Il colore dei girasoli

di Piperilla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 23: *** Speciale - Mappa dei luoghi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


In quella tiepida notte di primavera, Vera pensò che non poteva desiderare altro dalla vita. Aveva ventiquattro anni, una laurea presa da poco e si era appena qualificata per i campionati nazionali di ginnastica artistica; in più una delle sue migliori amiche, Giulia, solo un’ora prima aveva partorito una splendida bambina ed erano entrambe in buona salute, nonostante la gravidanza non fosse stata delle più semplici.
   Alle tre del mattino lei e Noemi – l’altra migliore amica sua e di Giulia – salirono nella vec­chia Seicento bianca della seconda.
   «Sono così felice che non dormirò fino a dopodomani» esclamò estatica Vera mentre si al­lacciava la cintura di sicurezza.
   «Anche i quattro caffè che abbiamo bevuto nell’attesa hanno la loro colpa» ridacchiò Noemi, imitando Vera prima di mettere in moto.
   Mentre Noemi si immetteva nelle strade deserte, Vera prese il proprio cellulare e quello dell’amica e inviò due messaggi identici ai rispettivi genitori. «Ho detto che saremo a casa tra una mezz’ora, così possiamo andare tranquille e non si preoccupano».
   «Ben fatto» approvò l’altra.
   Avevano imboccato la Tiburtina; erano ormai vicino casa e parlavano ancora di Giulia, quando un SUV che avanzava nella direzione opposta imboccò la loro carreggiata contromano attraverso un varco nel guardrail di cemento e le colpì in pieno.
   L’ultima cosa che Vera vide furono i fari che le andavano incontro.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Vera guardò la rampa di scale che portava al pianterreno della casa in cui era cresciuta: sape­va che erano solo diciotto gradini perché li aveva contati centinaia di volte, quando era bam­bina, ma adesso le sembravano mille. Si aggrappò alla balaustra, prese un respiro profondo e mise il piede destro sul primo gradino; quando vi posò anche il sinistro, il tonfo sordo che ri­suonò la fece sobbalzare.
   Con lentezza estenuante Vera scese gli altri diciassette gradini, ripensando a quando li salta­va tre a tre: nove mesi che le sembravano lontani come il suo quinto compleanno.
   La ragazza arrivò in cucina dove ad aspettarla c’era soltanto Fabiola, sua madre, intenta a guardare il telegiornale del mattino.
   «Vera». La donna scattò in piedi e corse ai fornelli.«Cosa vuoi per colazione?»
   «Basta il caffè, ma’» rispose Vera. Si strofinò gli occhi, ancora mezzo addormentata. «Devo andare in ufficio».
   «Torni per pranzo? Vuoi che ti prepari qualcosa di speciale?» chiese ancora sua madre.
   «No. Vado direttamente da Giovanna, oggi pomeriggio sono di turno in palestra» grugnì Vera.
   Fabiola riempì quei minuti di chiacchiere sebbene sapesse che sua figlia, come lei, durante la colazione desiderava il silenzio assoluto. Vera la lasciò fare: si sbrigò a finire il caffè e, dopo aver preso le proprie cose, salì sulla propria auto nuova e partì verso Roma.
   Quando arrivò all’università il suo umore già precario precipitò verso terra: un incidente sul Raccordo l’aveva fatta arrivare mezz’ora più tardi del solito, e lo spazio antistante le porte della facoltà era gremito di studenti intenti a chiacchierare o a fumare una sigaretta prima di andare in aula per la prima lezione del mattino.
   A denti stretti, Vera si sistemò la borsa a tracolla e si aggrappò al corrimano per la seconda volta in quella giornata: arrancò faticosamente su per la scalinata, consapevole degli sguardi curiosi che gli studenti le stavano lanciando e delle risatine di alcuni di loro. Ogni gradino che si lasciava alla spalle, invece di renderla più calma, serviva solo ad aumentare la rabbia e la frustrazione che le si agitavano dentro: gli occhi che analizzavano la sua andatura claudi­cante erano sempre più numerosi, sempre più concentrati su di lei.
   Quando finalmente arrivò in cima, Vera si guardò intorno: un centinaio di studenti, sparpa­gliati tra le scale e lo spiazzo coperto davanti all’ingresso, la guardavano con vari gradi di sfacciataggine. Una di loro, una biondina vestita di tutto punto e truccata alla perfezione, in­dicò apertamente le gambe di Vera e bisbigliò qualcosa ai propri vicini.
   «Be’? Che hai da guardare, perfettina? Non hai mai visto nessuno con problemi di deambu­lazione?» abbaiò Vera, guardando fisso la ragazza. La bionda arrossì fino alla punta dei capel­li e riprese a bisbigliare furiosamente con alcuni dei suoi compagni. Vera, invece, lanciò uno sguardo di sfida tutt’intorno: gli altri distolsero il proprio e lei zoppicò verso le porte e all’in­terno della facoltà, canticchiando tra i denti mentre le sue dita tormentavano la cinghia della borsa. Incrociò alcuni dipendenti della facoltà e rispose con un cenno del capo ai loro saluti mormorati, lieta che, almeno loro, distogliessero lo sguardo da lei invece di osservare la sua andatura incerta.
   Appena salì sull’ascensore, Vera si appoggiò alla parete di metallo e prese un respiro pro­fondo: era quasi arrivata, e doveva schiacciare in fondo alla mente tutto quel nervosismo se voleva sperare di concentrarsi sul lavoro.
   Giunta al terzo piano, la giovane donna uscì dall’ascensore e si diresse lenta ma sicura ver­so la quarta porta sulla sinistra, a cui bussò due volte prima di entrare.
   «Buongiorno, professore» salutò mentre raggiungeva la propria scrivania.
   Franco Maesani, professore di Economia Internazionale, le sorrise.
   «Buongiorno, signorina Nicolini!» rispose. «Siamo arrivate un po’ più tardi del solito, sta­mattina. Va tutto bene?»
   La ragazza non poté fare a meno di sbuffare. «Niente di importante, professore: solo uno dei tanti incidenti sul Raccordo. Sono rimasta bloccata per mezz’ora!»
   Maesani si accarezzò i folti baffi con espressione comprensiva. «Tocca a tutti almeno una volta a settimana: non si scappa. Ma adesso parliamo di cose serie: ha già fatto colazione? Posso offrirle un caffè?»
   Vera gli sorrise suo malgrado. Quando, due mesi e mezzo prima, si era messa alla ricerca di un lavoro, il suo ex professore di francese dell’università l’aveva subito indirizzata verso il professor Maesani, che stava cercando qualcuno che rivedesse e traducesse gli articoli che scriveva per numerose riviste specializzate internazionali: con la sua laurea in Mediazione Linguistica e la buona parola messa dal professor Gaillard, aveva ottenuto subito il posto, pur non essendo convinta che fosse adatto a lei. Il professor Maesani, però, si era dimostrato da subito una persona affabile e un datore di lavoro niente affatto severo, sempre pronto a rico­noscere i suoi meriti e a metterla a suo agio; e se all’inizio Vera aveva avuto il sospetto che l’uomo fosse gentile con lei solo per un profondo senso di compassione, si era dovuta ricrede­re quando lui non aveva mai fatto il minimo cenno ai suoi problemi fisici e aveva visto che si comportava alla stessa maniera con tutti.
   «La ringrazio, professore, ma ho già fatto colazione» rispose. «Allora: di cosa parlerà il suo prossimo articolo?»

***

Al comando dei carabinieri di Tor Sapienza la confusione regnava sovrana.
   Il maresciallo Luciano Testa, che dirigeva la caserma, avrebbe tanto voluto nascondersi il volto tra le mani finché il caos non fosse passato: purtroppo, il suo grado gli imponeva un certo contegno.
   Davanti alla sua scrivania, l’appuntato Ivan Zarlatti e il brigadiere Vittorio Valenti – ultimo acquisto del comando e vecchia conoscenza del maresciallo – si scrutavano torvi, trattenen­dosi a stento dal ricominciare a ringhiarsi contro.
   «Cerchiamo di mettere in chiaro una cosa che dovreste già sapere entrambi» disse il mare­sciallo a denti stretti. «Io non tollero per nessun motivo che i miei sottoposti attacchino briga tra di loro. Zarlatti, tu sei un ottimo agente e mi dispiacerebbe dover rovinare il tuo stato di servizio immacolato con una nota di biasimo, ma se accadrà di nuovo una cosa simile, sarò co­stretto a farlo. Puoi andare; parlerò con Valenti da solo» aggiunse, scoccando uno sguardo di rimprovero all’interessato.
   Zarlatti se ne andò, non senza aver lanciato un’occhiata perfida al collega. Collega che, se avesse potuto, in quel momento gli occhi glieli avrebbe cavati.
   La porta si richiuse con uno scatto soffocato.
   «Spiegami che t’è preso, Valenti» esordì Luciano con voce dura. «Sei stato trasferito qui da poco proprio per problemi disciplinari: problemi che, ti ricordo, ti sono costati la degradazio­ne da maresciallo ordinario a brigadiere. Vuoi già metterti nei guai un’altra volta?»
   Vittorio Incrociò le braccia al petto. «Senti, Luciano...»
   «Maresciallo Testa, quando siamo in servizio» lo corresse secco l’altro.
   «Maresciallo Testa» sbuffò Vittorio, incurante del modo in cui gli occhi del suo superiore si assottigliarono. «A me quello Zarlatti sta sullo stomaco: si è messo a fare battute proprio sul mio essere stato degradato, ed è stato così stupido da farlo davanti a me».
   «Solo che lui può permettersi di ricevere un richiamo: tu, invece, no!». Luciano si passò una mano sugli occhi. «Vittorio, e dai, ragiona: sto cercando di aiutarti, in caso non l’avessi capito!»
   L’altro scrollò le spalle con aria indifferente.
   «Devi stare tranquillo e buono per un bel po’, oppure rischi che ti caccino a pedate dall'Ar­ma» proseguì Luciano. «Credevo che con l’età ti saresti calmato, invece sei ancora l’irascibi­le scalmanato che ho dovuto addestrare vent’anni fa. Hai quarant’anni… non ti sembra arri­vato il momento di comportarti un po’ meglio? Almeno un po’?»
   «Me lo dice sempre anche Emanuela» rispose Vittorio con una smorfia. «Ma io sono fatto così».
   «Eppure non ti farebbe affatto male, dare ascolto a tua moglie» Luciano lo guardò con at­tenzione. «A proposito, quand’è che ti raggiungerà? Capisco che lasciare Milano non le fac­cia piacere, ma ormai sei accampato qui in caserma da quasi un mese».
   «Dice che ha da fare al lavoro, e che non sa quando otterrà il trasferimento». Vittorio sbuffò di nuovo. «Secondo me non l’ha neanche chiesto: quando le ho detto che mi avevano degra­dato e che sarei stato rispedito a Roma, mi ha buttato fuori di casa e non mi ha parlato per una settimana».
   «Capisco». L’altro si grattò il mento. «Vuoi  venire a cena da me, stasera? Ad Anna farebbe piacere rivederti, e anche ai ragazzi».
   «Magari un’altra volta». Vittorio diede uno sguardo all’orologio. «Devo andare; non voglio farmi nemico anche Pastore».
   «È la prima cosa sensata che ti ho sentito da quando sei tornato» sogghignò Luciano. «Oggi vi toccano i blocchi stradali: divertitevi!»
   Vittorio grugnì infastidito dalla porta.

***

Vittorio e Claudio Pastore, il collega con cui faceva coppia ormai da un paio di settimane, erano fermi sul bordo della carreggiata e guardavano le macchine scorrere davanti a loro or­mai da ore; ne avevano fermate una decina, e adesso smaniavano per un panino.
   «Valenti, se ti faccio una domanda, provi a mordermi come hai fatto prima con Zarlatti?» domandò Claudio.
   «Basta che non mi provochi» lo avvertì Vittorio.
   L’altro alzò le mani in un gesto di pace. «Non provoco. Vorrei soltanto sapere che hai com­binato per essere degradato e spedito a centinaia di chilometri da casa e in un comando di pe­riferia».
   Vittorio sbuffò come un toro inferocito. «È stata una somma di cose» ammise controvoglia. «Ho fatto a pugni con un paio di fermati che opponevano resistenza, preso a parolacce tre o quattro stronzi durante degli interventi per liti domestiche e per coronare il tutto ho detto al capo del mio reparto che è un imbecille con meno cervello di un acaro della polvere».
   Il suo collega rimase in silenzio per qualche istante; poi, incapace di trattenersi, scoppiò a ri­dere con tanta veemenza da scuotersi tutto, e fu costretto ad appoggiarsi alla macchina per non cadere.
   «Oddio, ci credo che t’hanno cacciato!» sghignazzò esilarato. Si asciugò le lacrime di di­vertimento che gli colavano sulle guance. «Ma dai, te la sei proprio cercata… non dico il re­sto, può capitare di perdere le staffe anche se non dovremmo lasciarci andare così, ma almeno gli insulti al tuo superiore te li potevi risparmiare!»
   «Non è colpa mia se è un deficiente» si difese Vittorio. «Ha minacciato di sospendermi dopo che avevo fermato un tizio per rissa perché aveva un paio di lividi sul braccio e quando siamo arrivati in caserma ha iniziato a dire che glieli avevo fatti io. Ma dai...»
   Claudio scosse la testa e rientrò nella volante. «Forse hai scelto il mestiere sbagliato, Valen­ti. Sarai pure bravo, ma mi sa che ti manca l’autocontrollo».
   «Certe volte l’autocontrollo non serve a niente» decretò l’altro.
   «Se lo dici tu» lo liquidò il collega. «Torniamo a lavorare che è meglio».
   I due rimasero in silenzio per un po’, Claudio a ricontrollare i dati degli automobilisti che avevano fermato, Vittorio con gli occhi fissi sulla strada, a scrutare le automobili di passag­gio: ce n’era una sfilza in arrivo, praticamente tutte bianche, grigie o nere. Soltanto una spic­cava nel mucchio: la Up! rosso fuoco attirò la sua attenzione e, presa la paletta, Vittorio la agitò in direzione dell’auto, che mise la freccia e accostò.
   Il carabiniere si avvicinò al finestrino abbassato.
   «Agente» mugugnò la donna alla guida. No, non donna: ragazza. A occhio doveva avere una quindicina d’anni meno di lui, considerò Vittorio: il trucco leggero e la treccia scura mez­zo disfatta la facevano sembrare ancora più giovane, e il broncio che le piegava le labbra morbide non aiutava.
   «Patente e libretto» disse Vittorio, annoiato: aveva sempre detestato fare controlli casuali agli automobilisti, e di certo non avrebbe cambiato idea quel giorno.
   Sbuffando e sbattendo, Vera iniziò a frugare nella borsa e nel portafogli; quando ebbe trova­to tutto, ficcò i documenti richiesti nella mano di lui con malagrazia.
   Vittorio si accigliò. Uno dei motivi per cui proprio non sopportava quel genere d’incarico era proprio la scortesia di tanti automobilisti, che quando venivano fermati prendevano la cosa come un affronto personale invece di capire che lui stava soltanto facendo il proprio la­ voro.
   «Siamo nervosi?» la stuzzicò con freddezza. Il volto di Vera, abitualmente pallido, si tinse di rosso, e Vittorio si accorse di come la ragazza si stesse mordendo la lingua per non replica­re. «Questo è un semplice controllo: se non ha niente da nascondere, non c’è motivo di essere agitata».
   «Se è un semplice controllo, allora non c’è neanche motivo di essere tanto lenti» replicò lei tra i denti: quel carabiniere dagli occhi scuri e i lineamenti decisi la stava fissando con un’e­spressione provocatoria che non le piaceva per niente, e abituata com’era a rispondere sempre a tono, le riusciva difficile trattenersi dal mandarlo al diavolo.
   Gli occhi di Vittorio mandarono un lampo pericoloso.
   «Scenda dall’auto» sibilò.
   Vera provò il desiderio di nascondersi il volto tra le mani: a quell’ora sarebbe già dovuta es­sere in palestra per aiutare Giovanna e quel prepotente, evidentemente convinto di poter fare quello che voleva per il solo fatto d’indossare una divisa, le stava facendo perdere un muc­chio di tempo.
   Tuttavia, Vera sapeva di non potersi sottrarre. Con una smorfia irritata aprì la portiera; mise fuori la gamba sinistra con cautela, poi la destra e, spingendo le mani sul sedile con studiata naturalezza, riuscì ad alzarsi senza troppa fatica.
   A Vittorio, però, la manovra della ragazza non sfuggì: socchiuse gli occhi e la scrutò con più attenzione, registrandone i movimenti rigidi e incerti.
   Se Vera avesse saputo che il carabiniere aveva notato tutto questo, avrebbe pianto di rabbia: per una come lei, che era stata una ginnasta per tutta la vita, non riuscire a spostarsi che con movimenti goffi e scoordinati era un’agonia. Ogni passo, per quanto piccolo o insignificante, le ricordava che non era più l’atleta dai gesti leggeri e aggraziati, ma soltanto una zoppa ran­corosa.
   L’uomo non immaginava affatto cosa stesse passando nella testa di Vera: era troppo occupa­to a studiarne ogni movimento ed espressione.
   «Sei ubriaca?» le chiese a bruciapelo.
   Gli occhi di lei si sgranarono e il suo intero volto si modellò in un’espressione di profonda offesa.
   «No!» rispose con veemenza.
   «Guarda che se sei ubriaca è meglio se lo dici subito» insisté Vittorio, per nulla persuaso dalla risposta della ragazza.
   Vera gli rivolse uno sguardo cattivo. «Non. Sono. Ubriaca» scandì rabbiosamente.
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Allora non ti dispiacerà dimostrarlo». Indicò la linea bianca che delimitava la carreggiata. «Cammina lungo la linea».
   Stavolta Vera sentì davvero le lacrime salirle agli occhi. Nove mesi prima, su quella linea ci avrebbe fatto le piroette senza sgarrare di un centimetro; adesso sarebbe stata un’impresa an­che solo arrivarci. La ragazza non poté fare a meno di maledire la propria incapacità di tenere la bocca chiusa: se fosse stata zitta, a quell’ora sarebbe già stata di nuovo in marcia verso la palestra.
   Troppo orgogliosa per dire qualcosa, Vera arrancò verso la linea bianca tentando, con scarso successo, di minimizzare la propria andatura claudicante. Una volta lì, guardò la striscia di vernice allo stesso modo in cui si guarda un enorme, spaventoso mostro; poi prese un respiro profondo e, prima di poterci ripensare, iniziò a camminare.
   Vera non aveva bisogno di guardare il carabiniere sconosciuto per sapere di stare facendo un pessimo lavoro: la gamba destra, su cui s’intestardiva a poggiare tutto il proprio peso, le faceva male già da un po’, e la gamba sinistra si alternava tra il dolore e l’intorpidimento. Con uno sforzo inimmaginabile ondeggiò per un paio di metri prima di abbandonarsi pesante­ mente contro il guardrail.
   «Per fortuna non sei ubriaca» commentò sarcastico Vittorio.
   «Ti ho detto che sono sobria!» abbaiò Vera.
   Il tono di lei sarebbe stato sufficiente a far saltare i nervi di Vittorio anche senza quella che considerava un’ostinazione del tutto fuori luogo nel continuare a mentire. Soffocando la vo­glia di urlarle contro, Vittorio andò dal collega rimasto nella volante e si fece dare l’etilome­tro; tornato da Vera, gliene ficcò l’estremità in bocca con un gesto brusco.
   «Soffia, così la facciamo finita» borbottò.
   Scoccandogli uno sguardo che gli augurava una morte lenta e dolorosa, Vera soffiò. Per qualche momento l’apparecchio restò muto, analizzando i dati, poi trillò. Vittorio guardò il piccolo schermo, e quasi gli venne un colpo: sul display campeggiava uno zero bello tondo.
   «Non è possibile» mormorò incredulo, più a se stesso che alla ragazza. Il suo cervello si af­fannò alla ricerca di una risposta alternativa, una qualsiasi, perché era chiaro che qualcosa che non andava doveva esserci, se quella ragazza maleducata ma giovane e, stando all’etilometro, sobria, non riusciva a fare neanche due passi di seguito senza barcollare.
   «Se abbiamo finito, io me ne andrei» disse gelida Vera, zoppicando verso la propria mac­china. Desiderava talmente andarsene di lì, da gettare alle ortiche la prudenza con cui ormai faceva ogni passo; si mosse troppo in fretta; una fitta lancinante le risalì la coscia sinistra fino all’anca, la ragazza perse l’equilibrio e cadde sull’asfalto, proprio ai piedi del carabiniere, che la fissò senza capire.
   Vittorio si accovacciò e le strinse il mento tra le dita per guardarla da vicino negli occhi scuri.
   «Ma ti sei drogata?» le chiese.
   Per Vera, quella fu l’ultima goccia. Quell’uomo arrogante e prepotente le aveva appena fat­to passare dei minuti d’inferno, l’aveva accusata di essere ubriaca e adesso, pur di non am­mettere di averla giudicata male fin dall’inizio, si stava convincendo del fatto che fosse dro­gata. Dopo il terribile incidente che meno di un anno prima le aveva cambiato irrevocabil­mente la vita, sentire qualcuno insinuare che lei fosse come il bastardo che aveva causato tut­to quel dolore era insopportabile.
   «Sei uno stupido coglione!» esplose Vera, con tanta rabbia che d’istinto Vittorio la lasciò andare e balzò indietro. «Solo perché non riesco a camminare bene hai deciso che devo esser­mi fatta di qualcosa? Sei proprio un povero idiota!»
   Il volto di Vittorio divenne così rosso da fare concorrenza a quello di Vera.
   «Purtroppo per te sono anche un carabiniere, e questo è oltraggio a pubblico ufficiale» disse mortifero. La prese per le braccia e la strattonò, rimettendola in piedi; Vera si morse la lingua per non lasciarsi sfuggire un’esclamazione di dolore. Senza fare una piega, Vittorio l’amma­nettò. «Adesso vieni in caserma con me».
   «Fammi almeno prendere la borsa e chiudere la mia macchina, brutto stronzo!» tuonò Vera, resa ancor più feroce dall’atteggiamento di lui.
   Nel sentire il trambusto, Claudio li raggiunse di corsa.
   «Valenti, ma che è successo?» chiese sgomento: Vittorio aveva le braccia tese per tenere a distanza la ragazza, che si dimenava e digrignava i denti nel chiaro tentativo di raggiungere una qualsiasi parte dell’uomo per morderlo.
   «Niente che non si risolva con un giretto in caserma» ringhiò l’altro. «Prendi la borsa di questa pazza e chiudile la macchina: non mi va di sentire lagne se gliela rubano».

***

Seduta su una sedia di plastica in un corridoio deserto della caserma di Tor Sapienza, Vera schiumava di rabbia. Non solo era irrimediabilmente in ritardo e bloccata nell'ultimo posto al mondo in cui voleva stare, ma, come se non bastasse, l’agente Valenti non le aveva tolto le manette, e la ragazza sentiva il proprio cellulare squillare senza sosta nella borsa accanto a lei senza poterlo raggiungere.
   Mentre Vera si sforzava di elaborare un modo creativo di ammazzarlo e farla franca, Vitto­rio si trovava nell’ufficio di Luciano.
   «Claudio mi ha detto che il vostro turno di pattuglia è stato movimentato» commentò Lu­ciano, intento a sbuffare su una pila di rapporti. «Sei tornato solo da un mese e già arresti gli automobilisti?»
   Vittorio sbuffò a sua volta. «Quella ragazzina mi ha insultato. In più, è evidente che sia stra­fatta, anche se non so di cosa: non riesce a camminare dritta neanche sforzandosi».
   «Una ragazzina?». Luciano si lasciò andare per un momento contro lo schienale della pol­trona, poi districò la sua imponente mole dall’esiguo spazio tra la sedia e la scrivania. «Fam­mela un po’ vedere».
   Vittorio lo precedette, aprì la porta e indicò la piccola sala d’attesa: era deserta, fatta ecce­zione per Vera che mugugnava tra sé a occhi chiusi.
   Luciano fissò la ragazza per alcuni lunghi momenti con espressione indecifrabile, poi sospi­rò e tornò indietro, facendo cenno all’altro di seguirlo. Quando fu di nuovo seduto nella pro­pria poltrona, il maresciallo sospirò una seconda volta.
   «Vittorio» esordì, «adesso ti dirò cosa devi fare, e mi aspetto che tu lo faccia senza discute­re». Vittorio annuì. «Vai da quella ragazza, falle le tue scuse per lo spiacevole equivoco e riaccompagnala alla sua auto».
   L’altro uomo, che si aspettava una risposta completamente diversa, assunse un’espressione sempre più incredula a mano a mano che Luciano andava avanti. Quando il maresciallo tac­que, si era ripreso abbastanza da fare esattamente quello che gli era stato detto di non fare: di­scutere quella decisione.
   «Hai capito che quella mi ha insultato e che sospetto sia sotto l’effetto di droghe?» ripeté.
   «Non è drogata» rispose semplicemente il più vecchio. «Quanto agli insulti, che ti avrà mai detto perché tu decidessi di prendertela tanto?»
   «Mi ha chiamato “stupido coglione”».
   Inaspettatamente, Luciano scoppiò in una breve, roca risata.
   «Allora non è un insulto, ma solo la verità» commentò divertito. «Ho perso il conto delle volte che anch'io ti ho chiamato così!»
   «Ma fai sul serio?» gli chiese Vittorio, offeso e stupito.
   Il maresciallo tornò serio all’istante.
   «Sì, sono serio» rispose duro. «E in caso non l’avessi capito, il mio era un ordine».
   Vittorio strinse i denti, ma non replicò: si può discutere con un amico, non con un superiore.
   Di malagrazia, il più giovane tornò in corridoio e raggiunse Vera con poche, ampie falcate; lei, che sentendo i suoi passi aveva riaperto gli occhi, lo fissò arcigna, in attesa.
   «Alzati» disse scontento l’uomo; non appena Vera riuscì a rimettersi in piedi, le tolse le ma­nette e le restituì i documenti. «Secondo il mio capo, oltre a lasciarti andare via senza nean­che farti un test antidroga, dovrei anche scusarmi e riportarti alla tua macchina, ma non ho in­tenzione di farlo» disse, cristallino. Affilò lo sguardo e abbassò la voce di un paio di ottave. «Luciano Testa è mio amico da vent’anni ed è un uomo onesto: io non lo so, come sei riuscita a raggirarlo tanto da farlo pendere dalle tue labbra al punto da far sì che ti difenda, ma ti con­viene stare alla larga da lui, o te la farò pagare».
   Vera, che era riuscita a calmarsi appena un po’, a quelle nuove accuse s’infiammò di rabbia più rapidamente di prima.
   «Sei ancora più stupido di quanto pensassi, e lo credevo impossibile» sibilò. «Il maresciallo Testa – sì, idiota, so perfettamente chi è il tuo superiore» disse beffarda in risposta all’espres­sione sorpresa dell’uomo, «ti ha detto di lasciarmi andare via non perché sono la sua amante, lo ricatto o qualsiasi altro stupido motivo ti sia venuto in mente ma solo  perché, a differenza tua, lui non giudica le persone in base a un’idea tutta personale costruita in cinque minuti su basi sbagliate» proseguì, senza mai prendere fiato: il suo volto divenne di un’allarmante sfu­matura cremisi, ma Vera non si fermò. «Lui sa che non sono una tossica e che per nessun mo­tivo prenderei mai quella merda, e che di sicuro non mi metterei mai alla guida ubriaca: sa­rebbe un insulto a tutto quello che è successo, alle difficoltà, al dolore, e soprattutto uno schiaffo a me stessa».
   Vittorio la fissò con le sopracciglia inarcate: non riusciva più a seguire quel discorso deli­rante, ma provava un fascino bizzarro per quel torrente d’informazioni che la ragazza stava sputando.
   «Lo sai che sembri esattamente una persona sotto l’effetto di sostanze stupefacenti?» com­mentò.
   Vera gli rivolse uno sguardo disgustato e si rimise la borsa a tracolla.
   «Chiunque tu sia, sei proprio un imbecille senza cervello, ed è strano: ero convinta che per entrare nelle Forze Armate bisognasse superare dei test psicologici, ma a quanto pare hanno aperto le porte a cani e porci. E per la cronaca, non ho bisogno che mi accompagni: preferirei tornare alla mia macchina strisciando sui gomiti per tutta la strada, piuttosto che accettare qualcosa da te» sputò con disprezzo.
   Con un misto di fastidio e ammirazione, Vittorio guardò Vera uscire dalla caserma e avviar­si zoppicando verso la fermata dell’autobus più vicina. Scosse la testa tra sé: quella ragazza era matta, ma in un modo che oltre a irritarlo, scoprì in quel momento, lo divertiva anche un po’.
   Vera intanto fumava ancora di rabbia; non aveva fatto cinque passi oltre la soglia dell’edifi­cio che già aveva il cellulare in mano. Si affrettò a chiamare Giovanna per scusarsi, poi i pro­pri genitori: sapeva che dovevano essersi spaventati come la notte in cui la sua migliore ami­ca aveva partorito, e voleva rassicurarli di stare bene il prima possibile.
   Per ultimo fece proprio il numero di Giulia: avviò la chiamata, e la voce dell’altra esplose a metà del primo squillo.
   «Vera! Dio, ma dov’eri finita? Eravamo terrorizzati!» gridò la donna.
   Vera provò a rispondere, ma sentì altre urla in sottofondo: Tiziano, che considerava un vero e proprio cognato, doveva essere rientrato prima dal lavoro, e stava strillando a tutto spiano.
   «Metti il vivavoce, Giù, così mi sente anche quel pazzo di tuo marito» sbuffò. Un pigolio acuto le risuonò nelle orecchie. «Tizià, Giù, sto bene. Prima non ho potuto rispondere perché ero in caserma».
   «In caserma? A fare che?» domandò subito Tiziano.
   Vera sbuffò per l’ennesima volta. «Ma niente, un coglione di carabiniere mi ha fermata e ci ho litigato, quindi mi ha portata in caserma. Ammanettata, oltretutto. Ma ti rendi conto?»
   «Vuoi che lo ammazzi?» s’informò l’uomo in tono zelante. Vera scoppiò a ridere.
   «Hai una figlia da crescere, Tizià: conserva tutta questa energia per quando Ludovica sarà grande e inizierà a uscire con i ragazzi!»
   «Lulù non uscirà mai con i maschi» decretò serissimo Tiziano.
   «Credici» sogghignò Vera. «Comunque è tutto a posto: questo cretino sta al comando di Tor Sapienza e il maresciallo Testa gli ha detto di lasciarmi andare via. Quindi ho solo perso due ore della mia giornata».
   «L’importante è che tu stia bene» disse Giulia, sollevata. «Quando passi da noi? Lulù ha voglia di stare un po’ con la sua zia preferita, io di spettegolare con la mia migliore amica e Tiziano ha bisogno di qualcuno che ascolti i suoi sproloqui sul calcio».
   Vera sorrise suo malgrado al pensiero di Ludovica. «Sabato? A che ora vi va bene?»
   «Quando vuoi tu, Vè: mi casa es su casa» rispose dolcemente Giulia.
   L’altra si mise quasi a piangere: era stata Noemi ad attaccare loro l’abitudine a usare quella frase.
   «A sabato» salutò in fretta.
   Solo quando ebbe chiuso la chiamata si concesse di scoppiare in lacrime: pianse per cinque minuti interi, scossa dai singhiozzi, poi si asciugò gli occhi con un fazzoletto e riprese a cam­minare verso la fermata dell’autobus, più lenta e stanca di prima.

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Vera aveva dimenticato in fretta lo spiacevole incontro con quel carabiniere che era riuscita a farla esplodere in soli dieci minuti: il lavoro per il professor Maesani e gli impegni in palestra l’avevano tenuta occupata, né lei desiderava impiegare il proprio tempo ripensando a quell’e­pisodio.
   Tiziano, a differenza sua, sembrava aver occupato ogni momento libero per insultare l’a­gente Valenti.
   «Fa’ qualcosa» disse esasperata Giulia quando Vera arrivò a casa loro quel sabato mattina. «Tiziano continua a rampognare contro il carabiniere che ti ha fermata l’altro giorno e davve­ro, non voglio finire in carcere per aver ucciso mio marito, ma se continua così, è proprio quello che succederà!»
   «Dai, Giù, rilassati» tentò di rabbonirla l’altra, scompigliandole i capelli ramati. «Adesso ci penso io… ma non prima di aver visto la mia nipotina. Lulù, dove sei? Vieni a salutare la zia!»
   La piccola Ludovica arrivò, gattonando veloce; Giulia la sollevò da terra e la passò a Vera, che sorrise alla bambina.
   Tiziano arrivò nella scia di sua figlia. «Ohi, Vè! Ciao!». Le stampò due rapidi baci sulle guance prima di riprendersi la bambina. «Ridammi mia figlia: sai che non riesco a staccarmi da lei!»
   Vera sorrise indulgente: Tiziano poteva inventarsi tutte le panzane che voleva, ma lei sapeva comunque che erano solo scuse per impedire che si stancasse. Non che avesse intenzione di protestare: le era già difficile camminare senza portare dei pesi, e pensare di spostarsi tenendo in braccio Ludovica era pura fantascienza, se non altro perché non avrebbe mai corso il ri­schio di cadere e trascinare la piccolina con sé.
   «Sopportalo ancora per un po’, tesoro» disse a Ludovica. «Tanto tra una quindicina d’anni inizierai a uscire con i ragazzi, e a quel punto tuo padre avrà bisogno dei ricordi di questi giorni felici in cui era l’unico uomo della tua vita!»
   Giulia scoppiò in una risata fragorosa, divertita tanto dalle parole dell’amica quanto dall’e­spressione offesa e terrorizzata di suo marito.
   «Vado a controllare il pranzo» ridacchiò all’indirizzo degli altri due prima di eclissarsi in cucina.
   Tiziano fece strada verso il salotto.
   «Vè, ti avverto: ho preso i biglietti per la partita che ci sarà la settimana prossima» annun­ciò, mettendo Ludovica sul tappeto. «Di’ a tuo padre di tenersi libero, e lo stesso vale per te».
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Oh, ma dai, Tizià… come faccio a venire allo stadio?»
   L’uomo le rivolse una smorfia saccente. «Non trovare scuse: è di sabato sera, e te lo sto di­cendo in anticipo proprio perché tu sappia di non dover prendere impegni per quel giorno».
   Lei scosse la testa e si batté la mano sulla coscia sinistra. «Lo sai che intendo» disse desola­ta.
   «Scuse» ribadì Tiziano mentre passava RincoRino a Ludovica, che lo strinse felice tra le braccia: gliel’aveva comprato Vera il giorno in cui era nata, e lei stava letteralmente crescen­do con quel rinoceronte di pezza. «Lo sappiamo tutti e due quanto ti piaccia il calcio. Dai, Vè, se puoi guardare la partita a casa, puoi guardarla anche allo stadio! Non dire di no!»
Vera si passò le dita sulla fronte e sorrise tra sé.
   «Dio, se ripenso a quando ci siamo conosciuti» sbuffò divertita. «Due pazzi di Roma che si incontrano per la prima volta nella curva Scirea…»
   «Tre pazzi» la corresse Tiziano. «C’era anche tuo padre: ricordo ancora la discussione di mezz’ora su quale sia il miglior giocatore nella storia della Juve, e il gol più bello!»
   La donna annuì e sorrise di nuovo. «Sono passati già otto anni, ci puoi credere?»
   «Otto anni» ripeté lui in tono sognante. «Ne avevo appena compiuti venti, e adesso ne ho quasi trenta: quante cose sono cambiate…»
   «Già» mormorò tristemente Vera.
   Tiziano tornò serio. «Scusa, Vè» disse dispiaciuto. «Io… per un attimo, mi sono dimentica­to».
   Lei si strinse nelle spalle. «Forse mi ferisce di più il fatto che te ne sia scordato solo per un attimo» rispose. «A volte vorrei soltanto che tutti dimenticassero quello che è successo».
   «Mi sa che vuoi l’impossibile» commentò Tiziano, sedendo sul divano; Vera si buttò poco lontano, rimbalzò sui cuscini mentre faceva smorfie buffe a Ludovica e la bambina rise. «Ma non cambiare discorso. Tu devi venire a vedere la partita con me e tuo padre: era il nostro rito sacro, e mi manca. E se provi a sfuggire» aggiunse in tono terribilmente serio, «chiamerò Eu­genio e gli dirò che stai rinnegando la fede di una vita».
   Vera trasalì a quella minaccia: dire a suo padre che lei rinnegava il calcio equivaleva a fir­mare la sua condanna a morte. Era cresciuta passando le domeniche seduta sul divano insie­me a lui; dalla sua voce aveva imparato i nomi dei campioni del passato e sentito descrivere i gol entrati nella storia. Insieme avevano esultato per ogni vittoria, imprecato per ogni sconfit­ta; avevano commentato con spirito critico ogni azione della loro squadra del cuore, e l’ag­giunta di Tiziano al loro duo non aveva fatto che esaltare ancora di più la loro passione.
   «Va be’, ho capito: mi arrendo» bofonchiò sconfitta. «Verrò allo stadio».
   Il padrone di casa esultò a gran voce e si complimentò con se stesso per le sue capacità per­suasive. Vera non se la sentì di fargli notare che, più che di persuasione, s’era trattato di coer­cizione: Tiziano era troppo felice.
   Vera si chinò verso la nipote. «Impara, Ludovica: gli uomini sono dei gran rompiscatole, ma a volte basta poco per farli felici e riconquistare la tranquillità».
   Ludovica ridacchiò, pur non avendo capito niente del discorsetto della zia.

******

Nella propria stanza in caserma, Vittorio sbatteva scarpe e vestiti da una parte all’altra, senza mai smettere di sbuffare. Era stanco di vivere lì: per diciassette anni aveva goduto dell'indi­pendenza derivante dall’avere una casa tutta sua, e stare di nuovo in pianta stabile al comando lo faceva sentire come se fosse tornato ai tempi dell’addestramento. Questo e la rude benevolenza di Luciano, che sembrava deciso a tentare di rimetterlo in riga come aveva fatto ven­t’anni prima.
   «Valenti, ti si sente dagli spogliatoi» lo informò Claudio, mettendo dentro la testa senza neanche premurarsi di bussare.
   «Sai che mi frega» replicò l’altro mentre lanciava un paio di fruste scarpe da jogging all’al­tro lato della stanza.
   Il suo collega alzò gli occhi al cielo. «Tu la disciplina militare non sai proprio cos’è» com­mentò. «Datti una calmata: se il maresciallo sente il casino che stai facendo, ti fa di nuovo shampoo, taglio e messa in piega» ridacchiò mentre se ne andava.
   «Grazie del consiglio non richiesto!» gli urlò dietro Vittorio prima di buttare tutti i vestiti che aveva tra le braccia in un mucchio disordinato sul letto: all’improvviso si era reso conto del caos che aveva creato e aveva deciso che era molto meglio uscire.
   Mezz’ora più tardi, fedele a quella decisione presa d’impulso, il carabiniere passeggiava su Ponte Milvio con le mani affondate nelle tasche dei jeans e osservava distratto i folti gruppi di adolescenti che affollavano il posto insieme ad alcuni turisti e altre persone. Non sapeva neanche lui perché avesse scelto di andare proprio lì: forse gli ricordava gli anni turbolenti ma piacevoli che avevano preceduto l’addestramento, o forse sperava di assorbire un po’ del­la spensieratezza di quei ragazzi soltanto passandogli accanto.
   Stava camminando lungo uno dei muretti che delimitavano il ponte quando scorse, isolata dagli altri, una ragazza seduta sul muretto opposto, una decina di metri più avanti. In altre oc­casioni questo non avrebbe attirato la sua attenzione, ma il fatto che fosse seduta con le gam­be fuori dal parapetto, invece che rivolta verso la strada come tutti gli altri, e il modo in cui si sporgeva, gli fecero scattare un campanello d’allarme nel cervello.
   Senza esitare, Vittorio le si avvicinò con passi lunghi e rapidi, attento a non spaventarla per timore che potesse buttarsi.
   «Ohi, tu! Sul parapetto!» chiamò con voce ferma. La ragazza non si mosse; Vittorio fece un altro paio di passi, l’afferrò saldamente per le braccia e la trascinò sul selciato senza troppe cerimonie, sordo alle urla indignate che lei aveva lanciato non appena si era sentita afferrare.
   Quando la lasciò andare e lei si voltò, Vittorio si scontrò con una faccia furibonda e familia­re.
   «Di nuovo tu!» sbottò irata Vera. Lo guardò malissimo. «Si può sapere che vuoi da me?»
   «Ma che volevi fare?» replicò l’uomo, irritato come non mai, indicando il parapetto. «Qual­siasi problema tu abbia, suicidarsi non è mai la soluzione!»
   Vera batté le palpebre più volte mentre la comprensione si faceva strada sul suo volto.
   «Credevi che volessi buttarmi?» disse, incredula. «Allora eri tu lo scemo che strillava, poco fa!». Sbuffò. «Tutto questo casino solo perché stavo seduta con le gambe in fuori? Te lo devo proprio dire: tu non stai bene. Non stai bene per niente!»
   «Quale imbecille si siede sul parapetto di un ponte con le gambe di fuori?» insisté mordace Vittorio. Quei pochi giorni trascorsi dal loro primo incontro gli erano stati sufficienti a dimenticare il vago divertimento che aveva provato: per lui, nulla poteva giustificare tutta quell'aggressività immotivata.
   «Magari uno che vuole guardare il fiume?» replicò sarcastica la ragazza.
   «E come mai di tutti quelli che stanno guardando il Tevere, tu eri l’unica seduta in modo da cadere alla minima perdita di equilibrio?» ribatté l’uomo, per nulla pronto a cedere.
   Vera alzò gli occhi al cielo, esasperata. «Senti, coso...»
   Lui la guardò male. «Ho un nome: mi chiamo Vittorio».
   «Sì, come ti pare» sbuffò lei. «Allora, Vittorio, finiamo qui questa conversazione: tanto io non cambierò idea e nemmeno tu lo farai, quindi è inutile continuare a discutere».
Vittorio si accigliò. «Tu sei veramente una ragazzina insopportabile, lo sai?»
   «E tu sei un uomo detestabile» replicò Vera senza fare una piega. Gli voltò le spalle. «A mai più rivederci».
   «Non sei un po’ troppo giovane per essere già così acida?» le gridò dietro Vittorio mentre lei si allontanava.
   In risposta non ottenne che un gestaccio.

******

Vittorio trascorse i giorni seguenti in uno stato di grazia. Il lavoro filava liscio come l’olio; non aveva più discusso con nessun collega; persino Luciano sembrava nutrire la tenue spe­ranza che Vittorio stesse finalmente mettendo la testa a posto. L’unica nota negativa erano i rapporti con sua moglie: le rare occasioni in cui si sentivano per telefono, la conversazione era tesa e monotematica. Ognuno domandava all’altro come andasse la vita di tutti i giorni, senza interessarsi davvero alla risposta; poi Vittorio le chiedeva quando avrebbe ottenuto il trasferimento a Roma e a quel punto Emanuela o s’infuriava e gli rinfacciava la colpa dell'es­sere a centinaia di chilometri di distanza, dicendogli che non poteva pretendere che lei man­dasse all’aria la propria carriera solo per affrettarsi a seguirlo, oppure ignorava completamen­te la domanda e riagganciava in fretta con una scusa qualsiasi.
   Per questo quando quel giovedì gli comunicarono che due giorni dopo avrebbe prestato ser­vizio allo stadio, se ne rallegrò: la situazione con sua moglie era così tesa da fargli desiderare qualcosa di diverso dal solito servizio di pattuglia, qualcosa che fosse in grado di tenergli oc­cupata la mente.
   La risposta di Vittorio a quella comunicazione fu tanto entusiasta che Luciano stesso non poté fare a meno di esserne contento: aveva l’impressione che Vittorio stesse diventando ogni giorno più inquieto e difficile da tenere sotto controllo, persino più di quando, giovane allie­vo, aveva iniziato l’addestramento. Luciano poteva solo intuire da dove provenisse tutta quella nuova suscettibilità, ed era determinato a fare quanto in suo potere per evitare che l’altro si facesse buttare fuori dall’Arma.

******

Quel sabato pomeriggio il cielo invernale era coperto di nuvole, abbastanza da far presagire un temporale; nonostante questo, la zona dello stadio Olimpico era gremita dai tifosi pronti ad assistere a una delle partite più sentite del campionato.
   A dispetto di tutte le sue proteste solo una settimana prima, a Vera erano bastati cinque mi­nuti in quel marasma per sentire l’antico entusiasmo risvegliarsi. Tenuta sottobraccio da suo padre e da Tiziano avanzava lenta in mezzo al caos, avvolta dal rumore di passi e dal chiac­chiericcio di migliaia di persone che risuonava nell’aria. Una parte di lei non vedeva l’ora che iniziasse la partita; l’altra sarebbe stata contenta anche solo restando lì, se solo avesse potuto dilatare all’infinito quel momento di pace interiore.
   «Vè?». La voce di Tiziano la riscosse dai propri pensieri. «Allora, che ne dici?»
   «Che non ti stavo ascoltando» rispose candidamente lei. «Parli un sacco, Tizià».
   Il padre di Vera soffocò a fatica una risata, mentre l’altro scoccò uno sguardo torvo alla donna.
   «Io e tuo padre stavamo dicendo che abbiamo sete» sintetizzò secco. «Andiamo a prendere qualcosa da bere prima di entrare?»
   Vera si strinse nelle spalle. «Io sto bene così, ma voi andate pure».
   I due uomini si scambiarono un’occhiata.
   «Vieni comunque con noi, no?» insisté cauto Tiziano. «Se ci separiamo, poi ritrovarci sarà un bel problema».
   La donna inarcò le sopracciglia. Suo padre e Tiziano potevano non rendersene conto, ma la preoccupazione per lei ce l’avevano stampata in faccia; ma dato che era stato proprio il se­condo a insistere perché lei andasse alla partita, allora avrebbe fatto i conti con tutte le conse­guenze che ne derivavano, decise Vera, infastidita.
   «Facciamo così: voi andate a prendere da bere e io vi aspetterò laggiù» disse soave, indi­cando il cordone di carabinieri più vicino. Batté una mano sulla spalla di Tiziano, che boc­cheggiava alla ricerca di un’obiezione qualunque. «Sbrigatevi, su!»
   Estremamente compiaciuta, la donna voltò le spalle ai suoi compagni e si avviò decisa ver­so il punto che aveva indicato. Quasi subito, la punta d’irritazione che provava verso Tiziano e la sua ostinazione nel trattarla come una statuetta di cristallo svanì: la confusione cancellò ogni suo pensiero, e l’unica cosa su cui riuscì a concentrarsi fu l’insieme di sensazioni che le si agitavano dentro.
   Anche se non avesse avuto la mente da un’altra parte, di sicuro Vera non avrebbe sentito la mancanza di Vittorio, e d’altra parte sarebbe stato strano il contrario: quell’individuo era la quintessenza di ciò che lei detestava in un uomo, e i loro precedenti incontri non avevano cer­to gettato le basi perché tra di loro potesse esserci un rapporto civile.
   Trovarlo fuori dallo stadio in assetto antisommossa fu solo una spiacevole sorpresa in una giornata che sembrava promettere bene. Vera girò sui tacchi, pronta ad andare da un’altra par­te, ma non fu abbastanza rapida.
   «Cristo, ma sei dappertutto» sbuffò Vittorio quando se la trovò davanti.
   «Potrei dire lo stesso di te» borbottò Vera di rimando. «Ma non prestavi servizio al coman­do di Tor Sapienza? Perché non potevi restartene là?»
   «Tagli al personale» rispose lui con espressione beffarda, come se questo spiegasse tutto; o magari era soltanto arrabbiato con qualcuno che non era lei. Non era impossibile: Vera aveva l’impressione che Vittorio Valenti passasse la maggior parte della propria esistenza in collera con qualcuno. «C’era bisogno di agenti in più, stasera, e io ho iniziato nell’Ottavo Reggimen­to “Lazio”: in pratica prima facevo solo ‘ste cose» aggiunse.
   «Molto interessante: o meglio lo sarebbe se m’importasse qualcosa di te. E a dirla tutta, l’u­nica cosa che ti riguarda di cui io mi preoccupi, è di starti lontana il più possibile» replicò al­tezzosa Vera.
   «Uhhh, che lingua raffinata!» la schernì Vittorio. «Un bel cambiamento, da quando mi chia­mavi “stupido coglione”».
   «Definizione che non mi rimangerò mai» ribadì la donna.
   «Vera?»
   Vittorio notò solo in quel momento la coppia di uomini appena sbucati dalla folla: uno ave­va da poco superato la cinquantina, l’altro dimostrava circa trent’anni, ed entrambi lo scruta­vano con sospetto. Il più anziano cinse le spalle di Vera con un braccio, poi accennò proprio al carabiniere con la testa. «È un tuo amico?»
   Vittorio sogghignò. «Preferirei essere amico con Lucifero in persona piuttosto che con lei» disse di getto.
   Vera digrignò i denti.
   «Agente Valenti, ti presento Eugenio, mio padre, e Tiziano, il marito della mia migliore amica: praticamente un cognato». Il carabiniere sbiancò in maniera vistosa; godendosi il mo­mento, la ragazza proseguì con le presentazioni. «Papà, Tiziano, questo è l’agente Valenti: è in forza al comando del maresciallo Testa».
   Tiziano gli scoccò uno sguardo disgustato; Eugenio, invece, sembrava soltanto perso nelle proprie riflessioni.
   «Ho capito chi sei» disse infine Eugenio, apparentemente tranquillo. «Tu sei quel pezzo di sterco muffito che ha ingiustamente accusato mia figlia di stare alla guida ubriaca e drogata».
   «Questo è...» sibilò Vittorio.
   «Non oltraggio a pubblico ufficiale, questo è certo: non stai compiendo un atto d’ufficio, re­quisito necessario perché si realizzi questo specifico illecito penale» lo interruppe Eugenio con calma olimpica.
   Fu il turno di Vera di sogghignare.
   «Il mio papino sta studiando Giurisprudenza» disse gongolante.
   «Hai cinque anni, che lo chiami “il mio papino”?» le ritorse contro Vittorio.
   «E tu ne hai sei, per infastidirmi appena ne hai l’occasione? Perché prima avresti anche po­tuto far finta di non vedermi e aspettare che me ne andassi» replicò pronta Vera.
   Eugenio li guardò con le sopracciglia inarcate e diede un colpo di gomito a Tiziano, che annuì controvoglia.
   «Visto che te la cavi bene da sola, Vè, noi andiamo a prendere posto. Tieni il tuo biglietto» decise suo padre, mettendole in mano il rettangolo di carta. «Raggiungici quando hai finito di chiacchierare con il tuo amico».
   «Non siamo amici!» tuonarono all’unisono Vera e Vittorio.
   «Se hai problemi con le scale, chiama» la liquidò Eugenio senza degnarla di uno sguardo; afferrò Tiziano per un braccio e lo trascinò via con sé, lasciando Vera lì impalata e furiosa con entrambi.
   Vittorio accennò con il mento ai due che parlottavano e si facevano largo verso i tornelli.
   «Che ci fai allo stadio con tuo padre e il tuo praticamente cognato?» chiese.
   «Secondo te?» replicò ironica lei, poi scrollò le spalle. «Siamo venuti a vedere la partita».
   «Be’, sei romanista: almeno un pregio dovevi averlo» commentò Vittorio.
   Lei gli rivolse un sorrisetto irritante. «Quando avrei detto di essere romanista?»
   Vittorio sgranò gli occhi. «No… pure juventina?». Fece una smorfia schifata. «Sei una somma di difetti, ragazzina».
   Vera gli mostrò la lingua. «E tu sei una somma di pessimi difetti».
   «Valenti!» urlò un altro carabiniere prima che Vittorio potesse replicare. «Dai un po’! Hai finito di chiacchierare con la tua fidanzata? Sei qui per lavorare, eh!»
   Entrambi divennero di porpora. «Non siamo fidanzati!» gridarono in coro.
   «Strano, perché vi punzecchiate proprio come facciamo io e mia moglie» ribatté impertur­babile l’altro.
   La ragazza fece un gesto vago con la mano, rassegnata. «È meglio se me ne vado. Buon la­voro, Valenti».
   «No! Non si dice!» urlò lui, ma Vera non si degnò di rispondergli.
   Vittorio sbuffò forte e lanciò un’occhiata all’andatura vistosamente zoppicante di Vera, poi tornò dai colleghi: la maggior parte teneva d’occhio la folla, ma un paio avevano lo sguardo fisso su di lui.
   «Certo che potevi almeno presentarcela la tua ragazza, Valenti» disse malizioso lo stesso che l’aveva richiamato solo un minuto prima.
   «Non è la mia ragazza, Fabbiani» rispose piccato Vittorio. Fabbiani gli rivolse un’occhiata eloquente, e l’altro si accigliò. «Io sono sposato. Sposato, vedi?» aggiunse; sollevò la mano sinistra e batté più volte l’indice sulla fede nuziale per dimostrare la propria affermazione. «E di sicuro non con quella ragazzina». Guardò trionfante il collega. «Vuoi aggiungere altro?»
   Fabbiani scrollò le spalle. «Solo che si vede che tu e tua moglie dovete avere un sacco di problemi» ridacchiò, noncurante dell’irritazione dell’altro.
   Mentre Vittorio discuteva con il collega, Vera continuò a camminare, lanciando più di un’occhiata al biglietto che stringeva in mano e alle segnaletiche per essere certa di essere di­retta verso il tornello giusto. La fila era già piuttosto lunga, e per quanto si sforzasse, la ragaz­za non vide da nessuna parte suo padre e Tiziano.
   Il suo cellulare iniziò a squillare, distogliendola dalla sua ricerca.
   «Ohi, Giù, dimmi» mormorò mentre metteva il biglietto al sicuro nella tasca del piumino.
   «Mi passi Tiziano? Ho provato a chiamarlo due volte ma quel tonto non ha sentito il telefo­no» rispose stizzita la sua migliore amica.
   «Non sono con lui» spiegò distratta Vera. Seguì la fila, che era avanzata di un paio di passi. «È andato avanti con mio padre, forse sono già dentro ed è per questo che non ha sentito il cellulare».
   «Scusa, e perché tu non sei con loro?» chiese all’istante Giulia.
   Anche se l’amica non poteva vederla, Vera si strinse comunque nelle spalle. «Avevano sete e hanno deciso di andare a prendere qualcosa da bere prima di entrare, ma a me non andava di seguirli...»
   «E ti hanno lasciata sola per questo?» berciò l’altra.
   «Hai intenzione di lasciarmi finire?» sbottò Vera.
   «Sì, sì, scusa» mugugnò Giulia.
   «Fantastico» disse ironica Vera. «Come stavo dicendo, non avevo voglia di seguirli e gli ho detto che ci saremmo ritrovati vicini a un cordone di carabinieri che stava a una decina di metri da noi, ma quando sono arrivata lì ci ho trovato l’idiota dell’altro giorno...»
   «Ma chi? Il carabiniere che ti ha portata in caserma e poi ha pensato che volessi buttarti giù da Ponte Milvio?» la interruppe di nuovo Giulia, improvvisamente molto più interessata che arrabbiata.
   «GIULIA!» esplose l’altra.
   «D’accordo, d’accordo, sto zitta» replicò stizzita Giulia. «Continua».
   Vera sbuffò, e la fila avanzò ancora. «Per la cronaca, sì, parlo proprio di quell’insopportabi­le Valenti. Anche perché scusa, quanti idioti conosciamo?»
   «Un’infinità» rispose pronta la sua migliore amica.
   «In effetti...». Vera si riscosse. «Comunque si è messo di nuovo a darmi fastidio, il cretino: pare che non sia in grado di farne a meno. Chissà, magari non ha abbastanza neuroni per ca­pire quando è il caso di stare zitto» spiegò con acredine.
   «Mh. E tu che hai fatto?» indagò Giulia.
   «Gli ho risposto per le rime, ovvio» disse Vera. «Non mi faccio mettere i piedi in testa dal primo idiota, prepotente, cafone...»
   «Sì, sì, sì, ho capito che non ti è tanto simpatico» l’interruppe per l’ennesima volta Giulia. «Se ti sta così sulle scatole questo Valenti, perché non te ne sei andata e basta?»
   «Forse non hai sentito la parte in cui ti dicevo che avevo dato quel posto come punto di ri­trovo a papà e Tiziano» esclamò sarcastica l’altra.
   Giulia rimase in silenzio per un po’.
   «Sai che in fondo non sembra poi tanto male, questo tipo?» disse infine.
   Vera rise sardonica. «Oh, sì, sono certa che sotto la maleducazione, la paranoia, la prepoten­za e l’abitudine di giudicare le persone senza conoscerle si nasconda una perla d’uomo» ribat­té. «Accidenti, Giù, ma ti senti quando parli?»
   «Sempre» disse Giulia. «E tu, Vè, ti senti quando parli?» le ritorse contro, sarcastica.
   L’altra arricciò il naso e fece qualche altro passo in avanti. «Cosa vorresti dire?»
   «Solo che, nel bene o nel male – più spesso la seconda, lo ammetto – ultimamente parli pa­recchio di questo carabiniere» commentò Giulia. «Al posto tuo, mi farei qualche domanda».
   «Me le sono fatte» ammise Vera a mezza voce.
   Giulia trattenne il fiato per un momento. «E che risposte ti sei data?»
   «Che ne parlo tanto non solo perché continua a capitarmi davanti, ma soprattutto perché mi infastidisce e mi irrita come nessuno ha mai fatto nella mia vita… tranne te quando attacchi con questa filosofia spicciola» sciorinò Vera.
   Giulia mugugnò qualcosa di incomprensibile. «Messaggio recepito, Vè. Ma se un giorno ti farai davvero delle domande, te lo rinfaccerò e ripeterò “te l’avevo detto” fino alla fine dei tuoi giorni» minacciò.
   «Vorrà dire che se mai si verificherà una simile eventualità, comprerò una bella scorta di tappi per le orecchie» disse Vera, finalmente tranquilla. «Giù, sono quasi al tornello. Vuoi che dica qualcosa a Tiziano quando lo raggiungo, o ti faccio chiamare da lui?»
   «Fammi chiamare» rispose Giulia. «E soprattutto, goditi la partita: domani voglio trovarti senza voce per aver urlato troppo!»
   «Puoi contarci» ridacchiò Vera. Chiuse la chiamata e recuperò il biglietto dalla tasca mentre l’atmosfera esaltata della partita imminente l’avvolgeva di nuovo, facendole dimenticare le insinuazioni della sua migliore amica.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Dopo aver partecipato al servizio di sicurezza allo stadio, per Vittorio tornare ai soliti incarichi non era stato entusiasmante. Contro ogni sua aspettativa, a salvarlo dalla noia era stata di nuovo Vera: non l’aveva più vista, ma l’atteggiamento pungente della donna, insieme al protrarsi del suo zoppicare, avevano risvegliato una volta per tutte la curiosità del carabiniere.
   Per questo quel giovedì, dopo aver finito il turno di notte, invece di togliersi la divisa e mettersi a dormire, Vittorio andò dritto all’ufficio di Luciano e bussò con decisione.
   «Cos’è successo?» chiese sconfortato il maresciallo quando il più giovane si accomodò con aria risoluta su una sedia davanti alla scrivania.
   «Niente». Luciano non ebbe il tempo di sospirare di sollievo che Vittorio aggiunse un allarmante: «Dobbiamo parlare, tu e io».
   «Perché questo non mi rassicura?» mugugnò l’altro. Vittorio lo guardò torvo e Luciano alzò gli occhi al cielo. «Va bene, sputa il rospo».
   «Te la ricordi la ragazzina che ho portato qui un paio di settimane fa e che mi hai costretto a lasciar andare via?» chiese Vittorio.
   «Ancora con quella storia?» sbottò Luciano.
   «Non proprio». Il più giovane batté la punta del piede a terra mentre rifletteva. «L’ho incrociata altre due volte, una a Ponte Milvio e una allo stadio, e non capisco come una ragazza possa essere tanto maleducata, antipatica e incapace di star zitta». Si grattò il collo, rimuginando. «Sarò io, ma non è un po’ eccessivo avere sempre questo atteggiamento?»
   «Perché hai deciso di parlarne proprio con me?» gli chiese Luciano.
   «Magari perché è evidente che la conosci?» replicò sarcastico l’altro.
   Luciano prese un gran respiro, pizzicandosi la punta del naso.
   «Va bene» decise. «Cosa vuoi sapere?»
   Vittorio allargò le braccia. «Come mai la conosci?»
   L’altro si accomodò contro lo schienale della poltrona girevole.
   «Suo nonno – paterno – è stato il mio professore di matematica e fisica delle superiori, anni fa, e lo è stato anche dei miei figli» spiegò. «Un ottimo insegnante, molto conosciuto nella loro zona: ha sempre organizzato corsi di recupero gratuiti per i ragazzi che avevano difficoltà nelle sue materie e persino adesso, a ottant’anni passati, continua a dare ripetizioni senza chiedere un centesimo. In generale è sempre stato pronto a dare una mano, ed è stato lui a convincere Daniele a prendere la laurea in fisica. Quando sono tornato a vivere a Settecamini ho avuto modo di conoscere bene suo figlio Eugenio, e altrettanto hanno fatto i nostri figli; credo anche che Damiano abbia avuto una cotta per Vera, qualche anno fa».
   «Deve essere dura, avere una cotta per una ragazza così acida e scostante» disse Vittorio.
   «Acida e scostante?». Dopo un attimo di sbigottimento, Luciano scoppiò a ridere. «Dio, Vera era la ragazza più allegra e vitale che avessi mai visto: non si fermava un attimo, travolgeva tutti come un uragano».
   «Era?» gli fece eco Vittorio.
   L’altro si rabbuiò. «Dopo l’incidente, non è più stata la stessa».
   «È per questo che zoppica?»
   Luciano annuì. «Tornava a casa insieme a una delle sue migliori amiche, una notte di maggio dello scorso anno: erano state tutto il giorno al Pertini da un’altra loro amica, che doveva partorire. Mentre erano sulla Salaria, dirette a casa, un SUV che procedeva nella direzione opposta ha invaso la loro corsia e ha preso in pieno la Seicento su cui si trovavano. L’altra ragazza, Noemi, è morta sul colpo; Vera si è salvata per un pelo, ma la gamba sinistra era così malconcia e il ginocchio talmente frantumato che i medici non hanno potuto fare altro che amputarla».
   Vittorio sbiancò. «Le hanno amputato una gamba?»
   Luciano annuì tristemente. «Purtroppo, sì. Un classico incidente d’auto: già dai primi rilievi venne fuori che il conducente dell’altra auto, un ragazzo di vent’anni, aveva un tasso alcolemico che era più del doppio del limite consentito, e in seguitò si accertò che aveva anche sniffato cocaina. Insomma, un disastro annunciato».
   Vittorio si prese la testa tra le mani. «Adesso capisco perché quando l’ho fermata mi ha dato del coglione. Per lei deve essere stato il peggiore degli insulti, essere sospettata di stare guidando sotto l’effetto di alcool e droga».
   «Non ha mai superato davvero la cosa» commentò l’altro. «Ha avuto problemi di depressione e poi… be’...»
   «Poi cosa?» lo incalzò Vittorio, incuriosito.
   Ma Luciano liquidò la sua domanda con un vago gesto della mano. «Sono cose sue: non è giusto che sia io a parlatene».
   «Lucià, non puoi fare così» ribatté l’altro. «Che le è successo?»
   «Non sarò io a dirtelo: sono affari di Vera, e deve essere lei a decidere se e con chi parlarne» ripeté il più anziano, inflessibile. «Non me lo chiedere più, e se proprio vuoi sapere qualcosa, domandalo direttamente a lei».
   «Tanto lo scoprirò comunque» grugnì Vittorio, alzandosi.
   «Vittò, non è mai una buona idea andare a ficcare il naso negli affari altrui» lo ammonì Luciano.
   «E allora la prossima volta non mi mettere la pulce nell’orecchio» rispose l’altro, con un piede già fuori dalla porta.
   Tornato nella propria stanza, Vittorio sedette sul letto. Aveva avuto delle risposte, ma le domande nella sua testa erano ancora numerose; l’improvvisa reticenza del superiore e amico, poi, non aveva fatto che riattizzare la sua curiosità. Aveva bisogno di qualcuno che conoscesse bene Vera e fosse disposto a parlargli di lei, per appagare quella curiosità e permettergli di dimenticare tutta quella faccenda; ma dove trovare qualcuno del genere? In fondo di quella ragazza non sapeva nulla tranne il suo nome e cognome, quello di suo padre e il nome di battesimo di un suo caro amico. Era troppo poco per fare una ricerca, tanto più che i due uomini erano apparsi maldisposti nei suoi confronti; e poi, se Luciano avesse scoperto che aveva sfruttato la propria posizione per immischiarsi ancora negli affari di quella ragazza, come minimo gli avrebbe fatto una lavata di capo difficile da dimenticare.
   Alla ricerca di una soluzione, si alzò e si mise a camminare per la stanza; in che modo poteva sfruttare le ridottissime informazioni che aveva? Un nome era solo un nome, e senza qualcos'altro serviva a ben poco...
   Il suo cellulare trillò. Vittorio lo prese, infastidito dall’ennesima notifica… e poi una possibilità lo colpì come un pugno nello stomaco.
   L’uomo corse al computer e lo accese: forse dei nomi non erano poi così scarni, come indizi.

