
Studiò
il suo ospite mentre esitante guardava il cielo imbrunito
oltre i vetri sporchi e poi Demian, profondamente addormentato. Il
borbottio
affamato del suo stomaco che reclamava cibo le fece provare della
tenerezza per
lui. Nonostante la schiettezza con cui si era espresso sul suo rapporto
con
Dami, Elena non nutriva astio o antipatia verso di lui: sembrava troppo
imbranato e goffo perché gli si potesse portare rancore.
Diodoro
ponderò tra sé qualcosa, stritolandosi le dita
lunghe.
Quando
la goffaggine
dell’adolescenza se ne sarà andata, non
sarà un ragazzo così terribile
Pensò
valutando la sua figura ingobbita.
Era pomeriggio
inoltrato, erano passare già un paio d’ore da
quando era entrato in casa sua, non aveva pranzato eppure non pareva
intenzionato ad andarsene.
«Aspetterò
ancora un po’» dichiarò infatti.
Elena
annuì compiaciuta ed abbandonò la camera.
In cucina
preparò la moka del caffè, preparò una
tazza grande e
mise il latte sul fuoco. Aprì un cassetto pieno di brioche e
dolci, i vizi che
non riusciva a togliere a Simone, l’unica persona che
conosceva in grado di
ingerire merendine tutto il tempo ed uscirne perfettamente in forma.
Pensare a
Simone era sempre una salvezza, in qualunque momento di
sconforto, scaldava il petto e la faceva sentire meglio, meno in colpa,
più in
pace con il mondo.
Ne prese una a
caso e si affacciò alla stanza da letto «Ehi,
tu!»
richiamò il ragazzino con gli occhiali, che si
voltò quasi impaurito. Gli tirò
la merendina che quello afferrò maldestramente al volo
«Mangia qualcosa o
finisce che svieni anche tu» borbottò con finto
rimprovero, prima di decidersi
a lasciarlo solo in quell’attesa.
Non riusciva
più a condividere lo spazio con lui, si sentiva in
difetto, ma era contenta al di là di tutto. Anche se non
aveva compreso lo
stile di vita di Dami, né tutto il resto della sua
autodistruttiva esistenza,
anche se non aveva compreso nemmeno lei e l’aveva fatta
sentire inconsciamente
uno schifo, oltre tutto questo Diodoro era rimasto. Forse aveva capito
che
Demian era solo un animale ferito, forse era riuscita a farglielo
conoscere un
poco, quel poco sufficiente per non permettergli di andarsene.
Sorrise
compiaciuta, forse aveva ottenuto ciò che desidera, forse
anche Diodoro non avrebbe più potuto lasciarlo ora.
***
Demian non
sentiva nulla.
Era piacevole,
non avere un corpo a cui dover rendere conto,
esistere in uno stato di torpore immobile e senza sforzi. Uno stato di
nulla
assoluto in cui l’intontimento era tanto forte da impedirgli
di pensare cose
troppo complesse, troppo dolorose.
Dimenticare
senza dimenticare davvero, dimenticare di ricordare
qualcosa, dimenticanze di realtà scomode che rifiutavano di
plasmarsi e di
assumere forme definite. Era ciò che aveva sempre cercato,
un distacco assoluto
dal suo corpo che gli risparmiasse qualunque percezione.
Non sentiva
dolore e persino i pensieri risultavano ovattati e
indistinti, così confusi e distanti, come non gli
appartenessero, faticavano a
mettersi a fuoco.
Però
c’erano dei rumori di fondo che accompagnavano quel suo
galleggiare, delle parole indistinte che sembravano un filo, un nastro
legato a
lui come ad un palloncino, un nastro affrancato al suolo che gli
impediva di
distaccarsi completamente dalla terra.
Una terra che
avrebbe volentieri abbandonato, probabilmente senza
alcun rimpianto.
Cercò
di aprire gli occhi, ma le palpebre pesavano come macigni e
vibrarono appena in uno spasmo sfinito. C’erano tante cose
per cui avrebbe
voluto svegliarsi, tante altre per cui avrebbe voluto sparire.
C’era Sarah, con
i suoi capelli di sole e le lentiggini belle, e maman pallida e stanca.
E poi
c’era Annie, con quel suo sorriso assurdo e la primavera
nello sguardo.
A nessuna di
loro apparteneva la voce femminile che stava
disturbando il suo riposo.
Non
è una voce che vorrei
sentire.
Vorrei
non doverla sentire più
E proprio per
questo sentimento di disgusto e repulsione, quella
voce restava uno dei suoni più familiare alle sue orecchie.
Si sforzò ancora di
sollevare le palpebre ed una lama di luce tagliò
l’oscurità sicura che fino a
quel momento lo aveva avvolto. Lentamente, la luce si ritrasse per fare
spazio
ai dettagli sempre più nitidi della stanza: un armadio, una
scrivania con
computer in un angolo, una sedia vuota accanto al letto,
un’altra sedia di
fronte a lui, occupata dalla figura impacciata di un ragazzino
occhialuto.
La figura
snella di una ragazza appoggiata alla finestra con una
sigaretta tra le dita ed un filo di fumo tra le labbra.
«Si
sta svegliando» disse il ragazzo sulla sedia, sporgendosi
verso di lui.
Un formicolio
ricordò a Demian di possedere delle dita, per quanto
intorpidite. Con un ulteriore sforzo di volontà
riuscì a sollevarsi quel tanto
che gli bastava per appoggiarsi, per non dire accasciarsi, alla
testiera del
letto. Il mondo intorno aveva contorni sfocati, linee incerte, e questo
stato
vorticoso e confusionale era accentuato dal fatto che gli avessero
tolto le
lenti a contatto.
«Demian?
Ehi, ci sei?»
«È
ancora un po’ intontito, dagli il tempo di
snebbiarsi»
Era davvero
Elena.
Era sempre
Ellie, quando stava così, era sempre lei che si curava
di lui.
Si era
ripromesso molto tempo prima che non l’avrebbe più
cercata,
ma nel momento del bisogno alla fine dei conti, il suo nome era
l’unico su cui
potesse fare affidamento, l’unico di cui si fidasse
completamente. E si odiava,
perché aveva ancora bisogno di lei, aveva ancora bisogno di
aiuto, nonostante i
suoi sforzi in realtà non aveva imparato a bastare a se
stesso.
Non del tutto.
Fu immediato
pensare ad Arianna, pensare alla semplicità con cui
gli aveva detto che non doveva restare solo, come se appoggiarsi agli
altri non
fosse una cosa incredibilmente assurda, stupida e sbagliata.
Forse
lei è troppo buona, troppo
bella. È troppo.
Non
ricordo neanche se mi è mai
successo, almeno nell’infanzia, di essere stato
così candido
Probabilmente
non sono davvero
adatto a stare con lei
«Dami,
come ti senti?»
Chiuse e
aprì gli occhi più volte, per focalizzare il
volto di
Elena, liscio e caramellato. Vagliato da quell’espressione
apprensiva, non
riuscì a trattenere un sorriso storto e vagamente
affettuoso. Quella ragazza
era sempre la solita, non perdeva mai l’occasione per
provocarlo, e quella
felpa grigia e nera che indossava, quella ne era la prova: era sua,
Ellie se ne
era impossessata la prima volta che avevano fatto sesso, in quella
stessa
stanza.
«Stanco»
borbottò.
«Niente
dolore?» s’informò Elena, ora
tranquillamente, con lo
stesso tono pacato con cui avrebbe potuto domandargli le previsioni
meteo. Il
dolore però, cominciava a sentirlo, leggero come un
formicolio che si estendeva
lentamente in tutto il corpo.
«Sopportabile»
rispose spiccio, perché più del male fisico, era
il
mal di testa ad aumentare, mano a mano che la mente si snebbiava.
«Vuoi
qualcosa?»
I
tuoi questionari non mi sono
d’aiuto
«Una
botta in testa» biascicò mentre si massaggiava le
tempie,
nella speranza vana di alleviare un malessere che minacciava di
crescere. La
pelle del volto tirava e bruciava, sentiva le piccole, infinite ferite
che si
aprivano e modellavano assieme alle espressioni del suo viso. Inoltre,
Elena
doveva avergli fasciato il busto, perché sentiva
l’impaccio dei movimenti e la
rigidità che gli impediva di sedere del tutto comodamente.
Ellie
ridacchiò, sfarfallando le lunghe ciglia scure
«Naaah, direi
che per oggi hai dormito abbastanza»
«Allora
abbattimi Ellie, perché questo mal di testa mi sta
uccidendo!»
«Se
non ti hanno ammazzato tutte quelle botte, dubito che ci
riuscirà un’emicrania!»
Demian
sbuffò, assottigliò lo sguardo nel vano tentativo
d’incenerirla sul posto, le iridi ridotte a due fessure
minacciose.
«Melodrammatico.
Posso sapere cos’hai combinato stavolta?»
«Sono
entrato nel laboratorio di Mary Shelley senza permesso»
rispose
con una smorfia, un misto di disappunto e dolore per i tagli che si
aprivano
ogni volta che apriva la bocca. Qualcuno ridacchiò, per
quella sua sarcastica
uscita, e Demian si ricordò del ragazzino che aveva
intravisto appena svegliato
e di cui già aveva dimenticato la presenza. Quel ragazzo
era, assurdamente,
Barbi.
Che
diavolo ci fa ancora qui?
Non
può essere rimasto perché era
preoccupato, non avrebbe senso.
Deve
aver bisogno ancora di
qualcosa
Elena aveva
incrociato le braccia al petto ed ora lo guardava
dall’alto, con un’aria giocosamente severa,
impregnata di quell’indulgenza che
proprio non riusciva a non provare per lui, come un tallone di Achille
sempre
scoperto.
«Ah,
Demian, tu sei la prova che quando una persona è troppo
libera può solo mettersi nei guai!»
Demian aveva
già smesso di prestarle attenzione. Ora, tutto il suo
essere verteva perplesso su Diodoro, da lui ricambiato con
dell’evidente
timore.
Elena
inarcò un sopracciglio ad ala di gabbiano,
sollevò gli occhi
al soffitto e sbuffò infastidita, una bambina capricciosa
ignorata.
«Capito
l’antifona, dovete parlare. Se vi servo, sono di
là»
Demian
annuì distrattamente, senza sorriderle, ed Elena
s’imbronciò metodicamente e se ne andò
offesa. Conoscendola, glielo avrebbe
fatto pesare successivamente, gli avrebbe tenuto il muso e avrebbe
cercato di
fargli credere che davvero era arrabbiata e ci era rimasta male.
Un’ipocrisia
bella e buona, solo per ottenere attenzioni, perché Demian
lo sapeva fin troppo
chiaramente che non ci si poteva seriamente arrabbiare con qualcuno di
cui, a
conti fatti, non t’importava nulla.
E lui per
Ellie non era mai stato nulla.
Barbi
occupò la sedia vuota accanto al letto e quando i loro
sguardi s’incrociarono Dem lo vide sussultare.
«Sì,
faccio senso lo so» mugugnò subito, senza sapere
lui stesso
se si stesse riferendo al proprio aspetto o alla propria persona,
né se dovesse
sentirsi ferito dal palese turbamento del compagno di classe.
«No»
esclamò Barbi di getto, le orecchie un poco a sventola
divennero rosse «È che non ti avevo mai visto
così da vicino. I tuoi occhi sono
un po’…»
«Rosati»
concluse allora, abbozzando un sorriso triste «Si nota
solo da vicino»
«Quindi
è per questo che stai sempre lontano»
Demian
sollevò le spalle in un gesto di noncuranza per camuffare
una debolezza sciocca eppure per lui insopportabile «Non
proprio. Fino a
qualche anno fa non potevo nemmeno pensare di nasconderlo, erano rosa,
c’era
poco da fare»
Perlomeno, nel
tempo si erano pigmentati quel tanto che bastava
per renderlo umano, più o meno accettabile dal canone
comune. Dimenticare
l’imbarazzo e lo scherno che lo avevano accompagnato invece
era meno semplice.
«Perché
sei qui?»
Diodoro
abbassò la testa e si grattò a disagio la guancia
«Perché
ti devo un favore, credo»
Un
debito.
Beh,
sicuramente ha più senso che
sia qui per questo che per una qualsiasi forma di blanda preoccupazione
per me
«Puoi
saldarlo facilmente. Dimmi perché hai fatto una simile
stronzata, giura che non lo farai più e sarai
libero»
Non capiva
perché si sentisse tanto benevolo verso quel ragazzo
disagiato, normalmente lo avrebbe ignorato. Eppure, qualcosa in lui gli
scatenava quasi tenerezza, sembrava troppo indifeso, una vittima
perfetta.
Barbi
deglutì rumorosamente, agitò le mani ossute e
pallide, ma
alla fine si fece coraggio e acciuffò le parole
«La mia famiglia non è molto
ricca, diciamo. Ho tre sorelle, una più grande e due
gemelline più piccole.
Recentemente mio padre ha anche perso il lavoro. I soldi hanno iniziato
a
mancare, mantenere la mia scuola costa»
Demian si
accigliò.
Non capiva
perché gli stesse raccontando certi dettagli della sua
vita, né la droga, soprattutto pesante come la cocaina, dove
si collocasse in
tutta la vicenda. Tuttavia Diodoro lo fissava con
quell’espressione così mesta,
contrita, che non se la sentì di dire nulla e decise di
ascoltare quella che
più che una confessione, pareva uno sfogo troppo a lungo
represso.
«Sai,
quando mi sono iscritto pensavo davvero di avere del
talento. Di poter fare qualcosa di buono, di poter essere utile alla
mia
famiglia un giorno. Pensavo di poter sfruttare le mie
capacità. Ma ho sbattuto
contro un muro a duecento all’ora. Voi non siete bravi, siete
proprio artisti.
Avete quella scintilla che mi manca, non riesco a stare al
passo»
Demian si
corrucciò ulteriormente, si morse l’interno della
guancia mentre ponderava le parole, ma alla fine gli uscì
solo un perplesso e
forse indelicato «E quindi?»
Barbi
cambiò definitivamente colore e si trasformò in
uno
sgargiante peperone rosso «Ho sentito molti dei nostri
compagni dire che… con
della roba, sai… loro trovavano ispirazione»
Oddio,
questo sta per piangere…
come non detto
Diodoro si
mise a piangere come l’ultima delle femminucce, per
Demian non poteva esserci nulla di peggio del ritrovarsi con un ragazzo
problematico
e dalla sensibilità isterica.
«Marco
ha detto che era ciò che mi serviva. Io volevo solo essere
all’altezza… non volevo deludere i miei»
si sfregò il viso con la manica della
felpa, gli occhiali si inclinarono pericolosamente sul naso e gli
restituirono
l’immagine goffa e puerile di un adolescente troppo insicuro
«Ma non ci sono
riuscito, non l’ho usata» tirò su con il
naso, una maschera grottesca di
disperata autocommiserazione «Non ne ho avuto il
coraggio»
Ok,
questo piagnisteo è assurdo!
Ignorando il
dolore, afferrò Barbi per la collottola e lo scosse
violentemente. Il ragazzo si spaventò tanto che smise di
singhiozzare e dilatò
gli occhi all’inverosimile.
«Piantala
di piangerti addosso, idiota! Un conto è un tiro di
canna, un altro la pippata! La dovresti conoscere la differenza,
cretino! E
ringrazia di essere uno smidollato, almeno non ne hai fatto
uso!»
Forse aveva
gridato con troppa enfasi, perché Diodoro si era
incupito e pareva un animale ferito a morte. Mostrando, forse per la
prima
volta, un moto d’orgoglio, il ragazzino lo respinse con forza
e gli riversò
addosso tutto il suo rancore
«È
facile parlare, per te! Sei un talento nato, sei il migliore!
Fai lavori del livello di uno del quarto anno senza nemmeno seguire le
lezioni,
solo perché sei portato! Li ho sentiti, gli insegnanti,
elogiare la testa di
tigre che hai modellato. Non credevano possibile che saresti riuscito a
farla,
e tu in due giorni l’avevi già finita! E vieni a
scuola così raramente che
forse nemmeno lo sai, che ti considerano un mostro per il talento che
hai! Sei
detestabile, Lemaire!» singhiozzò molto poco
dignitosamente.
Demian
esitò e rimase a bocca schiusa, sbigottito. Non voleva
essere meschino, non voleva infierire, ma per causare una reazione
simile
doveva essere stato troppo fuori luogo, e se ne pentì.
«Tu
non puoi capire cosa si prova a non essere all’altezza.
L’arte
era tutto ciò che avevo, ma non so dare forma a
ciò che penso, non ci riesco…
ed è frustrante da morire»
Tirò
ancora su con il naso e si passò le mani sul viso in gesti
bruschi, gli occhi colmi di umiliazione.
«Non
hai mai pensato che forse questa non sia la tua strada?»
bisbigliò, la voce bassa appena udibile, sussurrata,
perché sperava di
manifestare il tatto con il tono, non sapeva farlo con le parole, non
sapeva
come avvicinarsi a qualcuno di fragile.
Barbi scosse
la testa con rassegnata decisione «No. Il disegno
è
tutto ciò che amo fare»
Lo sorprese,
Demian non si aspettava una risposta così netta e lo
invidiò. Per la prima volta guardò il suo
compagno di classe, che aveva sempre
visto più come un moccioso che come un ragazzo delle
superiori, e provò per lui
una profonda ammirazione. Dami aveva sempre amato stringere una matita
fra le
mani, sin da quando aveva memoria, a volte quelle linee di grafite
erano
l’unico percorso, l’unico filo, in grado di creare
un ponte tra il suo sé ed il
mondo reale, l’unico modo che aveva trovato per far
sì che le sue idee non
restassero semplici masse informi ma prendessero vita. E, nonostante
questo
bisogno ancestrale che aveva nutrito la sua anima probabilmente da
sempre, non
aveva mai considerato quella passione come un obiettivo.
Forse,
perché per se stesso un futuro non era mai riuscito a
vederlo, Barbi aveva senza dubbio le idee più chiare di lui.
«Scusa,
non me la devo prendere con te solo perché sei
più bravo»
Diodoro si sistemò gli occhiali sulla radice del naso con un
gesto abituale e
inconsapevole. La conversazione aveva raggiunto i livelli di un
bisbiglio,
entrambi erano a disagio, temevano di dire qualcosa di inadatto e
Demian
proprio si sforzava, ma non capiva il senso di tutta quella
caparbietà.
Perché
insisti, se sai che
fallirai?
All’improvviso
capì la più ovvia delle verità: Barbi
non sapeva
vedere se stesso. Non si rendeva conto di essere più forte
di quanto potesse
credere, possedeva una tenacia che Demian nemmeno riusciva a
immaginare. Questo
scarto tra loro lo irritava, lo faceva sentire in difetto, allo stesso
tempo
però stimolava in lui il desiderio di provare a superare la
propria non-tenacia.
«Barbi,
cosa pensi di te stesso?»
Gli veniva da
sorridere, quella era una domanda alla Arianna, non
alla Demian. Quella sciocca lo stava contagiando con le sue stupidate
pseudo
filosofiche, quei quesiti banali eppure disarmanti che lo mandavano
sempre in
crisi.
Anche Diodoro,
lì per lì, rimase spiazzato.
«Non
saprei» mormorò, stiracchiando le dita ossute
«Credo di
essere un fallito. Ma, forse, potrei riuscire a non esserlo
più. Così papà
sarebbe fiero di me e la smetterebbe di dirmi tutte quelle
cose»
Il
club degli sfigati che cercano
l’approvazione paterna, insomma.
Anche Demian
ne aveva fatto parte, tanto tempo prima, lo
comprendeva ma allo stesso tempo provava compassione per Diodoro. Erano
entrambi ingiustamente pietosi.
«E
tu, Lemaire? Cosa pensi di te?»
Demian si
appoggiò alla testiera del letto con un sospiro
rassegnato.
Quante
volte me lo sono chiesto?
Si era dato
mille risposte e nessuna sembrava davvero onesta, tantomeno
era certo di voler condividere con uno sconosciuto una così
grande fetta di sé.
Eppure, lo guardò e la bocca si aprì senza che
gli riuscisse di fermarla
«Sono
una raccolta vivente di buoni propositi andati a puttane»
Barbi tacque
un lungo istante, in ponderazione. Le labbra si
arcuarono lentamente, dando forma ad un sorriso che si espanse fino a
trasformarsi in una leggera risata, a tratti un po’ isterica
ma anche
liberatoria. Tanto libera, che anche Demian si ritrovò a
sorriderne.
«Lemaire…
sei un caso perso!»
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Capitolo 16 *** Edoné ***
À Demian
Capitolo quattordicesimo
Edoné
Jules
Cugino idiota! Che
fine hai fatto?
Ho rimorchiato una
figa da paura e, visto che se non ci penso io a far uscire il tuo
pisello da
quei dannati pantaloni tu non combini un cazzo, le ho chiesto di
portare
un’amica per te.
Passo tra un’ora a
casa tua, vedi di esserci
14/10/2001
15:40
Julian
era un puttaniere senza speranze. Demian non si
sarebbe stupito se tra l’Italia e la Francia avesse
già diffuso la sua
discendenza, probabilmente difettosa quanto lui. A suo cugino delle
donne
importava poco o nulla e Demian lo sapeva troppo bene, eppure rimaneva
ogni
volta basito dalla semplicità con cui riusciva a cambiarne
una alla settimana,
senza rimorso e senza il minimo legame. Da una prospettiva diversa, il
vero
freddo, il menefreghista distaccato tra loro due era proprio Jules.
Comunque
ammirava la tenacia di quel cugino scapestrato nel
tentare sempre quegli incontri combinati, perché nonostante
l’insistenza Demian
gli aveva dato picche ogni volta, eppure ancora ci provava, a farlo
uscire con
una delle sue amiche di pessima compagnia.
Deciso
a ignorare Julian almeno quanto le fitte di dolore
che si diramavano dal costato, si costrinse ad alzarsi dal divano,
nella quale
era letteralmente sprofondato ormai da ore, per andare in bagno. Il
grande
specchio dietro al lavandino rifletteva un’immagine
decisamente malconcia e
violacea. Il viso si era gonfiato dopo le botte prese, pareva una
strana e
informe maschera tragica che nascondeva completamente la struttura
ossea di
base, deformità resa più inquietante dalla
sfumatura malsana dei lividi in
contrasto con il suo naturale pallore.
Abbozzò
un sorriso che si sgranò in una smorfia a causa
delle contusioni.
Beh, almeno oggi non
dovrò inventarmi una cazzata per non uscire.
Basterà che veda la
mia faccia e sarà persuaso dal portarmi al suo incontro
galante.
Che
di galante aveva gran poco, comunque.
Si
sciacquò il volto dolorante con acqua fresca e ne
ottenne un tenue sollievo, un solo momento che franò
nell’attimo in cui
incrociò lo sguardo del suo se stesso riflesso.
Esitò, si costrinse a sostenere
la vacuità che leggeva nei propri occhi. Non ci era mai
davvero riuscito, non
senza deviare a sua volta lo sguardo con lo stesso pensiero che
sfiorava tutti
quelli che s’imbattevano in lui.
Sono uno scherzo
della natura
Cercare
di scendere a patti con se stesso non funzionava,
lo vedeva chiaramente da sé che qualcosa di sbagliato, di
distorto nel suo
essere era innegabile, ma proprio per questo non riusciva a sopportare
che
questo pensiero divenisse concreto attraverso le parole degli altri.
Era
troppo reale, aveva paura di odiarsi troppo.
Senza
le lenti, inseguiva l’immagine riflessa della linea
obliqua che tracciava il contorno della sclera, la patina di un azzurro
estraniante, anemico, così lieve da scivolare nella
trasparenza, come un vetro
sottile. Sotto, s’intravvedevano i rigagnoli rossi dei
capillari che davano all’iride
una sfumatura rosata. Strizzò le palpebre con forza quasi
dolorosa, come se
violentandoli questi avessero potuto mutare, eppure la luce tra le
tende del
bagno gli restituì i medesimi, indefiniti occhi dalla
pupilla nemmeno del tutto
sferica. Gli restavano solo le lenti a contatto colorate come patetico
sotterfugio per nascondere la propria inadeguatezza.
Sei ridicolo, sai
solo nasconderti. Nascondi te stesso e nascondi la verità da
te stesso.
Non hai alcun senso
Il
campanello di casa suonò in quel preciso istante, un
salvagente lanciato al momento opportuno proprio quando le forze
iniziavano a
mancare per restare a galla. Era così che si sentiva, quando
provava ad
affrontarsi, privo di forze, e almeno quel baccano insistente e stonato
fungeva
da valida giustificazione per abbandonare il duello silenzioso con la
sua
controparte nello specchio senza farlo sentire debole.
«Ehi,
Dami!»
Julian
spalancò la porta d’ingresso come un cavallo alla
carica, portando con sé una ventata di eccessivo entusiasmo.
Il cane si
acquattò all’istante e iniziò a
ringhiargli contro, causando l’immediato
disappunto del cugino, che nemmeno aveva aspettato che Demian andasse
ad aprirgli.
«Dami,
dove sei? La tua palla di pelo, se non la smette, la
butto fuori casa»
Con
un sospiro rassegnato Demian si affacciò dal bagno e
ritrovò Jules accovacciato in mezzo al corridoio, che a sua
volta ringhiava
molto ridicolmente a Lalami.
«Hai
quasi vent’anni. Lo sai, vero?»
Julian
inclinò la testa e alzò gli occhi su di lui con
espressione annoiata «Non me lo faccio dire da un marmocchio
che si tiene il
pisello stretto, manco ce l’avesse d’oro»
Dopo
averlo squadrato con un pizzico di perplessità, come
avesse notato qualcosa di storto che non gli riusciva di inquadrare,
per lo
sgomento quasi Julian cadde con il fondoschiena sulle piastrelle.
«Ma
che diavolo hai fatto?»
Non
era la prima volta che si mostrava al
cugino in uno stato poco dignitoso dopo un pestaggio, ma questa volta
aveva
addosso più segni del solito. Demian si portò una
mano alla guancia in un gesto
inconscio, incontrò una lesione, un lembo di pelle ruvido e
irregolare, e pensò
che quando lo menavano a scuola, da ragazzino, difficilmente gli
colpivano il
viso, per non lasciare tracce.
Non è proprio un dettaglio che possa
importare a Frankenstein and
Co.
Dissimulò
il proprio imbarazzo passandosi
le dita tra i capelli scompigliati.
«Direi
il solito» cercò di minimizzare con
un sorriso ironico ed una scrollata di spalle che tradiva il disagio.
«Ammettilo,
ti sei fatto menare per avere una scusa per darmi buca
anche stavolta!» si lamentò il cugino mentre si
alzava goffamente. Lo osservò
raddrizzarsi, sbattere i jeans neri con i palmi aperti delle mani per
cercare
di rimediare al pelo di cane che aveva già irrimediabilmente
cambiato il colore
dei pantaloni «Arrivi a farti livido, non sai proprio
più cosa inventarti!»
Jules
sollevò la mano e la lasciò sospesa tra loro,
Demian esitò, ma
poi la strinse «Sei davvero un coglione, giuro. Uno dei
peggiori che io abbia
mai incontrato»
«Hai la
vita sociale di un lombrico Dami, chi cacchio vuoi aver
incontrato! Se uscissi con me ne incontreresti di coglioni, e meglio
ancora,
anche delle fig…»
«Ok, sei
stato cristallino! Puoi fermarti qui!»
Julian
sfoderò il suo più brillante sorriso da marpione
ripescato dai
meandri del suo repertorio di scarso seduttore incallito, e gli
lasciò una
sonora pacca d’incoraggiamento sulla spalla, proprio mentre
Demian sollevava
gli occhi stanchi al soffitto. L’espressione serena si
trasformò a tradimento
in una smorfia di dolore mal contenuto. Demian dovette fare appello a
tutto il
suo amor proprio per non accasciarsi, il sottile lamento che gli
sfuggì tra i
denti non venne però ignorato da Jules.
«Dirti
che sei messo male sarebbe un complimento, lo sai vero? Che ti
hanno fatto?»
Si morse
l’interno della guancia «Incidente con il
motorino!?»
«Sì,
certo. Il muro doveva avere un ottimo gancio destro. Dimmi qual
è,
così gli starò lontano»
Che
ironia del cazzo
Demian si offese e
strizzò la bocca in una linea esangue «Non
c’è
bisogno del muro, un cazzotto te lo do io con molto piacere»
borbottò.
Riacquisì a fatica una posizione eretta e lanciò
a cugino un’occhiataccia
obliqua, ma gli bastò vedere l’espressione di
Jules per sentire l’orgoglio
ferito ritrarsi, in imbarazzo: era palese quanto il suo amico fosse
preoccupato.
Il
più grande, insensibile
puttaniere in cui sia mai incappato sembra una mamma chioccia in
apprensione.
Devo aver proprio toccato il fondo
Distolse lo
sguardo, perché si vergognava. Si limitò a
raggiungere il
divano e con tutta la delicatezza del caso, si accomodò tra
gli stessi cuscini
che lo ospitavano ormai da quella mattina, circondato da cartacce di
merendine
e patatine perché guardare la televisione lo annoiava e il
binomio tv-cibo
aiutava a trascorrere quelle ore di tedio interminabili. Nei momenti di
maggior
sconforto, aveva rimpianto di non essersi fermato da Ellie. Sarebbe
stato
viziato e coccolato, e soprattutto non sarebbe rimasto solo, eppure il
pensiero
di restare nella stessa stanza con Elena mentre sul display comparivano
i
messaggi di Arianna, gli aveva morso in qualche modo la coscienza.
Gli sembrava quasi
di dover scindere due mondi profondamente diversi
che, nemmeno per errore, dovevano entrare in rotta di collisione,
neppure
attraverso la sua mente contorta.
Julian lo aveva
imitato e si era stravaccato scompostamente dall’altro
capo del divano.
«Non sto
scherzando, ragazzino. Che hai combinato? Io te lo dico, se
non me lo dici spontaneamente abbandonerò le simpatiche
vesti da cugino cazzaro
e assumerò quelle di una figura seria e responsabile. Che ti
manca, fidati»
Demian
inarcò un sopracciglio e impresse nella linea del suo
sguardo
obliquo tutto il suo scetticismo. Il cugino sostenne i suoi occhi per
poco, poi
le orecchie divennero rosse e fu costretto a deviare il volto,
smozzicando «Ok,
lo so benissimo che come figura di riferimento sono credibile quanto
Valeria
Marini Presidente del Consiglio. Però sono tipo…
il tuo migliore amico, no? Il
minimo che puoi fare è dirmi perché ti hanno
menato» si zittì un istante, poi
gli occhi gli si ingigantirono di sgomento «Non
sarà per una ragazza, vero?» esclamò
con troppa enfasi «Se è stato per una ragazza io
te lo dico, sei proprio un
coglione di quelli giganti! Cosa ti ho sempre spiegato? Una tira
l’altra! A te
serve solo un buco dove infilarti, il contorno è
relativo»
«Credibile,
detto da uno che sceglie solo strafighe assurde. Certo. Sei
rivoltante, risparmiami le tue stronzate»
Solitamente
condivideva tutto con Jules, anche se a
volte in maniera superficiale, eppure nel caso di Arianna non se
l’era sentita.
Ancora non aveva definito con se stesso quale sentimento ibrido
provasse per
quella ragazza, né che ruolo avesse intenzione di farle
occupare: la osservava
con il maggior distacco possibile, guardingo. Non si fidava di lei. Non
era
sicuro di apprezzarla.
Eppure, bastava
che inconsapevolmente Julian la
definisse un buco da riempire, per fargli provare il desiderio di
fargli
ingoiare i denti. L’indignazione che lo aveva pervaso doveva
essere visibile,
perché Julian si fece serio «Oh, cavolo»
«”Oh,
cavolo” cosa?»
«”Oh,
cavolo” sei già stato incastrato»
Demian si
accigliò «Se parlassi in modo comprensibile
potrei capire di che cazzo stai parlando, lo sai?»
«Ti
hanno già incastrato, è evidente. Porcaccia, chi
è? Spero almeno che sia bella, ma bella tipo che ne valga
davvero, davvero la
pena! Porcaccia» imprecò di nuovo, scotendo la
testa sconsolato «Ma da me non
hai imparato nulla?»
Demian
sentì un flusso di calore risalire sul viso e
scottargli le guance, seppe con imbarazzo puntuale di essere appena
arrossito
come un peperone «Nessuno ha incastrato nessuno! Smettila di
dire stronzate!»
urlò, sollevandosi istintivamente con il busto troppo
precipitosamente. Con un
lamento ricadde tra i cuscini e imprecò a denti stretti.
Julian lo fissava
incredulo, scuotendo lentamente la
testa, con una punta di amarezza risentita, quasi «Col cazzo,
sei
incastratissimo. Peggio di quando da bambino ti sei perso nel labirinto
degli
specchi e mi è toccato tornare dentro a cercarti. Sei
fottuto amico, stavolta
non ti posso venire a recuperare!»
Di fronte a quelle
accuse, Demian si sentì
mortificato.
Non
è
vero un cazzo, non posso più essere incastrato, mi rifiuto.
Sono indipendente,
non commetterò più un errore così
banale. Se ci cadi Dami, giuro che ti meno
Minacciarsi da
solo non era mai servito a troppo,
nella sua vita, eppure ci provava, talvolta, giusto per assicurarsi di
aver
tentato ogni via prima di fallire. Su questo punto però, su
Arianna e qualunque
tipo di “sentimento” avesse potuto nutrire, era
categorico: sapeva già fin
troppo bene che legarsi a qualcuno e schiantarsi a cento
all’ora contro un
guardrail era la stessa cosa, sapeva bene che dopo esserci caduto con
tutte le
scarpe, di lui sarebbe rimasto poco nulla.
Una carcassa
spolpata da una iena, era già successo,
aveva imparato.
Di
Annie apprezzo la compagnia. Solo questo e non sarà mai,
assolutamente, più di
questo. Posso accettare di riderci insieme, di vederla, non mi
piacciono le
persone ma lei non è male.
Da
“essere umano accettabile” a “qualcosa di
più”, di
acqua sotto i ponti ne passava anche troppa. Arianna era bella, solo
uno scemo
avrebbe potuto non notarlo o apprezzarla, ma la sua bellezza era fine a
se
stessa, come le scopate con Elena o quel discorso campato in aria con
il
cugino. Una distrazione di mezzo, dalla durata limitata.
Julian,
meditabondo, scrutava il tabacco della sua
sigaretta bruciare come se in quella voluta di fumo potesse scorgerci
il senso
dell’universo. Ad un tratto s’illuminò e
si lasciò sfuggire l’ennesima
imprecazione «È quella dei ritratti, vero? Altro
che “solo una musa» mimò le
virgolette con le dita «Tu te la sei fatta!»
«Non me
la sono fatta!» urlò di nuovo, salvo
pentirsene, perché la sua mancanza di contegno era solo
benzina sul fuoco con
suo cugino. Ed infatti, Julian si calcò in viso
l’espressione più falsamente
sconvolta che gli riuscì «Sei così
perso, e non te la sei nemmeno fatta? Dami,
le donne sono come i calzini, non puoi tenere sempre lo stesso
paio!»
Demian rimase
basito per qualche secondo, troppo
scioccato per assimilare realmente quell’uscita infelice.
Alla fine borbottò,
quasi per il principio di non farsi zittire e di dargliela vinta
«Neanche tu ne
cambi una al giorno»
Julian
roteò gli occhi «Ok, al giorno magari no,
però…
ecco: le donne sono come il latte»
Storse la bocca,
confuso «Cioè?»
«Scadono!»
disse con un’ovvietà irritante «Una
settimana al massimo. Di più e rischi di avere
un’intossicazione alimentare. È
una fregatura, finirai al guinzaglio! Questa qui da quanto è
in giro?»
In un attimo di
tentennante incertezza, Demian si
ritrovò sovrappensiero a fare i conti e a borbottare
«Credo un paio di
settimane… ma ci siamo visti solo due volte»
E
una
di quelle “due volte” ci ho dormito insieme, circa
Quello era
decisamente un dettaglio da omettere quando
si parlava ad un pervertito del calibro di Jules, che nel mentre aveva
perso
quattro tonalità di colore, tanto che Demian temette fosse
in brachicardia. Il
cugino scattò in avanti, gli afferrò il braccio
con la stessa disperazione di
un morto di sete e lo strattonò «Sei ancora in
tempo» sibilò.
Demian se lo
scollò di dosso con un gesto piuttosto
brusco e risentito.
«Sto
bene così» chiarì, e mise un leggero
broncio
infantile. Non gli piaceva, che il cugino gli parlasse in quel modo,
come se
gli stesse offrendo una via di fuga certa e lui stesse cercando una
scusa per
scappare. Non aveva motivo di allontanarsi da Annie, era tutto sotto
controllo.
Ora poi che i suoi le avevano comprato un cellulare, dopo la notte
fuori casa
che li aveva terrorizzati, poteva anche colmare il vuoto di attesa
mentre
aspettava che il suo aspetto fosse tornato nella media prima di
rivederla, sentendola
per messaggio. Pensò che non smentire Julian e fargli
credere di essere
accasato, potesse essere almeno una soluzione agli improponibili
appuntamenti
che cercava di propinargli. Inoltre, al momento era tanto concentrato
su
Arianna da aver scordato i segni del pestaggio che si portava addosso.