******

Tiziano era rientrato solo mezz’ora prima dal lavoro: essere un impiegato di banca non era certo faticoso come altri mestieri, ma non per questo il trillare del campanello lo infastidì meno. Per nulla al mondo avrebbe voluto alzarsi dal divano: per quanto lo riguardava, chiunque avesse deciso di fargli visita senza preavviso sarebbe potuto restare fuori dalla porta fino alla fine dei tempi… o almeno finché sua moglie non si fosse decisa ad aprire.
   «Tizià, vai ad aprire!» ordinò la voce ovattata di Giulia.
   L’uomo sbuffò, sconfitto, e il campanello trillò di nuovo. Tiziano si alzò dal divano e andando verso l’ingresso agguantò la piccola Ludovica – che al suo passaggio gli si era aggrappata alle gambe decisa a tenerlo con sé – e se la sistemò su un fianco, tenendola con un braccio.
   Arrivato a destinazione, Tiziano aprì la porta: dall’altra parte del battente c’era Vittorio.
   «Non è il benvenuto» disse gelido il padrone di casa. Fece per richiudere la porta ma Giulia, attirata a sua volta dalle impazienti scampanellate, si affacciò verso la porta.
   «Chi è?» domandò curiosa.
   «Vittorio Valenti, signora» disse in fretta Vittorio, prima che Tiziano potesse chiudergli la porta in faccia.
   «Tu sei il carabiniere che Vera continua a incrociare» commentò Giulia, annuendo tra sé. Raggiunse suo marito e lo spostò con una gomitata. «Togliti, Tiziano. Signor Valenti, prego, si accomodi».
   Sconfitto, Tiziano fece dietrofront per tornare in salotto con sua figlia.
   «Quando sarai grande, Lulù, non uscire mai con uomini come quello, oppure papà ti chiuderà a chiave nella tua camera fino al tuo trentesimo compleanno» disse a voce abbastanza alta da essere udito nell'ingresso.
   Giulia alzò gli occhi al cielo di fronte alla teatralità di suo marito. «Lo scusi, sa, è molto protettivo nei confronti di Vera. Venga, andiamo in cucina».
   Una volta tanto, Vittorio obbedì senza fiatare. Quando fu certa che il suo ospite fosse comodamente sistemato su una sedia, Giulia andò verso i fornelli.
   «Le posso offrire un caffè, signor Valenti, o preferisce qualcos’altro?»
   «Il caffè va benissimo» rispose in fretta lui. «E, la prego, mi chiami soltanto Vittorio».
   La donna sorrise. «Allora tu devi chiamarmi Giulia».
   Mentre preparava la caffettiera e la metteva sul fuoco, Giulia ne approfittò per studiare di sottecchi Vittorio: sapeva che Tiziano non lo poteva soffrire ma lei, da donna e migliore amica di Vera, aveva colto qualcosa di particolare nel modo in cui l’altra le aveva parlato di quello sconosciuto. Sì, l’aveva insultato e probabilmente lui se l’era anche meritato, ma Giulia aveva visto qualcosa che mancava in Vera da quasi un anno: la passione. Nel bene o nel male, quell’uomo aveva risvegliato almeno in parte lo spirito infuocato di Vera, quello che l’incidente le aveva strappato, e chiunque fosse in grado di scuotere la sua migliore amica dalla tristezza e dai sensi di colpa in cui era sprofondata, era il benvenuto.
   «Allora, Vittorio» disse quando ebbe disposto sul tavolo le tazzine fumanti, la zuccheriera e dei biscotti, «cosa ti porta qui?».
   L’uomo si grattò il collo, improvvisamente nervoso.
   «Volevo sapere qualcosa di più sulla tua amica» si decise a rispondere: in fondo, era andato lì per quello. «Sono certo che sai che sono agli ordini del maresciallo Testa: oltre a essere mio superiore è anche un amico di vecchia data, e dato che conosce la famiglia Nicolini, mi ha accennato qualcosa riguardo l’incidente e le sue conseguenze, ma si è rifiutato di dirmi altro, anche se è evidente che sa molto più di quello che ha deciso di dirmi».
   Giulia lo fissò con tanta serietà da metterlo a disagio. «Prima di rispondere, vorrei sapere per quale motivo sei così interessato a Vera».
   Quella semplice richiesta mostrò a Vittorio come le sue domande potessero facilmente essere fraintese: si era presentato lì, da perfetto sconosciuto, per chiedere informazioni su una donna. Per un attimo si chiese come gli fosse venuto in mente, e si diede dell’idiota; ma poi decise che, visto che era già in ballo, tanto valeva ballare.
   «Sono solo… curioso, ecco, per quanto possa suonare male» ammise. «La tua amica...»
   «Vera» lo interruppe Giulia.
   «Vera» sbuffò lui. «Quando l’ho fermata, quel giorno, per strada, mi si è rivoltata contro come una pazza. Lo sai che ha provato a mordermi?» aggiunse, offeso al solo ricordo. Giulia scoppiò a ridere e liquidò la cosa con un gesto della mano: Vittorio intuì che quello doveva essere un atteggiamento tipico di Vera. «E mi ha anche insultato. Insomma, di sicuro lei ti ha raccontato cos’è successo quel giorno e nelle altre occasioni in cui ci siamo incrociati, quindi è inutile che io stia qui a ripetere tutto. Però, come ho detto, stamattina Luciano mi ha raccontato del ragazzo che guidava il SUV per farmi capire come mai lei avesse reagito in quel modo che a me era sembrato spropositato, quindi so dell’incidente e della sua dinamica. Quello che vorrei sapere è… cos’è successo dopo. Perché la Vera che mi ha descritto non è quella con cui ho avuto a che fare io».
   Giulia si lasciò andare contro lo schienale della sedia, una profonda stanchezza dipinta sul volto.
   «Devi capire, Vittorio» esordì con dolcezza, «che Vera era una ragazza molto felice: era convinta di avere tutto quello che potesse desiderare, ed era difficile vederla scontenta o di cattivo umore. Quell’incidente ha cambiato tutto». Sospirò. «Io, Vera e Noemi siamo state legate fin da bambine: da piccole ci eravamo convinte di essere sorelle, anche se i nostri genitori ci assicuravano il contrario, e ci siamo promesse di restare sempre unite. Persino quando sono rimasta incinta, anche se entrambe volevano essere le madrine di mia figlia, non ci sono stati dissapori: pensa che decisero che per non scontentare nessuno sarebbero andate in ordine alfabetico, nel reclamare questo onore. Quindi Noemi sarebbe dovuta essere la madrina di Ludovica e Vera quello del mio secondo figlio, che mi intimò di avere al più presto». Rise, genuinamente divertita da quel ricordo. «Quando andarono via dall’ospedale, quella notte, erano felici quanto me: la caposala, i medici, gli infermieri, vennero tutti a dirmi che ero fortunata ad avere due amiche così. Solo che il mattino dopo, le mie amiche non c’erano più».
   Giulia s’interruppe un momento per asciugarsi le lacrime; Vittorio capì quanto fosse difficile per la donna ripercorrere quella storia così dolorosa, e distolse lo sguardo.
   «Scusa» disse lei poco dopo. «Quando Vera si risvegliò, dopo l’incidente, si ritrovò senza una delle sue migliori amiche e priva di una gamba; e se i sensi di colpa per essere sopravvissuta a Noemi erano già abbastanza per distruggerla, aver perso la gamba fu il colpo di grazia». Cincischiò il fazzoletto con dita nervose. «Non so se qualcuno te l’ha detto, ma Vera era una ginnasta: lo siamo state tutte e tre, da piccole, ma lei è l’unica che abbia proseguito, passando presto dalla ginnastica ritmica a quella artistica. Era la sua grande passione; le piacciono gli sport in generale, e ritrovarsi mutilata l’ha costretta a rivedere tutta la propria vita e il proprio futuro. Era menomata, nel corpo oltre che nello spirito, e quando ha potuto iniziare a usare la protesi è diventata ancora più amareggiata, non ha parlato con nessuno per settimane. Siamo riusciti a farla uscire di casa soltanto per il battesimo di Ludovica». Le si formò un nodo in gola, ma si sforzò di continuare il proprio racconto. «Io te Tiziano le avevamo detto che la madrina sarebbe stata lei, o che Ludovica non ne avrebbe avuta una: è stato l'unico modo per trascinarla fuori dalla sua stanza. Sembrava che stesse bene, quel giorno: cercava di sorridere e parlare con tutti, coccolava Lulù… pensavamo tutti che finalmente ne stesse uscendo, che quello fosse solo il primo passo, che avremmo riavuto la Vera di prima. Non avevamo capito niente». Scosse la testa e scoppiò in lacrime.
   Vittorio, sempre più imbarazzato e in difficoltà, si allungò e batté una mano su quella della donna.
   «Scusa, scusami tanto» farfugliò Giulia. «È che quando ci ripenso...». Deglutì. «Per farla breve Vera, quando quella sera rientrò a casa, si chiuse in camera e mandò giù tutte le pillole su cui riuscì a mettere le mani. Ha provato a suicidarsi,e per poco non c’è riuscita: dopo una lavanda gastrica e una serie di sedute con lo psicologo si è ripresa, ha trovato un lavoro, ha iniziato a ricostruire la sua vita e non ha più provato a fare niente del genere, ma lo sappiamo tutti che non è davvero viva. È come se in quell’incidente fosse morta anche lei».
   Giulia non riuscì ad aggiungere altro; entrambi rimasero in silenzio a lungo, tanto che dopo un po' Tiziano azzardò un'occhiata in cucina solo per trovarli a guardare in direzioni opposte, chiaramente intenti a rimuginare. Il padrone di casa rimase a osservarli per dieci minuti buoni senza che si accorgessero della sua presenza.
   «E allora» disse infine, stanco di aspettare; Giulia e Vittorio si riscossero dalle loro riflessioni, registrando solo in quel momento la sua presenza. «Adesso che tu hai spettegolato per bene» disse a sua moglie, «e che tu sei bene informato su affari non tuoi» proseguì con un'occhiata a Vittorio, «siete soddisfatti? Spero di sì. Perché Vera non sarà affatto felice di questo» commentò duro.
   Giulia abbassò lo sguardo per un istante; ma quando tornò a guardare Tiziano, i suoi occhi brillavano determinati. «Tiziano, Vera è...»
   «Non si tratta di cosa Vera è, ma di cosa Vera ha» l'interruppe suo marito. «Il diritto alla privacy, per esempio. A decidere lei cosa raccontare della sua vita, a chi, quando e in che modo». Si strofinò la fronte con una mano. «Giulia, tu la conosci da molto più tempo di me e lo sai che s'infurierà come una belva, quando saprà che hai detto tutte queste cose di lei... a lui».
   «Ma Vera non può continuare a... a sopravvivere, come sta facendo adesso!» insorse Giulia.
   «Non spetta a te deciderlo» ribatté secco Tiziano.
   «Tu l'hai costretta ad andare allo stadio anche se lei non voleva!» sbottò la donna. «Perché quello che tu fai per lei va bene, e quello che faccio io no?»
   «Io l'ho solo spinta a riprendere una sua vecchia abitudine. Una sua passione» precisò Tiziano. «Tu, invece, hai appena infilato a forza nella sua vita una persona con cui non va d'accordo; perché scusa tanto se te lo dico» aggiunse, rivolto a Vittorio, «ma Vera proprio non ti sopporta, e il fatto che tu sappia tutte le cose peggiori che le sono successe, ti fa passare da uno sconosciuto sgradito a uno che la conosce troppo bene nonostante il suo volere. E come ho detto prima, questo la farà arrabbiare di brutto». Si coprì il volto per un istante e prese un respiro profondo. «Te ne devi andare» decretò. «Adesso devi proprio uscire da casa mia, e fammi il favore di non tornarci, men che meno per chiedere di Vera».
   «Tiziano...» esordì Giulia con rabbia.
   «No, lui ha ragione» la bloccò Vittorio, alzandosi. Iniziava a rimpiangere la propria curiosità: quello che aveva scoperto lo faceva soltanto stare peggio. Un senso di nausea gli aveva appesantito lo stomaco già da quando Luciano gli aveva detto dell'incidente, e il racconto di Giulia non aveva fatto che peggiorare la situazione. Sapeva che cose del genere accadevano ogni giorno, ma vedere coi propri occhi come un istante, uno solo, e una casualità sfortunata avessero stravolto una vita, lo disturbava profondamente. Tese la mano a Giulia, che la strinse. «Grazie per il caffè e... e le risposte». Tese la mano anche a Tiziano, ma l'uomo si rifiutò di prenderla. «Arrivederci» mormorò.
   In silenzio, Vittorio guadagnò la porta, seguito dal padrone di casa; quando fu sul pianerottolo scese le scale con passo stanco, e si chiese una volta di più chi gliel'avesse fatto fare, di seguire una vana curiosità che non gli aveva procurato altro che malessere.
   Mentre il carabiniere lasciava il palazzo, Tiziano tornò in cucina e fissò sua moglie, intenta a ripulire e mettere tazzine e cucchiaini in lavastoviglie.
   «Vera non te lo perdonerà» disse semplicemente.
   «Certo che lo farà: siamo come sorelle» rispose Giulia.
   «Questo non farà che renderla più arrabbiata: poteva aspettarsi da chiunque un tradimento simile, ma non da te» gli fece notare l'uomo.
   Giulia si voltò a guardarlo. «Addirittura tradimento!» commentò. «Io sto solo cercando di aiutarla, Tiziano».
   «Parlando degli affari suoi con uno sconosciuto?» disse scettico suo marito.
   «Parlando di lei con una persona che riesce a tirarla fuori dal guscio in cui si è rintanata» lo corresse la donna.
   Tiziano sospirò. «Quell'uomo la fa infuriare, Giù, e non penso che Vera abbia bisogno di altra rabbia: ne prova già abbastanza per conto suo. Anzi, forse è l'unica cosa che prova costantemente, da quando è tornata a casa dopo aver tentato di suicidarsi». Scosse la testa. «Non può farle bene, qualcuno che riesce soltanto a riattizzare il rancore che ha dentro».
   Per la prima volta da quando Vittorio aveva messo piede in casa loro, il volto di Giulia mostrò segni d'incertezza. «Magari non sarà sempre così. Magari, col tempo, quel Vittorio riuscirà a tirare fuori da Vera qualcosa di diverso dalla rabbia. In fondo continuano a incontrarsi... dovrà pur significare qualcosa, no? E se fosse un... che ne so, un segno del destino?» concluse, disperata.
   Tiziano si strinse nelle spalle: anche lui desiderava con tutte le proprie forze che Vera tornasse a essere, se non quella di un tempo – cosa impossibile, lo sapeva bene – almeno serena e capace di andare avanti, ma non riusciva ad avere la fede di sua moglie nel destino e altre cose del genere. Lui era concentrato sul presente, sul “qui e ora”, e la verità era che, in quel momento, Vittorio Valenti non faceva alcun bene alla loro amica.
   «Tanto ormai ci hai parlato: non si torna indietro» commentò rassegnato. «Però una cosa veramente utile per Vera puoi e devi farla subito» aggiunse. Porse il proprio cellulare a Giulia. «Dille che hai parlato con quel tizio prima che venga a saperlo da lui: almeno questo glielo devi, e lo sai».
   Giulia esitò per un istante, poi chinò il capo e prese il telefono dalle mani di suo marito. Avviò la chiamata e si mordicchiò un'unghia mentre sentiva gli squilli succedersi uno dopo l'altro.
   «Ve'? Sono Giulia. Devo dirti una cosa...»

******

Il pensiero di Vera e di quello che le era capitato aveva perseguitato Vittorio per tutto il fine settimana.
   La conversazione con Giulia aveva fatto sì che il carabiniere vedesse Vera sotto una luce diversa: quelle che gli erano sembrate incoerenze d'un tratto avevano assunto un senso, e anche se continuava a ritenere eccessivi alcuni atteggiamenti e reazioni della venticinquenne, cominciava a comprenderla meglio. Forse per questo, una parte della sua mente gli ripeteva da oltre tre giorni che delle scuse per come l'aveva trattata erano d'obbligo; e sebbene il suo orgoglio mal sopportasse l'idea, il suo buonsenso lo convinse del fatto che era la cosa giusta da fare.
   Quel lunedì pomeriggio, dunque, Vittorio parcheggiò davanti alla palestra frequentata da Vera ed entrò prima di poterci ripensare.
   «Buonasera» salutò la ragazza all'ingresso, rivolgendogli un bel sorriso. «Come posso aiutarla?»
   Vittorio si passò una mano sulla nuca. «Sto cercando Vera Nicolini».
   «E lei sarebbe?» chiese una voce alle sue spalle.
   Vittorio girò su se stesso e si trovò di fronte una donna sulla cinquantina, con i capelli cortissimi e l'espressione severa sul volto dai lineamenti delicati. Le tese la mano. «Vittorio Valenti».
   La sconosciuta soppesò con lo sguardo quell’uomo così fuori posto, lì dentro, prima di afferrare la sua mano e stringerla con vigore. «Giovanna Cottarelli. Vera è in sala, si sta allenando. Venga».
   Giovanna precedette Vittorio attraverso la porta e lungo un breve corridoio. I due sbucarono in un'ampia sala, in cui una ventina di ragazze facevano riscaldamento e si allenavano con i vari attrezzi. La donna proseguì verso  la parete di fondo e gli fece cenno con la testa di proseguire in quella direzione.
   Vittorio continuò a camminare e si avvicinò all’angolo in cui Vera, sdraiata su un tappetino con una tuta sformata e un top sportivo addosso, faceva addominali come se ne andasse della sua vita: tutta la sua pelle era lucida di sudore, e i capelli scuri sfuggivano in gran parte alla treccia in cui li aveva costretti.
   «Valenti. Sei venuto a impicciarti un altro po' degli affari miei?» sbuffò la ragazza. L'uomo la fissò, interdetto; lei si fermò per un istante e sbottò in una brevissima, cupa risata. «Non fare quella faccia: credevi davvero che Giulia non mi avrebbe detto della visitina che le hai fatto?»
   «In realtà non ci ho pensato affatto» ammise lui. La guardò con attenzione mentre Vera riprendeva l'esercizio. «Hai la faccia di una che si allena da un pezzo» considerò ad alta voce. «Non credi che dovresti fermarti?»
   «Già mi manca una gamba: se dovessi anche ingrassare, sarebbe davvero la fine» ansimò lei tra un addominale e l’altro.
   «Non mi sembra che tu corra questo rischio» commentò Vittorio.
   «Perché mi alleno tutti i giorni» ribadì Vera senza fermarsi. «È importante. È anche per questo che mi sono salvata: perché ero un’atleta, e il mio corpo era più forte della media. Mi ha permesso di resistere abbastanza perché i medici facessero quello che dovevano».
   Le sue ultime parole furono di un’amarezza quasi soffocante.
   «Non è la fine del mondo, sai» mormorò Vittorio.
   Vera smise di nuovo di allenarsi; puntò i gomiti a terra e si sollevò parzialmente, fissando l'uomo con occhi duri.
   «Non è la fine del mondo?» ripeté gelida. «No, immagino che per te non lo sia, visto che non sei tu quello che ha perso una gamba. Tu non sai come ci si sente a perdere una gamba senza nessuna colpa, a dover abbandonare la passione di una vita e ricominciare tutto daccapo; quindi, se sei venuto qui soltanto per dirmi queste stronzate, farai meglio ad andartene».
   «Sono venuto per scusarmi» disse piano l'uomo, gli occhi puntati sul pavimento. Quando Vera non rispose Vittorio rialzò lo sguardo, e scoprì che la ragazza lo stava fissando incredula. «Che c'è?»
   «Sei venuto qui per scusarti?» ripeté lei, scettica.
   Il carabiniere le rivolse una smorfia irritata. «Non sono mica una bestia, sai!» esclamò stizzito. «Ti ho trattata male, soprattutto il giorno in cui ti ho fermata per strada, anche se tu avresti potuto pure dirmelo, del tuo problema. Ci saremmo risparmiati una brutta ora tutti e due».
   «Io non devo niente a nessuno e, cosa più importante, non mi va di andare in giro a raccontare gli affari miei a chiunque: non voglio la pietà della gente, non mi serve e non so che farmene» dichiarò Vera.
   «Non si tratta di avere pietà, ma di sapere come stanno le cose per potersi comportare di conseguenza» la corresse Vittorio. «Cerchiamo di capirci: non mi fai pena, neanche un po'. Se tu fossi dolce, timida e malinconica magari proverei pietà, ma il tuo essere una stronzetta acida e intransigente mi salva dal provare simpatia per te. Sono venuto a chiederti scusa perché te lo dovevo, era la cosa giusta da fare, ma adesso siamo pari: da oggi in poi, potrò essere stronzo quanto te senza sentirmi in colpa».
   «Sarebbe un peccato chiederti di comportarti diversamente, visto quanto ti riesce bene essere odioso» replicò Vera senza battere ciglio.
   «Faccio del mio meglio per non sfigurare nel confronto con te» disse Vittorio; le voltò le spalle e se ne andò a passo deciso verso l'uscita, le mani affondate nelle tasche e un sorrisetto sul volto.
   «Impossibile raggiungere il tuo livello!» gli urlò dietro Vera. L'uomo si limitò a scrollare le spalle senza voltarsi né rallentare; lei si ributtò sul tappetino, incrociò le braccia dietro la testa e sbuffò, gli occhi fissi sul soffitto e la voglia di allenarsi svanita nel nulla.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Era passata un'intera settimana dall'ultima volta che Vera aveva visto Vittorio, e da quel gior­no la donna non aveva più trovato pace. Sebbene il carabiniere si fosse fatto vivo solo per chiederle scusa – a modo suo, certo, ma almeno era riuscito a pronunciare quella parola, cosa che l'ex ginnasta riteneva impossibile – Vera non era più riuscita a essere di buonumore per cinque minuti di fila. Per quale motivo si era preso il disturbo di andare a farle le sue scuse? In che modo aveva trovato la sua palestra, e prima ancora Giulia? Perché diamine aveva do­vuto invadere il suo spazio personale? La palestra era, paradossalmente, la sua unica oasi, e Giovanna la sola persona a non averla mai trattata in modo diverso, dopo l'incidente: così com'era stata brusca e sbrigativa nei modi per i diciotto anni in cui era stata la sua allenatrice, tale e quale era rimasta quando aveva scoperto dell'incidente di Vera e di come la sua allieva si era lasciata andare dopo l'amputazione della gamba. E se la cinquantenne non aveva mutato registro neanche in quell'occasione tanto grave, non c'era motivo di credere che l'avrebbe fat­to soltanto perché Vera era di malumore. Questo Vera lo sapeva bene; eppure neanche tale consapevolezza le impedì di lanciare gli attrezzi da una parte all'altra della sala senza alcun riguardo.
   Giovanna, esasperata dal suo comportamento, quando vide l'ennesimo tappetino fendere l'a­ria percorse la sala a passo di marcia.
   «Adesso basta!» esplose, le mani sui fianchi e un cipiglio furioso sul volto. Vera si voltò, sbuffò e lasciò cadere a terra una palla medica.
   «Che c'è?» bofonchiò in risposta.
   L'altra picchiettò la punta del piede a terra. «C'è che questo tuo malumore mi ha stancata» dichiarò senza mezzi termini. «Da quando quel tizio è venuto a parlarti, la settimana scorsa, non hai fatto che sbattere e sbuffare ogni singolo minuto che hai passato qui dentro. Si può sapere che problema hai?»
   Vera mugugnò qualcosa di incomprensibile.
   «In una lingua comprensibile agli umani, Vera!» scattò Giovanna.
   «Ho detto che quello era il carabiniere che mi ha fermata quel giorno in cui non sono potuta venire in palestra» scandì Vera. «Continuo a incontrarlo, e non lo sopporto: non sopporto lui, non sopporto i suoi modi, e non sopporto quello che mi dice e il tono che usa. Ecco perché sono di malumore: perché solo vederlo mi fa saltare i nervi!»
   «E, fammi indovinare... non lo sopporti» aggiunse sarcastica Giovanna, incurante dell'e­spressione infastidita dell'altra. «Che ti ha detto, per farti arrabbiare tanto?»
   «Chi? Quel coso lì?» bofonchiò Vera. «Ha detto che voleva scusarsi per come si era com­portato, il giorno in cui mi ha fermata».
   Giovanna inarcò le sopracciglia. «Be', certo, adesso capisco come mai ce l'hai tanto con lui» aggiunse, senza perdere la nota sarcastica.
   «Ha provato a dare la colpa a me!» sbottò Vera. «Ha detto che se io gli avessi spiegato del mio problema fisico, non ci sarebbero state incomprensioni e non sarebbe successo nulla!»
   «Ah, adesso capisco... è il fatto che lui abbia ragione e tu torto, a disturbarti tanto». Vera sbuffò come un toro inferocito, ma Giovanna non fece una piega. «So quanto sei orgogliosa e che non ti piace parlare di quello che ti è capitato, ma quell'uomo ha ragione e lo sai: non puoi nasconderti sempre. Non sei mai stata così, e anche se cambiare è una cosa naturale, di­ventare radicalmente diversi non lo è. Prima o poi dovrai trovare il modo di recuperare qual­cosa di ciò che eri prima dell'incidente».
   La venticinquenne rivolse a Giovanna uno sguardo rancoroso; poi le sue spalle si affloscia­rono e lei sospirò.
   «Continuano a dirmelo, Gio, ma io... io non so se c'è rimasto qualcosa, della vecchia me. Da dove devo cominciare?» sussurrò con voce rotta.
   Giovanna le si avvicinò; le prese il volto tra le mani e le accarezzò le guance con un movi­mento lento dei pollici.
   «C'è ancora tanto di quello che eri prima, Vera, anche se adesso non riesci ancora a vederlo» le disse con dolcezza. «Però so da cosa potresti cominciare» aggiunse con un sorri­so.
   «Cosa?» chiese Vera in sussurro.
   «Smettere di lanciare gli attrezzi qua e là» rispose secca Giovanna, lasciandole il viso. «Io l'ho pagata tutta questa roba, sai, e un tempo non avresti mai maltrattato così questi oggetti!»
   Vera non poté fare a meno di sbuffare una risata: Giovanna era sempre Giovanna, e il suo essere immutabile rappresentava per lei uno dei pochissimi punti saldi nella vita. Era addirit­tura rassicurante, la sua capacità di essere granitica anche quando cercava di consolarla e aiu­tarla.
   «Messaggio recepito» si arrese, sollevando le mani. Si chinò per prendere la palla medica, ma l'altra la fermò.
   «Lascia stare, Vera, posso pensarci io» mormorò la cinquantenne, già intenta a recuperare i tappetini sparpagliati ovunque. «Prenditi il resto del pomeriggio e va' a fare una passeggiata: l'aria fresca ti farà bene». Le rivolse uno sguardo eloquente. «Magari incontri pure il carabi­niere... in fondo non è niente male. Vale la pena di guardarlo» disse, e ammiccò.
   Vera emise un gemito inarticolato. Per un attimo il suo cervello le urlò di protestare, ma poi il buonsenso ebbe la meglio: discutere con Giovanna non sarebbe servito a nulla. Molto me­glio seguire il suo consiglio: c'era ancora un po' di luce, e un giretto all'aria aperta era proprio quello che le serviva.

******

Vittorio correva con passo regolare, scandagliando il parco con gli occhi. Anche se in teoria quello sarebbe dovuto essere un momento di relax, l’istinto del carabiniere era più forte: ave­re tutto sotto controllo per lui era una necessità, e osservare le persone che lo circondavano con il suo sguardo inquisitorio e penetrante ormai era un’abitudine. Emanuela lo detestava: gli diceva sempre che faceva sentire le persone sotto esame e le metteva a disagio, ma lui non poteva – né voleva – farci niente.
   Spazzando il luogo con lo sguardo per l’ennesima volta, Vittorio scorse un volto noto: Vera avanzava nella direzione opposta alla sua, arrancando nella scia di un giovane pastore tedesco che tirava il guinzaglio con foga, chiaramente frustrato dalla lentezza della padrona.
   «Fermo, diavolo d’un cane!» la sentì sbraitare mentre dava uno strattone al guinzaglio. Il cane si calmò: prese un’andatura più contenuta e Vera si asciugò la fronte sudata, borbottando contro il muso dell’animale, che proprio non capiva cosa avesse la sua padroncina da arrab­biarsi tanto.
   Ormai Vera era a tiro d’orecchi, e il carabiniere non resistette alla tentazione di stuzzicarla.
   «Neanche i cani lasci in pace?»
   La ragazza alzò lo sguardo, e quando vide Vittorio, gemette esasperata.
   «No, non è possibile: sei un incubo!» esclamò, piena di sconforto. «Che ci fai qui?»
   «Corro» rispose lui, guardandola come si guarda una persona particolarmente ottusa. Ab­bassò gli occhi sul cane, che gli saltellava intorno curioso nonostante i richiami borbottati di Vera. Allungò una mano e accarezzò la testa setosa dell’animale. «A quanto pare, al tuo cane sto simpatico».
   «È molto vivace» spiegò Vera. La sua espressione divenne insofferente. «Prima lo portavo qui a correre con me, ma adesso…»
   Vera abbassò lo sguardo sulle proprie gambe, avvolte in un paio di morbidi pantaloni blu scuro: a prima vista non si notava nulla, ma osservando con attenzione all'altezza della coscia si poteva indovinare la forma della protesi attraverso il tessuto.
   Vittorio non disse nulla: poteva solo sforzarsi di immaginare cosa significasse, per una gio­vane donna così attiva, essere costretta a imparare a vivere in un corpo che non poteva più as­secondare la sua indole sportiva ed esuberante. Si grattò la nuca, un po’ in imbarazzo.
   «Se ti fidi, lo faccio correre un po’ con me» si offrì.
   La ragazza tentò un mezzo sorriso. «Hermes è difficile da tenere a bada: anche se è adde­strato, scappa da tutte le parti. Non è cattivo, solo un gran giocherellone, e gli piace socializ­zare».
   Vittorio le rivolse uno sguardo ironico. «Hai dato al tuo cane il nome di un dio greco?»
   Lei lo guardò con sincera ammirazione. «Non mi aspettavo lo sapessi» ammise.
   «Non sono un cafone totale» replicò Vittorio. «Mio padre era appassionato di letteratura epica: quando ero bambino me la leggeva al posto delle favole della buonanotte, e mi ha inse­gnato tutto su queste cose. Che poi, perché proprio Hermes? Di solito tutti scelgono Zeus o Ares, come nome per il proprio cane».
   Vera scosse la testa, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso. «Visto che conosci il pantheon greco, saprai che Hermes è il protettore dei ladri. È per questo motivo che ho chiamato così la piccola peste a cui stai tanto simpatico: gli piace prendere le cose e nasconderle». Diede un buffetto sul muso del cane, che ansimò felice. «Il mio piccolo cleptomane».
   Vittorio si mise a ridere, divertito, e memore delle parole di Giovanna solo un'ora prima, Vera non poté fare a meno di guardarlo: in quel momento non sembrava più il carabiniere burbero e prepotente che tante volte l’aveva fatta arrabbiare, ma solo un uomo qualunque. Dopo tanto tempo passato a evitare la compagnia maschile, si accorse di stare osservando l’uomo, se non con interesse, almeno con curiosità: Vittorio aveva un bel sorriso e i lineamen­ti mascolini, insieme al velo di barba e agli occhi scuri e penetranti, lo rendevano affascinan­te. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, il suo sguardo era la cosa che le piaceva di più: un tempo, estroversa com’era, non si curava particolarmente di simili dettagli, mentre adesso uno sguardo attento la sollevava dall’imbarazzo di dover dare spiegazioni che l’addolorava­no. E anche se di solito Vittorio quel suo sguardo acuto lo usava per metterla a disagio, non per questo Vera l’apprezzava di meno.
   Certo, piuttosto che ammetterlo ad alta voce si sarebbe strappata la lingua con le sue stesse mani, ma era un dettaglio trascurabile.
   Per evitare che Vittorio si accorgesse che lo stava osservando, Vera zoppicò fino alla pan­china più vicina, seguita dall’uomo, sedette e frugò nella grande borsa che portava a tracolla. «Anche se non possiamo correre, però, ci siamo attrezzati».
   Pur sapendo che non era educato, Vittorio non resistette alla tentazione di sbirciare in quella borsa stracolma, e vide un po’ di tutto: portafogli, mazzi di chiavi, fazzolettini, bottigliette d’acqua e un’ampia gamma di giochi per cani.
   Vera estrasse da quel marasma una palla da tennis liscia e coloratissima: non appena la vide, Hermes agitò la coda con entusiasmo e abbaiò felice, scattando a destra e a sinistra.
   La ragazza liberò Hermes dal guinzaglio, poi si piegò finché i suoi occhi non furono quasi all’altezza di quelli del cane.
   «Ascoltami bene, Hermes: questa è l’ultima» scandì lentamente, mostrandogli la pallina az­zurra. «Trattala bene, o non ne avrai altre per due settimane».
   Hermes non sembrò interessarsi alla notizia: abbaiò a più riprese, impaziente di giocare, e con un sospiro Vera lo liberò del guinzaglio.
   Nonostante tutto, un piccolo sorriso si schiuse sul suo volto. «Pronto, Hermes?»
   Dopo un paio di finte, Vera lanciò lontano la palla; Hermes partì al galoppo, alla disperata rincorsa del giocattolo, e lei e Vittorio guardarono il cane seguire la parabola della sfera col naso puntato in aria.
   «Sei rigida anche con quel povero cane» commentò l’uomo, asciugandosi la fronte con il bordo della maglietta sformata che indossava; senza dire nulla, Vera gli passò una delle due bottiglie d’acqua che si era portata dietro e lui l’accettò in silenzio, sorpreso e riconoscente. «Centellinargli le palline non ti sembra un po’ troppo?»
   Soprappensiero, Vera si massaggiò il moncone di gamba. «Non è che lo faccio per indispet­tirlo, eh» rispose, un po’ infastidita. «A Hermes piacciono solo quelle specifiche palline: le vendono in un negozio per animali a Tor di Quinto, e io in quella zona ci passo solo una volta al mese. Di solito ne faccio una bella scorta, ma lui le strapazza fino a farle a pezzi. Questa settimana ha battuto ogni record: ne ha fatte fuori quattro» spiegò.
   Vittorio tenne gli occhi fissi sul cane, che tornava da loro con la pallina tra i denti e scodin­zolando: evidentemente era molto fiero di sé. «È un bel cane» commentò quando Hermes, dopo aver considerato per un attimo la padrona, scelse di deporre la pallina tra le mani di quell’umano puzzolente. Lanciò di nuovo la palla, e il cane ripartì alla carica. «Quanto ha?»
   «Quasi due anni» rispose Vera, sbuffando: Hermes era un traditore, a fraternizzare così col nemico. «Per fortuna i miei genitori amano gli animali, altrimenti ci sarebbe stata una guerra».
   «Hai altri cani?» le chiese.
   Lei rise. «No, solo Hermes. In compenso ho due splendidi gatti: Afrodite ed Efesto».
   «E la passione per la mitologia greca» la punzecchiò Vittorio.
   Vera lo ignorò. «Afrodite è bianca e nera, identica al Silvestro dei cartoni animati, e si dà un sacco di arie da diva. All’inizio avevo pensato di darle un nome normale, sai, ma ho scoperto quasi subito che è una gattaccia screanzata: mio padre detestava i gatti, io l’ho portata a casa di straforo e lui s’è infuriato, non voleva neanche vederla. Allora, anche se aveva solo due mesi, Afrodite ha iniziato a inseguirlo e corteggiarlo finché papà non ha ceduto: adesso sono inseparabili e lui è l’unico a cui faccia le fusa, quindi s’è beccata questo nome».
   Vittorio soffocò una risata. «Ed Efesto l’hai chiamato così perché è brutto, scostante e rifiutato da tutti?»
   «Oh, no! Il mio Efesto è un gattino tanto dolce e carino» insorse Vera. «Grigio chiaro, tigra­to, e con due begli occhi verdi. No, l’ho chiamato così perché è zoppo» disse amara. «Un giorno ero in macchina con mio padre, non molto lontano da casa; c’era un po’ di traffico e questi quattro gattini che inseguivano la loro mamma. Uno dei soliti tizi che non si curano di nulla, giusto davanti a noi, non si è preoccupato di guardare che i cuccioli si fossero spostati e con la ruota ha schiacciato la zampa anteriore destra a uno di loro».
   «E tu l’hai adottato» concluse Vittorio mentre accarezzava Hermes, che era tornato da loro.
   Vera scoppiò a ridere. «Alla fine sì... ma prima ho litigato con mio padre».
   «Non voleva che lo prendessi?» indagò l’uomo.
   «Anche» ammise Vera. Prese la palla dalle mani di Vittorio e la lanciò di nuovo. «Prima di tutto s’è infuriato perché sono schizzata giù dalla macchina e ho urlato al tipo davanti a noi di scendere, così potevo prenderlo a calci nel didietro; poi perché mi sono rifiutata di risalire finché non si è deciso a portare me e il gattino dal veterinario».
   Vittorio non aveva difficoltà a immaginarsela, arrabbiata e urlante, magari rannicchiata al margine della carreggiata, con il gattino ferito tra le mani e l’aria battagliera.
   «Credo si sia arreso soltanto per farmi contenta» proseguì Vera, ignara dei pensieri dell’uomo. «Ero uscita da poco dall’ospedale, e qualsiasi cosa chiedessi, cercavano di assecondarmi. Purtroppo per la zampa di Efesto non si è potuto fare nulla, è rimasta danneggiata, ma lui è un gatto coraggioso: ha affrontato le bizze di Afrodite, che all’inizio non voleva accettarlo in casa, e alla fine ha imparato anche a saltare sui mobili, nonostante la zampa. E poi lui e Her­mes sono inseparabili: devo chiudere Efesto in casa quando porto Hermes al parco, perché prova sempre a seguirci».
   Vittorio era stupito dal modo in cui si illuminava l’espressione di Vera nel parlare dei suoi animali: sembrava considerarli un misto tra amici, fratelli e figli. Forse, rifletté, li amava tanto perché le ricordavano lei stessa: Hermes, scattante e giocherellone, rappresentava quella che era stata prima di perdere la gamba; Efesto era l’unico che potesse capirla, afflitto dalla stessa menomazione; e Afrodite, altezzosa e gelosa dei propri spazi, teneva gli estranei a di­stanza proprio come faceva lei.
   «E tu, Valenti? Hai degli animali?» gli chiese Vera.
   Lui sbuffò. «Sì, uno: Emanuela, mia moglie». Vera gli sferrò un pugno nelle costole e Vitto­rio gemette di dolore. «Che c’è? Non si può neanche più fare una battuta?» si lamentò.
   «Sei un bruto» sbuffò Vera. «Un troglodita. Retrogrado e sessista».
   «E tu sei priva di senso dell’umorismo» grugnì lui, massaggiandosi la parte colpita. «Co­munque no, non ho animali: mia moglie non li vuole, dice che sporcano e danno fastidio».
   Vera storse la bocca. «Ovviamente non condivido. Anche se forse per lei, che deve già sop­portare te, avere anche degli animali sarebbe troppo».
   «Emanuela non sopporta un bel niente» scattò Vittorio. «Lei se ne sta bella comoda a Mila­no col suo lavoro e neanche si sogna di raggiungermi a Roma».
   La ragazza era sorpresa. «Perché no?»
   L’uomo digrignò i denti. «Perché è una stronza. Ti basta, come risposta?»
   «No» disse Vera, arricciando il naso. «Mi pare una valutazione del tutto arbitraria».
   «Allora diciamo che mia moglie non ha mai fatto mistero del fatto che il suo lavoro viene prima di tutto, prima anche di me». L’espressione di Vittorio divenne amara. «Non ha voluto neanche avere dei figli: abbiamo litigato per anni, ma non sono mai riuscito a convincerla».
   Vera lo scrutò, pensosa. «Allora perché non divorziate?»
   L’uomo sorrise sardonico. «Perché a lei non conviene, e io non ho voglia di imbarcarmi in una causa di divorzio: tanto siamo già due estranei, non cambierebbe molto».
   «Non mi sembrano dei buoni motivi per restare sposati» commentò lei, stringendosi nelle spalle. «Magari, se la lasciassi, saresti meno rancoroso e aggressivo nei confronti degli altri».
   «Da che pulpito». Vittorio le lanciò uno sguardo eloquente. «Sei tu quella che ha tentato di mordermi quando ti ho fermata per quel controllo, ricordi?»
   «Tu mi avevi fatta davvero infuriare» bofonchiò Vera.
   «Tu sei sempre infuriata» replicò lui.
   La donna tirò su la gamba sana e si abbracciò il ginocchio. «Spiegami un po’ perché ti sei sposato, se tua moglie mette il lavoro prima di tutto e a te questo non sta bene».
   Vittorio, che stava osservando Hermes rotolarsi nel prato con la pallina in bocca, si voltò verso di lei e inarcò le sopracciglia. «Lo sai che sei un’impicciona niente male?»
   «Potevi far finta di non vedermi, prima. Adesso è troppo tardi» replicò lei. «E poi vorrei ri­cordarti che non sei da meno: sei tu, quello che si è presentato a casa della mia migliore ami­ca solo per farti gli affari miei» precisò. «A proposito, si può sapere come hai fatto a trovarla?»
   L'uomo si lasciò sfuggire una smorfia e tastò le tasche della felpa; ne trasse un pacchetto di sigarette un po' malridotto, lo studiò per un momento e poi se lo rimise in tasca con aria ras­segnata.
   «Una sigaretta ci vorrebbe proprio» mugugnò.
   «Non svicolare» lo ammonì Vera.
   Vittorio sospirò. «Avevo il tuo nome e cognome. Ti ho cercata su Facebook, poi ho cercato quel Tiziano con cui eri alla partita tra i tuoi amici e dal suo profilo sono arrivato a quello di sua moglie. Dopodiché...». S'interruppe per un momento. «Ho fatto una ricerca veloce tramite il nostro sistema per trovare il loro indirizzo» bofonchiò a mezza voce.
   Vera la guardò incredula per un istante, poi sogghignò. «Un carabiniere stalker proprio non me lo aspettavo!»
   Vittorio arrossì e si grattò la nuca. «Non sono uno stalker!» protestò. «Volevo solo... solo...». Sbuffò e tacque.
   «Dai, Valenti, non te la prendere così: giuro che non ti denuncio» lo prese in giro la ragazza. «Adesso capisco anche come hai fatto a trovare la palestra che frequento: sta scritta nelle informazioni del mio profilo». Rimase in silenzio per un momento, persa in pensieri tutti suoi suoi, poi si strinse nelle spalle. «Comunque, questo risponde a una delle mie domande, ma non all'altra. Allora?» insisté imperterrita. «Tu e tua moglie?»
   «Va bene, va bene». Lui si appoggiò allo schienale della panchina e allungò le gambe. «Ero di stanza a Milano quando ho conosciuto Emanuela; abbiamo iniziato a uscire e poi siamo an­dati a convivere. Solo che a un certo punto stavano per trasferirmi di nuovo, nei primi anni è normale che ti spostino di continuo, e per poter restare a Milano con lei, ci siamo sposati».
   Vera rimase in silenzio per un bel po’, pensierosa.
   «Be’, ti sei sposato per un motivo imbecille, quindi ora non ti puoi lamentare se il tuo ma­trimonio non funziona» decretò impietosa.
   «Tu sì che sai come risollevare il morale della gente» replicò sarcastico Vittorio.
   «Ehi, meglio una dura verità di una bugia pietosa» disse Vera. «Le prime aiutano, le secon­de no».
   «Quindi se adesso ti dicessi che sei una piccola rompiscatole rigida, spesso rabbiosa e pro­babilmente bipolare, questo ti aiuterebbe?» chiese Vittorio, col chiaro intento d’infastidirla.
   «No, ma solo perché sono tutte cose che sapevo già» rispose lei con nonchalance. Diede uno sguardo all'orologio e sospirò. «Devo tornare a casa, si sta facendo tardi. Hermes! Qui!» chiamò.
   Il pastore tedesco arrivò al galoppo, la pallina stretta tra i denti. Vera gliela tolse dalla bocca e la mise in una busta dentro la borsa; il cane guaì scontento mentre la sua padrone tirava fuo­ri il guinzaglio e glielo agganciava al collare, ma lei lo ignorò. Solo a quel punto la ragazza riportò la propria attenzione su Vittorio.
   «Be', Valenti, non posso dire che sia stato un piacere, ma almeno è stato meno peggio delle altre volte» commentò. «Passa una buona serata».
   Vittorio accennò un inchino ironico. «È sempre un piacere avere a che fare con il tuo garbo e la tua delicatezza».
   Hermes partì alla carica lungo il viale, trascinandosi dietro Vera.
   «Tranquillo, Valenti, so di essere irresistibile: non devi sentirti in imbarazzo!» disse forte la donna mentre zoppicava rapida dietro il cane.
   Incredulo, Vittorio si appoggiò allo schiena della panchina e rise.

******

Quando Vera entrò nel giardino di casa, dieci minuti più tardi, il televisore del salotto sparava a tutto volume le voci di alcuni commentatori sportivi, e attraverso le tende della cucina pote­va vedere due sagome femminili muoversi nella stanza.
   Liberato Hermes del guinzaglio, Vera varcò la porta d'ingresso e seguì l'odore di cibo; in cucina, sollevò le braccia con un gesto drammatico. «Potete cessare il vostro affaccendarvi, donne: sono tornata. Adesso la vostra vita ha di nuovo un significato!»
   «Cretina» disse affettuosamente Giulia.
   «Sei sempre la solita» commentò Fabiola, alzando gli occhi al cielo.
   Vera sghignazzò tra sé. «Dovreste esserne felici: per quanto il mondo cambi, io rimango un punto saldo». Chiuse gli occhi e protese una mano, come a tenere a bada una folla immagina­ria. «No, no, vi prego, non c'è bisogno di fare così! Costruire un tempio in mio onore è ecces­sivo; una statua in oro massiccio che mi raffiguri sarà più che sufficiente!»
   «Sempre la solita» bofonchiò di nuovo Fabiola.
   «Come se la cosa non ti divertisse» le ritorse contro sua figlia senza rancore. «Posso darvi una mano?»
   «Abbiamo tutto sotto controllo». Giulia afferrò la sua migliore amica e la spinse su una se­dia prima di sedere a sua volta, poi le rivolse un lungo sguardo inquisitorio. «Lo sai che sei di buonumore? Ma proprio tanto».
   «Ma va?» replicò ironica Vera. «Meno male che me l'hai detto: io non me n'ero accorta!»
   «Non mi porterai fuori strada facendo la sarcastica» disse Giulia, agitandole contro un dito. «Che cos'è successo per farti tornare a casa col sorriso?»
   «Perché deve per forza essere successo qualcosa?» chiese Vera.
   «Perché fino a stamattina avresti staccato la testa a quasi tutta la gente che conosci» rispose sicura la sua migliore amica. Le due si soppesarono l'un l'altra con lo sguardo, poi negli occhi della seconda si accese una scintilla curiosa. «Non è che per caso hai incontrato il principe azzurro?»
   Vera la guardò, disgustata. «Se esiste il mio principe azzurro, spero si sia perso» decretò. «A che mi servirebbe, un tizio in calzamaglia celeste?»
   Fabiola ridacchiò e guardò sua figlia di sottecchi, curiosa; Giulia, invece, le agitò davanti una mano per zittirla.
   «Allora?» la incalzò.
   L'altra alzò gli occhi al cielo. «Sì, ho incontrato una persona...» ammise. Non appena vide la sua migliore amica rimbalzare sulla sedia, chiaramente elettrizzata, le rivolse uno sguardo incendiario. «Quel simpaticone con cui ti diverti tanto a spettegolare».
   Giulia la guardò con gli occhi sgranati, simile a un cerbiatto di fronte ai fari di un'automobi­le; poi, con sommo stupore di Vera, un sorriso malizioso si allargò sul suo volto.
   «Hai incontrato il bel carabiniere...» sogghignò. «Quindi è per questo che sei così allegra!»
   «Oddio, Giù, no. No» replicò sgomenta Vera. «Lo sai che quel tizio mi fa saltare i nervi...»
   «E allora perché sei tornata a casa felice e sorridente?» insisté l'altra.
   Vera incrociò le mani dietro la testa e sorrise compiaciuta. «Perché oggi sono stata io a far saltare i nervi a lui!»
   Giulia gemette di disappunto. «Dio, Vè, sei incorreggibile!» si lamentò.
   «Sei tu che ti fai i film mentali» ribatté Vera. «Te l'ho già detto un mucchio di volte che io quel Valenti proprio non lo sopporto...»
   «Sì è vero, me l'hai detto tante volte» convenne Giulia. «E sai perché? Perché ultimamente non fai che parlare di lui... soprattutto in quest'ultima settimana» aggiunse, insinuante.
   «Sei insopportabile» l'accusò Vera.
   «E tu sei una zuccona ostinata» controbatté Giulia. «Perché non ammetti che ti piace?»
   «Perché non mi piace» rimarcò seccata l'altra. «E se non la smetti di scocciarmi con questa storia» aggiunse, improvvisamente minacciosa, «dirò a Tiziano che pensi che Valenti sia bel­lo!».
   Giulia boccheggiò indignata alla minaccia dell'amica. «Perfida!»
   «Sei tu che mi costringi» sottolineò Vera.
   Fabiola batté un cucchiaio di legno pulito sul tavolo, proprio tra le due ragazze. «Smettetela di darvi fastidio!» intimò.
   Entrambe misero il broncio.
   «È stata lei a cominciare» mugugnò Vera.
   «È lei che continua a negare l'evidenza» bofonchiò Giulia.
   Fabiola si mise le mani sui fianchi e le guardò severamente; quando finalmente tutte e due tacquero, la padrona di casa inarcò le sopracciglia.
   «Era ora» commentò. «Adesso che avete smesso di comportarvi come due bambine, possia­mo parlare di cose serie» annunciò; guardò con attenzione Giulia, per poi passare a scrutare la propria figlia. «Questo Valenti è davvero così bello?» chiese maliziosa.
   Giulia lanciò un grido di trionfo e Vera fuggì quasi di corsa dalla stanza, inseguita dalle ri­sate delle altre due donne: se Vittorio Valenti non le fosse stato antipatico per il modo in cui si comportava, avrebbe potuto odiarlo anche solo per tutte le insinuazioni che Giulia – e adesso anche sua madre – faceva su di lui.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Quando gli agenti del primo turno rientrarono, Luciano ebbe una piacevole sorpresa.
   Vittorio si fece strada tra i colleghi fischiettando allegro, le mani affondate nelle tasche e l'espressione rilassata: dietro di lui, Claudio si sforzava di non ridere.
   «Chi sei tu, e che ne hai fatto di Vittorio Valenti?» chiese sgomento il maresciallo.
   Vittorio smise di fischiettare e lo guardò perplesso. «Perché?»
   I tentativi di Claudio di contenere la propria ilarità si rivelarono vani.
   «Perché sei di buonumore, Valenti, ecco perché» spiegò tra una risata e l'altra. «Da quando sei qui nessuno ti ha mai visto allegro o tranquillo, e adesso invece sono già quattro o cinque giorni che vai in giro senza provare ad azzannare qualcuno!»
   Vittorio si adombrò all'istante. «Ma quanto sei simpatico» replicò in tono burbero.
   «Ecco che subito se la prende» lo punzecchiò l'altro carabiniere, dandogli una spintarella con la spalla proprio in mezzo alla schiena. «Non metterti sulla difensiva, sto solo scherzan­do... pensavo che il nuovo Vittorio l'avrebbe capito».
   «Io sono sempre lo stesso» reagì il quarantenne.
   «Dillo al tizio che ti sorride dallo specchio» sogghignò Claudio.
   «Pastore, lascialo stare!» intervenne Luciano. «Una volta tanto che non è nervoso di suo, devi pensarci tu a farcelo diventare?»
   Claudio alzò le mani. «Non oserei mai!» ridacchiò. «E adesso scusatemi, ma ho due nane­rottoli a casa a cui ho promesso che saremmo andati al parco giochi, quindi è meglio se vado».
   Vittorio l'osservò allontanarsi con occhi pieni d'invidia.
   «Però è vero che sei di buonumore» disse Luciano per distrarlo. Sapeva bene il perché di quello sguardo, e se c'era una cosa che lo rattristava più del modo in cui Vittorio era riuscito a mettere a repentaglio la propria carriera, era proprio vederlo scrutare in quel modo ogni altro uomo che avesse dei figli, compreso lui stesso. «Mi fa piacere: somigli di più al ragazzino scalmanato ma buono che ho addestrato».
   L'altro alzò gli occhi al cielo, il pensiero di Pastore e dei suoi figli ormai scivolato in secon­do piano. «Mi rivorresti com'ero a diciotto anni?» chiese sarcastico. «Immaturo e impulsivo?»
   «Impulsivo lo sei ancora» commentò Luciano. «Io intendevo senza tutta questa rabbia nei confronti del mondo intero: perché quando avevi diciott'anni eri pieno di rabbia contro te stesso e non pensavo potesse esserci qualcosa di peggio, ma c'è. Il te di adesso è molto, molto peggio».
   Vittorio affondò di nuovo le mani nelle tasche e si strinse nelle spalle. «Sai che c'è, Lucià? Ho passato vent'anni a fare il mio dovere e l'ho fatto con passione e orgoglio, sai quanto, e ad amare una donna con cui forse non sono mai andato davvero d'accordo: adesso sono a un sof­fio dall'essere cacciato dall'Arma e il mio matrimonio è praticamente finito. Per cosa ho lavo­rato – per cosa ho vissuto – in tutti questi anni?» disse amaro.
   Luciano gli mise una mano sulla spalla e lo guidò verso il distributore automatico.
   «Tanto per cominciare hai imparato a non odiarti più, e questo è già un ottimo risultato» esordì, frugandosi le tasche alla ricerca di alcune monete. «Poi pensa a tutte le persone che hai aiutato, a tutte quelle che sono state al sicuro anche grazie a te. Sì, l'Arma ti ha punito per aver violato le regole, ma puoi vedere questa cosa come una possibilità di raddrizzare quello che non va nella tua vita e ricominciare a essere un ottimo carabiniere, perché è quello che sei sempre stato: anche se i tuoi modi spesso sono stati un po' ruvidi, diciamo così, le persone che si rivolgono alle autorità si sono fidate di te, e quando ce n'è stato bisogno hai sempre dimostrato di essere una persona gentile e comprensiva, con un gran cuore tutto sommato mor­bido». Infilò le monete nel distributore e pigiò un paio di pulsanti: un bicchierino di plastica cadde nei supporti e la macchina iniziò a ronzare. «Quanto al tuo matrimonio...». Sospirò. «Vittò, i matrimoni non sempre funzionano, e a volte funzionano all'inizio e poi si guastano. Lo capisco che prendi la cosa come una sconfitta personale, ma se pensi che il tuo matrimo­nio proprio non vada, allora secondo me hai solo due possibilità: o cerchi di rimettere insieme i pezzi per sistemare la situazione con Emanuela, o chiedi la separazione». Gli porse il caffè. «Dipende tutto da quello che vuoi: ma tu, lo sai cosa vuoi?»
   Vittorio fissò il liquido scuro. «No, non lo so» ammise in un sussurro.
   Luciano gli batté una mano sulla spalla. «E allora pensaci: qualche volta, trascinarsi dietro i problemi è peggio che dare un taglio netto alle cose».
   Il maresciallo si allontanò tranquillo in direzione del proprio ufficio mentre Vittorio conti­nuò a fissare il bicchierino di plastica e le volute di vapore che si alzavano dal caffè, con quella domanda su cui non s'era mai soffermato ormai prepotentemente in primo piano nella mente: che cos'era, che voleva?

******

Quel giorno, Vera uscì in giardino con un'idea ben precisa in mente: senza fermarsi a dire al­cunché ai suoi genitori, mise il guinzaglio a Hermes e andò diretta verso il parco che frequen­tava sempre.
   Anche se per molto tempo non se n'era resa conto, da quando aveva avuto l'incidente aveva abbandonato del tutto l'abitudine di portare Hermes al parco: all'inizio non ne aveva avuto la capacità fisica, poi le era mancata la voglia di tornare in quel posto dove era stata solita corre­re e rotolare sull'erba col proprio cane. Quel pomeriggio in cui Giovanna l'aveva cacciata dal­la palestra e lei aveva deciso, seguendo l'impulso del momento, di portare fuori Hermes, si era resa conto di quanto quelle passeggiate fossero mancate non soltanto al pastore tedesco, ma anche a lei stessa. La felicità di Hermes nel trascinarla per strada e poi scorrazzare e inse­guire la palla al parco le aveva fatto comprendere quanto avesse trascurato quel cane, con cui aveva avuto un rapporto quasi simbiotico fin dal primo giorno in cui l'aveva portato a casa, e si era vergognata del proprio comportamento: così quel sabato pomeriggio, libera dal lavoro, decise di portarlo di nuovo fuori.
   Appena arrivarono al parco, Vera liberò il cane dal guinzaglio e avanzò lenta lungo il viale, sorridendo dell'euforia di Hermes che le saltellava intorno e faceva piccoli scatti in avanti per poi tornare da lei.
   Cane e padrona passeggiarono per una buona mezz'ora lungo le stradine del parco e quando Vera vide comparire dal nulla Vittorio, intento a far dondolare una busta di plastica, neanche si sorprese: ormai erano diventati un’abitudine, quei continui incontri.
   A differenza sua, Hermes sembrò felicissimo di rivedere il suo nuovo amico.
   «Ciao, bel cucciolone» lo salutò Vittorio, grattandolo sotto il mento; il cane guaì felice. «Ciao anche a te, Gamba Bionica».
   Vera avvampò di rabbia. «Come mi hai chiamata?»
   Vittorio sogghignò. «Non ti scaldare troppo: stavo solo scherzando. L'avresti capito, se avessi un po’ di senso dell’umorismo».
   «Io ho un senso dell’umorismo fuori dal comune» replicò Vera con grande dignità.
   «Letteralmente fuori dal comune: nel senso che ha chiesto la separazione e si è trasferito» la punzecchiò ancora l’uomo.
   Vera strinse i denti, poi sorrise melensa. «Come va con tua moglie, Valenti?» chiese zucche­rina.
   L’espressione di Vittorio s’incupì di botto.
   «A quanto pare, sai dove colpire» mugugnò. «Mi sa che preferisco il tuo cane».
   «Anch’io preferisco il mio cane: a te, poi… ecco, a te preferisco persino gli scarafaggi» af­fondò il colpo la ragazza.
   Vittorio decise di ignorarla e si rivolse direttamente a Hermes. «Meglio giocare che parlare con la tua padrona. Che ne dici?». Il cane abbaiò e l’uomo guardò compiaciuto Vera. «Vedi? Anche lui è d’accordo con me».
   «Stupida solidarietà maschile» bofonchiò lei, tirando fuori dalla borsa un frisbee verde. Sia il cane che l’umano si accigliarono.
   «Niente palla?» indagò Vittorio.
   Vera agitò un dito contro Hermes, che si sdraiò pancia a terra e assunse un’espressione mortificata, schiacciando il muso tra le zampe. «Il signorino ha distrutto anche l’ultima; quindi, fino alla prossima settimana, si dovrà accontentare del frisbee».
   Vittorio sospirò con aria drammatica e aprì la busta. «Vedi, Hermes? Mai fare affidamento sulle donne. Rigide, sono rigide. Per fortuna, c’è il tuo nuovo amico che pensa a te».
   La ragazza, che stava per ribattere con una frase pungente, sentì le parole morirle in gola: Vittorio aveva appena tirato fuori un pacco delle palle preferite di Hermes.
   «Ma cosa… come…» balbettò, incredula.
   L’uomo scelse una pallina rosa e la lanciò, lasciando che Hermes partisse all’inseguimento; poi prese Vera per un braccio e la guidò verso la panchina più vicina.
   «Quando le hai comprate?» riuscì ad articolare lei quando furono seduti.
   «Un paio di giorni fa». Vittorio colse lo sguardo indagatore di Vera e scrollò le spalle. «Ho chiesto ad alcuni dei miei colleghi quale potesse essere il negozio di cui avevi parlato, e visto che non avevo niente da fare, ci sono andato».
   In Vera, lo stupore per quella gentilezza fu tale da non lasciare spazio nemmeno alla com­mozione. Quando poi si accorse che Vittorio aveva comprato ben due confezioni extralarge di palline, si mise a cercare il portafogli. «Non dovevi. Aspetta, ti ridò i soldi».
   La mano ruvida di Vittorio spinse la sua di nuovo nella borsa insieme al portafogli. «Non voglio niente».
   «Devo insistere» rispose Vera.
   «No, non devi». L’uomo le rivolse la sua espressione più irritante. «Il regalo l’ho fatto a Hermes, mica a te».
   La ragazza non riuscì a rispondere. Si limitò a guardare Vittorio: fissava Hermes, che salta­va felice e si rotolava nel prato di fronte a loro con la pallina in bocca, e un vago sorriso sod­disfatto gli aleggiava sulle labbra. Non l’aveva mai visto così rilassato: in quel momento ap­pariva in pace con il mondo, ed era così strano che non sembrava neanche lui.
   «Sai, Valenti» esordì lentamente Vera, «sei proprio...».
   «... stronzo?» concluse l'uomo per lei.
   La donna arricciò il naso. «Sì, ma non era quello che volevo dire adesso. Tu sei strano» an­nunciò.
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Da coglione, a stronzo, a strano: facciamo progressi!»
   Lei gli diede uno schiaffo sul braccio. «Mi lasci parlare?»
   «Se proprio devo...». Vittorio si piegò di lato per evitare un secondo colpo. «Sei violenta, ragazzina».
   «E tu irritante» sbuffò Vera. Incrociò le braccia e strinse le labbra prima di voltarsi dall'altra parte: il carabiniere si trattenne a stento dal ridere di fronte all'espressione petulante di lei.
   «Avanti, parla» la spronò mentre le punzecchiava le costole con un dito. «Sono strano, e poi?»
   «Perché, non basta?» brontolò Vera. Guardò gli occhi ridenti dell'uomo e alzò i propri al cielo. «Ti sei fatto la strada fino a Tor di Quinto solo per comprare le palline preferite del mio cane: dire che sei strano è il minimo».
   Il carabiniere si strinse nelle spalle. «Ne stai facendo un affare di Stato. Hai detto che tu da quelle parti ci passi solo una volta al mese, e immagino che tra il lavoro e tutto il resto non ti avanzi tempo per andarci quando ti pare: io invece, una volta finito il turno, non ho niente da fare, quindi non mi è costato nulla farmi una passeggiata in zona e approfittarne per cercare il negozio e comprare le palline. Tutto qui».
   Vera inarcò le sopracciglia. «Sarebbe “tutto qui” se l'avessi fatto per un amico o un parente... ma l'hai fatto per me». S'interruppe un momento. «O meglio, per il mio cane, ma è lo stesso. Insomma, tu non mi sopporti, ormai si è capito – e il sentimento è reciproco, eh – quindi la cosa mi confonde un po'».
   «Io non ti sopporto quando fai la strega acida» la corresse Vittorio. «Che è il tuo modo di fare di tutti i giorni, quindi sì, ai fini della nostra conversazione non ti sopporto praticamente mai... ma non sono cattivo come pensi tu» aggiunse, un po' offeso. «E poi non ho fatto niente di speciale, però a forza di parlarne inizio a pentirmene, quindi possiamo cambiare argomen­to?»
   Vera incrociò di nuovo le braccia e si affondò le dita nei bicipiti. «Non hai risposto alla mia domanda, prima».
   «Che domanda?» replicò lui, confuso.
   «Su come va con tua moglie» ripeté paziente la donna.
   «Quando ti ho chiesto di cambiare argomento, non intendevo certo dire che preferisco par­lare di questo» brontolò Vittorio. «E poi, perché ti importa?»
   Lei sospirò. «Neanche io sono cattiva come credi, sai?»
   Vittorio si accigliò e si grattò il mento. Hermes scelse quel momento per tornare da loro con la pallina tra i denti; l'uomo gliela tolse di bocca e lo accarezzò un paio di volte prima di lan­ciare di nuovo il giocattolo, per prendere tempo.
   «Con mia moglie non va» rispose lentamente il carabiniere, decidendosi a parlare. «Non ci vediamo da quando sono tornato a Roma e ci sentiamo forse due volte a settimana ormai... e solo per litigare». Si appoggiò allo schienale della panchina. «Sono stufo anche di pensare a lei: mi sembra che il mio matrimonio sia diventato una farsa, ma dopo quasi vent'anni insie­me non... non riesco ancora a pensare di dargli un taglio netto». Rise con disprezzo. «Forse perché non voglio ammettere la sconfitta, chissà...»
   Vera scrollò le spalle. «Io non ne so granché di queste cose, ma penso sia normale, avere difficoltà a lasciare una persona con cui hai trascorso metà della tua vita».
   «Be', non dovrebbe esserlo, se insieme non si sta più bene» commentò Vittorio. «È che mi sento come se mi avessero tagliato fuori dalla mia stessa vita, e questa cosa mi manda in be­stia».
   «Non sentirti solo» mugugnò Vera.
   L'uomo si voltò a guardarla e si rese immediatamente conto di quello che aveva detto. «Scusa. Pessima scelta di parole... pessima davvero».
   Vera scrollò le spalle una seconda volta. «Almeno tu non continui a ricordarmi che mi man­ca una gamba» disse in tono incoraggiante.
   Vittorio la guardò con tanto d'occhi. «Hai appena detto una cosa positiva su di me!». Si ac­casciò sulla panchina, una mano premuta sul cuore. «Presto, un defibrillatore! Il mio cuore non reggerà!»
   «Imbecille» bofonchiò Vera. Alzò gli occhi con l'intento di controllare Hermes appena in tempo per vedere il pastore tedesco partire alla carica verso due ragazzini che giocavano con un frisbee, fare un gran salto e afferrare il disco prima di ricadere a terra e saltellare con il giocattolo tra i denti, fiero di sé. «Hermes!»
   Il cane la ignorò e continuò a saltare a destra e a sinistra per evitare i tentativi dei ragazzi di recuperare il frisbee: a giudicare dal suo entusiasmo, lo considerava un fantastico gioco.
   «Io davvero non so che fare con quel cane!» esplose Vera. Si alzò per andarlo a prendere, ma Vittorio si mise in piedi a sua volta prima che lei potesse fare un solo passo.
   «Lascia stare, ci penso io» la bloccò. Vera sbuffò, ma non disse nulla: si limitò a fare un ge­sto eloquente con la mano in direzione di Hermes, e Vittorio andò dritto verso il punto in cui il cane continuava a rotolare e saltare tra le risate dei due ragazzini.
   I due guardarono Vittorio non appena fu vicino a loro: a occhio dovevano avere circa dodici anni, e sembravano divertiti quanto Hermes.
   «Bel cane! È tuo?» chiese il più alto dei due.
   «No, è della ragazza laggiù, quella arrabbiata» rispose Vittorio, indicando Vera: era ancora in piedi davanti alla panchina e fissava Hermes con uno sguardo di disapprovazione, le mani sui fianchi. Vittorio diede una pacca leggera sulla schiena del cane. «Sei nei guai, amico: molla l'arma del delitto e torna indietro con me, prima che la tua padrona si arrabbi sul serio».
   Hermes non sembrava pronto a rinunciare al suo nuovo passatempo; guaì intorno al frisbee e tentò di portarsi fuori tiro, ma Vittorio afferrò al volo il disco di plastica.
   «Non ci siamo capiti, caro amico peloso» disse il carabiniere. «Non sono venuto per trattare: molla il frisbee... e molla!» aggiunse; tirò il disco, Hermes fece altrettanto, e i due ragazzini scoppiarono a ridere. Vittorio guardò il cane dritto negli occhi. «Hermes, lascia il frisbee» ordinò con voce bassa e decisa. «Adesso».
   A malincuore, il pastore tedesco aprì la bocca; Vittorio restituì il frisbee ai due ragazzini, afferrò il collare di Hermes per assicurarsi che il cane non scappasse e lo guidò con delicatezza verso la panchina, dove furono accolti da una Vera indignata.
   «Cane cattivo!» sbottò la donna non appena Hermes le fu davanti. Il cane uggiolò e la guardò con occhi imploranti, ma lei non si lasciò intenerire. «Quante volte ti ho detto che non puoi andare a fare lo scemo con gli sconosciuti?»
   «Dai, Gamba Bionica, non è successo niente» commentò Vittorio, lasciandosi cadere di nuovo sulla panchina.
   «Valenti, Hermes sarà pure carino e coccolone, ma rimane un cane da difesa» ribatté secca Vera, sorvolando su quel soprannome che proprio non le andava giù. «Magari qualcuno che ha paura dei cani o semplicemente non sa che è addestrato e di buon carattere, se lo vede arrivare addosso a tutta velocità e si spaventa a morte. Potrebbero anche pensare che li stia attaccando, e io non voglio che nessuno si metta paura, né che il mio cane venga portato via per controllare che non sia pericoloso: va' a sapere che potrebbe succedergli!» esplose.
   Vittorio tacque per alcuni istanti. «Be', sì, tu hai ragione» ammise. «Però non ha fatto comunque niente di male...»
   Hermes appoggiò il muso alla panchina e guardò fisso Vittorio, quasi avesse capito che l'uomo lo stava difendendo.
   «Non guardare lui, Hermes: guarda me» lo richiamò Vera. «Tanto non è con lui che tornerai a casa, e non ci sarà sempre a perorare la tua causa! Sei stato cattivo, hai capito? Non si fa. E adesso resti qui: per oggi non si gioca più» proseguì, indicando il pavimento accanto alla panchina in un chiaro comando. «A cuccia!»
   Hermes si sdraiò con aria mesta e Vera sedette di nuovo. Lanciò un altro sguardo al cane. «Da quando hai scelto Valenti come tuo nuovo amico, stai diventando un ragazzaccio indisciplinato» lo rimproverò, agitandogli contro il dito. «Così proprio non va!»
   «E ti pareva che era colpa mia» bofonchiò Vittorio. Rialzò la testa con uno scatto d'orgoglio. «Ma non staremo qui a farci maltrattare: spostati, Gamba Bionica».
   «Smettila di chiamarmi così!» ringhiò lei.
   «Sì, sì, come ti pare: basta che ti fai più in là» rispose sbrigativo. «Dai! Muoviti!»
   Vera scivolò fino all'estremità della panchina; il carabiniere la seguì, poi batté la mano sulla seduta libera. «Hermes! Qui, bello, sali!»
   Il pastore tedesco non se lo fece ripetere: balzò sulla panchina, si sdraiò occupando tutto lo spazio libero e posò il muso sulla coscia di Vittorio, felice. Il carabiniere prese ad accarezzarlo e fargli grattini sulla testa e sui lati del muso; Hermes guaì contento e scodinzolò con tutta la forza che aveva.
   «Bello. Sei proprio bello bello bello» lo vezzeggiò Vittorio.
   «Sì, bravo, vizialo anche tu» mugugnò Vera. «Già c'è mio padre che gli dà gli snack anche quando non obbedisce e mia madre che di nascosto gli riporta i giochini quando glieli porto via per punizione: mancavi solo tu, a coccolarlo quando non fa il bravo».
   «Non è colpa nostra se Hermes è irresistibile» replicò Vittorio prima di rivolgersi al diretto interessato. «È vero che sei irresistibile, no?»
   Hermes abbaiò, soddisfatto delle attenzioni che stava ricevendo.
   «Vanesio» disse Vera a mezza voce.
   Tanto Vittorio quanto il cane la ignorarono. La ragazza decise di fare altrettanto: infilò le mani nelle tasche del giaccone e guardò distrattamente i passanti, prestando orecchio solo di tanto in tanto ai complimenti che il carabiniere sussurrava a Hermes e agli uggiolii di quest'ultimo. Rimase immersa nei propri pensieri tanto che, quando l'uomo accanto a lei le rivolse la parola, neanche lo sentì: Vittorio fu costretto a darle un colpetto con la spalla per attirare la sua attenzione.
   «Bentornata!» disse ironico Vittorio quando Vera si girò a guardarlo con espressione interrogativa.
   Lei sbuffò. «Che vuoi?»
   Vittorio si strinse nelle spalle. «Fare due chiacchiere? Intendiamoci, Hermes è cento volte più piacevole di te, ma con lui la conversazione langue».
   Vera tentò con scarso successo di reprimere una risata: il risultato fu uno strano grugnito nasale, e per soffocarlo si premette la mano sulla parte inferiore del viso. Quando finalmente riuscì a riprendere fiato, scelse di ignorare l'espressione compiaciuta del carabiniere.
   «D'accordo, Valenti: mi hai fatta ridere, quindi direi che ti sei guadagnato il diritto di parlarmi» decretò la donna.
   Lui inarcò le sopracciglia. «No! Sei davvero troppo generosa!»
   «Ehi, non farmi cambiare subito idea» lo ammonì.
   «Non sia mai» sghignazzò Vittorio. Per un istante Vera lo guardò malissimo e sembrò pronta a dargli un altro pugno; poi, con un grugnito incomprensibile, affondò ancora di più le mani nelle tasche. «Se spingi un po' di più, ci farai i buchi, in quelle tasche» aggiunse lui.
   Vera gli rivolse uno sguardo sardonico. «Sei irritante. E poi ti sorprendi che l'unico a sopportarti sia un cane...»
   «Non è colpa mia se sei suscettibile» le fece notare Vittorio.
   «Senti chi parla!» ribatté all'istante la donna, mettendosi diritta di scatto.
   Vittorio alzò le mani in un gesto conciliante. «Piano, ragazzina: non c'è bisogno di mordere. Piuttosto, perché non mi dici che lavoro fai?»
   Vera si lasciò di nuovo andare contro lo schienale della panchina. «Curioso, Valenti?»
   «Abbastanza» ammise lui. «È che non ce la vedo, una come te, ferma dietro una scrivania. Non se puoi evitarlo».
   La donna scosse la testa e ridacchiò. «Non hai proprio capito niente di me. Stai pensando al fatto che ero una ginnasta, vero?». Vittorio annuì. «Be', tuo padre non era l'unico a leggerti i classici al posto delle fiabe. Il mio, per esempio...»
   Vera si lanciò nel racconto dei propri studi e del lavoro per il professor Maesani, incalzata dalle domande di Vittorio, e quando i due si resero conto che il parco era praticamente deserto, l'ora di cena era passata ormai da un pezzo.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Vera aveva trascorso una settimana insolitamente tranquilla. Finalmente le sue giornate si era­no assestate su una piacevole routine: lavoro col professor Maesani al mattino, palestra tre pomeriggi a giorni alterni, e in quelli liberi lunghe passeggiate al parco con Hermes. Quel martedì sera aveva scelto di dedicarlo a Giulia e Tiziano: aveva cenato da loro, giocato con Ludovica, riso e scherzato con i suoi migliori amici come non succedeva da quasi un anno. Quando era rientrata a casa era mezzanotte passata, e sebbene in quel momento l'allegria l'avesse fatta sentire carica di energie, Vera aveva avuto il fondato sospetto che il giorno seguente sarebbe stata parecchio più stanca.
   Per sua fortuna, il mattino dopo ci pensò Eugenio a strapparla dall'intontimento.
   Erano le sette e venti; la ragazza era già al secondo caffè e seguiva distratta la rassegna stampa in televisione quando sentì suo padre incespicare giù per le scale e correre in salotto mentre parlava al telefono.
   «Sì... sì, l'ho trovato» annunciò trionfante la voce dell'uomo; pochi istanti più tardi, Eugenio sbucò in cucina. «Non lo so, sono in ritardo anch'io...»
   Vera rivolse uno sguardo interrogativo a suo padre. «Che è successo?» mimò, accompa­gnando il tutto con un eloquente gesto della mano.
   «Luciano e Anna sono stati a cena da noi ieri, e a Luciano è caduto il portafogli in sala» ri­spose in fretta Eugenio dopo aver scostato un po' il telefono, agitando il portafogli in que­stione. «Se n'è accorto solo adesso e gli serve, ma non fa in tempo a passare prima di andare in caserma e io sono in ritardo».
   «Be', glielo porto io, no?» disse semplicemente sua figlia. «Tanto sono in pari con il lavoro; devo aspettare che arrivi il professore per sapere cosa devo fare, e lui non arriva mai prima delle nove».
   Eugenio sospirò di sollievo e si premette di nuovo il cellulare sull'orecchio. «Lucià, tutto a posto: passa Vera in caserma a riportarti il portafogli, vai tranquillo. E di che, e di che... ci mancherebbe. Ciao». Diede il portafogli a Vera e le scoccò un bacio sulla guancia. «Grazie, tesoro».
   «Capirai pa', per così poco» rispose lei. «Ci vediamo stasera».
   «A stasera!» rispose frettolosamente Eugenio, già in corridoio.
   Vera scosse la testa tra sé e finì di bere il caffè; stava giusto mettendo la tazzina nella lava­stoviglie quando anche sua madre entrò in cucina.
   «Che era tutto quel casino, prima?» chiese Fabiola.
   «Soltanto papà che non vede mai le soluzioni che ha sotto il naso» sbuffò divertita Vera. «Senti, ma', hai bisogno di qualcosa? Perché devo uscire un po' prima e fare una cosa per papà, e se non ti serve una mano qua a casa, vado subito».
   «Tranquilla, tesoro, devo solo stendere i panni e fare le solite cose: non mi serve nulla» ri­spose Fabiola. L'abbracciò per un momento e le diede un bacio sulla guancia. «Mi raccoman­do, vai piano. Ci vediamo a pranzo».
   «Ci puoi scommettere: ho visto in frigo un avanzo di tiramisù col mio nome sopra» sogghi­gnò sua figlia. «Non osare toccarlo!»
   Fabiola alzò gli occhi al cielo. «Fossi matta! E adesso sbrigati, su».
   «Sissignora» ridacchiò Vera; mise al sicuro nella borsa il portafogli del maresciallo Testa, s'infilò la giacca e uscì.

******

Vittorio capì che qualcosa non andava prima ancora di aprire gli occhi.
   Con un grugnito, il carabiniere rotolò su un fianco e aprì gli occhi: la parete della sua vec­chia camera da letto lo accolse, ancora completa dei poster che aveva attaccato da adolescen­te. Nulla di strano, considerato che sua madre non aveva toccato né buttato nulla, dal giorno in cui lui aveva lasciato quella casa.
   Vittorio scalciò le coperte, si alzò e andò in cucina strofinandosi gli occhi.
   Agnese, sua madre, gli si avvicinò, e non appena fu seduto, gli diede un bacio sulla fronte e iniziò a lisciargli i capelli.
   «Buongiorno, amore di mamma» disse la donna. Vittorio mugugnò e provò a scostarsi, ma sua madre lo tenne fermo. «Sei ancora conciato così?» aggiunse mentre squadrava la vecchia tuta e la maglietta sformata con cui aveva dormito.
   «Mi hai costretto a venire qui alle dieci di sera per sistemarti quel dannato lavandino, hai insistito perché restassi a dormire da te e cerchi di farmi la predica appena sveglio?» bofon­chiò l'uomo. «Tu non mi vuoi per niente bene, ma'».
   Sua madre gli diede un buffetto tutt'altro che gentile sulla testa. «Lo dicevo per te: pensavo iniziassi il turno alle otto».
   «E allora?» sbadigliò Vittorio.
   In silenzio, Agnese indicò l'orologio appeso alla parete.
   «Le sette e un quarto!». Vittorio schizzò in piedi, ormai perfettamente sveglio, e si scara­ventò fuori dalla porta. «Cazzo, cazzo, cazzo!»
   «Modera il linguaggio, signorino!» gli urlò dietro sua madre.
   «Ma che modero» borbottò furioso Vittorio tra sé mentre s'infilava a tutta velocità i vestiti del giorno prima. «Me modera Luciano se faccio tardi, cazzo! N'artro richiamo no!»
   Agnese, che l'aveva seguito, lo guardò saltellare su un piede solo verso il corridoio e tentare contemporaneamente di allacciarsi l'altra scarpa.
   «Non fai colazione?» chiese candidamente la donna.
   «Ma che faccio, mààà» ruggì Vittorio. «Non c'ho tempo manco de lavamme la faccia e se­condo te me posso fermà a magnà? Me devo sbrigà!»
   Sua madre allargò le braccia. «Non c'è bisogno di scaldarsi: non ti trattengo mica».
   «E ce mancherebbe» grugnì lui; recuperò le ultime cose, spalancò la porta d'ingresso e cor­se giù per le scale saltando i gradini tre a tre, pregando tutti i santi che gli vennero in mente di arrivare in tempo al lavoro.

******

Alle otto meno un quarto, il comando di Tor Sapienza era pressoché deserto: quando Vera ar­rivò, c'era soltanto il carabiniere nella guardiola all'ingresso.
   «Buongiorno» salutò cordiale Vera, avvicinandosi al vetro. «Sono Vera Nicolini, avevo av­vertito il maresciallo Testa che sarei passata. È già arrivato?»
   Il carabiniere la squadrò, un po' sospettoso. «Un momento». Alzò la cornetta del telefono e compose un numero interno. «Maresciallo? C'è qui una ragazza che dice di doverla vedere...». Guardò Vera. «Come ha detto che si chiama?»
   «Vera Nicolini» ripeté paziente lei.
   «Vera Nicolini» ripeté il carabiniere nel microfono. «Subito, maresciallo». Mise giù la cor­netta e indicò un battente a vetri poco distante. «Oltre la porta vada a destra, l'ufficio del ma­resciallo è la terza stanza sempre sulla destra».
   «Grazie mille». Vera seguì le indicazioni del carabiniere e imboccò il corridoio: sentì le voci soffocate di alcune persone provenire dalla direzione opposta alla sua mentre cammina­va – probabilmente agenti che si preparavano a iniziare il turno – ma non si fermò fino a quando non arrivò alla porta in questione. Bussò forte e la porta si aprì; Luciano l'accolse con un gran sorriso, sebbene fosse chiaramente di fretta: era ancora in abiti civili e torturava l'oro­logio da polso.
   «Ciao, Vera!» la salutò il maresciallo.
   «Ciao, Luciano» rispose lei. Si frugò nella borsa e ne estrasse il portafogli. «Ecco qua».
   L'uomo prese l'oggetto e lo appoggiò alla scrivania dopo avergli lanciato un'occhiataccia, neanche fosse stata colpa del portafogli l'essergli caduto di tasca. «Grazie per esserti scomo­data a venire fin qui, Vera, sul serio».
   «Non c'è bisogno di ringraziarmi, dai: tanto il tempo ce l'avevo» rispose Vera. «Tu invece mi sembri di fretta, quindi non ti trattengo oltre».
   Luciano allargò le braccia in un gesto eloquente, come a darle ragione. «Lo ammetto, sono veramente in ritardo. Scusami...»
   «Ma va', scusa di che» lo liquidò Vera con un sorriso. Gli tese la mano, e lui la strinse. «Passa una buona giornata».
   «Anche tu, e salutami tuo nonno!» replicò Luciano.
   Vera lasciò l'ufficio e ripercorse il corridoio, poi si fermò un istante per rivolgere un cenno di saluto al carabiniere all'ingresso: era appena uscita dal comando quando Vittorio quasi la travolse.
   «Ehi, Valenti, già isterico di prima mattina?» sbuffò, aggrappandosi alla porta per non cade­re.
   «Sono in ritardo». L’uomo ringhiò a nessuno in particolare. «Non ho neanche fatto colazio­ne. Io non posso iniziare la giornata senza caffè, e non sono riuscito a berne nemmeno un goccio. E poi ho fame!»
   La ragazza arricciò il naso. «Lascia perdere la colazione, Valenti, e vatti a preparare, sennò il maresciallo ti prende a calci» lo ammonì, glissando sul fatto che Luciano stesso era in ritar­do.
   «Grazie del consiglio inutile» grugnì lui: girò sui tacchi e corse a prepararsi, maledicendo d’aver assecondato sua madre restando a dormire da lei.
   Vera lo guardò sparire nell'edificio e scosse la testa, sorridendo tra sé; poi se ne tornò alla propria auto e ripartì alla volta dell'università.
   Vittorio, al contrario di Vera, non le dedicò un secondo pensiero: si precipitò nella propria stanza e indossò la divisa in due minuti netti, poi si unì agli altri carabinieri già intenti a espletare le procedure obbligatorie prima di entrare in servizio.
   Nel momento in cui riemerse insieme ai colleghi del suo turno, nell’ingresso c’era soltanto un barista dall’aria scocciata.
   «Chi di voi è l’agente Valenti?» chiese. Quando Vittorio si fece avanti, gli ficcò un bicchie­rino di plastica e un sacchetto di carta tra le mani. «Caffè doppio, cornetto alla crema e sac­cottino al cioccolato» elencò.
   «Io non ho ordinato niente» replicò Vittorio, cercando di restituirgli il tutto.
   «Lo so» rispose sbrigativo il barista. «Ah, la ragazza che le ha pagato la colazione mi ha chiesto di darle anche questo» aggiunse, porgendogli un bigliettino.
   «Una ragazza? Valenti, che ti sei trovato un’ammiratrice?» lo presero in giro i colleghi.
   Lui non li ascoltò e aprì il foglietto. «“Una colazione sostanziosa tutta per te, così non ap­pesterai le orecchie del tuo collega lamentandoti per la fame. Vera”» lesse sottovoce. Sorrise suo malgrado: Emanuela non si era mai sognata di mandargli la colazione prima o dopo un turno, e non si era preoccupata di fargli trovare qualcosa di pronto da mangiare se non nei pri­missimi mesi di matrimonio. «Ehi!» urlò, richiamando il barista che già si allontanava. Alzò il caffè. «E lo zucchero?»
   Quello sbuffò. «La ragazza ha detto che era inutile metterlo, perché non basterebbe tutto lo zucchero del mondo ad addolcirla».
   Stavolta i suoi colleghi scoppiarono tutti a ridere di gusto.
   «Hai proprio un’ammiratrice… e che ammiratrice! Deve essere una tosta!» commentarono.
   Vittorio addentò il saccottino. «Oh, lo è».

******

Quel pomeriggio, Vera aveva il turno nella palestra di Giovanna; in tuta e con le mani sui fianchi, stava dirigendo già da venti minuti una ragazzina impegnata con gli esercizi sulla tra­ve quando Giovanna l'affiancò.
   «Vè, hai visite» annunciò la cinquantenne.
   «Chiunque sia, aspetterà» replicò l'altra prima di rivolgersi alla dodicenne che si allenava. «Diana, tesa la gamba avanzata, quando prepari la rondata: non piegare il ginocchio». Diana annuì ed eseguì l'esercizio, atterrando in piedi sul tappetino all'estremità della trave; anche Vera annuì. «Bravissima. Lo vedi che quando vuoi, ti riesce? Adesso torna su e rifallo».
   «Vera, ci penso io a seguire Diana. Tu vai all'ingresso» la richiamò Giovanna.
   La venticinquenne sbuffò irritata. «Giovà, mi dà fastidio che vengano a scocciarmi mentre sto lavorando: non lo devono fare a meno che non sia una questione di vita o di morte, e se fosse questo il caso, non saresti così tranquilla».
   Giovanna incrociò le braccia sul petto. «Vera, io apprezzo la tua etica sul lavoro, non sai quanto: quando sei qui non ti lasci distrarre da niente e nessuno per dedicarti completamente ai ragazzi, e non potrei chiederti di più. Quindi, se per una volta sono io stessa a dirti di farti distrarre per cinque minuti, dammi retta, va bene?» replicò. «Ah, il “va bene” finale è solo re­torico: vai all'ingresso e spicciati!»
   Vera alzò per metà le braccia, esasperata, poi si allontanò, consapevole che per nessun moti­vo Giovanna avrebbe ceduto. Percorso tutta la strada bofonchiando tra sé, e quando oltrepas­sò le porte che separavano l'ingresso dalla palestra vera e propria, si trovò davanti Vittorio.
   «Valenti» disse tra i denti la ragazza: se c'era qualcosa in grado di irritarla più di aver inter­rotto il proprio lavoro, era l'averlo fatto per quell'uomo. «Che ci fai qui?»
   «Sono venuto a ringraziarti per la colazione» rispose lui, le mani infilate in tasca e l'aria ri­lassata.
   «Figurati» commentò Vera con una scrollata di spalle. «Non c'era bisogno di venire fin qui solo per questo».
   «Mi andava». Vittorio colse l'espressione sbalordita di Vera e soffocò una risata. «Ti vorrei offrire una birra. Hai da fare, stasera?»
   «N-no» balbettò lei, ancora incredula. «Però non ce n'è bisogno, sai».
   Vittorio sospirò con aria da martire. «Perché stamattina mi hai pagato la colazione e me l'hai fatta portare in caserma?»
   Vera si strinse nelle spalle, improvvisamente insicura: quel mattino aveva solo seguito un moto dettato dall'istinto, facendo portare la colazione a Vittorio, e non si era voluta fermare a pensarci. «Non so... mi faceva piacere, ecco» pigolò.
   «E a me farebbe piacere offrirti qualcosa da bere» disse Vittorio. «Non rendere tutto più complicato come fai sempre: di' di sì e basta».
   «Io... va bene» cedette Vera. «Certo, però, che sei proprio un prevaricatore».
   «Sei tu che fai storie anche per le cose semplici» ribatté lui. «Va bene se ti passo a prendere alle nove?»
   «Guarda che ho sia la patente che la macchina» gli ricordò Vera.
   «Dio, perché devi sempre protestare?» esalò Vittorio, chiudendo gli occhi; si strinse la radi­ce del naso tra pollice e indice per un momento prima di guardare di nuovo la ragazza. «Quando invito una donna a uscire, che sia per amicizia o per altro, sono abituato ad andarla a prendere e riaccompagnarla: mio padre mi ha insegnato così. Quindi, per favore, puoi asse­condarmi e basta?»
   Vera alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Va bene, Valenti, come ti pare».
   Vittorio allargò le mani e guardò al cielo a sua volta in un muto gesto di sollievo, poi rubò un pezzo di carta e una penna dal banco della segretaria e ci scribacchiò sopra prima di darlo a Vera. «Questo è il mio numero: più tardi mandami un messaggio con l'indirizzo di casa tua. E non fingere di dimenticartene solo per darmi buca» l'ammonì con le sopracciglia inarcate.
   «Non oserei mai» rispose ironica Vera.
   «Non sei credibile» gli ritorse contro Vittorio, agitandole l'indice davanti al naso. «A stase­ra, Gamba Bionica» salutò mentre usciva.
   «Ancora? Non farmi pentire di averti detto di sì!» strillò furiosa Vera, ma l'uomo se n'era già andato. Incerta se essere esasperata con lui per quell'abitudine di farle saltare i nervi o con se stessa per aver accettato il suo invito, Vera si mise le mani nei capelli e borbottò oscenità per un intero minuto prima di decidersi a tornare da Giovanna, chiedendosi vagamente se la sua ex allenatrice, sua madre e la sua migliore amica non avessero fondato un fan club segre­to di Vittorio Valenti.

******

Vera non era certa di quale follia l'avesse posseduta quando aveva accettato l'invito di Vitto­rio; non l'aveva capito sul momento, e ancora meno riusciva a comprenderlo ore dopo. Erano ormai le nove meno un quarto; aveva mandato il messaggio come intimato dal carabiniere e in quel momento, con il cappotto in una mano e la borsa nell'altra, si chiese per la prima volta cosa avrebbe raccontato ai suoi genitori per spiegare il fatto che stava per uscire con un uomo a cui avrebbe volentieri staccato la testa.
   Sospirando tra sé, Vera uscì dalla propria stanza, sistemò cappotto e borsa perché non la intralciassero troppo e scese a fatica le scale; giunta nell'ingresso, appese tutto all'attaccapanni e seguì le voci dei suoi genitori fino al salotto.
   Eugenio fu il primo a notare la sua presenza.
   «Vè? Che ci fai vestita così?» chiese: in casa sua figlia era solita indossare tute e vecchie felpe, e non jeans e magliette scollate come in quel momento.
   «Esco» replicò lei. «Sono venuta ad avvisarvi».
   Suo padre le rivolse uno sguardo indagatore. «Esci» ripeté. «E con chi?»
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Con chi vuoi che esca, pa'? Non è che io sia una grande aman­te del genere umano. Non più, almeno» rispose con un pizzico d'amarezza, nel tentativo di sviare la domanda. «Non ho voglia di mettermi a fare nuove amicizie, credevo te ne fossi ac­corto».
   Eugenio la scrutò con attenzione per alcuni lunghi istanti, poi scrollò le spalle, apparente­mente convinto.
   «Mandami un messaggio quando arrivi e uno quando riparti» ordinò prima di tornare a guardare la televisione.
   «Sì» rispose Vera, alzando di nuovo gli occhi al cielo mentre andava verso la porta.
   «E non fare tardi» le urlò dietro Fabiola.
   «Sì-ì» cantilenò sua figlia; recuperò il cappotto e se lo infilò.
   «E divertiti!» gridò ancora Fabiola.
   «Sì, ma', sì!» urlò in risposta Vera: prese la borsa e zoppicò fuori dalla porta d'ingresso pri­ma che ai suoi genitori venisse in mente di dirle o chiederle qualcos'altro. In giardino accarezzò Hermes, che era corso da lei non appena l'aveva vista aprire la porta, e soppesò la macchina con lo sguardo prima di mettere il broncio e uscire dal cancello.
   La ragazza si guardò intorno: un paio di metri più avanti, sulla destra, c'era un'Alfa gt grigio scuro, ferma ma col motore e i fari accesi. Il guidatore mise il braccio fuori dal finestrino e lo agitò un paio di volte, e Vera raggiunse la macchina per poi buttarsi a peso morto sul sedile del passeggero.
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Comoda?»
   «Abbastanza» rispose Vera, ironica; tirò un po' indietro il sedile e osservò attentamente gli interni dell'auto. «Bella macchina» disse sincera.
   L'uomo batté una mano sul cruscotto con fare affettuoso. «Lo so». Ingranò la prima e si av­viò lungo la strada deserta. «Hai preferenze su dove andare, o ti fidi di me?»
   Vera sbuffò piano. «Visto che si tratta solo di andare a bere qualcosa, farò uno sforzo e pro­verò a fidarmi di te» disse. «Ma se mi porti in un qualche locale equivoco, giuro che ti am­mazzo» aggiunse minacciosa.
   «Pensi davvero che potrei portarti in uno strip club, o magari in un locale di scambisti? Non ci sono mai andato neanche quando ero ragazzo, di sicuro non inizierò adesso e con te» repli­cò Vittorio, alzando gli occhi al cielo per un brevissimo istante.
   «Tieni gli occhi sulla strada, va bene?» scattò Vera. «Quando avrai parcheggiato potrai pure camminare a occhi chiusi, ma fino a quel momento, guarda dove vai».
   Vittorio si morse la lingua per frenare la risposta aspra che gli era spontaneamente salita alle labbra. In una qualsiasi altra situazione, con un'altra persona, niente l'avrebbe fermato dal mandarla al diavolo; ma con Vera, ormai sapeva che si trattava solo di una reazione istintiva dettata dalla paura.
   «Posso parlare o devo anche stare zitto?» chiese calmo dopo aver preso un bel respiro.
   Lei ci pensò su per un po'.
   «Puoi parlare» concesse infine. «Ma solo se non mi fai infuriare».
   Vittorio sbuffò. «La serata promette bene» bofonchiò a mezza voce. Decise di tacere e acce­se la radio: entrambi ascoltarono la musica senza dire una parola, e dopo circa venti minuti arrivarono a destinazione.
   «Eccoci» annunciò Vittorio; parcheggiò vicino all'ingresso e corse ad aprire la portiera per far uscire Vera, che lo guardò con le sopracciglia inarcate e l'espressione beffarda. «Non guar­darmi così, non è un trattamento speciale riservato a te» mugugnò.
   «Non avevo dubbi».
   Chiusa la macchina, i due entrarono nel locale: un posto simile a molti altri, con tavoli di varie misure completati da sedie di legno e in alcuni casi delle panche, un lungo bancone ad angolo e un palco addossato alla parete opposta alla porta. Era caldo e, per essere mercoledì sera, piuttosto affollato.
   Vittorio fece un cenno di saluto all'uomo alla cassa, che ricambiò prima di indicargli un ta­volino seminascosto in un angolo; il carabiniere annuì e guidò Vera fin lì, poi le spostò la se­dia perché potesse accomodarsi. Quando lei gli rivolse l'ennesimo sguardo sardonico, lui s'in­cupì.
   «Togliti quell'espressione dalla faccia, ragazzina: faccio così con tutte le donne, a comincia­re da mia madre. Non sei speciale» ribadì.
   Vera intrecciò le dita e vi appoggiò il mento, guardandolo malandrina. «Anche con tua mo­glie?»
   «Per i primi otto anni» rispose Vittorio, sedendo a sua volta. «Poi una sottospecie di femmi­nismo deviato ha preso possesso del suo cervello e mi ha intimato di smettere di tenerle aper­ta la porta, o spostarle la sedia, e tutte queste cose, perché non è una bambolina delicata inca­pace di farlo da sola: come se il mio essere galante la rendesse meno indipendente».
   La venticinquenne scoppiò a ridere. «E poi dici a me che sono acida? Anche facendo del mio meglio, confronto a tua moglie resto uno zuccherino!»
   «Vero» convenne Vittorio. «Ma visto l'impegno che ci metti, mi sembra giusto premiare i tuoi sforzi».
   Vera rise ancora; era talmente intenta a sghignazzare che sulle prime non notò la cameriera che si era avvicinata al loro tavolo.
   «Buonasera» disse la ragazza. Aveva all'incirca l'età di Vera, e l'ex ginnasta la guardò con invidia: la sua pelle chiara sembrava liscia come seta e contrastava in modo netto con i capelli neri, e i lineamenti delicati facevano pensare a una bambola di porcellana finissima. In più, notò Vera con amarezza, non solo aveva entrambe le gambe, ma sembravano anche lunghe e affusolate, fasciate dai jeans aderenti che indossava. Più la guardava, più Vera si sentiva insi­gnificante: sapeva di essere carina, ma dall'incidente aveva iniziato a curare molto meno il suo aspetto e il suo abbigliamento, e quella ragazza così bella la faceva sentire sciatta e tra­scurata.
   Immersa in quei pensieri cupi, Vera non si accorse che Vittorio le stava parlando fino a quando non le schioccò le dita davanti al naso.
   «Ci sei?» chiese il carabiniere quando la vide battere le palpebre.
   «Sì, ci sono» mugugnò Vera. «Che mi sono persa?»
   «Ti ho chiesto se hai voglia di mangiare qualcosa» disse paziente l'uomo. Vera scosse la te­sta, e lui tornò a rivolgersi alla cameriera. «Non ci serve il menù, prendiamo solo da bere. Per me una...»
   Vittorio s'interruppe: Vera lo stava fissando con aria truce, quasi gli avesse letto nel pensie­ro l'intenzione di ordinare una birra. Sospirò.
   «Prendo una Coca-Cola» annunciò, rassegnato. «Per lei, invece, una birra media chiara» decise. Lanciò a Vera uno sguardo penetrante, quasi sfidandola a rifiutare.
   Vera arricciò il naso. Non amava bere sin da prima dell'incidente, e nell'ultimo anno aveva evitato con cura l'alcool... ma visto che quella sera non avrebbe guidato, poteva concedersi il lusso di gustare una birra e contemporaneamente fare l'esatto contrario di quello che il carabi­niere si aspettava.
   «La birra è perfetta» convenne, con un sorriso talmente finto che la cameriera fece fatica a ricambiarlo prima di andarsene. Vittorio scosse lentamente la testa; Vera, invece, si guardò in­torno, curiosa.
   «È carino questo posto» disse di punto in bianco. «Ci vieni spesso?»
   «Qualche volta, con alcuni colleghi» rispose Vittorio; si sfilò la giacca di pelle e si appog­giò allo schienale della sedia. «Mi annoio a stare sempre in caserma, e lì non è che ci sia granché da fare, soprattutto la sera».
   «A meno che tu non sia di turno, impegnato ad attirare su di te le ire degli automobilisti» lo punzecchiò la ragazza.
   «Oh, quello è senza dubbio il mio passatempo preferito» replicò ironico lui.
   «L'ho notato» commentò Vera sullo stesso tono. «Che poi non capisco perché quel giorno hai deciso di fermare proprio me».
   «Per via del colore della macchina: praticamente si vedeva solo la tua» rispose Vittorio. «Toglimi una curiosità: perché proprio rossa?»
   Vera s’incupì. «Perché è di un colore talmente acceso che non puoi non vederla» rispose piano.
   Lui non aggiunse nulla: sapeva che Vera stava pensando all’incidente. Cercò qualcosa da dire per distoglierla da quei ricordi, ma la fatica gli fu risparmiata dal ritorno della cameriera.
   «Ecco qua: la birra per la signorina» annunciò, mettendo il bicchiere davanti a Vera, «e la Coca-Cola per te» proseguì; appoggiò il secondo bicchiere sul tavolo e rivolse un sorriso lu­minoso a Vittorio. «Posso portarti qualcos'altro?»
   Vera digrignò i denti e lanciò uno sguardo malevolo all'altra donna. «Siamo a posto, grazie» rispose bruscamente prima che Vittorio potesse aprire bocca.
   La cameriera decise che era più saggio battere in ritirata: annuì una sola volta e si allontanò.
   Vittorio guardò con un misto di perplessità e fastidio la faccia scura di Vera.
   «Non trattare male quella poveretta» la redarguì.
   «Non ho fatto niente: ho solo risposto alla sua domanda» reagì lei all'istante. «E comunque, la prossima volta che vuoi andare a rimorchiare, portati dietro un tuo collega».
   Il carabiniere le lanciò uno sguardo sospettoso, mentre un pensiero improvviso gli attraver­sava il cervello: un'idea a dir poco impossibile, ma Vittorio decise di darle voce ugualmente.
   «Ragazzina» esordì cauto, «non è che sei gelosa di me?».
   Vera sbuffò come un toro inferocito di fronte a un drappo rosso.
   «Ti piacerebbe» replicò in tono asciutto.
   «Sicura?» insisté lui. «Perché mi sembri un po' troppo infastidita...»
   Lei lo guardò con qualcosa di molto simile a un pietoso disprezzo.
   «Valenti, a me non piace fare da spalla agli uomini quando vogliono sedurre una donna: l'u­nico che abbia mai aiutato è Tiziano, ma lui è mio amico ed era cotto di Giulia, quindi la si­tuazione meritava un'eccezione».
   Vittorio s'incupì al modo in cui Vera mise l'accento sul fatto che Tiziano fosse suo amico: ai suoi occhi era lampante come lei avesse voluto, in realtà, ribadire che loro due invece non lo erano. Le rivolse un'occhiata torva mentre lei, indifferente, si portava il bicchiere alle labbra e mandava giù un gran sorso di birra. Lui la imitò; rimasero in silenzio per quasi dieci minuti, ben decisi a ignorarsi a vicenda.
   Il primo a cedere fu Vittorio.
   «Sei sempre così... dura» commentò all'improvviso, calamitando gli occhi di Vera su di sé. «Sembra che non ci sia limite alla tua perfidia».
   «Infatti non c'è: ne ho una scorta extra nello scomparto segreto» replicò Vera, battendosi le nocche sulla gamba arti­ficiale prima di ridacchiare debolmente.
   Anche Vittorio, dopo un attimo di stupore, rise.
   «Questa era buona, lo ammetto» disse. D'istinto diede a sua volta una pacca leggera sul gi­nocchio sinistro di Vera, ed entrambi s’immobilizzarono: Vittorio le aveva toccato la protesi, e quello per Vera era un tabù assoluto.
   La ragazza si alzò di scatto, aggrappandosi al tavolo per non ricadere seduta.
   «Devo andare» disse con voce tremante; con dita incerte ripescò una banconota da dieci euro dalla borsa e la lanciò sul tavolo.
   Anche Vittorio si alzò, e provò a fermarla. «Aspetta, Vera, ti riaccompagno!»
   «Non c’è bisogno» rispose subito lei, sgusciandogli tra le dita. «Prendo un taxi. Ciao, Vitto­rio».
   Vera uscì dal locale alla massima velocità consentitale dalla gamba artificiale e l’uomo si lasciò ricadere sulla panca, sentendosi stranamente deluso.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Profumo di biscotti.
   Questa fu la prima cosa che sentì Vera quando arrivò a casa di Giulia: l'odore era tanto pe­netrante da permeare persino l'aria del pianerottolo, e una nuvola più intensa di quel profumo stava uscendo dalla porta socchiusa.
   «Ohilà!» chiamò Vera, entrando nell'appartamento. Dopo essersi richiusa la porta alle spalle andò dritta in cucina, sicura di trovare lì l'amica, e non rimase delusa: Giulia stava tirando fuori due teglie dal forno.
   «Che tempismo, arrivare proprio mentre sto sfornando i biscotti!» grugnì Giulia, sarcastica.
   «Non l'ho mica fatto apposta!» si difese Vera; si tolse la giacca e la buttò sulla sedia più vi­cina. «Posso aiutarti in qualche modo?»
   «Nah, questi sono gli ultimi: ormai ho finito» replicò la padrona di casa, sistemando le te­glie perché non cadessero.
   «Tanto meglio» rispose Vera; fece la linguaccia a Giulia, che le aveva appena scoccato uno sguardo esasperato, poi rubò un biscotto dal grosso contenitore poggiato sul tavolo apparec­chiato per il pranzo. «Certo, però, potevi anche fare un altro paio di infornate, perché mi sem­brano un po' pochini, questi biscotti» aggiunse ironica.
   «Ah-ah» replicò Giulia con una smorfia.
   «Sul serio, Giù, quanti biscotti hai preparato? Dieci chili? Undici?» insisté l'altra, decisa a punzecchiare l'amica.
   «Oggi pomeriggio ho due gruppi di ragazzini delle elementari: hai idea di quanto mangino sei bambini?» bofonchiò Giulia.
   «Quanto Tiziano da solo?» sghignazzò Vera.
   «Quasi» sbuffò l'altra. «È felice che io faccia questo servizio di doposcuola quasi solo per la quantità di dolci che cucino: ne avanzano sempre un po' e lui ci si ingozza sia prima che dopo cena».
   «Tipico suo: è senza fondo» commentò Vera. «E Ludovica?»
   «Da mia madre». Giulia mise via le teglie ormai vuote e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia. «Ho il primo gruppo tra un'ora: fammi fare il pieno di chiacchiere tra adulti prima che arrivino». Prese un panino dal piatto che aveva preparato prima dell'arrivo dell'amica, gli die­de un morso e masticò lentamente, scrutando con attenzione Vera; poi deglutì e si sporse ver­so di lei. «Hai riflettuto su quello che è successo ieri sera?»
   Vera appoggiò la fronte al tavolo con troppa forza: si sentì un tonfo, ma entrambe le donne fecero finta di nulla. «Ricordami per quale motivo ieri ti ho chiamata per raccontartelo» gru­gnì.
   «Ah, non lo so: so solo che l'hai fatto, quindi ora ti sorbisci tutte le mie domande» replicò decisa Giulia, posando il panino sul proprio piatto. «Lo sai che dovresti chiamarlo e scusarti per essere scappata, sì?»
   Vera mugugnò qualcosa, ma la sua voce venne soffocata dalla tovaglia.
   «Vè, anche se ti è antipatico, stavolta non ha fatto niente di male» insisté Giulia in tono pa­ziente. «Anzi, è stato carino, e lo sai. Mi spieghi perché sei scappata in quel modo?»
   «Mi ha toccato la protesi» mormorò Vera, rialzando la testa. «E lo so che l'ha fatto sovrappensiero, che non voleva schernirmi né... né altro, ma...» si torse le mani, «ma mi ha... mandata nel panico. Io... io...».
   «Tu non hai mai permesso a nessuno di toccare la tua protesi» concluse Giulia per lei, cal­ma. «Neanche a me. Neanche a tua madre, quando i primi tempi avevi ancora qualche diffi­coltà a prepararti per metterla e voleva aiutarti. Ti sei lasciata toccare solo dai fisioterapisti e dagli ortopedici che ti hanno curata, e lo capisco che per te sia ancora un trauma. Perché ti co­nosco. Perché siamo come sorelle. Perché fin dal primo giorno ti ho vista faticare per accetta­re di avere un pezzo di plastica e metallo a sostituire una parte del tuo corpo. Io lo so – ma Vittorio no, e per quanti difetti abbia, stavolta non è colpa sua».
   «Lo so che non può saperlo né capirlo. Ti giuro che lo so» rispose Vera, senza smettere di torturarsi le dita. «Ma è stato più forte di me. Mi è... mi è come mancata l'aria, quando ha appoggiato la mano sulla protesi, neanche potessi percepire il suo tocco. E forse è proprio quel­lo, che mi ha ferita». Una lacrima solitaria le scivolò lungo la guancia. «Non poter più sentire niente».
   Giulia si alzò e l'abbracciò, chinandosi su di lei.
   «Però questo lo senti» disse incoraggiante, stringendo le braccia intorno al corpo dell'amica. «E questo» aggiunse prima di scoccarle un bacio sulla testa. «E questo» proseguì in tono scherzoso, premendo appena il piede su quello sano di Vera. «Quando ti metti a pensare alla protesi e al fatto che lì non puoi più sentire nulla, ricordati di tutto il resto; ricordati di ogni altra parte del tuo corpo che ancora percepisce il tocco di qualcun altro, le carezze, il caldo e il freddo. Ricordati di questo».
   Vera annuì, tremante; si aggrappò alle spalle di Giulia e pianse.

******

Vittorio correva lungo i viali del parco, lanciando occhiate a destra e a sinistra per controllare ogni panchina sul suo cammino. Era occupato in questo modo già da mezz'ora: la sua fronte era madida di sudore e la maglietta che indossava esibiva una chiazza umida proprio al centro della schiena.
   Il carabiniere iniziò un secondo giro del parco, senza mai smettere di guardarsi intorno: bambini e cani affollavano i prati, mentre gli adulti li tenevano d'occhio dalle panchine e dai viali.
   Fu solo quando sentì un cane abbaiare molto vicino che Vittorio guardò di nuovo avanti a sé: a mezzo metro da lui, Hermes lo fissava e saltava come se avesse avuto le molle sotto le zampe.
   «Era ora» disse burbero Vittorio. Allungò la mano ed Hermes corse da lui per farsi accarez­zare. «Andiamo, grillo peloso: portami dalla tua padrona» aggiunse, dando due pacche sulla schiena del cane.
   Il pastore tedesco abbaiò di nuovo e scattò in avanti; Vittorio gli tenne dietro con una corsa leggera per una quindicina di metri, e finalmente trovò Vera. La ragazza era seduta da sola e stava leggendo alcuni fogli con tanta concentrazione da non accorgersi di Vittorio fino a quando il continuo abbaiare di Hermes non la costrinse ad alzare gli occhi.
   «Valenti» salutò scontenta. «Come fai a essere dappertutto?»
   Vittorio non si lasciò scoraggiare dal tono di lei e le sedette accanto. «Abilità di natura?» propose.
   «E io che speravo fossero solo coincidenze» mugugnò Vera.
   «Non oggi». La ragazza si girò a guardarlo e lui si strinse nelle spalle. «Sapevo che prima o poi saresti arrivata».
   «Quindi mi aspettavi». La voce di Vera suonava rassegnata mentre metteva via i fogli.
   «Sì. Dovevo ridarti questi» replicò Vittorio; frugò nel marsupio che portava in vita e ripescò una banconota da dieci euro che ficcò in mano alla ragazza.
   «Non li rivoglio» protestò Vera; cercò di restituirli a Vittorio, ma lui li afferrò e con un ge­sto fulmineo li infilò nella borsa semiaperta della ragazza per poi afferrarle le mani.
   «Lascia quei soldi dove sono, Gamba Bionica» disse perentorio. «Ieri avevo detto che vole­vo offrirti da bere» spiegò. «Se paghi la tua parte, viene meno lo scopo del mio invito». Le ri­volse uno sguardo provocatorio. «O magari stai tentando di farti invitare di nuovo a uscire?»
   Vera sbuffò. «No di certo, Valenti!»
   L'uomo sorrise dell'espressione indignata di lei; le lasciò le mani e si grattò la nuca. «Senti, la verità è che ti stavo cercando anche per un altro motivo. Io... io voglio chiederti scusa, se ieri sera ho fatto o detto qualcosa che ti ha infastidita».
   Vera batté rapidamente le palpebre, confusa. «Perché pensi che fossi infastidita?»
   Vittorio le rivolse uno sguardo altrettanto confuso. «Sei scappata» rispose semplicemente.
   La ragazza chiuse gli occhi e prese un respiro profondo.
   «Non posso credere a quello che sto per dire, ma tu non hai fatto niente di male, ieri» disse Vera dopo qualche istante di silenzio. «Se fossi stata infastidita o arrabbiata ti avrei mandato al diavolo: dopo tutti gli insulti che ti ho rivolto, ormai dovresti sapere che non ho problemi a dirtene di tutti i colori. È che ieri sera...». Esitò per un istante, poi si fece forza: una vocina, dentro la sua testa, continuava a ripeterle che Vittorio meritava una spiegazione degna di tale nome. «Ieri sera, quando mi hai toccato la protesi, sono andata nel panico. E non credo che sia stata colpa tua» aggiunse in fretta quando lo vide aprire la bocca per replicare. «Ci ho pensato, e credo che avrei reagito allo stesso modo anche se fosse stato qualcun altro, a farlo, perché non... non dipende da te: dipende da me». Si strofinò forte il volto con le mani. «Accidenti, non riesco a spiegarlo!»
   «Penso d'aver capito comunque» disse piano Vittorio. «Mi dispiace di averti toccato proprio quella gamba: l'ho fatto senza pensarci e non immaginavo che avresti reagito così... anche se forse avrei dovuto».
   Vera scosse la testa. «Io stessa non immaginavo che avrei reagito in quel modo: come avre­sti potuto prevederlo tu?»
   «Non lo so» rispose Vittorio con onestà. «So solo che non era quello che volevo: speravo di parlare un po' con te senza saltarci alla gola come facciamo di solito, e invece è andato tutto storto» aggiunse quasi tra sé.
   Vera lo guardò, incuriosita, poi s'infilò le mani in tasca e piegò la testa di lato, senza mai staccare gli occhi da lui. Il carabiniere rischiò di scoppiare a ridere: Vera aveva la stessa espressione di Hermes che, seduto davanti a loro, li scrutava battendo furiosamente la coda.
   «Che c'è di tanto divertente?» chiese la ragazza, interpretando correttamente l'espressione di Vittorio.
   Lui indicò Hermes. «Siete uguali» sghignazzò.
   Vera alzò gli occhi al cielo per un istante prima di tornare a osservare Vittorio con lo stesso sguardo curioso di poco prima.
   «Valenti, se ti faccio una domanda, prometti di rispondere sinceramente?» chiese a brucia­pelo.
   Vittorio le scoccò un'occhiata colma di sospetto. «Non me ne pentirò, vero?»
   Lei incrociò le braccia al petto e lo guardò male. «Certo che no!» rispose piccata. «Uomo di poca fede...» aggiunse in un borbottio ben udibile.
   Il carabiniere sospirò. «Va bene, allora: spara».
   Vera gli lanciò un altro sguardo torvo e per un attimo ebbe la tentazione di cancellargli quell'espressione da martire dalla faccia a suon di schiaffi, ma decise di lasciar perdere. Ri­fletté su come chiedergli cosa avesse voluto dire, affermando che la sera precedente era anda­to tutto storto, ma prima che potesse parlare il cellulare di Vittorio iniziò a squillare. Lui lo prese, lesse il nome di chi lo stava chiamando e fece una smorfia.
   «Scusa, ma a questa devo proprio rispondere».
   «Nessun problema» disse Vera.
   Il carabiniere accettò la chiamata. «Ciao, Emanuela. Come va il lavoro? Soddisfacente come sempre?» chiese pungente. Ascoltò in silenzio sua moglie, e più ascoltava più sul suo volto si dipingeva una rabbiosa incredulità. «Che significa, che non verrai a Roma neanche questo mese? Ma almeno l’hai chiesto, quel dannato trasferimento?». Digrignò i denti alla breve risposta di Emanuela. «Lo sapevo, Cristo! E no, non mi rifilare le solite cazzate su quanto sia importante il tuo lavoro! Sono tuo marito, cazzo!». Tacque, sempre più sconcerta­to. «Che cazzo significa, che ho smesso di essere tuo marito quando mi sono fatto rispedire a Roma? Non l’ho scelto io!». Ascoltò la replica di Emanuela e d'istinto scattò in piedi. «Ma che cazzo dici? Secondo te ho rischiato di farmi cacciare a calci in culo dall’Arma solo per essere degradato e rimandato a Roma? Io a Roma volevo tornarci da un pezzo, e per farlo mi sarebbe bastato chiedere il trasferimento: cosa che non ho mai fatto, e sai perché? Perché tu non volevi lasciare Milano!». Rise amaro, senza alcuna traccia di divertimento. «Ma smettila, Emanuela. Io lo so che non è solo per il lavoro, che non vuoi trasferirti. E visto che la metti così, se io ho smesso di essere tuo marito per essermi fatto spedire a Roma contro la mia vo­lontà, allora tu hai smesso di essere mia moglie già da qualche anno. Ti farò contattare dal mio avvocato per le pratiche della separazione, e non ti illudere di passarla liscia, perché sap­piamo tutti e due che posso ottenerla con l’addebito a tuo carico». Le urla della donna furono tanto alte da uscire dall’altoparlante del cellulare. «Non sprecare energie a urlare, e soprattut­to, non mi rompere più i coglioni. Addio».
   Vittorio chiuse la chiamata con il volto paonazzo e il fiato corto. Alzò lo sguardo, e si ac­corse che Vera la stava fissando con la bocca aperta e gli occhi fuori dalle orbite.
   L’uomo tornò a sedere. Vera fece per toccargli un braccio; si bloccò a metà del gesto, poi prese coraggio e appoggiò le dita sull’avambraccio di Vittorio. Lui non si spostò; con un mo­vimento lento estrasse dal marsupio un pacchetto di sigarette dall’aria frusta e un accendino, si ac­cese una sigaretta e prese una gran boccata.
   «Sto smettendo» spiegò a Vera, «ma aver mandato a fanculo mia moglie mi ha fatto venire voglia di festeggiare». Le allungò la sigaretta. «Vuoi?»
   Lei scosse la testa. «Io non fumo».
   Vittorio rise con un pizzico di sarcasmo. «Già, dimenticavo: la salutista, che non beve, non fuma, mangia sano e si allena tutti i giorni… e nonostante tutto, sta peggio di me!»
   Per una volta, Vera non se la prese: si rendeva conto che, per quanto il matrimonio di Vitto­rio potesse non essere stato ben riuscito, chiuderlo in quel modo l’aveva ferito.
   «Vittorio, stai bene?» gli chiese con dolcezza.
   Lui si alzò di scatto.
   «Sto benissimo, ho solamente bisogno di stare un po’ da solo» rispose brusco.
   «Va bene». Vittorio la guardò sorpreso, e Vera si sforzò di sorridere. «Muoviti, Valenti: va' a sfogarti, ma cerca di non staccare la testa a nessuno, per riuscirci».
   Vittorio annuì, schiacciò la sigaretta sotto la scarpa e dopo aver dato una pacca leggera sulla testa di Hermes a mo' di saluto, ricominciò a correre nella direzione da cui era arrivato. Vera abbracciò Hermes e guardò Vittorio sparire nei viali del parco, fingendo persino con se stessa di non essere delusa.

******

Vittorio rientrò al comando ancora fumante di rabbia, con i vestiti incollati alla pelle sudata e i capelli ritti sulla testa: senza neanche fermarsi dieci minuti per fare una doccia, andò a passo di marcia fino all'ufficio di Luciano e bussò con tanta forza da far tremare il battente.
   Nessuno rispose; in compenso pochi istanti più tardi la porta si spalancò, rivelando la faccia scura del maresciallo.
   «Valenti, pensi che tentare di buttare giù la porta sia una decisione saggia?» abbaiò.
   Vittorio s'insinuò nell'ufficio e prese a misurarlo a lunghi passi, le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati.
   «Mi serve un avvocato» annunciò a Luciano. L'espressione dell'altro passò da torva a mi­nacciosa, e Vittorio fece una smorfia. «Divorzista» precisò.
   Le sopracciglia di Luciano si sollevarono tanto da rischiare di raggiungere l'attaccatura dei capelli. «Addirittura? Ti va di parlarne?»
   Il quarantenne incrociò le braccia al petto. «Non c'è granché da dire. Emanuela non ha nes­suna intenzione di farsi trasferire a Roma, e la capisco: dopo due anni di relazione con il suo capo, non se la sente di lasciarlo» spiegò in tono acido.
   Luciano emise un fischio basso e prolungato, poi indicò a Vittorio una delle sedie di fronte alla scrivania; quando il più giovane si fu seduto, lui tornò alla propria poltrona, prese l'agen­da e la sfogliò per un paio di minuti prima di appuntare un nome e un numero di telefono su un pezzo di carta.
   «Quest'avvocato è molto bravo» commentò Luciano. «Gli basta poco per vincere le cause. Ma tu hai qualche prova che Emanuela ti tradisca?»
   Vittorio rise amaro; prese il foglietto e appoggiò i pugni sulla scrivania. «Lo sanno tutti che mi tradisce col suo capo: i suoi colleghi, la sua famiglia, i nostri amici... è peggio del segreto di Pulcinella».
   Luciano si accarezzò il mento. «Posso chiederti come mai hai deciso solo ora di chiedere la separazione, se hai sempre saputo che aveva una relazione con il suo capo?»
   L'altro si strinse nelle spalle. «Il nostro matrimonio si è rovinato almeno sei anni fa, e a me non interessava davvero quello che faceva: era più semplice ignorarla. E per lei valeva lo stesso: avrei potuto fare sesso con tutte le donne che avessi voluto, ma...». Scosse la testa. «Ci avevo creduto troppo, in quelle promesse, per tradirle. Volevo almeno conservare la dignità».
   «È più di quanto si possa dire di molti altri». Luciano si allungò e batté la mano su quella di Vittorio. «Sei un brav'uomo, Vittò, e qui puoi avere degli amici, se lo vuoi: buttati tutto alle spalle e ricomincia da capo. Ne sei in grado, e se dovessi avere bisogno di aiuto o anche solo di qualcuno che ti ascolti, ricorda che io ci sono».
   Vittorio sorrise debolmente e annuì. «Anche tu sei un brav'uomo, Lucià. Uno dei pochi che rispetto davvero». Alzò appena la mano che stringeva il foglietto e si alzò. «Meglio che vada a fare una doccia: puzzo».
   «Concordo». Luciano ridacchiò. «Cerca di non far impazzire Pastore, stanotte».
   «Farò del mio meglio». Vittorio raggiunse la porta e rivolse un'ultima occhiata all'amico. «Grazie di tutto, Lucià».
   «Quando vuoi» disse quieto l'altro mentre Vittorio lasciava l'ufficio.

******

Vera pestò i tasti del computer con tanta foga da farli scricchiolare.
   A quanto pareva, il professor Maesani aveva procrastinato per l'ennesima volta: quel matti­no si era presentato in ufficio tutto trafelato con la bellezza di tre saggi brevi da tradurre – due in inglese e uno in tedesco – pregandola di finirli il prima possibile, dato che la scadenza imposta dagli editori era fissata per quel pomeriggio. Per quel pomeriggio, si era ripetuta Vera con furia malcelata mentre lavorava a tutta velocità: aveva saltato il pranzo e convinto il suo cervello e la sua vescica che utilizzare il bagno non fosse necessario, ma il punto più alto l'aveva raggiunto cacciando il professore dal suo stesso ufficio per non farsi distrarre. Franco Maesani era di indole troppo pacifica per prendersela; in più aveva già ammesso di aver ri­mandato troppo a lungo la stesura di quei saggi, dunque era stato pronto ad accettare la scor­tesia di Vera senza battere ciglio.
   In quel momento, intenta a dare i tocchi finali all'ultima traduzione, Vera non si sarebbe mossa neanche se le fosse esplosa una bomba davanti al naso; quindi la porta dell'ufficio che si apriva passò completamente inosservata.
   Vera rilesse la frase che aveva appena sistemato, annuì tra sé e salvò il documento; mosse le spalle e il collo irrigiditi per distendere i muscoli, e quando alzò lo sguardo dallo schermo del computer si accorse di avere di fronte uno sconosciuto che la fissava.
   «Oddio!» urlò la ragazza, schiacciandosi contro lo schienale della poltrona. Si portò una mano al petto, il cuore che batteva frenetico, per poi scoccare uno sguardo cauto all'uomo. Doveva avere trent'anni o poco più; la barba e i capelli scuri tagliati corti le ricordarono vaga­mente Vittorio, ma il volto era più pieno e gli occhi più vivaci rispetto al carabiniere. «E lei chi è?»
   Lo sconosciuto non si scompose: le rivolse un sorriso e tese la mano.
   «Sono Fabio, un ex studente del professor Maesani» si presentò.
   Vera prese la mano che lui le offriva e la strinse debolmente. «Vera».
   Fabio si sistemò la giacca. «Il professore non c'è?»
   Vera mosse una mano verso le sedie in un muto invito ad accomodarsi, e l'uomo si lasciò cadere in quella più vicina.
   «Evidentemente no» rispose infine, accennando alla scrivania vuota dall'altro lato della stanza prima di controllare l'orologio: mancavano pochi minuti alle tre. «Dovrebbe tornare tra poco, però, se vuole aspettarlo» aggiunse.
   «Solo se non la disturbo» replicò Fabio. «Lei è un'assistente del professore?»
   La ragazza sbuffò. «No: mi ha assunta per tradurre gli articoli per le riviste internazionali. Sono la traduttrice e oggi sono praticamente Dio, perché ho fatto un miracolo: sono riuscita a rimediare alla pessima abitudine del professore di rimandare sempre tutto all'ultimo momen­to!»
   Senza alcun preavviso, Fabio scoppiò in una gran risata.
   «È bello sapere che certe cose non cambiano mai» commentò tra un singhiozzo di diverti­mento e l'altro. «Ricordo che la metà delle volte che prometteva di portarci delle dispense o qualsiasi altro materiale, finiva per presentarsi a mani vuote perché non aveva preparato nul­la!»
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Sicuramente capitava più della metà delle volte: direi almeno otto volte su dieci, se era già così».
   Fabio rise di nuovo, e stavolta Vera si unì a lui: i due erano ancora intenti a sghignazzare quando Maesani fece capolino nell'ufficio per accertarsi che fosse sicuro tornare lì.
   «Martini!» tuonò gioviale Maesani. Diede una pacca sulla spalla del più giovane e lo scos­se. «Sei passato a salutare il tuo vecchio professore, eh?». Guardò Vera. «Lo sa, signorina, che sono stato il relatore di questo screanzato? Mi ha fatto impazzire con quella tesi, conti­nuava a cambiarla. Alla fine però ne è uscito un gran bel lavoro, uno dei migliori che abbia mai supervisionato!»
   La donna inarcò le sopracciglia. «Ne so qualcosa di uomini che ti fanno impazzire con il loro lavoro» lo punzecchiò. «A proposito, le traduzioni sono pronte».
   «Ottimo, ottimo! Lei è la mia salvezza, signorina Nicolini». Maesani le rivolse un gran sor­riso, che si trasformò subito in un'espressione implorante. «Non è che le invierebbe per email alle redazioni?»
   Vera sbuffò. «Sì, sì, ci penso io – basta che mi dica a chi va inviato cosa».
   «Lei è la mia salvezza» ripeté convinto Maesani prima di dare un'altra pacca sulla spalla di Fabio. «Allora, Martini, andiamo a prenderci un caffè: voglio proprio sapere che stai combi­nando e mi conviene approfittarne, visto che non ti fai vedere quasi mai!»
   Fabio prese una penna, scribacchiò veloce il proprio numero di telefono su un pezzetto di carta abbandonato sulla scrivania e poi si alzò per seguire Maesani, ma non prima di aver ri­volto un piccolo sorriso a Vera. «Credo che passerò più spesso a trovarla, professore».
   Maesani tuonò la propria approvazione e lo trascinò via, e Fabio ebbe appena il tempo di scorgere Vera arrossire e ricambiare il suo sorriso.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


Era trascorsa una settimana da quando Vera aveva visto Vittorio per l'ultima volta e, anche se non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, iniziava a essere preoccupata: dopo che Vittorio aveva litigato con sua moglie e se n'era andato, la ragazza non l'aveva più visto né sentito e, considerata la frequenza con cui si incontravano di solito, tutti quei giorni di silenzio assoluto l'avevano messa a disagio. Così quel giovedì, dopo aver finito il lavoro dal professor Maesa­ni, Vera era andata dritta al comando di Tor Sapienza e si era seduta su un muretto lì di fronte, decisa ad aspettare per tutto il tempo necessario che Vittorio emergesse dall'edificio.
   Erano quasi le quattro quando le volanti iniziarono a rientrare per il cambio turno. Vera non riuscì a individuare Vittorio nelle auto che le passavano davanti; fu lui a vederla, e non appe­na scese dalla macchina le andò incontro con un misto di perplessità e preoccupazione sul volto.
   «Ehi» disse; tese una mano per aiutare Vera ad alzarsi e lei l'accettò. «Che ci fai qui? È successo qualcosa? Da quanto sei seduta su questo muretto?»
   «È un interrogatorio, Valenti?» sbuffò divertita la ragazza.
   «Solo qualche domanda più che lecita» ribatté il carabiniere. «Allora?»
   Vera si strinse nelle spalle. «Come stai?»
   Lui la guardò in un modo che Vera non riuscì a decifrare. «Sei venuta qui per questo? Solo per questo?»
   «Sì» rispose Vera, come se passare più di due ore seduta su un muretto in attesa di qualcuno fosse la cosa più naturale del mondo. «È da una settimana che sei sparito ed è tipo un record: iniziavo a credere che qualche automobilista si fosse arrabbiato durante un controllo e ti aves­se investito» lo punzecchiò.
   «Scherza, scherza» mugugnò lui. «Un paio di volte ci hanno provato».
   Vera soffocò una risata prima di parlare ancora. «Allora, come stai? L'ultima volta che ci siamo visti eri arrabbiato di brutto».
   Vittorio s'infilò le mani in tasca e si guardò intorno, pensoso.
   «Sto... meglio, credo» disse infine. «Più tranquillo, sai: ho parlato con un avvocato e avvia­to le pratiche per la separazione» le rivelò. «Avrei dovuto farlo appena ho scoperto che mi tradiva...»
   La ragazza sgranò gli occhi. «Ti tradisce pure?»
   Lui si strinse nelle spalle. «Ha una relazione col suo capo che va avanti da un paio d'anni, non è più una novità. Adesso spero solo che quella stronza non faccia storie: voglio che que­sta farsa di matrimonio finisca il più presto possibile» aggiunse in un ringhio.
   «Mi sembri troppo nervoso perché possa essere la verità» disse cauta Vera. «Non ti senti... ferito? Neanche un po'?»
   L'uomo le rivolse uno sguardo incerto e parve riflettere attentamente sulla risposta. Dopo l'ultima lite telefonica con Emanuela, l'unica cosa che Vittorio aveva provato nei confronti di sua moglie era stata rabbia: per essersi allontanata da lui quanto lui si era allontanato da lei, per aver deciso di tradirlo con regolarità negli ultimi due anni, per non aver neanche provato a stargli vicino quando era stato trasferito a Roma. Quella stessa rabbia, simile a una fiamma­ta alimentata dalla benzina, l'aveva spinto a muoversi in modo rapido e deciso per avviare la separazione e rimuovere definitivamente Emanuela dalla propria vita, e non c'era stato posto per nient'altro: adesso che Vera gliel'aveva chiesto, però – adesso che con la sua solita sfac­ciataggine l'aveva costretto a pensarci – Vittorio si era reso conto di aver agito in quel modo nella speranza che risolvere velocemente la situazione diminuisse il dolore, così come si strappa via un cerotto con un colpo secco per non sentire nulla.
   Era ferito, proprio come aveva suggerito Vera con quella domanda. Ferito dal fatto che vent'anni della sua vita stessero finendo così: con rabbia, con risentimento, e con la sensazione del tradimento sempre annidata in fondo allo stomaco.
   Vittorio sbuffò e annuì controvoglia prima di guardare Vera. «Come fai a sapere meglio di me quello che provo?» chiese con sincera curiosità.
   «Ti guardo, Valenti» replicò lei. «Se uno ti osserva abbastanza a lungo, riesce a leggerti in faccia buona parte di quello che pensi».
   Vittorio s'imbronciò. «Mi sa che non ci parlo più, con te» bofonchiò.
   «Perché? Hai forse qualcosa da nascondermi?» lo stuzzicò Vera; per accentuare il tutto gli affondò un dito tra le costole.
   Il carabiniere le schiaffeggiò con delicatezza la mano per allontanarla. «No, ma comunque un po' mi scoccia, che tu possa capire quello che mi passa per la testa».
   «Dai, Valenti, non tenermi il muso» disse allegramente Vera, per metà divertita e per metà soddisfatta dal fastidio di lui. «Qualsiasi cosa vedrò sulla tua faccia, prometto di non usarla contro di te. Così va bene?»
   Vittorio ci rifletté con attenzione. «Immagino di non poter ottenere nulla di meglio» sospirò infine.
   «Certo che ti lamenti sempre» commentò Vera. «Non te l'hanno mai detto che chi si accontenta, gode?»
   Lui si strinse nelle spalle. «Io non mi accontento. Odio le cose a metà: o tutto, o niente».
   «E questo spiega il tuo essere costantemente scontento».
   «Scusa, ma tu non eri venuta qui per sapere come sto? O era solo una scusa per infastidirmi come tuo solito?»
   «Guarda che quello fastidioso sei tu». Vera tacque per un momento e arricciò il naso. «Per­ché finiamo sempre per bisticciare?»
   «Perché abbiamo entrambi un carattere impossibile» rispose pronto Vittorio. «Hai da fare?»
   La ragazza, spiazzata dalla domanda inaspettata, rimase in silenzio per qualche istante. «No» rispose infine. «Perché?»
   «Perché se mi dai mezz'ora sbrigo le formalità di fine turno, mi cambio e andiamo a man­giarci un tramezzino: sto morendo di fame» spiegò lui.
   «Ecco, questa è un'idea» esclamò Vera. «Allora ogni tanto anche tu ne hai di buone!»
   «Simpatica» borbottò Vittorio; la punzecchiò tra le costole con un dito per ripagarla di quanto aveva fatto poco prima e sorrise nel sentire il verso indignato di lei. «Allora aspettami – nella sala d'attesa, va bene? Non stare qui fuori da sola».
   Vera alzò gli occhi al cielo, ma lo affiancò comunque ed entrambi si avviarono in direzione dell'ingresso. «Sì, papà» disse con voce strascicata.
   Vittorio mise su una faccia nauseata. «Non dirlo neanche per scherzo».
   «Perché? Ti dà fastidio?» indagò Vera. Vittorio annuì e lei inarcò un sopracciglio. «Ecco, questo è un ottimo motivo per ripetertelo in continuazione» aggiunse compiaciuta.
   «Insolente» replicò l'uomo, ma senza vigore: ormai ci aveva preso gusto, a quei continui battibecchi. Varcarono la soglia e lui le indicò la stanzetta in questione. «Cerca di non combinare guai mentre mi aspetti».
   «Sì, papino» cinguettò Vera.
   Vittorio alzò gli occhi al cielo, esasperato. «E smettila» grugnì un istante prima di scoccarle un rapido bacio sulla guancia. Quel gesto sorprese Vera al punto da ammutolirla; Vittorio spa­rì oltre la porta a vetri e la ragazza rimase in attesa, lo sguardo perplesso e la punta delle dita appoggiate inconsciamente sul punto in cui le labbra del carabiniere l'avevano sfiorata.

******

Il pub traboccava di persone, com'era lecito aspettarsi il sabato sera: un gruppo rock si esibiva sul palco, e la musica e le voci degli avventori si intrecciavano in un mix di cui era difficile distinguere le singole componenti.
   Vittorio guardò con occhi distratti la band: allungato scompostamente sulla sedia, con la birra in mano e un piede che continuava a punzecchiare le caviglie di Claudio nella speranza d'infastidirlo, era l'immagine della tranquillità. Era così da un paio di giorni, ormai: dopo aver parlato con Vera, la furia che aveva provato nei confronti di sua moglie si era sgonfiata come un palloncino bucato e Vittorio era riuscito a calmarsi abbastanza da ammettere che forse tut­ta quella rabbia non nasceva soltanto dal tradimento di Emanuela, ma anche – e soprattutto – dal fatto che la cosa in sé aveva avuto il potere di ferirlo.
   Lo sbuffo irritato del collega lo riportò alla realtà.
   «La smetti?» si lamentò Claudio. «Se continui a prendermi a calci, domani sarò pieno di lividi».
   «Calci?» gli fece eco Vittorio. «Ti sto a malapena toccando!»
   «Continua a trattarmi male, e con te non ci esco più» minacciò Claudio. «Non ti meriti la mia compagnia una sera a settimana!»
   Vittorio sogghignò. «Da quando sei così permaloso?»
   L'altro mise il broncio e il ghigno di Vittorio si allargò: Claudio aveva trentaquattro anni, ma a volte gli ricordava un bambino petulante. O magari era solo una sua impressione: in fondo, Luciano pensava lo stesso di lui.
   «E tu da quando sei così simpatico?» disse Claudio di rimando. «Negli ultimi due giorni sei stato vergognosamente allegro».
   «Da quando essere allegri è una vergogna?» inquisì l'altro.
   Claudio gli rivolse un sorriso angelico. «Da quando si tratta di te: tu sei la quintessenza del­la rabbia, Vittò».
   Vittorio mugugnò qualcosa di incomprensibile, ma Claudio ebbe la netta sensazione che si trattasse di un insulto. La soddisfazione per aver cancellato il sorriso dalla faccia del collega, però, fu più forte di tutto il resto.
   «Allora? A cosa si deve tanta improvvisa gioia di vivere?» insisté in tono pomposo.
   «All'avvio delle pratiche per la separazione» annunciò; sollevò il bicchiere in un brindisi silenzioso e mandò giù un gran sorso di birra, mentre il volto dell'altro uomo si adombrava.
   «Mi dispiace, Vittorio. Non lo immaginavo» disse serio.
   «A me non dispiace» replicò Vittorio con una scrollata di spalle. «Anzi, adesso mi sento molto meglio: avrei dovuto farlo anni fa».
   Claudio lo guardò per un minuto buono prima di parlare ancora.
   «Perché adesso? Perché non prima?» chiese cauto.
   L'altro aprì la bocca, pronto a rispondere, ma una strana sensazione lo costrinse a richiuder­la senza dire nulla: a Vittorio occorse qualche istante per capire che quella specie di bolla tie­pida che gli si era accesa alla bocca dello stomaco era commozione. Il quarantenne si schiarì la voce un paio di volte: era passato parecchio tempo dall'ultima volta in cui qualcuno che non fosse sua madre o sua sorella si era interessato alla sua vita tanto da chiedergli perché avesse preso una certa decisione invece di un'altra, e Vittorio si rese conto in quel momento di aver iniziato a considerare Claudio Pastore un amico.
   «Non ne sono sicuro» rispose con sincerità. «Forse allontanarmi fisicamente da Emanuela mi ha aiutato a capire che non c'è proprio più niente, del nostro rapporto, che sia possibile salvare».
   «E tu di questo sei proprio sicuro?» insisté Claudio, scettico. «Capita spesso che la lonta­nanza riavvicini le persone: questa potrebbe essere solo una fase».
   Vittorio scosse la testa. «Non credo. Il nostro rapporto si è guastato qualche anno fa e nessuno dei due si è mai impegnato per recuperarlo... e almeno per me, è troppo tardi».
   «Mh». L'altro uomo si piegò sul tavolo, vi appoggiò i gomiti e puntò il mento sui pugni. «E non c'entra niente quella ragazza che hai trascinato al comando... quanto, un mese e mezzo fa?»
   Il quarantenne si strozzò con la sua stessa saliva. Si colpì più volte il petto con il pugno, tossendo, mentre Claudio continuava a fissarlo senza battere ciglio.
   «Io... che... ma che domanda è?» farfugliò infine Vittorio quando riuscì a riprendere fiato.
   «Ho notato che era in caserma, la mattina in cui qualcuno ti ha mandato la colazione, e l'al­tro ieri era di nuovo lì e siete andati via insieme». Le sopracciglia di Claudio volarono verso l'attaccatura dei capelli. «È stato naturale farmi qualche domanda».
   Vittorio sbuffò. «L'ho incrociata, qualche volta, dopo quel giorno in cui l'abbiamo...» Clau­dio gli scoccò un'occhiataccia, «... l'ho fermata» si corresse. «A un certo punto abbiamo ini­ziato a comportarci da persone civili, senza passare il tempo a coprirci di insulti, e tra le altre cose si è parlato anche del mio matrimonio». Sbuffò di nuovo, stavolta con un mezzo sorriso stampato in volto. «Mi ha fatto notare che mi sono sposato per un motivo idiota e che se l'uni­ca cosa che provo nei confronti di mia moglie è rabbia, allora starò meglio dopo aver divorziato. E la cosa peggiore è che ha ragione».
   «Fammi capire» disse lentamente Claudio. «Tu stai divorziando perché una persona che a malapena conosci ti ha detto di farlo?»
   «No: io sto divorziando perché una pazza che a malapena conosco è stata più lucida di me, abbastanza da mostrarmi la cosa sotto un altro punto di vista e farmi capire che trascinare un matrimonio ormai finito mi faceva soltanto male» precisò l'altro in un tono che non ammette­va repliche.
   Claudio decise di cambiare tattica. «Non è che magari quella ragazza ti piace?» chiese a bruciapelo.
   «È pazza» rimarcò Vittorio. «Sarcastica, suscettibile, attaccabrighe...»
   «Aspetta, stiamo parlando di lei o di te?» lo interruppe Claudio con un ghigno provocatorio.
   L'altro appallottolò un tovagliolino e glielo tirò sul naso. «Non so neanche perché ti rispon­do» grugnì.
   «Perché anche se cerchi di nasconderlo, ti piaccio» rispose all'istante il trentaquattrenne. «E anche perché in fondo, molto in fondo, ma proprio in fondo, sai che ho ragione» aggiunse compiaciuto.
   Vittorio gli rivolse un'occhiata fosca ma non replicò; Claudio sollevò il pugno in un gesto di trionfo e l'altro decise che avrebbe impiegato meglio il proprio tempo ascoltando il gruppo che ancora suonava sul palco.