Il cellulare
appoggiato sul un cuscino iniziò a
vibrare. Non fece in tempo a tendersi per afferrarlo, Julian fu
più veloce e
glielo fregò sotto mano.
«Jules,
ridammelo» sospirò, ma il cugino rispose con
un sorriso sornione «Quindi sarebbe questa
“Annie”?»
Si
massaggiò gli occhi per contenere la crescente
irritazione «Seriamente, non mi va che…»
«Fammi
solo dare un’occhiata, giusto per capire quanto
sei impantanato»
«…
Jules»
«”Undici
uomini sulla cassa del morto e una bottiglia
di rum”» iniziò a leggere ad alta voce,
per provocarlo, ma s’interruppe quasi
subito e lo fissò confuso «Ma che razza di
messaggi ti ha mandato?»
«È
una fan di Sellers, e comunque non sono affari
tuoi. Restituiscimi il cellulare!» gli intimò, e
rimpianse di non potersi
muovere liberamente per strapparglielo di mano e lasciargli un occhio
nero di
ricordo, magari.
«Non per
essere fiscale, ma erano quindici, no?»
continuò imperterrito, ignorando la sua richiesta.
Tornò al telefono e riprese
a scorrere la lista dei messaggi ricevuti «”Ma come
pretendi che ce ne stiano
quindici?” beh, la sua obiezione ha un perché
però. Non ha senso, ma ha un
perché. “Beh, se ce ne stanno undici, ce ne stanno
anche quindici…”»
In imbarazzo,
Demian ingoiò qualunque senso di
autoconservazione e saltò letteralmente sulle spalle di
Julian, atterrandolo.
Si lanciarono in una breve colluttazione per il possesso del cellulare
e alla
fine, dopo essersi liberato di Jules facendolo ruzzolare poco
più in là, si
stese ansante con il suo bottino stretto in mano.
A Julian mancava
il respiro, smozzicò «Ma che problemi
hai?» tra un ansito e l’altro. Demian si mise a
sedere e gli lasciò uno
scappellotto poco delicato sulla testa «Che problemi hai tu.
Idiota! Chi ti ha
dato il permesso di leggerli?»
Il cugino
s’indignò «Mi aspettavo messaggi
erotici,
mica quella roba lì! Ti ha fottuto il cervello quella, ti
rendi conto di che
discorsi fate? Sei completamente andato, se le dai corda»
«Non
è vero» protestò debolmente,
appoggiando la
schiena al divano. Il fianco gli doleva per quell’ultima,
brillante
performance.
Spiegare che
Arianna era in grado di fare solo
discorsi completamente assurdi, senza capo ne coda era troppo
difficile,
richiedeva troppe parole. Non sapeva nemmeno come ci era arrivato, a
parlare di
Clouseau, né come poi i messaggi fossero degenerati
arrivando a toccare le più
inutili sciocchezze. E in realtà non gli importava capirlo,
si era divertito e
tanto gli bastava. A volte era pure riuscito a immaginare la faccia di
Annie tra
un delirio e l’altro, l’espressione concentrata e
seria ed il tono con cui
asseriva alcune verità per lei assolute e totalmente
insensate. Era poco
impegnativa, rilassante.
Julian aveva
ricominciato a sorridere, mentre si
rialzava da terra per tornare più comodamente a sedersi.
Aveva l’atteggiamento
indulgente di un adulto che stesse parlando con un bambino testardo.
«Ehi, se
questa ti ha davvero incastrato devi farmela
conoscere»
Non
riuscì a nascondere la smorfia scettica:
presentare una ragazza bellissima e ingenua in maniera irreale ad un
puttaniere
come Jules. Tanto valeva gettarla giù da un ponte sperando
che non si rompesse
una gamba o la testa. Il cugino lesse il sottinteso, perché
alzò le mani in un
gesto di resa «Non te la ruberò, se è
questo che ti preoccupa. Non ci proverò
nemmeno, giuro! Poi che me ne faccio di una che parla di casse da
morto? Me lo
affloscia in partenza. Di quel poco che ho letto l’unica cosa
interessante era
il rum!»
Se saltargli
addosso fosse stata ancora un’opzione,
Demian l’avrebbe fatto senza esitare, e l’avrebbe
picchiato ovviamente. Tanto.
Invece ingoiò il fastidio e sputò con piccato
orgoglio «Non mi importa cosa
farai»
Una parte di lui
avrebbe voluto difendere Arianna da
quel tristissimo discorso donna-oggetto.
Per qualche motivo che mai gli era stato chiaro, Julian non provava
interesse
per nessuna, né sentiva una qualche forma di rispetto a
priori per il genere
femminile, il che era paradossale, contando che la persona che il
cugino più
ammirava e adorava nella sua vita era proprio la cugina Isabeau.
Tuttavia,
questo doveva valere anche per lui, prendersi la briga di difenderla
significava darle un peso reale che non voleva avesse. Un errore simile
lo
aveva già commesso, era rimasto più che fregato
ed ancora gli toccava
incontrare l’oggetto della sua umiliazione a giorni alterni.
Non poteva
sopportare i legami, nemmeno se con lei era
semplice, se il suo sorriso diabolico riusciva ad ammaliare.
Era facile,
innamorarsi di una come Arianna quando
sorrideva in quel modo.
Era facile e da
stupidi, non sarebbe successo.
Scrollò
le spalle «Non so nemmeno se e quando la
rivedrò comunque, quindi fartela conoscere è
l’ultimo dei miei problemi»
bofonchiò e provò uno strano senso di sconfitta.
Sconfitto
da te stesso, benissimo. Non sai nemmeno tu quello che vuoi. Per
liberarti di
lei basterebbe passarla a Julian, ma ovviamente devi scegliere sempre
la strada
peggiore.
Annie era bella,
ma non andava bene per lei. Ad essere
del tutto onesti, era Arianna a non andare bene per lui,
l’aveva già capito da
un pezzo, c’era un’incompatibilità di
fondo che lo avrebbe massacrato. Solo che
si era confidato con lei, le aveva raccontato un sacco di stronzate,
aveva
condiviso la sua Sarah. In pratica, aveva già gettato il
ponte che non desiderava
esistesse, si era fumato il cervello proprio l’unica volta in
cui non si era
fatto una canna. Si era lasciato andare solo perché
l’aveva conosciuta nel
momento di maggior debolezza, il più sbagliato possibile.
E
poi
hai cercato di convincerti che fosse speciale, solo per non ammettere
con te
stesso di aver fatto la cretinata più allucinante della tua
vita.
Era
così ridicolo che gli sfuggi un sorriso «Comunque
non m’importa un cazzo di lei, quindi tieni le tue teorie da
psicologo fuori da
questa casa»
Julian scosse le
spalle e abbozzò un sorriso meno
spavaldo e divertito, a manifestare la sua rassegnazione.
«Sei un
caso perso, Dami. Non conosci neanche te
stesso, sei un dramma vivente»
Si
stizzì e arricciò il naso «Non
rompermi. E passane
una anche a me» ammiccò alla sigaretta,
l’ennesima, che Julian si stava
accendendo. Il cugino gli diede pacchetto ed accendino, senza
aggiungere nulla.
Quando
s’innervosiva, il sapore della nicotina al
primo tiro lo rilassava. Aveva sviluppato un bisogno morboso di fumare,
ne
odiava il sapore ma era dipendente dalla sensazione positiva che gli
restava
addosso. Non quella stupida necessità che nutrivano molti
ragazzini di quindici
anni di tenere una sigaretta in bocca per apparire più
grandi e fighi. Se
contava il tempo trascorso, aveva iniziato a fumare tra i dodici e i
tredici
anni e non aveva più smesso. Era una droga peggiore delle
canne: con quelle
poteva gestirsi, non creavano dipendenza. La mancanza di una sigaretta
invece
lo mandava in astinenza, consumava circa un pacchetto al giorno. Se non
lo
avessero ammazzato gli altri di botte, prima o poi l’avrebbe
fatto il cancro e
sarebbe stato il degno figlio di sua madre.
«Allora,
per cosa ti hanno ridotto così?»
Inclinò
la bocca in una smorfia ironica «Non ti eri
distratto?»
Julian
inarcò un sopracciglio con fare eloquente «Pensavi
davvero che mi sarei potuto distrarre sul serio?»
«Mi sono
intromesso negli affari di un ragazzino»
confessò, per tagliare la conversazione il prima possibile,
ma questo spinse
solo il cugino a sporgersi e guardarlo intensamente «Anche tu
sei un ragazzino»
Demian
rilasciò uno sbuffo di fumo e sorrise
sardonico. D’improvviso, si sentiva di nuovo vuoto. quella
parentesi di quiete
si era già consumata, aveva guastato qualcosa di bello,
nella sua testa, lo
aveva corrotto. Succedeva sempre così, demoliva tutto
ciò che di positivo
potesse capitargli e poi, successivamente, si sentiva annientato dalla
mancanza.
Una
come lei non ci fa nulla, nella vita di merda che conduco. Ed io non
posso
uscirne in alcun modo… nemmeno per qualcuno come lei.
«Vuoi
che resti a casa con te, stasera? Posso
rinunciare a Marta»
Non gli
sfuggì la vena malinconica, il sorriso appena
incrinato, la testa un po’ china, quasi rassegnata. Aveva
bisogno di Julian in
quella vita, ma non era un bisogno reciproco. Jules stava bene senza di
lui,
sembrava ferito ogni volta che provava a parlargli e questo aumentava
solo il disagio.
Non
ho
bisogno di lui stasera, ho bisogno di distruggermi
Di sfondarsi di
alcol, di spaccare la faccia a
qualcuno, di fumare e forse anche di qualcosa di più forte.
«Rinunceresti
ad un giorno per me? Hai solo una
settimana per fare centro, ricordi? Poi si cambia» lo
apostrofò ironico, e
Julian ampliò il sorriso e ritrovò
l’allegria «Già fatto. Con lei sono alla
fine della settimana, se no col cavolo che rinunciavo!»
Demian scosse
appena la testa «Vai pure e sbattitela. Ho
già un impegno stasera»
Con un sospiro,
Julian si alzò, gettò il mozzicone
della sigaretta fuori dalla finestra aperta dietro al divano, ne
osservò la
parabola in aria pensieroso.
«Allora
io vado» mormorò distrattamente. Poi si
voltò
a guardarlo «Con la mamma ti copro io, ma vedi di
ricominciare ad andare a
scuola il prima possibile, idiota»
Demian lo
seguì con gli occhi mentre raggiungeva la
porta d’ingresso e abbassava la maniglia con lentezza
esasperata, esitante. Il cugino
si bloccò, incrociò il suo sguardo e con una
serietà disarmante, che poco si
addiceva alla giovialità del suo volto, aggiunse
«Non fare altre stronzate,
Dami, o giuro che questa è l’ultima volta che
chiudo gli occhi e faccio finta
di niente. Vuoterò il sacco con Claire»
«Non lo
farai»
Le parole uscirono
spontanee, provocatorie, eppure sicure,
perché Demian lo sapeva, Jules non lo avrebbe mai tradito.
Nel bene e nel male,
Julian era dalla sua parte.
Lo vide serrare i
pugni, offeso «Cosa te lo fa
credere?»
«Tu lo
sai, che lì dentro morirei peggio che qua
fuori, da solo»
Era la
verità: non sarebbe mai sopravvissuto nella casa
della zia, con Claire, Lorenzo, Sarah ed il fantasma di maman come una
spada di
Damocle sopra la testa. Nessuno lo sapeva meglio di suo cugino, ed
infatti, in
un moto di consapevolezza Julian abbassò gli occhi,
sconfitto.
«Lo
credevo anche io» mormorò «Ma non sono
più sicuro
che tra il “qua” e il
“là” ci sia differenza ormai»
Demian sorrise,
una piega morta e fredda del viso
congestionato. Aspirò un’altra boccata di fumo e
lo congedò «Dà un bacio a
Sarah da parte mia»
***
Urla, risa, fumo.
Musica.
In una parola:
Edoné.
Quello era il
locale preferito di Nicolas, dove tutti sapevano di
poterlo trovare, perché Nico era sfuggente a tratti, la
figura mitologica degli
ambienti più malfamati, il pusher di cui tutti parlavano,
difficile da
incontrare e tanto mitizzato da risultare impossibile, ma al bere e
alle donne
non ci sapeva rinunciare, così come alla coca.
Confuso dalla
troppa vodka ingerita che sfasava la sua vista già
deteriorata,
Demian barcollava fra quella massa di corpi che saltava al ritmo di
musica, urtandolo
fin quasi a buttarlo a terra. C’era un nuovo gruppo che
suonava un metal
cattivo, aggressivo, sicuramente scandinavo. Il casino era tale che era
impossibile capire qualcosa, anche solo le parole della canzone che
parevano,
alla sua mente offuscata, strani latrati. Il costato continuava a
dolergli, ma
l’alcol che gli scorreva nelle vene aveva reso tutto leggero
e vaporoso e niente
era a fuoco, a causa anche del fumo colorato che veniva rilasciato
sulla pista,
s’innalzava nell’aria e fondeva le sagome in
un’unica, grande massa pulsante di
vita.
il cuore pompava
il sangue a tempo con la musica.
In un moto di
lucidità riuscì finalmente ad individuare il
tavolo che
Nicolas occupava abitualmente, circondato da poltrone usurate e bagnato
da una
luce appannata. Sul muro erano appesi vinili originali di vecchi gruppi
Rock
del passato, Demian una volta li aveva studiati e aveva riconosciuto
qualcosa dei
Pink Floyd e Phisical Graffiti dei Led Zeppelin, roba forte e sprecata
in quel
mare di persone strafatte e inconsapevoli.
Il suo amico era
stravaccato su una poltrona a gambe divaricate, con un
braccio a cingere le spalle di una ragazza parecchio disinibita e
disponibile,
completamente spalmata sul suo petto, il sorriso sciolto in una risata
languida. Stava
fumando e gli bastava
vedere l’espressione divertita sul suo viso per sapere che
non era una
sigaretta. Nell’ altra mano stringeva un bicchiere mezzo
pieno di un qualche cocktail
che ad ogni movimento inconsulto minacciava di rovesciarsi sulla sua
accompagnatrice
di turno. Accanto c’era Alex, capelli rasati e
l’immancabile piercing al
sopracciglio, un sorriso stranamente ebete e gioviale per i suoi
standard;
Andrea non si era fatto la barba, aveva un pizzetto imbarazzante e
l’aria di un
orso, accentuata dai capelli crespi troppo lunghi e unti che gli
ricadevano
sulla fronte, in un’inestricabile rete. Tra tutti, si
sentì sollevato nel ritrovare
Davide tra i presenti: con quell’aria da sfattone, la felpa
enorme e la cresta
biondissima sparata in aria con il gel, la testa rasata ai lati,
restava l’unico
che avesse voglia di vedere.
E
almeno non c’è quel rompipalle
di Teo
«Dem!»
urlò Davide da lontano, saltando in piedi ed agitandosi come
un
ossesso per attirare la sua attenzione. Nico lo vide,
allontanò la ragazza in
modo poco gentile e si alzò per andargli incontro. Era
allegro, a giudicare
dall’odore già parecchio alticcio, e lo
afferrò senza tanti complimenti per il
collo, costringendolo ad abbassarsi. Con la testa incastrata sotto il
suo
braccio, Demian sentì le nocche del pugno di Nico sfregare
dolorosamente contro
la cute.
Scoppiò
a ridere, nonostante il bruciore che gli inumidì gli occhi.
«Piccolo
stronzetto ingrato, che fine avevi fatto?» urlò
sopra la
musica, trascinandolo dagli altri. Non lo fece rispondere,
gridò ancora «Ehi,
idioti! Guardate chi si è deciso a tornare!»
Alex distolse
l’attenzione dalla ragazza che stava civettando con lui,
Davide sorrise raggiante e gli porse subito il pugno che Demian
colpì con il
suo.
«Che
fine avevi fatto, amico? E poi, cazzo ti è successo? Sembri
finito
sotto un treno!»
Alex anche, si
sollevò e gli porse il pugno in segno di saluto
«Hai
fatto rissa senza di noi? Spero per te che gli altri siano messi peggio
di
quanto non lo sia tu, o ci farai fare brutta figura»
Dem
sollevò le spalle con noncuranza
«L’altro ha il naso rotto, direi
che siamo pari»
Dave, come un
criceto iperattivo e strafatto gli scrollò il braccio
«Sei
nei guai, Teo vuole farti nero!»
«Già.
Non te la farà passare liscia tanto facilmente»
commentò Andrea lugubremente,
aprendo bocca per la prima volta. Il suo pessimismo cosmico ai limiti
del leopardiano
e il suo malumore costante lo rendevano indigesto, per cui Demian non
sapeva
mai come rapportarsi a quel malumore e finiva con il tacere. Andrea non
si era
mosso, non l’aveva salutato, era rimasto seduto con la sua
birra in mano e gli
occhietti acquosi annebbiati. Intervenne però Nicolas, che
lo costrinse ad abbandonare
la sua perplessità per sedersi accanto a lui «Non
ti toccherà, non corri
rischi. Sei un piccolo bastardo fortunato!»
La ragazza che
fino a quel momento si era trovata in uno stato di
adorazione assoluta per Nico, fu costretta ad allontanarsi e lo fece
senza
nascondere la propria stizza. Ora fissava Demian con l’odio
più assoluto.
«Il
minimo che puoi fare è dirmi perché cazzo sei
sparito nel nulla. Non
vorrai abbandonare il giro, spero!»
Come
se lasciarlo fosse tanto
semplice
Nicolas a volte lo
trattava davvero come un bambino, ed era assurdo, paradossale
considerando il soggetto in questione. Il resto della combriccola lo
fissò con vivo
interesse, fatta eccezione per Andrea che era tornato alla sua birra ed
era concentrato
sul liquido ambrato.
«Le
solite cose. Sai di che parlo» urlò sopra la
musica martellante che
copriva ogni voce ed ammiccò a Nico perché
cogliesse l’antifona. Il ragazzo
sorrise quasi complice e si sporse verso di lui in modo che solo loro
due
potessero sentire «E come sta la bambolina?»
«Sta
bene, aveva solo qualche esame» mentì.
Ogni volta che
necessitava di prendersi del tempo da quel gruppetto,
usava Sarah come alibi. Nico la conosceva di nome e di vista, non le
aveva mai
parlato ma sapeva a grandi linee la situazione e quindi, se la citava,
subito
si ammorbidiva.
«Se
è per lei sei sempre giustificato. Adoro quella bambolina,
è
bellissima»
«Smettila
di parlare di lei così, sembri un vecchio
pederesta!»
Nicolas
scoppiò in una risata sguaiata ai limiti
dell’animalesco, ma
aveva gli occhi più buoni quando parlava di Sarah,
più normali. Forse, perché anche
lui aveva avuto un fratellino che però era morto in un
incidente quando aveva
sette anni. Lo avevano investito, e Nico non aveva mai davvero superato
quella
perdita. Era il suo demone. Tutti lì avevano un demone,
persino Davide, in
apparenza il più tranquillo e sereno. Macerie su cui, per
qualche motivo, non
riuscivano a ricostruirsi una vita.
«Dovrai
farmela conoscere, prima o poi!»
«Non se
ne parla proprio. Saresti un trauma a vita!»
Ma
come può anche solo venirti
in mente che io possa mettere la mia Sarah in contatto con uno
psicopatico
cocainomane? Con l’ultima riga ti sei aspirato pure il
cervello!
«Nico,
ne vuoi?»
Alex
richiamò il ragazzo porgendogli un piattino con quattro
strisce bianche,
come a rimarcare il pensiero che lo aveva appena sfiorato. Nicolas
sorrise
ferino, prima di chinarsi ed aspirarne una con un suono strano simile
ad un
risucchio. Arricciò il naso, lo sfregò con la
mano, tentò di passargli il
piatto in un gesto abituale che Demian, come sempre,
declinò. Aveva provato
diverse schifezze nella sua breve esistenza: non aveva mai disdegnato
il fumo e
gli acidi. La cocaina però, restava un grande
tabù non ancora infranto,
nonostante tutto.
Lui e Davide erano
gli unici puliti su quel versante, si spaparanzarono
malamente su un divanetto e si passarono una canna. Con
l’effetto del fumo,
ogni pensiero eccessivamente complesso e negativo svaporava, si
ritrovava con l’amico
a parlare di discorsi importanti come l’Amazzonia che era il
polmone della
terra, o l’estinzione dei tonni. Cose senza senso che lo
liberavano dal
malessere.
Voleva lasciarsi
andare quella sera, completamente, senza remore.
Voleva dimenticare
tutto quello che gli aveva detto Jules, che Sarah
avrebbe dovuto incontrare maman presto o tardi, che il futuro si
presagiva uno
schifo. Scordare ogni cosa, compresa la sua irremovibile decisione: che
Annie
non faceva per lui, che lui non faceva per lei.
Se
per farlo serve della vodka…
ne butterò giù tutta quella necessaria.
NOTE AUTRICE
Chi non muore si
rivede! Sono molto impegnata, ma la storia non è
sospesa… così, giusto per farvi sapere che non ho
abbandonato il progetto
nonostante l’attesa secolare tra un capitolo e
l’altro!
A presto!
|
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Capitolo 17 *** Nessuno è fatto per stare da solo ***
À Demian
Capitolo quindicesimo
Nessuno
è fatto per stare solo
Fu il rumore di una vibrazione amplificata
dalla superficie di legno a svegliarla.
Nello stordimento di un risveglio imprevisto,
ancora avviluppata dalla stanchezza e da un sogno abbastanza
allucinante, non
riuscì ad identificare immediatamente l’origine
del suono. Non aveva sveglie in
camera sua, sua madre le concedeva di dormire quanto desiderava. Poco
lucidamente, pensò che potesse essere stato Daniele, in uno
dei suoi dispetti
costanti, e borbottò tra sé e sé
maledizioni al fratello maggiore mentre allungava
il braccio verso il comodino e lo tastava goffamente, senza togliere la
faccia
dal cuscino.
Con le dita s’imbatté nel
cellulare sotto
carica.
Cavolo,
questo aggeggio infernale. Non riesco mai a ricordarmi di averne uno
L’aveva usato per la prima volta solo il
giorno prima, per sentire Demian, ma il concetto stesso di
quell’oggetto la
faceva sentire priva della sua indipendenza e la infastidiva. Lo
afferrò prima
che il baccano svegliasse Giorgi, con cui condivideva la stanza. Ancora
offuscata dal sonno, ma con un vago sorriso, si mise a sedere e
accettò la
chiamata in arrivo considerando che l’unica persona, oltre
alla sua famiglia, a
possedere quel numero, fosse appunto proprio Demian.
«Pronto?» biascicò
insieme ad uno
sbadiglio.
«Ciao, scusami per il disturbo. Tu sei
per
caso Annie?»
Fu come ricevere una secchiata d’acqua
gelida in faccia. Fece scattare l’interruttore della luce,
ignorando bellamente
il fratellino, e balzò sul letto, in piedi «Tu non
sei Demian!» constatò,
scioccata. Poi si portò una mano alla bocca, come a
trattenere il tono di voce,
per quanto ormai fosse tardi. Le sfuggì un sospiro di
sollievo nello scoprire
che Giorgi non si trovava nel suo letto. Nonostante
l’età, ancora gli capitava
di sgattaiolare nel cuore della notte nel lettone dei loro genitori.
«No, direi di no. Ma tu sei lei,
giusto?»
La voce non era quella di Demian, però
poteva distinguere una leggera traccia di accento francese, una
delicatezza
morbida nell’accarezzare alcune consonanti, non marcata come
quella di Demi ma
altrettanto tenacemente aggrappata alla pronuncia.
«Sono Arianna»
chiarì, senza celare la
propria insofferenza. Si contenne dal domandare con tutta
l’ostilità possibile
come avesse recuperato il suo numero quello sconosciuto,
perché per quanto
ovvio, non voleva proprio credere che Dem lo avesse dato a qualcuno. Se
per un
momento era stata pervasa dalla gioia estatica al pensiero di star
ricevendo
una chiamata proprio da lui, ora la delusione l’aveva
inacidita.
Ci
potrei tenere un corso, sui cambi d’umore repentini
«Scusami se ti chiamo a
quest’ora»
attaccò imbarazzata la voce all’altro capo,
fermandosi quasi subito,
probabilmente alla ricerca delle parole giuste che non la spingessero a
sbattergli il cellulare in faccia. Decise di non mostrare compassione
per lui,
nonostante avesse percepito il suo disagio, e sbuffò
«Perché, che ore
sarebbero?»
«Le cinque e mezza del mattino,
più o
meno»
La saliva le andò di traverso e quasi
ci si strozzò. Tra un colpo di tosse e le lacrime agli occhi
strillò ancora «Cosa?
E tu chi saresti?»
Si guardò intorno alla ricerca di un
orologio che confermasse quell’assurdità, salvo
poi ricordarsi che aveva
costretto tutta la famiglia a bandire qualunque forma di segnatempo in
quella
casa. In un momento di crisi, aveva deciso che il ticchettio del tempo
che
scorreva la innervosiva ai limiti dell’isteria, ora
ovviamente se ne pentiva.
Saltò giù dal letto e si precipitò
verso la finestra.
«Sono Julian, il cugino di
Demian»
borbottò.
Arianna scostò le tende,
aprì la
finestra e cacciò fuori la testa. L’aria
corroborante della notte le frustò le
guance, era così fresca che le parve di respirare una
profonda boccata di
ghiaccio.
«Non ho molto tempo per spiegarti, ma
potresti venire con me?»
«Ché?»
esclamò ancora a voce
eccessivamente alta. S’irrigidì e rimase
l’attimo successivo in silenzio, per
controllare di non aver svegliato nessuno.
Fortunatamente
Daniele è un trattore e qui tutti sono abituati alla Seconda
Guerra Mondiale,
che se atterrasse un elicottero in giardino probabilmente nessuno se ne
accorgerebbe.
«E perché dovrei venire con
te?»
Julian sospirò abbastanza rumorosamente
da farsi sentire «Sembra che Demian si sia messo di nuovo nei
guai. Io non
riesco più a farlo ragionare, ma forse
tu…»
Demian
Nei
guai
Qualsiasi forma di pensiero razionale
si disperse rapidamente ed Arianna neanche aveva riflettuto e
già aveva passato
a quello sconosciuto il proprio indirizzo. Poteva essere benissimo un
serial
killer per quanto potesse riguardarla, ma anche solo un margine di
dubbio le pareva
sufficiente a fidarsi.
Demian era il tipo di ragazzo
perfettamente in grado di mettersi nei guai. Non lo conosceva
così bene, eppure
ci avrebbe messo una mano sul fuoco senza esitare.
Quell’impressione nasceva
dai racconti di Jenevieve, che quando parlava di suo figlio si
corrucciava e
increspava la fronte pallida in un accenno di preoccupazione
più che
sufficiente: quella donna viveva sull’altra riva del fiume da
sempre, era
tagliata fuori dalla banalità umana, eppure, nonostante
quella sua visione leggera
dell’Essere, per Demian non riusciva a trattenere
l’ansia. Ad Arianna questo
bastava a rendere evidente la propensione alla
problematicità del ragazzo. A
questo si univa la sua personale sensazione, che Demi
s’impegnasse a non essere
troppo se stesso in sua presenza, come per preservarla da qualcosa di
sgradevole.
Una fetta piuttosto ingombrante di lei
voleva solo avere l’occasione di guardare oltre quel Velo di
Maya e, forse,
Julian l’avrebbe squarciato e le avrebbe mostrato tutto
ciò che c’era da vedere.
Forse avrebbe placato la sua morbosa curiosità per quello
strano individuo.
Un
perfetto, stupido ragazzo che pensa di essere in grado di nascondere le
sue
malefatte a sua madre
Si chiedeva sempre da dove venisse
tutto quell’amore, quell’orgoglio assoluto che
illuminava Jenevieve anche
mentre le raccontava i danni che lui pensava di nasconderle, e
c’era così tanta
tenerezza, così tanta indulgenza per quel ragazzino, che lei
stessa non aveva
potuto non restare affascinata dal ritratto che quella donna aveva
dipinto per
lei.
Il ragazzo di cui parlava Jenevieve era
un disastro ambulante, per cui però non si poteva non
provare un affetto quasi
istantaneo. Come lo si abbandonava un soggetto simile?
Recuperò un felpone di Daniele ed un
paio di jeans smangiati, con i buchi sulle ginocchia che ormai si erano
trasformati in crateri, senza mai smettere nel mentre di maledirsi.
Dovresti
farti una buona dose di affari tuoi, piuttosto che andargli dietro,
tanto lo
sai benissimo che stai facendo un immenso errore, non sei una presenza
sana,
guardarti. Ha già i suoi problemi senza che ti aggiungi tu
La coscienza era una bestia oscura che
divorava da dentro, lasciando sempre l’impressione di
facciata che tutto
andasse bene.
Le
persone, da fuori, sembrano indistruttibili, perfette come bambole di
plastica
che non si possono rompere. È il dentro che è una
fregatura, un agglomerato di marciume
infilato a forza tra gli organi, da qualche parte
La sua coscienza era terribile più di
tutto, le toglieva molte cose, una ad una, con la noncuranza con cui un
bambino
strappa i petali ad una margherita. Così lei stessa si
privava della propria
corolla e poi pativa nuda e sola il freddo dell’inverno.
Raccolse frettolosamente i capelli in
una coda alta ed arruffata e sedette sul bordo del letto, in attesa. Il
silenzio prima dell’alba era assoluto ed inquietante. Se si
concentrava, le
sembrava quasi di sentire il ronzio della corrente elettrica che
passava
attraverso i muri.
Lo
so che sbaglio, ma stavolta non mi va proprio di fare la cosa giusta.
Per
una volta, solo questa, lo giuro, però questa volta no.
Anche se lui è fragile…
La verità era banale:
un’anima
sensibile come quella di Demian era troppo attraente, per lei che aveva
sempre
ceduto al fascino della bellezza più autentica e primitiva.
C’era qualcosa di
primordiale in lui, nei suoi istinti suicidi, qualcosa
d’intrigante. E che non
potesse guarirlo le importava poco, non pretendeva nemmeno di arrogarsi
una
simile responsabilità.
Guardarlo da vicino però era un sottile
piacere che non voleva negarsi.
Non
posso guarirlo… ma non posso nemmeno rinunciare a provaci
L’attesa però la innervosiva.
Ebbe il
tempo di scivolare in bagno, attraversando il corridoio della zona
notte con
una furtività poco sensata dopo tutti gli urli che aveva
cacciato, riuscì a
sciacquarsi e a tornare nella propria stanza senza ricevere notizia di
Julian.
Così raccattò il primo paio di scarpe che le
riuscì di trovare, un paio di
Adidas completamente sfondate, e aspettò in sala.
Appollaiata sul divano, nel buio di una
casa addormentata, si sentiva inquieta. Quando finalmente
arrivò lo squillo di
Julian sentì un peso togliersi dallo stomaco, uno stato di
ansia dovuto anche a
sua madre e a quel muoversi furtiva in casa propria. Varcò
la soglia di casa in
punta di piedi, con le scarpe in mano per ridurre i suoni al minimo, e
nel
mentre cercò di approssimare quanto tempo ci sarebbe voluto
alla sua famiglia
per accorgersi della sua assenza.
Probabilmente
un paio d’ore, non di più. Se solo la mamma fosse
meno mattiniera!
Suo padre non era rientrato, ma anche
l’avesse fatto probabilmente non avrebbe avuto la
lucidità per rendersi conto o
meno della sua presenza, a volte quelle sue mancanze diventavano
benedizioni.
A
volte.
Scavalcò il cancellino e raggiunse
l’unica macchina con i fari accesi lungo il vialetto, quasi
in appostamento,
saltellando come un pollo con una sola zampa mentre
s’infilava le scarpe. Aprì
la portiera e s’infilò nella macchina con tutta la
furtività di cui era capace,
solo per calarsi meglio nel ruolo di pessima spia di un film
adolescenziale di
dubbio gusto. Le sfuggì un sorriso: sciocchezze come fuggire
di casa con uno
sconosciuto, non le aveva mai fatte, ed anche se il motivo era
tendenzialmente
serio ed importante, la situazione la divertiva davvero troppo. Dovette
rimproverarsi mentalmente per non far trasparire quella vena
d’infantilismo.
Ovviamente non ci riuscì, guardò il ragazzo alla
guida e sfoderò
involontariamente il suo sorriso più allegro.
«Buon giorno!»
Quello che doveva essere Julian, un
ragazzo dal viso fine ed i capelli biondi, arruffati come fosse appena
rotolato
fuori dal letto, la fissava con gli occhi pesanti di borse violacee
quasi
sgranati per la sorpresa «Wow» si lasciò
sfuggire in un borbottio, arricciando
le labbra sottili «Tu saresti Annie?»
Gonfiò una guancia con disappunto
«Arianna»
specificò.
Non c’era una ragione precisa,
però non
era abituata a quel nomignolo che poco centrava con il suo nome. Detto
da
Demian aveva quasi senso, inspiegabilmente, ma sulle labbra di chiunque
altro stonava
terribilmente.
Julian accennò un sorriso saccente
«Beh,
“wow” comunque. Niente male davvero»
Quell’aria da padrone della situazione
che mirava a metterla in imbarazzo la irritò.
Inclinò il capo, sbatacchiò gli
occhioni e gli sorrise maliziosa, nell’imitazione grottesca
di una bambolina «Vuoi
una foto, o ti basta la radiografia che mi hai appena fatto?»
Jules ingrandì il sorriso, da
strafottente a pienamente divertito «Mi accontento di poter
usare di nuovo il
tuo numero, ma chérie»
Quella reazione scarsa la indispettì
«Lascia
perdere, non c’è trippa per pesci»
«Hai per caso dei pesci rossi carnivori
geneticamente modificati?» la prese in giro. Era la linea
provocatoria e
strafottente di quella bocca ad innervosirla, non era come Demian. Non
s’innervosiva, non si imbarazzava, restava tremendamente
sicuro di sé.
Incrociò le braccia al petto, stizzita
«Perché?»
«Ah, non saprei. Da che mondo e mondo
la trippa se la mangiano i gatti. Ma ehi, sei amica di mio cugino, non
mi
meraviglierebbe se il tuo caso fosse un’eccezione!»
Il sangue le affluì alle guance con la
stessa intensità di una colata lavica «Se avessi
dei pesci rossi carnivori, te
li sguinzaglierei contro!»
Julian allontanò il ciuffo biondo che
gli ricadeva sul viso e assunse l’espressione caricaturale di
qualcuno che
voleva sembrare affascinante ma sembrava un vero imbranato
«Questo non è un no»
ammiccò con un occhiolino che la fece rabbrividire e
sorridere insieme. Si
contenne per non dargli la soddisfazione di sapere che in
realtà lo trovava
molto divertente, perché quella faccia tosta opposta a suo
cugino, quel
ghignetto sicuro e strafottente che gridava “cadrai ai miei
piedi, lo sappiamo
entrambi. È inutile che opponi resistenza”, si
meritavano di schiantarsi contro
un muro a cento all’ora. Girò la manovella del
finestrino e Jules si accigliò.
Non gli disse nulla, ma aprì
platealmente il cellulare, tolse la Sim e gliela mostrò con
altrettanta
arroganza.
«Che stai facendo?»
Con un movimento repentino, fece il
gesto di gettarla fuori dal finestrino e, altrettanto velocemente,
abitudine di
anni di allenamento, nascose la sim tra il dito medio e
l’indice. Il trucco
della monetina, così lo chiamava Daniele.
Al ragazzo cascò la mandibola, Arianna
si voltò soddisfatta verso di lui, senza cancellare il
sorriso «Adesso puoi
usarlo, se vuoi» dichiarò con una scrollata
noncurante delle spalle.
Julian richiuse la bocca con uno
schiocco secco, ma gli occhi, quegli occhi verdi attraversati da
venature
dorate, restavano dilatati in uno stupore attonito.
«Ahi» borbottò,
portandosi la mano al
cuore con fare teatrale.
si
è ripreso in fretta
neanche a pensarlo, il ragazzo abbozzò
subito il ghigno da predatore mancato che già Arianna aveva
intuito fosse parte
integrante del suo essere quanto quel taglio di capelli alla Zack Efron.
«Io te lo dico, questo netto rifiuto mi
ha ferito profondamente. Sappi che hai fatto a pezzi il delicato cuore
di un
fanciullo sognatore in modo a dir poco barbino»
L’aria ironica e giocosa la fece, al
fine, cedere, ed Arianna si ritrovò a ridere «Hai
mangiato un dizionario prima
di venire qui?»
«Sono solo un brillante e galante uomo
d’altri tempi» la corresse lui, senza smettere di
guardarla. Era uno stupido,
ma sembrava genuino, quell’idiozia era più reale
della facciata da predatore con
cui l’aveva accolta. Arianna si sporse verso di lui, tese la
mano quasi a
sfiorargli il viso e notò appena la schiena di Julian
pietrificarsi e perdere
baldanza, come se davvero si stesse aspettando un qualche suo gesto
inconsulto.