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Nonostante fossero innamorati l'uno dell'altra e felici di avere una figlia c'erano alcune cose a cui Giulia e Tiziano non avevano mai voluto rinunciare, e una di quelle erano le uscite tra soli adulti. Prima che Giulia restasse incinta c'erano state parecchie serate memorabili, di cui alcu­ne in discoteca, in compagnia di Vera e Noemi; e anche se da quasi due anni avevano optato per dei programmi più tranquilli, continuavano a riservarsi una sera a settimana per stare tra di loro.
   Quel sabato sera non faceva eccezione: Ludovica era stata affidata ai nonni paterni e Tizia­no, Giulia e Vera se n'erano andati in un locale del centro dopo che le due donne avevano tentato inutilmente di convincere le rispettive madri ad andare con loro.
   Poco dopo le dieci, seduti a un tavolino dell'Hard Rock Cafe con il secondo cocktail della serata di fronte, i tre ridevano tanto da non riuscire a prendere fiato.
   «E allora» proseguì Tiziano, con le lacrime agli occhi per il gran divertimento, «Luca guar­da il direttore e gli fa: “Ah, ma le procedure di sicurezza bisogna seguirle per forza? Allora da lunedì vedrò di applicarle!”. E lui ha fatto una faccia... impagabile! È diventato verdastro, con gli occhi spalancati e ha iniziato a farfugliare: credevo che gli sarebbe venuto un colpo!».
   Le due donne eruppero in una nuova serie di risate: Vera fu costretta a posare il bicchiere per non rischiare di rovesciarsene addosso il contenuto mentre Giulia si batteva una mano sulla coscia.
   «Poveraccio» commentò la prima con ardore. «Certo che siete proprio perfidi, però!»
   Tiziano la liquidò agitando la mano con fare sbrigativo. «Esagerata! Per uno scherzetto innocente...»
   «Mica tanto innocente» s'intromise Giulia, che ancora sghignazzava. «L'hai detto tu che gli avete quasi fatto venire un infarto!»
   Suo marito scrollò le spalle. «Era da un pezzo che volevamo prenderlo un po' in giro: ades­so che finalmente è arrivato uno nuovo, non possiamo non approfittarne».
   «Siete solo fortunati che questo Luca sia disposto a reggervi il gioco» precisò Vera.
   L'uomo le rivolse un gran ghigno.
   «È troppo simpatico, non potete nemmeno immaginare quanto!». S'interruppe, meditabon­do: di fronte a lui Giulia decise di costruire una torre di tortilla chips mentre beveva il cock­tail con la cannuccia, ma Tiziano neanche se ne accorse, tanto era assorto nei propri pensieri. «Forse dovrei invitarlo a bere qualcosa con noi, una sera di queste» aggiunse, scoccando un'occhiata eloquente all'amica.
   A Vera quello sguardo non piacque affatto.
   «Non provare a incastrarmi con un appuntamento al buio, Tizià, o tua figlia si ritroverà or­fana prima ancora di aver compiuto un anno» lo minacciò.
   Tiziano s'imbronciò.
   «Però lasci che Valenti ti giri intorno» si lagnò.
   Giulia si strozzò; Vera le batté una mano in mezzo alla schiena con forza fino a quando l'al­tra non si riprese.
   «E tu che ne sai?» rantolò Giulia, lo sguardo fisso su suo marito. Lui esitò.
   «Non ho origliato!» sbottò infine; le due donne lo squadrarono con evidente scetticismo. «È che voi... voi... parlate forte, ecco!» aggiunse.
   Vera e Giulia si scambiarono uno sguardo.
   «Stai cercando di incolpare noi del fatto che tu origli le nostre conversazioni?» chiese la seconda, incredula.
   «Pensi davvero che io lasci che Valenti mi ronzi intorno?» sibilò Vera, indignata.
   «Oh, questo è vero» tagliò corto Giulia; la sua migliore amica le rivolse uno sguardo offeso e tradito, ma l'altra non se ne diede per inteso e tornò a rivolgersi a suo marito. «Lo sai che hai una bella faccia tosta, ficcanaso dei miei stivali?»
   Tiziano arrossì in zona collo. «Ha parlato la pettegola del condominio!»
   Sua moglie sgranò gli occhi. «Rimangiatelo!»
   «Mai» rispose fiero Tiziano.
   Giulia gli lanciò una manciata di noccioline in piena faccia: centrato negli occhi dai salatini, Tiziano emise un gemito da animale ferito e iniziò a tastarsi il viso.
   «Basta, voi due!» li redarguì Vera; prese la ciotola delle noccioline e la mise fuori portata. «Se volete farvi la guerra, aspettate di essere a casa vostra. E che non ci sia la mia figlioccia!» disse decisa.
   Marito e moglie incrociarono le braccia al petto e la guardarono con un'identica espressione contrariata.
   «Traditrice» l'accusò Giulia.
   «Svizzera» grugnì scontento Tiziano.
   «Svizzera?» gli fece eco Vera, incerta se ridere o essere perplessa.
   «Sì, Svizzera» ribadì Tiziano. «Resti neutrale solo per non doverti schierare!»
   L'ex ginnasta si sporse sul tavolino e gli sbuffò dritto in faccia. «Io non resto neutrale – io faccio da arbitro, e lo faccio per evitare che ci caccino» lo corresse.
   «Me, non mi caccerebbero mai» disse l'uomo con grande dignità. «Sono troppo carino!»
   Vera e Giulia lo scrutarono con aria scettica prima di scambiarsi uno sguardo d'intesa.
   «In quale Universo parallelo?» sogghignò Vera.
   Tiziano boccheggiò, indignato, ma prima che potesse mettere insieme una frase di senso compiuto, qualcuno scoppiò a ridere vicinissimo a loro: i tre amici si voltarono verso il punto da cui proveniva il suono, ma soltanto Vera riconobbe l'uomo che sghignazzava appoggiato al muro.
   «Fabio!» chiamò allegra. Si alzò, un gran sorriso sul volto; Fabio non perse tempo e la raggiunse con due passi per poi scoccarle due baci sulle guance. «Che ci fai qui?»
   Lui si strinse nelle spalle. «Avevi detto che saresti venuta qui stasera, e ho pensato di passa­re a salutarti».
   «Hai fatto bene» rispose Vera, senza smettere di sorridere. «È solo che non me l'aspettavo: mi hai presa alla sprovvista!»
   Dietro di lei Giulia, non vista, sollevò con cautela una gamba, avvicinò il piede al fondo­schiena dell'amica e le diede uno spintone: Vera barcollò e finì dritta addosso a Fabio.
   «Vera, non ci presenti il tuo nuovo amico?» disse Giulia in tono zuccherino.
   L'altra si raddrizzò e scoccò un'occhiata torva prima alla donna, che continuava a fissarla con espressione innocente, e poi a suo marito, che scrutava entrambe con malcelato diverti­mento. Ancora risentita, Vera fece un gesto vago con la mano. «Fabio, questi sono Giulia e Tiziano, i miei migliori amici; ragazzi, lui è Fabio, un ex studente del professor Maesani».
   «Immagino vi siate conosciuti nell'ufficio del professore» commentò Tiziano, mentre Fabio lasciava la mano di Giulia per stringere la sua.
   L'altro uomo annuì. «Proprio così: penso di non essere mai stato più felice di aver fatto visi­ta a un ex professore!» ridacchiò.
   «Ci credo!» intervenne Giulia. Rivolse un rapido sguardo a Vera e tornò a concentrarsi sul nuovo arrivato. «Perché non ti siedi, Fabio?»
   Lui scosse la testa.
   «Mi piacerebbe, ma i miei amici mi aspettano fuori: avevamo già deciso di andare in un lo­cale nuovo all'Esquilino» spiegò. Strinse brevemente Vera. «Io e te ci sentiamo domani, ma­gari la settimana prossima potremmo uscire» mormorò, in modo che solo lei lo sentisse.
   «Volentieri» sorrise Vera.
   Fabio ricambiò il sorriso; salutò gli altri due e si avviò deciso verso l'uscita. Quando fu lon­tano Vera tornò a sedersi, ma fece a malapena in tempo a sistemarsi che Giulia e Tiziano ini­ziarono a bombardarla di domande.
   «Certo che è un bel ragazzo! Da quant'è che lo conosci?»
   «Perché non ci hai detto di lui?»
   «Ti ha già invitata a uscire?»
   «Che lavoro fa? È economicamente solido?»
   «Com'è stato il vostro primo incontro?»
   «Aspetta, la cosa più importante! Per che squadra tifa?»
   Vera scoppiò a ridere.
   «Avete finito?» esalò tra una risata e l'altra. Quando gli altri due annuirono, si sforzò di controllarsi e prese un respiro profondo. «Con tutte le domande che mi avete fatto, non so a quale rispondere per prima...»
   «A quella più importante, ovviamente» la interruppe Tiziano. «Per che squadra tifa? Te l'ha detto?»
   Vera si accarezzò la mandibola, pensosa. «Onestamente non lo so» ammise. «Ci siamo sen­titi qualche volta e ho accennato al fatto che ogni tanto vado allo stadio, ma lui non ha ag­giunto nulla».
   Tiziano gemette sconfortato. «Dai, Vè, non ci posso credere! Come puoi sentire un ragazzo e non chiedergli se e per quale squadra tiene? È tipo una delle domande basilari per iniziare o meno una frequentazione!»
   «Be', Valenti tifa e credo che sia romanista» commentò distratta lei.
   «Lascia perdere quello lì!» disse sbrigativo l'uomo. «Che poi già non è un granché, ma se è pure romanista, lasciamo proprio perdere e stendiamo un velo pietoso!»
   «Lui ha detto una cosa simile quando ha scoperto che tifo Juve» sogghignò Vera.
   Tiziano aprì la bocca per ribattere, ma Giulia gli sferrò un gran calcio sotto il tavolo e lui tacque.
   «Tralasciando una cosa fondamentale come la fede calcistica» disse sarcastica Giulia, «quel Fabio è stato carino a passare a salutarti. Quindi adesso rispondi alla mia domanda: ti ha già invitata a uscire?»
   La sua migliore amica annuì, divertita. «Poco fa, appena prima di andare via».
   «Fantastico!» esultò Giulia. Batté le mani, entusiasta, ma smise quando si accorse dell'espressione di Vera, che era diventata pensosa. «Che hai che non va, Vè?»
   Lei scosse di nuovo la testa. «Non lo so» rispose, incerta. «È che non sono più uscita con nessuno da prima dell'incidente, se non contiamo la sera in cui sono andata a bere una cosa con Valenti...»
   «No, lui decisamente non lo contiamo» intervenne deciso Tiziano.
   «...e non... non so bene come comportarmi, né se sono pronta» concluse Vera, senza dare cenno d'aver sentito l'amico.
   Moglie e marito si scambiarono un lungo sguardo, uno di quelli in cui si concentra una conversazione silenziosa tra chi riesce a capirsi senza bisogno di parlare.
   «Ma questo Fabio ti piace?» si decise a chiedere Tiziano.
   Vera lo guardò in silenzio per un istante.
   «Sì, credo» rispose piano.
   «Allora esci con lui» intervenne Giulia. «Se va bene ne sarà valsa la pena, e se andrà male... be', in quel caso, nessuno ti costringe a vederlo ancora». Le prese la mano e la strinse. «È solo un appuntamento, Vè: non c'è niente di cui aver paura, e da qualche parte devi pur ripar­tire» disse incoraggiante.
   «E se non dovesse comportarsi bene, lo prenderò a schiaffi» aggiunse Tiziano in tono solenne.
   L'ex ginnasta annuì, un sorriso stiracchiato sulle labbra, e pensò che i suoi amici avevano ragione: da qualche parte doveva ricominciare.

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


Con l'inizio della primavera, le persone che affollavano il parco vicino casa di Vera si erano moltiplicate: il clima più mite e le ore di luce che aumentavano parevano invogliare gli abi­tanti della zona a passare un po' più di tempo tra quei viali. Vittorio non ne era troppo felice: fare jogging era decisamente più complicato, con tutta quella gente intorno, e fare lo slalom tra gruppetti di adolescenti e manipoli di bambini con genitori al seguito rovinava il piacere che provava nel correre all'aperto. Nonostante questo, il carabiniere scelse di restare: si dires­se verso i viali più lontani dal cuore del parco per evitare la maggior parte delle persone, e fu solo dopo un'ora buona che si decise ad andare via.
   Vittorio rallentò la propria corsa fino a fermarsi a un paio di metri di distanza da una delle uscite del parco; si piegò in avanti, appoggiandosi le mani sulle cosce per riprendere fiato, quando qualcosa di grosso, pesante e vivo gli piombò sulle spalle e lo abbatté al suolo.
   Steso a braccia e gambe larghe, con la faccia premuta sul cemento, l'uomo grugnì di dolore mentre il peso che l'aveva inchiodato a terra gli saltellava sulla schiena e un coro di risate si levava intorno a lui.
   Con uno sforzo immenso, Vittorio si scrollò di dosso l'entità ignota che l'aveva scambiato per un tappeto elastico, rotolò su se stesso per mettersi supino e provò a guardarsi intorno, ma il muso di un cane occupò il suo campo visivo e l'animale gli leccò la faccia con entusiasmo.
   «Togliti, teppista» brontolò Vittorio, tentando con scarso successo di spostare Hermes. Alzò appena la testa e scorse Vera a un metro dai propri piedi: la ragazza rideva forte, una mano premuta sul fianco e grosse lacrime di divertimento che le scivolavano lungo le guance.
   «Be', ti stai divertendo?» scandì sarcastico, ora rivolto alla donna.
   «Da morire» riuscì a esalare Vera. Hermes scelse quel momento per saltare sullo stomaco del carabiniere: lui gemette e il cane, dopo un'apparente breve riflessione, decise di mettersi comodo e usare l'umano come un materasso. Vera eruppe in un nuovo torrente di risate: ben presto la donna rimase senza fiato sotto lo sguardo contrariato di un Vittorio semisepolto da quaranta chili di ossa, muscoli e peli.
   Alla fine, Vera decise di liberare Vittorio; prese uno snack per cani dalla borsa e lo sventolò invitante.
   «Qui, Hermes! Vieni a prendere il tuo premio!»
   Il pastore tedesco balzò in piedi, strappando l'ennesima esclamazione sofferente all'uomo, e si scaraventò dalla sua padrona; prese lo snack e lo masticò mentre Vera lo coccolava energi­ camente.
   «Bravo il mio cucciolo, che fa quello che gli dice la sua padrona!» disse orgogliosa. Prese un secondo snack dalla borsa e lo offrì al cane. «Uno per essere saltato addosso a Valenti quando ti ho detto di farlo e uno per averlo usato come materasso: un colpo di genio, Hermes. Un vero colpo di genio!» continuò in tono amorevole.
   Vittorio si rimise in piedi lentamente, strofinandosi una mano sullo stomaco e poi sulla par­te bassa della schiena.
   «Quindi sei stata tu a dirgli di stendermi» grugnì scontento.
   Vera sghignazzò. «Che vuoi che ti dica, Valenti? Tu eri distratto, e l'occasione troppo ghiot­ta per non coglierla».
   Lui le scoccò un'occhiataccia. «Avrò la mia vendetta».
   «In questo mondo o nell'altro?» lo stuzzicò la ragazza, senza smettere di sghignazzare.
   «Ridi, ridi finché puoi. La prossima volta sarò io a ridere» minacciò Vittorio.
   Vera alzò le mani in gesto di pace, ma non riuscì a nascondere il sorrisetto compiaciuto che le incurvava le labbra. Il carabiniere sbuffò irritato, ma decise di lasciar correre... almeno per quel giorno.
   «State andando via?» chiese quando vide la donna mettere il guinzaglio a Hermes.
   Lei annuì. «È quasi ora di cena: se facciamo tardi, mia madre mi uccide». Piegò appena la testa di lato. «E tu?»
   Vittorio annuì e insieme si incamminarono verso il cancello. «Oggi ho il turno di notte: dopo aver dormito tutto il pomeriggio, volevo sgranchirmi un po' le gambe».
   «Ha senso» concesse Vera. «Anche perché immagino che stanotte starai seduto in macchina per la maggior parte del tempo».
   «Immagini bene». Vittorio non aggiunse altro: il trillo caratteristico delle notifiche in arrivo risuonò svariate volte in pochi secondi e Vera agguantò il cellulare per controllare i nuovi messaggi. Il carabiniere la osservò con attenzione mentre lei sorrideva allo schermo del tele­fonino e rispondeva rapida.
   «Come mai tanto allegra?» disse noncurante Vittorio non appena la ragazza mise via il cel­lulare. «Finalmente hai trovato un uomo che sopporti il tuo caratteraccio?»
   Con somma sorpresa di Vittorio, le guance di Vera si imporporarono. Lui la fissò, interdet­to: aveva sperato di infastidirla con quella domanda, ma a quanto pareva aveva indovinato, anche se in modo del tutto involontario.
   «In effetti, sì» rispose Vera in tono di sfida.
   Vittorio continuò a guardarla, a malapena consapevole di dove stesse mettendo i piedi; fu solo quando evitò per un soffio l'impatto con un lampione che tornò a concentrarsi sulla strada.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              
   «Non aggiungi altro?» la spronò.
   Lei annuì. «Soltanto una cosa».
   «Cosa?»
   Vera indicò l'auto accanto a cui si erano fermati. «Questa non è la tua macchina?»
   Il carabiniere batté più volte le palpebre e guardò l'auto in questione. «Sì».
   La ragazza gli batté una mano sulla spalla. «Allora buon ritorno a casa».
   A bocca aperta, Vittorio salì in macchina senza staccare gli occhi da Vera e Hermes che proseguivano tranquilli verso casa; mise in moto, ma prima di ripartire non resistette e mise la te­sta fuori dal finestrino.
   «Avanti, Gamba Bionica, dimmi qualcosa!» le urlò dietro. «Chi è questo tizio? Che lavoro fa? Quanti anni ha?»
   Vera lo liquidò con un gesto della mano senza neanche voltarsi.
   «E dai, una cosa qualsiasi!» insisté il carabiniere. «Dimmi almeno se ha precedenti penali o ha mai fatto uso di droghe!»
   Di nuovo, la ragazza lo ignorò. Rassegnato, Vittorio sospi­rò e prese la strada per tornare in caserma; era appena entrato nella propria stanza quando il suo cellulare suonò, annunciando l'arrivo di un nuovo messaggio.
   L'uomo prese il telefono e digrignò i denti di fronte alla singola linea di testo davanti ai suoi occhi.
   “Quando saprò le risposte, te lo dirò”.

******

Stando alla guida tv, quella sera era in programma un film in grado di mettere d'accordo tutti i membri della famiglia Nicolini; così, dopo cena, i tre si strizzarono sul divano per guardare un telegiornale in attesa che il film iniziasse.
   Eugenio, Fabiola e Vera erano intenti a commentare le notizie quando una serie di scampa­nellate lunghe e ravvicinate li fece sobbalzare.
   «Ma chi è il deficiente che suona così?» sbottò Eugenio.
   Fabiola andò al citofono. «Chi è?». Un'arrabbiata voce maschile uscì dall'altoparlante e lei si voltò verso il salotto. «Vittorio Valenti non è quel carabiniere che continua a incontrare Vera?» gridò.
   Padre e figlia sbucarono in corridoio, entrambi increduli.
   «Che c'entra Valenti?» chiese Vera.
   Sua madre indicò il citofono. «È qui fuori».
   La più giovane alzò le braccia al cielo, stizzita. «Ma che cavolo vuole quello, da me? Che ci è venuto a fare qui? Che strazio!»
   «Fallo entrare» disse cupo Eugenio.
   Fabiola pigiò un paio di volte il pulsante di apertura del cancello e poi andò ad aprire la porta di casa: Vittorio entrò come un treno e subito andò a pararsi di fronte a Vera.
   «Buonasera, signori Nicolini, e scusate l'intrusione» disse brusco, senza mai staccare gli oc­chi dalla venticinquenne.
   «Che diavolo vuoi, Valenti?» sibilò Vera.
   «Solo capire se per caso, nell'incidente dell'anno scorso, non hai subito anche danni al cer­vello» abbaiò lui, «perché tu sei fuori di testa. Vuoi uscire con uno sconosciuto? Da sola?».
   «Sì a entrambe le domande, idiota» ringhiò la donna in risposta. «Non vedo cosa ci sia di male né in che modo la cosa ti riguardi».
   Vittorio si mise le mani nei capelli. «Ma sei stupida? Non li guardi i telegiornali? Gli atti di violenza contro le donne sono ormai una realtà quotidiana, la maggior parte neanche viene denunciata, e tu vorresti uscire con un tizio senza sapere chi è?»
   «Senti, Valenti, io lo so chi è Fabio, va bene?» rispose Vera, irritata. «È un ex studente del mio capo, e il professor Maesani mi ha garantito che è una persona per bene. Quindi qual è il problema?»
   «Il problema è che il tuo capo di sicuro non conosce abbastanza questo Fabio da sapere come si comporta con le donne!» mugghiò lui.
   «Sai, Vè, non ha mica torto» intervenne Eugenio.
   «Non ti ci mettere anche tu!» reagì Vera. «Mi avete perseguitata con la storia che devo ricominciare a vivere normalmente, e adesso che ho accettato l'invito di un uomo, volete che ri­nunci? Voi non state bene, ma per niente proprio!»
   «Non ti azzardare a parlarci così!» tuonò Eugenio.
   «Parlo come mi pare» sibilò sua figlia. «Se posso guidare, votare, lavorare e rispondere del­le mie azioni davanti alla legge, allora posso anche uscire con un uomo senza che vi mettiate tutti a cercare di farmi cambiare idea!»
   «Non ci puoi andare da sola» insisté Vittorio.
   «Concordo!» esclamò Eugenio.
   «E che dovrei fare? Presentarmi con la scorta armata?» disse sarcastica Vera.
   Vittorio gonfiò il petto. «Verrò io con te».
   Lei sbuffò. «Pensa che bell'appuntamento!». Affilò lo sguardo e gli lanciò un'occhiataccia. «Non ti azzardare, Valenti. Per una volta che un ragazzo carino e simpatico mi chiede di usci­re, non ho intenzione di averti tra i piedi. Non ti voglio lì: andrò da sola, e questo è quanto».
   «Andrai?» ripeté il carabiniere, disgustato. «Non ti viene neanche a prendere a casa? Che schifo! Ma che razza di uomo è?»
   «Ho detto anch'io la stessa cosa» confidò Eugenio all'altro uomo.
   «E ci credo!»
   «Fatela finita!» esplose Vera. Si voltò verso sua madre. «Mi vuoi dare una mano? In fondo uno dei due è marito tuo».
   Fabiola esitò. «Be', tesoro, sai... anch'io sarei più tranquilla, se con te ci fosse qualcuno che conosciamo. Di questi tempi se ne sentono tante...»
   Vera guardò incredula i propri genitori. «Ma da che parte state? E poi, da quand'è che c'è tutta questa fiducia in Valenti? Se non ricordo male, tu» aggiunse, puntando il dito contro suo padre, «non lo potevi soffrire, fino a cinque minuti fa!».
   Eugenio si strinse nelle spalle. «Stavolta ha ragione».
   «Grazie tante!» sbottò Vera.
   «Da sola non ci vai» decretò Vittorio. «Ti accompagno io e resto nei paraggi, giusto per te­nere d'occhio questo tizio».
   «Valenti, quale parte della frase “non ti voglio lì” non ti è chiara?» ringhiò lei.
   «Nicolini, quale parte della frase “da sola non ci vai” non riesci a capire?» le ritorse contro lui.
   I due si squadrarono torvi, entrambi restii a cedere.
   «Per quanto mi scocci ammetterlo, sono d'accordo con lui» intervenne Eugenio. Rivolse a Vera uno sguardo severo. «Se davvero vuoi uscire con questo Fabio – che peraltro non so chi sia» disse freddo, «il signor Valenti verrà con te, visto che è stato così gentile da offrirsi di ac­compagnarti; altrimenti, resterai a casa».
   Il volto di Vera si tinse di una brutta sfumatura di rosso.
   «Scusa tanto, papà, ma credo tu abbia dimenticato che sono maggiorenne già da un po': non ho più quindici anni, e non puoi impedirmi di uscire» replicò con voce tagliente.
   Eugenio incrociò le braccia al petto: la sua espressione ostinata era l'esatto riflesso di quella di Vera.
   «Vogliamo scommettere?» abbaiò. «Ti toglierò le chiavi della macchina e sono pronto a smontare mezzo motore, pur di tenerti a casa. Quindi scegli: o lasci che sia Valenti a portarti a questo appuntamento, o non ci andrai affatto!»
   La ragazza alzò le braccia al cielo in un gesto rabbioso.
   «Bene! Fantastico, avete vinto voi!» berciò, furente. Lanciò uno sguardo astioso a Fabiola. «E a te, grazie per il sostegno» disse acida prima di zoppicare risoluta fuori dalla stanza.

******

La sera seguente, nonostante lo scorno di Vera, Vittorio si presentò puntuale sotto casa sua; Eugenio scortò sua figlia fino all'auto del carabiniere per accertarsi che vi salisse davvero, e i due uomini si scambiarono uno sguardo di insolita intesa.
   Il viaggio si svolse in silenzio. Vera, ancora contrariata dall'improvvisa coalizione che si era formata tra i suoi genitori e il quarantenne al suo fianco, tenne la bocca sigillata e lo sguardo ostinatamente fisso oltre il finestrino; Vittorio intonò a bocca chiusa un motivetto dietro l'al­tro, battendo le dita sul volante a tempo con la musica, chiaramente compiaciuto per quella vittoria. Quando giunsero a destinazione Vera scese dall'auto prima ancora che il motore fosse spento, per impedire a Vittorio di replicare il gesto gentile della volta precedente: sapeva che questo l'avrebbe frustrato, e se lui poteva impicciarsi impunemente degli affari suoi, allora lei aveva tutto il diritto di fargli saltare i nervi.
   Come aveva previsto, Vittorio chiuse la macchina dopo averle scoccato uno sguardo infasti­dito; poi, sfruttando la ridotta agilità della ragazza, l'affiancò con pochi passi e agganciò il proprio braccio al suo per guidarla dentro il locale.
   «Posso camminare da sola» sibilò Vera.
   «Rinfodera gli artigli, tigre: manca un quarto d'ora al vostro appuntamento, con ogni proba­bilità il tuo principe azzurro non è ancora arrivato» replicò sarcastico Vittorio mentre oltre­passavano la porta. La guidò verso un tavolo libero e l'aiutò a sedersi; poi, senza aggiungere una parola, andò a sistemarsi a un altro tavolo.
   I minuti trascorsero lenti; arrivò l'ora dell'appuntamento, ma Fabio non si vedeva da nessu­na parte. Il cellulare di Vera squillò e lei ascoltò il messaggio vocale che aveva appena ricevu­to.
   Il carabiniere la raggiunse in meno di due secondi. «Allora? Ti ha dato buca?» la provocò.
   La ragazza non abboccò. «Mi ha appena mandato un messaggio: dice che c'è traffico e arri­verà con un po' di ritardo» rispose calma.
   Vittorio sbuffò. «Ma che campione, guarda».
   Vera digrignò i denti. «Valenti, smettila: il traffico non è certo colpa sua!»
   «Se lo dici tu». Tutt'altro che convinto l'uomo tornò al proprio tavolo, lasciandola sola coi propri pensieri. Dopo aver fissato la porta per un po', Vera lanciò uno sguardo di sottecchi a Vittorio: stava seduto a una discreta distanza da lei, ma comunque abbastanza vicino da senti­re tutto quello che lei e Fabio si sarebbero detti, e si guardava intorno con aria apparentemen­te distratta. Il carabiniere si voltò apertamente verso di lei e batté un dito sull'orologio da pol­so con deliberata lentezza. Vera sbuffò: sapeva benissimo che Fabio era in ritardo di un quar­to d'ora senza che ci si mettesse Vittorio, a ricordarglielo.
   Passarono altri dieci minuti, ma finalmente Fabio arrivò: scrutò la folla fino a quando non individuò il tavolino a cui si era seduta Vera, poi andò veloce in quella direzione.
   «Ciao Vera» la salutò, chinandosi a baciarla sulle guance; lei gli sorrise. «Scusa per il ritar­do, ma come ti ho detto, c'era traffico. Certo, se tu abitassi più vicino a me non ci avrei messo così tanto...»
   Vera decise di non ribattere. «Be', l'importante è che tu sia arrivato» disse sincera.
   Fabio scrollò le spalle. «Sì, ma comunque dovrò andare via presto, perché con il tempo che mi ci vuole per tornare a casa, non posso fermarmi troppo».
   «Lo capisco... quindi meglio sfruttare la serata, no?» tentò lei, incoraggiante.
   «Ah sì, assolutamente!» convenne Fabio.
   I due intavolarono una conversazione. Per un po' parlarono di viaggi e di musica; poi Fabio si lanciò nel racconto di una vacanza in Giappone fatta un paio d'anni prima. Vera si sforzò di seguirlo, ma dopo un quarto d'ora si rese conto che quel racconto era in realtà un monologo – fatto in tono di enorme compiacimento, per di più – e iniziò ad annoiarsi terribilmente. Lan­ciò un rapido sguardo a Vittorio, e quasi scoppiò a ridere quando si accorse che sembrava an­noiato almeno quanto lei.
   Dopo un'altra mezz'ora spesa sullo stesso argomento, Fabio sembrò non trovare altro da dire sul Giappone e si fermò per riprendere fiato.
   «Be', a sentirtene parlare quasi quasi viene voglia anche a me di andarci» commentò Vera, sollevata: iniziava a temere che Fabio non avrebbe più smesso di parlare. «Io però preferirei girare l'Europa: mi piacciono i piccoli borghi antichi e le città d'arte, sai...»
   «L'Europa? Ma che noia! Hai descritto le mete da borghesucci pigri» la interruppe lui con espressione schifata.
   Vera si zittì, interdetta. «Che ti devo dire? A me piacciono» obiettò con una punta di fred­dezza.
   «Ma sono molto meglio i paesi orientali» insisté Fabio.
   «Per i tuoi gusti, sì» rispose lei, sforzandosi di essere diplomatica. «A me piacciono cose di­verse».
   «Be', se mai faremo un viaggio insieme, la meta la sceglierò io» decretò Fabio con grande decisione.
   «O magari non faremo mai un viaggio insieme, così il problema non si porrà proprio» ta­gliò corto Vera.
   Fabio non rispose: si limitò a scrutarla con attenzione dalla testa ai piedi, e arrivò persino a piegare la testa di lato per guardarle le scarpe.
   «Certo però, che potevi anche vestirti un po' meglio» commentò senza alcun preavviso. «Truccarti di più e mettere un paio di tacchi, magari, così saresti sembrata più alta. La prossi­ma volta che usciamo fatti più carina... tipo quella ragazza laggiù, vedi?» aggiunse, indicando una donna in piedi vicino al bancone. «Quella sì che è bella, anche tu potresti esserlo se ti cu­rassi di più».
   Vera boccheggiò, incredula: quello proprio non se l'aspettava. «Che hanno di sbagliato i miei vestiti? Siamo in un bar, mica in un ristorante di lusso!» replicò. «E comunque io non uso le scarpe col tacco» aggiunse a mezza voce.
   «E perché no?» chiese Fabio. «Dovresti volerti fare bella, quando esci con un uomo, e a me piacciono le donne femminili, non quelle che stanno sempre in jeans e scarpe da ginnastica».
   Lei si agitò un po' sulla sedia e si torse le mani. «Io ho... ho una protesi» sussurrò.
   Fabio batté le palpebre più volte. «Che cos'hai, scusa?»
   Vera prese un respiro profondo. «Ho una protesi. La mia gamba sinistra è... è una protesi». Si batté le nocche sull'arto in questione, poi tirò appena i jeans per scoprire la caviglia artifi­ciale. «Come faccio a usare gonne e tacchi, con questa?»
   L'uomo la guardò, scontento. «Anche la gamba finta? E quando me lo volevi dire?». Sbuf­fò. «Quindi non ti vedrò mai vestita carina e sistemata. Bene!»
   Vera aprì la bocca per ribattere, ma prima che potesse riuscirci, un Vittorio dall'espressione tempestosa piombò tra di loro.
   «E no eh, adesso basta!» esplose il carabiniere. «Fai proprio schifo: ti pare il modo di parla­re a una donna?»
   «E tu chi sei?» replicò Fabio, infastidito.
   «Un suo amico» rispose Vittorio, accennando a Vera.
   «E allora diglielo anche tu che dovrebbe cercare di truccarsi di più e farsi bella!» disse Fa­bio. «Già non si può vestire in modo femminile perché ha una protesi, potrebbe almeno cercare di curarsi di più...»
   «Vera non ha bisogno di coprirsi la faccia col cerone o mettersi i tacchi, per essere bella» ri­batté Vittorio a denti stretti. «Tu invece sei una testa di cazzo, e questo non lo puoi sistemare neanche con tutto il trucco del mondo. E adesso è proprio ora che te ne vai».
   «Ma che vuoi, coso?» sibilò l'altro.
   Vittorio perse la pazienza. «Coso ce lo chiami tu' fratello, hai capito?» abbaiò. «E mo' vedi d'annattene, sennò te manno via io a carci 'nculo. Vattene! De corsa, stronzo!»
   Fabio lanciò uno sguardo astioso prima a Vittorio, poi a Vera; dopodiché si mise la giacca e fermò una cameriera di passaggio.
   «Mi scusi, quanto costa il cocktail che ho preso?» le chiese altero mentre tirava fuori il por­tafogli.
   Vittorio s'infiammò di nuovo.
   «Dopo il modo in cui hai trattato Vera, neanche ti offri di pagare anche per lei?». Scosse la testa, un'e­spressione di profondo disgusto sul volto. «Guarda, manco te lo posso spiega' quanto me fai schifo. Pago io, basta che te ne vai da qua perché non te vojo proprio vede'. Esci!»
   Fabio si rimise il portafogli in tasca e se ne andò. Vittorio, col volto ancora paonazzo per la rabbia, si lasciò cadere nella sedia che l'altro aveva appena liberato e guardò Vera: la ragazza aveva appoggiato la fronte sul tavolo e si era coperta la testa con le mani.
   «Puoi rimetterti dritta: se n'è andato» annunciò il carabiniere.
   Vera rialzò la testa e gli lanciò uno sguardo assassino.
   «Oh, mi posso rialzare? Davvero?» sibilò. «Ma che gentile da parte tua farmelo sapere!»
   Vittorio si accigliò. «Che hai che non va, Gamba Bionica?»
   «Ho te che non va!» esplose lei. «Dovevi per forza fare quella piazzata, vero? Vero?» ululò.
   «Sì, dovevo» rispose l'uomo senza battere ciglio.
   «Sei uno stronzo arrogante che per puro caso è finito sulla mia strada: non hai nessun diritto di immischiarti nei fatti miei» ringhiò Vera. «A me Fabio piaceva!»
   Vittorio agitò una mano con fare sprezzante. «Quello lì ha smesso di piacerti al minuto di­ciotto del monologo sul Giappone: esattamente quando hai preferito guardare me piuttosto che ascoltare lui. E tutto quello che ti ha detto dopo te l'ha fatto proprio detestare. Ammettilo!»
  La donna s'imbronciò e si girò da un'altra parte; Vittorio continuò a guardarla fisso, e alla fine lei alzò le braccia al cielo in un gesto esasperato.
   «E va bene: mi è andato sulle scatole in tre minuti netti!» confessò, scontenta. «Soddisfatto?»
   «Molto». Vittorio si appoggiò allo schienale della sedia e distese le gambe sotto il tavolo. «Significa che non sei stupida e ti rispetti: nessuna donna sana di mente sopporterebbe un co­glione come quello».
   Suo malgrado, Vera sorrise. «Per una volta, sono d'accordo con te».
   «No!». L'uomo le afferrò i polsi e tentò di scuoterla. «Chi sei tu, e che ne hai fatto di Gam­ba Bionica?»
   «Non la smetterai mai con questa storia della Gamba Bionica, vero?» mugugnò lei.
   «Mi sa proprio di no. Ti conviene abituartici» replicò il carabiniere. Incrociò le braccia sul petto e le scoccò uno sguardo penetrante. «Adesso che ti sei calmata, mi spieghi perché ti sei arrabbiata con me per averti difesa?»
   Vera strinse le labbra e assottigliò lo sguardo. «Mi sono arrabbiata perché non sono una de­bole damigella bisognosa di protezione, e non serve che qualcuno mi difenda: sono in grado di farlo da sola» disse freddamente.
   Vittorio si sporse verso di lei. «Sei troppo intelligente per credere in questa specie di... di femminismo folle!» esclamò. «Non ho pensato neanche per un secondo che tu avessi bisogno di essere protetta: ho avuto a che fare con il tuo caratteraccio e la tua lingua biforcuta abba­stanza da sapere che puoi far scappare chiunque in lacrime. Se sono intervenuto è solo perché non sopportavo l'atteggiamento di quell'idiota né quello che ti stava dicendo, e alla fine non sono più riuscito a trattenermi» precisò. «Detto questo, se anche avessi voluto proteggerti, che male ci sarebbe?»
   Lo sguardo della donna s'infiammò. «Tu credi davvero che sia così facile, non è vero?» sputò rabbiosa. «Magari per te lo è, ma non per me. Io non posso permettermi di essere debo­le né solo di sembrarlo. Sai quanta fatica ho fatto, dopo l'incidente, per riavere indietro una parvenza di normalità? Mi trattavano tutti come se fossi stata sul punto di rompermi in mille pezzi: non mi lasciavano fare più niente da sola, che fosse uscire o soltanto preparare un caf­fè. Volevano persino vendere la mia macchina!». Ansante, Vera si spostò una ciocca di capelli dal viso, senza mai smettere di fissare Vittorio. «Ho dovuto lottare per riavere indietro la mia indipendenza: come se non fosse bastato tutto quello che dovevo già affrontare, ho dovuto an­che combattere per non essere trattata come una bambina incapace di badare a se stessa e prendere le proprie decisioni, per non essere... annullata dalle loro eccessive premure! Se i miei genitori o i miei amici avessero anche solo per un secondo l'impressione che io sia debole, ricomincerebbero daccapo!»
   Vittorio si appoggiò allo schienale della sedia. «Non so cosa si provi a essere nei tuoi panni o nei loro, ma sono sicuro che l'abbiano fatto a fin di bene» disse con dolcezza.
   Lei alzò le braccia al cielo. «Lo so, lo so che volevano soltanto aiutarmi... ma hanno quasi soffocato quel poco che ancora c'era di me, e non potevo... non potevo neanche urlare o infu­riarmi, perché li avrei feriti! Più cercavo di dire loro che avevo bisogno dei miei spazi, di re­spirare, più mi ricoprivano di gentilezze e mi impedivano di fare qualsiasi cosa!»
   Vera tacque, apparentemente svuotata da quello sfogo, e Vittorio la guardò senza muoversi di un centimetro. Alla fine, prese un respiro profondo e la fissò dritto negli occhi.
   «Con me puoi urlare» disse semplicemente.
   Suo malgrado, il volto di Vera si ammorbidì.
   «Grazie per aver terrorizzato quell'idiota» rispose.
   «Oh, è stato un piacere, credimi» replicò compiaciuto l'uomo.
   Vera ridacchiò, poi gli tese la mano. «Pace?»
   Vittorio sorrise; afferrò la mano che lei gli offriva e la scosse deciso. «Pace».

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Capitolo 11
*** Capitolo X ***


Quel sabato, Giulia non sapeva dove sbattere la testa: tra le faccende di casa, fare la spesa, accompagnare sua madre a sbrigare delle commissioni e la festa di compleanno di una sua ex collega, non aveva quasi tempo per respirare. Nonostante questo, la curiosità sua e di Tiziano di sapere com'era andato l'appuntamento di Vera fu più forte di tutto il resto: i due si erano messi al lavoro di buona lena fino a ritagliarsi un'ora libera dopo pranzo, e si erano affrettati a invitare l'amica a prendere un caffè a casa loro.
   Vera aveva fiutato la loro intenzione di sottoporla a un interrogatorio nel momento stesso in cui Giulia l'aveva chiamata; aveva cercato di tergiversare, di trovare scuse, ma le pressioni combinate dei due – e le minacce di Tiziano di organizzarle una serie di appuntamenti al buio – l'avevano fatta capitolare.
   Alle due e mezza del pomeriggio, una Vera sbuffante e scontenta zoppicò verso la porta di casa Massari-Ranghieri, pronta a essere bombardata di domande.
   La coppia non la deluse: Vera fece appena in tempo a varcare la soglia che Giulia l'afferrò per un braccio e la trascinò in cucina, dove Tiziano la spinse su una sedia. I due sedettero di fronte a lei, spalla a spalla, e per un istante Vera non seppe se ridere o essere spaventata.
   «Allora: dicci tutto» ordinò Giulia, saltando ogni preambolo.
   Vera sospirò: non aveva proprio voglia di raccontare quello che era successo la sera prima, ma sapeva perfettamente che i suoi migliori amici non avrebbero desistito fino a quando non avessero conosciuto tutti i particolari. Così la ragazza raccontò in modo rapido e dettagliato com'era andata la serata, dal momento in cui Vittorio era andata a prenderla a casa fino a quando non ce l'aveva riportata.
   Quando finalmente tacque, i padroni di casa fumavano di rabbia.
   «Quel verme schifoso!» tuonò Giulia, battendo un pugno sul tavolo. «Se penso che sabato scorso gli ho stretto la mano... gliela dovevo sbattere in faccia, la mano!»
   «Vuoi che lo ammazzi?» preferì chiedere Tiziano con aria fosca.
   Vera si accigliò. «Tizià, mi sa che hai qualche problema di gestione della rabbia» commen­tò. «Perché quando qualcuno manca di rispetto a me o a Giulia, la tua prima e unica opzione è l'omicidio?»
   «Perché lei è l'amore della mia vita e tu la mia sorellina» rispose lui senza esitazioni. «Nes­suno tratta male le mie donne, se vuole restare tutto intero».
   Giulia manifestò la sua approvazione per le parole di Tiziano con un bacio talmente focoso da far gemere di disgusto Vera.
   «Ma insomma! Non potete aspettare che me ne vada?» si lamentò l'ex ginnasta. «Non vo­glio assistere al concepimento del mio secondo nipote!»
   «Ah no? Sicura?» la punzecchiò l'amica prima di tornare seria. «Per fortuna Valenti ne ha dette quattro a quel deficiente... anche se gli avrebbe dovuto mollare anche un paio di ceffoni, giusto per rafforzare il concetto».
   «Zitta, va', che c'è mancato poco che lo facesse» replicò l'altra.
   Per alcuni lunghi istanti calò il silenzio, mentre i tre erano persi ognuno nei propri pensieri.
   «Dannazione!» sbottò Tiziano, alzando le braccia al cielo.
   Le due donne si voltarono verso di lui.
   «Che c'è?» chiese perplessa Giulia.
   Suo marito sbuffò, contrariato. «C'è che Valenti è stato un grande. Adesso devo farmelo sta­re simpatico per forza!»
   Vera e Giulia lo fissarono per un momento, incredule; poi scoppiarono a ridere.
   «Glielo farò sapere: ne sarà estasiato» sghignazzò la prima.
   «Non c'è niente da ridere: sono serio» replicò immusonito l'uomo. «Adesso che ti ha difesa in questo modo, non sono più libero di detestarlo: è una catastrofe!»
   «Non ti sembra di esagerare?» gli chiese sua moglie in tono ragionevole. «In fondo si sta rivelando una brava persona. Un po' burbera, ma buona. Che male ci sarebbe, a non detestarlo?»
   Tiziano si voltò con tutto il corpo verso di lei e le mise le mani sulle spalle. «Tesoro, io ti amo e lo sai, ma ti sfugge il nocciolo della questione» disse serio, guardandola dritto negli oc­chi. «Anche se Valenti avesse baciato la terra su cui cammina Vera dal primo istante in cui l'ha incontrata, resta un ostacolo insormontabile tra un'eventuale amicizia tra me e lui». Fece una pausa. «È romani­sta».
   Vera scoppiò a ridere e Giulia gli diede uno spintone: Tiziano rischiò di cadere dalla sedia, e per alcuni istanti mulinò disperatamente le braccia nel tentativo di non perdere l'equilibrio.
   «Valenti sarà pure romanista, ma tu sei un idiota» decretò Giulia, corrucciata. «E pensare che ti ho sposato!»
   «E pensare che ci hai fatto una figlia!» rincarò la dose Vera tra una risata e l'altra.
   La sua migliore amica impallidì.
   «Ci ho fatto una figlia» ripeté con voce flebile. Si coprì il volto con le mani. «Oh Dio, Lu­dovica potrebbe diventare come lui!» gnaulò disperata.
   «Ehi!» sbottò Tiziano, oltraggiato, e l'ex ginnasta rise più forte.
   «Penso che questo sia il momento giusto per andar via» commentò, alzandosi. «Buon divertimento!»
   I due neanche la sentirono, impegnati com'erano a battibeccare, e Vera si affrettò a lasciare l'appartamento prima che la loro attenzione si appuntasse di nuovo su di lei.

******

Nonostante fosse trascorsa una settimana da quando aveva assistito al disastroso appuntamen­to di Vera, Vittorio provava ancora il desiderio di prendere a calci Fabio: glielo suggeriva lo stesso tipo di rabbia che più volte l'aveva messo nei guai con i suoi superiori o mentre era in servizio, e sebbene una parte di lui fosse fiera di aver dominato quell'impulso, l'altra si lamen­tava a gran voce per aver perso l'occasione di insegnare a quell'omuncolo che quello in cui si era esibito non era il modo giusto di trattare una donna. Soprattutto non una come Vera, non poteva fare a meno di pensare: sì, quella ragazza aveva un caratteraccio in grado di fargli sal­tare i nervi un giorno sì e l'altro pure, ma dopo tutto quello che aveva passato, di si­curo non meritava di essere umiliata in quel modo.
   Seduto sul proprio letto, il quarantenne stava immaginando di stringere la mani intorno al collo di Fabio quando qualcuno bussò alla porta.
   «Valenti?». Uno dei suoi colleghi mise dentro la testa e scandagliò veloce la stanza con gli occhi, alla sua ricerca. «C'è una persona che chiede di te».
   Sbuffando, Vittorio s'infilò le scarpe e andò nell'ingresso.
   «Non si risponde più al telefono?» disse Vera a mo' di saluto non appena lo vide arrivare.
   L'uomo si tastò le tasche, perplesso, prima di ricordare che aveva lasciato il cel­lulare sul comodino il pomeriggio precedente e non l'aveva più toccato. «Deve essersi scari­cato». In­crociò le braccia al petto e la squadrò, cauto. «Che è successo?»
   «È sabato e io mi annoio» rispose Vera con una scrollata di spalle.
   «E allora?» insisté Vittorio.
   Lei s'infilò le mani nelle tasche dei jeans e piegò appena la testa di lato. «Vuoi proprio sen­tirmelo dire, vero?»
   Vittorio le rivolse uno sguardo innocente. «Non so di cosa stai parlando».
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Senti, a casa mi annoiavo e ho pensato che se non eri di turno potevi aver voglia di andare a prendere un caffè qua vicino e fare quattro chiacchiere, ma se non ti va...»
   «Mi va» la interruppe il carabiniere. «Fammi prendere la giacca e andiamo».
   Dieci minuti più tardi, i due entrarono in un bar poco distante il comando, ordinarono un caffè e andarono a sedersi a uno dei tavolini all'esterno.
   «Allora, Gamba Bionica». Vittorio sorrise compiaciuto al mugugno iracondo con cui Vera rispose al nomignolo. «Come mai hai scelto di uscire proprio con me?»
   Lei gli scoccò un'occhiataccia. «Francamente non lo so più» ringhiò. «Venerdì scorso avevo avuto l'impressione che potesse essere piacevole passare del tempo in tua compagnia, ma ini­zio a credere di aver preso un granchio».
   «Tutto questo astio mi pare eccessivo» replicò l'uomo, accigliato. «E poi non lo sai che un sorriso fa sembrare più giovani?»
   «Prendendo per buona questa teoria, tu dovresti dimostrare cent'anni» ribatté prontamente Vera. Inarcò le sopracciglia e sorrise beffarda. «E comunque sei tu quello che ha sempre la fronte aggrottata, come in questo momento: ti farà venire un sacco di rughe».
   D'istinto Vittorio si lisciò la fronte con la mano, e altrettanto spontaneamente guardò Vera con un cipiglio che non la intimorì affatto, quando lei gli scoppiò a ridere dritto in faccia.
   «Sei insopportabile» bofonchiò Vittorio.
   «Almeno in questo siamo uguali» commentò la ragazza con sincero divertimento.
   Vittorio si adagiò contro lo schienale della sedia e si preparò a lanciare una risposta taglien­te; prima che potesse riuscirci, però, un'ombra si allungò sul tavolino ed entrambi si voltarono verso la donna alta e attraente che si era appena fermata lì accanto.
   Allarmata, Vera osservò il volto del carabiniere irrigidirsi e impallidire, per poi coprirsi di chiazze rossastre tra il collo e le orecchie.
   «Vittorio» disse altera la sconosciuta che torreggiava su di loro. «Finalmente ti ho trovato».
   Vittorio si alzò.
   «Emanuela» ringhiò con una ferocia che Vera non gli aveva mai sentito nella voce. «Che ci fai qui?»
   Emanuela incrociò le braccia al petto e lo guardò, apparentemente incurante della sua rab­bia. «Visto che da oltre due settimane non rispondi alle mie chiamate né ai miei messaggi, ho deciso di venire a Roma e parlare con te...»
   «Un po' tardi per entrambe le cose, non trovi?» disse sarcastico Vittorio.
   «Per fortuna il tuo collega, al comando, mi ha detto che eri uscito a piedi e che di sicuro eri nelle vicinanze» proseguì Emanuela, ignorando la sua interruzione. Si spostò una ciocca di capelli scuri dal volto e rivolse uno sguardo tor­bido a Vera. «Anche se di sicuro non mi aspettavo di trovarti con la tua... amichetta».
   «Lasciala fuori» esclamò brusco l'uomo. «Adesso, smettila con tutte queste pose e dimmi che diavolo vuoi: non ho tutta la giornata, e anche se l'avessi, non la sprecherei con te».
   «No, immagino bene con chi e come la sprecheresti» ribatté sua moglie, scoccando un'altra occhiataccia a Vera.
   «Ti ho detto di lasciarla fuori da questa storia» le abbaiò contro Vittorio.
   «Se avesse voluto restare fuori da questa storia, non sarebbe dovuta venire a letto con te» ri­spose mordace Emanuela.
   Vera si alzò e prese la borsa. Le insinuazioni e l'indignazione di Emanuela non la toccavano affatto, ma a quanto pareva la sua presenza stava surriscaldando ulteriormente gli animi, e non voleva creare a Vittorio più problemi di quanti già non ne avesse.
   «Valenti, è meglio se me ne vado» disse, prima di voltarsi a guardare l'altra donna. «Signo­ra, mi spiace doverla deludere ma tra me e suo marito non c'è mai stato niente di illecito: sol­tanto parecchi insulti e qualche conversazione amichevole».
   «Certo. Ed è per questo che eri seduta qui con lui, a covartelo con gli occhi, vero?» la pro­vocò l'altra.
   La venticinquenne inarcò le sopracciglia. «L'unica cosa che abbia mai covato nei confronti di Valenti è il desiderio di prenderlo a calci».
   Emanuela rise sprezzante. «Se ti aiuta a dormire la notte continua pure a negare, ma sappi che so rico­noscere un traditore e una puttana, quando li vedo».
   Gli occhi ridotti a fessure, Vera lasciò cadere la borsa sulla sedia, fece due passi avanti con insolita rapidità e si fermò di fronte all'altra donna, tanto vicina che i loro nasi quasi si sfiora­vano.
   «Visto che a quanto pare sei tarda di comprendonio, ciccia, cercherò di spiegarmi nel modo più semplice possibile» sibilò Vera. «Io e tuo marito non abbiamo mai fatto sesso: a differen­za tua, che gli metti le corna da un bel pezzo, Vittorio è un uomo perbene, onesto e rispettoso, e anche se non lo conosco da molto, ho visto abbastanza di lui da sapere che è fedele anche con chi non se lo merita» ringhiò, calcando in maniera significativa le ultime parole. «La ve­rità è che tu non meriti Vittorio, sennò non ti saresti scopata il tuo capo, e saresti venuta a Roma appena possibile pur di stargli vicino». Le rivolse uno sguardo disgustato. «E se pro­prio hai tutta quest'urgenza di guardare una puttana, posso prestarti uno specchio».
   «Piccola bastarda!» strillò Emanuela, furibonda; alzò una mano con l'intento di schiaffeg­giare Vera, che da parte sua non si mosse, quasi sfidandola a colpirla e fornirle così un prete­sto per picchiarla a sua volta. Vittorio, invece, si mosse eccome: con uno scatto abbrancò Emanuela alla vita e la trascinò indietro prima che potesse toccare l'altra donna.
   «Lasciala, Valenti» disse minacciosa Vera, facendo un altro passo in avanti. «Lascia che questa troia mi dia uno schiaffo, così ho la scusa per prenderla a calci e ficcarle la protesi dove non batte il sole!»
   «Ti riduco la faccia in poltiglia, stronzetta!» urlò in risposta Emanuela.
   «Vera, ferma lì!» tuonò Vittorio. Scrollò Emanuela, che si divincolava nella sua stretta e ti­rava calci alla rinfusa nel tentativo di colpire Vera. «E tu, smettila!». Nessuna delle due lo ascoltò, e lui indietreggiò ancora. «Volete smetterla di azzuffarvi come due gatte selvatiche?» ululò.
   Di nuovo, entrambe le donne lo ignorarono. Vittorio decise di passare alle maniere forti.
   «Se non vi fermate subito vi arresto, vi butto in due celle separate e vi ci lascio per una settimana!» urlò a pieni polmoni.
   Finalmente Vera smise di avanzare ed Emanuela di dimenarsi.
   «Era ora» esalò esausto l'uomo. Notò sconfortato che un gran numero di persone si era ra­dunato intorno a loro per assistere alla lite, e chiuse gli occhi per un istante, racimolando la poca pazienza che gli era rimasta. «Vera, giuro che non te lo vorrei chiedere, ma...»
   «È meglio che io me ne vada, sì» concluse Vera al suo posto con voce gelida. Rivolse uno sguardo cattivo a Emanuela e scoprì i denti in una smorfia feroce, poi girò sui tacchi, recupe­rò la propria borsa e sparì oltre l'angolo.
   Dopo aver atteso un minuto buono per sicurezza, Vittorio lasciò la presa su sua moglie.
   «Adesso che hai fatto questa sceneggiata sei soddisfatta?» sibilò rabbioso.
   «Se la tua puttana non avesse...» esordì irritata la donna.
   «Ha ragione lei: sei tarda di comprendonio» la interruppe Vittorio. «O forse vuoi soltanto sentirti meno colpevole per avermi tradito pensando che io abbia fatto lo stesso, ma non è così, e qualsiasi cosa tu dica, non cambierà la realtà dei fatti». Aprì la bocca, pronto ad ag­giungere qualcosa, ma ci ripensò; ripescò da una tasca alcune monete e le lanciò sul tavolo, poi prese Emanuela per un gomito e la trascinò a una ventina di metri dal bar. Quando la la­sciò, incrociò le braccia al petto e la soppesò con lo sguardo. «Basta giochetti, Emanuela. Che – cosa – vuoi?»
   Lei lo guardò male per alcuni momenti; poi chiuse gli occhi e prese un gran respiro.
   «Te l'ho detto: sono venuta per parlare con te» rispose piano prima di tornare a guardarlo. L'espressione tempestosa di Vittorio non si attenuò ed Emanuela chinò la testa. «Vittorio, io... io voglio provare a recuperare il nostro matrimonio» mormorò.
   «No» rispose all'istante il carabiniere.
   Emanuela rialzò la testa di scatto. «Perché no?» chiese brusca. «Stiamo insieme da vent'an­ni: non conta proprio niente, per te?»
   Istintivamente Vittorio fece un passo in avanti, le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati.
   «Non sono io quello che ha calpestato le promesse che ci eravamo fatti!» sibilò. «Non sono io che ho provato a cambiarti, non sono io ad averti tradita né ad averti lasciata sola!»
   «Mi dispiace, va bene?» replicò la donna, gli occhi umidi. «Ho sbagliato a tradirti, ma tu puoi dire, in tutta onestà, di non aver avuto una parte di responsabilità, in questo?»
   Vittorio la fissò con gli occhi sgranati. «Scusa? Adesso sarebbe colpa mia se tu mi hai tradi­to per più di due anni?»
   «Tu eri così... distante!» sbottò Emanuela, passandosi le mani tra i capelli. «Passavi in ca­serma più tempo di quanto si aspettassero da te, pur di non stare a casa!»
   «Come potevo aver voglia di stare a casa, se non facevamo altro che discutere?» ribatté Vit­torio.
   «Discutevamo perché...» esordì Emanuela.
   «... perché volevi cambiare quello che sono!» la interruppe l'uomo, inacidito. «Dovevamo uscire sempre con i tuoi amici chic, continuavi a comprarmi vestiti che detestavo, a trascinar­mi in locali alla moda e a dirmi che dovevo cambiare modo di comportarmi, parlare, pensa­re!»
   «Volevo solo condividere più cose con te!» si difese lei, le braccia incrociate sul petto.
   «No, tu volevi farmi vivere secondo i tuoi gusti» controbatté Vittorio. «Neanche una volta, negli ultimi anni, hai accettato di fare qualcosa che piacesse a me, ma ti aspettavi che io fa­cessi tutto quello che piace a te».
   «E tu, per tutta risposta, ti sei allontanato e mi hai lasciata sola!» strillò Emanuela. «E poi ti sorprendi che io ti abbia tradito?»
   La bocca di Vittorio si arricciò fin quasi a scoprirgli i denti.
   «La verità, Emanuela, è che se anche sei stata innamorata di me, hai smesso di esserlo mol­to tempo fa» disse con calma forzata. «Se lo fossi stata non avresti cercato di cambiarmi... e non mi avresti negato dei figli».
   «Ecco qual è il problema!». Emanuela alzò le braccia al cielo, esasperata. «Ancora la que­stione dei figli, sempre la questione dei figli!»
   «Ovviamente!» abbaiò Vittorio. «Hai sempre saputo che ne volevo e non hai mai pensato di dirmi che tu, invece, non ne vuoi!»
   «Non è vero che non li voglio!» urlò la donna in risposta. «Io li voglio, dei figli, ma come posso mettere al mondo dei bambini con te se continui a fare questo lavoro? Come faccio a diventare madre e stare tranquilla, se in qualsiasi momento può capitarti qualcosa? Il tuo è un lavoro pericoloso!»
   Vittorio la fissò a bocca aperta.
   «Tu non hai mai accettato di avere dei figli per il mio lavoro?» ripeté in un sibilo.
   «E ti sorprendi?» berciò Emanuela.
   «Certo che mi sorprendo!» replicò lui. «Che ti aspettavi che facessi – che ti sposassi e dopo qualche anno lasciassi l'Arma e mi trovassi un bel lavoretto da scrivania?»
   «Sì!» gridò Emanuela. «Sì, è esattamente quello che mi aspettavo! Che tu cambiassi, che crescessi e capissi che non non c'era modo costruire una famiglia, se continuavi a fare quel lavoro!». Tacque e prese qualche respiro profondo nel tentativo di calmarsi. «È per questo che sono venuta a Roma: possiamo ancora salvare il nostro matrimonio, se sei disposto a fare qualche sacrificio». Gli rivolse uno sguardo duro e limpido. «Lascia i Carabinieri, e sono pronta ad avere un figlio. Subito».
   Incredulo, Vittorio la squadrò per un minuto buono prima di richiudere la bocca.
   «Se avessi avuto ancora qualche dubbio sul volere il divorzio, questa conversazione li avrebbe fugati tutti» disse con calma ingannevole. «Io amo essere un carabiniere, perché il punto è proprio questo: non è un lavoro – è una vocazione, uno stile di vita. Io sono questo e non ho nessuna intenzione di cambiare: è sempre stato così, e lo sai dal giorno in cui ci siamo conosciuti. Come hai potuto pensare che un giorno sarei stato disposto a congedarmi dall'Ar­ma?». La squadrò di nuovo, stavolta con disprezzo. «Io non ti ho mai chiesto di cambiare, mentre tu non hai fatto altro che cercare di farmi diventare una persona diversa. A questo punto è chiaro che io non sono quello che vuoi, e francamente tu non sei più la persona con cui voglio invecchiare». Scosse la testa e le voltò le spalle. «Vattene, Emanuela, è meglio».
   Emanuela, invece, l'afferrò per un braccio e lo costrinse a guardarla di nuovo.
   «No che non me ne vado!» protestò. «Non puoi rinunciare così a tutto quello che abbiamo costruito in vent'anni! Voglio un'ultima possibilità – me lo devi!»
   «Io non ti devo niente» rispose gelido Vittorio. «È finito il tempo in cui eri tutto quello che volevo. Adesso, l'unica cosa che ancora voglio da te è il divorzio».
   La donna lasciò la presa sul suo braccio e sussultò come se l'avesse schiaffeggiata.
   «Sei sicuro di volere questo?» chiese piano.
   Il carabiniere non mosse un muscolo. «Tu eri sicura di volermi cambiare, quando hai tenta­to di farlo? Eri sicura di voler fare sesso con il tuo capo, quando hai deciso di tradirmi? Eri si­cura di voler stare lontana da me, quando sono stato rispedito qui e tu hai scelto di restare a Milano?»
   Due lacrime colarono dagli occhi di Emanuela. «Lo so che ho sbagliato» mormorò.
   «Dovevi pensarci prima: adesso è tardi» rispose secco Vittorio.
   «Quindi finisce tutto... così?» disse Emanuela.
   L'uomo si passò una mano sul volto. «È già finito, e da un pezzo» commentò. «Ci siamo ostinati a stare insieme, a fingere che non fosse cambiato nulla, ma era cambiato tutto e lo sappiamo entrambi. Continuare in questo modo non ha senso».
   Sua moglie abbassò lo sguardo. «No, forse non ce l'ha».
   Vittorio incrociò le braccia e prese un bel respiro. «Emanuela, ascoltami: dopo tutti questi anni di... di nervosismo, e di astio reciproco, vorrei chiudere la nostra storia in modo rapido e pulito. Non ho voglia di combattere attraverso avvocati e giudici: preferirei evitarlo, e ho una proposta da farti».
   «Ti ascolto» rispose lei in tono piatto.
   «Allora, partiamo da un presupposto che credo sia chiaro a tutti e due: tu mi hai tradito in modo regolare e guadagni il triplo di me, il che significa che posso ottenere gli alimenti senza problemi» disse Vittorio, andando dritto al nocciolo della questione. «Quello che veramente mi interessa, però, è liberarmi della mia parte del mutuo: ormai dell'appartamento a Milano non me ne faccio più niente. La mia proposta è questa: se metti subito in vendita la casa, estingui il mutuo e mi dai la mia metà dei soldi che restano, io rinuncio agli alimenti».
   Emanuela si strinse goffamente nelle spalle. «Va bene. In fondo non è come se tirarla per le lunghe potesse farti cambiare idea, no?» commentò amara. «Ormai hai deciso».
   Vittorio scosse piano la testa. «Non sono in grado di dimenticare tutto quello che è succes­so. Fidati, Emanuela: è meglio così».
   Anche Emanuela incrociò le braccia al petto, e rivolse a Vittorio uno sguardo astioso. «Se lo dici tu, sarà così» rispose glaciale.
   Il carabiniere scosse di nuovo la testa e le si avvicinò, le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti verso l'alto in un gesto conciliatorio. «Emanuela, mi...»
   La donna si scostò con un gesto brusco. «Non dire che ti dispiace. Quella è la mia battuta, no?» lo interruppe sarcastica. «Ti terrò aggiornato sulla vendita della casa» si congedò.
   Vittorio la guardò andare via, poi girò sui tacchi e tornò verso la caserma a passo di marcia; quando vi rimise piede, un paio di suoi colleghi ancora in abiti civili e un terzo alla guardiola lo salutarono, ma lui non si fermò a ricambiare.
   Nella propria stanza, Vittorio si scaraventò sul comodino, attaccò il cellulare al caricabatte­rie prima di riaccenderlo e provò a chiamare Vera: batté nervosamente la punta del piede a terra mentre gli squilli si succedevano, ma nessuno rispose. Riprovò a chiamarla una seconda e una terza volta, sempre senza successo; al quarto tentativo a vuoto, Vittorio posò il cellulare sul comodino con tanta forza da rischiare di rompere il telefono e si lasciò sfuggire un ringhio inarticolato.
   «Vittò?» chiamò cauta una voce. Il carabiniere alzò lo sguardo e vide Claudio nel vano del­la porta, l'espressione guardinga. «Che ti è successo?»
   Vittorio prese a camminare per la stanza, lanciando, a intervalli regolari, occhiatacce al cel­lulare.
   «Mia moglie è venuta a Roma» mugugnò scontento. «È venuta a cercarmi proprio mentre ero al bar con Vera e ha fatto una sceneggiata in mezzo alla strada, davanti a lei».
   «Vera?» gli fece eco l'altro, perplesso dall'unico pezzo su cui non aveva informazioni.
   «La ragazza della Up! che abbiamo portato in caserma tempo fa» spiegò distratto Vittorio; prese il cellulare e provò ancora a chiamare Vera. «Dai, Vera, rispondi...» bofonchiò a tempo con gli squilli, ma per l'ennesima volta non ottenne rispo­sta. «Che palle!» urlò.
   Claudio lo osservò dalla porta. «Vittorio, che t'importa che quella ragazza fosse presente?» domandò cauto.
   «M'importa!» sbraitò l'altro in risposta. Sferrò un pugno all'armadio. «Perché quella stronza di Emanuela deve complicarmi la vita sempre?»
   Il più giovane scosse la testa. «E vuoi dirmi ancora che quella ragazza non ti piace?»
   Vittorio si mise le mani nei capelli, furioso. «Non mi piace!» ribadì. «Ma a parte te è l'unica persona con cui abbia fatto amicizia da quando sono tornato a Roma, e dopo aver assistito a quella sceneggiata, non mi stupirei se non volesse più avere niente a che fare con me!»
   «Se è davvero tua amica, non cambierà nulla» gli fece notare Claudio.
   Il quarantenne sbuffò. «Emanuela ha puntato Vera non appena l'ha vista» spiegò. «È partita col sarcasmo aggressivo e in un minuto è passata all'attacco frontale: l'ha accusata di essere venuta a letto con me e l'ha chiamata puttana. Ma ti rendi conto che faccia tosta? Maledetta ipocrita...»
   Le sopracciglia di Claudio s'inarcarono tanto da far pensare che si sarebbero fuse con l'at­taccatura dei capelli.
   «Però» commentò soltanto. «E questa Vera come ha risposto?»
   «Per le rime» replicò Vittorio. «Sono arrivate alle mani. Se non avessi trattenuto Emanuela, penso che sarebbero ancora lì a picchiarsi in mezzo al marciapiede: lei era andata fuori di te­sta, e Vera aveva la faccia di una pronta a uccidere». Sbuffò. «Ho dovuto minacciare di arre­starle, per farle stare ferme!»
   «Però!» ripeté Claudio, sempre più colpito. «Certo, penso che qualunque altra donna avreb­be reagito così, se un'altra le avesse dato della troia».
   «Mh?» fece Vittorio, vago, mentre riprovava a chiamare Vera. «Ah, no, veramente è stata Emanuela a cominciare: ha provato a prendere a schiaffi Vera dopo che lei gliene ha dette di tutti i colori per difendermi...»
   «Eh?» esclamò Claudio. Vittorio alzò gli occhi e vide l'espressione sbalordita dell'altro. «Mi stai dicendo che quelle due hanno provato a suonarsele perché tua moglie ti ha offeso e la tua... amica, o quello, che è... le ha detto qualcosa in grado di farle saltare i nervi per difen­dere te?»
   Vittorio batté in fretta le palpebre. «Eh... sì?» azzardò debolmente.
   Claudio continuò a fissarlo a bocca aperta per almeno mezzo minuto prima di ricomporsi.
   «Cristo, Vittorio, mi rimangio quello che ho detto finora» esclamò infine. «Non è lei che piace a te. Sei tu che piaci a lei, e di brutto!»
   L'altro sbuffò una risata. «Diglielo dopo che ha finito di insultarmi: è praticamente l'unica cosa che fa».
   Claudio diede uno sguardo all'orologio. «Finiremo questa discussione in macchina. Adesso dobbiamo prepararci: se iniziamo il turno in ritardo, Testa ci ammazza». Vittorio gli rivolse uno sguardo poco convinto, il cellulare ancora stretto tra le mani, e Claudio scosse la testa, diviso tra la voglia di ridere e quella di prendere l'amico a schiaffi per farlo tornare in sé. «Vittò, proverai a richiamarla dopo».
   «Quest'affare è scarico» mugugnò Vittorio, senza allentare la presa sull'oggetto.
   Esasperato, Claudio lo raggiunse e gli sfilò a forza il telefono dalle mani, incurante delle proteste dell'altro uomo. «Abbiamo un paio di caricabatterie da automobile, in guardiola, che abbiamo comprato tempo fa proprio per queste situazioni: te ne prendo uno, basta che adesso ti prepari!» disse perentorio.
   «Va bene, va bene» si arrese Vittorio.
   Soddisfatto, Claudio andò nello spogliatoio per indossare la divisa, portandosi dietro il tele­fono dell'amico per evitare che cedesse alla tentazione di usarlo invece di cambiarsi, mentre si chiedeva come fosse possibile che un uomo acuto come Vittorio non riuscisse a vedere quello che aveva proprio davanti al naso.

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Capitolo 12
*** Capitolo XI ***


Vera sospirò.
   Era in macchina, diretta al centro di Roma, e la suoneria del suo cellulare le martellava il cervello come faceva ormai da tre giorni. La ragazza non aveva neanche bisogno di guardare lo schermo per sapere che era di nuovo Vittorio, a chiamarla: dopo aver trascorso il sabato pomeriggio a ignorare i suoi tentativi di mettersi in contatto con lei, stanca di controllare il cellulare per essere sicura che non fosse qualcun altro, a cercarla, si era decisa a impostare una suoneria personalizzata per il numero del carabiniere.
   Per il momento in cui Vera parcheggiò, il suo cellulare aveva ripreso a squillare, e per la se­sta volta in quella giornata la ragazza si trovò ad ascoltare Demon's eye dei Deep Purple usci­re a tutto volume dall'altoparlante del telefono.
   Rassegnata, Vera prese il cellulare e rispose.
   «Finalmente!» strillò la voce di Vittorio prima ancora che Vera potesse dire alcunché. «Ci voleva così tanto, a rispondere?»
   «Che vuoi, Valenti?» replicò Vera a denti stretti.
   «Prima di tutto assicurarmi che tu stia bene: ero preoccupato» disse il carabiniere. «A giu­dicare dal tono acido, direi che sei in perfetta forma» aggiunse pungente.
   «Ah-ah» cantilenò sardonica Vera. «Adesso che hai detto la battutona di giornata, ti serve altro?»
   «Dobbiamo parlare» sparò Vittorio.
   «Guarda che non sono tua moglie, che fai minacce del genere» ribatté la ragazza.
   «Non la nominare!» mugghiò Vittorio.
   «Come ti pare» tagliò corto lei. «Valenti, ho da fare: arriva al punto, in fretta, per favore!»
   «Voglio parlare con te di quello che è successo l'altro giorno» articolò l'uomo, sbuffando. «Di persona, prima che tu dica qualcosa tipo “Stiamo già parlando”» l'anticipò. «E voglio parlarne oggi: quindi o mi dici dove ci possiamo vedere, o vengo a cercarti a casa. Sono si­curo che tuo padre sarà felice di offrirmi un caffè...»
   Anche Vera sbuffò, inferocita. «Sei fastidioso, Valenti: te l'ha mai detto nessuno?»
   «Dove?» insisté imperterrito Vittorio.
   La donna si passò la mano libera sulla fronte. «Ho un appuntamento tra un quarto d'ora» ringhiò. «Non posso liberarmi prima delle cinque...»
   «Dimmi dove sei: vengo lì e aspetto che tu finisca» la interruppe lui.
   «Sono a Tor di Quinto!» sbottò Vera, frustrata. «Ti mando l'indirizzo su WhatsApp, conten­to?»
   «Molto» rispose soddisfatto Vittorio. «Ci vediamo alle cinque».
   Senza perdere tempo a replicare Vera gli chiuse la chiamata in faccia, appoggiò la testa al volante e gemette di rabbia e fastidio.

******

Alle cinque e un quarto, in una via a pochi minuti da Ponte Flaminio, Vittorio passeggiava nervoso davanti al civico che Vera gli aveva indicato nel messaggio, controllando i portoni d'ingresso di due palazzine ogni volta che invertiva la direzione della propria marcia. Era lì già da mezz'ora nonostante Vera gli avesse detto che non si sarebbe liberata prima delle cin­que, e quella lunga, infruttuosa attesa stava facendo nascere in lui il sospetto che la ragazza gli avesse detto un indirizzo a caso, probabilmente dalla parte opposta di Roma rispetto a quella in cui si trovava davvero.
   Vittorio era intento a valutare le proprie opzioni – se attaccarsi di nuovo al telefono fino a quando Vera non gli avesse risposto, andare direttamente a casa di lei o tornarsene in caserma – quando uno dei portoni si spalancò e l'intreccio confuso di due voci si levò nell'aria.
   Il carabiniere si voltò a guardare la scena: Vera era aggrappata allo stipite della porta, men­tre un uomo di qualche anno più grande di lui cercava in tutti i modi di spingerla fuori.
   «Non lo voglio vedere: fammi restare qui!» gnaulò la ragazza.
   Lo sconosciuto le piantò una spalla in mezzo alla schiena nel tentativo di smuoverla. «Vera, io ho da fare e la tua non è un'emergenza» ribatté. «Te lo ricordi quali sono le situazioni che consideriamo emergenze, no?»
   «Sì» rispose scontenta Vera, senza però allentare la presa sul portone. «Ma scusa, Gianpao­lo, che fastidio ti do se rimango giusto un altro paio d'ore? Mi metto in un angolo senza fiata­re, neanche ti accorgerai che ci sono!»
   «Stai solo facendo i capricci» ansimò lui. Si passò una mano tra i capelli brizzolati prima di afferrare le mani di Vera per cercare di staccarle dal montante. Invano. «Vera, questo tuo im­provviso comportamento infantile mi preoccupa molto: forse dovremmo ricominciare a ve­derci più spesso, magari una o due volte a settimana...» disse in tono scaltro.
   Vera lasciò lo stipite come se di colpo fosse diventato incandescente. «No!»
   Gianpaolo sogghignò e la ragazza si rese conto con un attimo di ritardo di essere stata mes­sa nel sacco: provò ad aggrapparsi di nuovo alla porta, ma l'uomo l'aveva già spinta in avanti, sul pianerottolo, verso i pochi gradini che scendevano fino al piazzale tra i due condomini.
   «Ti odio!» grugnì Vera al suo indirizzo.
   «Ci lavoreremo la prossima volta» replicò Gianpaolo senza battere ciglio; scorse Vittorio, che si era avvicinato tanto da trovarsi solo a un paio di metri dall'ingresso, e gli rivolse un al­legro cenno di saluto con la mano prima di tornare dentro, ignorando completamente la ra­gazza.
   Rassegnata, Vera scese i gradini con la testa incassata tra le spalle.
   «Ciao, Valenti» mugugnò.
   Vittorio non rispose: il suo sguardo sconcertato continuava a saettare da lei al portone oltre cui Gianpaolo era sparito.
   «Cosa... che... quello... chi...» farfugliò. Sotto lo sguardo sardonico della ragazza, deglutì e si sforzò di comporre una frase di senso compiuto. «Chi era quello?» riuscì a chiedere.
   «Il mio psicologo» rispose Vera. Accennò con la testa al marciapiede. «Facciamo una cam­minata?»
   Vittorio annuì. I due si avviarono lentamente verso il Lungotevere; in silenzio lo raggiunse­ro e si fermarono a metà strada tra Ponte Flaminio e Ponte Milvio, dove si appoggiarono alla ringhiera, a guardare il fiume.
   «Allora» disse Vera dopo un po'. «Non... non volevi parlare dell'altro giorno?»
   Il carabiniere si girò verso di lei, un gomito appoggiato al parapetto.
   «Io sì, ma tu no» rispose calmo. «Almeno a giudicare dal modo in cui il tuo psicologo ha dovuto spingerti fuori dallo studio».
   Vera abbassò lo sguardo sulle proprie dita. «È che non credo siano affari miei» mormorò.
   «Sciocchezze» replicò Vittorio, senza staccare gli occhi dalla ragazza. «Sono diventati affa­ri tuoi nel momento in cui Emanuela ha deciso di prendersela con te». Prese un respiro pro­fondo. «Volevo chiederti scusa per quello che ti ha detto...»
   Lei lo zittì agitando una mano. «Tua moglie è una donna adulta: solo lei è responsabile del­le sue azioni. Non devi scusarti per come si è comportata». Lo guardò di sottecchi. «Anzi, forse sono io a dover chiedere scusa a te: ho l'impressione di aver peggiorato la situazione, provocandola».
   «Nah» commentò il carabiniere con una scrollata di spalle. «Voleva attaccare briga, ci ha provato anche con me, dopo che te ne sei andata».
   L'espressione di Vera divenne scettica. «E sarebbe venuta fin qui solo per litigare?»
   Vittorio si lasciò sfuggire una strana risata strozzata, simile a un grugnito. «No, per chiedere un'altra possibilità» replicò. «Come può aver pensato che gliel'avrei concessa, io proprio non lo so...»
   «Forse perché dovresti» disse piano la ragazza, rivolgendo di nuovo lo sguardo al Tevere.
   L'uomo sbuffò, l'incredulità dipinta a chiare lettere sul volto. «Ti dirò quello che ho detto a lei, Gamba Bionica: per quanto mi riguarda, il matrimonio tra me ed Emanuela è finito da un pezzo. Sto solo facendo quello che avrei dovuto fare anni fa».
   Vera scosse lentamente la testa. «Non lo so, Valenti. Insomma, non sono nella tua testa quindi non pos­so esserne sicura, ma credo che tu ci tenga ancora al tuo matrimonio, e a tua moglie; per que­sto dico che forse lei ha ragione. Gliela dovresti dare, un'ultima possibilità».
   «E perché dovrei?» chiese beffardo Vittorio.
   «Perché se ci tieni ancora e invece ti ostini a volere la separazione e in seguito anche il di­vorzio, un domani rischi di pentirtene» spiegò Vera in tono asciutto, scandendo le parole come avrebbe fatto con un bambino.
   Vittorio si sporse verso di lei, scrutando attentamente la sua espressione.
   «Spiegami un po' come mai continui a dire che tengo ancora a Emanuela» la esortò con un gesto eloquente della mano.
   Vera indicò quella stessa mano che lui le aveva appena sventolato davanti.
   «Porti ancora la fede» disse piatta.
   Vittorio abbassò lo sguardo sul punto in questione e si rese conto che Vera aveva ragione: la fascia d'oro giallo che portava da vent'anni brillava beffarda dal suo anulare sinistro, quasi a schernirlo di aver creduto in quelle promesse tanto da non sfilarsi mai quel gioiello dal dito. Si era talmente abituato alla sua presenza da non accorgersi neanche più di indossarlo; era di­ventato parte della sua mano al punto da passare inosservato, e aveva finito per dimenticarsi del­la sua esistenza. Un po', rifletté, come i voti che avevano accompagnato quelle vere nuzia­li: erano diventati entrambi inutili e dimenticati.
   Di colpo, il contatto tra quell'oggetto e la sua pelle gli risultò insopportabile.
   «Vuoi vedere che ci faccio, con questa fede?». Vittorio si sfilò l’anello con gesti bruschi e fece per lanciarlo nel fiume. «Ecco, che ci faccio!»
   Vera gli afferrò il polso e lo fermò prima che potesse gettare la fede nel Tevere. «Non credo che dovresti farlo» disse seria. Vittorio la guardò, aspettandosi un discorso profondo sul non arrendersi e sul fare tesoro anche delle brutte esperienze, e un’esortazione a tenere quell’og­getto come ricordo di quel che di buono c’era stato nel suo matrimonio, ma Vera lo spiazzò. «L’oro sta a ventisette euro al grammo. Se proprio vuoi disfarti della fede, vendila: almeno ti metti in tasca un po’ di soldi, fanno sempre comodo».
   Vittorio la fissò con un misto di incredulità e ammirazione. «Cristo, Vera, sei più cinica per­sino di me!»
   Lei si strinse nelle spalle. «Preferisco dire che ho uno spirito pratico» rispose. «Allora, che vogliamo fare? Butti quell’anello e ce ne andiamo, o ti rimetti quell’anello e ce ne andiamo?»
   Il carabiniere si mise a ridere. «Mi pare di capire che te ne vuoi andare».
   Vera si finse sorpresa. «Oh, è così evidente?»
   «Appena appena». Vittorio infilò la fede in un taschino del portafogli e passò un braccio in­torno alle spalle di Vera, che lo guardò perplessa. «Che c’è? Mi sento allegro: hai rimesso le cose nella giusta prospettiva e adesso sono tranquillo».
   La donna sbuffò, scettica. «Secondo me, tu non sei tranquillo neanche quando dormi».
   «Forse hai ragione» concesse lui, insolitamente mansueto; si mosse, costringendo Vera a mettersi in moto. «Ciò non toglie che ora sono di buonumore».
   «Questo sì che è un evento: adesso mi aspetto di tutto. Piaghe bibliche, catastrofi naturali, unicorni che starnutiscono caramelle…» replicò ironica Vera.
   Vittorio strinse un po’ di più la presa intorno alle sue spalle. «Non puoi goderti il momento e basta, Gamba Bionica?»
   Lei alzò gli occhi al cielo e gli passò un braccio intorno alla vita. «Va bene: godiamoci il momento. Ma non ci fare l'abitudine!»
   «Non oserei mai» sghignazzò Vittorio, e suo malgrado, anche Vera sorrise.

******

Quel giorno, Vera era afflitta da un dilemma apparentemente senza risposta: quale era la ver­sione di Vittorio Valenti che le dava più sui nervi?
   Fino a una settimana prima l'ex ginnasta avrebbe detto senza esitazioni che il Vittorio dei primissimi incontri-scontri era imbattibile nel farla infuriare, ma adesso correva il rischio di ricredersi: la nuova abitudine del carabiniere di chiamarla a raffica per farsi rispondere riusci­va davvero a mandarla fuori di testa... e senza neanche averlo di fronte: un risultato che Vera non avrebbe mai creduto possibile.
   Borbottando tra sé, la donna avanzò verso l'indirizzo che Vittorio le aveva dato mezz'ora prima per telefono, dopo averla – appunto – bombardata di chiamate per assicurarsi una pron­ta risposta, domandandosi cosa ci fosse di tanto urgente da farla correre lì.
   Vittorio l’aspettava camminando su e giù lungo il marciapiede, le mani affondate nelle ta­sche dei jeans e l’espressione impaziente. Quando finalmente la scorse, sbuffò.
   «Era ora, Gamba Bionica!» salutò.
   Una volta tanto, Vera non si scompose. «Continua a chiamarmi Gamba Bionica e finirò per ficcarti questa protesi dove non batte il sole».
   «Come siamo permalose!». L’uomo l’afferrò per un braccio e la condusse verso un portone qualche metro più giù. «A proposito, grazie di essere venuta».
   «Peccato che me ne stia già pentendo» rispose sarcastica Vera. «Allora, si può sapere che ti serve? Visto che al telefono non hai voluto dirmi niente…»
   Vittorio non ebbe il tempo di rispondere: una donna sui trent’anni, in pantalone scuro e blu­sa a colori vivaci si fece loro incontro, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto per­fettamente truccato.
   «Buongiorno, signor Valenti: io sono Annamaria Giuffrida, dell’agenzia immobiliare» lo accolse calorosamente, stringendogli la mano prima di concentrarsi su Vera. «E lei deve esse­re sua moglie».
   «Per carità!» scattò Vera, raggelando tanto l’altra donna quanto il carabiniere.
   «Non è mia moglie: soltanto un parere femminile raccattato all’ultimo momento» spiegò Vittorio, pungente.
   Vera digrignò i denti. «Tu sì che ci sai fare con le donne, Valenti» ringhiò.
   Lui finse di non sentirla. «Ci fa vedere la casa, allora, Annamaria?» chiese, sfoderando un sorriso pieno di fascino.
   L’agente immobiliare si sciolse in brodo di giuggiole; Vera trattenne l’istinto di prendere entrambi a schiaffi. «Certo, signor Valenti. Se lei e la signorina volete seguirmi…»
   Annamaria prese un mazzo di chiavi dalla borsa e pescò con sicurezza quella che apriva il portone; i tre andarono dritti verso l’ascensore e salirono fino al terzo piano, per poi entrare nell’appartamento sulla sinistra.
   «Come aveva chiesto, siamo a soli cinque minuti dal comando di Tor Sapienza» esordì An­namaria mentre Vittorio si guardava intorno con aria critica e Vera sbirciava dalle finestre. «L’appartamento è parzialmente ristrutturato: il bagno principale è stato rinnovato un paio d’anni fa e le pareti sono tinteggiate di fresco. Gli impianti sono un po’ vecchiotti, ma finora non hanno dato problemi».
   Vera lasciò Vittorio a discutere con l’agente immobiliare e diede un rapido sguardo a tutte le stanze prima di tornare indietro.
   «Valenti, toglimi una curiosità» disse, intromettendosi nel discorso. «Che te ne fai di tre ca­mere da letto, due bagni e una sala da pranzo? Questa è una casa per una famiglia numerosa, non per un uomo da solo».
   «È vicinissima al lavoro» obiettò lui.
   «È troppo grande» replicò lei. «Pensa al tempo che ti ci vorrà per pulirla, o ai soldi che do­vresti spendere per una donna delle pulizie. E poi è esposta interamente a nord: questo signi­fica poco sole».
   Vittorio aggrottò le sopracciglia. «Da quando sei un’esperta di case?»
   «Ne ho girate tante con Giulia e Tiziano, quando hanno deciso di andare a convivere e com­prarne una» rispose Vera con una scrollata di spalle. «Dovresti esserne contento: mi hai chia­mata o no per avere un parere?»
   «Ma è vicina al comando» si lagnò Vittorio, restio a darle ragione.
   Vera alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Senti, Valenti, fa’ un po’ come ti pare: tanto l’affitto lo paghi tu!»
   L’uomo s’imbronciò, poi si voltò verso Annamaria. «Ne ha altre da farci vedere?» si arrese.
   Cinque minuti e un paio di vie più giù, il terzetto entrò in un altro palazzo: stavolta l’appar­tamento era al quarto piano.
   «L’ascensore è fuori uso per manutenzione» si scusò Annamaria. Vera cambiò colore. «Niente di grave, stanno già risolvendo il problema: se dovesse prendere questa casa, signor Valenti, per il momento in cui si trasferirà la cosa sarà già stata risolta».
   Vittorio non l’aveva ascoltata: era troppo impegnato a guardare Vera. «Se non vuoi venire, non fa niente» mormorò goffamente.
   Lei raddrizzò le spalle. «Non c’è problema» affermò decisa. «Qualche rampa di scale non sarà certo un ostacolo».
   L’uomo si permise di lanciarle uno sguardo scettico, che Vera ignorò. La sua salita fu peno­samente lenta: nonostante tentasse di mantenere l’andatura degli altri due, vedeva con chia­rezza come Vittorio e Annamaria si sforzassero di andare piano per aspettarla senza metterla a disagio. Quando il carabiniere tentò di offrirle il proprio braccio come sostegno, Vera lo rifiu­tò con uno sguardo indignato.
   Arrivare al quarto piano fu un sollievo per tutti. Annamaria fece strada, decantando i van­taggi di quell’appartamento; Vittorio si attardò fuori dalla porta, aspettando imbarazzato Vera. Lei, da parte sua, gli rivolse una smorfia supponente e lo superò, zoppicando più che mai.
   L’agente immobiliare era imbarazzata quanto il carabiniere: si era resa conto che Vera era molto disturbata dal fatto che si notasse la sua andatura faticosa e claudicante, e non sapeva da che parte guardare per non infastidirla. Avrebbe voluto dire qualcosa – offrirle una sedia, chiederle se stesse bene – ma gli occhi di fuoco dell’altra la mettevano in soggezione: era come se la sfidassero ad aprire l’argomento, e promettevano battaglia a chiunque fosse stato tanto audace da cogliere quella sfida.
   L’appartamento era decisamente più piccolo del precedente: un bilocale in cui il sole inon­dava la camera da letto e la sala con angolo cottura.
   Vera diede un colpetto di gomito a Vittorio e indicò le finestre. «Questa casa è esposta a sud: la vedi, la differenza?»
   Vittorio la vedeva eccome, la differenza: anche se erano solo cinquanta metri quadrati, l’appartamentino aveva un’aria molto più allegra e accogliente dell’altro. E poi, piccolo com’era, sarebbe stato facile da tenere in ordine: lui con le faccende di casa se la cavava bene, ma non voleva certo esserne schiavo. Insomma, Vera aveva avuto ragione, anche se lui non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce. Anche perché in quel momento la sua preoccupazione era un’al­tra: avendo Vera così vicino non gli poteva sfuggire il pallore del suo volto, né il fatto che fosse chiaramente sofferente.
   «Perché non ti siedi?» le mormorò: il suo imbarazzo ogni volta che toccava l’argomento della disabilità di Vera e il timore di esprimersi in un modo che potesse infastidirla erano tali da offuscare la sua sincera preoccupazione per lei.
   Vera affilò lo sguardo. «Perché dovrei sedermi?» chiese a denti stretti. «Sto benissimo così. Pensa agli affari tuoi, Valenti».
   Vittorio distolse lo sguardo, offeso da quella replica sgarbata: lui si era soltanto preoccupato per lei, e Vera lo trattava così? Bene: non si sarebbe mai più dato pena per lei, decise.
   La ragazza si allontanò da lui e andò a guardare la strada sottostante da una finestra aperta. Annamaria vide come la sua andatura si fosse fatta ancora più faticosa e, punzecchiata dalla coscienza, si decise a parlarle.
   «Le… le fa male qualcosa? Si vuole sedere un momento?» chiese con gentilezza a Vera.
   Prima che Vera potesse rispondere, però, Vittorio sbuffò.
   «Non ci fare caso, Annamaria: sembra tanto carina e gentile, ma in realtà è una piratessa as­setata di sangue» disse in tono di scherno. «Cammina male solo perché ha una gamba di le­gno».
   «Brutto bastardo!» ululò Vera, infuriandosi all’istante. Gli lanciò la borsa stracolma dritto nello stomaco, mozzandogli il fiato.
   «Ma che hai lì dentro? I mattoni?» grugnì Vittorio mentre si massaggiava il diaframma.    
   «Se ce li avessi avuti, te li avrei tirati in testa: altro che mirare allo stomaco!»
   L’agente immobiliare li fissò, sconcertata: Vera e Vittorio le sembravano una via di mezzo tra una vecchia coppia di sposi e due acerrimi nemici. Non osò intromettersi mentre loro con­tinuavano a litigare, indifferenti alla sua presenza: sull’onda della rabbia le loro voci si alza­vano sempre di più.
   «Magari avresti potuto prendermi a calci» la provocò il carabiniere.
   «Mi hai stancata con quest’umorismo da quattro soldi: è della mia gamba che ridi!» strillò Vera.
   «Non mi lasci altra scelta! Con questo tuo stupido orgoglio non fai che mettere in evidenza ancora di più il problema che tu hai con le tue gambe, e la gente non sa mai come comportar­si!» abbaiò Vittorio. «Metti tutti in difficoltà, non accettando che le persone siano gentili o si preoccupino per te: non lo fanno per ricordarti quello che ti è successo, ma solo per evitare che tu stia male! Se la gamba te l’avessero ingessata, invece di amputarla, non avresti mai fat­to tutte queste scene: avresti permesso alle persone che ti vogliono bene di coccolarti senza diventare un’acida insopportabile! E quando qualcuno ti chiede se vuoi sederti perché vede che ti fa male quella dannata gamba, potresti anche rispondere con un semplice “no, grazie” invece di maltrattarlo e fingere che il problema non esista!»
   «Io non voglio pietà!» tuonò Vera.
   «Non è pietà, è affetto!» gridò in risposta Vittorio.
   I due si scrutarono torvi per qualche istante sotto lo sguardo attonito di Annamaria.
   «Basta, me ne vado» disse infine la ragazza; passando accanto al carabiniere, prese la pro­pria borsa e zoppicò decisa verso la porta. «Buona fortuna con la tua stupida casa!»
   «Sì, brava, scappa di nuovo!» le urlò dietro l’uomo. «Tanto non sai fare altro!»
   Vera neanche si voltò.
   Ancora intimorita, Annamaria si schiarì la voce. «Vuole… vuole vedere... altri appartamen­ti?» chiese in un coraggioso tentativo di riprendere il controllo della situazione.
   Il ringhio inarticolato di Vittorio fu una risposta eloquente.

******

Dopo aver avvertito sua madre che non sarebbe tornata per cena, Vera andò dritta a casa di Giulia e Tiziano. Fu la sua migliore amica ad aprirle la porta, e capì subito che c’era una tem­pesta in arrivo.
   «Entra» disse soltanto, lasciandole spazio.
   Vera si scaraventò oltre la soglia alla massima velocità consentita dalla protesi.
   «Che è successo?» le chiese Giulia non appena si fu richiusa la porta alle spalle.
   «Niente» rispose Vera. «Volevo soltanto salutare te, Tiziano e Ludovica come si deve, pri­ma di finire in carcere. Perché ci finirò, e presto».
   A quelle parole Giulia si allarmò. «Oddio, Vera, che hai fatto? Che è successo? Ti sei messa nei guai?». Si girò verso le viscere della casa. «Tiziano! TIZIANO! Chiama l'avvocato!»
   «Ma che stai dicendo? Non ho ancora fatto nulla!» obiettò Vera.
   L’altra la fissò immobile per qualche secondo, poi le sferrò un pugno sul braccio. «Sei una cretina!» strillò.
   «Soltanto previdente» sbuffò la sua amica. «Perché, t’avverto, se senti di una donna che in un raptus di rabbia ha ucciso il carabiniere più stronzo di tutta Roma e dintorni, sappi che quella donna sono io».
   Giulia la spinse senza troppi riguardi in cucina e poi su una sedia. «Spiega» ordi­nò.
   Vera le raccontò in due minuti della lite nell’appartamento sfitto. Quando tacque, Giulia la fissò pensosa.
   «Ascolta, Vè» esordì cauta, «non dico che approvo quello che ti ha detto Vittorio, ma… ma capisco perché l’ha fatto».
   «Gli stai dando ragione?» esclamò Vera, incredula.
   «In parte» ammise l’altra. «È vero che dopo l’incidente sei cambiata. No, non parlo della gamba» disse in fretta, intuendo i pensieri di Vera. «Sei cambiata tu, e lo sai. Io ti voglio bene e so che ci sei ancora, lì dentro, da qualche parte, perché la gamba era soltanto una gamba e tutto il resto di te è rimasto, ma… a volte non ti riconosco. E mi manchi».
   Vera abbassò lo sguardo, mentre un improvviso senso di colpa le invadeva lo stomaco. Era davvero cambiata così tanto? Forse Vittorio aveva ragione, e il suo nuovo modo di fare – la Vera post-incidente – stava rendendo la vita più difficile a tutti quelli che le stavano intorno?
   «Giulia, devo chiederti una cosa ma tu devi giurare che mi dirai la verità». Si coprì gli occhi per un istante e prese un respiro tremante per calmarsi prima di tornare a fissare la sua mi­gliore amica. «Vi sto rendendo la vita impossibile?»
   «Dio, Vera, no!». Incredula e scioccata, Giulia l'abbracciò. «No, no – come ti è venuta in mente una stupidaggine del genere?». Scosse la testa, lottando con un nodo in gola che le ren­deva difficile parlare; e anche se non lo sapeva, per Vera era lo stesso. «Dopo quello che ti è successo hai il diritto di essere arrabbiata e irragionevole, di tanto in tanto: nessuno si aspetta che tu non lo sia, e tu stai facendo più di quanto chiunque si aspettasse... ti impegni tanto con il lavoro di traduttrice e quello in palestra, hai ricominciato a uscire, a fare alcune delle cose che facevi prima dell'incidente, e non è passato neanche un anno da... da...» la sua voce si spezzò.
   L'altra si fissò le mani. «Ma sono diversa» sussurrò, così piano che Giulia a stento la sentì. «Sono diversa, ma quello che mi fa più paura è la possibilità di essere cambiata in peggio».
   Giulia si staccò da lei e la guardò. «Vera, l'unica cosa davvero... negativa, se vogliamo dire così, della nuova te, è l'ostinazione con cui rifiuti di ammettere che il tuo corpo è diverso» disse cauta. «Hai perso una gamba, e devi accettare che questo non solo comporta dei limiti, ma anche che chi ti ama vuole poterti aiutare a stare bene». Le sorrise. «Non c'è niente di male a lasciare che gli altri si prendano cura di noi, quando ne abbiamo bisogno. Che avresti fatto, se quando ero incinta di Ludovica e bloccata a letto, mi fossi intestardita a fare tutto da me invece di lasciare che tu, Noemi, Tiziano e le nostre famiglie mi aiutaste?» le chiese con dolcezza.
   Vera sbuffò una mezza risata. «Mi sarei infuriata» ammise.
   «E perché ti saresti infuriata?» la spronò Giulia, stringendole le mani nelle proprie.
   «Perché avrei voluto essere sicura che tu stessi bene» mormorò Vera.
   «Appunto» disse la sua migliore amica. «Per noi è la stessa cosa: io e Tiziano, tuo padre, tua madre – e a questo punto credo anche Vittorio – vogliamo soltanto essere sicuri che tu stia bene e che non soffra solo perché sei una zuccona orgogliosa che non accetta l'aiuto di nessu­no» concluse con una punta di durezza.
   L'altra alzò gli occhi al cielo. «Piantala di fare la maestrina: se non ricordo male, quando eri incinta io e Noemi abbiamo dovuto minacciare di legarti al letto, per impedirti di andare in giro!»
   «Dettagli» rispose Giulia con grande dignità.
   Vera si alzò e l'abbracciò con forza. «Grazie, Giù. Di esserci sempre, di ascoltare i miei scleri, di aiutarmi a ragionare quando vado in tilt – grazie, di tutto».
   Giulia ricambiò la stretta. «È a questo che servono le sorelle, no?»
   «Proprio a questo» bisbigliò Vera con voce soffocata.
   Le due donne si separarono e tornarono a sedersi, notevolmente più calme e rilassate.
   «Adesso resta solo da capire che farai con Vittorio» disse la padrona di casa.
   «Mi sa che mi tocca chiedergli scusa... di nuovo» si lagnò Vera. «E in tempi brevi: l'altra settimana ha minacciato di venire a cercarmi a casa, se non avessi accettato di vederlo per parlare di quel casino successo con sua moglie» aggiunse preoccupata.
   Giulia inarcò le sopracciglia. «Paura che dica ai tuoi genitori che hai provato ad ammazzar­lo a colpi di borsa?» ridacchiò.
   «Paura della loro reazione se sapessero cosa mi ha detto, più che altro» ribatté la sua mi­gliore amica.
   «Dici che la prenderebbero male come hai fatto tu?» chiese meditabonda Giulia.
   «Ma no, figurati!» disse sarcastica Vera. «Dai, li conosci: mia madre s’arrabbia subito e mio padre, anche se sembra tranquillo, quando si infuria fa più danni di una bomba atomica!»
   «E sarebbe un peccato metterli contro Vittorio proprio adesso che hanno iniziato ad averlo almeno un po' in simpatia, giusto?» disse maliziosa Giulia.
   Vera si sforzò di trattenere un sorriso, ma i suoi occhi brillarono malandrini.
   «Giusto» replicò allegramente: in fondo, Vittorio non si meritava l'odio incondizionato dei coniugi Nicolini.

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Capitolo 13
*** Capitolo XII ***


Quel martedì di inizio maggio, Vera mise via le proprie cose e lasciò l'ufficio del professor Maesani, più nervosa del solito: la sua irrequietezza era tale che persino chi abitualmente si fermava a scambiare due parole con lei, quel giorno preferì girare al largo. In ascensore, la ragazza prese il cellulare: c'erano un paio di messaggi di sua madre e una buona decina di Giulia, ma niente da parte di Vittorio. Vera si morse l'interno della guancia; la sera precedente gli aveva scritto per chiedergli se si sarebbero potuti vedere all'ora di pranzo, ma il carabiniere non si era degnato di risponderle, e le doppie spunte blu di WhatsApp accanto a quel particolare messaggio sembravano irriderla ogni volta che le guardava.
   Quando la venticinquenne uscì dalla facoltà di Economia, tirò un gran sospiro di sollievo: Vittorio era lì, appena fuori dalla porta, con la schiena appoggiata al muro e le braccia incrociate sul petto.
   «Potevi dirmi che saresti venuto» bofonchiò Vera con una punta di rimprovero nella voce.
   «Non ero certo di farcela: ho parecchio da fare, in questi giorni» rispose freddamente lui.
   Vera lo osservò in silenzio. Non era abituata a un Vittorio tanto distaccato: di solito quell'uomo passava da un'emozione all'altra come una girandola investita dal vento, e anche quando era calmo sembrava sempre vibrare di energia repressa, tanto non riuscire mai a stare del tutto fermo. In quel momento, invece, era perfettamente immobile: persino il suo sguardo era fisso, e tranne che per quando aveva aperto bocca per risponderle, pochi istanti prima, non aveva ancora mosso un muscolo.
   «Allora, che ti serve?» le chiese Vittorio con voce inespressiva. «Non ho molto tempo».
   L'ex ginnasta si riscosse dalle proprie riflessioni. L'atteggiamento del carabiniere non l'aiutava, ma in fondo era lei a essere nel torto; un po' se lo meritava, rifletté la donna.
   «Riguardo l'altro giorno...» esordì; tentò un'occhiata a Vittorio, ma il suo volto era ancora impassibile. «Non dovevo tirarti addosso la borsa, né urlarti contro».
   Il carabiniere non si mosse.
   «Be', è un passo avanti» commentò gelido. «Speravo dicessi che ti dispiace di averlo fatto, ma evidentemente è chiedere troppo».
   Vera gli scoccò uno sguardo incendiario. «Non vuoi proprio rendermelo facile, vero?»
   «Perché dovrei? Tu con me non l'hai mai fatto» replicò duro Vittorio.
   «Va bene: mi dispiace di averti tirato addosso la borsa e di averti urlato contro» sciorinò lei.
   L'uomo si staccò dal muro con un colpo di reni.
   «Non ho bisogno di scuse insincere: se avessi saputo che mi avevi cercato per questo, non sarei venuto» dichiarò, facendo per andarsene.
   La ragazza sbuffò e alzò le braccia al cielo.
   «Non sono brava in queste cose» ammise. «Cioè, con la mia famiglia e i miei migliori amici sì, ma tu certe volte mi fai impazzire di rabbia e allora mi passa la voglia di scusarmi... però so di aver esagerato, lì all'appartamento» precisò.
   Vittorio si fermò e si girò a guardarla, le sopracciglia inarcate in un'espressione a metà tra l'incredulità e il sarcasmo. «Sono le scuse più anomale che abbia mai sentito, ma apprezzo lo sforzo».
   «Be', è un passo avanti» gli fece il verso la donna, ironica. «Anche se speravo dicessi che le accetti».
   Lui si mise le mani in tasca e contemplò quelle parole per qualche istante.
   «Non ti sei impegnata abbastanza» decretò infine.
   A quell'uscita del carabiniere, Vera farfugliò indignata.
   «Tu... tu... sei incontentabile, ecco!» sbottò. Vittorio si mise a ridere e lei gli scoccò un cipiglio talmente irato da distorcerle completamente i lineamenti del volto. «Non so neanche perché perdo tempo con te» sibilò. Si avviò verso la scalinata ma Vittorio, senza smettere di sghignazzare, l'afferrò per un braccio.
   «Perché in fondo sei pazza di me» disse ilare il carabiniere.
   La donna si divincolò dalla sua presa con un gesto brusco. «Ti piacerebbe!»
   Vittorio provò a smettere di ridere. Ci provò davvero, ma Vera furibonda era uno spettacolo che lo divertiva da morire, e in realtà aveva già iniziato a perdonarla quando lei gli aveva chiesto di raggiungerla fuori dalla facoltà, quindi si sentiva di buonumore al punto da trovare tutto molto spassoso.
   «Metti via gli artigli, dai» riuscì a sbuffare l'uomo tra una risata e l'altra. «Non c'è bisogno di arrabbiarsi così».
   «Non ce n'è bisogno?» gli fece eco Vera. «Provaci tu, ad avere a che fare con te, e poi ne riparliamo!»
   Il carabiniere le rivolse uno sguardo provocatorio. «Ho già a che fare con te: non è abbastanza?». Vera ringhiò qualcosa di incomprensibile; lui sorrise di nuovo e le picchiettò la punta dell'indice in mezzo alla fronte. «Avanti, smettila... o devo chiamare l'accalappiacani? Perché inizi a somigliare a un levriero rabbioso».
   Di nuovo senza parole, Vera boccheggiò. «Io... perché un levriero?» riuscì a chiedere. Un istante più tardi, provò il desiderio di prendersi a schiaffi: ma che razza di domanda era?
   Vittorio le rivolse un sorriso sghembo.
   «Davvero non vedi la somiglianza?» le chiese. «Snello, elegante, pelo lungo e setoso...» spiegò, sventolandole davanti agli occhi una ciocca dei suoi stessi capelli. «Non era così difficile».
   Lei gli scoccò uno sguardo tagliente; poi le sue spalle si afflosciarono.
   «Molto spiritoso» grugnì.
   «Lo so: ho un senso dell'umorismo davvero impagabile» replicò l'uomo.
   Vera si grattò la fronte. «Scusa se ho dato di matto un'altra volta» mormorò. «In questi giorni sono un po' nervosa, ma stavolta tu non c'entri».
   Vittorio scrollò le spalle con aria noncurante. «Tranquilla: ormai sono abituato ai tuoi malumori improvvisi». Diede uno sguardo all'orologio. «Mi piacerebbe restare ancora un po', ma devo proprio andare».
   Vera si strinse nelle spalle. «Sì, l'avevi detto. Sei di turno?»
   «Attacco alle quattro, ma non è per questo». Vittorio si mise di nuovo le mani in tasca. «Ho preso l'appartamento: devo solo firmare le ultime carte, e voglio andarci subito».
   «L'appartamento? Intendi quello in cui abbiamo litigato?» indagò l'ex ginnasta.
   «Proprio quello» confermò Vittorio.
   Vera inarcò le sopracciglia. «E perché l'hai scelto? Per i lieti ricordi?» chiese, ironica.
   «Certo che sì» rispose lui, sullo stesso tono. «A questo proposito... ho una proposta da farti» aggiunse, con uno sguardo calcolatore alla ragazza.
   «Oh Dio, devo aver paura, vero?» gnaulò lei.
   «Dipende. Quanto ti spaventa un viaggio all'Ikea?» disse il carabiniere. Vera lo scrutò guardinga e l'uomo sospirò. «La casa è ammobiliata ma mi mancano un sacco di cose, tipo lenzuola e asciugamani, e non ho voglia di andare a comprare tutto da solo... ma se coinvolgessi mia madre, un'uscita di un'ora o due diventerebbe tre sopralluoghi all'appartamento e quattro giorni in giro per negozi».
   «E in tutto questo, io c'entro perché...» insisté Vera, ancora sospettosa.
   «Perché tu non renderesti tutto così complicato». Vittorio le lanciò un'occhiata scaltra e si preparò a giocare il jolly. «Se mi accompagni, ti perdono per quello che mi hai detto l'altro giorno».
   La ragazza alzò gli occhi al cielo. «Immagino che avresti potuto chiedermi di peggio» commentò. «Adesso vattene all'agenzia immobiliare, altrimenti non farai in tempo a fare tutto prima di andare al lavoro. E chiamami stasera, così troviamo un giorno in cui siamo liberi tutti e due per andare a comprare quello che ti serve».
   Vittorio annuì. «Ci puoi contare».
   I due scesero insieme la scalinata, e una volta sul marciapiede si salutarono con un sorriso.

******

Un paio di giorni dopo quella chiacchierata fuori dalla facoltà di Economia, Vera tornò per la prima volta all'ap­partamento in cui aveva litigato con Vittorio.
   «Però» disse soltanto quando varcò la porta d'ingresso: la sala era invasa da una serie di scatoloni accatastati negli angoli.
   «Questo è niente» replicò Vittorio; entrò a sua volta e chiuse la porta. «Ho detto a Emanuela di inscatolare tutte le cose che ho lasciato a Milano e di mandarmele giù con un furgone: me le portano sabato».
   «Ti servirà un bel po' di aiuto, per mettere tutto a posto» considerò la donna.
   «Ti stai offrendo volontaria?» chiese il carabiniere.
   Vera scrollò le spalle. «Se vuoi».
   «Se voglio?» le fece eco Vittorio. «Ti sembro così scemo da rifiutare un paio di mani in più? Fossi matto! Anzi, per me possiamo cominciare anche subito!»
   «Un po' scemo lo sei, in effetti» rispose l'ex ginnasta: tentò senza successo di restare seria. «Forse per oggi conviene di più fare una lista delle cose che ti servono e andare all'Ikea, così magari puoi venire a stare qui già da sabato e mettere a posto la tua roba un po' alla volta».
   Vittorio valutò la sua proposta per un minuto buono.
   «Okay, mi sa che la tua idea ha senso» ammise a malincuore.
   «Mi raccomando, Valenti, meno entusiasmo nel dirlo» commentò Vera in tono acido.
   Il carabiniere la ignorò; i due iniziarono a segnare le cose di cui Vittorio aveva bisogno per andare a stare nell'appartamento, concentrandosi su una stanza alla volta, e fu solo un'ora e parecchie discussioni più tardi che salirono nell'automobile dell'uomo.
   C'era un centro Ikea a una decina di minuti da lì; un altro lato positivo dell'aver scelto proprio quell'appartamento, agli occhi di Vittorio, ma Vera riuscì a rendere turbolento anche quel breve viaggio.
   Erano per strada da meno di cinque minuti e, nonostante il traffico quasi inesistente lungo le vie scelte dal carabiniere, Vera aveva già dato segnali di nervosismo; ma quando attraversarono il ponte sopra la A24 e arrivarono nella parte più popolata di Via di Tor Cervara, l'ex ginnasta sembrò perdere il lume della ragione, e bastò un nonnulla per portarla all'esplosione.
   «Bravo, eh! Complimenti vivissimi!» strillò Vera, sporgendosi fino alla vita fuori dal finestrino per sbraitare contro un automobilista che era uscito a tutta velocità da un cancello, giusto di fronte a loro, senza controllare che il passaggio fosse libero. Agitò il braccio con fare isterico. «'Ndo' cazzo pensi che stamo, a Monza? Stronzo! Vorrei proprio sape' chi t'ha dato 'a patente! Ma tu guarda 'sto...»
   Vittorio l'afferrò per la maglietta e con uno strattone la riportò all'interno dell'abitacolo, interrompendo così la sua tirata, poi accostò davanti al primo passo carrabile disponibile.
   «Oh, ma si può sapere che hai?» sbottò Vittorio all'indirizzo della ragazza. Vera, ancora fumante di rabbia, fece per scendere dall'auto, ma l'uomo la trattenne per un braccio. «Non ci pensare neanche» l'ammonì cupo. «Ultimamente scatti per qualsiasi cosa, e se devo fare a pugni con qualche automobilista perché tu non riesci a darti una calmata, allora voglio almeno saperne il motivo!»
   Constatata l'impossibilità di liberarsi dalla stretta dell'uomo, Vera sbatté la schiena contro il sedile e si morse l'interno delle guance mentre i suoi occhi saettavano da un lato all'altro della strada; rimase in silenzio così a lungo che Vittorio si convinse che non avrebbe più aperto bocca.
   «Mercoledì prossimo è il compleanno della mia figlioccia» disse infine la ragazza.
   Vittorio tenne lo sguardo fisso sul suo volto: era chiaro Vera che non gli stava dicendo tutto.
   «E...?» la incalzò.
   Vera prese un respiro profondo. «E l'anniversario dell'incidente» aggiunse in tono piatto.
   Il carabiniere trattenne bruscamente il fiato. Luciano gli aveva detto che l'incidente in cui Vera e Noemi erano rimaste coinvolte era avvenuto il maggio precedente, ma non aveva mai saputo la data precisa; adesso però ne era al corrente, e si rese conto che mancava meno di una settimana a quel giorno. Nessuna sorpresa che la ragazza fosse di umore così instabile: con l'avvicinarsi di quella ricorrenza, il ricordo di quanto era successo doveva essere più vivido e soffocante che mai.
   Vittorio lasciò la presa sul suo braccio.
   «Cambio di programma» annunciò, immettendo di nuovo l'auto sulla carreggiata. «Dove ti piacerebbe andare?»
   L'ex ginnasta lo fissò, perplessa. «Non dovevamo andare a comprare...»
   «Quello può aspettare» tagliò corto Vittorio. «Dove vuoi andare?» ripeté.
   Vera lasciò vagare lo sguardo oltre il finestrino. «A Ponte Milvio».
   L'uomo le rivolse un cenno d'assenso e si concentrò sulla strada. I due non scambiarono una parola per tutto il tragitto; Vittorio la guardava in tralice ogni volta che qualche automobilista vicino a loro compiva manovre al limite, ma Vera non sembrava più prestare attenzione al traffico.
   Ci volle un po', ma alla fine giunsero a destinazione. Parcheggiarono e si avviarono lungo il ponte uno accanto all'altra, ancora in silenzio, fino a un punto meno affollato; lì si appoggiarono al parapetto e guardarono il fiume scorrere.
   Fu solo allora che Vittorio si decise a spezzare il silenzio.
   «Mi piace questo posto» disse senza alcun preavviso.
   Vera gli lanciò un'occhiata. «Ci venivi spesso, prima di trasferirti a Milano?»
   L'uomo annuì e indicò la torretta con l'ingresso ad arco all'estremità nord del ponte. «Lì ho dato il mio primo bacio» disse nostalgico.
   «Come? Vorresti dirmi che all'epoca il ponte già esisteva?» lo prese in giro la ragazza.
   «Quanto sei divertente» replicò Vittorio, ma sorrideva.
   «Quanti anni avevi?» gli chiese Vera, curiosa.
   «Sedici». Vittorio guardò in lontananza, verso Ponte Flaminio. «Annalisa – si chiamava così, la mia prima ragazza – aveva la mia stessa età: ci ho messo sei mesi a convincerla a uscire con me e altri due per riuscire a baciarla...». Rise. «Una fatica che non ti dico».
   «Posso immaginarlo» commentò maliziosa Vera.
   Il carabiniere le scoccò uno sguardo penetrante. «Anche tu sembri fissata con questo ponte» buttò lì un momento più tardi.
   La ragazza voltò le spalle al Tevere, imitata da Vittorio; entrambi si appoggiarono al muretto e guardarono l'andirivieni di persone di fronte a loro.
   «Qui è dove siamo venute io, Giulia e Noemi la prima volta che abbiamo saltato la scuola» rivelò. «Eravamo al primo anno delle superiori... sai, no, quando a casa iniziano a darti un po' di libertà e ti sbrighi ad approfittartene?». Vittorio fece cenno di sì con la testa. «Ecco. Era scoppiata da poco la moda di venire qui e attaccare i lucchetti ai lampioni per poi gettarne le chiavi nel fiume, e ci siamo dette: se possono farlo le coppiette di innamorati che magari dopo un mese si lasciano, perché non possiamo farlo noi, che siamo come sorelle e non ci separeremo mai? Così abbiamo comprato un lucchetto – uno bello grosso – ci abbiamo scritto sopra le nostre iniziali e una mattina, invece di entrare a scuola, siamo venute qui e lo abbiamo attaccato a quel lampione laggiù» proseguì, indicando con sicurezza un lampione in particolare. «Subito dopo abbiamo buttato le chiavi nel Tevere, ed è stato... solenne. Quel giorno è come se ci fossimo promesse di nuovo di stare sempre insieme». Si asciugò una lacrima solitaria dal volto con un gesto brusco. «Se quel giorno qualcuno mi avesse detto che neanche dieci anni dopo saremmo già state divise, non ci avrei mai creduto» mormorò amara.
   Vittorio le passò un braccio intorno alle spalle e posò il mento sopra la testa di lei. Non disse nulla: si limitò a tenerla stretta in quel modo per un tempo lunghissimo, fino a quando non la sentì rilassarsi. Quando la lasciò, Vera alzò la testa e lo guardò negli occhi.
   «Mi dispiace di averti incasinato la giornata» mormorò.
   «Sciocchezze» la liquidò lui. «All'Ikea posso andarci quando voglio, tanto è sempre aperto, e stare qualche giorno in più in caserma non mi ucciderà». Le strofinò una mano in mezzo alla schiena. «Cosa ti va di fare, adesso?»
   Vera chiuse gli occhi. «Voglio andare a casa».
   Il carabiniere la prese per mano. «Allora andremo a casa».

******

Quel sabato, Vera arrivò a casa di Vittorio appena cinque minuti dopo il camion dei traslochi.
   «Valenti» salutò mentre raggiungeva la parte posteriore del furgone.
   Vittorio, che stava per scaricare uno scatolone, si raddrizzò e le diede una pacca sulla spalla. «Ciao, Gamba Bionica».
   Un inizio di risata subito soffocato da un colpo di tosse fece voltare entrambi.
   «Lui è Claudio, un mio collega» aggiunse sbrigativo Vittorio, agitando una mano in direzione dell'altro uomo.
   «Sì, me lo ricordo: era con te quando mi hai fermata, a febbraio» replicò Vera. Tese la mano a Claudio. «Piacere di conoscerti».
   Lui prese la mano che gli veniva offerta. «Piacere mio». Studiò Vera per qualche istante con curiosità, poi accennò a Vittorio con la testa. «Hai più provato a morderlo?»
   La ragazza aggrottò le sopracciglia. «No». Un istante più tardi parve rendersi conto della reale portata della propria risposta, e sul suo volto si dipinse un'espressione sbigottita. «No!» ripeté. All'improvviso, parve disperata. «Perché non ci ho più provato?»
   Claudio le batté una mano sulla spalla. «Forse ti sei resa conto che Vittorio è un caso perso» disse, incoraggiante.
   L'espressione di Vera si rischiarò. «Hai ragione!»
   L'interessato sbuffò. «Avete finito?». Gli altri due si strinsero nelle spalle e lui alzò gli occhi al cielo prima di concentrarsi di nuovo su Vera e indicare la busta che la ragazza aveva in mano. «Che hai, lì dentro?»
   «Tramezzini» rispose Vera. «A un certo punto dovremo pur mangiare, no? Specialmente voi due, che iniziate il turno alle quattro. Anzi, penso che inizierò a salire: tanto casa tua è aperta no, Valenti?»
   Vittorio mugugnò un'affermazione mentre controllava il contenuto di uno scatolone. «L'ascensore è ancora rotto» annunciò.
   «Me ne farò una ragione» ribatté Vera. Quando sparì nel portone del palazzo, Claudio affiancò l'amico.
   «Comincio a capire perché quella ragazza ti piace tanto» commentò il trentaquattrenne.
   «Non mi piace: né tanto, né poco» replicò l'altro.
   «Se è quello che ti ripeti per dormire la notte...» sogghignò Claudio; afferrò un pacco e si incamminò a sua volta verso il portone. Vittorio lo imitò; i due uomini varcarono la soglia e scorsero subito Vera, che si trovava ancora a metà della prima rampa di scale. Scrollando le spalle, Vittorio posò lo scatolone a terra e la raggiunse con quattro passi; dopodiché l'afferrò per i fianchi e se la gettò in spalla, premendole un avambraccio dietro le cosce per tenerla ferma. Ignorando l'urlo spaventato della ragazza, il carabiniere prese a salire le scale.
   «Valenti? VALENTI!» strillò Vera, mentre il battito impazzito del proprio cuore le rimbombava nelle orecchie. «Sei ammattito? Mettimi giù!»
   «Dopo» rispose placido lui. Incredula e contrariata dall'evolversi della situazione, Vera decise di manifestare il proprio disappunto: un istante più tardi, una pioggia di pugni tempestò la schiena di Vittorio.
   «Sei un prevaricatore!» gridò la donna, colpendolo ancora più forte. «Prepotente e incurante del volere altrui! Cavernicolo! Mettimi giù!»
   «Basta con i complimenti, Gamba Bionica, o mi farai arrossire» ribatté Vittorio senza fare una piega. Raggiunse la porta del proprio appartamento e la varcò; una volta all'interno, rimise Vera coi piedi per terra e si sistemò la maglietta come se nulla fosse.
   «Non ho bisogno che cammini per me!» urlò Vera, fumante di rabbia.
   «Non l'ho fatto per te: io e Claudio dobbiamo portare su gli scatoloni, e se tu sei per le scale, non ci passiamo» replicò cristallino il padrone di casa. «Ho solo velocizzato il tutto».
   «Dio se ti odio, Valenti!» tuonò Vera.
   Lui agitò una mano con fare noncurante e si voltò verso la porta. «Se vuoi iniziare a mettere a posto qualcosa, fa' pure».
   La donna ruggì, furiosa ed esasperata, mentre Vittorio spariva giù per le scale. Ormai sola, posò la busta sul tavolo e mosse qualche passo avanti e indietro, nel tentativo di dominare l'irritazione: non riusciva a credere alla semplicità con cui Vittorio riusciva a farle saltare i nervi.
   Non si era ancora calmata del tutto quando i due uomini tornarono nell'appartamento, ognuno col proprio carico. Subito puntò il dito contro Vittorio.
   «Hai intenzione di portarmi su e giù in quel modo finché non avranno riparato l'ascensore?» chiese a bruciapelo.
   Lui posò la scatola che aveva tra le braccia e la guardò con le sopracciglia inarcate.
   «Certo che no».
   La donna arricciò il naso per un istante. «Allora resto».
   Detto questo, Vera si chinò a prendere uno scatolone su cui spiccava in grosse lettere nere la scritta “libri” per posarlo sul tavolo, ma fece appena in tempo ad afferrarlo che le mani di Vittorio tentarono di sfilarlo alla sua presa.
   Vera lanciò a Vittorio uno sguardo tagliente, a cui lui rispose con uno esasperato.
   «Dobbiamo veramente litigare sempre per lo stesso motivo?» sbottò il carabiniere.
   La venticinquenne ci rimuginò su.
   «No» concesse infine con un sospiro, lasciando la scatola.
   Soddisfatto, Vittorio sollevò il pacco e lo appoggiò sul tavolo. «Io e Claudio andiamo a prendere altri scatoloni» annunciò, già diretto alla porta. «Divertiti!»
   Vera brontolò tra sé e aprì la scatola. Era piena fino all'orlo; la ragazza iniziò a tirare fuori un volume dopo l'altro, accarezzando ogni copertina prima di passare al successivo. Ben presto la scatola fu vuota; Vera la mise sotto il tavolo, prese una bracciata di libri e andò agli scaffali vuoti che occupavano una parete, sorridendo tra sé ogni volta che i suoi occhi trovavano un titolo presente anche nella propria collezione.

******

Nei giorni seguenti, Vera trascorse ogni momento libero a casa di Vittorio: quel martedì sera rientrò a casa poco prima di mezzanotte, e solo perché il carabiniere l'aveva buttata fuori dal proprio appartamento intimandole di tornare a casa e filare a dormire. L'ex ginnasta era sicura che i suoi genitori fossero già a letto, dunque si stupì di trovare le luci in cucina accese e sua madre seduta al tavolo, intenta a fissare con sguardo vacuo lo schermo del televisore mentre sorseggiava lentamente un bicchiere di tè freddo.
   «Mamma?» chiamò cauta.
   Fabiola scosse appena la testa e mise a fuoco Vera, accorgendosi solo in quel momento che sua figlia era finalmente rientrata a casa.
   «Vera, tesoro» rispose Fabiola con un sorriso stentato. «Vieni a sederti».
   La venticinquenne avanzò guardinga: da quando aveva avuto l'incidente non era insolito che sua madre l'aspettasse alzata in quelle sere che passava fuori casa, ma l'espressione con cui l'aveva appena accolta l'aveva messa a disagio.
   Non appena Vera fu seduta accanto a lei, Fabiola si sforzò di sorriderle con maggiore naturalezza.
   «Non fare quella faccia, Vè: non ti ho aspettata per rimproverarti» disse Fabiola con un pizzico d'ironia.
   «E allora perché?» chiese piano la più giovane.
   Sua madre si strinse nelle spalle. «In questi ultimi giorni non sei praticamente mai stata a casa» commentò. «Volevo solo sapere dove ti eri nascosta e se stai bene».
   Vera abbassò lo sguardo per un momento. «Sono stata a casa di Valenti... il carabiniere. Te lo ricordi, immagino».
   Gli occhi di Fabiola si spalancarono e la sua schiena si irrigidì.
   «Sei stata a casa sua... da sola?» chiese, incredula.
   Sua figlia sbuffò. «A volte c'era anche un suo collega» replicò. «Valenti ha appena affittato un appartamento e gli abbiamo dato una mano con il trasloco: da solo non avrebbe mai finito di mettere tutto a posto».
   Le spalle dell'altra donna si rilassarono e lei lasciò andare un silenzioso sospiro di sollievo prima di parlare.
   «Mi sembrava che quel Valenti non ti fosse poi tanto simpatico» disse Fabiola dopo qualche momento di riflessione. Rivolse a Vera uno sguardo penetrante. «Come sei finita ad aiutarlo praticamente in ogni momento libero?»
   Vera esitò. «Io... non c'è un motivo particolare» rispose, sfuggendo lo sguardo di sua madre.
   «Vera» la incalzò Fabiola.
   La ragazza incassò la testa tra le spalle.
   «È che quando sono con lui, non c'è niente che mi ricordi Noemi». Vera tacque per un momento. «Non sto cercando di dimenticarla, non potrei riuscirci neanche se lo volessi, ma è solo che... è solo...». S'interruppe e deglutì, gli occhi umidi. «Ma è solo che, certi giorni, pensare a lei fa troppo male».
   Fabiola la prese tra le braccia, le mise una mano sulla nuca e le spinse la testa nell'incavo del proprio collo, cullandola, mentre si sforzava di respirare normalmente perché Vera non si rendesse conto di quanto anche lei fosse turbata. Cosa poteva dire – cosa poteva fare – per aiutare Vera a superare quel trauma? Sua figlia, la sua unica figlia, era spezzata: per la gamba era bastata una protesi, ma la sua anima? Come guarirla? Per un momento desiderò di tornare a vent'anni prima, quando poteva cancellare un dolore o una delusione di sua figlia con qualche dolce o un giocattolo, ma non era possibile. Peggio ancora, sapeva che in quella circostanza non era in suo potere guarire nulla di Vera: non aveva potuto sanarne il corpo, e ancor meno poteva fare con la mente e l'anima.
   «Andrà meglio» mormorò Fabiola, ma quelle parole suonarono vuote e inadeguate alle sue stesse orecchie. «Andrà meglio, amore mio, ti prometto che andrà meglio... e tu non sei sola: noi siamo qui con te, per te, hai capito? Non lo dimenticare, non dimenticare che non devi affrontare tutto da sola, ci siamo noi ad aiutarti... andrà meglio, andrà meglio... te lo prometto, andrà meglio» disse con voce spezzata.
   «Ti credo» sussurrò Vera; la sua, di voce, era soffocata dalle lacrime. «Ti credo, mamma».
   Fabiola si staccò da lei e la guardò negli occhi.
   «È meglio che tu vada a dormire» disse decisa. Le accarezzò il volto con mani tremanti. «Domani sarà una giornata... d-difficile» aggiunse, incespicando sull'ultima parola.
   Vera annuì; premette una guancia sulle dita di Fabiola, quasi lasciando che la mano di sua madre sostenesse per intero il peso della sua testa – che in quel momento le sembrava pesare cento volte più del normale, piena com'era di tanti pensieri e sentimenti differenti – prima di sporgersi e deporre un bacio sulla gota dell'altra donna.
   «Buonanotte, mamma» le augurò piano; si alzò e andò lentamente verso le scale, e il suono discordante dei suoi passi sembrò risuonare per tutta la casa.
   Fabiola si accasciò contro lo schienale della sedia, priva anche solo dell'energia necessaria a raggiungere il letto, e guardò il mondo circostante senza vederlo per molto tempo ancora.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIII ***