Però la fissava negli occhi ed una consapevolezza strana le
balenò
all’improvviso
Non
pensa che io possa fare qualcosa, è lui che vorrebbe fare
qualcosa
Ma almeno, nonostante
l’intensità
sfacciata con cui la studiava, non accennava a muoversi.
Così decise d’ignorare
la tensione che proveniva dal corpo del ragazzo, gli passò
la mano dietro
l’orecchio e finse di estrarne la sim del cellulare,
sfoggiando poi il suo
sorriso più vittorioso e soddisfatto.
«Egocentrico, pensi davvero che
rinuncerei al mio numero per te?»
Le pupille di Jules seguirono rapite la
sua mano e l’oggetto che ora mostrava con tanta
ovvietà.
«Ti diletti di trucchi di magia, ma
chérie?»
Non avrebbe mai confessato che dopo
aver letto il libro di Harry Potter aveva sognato Hogwarts, magia, gufi
e
lettere che non erano ovviamente arrivate. Né avrebbe mai
rivelato che quello
stupido trucchetto che tanto lo aveva preso in contropiede in
realtà era solo
uno dei molti che suo padre faceva quando era bambina e in ospedale si
annoiava
troppo.
Anche lei era stata entusiasta ed
estatica a suo tempo, prima d’imparare, ma ora quei ricordi
avevano un
retrogusto un po’ più amaro.
«A volte» chiarì
con un sorriso.
Il ragazzo ridacchiò «Sei una
strega
arruffata, inizio a capire come lo hai incastrato,
quell’ingenuo di mio cugino»,
commentò soltanto, scuotendo piano la testa, come
indulgente. Arianna guardò il
suo profilo mentre si ricomponeva alla guida, e pensò che
fosse un ragazzo
particolare. Considerando Demi e Jenevieve, giunse alla conclusione che
tutti,
in quella famiglia, dovessero essere un poco fuori dalle righe, ma
almeno
Julian era più incline al gioco di quanto non lo fosse
Demian con la sua
espressione truce e corrucciata e quell’atmosfera da
“ce l’ho con il mondo”.
Ecco,
credo che lo ribattezzerò
“Demian-ce-l’ho-con-il-mondo-Lemaire”
Paradossalmente, nonostante la sua
giovialità, la sicurezza di Julian restava irritante, i tipi
come lui avevano
su di lei la stessa attrattiva di una giornata al mare per un vampiro.
Distolse
lo sguardo, in imbarazzo, e lo incitò «Muoviti, i
miei si svegliano presto.
Quindi portami nel posto dove mi devi portare, a recuperare
quell’irrecuperabile idiota di tuo cugino!»
La macchina si accese con un rombo
leggero, poco rassicurante, e Julian annuì, ora
più grave «Come desideri
tresòr, ma potresti non apprezzare quello che
vedrai»
In caserma, ecco dove l’aveva portata
Julian.
Dai carabinieri.
Che
posto romantico come primo appuntamento. Ok, che non mi aspettavo una
suite
dell’Hilton, ma qui abbiamo toccato proprio i massimi storici
della tristezza.
Cercò di prenderla sul ridere, almeno
tra sé e sé, ma dovette ammettere di essere
rimasta piuttosto turbata e mentre
seguiva Julian come un pulcino dietro la chioccia, non poteva non
chiedersi
quale motivo l’avesse spinta ad essere lì. Il
biondino aveva confabulato con un
carabiniere dall’aria stropicciata e stanca e questo gli
aveva lasciato una
leggera pacca di conforto sconsolato sulla spalla prima di invitarli
entrambi a
seguirlo.
Il ragazzo la guardò con un sorrisino
compassato, un misto di esasperazione e scocciatura, un atteggiamento
strano
per qualcuno che stesse andando a tirare fuori dai guai il cugino
quindicenne,
minorenne.
Si accomodarono sulle seggiole davanti
ad una scrivania e il carabiniere di turno offrì loro un
caffè, che Julian accettò.
Lei non se la sentiva, era troppo frastornata, si rendeva conto di non
riuscire
a smettere di frugare l’ambiente circostante con puro
sgomento dipinto in
volto.
«Chiamo Antonio e torno e
subito»
chiarì l’uomo in divisa, prima di sparire dietro
ad una porta. Arianna si
sforzò di riportare gli occhi sul suo accompagnatore,
ticchettò le dita con
studiata nevrosi sulle braccia conserte, in un crescendo di rabbia e
indignazione.
«Non dovresti dirmi qualcosa? Spiegarmi
almeno la situazione?»
Julian sorseggiò un poco il
caffè della
macchinetta, poi sospirò «Demian sarà
in una delle camere di sicurezza, sarà
una cosa veloce»
«Una cosa veloce»
mormorò a stento,
quasi fosse un pappagallo. La nonchalance di quel ragazzo stava
mettendo i suoi
nervi a dura prova. Ebbe l’impulso di prendere a sberle
qualcuno fino a
gonfiargli la faccia, e non sapeva se quella collera fosse rivolta a
Julian o a
Demian. Il miracolo restava, in qualche modo si stava trattenendo.
Per
ora, almeno.
Non leggere preoccupazione in quegli
occhi verdi screziati d’oro, ma solo una rassegnazione
dimessa che sapeva di
resa, le lasciava in bocca un retrogusto amaro, un sapore inspiegato di
sconfitta.
«Lo hanno arrestato?»
Jules abbozzò un sorriso stentato
«Tecnicamente
sarebbe in stato di fermo» la corresse, ma poi lesse la
scintilla omicida che
la animò perché si ricompose subito in
un’espressione seria.
«Ci porteranno presto da lui, non
preoccuparti»
«Demi è minorenne»
osservò con
circospezione, cercando di decifrare quella calma eccessiva e
disagiante «Solo
il suo tutore può tirarlo fuori di qui, anche se
è fermo e non arresto»
Julian non riuscì a reprimere
l’ennesimo sorriso, eccessivamente divertito, come si stesse
prendendo gioco di
lei.
«Questo è vero, ma in
realtà non è propriamente
in fermo. Il suo nome non comparirà su nessun documento
ufficiale, diciamo
così. Un favore di un amico di famiglia, più o
meno. Diciamo che Antonio si
cava qualche occhio per lui per non farlo mettere nei guai»
Arianna sentì le spalle cedere sotto un
improvviso peso che non le riuscì di identificare. Priva di
forze, si rassegnò
ad accasciarsi sulla sedia e tornò a guardare davanti a
sé.
Sembra
così assurdo, cosa intende esattamente con
“guai”? Qual è la vera definizione
di guai?
Nella sua concezione, guaio era mangiare
i biscotti di nascosto prima di cena, o sgattaiolare fuori casa alle
cinque di
mattino. Sospettava che i guai a cui si riferiva Julian fossero un
po’ più
grandi e complessi. Prese fiato e tornò alla carica
«Perché non
c’è un adulto qui? Non
dovrebbe occuparsene qualcun altro? Qualcuno di un po’
più…»
Responsabile?
Competente?
All’altezza?
Qualcuno in grado di fermarlo, che gli
desse la sonora strigliata che si meritava e lo riportasse sulla via
del
ragionevole. Perché saperlo lì, sapere che
quell’episodio non era a se stante,
era routine, trasformava tutto in una devastante sconfitta, una
battaglia di Waterloo
senza speranze, come se Demian fosse già etichettato come un
caso umano e fosse
troppo tardi per rimediare e l’unica soluzione fosse
tamponare un’anfora che
faceva acqua da tutte le parti.
Per lei era inaccettabile, Arianna non
era mai stata brava a perdere, la resistenza all’ovvio era il
suo mantra, non avrebbe
sventolato bandiera bianca nemmeno se davanti a lei si opponeva
imperterrito uno
scontroso che per se stesso sapeva provare solo disprezzo.
Un infervoramento improvviso la
travolse e la rimestò, tanto che stare ferma gli
sembrò impossibile e si agitò
sulla sedia.
Julian nel mentre si stava massaggiando
la fronte, sembrava stesse cercando di raccattare parole per dare un
senso a
qualcosa che effettivamente non ne aveva troppo.
«Ci sono meccanismi complicati, a
volte»
mormorò stancamente, poi però sorrise ancora e
Arianna, d’un tratto, in Julian
rivide un poco se stessa e quella leggerezza autoimposta a volte, per
sopportare cose di difficile sopportazione.
«La tutrice di Demian è mia
zia ed è
impossibilitata al momento. Ci sono cose che mia mamma non sa e che mia
zia non
vuole che sappia. Mi ha chiesto questo favore, di fare le sue veci. Mia
mamma è
in gamba, ma ha i nervi fragili, la zia non pensava potesse gestire
tutto
questo…» la voce stemperò in un sospiro
«Forse non posso nemmeno io» valutò
amaramente, storcendo la bocca.
Il carabiniere di prima riapparve sulla
soglia e fece cenno a Julian di seguirlo. Il ragazzo abbassò
un poco le spalle,
appesantito, e le sorrise di nuovo, una smorfia malinconica che non
raggiungeva
gli occhi «Mi portano da lui, aspetta qui»
Arianna si ritrovò ad annuire, quasi
distrattamente. Quando rimase sola però, la
curiosità ebbe il sopravvento. Si
avvicinò alla porticina che dava sul corridoio, ci si
affacciò ed inseguì con lo
sguardo la figura dell’agente e di Jules che parlottavano tra
loro. Ebbe solo
un attimo d’indecisione, poi gli trotterellò
dietro, perché era tutto troppo
assurdo e per crederci voleva vedere con i suoi occhi. Fu il suono di
una
risata a cementificarla al suolo e impedirle di avvicinarsi oltre. Poco
oltre
Jules e l’agente, un uomo di guardia stava porgendo qualcosa
tra le sbarre
della camera di sicurezza. Una mano pallida che conosceva bene comparve
nel suo
campo visivo, afferrò quella che doveva essere una foto e
cacciò un fischio.
«Cazzo se è cresciuta!
È passato
davvero così tanto dall’ultima volta che
l’ho vista?» commentò il detenuto, che
si rivelò ovviamente essere Demian.
Sebbene lo sapesse e in realtà fosse
scontato, ne rimase davvero sconcertata. Quell’incosciente
stringeva tra le
mani la foto con un sorrisino strano che non gli aveva mai visto,
velato di
un’appiccicosa mestizia.
Era troppo lontana perché la notasse, a
meno che non avesse voltato il capo nella sua direzione, ma da
lì Arianna
vedeva la sua figura di tre quarti, i capelli sparpagliati, quasi
completamente
caduti sul suo volto, come stanchi nonostante il gel ancora cercasse di
far
presa.
Il carabiniere scrollò le spalle
«Figurati,
Chiara ormai è una piccola signorina e si annoia a venire al
lavoro con il suo
papà. Lucia era l’unica che mi desse
soddisfazione, ed ora se la prendo in
braccio si mette a piangere!» sollevò gli occhi al
soffitto con disperazione «Un
giorno, marmocchio, mi dirai come hai traviato la mia bambina»
Demian sfoderò un ghigno spavaldo e
provocatorio, che metteva in mostra il suo canino sinistro leggermente
storto.
Quasi sembrava una fiera, un animale impossibile da domare, una persona
completamente differente da quella che lei aveva conosciuto.
Allora
avevo ragione, ti impegni davvero a non lasciarmi sola con te
«Sono giovane e bello, direi che sono
motivi più che sufficienti» rispose con
presunzione e poi aggiunse, non senza
una certa petulanza, come se quella frase l’avesse ripetuta
almeno diecimila
volte «Comunque la mia bestiolina resta la più
bella di tutte»
Era così scioccata che per la prima
volta nella sua vita si ritrovò a corto di parole. Rimase a
bocca schiusa a
guardarlo là, in piedi, tranquillo e sereno come non
l’aveva mai visto, mentre
parlava amabilmente con il suo secondino. Aveva i jeans strappati, la
maglietta
nera a mezze maniche era macchiata e lasciava in bella vista un brutto
taglio
sul braccio. Persino il viso non era esente da numerose escoriazioni,
eppure
sorrideva ed era a dir poco luminoso, entusiasta, mentre frugava nel
portafoglio alla ricerca di una foto, quasi sicuramente di Sarah.
Stava guardando qualcosa di
profondamente sbagliato, e allora perché sembrava quasi un
quadretto familiare,
per la quotidianità, l’intimità che
trasmetteva?
Deglutì a fatica, si sentiva di troppo
ed era arrabbiata, perché non era normale, non aveva senso.
C’è
qualcosa di profondamente sbagliato, maledizione! Possibile che nessuno
se ne
accorga? Non lo vedono quanto tutto questo sia… malato?
Lo osservò, osservò
quell’espressione
sdilinquita mentre contemplava il suo piccolo tesoro e lo sventolava
come il
più ingenuo dei bambini, e capì il problema:
erano tutti troppo coinvolti.
Forse, lo era anche lei, perché tutta la rabbia che
l’attraversava perdeva già
vigore e veniva rimpiazzata da una tenerezza quasi struggente per lui.
Arianna
Selene Alessi, riprenditi! Come diavolo fai a provare tenerezza per un
tizio
palesemente conciato in modo tale che è evidente sia reduce
da una rissa? Per
Dio, almeno tu mantieni un minimo di equilibrio, che qui tutto
è al degenero
anche senza di te!
Brillava talmente, quando parlava di
Sarah, quando la pensava, che davvero, nonostante tutto fosse assurdo e
insensato, Demian riusciva a dargli un senso. Lo dava per tutti i
presenti,
riusciva ad essere una cosa ed il suo opposto ed in qualche modo questo
veniva
accettato comunque, al di là del sano e del giusto.
«Ah, era anche ora. No, tranquillo
Jules,
fa’ pure con comodo. Tanto io qui mi stavo divertendo
parecchio, non vedi?
Posso parlare con tanta bella gente!» borbottò
Demian con malcelata ironia «Ah,
senza rancori, Anto» rettificò guardando
l’agente con una scrollata incurante
della testa. Il carabiniere si accigliò «Non pensi
mai che averti tra i piedi
sia un disturbo anche per noi, moccioso?»
Julian si avvicinò sbuffando
«Questa
volta sono stato seriamente tentato di abbandonarti qui, quindi
ringrazia la
nostra infinita bontà d’animo. Qualche giorno
dentro ti farebbe solo che bene!»
Questa
volta
Quanto era inaccettabile che Julian
parlasse di quelle numerose volte come fossero marachelle senza
importanza?
“Più
volte” quante volte sottintende?
Lo sconcerto era più forte di qualunque
collera, non ci riusciva proprio.
È
veramente uno scemo, uno scemo oltre ogni limite. Così scemo
che quando sorride
in quel modo, come se fosse felice, viene spontaneo sorridergli di
rimando.
Tutto ciò che sembra sbagliato va al diavolo, ecco cosa
c’è di tanto grottesco
in tutto questo.
Non
c’è nulla di giusto nella vita di Demian, ma se
è lui si può perdonargli tutto,
solo per poter ricevere in cambio quell’espressione di
immotivata, piena felicità.
Quell’espressione che nasceva e moriva
con Sarah.
Per
Sarah
«Certo, lasciami pure qui.
Così non ci
sarà bisogno di mettermi dentro la prossima volta che
deciderò di pestare
qualcuno» ribatté ancora Dem, con
quell’assurdo atteggiamento menefreghista.
Sembrava reale, eppure non era vero, Arianna ne era sicura, la maschera
non era
quella che le aveva mostrato, per quanto lui stesso ci credesse. No, la
maschera era quella farsa, quel fingere che nulla potesse toccarlo
quando in
realtà ogni cosa lo feriva e lasciava segni indelebili sulla
sua anima fragile;
restava a terra, abbandonato e sanguinante, ed era solamente troppo
orgoglioso
per ammettere di essere debole.
«Antonio, che ha combinato
stavolta?»
«Ha assistito ad una rissa violenta
fuori da un locale. Erano in parecchi, non so come lui e i suoi compari
ne
siano usciti interi, ma uno degli altri è stato ferito
piuttosto gravemente con
una bottiglia rotta» con un sospiro esasperato aggiunse
«Quel gruppo di ragazzi
con cui giri ci va piuttosto pesante, Demian. Veramente, è
il caso che smetti
di frequentarli o ti rovineranno. E non potranno coprirti per
sempre»
«Metti in dubbio ch’io fossi
un’anima
candida nel posto sbagliato al momento sbagliatissimo?»
domandò ironico, mani
nelle tasche dei jeans e spalle leggermente sollevate, con un sorriso
attaccabrighe di chi non esiterebbe nemmeno un secondo a litigare anche
solo
per uno sguardo sbagliato. Era un Demian assolutamente inedito per lei,
un
perfetto sconosciuto che non aveva mai incrociato, che le aveva ben
nascosto.
Quell’insicurezza
non può essere una menzogna. Julian non mi avrebbe chiesto
di essere qui, se
tutto fosse una bugia. Deve esistere, deve esserci per forza.
«Non lo metterei in dubbio se non
capitasse tanto spesso di trovarti qui. Sempre casualmente. Io non so
perché ti
coprano ogni volta, e mi sta bene che lo facciano, onestamente. Rende
più
facile la mia parte. Sei un bravo ragazzo Dami, con loro non hai nulla
da
spartire e lo sai anche tu. Anche la macchina l’avete rubata
voi, vero?»
Demian sollevò l’angolo della
bocca
nell’ennesima smorfia di sfida «Ho il diritto di
restare in silenzio, giusto?
Sono innocente fino a prova contraria. Tirami fuori»
L’agente, a cui Dem dava del
“tu” con
un’irriverenza e una confidenza sconvolgente,
sospirò e aprì la camera di
sicurezza, da cui il ragazzo uscì con la felpa in spalle e
una sigaretta ancora
spenta tra le labbra. Quando si voltò e finalmente la vide,
perse in un colpo
tutta la sua baldanza. Arianna, altrettanto immobile, vide i muscoli
delle sue
braccia tendersi, irrigidirsi, e un lampo indefinito attraversare i
suoi occhi
chiari, vetro opaco su un cielo grigio. Forse era senso di colpa,
Arianna lo
trovava giusto, che si sentisse in colpa. Perché
così, con quel modo di essere,
si rendeva irraggiungibile in maniera intollerabile.
Fu solo un lungo, sospeso istante, poi
fu assalito dalla collera più cieca. Si scagliò
contro Julian con una rapidità
sorprendente, lo spinse contro il muro con il gomito puntato alla gola
e gridò
di cattiveria «Che cazzo ci fa lei qui?»
Arianna sussultò, le mani le tremarono
per la paura. Tutta quella rabbia repressa, quell’incredibile
odio, erano così
eccessivi da non avere alcun senso, le davano il panico. Per un momento
le
mancò il respiro e si ritrovò ad annaspare, un
terribile senso di déjà-vu le
attanagliò
la gola. Adesso lo vedeva davvero attraverso gli occhi di una
sconosciuta, e
l’insofferenza che le stava mordendo l’anima
l’avrebbe messa solo nei guai. Li
avrebbe messi entrambi nei guai e Demian nemmeno lo immaginava. Eppure
Arianna
si maledisse, perché sebbene sapesse che lui era anche
questo, anche se
Jenevieve molte volte le aveva lasciato intuire come Demian fosse,
nonostante
tutto aveva perso ogni sicurezza e ogni sua sinapsi l’aveva
abbandonata al
terrore. Julian boccheggiò e si agitò goffamente,
per sciogliere quella presa,
ma fu solo Antonio che riuscì a strappare Demian via dal
cugino, lo agguantò
bruscamente e riuscì a bloccargli le braccia. Jules si
piegò su se stesso e
tossì violentemente. Con
il dorso della
mano si pulì il mento e riuscì a biascicare
«Ti vergogni di te?»
Gli occhi di Demian si assottigliarono
di rancore incontrollato, tentò nuovamente di raggiungerlo
con uno strattone,
ma la presa di Antonio fu più forte e tutto ciò
che ne conseguì fu solo un mezzo
latrato di frustrazione «Sei un bastardo! Come
l’hai trovata, fottuto
traditore? Se l’hai toccata, non me ne fraga un cazzo se hai
il mio stesso
sangue, ti ammazzo di botte lo stesso!» sbraitò,
le vene del collo e della
fronte pulsavano come impazzite e così i suoi occhi
sembravano spiritati, con
le sclere arrossate di capillari dilatati.
«Demian, non costringermi a rimetterti
dentro! Datti una calmata immediatamente!» tuonò
il carabiniere mentre con
fatica lottava per trattenerlo. Demian scalciava come un animale
impazzito, sembrava
folle, irragionevole.
No,
tutto questo non è accettabile, è troppo oltre
Arianna strinse i pugni, prese un
respiro più profondo ed una calma risoluta prese il posto
della paura
totalizzante che l’aveva bloccata. Per lo sbigottimento dei
presenti, avanzò
dritta vera di lui, si fermò ad un passo da quel volto
livido di collera, lo
fissò dritto negli occhi.
Lo schiaffo, con il suo schiocco
improvviso, fece calare un silenzio irreale, carico di tensione
repressa.
Demian smise di agitarsi, la guardò a sua volta e gli occhi
gli si sgranarono
nello stupore più genuino.
«Datti una calmata»
sibilò gelida.
La mano di Julian si serrò attorno al
suo braccio, Arianna sentì la pressione delle dita che
cercavano di
allontanarla, come se il ragazzo temesse che Demian potesse commettere
uno
sproposito e farle del male. Il solo pensiero la offese,
scrollò l’arto e si
liberò di quella stretta senza mai distogliere la sua
attenzione dal viso di
Demi, che a sua volta la ricambiava. Quello che stava facendo non era
differente
dall’ammansire un animale, ne percepiva la sfida, e proprio
per questo si
rifiutava di fare un passo indietro, perché era nel giusto e
Demian doveva capirlo, doveva
arrivarci.
Alla fine di quella battaglia
silenziosa fu Demian infatti a chinare la testa, d’un tratto
mansueto, e
Arianna seppe di aver vinto. Non ne trasse però alcuna
soddisfazione.
«Lo lasci andare» disse al
carabiniere,
e suonò quasi come un ordine, ma era solo
l’amarezza a renderla troppo dura.
Antonio esitò, quando però si rese conto che Dem
era diventato completamente
inoffensivo, lo liberò, non senza riluttanza. Arianna lo
capiva, nulla avrebbe
potuto impedirgli di avere un’altra reazione completamente
fuori da ogni schema
logico che non fosse istinto animale, questa giustificazione non
bastava a
renderla più tollerante verso quell’uomo che in
teoria lo conosceva, ma in
pratica aveva capito di lui poco o nulla.
«Mi scusi se mi sono intromessa. Se non
le dispiace, sarebbe meglio per noi andare»
accennò un sorriso più tranquillo e
gli porse la mano «È stato un vero piacere, mi
scusi per il disagio»
Antonio, preso in contropiede, fissò la
sua manina sospesa nel vuoto qualche secondo di troppo prima di
decidersi a
stringerla, vittima di un palese sconcerto che aveva attraversato anche
i volti
degli altri presenti.
«È stato un piacere anche per
me,
signorina» bofonchiò tra l’imbarazzo e
la perplessità. Demian, con il capo
chinato dalla vergogna, recuperò la felpa da terra, si
passò una mano tra i
capelli in un gesto di nervosismo ed infine borbottò
«Salutami Lizzie, e
ringraziala da parte mia per i biscotti. E di’ a Chiara che
mi dispiace di
essermi perso il suo saggio. Se mi inviterete ancora, al prossimo ci
sarò di
sicuro»
Antonio aprì la bocca, la richiuse e il
segno della barba sfatta lo fece apparire stranamente smunto. Di nuovo,
Demian
sembrava così stanco, così delicato, che
infierire sarebbe parso una crudeltà,
anche se meritata. Alla fine il carabiniere si limitò ad
arricciare le labbra «Lo
sai che ti inviteremo. Chiara ti vuole bene, Lucia ti adora ed
Elisabetta
chiede del suo figlioccio un giorno sì e l’altro
pure» accennò un sorriso
pietoso, una forma di affetto prostrato «Ci vediamo presto.
Possibilmente non
qui, la prossima volta»
I primi barbagli di luce rosata
accarezzarono le palazzine grigie di cemento e le cime scheletriche dei
radi
alberi che adombravano i marciapiedi d’estate. Era
un’alba particolarmente
suggestiva, sfumava dal rosa ad un tiepido indaco con la delicatezza di
un
acquerello e delineava le ombre allungate delle loro figure sulla
strada
deserta di quella mattina umida.
Arianna osservò la luna, grande come
un’unghia e altrettanto perlacea, quasi fusa allo sfondo, e
pensò che quel
cielo doveva essere così vivace per via di chissà
quale schifezza chimica che
stavano anche respirando. Era uno dei tipici commenti di suo fratello,
quello,
il suo lato catastrofico e pessimista lo portava sempre a cercare una
spiegazione cospiratoria anche di fronte ad un evento naturale dalla
bellezza
sconcertante. Richiamare Daniele in quel frangente era
d’aiuto a sopportare la
tensione che crepitava tra loro come elettricità statica.
Più che tra loro tre, tra i due
ragazzi, che Arianna aveva brillantemente pensato di dividere. Ora che
si era
piazzata tra i due e camminava con quell’angoscia addosso
più sfibrante di un
parassita, si stava pentendo: era decisa a scongiurare una qualsiasi,
ipotetica
nuova crisi, fosse stata essa verbale o fisica, eppure la soluzione
più sensata
forse era permettergli di risolvere la questione nel modo
più barbaro, idiota e
“virile” che ritenessero opportuno.
Cacciò una discreta occhiata in tralice
a Demian e non riuscì a trattenere un sospiro.
Come
lo prendo?
È
praticamente matematico, se sbaglio mossa questo qui si trincera dietro
alla
sua piccola torre d’avorio e basta, fine dei giochi
Ogni mossa sembrava sbagliata in quel
contesto, e lei non poteva permettersi di sbagliare. Una simile
insistenza
sembrava quasi un tentato suicidio, questa era l’unica
replica sorda che
emergeva da qualche anfratto del suo essere, l’eco di un
istinto di
sopravvivenza ormai quasi del tutto soppresso.
Non
che ad una come me, nella situazione in cui sono, l’istinto
di sopravvivenza
serva ancora a qualcosa
«Lo so che è stato un colpo
basso. Ma
io le ho tentate tutte, Dami»
Fu Julian a spezzare quel silenzio di
insulti non detti ma lanciati da occhiate omicide. Istintivamente,
Demian smise
la sua marcia verso il parcheggio ed Arianna lo imitò quasi
in sincrono. Lo
guardò sfilarsi la sigaretta dalle labbra e inarcarle in una
linea maligna e
derisoria.
«Fanculo» sputò,
insieme ad una nuvola
di fumo.
Il volto di Julian si contrasse come un
pezzo di carta appallottolato malamente «Avevi detto che non
avresti più fatto
stronzate e nemmeno sette ore dopo mi chiama Antonio! Sinceramente
speravo che
vederla ti desse una cazzo di sberla alla coscienza! Che cosa avrei
dovuto
fare?»
«I fottuti cazzi tuoi!»
La voce di Demian si alzò di nuovo
pericolosamente, lasciando trasparire tutto il rancore e la rabbia
gestita ma
non domata. Arianna in qualche modo si era già abituata, una
volta scoperchiato
il vaso di Pandora le era stato fin troppo chiaro il contenuto.
Persino,
rispetto alla crisi mistica avuta in caserma, ora sembrava un felice
hippy che
lanciava margherite proclamando
“Love&Peace”.
Che
poi, Demi con una corona di fiori in testa, degli occhiali alla John
Lennon e
dei pantaloni a zampa di elefante stile Beatles dopo il viaggio in
India, come
starebbe?
Immaginarlo ancheggiante e pacifista
riuscì a distrarla il sufficiente per farla ridacchiare tra
sé e sé ed
ignorarli almeno per altri cinque nanosecondi. La sua risata trattenuta
male
spinse i due cugini a fermare il loro battibecco solo per guardarla
storta.
Il
signore sia lodato, almeno non sveglieranno il quartiere!
Con un pessimo tempismo, pure il
cellulare iniziò a vibrare. Arianna decise di ignorare i due
idioti ancora
concentrati su di lei e piuttosto contemplò il display con
indecisione: il nome
di sua madre non le era mai parso più minaccioso e da
evitare.
Ovviamente
si è svegliata, le sarà venuto un mezzo attacco
alle coronarie quando si è
accorta che non ero nella mia stanza
Si rosicchiò il labbro inferiore,
cercando di darsi una spinta di coraggio che non trovava.
Devo
aver dato fondo alle mie scorte personali, diciamo che per oggi basta
così con
le prove di resistenza!
Riattaccò senza tante cerimonie e prima
che quell’aggeggio infernale potesse tradirla di nuovo,
spense direttamente il
cellulare. Sapeva che, tornata a casa, i suoi l’avrebbero
probabilmente
scuoiata viva, se non sua madre di certo suo fratello, ma era un
problema
secondario a cui avrebbe pensato dopo, aveva una gatta da pelare ben
più
problematica, mezza francese e molto più rissosa di quanto
non avesse messo in
conto in un primo momento. La parte più razionale di lei
sapeva che prima di
lanciarsi di testa nei problemi altrui avrebbe almeno dovuto provare a
considerare i propri, sua madre sarebbe stata in agonia per lei, non
voleva
ferirla né farla preoccupare.
D’altro
canto sono anni ormai che funziona così anche se
m’impegno perché non succeda.
Che per una volta sia davvero colpa mia, se proprio non si
può evitare. Per
loro non posso fare nulla, ma forse per questo scemo… per
lui c’è tempo.
E
se non ci fosse, ce lo inventeremo. Lo farò bastare.
«Ti ho messo nei guai, Annie?
È tutto a
posto?» Jules si era chinato su di lei, essendo almeno dieci
centimetri più
alto, e le aveva posato una mano sulla spalla. Alzò gli
occhi su di lui con un
sorriso, pronta già a rimproverarlo perché non
la doveva chiamare così, ma non fece in tempo ad
esprimersi che Demian lo
aveva spintonato brutalmente per allontanarlo da lei. A sua volta le
cinse le
spalle con il suo braccio pallido e la attirò a
sé con la stessa possessività
di un bambino capriccioso.
«Ti ho detto di non toccarla, non devi
nemmeno parlarle» ringhiò.
«È una persona, Dami, non il
tuo cane!»
Demian la strinse un po’ più
forte, per
il suo disappunto «Hai già fatto abbastanza, non
rompermi ancora i coglioni e
stanne fuori!»
«Vaffanculo!»
sbottò anche Julian, alterandosi
a sua volta «Sei solo un piccolo stronzetto
ingrato!»
Bene,
perfetto, ed anche l’ultima isola di calma e nirvana
è sprofondata! Ottimo
davvero!
«Mi dispiace di aver preso il suo
numero senza il tuo permesso, ma non avevo cattive intenzioni, cazzo! E
lo sai
benissimo!»
«Balle, è stata solo una
scusa! Lo
sappiamo entrambi che volevi vederla!»
Julian, con quel suo ciuffo da divo
scarmigliato e la faccia pericolosamente rossa, sembrava sul punto di
volersi
mangiare le mani per la frustrazione «Io volevo aiutarti.
Porca la miseria,
prima di essere il mio migliore amico sei mio cugino! E adesso si sta
veramente
andando troppo oltre»
Arianna sentì il corpo di Demian
irrigidirsi contro il suo e capì che Julian, volontariamente
o meno, aveva
colpito un punto nevralgico. Nonostante
l’inflessibilità di quel corpo che
parlava per lui, le parole uscirono fluide e spavalde «Se
vuoi aiutarmi,
sparisci e smettila di metterti in mezzo»
«Non hai capito un cazzo»
soffiò
Julian, si passò una mano sulla fronte, le iridi adombrate
da una nuova
determinazione. Persino Arianna capì che quello che stava
per dire mirava a
ferire Demi «Se non la smetti di farti io… io devo
pensare a Sarah. Tu in
questo momento puoi farle solo del male»
Doveva ferire Demian, eppure Arianna colse
la gravità di quelle parole e quanto gli fosse pesato dirle,
Julian si faceva
male da sé anche solo pensarle, certe cose. Si
sentì in colpa per aver dubitato
di lui così, per aver pensato che stesse per dare fiato alla
bocca per avere
ragione.
Si sentì inerme, stare fisicamente tra
quei due non cambiava le cose, non poteva essere detto nulla di
più grave per
ferirli entrambi.
Il braccio che la stava trattenendo
perse forza e ricadde inerte, la sigaretta pigramente appoggiata tra le
dita
dell’altra mano scivolò a terra. Arianna si
voltò a guardare Demian in viso,
vide le sopracciglia bianche, spesse sulla pelle nivea, aggrottate. I
suoi
occhi, assurdamente chiari, quasi trasparenti con una sfumatura rosata
percepibile solo ad una certa vicinanza, erano oscurati da altrettanto
spesse e
folte ciglia.
«Cosa vorresti dire?»
proferì con tono
tanto apatico e incolore che Arianna provò
l’impulso di abbracciarlo, perché
aveva deglutito a fatica prima di fare quella domanda e la voce era
suonata
roca. Quella era la disperazione più concreta.
Julian scrollò il capo e
proseguì
imperterrito «Io vuoto il sacco Dami, dirò la
verità a mamà. Non ti
permetteranno più di vederla»
Arianna riuscì a prevedere le mosse di
Demian in anticipo senza difficoltà questa volta, e si
lanciò su di lui per
istinto, aggrappandosi al suo corpo prima che il ragazzo potesse
aggredire di
nuovo Jules. A muoverlo non era la rabbia cieca del tradimento
stavolta, ma la
disperazione di chi sta perdendo qualcosa di fondamentale.
«Tu non puoi!» la viva
costernazione
che traspariva era troppa, Arianna chiuse gli occhi, come per riuscire
ad
assimilarla meglio «Tu non puoi portarmela via! Non ne hai il
diritto! Io non le
farei mai del male, lo sai!»
Lo strinse più forte, un abbraccio che
divenne una morsa, per quanto glielo permettessero le sue braccina
esili,
sperando di riuscire almeno a ostacolarlo e trattenerlo a
sé. Non si era
nemmeno accorta di aver incominciato a ripetere, come un mantra
«Calmati, Demi!
Devi stare tranquillo, reagire così non serve a
nulla» con una voce tanto
flebile che, in verità, dubitava seriamente il ragazzo
potesse sentirla o
prestarle attenzione, nello stato confusionario in cui versava.
«La tua vita le farà male!
Quando
scoprirà che suo fratello è un drogato del cazzo
che passa più tempo a farsi di
acidi e valium piuttosto che stare con lei, ne uscirà
distrutta!»
Julian, inconsapevolmente, le aveva
appena sferrato un montante morale che quasi la mise al tappeto. Si
zittì e
cercò di assimilare lentamente la notizia.
Si
droga.
Assurdo,
guardandolo non sembra una verità così
improbabile. Eppure, chissà perché, non
lo avevo proprio messo in conto.
La fitta di panico non le impedì
comunque di rimanere avvinghiata al suo corpo, con una disperazione
nuova a sua
volta, un’incapacità di accettare una
realtà che non aveva assolutamente senso
per lei. Cercava di metterlo a fuoco e di comprendere che no, di lui
non aveva
capito proprio nulla.
Pensavo
di averlo inquadrato
Faceva quasi paura realizzare quanto si
fosse sbagliata. Però poi incrociò i suoi occhi
tiepidi, quasi irreali per la
loro trasparenza, taglienti come una scheggia di vetro con quel loro
taglio
nordico, e si ritrovò a sbattere brutalmente contro un muro
di costernazione.
C’era un tale disamore, dentro di lui, da ferirla. Guardarlo
era guardare se
stessa, una figura sottile come un’ombra in trasparenza
annebbiata dalla troppa
luce dell’alba. Era più grande di lei, Arianna si
sentì incatenata.
E
il peggio era che non riusciva a
dispiacersene.
La sua fragilità era tanto disarmante
quanto attraente, per una bellezza così soverchiante si
poteva tranquillamente
scegliere di affondare consapevolmente. Lo sentì spegnersi
nella sua stretta,
gli arti gli ricaddero inerti e tutto il suo corpo si
svuotò, come un
manichino, una bambola vuota. Come se il vuoto lo avesse dentro e lo
stesse
inghiottendo lentamente, un buco nero che risucchiava ogni sensazione.
Solo il suo mormorio sconsolato,
totalmente arreso, le diede un accenno della malinconia che si portava
dietro
come uno strascico troppo pesante.
«Io ho bisogno di lei»
Julian rimase pietrificato, ma solo un
istante. Con un sospiro cacciò fuori tutto il suo
risentimento «Sei un egoista.
Lei ha solo nove anni! Non ti può salvare dalla merda da cui
non vuoi uscire.
Non puoi aggrapparti a lei, dovresti essere il suo punto fermo, non il
contrario!»
Demian scattò di nuovo e la travolse,
senza che potesse opporre la minima resistenza. Arianna si
ritrovò compressa
tra i corpi dei due cugini che si urlavano contro e non
riuscì a far nulla per
separarli.