Il dieci di maggio iniziò cupo come l'umore di Vera: il cielo era velato da nuvole scure che filtravano la luce calda del sole rendendola grigia e smorta, e il meteo prevedeva temporali.
   La conversazione avuta con Fabiola la sera precedente perseguitò Vera dal momento in cui si alzò e per tutto il tempo che trascorse al lavoro: aver ammesso ad alta voce i tentativi di non pensare all'amica persa un anno prima aveva risvegliato in lei un senso di colpa più profondo del solito, che si intensificava ogni minuto che passava. Vera si vergognava di se stessa: che diritto aveva non solo di essere viva, ma anche felice? Che diritto aveva di non soffrire, evitando di pensare a Noemi e a quanto la sua assenza fosse così feroce da aver assunto una dimensione quasi fisica, bruciando all'interno del suo corpo, simile a veleno? Che amica era – che persona era – se per respirare normalmente doveva evitare i ricordi di quella che ancora considerava una sorella?
   In ufficio non combinò granché, e alle undici fu felice di salutare il professor Maesani: forse, credeva, fuori da quelle quattro mura le sarebbe stato più facile concentrarsi su altro e tenere così a bada il grumo viscido e pesante che le si agitava senza sosta nello stomaco. Il viaggio dalla facoltà a Settecamini fu tedioso, ma tranquillizzante: concentrarsi unicamente sul traffico le permise di nuovo di non pensare, ma stavolta senza sentirsi in colpa.
   Quando arrivò di fronte alla chiesa vicino casa, a mezzogiorno meno dieci, sul piazzale c'erano già parecchie persone: erano riunite in gruppuscoli e parlavano piano, e qualcuno si spostava da un capannello all'altro per salutare qualche conoscente appena arrivato.
   Vera varcò il cancello che delimitava la proprietà e scrutò la gente che aveva di fronte: Eugenio e Fabiola erano vicini all'ingresso della chiesa insieme ai signori Massari – i genitori di Giulia – mentre la sua migliore amica e Tiziano si erano sistemati accanto a un'aiuola rotonda e parlavano con alcuni vecchi compagni di classe della prima.
   L'ex ginnasta chiuse gli occhi e prese un respiro profondo per prepararsi ad affrontare i presenti; proprio in quel momento, però, sentì qualcuno avvicinarsi a lei tanto da sfiorarle il braccio col proprio.
   Alzò la testa e vide l'ultima persona che si sarebbe aspettata di trovare lì.
   «Valenti?» esclamò Vera, sorpresa. «Che ci fai qui?»
   «Sostegno morale» rispose lui. Lasciò vagare lo sguardo sulle persone che indugiavano vicino alle porte della chiesa. «Ho pensato che qualcuno dovesse essere qui solo per te».
   La ragazza inarcò le sopracciglia. «Sei andato a ficcanasare in giro un'altra volta, per sapere che oggi c'era la... la messa di commemorazione per Noemi?»
   Vittorio si grattò la nuca. «Ho visto le epigrafi quando sono andato al parco la settimana scorsa» ammise.
   «Okay, ha senso» concesse lei. «Ma comunque, tu non... non dovresti essere al lavoro?»
   Vittorio scrollò le spalle. «Mi sono fatto cambiare di turno da Luciano».
   «Ti sei fatto...» ripeté Vera con qualcosa di simile alla meraviglia. Tacque per qualche momento. «Sai, Valenti, tu sei davvero...»
   «... strano?» concluse l'uomo per lei.
   Vera gli rivolse un sorriso stentato ma sincero. «Buono».
   Vittorio si appoggiò un po' di più a lei e la spinse appena. «È la prima volta che mi fai un complimento vero quando invece potresti insultarmi. Mi devo preoccupare?» scherzò.
   «Nah» rispose piano la ragazza, gli angoli della bocca lievemente sollevati. «È stato solo un episodio: non farci l'abitudine».
   Il carabiniere sorrise per un momento, poi tornò serio e accennò con la testa alla chiesa.    «Credo sia ora di entrare» mormorò.
   Vera fece un cenno affermativo e sollevò lo sguardo appena in tempo per vedere sua madre scrutarla con attenzione; Fabiola fece per andare verso di lei, ma Vera scosse lentamente la testa e lasciò che Vittorio prendesse la sua mano e se la sistemasse nell'incavo del gomito. Fabiola annuì e tornò da Eugenio; la coppia, insieme ai signori Massari, si avviò all'interno della chiesa seguendo la famiglia di Noemi, presto imitati dagli altri presenti.
   Tiziano si avvicinò rapido a Vera.
   «Vè?» mormorò mentre rivolgeva un frettoloso cenno di saluto a Vittorio. «Stai bene?»
   «Io...». Vera sentì la propria gola chiudersi e si sforzò di annuire mentre tentava di recuperare l'uso della parola. «Sì. Sì, sto bene». Scoccò una rapida occhiata a Giulia: era pallida e si guardava intorno con aria smarrita. «Torna da Giulia. Io non sono sola» lo spronò, dando, al contempo, una lieve strizzata al braccio di Vittorio.
   Tiziano le scoccò un rapido bacio sulla fronte e tornò da sua moglie a passi veloci. Vera alzò lo sguardo su Vittorio e gli si avvicinò tanto da fargli conficcare il suo stesso gomito tra le costole, ma lui non ci badò: si limitò a guardarla, aspettando che fosse lei a decidere di muoversi.
   Vera fece un passo in avanti con gambe incerte, e il carabiniere la seguì prontamente; procedettero lenti, lasciandosi sfilare dagli ultimi ritardatari, e Vittorio poteva sentire la riluttanza della venticinquenne nel tremito della mano appoggiata al suo braccio, e nella cadenza breve e spezzata del suo respiro.
   Appena varcarono la porta la ragazza si bloccò, incapace di andare avanti. Vittorio le rivolse uno sguardo preoccupato, ma Tiziano venne in suo aiuto: da un banco nella terza fila agitò con discrezione la mano, accennando ai posti liberi al suo fianco.
   «Vera, avanti» le mormorò all'orecchio il carabiniere. «Il tuo amico ci sta aspettando, ti ha tenuto il posto accanto a Giulia. Puoi arrivare fin lì, lo so che puoi arrivarci...»
   Vera prese un respiro tremante e raddrizzò le spalle; Vittorio annuì incoraggiante al debole tentativo della ragazza di mostrarsi coraggiosa e la guidò da Tiziano e Giulia. Vera zoppicò verso l'amica e quasi inciampò nell'inginocchiatoio; la mano di Vittorio, avvolta saldamente intorno al suo bicipite, la tenne in piedi, e Giulia le accarezzò i capelli non appena furono vicine.
   L'ex ginnasta posò una mano sulla guancia dell'altra, gli occhi fissi nei suoi. «Ciao» mormorò, senza fiato.
   Giulia le percorse di nuovo la lunghezza dei capelli con le dita. «Ciao» rispose debolmente.
   In quel momento iniziò il canto d'ingresso e tutti tacquero. Il tempo trascorse con lentezza quasi agonizzante, e la mente di Vera si perse nelle varie fasi della messa; fu solo alle prime parole dell'omelia che la ragazza si riscosse.
   «La nostra è una piccola parrocchia» esordì il sacerdote, «e oggi quasi tutti i presenti sono intervenuti per una messa di suffragio; per questo, sebbene non sia d'uso farlo, ho deciso di spendere qualche parola in più rispetto alla sola intercessione». L'uomo tacque per un momento: i suoi occhi vagarono sui banchi affollati, soffermandosi in particolare su Giacomo e Carmela, i genitori di Noemi, e sul loro secondogenito Nicola. «Affrontare la perdita di una persona cara non è mai facile, ma quando a lasciarci è una persona giovane e sana, il lutto può diventare impossibile da superare. Oggi ci siamo ritrovati nella casa del Signore per ricordare Noemi, che è tornata al fianco del Padre esattamente un anno fa, e non starò qui a dirvi quanto fosse buona e generosa, piena di vita, o di quanto ancora avesse da dare e ricevere; non solo perché tutti voi la conoscevate, ma soprattutto perché non è per queste cose, che la ricordate. Come ognuno di noi Noemi aveva numerosi difetti e imperfezioni, ed erano proprio questi a renderla meravigliosamente umana: e il suo impegno giornaliero per essere migliore ce la rendeva ancora più cara. La sua assenza è dolorosa, ma anche se ci è stata portata via quando avrebbe potuto restare con noi ancora a lungo, Noemi ha amato ed è stata amata: parte di lei resterà sempre nei nostri cuori e ci guiderà, fino al giorno in cui saremo tutti riuniti».
   Il sacerdote si allontanò dal pulpito per proseguire con la funzione e Vera, che aveva resistito fino a quel momento, cedette alle lacrime. Vittorio le passò un braccio intorno alla vita e l'attirò a sé, mentre con la mano libera le accarezzava la testa; accanto a loro, Tiziano teneva stretta Giulia allo stesso modo, sussurrandole parole di conforto.
   Alla cieca, Vera allungò una mano verso la sua migliore amica: l'altra l'afferrò e le due donne rimasero in quella posizione per parecchi minuti, recuperando lentamente il controllo.
   Fu solo quando finì la messa che Vera si staccò da Vittorio.
   «Grazie» mormorò con voce soffocata mentre si asciugava il volto con la mano libera, senza mai incontrare il suo sguardo.
   L'uomo s'infilò le mani in tasca. «Quando vuoi, Gamba Bionica» rispose placido.
   Giulia tirò la mano dell'amica, ancora saldamente stretta nella propria, e quando ebbe la sua attenzione, accennò a un punto un paio di metri più avanti: Carmela e Giacomo erano attorniati da parecchie persone, tra cui i genitori di entrambe le ragazze, ma Nicola si era sistemato un po' più in là, solo e con lo sguardo puntato a terra.
   Vera e Giulia si fecero strada tra la folla e raggiunsero il ventenne: insieme lo avvolsero in un abbraccio, mettendoci dentro tutta la forza che avevano, e con delicatezza gli fecero rialzare la testa.
   «Nico, va tutto bene» bisbigliò Vera. «Va bene stare male, va bene essere arrabbiati. È normale: Noemi ti manca da morire». La sua voce tremò. «Manca anche a noi».
   Il ragazzo annuì, in silenzio.
   «Quando ti sembra di non farcela e vuoi parlare di lei, quando vuoi ricordarla, vieni da noi» aggiunse Giulia in un sussurro. «Lo sappiamo che non è la stessa cosa, ma Noemi per noi era una sorella». Gli accarezzò una guancia e si sforzò di sorridere. «E questo fa di te il nostro fratellino».
   «Minore e un po' scemo» tentò di scherzare Vera. «Perché queste cose te le abbiamo già dette, e comunque hai deciso di tenerti tutto dentro. Guarda che ti veniamo a cercare noi e ti facciamo fare tutte le figuracce che prima ti... ti faceva fare Noemi».
   La bocca di Nicola si curvò appena all'insù, quasi contro la sua volontà.
   «Va bene» mormorò con voce rotta. Per la prima volta da quando l'avevano abbracciato, il ragazzo ricambiò la stretta. «Ma la cosa è reciproca».
   «Fai pure del tuo peggio» sorrise Vera; una nuova lacrima scese dai suoi occhi mentre depositava un bacio leggero sulla guancia del ventenne.
   Tiziano, che si era avvicinato con passi leggeri, posò una mano sulla spalla di sua moglie.
   «Stanno uscendo tutti» li informò in tono basso e calmo. «Nico, i tuoi genitori e altri stanno andando al cimitero per... per portare dei fiori a Emi». Deglutì. «Vuoi venire con noi?»
   Nicola scosse la testa. «È meglio se vado con i miei genitori». Raddrizzò la schiena e si asciugò gli occhi. «Ci vediamo lì».
   I tre annuirono mentre il più giovane si allontanava; quando fu a metà strada verso la porta della chiesa, Vera si voltò a cercare Vittorio e lo trovò che la fissava da un angolo, in disparte. Lo raggiunse senza staccargli gli occhi di dosso.
   «Valenti, noi... noi stiamo andando da... da N-Noemi» farfugliò la ragazza.
   Il carabiniere la guardò da vicino per la prima volta dopo parecchi minuti: era pallida, col viso gonfio e gli occhi cerchiati di rosso, e in quel momento gli parve così fragile da fargli credere che un soffio di vento avrebbe potuto mandarla in pezzi.
   «Ragazzina, vuoi che venga con te?» le domandò sottovoce, afferrandole i gomiti con delicatezza e chinandosi su di lei.
   «Io... ti va?» replicò Vera, supplichevole.
   «Certo. Certo che mi va» dichiarò Vittorio, col tono di chi dica un'ovvietà. «Vieni in macchina con me? Qualcuno deve farmi da navigatore».
   «Sì, io... sì» riuscì a dire Vera. Raggiunsero la porta, seguiti da vicino da Tiziano e Giulia, e appena fuori dalla chiesa trovarono Eugenio e Fabiola in attesa.
   «Papà?» chiamò Vera con voce strozzata. «Io vado al cimitero con... con Valenti. Non... non sa dov'è e così gli... gli posso indicare la strada».
   Eugenio rivolse un lungo sguardo prima a sua figlia, poi al carabiniere.
   «D'accordo» disse infine.
   Vera si voltò per dire qualcosa a Giulia, ancora vicina a loro, ed Eugenio fece cenno a Fabiola di seguirlo; quando passò accanto a Vittorio, rallentò per un istante. «Grazie» mormorò al suo indirizzo, senza fermarsi. Il quarantenne annuì e le tre coppie si separarono.
   Il viaggio fino al cimitero e la visita alla tomba di Noemi furono ancora peggiori, almeno per Vittorio: Vera rimase in silenzio per tutto il tempo, alternando istanti in cui pareva chiudersi completamente nella propria testa con i pensieri che l'assillavano, a periodi in cui sembrava così smarrita da non capire dove si trovasse. Vittorio fu costretto dapprima a fermare Tiziano per chiedergli di fargli strada con la propria auto, e più tardi a trascinare Vera praticamente di peso fuori dalla macchina e dentro al cimitero.
   L'ex ginnasta sembrò riscuotersi solo al momento di affiancare i suoi genitori per offrire il mazzo di fiori che avevano portato. Vittorio era restio a lasciarla allontanare da sé: se possibile, Vera sembrava ancora più sconvolta che in chiesa, quasi terrorizzata dalla foto allegra della sua migliore amica che le sorrideva dalla lapide di marmo chiaro.
   Quando la vide barcollare, appena dopo aver posato i fiori, Vittorio decise di infischiarsene delle formalità: sgomitò tra le persone accalcate davanti al loculo e la prese per i fianchi, sostenendo quasi tutto il suo peso.
   «Vera? Vè?» sussurrò con urgenza al suo orecchio. La ragazza non rispose e lui la trascinò indietro, verso un punto sgombro e tranquillo, tallonato dai coniugi Nicolini. «Ragazzina? Gamba Bionica?»
   Vera alzò su di lui uno sguardo perso. «Eh?»
   Vittorio la scrollò appena. «Ci sei?»
   La venticinquenne batté rapidamente le palpebre. «Sì. Sì, ci sono... più o meno». Prese un respiro profondo, e per la prima volta dal momento in cui avevano messo piede in chiesa, a    Vittorio apparve davvero padrona di sé. «Scusa, scusatemi tutti» disse; nella sua voce era ancora presente un tremito, ma con un secondo respiro lento e profondo, riuscì a contenerlo. «Mi ero un po'... persa».
   «Non fa niente: era il meno che potesse succedere» la rassicurò Vittorio. «Senti, ho il turno di notte quindi non devo tornare al comando prima delle undici e mezza. Vuoi che... che facciamo qualcosa, vuoi andare da qualche parte...?»
   Vera scosse la testa. «Devo andare a casa a cambiarmi e prendere la macchina: ho detto a Giovanna che oggi avrei lavorato lo stesso, ho bisogno di farlo, mi... mi aiuta a distrarmi».
   Il carabiniere lasciò la presa sui suoi fianchi soltanto per afferrarle le spalle. Piegò appena le ginocchia per portare gli occhi all'altezza di quelli di lei.
   «Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa, chiamami» scandì lento. «Non stare da sola se non ce n'è bisogno. Capito?»
   «Capito» rispose Vera. «Sono calma, Valenti. Adesso sono calma».
   «D'accordo» disse Vittorio.
   «E non sarò sola» aggiunse la ragazza. «Quando finisco in palestra vado da Giulia – facciamo una piccola cena per festeggiare il compleanno di Ludovica. Sarò sempre con qualcuno».
   «D'accordo» ripeté l'uomo. Lasciò la presa sulle sue spalle e Vera ondeggiò per un breve istante. «Ci sentiamo più tardi».
   Vera fece un cenno affermativo e rimase a guardarlo andare via; e nonostante le braccia di sua madre fossero avvolte intorno alla sua vita e la mano di suo padre premuta sulla sua spalla, per un lungo istante si sentì terribilmente sola.

******

La cena per festeggiare il compleanno di Ludovica era stato un affare semplice e riservato: oltre a Tiziano e Giulia erano presenti i quattro nonni della bambina, i due zii – tutti e due da parte di padre e, come era solita dire Giulia, più matti persino di lui – e Vera. Nonostante la tristezza che aveva caratterizzato la maggior parte della giornata, durante quelle tre ore scarse nell'appartamento erano risuonate chiacchiere allegre e anche risate; tutti si erano concentrati su Ludovica, e il naturale buonumore della bambina era riuscito a risollevare gli animi.
   In quel momento Vera sedeva coi gomiti appoggiati al tavolo e il mento puntato sulle mani, lo sguardo fisso sulla sua figlioccia. La bimba era seduta sul pavimento, insieme agli zii e a una delle nonne, intenta a giocare: al suo fianco, un cagnone di pezza più grande di lei – evidentemente il più gradito dei regali fatti da Vera – copriva il pavimento come un tappeto, con l'inseparabile RincoRino piazzato sulla schiena.
   «Come fai a scovare sempre il pupazzo in grado di farla innamorare al primo sguardo?» chiese Giulia con sincera curiosità, sistemandosi accanto all'amica.
   «Abilità naturale» rispose Vera con leggerezza forzata, senza distogliere gli occhi da Ludovica: ogni volta che si spostava, anche solo di pochi centimetri, aveva la sensazione di scorgere Noemi ai margini del proprio campo visivo, proprio lì dove sarebbe dovuta essere, e dopo oltre un'ora aveva scoperto che era più semplice tenere lo sguardo fisso su un unico punto il più a lungo possibile. «Oppure potrei aver notato che Lulù si illumina ogni volta che in televisione appaiono dei San Bernardo».
   «Sapevo che c'era il trucco!» gnaulò Giulia.
   «È un'informazione riservata: vedi di non dirlo a tutti» sogghignò l'altra. Dopo qualche istante, si alzò. «Si sta facendo tardi: è meglio se torno a casa».
   Giulia tornò seria all'istante. «Vuoi che venga con te?»
   Vera le rivolse un'occhiata sardonica. «Vorresti salire sulla tua macchina solo per seguirmi fino a casa e poi tornare indietro?»
   La padrona di casa rifletté per un istante. «Va bene, messa così suona veramente come un'idea scema».
   «Perché è un'idea scema» ribatté Vera con voce serica. Schivò il tovagliolo appallottolato che Giulia le aveva appena tirato contro. «Tranquilla: non lo dirò a nessuno... per stavolta».
   «Troppo buona» bofonchiò sarcastica Giulia.
   Vera sorrise in modo genuino; prese la borsa e la giacca, salutò i presenti e con un ultimo bacio sulla fronte di Ludovica, lasciò l'appartamento. Una volta in macchina, al riparo dalla pioggia che cadeva da oltre un'ora, tirò fuori il cellulare dalla borsa e lo soppesò per un minuto buono; poi si decise e avviò una chiamata.
   La persona all'altro capo rispose al secondo squillo.
   «Ciao» disse subito la voce di Vittorio. «Allora, Gamba Bionica? Come ti senti?»
   Vera prese un respiro profondo e lasciò che ogni emozione, dentro di lei, sfumasse fino a sparire: solo allora vide cos'era rimasto.
   «Stanca» rispose in tono piatto.
   «Quanto stanca?» indagò il carabiniere.
   La ragazza esitò per un istante. «Così stanca che, se mi sdraiassi, non riuscirei a rialzarmi mai più».
   Il silenzio regnò sovrano per alcuni secondi.
   «Vera? Non sento niente in sottofondo. Perché?» chiese Vittorio, inquieto.
   «Sono uscita da casa di Giulia cinque minuti fa» spiegò lei. «Sono in macchina. Ti ho chiamato prima di partire: ho pensato fosse... meglio».
   «Quindi stai per andare a casa?» la incalzò Vittorio.
   «Io... io ho bisogno di stare un po' da sola» rispose Vera. «Devo... devo riordinare tutto quello che ho in testa, e... e rimettere a fuoco le cose». Prese un respiro breve e spezzato. «Buonanotte, Valenti» mormorò un attimo prima di chiudere la chiamata.
   Ad alcuni chilometri di distanza, Vittorio fissò il telefono ormai muto con un macigno sullo stomaco. Le parole e il tono di Vera non gli erano piaciuti per niente: da che la conosceva l'aveva sentita arrabbiata, sarcastica, allegra, rilassata... ma così spenta, mai, e questo lo spaventava. Negli ultimi giorni l'umore di Vera era stato instabile, sì, ma per il momento in cui aveva lasciato il cimitero gli era sembrata abbastanza calma e controllata; aveva pianto ed era stata sconvolta, certo, ma c'era da aspettarselo; nei pochi messaggi che si erano scambiati nel pomeriggio era anche riuscita a parlare dei regali di compleanno che aveva comprato per Ludovica, e lui si era convinto che il peggio fosse passato, che se Vera non era crollata dopo essere andata via dal cimitero, allora per quel giorno non sarebbe più potuto succedere.
   Vittorio si diede mentalmente dell'idiota: dopo quello che gli aveva raccontato Giulia mesi prima, avrebbe dovuto aspettarsi che Vera cedesse non nel momento più triste, ma in quello – almeno teoricamente – più felice: quello in cui spiccava l'assenza di Noemi. Proprio com'era successo al battesimo di Ludovica.
   Il carabiniere afferrò la giacca di pelle e le chiavi dell'auto prima di schizzare fuori dal comando: corse in macchina tanto velocemente che la pioggia a stento gli inumidì i capelli e mise in moto mentre provava a chiamare Vera; gli squilli si susseguirono lenti, in totale contrasto col battito frenetico del suo cuore, ma lei non rispose.
   Fermo a un semaforo, Vittorio si spremette le meningi mentre continuava inutilmente a chiamare inutilmente la ragazza: dove poteva essere andata? Non a casa, questo era sicuro: poco prima gli aveva detto chiaramente di voler stare da sola. Ma a quell'ora, di mercoledì sera, e con quel tempaccio, in che posto poteva rifugiarsi senza essere disturbata?
   La risposta gli attraversò la mente rapida come una stella cadente nella notte; la luce verde del semaforo s'illuminò e Vittorio schiacciò il piede sull'acceleratore, facendo due rapidi calcoli. Se la sua intuizione era giusta, Vera era molto più vicina di lui a Ponte Milvio: da casa di Giulia non poteva distare più di sette chilometri, la metà di quelli che separavano quel particolare ponte dal comando, e la ragazza era già in macchina quando le aveva parlato. Vittorio pregò di non trovare traffico, di essere più veloce di Vera, mentre imboccava una strada dopo l'altra e si avvicinava alla sua meta.
   Una decina di minuti più tardi, Vittorio giunse a destinazione: abbandonò l'auto nel parcheggio più vicino e corse lungo il ponte. La pioggia si era trasformata in un temporale, ed era tanto fitta da ostacolare la visibilità. Il maltempo, l'ora tarda e la serata feriale avevano fatto scappare le persone che solitamente affollavano il posto: l'unico suono era quello dei suoi passi, che rimbombava attraverso il fragore della pioggia.
   «Vera!» urlò a pieni polmoni. «Vera!»
   Nessuno rispose. Vittorio non si fermò; continuò a correre, voltando la testa da destra a sinistra per controllare i parapetti del ponte. Si chiese se non avesse preso un abbaglio, se la sua intuizione non fosse sbagliata, ma il suo istinto continuò a urlargli che Vera era lì, che non poteva fermarsi, che non doveva perdere nemmeno un secondo.
   E poi una sagoma scura, a stento visibile nel temporale, apparve davanti ai suoi occhi: era in piedi sul parapetto di sinistra, incerta sulle gambe e incurante della pioggia che le martellava addosso.
   «Vera!» gridò Vittorio. Scattò con tanta foga da sentire i muscoli dolere e i polmoni bruciare alla ricerca d'ossigeno; ormai era vicinissimo e poté vedere il volto di Vera, i suoi lineamenti stravolti dall'agonia, e per un istante ebbe l'impressione che si stesse piegando in avanti...
   Senza rallentare, Vittorio le cinse la vita con un braccio e la trascinò sul selciato: lo slancio e il peso della ragazza gli fecero perdere l'equilibrio ed entrambi franarono a terra.
   L'uomo sentì il corpo di lei sotto il proprio e un dolore sordo al braccio e al ginocchio che aveva battuto nella caduta. Senza lasciare la presa su Vera, rotolò di fianco per non pesare su di lei e la tirò sopra di sé.
   «Non farlo mai più» ansimò, sconvolto e terrorizzato; la strinse tra le braccia con tutta la forza che aveva, e anche se una parte di lui sapeva di farle male, non allentò la morsa in cui l'aveva serrata. «Non farlo mai più, Vera, non farlo mai più, maledizione».
   Vera spinse le mani sul petto di Vittorio in una muta richiesta di lasciarla andare; non appena le braccia dell'uomo si aprirono, la ragazza si rimise goffamente in piedi.
   «Che hai fatto? Che cos'hai fatto?» chiese con voce distorta dal dolore. «Dovevi lasciarmi andare!»
   Anche Vittorio si rialzò, e le rivolse uno sguardo sconcertato.
   «Lasciarti andare?» ripeté. «Lasciarti suicidare, vorrai dire!»
   «Sì, è esattamente quello che voglio dire!» replicò Vera.
   Vittorio la prese per le spalle e fissò i propri occhi nei suoi. «Sei diventata pazza? Come puoi dire che avrei dovuto lasciare che ti suicidassi?» sbottò. Tacque e si sforzò di prendere un respiro profondo per dominarsi. «Vera, io capisco che questa per te sia stata una giornata tremenda, ma non è suicidandoti che risolverai i problemi, o che starai meglio!»
   La donna si divincolò dalla sua presa.
   «Tu capisci?» gli fece eco. «No che non capisci! Ma che ne sai, tu? Hai mai perso qualcuno che ami? Hai mai perso una sorella? Be', io sì, in caso te ne fossi dimenticato! Ogni mattina, quando mi sveglio, resto sdraiata nel letto e mi chiedo perché io sono ancora viva e Noemi no! E anche se mi hanno spiegato cento volte la dinamica dell'incidente – che Noemi è stata centrata in pieno dal SUV, che l'angolo dell'impatto ha fatto sì che a parte la mia gamba io non fossi colpita in modo letale dall'altra auto – continuo a chiedermi ogni giorno per quale motivo la mia migliore amica sia morta e io invece no, perché quella Seicento era un vecchio macinino e a rigor di logica anch'io sarei dovuta morire, incastrata tra quelle lamiere!» urlò.
   «Ma tu sei viva, Vera!» gridò di rimando Vittorio. L'afferrò e la strinse di nuovo, incurante del suo divincolarsi. «Sei viva, dannazione, anche se ti ostini a comportarti come se fossi morta, ma non ci sto. Ormai fai parte della mia vita, e non ti lascerò suicidare. Hai capito?» disse con voce tremante.
   «Chi sei tu per dirmi cosa posso o non posso fare?» sibilò lei, intrappolata tra le sue braccia.
   «Sono uno stronzo arrogante che per puro caso è finito sulla tua strada» rispose Vittorio, ripetendo le parole che lei gli aveva rivolto settimane prima. «Se vuoi morire prima devi avere il mio permesso, e io non te lo darò mai. Tutto quello che puoi fare è impegnarti per rendere la mia vita un inferno: questo te lo concedo».
   «Sei davvero uno stronzo arrogante! Non puoi decidere per me!» tuonò Vera.
   «Non posso lasciarti morire, Vera. Non posso» sussurrò lui.
   Vera gli tempestò le spalle di pugni. «Bastardo prepotente! Non potrai starmi addosso ventiquattro ore su ventiquattro, e non arriverai sempre in tempo!»
   «Vuoi scommettere?». Vittorio appoggiò il mento sulla sua testa. «Mi congederò dall'Arma e mi ammanetterò a te, se sarà necessario per non farti fare sciocchezze. Sono più cocciuto di te, sai che sono capace di farlo».
   Sfinita, Vera si afflosciò tra le sue braccia. «Perché lo fai?» singhiozzò, mentre la tensione della giornata finalmente esplodeva dentro di lei. «Perché t'interessa tanto che io viva?»
   L'uomo prese un respiro incerto. «Non lo so. So solo che il mondo è un po' più brutto, se tu non ci sei». Sospirò. «Vera, ti prego, promettimi che non proverai mai più a farti del male».
   «Va bene» bofonchiò lei.
   Vittorio strizzò gli occhi per un istante. «No, Vera, devi prometterlo sul serio, perché io non... non posso lavorare, non posso dormire, non posso respirare, se ho il timore che tu possa provare di nuovo a fare una follia come quella di stasera. Devi darmi la certezza che non farai mai più una cosa del genere».
   L'uomo abbassò lo sguardo e incontrò quello di Vera.
   «Come faccio a prometterti una cosa del genere? Non so neanch'io se riuscirò a non avere più un desiderio simile. In che modo posso garantirlo a te?» mormorò lei.
   «Allora giurami che se penserai di nuovo di fare una cosa del genere, me lo dirai» la implorò Vittorio. «Non devi seguire per forza quell'impulso: se lo proverai di nuovo vieni a parlarne con me, e io ti terrò stretta finché quel momento non sarà passato. Almeno questo me lo puoi promettere?»
   Vera prese un respiro tremante, ma non distolse gli occhi da quelli di lui. «Sì, questo te lo posso promettere».
   Vittorio lasciò andare un vistoso sospiro di sollievo; poi si mise a ridere, le prese il volto tra le mani e iniziò a costellarlo di baci.
   «Dio, Vera, grazie, grazie, grazie...» esclamò tra un bacio e l'altro.
   Vera sorrise suo malgrado prima di mettergli una mano sulla faccia per spingerlo via.
   «E smettila!» ridacchiò. Dopo un momento tornò seria. «Senti, Valenti, possiamo... possiamo tenere per noi quello che è successo poco fa?» chiese, desolata.
   Lui gettò indietro la testa e inspirò lentamente, accecato dalle gocce di pioggia che gli martellavano gli occhi.
   «Non lo so» rispose piano. «Una parte di me sa che dovrei dirlo almeno ai tuoi genitori, per la tua sicurezza, ma...». Deglutì, un po' a fatica; Vera vide il suo pomo d'Adamo, appena accennato, tremare. «Mi hai appena fatto una promessa» proseguì. «Se dicessi a qualcuno quello che è successo stasera significherebbe che non mi fido di te, che non credo che terrai fede alla tua parola, ma io ci credo». Chiuse gli occhi. «Spero solo di non pentirmene».
   Vera scosse la testa quasi tra sé. «Non te ne pentirai» mormorò.
   Vittorio si avvicinò al parapetto, senza mai staccare gli occhi dalla ragazza, e prese la borsa che Vera aveva abbandonato sul selciato; poi tornò indietro, le passò un braccio intorno alla vita e si avviò con lei verso l'estremità del ponte da cui era arrivato.
   «Vieni: sei fradicia, voglio portarti a casa prima che ti venga una polmonite» la esortò.
   Un po' spingendola, un po' trascinandola, il carabiniere riuscì a farla arrivare al parcheggio: la sentiva tremare contro il suo fianco, e si affrettò a portarla alla propria auto.
   «Ho la mia macchina» disse fiaccamente Vera quando lui tentò di farla entrare nell'Alfa.
   «Te la riporto io domani mattina, quando stacco dal turno» rispose deciso Vittorio. Le spinse sul sedile del passeggero e le mise la borsa tra le braccia. «Anzi, dammi le chiavi, va'».
   Appena Vittorio si mise alla guida, la ragazza gli porse le chiavi della Up! con un gesto rassegnato e si lasciò andare contro il sedile; il viaggio trascorse in silenzio, e quando arrivarono davanti casa Nicolini, il carabiniere si voltò a guardare Vera.
   «Tieni sempre il telefono con te» le disse calmo.
   «Perché, Valenti? Vuoi assicurarti che non mi anneghi nel lavandino durante la notte?» chiese Vera; nella sua voce non c'era alcun ardore.
   «Sì» rispose Vittorio. «A meno che tu non voglia che io faccia una chiacchierata con tuo padre...»
   «Ricattatore» bofonchiò la donna. Fece per scendere dall'auto, ma Vittorio le afferrò il polso con un gesto fulmineo e la trattenne.
   «Per favore» insisté.
   Lei abbassò lo sguardo. «Va bene».
   Vittorio la lasciò andare; Vera entrò in casa e salì cautamente le scale, attenta a non far rumore per non svegliare i suoi genitori. Quando entrò nella sua stanza, si affacciò alla finestra e fece un cenno con la mano; solo allora l'Alfa ripartì.

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Capitolo 15
*** Capitolo XIV ***


Il temporale della notte precedente aveva lasciato il passo a un mattino luminoso, spazzato da un venticello freddo che aveva reso l'aria ancora più limpida.
   Seduta sul divano, Vera leggeva un libro mentre ascoltava la radio, sbadigliando a intervalli regolari; il professor Maesani si era dimostrato incredibilmente comprensivo, quando poco prima l'aveva chiamato, ed era stato felice di lasciarle la mattinata libera. Vera gliene era grata: era così stanca che non riusciva a concentrarsi, e anche se fosse andata al lavoro, di sicuro avrebbe combinato poco o nulla.
   Mancava poco alle nove quando suonò il citofono; la ragazza si alzò e, senza neanche controllare chi fosse, aprì il cancello e poi la porta d'ingresso. Un minuto più tardi entrò Vittorio, anche lui sbadigliando.
   «Sono a pezzi» annunciò il carabiniere; sollevò le braccia sopra la testa e si stiracchiò con un gemito soddisfatto prima di seguire la ragazza in cucina.
   «Hai fame?» chiese Vera, facendogli cenno di sedersi. «Ho cucinato un po' di roba».
   Vittorio batté le palpebre più volte: Vera stava mettendo sul tavolo due torte, una crostata e due barattoli pieni di biscotti.
   «Un po'?» ripeté l'uomo. «Un po'?»
   «Be', sei stato tu a tenermi sveglia tutta la notte con chiamate e messaggi: in qualche modo dovevo passare il tempo» si difese lei.
   Vittorio scrollò le spalle, per nulla dispiaciuto.
   «Buon per me» commentò. «Passa quella crostata, va'».
   Vera si affaccendò in cucina per permettergli di fare colazione in pace, scoccandogli di quando in quando uno sguardo: il carabiniere era pallido, due pesanti occhiaie violacee gli adornavano il volto e in generale tutto il suo aspetto appariva un po' stropicciato. La ragazza sapeva di non essere in condizioni migliori.
   Quando Vittorio smise di mangiare e le puntò addosso uno sguardo penetrante, Vera capì all'istante che non avrebbe potuto evitare ancora a lungo le sue domande.
   «Dobbiamo parlare» esordì l'uomo.
   Vera sospirò. «Sì, ma non qui: andiamo di là».
   La ragazza fece strada fino al salotto e sedette sulla chaise longue, le gambe distese di fronte a sé. Vittorio rimase in piedi vicino al divano, chiaramente a disagio.
   «Siamo tutti e due stanchi morti: meglio qui che sulle sedie in cucina» spiegò Vera. Batté la mano sul posto accanto al suo. «Mettiti comodo» lo invitò.
   L'uomo la prese in parola: si buttò di schiena sui cuscini della seduta, lasciando solo i piedi a penzolare di fuori, e appoggiò la testa sulla gamba sana di Vera, usandola a mo' di guanciale. Vittorio chiuse gli occhi e mugugnò contento.
   Vera scosse la testa, incredula e divertita allo stesso tempo.
   «Sai, Valenti, visto che mio padre, mia madre e Hermes li conosci già, penso che coglierò l'occasione di presentarti il resto della tribù» annunciò. Affondò la mano tra i cuscini e ripescò un sacchettino di plastica che scosse con vigore. «Efesto! Vieni qui, piccolino!»
   Mezzo minuto più tardi un gatto varcò la soglia, miagolando sonoramente, e apparve davanti al divano: nonostante si muovesse senza appoggiare una delle zampe anteriori, Vittorio notò sorpreso che correva con notevole velocità.
   Vera sorrise al felino e prese uno snack dalla busta. «Sali, Efesto, dai».
   Il micio non si fece pregare: miagolò in risposta, saltò sulla chaise longue e prese lo snack dalla mano della padrona, divorandolo in pochi istanti.
   Vittorio agitò le dita in direzione del gatto. «Vieni qui, piccoletto».
   Senza alcun timore, Efesto zampettò da Vittorio; gli annusò la mano e, apparentemente soddisfatto, si infilò nello spazio esiguo tra il corpo dell'uomo e lo schienale del divano. Il carabiniere accarezzò il manto grigio chiaro del gatto, seguendo le striature con la punta delle dita, ed Efesto chiuse gli occhioni verdi mentre iniziava a fare le fusa.
   Vittorio sbuffò divertito. «Non perde tempo, il piccoletto».
   «È socievole, lui» commentò Vera. «L'esatto opposto della regina della casa». Agitò il sacchetto con tanta forza da farlo quasi volare attraverso la stanza. «Afrodite! Vieni a prendere la pappa!» urlò con quanto fiato aveva in gola.
   Che fosse stato il richiamo di Vera o il rumore della busta era impossibile dirlo, ma quasi all'istante una gatta bianca e nera apparve nel salotto, galoppando come un cavallo selvaggio nella prateria: l'irruenza del felino era tale che i suoi passi erano chiaramente udibili nonostante la radio accesa.
   L'ex ginnasta sventolò uno snack in direzione della gatta e batté la mano sullo schienale del divano. «Piantala di fare la preziosa e muoviti».
   A differenza di quanto aveva fatto Efesto, Afrodite non emise un solo suono: balzò sul punto in cui si era posata la mano di Vera e accettò lo spuntino che le veniva offerto, frustando i cuscini con la coda. Dopo essersi leccata i baffi, rivolse uno sguardo indifferente a Vittorio e si sdraiò con la pancia sul cuscino, lasciando penzolare le zampe ai lati dello schienale.
   Il carabiniere mosse una mano per accarezzare Afrodite; la gatta sbatté la coda con violenza e gli puntò addosso gli occhi gialli, e Vittorio avrebbe potuto giurare di averci visto dentro un avvertimento tutt'altro che amichevole.
   «Io non lo farei» gli consigliò Vera, nascondendo di nuovo la bustina tra i cuscini del divano. «A lei non piace essere toccata».
   «È bellissima» disse sincero Vittorio. «Anche Efesto lo è, ma lei ha qualcosa...»
   «... di regale?» concluse Vera al posto suo. «Sì, lo so. Di regale ha anche la spocchia, però: ci guarda come se fossimo tutti suoi servi e stare al suo cospetto sia un onore troppo grande».
   «Mi ricorda qualcuno» sogghignò Vittorio.
   La ragazza alzò una mano con cautela; passò un paio di volte la punta dell'indice sulla corta peluria che copriva il ponte del naso di Afrodite, che chiuse gli occhi, poi le accarezzò la testa tre o quattro volte col dorso delle dita, stando attenta a non toccarle le orecchie, prima di ritrarre la mano.
   «Attento, Valenti: potrei sempre aizzartela contro» minacciò infine.
   «E ti darebbe ascolto?» chiese l'uomo, scettico.
   Vera ci rifletté con attenzione per qualche momento. «Probabilmente no» ammise.
   Vittorio sorrise; accarezzò di nuovo Efesto, poi tornò serio.
   «Voglio parlare con te, Vera» disse piano.
   Lei spinse fuori un breve sospiro. «Di quello che è successo ieri sera, vero?»
   «No» rispose Vittorio. Vera, più sorpresa che mai, sobbalzò e lo fissò incredula, e lui chiuse gli occhi una seconda volta. «O meglio, non proprio». Si accarezzò il mento, coperto da un velo di barba; Efesto gli punzecchiò il petto con la zampa e l'uomo lo accontentò, riportando la mano sulla sua testa. «Anche se ho passato vent'anni a Milano io sono nato e cresciuto qui a Roma, ormai lo sai» esordì, cambiando completamente discorso. «Facevo la vita di qualsiasi altro ragazzino: andavo a scuola, giocavo a calcetto all'oratorio della parrocchia, aiutavo mia madre con le faccende di casa». Sorrise appena, gli occhi chiusi. «I miei genitori lavoravano entrambi: mio padre come vigile urbano e mia madre in una scuola elementare, in amministrazione, e mi è stato insegnato fin da piccolo che in casa bisogna dividersi i compiti e collaborare. Certo, più crescevo più erano le occasioni in cui mi scocciava fare la mia parte e a volte, quando mia madre non c'era, mio padre mi lasciava uscire e faceva anche quello che sarebbe toccato a me: è sempre stato lui a coprirmi quando combinavo qualche guaio, a comprarmi il motorino quando mia madre non voleva, a insegnarmi come comportarmi con le ragazze...». Sorrise di nuovo. «Mia mamma, lei era – è – una generalessa: comanda tutti a bacchetta, a volte senza che neanche tu possa accorgerti che ti sta facendo fare esattamente quello che vuole. L'unico che non riusciva a comandare era papà: quando discutevano era come... come guardare una palla d'acciaio che colpisce un muro di gomma: lei furiosa e lui impassibile. In questo, penso di aver preso da mamma». A quelle parole, sia Vittorio che Vera ridacchiarono. «Quando sono cresciuto un po', i fine settimana estivi sono diventati la pace. Letteralmente. Mia madre prendeva mia sorella, che ha cinque anni meno di me, e la portava a Santa Severa dalla zia; io e mio padre, invece, ce ne restavamo a Roma, per conto nostro, e mettevamo tutto in ordine solo un'ora prima che tornassero, la domenica sera. Erano belle giornate: parlavamo tanto, di tutte quelle cose di cui non potevamo o volevamo discutere davanti a mia madre. E poi sono cresciuto ancora: un'estate ho iniziato a uscire di sera con gli amici, ad avere una fidanzatina, e papà mi permetteva di tornare più tardi del solito. Mi guardava, ammiccava e diceva: “Quando la generalessa non c'è, i detenuti ballano!”. Ma io ero... ero stupido, no, come lo sono spesso i ragazzi a diciassette anni. A volte non mi bastava neanche così, e c'erano occasioni in cui non rispettavo il coprifuoco: rientravo una, anche due ore più tardi del previsto, senza avvisare, perché non pensavo al fatto che... che mio padre si sarebbe potuto preoccupare. E infatti si preoccupava; mi aspettava in piedi, e quando finalmente tornavo a casa, mi mollava anche un paio di ceffoni». La sua bocca si torse nell'amara parodia di un sorriso. «Ma continuavo a farlo: non importava che mia madre mi chiedesse di tenere d'occhio mio padre perché era stato poco bene, non importava che lui fosse già tanto permissivo di suo – ero un ragazzino egoista, ed ero arrivato in quella fase della vita che alcuni sperimentano: pensavo solo a quello che volevo io, e tutto il resto non aveva importanza». S'interruppe e deglutì vistosamente. «E così arrivò un sabato sera di metà luglio, caldissimo, afoso da morire: io e i miei amici eravamo riuniti nel rustico della casa di uno della comitiva, a bere birra ghiacciata e dire scemenze, e io non avevo voglia di tornare a casa. Non ce l'avevo. Così, anche se sarei dovuto rientrare all'una, sono rimasto fuori fino alle tre passate: ho aperto la porta di casa, sicuro che mio padre mi avrebbe riempito di schiaffi appena avessi varcato la soglia per aver fatto così tardi e aver bevuto tanto e poi guidato il motorino fino a lì, ma lui... lui non c'era, ed era strano, perché le luci erano accese e la televisione anche. Sono... sono andato in cucina e mio padre era lì... sul... sul pavimento, e io sono corso da lui ma non si muoveva, non respirava, non...». S'interruppe e prese un respiro spezzato; una lacrima gli scivolò verso la tempia e se l'asciugò con un gesto brusco. «Aveva avuto un infarto. Aveva avuto un infarto e io non c'ero: ero fuori, troppo impegnato a fare il deficiente, a bere troppo, a perdere tempo in modo stupido. Con l'autopsia hanno stabilito che si era trattato di un infarto fulminante: mi hanno detto tutti che anche se fossi stato a casa quando era successo non avrei potuto fare niente, quasi di sicuro sarebbe morto ugualmente, ma io mi odiavo comunque: ero disgustato da me stesso, e mi sono sentito in colpa per parecchi anni. Mi ritenevo responsabile per quello che era successo, e... e neanche mia madre è mai riuscita a convincermi che non fosse così: sono dovuto arrivare a trentaquattro anni per smettere di pensare che mio padre sia morto a causa mia». Rise amaro. «Ho smesso di odiarmi per la sua morte, soltanto per farlo per un altro motivo. Perché se non fossi stato tanto egoista magari non l'avrei salvato, ma almeno sarei stato con lui: invece, per colpa della mia stupidità, mio padre non solo è morto, ma è morto da solo, e questo sì non me lo perdonerò mai».
   Vera gli asciugò una seconda lacrima che era sfuggita ai suoi occhi, poi gli sfiorò le palpebre con i polpastrelli: Vittorio le schiuse, e vide che la ragazza lo stava fissando con aria comprensiva.
   «Perché mi stai raccontando tutto questo?» mormorò Vera.
   Vittorio prese un altro respiro profondo e puntò lo sguardo verso il soffitto. «Per farti capire che quello che hai detto ieri sera non è vero: io so che significa, perdere una persona amata e sentirsi in colpa per questo, e so che significa essere schiacciati da quel senso di colpa al punto da cercare l'autodistruzione. Tu hai provato a suicidarti; io ho iniziato a scatenare una rissa dopo l'altra per buttarmici dentro a testa bassa, per pestare a sangue gli altri ed essere massacrato con altrettanta violenza. Alla fine, è stato diventare un carabiniere che mi ha salvato: ho scelto l'Arma quando sono stato costretto a fare l'anno di leva obbligatoria e ho capito che non c'ero stato per mio padre quando ne aveva avuto più bisogno, ma che ci sarei potuto essere per altre persone; è stato il mio modo di espiare la colpa che mi soffocava, e lentamente si è trasformato nell'unica cosa in grado di rendermi felice e fiero di me stesso».
   La ragazza gli picchiettò un dito in mezzo alla fronte.
   «Pensi che diventare un carabiniere guarirebbe anche me?» chiese con leggerezza forzata.
   Vittorio tornò a fissarla.
   «Penso che anche tu possa trovare qualcosa che non ti faccia più sentire in colpa di essere viva» replicò serio.
   Vera si lasciò andare contro lo schienale del divano.
   «Come un salvagente?» chiese piano.
   «Come un salvagente». Vittorio chiuse di nuovo gli occhi, di colpo esausto; si girò su un fianco e si accoccolò meglio contro la gamba di lei, una mano appoggiata sulla schiena di Efesto. «Se vuoi, posso essere io il tuo salvagente. Finché non trovi qualcosa che ti renda di nuovo felice» mugugnò, già mezzo addormentato.
   Vera gli accarezzò la fronte. «Sarebbe carino» mormorò.
   Vittorio non rispose: il suo respiro era lento e profondo, chiaro segno che stava scivolando nel sonno. Vera chiuse gli occhi a sua volta, e nonostante la schiena le facesse male e le sue gambe fossero intorpidite, anche lei in breve tempo si addormentò.

******

Quella parentesi di tranquillità non durò a lungo: a mezzogiorno e tre minuti, infatti, Vittorio spalancò gli occhi, perfettamente sveglio.
   Il carabiniere si stiracchiò, rischiando di schiacciare Efesto. Il gatto tigrato miagolò intontito e gli rivolse un'occhiata in parte confusa e in parte offesa, e Vittorio gli concesse una veloce grattatina sulla collottola per farsi perdonare; Afrodite, invece, socchiuse un solo occhio, scoccò ai due uno sguardo indifferente e tornò a dormire. Per un momento, Vittorio invidiò la totale noncuranza del felino placidamente spalmato sullo schienale del divano; poi si mise a sedere con cautela e si girò a guardare Vera.
   Nel sonno, la ragazza si era inclinata su un fianco, fino ad accoccolarsi contro il bracciolo della chaise longue: la sua testa penzolava di lato, e quando si fosse svegliata, di sicuro sarebbe stata parecchio dolorante. A colpire di più Vittorio, però, fu l'espressione di Vera: persino mentre dormiva, il suo volto restava serio, quasi contratto in una smorfia aspra. Era triste – almeno ai suoi occhi – come neanche nell'incoscienza, Vera riuscisse a essere del tutto serena.
   Vittorio si sporse e le posò una mano sulla spalla.
   «Ehi, è ora di svegliarsi» mormorò, scuotendola leggermente. Vera si rannicchiò di più contro i cuscini e l'uomo alzò gli occhi al cielo. «Avanti, Gamba Bionica, svegliati».
   «La smetterai mai con questo dannato soprannome?» grugnì lei, rassegnandosi all'inevitabile e aprendo gli occhi.
   «Visto che funziona... no» ribatté Vittorio. «Allora, sei tornata nel mondo reale?»
   «Sfortunatamente, sì» mugugnò Vera. «Si può sapere perché non mi hai lasciata dormire?»
   «Perché io e te abbiamo una cosa da fare» rispose il carabiniere. Vera impallidì.
   «Oddio, e adesso che ti sei messo in testa?» gemette, sconfortata. Vittorio le lanciò un'occhiataccia, ma lei finse di non accorgersene. «Allora? Non tenermi sulle spine! Lo sai come si dice, no? Via il dente, via il dolore!»
   «Bene». L'uomo la guardò, un po' torvo. «Devi chiamare il tuo psicologo e dirgli che deve vederti subito».
   Vera gli rivolse uno sguardo incendiario. «E se non volessi?»
   Vittorio non perse un istante. «Non hai voce in capitolo» replicò duro.
   «Credi?» sibilò la ragazza. «Perché, per quanto ne so, non mi puoi costringere».
   «Io forse no, ma qualcun altro sì» ribatté mordace Vittorio. «Sono serio: se non chiami il tuo psicologo in questo istante, dirò ai tuoi genitori cos'è successo ieri sera. Scommetto che loro hanno il potere di costringerti e lo useranno».
   Vera boccheggiò. «Avevi promesso che non lo avresti detto a nessuno!» esplose, tradita.
   «E infatti non voglio farlo» disse Vittorio. «Ma non posso neanche permetterti di tenerti dentro quello che ieri sera ti ha fatta di nuovo arrivare al limite. Non posso, Vera, riesci a capirlo?»
   La ragazza appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa tra le mani.
   «Mi vergogno di essermi spinta tanto oltre» confessò con voce bassissima. «Dopo tutto quello che è successo, dopo aver varcato quel limite già una volta ed essere viva solo per un caso fortuito, dopo tutto il lavoro fatto per non ripetere quell'errore, io... io l'ho fatto lo stesso». Sospirò. «Ho fallito, Valenti. Mi sento una maledetta fallita».
   Il carabiniere di spostò più vicino a lei. «Non sei una fallita: sei una persona che nella vita ha alti e bassi come tutti... solo un po' più... accentuati, diciamo».
   Vera sbuffò. «Accentuati...» ripeté. «Questo è l'eufemismo dell'anno».
   «Sì, forse non è il termine adatto» ammise l'uomo. «Questo però non cambia la sostanza di quello che ho detto. Avere dei momenti di debolezza non significa fallire: soltanto essere umani». Le mise una mano sul ginocchio destro. «Vera, ci devi andare, dal tuo psicologo. Questa è esattamente una di quelle situazioni in cui è giusto e sacrosanto ricevere l'aiuto di uno specialista». Le sue spalle si afflosciarono. «Non è diverso dell'andare da... da un gastroenterologo, o da un fisioterapista, o da un qualsiasi altro medico. È la stessa cosa».
   «No che non lo è» replicò secca la ragazza. «Non agli occhi di molta gente, comunque».
   «Questo non toglie che devi andarci» sottolineò Vittorio.
   Vera si strofinò gli occhi. «Mi scoccia: andare dal dottor Sanesi significa parlare dei miei errori, ed è una cosa che non sopporto».
   «Commettere errori, o ammettere ad alta voce di averlo fatto?»
   «Entrambi».
   Vittorio sbuffò incredulo. «Tutti sbagliamo, e di continuo: mi sa che ti conviene fartene una ragione, Gamba Bionica». Le diede una pacca sul ginocchio e si alzò. «Avanti, chiamalo».
   Vera gli lanciò uno sguardo irritato, di cui Vittorio non si curò; rassegnata, prese il cellulare, selezionò il numero dello psicologo dalla rubrica e avviò la chiamata.
   «Gianpaolo? Sono Vera, Vera Nicolini» disse la ragazza non appena Gianpaolo rispose. «Lo so che sei pieno di appuntamenti ma... ma ho bisogno di parlare con te». L'uomo replicò brevemente e Vera si mordicchiò un'unghia. «Ne ho davvero bisogno: è... è un'emergenza. Una vera» pigolò. Rimase in ascolto per qualche momento. «Sì, va bene. Sì, sì. A dopo».
   Vera chiuse la chiamata e guardò Vittorio.
   «Può vedermi all'una: soddisfatto?» mugugnò.
   «Sì». Il carabiniere si frugò nelle tasche dei pantaloni e le lanciò le chiavi della macchina. «Prendi la borsa e andiamo».

******

La sala d'aspetto del dottor Gianpaolo Sanesi era piccola e confortevole: un rettangolo di nove metri quadrati scarsi, con due soffici divani posti uno di fronte all'altro, addossati alle pareti adornate da un paio di quadri astratti, e tra loro una finestra da cui la luce del sole entrava a fiotti.
   In quel momento, Vera e Vittorio erano gli unici occupanti della saletta: la prima era seduta il più vicino possibile alla finestra e guardava ostinatamente oltre il vetro dal momento in cui aveva messo piede lì dentro; il secondo, da parte sua, si era limitato a studiare l'ambiente circostante per circa trenta secondi e il resto del tempo l'aveva trascorso fissando l'ex ginnasta.
   Per il settimo minuto consecutivo, gli occhi di Vittorio rimasero incollati alle gambe di Vera: erano accavallate, la destra posata rigidamente sulla protesi, e il piede dondolava rapido e nervoso ormai da un pezzo.
   «Smettila».
   Preso alla sprovvista, Vittorio sobbalzò e scosse la testa prima di alzare lo sguardo sul volto della ragazza: lo stava fissando con espressione imperscrutabile, e soltanto una piccola ruga tra le sopracciglia lasciava intuire la sua irritazione.
   «Devo smettere... cosa?» chiese perplesso il carabiniere.
   «Di guardarmi le gambe: mi dà fastidio» spiegò secca Vera. Rimise a terra il piede destro e si massaggiò il moncone, una smorfia di dolore sul volto. «Stupida protesi» ringhiò.
   Vittorio osservò guardingo Vera; ripensò all'ultima volta che le aveva chiesto se stesse bene, e si chiese se fosse saggio azzardare di nuovo una simile domanda, proprio lì, proprio in quel momento.
   «Ti fa male?» domandò a bruciapelo. «E non mi mordere» aggiunse rapido prima che Vera potesse esplodere un'altra volta.
   Lei gli scoccò un'occhiataccia, ma si morse la lingua e contò fino a dieci per evitare di essere sgarbata. «Sì che mi fa male: sono stata in piedi troppo a lungo, non ho fatto riposare la gamba, non ho mai tolto la protesi... tutto quello che non dovevo fare». Si diede un pugno sulla coscia, come se quel gesto potesse far cessare il dolore invece di peggiorarlo. «Odio questi momenti».
   Il carabiniere incrociò le braccia al petto. «A nessuno piace star male».
   «Non è il dolore fisico: quello ho imparato a sopportarlo» brontolò Vera. «È che ogni volta che mi fa male questo inutile pezzo di gamba, ricordo quanto sono rotta, e difettosa, e limitata, anche nelle azioni più semplici».
   «Serve a qualcosa dirti che non sei così difettosa e limitata come credi?» replicò Vittorio.
   Vera tornò a guardare fuori dalla finestra. «Non serve, Valenti, perché è una bugia talmente evidente da essere ridicola».
   Vittorio la fissò, senza sapere cosa dire. Vera aveva ragione: affermare che non aveva dei grossi limiti era una panzana così sfacciata da risultare offensiva. Quello che avrebbe voluto dirle, e che non sapeva come esprimere, era che quei limiti, sebbene fossero reali, erano molto meno importanti di quanto potessero apparire: non diminuivano in alcun modo ciò che era, ma al contrario, finivano per accentuare tutto di lei, tanto i pregi quanto i difetti.
   Prima che Vittorio potesse trovare un modo di tradurre in parole quei pensieri, la porta dello studio dello psicologo si spalancò e ne emerse il dottor Sanesi; Gianpaolo lanciò loro un rapido sguardo, poi accompagnò all'uscita il paziente con cui era stato occupato fino a quel  momento. Quando si richiuse il battente alle spalle, lo psicologo scrutò la coppia nella sua sala d'attesa.
   «Vera» esordì in tono d'avvertimento, «credevo avessimo stabilito che lui» proseguì, indicando Vittorio, «non rientra tra le emergenze».
   I due si alzarono quasi contemporaneamente, ma fu Vittorio a prendere la parola.
   «Non è per parlare di me, che è qui» disse laconico il carabiniere. Prese Vera per un braccio e la sospinse con gentilezza oltre Gianpaolo e dentro l'altra stanza.
   «Guardi che lei qui non ci può stare» chiarì lo psicologo a Vittorio, seguendoli all'istante.
   «Me ne vado subito» lo tranquillizzò l'altro. Indicò Vera. «O almeno, non appena Vera le avrà detto perché ha bisogno di vederla».
   Gianpaolo gli lanciò uno sguardo tutt'altro che felice, ma decise di concentrarsi sulla ragazza. «Vera?»
   Lei deglutì. «Allora, ieri... ieri era l'anniversario dell'incidente».
   «Sì, ne avevamo parlato l'ultima volta» assentì Gianpaolo. «Qual è il problema? Hai avuto delle difficoltà durante la giornata?»
   «Sì, è... io ho... ho faticato un po' a... ad arrivare... a oggi» farfugliò Vera con voce sottile.
   Vittorio sbuffò. «Questo è l'eufemismo del secolo» dichiarò, tagliente. «Digli quello che hai fatto».
   Gianpaolo scoccò un rapidissimo sguardo al carabiniere prima di tornare a fissare Vera; la ragazza si torse le mani ed evitò il suo sguardo.
   «Ieri sera ho avuto un... un piccolo... momento... di confusione» proseguì lei.
   «Un piccolo momento di confusione?» le fece eco Vittorio, incredulo. Gianpaolo aprì la bocca per intimargli di tacere, ma non ne ebbe il tempo. «Quello non è stato un “momento di confusione”! Non è stato normale!» tuonò. «Digli cos'hai fatto!»
   «Lo sto facendo!» reagì la ragazza, furiosa.
   «Non è vero!» gridò Vittorio, arrabbiato quanto lei. «Ci stai girando intorno, stai cercando di non dire chiaramente cos'è successo per farlo sembrare meno grave!». I due si scambiarono uno sguardo cattivo, entrambi ansanti. «Avanti! Dillo! Se hai almeno un po' di coraggio, se hai almeno un po' di decenza e di rispetto per chi ti sta intorno, se hai un minimo desiderio di stare meglio quantomeno per loro, dillo!»
   «Volevo buttarmi giù da Ponte Milvio!» esplose Vera.
   La rabbia che riempiva l'aria sembrò sgonfiarsi come un palloncino bucato; Vera si coprì la bocca con una mano, scioccata dalla sua stessa ammissione, mentre le spalle di Vittorio persero tutta la tensione che le aveva irrigidite fino a quel momento e si afflosciarono. Gianpaolo guardò dall'uno all'altra, spiazzato dalla breve, improvvisa lite a cui aveva appena assistito e dalle parole di Vera.
   «D'accordo: questa è un'emergenza» commentò lentamente Gianpaolo, spezzando infine il silenzio. «Vera, siediti: abbiamo molto di cui discutere» disse in tono calmo e rassicurante. «Lei adesso deve proprio uscire» aggiunse, rivolto a Vittorio.
   Il carabiniere annuì; raggiunse la porta con un passo e la aprì prima di guardare Vera.
   «Ti aspetto fuori» mormorò.
   Vera si lasciò cadere sul divanetto al centro della stanza e chiuse gli occhi, esausta.
   «Non ce n'è bisogno, Valenti» sospirò.
   «Quando hai finito mi devi accompagnare al comando: sono senza macchina, ricordi?» replicò leggero Vittorio.
   L'ex ginnasta riaprì gli occhi e gli scoccò uno sguardo affilato. «E non c'è nessun altro che possa venire a prenderti, vero?»
   Il carabiniere scrollò noncurante le spalle. «Sicuramente c'è, ma preferisco farmi dare un passaggio da te».
   Vera sbuffò. «Solo perché così mi puoi tenere d'occhio» disse aspra.
   «Anche» confermò l'uomo, per nulla toccato dal suo malumore. Varcò la soglia e si richiuse la porta alle spalle. «A dopo!» urlò attraverso il battente.
   La ragazza scosse la testa; quando si fermò, Gianpaolo era seduto davanti a lei.
   «Allora, Vera: parliamo un po'» disse dolcemente.

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Capitolo 16
*** Capitolo XV ***


Dopo quella seduta dallo psicologo non prevista, Vera aveva trascorso quattro giorni ad affinare le proprie tecniche dilatorie: era riuscita con successo a evitare del tutto Vittorio, a non parlare di nulla di diverso dal lavoro con Giovanna e a sottrarsi alle domande esitanti di sua madre e di Giulia.
   Quel martedì pomeriggio avrebbe dovuto trascorrerlo rintanata da qualche parte, sola con un paio di libri come stava diventando sua abitudine, ma la telefonata di Giovanna e il conseguente ordine di raggiungerla in palestra era stato così perentorio da non lasciarle scampo.
   Per il momento in cui Vera mise piede oltre la porta d'ingresso, trovò Giovanna di fronte al banco dell'accettazione, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso sul battente a vetri.
   «Finalmente» commentò spiccia la proprietaria della palestra. «Andiamo nel mio ufficio».
   La più giovane la seguì verso un'estremità dell'ingresso e dentro la stanzetta ingombra da cui Giovanna gestiva i propri affari; una volta dentro lasciò cadere a terra la borsa e si appoggiò al muro, mentre l'altra misurava il poco spazio a disposizione con passi rapidi e nervosi.
   «Non credere che io non sappia cosa sta succedendo» esordì a sorpresa Giovanna, bloccandosi per un istante. Senza attendere risposta, riprese a muoversi. «Perché lo so, e ti dico subito che non mi sta bene».
   «Giovanna» esordì Vera, guardinga, «di cosa stai...».
   «Non fare la finta tonta con me» la interruppe bruscamente l'altra. Le si avvicinò. «Guardati: capelli spettinati» prese a elencare, con un gesto verso la sua testa. «Vestiti sgualciti» proseguì, afferrando un lembo della maglietta piena di grinze che indossava Vera e agitandola con disprezzo. «Smalto rovinato» aggiunse, indicando il colore scheggiato sulle unghie della ragazza. «E non ti alleni da una settimana. Anche l'ultima volta è stato così» disse dura. «Ti eri lasciata andare in questo stesso modo e tutti ti hanno permesso di farlo, ma se credi che starò a guardarti mentre ricominci a crogiolarti nell'autocommiserazione...»
   «Crogiolarmi nell'autocommiserazione?» ripeté Vera, offesa. «Ero sopravvissuta per miracolo a un incidente in cui era morta una delle mie migliori amiche e mi avevano appena amputato una gamba! Non mi stavo crogiolando nell'autocommiserazione – ero sconvolta!»
   «Il primo mese!» abbaiò Giovanna in risposta. «Il secondo, magari – ma poi hai lasciato l'ospedale, sei entrata nel centro di riabilitazione per imparare a camminare con la protesi, e quando ne sei uscita è stato ancora peggio! Invece di tornare alla normalità ti sei buttata giù tanto da diventare un relitto umano, ed è quello che stai cercando di fare anche stavolta!»
   «Perché non mi sono pettinata e la mia maglietta è sgualcita?» chiese la venticinquenne, incredula.
   «Perché la prima cosa che fai quando sei depressa è smettere di curare il tuo aspetto, poi passi a trascurare il tuo corpo e infine la tua mente!» urlò Giovanna. «Sveglia, Vera! Tutti stanno male, tutti soffrono, ma se tutti ci comportassimo come fai tu, la specie umana si sarebbe estinta secoli fa!»
   «Quindi non sono autorizzata a soffrire?» gridò Vera.
   «Non sei autorizzata a fare solo quello!» tuonò in risposta Giovanna.
   Furiosa, Vera afferrò la borsa, spalancò la porta e andò verso l'uscita.
   «Vera! Dove vai?» le strillò dietro la sua ex allenatrice. «Non ho ancora finito!»
   La venticinquenne girò su se stessa con tanta foga da barcollare. «Be', io sì!»
   Vera lasciò la palestra, salì in auto e imboccò una strada a caso dopo l'altra, senza badare a dove stesse andando; dopo aver messo svariati chilometri tra sé e Giovanna, parcheggiò nel primo posto libero che trovò e si afflosciò contro il sedile.
   La giovane donna si strofinò le mani sulla testa e si sforzò di non pensare all’incidente, a come avesse distrutto ogni cosa nel giro di pochi secondi. Un momento prima rideva con Noemi ed era la persona più felice del mondo; poi tutto era diventato dolore. Vera ricordava ancora il risveglio in ospedale, quattro giorni dopo lo schianto: aveva aperto gli occhi, sentendo ogni muscolo e ogni osso far male come non avrebbe mai immaginato fosse possibile. Solo la gamba sinistra sembrava illesa: fino a metà coscia provava un dolore così lancinante da rivoltarle lo stomaco nonostante la morfina, poi più niente.
   Solo quando aveva allungato una mano verso l’arto in questione, Vera aveva capito che in quella parte del proprio corpo non provava dolore solo perché non c’era più nulla che potesse farle male. Sotto shock, aveva tastato forse dieci volte il punto vuoto in cui ci sarebbe dovuta essere la sua gamba; poi era scoppiata a piangere come una bambina, incredula e stordita, con la testa che le pulsava come se fosse dovuta esplodere da un momento all’altro.
   Quando poi aveva chiesto di Noemi e sua madre si era sciolta in lacrime, Vera aveva capito subito che la sua amica aveva perso ben più di una gamba. Era morta; e lei, confinata in ospedale, non era neanche potuta andare al suo funerale.
   Ben presto la stanza che avrebbe occupato per sei settimane era stata presa d’assalto. Sua madre e suo padre non l'avevano mai lasciata sola; Giulia, appena uscita dall’ospedale, si era precipitata lì in lacrime con la piccola Ludovica in braccio e Tiziano alle calcagna. Poi era stata la volta dei parenti, degli amici, di Giovanna e di tutti i ragazzi della palestra; persino alcuni dei suoi ex professori erano andati a trovarla, offrendole il loro aiuto.
   Ma Vera non voleva aiuto: voleva soltanto tornare a prima dell’incidente per evitare che accadesse, per riavere Noemi, la propria gamba e la vita così come l’aveva vissuta fino ad allora. Quello, però, nessuno poteva darglielo. Tutti i medici e gli infermieri del reparto avevano provato a convincerla che la sua vita non sarebbe cambiata poi molto, che avrebbe potuto avere ancora un’esistenza normale, e che una volta messa la protesi sarebbe stata di nuovo come tutti gli altri. Ma come poteva essere come tutti gli altri, se non c’era più Noemi? Come avrebbe potuto continuare con la ginnastica artistica, con una gamba artificiale?
   Alla fine aveva finto di crederci solo per essere lasciata in pace. Era tornata a casa, aggrappata alle stampelle; si era intestardita a fare tutto da sola, a cominciare dal salire le scale, perché almeno i suoi genitori smettessero di trattarla come un’invalida, e alla fine la pietà negli occhi delle persone a lei più vicine si era smorzata. Nonostante questo, Vera era ben lontana dal sentirsi normale: anche a distanza di un anno, ogni movimento, ogni piccolo passo, le ricordavano come quel corpo di cui era sempre andata tanto fiera fosse ormai soltanto una gabbia, un meccanismo rotto, impossibile da aggiustare.
   Giovanna era stata la prima a tirare fuori Vera dal guscio in cui si era chiusa. La sua ex allenatrice si era presentata a casa sua quattro mesi dopo l’incidente ed era andata a sedersi in cucina, annunciando che non se ne sarebbe andata finché Vera non si fosse decisa a parlare con lei. E quando Vera era emersa dalla sua stanza, Giovanna l’aveva squadrata a lungo prima di rilevare tutto quello che non andava e sbatterglielo in faccia senza alcun tatto. Quella ragazza sciatta, con i capelli sporchi e i vestiti in disordine che non celavano i chili che stava rapidamente accumulando, non era la Vera che conosceva lei; aver perso la gamba era l’ultimo dei suoi problemi; e lei, che era andata lì per offrirle un lavoro come sua assistente, come avrebbe potuto assumerla, se continuava a essere così trasandata?
   Con parole al vetriolo Giovanna l’aveva costretta a guardarsi con obbiettività; l’aveva spronata a tornare in palestra, a rimettersi in forma, e le aveva dato un modo per continuare ad avere la ginnastica artistica nella sua vita, anche se non poteva più praticarla.
   Vera ricordava ancora le parole con cui Giovanna si era congedata da casa sua, quel giorno.
   «Trattare così il tuo corpo è un insulto a tutto quello che avevi ottenuto» le aveva detto con durezza. «È stato grazie agli allenamenti costanti negli anni, che sei sopravvissuta all’incidente. Come puoi essere così irriconoscente verso te stessa?»
   Vera scosse la testa, tornando al presente. Quello era esattamente ciò a cui non avrebbe voluto pensare, e sapere che Giovanna aveva ragione – almeno in parte – non placava la sensazione di essere stata tradita da quella donna che era quasi una seconda madre. Le accuse della cinquantacinquenne la facevano bruciare di rabbia: perché non le era consentito avere dei momenti di debolezza? Perché tutti sembravano aspettarsi che fosse in grado di gettarsi alle spalle tutto quello che era successo? Lei non sapeva neanche se le sarebbe mai stato possibile vivere godendo di nuovo di una pura, completa serenità; perché le persone che la circondavano non solo parevano convinte che fosse possibile, ma addirittura si aspettavano che lei raggiungesse quel risultato in breve tempo, senza difficoltà?
   Loro non lo sanno, pensò rabbiosamente Vera. Loro hanno perso Noemi; io ho perso Noemi e me stessa.
   Piena d'ira, la ragazza ripartì e raggiunse il parco vicino casa; andò a sedere su una panchina, al sole, tirò fuori un libro dalla borsa e si immerse nella lettura per concentrarsi su qualcosa di innocuo per la sua mente. E ci sarebbe riuscita, se Vittorio non le si fosse parato davanti neanche mezz'ora dopo, le braccia incrociate sul petto e la faccia aggrondata.
   Vera chiuse il libro e lo sbatté sulla panchina.
   «No, Valenti» esordì secca prima ancora che l'uomo riuscisse ad aprire bocca. «Oggi non è proprio giornata: è meglio se te ne vai».
   «Oh, per te non è giornata?» le fece eco il carabiniere, sarcastico. «Peccato che non me ne importi nulla».
   «Dovevo immaginarlo» sibilò Vera. Rimise il libro nella borsa e si alzò per andarsene, ma Vittorio si spostò per bloccarle il passo. «Valenti, togliti».
   «Non penso proprio». Vittorio la scrutò torvo. «Mi stai evitando di nuovo...»
   «Forse perché non ho voglia di starti a sentire?» lo interruppe Vera.
   «Questo non mi ha mai fermato, e lo sai» replicò lui.
   La ragazza emise un ringhio ben udibile. «Valenti, oggi ho già litigato con Giovanna: non ho voglia di discutere anche con te».
   «Non puoi evitarmi ogni volta che c'è qualcosa che non vuoi sentirti dire!» sbottò Vittorio. «Non è così che funziona!»
   «E com'è che funziona, allora?» lo provocò Vera. «Tu devi essere un esperto, visto che ci hai messo... quanto? Due anni, per affrontare il fatto che il tuo matrimonio era morto e sepolto?» aggiunse crudele.
   Vittorio divenne livido di rabbia, ma si morse la lingua e prese un gran respiro attraverso il naso prima di parlare ancora: non voleva dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito.
   «Il fatto che io abbia ignorato i miei problemi non significa che debba farlo anche tu» rispose infine con calma forzata.
   «Non venire a farmi la paternale» scattò Vera. «Non te lo puoi permettere».
   «Invece penso proprio di poterlo fare» replicò l'uomo, mordendo ogni parola.
   «Levati di mezzo, Valenti» gli intimò la ragazza con pari ferocia.
   «Tu mi starai a sentire adesso, fosse l'ultima cosa che faccio!» dichiarò Vittorio.
   «Perché non potete lasciarmi tutti in pace?» gridò Vera.
   «Perché tu non vuoi essere lasciata in pace – tu vuoi poter raggiungere il fondo senza interferenze!» urlò il carabiniere.
   «E se anche fosse?» strillò Vera con tutto il fiato che aveva.
   Vittorio si passò le mani tra i capelli. «Cristo, Vera, non lo vedi quanto sia sbagliato? Lo fai ogni volta!» esplose. «Lotti come una tigre per ogni sciocchezza, per ogni minima cosa, anche quelle insignificanti, ma quando devi combattere per l'unica cosa davvero importante, ti arrendi! Quando è il momento di tirare fuori le unghie e fare di tutto per sopravvivere, ti lasci andare! Ti arrendi, sempre! È l'unica cosa che sai fare!»
   «Sta' zitto!» gridò Vera. «Io non mi arrendo – sono stanca! Stanca di dover nascondere o giustificare ogni momento in cui non sono felice, stanca di ricordare quella notte! E tu non sei nessuno, nessuno, per potermi parlare così, non sai niente di me, quindi non parlare come se mi conoscessi!»
   «Ma io ti conosco!» tuonò Vittorio. «Che ti piaccia o no, io ti conosco ormai, e tu conosci me: è questa la realtà dei fatti, e negarlo non cambierà niente!»
   «Tu di me sai soltanto quello che hai scoperto ficcando il naso in affari che non ti riguardano, e questo non significa sapere chi io sia!» sputò la ragazza.
   Vittorio le si avvicinò e portò il naso a un centimetro da quello di lei: alla luce del sole tutto il volto di Vera sembrava illuminarsi e riflettere i raggi dorati come uno specchio, ma neanche quel fugace pensiero smorzò la sua rabbia.
   «Invece so bene chi sei, e sai come lo so? Perché ti ho vista al tuo peggio!» abbaiò il carabiniere.
   «Non è sufficiente!» gli ritorse contro Vera. «Io non sono solo quello che è successo l'altra sera: c'è così tanto che non sai, e ti comporti come se ciò che non hai ancora visto di me, non esistesse! Non hai intravisto che qualche sprazzo della persona che realmente sono, eppure continui a comportarti come se mi conoscessi da tutta la vita e onestamente, sono stufa della tua presunzione e vorrei tanto che tu mi lasciassi in pace!»
   «Tu vuoi qualcuno che non ti combatta!» la contraddisse l'uomo. «Vuoi qualcuno che ti lasci affondare senza provare ad aiutarti!»
   «Io voglio non dovermi vergognare dei momenti in cui cedo!» ruggì Vera.
   «Da quando ti conosco, sono sempre stato il primo a dirti che non c'è niente di male nell'avere dei momenti di debolezza!» le ricordò l'uomo. Scosse la testa. «Ma che te lo dico a fare? Tanto parlare con te è solo una perdita di tempo: non vuoi proprio capire. Eppure ti ho vista al tuo peggio e sono ancora qui!»
   «Vorrei che non ci fossi!» esplose Vera: strinse i pugni tanto da farsi sbiancare le nocche delle dita. «Non ti ho chiesto di esserci, non ti ho mai chiesto di far parte della mia vita!»
   «Non so nemmeno perché continuo a darti retta!» urlò Vittorio, alzando le braccia al cielo. «Sei solo una ragazzina che passa metà del suo tempo a piangersi addosso e odia gli altri perché non stanno lì a darle pacche sulla spalla e dirle: “Brava, continua pure così!”».
   Vera gli diede una violenta spinta e l'uomo barcollò indietro.
   «Sei uno schifoso ipocrita» sibilò la ragazza, gli occhi colmi di lacrime e lo sguardo rabbioso. «Tu hai finto per anni di non vedere come la tua vita privata stesse andando a rotoli e hai il coraggio di giudicare gli altri? Io sono tutt'altro che perfetta; mi costa una maledetta fatica provare a superare le mie difficoltà e lo faccio con una lentezza estrema; spesso e volentieri mi fermo e devo ricominciare tutto da capo, ma almeno io guardo in faccia i miei problemi, invece di negarli! Sono talmente consapevole del peso che mi porto dietro da permettergli di schiacciarmi: e non credo tu sappia che sensazione sia, visto quanto sei bravo a ignorare i tuoi, di problemi!». Lo guardò, ansante. «Vattene, Valenti». Lo spinse di nuovo. «Vattene via!»
   Vera si allontanò da lui di due passi, ma Vittorio l'afferrò per un braccio e la trattenne: il suo volto era rosso di rabbia, e sembrava furioso almeno quanto lei.
   «Sei solo una bambina che non sa di che parla» ringhiò a un centimetro dalla sua faccia.
   Con uno strattone, Vera si divincolò e lo schiaffeggiò con tanta forza da imprimergli sul viso l'impronta della propria mano.
   «Invece lo so bene, e me l'hai appena confermato» sussurrò perfida.
   «Lo sai che ti dico? Non voglio saperne più niente di te!» urlò Vittorio con voce intrisa di cattiveria. «Sei solo uno spreco di tempo e fatica!»
   «Ecco, bravo: vattene!» replicò Vera. «Vattene con la tua ipocrisia, tu che mi rinfacci sempre di scappare quando c'è qualcosa che non voglio sentirmi dire» lo schernì, facendogli il verso.
   Vittorio la scrutò torvo, mentre una vena gli pulsava frenetica sul collo; Vera ricambiò, lo sguardo fisso e le labbra arricciate a scoprirle i denti. Dopo qualche istante il carabiniere girò sui tacchi e si allontanò deciso, e Vera si guardò intorno: ogni singola persona presente stava fissando il punto in cui lei e Vittorio avevano appena litigato.
   «Be'? Che avete da guardare?» berciò incattivita la ragazza. «Pensate agli affari vostri!»
   Tutti si affrettarono a distogliere lo sguardo, e alcuni ritennero addirittura saggio mettere una maggiore distanza tra sé e Vera. Lei si asciugò le guance bagnate mentre nuove lacrime di rabbia minacciavano di sgorgare dai suoi occhi, poi si premette una mano al centro del petto, come se quel gesto potesse placare tutto quello che le si agitava dentro.

******

Quel mercoledì segnò una settimana precisa dall'anniversario dell'incidente di cui erano state vittime Noemi e Vera; e Luciano, che aveva notato con sollievo come Vittorio – dopo avergli chiesto un cambio di turno per stare vicino a Vera proprio in quella giornata così delicata – avesse mantenuto la calma, fu costretto ad assistere al totale e repentino cambiamento d'umore del quarantenne.
   In realtà, il maresciallo aveva avuto una giornata tutto sommato tranquilla: la maggior parte del proprio tempo l'aveva trascorso barricato in ufficio, impegnato con un nutrito numero di scartoffie, e non c'era stato nulla a turbarne la calma.
   Ma quando, poco prima delle sei del pomeriggio, Claudio Pastore si precipitò nel suo ufficio ancora in divisa, con l'aria disperata e – fatto assolutamente insolito – sull'orlo delle lacrime, Luciano capì che quella pace insperata stava per finire.
   «Maresciallo, deve fare qualcosa» esclamò nervoso il trentaquattrenne: i corti capelli biondo scuro gli stavano ritti sulla testa, chiaro segno che doveva averci fatto scorrere le dita quasi senza sosta. «Questa giornata è stata un incubo, e se Vittorio non si calma, io non posso e non voglio più lavorare con lui».
   Luciano si coprì il volto con le mani: evidentemente la sua buona stella si era eclissata.
   «Perché? Cos'è successo?» chiese.
   «Cos'è successo?» ripeté Claudio. «Vittorio Valenti è una maledetta bomba a orologeria, ecco cos'è successo!». Mosse qualche passo per la stanza, irrequieto, agitando le braccia. «È tutto il giorno che cerco di tenerlo tranquillo: scatta per qualunque cosa – anzi, scatta anche senza motivo! Oggi ha rischiato di azzuffarsi con qualsiasi persona l'abbia anche solo guardato: un paio di volte sono stato costretto a placcarlo per impedirgli di fare a botte!»
   Il maresciallo si strofinò gli occhi. «Ho capito, Pastore. Adesso vai e mandamelo qui».
   «Non serve» intervenne l'interessato dalla porta: era appoggiato allo stipite e guardava torvo Claudio, le braccia incrociate strette sul petto. «Sei corso a piangere dal maresciallo appena hai messo piede qui dentro? Prevedibile» disse cattivo.
   Claudio andò alla porta per uscire, ma quando fu accanto a Vittorio, gli scoccò uno sguardo incendiario.
   «Non so che problema tu abbia, Valenti, ma ti conviene risolverlo e darti una calmata» sibilò. «Oggi ti ho salvato il collo perché sono tuo amico, ma se continui a fare lo stronzo, ti lascerò impiccarti con le tue stesse mani, visto che ci tieni tanto!»
   Vittorio lo afferrò per il davanti della divisa. «Chi ti ha chiesto niente?» ruggì.
   Luciano si alzò di scatto e diede un pugno alla scrivania.
   «Ora basta!» tuonò. «Valenti, lascia subito il tuo collega o ti becchi una sanzione disciplinare!»
   Il quarantenne lasciò Claudio e gli rivolse un ultimo sguardo colmo di disprezzo; Claudio, da parte sua, scosse la testa, incredulo e arrabbiato, e uscì dalla stanza senza degnare l'amico di un saluto.
   «Cristo, Vittorio, ma che problema hai?» abbaiò Luciano non appena la porta fu chiusa.    «Stavi andando così bene! Perché adesso hai ricominciato a comportarti da... da... da pazzo?»
   «Sono incazzato, va bene?» sbraitò Vittorio. «Ieri ho litigato con quella deficiente cocciuta: è riuscita a farmi imbestialire e non l'ho ancora smaltita!»
   Luciano si accigliò, disturbato tanto dal tono quanto dalle parole dell'altro. «Quando dici “deficiente cocciuta” per caso intendi Vera?» chiese, gelido.
   «Sì, intendo proprio lei» ringhiò il quarantenne in risposta. «A volte fa delle cose che mi fanno ammattire, e come se non bastasse, non sta a sentire nessuno! Preferisce autodistruggersi!» sbottò, alzando le braccia al cielo.
   «Tu dovresti saperne parecchio, al riguardo». Vittorio gli scoccò un'occhiata rancorosa, ma Luciano non batté ciglio. «Sul serio, Vittò, tu sei stato la personificazione della testardaggine e dell'autodistruzione per quasi vent'anni... quindi, ecco, capisco che tu voglia aiutare Vera, ma non trovi che sia un po' ipocrita, da parte tua, criticare qualcuno perché sta commettendo gli stessi errori che a suo tempo hai commesso anche tu?»
   «Anche lei mi ha definito ipocrita» commentò irritato l'altro. «Io voglio solo che non si faccia del male!»
   Il maresciallo affilò lo sguardo. «Perché? È successo qualcosa?» domandò in tono tagliente.
   «No» negò all'istante Vittorio. Luciano lo guardò, scettico, ma lui non si scompose: poteva essersi scannato con Vera ed essere furioso con lei, ma le aveva fatto una promessa, e non aveva intenzione di infrangerla.
   «Torniamo al nocciolo della questione» disse lentamente Luciano. «Oggi sei andato fuori di testa perché Vera non ti ascolta... o perché avete litigato?»
   Vittorio esitò. «Le ho detto delle cose brutte» ammise. «Verso la fine. Penso che se mai mi rivedrà, si fermerà soltanto per sputarmi in faccia».
   Luciano incrociò le braccia al petto e inarcò le sopracciglia. «Sentiamo che cos'è uscito da quella fogna che hai al posto della bocca».
   Il quarantenne lanciò al maresciallo uno sguardo offeso, ma non ribatté. «Le ho detto che avere a che fare con lei è solo uno spreco di tempo e fatica».
   «E non ti ha ammazzato?» chiese serio Luciano.
   Vittorio s'incupì. «A modo suo, mi aveva già ammazzato» mugugnò.
   Luciano lo guardò a lungo, in silenzio.
   «Per come la vedo io, Vittorio» esordì, «se ti dispiace di averle detto quelle cose – se ti dispiace davvero – la cosa migliore che puoi fare è andare a chiederle scusa il prima possibile: secondo la mia esperienza personale, più tempo fai passare prima di scusarti con una donna, più lunga, lenta e dolorosa sarà la punizione che ti riserverà». Inarcò di nuovo le sopracciglia. «Hai già fatto passare ventiquattro ore: se non vuoi che ti ammazzi davvero e faccia sparire il tuo cadavere, ti conviene andarla a cercare, e di corsa».
   Vittorio bofonchiò qualcosa di incomprensibile, ma invece di contestare, incassò la testa tra le spalle e uscì dall'ufficio, lasciando Luciano a scuotere la testa tra sé.

******

Il giorno seguente alle liti con la sua ex allenatrice e Vittorio, Vera si presentò in palestra in perfetto orario, con il mento sollevato in un gesto orgoglioso e l'aria altera: si era lavata i capelli, rifatta lo smalto, indossava un paio di pantaloni nuovi e una camicia perfettamente stirata, e si era anche truccata un po'.
   Giovanna osservò l'arrivo della venticinquenne e sbuffò, le sopracciglia inarcate in un'espressione sardonica: tutto in Vera – dalla punta dei capelli a quella delle scarpe – era un enorme invito a rimangiarsi quello che le aveva detto il pomeriggio precedente. Non che fosse interessata a farlo: che fosse stato merito di ciò che le aveva detto o del desiderio di Vera di smentirla, lei aveva raggiunto il suo obiettivo, e non aveva nessuna intenzione di scusarsi per questo.
   Due ore più tardi, constatata la perseveranza di Vera nell'ignorarla, la cinquantacinquenne decise di interrompere quell'improvvisata guerra fredda e, al primo momento libero, affiancò la più giovane, che stava seguendo un ragazzo impegnato agli anelli.
   «Vera» disse a mo' di saluto.
   «Giovanna» rispose l'altra in tono incolore, senza distogliere lo sguardo dal sedicenne che si esercitava.
   Giovanna attese per un paio di minuti che Vera aggiungesse qualcosa, ma quando fu chiaro che la più giovane non avrebbe parlato, lo fece lei.
   «Bella camicia» buttò lì in tono casuale.
   Come prima, Vera neanche si voltò nella sua direzione. «Grazie».
   Fu a quel punto che la pazienza di Giovanna – notoriamente scarsa – finì.
   «Sei veramente cambiata tanto da portare rancore per una piccola discussione?» chiese a bruciapelo.
   «Simone, basta così: vai a fare stretching e poi passa agli esercizi a corpo libero» disse bruscamente Vera al ragazzo: Simone, che conosceva bene entrambe le donne, fu lieto di allontanarsi dal punto in cui con ogni probabilità, entro cinque minuti, sarebbe esplosa l'equivalente di una bomba. Quando furono relativamente sole, Vera si girò a guardare Giovanna.
   «Allora, Giovanna, cercherò di spiegarti il mio punto di vista, dato che nessuno sembra in­teressarsene tanto da tentare di capirlo» esordì con voce gelida, controllata. «Tutti quanti sembrate pretendere che io sia costantemente allegra, sorridente, accomodante, felice: esigete da me una perfezione che non ho mai raggiunto prima dell'incidente, figuriamoci adesso. Sono sempre stata perfida con chi ritengo mi stia infastidendo, capace di infuriarmi in tre secondi se qualcuno mi tocca un nervo scoperto, propensa a piangermi addosso nei momenti più difficili e stressanti, e nessuno ha mai preteso che io non fossi anche queste cose. Da quella maledetta notte di un anno fa, invece, sembra che chiunque abbia a che fare con me ritenga sia un mio dovere non provare nessun tipo di sentimento negativo, come se, in qualche modo, qualcuno mi avesse tagliato via la capacità di provare cose brutte insieme alla gamba. Be', non è così; non è così, e se poteste smetterla di aspettarvi da me qualcosa di impossibile, ve ne sarei davvero grata!»
   Giovanna la guardò in silenzio per un po'.
   «Con chi altro hai litigato?» chiese infine.
   L'altra la guardò, interdetta. «Che cosa...»
   «Hai detto più volte “tutti quanti” e “nessuno”, nel tuo discorso di poco fa. Non “tu”» la interruppe Giovanna. «Quindi la mia domanda: con chi altro hai litigato?»
   Vera alzò lo sguardo al soffitto e ne fissò i pannelli quadrati.
   «Ho litigato con Valenti» mugugnò un minuto dopo.
   «Il carabiniere che è venuto qui un paio di volte?» indagò la cinquantacinquenne. Quando    Vera fece un gesto affermativo, inarcò le sopracciglia. «Be', non è la prima volta che sei di malumore perché hai discusso con quell'uomo» aggiunse provocatoria.
   Vera si voltò di scatto a guardarla, l'espressione incredula. «Io non... non ho mai...» farfugliò indignata.
   «Sì che tu... tu hai...» la liquidò Giovanna agitando sbrigativa una mano, riuscendo nell'ardua impresa di contraddirla, schernirla e farle il verso in un'unica frase. «La domanda è: stavolta hai almeno un buon motivo per essere arrabbiata con lui? Perché l'ultima volta che lo sei stata in mia presenza, non ce l'avevi».
   «Tu sì che sai come tirare su di morale le persone» commentò sarcastica Vera.
   L'altra scrollò le spalle, noncurante. «Non era mia intenzione farlo, quindi tutto a posto».
   Vera scosse la testa: a volte ancora non riusciva a credere a quanto fosse rocciosa la personalità di Giovanna. Si grattò la fronte, pensierosa. «Mi ha detto delle cose non belle, ieri» disse lentamente. «Ma anch'io l'ho fatto, quindi non sono sicura di cosa provare. Una parte di me è ancora furiosa con lui; l'altra si sente in colpa per essere stata volutamente crudele». Sospirò. «Non ci capisco più niente».
   «In realtà, non c'è molto da capire» considerò Giovanna ad alta voce. «Si riduce tutto a una domanda: vuoi far pace con lui?»
   La ragazza affondò le mani nelle tasche dei pantaloni e lasciò vagare lo sguardo su chi si allenava.
   «Non so se sono pronta a perdonarlo» ammise lentamente. «Ma forse glielo devo».
   Giovanna le batté una mano sulla spalla. «Non è una decisione vera e propria, ma sempre meglio di niente» dichiarò prima di tornare al proprio lavoro; anche Vera tornò al suo e, anche se le costò un po' di fatica, riuscì a concentrarsi di nuovo sui ragazzi che stava allenando.
   Le ore trascorsero più rapidamente di quanto si sarebbe aspettata e presto arrivarono le sette; sollevata, Vera salutò i presenti e recuperò le proprie cose per andarsene. Quando uscì dalla palestra, fu sorpresa di trovare qualcuno ad aspettarla.
   Vittorio era appoggiato alla propria auto e scoccava sguardi nervosi alla porta della palestra; intanto, strusciava a terra gli anfibi e torturava il voluminoso mazzo di fiori che teneva in mano. Quando la vide, si staccò dalla carrozzeria e la raggiunse rapidamente, per non lasciarle il tempo di scappare.
   «Ciao» disse Vittorio. La ragazza batté le palpebre, confusa: non l'aveva mai visto così teso, e il suo silenzio sembrò innervosirlo ancora di più. Le tese i fiori con un gesto goffo. «Sono per te».
   Sempre senza parlare, Vera lo liberò dell’ingombrante fardello: una dozzina di girasoli, di un bel giallo vivace, la fissarono di rimando.
   «Perché?» chiese Vera.
   «Per chiederti scusa» rispose lui grattandosi il collo, a disagio.
   Lei scosse la testa. «No, volevo dire: perché i girasoli?»
   Per un brevissimo istante, Vittorio sorrise. «Mentre litigavamo, ieri, mi sono accorto che alla luce del sole i tuoi occhi diventano dorati; e in quel momento, con la pupilla scura al centro, mi hanno ricordato il colore dei girasoli» ammise, in imbarazzo.
   Vera distolse lo sguardo da lui per scrutare di nuovo i fiori; poi, senza neanche rendersene conto, sorrise con pura, inadulterata, totale felicità per la prima volta dopo un anno. Quando tornò a guardarlo, Vittorio si rese conto che anche alla luce del crepuscolo, gli occhi di lei brillavano come in pieno sole.
   «Grazie» mormorò Vera.
   Vittorio alzò una mano come per toccarle il viso, ma si fermò a metà strada e lasciò di nuovo cadere il braccio lungo il fianco, per poi farlo oscillare rigidamente avanti e indietro. Senza sapere cosa dire, prese a spostare ritmicamente il peso del proprio corpo dalle punte dei piedi ai talloni e viceversa, senza mai smettere di osservare Vera; lei preferì guardare il mazzo di fiori e accarezzò con la punta dell'indice i petali di un girasole, tracciandone il profilo.
   «Perché sei così nervoso, Valenti?» chiese piano. I suoi occhi rimasero ostinatamente appuntati sui girasoli. «Non sono più arrabbiata con te, sai. Non quanto ieri, insomma – neanche lontanamente».
   Il carabiniere ripiombò sulle piante dei piedi e smise di ondeggiare.
   «Io...». Vittorio si passò le mani nei capelli e strofinò ancora i piedi a terra, poi si fermò di colpo. «Va bene, adesso basta» sbottò; prese il volto di Vera tra le mani e lo avvicinò al proprio, guardandola fisso.
   «Ma che...» farfugliò lei, confusa.
   «Tu mi piaci» rivelò Vittorio, senza fiato. «Sei acida, sarcastica, certi giorni sei intrattabile e a volte mi fai imbestialire così tanto che mi strapperei i capelli – ma mi piaci, Vera, e non riesco a smettere di pensarci».
   Vera ricambiò lo sguardo dell'uomo per alcuni istanti, in silenzio, perfettamente immobile, mentre il suo cervello assimilava quelle parole; il mazzo di girasoli le scivolò tra le dita e finì a terra con un tonfo morbido.
   D'istinto Vittorio abbassò lo sguardo verso i fiori, ma prima che potesse dire qualcosa o anche solo capire cosa stesse succedendo, Vera lo afferrò per la maglietta, lo tirò verso di sé e schiacciò la propria bocca su quella di lui.
   Quel gesto folgorò Vittorio: per un momento rimase congelato sul posto, spiazzato tanto dall'audacia di Vera quanto dal fatto che lei avesse anticipato le sue stesse intenzioni. Poi divenne pienamente consapevole della pressione delle labbra di Vera sulle proprie; poteva percepirne la morbidezza e le screpolature della pelle sottile, il calore, il loro movimento appena accennato. Senza pensarci due volte, Vittorio infilò le dita tra i capelli della donna e le prese il labbro inferiore tra i denti per poi succhiarlo dolcemente.
   Vera lasciò la maglietta di Vittorio soltanto per circondargli il collo con le braccia; gli affondò le unghie nella nuca mentre faceva scivolare la propria lingua sulla sua in una carezza sensuale, che lui ricambiò prontamente.
   Quando si staccarono, parecchi minuti più tardi, entrambi erano senza fiato e incapaci di distogliere gli occhi da quelli dell'altro.
   «Be'» esordì incerta Vera, «è stato...».
   «... incredibile» concluse Vittorio.
   La ragazza si chinò e prese il mazzo di fiori abbandonato sull'asfalto; spazzolò ogni girasole con delicatezza, quasi volesse scusarsi di averli gettati a terra. Vittorio le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e le accarezzò la guancia.
   «Non ignorarmi» mormorò.
   Vera alzò lo sguardo su di lui.
   «Non ti ignoro» replicò, sorpresa. «Sono solo... non avevo deciso di baciarti, è... è successo, e anche se sono stata io a fare tutto, non me l'aspettavo».
   La mano di Vittorio indugiò sul volto di Vera. «Sei pentita?»
   Senza esitare, Vera scosse la testa. «Per niente».
   E Vittorio le sorrise; le sorrise e, per la prima volta da quando si erano incontrati, sul suo volto non c'era traccia del suo carattere eccitabile. Le uniche emozioni presenti erano la stessa calma e la stessa tenue felicità che anche Vera stava provando, e quando salirono ognuno sulla propria auto, entrambi sentirono che qualcosa era definitivamente cambiato.

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Capitolo 17
*** Capitolo XVI ***


Il giorno seguente Vera non riusciva ancora a credere di aver davvero baciato Vittorio Valenti, quarant'anni, carabiniere e provocatore extraordinaire: più ripensava a come si era evoluta la loro conoscenza, più la cosa le sembrava tanto improbabile da poter accadere solo in un romanzo di fantascienza, e arrivata all'ora di pranzo era quasi del tutto convinta che quel bacio, in realtà, non fosse stato altro che un sogno bizzarro.
   La presenza di Vittorio fuori dalle porte della facoltà fece sfumare quella convinzione come nebbia al sole.
   «Che ci fai qui?» gli chiese Vera, sorpresa di vederlo.
   L'uomo le rivolse un sorrisetto per nulla rassicurante e si mise le mani in tasca.
   «Ho pensato che potrebbe essere interessante pomiciarti davanti al tuo capo» annunciò.
   Il volto di Vera divenne scarlatto. «VALENTI!»
   Vittorio alzò le mani in segno di resa. «Stavo scherzando, Gamba Bionica: non c'è bisogno di farsi sentire da tutto l'isolato».
   La ragazza si coprì il viso con le mani. «Cristo, Valenti, sarai la mia morte!»
   «Credevo avessimo appurato che sono colui che ti renderà la vita un inferno» replicò divertito Vittorio.
   Vera abbassò lentamente le braccia e gli rivolse uno sguardo minaccioso.
   «Valenti, te lo chiederò solo un'altra volta» sibilò, irritata dallo sfacciato buonumore di lui. «Che diamine ci fai qui?»
   Vittorio si strinse nelle spalle. «Attacco alle quattro e ho deciso che voglio passare un po' di tempo con te». La prese sottobraccio. «Andiamo a mettere qualcosa sotto i denti».
   Incredula, la ragazza si lasciò trascinare giù per la scalinata e lungo Viale Ippocrate, fino a una delle tante pizzerie e paninoteche frequentate dagli studenti; comprato qualcosa da mangiare – e persa l'ennesima battaglia contro Vittorio, che non aveva nessuna intenzione di lasciarle pagare la sua parte – Vera andò a sedere su una delle panchine all'esterno, al sole.
   «Lo sai, Valenti, che nella tua galanteria sei un filino prepotente?» disse Vera non appena il carabiniere la raggiunse.
   «Lo dici solo perché non ci sei abituata». Vittorio si lasciò cadere accanto a lei sulla panchina e le cinse la vita con un braccio. «Allora, ancora nessun ripensamento su quello che è successo ieri?»
   «Stranamente, no» rispose Vera. «Anche se, con ogni probabilità, dipende solo dal fatto che il mio cervello non ha ancora realizzato che sia successo davvero».
   L'uomo le diede un pizzicotto sul fianco. «Perché devi sempre cercare di buttarmi giù di morale?»
   «Perché è divertente la faccia che fai quando ci riesco?» ribatté lei.
   Vittorio diede un morso al panino e contemporaneamente pizzicò di nuovo Vera. «Sei perfida» dichiarò, la voce soffocata dal cibo.
   Vera scelse di non rispondere; invece seguì il suo esempio, scartò il panino e iniziò a mangiarlo. Entrambi rimasero in silenzio per un po', intenti a masticare un boccone dopo l'altro; quando ebbero divorato anche l'ultima briciola, la ragazza aprì la lattina di Coca-Cola che avevano comprato insieme ai panini e bevve un bel sorso.
   «Da' qua». Vittorio cercò di sfilarle la lattina dalle mani, ma lo sguardo strano che Vera gli riservò lo fece immobilizzare. «Che c'è?»
   «Vuoi attaccarti alla lattina da cui ho appena bevuto?» chiese lei, come se non avesse mai sentito una cosa simile.
   Vittorio la guardò beffardo.
   «Di che dovrei avere paura? Della tua saliva?». Le rivolse un'occhiata eloquente. «Ce ne siamo scambiata parecchia, ieri: abbiamo superato quella fase, Gamba Bionica».
   «Non smetterai mai di fare allusioni al fatto che ci siamo baciati, non è così?» mugugnò Vera, lasciando la presa sulla lattina e guardando da un'altra parte.
   Il carabiniere bevve fino all'ultimo sorso di Coca-Cola e lanciò la lattina vuota nel cestino poco distante. «Perché dovrei? Sono felice che sia successo e non ho intenzione di ignorare la cosa». Strinse la presa sul fianco di lei. «Credevo avessi detto che non hai ripensamenti».
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Non ce li ho, ma il modo in cui continui a ribadire che ci siamo baciati mi mette un po' in imbarazzo» bofonchiò.
   Vittorio le scoccò un bacio sullo zigomo. «Brontolona».
   «Mi dispiace» disse la donna, lo sguardo fisso di fronte a sé.
   Improvvisamente serio, Vittorio la scrutò guardingo. «Stavo scherzando, Vera».
   «Ma non rende meno vero ciò che hai detto». Vera sospirò. «Ero molto più di questo, sai» aggiunse. «Prima dell'incidente ero molto più di questo».
   Vittorio scivolò più vicino a lei, fino a premere il proprio fianco e la gamba contro quelli di Vera. «Sei abbastanza così come sei» mormorò.
   Vera scosse la testa. «No, non è vero. Per te, che non mi hai conosciuta prima di quel giorno, forse lo è, ma per me non può esserlo. Non riesco a riconoscermi nella persona che sono diventata: mi sento come se fossi sempre sul punto di frantumarmi in mille pezzi e non... non ero mai stata così fragile».
   L'uomo appoggiò la guancia sulla testa di Vera. «È che sei cambiata in modo radicale letteralmente dalla sera alla mattina» commentò. «Non è stato graduale, non hai avuto il tempo di abituarti all'idea – un giorno ti sei svegliata e quasi tutto era differente. Anche se ti ho conosciuta parecchio tempo dopo l'incidente, sono sicuro che non sei niente di meno di ciò che eri prima: sei solo diversa».
   La ragazza passò un braccio intorno alle spalle di Vittorio. «Forse non sono niente di meno, ma ci sono tanti nuovi aspetti di me che non mi piacciono». Prese un breve respiro. «Continuo a vergognarmi di quello che è successo la settimana scorsa» disse. «Anche se Gianpaolo mi ha fatto capire che probabilmente non volevo davvero suicidarmi, non posso fare a meno di considerarlo comunque un passo indietro, un cedimento. Ci avevo lavorato tanto e credevo che non avrei più pensato di farla finita, e invece...». La sua voce sfumò e si spense.
   «Ma lui pensa davvero che non volevi suicidarti sul serio?» chiese piano Vittorio.
   Vera annuì. «Ti avevo sentito, sai» rivelò. «Quella sera, mentre ero in piedi sul parapetto, ti ho sentito chiamarmi. Se avessi voluto farlo, avrei avuto il tempo di buttarmi prima che tu arrivassi e mi trascinassi via, ma non... non ci sono riuscita. Una parte di me continuava a ripetermi che facendo solo un passetto in avanti sarebbe finito tutto – i pensieri, gli incubi, i ricordi, il dolore – ma un'altra parte mi tratteneva, mi buttava in faccia tutte le persone e le cose buone che ancora sono presenti nella mia vita, e non sono riuscita a fare quell'unico passetto in avanti». Sospirò ancora. «La prima volta non è stato così, la prima volta non c'era niente a trattenermi, nessuna voce nella mia testa che mi dicesse che stavo commettendo un errore, che c'era un'alternativa, che non era tutto nero come lo vedevano i miei occhi».
   Vittorio le accarezzò i capelli con la mano libera.
   «Sì... l'avevi detto, quella mattina a casa tua, che la prima volta sei sopravvissuta solo per caso» disse, esitante.
   «Perché è così». Vera tacque per qualche istante. «Lo so che Giulia ti ha raccontato com'è successo – che dopo il battesimo di Ludovica, una volta che i miei genitori erano andati a dormire, mi sono chiusa in camera e ho mandato giù tutto quello che sono riuscita a trovare nell'armadio delle medicine. Quello che non ti ha detto è che non mi sono salvata perché ho avuto dei ripensamenti e ho chiesto aiuto: non ero pentita, per niente. Anzi: ero assolutamente convinta di aver fatto la cosa giusta ed ero decisa ad aspettare di morire senza muovermi, senza far capire a nessuno cosa stesse succedendo. Ero seduta sul mio letto e aspettavo: nient'altro».
   «Allora... allora come...». Vittorio deglutì, incapace di formulare quella domanda.
   Ma Vera non aveva bisogno che Vittorio aggiungesse nulla.
   «Mia madre» disse semplicemente. «Aveva mangiato la panna della torta, quella che si usa per le decorazioni, e lei quella panna lì non è mai riuscita a digerirla: le ha fatto venire l'acidità di stomaco e non riusciva a dormire, quindi si è alzata ed è andata all'armadio delle medicine per prendere qualcosa che gliela facesse passare, ma l'ha trovato vuoto. L'ha trovato vuoto e... e lei sa sempre a menadito cosa c'è lì dentro, fino all'ultima compressa, quindi è venuta da me per sapere che fine avessero fatto le medicine e ha trovato tutte le... le confezioni vuote intorno a me, sul letto. Ha urlato...». La sua voce tremò. «Non l'ho mai sentita urlare così» sussurrò. «Ma io ero già stordita da tutte quelle pasticche e lei ha capito, ha capito cos'avevo fatto: mi ha buttata per terra, e mi ha ficcato due dita in gola per farmi vomitare la roba che avevo preso, mentre urlava a papà di chiamare l'ambulanza». Si passò una mano sul volto nonostante fosse asciutto. «L'ho odiata – Dio, l'ho odiata per settimane per essere venuta in camera mia proprio in quel momento, per avermi fatta vomitare, per avermi tenuta su questa Terra prendendomi per i capelli». Tirò su col naso. «Certi giorni ho creduto che non l'avrei mai perdonata».
   «Stai dicendo che me la sono cavata a buon mercato?» scherzò Vittorio.
   Vera gli rifilò uno schiaffo sulla parte posteriore della testa.
   «Sto dicendo che stavolta, pur essendo arrivata così vicina a suicidarmi, non volevo farlo davvero. Non ce l’ho mai avuta con te per essere venuto a cercarmi e avermi tirata via da lì, mentre ho odiato mia madre per avermi impedito di buttare via quella stessa vita che mi ha donato con tanti sacrifici». Arricciò la bocca, l’espressione sardonica. «Già solo questo dà l’idea di quanto, in realtà, le due situazioni siano diverse. O almeno, Gianpaolo ha detto così».
   «E tu non sei d’accordo?» indagò l’uomo.
   «Da che ho iniziato le sedute con lui, Gianpaolo è sempre riuscito prima di me a trovare il bandolo di certe matasse di sentimenti che a volte mi si aggrovigliano dentro» replicò Vera. «Non sono ancora riuscita a capire se fa parte del suo lavoro o se sono io che rifiuto di vedere quello che ho sotto il naso».
   «Forse, qualche volta, fai solo fatica a capire cosa provi e perché, ma capita a tutti». Vittorio rise. «A me succede fin troppo spesso!»
   «Perché tu sei un uragano» lo stuzzicò la ragazza.
   «Vero» convenne lui. «Però alla fine ne vengo sempre a capo… e anche tu, mi pare. Anche perché non credo che tu corra dal tuo psicologo ogni volta che qualcosa non va, no?»
   Vera sbuffò. «Se solo ci provassi, mi ammazzerebbe». S’interruppe, pensosa. «E poi, per le piccole cose quotidiane, c’è Giulia». Sorrise. «Certi giorni non so come farei, se non ci fosse lei ad ascoltarmi».
   «Per me sta diventando lo stesso con Claudio». Appena pronunciate quelle parole, Vittorio si rabbuiò. «Dovrò chiedergli scusa, più tardi: ieri l’ho trattato malissimo, e lui stava solo cercando di aiutarmi» aggiunse, sinceramente pentito.
   Vera lo guardò di sottecchi, un sopracciglio inarcato. «Che hai combinato? Hai provato a fare a pugni con qualcuno mentre eri di turno?». Il carabiniere distolse lo sguardo e Vera sgranò gli occhi, voltandosi completamente verso di lui. «Dio santo, Vittorio!»
   «Ero ancora arrabbiato con te!» si difese Vittorio. «Il mio autocontrollo non era al massimo».
   «E ti sembra una buona scusa?». La ragazza si schiaffò una mano sulla fronte, incredula. «Sei incorreggibile».
   «Ma ti piaccio così» dichiarò Vittorio, deciso a distogliere l’attenzione di Vera da quella notizia ed evitare così quella che aveva tutta l’aria di stare per diventare una ramanzina coi fiocchi.
   «E ancora non capisco come sia possibile» rispose lapidaria Vera.
   «Magari perché con me stai bene?» la stuzzicò l’uomo.
   Di colpo l’espressione di Vera divenne chiusa, cauta; la donna tornò a guardare l’andirivieni delle automobili, in silenzio, senza però allontanarsi da Vittorio.
   «Parlami, Vera» la esortò lui in tono pacato. «Non smettere».
   La ragazza prese un respiro profondo ed espirò poco alla volta, persa nei propri pensieri.
   «Certe sere – la maggior parte, a essere onesti – mi metto a letto e, pur avendo trascorso una giornata piena e tranquilla, non riesco a stare bene: sento che mi manca qualcosa qui dentro» spiegò premendosi il palmo della mano sul petto, in corrispondenza del cuore. «Allora cerco di fare qualcosa di più – dedicare maggiore attenzione al mio lavoro, ai ragazzi che alleno; trascorrere più tempo con Giulia e Tiziano, giocare di più con Ludovica, parlare di più con i miei genitori… cerco con tutte le mie forze di sentirmi di nuovo intera, e certi giorni quasi mi aggrappo alle persone che amo, alle cose che mi fanno sentire utile. Mi ci aggrappo con una disperazione che mi fa sentire ancora più danneggiata, ma continuo a farlo comunque; lo faccio pur sapendo che in fondo l’approccio è sbagliato e non risolverà il mio problema, perché nonostante tutto mi dà un po’ di sollievo e, anche se è debole e temporaneo, è meglio di niente».
   «Eppure ci metti passione» disse piano Vittorio. «Quando parli di quello che ti piace – che sia il lavoro da traduttrice o quello in palestra, i libri, i film, i tuoi animali o la tua famiglia – si vede quanta cura e quanto amore dedichi a queste cose».
   «Sono i motivi per cui resisto ai momenti bui, alla fatica che certe mattine mi costa alzarmi dal letto, alla depressione» rispose Vera in tono piatto. «Tutti insieme sono la mia ragione di vita, e quando mi concentro su una o più di queste cose, vedo quanta bellezza ci sia ancora intorno a me».
   Vittorio la guardò a lungo prima di parlare.
   «E riesci a essere felice?»
   «Sono felice quando la mia figlioccia mi sorride e viene dritta da me, quando continua a seguirmi anche se la rimprovero per insegnarle cosa è giusto e cosa è sbagliato. Sono stata felice quando, dopo mesi, ho visto i miei genitori tranquilli e rilassati, senza una sola preoccupazione al mondo. Ecco quando».
   «E ti basta?»
   «È molto più di quanto abbiano tanti altri: sarei ingrata, se non mi accontentassi».
   Vittorio rimase in silenzio per un minuto, guardandosi i piedi; poi rialzò lo sguardo.
   «Forse tu hai ragione, ma sai una cosa? A me non basta. Ho ceduto e rinunciato troppe volte, a troppe cose, per troppo tempo. Adesso sono stanco. Voglio essere spudoratamente felice... e dovresti volerlo essere anche tu».
   «Lo voglio» ammise Vera a mezza voce. «È che non so se sono più in grado di esserlo».
   Il carabiniere le depose un bacio sulla tempia e la strinse più forte.
   «Ne sei in grado. Sei perfetta e sei intera: dentro di te i pezzi ci sono ancora tutti, basta solo finire di rimetterli insieme – e ci riusciremo, fosse l’ultima cosa che faccio» disse risoluto.
   Vera sorrise suo malgrado; chiuse gli occhi e lo baciò sulla mandibola.
   «Sei più cocciuto di quanto credessi… e anche più paziente» mormorò. «Ma sei sicuro che valga la pena di spendere tanto tempo ed energie solo per rimettermi insieme?»
   «Quanto sono sicuro di essere nato per fare il carabiniere» rispose Vittorio.

******

Più tardi, quello stesso pomeriggio, Vittorio tornò al comando ben deciso a chiedere scusa a Claudio per il modo in cui si era comportato il giorno precedente.
   Purtroppo per lui, si rese conto quasi subito che sarebbe stata un'ardua impresa.
   Claudio raggiunse i colleghi del proprio turno nello spogliatoio, li salutò e iniziò a cambiarsi, avendo cura di schivare Vittorio come se fosse contagioso. Non lo degnò neanche di uno sguardo distratto, cosa che al quarantenne non sfuggì: a quanto pareva, Claudio Pastore era determinato a fingere che il suo collega più stretto non esistesse nemmeno.
   Vittorio decise di lasciarlo cullare in un senso di falsa sicurezza: non fece alcun tentativo di parlare con Claudio e continuò a prepararsi mentre scambiava due chiacchiere con altri agenti. Più tardi, seguì il trentaquattrenne nell'autocivetta e si piazzò sul sedile del passeggero in religioso silenzio; per tutta la prima ora del turno, i due si ignorarono a vicenda.
   All'inizio della seconda ora, Claudio era appena più rilassato; e non appena Vittorio vide la tensione abbandonare le spalle dell'amico, partì all'attacco.
   «Allora, lo dico io o lo dici tu?» sparò a bruciapelo.
   «Non ho niente da dirti» rispose Claudio, rigido, serrando la presa sul volante.
   Vittorio sospirò con fare teatrale. «Allora lo dico io: sono uno stupido coglione».
   «Lieto di sapere che sei capace di autocritica» ribatté acido l'altro.
   «Solo i giorni festivi e ogni primo martedì del mese». Vittorio azzardò un'occhiata a Claudio: a giudicare dall'espressione arrabbiata che aveva sul volto, il suo tentativo di alleggerire l'atmosfera non aveva funzionato. «Clà, avanti, puoi smetterla di fare l'offeso almeno il tempo necessario ad ascoltarmi davvero?»
   Claudio non rispose; continuò a guidare fino a trovare un parcheggio libero, dove fermò la macchina e si girò a guardare Vittorio con occhi tempestosi.
   «Non puoi fare il pazzo e il giorno dopo comportarti come se non fosse successo nulla» disse, fosco.
   «Lo so» rispose calmo Vittorio.
   «Non puoi trattare male le persone che ti stanno vicino e pretendere che non se l'abbiano a male» aggiunse Claudio.
   «Lo so» ripeté il quarantenne.
   «E smettila di darmi ragione!» sbottò l'altro.
   «Ti sto dando ragione perché ce l'hai» replicò tranquillo Vittorio. «Ieri mi sono comportato come un pazzo e un deficiente; e mi dispiace di averlo fatto non tanto per me, quanto perché in questo modo ti ho reso difficile fare il tuo lavoro, ti ho messo in una brutta posizione, e per finire non ho neanche apprezzato il fatto che tu abbia passato otto ore a impedirmi di buttare nel cesso quel che resta della mia carriera». Si grattò la nuca. «Volevo solo chiederti scusa e ringraziarti per avermi tenuto a bada... e assicurarti che non ricapiterà».
   La furia che riempiva Claudio si sgonfiò col progredire del discorso di Vittorio; quando il secondo tacque, sul volto del primo non c'era più traccia di rabbia.
   «Non mi piace per niente il Vittorio che ho visto ieri» disse infine, agitando l'indice contro l'amico con fare ammonitore.
   «Cercherò di tenerlo sotto chiave il più possibile» gli assicurò Vittorio.
   «Sarà meglio» bofonchiò Claudio mentre rimetteva in moto la macchina. «Perché non è per niente simpatico».
   Vittorio non riuscì a trattenere un sorrisetto. «Preferisci quello che ti prende a calci?»
   «Sì, lo preferisco; il che è tutto dire» replicò asciutto Claudio. Lanciò un'occhiata di traverso all'altro. «Quando finiamo il turno mi aspetto una birra e che tu mi dica che cavolo ti è preso, ieri».
   «Signorsì» sbuffò Vittorio.
   Il resto del turno trascorse tranquillo; una volta rientrati in caserma e smessa la divisa, i due amici raggiunsero il solito pub e sedettero al bancone per una birra e una mezz'ora di chiacchiere.
   «Sei sicuro che a Michela non darà fastidio, vederti rientrare ancora più tardi del previsto?» chiese Vittorio.
   «Inutile che ci provi: non me ne vado finché non mi dai una spiegazione per quello che è successo ieri» disse all'istante Claudio. «E adesso parla».
   L'altro sbuffò. «Vuoi la versione lunga o quella corta?»
   «Quella corta».
   «Ero incazzato come una biscia».
   Claudio si lasciò sfuggire uno strano suono, una via di mezzo tra una risata, uno sbuffo e un grugnito. «Va be', questa è davvero troppo corta» replicò. «Prova con la lunga».
   Vittorio si rassegnò al fatto che l'amico non avrebbe mollato la presa e gli raccontò gli eventi degli ultimi giorni, avendo cura di omettere alcuni dei fatti più delicati che riguardavano Vera. Quando finalmente tacque, Claudio lo guardò incredulo per alcuni istanti prima di reagire nell'ultimo modo che Vittorio si sarebbe aspettato.
   La risata che proruppe dalla bocca di Claudio era alta, tonante, e fece voltare nella loro direzione i pochi avventori che ancora indugiavano nel locale; passò un minuto, poi due, ma la risata dell'uomo, invece di placarsi, divenne ancora più impetuosa, quasi sguaiata, sotto lo sguardo stralunato di Vittorio. Fu solo quando rimase completamente senza fiato che Claudio riuscì a smettere.
   «Se qualcuno mi avesse detto» ansimò il trentaquattrenne, tra un respiro spezzato e l'altro, «che mi avresti fatto divertire così tanto, sarei andato su a Milano anni fa a chiedere che ti trasferissero qui!».
   Vittorio si accigliò. «Che cosa c'è tanto da ridere!»
   Claudio agitò una mano nella sua direzione mentre ricominciava a sghignazzare, stavolta più quietamente. «Hai quarant'anni e ti comporti come un ragazzino di quindici alla prima cotta» esalò. «Vuoi ancora chiedermi che ci trovo da ridere in quello che ti è successo nell'ultima settimana?»
   L'altro grugnì e sospirò, gettando indietro la testa. «Sono stato sposato per vent'anni» gli ricordò. «Non sono più abituato a stare accanto a una persona di cui non conosco le reazioni. Mi mette in difficoltà».
   «Si vede!» sbuffò Claudio, tentando con scarso successo di soffocare l'ennesima risata. Batté un pugno sul bancone. «E comunque te l'avevo detto – te l'avevo detto! Secoli fa! – che quella ragazza ti piaceva e tu hai sempre negato!»
   Vittorio borbottò tra sé quelle che sembravano imprecazioni.
   «Ero sposato: non riuscivo neanche a prendere in considerazione una simile eventualità» bofonchiò infine. Colse lo sguardo tutt'altro che convinto di Claudio e sbuffò. «Serve a qualcosa dire che non me lo sarei mai immaginato?»
   «Serve a qualcosa dire che avevi ficcato la testa sotto la sabbia?» replicò prontamente l'altro.
   I due si scambiarono un'occhiata, torva quella di Vittorio, esilarata quella di Claudio.
   «Va be', hai vinto: ho fatto lo struzzo» ammise il quarantenne. «Soddisfatto?»
   Claudio ci rifletté su. «Molto» decretò. Trangugiò l'ultimo rimasuglio della propria birra e diede una pacca sulla schiena dell'amico. «Adesso che hai smesso di fare lo struzzo, ogni tanto potremmo anche organizzare un'uscita a quattro» disse con un sorrisetto eloquente.
   Vittorio si nascose il volto tra le mani, terrorizzato dall'idea quanto Claudio ne era divertito.

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Capitolo 18
*** Capitolo XVII ***


Vittorio era ufficialmente stanco di quel tempo matto.
   A un passo dall'estate, non ci sarebbero più dovuti essere temporali un giorno sì e uno no: era questo che pensava il carabiniere in quella sera di fine maggio mentre usciva dal portone del palazzo, un grosso ombrello in pugno per ripararsi dalla pioggia torrenziale che martellava il terreno. Proprio di fronte al palazzo era parcheggiata la macchina di Vera: la ragazza era seduta all'interno dell'abitacolo con aria scocciata, in attesa, e Vittorio le si avvicinò rapidamente per poi bussare al finestrino.
   «Vittorio Valenti al suo servizio, madame» disse forte.
   Vera alzò gli occhi al cielo e scosse la testa per un attimo prima di sorridere; sgusciò fuori dall'auto il più agilmente possibile e si strizzò sotto l'ombrello accanto a Vittorio.
   «Grazie» disse Vera. Gli scoccò un bacio sulla guancia. «Ero sicura di avere un ombrello in macchina, ma a quanto pare mi sbagliavo» sbuffò.
   «Poteva andare peggio» la consolò Vittorio. «Pensa se ti fossi dimenticata la gamba!»
   «Divertente» bofonchiò lei. I due si mossero cauti verso il portone, attenti a non mettere i piedi in qualche pozzanghera, ed erano a metà strada quando un movimento accanto all'ingresso del palazzo accanto attirò la loro attenzione.
   Vittorio non era certo di cosa avesse visto; Vera, invece, doveva essersene fatta un'idea precisa, perché schizzò in quella direzione a una velocità che il carabiniere non si sarebbe mai aspettato.
   «Vera?». A Vittorio occorse qualche istante per rendersi conto che la ragazza si era lanciata in avanti e scattare al suo inseguimento; quando la raggiunse, Vera stava goffamente accovacciata accanto a un vaso. «Perché con te si finisce sempre per stare sotto la pioggia?» brontolò.
   Vera non lo degnò di uno sguardo: continuò a fissare lo spazio esiguo tra il muro e il vaso, i capelli e gli abiti bagnati incollati addosso, le mani tese, incurante dell'acqua che continuava a inzupparla.
   «Vieni, piccolino, vieni qui» chiamò con voce dolce. Le rispose un miagolio profondo, e finalmente Vittorio capì: quello che aveva intravisto poco prima era un gatto alla ricerca di un riparo. Vera si trascinò in avanti di mezzo passo. «Avanti, piccolo, non ti faccio nulla: voglio solo aiutarti» disse ancora in tono calmo. La testa tigrata di un gatto, col pelo fradicio e gli occhi spalancati, fece capolino; annusò sospettoso le dita della ragazza e si ritrasse in fretta, terrorizzato, quando il rombo di uno tuono riempì l'aria. «Oh, hai paura, lo so, ma se vieni fuori ti porto all'asciutto, tesoro, lo prometto» lo esortò.
   «È un gatto, ragazzina: non può capire quello che gli dici» le fece notare il carabiniere in quello che sperava fosse un tono ragionevole. Quando Vera non si mosse, sospirò tra sé e spostò l'ombrello in modo che la coprisse. «Per quanto dovremo stare qui?» grugnì.
   «Per tutto il tempo necessario» replicò brusca Vera, lanciandogli una rapida occhiataccia. «Avanti, micio, vieni fuori: lo so che questo soggetto vicino a me sembra antipatico, ma non è poi così male, te lo assicuro».
   «Sempre gentile» bofonchiò Vittorio, convinto che quel gatto non sarebbe mai uscito dal proprio nascondiglio; solo un paio di minuti più tardi, però, il felino lo smentì, facendo qualche passo esitante verso Vera e lasciando che la ragazza lo prendesse in braccio.
   «Bravo cucciolo!» esultò Vera; si sistemò il gatto sul petto e lo coprì coi lembi della felpa che indossava prima di rivolgersi al carabiniere. «Dai, Valenti, tirami su e andiamo dentro».
   L'uomo alzò gli occhi al cielo ma eseguì, lieto di sfuggire al temporale; i due entrarono in silenzio nell'androne e poi in ascensore, e appena Vittorio aprì la porta di casa, Vera andò dritta verso il divano e sedette a terra, con la schiena appoggiata al pezzo di mobilio.
   «Ce l'hai un asciugamano vecchio?» chiese Vera mentre tirava fuori il gatto dalla felpa.
   Vittorio non rispose; andò direttamente in camera da letto e tornò con due asciugamani tra le braccia. Porse alla ragazza quello scolorito, poi sedé sul divano, aprì il secondo telo di spugna e lo gettò sulla testa di Vera.
   «Ehi!» protestò lei, temporaneamente accecata.
   «Zitta, Gamba Bionica: visto che tu pensi solo ad asciugare quel gatto, io penso ad asciugare te... prima che ti venga una polmonite» replicò il carabiniere.
   Vera sbuffò ma non rispose: si sistemò il randagio in grembo e iniziò a strofinargli la pelliccia con delicatezza, mentre Vittorio faceva lo stesso con i suoi capelli. Il micio non oppose resistenza: si accoccolò contro lo stomaco della ragazza e si lasciò asciugare, facendo le fusa.
   «Povero piccolo» mormorò Vera, senza smettere di tamponare l'animale con il telo. «Guarda quant'è buono» aggiunse, rivolta a Vittorio. «Devono averlo abbandonato: un randagio non si lascerebbe tenere e toccare così».
   «Sì, lo penso anch'io» convenne Vittorio. Si mise a sedere a terra, accanto a lei, e passò a strofinarle il collo e le spalle. «Però, tutto sommato, è stato fortunato: l'hai trovato tu».
   «Io direi che è più fortunato ad aver trovato un nuovo padrone che ama gli animali almeno quanto me» ribatté Vera, scoccandogli un'occhiata eloquente.
   Vittorio rimase in silenzio per alcuni lunghi momenti.
   «Scusa?» disse infine, incredulo.
   «Se porto a casa un altro gatto, mio padre mi ammazza» replicò Vera.
   «Quindi stai dicendo che questo gatto deve stare a casa mia?» insisté il carabiniere, tanto per essere certo d’aver capito bene.
   «Non possiamo mica buttarlo di nuovo in mezzo alla strada!». Vera lo guardò implorante. «Non lo adotteresti, Vittorio? Per me?»
   Vittorio tentennò, poi sbuffò, sconfitto.
   «E va bene: hai vinto. Lui resta» grugnì.
   La ragazza gli rivolse un gran sorriso, lo afferrò per la maglietta e gli stampò un bacio sulle labbra. «Grazie, grazie, grazie!»
   «Solo lui, però» disse severo l’uomo. «Niente altri randagi».
   «Solo lui: promesso» gli assicurò Vera.
   Vittorio sbuffò di nuovo. «Come se potessi crederci».
   «Oh, smettila di brontolare» lo rimproverò la ragazza, senza degnarlo di uno sguardo, mentre frugava nella propria borsa; recuperato il cellulare, iniziò a scrivere un messaggio a tutta velocità.
   «Che fai?» indagò Vittorio, sospettoso: l'ultima volta che l'aveva vista trafficare al cellulare con tanto entusiasmo, si era trovato ad accompagnarla a un appuntamento con un altro uomo, e non ci teneva affatto a ripetere l'esperienza.
   Vera scoccò un rapido sguardo alla sua espressione e sorrise beffarda, quasi gli avesse letto in volto i pensieri che gli passavano per la testa.
   «Sto scrivendo a mia madre: ora che sei il felice padrone di un gatto ti serviranno un po' di cose, e vista l'ora non credo che farai in tempo a passare in un negozio, stasera. Io ho qualcosa in più a casa e sto chiedendo a mamma di fare una busta e avvertirla che tra...» diede un rapido sguardo all'orologio da polso, «venti minuti passi a casa nostra a prendere quella roba».
   Il carabiniere inarcò le sopracciglia. «Passerò a casa tua?» sottolineò.
   «Non ho detto ai miei genitori che io e te stiamo... che siamo...» Vera sbuffò, «qualsiasi cosa sia, insomma. E non ho intenzione di farlo: dopo tutte le volte che ci siamo azzuffati ci vorrebbero davvero troppe, troppe, troppe spiegazioni che al momento non sono in grado di dare; quindi, per quanto ne sanno loro, io sono da Giulia e tu mi hai chiamata per dirmi di aver appena salvato un gatto dalla strada e chiedermi se posso prestarti qualcosa per il micio, fino a quando non potrai andare a comprare quello che ti serve».
   Le sopracciglia di Vittorio si sollevarono un po' di più. «Hai pensato proprio a tutto» esclamò bruscamente.
   La ragazza lo fissò, anche lei con le sopracciglia inarcate. «Valenti, gli affari nostri sono nostri» rimarcò. «E no, non mi vergogno di te, tonto» aggiunse spazientita.
   Vittorio, che aveva aperto la bocca per replicare, la richiuse e rimuginò per qualche istante sulle parole di lei; dopodiché si alzò e sparì in camera da letto per riemergerne un paio di minuti più tardi con una felpa pulita addosso e un fagotto tra le mani.
   «To'» disse secco, lanciando il proiettile di stoffa in direzione di Vera e colpendola con precisione in piena faccia. «Cambiati, mentre non ci sono».
   Vera sputacchiò indignata mentre recuperava le cose che Vittorio le aveva appena tirato addosso: una tuta da uomo, una maglietta in cui sarebbero potuta entrare comodamente almeno due volte e una felpa enorme, asciutte e profumate.
   «Dovevi proprio tirarmeli in faccia?» domandò immusonita.
   Vittorio prese le chiavi della macchina e quelle di casa dal tavolo e scrollò le spalle, andando verso la porta. «Se tu puoi insultarmi...»
   «Se tu pensi una cosa stupida, come faccio a non insultarti?» domandò lei in tono ragionevole.
   «Facile: ti mordi la lingua e conti fino a dieci» replicò il carabiniere.
   «Ma tu non lo fai mai!» protestò Vera.
   Vittorio scrollò di nuovo le spalle. «Irrilevante» dichiarò, richiudendosi la porta alle spalle.
   Vera scrutò il punto in cui Vittorio era sparito, incredula, poi si chinò a guardare il micio ancora accoccolato sulle sue gambe e lo grattò sotto il mento. «Tranquillo, piccolino, Valenti è matto come sembra ma non è pericoloso».
   «Guarda che ti sento!» arrivò la voce di Vittorio, attutita dalla porta.
   «Spione!» gridò in risposta Vera.
   Il carabiniere non replicò. La ragazza sentì la porta dell'ascensore chiudersi e decise che, in fondo, l'idea di Vittorio non era male: i vestiti fradici che indossava erano diventati ancora più freddi di quanto già non fossero, e al contatto con la pelle le davano una sensazione sgradevole.
   Mezz'ora più tardi, una Vera infagottata negli abiti di Vittorio stava accoccolata sul divano e guardava il gatto annusare con cura ogni angolo e ogni mobile della stanza quando, con un fracasso tale da disturbare l'intero piano, il padrone di casa fece ritorno.
   «Mi sento un mulo da soma» mugugnò l'uomo non appena mise piede nell'appartamento, due grosse buste nelle mani. Alzò lo sguardo e vide Vera sogghignare dal divano. «Ti sei messa comoda» commentò.
   Lei si strinse nelle spalle. «Il tuo nuovo coinquilino sta esplorando la casa e io non avevo niente da fare». Guardò Vittorio posare le buste vicino alla porta e frugarsi in tasca con aria assorta. «Non è che vuoi tirarmi di nuovo qualcosa in faccia, vero?» chiese, sospettosa.
   «Non in faccia, no: sarebbe un peccato, rovinare una delle poche cose gradevoli di te» la punzecchiò il carabiniere. «Aha!» aggiunse trionfante, trovando ciò che cercava. «Al volo, Gamba Bionica!»
   Vera sbuffò, ma afferrò comunque l'oggetto che Vittorio le aveva appena lanciato; perplessa, osservò alternativamente il mazzo di chiavi che stringeva tra le dita e l'uomo che gliel'aveva appena consegnato.
   «Che cosa sono?» domandò Vera.
   Vittorio la fissò come se avesse avuto di fronte una persona particolarmente stupida. «A te cosa sembrano? Sono chiavi».
   «Lo vedo che sono chiavi» replicò spazientita la ragazza. «Vorrei capire che devo farci».
   Il carabiniere tacque per un istante. «Non me l'hai chiesto davvero» disse infine. «Ti serve un manuale di istruzioni, Vera? Magari un disegnino?» aggiunse sarcastico. «Sono chiavi, e le chiavi aprono» proseguì lentamente, scandendo con cura ogni parola. «Queste, nello specifico, aprono la porta d'ingresso, il portone di sotto e la cassetta della posta».
   Vera gli lanciò uno sguardo minaccioso. «Smettila di trattarmi come se fossi stupida» abbaiò, «e dimmi perché ho in mano le chiavi di casa tua!».
   Stavolta fu Vittorio a stringersi nelle spalle. «A qualcuno dovevo lasciarne una copia, per qualsiasi evenienza, e tu sei la persona che abita più vicina a me. E poi, visto che mi hai appioppato un gatto, puoi passare a controllare che non mi stia distruggendo casa, mentre sono al lavoro. E ancora, se ci diamo appuntamento qui e arrivi prima di me, puoi entrare invece di aspettarmi da sola per strada. Oppure, metti che io stia facendo la doccia e non possa venire ad aprirti, non saresti costretta a stare impalata fuori dalla porta in attesa che io finisca. O ancora...»
   «Ho capito!» esplose Vera. «Non mi piace, ma ho capito!»
   «E perché non ti piace?» indagò lui.
   Vera fece un buffo movimento con le spalle e la testa.
   «Non lo so» ammise controvoglia. «È che avere le chiavi di casa di qualcuno... è una cosa abbastanza intima, no? Ci vuole fiducia» bofonchiò.
   Vittorio gettò il resto delle chiavi sul tavolo, si buttò a peso morto sul divano e nascose il volto contro lo stomaco di Vera.
   «Be', io mi fido di te» dichiarò, la voce soffocata dalla felpa. L'espressione sul volto di Vera si ammorbidì. «Però sei noiosa e brontoli troppo».
   Qualsiasi tenero sentimento avesse suscitato in Vera la precedente dichiarazione di Vittorio fu spazzata via dalle sue ultime parole. La ragazza piazzò le mani sul petto del carabiniere e gli diede un violento spintone: lui rotolò sulla schiena e cadde sul pavimento prima di poter capire cosa fosse successo.
   «Alzati, Valenti: dobbiamo sistemare le cose per il tuo nuovo gatto e dargli da mangiare» disse Vera in tono zuccherino, alzandosi e scavalcando con superba noncuranza l'uomo ancora steso a terra. «Qui, micio, vieni!»
   Gatto e donna sparirono in un'altra stanza; Vittorio guardò il soffitto per un lungo momento e si chiese come fosse finito a farsi maltrattare e dare ordini nella sua stessa casa, prima di rimettersi in piedi e seguire gli altri due.

******

Quando Vera aveva detto a Vittorio che l'evoluzione del loro rapporto non riguardava altri all'infuori, appunto, di loro, era stata sincera: prova ne era il fatto che, solo tre giorni dopo quell'affermazione, era in procinto di entrare nell'appartamento di Giulia senza alcuna intenzione di rivelare il nuovo stato delle cose alla sua migliore amica.
   «Alla buon'ora» l'accolse la padrona di casa. «Iniziavo a pensare che avessi dimenticato dove abito!»
   «Esagerata e drammatica come sempre» tagliò corto Vera, già sulla soglia della cucina.
   «Dici?» replicò Giulia, sarcastica. «L'ultima volta che ti sei fatta vedere è stata al compleanno di Ludovica. Venti giorni fa» precisò.
   «Ho avuto da fare» replicò l'altra con grande dignità. Sedette e si guardò intorno. «Be'? Il senso di ospitalità e le buone maniere dove sono finite? Offrimi almeno un caffè, donna!»
   Brontolando, Giulia andò al lavello e iniziò a preparare la caffettiera.
   «Te la do io, l'ospitalità» bofonchiò tra sé, scuotendo la lunga chioma fulva. «Te la do io l'ospitalità e pure il caffè: prima sparisce, poi torna e pretende che le venga steso davanti il tappeto rosso... insensibile e ingrata...»
   Vera sorrise, divertita dalle scene di Giulia, ma non parlò; aspettò che il caffè fosse pronto e la sua migliore amica seduta vicino a lei, per farlo.
   «La verità, Giù, è che ho fatto un po' di fatica a tirare avanti, in questi giorni» ammise mentre girava il cucchiaino nella tazzina, lo sguardo fisso sul liquido scuro. «Non ero esattamente di buonumore e ho litigato con alcune persone – litigato di brutto, intendo – e... non so, non ero proprio di compagnia» spiegò.
   Anche Giulia fissò a lungo il proprio caffè prima di alzare gli occhi e guardare l'amica.
   «Perché non mi hai detto nulla?» chiese, delusa. «Ci siamo sempre dette tutto. Avrei potuto aiutarti... tirarti su di morale».
   Vera sorrise di nuovo, stavolta debolmente. «Credo sia ora che io ritrovi la capacità di gestire i miei sbalzi d'umore da sola. Non posso contare sempre sugli altri, per riuscirci: non va bene né per me né per voi. E mi sto impegnando, però faccio ancora fatica e ci metto più tempo di quanto sia normale, a ritrovare l'equilibrio».
   Giulia non rispose subito; si portò la tazzina alle labbra e bevve un sorso con aria assorta. Fece una smorfia quando il caffè ormai freddo le toccò la lingua e appoggiò la tazzina sul tavolo come se le avesse fatto torto.
   «Lo vedo che ti stai impegnando; lo vediamo tutti, veramente» disse infine. «E, Vè... col rischio di suonare presuntuosa... penso di aver avuto ragione fin dall'inizio, a dire che Vittorio Valenti avrebbe avuto un impatto positivo sulla tua vita».
   L'altra sbuffò. «Hai ragione: suoni presuntuosa, anzi, sei presuntuosa». Scrollò le spalle allo sguardo piccato che le rivolse Giulia. «Per fortuna ci sono abituata».
   «Comunque» riprese pungente la padrona di casa, «persino Tiziano ha dovuto darmi ragione, soprattutto dopo aver visto quanto Vittorio sia stato premuroso nei tuoi confronti nell'anniversario dell'incidente, e abbiamo pensato che sarebbe carino invitarlo a cena per instaurare un rapporto amichevole e civile. Da parte di Tiziano, cioè, perché io non gli sono mai stata ostile» precisò.
   Vera la fissò, un sopracciglio inarcato.
   «Vorresti farmi credere che Tiziano è riuscito a superare il fatto che Vittorio è romanista?» domandò con evidente scetticismo.
   «Ma quando mai» sbuffò Giulia. «Continua a lagnarsi dicendo che è crudele da parte mia pretendere che fraternizzi col nemico, ma è davvero l'unica cosa di cui si lamenta... e credo che ormai lo faccia più per partito preso che per una reale convinzione».
   «Tu sottovaluti il suo antagonismo da juventino verso alcune squadre» commentò Vera.
   «Tu sottovaluti il mio potere di rendergli la vita un inferno» replicò Giulia, leggera.
   L'ex ginnasta si strozzò con la propria saliva.
   «Sei perfida» riuscì a dire tra un colpo di tosse e l'altro.
   Giulia scrollò le spalle, indifferente. «Uso le armi che ho a disposizione...»
   «... per costringerlo a fare a modo tuo» concluse Vera per lei. «Come ho detto, sei perfida. Ma, in fondo, basta tenerli lontani quando Juve e Roma giocano una contro l'altra».
   «Come ti pare» disse l'altra con fare sbrigativo. «Allora, quando la facciamo questa cena?»
   Vera alzò gli occhi al cielo. Non riusciva a crederci: com'era possibile che Tiziano avesse deciso di tollerare Vittorio, e Giulia di includerlo nella loro cerchia di amicizie, proprio nel momento in cui il suo rapporto col carabiniere stava cambiando e lei desiderava tenere la cosa per sé, in attesa di capire come si sarebbe sviluppata la situazione? Se non avesse avuto la certezza assoluta che Giulia fosse all'oscuro di quanto accaduto pochi giorni prima, avrebbe scommesso che quella fosse l'ennesima trovata dell'amica per irritarla a morte.
   «Più avanti, Giù: più avanti» borbottò sconfitta.