«Sei un bastardo! Vuoi solo liberarti
di me, non è vero? Sono la parte marcia, la cancrena della
famiglia, lo so
benissimo cosa pensate di me! Ma non vi permetterò di farlo,
non vi permetterò
mai di separarmi da Sarah!»
Il petto di Julian si gonfiò
d’aria e
indignazione «Sei tu che ti consideri un rifiuto, non gli
altri che ti trattano
come tale! La tua è una scelta, io non posso farci nulla se
hai l’autostima
sotto i piedi, ma se non ce la fai non ti permetterò di
trascinarci tutti sul
fondo con te!»
Demian riuscì a raggiungerlo, gli
spintonò una spalla e per poco Jules non cadde a terra
trascinandola
irrimediabilmente con lui. Fortunatamente, il biondino
l’afferrò per le spalle,
frenando la sua rovinosa caduta. Arianna sentì un battito
scapparle, non si era
fatta niente ma l’espressione di Demi, quel gesto,
l’avevano spaventata.
Eppure, quel viso candido che sembrava
scolpito nel marmo incrociò il suo e Arianna lo vide
trasfigurare ancora, un
misto di collera e colpa, la guardava ad occhi bassi, sopraffatto.
Non
voleva farmi male. Non voleva sfiorarmi… non voleva nemmeno
che io lo vedessi
in questo stato, è per questo che ha mentito. Si vergogna
«È per questo che
l’hai portata qui,
vero?» accusò di nuovo, con voce bassa,
più trattenuta «Volevi dimostrarle che
sei migliore di me? Volevi mostrarle quanto sono patetico?»
Julian scrollò le spalle, amareggiato
«Quanto
mi credi meschino? L’avrebbe scoperto lo stesso, non puoi
nasconderti. Lei ha
il diritto di sapere in cosa va a cacciarsi con te»
No,
questo
non è vero. Neanche Demian sa in cosa va a cacciarsi con me,
così è equo. Io
non sono migliore di lui, lo sembro soltanto e non è giusto
Il senso di
colpa le tolse la voce per dirlo. Perché Demian si
presentava come la più
splendente delle opportunità ed il suo lato più
egoistico lo sapeva, lo sapeva
fin troppo bene che le possibilità non si sprecavano, che
potevano non riappare
più dopo.
Le
piaceva, che in qualche modo distorto lui avesse
bisogno di lei, le piaceva troppo e non era positivo.
«E
glielo hai detto che sei un puttaniere del cazzo
che da quando l’ha vista punta solo a scoparsela?
Perché dovrebbe sapere anche
questo!» lo assalì con ritrovato vigore,
spingendola di nuovo con la schiena
contro il petto di Julian «Ti avverto che non la toccherai
mai, Cristo! Non ti
permetterò nemmeno di sfiorarla con un dito, non la devi
guardare!»
«È
una mocciosa alle prime armi, come dire che
potrei mai farmela! Le principianti non mi interessano! E comunque non
è un
cane, piantala di parlarne come se fosse Lalami!»
«Ma
se ti sei vantato fino a ieri di quanto sia
soddisfacente essere il primo!»
Ok,
la
conversazione sta prendendo una piega che non mi appartiene!
In
quel momento avrebbe dato qualunque cosa per
essere uno struzzo e poter cacciare la testa sottoterra, venti metri
sotto
l’asfalto fosse stato necessario a non doverli sentire
urlarsi contro certe
nefandezze.
«Stronzate,
lo sai benissimo che le vergini non le
sopporto! Ti si attaccano come una cozza e non te ne liberi
più! Ed hanno anche
la pretesa di essere trattate come speciali!»
Compressa
tra i due, Arianna sentì le guance
bollire di indignazione profonda per tutto il genere femminile
esistente e di
vergogna assoluta.
Se
dicono
un’altra scemenza, giuro che li prendo a ceffoni!
«Questo
perché tu….»
«Sono
l’ambasciatrice dei pastelli a cera del
Veneto!» strillò acutamente, coprendo le loro voci
con la prima cosa che le
venne in mente, giusto per zittirli.
Perché
se
non tacciono, parola mia che faccio una strage!
Le
fece eco, finalmente, il silenzio. Demian si
scostò da lei e così Julian, entrambi irrigiditi
nella loro perplessità la
guardavano con gli occhi strabuzzati dalla confusione. La sigaretta di
Dem era
più cenere che altro ormai, aveva fatto in tempo a
consumarsi sul marciapiede
nel mentre di quella allucinante e inconcludente discussione.
A
prezzo
della mia dignità, ma almeno ho ottenuto l’effetto
desiderato. E comunque fuma,
annotatelo, che qui le cose di cui prendere atto stanno leggermente
sfuggendo
di mano
«Finalmente
un po’ di silenzio!» esclamò stendendo
le braccia per allontanarli definitivamente l’uno
dall’altro. I due cugini
risposero alla debole pressione delle sue mani con una
passività inaspettata,
senza smettere di guardarla, improvvisamente inconsapevoli o
indifferenti alla
reciproca presenza.
Se
avessi
saputo che bastava così poco, avrei urlato prima
Sollevò
l’indice e lo brandì minacciosamente verso Demian,
che per istinto indietreggiò
di un passo, come un’abitudine, un gesto con cui si
confrontava abitualmente «Tu!»
lo apostrofò non senza una certa rabbia «Non
trattarmi come se fossi un
bambolotto, sia chiaro! E tu!» tuonò di nuovo,
voltandosi verso Julian e
picchiettandogli il dito sul petto. Il sorriso intenerito con cui lui
ricambiò
l’espressione più truce del suo repertorio
indispose Arianna «Tu sei veramente
pessimo!» sputò «E io so rendermi conto
delle cose benissimo da sola, senza
bisogno di un cavalier servente!»
«Sottotitolato:
levati dalle palle» sottolineò Demian seccato,
comparendo sopra la sua spalla.
Ecco,
annotati anche che quando
è arrabbiato diventa tremendamente volgare. Così,
giusto per tenere una lista
di punti
«Ti
sembra che io non sappia parlare abbastanza chiaramente da me? Ti
sembra che io
necessiti di sottotitoli?» ringhiò, e Demian si
accigliò e si ritrasse, con il
volto contratto «No, ma…»
«No!
Appunto!» lo interruppe prima che potesse dire qualche altra
sciocchezza in
grado di alterare il suo equilibrio psicofisico.
Demian
schiuse la bocca e così rimase, incapace di ricollegare
suoni a parole. Ovviamente,
il suo altrettanto idiota ma più sfacciato cugino non
riuscì a fare
altrettanto.
«Ha
un caratteraccio, te ne rendi conto? Solo tu potevi farti incastrare da
una
così»
Un’uscita
infelice, per il fin troppo orgoglioso ragazzo, che vanificò
ogni suo tentativo
di riportare pace nella galassia. Demian si gonfiò come
Anacleto quando Semola
lo aveva definito “impagliato” e Arianna seppe di
aver perso all’istante ogni
appiglio.
«Ti
ho già detto che è una cazzata. Fanculo te e lei.
Io me ne torno a casa» partì
a passo di marcia abbandonandoli alle sue spalle e Arianna, per un
momento
rimase smarrita tra loro due, incapace ancora una volta di reagire con
tempismo
o almeno di seguire il corso dei pensieri di quelle assurde persone.
Non era una
sensazione in cui incappava spesso, lo smarrimento, era più
abituata a
confondere che a essere confusa.
Ma
evidentemente mi sono
imbattuta in soggetti che quanto stranezza mi tengono testa e mi
superano pure
Le
spalle le si lasciarono andare in un eccesso di stanchezza, quasi
slegate dal
suo corpo, insieme all’ennesimo sospiro di disperazione ormai
non più sopita.
Con gli occhi seguì la figura di Demian, con
l’incertezza di cosa fosse meglio
fare a quel punto.
Magari
non ho idea di cosa sia
meglio fare, ma almeno so cosa sento di dover fare. E nel dubbio, forse
è
meglio affidarsi all’istinto
Si
voltò verso Julian, rimasto in silenzio con lo sguardo
basso. Le parve
stranamente distrutto, sconfitto per davvero, e Arianna
pensò che forse, anche
quando attaccava era per difendersi ed in qualche modo ferire suo
cugino lo
feriva a sua volta. Quella era l’espressione contratta di un
animo demolito,
l’aveva vista molte volte nella sua vita.
Per
questo gli sorrise con tutta la convinzione di cui era capace,
cercò
d’imprimere in ogni tratto del suo volto un
“andrà tutto bene, non devi
preoccuparti” che in qualche modo riuscì a
scioglierlo, perché Jules ricambiò,
seppur mestamente.
«Hai
capito perché l’ho fatto?» chiese, come
se avesse davvero bisogno di essere sicuro
di non essere stato frainteso. Per essere più grande e
così provocatorio,
lasciava trasparire una profonda insicurezza.
«Certo.
Ora che so, non può più fingere, giusto? Non
può più nascondere i segni. Tu
speri che la considerazione che ha di me lo porti a ridimensionarsi,
vero?»
Non
lo aveva compreso subito, eppure dopo quella discussione sembrava
evidente, per
qualche ragione Julian si era convinto che lei potesse avere un qualche
ascendente. Sinceramente, ne dubitava, ma probabilmente Jules si stava
giocando
un po’ il tutto e per tutto, con quel disgraziato di suo
cugino.
«Forse
tu potresti…» iniziò il ragazzo,
lasciando cadere la frase nel vuoto, la voce
che sfumava bassa e mesta. Tutta quella dolcezza di fondo la commosse,
scosse
il capo agitando i riccioli e sulle labbra sentì affiorare
il sorriso più vero
e sereno da tanto tempo, perché quei due le scaldavano
l’anima, con il loro
affetto grottesco.
«Lascialo
a me… mi prenderò cura di lui»
Demian
aveva una camminata strascicata.
Nel
silenzio in cui si era trincerato, non le
restava altro che seguirlo lentamente, cercando di non irritarlo. Si
era
accorto di lei, ma continuava a fingere di non sentirla, aveva scelto
di
ignorarla deliberatamente e di crogiolarsi nel proprio personale dramma.
Si
accese un’altra sigaretta, era già la seconda da
quando si erano separati da Julian, le fumava con gesti nervosi, quasi
nevrotici.
Ed
era bello.
Arianna
non ci aveva mai prestato troppa
attenzione, non ci si era mai soffermata. Ora però che si
trovava a spiarlo,
ora che poteva vedere solo la sua schiena, i capelli più
corti sul collo e in
apparenza tanto morbidi, ora che al massimo le concedeva uno squarcio
del suo
viso di tre quarti, quella bellezza quasi sensuale la colse
impreparata. Era
bello anche così malconcio, con l’aria trasandata
di chi nella vita sa solo
trascinarsi e l’espressione un poco crucciata un poco
assorta, persa da qualche
parte, come capitava a Jenevieve a volte, mentre le parlava. La boccata
di fumo
che si disperdeva poi dalle sue labbra gonfie, rosa pallido, aveva la
stessa
sfumatura dei lividi che segnavano la sua pelle eccessivamente bianca.
Mi
sembra
quasi di vederlo per la prima volta
Da
un certo punto di vista era vero, non aveva mai
preso coscienza del fatto che Demian fosse un ragazzo, a modo suo
affascinante,
e non per i tratti del volto innegabilmente eleganti e androgini, ma
proprio
per quella postura china di chi ha un peso enorme che non riesce a
lasciare
andare, per quella fragilità nascosta eppure tanto in vista
e tanto profonda da
travolgerla.
È
quasi un
cliché. È aggressivo, attaccabrighe e
completamente barricato in se stesso. È
imperscrutabile e in alcuni momenti diventa freddo, freddissimo, e
incredibilmente meschino. Eppure perché mi sembra un gattino
randagio tutto
sporco e spaurito che dimena vanamente la sua zampetta?
Perché
mi
hai fatto le fusa, se in realtà non vuoi essere avvicinato?
Demian
le aveva mentito, le aveva mostrato una
persona differente, si era nascosto dietro una facciata inconsistente.
E la
risposta, per quanto banale, doveva essere davvero la più
scontata.
Nessuno
è
fatto per stare da solo, nemmeno tu. Per questo sono qui, vero, Demian?
Il
ragazzo rallentò il passo ed Arianna si trovò ad
imitarlo ancora, ad adeguarsi al suo ritmo. Alla fine si
fermò e la guardò da
sopra la spalla, senza prendersi la briga di fronteggiarla davvero.
«Hai
intenzione di seguirmi ancora per molto?»
Aveva
un bel profilo, la luce di quell’alba lenta
illuminò la linea del naso e delle labbra, i capelli densi
sembravano morbidi e
consistenti come il cotone. Se avesse avuto l’occhio
dell’artista,
probabilmente avrebbe cercato in qualche modo di fermare
l’attimo, di ricordare
l’effetto caldo del sole sulla sua pelle di marmo. Arianna
però mancava di
talenti e se ne rammaricò, rimase stordita ad ammirare la
purezza incarnata in
un corpo sublime che sembrava troppo lontano
dall’imperfezione umana. La pelle
doveva avere la stessa compattezza di una statua antica, come le figure
delle
divinità sui libri di Storia dell’Arte. Le
bruciarono le guance per
l’improvviso ed irrazionale desiderio di toccarlo, per
sentirne il calore che
scacciasse quella chimera di irrealtà frustrante. Non era
troppo prestante, ma
la sua corporatura asciutta e sicura, con le braccia magre che
esponevano le
linee dei muscoli e dei tendini, dava una sensazione di
solidità su cui non si
era mai soffermata.
Demian
ringhiò «Allora?» con sufficiente astio
da
farla sussultare.
La
sua occhiata gelida la rese incredibilmente
insicura. Se fosse stato Daniele o chiunque altro probabilmente, le
sarebbe
bastato un abbraccio, senza dover dire nulla o dare spiegazioni che non
trovavano forma. Si morse le labbra in un attimo di ponderazione
«Stanotte ho
fatto un sogno strano» dichiarò, e non
riuscì a trattenere il sorriso. Demian
si sciolse, l’aria truce scivolò via dai suoi
tratti per lasciare spazio ad una
semplice ruga di perplessità tra le sopracciglia.
«Cosa?»
mormorò con cautela eccessiva, diventando
d’improvviso un’altra persona.
Non
sa
fare altro che saltare da una maschera all’altra,
è così concentrato a
difendersi da non accorgersi di nulla
Anche
questo suo aspetto insopportabile e
ingestibile l’affascinava, tragicamente.
Ah,
io con
te getto la spugna Arianna!
Chinò
appena la testa, in imbarazzo «Ero davvero
l’ambasciatrice dei pastelli a cera del Veneto. Avevo un
grandissimo talento in
questo campo e sono riuscita ad entrare nel marketing dei pastelli a
cera, una
specie di scalata al successo!»
Demian
si morse l’interno della guancia, era un tic
di disagio che Arianna gli aveva visto compiere spesso. Lo
guardò vacillare da
un piede all’altro, alla ricerca della cosa più
appropriata da dire, e
finalmente si voltò del tutto, annullando la sua sciocca
distanza mentale.
«…
intendi business?» optò infine.
Arianna
si accigliò un attimo, non realizzò subito
l’errore. In un secondo seppe di essere diventata rossa,
perché stava morendo
di caldo. Per abitudine si allargò lo scollo della maglia
«Marketing, business…
sono italiana, mica inglese!» sbottò, lasciandolo
se possibile ancora più a corto
di parole.
«E
comunque, mi scaricavano un sacco di scartoffie
e passavo il tempo a discutere se fossero meglio rotondi o quadrati,
anche se
ovviamente io insistevo per farli a stella perché
dai… sono così tanto più
belli a stella! Fossi una bambina e ci fossero, li comprerei solo a
stella. E
poi bisognava stare attenti ad un sacco di cose, come la composizione
chimica
della cera perché l’umidità dei canali
poteva compromettere la qualità del
prodotto» s’interruppe solo per sfoderare un
sorrisone soddisfatto a trentadue
denti «Insomma, alla fine mi hanno fatto membro onorario al
congresso dei
pastelli a cera! Indossavo pure un tailleur blu e, sinceramente, non mi
ero mai
immaginata con un tailleur. Però stavo bene!»
concluse e si sentì stranamente
gongolante nel ripercorre le proprie memorie accartocciate e indefinite
dal
sonno. Probabilmente, se Julian non l’avesse svegliata tanto
malamente, avrebbe
ricordato più dettagli. Le piaceva raccontare i suoi sogni a
Daniele e Luca, al
mattino, per fargli fare due risate. Dani avrebbe trovato la questione
dei
pastelli a cera estremamente esilarante, ne era certa.
Demian
invece sembrava solo confuso.
«Ma
cosa mangi a cena?» borbottò, gettando la
sigaretta a terra. Per un momento Arianna si sentì
scoraggiata, poi però Dem
alzò su di lei un sorriso sfuggevole, solo un accenno che le
risultò più che
sufficiente. Quella linea indulgente e tremendamente sincera, al limite
del
disarmo, era proprio ciò che sperava di ottenere, se
sorrideva allora una
breccia era ancora possibile.
«Avevo
anche un ufficio con una parete ricoperta di
pastelli a cera in gradazione cromatica, con gli stemmi in bella vista
perfettamente allineati. Pagavo una signora perché li
spolverasse tutti i
giorni! È stata un’illuminazione: ora non riesco a
immaginare per me altro
futuro!»
Dem
non smise di sorridere, ma sembrava più una
smorfia triste, l’ombra di un’angoscia abbastanza
persistente da strozzarle la
risata in gola. Quel principio di buon umore si spense sulle sue
labbra, non
era riuscita nel suo intento.
«Perché
fai finta di niente?» le sussurrò, si stava
mordendo l’interno della guancia, Arianna si rese conto che
girarci intorno
probabilmente, con lui, non era la giusta soluzione. Con suo fratello
era più
semplice, litigavano, andavano in paranoia e poi si chiarivano senza
mai
bisogno di spiegarsi, ma Demian era più complesso.
«Che
intendi?»
Il
ragazzo si adombrò lentamente. Le parve quasi
possibile vedere la sua mente come una piccola proiezione, un Demian
caricaturale in miniatura, che dopo aver curiosato fuori dal portone
della sua
imprendibile torre aveva deciso che nel mondo nulla era interessante e
si
sbatteva suddetta porta alle spalle.
Quante
volte bisogna scalarla, questa parete, prima che lui si rassegni e la
smetta di
chiudermi fuori?
«Non
fingere di non capire!» si alterò, gli occhi
assottigliati in una linea di
sprezzo e la voce più alta, senza motivo «Cosa
aspetti a sparire? Ora lo sai
che persona sono, vattene! Tieniti la tua compassione per te e smettila
di starmi
addosso!»
Arianna
sbatté le palpebre a vuoto un paio di volte più
del dovuto, sufficientemente
confusa.
«Andarmene?»
riuscì a mormorare, per essere sicura di aver davvero
afferrato.
Quindi
è
tutto qui il problema? Pensavi che sarei sparita e basta, come se non
avessimo
condiviso proprio nulla?
È
l’unica
opzione che non ho davvero contemplato, che stupida. Eppure ha ragione,
è la
più ovvia e la più logica.
Eppure,
il suo unico cruccio era stato cercare di
capire come renderlo ragionevole, se fosse giusto davvero cercare di
cambiarlo
o se fosse più sensato rassegnarsi e viverlo
così, per ciò che era, con tutte
le conseguenze che quella sua vita avrebbe portato con sé.
Perché
tutti meritiamo di essere amati per ciò che siamo, anche se
facciamo schifo e
siamo delle bestie. Basta una sola persona in grado di vederci nella
nostra
interezza, almeno per una volta.
A
lei una persona sarebbe bastata, era quella che
stava cercando e che sperava di ritrovare in Demian. E così,
forse, a sua volta
doveva essere in grado di accettare che non fosse buono, non fosse
bello, non
fosse per nulla giusto.
Gli
rispose con un sorriso, perché non sapeva in
che altro modo parlargli. Demian era un tipo che con le parole ci
faceva gran
poco, ma provava sempre a frugare tra i gesti, per questo scelse di
sorridere
con tutto l’affetto e la dolcezza che sentiva dentro, che
scaturiva da lui, un
gatto randagio piccolo e indifeso che tirava fuori le unghie e provava
a
graffiare chiunque gli si avvicinasse.
Proprio
come quel gattino inconsapevole, Demian era
ostile perché aveva solo fame, e nessuno lo capiva o
sembrava voler rimediare a
quella lenta e agonizzante morte per inedia.
Demian
si irrigidì, sigillò le labbra e la
studiò
con sospetto, forse ora più simile ad una pantera pronta a
balzare in un attacco
repentino. Quella tensione nel corpo e nelle spalle le
provocò un’ondata
d’affetto.
«Di
andarmene non ci avevo nemmeno pensato» proferì
con una tranquillità fittizia che in realtà
nascondeva l’ariete di sfondamento
con cui contava di far tremare le mura di una torre che non aveva
ragione di
esserci.
Tu
cerchi
disperatamente qualcuno che legga tra le tue righe, quindi vedi di fare
altrettanto!
La
tensione del corpo e delle spalle venne meno e
lentamente, quasi si stesse trattenendo per essere certo fino alla
fine, Demian
si rilassò e rilasciò un mezzo sospiro carico di
sollievo.
In
realtà
lui è davvero incredibile, anche se non potrò mai
dirglielo. Rappresenta tutto
ciò che ho sempre ammirato… è
pienezza, è una vita bruciata, vissuta in una
manciata di anni, troppo forte forse per qualcuno che, come lui, non ha
alcun
motivo di avere fretta. La sua è una vita sbagliata, ma gli
ha dato di più di
un’esistenza intera vissuta lasciandosi vivere.
Demian
è
l’intensità che desidero più di tutto
ma che non ho il coraggio di affrontare
da sola.
Questa
è
bellezza, è come se dentro di lui ci fosse un richiamo
categorico ad esistere.
«Dem,
ci vuoi venire in un posto con me?»
Osservò
il formarsi ormai familiare di quella ruga
d’espressione tra le sopracciglia bianche «La
domanda giusta è se tu vuoi
andarci con me»
Il
riso le venne spontaneo, come scavalcare quello
stupido muro immaginario che il ragazzo aveva frapposto tra loro. Gli
afferrò
la mano e agitò i ricci al vento con un sorriso felice sulle
labbra «Questa non
è la domanda giusta, Demi, è quella
stupida!»
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Capitolo 18 *** Tre mesi ***
À Demian
Capitolo sedicesimo
Tre mesi
Arianna
aveva sempre avuto un debole per le cose
rovinate, una sorta di languore per ciò che era squallido,
triste, abbandonato.
Fin da bambina, era in persone o in luoghi simili che aveva ritrovato i
segreti
più delicati ed aveva imparato che la decadenza era solo un
archetipo di
bellezza, una sensazione di struggente tenerezza, come osservare la
desolazione
di un fiore appassito.
Quei
segreti poi li custodiva con cura, ci si
crogiolava dentro come in una coperta d’inverno,
perché davano una magia
diversa a ciò che guardava.
Per
questo amava i segreti e odiava svelarli. Condividere
qualcosa in qualche modo la semplificava, mostrava una
realtà senza ombre,
senza sfumature, che erano poi ciò che amava davvero.
Senza
sfumature
il mondo è piatto, bidimensionale, quadrato. Privo di vita
Per
una volta, però, il suo lato più egoista si era
fatto da parte e Arianna aveva provato l’impulso di
condividere uno di quei
segreti con Demian, uno di quelli più piccoli certo, ma per
la sua natura era
già un grande passo avanti. Il pensiero di averlo
lì, invece di impoverirla di
una sua personale verità, la faceva sentire stranamente
piena, soddisfatta, quasi
tronfia, e questo la straniva, andava completamente contro la sua
filosofia di
vita.
Fece
leva sulle braccia e si arrampicò sul
parapetto di cemento diroccato sul quale si sedette. Gettò
le gambe magre nel
vuoto e, così sospesa, per un attimo trattenne il respiro a
causa di una leggera
ed eccitante vertigine, l’impressione di una caduta.
Quell’abitudine era come
una sfida, guardare il terreno metri lontano da lei e sentirsi potente:
per
quella manciata di minuti stringeva le redini della propria vita e
della
propria morte, era superiore, era perfino più di una
divinità, era lei a
scegliere.
Le
piaceva, poter scegliere sempre, consapevolmente,
la vita.
Demian
esitò, piuttosto confuso dalla situazione,
prima di decidersi a raggiungerla e accomodarsi accanto a lei. Arianna
provava
per lui la pazienza che può rivolgersi solo ad un bambino
titubante, e di un
bambino era stata l’espressione che aveva calcato il suo viso
ancora androgino
quando lo aveva condotto in una stradina secondaria dietro la stazione
dei
treni, vicino al deposito dei pullman. Si trovavano al secondo piano di
una
palazzina disabitata e ormai quasi completamente sfatta, nella
periferia. Una zona
piuttosto malfamata, a conti fatti. Lì era piuttosto facile
imbattersi in
persone con cattive intenzioni, quell’edificio nello
specifico doveva essere abbattuto
da anni, era sede fissa di barboni e spesso, fino a qualche tempo
prima, anche
di drogati. Venuti a mancare i secondi, Arianna aveva preso
l’abitudine di
portare da mangiare ai senzatetto, talvolta aveva portato loro anche
coperte e
vecchi vestiti, per cui era diventata un po’ la loro protetta
e non aveva più
avuto motivo di avere paura. Quelle persone la adoravano e lei,
paradossalmente,
ci si era affezionata. Tra i detriti, la polvere rossa dei mattoni e
l’intonaco
scrostato, la sensazione di sporco e bruttura creava del disagio, ma
non era per
la bellezza dell’edificio che si addentrava lì
dentro. L’unica cosa che valesse
la pena di tollerare quell’ambiente era il paesaggio. La
vista di cui si godeva
dalla balconata, proprio in quel punto al quarto piano, era il vero
segreto di
quel vecchio complesso di appartamenti mai compiuti, il mistero di quel
lato di
mondo all’apparenza squallido che la gente evitava come la
peste.
«È
la stazione dei treni?» lo sentì pronunciare
alla fine, quasi con meraviglia.
Arianna
annuì di sfuggita e allo stesso modo le
sfuggì un sorriso, distrattamente. Era la stazione, ma da
una prospettiva
completamente differente che di solito non era concessa ai pendolari:
da quel
balcone poteva vedere i treni ricoperti di scritte scorrere come
modellini giocattolo
sulle rotaie, poteva osservare l’erba crescere tra la
pietraia e le
assi di legno che si perdevano all’orizzonte disegnando
sentieri e infiniti
crocevia. Gli alberi e l’erba alta, incolta, circondavano le
strutture di
cemento rovinate dai vandali e Arianna poteva contare le persone in
attesa al
proprio binario di poter raggiungere chissà quale meta, con
l’aria stanca della
prima mattina e gli abiti colorati. Non si vedeva la fontana dimessa,
le panche
marce e le porte sfondate dai vandali e rivestite con assi di legno.
Non fosse
stato per la modernità dei mezzi di trasporto, sarebbe
potuta apparire come una
di quelle vecchie stazioni dei romanzi pirandelliani che aveva letto a
scuola, un
luogo fuori dal tempo, sospeso, che manteneva un odore farraginoso che
quasi si
attaccava al palato.
Ecco,
sembra proprio una di quelle vecchie stazioni da romanzi dimenticati,
con questa
vaga nebbiolina appena distesa sull’erba ingiallita che
diventa opalescente quando
viene accarezzata dalla luce e pare fumo. Niente è
confortante come questa sensazione
di non-luogo.
Eppure,
la curiosità di Demian, quel silenzio
contemplativo carico di stupore, la spinse a vedere solo lui e
nient’altro, la
visione onirica di un luogo che aveva sempre amato scivolava lontano
dalle sue
priorità. Demian riempiva il suo campo visivo.
Quando
è
iniziato tutto questo?
Come
ho
fatto a non rendermene conto?
Anche
se provava a ragionarci sopra, non riusciva a
rievocare un luogo o uno sguardo che avessero cambiato tutto.
Semplicemente,
forse era partito tutto già prima, era rimasta intrappolata,
prima che da lui,
dalle parole di Jenevieve, e ci si era trovata in mezzo e basta, a
quella
situazione, senza nemmeno accorgersi che nella sua testa quello era
l’inizio di
qualcosa, che in lei c’era il principio di una
novità.
«Quindi
tu ti siedi qui e guardi i treni?» le
domandò ancora, dopo un ponderato silenzio.
Stranamente
più loquace del solito
Una
cosa che aveva imparato di Demian e su cui era
certa di non aver sbagliato, era che non amava porre troppe domande,
era un
ragazzo discreto che tratteneva per sé la propria
curiosità e si limitava ad
accogliere ciò che lei si lasciava sfuggire.
L’ideale
per me, visto che non mi piace dare troppe risposte
In
questo caso però, forse a causa dell’atmosfera,
condividere un pezzetto delle proprie verità non sembrava
un’idea così malvagia.
«Sì.
Qualche volta durante la settimana»
«Trainspotting»
borbottò lui a voce bassa,
dedicandole il suo odioso sorriso ironico, intriso di scherno divertito.
Lo
studiò in tralice, riducendo gli occhi a due
fessure di finta minaccia «Che vorrebbe dire? che poi te
l’ho già detto che
odio l’inglese!» Demian sollevò subito i
palmi delle mani in alto, in segno di
resa «Non mi incenerire! È un termine che si
riferisce alle strane,
nullafacenti persone che passano tempo a contare i treni» le
spiegò, poi si
passò le dita tra i capelli, scompigliando ulteriormente una
situazione già di
per sé arruffata e sul bilico del disastro.
Si
sentì stranamente offesa «È questo che
pensi? Che
perda il mio tempo?»
Non
era questo che voleva, il pensiero che non
potesse capire cosa significasse per lei, che svilisse qualcosa che per
lei
aveva un grande valore e trasformasse il tutto in un passatempo
inutile, la
faceva quasi pentire di averlo portato lì. A volte, Arianna
stessa arrivava a
convincersi che sedersi sul quel balcone a sbirciare le esistenze
altrui la
rendesse solo una spettatrice della vita che trascorreva il tempo
guardandola scorrere,
e inorridiva ed era terrorizzata dalla propria passività,
perciò non era facile
sopportare che qualcuno la toccasse così indelicatamente in
una parte tanto
molle e vulnerabile del suo essere.
«Non
proprio. Mi ricordi L’uomo dal
fiore in bocca però, è una storia un
po’ triste…»
mormorò ed Arianna si accorse che non la guardava, ma
torceva le mani nelle
mani «… se desideri salirci non dovresti
semplicemente prendere un treno?»
Rimase
spiazzata e non riuscì a trovare una
risposta immediata. Allora si chinò un poco in avanti,
più vicina a quel mondo
distante da dipinto, più vicina a quella linea sottile di
vertigine tra il
parapetto e il vuoto. Si rosicchiò il labbro,
cercò di ricordare se conoscesse
quel racconto ma non lo aveva mai letto, perciò gli chiese
incerta «Tu lo hai
mai fatto? Sei mai salito su un treno per il semplice gusto di
prenderlo, senza
sapere il dove, il come e il quando?»
È
impulsivo
e imprevedibile, sarebbe da lui
Eppure,
Demian la sorprese con un sussulto e un “No”
mormorato che le diede sicurezza, non la fece sentire in difetto.
«Io
sto aspettando il momento giusto» confessò di
sfuggita, spontaneamente, quasi senza volerlo. Rimase sorpresa da se
stessa e
gli sorrise, perché era piacevole poter lasciare andare
certi pensieri senza timore,
ed era stranamente facile se era lui ad ascoltarla. Le parve di vederlo
arrossire,
ma Demian distolse in fretta lo sguardo e abbassò il mento
in una sorta di
broncio.
«E
quale sarebbe?»
Già,
quale
sarebbe?
«In
realtà ancora non lo so. Ma ho tanto tempo per
scoprirlo, la vita è lunga. E se ci penso, mi sento felice,
mi sembra che quel momento
potrebbe essere dietro l’angolo» sollevò
le spalle d’istinto, anche se Demian
non la stava guardando «Non importa se poi in
realtà sarà tra dieci anni o
dieci minuti, la sola idea di una libertà così
grande mi basta, mi
tranquillizza»
Sarebbe
più
semplice, se ogni attimo della mia vita fosse eterno, destinato a non
consumarsi mai. Sarebbe più semplice, se non sapessi che per
tutta questa
bellezza c’è una scadenza.
Bisognerebbe
ignorare la morte, bisognerebbe morire senza sapere che può
succedere, che un
giorno “X” tutto finisce. Vivere come in uno stato
edenico senza timore di
nulla, ecco come si dovrebbe vivere.
Come
nell’unico libro di poesie che avesse mai
letto, quello che suo fratello le aveva regalato per i disegni. Le
piaceva la
realtà che Blake raccontava nelle Canzoni
d’Innocenza, le piaceva quello stato edenico
incorrotto.
«Sei
così candida»
Sussultò,
colta in fallo. Demian lo aveva sospirato
quasi con esasperazione, e forse esasperato lo era davvero, ma poi la
guardava
e accennava un sorriso dolciastro che le toglieva le parole.
Per
niente.
Vorrei esserlo, era più semplice quando non sapevo cosa
provavo, quando certe emozioni
un nome non l’avevano, forse perché nemmeno le
sentivo. A riguardare il passato
con lo spettro del presente, tutto si sporca, non posso essere candida.
Tese
l’indice all’orizzonte, sentendosi un po’
infantile e goffa «Guardale, Demi. Quelle persone. Sono ferme
al loro binario,
conoscono già la loro meta, sono incanalate. Vedono solo
dove devono andare»
abbassò il braccio e abbozzò un sorriso incerto
«Ma io da qui posso vedere
tutto, non solo il mio treno. Posso osservarli uno per uno, senza
obblighi…
insomma, io posso ancora scegliere. È vero, non ho una meta
così, ma posso decidere
che corsa prendere, il mio è un biglietto bianco. Non
potrò scegliere la
fermata, ma almeno la direzione è ancora nelle mie
mani» inclinò la testa, Demian
si era voltato verso di lei, la ascoltava a labbra schiuse. Erano
grandi e
carnose, sarebbero potute apparire femminili, eppure su di lui avevano
solo un
tocco sensuale e, così separate, innocente.
Con
tutte
le esperienze che lo hanno sporcato, come può sembrare tanto
intonso?
«È
questo che mi fa felice, per questo amo stare
qui. Mi sento di essere libera di avere tutte le possibilità
del mondo, senza
limiti. Posso sognare qualunque cosa, essere qualunque cosa, anche solo
per un
attimo. È un attimo che vale tutta la vita. Vivo mille vite,
vedo mille vite, e
intanto aspetto di poter scegliere la mia»
Demian
si morse l’interno della guancia «Ci credi
se ti dico che in quella stazione ci ho passato più tempo di
qualunque altra
persona su quei binari?»
Arianna
aggrottò le sopracciglia «E
perché?» a
confonderla era soprattutto l’espressione del ragazzo, che
svelava tutta l’amarezza,
la vergogna.
«Non
è importante» liquidò la questione con
un tono
di voce che in realtà sottintendeva il contrario
«Comunque a tutte queste cose
non avevo mai veramente pensato. Il futuro che sia bianco o scritto non
conta
molto… onestamente non sono nemmeno sicuro di arrivarci, ad
avere un futuro. Deve
essere per questo che ci penso poco» turbata, Arianna
seguì la sua mano bianca
dalle dita lunghe che si scompigliava i capelli, scivolava sulla nuca
fragile e
si agganciava al collo, sopra il cappuccio della felpa, a mostrare la
sua
reticenza già solo con la gestualità
«Tu però dovresti provare invece che immaginare
e basta… dovresti provare a vivere di più quello
che sogni, aspettare di meno»
Tu
ti
bruci con la vita, non sai cosa vuol dire averne un terrore assoluto.
Paura di
desiderare di più e di sentirsi dire “Ne hai avuto
già a sufficienza, è il tuo
limite, non potrai averne più di così”.
Non sai cosa significa aggrapparsi all’immaginazione
per compensare una realtà svilente che ti toglie invece che
darti.
«Da
sola ho un po’ paura» mormorò, mentendo
spudoratamente, perché stava raccontando una
verità a metà. L’orizzonte parlava
di vite e promesse che Arianna sapeva non sarebbero state mantenute ma
a cui
lei voleva continuare a credere. Perché finché
non si realizzavano nel presente
non significava assolutamente che non si sarebbero avverate dopo, e se
avesse smesso
di crederci ne sarebbe uscita distrutta.
Ed
io non
posso permettermelo, non posso farmi distruggere, neanche dalla paura.
Anche quella
serve, devo sperimentare tutto ma non devo fermarmi su nulla, o rischio
di
perdere troppo tempo
«Se
aspetti troppo però, non rischi di perdere
l’occasione?»
Credi
che
non lo sappia?
Aspettare
il momento giusto, per qualcuno come me, può significare
anche il non vederlo mai.
Ma non siamo tutti come te, non tutti ci lanciamo senza minimamente
considerare
le conseguenze… io non ho niente da perdere, ma chi mi ama?
Gli
sorrise dolcemente «Demi, c’è un posto
dove
vorresti andare? Che ti piacerebbe rivedere? Un posto dove sei stato
veramente
felice»
Si
spostò nervosamente una ciocca di capelli, la
solita che sfuggiva alla coda e le ricadeva sulla guancia. La
rimboccò dietro l’orecchio
e si morse le labbra, per non mostrargli l’imbarazzo, la
vigliaccheria che ogni
volta la spingeva a ritrarsi, a cambiare argomento per tornare su
terreni più
solidi e a lei congeniali, dove muoversi fosse meno pesante. Insieme al
sole si
alzava un leggero alito di vento freddo. I setosi capelli di Demian,
del tutto
afflosciati sulla sua fronte, si sollevarono appena, rivelando la sua
aria
corrucciata e pensierosa, gli occhi concentrati ombreggiati dalle
ciglia. Quando
Demi era nervoso si mordeva l’interno della guancia con
insistenza, se n’era
accorta la sera in cui aveva dormito da lui, e tra tutti i granchi che
si era
presa quel gesto restava l’unica, assoluta certezza. Era
confortante, conoscere
almeno una sua abitudine, perché se si era convinta di non
conoscerlo affatto,
quando poi sbatteva contro questi piccoli dettagli capiva che non era
così,
aveva conosciuto un lato di quel ragazzo che i più
ignoravano ma che era sempre
più sicura non fosse una finzione. Era forse la parte
più onesta, molle e
delicata di lui.
Lo
ascoltò sospirare, puntare le pupille piccole
come capocchie di spilli lontano, assenti.
«I
miei nonni sono originari di un piccolo paesino
del nord della Francia. Un posto così minuscolo che non lo
conosce nessuno,
sulle coste dell’Atlantico. D’inverno lì
fa veramente freddo, è tutto grigio,
il cielo sembra sempre nebbioso e pesante, allora
c’è un silenzio assoluto,
irreale» il sorriso nostalgico che gli accarezzava le belle
labbra trasmetteva
più tristezza che felicità, ma Arianna lo sapeva
che i ricordi felici finivano
con il ferire più di quelli brutti. Erano momenti perduti,
irrecuperabili, e la
nostalgia era una malattia terribile che corrodeva. «Quando
maman stava ancora
bene, era là che trascorrevo tutte le vacanze,
d’estate e d’inverno. Ed il
Natale, ovviamente. Un anno ha nevicato fortissimo, la neve era alta
quanto Sarah
ed era difficilissimo camminare per le strade. Era così
tanta che aveva ricoperto
la spiaggia, è stata l’unica volta nella vita in
cui ho visto il mare lambire
la neve, a volte quando ci penso mi chiedo se sia successo davvero.
Sembra quasi
più un sogno. Il cielo era grigio e fitto, non riuscivo a
vedere le luci della
baia di Douarnenez, e il mare era di un viola strano, bagnato di
schiuma perché
il vento lo faceva innervosire. Sembrava che ruggisse, ed era
l’unico rumore. Poi,
a volte, stridevano i gabbiani» si rosicchiò
ancora la guancia, si passò le
dita tra i capelli, tutti i suoi tic tradivano la vergogna,
però le parlava e
le si rivolse direttamente ad un tratto, tornando finalmente a quel
parapetto e
non alle fiabe delle sue memorie «È strana la
memoria, vero? Passa il tempo e
certi dettagli si fanno più nitidi invece di sparire.
Ricordo che mi sembrava
ruggisse, che potesse inghiottirmi. Una volta avevo rischiato, mentre
ero sugli
scogli, di essere travolto dalle onde. Ne ero spaventato. Poi
però maman ci ha
condotto attraverso il sentiero sulla scogliera giù nella
spiaggia, una
striscia di sabbia innevata tagliata come un’unghia, dove
giocavo a raccogliere
le pietre colorate e a inseguire i molluschi e gli uccelli. Non
c’era nessuno,
era tutto vuoto, e lei mi teneva per mano, teneva me e Sarah.
L’abbiamo
percorsa tutta, senza dire una parola. Faceva freddissimo, me lo
ricordo bene,
ma non avevo paura, era tutto immenso e silenzioso e gelido, ma non mi
sentivo vuoto.
Non so se puoi
capire»
Infilò
malamente i pugni stretti, strettissimi,
nelle tasche, per nasconderle il disagio «Penso che quella
fosse felicità. Se dovessi
scegliere dove tornare, vorrei che fosse lì. Ma senza di
loro forse avrei
ancora paura»
Quindi
anche
tu hai paura della vita. Ti getti di testa perché se no lo
sai, che ti faresti
mangiare vivo da qualunque cosa. Non sono sola, siamo in due, ma siamo
davvero
due sciocchi
«Prendiamolo»
disse senza nemmeno rifletterci.
Demian si girò di nuovo a guardarla ad occhi sgranati
«Cosa?»
«Un
treno, ovvio!»
Demian
aprì la bocca, la richiuse, si corrucciò cercando
una domanda da porle che avesse un senso ed infinse
sussurrò, desolato «Per
andare dove?»
Arianna
si ritrovò a sbuffare, un poco annoiata da
quella reticenza.
Ti
lanci
nei rischi con strafottenza, e poi sembra che io ti abbia fatto
chissà quale
allucinante proposta. Sei assurdo, Demian Lemaire!
«Che
importa!» sbottò con
decisione «Prendiamolo e basta! Uno a caso, e vediamo dove ci
porta. Non me lo
hai appena detto tu, che bisogna provare e non solo
immaginare?»
Demian
si accigliò ulteriormente, il volto una
maschera di segni di turbamento «Aspetta un attimo! Io
pensavo… non era tutto
in senso figurato?»
Arianna
non riuscì a trattenere la risata «Certo
che no!»
Alla
perplessità si stava aggiungendo una forma di
paura «Non era una metafora?»
Arianna
si ritrovò a scuotere platealmente la testa
portandosi una mano alla fronte «Ma quale metafora e
metafora! Demi, io parlo
sul serio. Il figurato per me non esiste. Sono una persona pratica,
io!»
Convincere
Demian non era stato difficile.
Convincere
Demi a fare qualcosa non era mai
difficile.
Non
perché fosse un debole, ma per una terribile
forma di disamore: non gli importava nulla di se stesso e per questo si
lasciava trasportare alla deriva da ogni cosa senza opporre la minima
resistenza e senza curarsi di quanto i risultati potessero fargli male.
Era
completamente libero, anche troppo.
Così
libero da metterle tristezza.
Al
di là dei problemi, senza la sua famiglia
Arianna si sarebbe sentita sola da morire. Demian aveva
l’aria di uno che dalla
solitudine era stato schiacciato, che con quella ci aveva convissuto
tanto a
lungo da non riuscire più a ricordare cosa significasse
avere una presenza
accanto.
Forse
perché
non basta essere amati. Lui è stato amato molto, ma
l’amore bisogna sentirlo,
bisogna portarselo addosso, essere amati non significa sentirsi amati.
A volte
non è sufficiente sapere.
Sospirò
rassegnata e un piccolo alone di condensa
andò a disegnarsi sul vetro del finestrino. Il rumore del
treno in partenza era
un ronzio di fondo unito a leggeri sussulti, le rotaie iniziavano a
scorrere
lentamente sotto i suoi occhi attenti, i palazzi si susseguirono uno
dietro l’altro
come diapositive, si rincorrevano e davano vita ad uno spettacolo
luminoso di
comete di luce. Il sole era ancora basso, ma la linea della notte si
era quasi
del tutto ritratta, assottigliata con una calma esasperante.
Così, Arianna si sentiva
in uno stato di sospensione temporale, dove a sostituire le stelle ci
pensavano
gli infiniti lampioni ancora accesi.
A
rendere tutto ancora più astratto dal reale c’era
Demian, seduto accanto a lei in silenzio, sprofondato nella sua felpa
con i
capelli scarmigliati sulla fronte e lo sguardo basso, assorto e
malinconico. I suoi
occhi erano bellissimi, Arianna lo
aveva pensato in continuazione quel giorno, probabilmente
perché li aveva
osservati per la prima volta. Aveva osservato il taglio obliquo, la
linea
allungata della palpebra e quell’indefinito colore dovuto
alle lenti. Non aveva
mai visto il vero colore delle sue iridi, Demian non glielo aveva
ancora
permesso, ma dovevano essere chiare, delicatissime.
Potrai
sembrare
anche freddo agli occhi di chiunque altro, ma a me sembrerai sempre e
solo
troppo fragile, così tanto che la bellezza dentro te mi
sfugge e la tua vulnerabilità
mi agita.
Toccarti
è
così difficile… ho paura di frantumarti, Demi, ho
il terrore di farti male.
Demian
abbassò le palpebre lentamente, inconsciamente,
e scivolò nel sedile, ripiegandosi su se stesso.
Inclinò la testa e si appoggiò
alla sua spalla, trattenendo uno sbadiglio. Per un attimo, Arianna ebbe
paura a
muoversi, come se un uccellino le fosse volato casualmente tra le mani,
temeva
che un respiro più pesante degli altri lo avrebbe fatto
scappare. Demian però
non doveva aver dormito granché, perché si
acquietò subito e l’aria che usciva
dalle labbra carnose si fece più regolare e pesante.
Quell’espressione infantile
le strappò un sorriso.
Ecco,
ora
invece sembri un bambino. Come faccio io a cucire un’immagine
sensata di te, Demian?
Come faccio a capire chi sei, se sei sia una vittima che un carnefice?
Lo
ascoltò mugolare e si sentì libera di studiare il
suo volto pallido ricoperto di abrasioni. Aveva un sopracciglio
spaccato ed anche
il labbro inferiore riportava un brutto taglio, risultato probabilmente
di un
pugno. Un altro segno più leggero sulla guancia
già violacea e un livido vicino
all’occhio. La felpa nascondeva altre ferite, ne era certa,
aveva visto prima
il lungo taglio che gli segnava l’avambraccio.
Gli
accarezzò il profilo con la punta delle dita,
quel viso tanto bello quanto maltrattato, sciupato, marcato da occhiaie
profonde.
Non
è di
certo il principe azzurro. Non che abbia mai voluto un uomo in
calzamaglia celeste
pronto a salvarmi, in effetti
Di
cavalieri non ne aveva desiderati nemmeno nel
momento più brutto, e di uomini pronti a proteggerla ne
aveva a sufficienza, i
suoi fratelli erano uno scudo già abbastanza soffocante.
Forse
ragiono
come un uomo
Pensava
alla sua aria smarrita, guardava l’espressione
serena che mostrava nel sonno, rilassato come un bambino sfinito dopo
una
giornata di giochi, e provava una tenerezza nuova, un desiderio di
preservare
quel frammento di dolcezza. Affondò la guancia tra i suoi
capelli setosi e così
si addormentò a sua volta, tenendolo stretto in un abbraccio.
Avevano
dormito ininterrottamente per quasi tre ore
e si erano svegliati soltanto perché a Mestre il treno era
stato abbandonato da
una massa di persone piuttosto chiassose. Con qualche
difficoltà e circa un’altra
ora di pullman, Arianna ora camminava nella sabbia, tentando di tenere
il passo
di Demian.
sembrava
essersi scordato completamente di lei e procedeva
assorto sulla battigia.
Arianna
non era mai stata a Jesolo e lui nemmeno,
però quando erano scesi alla stazione, quello zuccone non le
aveva neanche dato
il tempo di guardarsi attorno, aveva chiesto indicazioni per la
spiaggia più
vicina e l’aveva trascinata con sé. Le sembravano
trascorsi secoli dall’ultima volta
che si era trovata in un paese di mare: così in autunno
inoltrato il centro abitato
cambiava volto, era spopolato. Non c’erano bancarelle estive,
negozi aperti che
vendessero cianfrusaglie ai turisti, non c’erano ombrelloni
né le sdraio.
C’erano
solo i grandi hotel che sovrastavano le
piccole casette modeste ed il brutto tempo, con un sole oscurato da
coltri di
nuvole grigie, una ragnatela di fumo che presagiva pioggia. Si era
alzato anche
il vento, odorava di sale e sabbia ed era terribilmente freddo, Arianna
si
ritrovò a tremare, appiccicosa di salsedine e impreparata ad
un clima tanto ostile.
Le battevano i denti mentre arrancava nella sabbia compatta per
l’umidità, nel
tentativo patetico di inseguire quello stupido testardo completamente
concentrato
su se stesso.
Arianna
aveva scelto quella destinazione senza rifletterci
troppo, era il mare più vicino ed anche se non era quello
della sua infanzia, intenso
come le notti senza stelle, era pur sempre mare.
Forse,
anche
solo per una breve illusione, potrebbe sentirsi meglio. O almeno, ci
speravo,
ma non credo stia funzionando
Demian
sembrava solo più turbato dal vuoto che li
circondava. Le sferzate gelide agitavano le onde, le stavano
scarmigliando i
capelli e il sale appiccicato alla pelle la rendeva secca, la sentiva
tirare ad
ogni espressione del viso.
Sembra
grigio
come polvere da sparo
Era
una giornata troppo brutta perché qualcuno
osasse accostarsi ad un luogo tanto desolato. C’erano solo
loro due su quella
distesa infinita di finto oro, che in quel momento aveva assunto la
sfumatura
del marrone scuro tanto era compatta. Gli stabilimenti balneari erano
stati
quasi del tutto smantellati ed Arianna pensò che forse non
era stata una buona
idea, che tutto era più malinconico e deprimente del dovuto.
Si
chinò e si sfilò le scarpe e i calzini, in barba
a quel freddo gelido, per non incespicare nella sabbia.
Freddo
per
freddo, tanto vale godermelo
Così
libera, aumentò il passo e riuscì a raggiungerlo,
quasi ad affiancarlo. Si fermò volontariamente un passo
dietro di lui e continuò
a osservarlo, in silenzio. Come se l’avesse percepita, o
più probabilmente perché
si era reso conto di averla lasciata indietro, Demian interruppe quella
sua marcia
serrata lungo la costa.
Si
voltò verso la distesa d’acqua grigio piombo e
così rimase ancora, assorto. Il vento gli sferzava il viso,
Arianna poteva
immaginare quanto quel sale bruciasse, sulle ferite aperte, ma lui non
accennava ad accorgersene. Quasi per abitudine, con
l’espressione vacua di chi
si muove per riflesso, si sollevò il cappuccio nero della
felpa e ci sprofondò
dentro, a nascondere un momento di profonda fragilità.
Arianna non sapeva cosa
stesse pensando, ma leggeva nei suoi gesti un malessere triste.
Lasciò cadere
le scarpe a terra e, con una leggera esitazione, si avvicinò
al mare quel tanto
che bastava alle onde per lambirle i piedi.
Rabbrividì,
ma non si sottrasse.
«È
gelida!» gli disse ridendo.
Voleva
attirare la sua attenzione, riportarlo lì
con lei, perché sembrava sperso, smarrito tra le sfumature
che fondevano cielo
e mare. Era bello, suggestivo, quel panorama, ma insinuava in lei una
stilla di
inquietudine.
Forse
ora
riesco a capire cosa intendessi con quel tuo ricordo, Demian, ma in
tutta
questa tristezza, dove è la felicità? Ci si sente
minuscoli qui, quando cielo e
terra si fondono.
Ci
si
sente come se tutta questa immensità potesse inghiottire
davvero.
La
pelle d’oca le rivestiva i polpacci, tremava, ma
davanti a quegli occhi vuoti non le riusciva di muoversi.
Seguì il suo sguardo
che si perdeva nelle onde orlate di schiuma.
Sussultò,
quando una mano s’intrecciò alla sua: non
si era accorta che Demian si era avvicinato, si era incantata. Con
gentilezza,
la tirò per il braccio per invitarla a seguirlo, Arianna
recuperò le scarpe e
gli andò dietro restando scalza. La sabbia compatta sotto i
piedi era viscosa e
umida, ma piacevole. Poche centinaia di metri più avanti, un
pontile di legno
tagliava l’acqua, le onde ci si infrangevano contro. Quando
lo raggiunsero,
Demian volle percorrerlo, il legno viscido di alghe le diede i brividi,
ma
continuò a tacere, perché in fondo il ragazzo non
sembrava disposto a parlare.
Arrivati
in fondo, Demian si sedette senza farsi problemi,
continuando a tenerle la mano. Arianna contemplò le assi
viscide con una
leggera repulsione, ma alla fine lo imitò senza fare storie
e lasciò le gambe penzoloni
a pelo dell’acqua agitata. Gli schizzi gli bagnavano i
pantaloni, ma Demian continuava
a non dire nulla. Quel silenzio non era scomodo, però la
lasciava a macerarsi
nel dubbio. Ad un senso di confidenza strana, di complicità
quasi in quella
situazione assurda e fuori da ogni schema, si univa il disagio del non
avere
idea di cosa stesse pensando.
Lo
guardò dal basso e Demian le concesse un sorriso
vagamente amaro, astratto, impalpabile, più simile allo
spettro di un sorriso. Gli
rispose più apertamente, ma non ottenne reazioni. Allora si
arrischiò ad aprire
bocca, pur con reticenza.
«Era
così che lo ricordavi?»
Il
suono della sua voce le suonò strano, inadatto
al contesto. Come se avesse osato interrompere qualcosa di perfetto, di
sospeso. Tutta quella calma però le pesava, voleva capire
cosa passasse in quella
testa scarmigliata, in quegli occhi adombrati di inquietudine. Da
quando
avevano lasciato il palazzo di periferia nei pressi della stazione, il
ragazzo
si era limitato a borbottare l’indispensabile, troppo
concentrato su cose che
non le era dato conoscere, purtroppo.
«No.
Era completamente diverso, più cupo. Più nervoso.
Come una leggenda… e poi non c’eri tu»
Si
mosse irrequieta sul posto, grattò il legno
marcio con l’unghia dell’indice.
«E
questo cambia qualcosa?»
Demian
accennò un altro sorriso, la tristezza non
era scivolata via dal suo volto e questo un poco la ferì,
anche se ora la guardava,
intenerito «Cambia tutto»
Annuì
e con una tranquillità fin troppo forzata, tornò
a guardare davanti a sé, per rifuggirlo.
Che
paradosso,
aspetti per una vita di sentirti dire certe cose, di occupare un
determinato
ruolo per sentirti finalmente a posto, e quando poi succede,
è uno schifo.
Come
si
fa, ad essere felice sull’infelicità altrui?
A
quel risvolto non ci aveva pensato, ora si
sentiva oppressa dal proprio egoismo.
Demian
è
disperato, per lui non è un gioco, non è un
capriccio. Non c’è alcuna leggerezza
in lui, in me ce ne è stata anche fin troppa. Mi sono
avvicinata a lui senza
pensarci, ed ora cosa faccio?
Come
faccio,
a non restare pienamente coinvolta senza fargli un torto?
Ripensò
a tutto, dal primo incontro alle scoperte
che l’avevano travolta quella mattina e che non aveva avuto
il tempo di valutare
con la giusta lucidità, mossa dai soliti impulsi
irragionevoli, mossa dal
rigetto per quell’autolesionismo che lo caratterizzava e che,
davvero, le era
incomprensibile.
Perché,
per lei, amarsi era tutto, era il senso nel
disastro generale degli eventi.
Amarsi
più di quanto la natura l’avesse amata, per
compensazione.
«Demi,
perché lo fai?» trovò il coraggio di
sussurrare.
Non
aveva smesso di grattare il legno con le
unghie, le trasmetteva calma, sfogare così il proprio
nervosismo.
«Se
sei così criptica, non capisco»
C’era
una dolcezza nella simulata
esasperazione della sua voce, le trasmetteva l’impressione
che si conoscessero
da sempre, che lui potesse leggere già i tratti
più salienti del suo essere,
prevenirli, e apprezzarli nonostante tutto.
Quella
familiarità le stringeva
il petto in un nodo.
«Perché
ti ferisci?»
Le
nocche di Demian sbiancarono,
strette sul bordo di legno. Le onde sotto di loro continuavano a
schiantarsi
con forza contro il pontile.
«Perché
non dovrei?»
La
pacata tranquillità rassegnata
con cui proferì quelle parole la sconvolse anche troppo.
Faticò a deglutire, a
trovare il coraggio di rispondere ad una tale assenza di amor proprio.
Forse non
era quella la domanda giusta, forse chiedergli perché si
odiasse tanto avrebbe
avuto più senso. Invece, preda dell’emozione, si
ritrovò quasi ad urlare un’ottava
sopra, senza riflettere «Stai scherzando spero!
Perché è la tua vita! Perché non
ne avrai un’altra se la distruggi, perché prima o
poi ti farai qualcosa di
tanto grave da non poter essere cancellata, e ti pentirai,
Demi!»
Demian
si irrigidì, ma non si
scompose. La squadrò solo più freddo, con
sufficienza e una nota di fastidio «Non
mi importa niente, della mia vita. Non è una cosa che ho
chiesto, mi ci hanno buttato
a forza in questo mondo di merda. Ti assicuro che se Dio mi avesse
permesso di
visionare il prodotto prima dell’acquisto, avrei rifiutato
senza rimpianti»
Quella
calma era allucinante,
non c’era rabbia, non c’era disappunto. Demian
constatava, ogni frase detta aveva
in sé la forza di qualcuno che nelle proprie sentenze ci
credeva dannatamente.
C’è
chi può pensare anche questo, credere anche questo.
Solo
perché non sai, parli per ignoranza!
È
inaccettabile, la tua vita è perfetta, sei un prodotto senza
scadenza, anche se
soffri, anche se ti accadono cose brutte, hai il tempo di cambiare
tutto, di
sistemare tutto! Come puoi non capirlo?
Il
nodo alla gola minacciò di
soffocarla, strizzò gli occhi, li sentiva già
umidi.
Si
odiava per quella debolezza,
quell’emotività senza controllo che la tradiva
sempre, ma non poteva farci
nulla, lo sgomento era troppo grande, il dolore che la colpiva per
quell’ignoranza
inconsapevole era tremendo, l’espressione dura e distaccata
di Demian era forte
come un montante.
Trattieniti,
maledizione, trattieniti
Si
premette i pugni sulle palpebre
chiuse, strizzate, con tutta la forza che aveva, per trattenere il
magone, il
pianto isterico che stava montando.
Non
sei una persona che piange, non lo sei
Ma
non era vero, lo sapeva fin
troppo bene. Non riusciva a smettere, senza che potesse impedirlo, i
lacrimoni
già le rotolavano giù dalle guance, grandi come
rugiada, abbondanti, pungevano
la pelle già arrossata.
In
passato era stata diversa, ma
erano anni che aveva perso il controllo su tutto e il suo umore era
un’altalena
emotiva assolutamente allo sbaraglio. E così fragile,
così facile da ferire,
tutto crollava facilmente, come un castello di carte. La sua farsa di
persona
normale crollava tra le sue dita, nascondersi da lui, cercare di non
fargli capire
quanto instabile fosse, era impossibile, soprattutto se le faceva tanto
male
senza neanche accorgersene.
«Annie?»
Scacciò
quella mano pallida con
una sberla risentita e, per la prima volta da quando lo aveva
conosciuto, la
sua espressione da cucciolo ferito che non comprende cosa di male possa
aver
fatto, le rimestò lo stomaco in un conato di rancore. Quasi
odio, perché non
riusciva a provare sentimenti ibridi, era sempre tutto troppo forte,
troppo
totalizzante. Era sopraffatta da lui, dalla crudeltà
intrinseca nelle sue
parole, una crudeltà che Demian non poteva scorgere
perché credeva riguardasse
solo lui, fossero meschine solo verso di lui, e non verso tutti gli
altri,
tutte quelle persone che avrebbero dato un rene per fare cambio con la
sua vita
da schifo, pur di avere almeno la possibilità di scegliere,
al di là dello schifo.
Recuperò le sue scarpe e si alzò, decisa ad
andarsene e piantarlo lì.
Non
meriti attenzioni, non meriti nulla! Non dopo la leggerezza con cui hai
detto
ciò che hai detto!
«Annie,
ma cosa ti prende?»
Si
voltò a guardarlo, per ingiuriargli
contro, ma le parole le morirono in un singhiozzo.
Era
una visione quasi poetica,
vederlo in piedi, in contrasto netto con lo sfondo nebbioso e grigio,
con il
mare agitato come cornice. Troppo delicato per tutta quella
brutalità, le ricordava
un quadro che aveva visto in fotografia una volta alle medie, quando
ancora
frequentava regolarmente. L’uomo del dipinto era su uno
scoglio, era l’unica
differenza.
Quel
quadro comunque l’aveva
sempre angosciata, rappresentava qualcosa di troppo grande, di sublime,
la faceva
sentire inutile, l’uno a uno, palla
al
centro dell’universo contro i suoi sforzi di
vincere la fortuna.
Demian
le trasmetteva la
medesima sensazione di frustrante impotenza e inutilità.
E
io che mi preoccupavo di toccarlo, non ho capito nulla. Pone una tale
distanza
tra se stesso e gli altri che anche volendo sarebbe impossibile, non
posso
aiutarlo.
Ed
un aiuto, per ciò che pensa, nemmeno lo merita.
Eppure,
la sola idea le faceva
montare il pianto e si sentiva prostrata dalla propria
fragilità, perché per
quanto si fosse mentalmente preparata ancora e ancora, certi argomenti
restavano un tallone d’Achille per la sua mente debole. Si
voltò e proseguì a
passo di marcia. Incespicò nella sabbia, si morse un labbro
per trattenere il
singhiozzo di rabbia che minacciava di rompere gli argini.
Pochi
passi e si fermò di nuovo.
Restò
immobile, investita dalla
consapevolezza: era ridicola, sembrava irragionevole, non poteva fare
nulla e
non poteva nemmeno fargli capire quanta e quale fosse la sua
frustrazione. Era solo
l’ennesimo tormento che passava per follia, perché
non poteva spiegare, non c’erano
parole, Demian l’avrebbe fraintesa come le era successo
infinite volte, avrebbe
fatto un passo indietro, l’avrebbe guardata con quella
compassione mista a pietà
che si riserva ai pazzi.
Lo
stomaco si contrasse
dolorosamente, si piegò su se stessa e così,
completamente accartocciata, scoppiò
in un pianto disperato.
«Non
voglio…»
«Annie,
cosa sta succedendo?»
Demian le fu accanto in un secondo, le afferrò un braccio
per scuoterla, la
costrinse a rialzarsi, ma gli si mozzò il fiato in gola
quando la vide in
volto, doveva essere un disastro. Sentiva le guance fradice di pianto e
gli
occhi le bruciavano, li sfregò con il polso, con cattiveria,
fino a farsi male,
e lui non glielo impedì, troppo allibito. Quella
passività improvvisa la fece
arrabbiare solo di più, si liberò della sua mano
inerte e lo spintonò, furiosa.
«Vattene!
Tu non capisci niente,
non sai niente e non t’importa di niente!»
Ed
io continuo a invidiarti per questo tuo distacco dalla vita, ti invidio
fin
quasi ad odiarti
«Tu
non la meriti! Ci sono
persone che darebbero qualunque cosa per avere una vita intera a
disposizione,
senza scadenze, e tu invece non le dai un minimo di
considerazione!» lo spinse
ancora, bruciante di una collera irragionevole, quasi ingiusta, che
però non
riusciva ad esimersi dal provare «Cristo, ma ci sei mai stato
nel reparto di tua
madre? Le hai viste, quelle persone? Darebbero l’anima per
poter avere mille
rimpianti, e poi ci sono persone come te, che non capiscono un
cazzo!» gli urlò
contro, dandogli l’ennesimo spintone che lo tenesse lontano,
perché Demian non
demordeva, tentava di avvicinarla blandamente, irritandola solo di
più.
Il
ragazzo abbassò le braccia,
gli occhi grandi di un bambino ferito e offeso «Non sono
affari che ti
riguardano» tentò debolmente di difendersi, ma non
riuscì a prevederla. Arianna
fece scattare la mano per istinto e le sue cinque dita si stamparono
con violenza
sul suo volto pallido, tanto da voltargli il capo.
«Non
osare dire una cosa simile!»
latrò, un misto di grida e pianto forte.
Demian
non rialzò la testa,
rimase con il volto inclinato e gli occhi bassi, puntati sulla sabbia.
Arianna
non sapeva se arrabbiato o, forse, pentito, ma non le importava,
sentiva che
non aveva ancora finito, che lui doveva comprendere. La voce
però le tremò, uscì
meno decisa, più spaventata «Tu prima di tutti
dovresti saperlo, hai tua madre,
tua sorella… tu la conosci la disperazione di chi non ha
più tempo. Tu più di
tutti l’importanza della vita dovresti conoscerla»
Le
mani gli tremarono, Demian le
strinse a pugno, la congelò con un’occhiataccia
ostile «Pensi che non la
cederei se potessi?» alzò i toni a sua volta,
umiliato, prendendola in contropiede.
Sussultò, ma lui non se ne accorse «Farei a cambio
con mia sorella, se potessi!
Le darei il mio cuore! Farei qualunque cosa se servisse a darmi la
certezza che
lei potrebbe vivere, vorrei che vivesse più di ogni altra
cosa e del resto non
me ne frega niente! Della mia vita senza di lei non me ne faccio un
fottuto
cazzo! Quello che sono, quello che faccio, non ha valore! La mia vita
non ha
valore, è Sarah che ha senso, solo Sarah!»
Inerme
di fronte a tanta vuotezza,
a tanta tristezza, Arianna sentì il petto percuotersi di
singhiozzi quasi
isterici, lo percepì come qualcosa di distante da lei, fuori
da ogni controllo.
Immersa in un pianto disperato, gli scaricò un primo pugno
sulla spalla, poi un
secondo.
«Non
è giusto!»
Lo
colpì ancora e ancora, Demian
le afferrò i polsi, ma faticò a tenerla ferma,
Arianna lottò con tutte le sue
forze per sciogliere quella presa e ignorare l’espressione
stralunata, totalmente
sconvolta, con cui il ragazzo la supplicava di fermarsi.
Quindi
io non potrò mai capirti, è questa la
verità, tu mi sarai sempre estraneo.
Io
non posso farti del male, nessuno può: tu sei già
distrutto. Nemmeno volendo
potrei farti più male di quanto tu non te ne faccia
già da solo ogni giorno.
Ma
come puoi alzarti tutte le mattine odiandoti così tanto?
Come
si può sopravvivere così?
«Maledizione
Annie! Che cosa ti
prende?» l’aggredì ad un palmo da suo
volto. Poteva sentire il suo fiato caldo,
i nasi quasi si sfioravano e i suoi tratti candidi non erano del tutto
a fuoco.
La linea dei suoi occhi però, quell’arco aguzzo
sull’angolo mediale che lo
faceva apparire quasi una fiera, non le era mai parsa tanto nitida e
netta, cosparsa
di ciglia bianche e folte, fredde come neve posata su un ramo. Arianna
smise di
dimenarsi, prese un profondo respiro per recuperare una calma apparente
più
forte del dolore allo stomaco.
Le
lacrime la tradivano, ma non esitò
a guardarlo negli occhi.
Daniele
lo dice sempre, chi dice la verità, chi non dubita di se
stesso, non teme di incrociare
lo sguardo di nessuno.
Non
dubito di me, nonostante tutto. Ma forse ti odio, Demian, odio sapere
che
possiedi una cosa che ho sempre desiderato e scegli di non averne cura.
Odio
vedere il mio più bel sogno calpestato
Il
rancore annebbiava ogni suo
pensiero, ma di fondo restava una pallida consapevolezza: tutto
desiderava,
meno che staccarsi da lui. Più quella rabbia si faceva
forte, più in lei
cresceva un senso di attaccamento che a mente lucida avrebbe
tranquillamente
definito morboso. La sua noncuranza la feriva, ma era preferibile
restare
ferita, portarsi sullo stomaco quelle parole pesanti come macigni,
piuttosto
che abbandonarlo.
Farei
un torto a lui, e lo farei anche a me stessa
Non
ho più motivo di sentirmi in colpa, non ho ragioni di
esitare, ormai
«La
voglio io» lo sfidò, decisa.
Le
sopracciglia bianche si aggrottarono
in tutta la loro confusione «Di cosa stai parlando
ora?» domandò esasperato da
quell’altalena emotiva che palesemente lo aveva sfibrato e lo
stava portando
vicino all’esaurimento precoce.
Arianna
arricciò le labbra e
ignorò tutti i segnali di un cedimento «La tua
vita. Hai detto che non ha un
valore, che non te ne fai nulla, no? È come se
già non vivessi, è sprecata. Una
vita non va sprecata. La voglio io, la voglio per me»
Demian
non riuscì a deglutire
per lo sbalordimento. Socchiuse le labbra, per dire qualcosa, ma gli
occhi
tradivano la mancata connessione tra il significato della sua richiesta
e la
comprensione della stessa. Riuscì a mormorare, atono
«Non è divertente»
«Non
volevo esserlo»
«Allora
non sto capendo» ammise
candidamente.
Arianna
incamerò aria insieme ad
una discreta dose di coraggio «Voglio tre mesi della tua
vita. Voglio che me li
cedi, così potrò farti cambiare idea»
Era
fin troppo consapevole di
quanto quella richiesta suonasse assurda e fuori luogo, però
non poteva accettare
una resa a priori, non poteva gettare la spugna e accettare
passivamente che
una realtà troppo triste si consumasse davanti al suo
sguardo indifferente. Tutta
la sua determinazione si era concentrata sull’unica, assoluta
verità che in
quel momento la dominava: non poteva lasciarlo stare, non voleva
abbandonarlo.
Non
chiedermi perché, fra tutti, ho scelto te, perché
sarai tu la vittima di tutto
questo. Non ne ho idea, ma se sei tu Demi, se sei tu può
funzionare, è diverso.
Questo è tutto quello che so
«Non
ti sto chiedendo niente di
eccessivo, se ci pensi. Allo scadere dei tre mesi sarai totalmente
libero di
liberarti di me. Se accetti però, potrai farlo solo allo
scadere del tempo, ci
saranno delle regole e le dovrai seguire categoricamente»
Il
ragazzo inarcò le
sopracciglia, fece un leggero passo indietro. Poi, si lasciò
andare ad una risata
forzata, nervosa «Tutto questo è folle, non ha
senso. Perché mai
dovrei accettare una proposta tanto assurda?»
Arianna
arricciò il naso,
scrollò le spalle per minimizzare il tutto e si
ritrovò a correggerlo, accennando
un sorriso compassato «Nessuno ha detto che devi.
Puoi, è diverso, una
possibilità»
Quella
sua uscita lo rese ancora
più sospettoso.
«È
uno strano scherzo dei tuoi? Non
sta funzionando»
«Sono
serissima»
Come
un animale, la guardò
cauto, in tralice «E se non fossi interessato?»
Con
una certa freddezza, gli
porse la mano «Allora è stato un piacere
conoscerti» chiarì, con tutta
l’indifferenza
di cui fosse capace e che il viso arrossato di pianto sicuramente stava
tradendo.
Se
rifiuta, sono categorica, non lo vedrò più. Tanto
non avrebbe senso, sarebbe
controproducente per entrambi. Se lui è davvero solo questo,
anche io mi farò
del male, non sono così forte da sopportare di vedere
qualcuno che si fa a
pezzi
Aveva
un po’ paura, perché la
parola data a se stessa non se la rimangiava mai, sapeva che non
avrebbe
ritrattato nemmeno se l’avesse desiderato più di
ogni altra cosa, ma il pensiero
che quel ragazzo appena conosciuto potesse già smettere di
far parte della sua
vita la rendeva incredibilmente infelice.
Demian
indietreggiò ancora, un
guizzo di inquietudine sotto la superficie di quei suoi occhi freddi e
incolori, dalla sfumatura inafferrabile.
«Mi
stai ricattando» constatò
con un certo rancore.
Arianna
ne rimase meravigliata:
non l’aveva nemmeno concepita sotto quell’aspetto,
ma Dem ragionava in modo
totalmente imprevisto, per lei.
«Un
ricatto non ha una soluzione»
fece notare, inclinando la testa, come per guardarlo da
un’altra prospettiva,
per capire cosa potesse vederci lui, in quella situazione assurda
«Tu invece
hai una scelta»
Demian
però non la smetteva di
fissare quella mano tesa verso di lui con una sorta di avversione, un
orrore
inspiegabile «Se non accetto, non ti vedrò
più» ripeté piano, e aggiunse
più risentito
«Questo è un ricatto»
Le
strappò un sorriso, con quel
suo broncio da bambino insoddisfatto «Non vedermi
più sarebbe solo la conseguenza
di una tua scelta» gli fece notare con una certa
ovvietà.
Se
possibile, s’indignò ancora
di più «Se vuoi andartene fallo, non devi
ricorrere a scemenze simili, non te
ne farei una colpa comunque» la voce bassa, appena soffiata,
diceva tutt’altro,
non riusciva a nascondere l’acredine.
Eccolo,
ecco il punto. Si sente abbandonato prima ancora di esserlo.
È questo che devo
combattere, altrimenti nulla di ciò che dirò
avrà valore
Si
avvicinò a lui, lo colse di
sorpresa e gli afferrò il volto tra le mani prima che
potesse arretrare ancora,
costringendolo a guardarla negli occhi.
«Ascoltami»
scandì severa «Ascolta
quello che ti dico e solo quello
che
ti dico, non leggere tra le righe verità che non
esistono!» prese fiato e
raccolse tutto il proprio coraggio, mentre gli occhi di Demian si
sgranavano
davanti a lei, grandi e confusi come quelli di un bambino spaventato,
limpidi
di un azzurro leggerissimo, sporcato di rosa «Non voglio
andarmene Demian, ok? Non
lo so perché, sinceramente non ne ho assolutamente idea, so
solo che voglio
restare con te. Voglio che tu stia vicino a me, davvero non lo hai
capito?» lo
smarrimento che trasmetteva parlava per lui, per le sue labbra gonfie
sigillate
in uno straniante orrore. Arianna sentì il panico del
fallimento «Quello che
voglio non ha senso se non posso aiutarti. Se non posso fare niente per
te, se
stai così sulla difensiva… non devo essere un
profeta per dirti che saremo
infelici in due. E io non sono così forte, per questo voglio
che scegli tu,
anche se questo mi rende una vigliacca»
Lo
liberò dalle sue mani, lasciò
scivolare le dita sulla pelle bianca prima di ritrarsi, per sentirne il
calore,
assorbirlo, sentire che era vivo e pulsante, non un oggetto inanimato.
Gli sorrise,
fiaccamente «È tutto il giorno che mi tormento, ma
non sono giunta a nulla oltre
a questo. Perciò scegli tu, ma se scegli ch’io
resti, allora devi rispettare le
mie condizioni, perché che tu ci creda o meno, anche io ho
paura» sollevò le
spalle, per alleggerire quella confessione, sminuirla «Sono
terrorizzata. E se
devi stare sulla difensiva cercando di ferirmi per ogni minima cosa
solo per proteggerti
preventivamente, io non ce la faccio. Non sono una scalatrice, non
posso
assediare continuamente la stupida torre dove ti barrichi ogni volta
che
sbaglio a dire qualcosa!»
Demian
era troppo tramortito per
rispondere a quel fiume di parole, aveva l’aria di chi
cercava di assimilarle,
di venirne a capo. La fissava con un’intensità
tale che Arianna lo sentiva, le
gambe le avrebbero ceduto, forse per l’eccessiva vicinanza,
perché restava lì,
a poco più di una spanna da quel viso bellissimo e sciupato.
Il ragazzo si
morse le labbra, poi, esitante, sollevò la mano. Le
sfiorò la guancia con la
punta delle dita, con lentezza esasperante seguì la linea
del suo profilo, la
mandibola fino al mento, delicatamente. L’accarezzava con una
dolcezza così
struggente e ritrosa, che Arianna sentì il cuore batterle
furiosamente. Non fosse
stata del tutto sana, avrebbe giurato di essere ad un passo
dall’infarto, non
poteva credere che quell’organo potesse reggere tanta
pressione, la pelle del
viso bruciava come fosse rovente e si vergognava, perché
Demian poteva sentirlo
attraverso la punta gelida di quelle dita intirizzite dal freddo.
Insieme all’eccitazione,
provava una strana angustia
Mi
tocca come se potesse rovinarmi.
Non
puoi essere davvero tanto ingenuo, Demian
Era
lusingata e oltraggiata, per
quell’eccessiva delicatezza. Nel miscuglio di sensazioni che
l’attanagliavano,
si ritrovò a trattenere il respiro. Avrebbe voluto
distogliere lo sguardo, ma era
pietrificata. Quando Demian tornò a parlare, lo fece
accostandosi al suo volto,
in un sussurro leggero. Arianna sentì il fiato caldo, in
contrasto con l’aria
gelida, lambirle il collo e l’orecchio.
«Quindi,
se accetto, rimani con
me»
Le
tremavano le mani, le strinse
a pugno e raffazzonò un tentativo di risposta
«Almeno per i prossimi tre mesi»
Cercò
di suonare più spavalda di
quanto non si sentisse, perché in quel momento le sembrava
che il suo corpo
fosse composto di gelatina pronta a sciogliersi.
«Allora
è una promessa»
Riuscì
a stento a borbottare un “Sì”,
prima di ritrovarsi completamente spalmata contro di lui, in un
abbraccio
impetuoso a tradimento.
Qualunque
cosa tu faccia, sembri sempre un disperato
Per
assurdo, questo lo rendeva
solo tenero. Sentiva la mano aperta sulla sua schiena,
l’altra le premeva il
capo contro il suo petto. Si sentiva avvolta completamente, quasi
minuscola,
con la sua guancia fra i capelli. Con l’improvvisa e
soverchiante certezza che
Demian sarebbe rimasto, gli gettò le braccia al collo e lo
strinse con
altrettanta forza, soddisfando il desiderio che l’aveva
pervasa fin da quella
mattina. La tensione ora sciolta minacciò di farla piangere
ancora, ma si
trattenne, perché era già sembrata
sufficientemente matta, di una follia che
non avrebbe potuto mai spiegargli senza spingerlo a scappare. Demian,
nella sua
stretta, si rilassò, abbandonò la postura rigida
e sciolse i muscoli. Si aggrappò
a lei come un bambino.
«Resta»
Gli
passò una mano fra i
capelli, intrecciò le dita a quella massa morbida.
«Resto»
Se
dobbiamo scottarci, ustioniamoci
«Annie?»
sussurrò ancora, in
imbarazzo. Si scostò quel tanto sufficiente a guardarla,
nonostante la sua
altezza la osservava dal basso, intimorito, le fece scappare un
battito, lo perse
con una facilità così disarmante che quasi non le
riuscì di crederci.
Seriamente,
ma come ho fatto a non rendermi conto fin dall’inizio di
quanto fosse bello? Anche
con questi suoi occhi così strani, con questa sfumatura rosa
che si vede solo
standogli così vicino
Tutto
di lui è tremendamente affascinante.
Era
incredibile, come i suoi
occhi parlassero, quando il suo muro si abbassava. Si poteva leggergli
l’anima,
in quello sguardo, con la giusta attenzione.
«Posso
baciarti?»
L’impaccio
era tale che Arianna riuscì
solo a sorridergli sollevando gli occhi al cielo.
«Demi,
hai l’iniziativa di un cucchiaino
in una lavatrice!»
Lo
vide crucciarsi, confuso,
mordersi ancora la guancia con tutta la sua indecisione
«Intendi lavastoviglie?»
la corresse di nuovo, ed Arianna si sentì morire per
l’imbarazzo dell’ennesimo
errore
«Il
punto è che stai lì a
prendere acqua!»
Vedere
le sue guance pallide
arrossarsi le diede la perversa soddisfazione di essere in vantaggio.
«Io
veramente…»
Non
gli diede modo di
concludere. Senza pensare, seguendo l’istinto,
annullò la distanza che la
separava dalle sue labbra ancora schiuse. Le sfiorò appena,
morbide e carnose,
vi sfregò contro le sue e fu pervasa da un brivido di
eccitazione. Erano belle,
delicate anche con la crosta del sangue coagulato, fu mossa dal
desiderio di
morderle ed invece si fermò, mantenne quel delicato contatto.
Non
ricordava più come si
respirasse, né le interessava, non sembrava più
importante, come tutto il
resto, alla luce delle sue labbra soffici e tiepide.
Chiuse
gli occhi, troppo in
imbarazzo per poterlo guardare, e posò la fronte contro la
sua. Le punte dei
nasi si sfioravano, così vicini, l’uno ad un
soffio dall’altro, sentiva il respiro
di Demian spezzarsi sulle guance accaldate.
«Non
hai mai cercato di parlare così
tanto» mormorò a stento, per giustificare quel suo
gesto avventato. In attesa
di una risposta che non sentiva arrivare, le palpebre sigillate per
proteggerla
dalla vergogna, percepì le mani di Demian prenderle a coppa
il viso.
Questa
volta fu lui a baciarla,
con quella sua delicatezza eccessiva, angosciata.
L’accarezzava piano, non la
smetteva di toccarle il viso, faceva scivolare le dita lunghe sul
collo, ma non
si spingeva oltre, lambiva appena la sua bocca per discostarsene, in
baci
leggeri. Esasperata, Arianna si fece più audace, si
lasciò andare a quel
contatto e schiuse le labbra per invitarlo ad approfondire il bacio. La
mano di
Demian scivolò sul suo fianco, la attirò
più stretta, le mancò il respiro.
Riesco
a sentire il suo cuore
Batteva
forte quanto il suo,
sembrava stessero correndo una maratona insieme. Con un ultimo, lieve
bacio a
fior di labbra, Demian si separò da lei. Le sorrise, un
sorriso vero, onesto e
immenso. Osservò il suo canino storto, le rughe
d’espressione intorno agli occhi
strizzati in quel momento di puro, puerile entusiasmo. Era una
felicità tanto
piena da oscurare il volto segnato di lividi. Rapita dal momento,
Arianna si
sfiorò la bocca con la punta delle dita.
Non
me lo immaginavo così. È stato… intenso
Era
stata l’esperienza più inebriante
della sua vita, la consapevolezza di un altro corpo, di un altro
respiro, era
stata schiacciante, quasi opprimente. Si guardò attorno, per
riprendere
contatto con la realtà. Realizzando dove si trovasse e come
ancora Demian la stringesse,
le venne da ridere. Si lasciò andare ad una risata sentita,
quasi selvaggia, a
cui il ragazzo rispose con perplessità.
«Che
ti prende adesso?»
La
sfumatura delusa rese la
situazione ancora più divertente «Guardati
intorno!» gli fece notare con ovvietà
«La spiaggia, il mare… siamo praticamente dentro
il più grande e banale dei cliché!»
Avvilito,
Demian scrollò le
spalle «Hai proprio una testa bacata»
borbottò, ma in fondo trapelava una nota
di divertimento che la fece sbilanciare.
«È
vero, lo sai benissimo che ho
ragione! Mi sento quasi banale. Sai che non ti facevo tipo da luoghi
comuni?»
Il
ragazzo le afferrò malamente
la guancia tra il pollice e l’indice e la
strattonò, provocandole un intenso
bruciore e immediate lamentele «Così mi fai
male!» si lagnò, e gli assestò una
non troppo leggera gomitata allo sterno.
Demian
sbuffò, le scompigliò i
capelli lisciati dal vento e dalla salsedine, prima di allontanarsi e
afferrarle
la mano.
«Non
ti lamentare. E comunque,
sospetto che niente fatto da te potrà mai risultare un
cliché!»
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Capitolo 19 *** Nicolas ***
À Demian
Capitolo diciassettesimo
Nicolas
Era
una serata umida e fredda, quella, anche se era estate
inoltrata.
Demian
non era mai stato in quella zona della città ad
un’ora così
tarda. Aveva solo tredici anni, nessuna esperienza alle spalle e la
voglia di
invischiarsi in qualcosa di diverso, perché non sopportava
più maman rinchiusa
nella sua camera, non sopportava più i medici, la famiglia
troppo distante; perché
in quella pesante routine in cui era incastrato ci soffocava, ci
annaspava
tutti i giorni alla ricerca di una boccata d’ossigeno che si
rifiutava di arrivare.
Persino
il dolore si era trasformato in noia ormai, e si ritrovava
a trascinare il proprio corpo da un posto all’altro,
caracollando senza uno scopo.
Allora aveva capito che forse non c’era scopo, per una
persona come lui, nata
per errore da un errore, destinata a restare senza posto.
Questa
presa di coscienza lo aveva alleggerito, lo aveva spinto a
compiere quell’atto incosciente che non aveva avuto ancora il
coraggio di fare.
Nicolas gli aveva dato un barlume, un accenno di
possibilità, e Demian aveva
deciso che non avrebbe esitato a stringerlo tra le mani, quel fuoco
fatuo di
sgargianti illusioni, anche a costo di ustionarsi, di sciogliersi pelle
e ossa
solo per avere qualche secondo di senso.
Era
sceso dall’ultima corsa extraurbana del pullman ed ignorava
come sarebbe rientrato a casa, perciò non gli era rimasta
altra opzione che
addentrarsi nelle strade della città. Dall’altro
lato dello stradone, la
stazione dei treni era buia e tetra, come un edificio abbandonato, non
fosse
stato per il pallore luminescente degli schermi che dichiaravano le
tratte
ancora in corso e le luci basse di pochi Watt che sembravano tremare
d’incertezza.
Nella
via opposta, Demian avrebbe ritrovato il caos cittadino, il
viale alberato che portava in centro. Sentiva il brusio di famiglie e
persone
che mangiavano gelati e ridevano e passeggiavano. Invece, la piazzola
della
stazione presentava solo gruppi di ragazzi raccolti,
dall’aria poco
raccomandabile, e qualche viandante che trascinava dietro di
sé una valigia, persone
che uscivano velocemente e si incamminavano verso le luci dei negozi.
Tutto quello
squallore era quasi paradossale, la stazione era stata completamente
rinnovata
non molti anni prima, eppure presentava i sintomi della decadenza e
dell’abbandono
tipici di un edificio lasciato all’incuria del tempo. Le
lamiere che avevano
delimitato il cantiere e l’avevano reso inaccessibile ai
civili, dopo la ristrutturazione
erano state rimosse solo per essere abbandonate in una catasta
arrugginita
dalle piogge e dalle intemperie, proprio in mezzo al cortile. Il legno
delle
panche era gonfio di umidità e sbeccato ai bordi, marcito,
dava sempre la
sensazione di viscido e bagnato quando ci si sedeva sopra; il prato era
incolto, la fontana centrale aveva smesso di funzionare da tempo
immemore e le
acque lì conservate, melmose e verdi, avevano dato adito a
nuove forme di vita
su cui Demian a volte si divertiva a fantasticare. Sotto il porticato a
colonne,
alcune porte erano state sbarrate con assi di legno in seguito ad atti
vandalici
e alcuni muri erano stati rivestiti di murales vivaci e volgari, dalle
immagini
spinte. La macchinetta per convalidare i biglietti era stata sradicata
e
pendeva mollemente, come un soldato accasciato. Nell’insieme,
le macchie di
umidità e il muschio agli angoli e tra le lastre della
pavimentazione
risultavano il problema minore.
Lo
squallore che lo circondava però, per quanto lo repellesse,
risultava più attraente della sua dolce e calda dimora,
imperfetta ma certamente
più sicura. Era di quella sicurezza, di quella protezione,
che Demian era
saturo, era noiosa e la noia lo intontiva, lo anestetizzava. Lui
invece, voleva
soffrire molto di più, aveva sempre la sensazione di non
soffrire abbastanza,
di non capire abbastanza. E se non poteva comprendere maman, non poteva
aiutarla, non poteva sfiorarla, sarebbero sempre rimasti divisi da
quella porta
chiusa, un compensato sottile che sembrava indistruttibile
più di un muro di
cemento armato. Se fosse riuscito a soffrire di più, avrebbe
pagato il debito
con maman, con suo padre. Era nell’autodistruzione che gli
sembrava di vedere
una possibilità di pareggiare i conti.
Superato
il sottopassaggio, ritrovò il parco di cui Nicolas gli
aveva parlato, di fronte alla via di vecchi locali trasandati e di un
grande
parcheggio. Nico era proprio dove gli aveva detto che lo avrebbe
trovato: seduto
irriverentemente sullo schienale di una panchina, rideva sguaiatamente
con i
suoi amici, tanto forte da permettergli subito di individuarlo
nonostante i pochi
lampioni. Stringeva una sigaretta in mano, o forse una canna, e il suo
sorriso,
anche se immenso, manteneva sempre quel retrogusto animalesco e
attaccabrighe.
C’era
l’intero gruppo già da quella sera, quel gruppo
che avrebbe
imparato a conoscere a fondo con il tempo, che avrebbe amato e
disprezzato.
Ognuno
di loro aveva la propria dipendenza e la propria storia, ma
il legame che li spingeva a restare tutti insieme al di là
delle divergenze era
Nicolas, che se li giostrava e giocava con loro come fossero bambole
nelle sue
mani inesperte e capricciose. Nico non era il più grande,
però sapeva farsi
rispettare, anche di brutto quando era necessario. Un po’ per
il suo retaggio
familiare, che Demian avrebbe scoperto solo in seguito, un
po’ per la sua
natura brutale e meschina. Teo aveva sette anni in più di
lui, era irragionevole
ed aggressivo già allora, ma davanti a Nico faceva sempre un
passo indietro e
chinava la testa. La verità circa il loro rapporto non gli
era chiara, Matteo
era uno strascico della generazione X di Kurt Cobain, figlio del grunge
e uno dei
pochi eroinomani sopravvissuti agli anni novanta. Il primo bucomane con
cui
Demian avesse avuto a che fare, perché all’alba
del duemila era la cocaina ad
andare per la maggiore.
Aveva
scoperto un giorno da Alex che il più grande si era
indebitato, anni prima, tentando di entrare nel giro come pusher. La
sua dipendenza
spietata aveva rivelato presto che non fosse tagliato per lo spaccio,
il suo
consumo di ero era aumentato, aveva rischiato una morte da overdose e
si era
indebitato al punto che lo spacciatore a cui si era appoggiato aveva
minacciato
di gambizzarlo, non avesse riavuto i suoi soldi.
Era
stato in quel momento che aveva conosciuto Nicolas, quello
spacciatore era suo zio.
Nico
era intervenuto a suo favore, si era fatto carico del debito,
stretto un accordo con lo zio, e infine lo aveva assoldato: Teo sarebbe
stato
uno dei suoi, avrebbe smerciato cocaina per lui e in cambio Nicolas si
sarebbe
assicurato di non lasciarlo mai in astinenza.
I
dettagli di quel controverso rapporto non li conosceva nessuno, era
il debito il vincolo di Teo.
Tutti
nel gruppo avevano un debito con Nico, era così che
lavorava, che si creava attorno la cerchia di accoliti perfetta,
fondata sulla necessità
della sua persona. Gli altri componenti di quella banda erano
più che altro
delinquenti di poco conto, quasi banali: Andrea era un etilico perso,
completamente annegato nell’alcol e impasticcato fino al
midollo, ci andava pensante
con i cocktail di efedrina e valium che lo obnubilavano più
delle droghe
pesanti, dandogli l’aspetto perennemente sperso e confuso e
un’espressione assente,
smarrita, a tratti quasi infantile sotto gli strati di capelli unti e
la barba
incolta. Perlomeno non si faceva di coca e questo lo rendeva abbastanza
affidabile, almeno nello spaccio, gli servivano i soldi per affogare
nell’alcol
quanto desiderava. Era stato un assiduo debitore e in nessun bar della
zona
veniva più servito, per la sua cattiva fama, ma assurdamente
la dipendenza da
alcool risultava una condanna peggiore della coca stessa,
perché quando Andrea
restava sobrio troppo a lungo perdeva compostezza e
tranquillità e dava fuori di
matto, irragionevole peggio che se fosse in rota.
L’Edoné era però territorio
di Nicolas, lo sapevano tutti, e tutti conoscevano Nico. Il resto era
venuto da
sé e far credito per cifre esorbitanti non era
più stato un problema, dopo
essersi unito a lui.
Alex
era un cocainomane con un senso notevole degli affari, il
braccio destro di Nicolas, uno che dalla droga era stato tirato sotto
in pieno
ma riusciva ancora a rialzarsi per fare il suo dovere. Il
bell’aspetto curato, i
piercing eccessivi e i vestiti ricercati creavano un contrasto insolito
tra lui
e gli altri membri della banda, la cosa però non lo
disturbava particolarmente,
Alex era super partes, indifferente a tutto ciò che non
avesse un valore
economico o utilitario.
Infine,
per ultimo c’era Davide, il suo preferito. Un punk in
ritardo sui tempi, erede nostalgico degli anni ottanta e del rock
più aggressivo,
il suo unico scopo sembrava voler emulare John Lydon,
un’icona fondamentale del
suo larario personale. Era un fattone con al cresta colorata
più allucinata che
Dami avesse mai visto, ed era paradossale perché, come gli
avrebbe raccontato
poi, la sua era una famiglia bene, con una villa da capogiro nel
quartiere alto
della città e genitori che lo avevano iscritto a forza alla
più prestigiosa
università di economia di Milano nonostante i suoi scarsi
risultati, solo per
il principio assurdo secondo cui doveva portare avanti il buon nome di
famiglia. Dave rifuggiva la realtà imbottendosi di MD e LSD,
ma il fumo restava
sempre il suo vocabolo preferito e in seguito non aveva esitato a
condividerlo
con lui. Con la sua allegria a volte un po’ artificiosa e
quell’ingenuità che
probabilmente era più frutto dei neuroni bruciati che di
predisposizione
naturale, sembrava l’unico in grado di poter superare i
vent’anni quasi del
tutto normalmente.
Quella
sera, quando Nico l’aveva visto, era balzato in piedi con
uno scatto rapito e felino, quasi elegante, e gli si era fatto vicino
con un mezzo
sorriso che a tratti sapeva di scherno. Non aveva detto nulla, gli
aveva
gettato un braccio attorno alle spalle e l’aveva attirato a
sé con nonchalance,
poi si era voltato platealmente verso il suo piccolo gruppo di fedeli.
«Ragazzi,
lui è Demian. Dem da oggi sarà dei
nostri» aveva
esordito, senza consultarlo. E Dami, guardandolo dal basso con gli
occhi
immensi, aveva compreso tutto ad un tratto la portata di quel suo gesto
avventato, aveva capito di aver appena venduto l’anima al
diavolo, un piccolo
passo verso un baratro profondo e oscuro. Nicolas aveva ricambiato il
suo sguardo,
una scintilla provocatoria nelle iridi grigie d’acqua sporca,
come a sfidarlo a
dire il contrario.
«Giusto,
Dem?»
Le
parole gli mancarono, così Demian si ritrovò ad
annuire lentamente,
quasi temendo che un gesto brusco avrebbe risvegliato
l’animale sopito dentro
il corpo di quel ragazzo strafottente. La dannazione Nicolas
l’aveva cucita in
ogni tratto del suo volto spigoloso, lo stomaco si rattrappiva per il
senso d’allarme
che riusciva a trasmettergli.
Aveva
stretto davvero il patto con il Demonio.
Ero
troppo giovane, troppo innocente e
tentato per poter vedere la clausola nascosta del contratto, quella
piccola e quasi
invisibile linea sul fondo del foglio, accanto alla mia firma
Aveva
battuto il pugno con tutti i membri, tranne Matteo che, a
distanza, lo fissava in cagnesco, pronto a ringhiare al minimo cenno di
invasione del suo territorio da parte di Dami. Davide invece
l’aveva preso in
particolare simpatia, nonostante gli anni che li separavano, e nel giro
di poco
aveva scoperto che con lui non provava né imbarazzo
né paura. Gli si era seduto
accanto e il punk più disastrato di sempre gli aveva offerto
la sua prima
sigaretta con un sorrisino incoraggiante, così estatico che
Demian pensò non fosse
una sigaretta, ad averlo reso felice.
In
quell’astrazione dal reale, tra un colpo di tosse e un altro,
si era sentito più leggero.
Aveva
sorriso.
Immotivatamente,
perché niente aveva importanza in quel frangente.
A malapena ricordava sua madre, circondato da quei ragazzi,
né la Francia, che
fosse lontana, che forse non ci sarebbe tornato, non avrebbe rivisto la
sua famiglia
quell’anno.
«Ehi
Dem, ma si può sapere quanti anni hai?»
«Quasi
tredici» aveva tossito, e il sorriso sciocco di Dave si era
incrinato, gli angoli della bocca si erano piegati verso un basso
perplesso.
Non
avevo torto, a pensare che quel detto fosse
vero, che il riso davvero abbonda sulla bocca degli stolti. Era la
prima volta,
che mi sono reso conto che i detti hanno ragione di essere.
Davide
era già sospeso in un eterno ed estraniato stato di
beatitudine che sfiorava la deficienza. Il silenzio che era crollato
però, non
aveva colpito solo Dave, l’intera compagnia era rimasta
attonita di fronte alla
sua giovane età. Alex aveva occhieggiato Nicolas, confuso,
alla ricerca di una risposta
sensata su quel viso incattivito e perfidamente divertito, macchiato di
scherno.
«Stai
scherzando spero» dichiarò allargando le braccia
in un gesto
inconscio.
Nicolas
aveva scrollato le spalle, incurante «È in gamba.
Ha carattere.
Ed è schifosamente onesto» chiarì. Poi
lo aveva guardato e Demian si era
sentito pietrificare «Non mi serve altro»
«È
un moccioso» rimarcò Alex, aggrottando le
sopracciglia, la
destra deformata da un piercing troppo pesante.
«Anche,
sì»
Teo,
a braccia conserte in disparte, con quell’odio instillato in
ogni gesto mentre lo studiava come un gatto con il topo, si
staccò bruscamente
dal muretto, senza preavviso. Un paio di falcate e gli si era fatto
sotto, lo
aveva afferrato per la collottola e sollevato senza sforzo.
Lo
ricordava, che gli era mancato il fiato.
Che
aveva avuto paura e si era sostenuto a stento, sulle punte dei
piedi, per non soffocare. All’epoca era piccolo, mingherlino
da far spavento,
quasi imbarazzante per la debolezza che trasmetteva.
«Sei
un cazzo di moccioso e basta. Mi dai fastidio» glielo aveva
ringhiato
in faccia, a un palmo dal suo viso, insieme a schizzi di saliva e ad un
alito
forte, con un retrogusto di birra in bottiglia.
Dave
si aggrappò al braccio muscoloso del più grande,
lo supplicò «Teo
mollalo, è solo un bambino» ma venne allontanato
con un semplice movimento del
braccio, deciso e abbastanza forte da farlo cadere a terra come un
sacco vuoto
e sbalordito.
«Tu
sta’ zitto, fattone del cazzo. Faccio già fatica a
sopportare
te, questo scherzo della natura mi fa troppo
schif…» non aveva finito, con
sgomento aveva guardato quel minuto e pallido fantasma che stringeva
tra le mani
e che aveva avuto l’ardire di sputargli in faccia.
Senza
fiato e senza forze, Demian aveva assottigliato gli occhi
«Fottiti»
Di
fronte a quella sfrontata prova di forza, Alex e Davide scoppiarono
a ridere, persino Nico abbozzò un accenno di
ilarità. L’espressione di Teo si
contorse nello sdegno e nella rabbia più primitiva, Demian
seguì, quasi accadesse
a rallentatore, il braccio del ragazzo che si sollevava in un pugno
pronto a spaccargli
la faccia e chiuse gli occhi, come se non vedere potesse aiutarlo ad
incassare.
Ne
avevo ricevuti di cazzotti nella mia vita,
pensavo che non sarebbe stato niente di trascendentale. Ancora non
conoscevo
Matteo o sarei stato meno spavaldo. Con il senno del poi, se non ci
fosse stato
Nicolas ora non avrei più la mia faccia, probabilmente.
«Adesso
basta»
Il
dolore non era arrivato e la voce di Nicolas non era mai
sembrata tanto perentoria, assoluta. Demian si era arrischiato ad
aprire l’occhio
destro, per sbirciare la situazione, ed aveva ritrovato il pugno di Teo
a pochi
centimetri dal suo viso, bloccato soltanto da Nico, che sorrideva
beffardo al
ragazzo più grande.
«Ora
datti una calmata, o ti faccio ingoiare i denti. Ho detto che
è dei nostri, è la mia ultima parola»
Teo
tremava di collera, la bocca sigillata con tanta forza che
Demian poteva sentire i denti scricchiolare per lo sforzo di quella
risposta
trattenuta, il pomo d’Adamo che vibrava. Rimase in silenzio
qualche secondo,
poi chinò il capo in segno di resa e lo scaricò a
terra con cattiveria.
Demian
impattò con la schiena, riuscì a limitare la
caduta con le
braccia per non battere la testa, ma la fitta che dall’osso
sacro gli
attraversò la schiena bastò a deformargli la
bocca in una smorfia di dolore.
Accanto
a lui, ancora disteso nel prato e vittima di una risata allucinata,
c’era Davide.
«Bravo,
Teo» lo schernì Nico, con un sorriso ironico,
lasciandogli
una pacca mortificante sulla spalla prima di abbandonarlo
lì, patetico e
umiliato.
Alex
gli si era avvicinato, gli aveva porto una mano più che per
solidarietà, per paura di contraddire Nico, ma Demian non
aveva voluto
soffermarsi troppo su quella verità e aveva accettato
l’aiuto.
«Sei
fortunato. Hai rischiato grosso»
L’aveva
tirato su di peso, Dami si era sentito tremendamente
leggero ed inutile, esposto «Ma se accetti un consiglio, non
tirare troppo la
corda con Teo o potrebbe veramente ammazzarti. Nico non sarà
sempre nei
dintorni per pararti il culo. Mi stai simpatico moccioso, ma se quello
s’incazza,
col cazzo che ti aiuto, ho reso l’idea?»
Si
era affrettato di nuovo ad annuire.
Era
turbato, eppure in lui strisciava una latente soddisfazione. In
tutta la sua vita non aveva mai potuto replicare ad un’offesa
senza pagarne le
conseguenze, questa volta però era in piedi, stava bene ed
aveva lavato l’onta
dal suo orgoglio ferito.
Guardava
Nicolas e ci vedeva un mostro, razionalmente sarebbe
fuggito a gambe levate da quei pazzi psicopatici, ma il corpo no, non
rispondeva,
faceva tutt’altro, voleva restare lì con loro,
provare il sollievo di una
sicurezza.
Nicolas
era un mostro, ma il mostro è stato
il primo ed unico che mi abbia mai coperto davvero le spalle.
«Questa
è la tua copia»
Nicolas
gli tirò a tradimento un piccolo oggetto sbrilluccicante e
Demian fece appena in tempo a afferrarlo al volo perché non
gli si stampasse
sulla guancia.
Tra
le mani si era ritrovato una piccola chiave argentata, ancora
lucida come fosse appena stata fatta. Era ritornato da Kerlaz da meno
di una
settimana, quell’anno le vacanze con la famiglia non erano
durate tutta l’estate
e Demian aveva dovuto salutare i cugini prima ancora di potersi davvero
riacclimatare alla sua vita francese, tutto a causa dei controlli di
sua madre.
Non
era abituato a trascorrere l’estate in Italia, non aveva
amici
lì, solo compagni di classe che non aveva mai frequentato
oltre la scuola,
perciò senza Jules si era ritrovato a non sapere cosa fare
di sé. Scodinzolare dietro
a Nicolas era stato istintivo, il ragazzo lo definiva la mascotte del
gruppo e
ormai se lo portava anche a casa. Per questo, quella sera era
spaparanzato su
una poltrona sfondata, in casa di Nicolas, mentre la televisione
trasmetteva
una partita di calcio a cui tutti gli altri prestavano attenzione, ma a
cui lui
non era particolarmente interessato.
Di
calcio non ci aveva mai capito molto, un po’
perché non ci
vedeva nulla di particolarmente intelligente nell’osservare
un gruppo di idioti
in pantaloncini correre dietro ad una palla, un po’
perché era sempre stato
così debole che nessuno gli aveva mai permesso di giocare.
L’avevano sempre tagliato
fuori, lasciato a bordo campo a fingere di arbitrare partite
sconclusionate, se
proprio doveva fare qualcosa. Molte volte si era chiesto se fosse
divertente, i
suoi compagni ridevano sempre negli spogliatoi e si davano grandi
pacche di
congratulazioni sulle spalle.
Troppe
volte mi ero domandato se sarebbero
saltati addosso anche a me urlando d’entusiasmo e gioia come
facevano tra di
loro, se fossi riuscito ad attraversare l’intero campo
correndo per poi fare
gol.
Ma
alla fine, era inutile chiederselo, non l’ho
mai scoperto
Sotto
eccessivo sforzo, sveniva. Gli albini non avevano una grande
resistenza fisica, nel suo caso una pressione bassa e la leggera anemia
avevano
solo contribuito a renderlo un caso disperato. In cambio di un aspetto
quasi normale,
per dispetto il suo corpo aveva ceduto tutta la propria resistenza, una
sorta
di scambio con l’universo che lo aveva lasciato fregato.
Però Nicolas non era d’accordo,
lo stava spronando ad allenarsi, come un fratello maggiore un
po’ manesco faceva
a botte con lui, per insegnargli a resistere, a parare. Gli faceva
male, ma mai
troppo, il giusto perché imparasse, e Demian di quelle
attenzioni era grato,
stava imparando ad incassare, ad attaccare, ad essere meno fragile.
«Adesso
sei ufficialmente dei nostri» Alex aveva ammiccato verso
la chiave e poi gli aveva scompigliato i capelli, con una sorta di
indulgenza.
«Ma
che cazzo sta facendo Inzaghi?» urlò Dave,
saltando
letteralmente in piedi sul divano «Quel coglione ci
farà perdere la partita!»
«Chi
te l’ha detto che tifo Juve e non Lazio?» lo
apostrofò Alex incrociando
le braccia al petto, con fare strafottente. Andrea aveva sollevato
pigramente gli
occhi dalla sua bottiglia e con voce impastata aveva sentenziato
«Scommetto che
è espulso»
«Come
dire! Sarebbero dei bastardi, è evidente
che…» la sua voce
era sfumata nell’incredulità mentre in televisione
faceva mostra l’immagine
dell’arbitro che estraeva lo spietato cartellino rosso.
«È
espulso» concluse per lui Alex, piegato in due dal ridere.
Davide
era davvero sconvolto e fuori di sé «È
un arbitro ladro,
cazzo, si vede benissimo che l’hanno pagato. Venduto di
merda!»
«Non
dire stronzate, ha trattenuto Venturin! Era fallo!»
«Non
l’ha fatto apposta!»
«Sei
troppo fatto per guardare la partita, vai a farti un trip
invece di dire cazzate!» Alex non smetteva di ridere e Davide
fremeva sempre
più d’indignazione.
«Sono
lucido! Lo sai che sono sempre lucido quando gioca la Juve!»
«Sì,
per vederla perdere!» lo derise ancora l’amico,
accasciandosi
tra i cuscini del divano.
«Abbiamo
vinto lo scudetto quest’anno, siamo i migliori!»
tentò
ancora di protestare il punk. Un colpo di tosse però lo
spinse ad irrigidirsi,
Davide alzò il viso per incontrare gli occhi nocciola e
contrariati di Teo, che
lo fissava come fosse la cosa più repellente del mondo.
Alla
presenza di Matteo, anche Demian sentì i peli del collo
rizzarsi.
D’istinto, s’incassò più a
fondo nella poltrona, cercò di fondersi con la stoffa,
per seguire il blando consiglio che gli era stato dato qualche tempo
prima. Si stava
divertendo a guardare Alex e Dave bisticciare, non era abituato a
condividere
certi momenti fuori dalla sua famiglia e ne era felice, ma Teo lo
inquietava.
Anzi,
lo spaventava. Era l’orgoglio che gli impediva di ammetterlo
e di farsi troppo piccolo. Le persone come Matteo la paura la
fiutavano, se
voleva sopravvivergli doveva essere sempre forte in sua presenza.
«Chi
sarebbe la migliore?» domandò brusco, perentorio.
«La
Juve!» esclamò Dave in un impeto di coraggio che
si sgonfiò
come un palloncino rapidamente quanto rapidamente si era gonfiato
«Dopo il
Milan, ovviamente» mormorò abbassando in
sottomissione la testa.
Teo
sfoderò un ghigno di disprezzo e soddisfazione che lo
irritarono, perché Demian la prepotenza proprio non riusciva
a reggerla.
«Che
io sappia il Milan quest’anno ha fatto schifo.
Com’è che era
finita l’ultima volta? Quattro a uno per la Juve o ricordo
male?»
La
risata di Alex stemperò lentamente nel silenzio, negli occhi
una
muta preghiera lo invitava a stare zitto. Una preghiera che Demian non
era
intenzionato ad ascoltare. Rinvigorito, Dave
s’illuminò «Sì
esatto!» confermò
con troppo entusiasmo, dovuto più alla soddisfazione di
avere un alleato che
non ai risultati della sua squadra del cuore, per una volta
«E ci siamo portati
a casa anche lo scudetto!»
Avere
una spalla lo aveva reso baldanzoso, sorrideva a Teo con
tutti i denti in bella vista.
«Da
quando gli scherzi della natura hanno il diritto di parlare?»
Teo gli scoccò un’occhiata intrisa
d’odio, i denti digrignati nella rabbia
dell’impotenza.
La vena del collo aveva già iniziato a pulsare, eppure era
frenato, questo
diede a Demian una strana sicurezza, la certezza che nemmeno volendo
quell’energumeno
lo avrebbe toccato.
«Hai
ragione, che sbadato. Sono due anni che fate schifo e non
vincete un cazzo, quasi me ne scordavo. Era sei a uno? Come squadra
migliore fa
un po’ pena, ma suppongo che i perdenti tifino i
perdenti»
Alex
trattenne il fiato, Dave perse completamente colore, Andrea
gli dedicò solo un’enigmatica occhiata, una
scintilla di ammirazione nei suoi
occhietti annacquati. Prima che Teo, completamente rosso di collera,
gli
saltasse addosso e gli staccasse la testa, una fragorosa risata
ghiacciò tutti.
Era
Nicolas che rideva, questo era più sconvolgente di tutto.
«Beh,
Teo, qualcuno prima o poi la verità doveva
dirtela!»
Alla
vena sul collo si aggiunse il pulsare inquietante di quella
sulla fronte, ma questo fece sorridere Demian più che
preoccuparlo.
«Questo
bastardo non arriverà a casa sulle sue gambe!»
ringhiò
sfidando Nicolas, che non smise di ridergli in faccia e rispose con una
scrollata delle spalle «Tecnicamente non deve tornare a casa.
Ha una copia
delle chiavi, anche lui può fermarsi qui quando
vuole»
La
sua vita si era cristallizzata in quel momento, il momento in cui
aveva potuto sfidare quel gigante biondo senza avere nemmeno un graffio
come
conseguenza. Perché Teo non era più riuscito a
muoversi, era rimasto
paralizzato dalla collera, era veramente impotente, persino davanti a
lui, un
mocciosetto pallido e debole.
Era
stata la prima volta nella vita in cui
qualcuno mi aveva difeso così, a spada tratta. La prima
volta in cui avevo
potuto dire davvero quello che pensavo, in cui un bullo non mi aveva
potuto
toccare.
Ero
un intoccabile, grazie a Nicolas. Era questo
il potere di Nico, la magia che lo circondava. Nessuno mi aveva mai
fatto
sentire tanto potente, tanto invincibile, sopra tutto e sopra tutti,
sapevo che
sarebbe stato sempre così, finché mi avesse
preferito
Come
un cane bastonato, Teo aveva abbandonato immediatamente la
casa, sbattendosi la porta alle spalle con tanta forza da staccare
pezzi d’intonaco
dal soffitto.
«Tu
vuoi morire giovane!» sfiatò Alex, ancora
scioccato, sembrava
che il sangue nemmeno scorresse più nel suo corpo accasciato
grottescamente sul
divano. Dave invece, si riprese subito, gli saltò addosso,
gli imprigionò la
testa con il braccio e sfregò duramente le nocche contro la
cute.
«Sei
un mito, cazzo! È da una vita che volevo dirglielo a quello
stronzo, che la sua squadra è una merda!»
La
testa gli bruciava tanto che gli occhi erano diventati lucidi,
eppure anche Demian si ritrovò a ridere, sorpreso della
propria ilarità, spontanea,
felice. Come la fine di una maledizione.
Era
libero per la prima volta.
29
Agosto 1998: la Juve era stata massacrata dal Lazio, Dave aveva
inveito contro la televisione tanto che Alex e Dem l’avevano
dovuto placcare fisicamente
perché non la gettasse fuori dalla finestra; si erano
ubriacati fino a notte
fonda e Andrea era stato veramente sul punto di cadere in coma etilico
costringendoli
a chiamare un’ambulanza.
Teo
non si era più fatto vedere e Nico gli aveva permesso di
dormire
sul divano per non farsi vedere da sua madre a rientrare a casa
impregnato di
fumo e alcol.
Una
delle sere più belle della sua vita.
L’inizio
di una nuova maledizione che ancora
non riuscivo a vedere
***
Demian
una vita simile non l’aveva mai nemmeno immaginata, eppure
gli sembrava ciò che di meglio potesse desiderare. Meglio di
qualunque
aspirazione.
Nella
sua breve vita, la solitudine e il senso d’inadeguatezza
avevano sempre dominato e integrarsi gli era risultato impossibile.
Quando
giungeva l’estate, con maman e Sarah tornavano sempre dai
nonni e lì vi
trascorrevano i tre mesi di sole, poi con le vacanze di Natale accadeva
lo
stesso. Demian sapeva che i suoi compagni di classe trascorrevano molto
tempo insieme,
andavano al CRE nella stagione calda e si ritrovavano nei pomeriggi a
giocare
all’oratorio, ma i suoi spostamenti gli avevano impedito di
tessere quei legami
banali. Così, ogni anno ritrovava coalizioni di ragazzi
sempre più forti e
ostracizzanti: era stato destinato a rimanere lo strano,
l’albino, quel ragazzo
inquietante e dall’aspetto malato che nessuno conosceva
davvero e nessuno
voleva davvero conoscere. Ma ora le cose erano cambiante, Nicolas lo
aveva
accolto senza chiedergli nulla, gli insegnava a difendersi, non era
più il
debole, l’incapace, gli aveva aperto casa sua.
In
uno stanzino della rimessa aveva gettato un materasso per lui,
gli aveva dato lenzuola pulite anche se consunte e gli aveva detto che
quel
posto era suo, avrebbe potuto rifugiarcisi quando avesse voluto. In
quell’appartamento
abusivo, la libertà era assoluta: lui e Davide avevano
comprato delle
bombolette spray e decorato i muri dei corridoi con dei murales,
scritte vivaci,
disegni astratti, bolle colorate in gradazione. L’effetto
psichedelico aveva
esaltato Nicolas che gli aveva scompigliato affettuosamente i capelli e
aveva
sorriso sinceramente, un gesto così raro sul suo volto duro
e cinico, da averlo
riempito di calore.
Non
aveva capito subito che quello era ciò che voleva, ma dopo
le
molte serate trascorse sul tavolo di plastica da esterno in mezzo alla
rimessa,
a scarabocchiare, avvolto in un maglione immenso di lana per combattere
il
freddo dell’inverno, con solo la stufetta a compensare la
mancanza di riscaldamento,
si era riscoperto felice. Davide era tipo da vinili e giradischi,
riempiva il
silenzio con vecchi brani punk rock, suonava la chitarra stravaccato a
terra, e
Demian a volte si sedeva, gliela toglieva di mano e gli insegnava
qualche riff
ereditato dalla durezza paterna.
Si
era unito a loro con l’impaccio dell’essere il
più piccolo e
sprovveduto, uno stupido ragazzino che i tredici anni li aveva appena
fatti.
Teo lo viveva con un’insofferenza esasperata, lo avrebbe
volentieri menato ogni
volta che lo incrociava, ma con irrequietezza aveva imparato ad
accettare la
sua presenza nel tempo, perché non c’era scelta,
lo voleva Nicolas: gli si era
affezionato senza riserve come un fratellino, o almeno era di questo
che si era
convinto all’inizio, quando non capiva. Nicolas era troppo
difficile da
comprendere, per un ingenuo come lui, era facile farsi trascinare dal
suo entusiasmo
crudele, dal sorriso arrogante anche mentre spaccava la faccia a
qualcuno.
Nico
era veramente una persona affascinante che avrebbe convinto
chiunque a fare qualunque cosa, grazie all’innato carisma
distorto che lo
caratterizzava attirava le persone e aveva attirato lui. Bazzicare
quella casa,
quel quartiere più frequentemente di quanto non si potesse
permettere era stato
naturale, passare i pomeriggi fino a sera tarda nel parco vicino alla
stazione,
seduto su una panchina ad ascoltare i discorsi “da
grandi” che i suoi compagni
facevano nell’attesa di un cliente abituale, era altrettanto
ovvio.
All’inizio
fumava sigarette e non faceva nulla, né nessuno si aspettava
qualcosa. Era stato dopo aver conosciuto Elena, che le cose erano
cambiate. Un disastro
poteva solo chiamarne un altro, così Ellie,
dall’aspetto angelico di una salvatrice,
lo aveva avvicinato, lo aveva illuso e gli aveva spezzato il cuore.
Ritrovarsi così
giovane invischiato in un rapporto che non sapeva gestire era stato
troppo per
lui, maman aveva avuto una ricaduta, il tumore era più grave
che mai, Elena aveva
scelto Simone, Sarah era troppo piccola per poter essere un supporto,
Julian
era il suo eroe, non voleva deluderlo.
Avrebbe
solo voluto scappare, Davide era bravo ad evadere dalla
realtà. Si era fatto la sua prima canna, poi era passato
agli acidi, ai trip allucinanti
che lo scollavano dalla vita vera. Il primo era stato terribile e gli
aveva lasciato
addosso un senso di disagio tanto soverchiante che si era convinto non
avrebbe
più provato dell’LSD, ma non era vero, ovviamente.
Perché poi era andato da Elena,
a pregarla, supplicarla di rimettere le cose a posto, e aveva scoperto
che era
tornata con Simone, esattamente il giorno successivo alla prima volta
che aveva
fatto l’amore con lui.
Allora
aveva capito che la realtà non poteva sopportarla, che era
una medicina troppo amara per qualcuno come lui, un debole, un incapace.
Troppo
sicuro di sé per vedere la realtà, era rimasto
impantanato
anche fin troppo in quell’ambiente. Senza riflettere, quasi
per automatismo,
aveva iniziato a fare dei lavoretti per Nicolas dopo la scuola. Solo
erba all’inizio,
poi acidi.
Il
primo passo di una routine che quasi non coglieva. Guadagnava bene,
aveva sempre droghe di qualità sotto mano ed aveva la
libertà di fare quello
che desiderava senza dover dipendere da maman e darle alcuna
spiegazione. Faceva
parte di un gruppo, e non uno qualsiasi: era Il Gruppo, quello che
tutti
rispettavano, che guardavano con timore, che poteva fare qualunque cosa
senza opposizione.
Questo
era stare sotto l’ala di Nicolas, sotto la protezione di
suo zio. Nico era al di sopra di tutti, finché aveva la sua
famiglia. Stare accanto
a lui permetteva di sperimentare uno stato di superiorità,
di libertà, che gli
era sempre stato sconosciuto, non era l’albino di merda, non
era un sociopatico
da sfottere, era quello che stava con Nico. Era qualcuno in un mare di
nessuno.
Era
l’albino della banda di Nicolas.
Per
uno come me, tenuto all’angolo da tutta
la vita, questa condizione valeva più di qualunque cosa, per
questo ero
ingenuo, per questo ero un idiota. Non sapevo ancora che ogni
possibilità, ogni
felicità ha un prezzo, una conseguenza.
Con
il senno del poi era facile vedere l’errore, ma
all’epoca voleva
davvero, essere uno del gruppo, era disposto a qualunque compromesso,
pur di
non restare indietro.
«Dami,
dove sei stato?»
Odiavo
questa domanda
Era
la prima cosa che si sentiva chiedere ogni volta che varcava
la soglia di casa. Lui non rispondeva e allora Jenevieve iniziava ad
urlargli
contro.
All’epoca
maman era ancora abbastanza presente da rendersi conto
che le cose non stessero andando bene, ed i litigi pesanti si
sprecavano ed
erano all’ordine del giorno. Questo lo spingeva a restare
fuori casa il più
possibile e a rientrare quando sperava che Jen dormisse.
Socchiudeva
piano la porta, l’attraversava quasi in punta di
piedi, togliendosi le scarpe prima di entrare. Puntava dritto alla
camera di
Sarah, perché vederla dormire lo rilassava e in quel periodo
la viveva sempre meno.
Sua sorella era piccola, dolce, non sapeva riconoscere
l’odore che si portava
addosso, attaccato ai vestiti come un miasma; lei non lo capiva, cosa
stesse
facendo, lo amava incondizionatamente e basta.
A
volte, Demian si bloccava, in corridoio, e lo stomaco si torceva
al punto che gli veniva da vomitare, e non per ciò che aveva
ingerito.
Sentiva
maman piangere, chiusa in camera sua, e si appoggiava alla
sua porta, rannicchiato con le mani tra i capelli e una muta
disperazione,
finché Jen non si addormentava. Aveva perso il conto delle
volte in cui aveva
desiderato sfondarla, quella porta, e abbracciarla e piangere sulla sua
spalla
e pregarla di stare meglio. Maman era egoista però, soffriva
da sola, di
nascosto, non chiedeva conforto e non ne donava, semplicemente lo
escludeva,
come se la questione non lo riguardasse minimamente.
Allora
come oggi, non mi ha mai dato uno
straccio di speranza
Perciò
non lo aveva mai fatto, restava sfibrato contro quel muro
di legno ai suoi occhi impenetrabile.
«Demian,
non puoi ignorarmi così, sono tua madre!» la voce
disperata di maman era stata soffocata dalla porta di camera sua che si
chiudeva.
Sarah lo aveva fissato, piccola e fragile come non mai, rattrappita
nell’angolo
del suo lettino, con il fedele coniglio stretto tra le braccia.
Tratteneva
le lacrime, piangeva tanto.
Demian
aveva dato un giro di chiave proprio un attimo prima che
maman tentasse di abbassare la maniglia, così Jenevieve
aveva iniziato a
tempestare la superficie di legno con i pugni, urlandogli contro.
«Apri
immediatamente! Ti sto parlando Demian, non puoi comportarti
così!» e poi con voce più acuta,
furente «Apri questa maledetta porta!»
Sarah
aveva iniziato a singhiozzare silenziosamente, si faceva
scudo con Amber, spelacchiato per quanto ci si era aggrappata negli
anni. A guardarla,
qualcosa in lui si era rotto. L’aveva raggiunta in due
falcate e si era
inginocchiato davanti a lei, ma era incerto e non sapeva come sfiorarla.
Nel
libro che maman mi leggeva quando ero
piccolo, ad un tratto il protagonista diceva “Il paese delle
lacrime è così
misterioso”. Non avevo mai capito davvero cosa volesse dire,
non fino a quel
momento. Di fronte a Sarah, all’improvviso aveva assunto un
senso, Sarah ha sempre
dato senso a ogni cosa
Sembrava
impossibile toccarla senza farle del male, un cristallo
incrinato pronto a frantumarsi.
O
forse in frantumi ci sarei andato io, se Sarah
mi avesse rifiutato
Jenevieve
non smetteva di urlare ed inveire.
Anche
lei aveva iniziato a piangere, lo sapeva. Lo capiva, perché
la
voce di maman era dura come la pietra nel dolore, spietata e fredda,
una sofferenza
negata, ma nascondeva una lieve inflessione di cedimento,
l’aveva sentita piangere
troppe volte nella sua vita per non aver imparato a riconoscerla.
Era
lui a farla piangere, non era mai stato diverso da suo padre.
«Sarah…»
Aveva
sempre paura di perderla, un terrore così radicato che
pensava spesso di esserci nato, con quel sentimento, anche quando Sarah
ancora non
era nata, un legame di anime che si trascinavano l’una con
l’altra. Per questo,
se sua sorella lo avesse allontanato, si sarebbe sentito smarrito come
un uomo
in mezzo al deserto, privo di punti di riferimento.
Sarah
era il nord, la bussola, aveva bisogno di essere perdonato
per ciò che stava facendo.
Perché
se non lo avesse fatto lei, cosa mi
sarebbe mai rimasto? Come mi sarei ritrovato?
Sarah
era me quanto io stesso, è sempre stata
la sua esistenza a dare un senso alla mia
Sarah
aveva scostato il coniglio, gli aveva mostrato le guance screpolate
di lacrime secche e occhi lucidi, un’immagine tanto pietosa
da risultargli insostenibile.
«Perché
maman è sempre arrabbiata con te?» la vocina era
labile e
tremula.
Salì
sul letto, l’abbracciò stretta, tanto forte da
temere di
farle male.
Se
solo avessimo potuto essere un tutt’uno. Se
solo il tuo cuore funzionasse. Mi sarei annullato per te, se potessi mi
annullerei
«Non
devi preoccuparti di nulla, Sarah. Va tutto bene»
«Dami,
apri la porta, ti prego» il tono di Jenevieve si era
abbassato ad una supplica disperata.
«Perché
non le apri?»
Sarah
aveva gli stessi occhi di maman, grandi e dorati di un
calore sconosciuto, era il suo sole sconsolato e triste, tremante.
O
forse era stato lui a tremare, non ricordava.
«Adesso
esco io» aveva sussurrato, le aveva accarezzato i capelli
«Ma
prima tu devi farmi una promessa»
Sua
sorella aveva annuito subito «Se lo faccio non litigate
più?»
Si
era morso l’interno della guancia, aveva tentennato
«Non ci
sentirai più litigare» aveva mormorato alla fine,
lo sguardo basso «Ma devi
giurarmelo Sarah. È importante che tu lo faccia
sempre»
La
bambina aveva annuito seria, allora Demian si era alzato, aveva
frugato nel secondo cassetto della sua scrivania dove teneva il Walkman
e i CD,
musica che sua sorella adorava: Roxette, Marillion, Scorpions.
Era
tornato da lei, le aveva fatto indossare le cuffie
«Ogni
volta che mi senti rientrare a casa, devi chiuderti in
camera e ascoltare uno di questi. Al massimo volume»
Il
corpicino aveva sussultato, si era rannicchiato dietro al
peluche, uno scudo morbido e inutile che non era in grado di
proteggerla dal dolore.
«Ma
così…» sussurrò in un
principio di pianto.
«Me
l’hai promesso, Sarah. Te lo regalo, puoi prendere tutti i CD
che vuoi. Lo so che ti piacciono, me li rubi sempre» le aveva
scompigliato i
capelli, un sorriso costipato «Te li regalo tutti. Farai
questa cosa per me?»
Sarah
aveva confermato con un lento, insicuro gesto del capo,
stretta ad Amber come ne andasse della sua vita. Le aveva asciugato la
guancia
con un gesto ruvido del pollice, lì dove una lacrima le era
sfuggita, poi l’aveva
baciata sulla fronte prima di allontanarsi. Sulla porta, ad un passo
dal girare
la chiave, si era voltato a guardare ancora Sarah, con un groppo in
gola.
«Fa’
come ti ho detto»
Non
volevo che sentisse le cattiverie che ci
saremmo detti. Non volevo che sapesse che potevo dire certe cose, nella
disperazione. Non era per lei, era per me, perché non
sopportavo ci fossero
delle prove che dimostrassero che ero una bestia
Solo
quando aveva sentito le note di You don’t
understand me aveva
avuto il coraggio di aprire.
Era
diventata quella la consuetudine, per molto tempo.
Sarah
ascoltava tantissima musica, ogni volta che sentiva la porta
di casa aprirsi e maman rientrava. Demian la ritrovava completamente
estraniata, con la musica al massimo nelle orecchie, anche quando il
silenzio
in casa era assoluto, perché non voleva più
sentire. China su un foglio,
disegnava, tanto, ogni giorno, quell’astrazione dalla
realtà preoccupava
Demian, che tuttavia la spingeva a separarsi da loro piuttosto che
restare
incastrata in una situazione familiare allo sbando. La salutava sempre
con un
bacio sulla fronte, ritornava che già dormiva, si sedeva
accanto a lei.
Le
cantava la sua ninna nanna preferita, quella che maman non
cantava più.
Spesso,
Sarah fingeva soltanto di dormire, teneva gli occhi
chiusi, troppo chiusi per non essere scoperta, smascherata dalla sua
ingenuità.
Gli cercava la mano con la sua, come fosse casuale, ci si aggrappava
con tutta
la sua debole forza, e Demian si sentiva un cane.
Già
allora, sapeva di starla abbandonando, e più questa
consapevolezza
lo opprimeva più fuggiva e la fuga lo portava da Nicolas e
lo legava a lui. Sfogava
il suo nervoso in costanti litigi, in bravate sempre più
stravaganti,
eccessive, e i lividi che collezionava non riusciva più
nemmeno a contarli. Né gli
importava, non erano mai abbastanza.
Al
contempo riusciva a sentirsi incredibilmente fortunato
all’improvviso,
perché almeno nella progressiva disgregazione del suo nido
materno, del porto
sicuro, aveva trovato altro dalla propria famiglia, certezze
più tangibili, più
forti. Qualunque cosa fosse accaduta, non sarebbe rimasto solo, avrebbe
avuto qualcuno
a coprirgli le spalle, aveva un gruppo ora.
Così,
quell’anno era trascorso in una strana sospensione, un
equilibrio
precario ai suoi occhi infrangibile, in bilico tra le droghe di uso
quotidiano
e una realtà tanto assurda, paradossale, da risultare troppo
irreale per essere
credibile.
L’equilibrio
però si era infranto, a tradimento, proprio quando si
era convinto che tutto sarebbe rimasto immobile come si sentiva lui.
Era stato
un giorno come un altro, ma era diventato quel
giorno, quello in cui,
rientrando a casa, aveva trovato la zia con una valigia.
Quello
in cui, entrato in camera, aveva trovato Sarah rannicchiata
nel letto, che piangeva.
Avevo
pensato che fosse tutto sbagliato, che nessun
bambino avrebbe mai dovuto piangere così, da solo
***
La
mente indugiava spesso, a quei momenti, quando si ritrovava a
fissare il vuoto, a tirare le somme. Nelle orecchie sentiva ancora la
voce
spezzata di sua madre sul cuscino, il duro e freddo legno contro la
schiena.
Un’angoscia
inspiegata e opprimente gli accartocciò lo stomaco.
L’unica
certezza che aveva era di non voler ricordare, eppure non
riusciva nemmeno a dimenticare, si crogiolava e macerava
nell’amarezza di un
passato sbagliato, caricava di significato attimi che erano trascorsi
senza
particolare enfasi, mentre li aveva vissuti. Era quello il problema del
guardarsi
indietro invece di andare avanti, tutte le ombre passate si
ingigantivano,
diventavano più imponenti e soffocanti, allungavano i loro
artigli sul presente
e lo influenzavano: così ora soffriva di più per
ciò che era stato di quanto
non ne avesse sofferto all’epoca. Era ancorato ai ricordi con
un’ostinazione
che lui stesso non sapeva spiegarsi.
«Ehi
Dem, chi era la ragazza di stamattina?»
Davide,
con la bocca impastata e i suoi suoni strascicati, lo
riportò alla realtà. Era sdraiato su una panchina
e con lo sguardo vacuo vagava
tra i rami scheletrici degli alberi e il cielo nero. Demian, seduto a
terra con
la schiena appoggiata alle assi di legno, rilasciò insieme
al fumo una nuvola
di condensa.
«Non
so di che parli» replicò svogliato.
Aveva
incredibilmente, ossessivamente fame. Fame chimica, si
sarebbe mangiato senza dubbio il primo gatto sventurato che fosse
passato di lì
per errore, se avesse potuto.
«Perché
cazzo ci dimentichiamo sempre di portare più
cibo?» sbottò
alterato, lanciando un sasso che fu repentinamente inghiottito dal
buio, oltre
il confine di luce segnato dal lampione.
Aveva fumato per rilassarsi e farsi meno seghe mentali,
eppure non aveva
funzionato: il suo Io filosofico, che riemergeva
sempre tra una canna e
l’altra per parlare di soluzioni futuristiche e utopistiche
ai problemi del mondo,
quella sera aveva deciso di non mostrarsi e addosso gli era rimasto
solo malumore.
Dopo
aver passato quel pomeriggio con Arianna, dopo averla
baciata, per un momento si era illuso di voler essere diverso,
migliore, di
meritare un contesto migliore. Era stato uno sciocco pensiero morto sul
nascere, aveva ricevuto un messaggio da Davide e raggiungerlo era stato
scontato.
Avevano
incontrato qualche cliente abituale, aveva scoperto che gli
altri del gruppo sarebbero stati trattenuti fino
all’indomani, questo aveva
detto Dave, ma con tutti gli acidi che si faceva Dem non sapeva se
fidarsi, il
cervello se lo era bruciato prima ancora di conoscerlo.
Sfortunatamente
si trovava nella stanza di detenzione di fronte
alla sua, e lo spettacolino di quella mattina non gli era sfuggito.
«Peccato,
era proprio una grandissima fig…» Demian lo
colpì allo
stomaco con un pugno, ad una velocità sorprendente,
impedendogli di finire il
suo gran poco lusinghiero commento.
«Non
parlare di lei in questo modo» sibilò, mentre
Davide soffocava
tra colpi di tosse «Sei un coglione, potevi
uccidermi!»
«Vedi
di non dire niente su di lei e non accadrà
più» ribadì.
Lo
stomaco borbottava, chiuse gli occhi, il viso bello di Arianna
riaffiorava, un modello plastico che si delineava da una macchia
oscura. Sorrise
di sé stesso, del proprio infantilismo. Credere ad un tratto
di volere altro,
di meritare altro, era davvero da sciocchi.
Sai
cosa sei e cosa meriti.
Sai
come sei arrivato qui, sai dove sei
destinato ad andare.
È
tutto semplice, è tutto qui. Non c’è
altro
nella vita, vivi di negazioni, puoi delinearti solo attraverso i
“no”, sei
composto di incertezze, di forse. La vita esiste, è un
anelito potente, e
immensa e soverchiante. È come il mare, scarno, allucinato,
avvolgente.
Ma
tu non puoi farne parte.
Puoi
solo amarla e guardarla, da lontano.
Sei
l’uomo sulla spiaggia.
Ne
sei escluso, sei sempre stato a bordo
campo a desiderare con un tormento esasperato l’esistenza, e
quello sarà sempre
il tuo posto.
Devi
accettare di essere uno spettatore
impotente.
«Cazzo.
C’ho fame Dave, andiamo a comprare un panino. Sto
morendo»
Per
quella sera avevano finito, l’ultimo cliente era andato via
da
poco e non sarebbe più passato nessuno a cercarli,
oltretutto aveva freddo.
«Allora
la conosci…» bofonchiò imperterrito
Davide «E comunque di
un panino non me ne faccio niente, parola mia che svuoto le scorte del
primo bar
che trovo!»
Rotolò
giù dalla panca con una goffaggine al limite del
sopportabile, cadde a terra carponi e si risollevò sulle
gambe magre, instabili.
Con nonchalance si ripulì le ginocchia dalla polvere e si
stiracchiò. Demian osservò
tutto il procedimento con la solita perplessità che lo
muoveva verso Davide.
«Me
la presenti?» tentò di nuovo il punk dalla cresta
afflosciata.
Ma
cazzo, è una fissazione!
«È
la mia ragazza» mentì «Guardala e ti
cavo gli occhi»
Davide
s’irrigidì, strabuzzò gli occhi
arrossati dal fumo «Hai una
ragazza?» esclamò con tale meraviglia che Demian
se ne sentì irritato.
«Qualcosa
in contrario? Devo rendere conto anche di questo?»
A
tredici anni era stato cieco, sciocco, ingenuo.
Ora
riusciva a vedere la trappola, la prigionia di
quell’eccessiva
libertà. Ora sapeva cosa Nico avesse desiderato da lui fin
dall’inizio, aveva
imparato che il disinteresse non esisteva. Nicolas voleva solo un
braccio
destro, un affidabile, fedele braccio destro, cresciuto e istruito
nella sua
ombra.
Voleva
qualcuno di cui potersi fidare ciecamente.
E
da stupido ragazzino, io mi sono servito su
un piatto d’argento
«È
per questo che sei sparito nell’ultimo periodo? Dovresti
dirlo
a Nico, sai?»
Certo,
non vedo l’ora di condividere tutti i
dettagli dei cazzi miei
«Vita
privata ti dice niente?» borbottò avviandosi lungo
la
stradina acciottolata con quel disastro ambulante che quasi lo seguiva
trotterellando, euforico per le sostanze assunte.
«Fa’
come ti pare, ma si incazzerà se saprà che non
fai il tuo
dovere per una ragazza. Non hai venduto granché questo mese,
no? Rischi di non riuscire
a pagarlo»
In
silenzio si passò una mano sul viso, sfregò
bruscamente la
pelle e intrecciò le dita ai capelli, in un moto di
disperazione.
Sarà
un idiota, ma ha ragione. Mi toccherà fare
qualche serata in discoteca per smerciare la roba il prima possibile, o
con il
cazzo che copro questo mese.
Il
problema delle serate in discoteca era che finivano sempre
male. Gli bastava ripensare alla sera precedente per tirare le somme
del
fallimento. Era stato così ubriaco che quando Dave aveva
fatto partire la
macchina di uno dei tizi con cui Alex stava litigando, Demian non se ne
era
reso conto. Certo, non fino a quando Nico non si era scontrato contro
un
muretto sfondando il muso dell’auto e facendogli tirare una
testata fortissima
al cruscotto. La rissa che ne era seguita con gli amici del
proprietario era
stata la conseguenza più prevedibile, ma erano ubriachi
quanto loro e la
situazione era drasticamente degenerata in un vero bagno di sangue, con
una
bottiglia rotta di contorno e qualche osso non più integro.
No,
non posso sopportare due serate consecutive
così, sono troppo anche per me
«Andiamo
a casa di Nico, sono stanco morto» tagliò corto.
Ai
soldi ci penserò domani
Si
erano fermati a fare scorte di viveri prima di avviarsi nel
buco che Nicolas osava definire appartamento: un’abitazione
abusiva ai piedi di
una palazzina di periferia, senza portinaio, l’ascensore
rotto e una piccola
scalinata interrata che conduceva all’ingresso di casa sua,
separato da quello
ufficiale. Cinque piani di appartamenti di cemento che ricordavano una
scatola
informe e degradata. Saltando i gradini a due a due Demian
aprì la porticina che
rispose con un cigolio sommesso.
Non
riusciva a smettere di pensare a Nico, al passato, alla sua
momentanea situazione, al debito.
La
verità è che sono già fottuto. Devo
compiere sedici anni e sono già fottuto, Nicolas ha
incastrato anche me, sono
più fregato di questa manica di drogati.
E
la sua fregatura era banalmente l’affetto, Nico lo aveva
incastrato con l’affetto. Anche con la consapevolezza di
essere stato usato,
Demian non poteva esimersi dal volergli bene, la sua parte
più irrazionale
continuava a vedere in Nicolas la fuga, la mano protesa in un aiuto,
uno scudo
dal mondo. Era ciò che era perché Nicolas gli
aveva coperto le spalle.
E
quindi eccola, la verità, mediocre e ovvia.
Gli sono più fedele di chiunque altro, proprio come aveva
previsto. Farei qualunque
cosa per lui, più di chiunque altro. Se mi chiedesse di
sbarazzarmi di un corpo,
lo farei. Per lui lo farei.
La
sua era pura gratitudine, autentica, perché in fondo
Nicolas, l’incarnazione
del diavolo, era stato l’unico a dargli un posto a cui poter
fare ritorno.
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Capitolo 20 *** Normalità, quasi ***
À Demian
Capitolo diciottesimo
Normalità,
quasi
Gli occhi bruciavano e la guancia
formicolava, la medesima impressione di un arto addormentato sotto un
peso
eccessivo. Demian rotolò sulla pancia e infossò
il volto nel cuscino, ci sprofondò
dentro con una certa soddisfazione e ci si sfregò contro
come un gatto
indolente, facendo le fusa.
Era a pezzi, nonostante la dormita moriva
ancora di sonno, gli sembrava che ogni arto fosse dislocato, staccato
dal suo
corpo, rifiutava categoricamente di alzarsi solo perché uno
stupido e
dispettoso raggio di sole era riuscito in qualche modo a penetrare le
imposte
per andare a sbattere contro la sua faccia.
Stava per riaddormentarsi quando, con suo
disappunto,
sentì che la coperta gli veniva lentamente sottratta.
Arrancando a tastoni e
occhi chiusi ne afferrò un lembo e tentò
malamente di ricoprirsi.
Più tirava più quella
però opponeva
resistenza.
L’irritazione cresceva, ma era ancora
troppo
deciso a non rimuovere la faccia dal cuscino per ragione alcuna, anche
se
questo implicava la perdita del piumino con quel freddo.
Lasciò perdere la coperta che gli venne
rapidamente tolta del tutto e si rannicchiò con le ginocchia
al petto, in posizione
fetale, per cercare di scaldarsi il più possibile. Quella
casa,
sfortunatamente, era una ghiacciaia, non avere
l’abitabilità e un sistema di riscaldamento
non era un problema per Nicolas, che sembrava sopravvivere di se
stesso, ma
inficiava tutti gli altri. Spilli di gelo iniziarono a penetrargli nei
vestiti
con spietata precisione, acuiti dall’eccessiva
umidità, fino a quando, esasperato,
Demian si mise a sedere con un’imprecazione soffiata a denti
stretti.
Il divano sgangherato della saletta era duro
e pieno di bozzi, Dave dormiva a terra, sul tappeto lurido, avvolto nel
suo piumino
come in un bozzo. La televisione ancora accesa trasmetteva programmi
del
mattino, i cartoni che guadava con sua sorella durante la colazione. In
quel
momento andava in onda Lady Oscar e questo gli permise di stimare, con
una
certa disperazione, che dovevano essere circa le sette e mezza del
mattino.
Come diavolo sono riuscito
a svegliarmi così presto?
Incenerì con la sua occhiata
più ostile l’imposta
incriminata, rotta e impossibile da chiudere del tutto.
È colpa tua, se anche oggi
non dormirò un cazzo e sembrerò uno zombie
strafatto più del solito
Barcollando, avvolto da un intontimento in
crescendo, scavalcò il cumulo di coperte e cuscini che
dovevano celare Davide,
da qualche parte, e attraversò il corridoio per raggiungere
quel tentativo di
cucina che era la rimessa. La casa di Nicolas era fatiscente, bastava
entrare
per capire che il proprietario di pulizie e manutenzione non se ne
preoccupava.
Dominava il puzzo di fumo, aria viziata e vomito, una commistione di
odori che
prendevano alla gola. I mobili erano pochi e spaiati, in uno stato di
usura tale
da provocare disagio. Il cucinino era costituito da un mobile a
cassettoni su
cui poggiava un vecchio fornelletto da campeggio. Una piccola credenza
e due
scaffali di metallo con scorte di conserve in scatola completavano il
quadro
desolante, insieme ad un frigo in miniatura. Quando Dem
iniziò a frugare nei
vari scomparti, alla ricerca di cibo, per poco un’anta non
gli rimase in mano. Fissò
l’oggetto con sgomento qualche istante, il fiato trattenuto
che veniva liberato
in un sospiro di rassegnazione.
È già tanto che i mobili
ci siano ancora
I drogati avevano il vizio di venderli per
farsi una dose in più, in genere, ma effettivamente Nico non
aveva bisogno di
arrivare a tanto per un grammo, aveva così tanti soldi che
quella casa malmessa
a conti fatti sarebbe risultata inspiegabile, se Demian non avesse
scoperto
tempo prima che veniva usato come piccolo deposito di partite di droga
dallo
zio. Dopo aver controllato ogni anfratto e aver verificato che di
viveri non ne
avrebbe trovati nemmeno per errore, salvo piselli e carotine Bonduelle,
valutò
il frigo stipato di birre con una certa tentazione.
Forse cominciare a bere a
quest’ora è troppo anche per me, valutò richiudendo lo sportello con un
certo
rammarico. Rinunciato alla birra, decise di uscire per procacciarsi la
colazione, perché Davide russava troppo e ad ogni rumore di
bocca
corrispondeva, in maniera imbarazzante, un peto. La sala era una camera
a gas.
Si rifugiò in bagno, giusto per
gettarsi un
po’ d’acqua gelida sul volto e non uscire di casa
con l’aria stordita da
pessimo elemento – che comunque non riuscì a
eliminare grazie alle occhiaie
profonde –, indossò lo zuccotto nero ed il
cappuccio e abbandonò rapidamente l’abitazione.
Ad occhi bassi, potè solo appoggiare il piede sul primo
gradino che per poco
non rischiò di essere travolto da una ragazza.
Riuscì ad aggrapparsi al corrimano
di ferro arrugginito appena in tempo per fermare il clamoroso ruzzolone
di
entrambi grazie al gridolino d’allarme che le era sfuggito.
L’impropero gli morì in gola
di fronte agli
occhioni da cerbiatta spaurita di lei.
Cazzo, ho rischiato grosso
Nicolas lo proteggeva, ma fosse successo
qualcosa a lei in sua presenza,
gliel’avrebbe fatta pagare con una
cattiveria che Demian non voleva nemmeno immaginare. Le avesse torto la
più inutile
doppia punta sarebbe morto male.
«Oddio, Demian! Sei tu! Mi hai
spaventata a morte!» esclamò con la mano sul cuore
e le guance sgargiantemente
arrossate. Aveva i capelli rossi raccolti nella solita treccia severa,
gli occhiali
a coprire il mare di lentiggini spruzzate sul naso; il volto a cuore,
senza la
minima traccia di trucco, illuminato dal sollievo, il maglione a collo
alto,
sformato, beige, e la gonna lunga che la faceva sembrare ancora
più piccola
della sua piccola altezza.
Restava sempre un metro e un tappo di rigore
e diligenza, era questo che pensava di lei.
Arrangiò subito un sorriso di cortesia
velato d’urgenza.
«Ciao Lisa, come mai già
sveglia?»
Era un tacito e comune accordo essere
gentili e disponibili con lei, una questione di sopravvivenza. Per
qualche
strana congiunzione astrale, Lisa era un’amica
d’infanzia di Nicolas oltre che
vicina di casa. Nico parlava sempre di lei con una dolcezza estraniante
alla sua
figura, la adorava e provava per lei un rispetto ed un affetto che
Demian non gli
aveva mai visto riservare a nessuno. A volte, aveva pensato che a modo
suo, un
modo distorto dalla sua percezione instabile della vita, Nicolas la
amasse,
però poi lo vedeva trastullarsi con molte ragazze senza mai
considerare Lys
oltre l’aspetto emotivo, e quindi non ne era più
stato tanto sicuro.
Probabilmente,
rappresenta semplicemente l’ultimo frammento di famiglia che
gli resta, l’ultimo
brandello di un’umanità scialacquata nella
violenza. D’altro canto, Lisa lo
adora, tra un rimprovero e un sorriso ha per lui la stessa indulgenza
di una
madre
Lisa mostrò timidamente il sacchettino
che stringeva tra le mani e abbozzò un sorrisino imbarazzato.
«Stavo portando la colazione a
Niki»
mormorò, le guance rubiconde.
Solo lei può chiamare
un instabile, violento, sadico ed insensibile spacciatore
“Niki”, con un simile
candore
«L’ho sentito rientrare
stanotte. Non sapevo
ci fosse anche tu, non ti ho portato nulla» si
scusò, diventando se possibile
ancora più rossa.
In difficoltà, Demian scosse la testa
«Ci
siamo solo io e Dave. Nico… beh, diciamo che non
c’è»
La delusione si dipinse negli occhi grigi
della ragazza, una sfumatura metallica simile all’argento, ma
subito tentò di
dissimularla.
«Sai dove ha passato la
notte?» domandò
a voce tanto labile che Demian stentò a capirla.
Come glielo dico che
il suo adorabile “Niki”, puro e candido amichetto
d’infanzia, è in stato di fermo
in attesa del giudice?
Non c’erano problemi, probabilmente suo
zio era già intervenuto insieme ai suoi avvocati ben
retribuiti per farlo
uscire pulito da qualunque faccenda, un grande classico.
Il problema è Lisa,
odio rifilarle certe sciocchezze, la feriscono
Prese una grande boccata di ossigeno
«È
rimasto da una sua amica» mentì, imbastendo la
più banale ed efficace delle scuse.
Lisa divenne mortalmente pallida, le efelidi sembravano più
scure e definite, una
manciata di semi in campo bianco. La ragazza accennò ancora
un sorriso
compassato.
«Il solito Don Giovanni»
constatò
guardandolo negli occhi con una tale intensità che, per un
istante, Demian pensò
che la sua ingenua menzogna fosse stata smascherata, che lei sapesse
fosse una
bugia bella e buona, la balla che tutti le propinavano quando Nicolas
spariva.
«Hai lezione ora?»
Lisa scosse la testa «Solo nel
pomeriggio
oggi»
Demian le porse cavallerescamente un
braccio, da bravo gentleman, e sperò di non puzzare tanto da
risultare sgradevole
«Allora ti offro io la colazione, visto che Nico non
c’è»
Lys esitò un istante, poi schiuse le
labbra in un sorriso più sincero e tremendamente imbarazzato
e si affrancò a lui
con la delicatezza di un uccellino.
Fosse stata Annie,
il braccio me lo avrebbe staccato
Il confronto immediato era stato
spontaneo. Lisa non era così, non era irruente ma discreta,
quasi anonima, un’apparenza
fragile che celava una volontà d’acciaio. Era
grazie a quella sua volontà che
era riuscita a diventare tanto cara a Nicolas e a restare, nonostante
tutto, l’unica
persona di cui il mostro si fidasse e a cui avrebbe dato tutto. Andava
all’università,
studiava per diventare farmacista come sua madre per ereditare
l’attività di
famiglia: s’impegnava con tanta dedizione da provocare
disagio a volte, perché chiunque
accanto a lei si sentiva inetto e svogliato. Capitava che la trovassero
a casa di
Nico, di tanto in tanto, seduta al suo tavolo con una biro incastrata
dietro l’orecchio,
l’evidenziatore nella mano e un libro davanti a sé
da cui non distoglieva lo sguardo
un solo istante, con Nicolas sempre lì accanto che non
faceva altro che ingurgitare
caffè. A vederla, d’improvviso veniva quasi voglia
anche a loro di tirarsi
insieme, di decidersi a riprendere in mano i libri per combinare
qualcosa, perché
fatto da lei sembrava davvero avere un senso.
Una specie di Beatrice dantesca, di donna
angelo che ammansiva anche l’animo più brutale con
la sua timidezza e i suoi saluti
appena accennati.
Fuori da quel complesso di cemento soffocante
l’aria era frizzante, corroborante, limpida come dopo una
nevicata e con il
medesimo profumo impresso sulle cose. Demian riempì i
polmoni più che poté
prima di espirare: insieme all’anidride carbonica si sentiva
svuotato di un
grande peso che aveva premuto per tutta la notte sempre lì,
sulla bocca dello
stomaco, causandogli un malessere costante di cui ormai stentava ad
accorgersi,
tanto sapeva essere spaventosa l’abitudine.
Quando il male
diventa abitudine, è la fine, vero?
Le pensiline erano gremite di studenti
in attesa dell’autobus, Demian si ritrovò a
osservarli e si rese conto con
sgomento, una rivelazione assurda per quanto fosse scontata, che anche
lui
avrebbe dovuto essere lì, con loro. Eppure, nulla gli era
mai parso tanto distante,
era come guardarli dall’altro lato dello specchio, quasi non
erano reali ma un’imitazione
di quotidianità cinematografica.
Sembrano così piccoli…
e spensierati
Cercò di immedesimarsi, per un attimo,
pensò che avrebbe potuto essere uno qualunque di quelle
persone, che avrebbe
potuto ridere liberamente, con le spalle doloranti, lamentandosi di una
verifica, disperandosi per un quattro irrecuperabile ancora da
confessare a sua
madre.
… maman
L’aveva pensata tutta la sera,
l’aveva
sognata quella notte, aveva bevuto fino allo svenimento, solo per
dimenticarla.
Non era riuscito a cancellare il suono
della sua voce rotta dal pianto. Non era riuscito a non pensare a
Sarah, a
mettere da parte quell’orribile giorno in cui
gliel’avevano portata via e aveva
lasciato casa. Nella sua testa, quello era stato il punto di non
ritorno, l’inizio
della fine.
Il segno definitivo che avrebbe perso
maman.
Lisa stava seguendo il suo sguardo smarrito
in quel mare di ragazzi.
«Demi, quanti anni hai?»
Demian sussultò, gli occhi di Lys erano
espressivi, da cerbiatta, pensò che forse era la prima volta
che la guardava
davvero.
È bella, a modo suo
Certo, avrebbe potuto esserlo di più se
non si fosse vestita da suora di clausura, se si fosse sciolta quella
severa
treccia che le induriva il viso e avesse lasciato anche solo immaginare
che,
sotto quei vestiti informi, un corpo c’era.
Ma era bella nonostante questo. Perché
lo
si percepiva subito, che era dotata di una sua gentilezza, di una sua
delicatezza interiore, un’eleganza che nulla, neanche gli
occhiali troppo
grandi che le nascondevano il viso, poteva celare.
«Sedici tra due settimane»
stirò un sorriso
fiacco.
Non era come sorridere ad Annie, non
dava quel senso di pace assoluta, come trovarsi
all’improvviso in un luogo
silenzioso e tranquillo, all’ombra, con una brezza leggera a
stemperare l’ansia.
Ma Annie forse era semplicemente Annie.
Dubito che possa
esistere realmente qualcun altro come lei.
Lisa ponderò qualcosa per un momento e,
preso il coraggio, domandò più risoluta
«Non dovresti andare a scuola?»
Dovrei.
So davvero che
dovrei, ma non so come fare.
Mi sembra sempre di
cercare di tornare in un posto che era mio, ma che ora non mi
appartiene più.
Sono estraneo lì
dentro.
Sto male, per questo
straniamento. Adesso avrei voglia solo di vedere Arianna, non so
nemmeno il perché.
In realtà non ho neanche il coraggio di incontrarla di
nuovo. Non dopo ieri
sera. Non posso cambiare, è evidente, nemmeno per lei,
nemmeno se lo volessi. Mi
detesto, perché per qualcuno come lei vorrei farlo davvero,
per Sarah vorrei
farlo davvero.
So solo ferirli, ma
non sopporto di fargli del male.
«C’è
l’assemblea di classe» improvvisò senza
alcuno sforzo. Mentiva così tanto e così spesso,
ogni giorno, da essersi ormai
trasformato in un bugiardo patentato senza speranza di redenzione.
Mentire era
e la prima e più grande prerogativa di un drogato, a riprova
che ci navigava
dentro fino al collo, in quell’ambiente.
Lys gli sorrise, una sfumatura di
condiscendenza.
Erano entrati nel bar dall’altro lato
della strada, Lisa si allontanò con delicatezza da lui per
potersi accomodare
al tavolino traballante che aveva scelto. Rimase fermo a fissarla
ancora,
seduta con le mani in grembo e la schiena rigida, uno strano e nobile
animale.
Che stupido che sei,
Nico!
Non fa altro che
prendersi cura di te, preoccuparsi per te, e in cambio riceve solo
ferite!
Possibile che
nemmeno per lei puoi farcela, a essere migliore?
Un sudore freddo gli ghiacciò la
schiena, ansia congestionata.
Paura.
Paura, in fondo, di non essere diverso
dall’amico, non sarebbe stato migliore. Arianna era bella e
buona, era l’incarnazione
dell’arcaico valore assoluto di bellezza sublime donata ai
mortali dagli dei,
nel senso più complesso della sua valenza, per la raccolta
di virtù che raccoglieva,
e lui non era in grado di avvicinarcisi senza farle del male. Con il
suo
egoistico autolesionismo l’avrebbe ferita.
Perché si fa sempre male
alle persone che ci amano quando non amiamo abbastanza noi stessi.
L’amore è
distruttivo. Essere amato da lei la distruggerà…
mi distruggerà.
«Demi, non ti siedi?»
«Certo,
scusa. Mi sono incantato»
«Ti sei medicato
appropriatamente?»
Demian si accigliò, mormorò
distrattamente «Come?»
«Il tuo viso, Demi. Il taglio sul
sopracciglio sta facendo infezione. Ti sei medicato?»
Si portò sovrappensiero una mano alla
fronte, tastò appena la pelle, gli sfuggì una
smorfia.
«Non proprio»
Non ne ho avuto il tempo, nemmeno ci ho pensato
«E scommetto che non è
l’unica ferita che hai» constatò con una
calma chirurgica, come fosse fin troppo abituata a fare simili
osservazioni. E probabilmente
era così, Nico era il caso perso per eccellenza.
Chissà quante volte, da ragazzino, le
è arrivato a casa malconcio
La cameriera giunse a prendere le ordinazioni e
mentre Demian si
limitava ad un cappuccino, Lisa prese un caffè ed una
brioche.
«Non ti facevo tipa da caffè,
è amaro. Stride un po’ con la tua
personalità»
Lisa ridacchiò, lo sguardo basso,
intimidito avrebbe detto, non
avesse saputo che non era poi tanto timida «È
questo che pensate? Che sia tutta
zucchero e miele?» lo osservò da sotto le lunghe
ciglia con una punta di
malizia.
Demian si morse l’interno della guancia,
ci rifletté seriamente «No,
direi di no. Sopporti Nico, non l’hai ancora picchiato
nonostante la voglia di
ammazzarlo debba essere davvero forte… e stai facendo
colazione con me» sollevò
l’angolo destro della bocca in un ghigno ironico
«Naaah, non funzioni proprio,
come damigella indifesa!»
«In verità il
caffè non mi piace neanche un po’, ma da quando ho
iniziato l’università ne bevo a litri. Quando
studi tutto il giorno e cerchi un
modo per poter resistere al sonno, il caffè diventa una
droga!»
Alla sola idea di “studiare tutto il
giorno”, Demian piegò la
bocca in una smorfia contrariata che la fece ridacchiare. Lisa scosse
piano la
testa, a scacciare l’ilarità per bilanciarla
subito con un rimprovero «Dovresti
andare a scuola»
Questa volta lo affermò con una certa
sicurezza.
Le mani nascoste dai guanti tagliati sulle dita,
strette tenacemente
intorno alla tazza, Demian si concentrò sulla macchia di
crema del cappuccio
che galleggiava nel liquido scuro.
«Non sono come te»
«No, decisamente no. E forse
è meglio, non ti ci vedo rosso e con le
lentiggini. Sei come te stesso, e non è così
male» tacque un attimo di più, si
guardò le mani ed abbozzò un sorriso un poco
triste «Sai» gli confidò «Sono
contenta che tra tutti, ci sia tu con Niki. Lo so, è uno
scapestrato senza
speranza, per non dire di peggio… ma lo conosco da sempre,
non è solo colpa
sua. So anche che non posso redimerlo, ma gli voglio bene. E tu sei
pulito
Dami, sei la persona più limpida vicino a lui, sono
più tranquilla da quando ci
sei»
Demian si sentì smarrito.
Sollevò su di lei due occhi grandi di
sorpresa, incapace di rispondere.
Lisa non ricambiava, era distratta, fissava
qualcosa d’impreciso
oltre la sua spalla, al di là della vetrata, sulla strada,
ed era
incredibilmente rilassata.
«Immagino che nel vostro mondo nel
mondo, cose come lealtà e amicizia
siano molto relative. Ma Niki ti stima davvero, anzi, ti adora. Gli
ricordi
Chris… non me lo ha mai detto, ma so che è
così perché lo ricordi anche a me. Era
un bravo bambino, come te. Introverso e timido. Debole. I compagni se
la prendevano
sempre con lui»
Come fa a saperlo?
Quante cosa sa Lys? E
quante gliene ha dette Nico? Quante sono sue speculazioni?
«Niki ti vuole bene, quindi sono
contenta.
Ma tu hai solo sedici anni, Demi. Non rovinarti la vita, neanche per
lui.
Nicolas ha fatto le sue scelte, rimarrò sempre io per non
lasciarlo solo. Ma
anche se sono contenta che sei qui, tirati fuori da tutto questo, non
è ancora
troppo tardi»
Non sarebbe troppo
tardi per me?
Lisa non lo vedeva, che si era bruciato, che lui e
Nicolas avevano
in comune più di quanto avrebbe preferito ammettere.
«Pulvis et umbra sumus»
mormorò, lo sguardo ancorato alla tazza da
cui non aveva ancora bevuto un solo sorso «Ci sono persone
che non meritano
niente, sono solo ombre che camminano. La nostra vita
“è un’ombra che cammina, una
favola raccontata da un idiota, piena di strepito e furore, che non
significa
niente”»
Lisa inclinò appena la testa e sorrise
teneramente «Shakespeare»
constatò, poi scrollò le spalle «Ti
piace leggere, eh? Niki me lo aveva detto,
che sei un letterato capitato lì per errore»
Capitato lì per errore?
È questo che dice?
Che bugiardo, è
stato lui a volermi, è stato lui a desiderare qualcuno
destinato a diventare il
suo braccio destro, qualcuno di cui potersi fidare.
Non si può proprio
dire che io sia capitato qui per errore
E comunque non gli riusciva di farne
una colpa, a quel ragazzo, alla fine non fosse stato per Nicolas
avrebbe semplicemente
rimandato ancora di poco l’inevitabile: era solo questione di
tempo, ma la sua
vita era destinata a prendere una piega disastrosa comunque, a
scivolare sul
versante delle risse e delle droghe.
Per persone come me non
c’è altro destino che questo
Lisa mangiava compostamente la sua
brioche alla marmellata, senza sporcarsi le dita, senza lasciar cadere
nemmeno
una briciola. Una principessina perfettamente educata nata in
periferia,
metodica persino nello sbocconcellare qualcosa. Riusciva a farlo con
una
naturalezza tale da non far sentire inetto chi gli stava accanto.
«Se vuoi ti dò un
passaggio» bisbigliò
arrossendo, forse sentendo la propria proposta invadente.
Eccola, invincibile
e timida, che combinazione paradossale
«Le lezioni con le assemblee erano
divertenti. Nella mia classe ricordo che si faceva sempre un baccano
allucinante,
eravamo la disperazione degli insegnanti!»
A Demian sfuggì un ghigno
«Non ti ci
vedo proprio in versione ribelle. Scommetto che tu eri la ragazzina
carina nell’angolo
della classe, che cercava di leggere leziosamente un libro!»
Lisa aprì la bocca per rispondere, ma
fu interrotta da un «Non credo proprio!»
accompagnato da una risata intrisa di
scherno.
Due braccia la strinsero da dietro
mentre Nico si appoggiava con il mento sulla spalla della ragazza, con
quella piega
della bocca provocatrice che si ostinava a chiamare sorriso, incisa a
forza
nella pelle.
«Ce ne hai messo di tempo. Che staresti
insinuando?» lo istigò Lisa, inarcando un
sopracciglio.
«Che non eri carina, tanto meno
leziosa!»
Alzò gli occhi su di lui, Demian rimaneva sempre basito dal
cambiamento che
sfigurava Nicolas quando c’era lei «È
stata la capoclasse più terribile della
storia, la chiamavamo “la dittatrice”. Hitler
sarebbe impallidito!»
Al ricordo si lasciò andare ad una
risata
stranamente genuina, mentre si staccava da lei per stravaccarsi
malamente sull’ultima
sedia vuota del tavolo «Pensa» riprese nostalgico
«Che in classe l’avevamo
eletta perché sembrava la più innocua. Pensavano
tutti di scaricarle addosso
ogni responsabilità, ci siamo detti “con lei
possiamo fare quello che vogliamo”»
Lisa si risentì «Mi avevano
provocato!»
protestò arrossendo fino alla radice dei capelli ancora
più rossi «Io sarei
stata più docile se loro…»
«Lys, tesoro, gli insegnanti erano
terrorizzati
da te! Ti ricordi quando litigavi per gli articoli che volevi
pubblicare sul
giornalino della scuola? Se la vicepreside ti vedeva avanzare verso di
lei in
corridoio cambiava direzione, pur di non incrociarti!»
Demian sgranò gli occhi per la sorpresa
e si ritrovò a ridere «Seriamente? Lisa? La nostra
Lys?»
«La mia»
puntualizzò Nicolas,
severo.
«La Lisa di se stessa»
chiarì invece
lei, con un’occhiataccia ammonitrice al suo amico
d’infanzia «Tua sarà
senz’altro la conturbante meretrice con cui hai trascorso la
notte»
Nicolas, preso in contropiede, si
accigliò: Demian riusciva tranquillamente a immaginare gli
ingranaggi di quel
cervelletto provato, incepparsi nella perplessità.
«Conturbante meretrice?» si
volse verso
di lui con una domanda impressa negli occhi fangosi e Demian
provò una profonda
mortificazione. Sembrava gli stesse urlando contro mentalmente
“Non potevi
trovare un’altra scusa?”.
«Ho già scordato il suo
nome» si
riprese prontamente con un ghigno strafottente che convinceva poco.
«È già tanto se
ricordi il tuo dopo
quello che fai tutte le sere» lo rimbeccò lei, ed
il sorriso appena accennato
celava una nota dolente che provocava una grande tenerezza.
Demian vedeva in lei una dolcezza
struggente che cercava di proteggersi, di fronte a tanta forza, una
forza che
aveva visto e riconosciuto solo nelle donne, come traessero dalle
proprie
fragilità un senso. Sentì l’urgenza di
rivedere Arianna, perché si era già pentito
di ciò che aveva fatto, si era pentito di aver pensato che
non potesse valere
abbastanza. Avrebbe voluto baciarla, baciarle ogni centimetro di viso,
soprattutto
il suo naso, quel naso buffo e irriverente leggermente rivolto verso
l’alto in
una sfida. Voleva essere in grado di prometterle che non
l’avrebbe ferita, che
non sarebbe stato come Nicolas, perché li vedeva chiaramente
gli errori dell’amico
e non voleva rifarli su una persona candida come Annie, caparbia di una
caparbietà che l’avrebbe annientata, se lui per
primo non si fosse regolato.
«Il mio posso anche dimenticarlo,
l’importante
Lys, è che non scordi il tuo» Nico le sorrise
quasi con dolcezza, ma fu solo un
istante «Perché parlavate di scuola,
comunque?»
«Perché Demi dovrebbe
andarci, Niki. Ha
sedici anni, non può stare in giro tutto il giorno a
gozzovigliare con uno svogliato
come te!» disse seria, rimproverandolo con ogni singolo gesto
del suo corpo,
tanto che Nicolas dovette alzare le mani in segno di resa.
«Ok, ok, tutto chiaro. Alzati e vai a
renderti umano, Dem, ti dò un passaggio»
Demian boccheggiò, incredulo.
È uno scherzo, vero?
«Ma… sei serio?»
Nicolas sollevò gli occhi al soffitto
«Hai
sentito la mia Signora. Ogni suo desiderio è un
ordine»
Lisa sorrideva trionfante, ora perfino
più rossa dei suoi capelli.
***
Avevano
fatto deviazione e lo avevano portato a
casa sua. C’era voluto parecchio, per il traffico mattutino e
perché il paesino
in cui abitava distava una quindicina di chilometri dal centro, ma
Nicolas era
stato irremovibile.
Aveva
raccattato lo zaino e ne aveva approfittato
per “rendersi umano”, alla detta di Nico, ovvero si
era lavato per non puzzare più
come un barbone della stazione. Gli doleva ancora il costato, il volto
non era
più gonfio ma restava contuso e ammaccato peggio della
macchina che avevano
fatto schiantare contro il muro la sera prima. Alcuni tagli stavano
facendo
infezione, erano ponfi dai bordi slabbrati e sanguigni. Avrebbe voluto
solo
buttarsi nel letto, eppure quei due strani esseri lo stavano aspettando
in
macchina come due genitori apprensivi.
Quasi,
gli strappavano un po’ di buon umore.
Insomma,
vedere Lys che addomestica
Nicolas è sempre uno spasso
Prima
di uscire diede da mangiare a Lalami e si annotò
di ringraziare Julian appena ne avesse avuto l’occasione, o
Claire, perché era
evidente che uno dei due fosse passato a pulire e avesse rimediato alla
sua
negligenza, impedendo alla cucciola di morire di fame.
Sei
un padrone idiota e
sconsiderato
«Ohi,
ce ne hai messo di tempo! Cos’è, ti sei fatto
il bagno con i Sali profumati?» lo apostrofò
Nicolas, mettendo in moto il motore
della macchina.
«Anche
fosse, è comunque più sconvolgente che tu
sappia cosa siano, dei Sali da bagno!» rise Lisa, la bocca
coperta d’istinto
con la mano.
Demian
era abituato a partire la mattina presto in
motorino, fu contento di ricevere un passaggio perché
iniziava veramente a fare
troppo freddo e il giubbino e i guanti non erano più
d’aiuto.
Ancora
qualche giorno e mi
toccherà fare l’abbonamento
dell’autobus, se non voglio finire assiderato
«Fai
l’artistico, Demi? Non lo sapevo. Per tutte le
citazioni che fai ti credevo uno studente da Classico»
commentò Lisa, che aveva
appena notato l’enorme cartelletta rossa che si portava
appresso e conteneva tutti
i lavori iniziati in classe, ovviamente mai conclusi.
«È
anche bravo» aggiunse Nicolas, voltandosi appena
a guardarlo «Anche se ha sempre un cazzo di libro in
mano»
Lisa
lo colpì prontamente con un buffetto alla
testa, preciso e metodico «Voltati. Guarda la strada. E
rallenta!» lo
rimproverò colorandosi nuovamente di rosso «Se mi
accade qualcosa perché tu vai
troppo veloce non ti perdonerò!»
Nicolas
sbuffò, ma nonostante la ritrosia ridusse
drasticamente la velocità e, miracolosamente, si
fermò davanti al semaforo
rosso. Tutto questo senza imprecare neanche una volta, anche se gli si
leggeva
tranquillamente in viso quanto desiderasse farlo.
Dio,
le donne hanno un potere
spaventoso, ha ragione Julian!
«E
comunque non lo sai, se sono bravo» si ritrovò a
protestare, in maniera quasi infantile «Non hai mai visto i
miei lavori»
«Stronzate!»
Lisa lo ammonì con lo sguardo e Nico
corresse il tiro «Ok, sciocchezze! Disegni costantemente, non
ti si può lasciare
una biro in mano, scarabocchi ovunque. Anche sul tavolo della mia
cucina!»
Se
ne è accorto? Nicolas è il
tipo di persona che presta attenzione a certe cose?
Potrei
quasi pensare che gli
importi
Ed
era da tempo ormai, che era sceso a patti con se
stesso e aveva smesso di credere in sottintesi che con quel ragazzo non
avevano
valore.
«Cucina
è un parolone per quel buco» sottolineò
invece «Stamattina per poco non mi è rimasta in
mano un’anta!»
Discretamente,
per non farsi notare da Lisa, Nico
gli mostrò il medio accompagnato da un sorriso strafottente
attraverso lo specchietto
retrovisore «Sbaglio, Lemaire, o oggi sei particolarmente
eloquente?»
«Sbaglio
o oggi sei più gentile del solito, Niki?»
Nicolas
perse strati di colori per lo shock, Lisa
scoppiò a ridere «Uno a zero, palla al
centro!» dichiarò, dando di gomito al
suo migliore amico, che sibilò «È
rimasto con te dieci minuti, Cristo, solo
dieci minuti! E me lo hai già rovinato. Non l’ho
mai sentito parlare così tanto
e lo conosco da tre anni. Sei tremenda Lys!»
Cavolo,
ha ragione
Da
quando aveva compreso in cosa si era cacciato,
aveva limitato le sue interazioni al minimo, non aveva mai parlato
così spontaneamente
se non per discutere con Teo. Di certo, non aveva mai osato provocare
Nicolas! Ed
il problema non era Lisa, il problema era Arianna, era come si era
sentito
stando con lei: come vedere un buco nella rete, uno squarcio nel muro.
Assistere
all’apparizione miracolosa di un fantasma. E allora, con quel
senso di
possibilità improvvisa, di mondo spalancato, si era acceso
in lui un barlume.
Un
barlume simile a quello che Nicolas gli aveva
stretto tra le mani anni prima, l’idea improvvisa e
soverchiante di una scelta.
Nicolas
parcheggiò proprio di fronte all’entrata deserta
della scuola e Demian balzò fuori con un saluto frettoloso,
a disagio. Mentre si
allontanava, in uno strano stato sospeso, vagamente comatoso, con
l’energia e
la voglia di vivere di una patella affrancata al suo scoglio, li vide
ricominciare
a bisticciare.
Nicolas
aveva un sorriso più buono, forse avrebbe
potuto esserlo, più buono, se ce ne fosse stata
l’occasione.
Sollevò
il cappuccio e s’infilò le cuffiette
dell’Mp3,
per isolarsi il più possibile dagli sguardi dei bidelli e
degli studenti che girovagavano
come anime in pena durante il cambio dell’ora. Raggiunse il
banco della
segreteria e compilò silenziosamente il documento della
giustificazione
provvisoria, senza che la bidella dicesse nulla. Lo conosceva e sapeva
perfettamente
che tentare di parlargli era inutile: non le avrebbe risposto, nei
migliori dei
casi si limitava a mugugnare qualcosa d’incomprensibile.
Ripose
la penna e raggiunse l’ufficio del
vicepreside per farsi firmare, da prassi, il permesso di rientrare a
lezione
anche senza la firma di sua madre.
Anche
quello stupido vecchietto, il Professor
Vezzoli, insegnate d’inglese fortunatamente non nella sua
sezione, era abituato
a vederlo entrare agli orari più disparati e ormai aveva
rinunciato a qualunque
paternale. Lo accoglieva, firmava e lo spediva in classe, negli occhi
quella
compassione familiare che lo faceva sentire appestato, come fosse un
cane
abbandonato in autostrada, destinato a morire di stenti.
Lo
sguardo che si dedicava ad una persona senza speranza
e senza futuro.
Pulvis
et umbra
Varcò
la porta aperta dell’aula con le cuffiette
ancora nelle orecchie, anche se la musica era spenta, per fingere di
non poter
sentire alcun commento. Il professore non era ancora arrivato,
c’era un gran
casino, si sentiva esposto agli occhi dei curiosi. Sospirò e
si concentrò per
assumere l’aria più ostile e distaccata possibile.
«Lemaire!»
Preso
in contropiede, Demian sollevò la testa di
scatto.
Nessuno
qui mi ha mai chiamato
Tanto
meno, una voce evidentemente felice di
vederlo. Con sgomento, ritrovò Diodoro che sventolava la
mano dal fondo dell’aula,
con un sorrisone immenso stampato in viso. Per reazione, ovviamente, il
resto
della classe manifestò la propria perplessità con
un improvviso silenzio.
Si
riscosse dalla sua paralisi e si sfilò lentamente
le cuffiette, riavvolgendole con calma per prendere tempo.
«Ciao
Barbi» mormorò infine, imbarazzato per
l’imbarazzo
che trapelava dalla propria voce.
I
rumori ricominciarono, i compagni erano tornati a
farsi i fatti propri, forse, o a commentare. Non voleva essere
paranoico, ma
sentiva la loro curiosità come fosse fisica, farfalle che si
posavano sul suo
corpo.
Raggiunse
il compagno e occupò la sedia accanto a
lui.
«Ehi,
ti ha investito un tir?»
«Eh?»
Diodoro
roteò gli occhi «La tua faccia, Lemaire, la
tua faccia. Ti avevo lasciato pesto, ma sei riuscito persino a
peggiorare, dall’ultima
volta che ti ho visto!»
Confuso,
Demian scrollò le spalle
«Già» si limitò a
borbottare.
«Ciao
Dem, bentornato!» ecco un’altra voce pimpante
che si apriva a forza una strada tra gli strati di cumulonembi dei suoi
pensieri. Giulia, allegra e raggiante, si fece avanti appoggiando un
quaderno
sul suo banco, di fronte al suo viso corrucciato.
«C-ciao»
esitò, perplesso.
Ma
che sta succedendo?
Mi
sono perso qualcosa?
«Non
te lo chiedo nemmeno, se ti servono gli
appunti, perché tanto lo so già che dici di
“no” per principio, visto che sei
un musone» esordì lei, abbozzando un sorriso
paziente e dolce «Però te li ho
presi lo stesso. Sai, con tutte le assenze che stai facendo rischi di
restare
indietro»
Il
professore fece la sua comparsa il quel momento,
salvandolo dall’impaccio di trovare una risposta che proprio
non gli veniva.
Giulia accennò un saluto infantile con la mano e lo
liquidò con un «Ti spiego
all’intervallo, intanto se hai voglia dagli un
occhio» prima di dileguarsi e
raggiungere il suo posto.
«E
ti pareva, se non avevi anche la fortuna della
secchiona che ti passa gli appunti! Condividi, Lemaire»
Demian
corrugò la fronte, finalmente lo fissò
«Ma
tu non eri uno che studiava?»
«Anche
se non esco con una ventitreenne sono un
ragazzo anche io. Non è che siccome ho gli occhiali sono un
genio per forza! Questo
è un pregiudizio!» chiarì Barbi,
impettito come un gufo offeso, prima di allungare
la sua manaccia sul quaderno di Giulia, sfilandoglielo da sotto il
naso. Istintivamente,
si sporse e lo bloccò «Ehi, non ho mai detto che
te lo avrei prestato» si
ritrovò a dire, senza una ragione precisa. Non significava
nulla, eppure non
voleva cederlo.
È
stato fatto per me, una cosa
fatta per me!
Diodoro
tentò di sfuggirgli,
al che nacque una piccola colluttazione in cui il ragazzo ebbe ben
presto la peggio.
Demian imprigionò la sua testa con un braccio, in una presa
ferrea, mentre con
la mano libera gli sventolò davanti il quaderno, con fare
vittorioso.
«Lemaire,
dai! Cavolo,
vuoi strozzarmi? Sei un egoista! Tra amici si collabora, no?»
«Non
mi hai dato nulla
in cambio. E non dirmi la gratitudine, quella non vale!» lo
precedette quando
lo vide aprire la bocca per ribattere con fare petulante.
«Demian
Lemaire. Sono felice
che ti sei deciso a illuminarci con la tua presenza, ma lascia
Barbadico, ora. I
tuoi compagni non sono barbari, né animali. Il liceo non
è uno zoo, in caso ti
fosse sfuggito» la voce ostile e gelida del Professor Albani
tagliò il pesante
silenzio che Demian non si era reso conto essersi formato in classe.
Eppure,
era evidente, perché i suoi compagni continuavano a fissarli
borbottando tra
loro, sconvolti. Liberò il compagno di banco che si
risistemò prontamente gli
occhiali «Colpa mia, Prof, ci scusi» disse Barbi,
dissimulando il nervosismo.
«Oh,
conoscendo il soggetto
non credo proprio. Hai la giustificazione per l’entrata in
ritardo, Lemaire?»
Demian
lo fulminò e senza
dire una parola si alzò e andò a porgergli quello
stupido pezzo di carta.
Albani lo squadrò con aria critica «Pensi che tua
madre ti giustificherà prima
o poi, o continueremo a lungo con questa sceneggiata?»
«Non
molto a lungo, tra
una chemio e l’altra tirerà presto le cuoia.
Suppongo che poi qualcun altro
avrà il diritto di firmare e lei avrà la sua
stupida giustifica» sibilò a denti
digrignati, in modo che nessuno potesse sentirlo a parte il professore
e
qualche curioso della prima fila dall’udito particolarmente
fino.
Albani
piegò la bocca in
una smorfia costipata «Il vittimismo non ti
salverà dalla bocciatura. Sei un
delinquente, qualunque cosa tu dica. Vettene a posto e ringrazia che
non ti
spedisco dal preside» aprì il registro con uno
schiocco secco e vi infilò la giustificazione.
Demian
si morse la
lingua e tornò al suo banco con più bile in bocca
che saliva. Per nulla interessato
alla lezione, recuperò un libro dallo zaino e, con sua
sorpresa, prima che
potesse aprire l’astuccio Barbi gli porse una matita. Non lo
guardava, fissava
la lavagna, ma aveva un sorriso appena accennato, divertito.
Ok,
oggi c’è
proprio qualcosa che non va
Gliela
sfilò dalle dita,
gli diede un leggero pugno sulla spalla, poi si dedicò a Il
Racconto di Due Città.
“Erano
i
tempi migliori, erano i tempi peggiori, erano giorni di saggezza, erano
giorni
di follia, era l’epoca della fede, era l’epoca del
dubbio, era la stagione
della Luce, era la stagione del Buio, era la primavera della speranza,
era l’inverno
della disperazione, avevamo tutto davanti a noi e davanti a noi non
avevamo nulla,
marciavamo diretti verso il Paradiso e andavamo nella direzione
opposta”
A
volte aveva l’impressione
che quella manciata di righe descrivessero perfettamente il precario
equilibrio
della sua esistenza, per questo prima di riprendere da dove lo aveva
lasciato,
rileggeva sempre l’esordio. Quelle parole gli ricordavano se
stesso.
In
passato, quando si
era sentito tremendamente solo, i libri erano stati l’unico
sostegno, solamente
nelle parole stampate aveva ritrovato un conforto che gli aveva
permesso di non
cedere, perché se qualcuno poteva scrivere di dolore con
tale nitidezza, di
paura, di angoscia, allora Demian si sentiva meno sbagliato, aveva la
certezza
che esistevano persone che stavano o erano state come lui, peggio di
lui. Non
era pazzo, e nemmeno solo, quando stringeva un libro.
In
quel preciso istante,
ancora una volta erano quelle pagine ruvide a dargli un sentore di cosa
stesse
provando, una traccia da interpretare nel momento in cui lui per primo
non era all’altezza
di comprendersi.
Avanzare
verso
il paradiso e andare nella direzione opposta
Era
l’antitesi interiore
che gli provocava Arianna. Sembrava un Eden in cui nascondersi dalle
brutture
della vita, eppure ogni passo verso di lei aveva il retrogusto del
disastro.
Se
lei
sparisse, ora forse sarebbe un inferno. Ma ha giurato.
Mi
ha
guardato negli occhi e ha promesso.
Ha
visto
il peggio di me e non è fuggita
Sfilò
il cellulare dalla
tasca e, non senza titubanza, si ritrovò a digitare
Dami
Ehi,
Annie
17/10/2001
9:18
Pochi
secondi e l’apparecchio
gli vibrò tra le dita, inoltrandogli l’immediata
risposta.
Annie
Come
mai così mattiniero? =)
17/10/2001
9:19
Dami
Ho
voglia di disegnarti
17/10/2001
9:20
Annie
Ooook!
Beh, sono una bellissima musa, non posso
biasimarti! Fallo pure =)
17/10/2001
9:22
Dami
Se
ti vedo è più facile
17/10/2001
9:23
Annie
E
allora vediamoci, no?
17/10/2001
9:24
La
semplicità con cui potevano trovarsi era quasi
da capogiro, impensabile fino a qualche giorno prima. Incredibile, come
lei,
gli veniva da pensare, perché fino a qualche settimana prima
nemmeno la conosceva,
e allora come era successo che fosse diventata un pezzo così
fondante della sua
quotidianità?
Dami
Oggi
pomeriggio?
17/10/2001
9:26
Annie
Ogni
volta che vuoi =)
17/10/2001
9:27
Demian
ripose nuovamente il cellulare nella tasca
dei jeans, il petto si stava gonfiando di una strana euforia che quasi
gli toglieva
il fiato per il bruciore che causava. Dovette trattenersi dal
sorridere, perché
si sentiva un beota.
Pulvis
e umbra.
Non
è vero, non sono un’ombra,
quando c’è lei. Arianna le ombre le dissipa,
allontana anche la mia.
Quando
c’è lei, mi sembra di essere.
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