******

Più tardi in quello stesso pomeriggio, Vera, sbrigate alcune commissioni, si ritrovò nel condominio in cui abitava Vittorio, e più precisamente nell'ascensore: dopo aver citofonato quattro volte a vuoto, infatti, aveva ricevuto un messaggio dal carabiniere, che la esortava a usare per la prima volta quel mazzo di chiavi che le era stato graziosamente consegnato solo settantadue ore prima. Vera non era affatto convinta che fosse appropriato, entrare in casa d'altri come se fosse stata la propria; soltanto un secondo messaggio di Vittorio – con cui l'uomo le aveva detto chiaramente che la scelta era tra usare le chiavi e restare impalata fuori dal portone – l'aveva persuasa a cedere.
   Quando finalmente varcò la porta d'ingresso, Vera capì all'istante il perché di tale insistenza.
   «Lo sapevo! Lo sapevo che c'era un altro motivo, per darmi le chiavi di casa tua!» sbottò la ragazza: Vittorio era spaparanzato sul divano, con la gatta – avevano scoperto che era una femmina mentre la lavavano e spazzolavano – accoccolata sul suo petto a fare le fusa. «Sei pigro, ecco cosa!»
   «L'ho fatto per Estia» tentò di discolparsi il carabiniere, indicando la gatta. «Ha ancora bisogno di essere rassicurata e non volevo lasciarla sola».
   «Ma se la lasci sola per andare al lavoro!» ribatté Vera.
   Vittorio ebbe il buongusto di mostrarsi almeno un po' imbarazzato. «Non volevo lasciarla sola più del necessario» si corresse.
   «Come no» sbuffò Vera; andò a sedersi sul divano, accanto allo stomaco di Vittorio, e accarezzò il felino. «Estia, eh?» ripeté, lo sguardo malandrino.
   L'uomo si strinse nelle spalle, o almeno ci provò. «Mi piaceva l'idea di continuare la tua tradizione, e lei non prova neanche ad avvicinarsi alla porta: sta bene in casa, al caldo. Quindi Estia, la dea del focolare domestico».
   «Sì, direi che è appropriato» convenne Vera con un sorriso. Accarezzò di nuovo Estia e prese un sacchetto dalla borsa. «Piccolina, che ne dici di uno scambio? Io ti do una caramella all'erba gatta e tu molli questo pigrone». La gatta annusò freneticamente l'aria, attirata dal sacchetto; Vera lanciò un paio di snack sul pavimento, ed Estia balzò giù dal petto di Vittorio per correre all'inseguimento dei dolcetti.
   «Vieni qui». Senza perdere un istante, Vittorio afferrò la ragazza e se la tirò sul petto, costringendola a sdraiarsi su di lui, poi nascose il volto nell'incavo del collo di lei.
   Nonostante fosse in equilibrio precario, Vera sorrise.
   «Hai carenze d'affetto, Valenti?» chiese, divertita.
   «Sì» rispose lui, la voce soffocata; Vera poteva sentire la sua bocca muoversi contro la propria pelle mentre parlava. «E visto che hai mandato via Estia, adesso tocca a te farmi sentire amato e coccolato. Anche se penso d'averci perso, nel cambio».
   Sebbene Vittorio non potesse vederla, la ragazza inarcò un sopracciglio.
   «Stai mettendo in dubbio la mia capacità di fare le coccole?»
   «Non oserei mai» replicò Vittorio. «Solo che prima avevo addosso una gatta, mentre adesso...»
   «Mentre adesso?» lo incalzò Vera.
   Il carabiniere si staccò da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi.
   «Be', più che un gatto, tu mi ricordi una tigre dai denti a sciabola» dichiarò.
   La ragazza sorrise di nuovo e scosse la testa. «Che ci esci a fare con me, se sono una bestia feroce?»
   «Amo il pericolo» sogghignò Vittorio in risposta.
   Rapidissima, Vera girò la testa e morse il braccio di Vittorio; lui gemette di dolore.
   «Non mi mordere!» si lagnò. «Sono delicato io, cosa credi?»
   «Non eri tu quello che due secondi fa amava il pericolo?» ridacchiò Vera. «Stai abbracciando una tigre: dovevi aspettarti qualcosa del genere. E comunque tu sarai delicato il giorno in cui io mi metterò alla guida ubriaca».
   «Tu non ti metterai mai alla guida ubriaca» replicò all'istante Vittorio.
   Stavolta fu Vera a sogghignare. «Appunto».
   L'uomo la strinse di nuovo tra le braccia e per buona misura avvolse una delle proprie gambe intorno a quelle di lei prima di chiudere gli occhi.
   «Shhht: smettila di ruggire» mugugnò.
   Vera lanciò uno sguardo all'orologio da polso. «Non dovevamo andare a cena e poi al cinema?». Vittorio bofonchiò qualcosa di incomprensibile e lei gli punzecchiò le costole con un dito. «Inutile grugnire: è un'idea tua» gli ricordò.
   «Tra dieci minuti mi alzo» borbottò il carabiniere.
   «Tra dieci minuti sarà tardi» replicò Vera.
   Vittorio aprì un occhio solo. «Otto?»
   «Cinque» rilanciò la ragazza.
   «Cinque e un bacio: è la mia ultima offerta» offrì Vittorio.
   «Che è un altro modo di dire dieci minuti» sbuffò Vera. L'uomo le scoccò uno sguardo ardente e lei sorrise suo malgrado. «Vorrà dire che faremo tardi» ridacchiò un istante prima che Vittorio le catturasse la bocca con la propria.

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Capitolo 19
*** Capitolo XVIII ***


Nonostante tenessero gelosamente segreta la neonata relazione tra di loro, ormai Vera e Vittorio trascorrevano la maggior parte del tempo libero insieme; e come stava diventando sua abitudine, quel mercoledì sera l'ex ginnasta lasciò la palestra e andò dritta a casa del carabiniere.
   «Dimmi che hai preparato da mangiare: sto morendo di fame» disse non appena Vittorio le aprì la porta.
   Lui inarcò le sopracciglia. «Non si saluta più?»
   Vera gli scoccò un rapido bacio sulla bocca. «Ciao. Dimmi che hai preparato da mangiare, perché sto morendo di fame».
   «Ho cucinato» confermò Vittorio mentre Vera appendeva la borsa e si chinava ad accarezzare Estia, che si era avvicinata facendo le fusa. «Anche se speravo di contare più del cibo».
   «Niente conta più del cibo» dichiarò la donna. «Senza di te posso vivere, senza mangiare no».
   «Tu sì che sai come lusingare l'ego di un uomo» sbuffò Vittorio. «Puoi stare tranquilla sulle tue probabilità di sopravvivenza, Gamba Bionica: è quasi pronto».
   «Ottimo» rispose Vera, soddisfattissima. «Posso darti una mano?»
   «Solo smettendo di maltrattarmi: il resto è tutto sotto controllo» replicò il carabiniere, già diretto in cucina.
   Sola, Vera sedette sul divano e prese in braccio Estia: somigliava a un Silvestro col pelo tigrato al posto di quello nero, e sul petto, in mezzo al pelo bianco, aveva una grossa macchia tigrata a forma di cuore. Quel particolare fece sorridere Vera: Estia continuava a dimostrarsi sempre più una gatta dolce e affamata d'affetto, ed era come se la Natura avesse voluto imprimere su di lei un segno visibile del suo carattere. Per fortuna, rifletté ancora la ragazza, non valeva per tutti: altrimenti lei e Vittorio avrebbero avuto la pelle rossa come le fiamme dell'Inferno, un bel set di grosse corna nere sulla testa e un forcone incollato alla mano. Il pensiero le fece grugnire una mezza risata.
   «Perché ridi?» le chiese Vittorio, guardingo; andò al tavolo apparecchiato e posò due piatti pieni di pasta. «Sei impazzita una volta per tutte o stai tramando?»
   Di nuovo, l'immagine di se stessa e Vittorio nelle vesti di due diavoli lampeggiò nella mente di Vera, e lei faticò a non ridere.
   «Nessuna delle due, uomo di poca fede». La ragazza lasciò Estia sul divano e raggiunse il tavolo; una volta lì, si chinò su un piatto e annusò il profumo che saliva in spirali di vapore. «A quanto pare, sei bravo in cucina. Niente niente, mi toccherà riconoscere che hai anche delle qualità!» lo stuzzicò.
   Vittorio le rivolse uno sguardo di sfida. «Di' solo un'altra parola e mangerò tutto io».
   Vera socchiuse gli occhi, e per un attimo parve esitare; poi il suo stomaco brontolò sonoramente e lei decise di sedersi.
   I due mangiarono in un silenzio rilassato, spezzato solo dal tintinnare delle posate sui piatti e dai rumori che arrivavano dalla strada. Una volta sparecchiato e rassettato, andarono a sedersi sulla parte di divano non occupata da Estia; sempre in silenzio rimasero abbracciati per un po', cullati dalla musica che usciva dalla radio accesa.
   Alla fine fu Vera a parlare per prima.
   «Dio, potrei anche mettermi a dormire» sospirò contenta.
   Vittorio le depose un bacio sulla testa. «Aspetta di tornare a casa tua per farlo» replicò.    «Stanotte sono di turno e non mi va di saperti per strada insonnolita».
   «Sembri mia madre» ridacchiò la ragazza. «Da giorni continua a farmi raccomandazioni sceme, tipo di non dimenticarmi le pentole sul gas acceso o la porta di casa aperta». Alzò gli occhi al cielo, ma sorrideva. «La prospettiva di tornare al lavoro le fa male».
   «Ferie?» indagò il carabiniere.
   Vera scosse la testa in segno di diniego. «Congedo straordinario: l'ha preso dopo l'incidente per seguirmi in ospedale, durante la riabilitazione e poi a casa mentre mi abituavo a fare tutto con la protesi» spiegò. «Ricomincia lunedì e credo che l'idea di tornare del tutto alla normalità la metta in ansia; ha paura che io possa avere bisogno di qualcosa mentre non c'è».
   Vittorio sbuffò. «Possiamo farle fare cambio con mia madre: deve andare in pensione l'anno prossimo e già si lamenta perché non vuole smettere di lavorare».
   «Per carità» replicò la ragazza. «Lascia che la mia, di madre, torni in ufficio: ormai ha troppe energie represse, e c'è un limite a quante volte le superfici di casa possono essere lavate e strofinate prima di polverizzarsi!»
   Vittorio scoppiò a ridere.
   «Se ci sentissero parlare così di loro, ci ammazzerebbero!»
   «Parla per te: grazie alla protesi, io posso sempre appellarmi alla loro pietà e comprarmi il perdono» sghignazzò di rimando lei.
   L'uomo la fissò, ammirato. «Sei subdola».
   «Solo quando serve». Vera si stiracchiò. «Questo divano è una trappola mortale: se non mi alzo, rischio davvero di addormentarmi». Si rimise in piedi e andò verso il bagno; passando, diede una pacca leggera sulla testa di Estia, che si era allungata tanto da occupare un buon terzo della seduta. «Mentre sono di là cerca di non rubarmi il posto, tu» disse alla gatta.
   Estia fece le fusa più forte e Vittorio si mise di nuovo a ridere: in che modo Vera riuscisse a farsi rispondere dai gatti che le stavano intorno era una cosa al di là della sua comprensione.
   Rilassato, il carabiniere reclinò la testa contro i cuscini e chiuse gli occhi, canticchiando tra sé. Vittorio rimase in quella posizione per dieci minuti abbondanti prima di ricordare che non era solo in casa e chiedersi che fine avesse fatto Vera: riaprì gli occhi e la trovò appoggiata al tavolo, intenta a fissarlo, con le braccia incrociate sotto il seno e l'espressione concentrata.
   «Che c'è?» chiese cauto.
   La ragazza gli sorrise. «Ti sto solo guardando».
   «Sì, ma... perché?» insisté lui, perplesso.
   Vera scrollò le spalle. «Onestamente? Più ti guardo, e meno capisco come tu possa essere così bello».
   Il collo di Vittorio si tinse di rosso e lui si schiarì la voce un paio di volte. «Bello, io?» ripeté, una sfumatura scettica nella voce. «Mi sa che oltre alla gamba finta ti servono anche un paio d'occhiali, ragazzina, perché di sicuro non sono bello».
   Vera gli sorrise di nuovo, stavolta con dolcezza. «Per me lo sei».
   Vittorio arrossì un po' di più e si grattò la nuca; si alzò con un gesto rapido, raggiunse Vera e infilò le dita tra i suoi capelli per massaggiarle lo scalpo.
   «Allora hai veramente qualche rotella fuori posto» commentò, mentre lei sospirava soddisfatta. «E io che pensavo stessi facendo progressi, con lo psicologo».
   «Inutile fare il sarcastico, Valenti» disse placida Vera, gli occhi chiusi e la testa abbandonata tra le mani dell'uomo. «Credo che tu sia bello, e neanche punzecchiarmi mi farà cambiare idea».
   L'uomo scosse la testa. «Lo dici soltanto perché abbiamo smesso di saltarci alla gola ogni volta che ci vediamo».
   «Mh-mhhh» mugolò la ragazza. «In realtà ho iniziato a pensarlo quando ancora non ti sopportavo» rivelò. Aprì un occhio solo e gli rivolse uno sguardo sardonico. «Comunque, grazie per la fiducia nella mia lucidità mentale, eh».
   Vittorio le baciò la punta del naso. «La tua intelligenza ha perso ogni credibilità nel momento in cui mi hai baciato fuori dalla palestra».
   «O magari ho soltanto gusti strani» sogghignò Vera.
   «Questo è chiaro come la luce del sole». Vittorio si lasciò sfuggire un sorrisetto. «Non c'è verso: riusciamo a discutere anche quando ci diciamo cose gentili». Il suo sorriso si allargò fino a trasformarsi in una risata. «Siamo due idioti!»
   «Stavolta hai cominciato tu, quindi parla per te» ribatté l'ex ginnasta. Gli cinse il collo con le braccia. «Adesso smettila di dire stupidaggini e baciami» ordinò.
   Vittorio lasciò vagare lo sguardo sul corpo di lei con deliberata lentezza. «Dove?»
   Stavolta fu Vera ad arrossire, ma la voglia di zittirlo fu più forte dell'imbarazzo. «E se ti dessi carta bianca?» lo provocò.
   Invece di rispondere, Vittorio catturò la bocca di lei in un bacio; spinse il bacino contro quello di Vera, intrappolandola tra il proprio corpo e il tavolo mentre insinuava la lingua tra le sue labbra socchiuse.
   Vera replicò con entusiasmo all'iniziativa dell'uomo e infilò le mani sotto l'orlo della sua maglietta, per accarezzargli la schiena e il petto. Senza fiato, staccò le labbra da quelle di Vittorio per mordicchiargli la mandibola coperta da un velo di barba e scese a deporre una scia di baci umidi sul suo collo, soffermandosi sui punti in cui poteva sentire le vene pulsare frenetiche: aveva tutta l'intenzione di esplorare ogni centimetro del corpo di Vittorio, e a giudicare dai gemiti del carabiniere, non avrebbe trovato resistenza.
   Vittorio fece un passo indietro e trascinò la ragazza con sé, allontanandola dal tavolo, poi le afferrò il fondoschiena con le mani e l'attirò di nuovo contro il proprio corpo. Incurante delle manovre di lui, Vera gli morse un orecchio: per tutta risposta, Vittorio emise un basso verso gutturale.
   Finalmente, Vera si staccò dal carabiniere abbastanza da guardarlo in volto.
   «Hai ringhiato?» ridacchiò.
   «Colpa tua» brontolò Vittorio, nascondendo il visto nell'incavo del collo di lei mentre spingeva le mani ancora più in basso, ad accarezzarle le cosce.
   Quando le toccò la protesi, Vera sentì tutte le sue insicurezze riemergere dall'esaltazione del momento e piombarle addosso come una doccia fredda; sussultò e fece per ritrarsi, ma Vittorio la trattenne.
   «No» disse piano. «Non te ne andare, Vera».
   Le fece scivolare un braccio intorno alla vita e la strinse più forte; le accarezzò i capelli, coprendole il volto di baci, ma quando provò di nuovo a sfiorarle le gambe, Vera ricominciò a dimenarsi.
   «Lasciami, Vittorio, ti prego» lo supplicò. «Non posso, non ce la faccio, non…»
   «Vera, guardami. Guardami» disse Vittorio con forza. Le afferrò il mento e la fissò dritto negli occhi, senza battere le palpebre, lo sguardo deciso. «Non ha importanza».
   «Certo che ce l’ha!» singhiozzò Vera, coprendosi il volto con le mani. «Mi manca una gamba. Sono orribile!»
   «Non lo sei. Non per me». Mentre continuava a tenere Vera contro di sé, con la mano libera prese quelle di lei, una alla volta, e se le portò sul petto, senza mai distogliere lo sguardo dal suo. «Io sto baciando te, Vera. Sto baciando la tua bocca, il tuo cervello acuto, i tuoi occhi così belli, il tuo coraggio, la tua forza e sì, anche la tua protesi». Baciò via una lacrima che le era sfuggita. «Mi piaci talmente, così come sei, che se avessi ancora la tua gamba probabilmente mi piaceresti molto meno» scherzò.
   Vera rise, incerta, ma non cercò più di allontanarlo. «Sei sicuro che non ti disgusterà, vedere il moncone della mia gamba?» sussurrò.
   Vittorio alzò gli occhi al cielo. «Sono sicuro». Le mise le mani sulle spalle. «Adesso lasciati guardare».
   La baciò di nuovo; lentamente, stavolta, senza fretta. Poco a poco, Vera tornò a rilassarsi nel suo abbraccio; Vittorio poteva sentirlo nei muscoli di lei che, sotto le sue dita, perdevano gradualmente la tensione che li aveva resi rigidi e tornavano a essere morbidi e accoglienti.
   Quando la sentì gemere, il carabiniere ebbe la certezza che ormai Vera si era calmata: le passò un braccio sotto il fondoschiena, l'altro intorno ai fianchi e le sollevò i piedi da terra per poi dirigersi verso la camera da letto. Vera non disse nulla: si limitò ad aggrapparsi alle spalle di Vittorio e ad appoggiare la fronte sulla sua guancia, il corpo premuto contro quello di lui per tutta la sua lunghezza.
   Poi qualcosa di duro la colpì al centro della schiena e Vittorio imprecò.
   «Maledetta porta» grugnì l'uomo. Fece un passo di lato e imprecò di nuovo quando urtò il gomito sullo stipite. «E che cazzo!»
   Vera scoppiò a ridere. «Mi sa che così non ci passiamo»
   «Invece ci passiamo» s'intestardì lui. «Col cazzo che ti metto giù!»
   «Forse sarebbe meglio» rise ancora la ragazza quando, al terzo tentativo di oltrepassare la porta, sbatté la parte posteriore della testa sul muro. «Almeno ci arriveremmo interi».
   Vittorio le morse il collo. «Zitta: devo concentrarmi».
   Vera continuò a sghignazzare mentre Vittorio – tenendola ostinatamente in braccio – si metteva di lato e attraversava cauto lo stretto vano della porta e si lasciò andare a una nuova, rumorosa risata nel momento in cui l'uomo sospirò sollevato per essere finalmente riuscito nel suo intento.
   «Dio, Valenti, sei uno spasso» trillò esilarata.
   «Adesso te lo do io, lo spasso» replicò Vittorio: la lasciò cadere sul letto e sogghignò soddisfatto quando Vera, presa alla sprovvista, squittì spaventata.
   L'ex ginnasta si tirò a sedere, decisa a punzecchiarlo con un piede per vendicarsi, ma si bloccò: Vittorio era inginocchiato di fronte a lei, tra le sue gambe, e la guardava dal basso mentre appoggiava cauto le mani sulle sue ginocchia. Lentamente, l'uomo le risalì le gambe con le dita fino alla chiusura dei pantaloni; li aprì con gesti agili e li tirò appena, deciso a levarglieli di dosso.
   Sempre in silenzio, Vera alzò i fianchi e permise a Vittorio di sfilarle i jeans e le scarpe; trepidante, si lasciò scrutare dallo sguardo attento del carabiniere, che la percorreva con cura dalla punta dei piedi fino al volto.
   Quando i loro occhi si incontrarono di nuovo, Vittorio percorse col pollice il punto in cui la gamba di Vera spariva nella protesi.
   «Insegnami» mormorò.
   Con dita tremanti, la donna girò la cuffia di silicone verso l’esterno e rimosse la gamba artificiale prima di allungarsi verso il comodino e appoggiarla in modo che non cadesse.
   Appena Vera si raddrizzò, Vittorio prese tra le mani quel che restava della sua coscia sinistra e l’accarezzò per tutta la sua lunghezza; poi, con un gesto lento, tracciò col pollice la cicatrice dell’amputazione, da un’estremità all’altra.
   Nel momento in cui il carabiniere chiuse gli occhi e posò un bacio delicato proprio al centro della cicatrice, Vera tremò violentemente. Con un gesto istintivo afferrò i corti capelli dell’uomo e li tirò, costringendolo ad alzare la testa; appena i loro sguardi si incontrarono, Vera si sentì mancare il fiato.
   «Vittorio» mormorò con voce quasi inudibile. Deglutì a fatica, ma non distolse gli occhi da quelli di lui neanche per un istante. «Fai l’amore con me».
   Vittorio si alzò lentamente, posò un ginocchio sul materasso e si allungò su di lei, sostenendosi con un braccio per non pesarle addosso, senza mai smettere di osservare la sua espressione. Solo quando lei gli sorrise le catturò la bocca con la propria per l’ennesima volta, ogni incertezza spazzata via da quel semplice gesto.

******

Quel giovedì, Giulia vagava da una stanza all'altra della propria casa come un'anima in pena, in attesa che il campanello trillasse annunciando la visita della sua migliore amica; perché così come aveva la certezza che Tiziano non avrebbe mai rinunciato a vedere una partita della Juventus, lei sapeva che quel giorno Vera sarebbe andata a trovarla. Era una sicurezza che derivava dal conoscere l'altra donna da tutta la vita, quasi meglio di quanto conoscesse se stessa; questo... e il fatto che da oltre settantadue ore le stava inviando messaggi con cui la invitava – non troppo gentilmente – a non sparire di nuovo per tre settimane.
   Insomma, per lei, l'ex ginnasta non aveva segreti; per questo, quando Vera entrò nella cucina di casa sua rilassata e sorridente come non era stata per tanto tempo, Giulia capì al volo che qualcosa era cambiato.
   «Qualcuno ha fatto sesso!» esclamò entusiasta.
   Vera, che si era seduta sistemando Ludovica sulle proprie ginocchia, d’istinto tappò le orecchie della bimba. «Giù, la bambina!» disse, scandalizzata.
   L’amica la liquidò con un gesto sbrigativo della mano. «Lulù è ancora troppo piccola per capire di cosa stiamo parlando e ci vorrà un po’ di tempo perché cominci a ripetere quello che diciamo per imparare a parlare… non è vero, tesoro?» concluse, rivolta direttamente a sua figlia.
   Ludovica rise e batté le manine, istintivamente felice di vedere la sua mamma tanto allegra.
   «Ho l’impressione che mi stiate abbandonando tutti, ultimamente: prima Hermes, poi mio padre e adesso tu…» bofonchiò Vera alla bambina. «Per fortuna, almeno Efesto mi è fedele!»
   «Smettila di parlare a vanvera» la rimproverò Giulia. Tirò fuori una bottiglia di succo all’ananas e la schiaffò sul tavolo insieme a due bicchieri, poi passò un biberon a Ludovica, che iniziò a bere avidamente.
   «Niente caffè?» chiese speranzosa Vera, cercando di prendere tempo.
   Ma Giulia non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire la preda.
   «Niente caffè» rispose lapidaria. «Allora? Chi è il fortunato?»
   Vera alzò gli occhi al cielo. «Com’è che ti sei fissata con questa storia che ho fatto sesso?»
   La sua migliore amica le agitò contro un dito con fare saccente. «Non pensare di potermi ingannare, cara mia: siamo amiche da quando eravamo piccole, ti conosco come le mie tasche!»
   Rassegnata, Vera sbuffò. «Va bene, è vero. Ho fatto sesso. Con…». Si guardò intorno circospetta. «Dov’è Tiziano?»
   «In camera da letto» rispose sbrigativa Giulia. «Allora?»
   La sua migliore amica abbassò ancora la voce. «Con Vittorio».
   «LO SAPEVO!» esultò Giulia. Saltò in piedi e improvvisò una danza sul posto. «Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo!»
   Alle grida di Giulia, Tiziano arrivò in cucina a tempo di record; tentò inutilmente di frenare la propria corsa e fu costretto ad aggrapparsi allo stipite della porta per non cadere. «Che succede? Che è tutto ‘sto macello?»
   Sua moglie lo abbracciò. «Non ci crederai mai! La nostra Vera…»
   «GIULIA!» tuonò la diretta interessata.
   Insospettito dalla sua veemenza, Tiziano staccò Giulia da sé e si piegò a scrutare bene il volto dell’amica. «Tu hai fatto sesso!» dichiarò, sconvolto.
   Vera iniziò a tastarsi la faccia. «Ma che ce l’ho scritto da qualche parte?»
   «Più o meno: nella tua espressione» sbuffò divertito l’amico. «Ma con chi? Non vuoi mai uscire con nessuno…». Impallidì, mentre un sospetto si faceva strada nella sua mente. «Non con quello!»
   «Quello chi?» chiese Giulia.
   «Giù, ti prego…» esalò Vera.
   «Vittorio Valenti, il carabiniere» scandì Tiziano.
   Giulia ricominciò a saltellare, battendo le mani. «Proprio lui!»
   «Ma NO!» esplose Tiziano.
   «Grazie, Giù, davvero» bofonchiò sarcastica Vera.
   «Hai fatto sesso con quello! Vera, ma ti rendi conto? È romanista! È il nemico!» disse schifato l’unico uomo presente. Ludovica lanciò allegramente il biberon ormai vuoto e Tiziano si accorse solo in quel momento della presenza della bambina. «State parlando di sesso davanti a mia figlia?» ruggì.
   «Credevo fosse anche figlia mia» replicò Giulia in tono pungente.
   Vera si limitò a indicare l’amica. «Ha cominciato lei. Dillo, Lulù, dillo a papà che la zia Vera ti ha anche tappato le orecchie!»
   «Bell’amica!» insorse Giulia.
   «Ehi, qui si tratta di sopravvivere» si difese l’altra.
   Tiziano prese la bambina tra le braccia e si avviò verso il corridoio. «Vieni, amore di papà: allontaniamoci da queste screanzate».
   Le due donne si offesero enormemente.
   «Screanzate a chi?» s’indignò Vera.
   «Te la do io, la screanzata… aspetta stasera, aspetta!» gli urlò dietro sua moglie, furente.
   Giulia e Vera si guardarono per un momento, poi scoppiarono a ridere come pazze.
   «Adesso che quel guastafeste se n’è andato, voglio parlare seriamente con te» disse la prima, sedendo di nuovo e abbassando la voce. «Come ti senti?»
   Vera inarcò le sopracciglia. «Come una che ha fatto sesso dopo un periodo d’astinenza troppo lungo».
   «Non fare la stupida: sai che intendo» la rimbrottò Giulia. «Dopo l’incidente ti sei rifiutata di fare qualunque cosa potesse mettere in vista la protesi, e… be’, non credevo che ti saresti mai più fatta vedere nuda da un uomo».
   L’altra arrossì. «Infatti non volevo: ero sicura che vedere la mia… la mia gamba, o quello che ne resta, senza neanche la protesi, lo avrebbe disgustato; e invece Vittorio è stato…» scosse la testa, incerta sul termine da usare, «meraviglioso. Per quanto possa sembrare strano mettere le parole “Vittorio” e “meraviglioso” nella stessa frase».
   Giulia rise di gusto. «Non lo facevo così sensibile» commentò.
   «Neanche io». L’espressione di Vera si ammorbidì notevolmente. «Non pensavo che avrei mai incontrato un uomo così. Anzi, quando mi ci sono scontrata per la prima volta, avrei giurato che Vittorio fosse l’ultimo uomo al mondo in grado di restituirmi quel tipo di coraggio».
   «E invece...» disse maliziosa l'altra.
   Vera sbuffò. «Non cominciare».
   «Te l'avevo detto, io» proseguì imperterrita Giulia.
   «Giù: non cominciare» ripeté Vera.
   «Ma io te l'avevo detto» insisté la sua migliore amica.
   L'ex ginnasta fece per rispondere, ma il suono di piedi pestati a terra con rabbia annunciò il ritorno di Tiziano; l'uomo si stagliò nel vano della porta con la fronte aggrottata, Ludovica e RincoRino in braccio e Woof, l'enorme cane di pezza, sulla spalla.
   «Non ci posso credere» disse, saltando ogni preambolo. Puntò un dito contro l'amica. «Non posso credere che tu abbia deciso di uscire proprio con un romanista!»
   «A proposito: ci esci, o state insieme?» s'intromise Giulia.
   L'altra donna mugugnò tra sé per qualche istante. «Stiamo insieme» bofonchiò infine.
   Le reazioni dei due coniugi non avrebbero potuto essere più diverse: Giulia esultò di nuovo, mentre Tiziano gemette di disappunto e si coprì gli occhi con la mano.
   «Perché, Vera? Perché mi fai questo?» si lagnò il secondo.
   Suo malgrado, Vera inarcò le sopracciglia e gli scoccò uno sguardo a metà tra il perplesso e il sardonico. «Perché faccio cosa a te
   Tiziano le puntò di nuovo contro l'indice con fare accusatore. «Se tu stai con un romanista, allora anch'io devo averci a che fare» spiegò. «È una cattiveria bella e buona!»
   Le sopracciglia di Vera si sollevarono un po' di più. «Vorresti farmi credere che tutti i tuoi familiari, amici, colleghi e conoscenti sono juventini? Perché so per certo che uno dei tuoi fratelli è milanista...»
   Il padrone di casa arrossì. «Non posso scegliermi i parenti!»
   «E neanche evitare chi non tifa per la tua stessa squadra di calcio» ribatté pronta Vera.
   «Ma posso provarci! Io...»
   E s'interruppe: Ludovica gli aveva appena infilato in bocca la testa di RincoRino. Tiziano sputacchiò e tossì, mezzo soffocato dal pupazzo e dall'indignazione per essere stato tradito dalla sua stessa figlia.
   Risero tutti tranne lui.
   Vera fu la prima a riprendere fiato.
   «La verità, Tizià, è che sei geloso e ti preoccupi perché mi vuoi bene» disse infine l'ex ginnasta. «E anche se lo apprezzo tanto, non puoi fare così... soprattutto se la fede calcistica è l'unica cosa che vuoi rimproverare a Vittorio».
   Tiziano s'imbronciò. «Dammi un po' di tempo e vedrai che qualcos'altro da rinfacciargli lo trovo. Oh, se lo trovo!»
   «Sei senza speranza» disse sua moglie con una buona dose d'affetto. «Uno zuccone senza speranza. Sii felice per Vera e rassegnati al fatto che anche tu dovrai frequentare Vittorio».
   Il broncio dell'uomo divenne, se possibile, ancora più accentuato. «E se non volessi?»
   Giulia affilò lo sguardo, per nulla toccata dal tono petulante di Tiziano.
   «Ti conviene volerlo, e in fretta, marito mio adorato, perché ho tutta l'intenzione di invitarlo a cena... e se proverai a mettermi i bastoni tra le ruote, inizierò lo sciopero del sesso!» rispose, pungente.
   Sia Vera che Tiziano la fissarono a bocca aperta.
   «Non lo faresti!» esclamarono in perfetta sincronia.
   Giulia scrollò le spalle e prese Ludovica dalle braccia dell'uomo.
   «Vieni, piccola, andiamo a giocare e lasciamo tranquillo papà... ha una decisione importante da prendere» disse, ignorando il volto paonazzo di Tiziano e il suo boccheggiare.
   La donna uscì dalla cucina senza voltarsi indietro e Vera ne approfittò per dileguarsi a sua volta: aveva la sensazione che la sfida di Giulia avrebbe reso Tiziano ancora più ostile a Vittorio, almeno nel breve periodo, e per una volta non ci teneva affatto ad ascoltare le rimostranze dell'amico.

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Capitolo 20
*** Capitolo XIX ***


Vittorio accolse con gioia la notizia che Vera aveva parlato a Giulia della loro relazione, per almeno due motivi. Primo: si era scoperto particolarmente felice di stare con quella donna, quindi doversi nascondere gli andava stretto. Secondo: nonostante Vera gli avesse chiesto di tenere la cosa per sé, lui aveva raccontato tutto a Claudio già da un pezzo, e stava aspettando quel momento per tentare di limitare i danni... possibilmente, facendo di tutto perché la sua nuova fidanzata non scoprisse che la loro storia non era stata poi tanto segreta.
   Sin da quella sera al pub, infatti, Claudio aveva preso l'abitudine di chiedere a Vittorio come procedesse la relazione con Vera a ogni inizio turno; il quarantenne, da parte sua, era lieto di poter parlare con qualcuno, dunque non si faceva mai scrupoli a rispondere.
   Come quel giorno.
   «Allora, Vittorio» esordì il trentaquattrenne, buttandosi di peso sul sedile della volante, «come va con la tua fidanzatina?».
   Vittorio si accigliò mentre avviava il motore e guidava l'auto fuori dal parcheggio del comando. «Devi per forza chiamarla così?»
   Claudio sogghignò. «Sei tu che ti sei preso una ragazzina, eh».
   Il cipiglio dell'altro aumentò. «Vera non è una ragazzina» grugnì.
   «Quindi non ti dà fastidio la differenza d'età tra voi due?» insisté Claudio.
   Vittorio sbuffò. «Se mi desse fastidio, non starei con Vera».
   Il più giovane si accarezzò il mento, fingendosi pensieroso.
   «Mh. Allora non è per questo, che la tieni nascosta?» sparò.
   Vittorio, che stava rallentando in prossimità di un semaforo rosso, premette sul pedale sul freno con troppa foga e la macchina inchiodò.
   «Ma che cazzo...» imprecò. Tirò fuori un braccio dal finestrino e rivolse un gesto di scuse all'automobilista dietro di lui, che lo scrutava furibondo attraverso il parabrezza: c'era mancato poco che lo centrasse in pieno e Vittorio quasi si aspettava un gestaccio in risposta, divisa o no. Preso un respiro profondo, si voltò verso il collega e gli scoccò un'occhiata truce. «Io non tengo nascosto nessuno, men che meno Vera, quindi vedi un po' che altre cazzate devi farti uscire dalla bocca» disse a denti stretti. «E, giusto per tua informazione, è stata lei a non voler far sapere che ci stiamo frequentando: prima voleva essere sicura che tra noi le cose funzionassero». Mugugnò qualcosa tra sé e ingranò la prima per ripartire. «Per fortuna si è decisa a dire alla sua migliore amica che stiamo insieme, così non verrò più tenuto nascosto. Perché sono stato io quello che è stato nascosto, non lei» aggiunse in tono risentito.
   Lo sguardo di Claudio divenne malizioso ma Vittorio, concentrato sulla strada, non se ne accorse.
   «Non dirmi che ti sei offeso!» esclamò giulivo. Vittorio mugugnò di nuovo e lui scoppiò a ridere. «Mhhh... potrebbe essere il titolo di un romanzo. “Vittorio Valenti: uno scomodo segreto”». Sghignazzò di nuovo senza ritegno dell'espressione furiosa dell'amico e si preparò a lanciare l'esca. «Ma hai detto che adesso state uscendo allo scoperto, no?»
   «Sì» brontolò il quarantenne. «Finalmente, direi».
   «Quindi inizierete a farvi vedere in pubblico» aggiunse Claudio.
   «Mh-mh».
   «Quindi comincerete a conoscere l'uno gli amici dell'altro».
   «Mh-mhhh».
   «Quindi non hai più scuse per rifiutare un'uscita a quattro con lei, me e Michela!» disse Claudio in tono di trionfo.
   Preso in contropiede, Vittorio boccheggiò e per poco non inchiodò di nuovo.
   «Io... che? Perché dovremmo organizzare un'uscita a quattro?» farfugliò agitato.
   «Perché io e te siamo amici» replicò soave il più giovane.
   A Vittorio il sorriso di Claudio non piacque per niente.
   «Perché hai tanta voglia di conoscere meglio Vera?» domandò, guardingo. Sventolò un dito contro l'altro uomo. «Che hai in mente, Pastore?»
   «Io? Niente. Voglio solo conoscere meglio la fidanzata del mio amico e collega» rispose Claudio con espressione innocente.
   «Sì, e io sono un giovincello di primo pelo» sbuffò il quarantenne.
   «Guarda che tanto non mollo» lo avvertì Claudio. «Domani abbiamo l'ultimo turno di notte, quindi... dopodomani sera dovrebbe andar bene» decretò.
   «Se ti dicessi che voglio evitare questo momento il più a lungo possibile, cambieresti idea?» grugnì Vittorio.
   «No».
   «Ti pareva». Vittorio mollò una pacca frustrata al volante e digrignò i denti. «Va bene, dopodomani sera. Basta che mi lasci in pace e che non provi a terrorizzare Vera».
   «Terrorizzarla? Io?» ribatté Claudio. «La donna che ti ha urlato a due centimetri dal naso e ha provato a morderti la prima volta che vi siete visti, e che voleva spappolare la faccia di tua moglie perché ti stava insultando?». Sbuffò una mezza risata. «Non lo so mica, se c'è qualcuno in grado di terrorizzare la tua ragazza, Valenti. Forse sei tu che sei troppo protettivo e ti preoccupi senza motivo».
   «Sì, sì» brontolò l'altro. «Ti ho già detto che ci saremo, dopodomani, quindi risparmiami almeno la tua psicologia spicciola».
   Claudio intrecciò le dita dietro la testa e sorrise soddisfatto. «Allora me la tengo tutta per dopo quella serata, la psicologia spicciola» ridacchiò. «Oh, quanto mi divertirò!»

******

Due giorni dopo quella conversazione, Vittorio era nella propria camera da letto e si stava vestendo mentre imprecava tra sé a tutto spiano: mancava meno di un'ora all'appuntamento con Claudio e Michela, e lui ancora non aveva detto a Vera che quella sera sarebbero usciti. E non si aspettava che convincerla a mettere il naso oltre la porta fosse un'impresa facile: la venticinquenne sembrava felice all'idea di restare a casa e giusto in quel momento era sdraiata sul divano insieme a Estia, ignara di quel che l'aspettava.
   L'uomo sospirò tra sé: avrebbe potuto cercare di convincere Claudio a rimandare quell'uscita a quattro ma, oltre a non essere certo di riuscirci, sapeva che l'amico gli avrebbe dato il tormento per giorni.
   Insomma: da qualunque punto di vista analizzasse la situazione, Vittorio non vedeva modo di vincere.
   Rassegnato, Vittorio s'infilò il portafogli in tasca e tornò in salotto. Quando lo sentì arrivare, Vera alzò lo sguardo e d'istinto corrugò le sopracciglia, confusa dall'abbigliamento del fidanzato: ormai aveva imparato che Vittorio passava la maggior parte del proprio tempo libero scalzo, in tuta e magliette sformate, soprattutto quando restava a casa, quindi vederlo in jeans, con una maglietta in perfette condizioni e le scarpe ai piedi cozzava parecchio con le sue aspettative. E questo senza contare l'espressione incerta e insofferente sul volto dell'uomo.
   Tutto considerato, Vera decise di dare voce alle proprie perplessità.
   «Che ci fai vestito così, Vittò?»
   Il carabiniere strinse le labbra e arricciò il naso, poi si grattò la nuca.
   «Ci tieni tanto a restare a casa, stasera?»
   L'espressione confusa di Vera divenne sospettosa. «Che cosa stai tramando, Valenti?»
   Le sopracciglia dell'uomo si inarcarono all'istante mentre lui registrava l'improvviso ritorno all'uso del cognome. Avrebbe potuto continuare a tastare il terreno e girare intorno al nocciolo della questione per ore, ma questo non avrebbe reso più facile far alzare Vera da quel divano. Quindi Vittorio prese la borsa di lei e se la mise a tracolla, poi convinse Estia a spostarsi con una caramella all'erba gatta. Fatto questo con gli occhi sorpresi di Vera sempre incollati addosso, Vittorio la mise in piedi di peso, l'afferrò per un polso e la trascinò verso la porta.
   «Usciamo».
   «Di nuovo?» gnaulò Vera. «Ma non senti mai il bisogno di far riposare le tue vecchie ossa stanche?»
   L'uomo non la degnò di uno sguardo: si limitò a farla entrare nell'ascensore e a pigiare il pulsante per il piano terra. «Se è una provocazione per spingermi a darti una dimostrazione pratica del contrario, sappi che non funziona».
   «Quale provocazione?» ribatté lei. «Io ero seria».
   Di nuovo, Vittorio non perse neanche tempo a voltarsi verso di lei. «Allora mettiamola così: anche se vecchio e stanco, almeno io ho ancora tutte e due le gambe».
   «Perfido!»
   «Ma ho detto la verità».
   «Insensibile, allora. Ecco! Insensibile!»
   «Mai sostenuto il contrario».
   Senza battere ciglio, Vittorio spinse Vera fuori dal portone e in macchina, corse al posto di guida e mise in moto.
   Sconfitta, la ragazza incrociò le braccia sul petto e scoccò un'occhiataccia a Vittorio.
   «Posso almeno sapere perché di punto in bianco hai deciso di uscire, o anche questo è chiedere troppo?» domandò, petulante.
   Il carabiniere non si scompose. «Non all'improvviso» la corresse. «Claudio sa che stiamo insieme e ha deciso che dovevamo per forza fare un'uscita a quattro: mi ha rotto le scatole finché non ho detto di sì».
   Vera sogghignò. «Basta davvero così poco per convincerti a fare qualcosa che non vuoi?»
   «Tu sottovaluti la capacità di Claudio di esasperare una persona» rispose Vittorio con grande serietà. «Diventa peggio di un martello: immagina di passare otto ore con una persona che batte e ribatte senza sosta sempre sullo stesso punto, e mi capirai!»
   L'ex ginnasta sollevò per metà le braccia e si stiracchiò. «Il tuo collega già mi stava simpatico prima, ma adesso credo che potrei addirittura adorarlo: c'è bisogno di qualcuno che ti faccia saltare i nervi anche quando non posso pensarci io» sghignazzò perfida.
   Vittorio si accigliò. «Faccio ancora in tempo a girare la macchina e tornare a casa».
   Il sorriso di Vera avrebbe illuminato una stanza buia. «Fa' pure: tanto io vinco in entrambi i casi!»
   Il cipiglio di Vittorio si accentuò mentre l'uomo borbottava qualcosa tra sé; la sua voce era troppo bassa perché Vera potesse distinguere con chiarezza quel che stava dicendo, ma fu sicura di aver sentito le parole “ragazzina guastafeste” e il suo sorriso si allargò ancora di più.
   I due lasciarono che la musica che usciva dalla radio riempisse il resto del tragitto; alla fine Vittorio parcheggiò l'Alfa a poca distanza dal solito pub e insieme a Vera raggiunse la porta del locale e la varcò.
   Avevano a malapena messo piede all'interno che già un uomo si sbracciava frenetico nella loro direzione, mentre la donna bionda seduta insieme a lui si copriva il volto con la mano e scuoteva la testa con fare sconsolato.
   «Accidenti» commentò Vera: l'espressione di Claudio era entusiasta in maniera quasi inquietante. «Non ti pare un po' troppo felice?»
   «Certo che è felice: ha qualcosa in mente... solo che non so cosa» bofonchiò scontento Vittorio. «Tanto lo so che mi pentirò di aver ceduto, lo sapevo già prima e adesso ne sono proprio convinto. Andiamo, va': tanto, ormai, non possiamo più scappare».
   «Sei sicuro?» chiese incerta la donna.
   Neanche avesse sentito le loro parole, Claudio scoccò a Vittorio uno sguardo che prometteva dure rappresaglie e indicò con un gesto secco le sedie libere.
   «Sì, sono sicuro» sbuffò infine il quarantenne.
   Senza aggiungere altro, Vera e Vittorio fecero lo slalom tra i tavoli fino a raggiungere quello occupato dalla coppia che li aspettava; Claudio balzò in piedi all'istante, mollò sulla schiena di Vittorio una pacca tanto forte da mozzargli il fiato e tese la mano a Vera.
   «Ciao, Vera, è bello rivederti... finalmente» cinguettò. «Questa è Michela, mia moglie».
   Vittorio lo interruppe rifilandogli uno schiaffo deciso sul retro della testa. «Non siamo cani: la prossima volta, quel gesto da addestratore cinofilo fallo a tua sorella».
   «Io non ho sorelle» replicò l'altro uomo.
   «E la fortuna è tutta loro».
   Scuotendo la testa al battibecco tra i due, Vera sedette accanto all'altra donna e le tese la mano come aveva fatto Claudio con lei solo un momento prima.
   «Ciao, Michela: è un piacere conoscerti».
   Michela le prese la mano e la strinse. «Piacere mio, Vera». La studiò con aria divertita. «Claudio mi ha parlato parecchio di te, specialmente negli ultimi due giorni». Sospirò, improvvisamente abbattuta. «Scusa».
   Vera batté più volte le palpebre, perplessa. «Scusa... di cosa?»
   L'altra accennò con la testa al proprio marito. «Scusa di qualsiasi cosa dirà o farà: lo vedo, che ha qualcosa in mente».
   La venticinquenne trattenne una risata. «Vittorio ha detto la stessa cosa appena siamo entrati».
   «Be', Vittorio sembra aver imparato a conoscere Claudio piuttosto in fretta». Michela lanciò un'occhiata ai due uomini che, ancora in piedi, proseguivano nel loro botta e risposta. «Vanno d'accordo, i due mocciosi, eh?»
   Vera scoppiò in una grassa, rumorosa risata: non poté proprio impedirselo, e la cosa attirò l'attenzione di Claudio e Vittorio.
   «Che c'è da ridere?» chiese il secondo.
   L'ex ginnasta annaspò nel vano tentativo di riprendere fiato e indicò Michela, che li osservava con un sorrisetto compiaciuto sul volto. «Lei... lei... vi ha chiamati... mocciosi» singhiozzò a fatica, «e, Dio... c'ha preso... in pieno!».
   Entrambi i carabinieri si voltarono verso la trentatreenne bionda. «Mocciosi?»
   «Se non vi piace, posso sempre chiamarvi marmocchi» replicò placida Michela. «Tanto è lo stesso».
   «Tua moglie è un tantino stronza» disse Vittorio all'amico.
   «Sì, lo so» replicò lapidario Claudio.
   «Non dargli retta» intervenne Vera. Batté una mano su quella dell'altra. «Tu sei un genio assoluto, Michela, fidati».
   «Ci credo che la consideri un genio: a quanto mi ha raccontato Vittorio, non sei da meno di lei» commentò Claudio.
   Vera gli rivolse uno sguardo supponente. «Stai dicendo che siamo due stronze? Bella scoperta!»
   «Sì, infatti: se proprio dovete parlare, almeno diteci qualcosa che non sappiamo già» aggiunse Michela con noncuranza prima di voltarsi verso Vera. «Lasciali perdere, Vera. Piuttosto... Claudio mi ha detto che Vittorio gli ha raccontato che fai la traduttrice».
   L'ex ginnasta guardò gli uomini, le sopracciglia inarcate a formare due archi perfetti. «Pettegoli» commentò. «Comunque sì, è vero. Traduco gli articoli di un professore di Economia che a tempo perso scrive per varie riviste internazionali. Tutta roba abbastanza noiosa, ma lui è una pasta d'uomo e ci si lavora che è una meraviglia».
   «Ah, meglio così. Io ho lavorato per tre anni come segretaria per un infame che non ti dico... non si sopportava. Penso di essere stata più felice il giorno in cui ho potuto lasciare quel posto che in quello del mio matrimonio!»
   «Ehi!» sbottò Claudio, indignato.
   Nessuna delle due diede cenno d'averlo sentito: continuarono a chiacchierare allegramente, come se Vittorio e Claudio neanche fossero presenti.
   Il quarantenne batté la mano sulla spalla dell'altro uomo.
   «Volevi tanto farle incontrare? Eccoti servito!» disse giulivo.
   Claudio assottigliò lo sguardo. «Mi rifarò la prossima volta: tanto peggio per la tua ragazza!»
   «Buona fortuna» sghignazzò Vittorio.

******

A differenza di Claudio, Vittorio si era ripreso in fretta dalla rapidità con cui Vera e Michela avevano stretto amicizia: in fondo, lui non aveva niente da temere dal sodalizio tra le due donne... almeno per il momento. C'era però qualcosa da cui si sarebbe ripreso molto meno in fretta e, pur sapendolo, si trattava di un appuntamento che non poteva evitare.
   Fu così che, quella domenica mattina, Vittorio sospirò rassegnato e suonò il campanello.
   Sua madre aprì la porta neanche dieci secondi più tardi.
   «Tua sorella è arrivata prima di te e lei abita a Viterbo» furono le prime parole di Agnese.
   «E ti pareva che non si partiva all'istante con le lodi di Valeria la perfettina!» sbottò Vittorio. «Guarda, mà, te lo dico subito: se mi devi rompere così per tutto il pranzo, giuro che me ne vado adesso».
   «Come sei suscettibile!» replicò offesa sua madre. «Entra, che è meglio!»
   Brontolando tra sé, il carabiniere varcò l'uscio e andò dritto in sala da pranzo: lì, già schierati intorno al tavolo, c'erano i suoi zii e sua sorella, quest'ultima incredibilmente senza marito e figli al seguito.
   «Guarda un po' chi si è finalmente fatto vivo» disse sarcastica Valeria. «Il mio fratellone stronzo, che è tornato a Roma da sei mesi e non si è mai fatto vedere!». Gli si avvicinò e gli sferrò un pugno in pieno petto. «Sei un disgraziato: se non fossi venuta io qua, chissà quando ti saresti degnato di venire a salutarmi!»
   Vittorio si massaggiò il punto colpito con una smorfia di fastidio. «Sei sempre la solita scimmietta manesca» mugugnò. Schivò un secondo pugno. «Senti, ho avuto un sacco di casini da sistemare e poco tempo libero, va bene? Verrò a trovarti, basta che la smetti di picchiarmi!»
   «Non lo so se te lo meriti» borbottò Valeria mentre gli scoccava uno sguardo torvo.
   «Ma piantala di fare la sostenuta» replicò suo fratello. «Piuttosto, dove hai lasciato il resto della Banda Bassotti?»
   Valeria sbuffò. «Simone ha portato i due pazzi scatenati a pescare al lago e io ne ho approfittato per venire qui».
   Vittorio gemette. «Ma così non vale! A saperlo, sarei andato con loro!»
   Il terzo pugno della trentacinquenne lo colpì dritto al diaframma; Vittorio, preso alla sprovvista, si piegò a metà con un gemito di dolore.
   «Se ti fossi degnato di venirci a trovare, l'avresti saputo!» abbaiò Valeria. «I tuoi nipoti muoiono dalla voglia di vederti: adorano lo zio Vittorio, in caso te lo fossi scordato!»
   Il carabiniere si raddrizzò e si grattò la nuca. «Non me lo sono scordato, ma ho avuto un periodaccio e mi è mancato proprio il tempo».
   Sua sorella gli rivolse una lunga occhiata penetrante, studiandolo con cura dalla punta delle scarpe a quella dei capelli; le sue sopracciglia si aggrottarono ancora di più prima di distendersi appena.
   «Dopo mi racconti» bisbigliò minacciosa.
   «Va bene» mugugnò l'uomo a mezza voce.
   «Tutto!» mormorò decisa Valeria.
   «Ho già detto di sì!» replicò Vittorio in un sussurro furioso. Si allontanò da Valeria. «Ciao zia Adele, zio Ernesto» salutò, abbracciando entrambi. «Era ora di rifare un pranzo in famiglia...»
   «Peccato che se dovessimo aspettare te, per organizzarlo, ci rivedremmo solo all'altro mondo» bofonchiò Agnese.
   «E basta, Agnè» sbuffò Adele. «Lascia in pace 'sto povero figlio, che quando hai bisogno di una mano, corre sempre... e fa pure un lavoraccio duro». Pizzicò la guancia del quarantenne. «Bello de zia, non stare a sentirla a tua madre, che se non si lamenta, non è mai contenta!»
   Vittorio scoccò un'occhiata gongolante ad Agnese, che gli rivolse una smorfia irritata e sparì in cucina.
   Nonostante le premesse, il pranzo filò via più liscio del previsto: i battibecchi tra Vittorio e Agnese rimasero al minimo, grazie anche agli interventi di Adele, spudoratamente a favore del nipote, e di Ernesto, che abituato agli scontri tra le due sorelle, sapeva bene come deviare la conversazione in modo da farle concentrare su tutt'altro.
   Giusto un paio d'ore dopo l'arrivo del carabiniere, Adele e Agnese presero a battibeccare sulla corretta potatura delle rose; Ernesto si vide costretto a fare di nuovo da paciere, e questo lasciò Valeria e Vittorio a intrattenersi tra di loro.
   «Io e te dobbiamo parlare» bisbigliò Valeria all'orecchio del fratello.
   Il carabiniere si alzò. «Vado a fare il caffè» annunciò. Quando nessuno diede cenno d'averlo sentito, si voltò verso la trentacinquenne. «Vieni ad aiutarmi».
   I due filarono in cucina prima che Agnese potesse accorgersi del fatto che avevano lasciato la tavola; Valeria si richiuse la porta della stanza alle spalle e Vittorio andò subito a frugare nella credenza, alla ricerca della caffettiera più grande.
   «Tanto vale prepararlo davvero» disse, in risposta all'occhiata perplessa di Valeria.
   La donna incrociò le braccia al petto e lo fissò mentre preparava la moka e la metteva sul gas; continuò a seguire ogni sua mossa anche mentre preparava vassoio, tazzine e zuccheriera, e soltanto quando lo vide ripulirsi con uno strofinaccio si decise a parlare.
   «Mi pare che manchi qualcosa» osservò Valeria. Il carabiniere, confuso, osservò prima la caffettiera e poi il vassoio, e sua sorella sbuffò. «Sulla tua mano, manca qualcosa. Dov'è la tua fede?» chiese, tagliente.
   D'istinto Vittorio si guardò le dita, maledicendo tra sé la propria sbadataggine: avrebbe dovuto aspettarsi che qualcuno notasse l'assenza dell'anello. In preda al panico tentò inutilmente di nascondere la mano, ma ormai il danno era fatto.
   «Mi sto separando» rivelò controvoglia.
   Valeria sgranò gli occhi. «TI STAI...»
   Vittorio le schiaffò una mano sulla bocca. «Zitta!» sibilò con voce mortifera. Si lanciò uno sguardo alle spalle e rimase in ascolto: dopo qualche istante, sentì sua madre e sua zia ancora intente a bisticciare e si rilassò. Tolse la mano dal volto di Valeria, non senza scoccarle un'occhiata di ammonimento.
   «Ti stai separando?» lo incalzò sua sorella.
   «Parla piano!» la rimbrottò Vittorio. «Sì, mi sto separando. Tanto, ormai, è inutile negare l'evidenza: il mio matrimonio è irrecuperabile e da quando sono tornato a Roma ho capito di stare molto, molto meglio senza Emanuela. E comunque, vedi di farti gli affari tuoi, eh» aggiunse in fretta. «Evita di correre a dirlo a mamma!»
   «Che palle, Vittò! E falla finita!» sbottò sua sorella. «Lo sai che non sono mai andata a raccontare i tuoi segreti a mamma!»
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Ah, no? E quando hai trovato quel pacchetto di sigarette nel cassetto delle mutande, in camera mia?»
   «Avevo undici anni!» insorse Valeria. «Per quanto tempo ancora hai intenzione di rinfacciarmelo? E poi anche tu mi hai beccata a marinare la scuola e l'hai detto a mamma!»
   «Avevi tredici anni: 'ndo volevi andà io ancora non l'ho capito» bofonchiò l'uomo.
   «Non provare a cambiare discorso» bisbigliò minacciosa la trentacinquenne. «Tu non mi stai raccontando tutto, lo so!»
   «Che vuoi che ti racconti? Che porto le corna da più di due anni? Eccoti accontentata!» esplose sottovoce Vittorio.
   Valeria trattenne bruscamente il fiato.
   «Quella stronza!». Schivò la mano di suo fratello, che tentava di nuovo di chiuderle la bocca. «Non me fai sta' zitta, proprio no! Quella puttana! Se la pijo, je spacco la faccia!»
   Vittorio la abbrancò alla vita e, con un certo sforzo, riuscì contemporaneamente a bloccarla e soffocare la sua voce con la propria mano.
   «Già ne ho dovuta fermare una, ci manca solo che ci provi anche tu, a prendere a schiaffi Emanuela!» ansimò l'uomo. «Perché sono circondato da donne fuori di testa?»
   Valeria farfugliò qualcosa contro il suo palmo, l'espressione furiosa, ma Vittorio non allentò la presa; due secondi più tardi, però, ritrasse di scatto la mano con aria disgustata.
   «Mi hai leccato!» disse, incredulo.
   «Così impari a tapparmi la bocca!» ribatté Valeria.
   «Che schifo, ma che schifo!» proseguì Vittorio mentre si lavava le mani. «Cristo, Valè, c'hai trentacinque anni, mica otto!»
   Sua sorella gli sferrò un calcio sul polpaccio. «E tu continui a fare il prepotente come quando ne avevi dieci e io cinque!» sbottò. Controllò la caffettiera e spense il gas prima di concentrarsi di nuovo su Vittorio. «E adesso dimmi chi è che voleva pestare Emanuela, senza che io debba tirarti fuori le parole con le pinze!»
   Vittorio esitò: un errore madornale, perché Valeria fiutò all'istante la sua incertezza. Il carabiniere prese a versare il caffè nelle tazzine, sperando così di sfuggire all'interrogatorio di sua sorella.
   Peccato che Valeria fosse ostinata quanto lui.
   «Vittorio» ringhiò la donna.
   «Bada ai fatti tuoi» reagì brusco il quarantenne. «Ti voglio bene, Vale, sai che te ne voglio, ma questo non mi obbliga a raccontarti tutti gli affari miei!»
   Valeria gli scoccò un'occhiata truce prima di scuotere la testa.
   «Fammi almeno il favore di non metterti nei casini» disse cupa.
   «La tua fiducia in me è commovente» rispose sarcastico Vittorio mentre prendeva il vassoio. «Torniamo di là, prima che mamma venga a impicciarsi».
   Sua sorella gli trotterellò dietro. «Hai preso lo zucchero di canna per me?»
   «Sì» brontolò l'uomo.
   «E il mio cucchiaino preferito?»
   «Ho preso anche quello, razza di rompiscatole».
   «Ehi! Rompiscatole a chi?»
   «A te: ne vedi altri, in giro?»
   I due rientrarono nella sala da pranzo senza mai smettere di punzecchiarsi e, una volta lì, Adele coinvolse Valeria nella discussione con Agnese.
   Vittorio tirò un silenzioso sospiro di sollievo: era salvo, per il momento... ma conoscendo sua sorella, quella pace non sarebbe durata a lungo.

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Capitolo 21
*** Capitolo XX ***


Milano era esattamente come Vittorio la ricordava: rumorosa e frenetica persino più di Roma, e afosa il doppio.
   Il carabiniere sbadigliò, massaggiandosi il collo, e si avviò a passi pesanti verso una delle uscite della Stazione Centrale: a quell'ora di mattina era piena di persone che andavano al lavoro e ben presto Vittorio si ritrovò trascinato all'esterno da una fiumana di gente.
   Il quarantenne conosceva bene quella zona: ci aveva prestato servizio così tante volte da perdere il conto, quindi si avviò con decisione verso un bar ben preciso, all'apparenza uguale agli innumerevoli altri che sorgevano nei dintorni.
   Lì, come previsto, trovò ad attenderlo l'avvocato che gli aveva raccomandato Luciano.
   «Buongiorno, Valenti». L'uomo gli lanciò una lunga occhiata. «Nottataccia?»
   «Buongiorno, avvocato» grugnì Vittorio in risposta. «Ho fatto uno dei viaggi peggiori della mia vita su un notturno interregionale che... lasciamo stare, è meglio». Richiamò l'attenzione del barista con una mano. «Ti prego, fammi un caffè. Doppio. E portami anche un paio di cornetti farciti».
   Giuliano Santini inarcò le sopracciglia. «Goditelo 'sto caffè, Valenti, perché stamattina abbiamo parecchio da fare. Tra un'ora vediamo tua moglie e il suo avvocato per firmare le carte per la separazione; sono state fatte le stime sui beni di valore che possedete insieme – all'infuori della casa, s'intende – ed è disposta a pagare per tenersi tutto, visto che hai detto che non vuoi niente di quello che avete comprato durante il matrimonio».
   «Meno male» brontolò Vittorio. «E la casa?»
   «Tua moglie ha rinunciato al diritto di prelazione, ma abbiamo trovato comunque un compratore per la tua metà e disposto ad accollarsi la tua parte di mutuo» rispose Santini. «Ho già parlato anche con la banca: abbiamo appuntamento alle undici e trenta per finalizzare le carte riguardanti il mutuo. Se tutto va bene, riusciamo a sistemare ogni cosa entro oggi». Gli fece l'occhiolino. «Dopo, l'unica cosa che ti resta da fare è pagarmi la parcella».
   Vittorio sbuffò. «Luciano non me l'aveva detto, che sei tanto simpatico».
   L'avvocato si sistemò la giacca. «Questo è un privilegio che riservo ai clienti paganti».
   «Molto spiritoso».
   «Valenti, pensa a fare colazione, che l'orologio corre!»
   Vittorio decise di seguire il suggerimento di Santini; dopo dieci minuti i due uomini erano fuori dal bar, e altri diciassette più tardi, facevano il loro ingresso nello studio dell'avvocato di Emanuela.
   Quando la donna arrivò, posò lo sguardo su Vittorio per un brevissimo istante prima distoglierlo in tutta fretta, senza nient'altro che un cenno del capo a mo' di saluto.
   Il carabiniere strinse d'istinto gli occhi, reso guardingo dall'atteggiamento di sua moglie. O meglio, quasi ex moglie, si corresse tra sé mentre continuava a rimuginare sullo strano comportamento di Emanuela: che stesse pensando di rimangiarsi la parola? Magari di giocargli un brutto tiro? Vittorio non se la sentiva di escluderlo: Emanuela gli aveva portato rancore molto più a lungo e per motivi molto meno importanti, in passato, e non si era mai fatto scrupolo di manifestare il proprio malumore. Dunque lo rendeva inquieto, quel contegno così remissivo di Emanuela: in fondo, quella era la donna che era venuta fino a Roma e non s'era fatta scrupoli ad azzuffarsi con una sconosciuta in mezzo alla strada.
   Vittorio spinse quei pensieri in fondo alla mente quando la segretaria dell'avvocato milanese li fece accomodare nel suo studio. Da lì, le cose procedettero senza intoppi, al contrario di quanto s'era aspettato: ricontrollati i termini dell'accordo e del tutto soddisfatto, Vittorio firmò i documenti subito dopo sua moglie.
   Il quarantenne lanciò uno sguardo all'orologio e sorrise. Adesso la separazione era ufficiale, senza contare che il tutto si era svolto in poco più di un'ora e senza scambiare una sola parola con Emanuela, il che aveva del miracoloso: Vittorio si era aspettato ore di contrattazioni e urla furibonde da parte di entrambi, e non gli sembrava vero di essersela cavata così a buon mercato.
   «Sbrigati, Valenti: dobbiamo andare in banca» lo spronò Santini, quasi più giulivo del suo cliente.
   Vittorio lo seguì, non senza scoccargli uno sguardo sardonico. «Non dovrei essere io, quello così spudoratamente allegro?»
   «No» rispose all'istante l'avvocato. «Tu ti sei separato una volta sola; io faccio questo lavoro da anni, e se tutte le separazione fossero così semplici e veloci, la mia vita sarebbe perfetta». Sospirò con quella che pareva genuina felicità mentre uscivano dal palazzo che ospitava lo studio dell'altro avvocato e si avviavano lungo il marciapiede. «Non vi siete nemmeno urlati contro: e pensare che mi ero anche portato dietro i tappi per le orecchie».
   «I tappi per le orecchie?» gli fece eco il quarantenne.
   L'altro si voltò appena verso di lui e ammiccò. «Luciano mi ha avvertito: dice che quando ti arrabbi, tiri fuori due polmoni niente male!»
   Vittorio grugnì qualcosa tra sé ma scelse di non replicare. I due uomini continuarono in silenzio la loro lenta camminata verso la banca; quando arrivarono, vennero accolti quasi subito da un impiegato solerte, che li guidò in un cubicolo nascosto a occhi indiscreti dalle pareti di vetro sabbiato.
   Non appena entrò, il carabiniere si rese conto che l'acquirente era già arrivato; ma gli ci volle una seconda occhiata per riconoscere l'uomo dall'aria altera che gli stava di fronte, affiancato da un volto che Vittorio conosceva fin troppo bene e che aveva guardato per l'ultima volta solo mezz'ora prima.
   Incredulo, Vittorio fissò Emanuela e Carlo, il superiore della prima nonché suo amante, per alcuni lunghi istanti; poi un sorriso gli stirò la bocca quasi contro la sua volontà.
   Due secondi più tardi, il carabiniere esplose in una grassa risata sotto gli sguardi increduli dell'impiegato della banca e dell'avvocato Santini.
   «I-i-io... non ci posso... credere!» riuscì a rantolare Vittorio, tenendosi le costole. Indicò prima Carlo, che lo scrutava truce, poi Emanuela, sul cui viso campeggiava un'espressione per metà ostinata e per metà atterrita. «Proprio... non... posso!»
   «Hai finito?» chiese arcigno Carlo.
   «Per niente» ansimò l'altro, mentre si sforzava di tenere a bada quello scoppio di ilarità. «Scusa, ma la tua faccia era proprio l'ultima che mi sarei aspettato di vedere, qui e oggi». Gli lanciò uno sguardo divertito. «Non ti facevo così audace da ricomprare la mia metà di casa sotto il naso di tua moglie!»
   Carlo passò un braccio intorno alle spalle di Emanuela con aria arrogante.
   «Mi sono separato» annunciò, come se ne andasse particolarmente fiero. «Non appena avremo risolto questa situazione» sputò con disprezzo, lanciando uno sguardo eloquente a Vittorio, «andremo a convivere».
   Vittorio si asciugò gli occhi umidi col dorso della mano, il sorriso sempre stampato sulle labbra. «Se non avessi più fretta di te di chiudere questa storia, ti terrei sulla corda per il puro gusto di farlo». Per un attimo sembrò sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma prima di poterci riuscire, eruppe in un nuovo torrente di risate, tanto violente da costringerlo di nuovo a premersi le mani sullo stomaco.
   Quando fu riuscito a prendere fiato un paio di volte, si raddrizzò e guardò Emanuela.
   «Se penso che sei venuta fino a Roma per supplicarmi di darti un'altra possibilità e che ti comportavi come se ti avessi spezzato il cuore... per fortuna non ci sono cascato!» commentò il carabiniere, ricominciando a sghignazzare senza ritegno. Spostò lo sguardo su Carlo. «Adesso è tutta tua. Tienitela stretta, se ci riesci; io, di sicuro, non la rimpiangerò». Allegro come non mai, si voltò verso l'impiegato che lo fissava impietrito. «Allora, dove devo firmare?»

******

Vera lanciò l'ennesimo sguardo al cellulare prima di tornare verso l'armadio.
   La notte precedente Vittorio era partito per Milano e, eccezion fatta per un messaggio con cui l'avvisava di essere arrivato, Vera non aveva avuto sue notizie; e sebbene sapesse che di sicuro Vittorio non si era fatto sentire soltanto perché troppo occupato, lei non poteva fare a meno di essere agitata. In fondo, pensava la ragazza, Vittorio era sposato con Emanuela da vent'anni: non era così improbabile che, dopo quell'ultima lite e quel distacco tanto netto, uno o entrambi avessero cambiato idea sulla separazione. Magari rivedendosi si erano resi conto che c'era ancora dell'amore tra loro, o che non erano pronti a lasciarsi, o che c'era ancora la voglia o la possibilità di salvare il loro matrimonio...
   Vera scosse con forza la testa e tornò a riempire la piccola sacca che aveva appoggiato sul letto. Il giorno prima, quando si erano salutati, Vittorio le aveva detto che, salvo imprevisti, sarebbe tornato in tempo per passarla a prendere intorno alle ventuno; e visto che non aveva avuto comunicazioni diverse – e che ormai il tempo stringeva, almeno stando all’orologio – alla fine si era decisa a preparare quello che le serviva.
   In quel momento Fabiola entrò nella sua stanza e guardò con attenzione sua figlia che riempiva la borsa.
   «Dormo fuori» annunciò Vera, anticipando la domanda di sua madre.
   Fabiola inarcò le sopracciglia. «Devo chiederti dove?»
   «Ti aspetti una risposta diversa dal solito?» ribatté ironica la venticinquenne.
   Sua madre le rivolse un lungo sguardo calcolatore: Vera era sicura che avesse visto il suo bluff, ma non aveva intenzione di darle nessun tipo di conferma.
   Dopo un minuto intero, Fabiola sedette sul bordo del materasso e sospirò.
   «Non capisco perché, all'improvviso, ci sono tutti questi segreti tra me e te» disse piano, lo sguardo fisso sulle proprie mani. «Pensi che avrei qualcosa da ridire? Per quel che ho visto finora, Vittorio mi sembra un brav'uomo».
   Vera deglutì. «Che c'entra Vitt...»
   Fabiola rialzò la testa. «Per favore, Vè, non trattarmi come se fossi stupida!» la interruppe sferzante. Prese un breve respiro. «Ultimamente state sempre appiccicati e si vede, che gli piaci, si vede da come ti guarda quando siete insieme». Le rivolse un'occhiata penetrante. «E se a te non piacesse lui, se ti fosse antipatico come quando l'hai incontrato per la prima volta, l'avresti già fatto scappare».
   «Non sono così cattiva!» insorse Vera.
   «Quando ti ci metti sai essere peggio che cattiva, Vè: negare l'evidenza non cambia i fatti» sbuffò sua madre. «E non cambiare discorso».
   Vera mise le ultime cose nella sacca e la chiuse, poi andò a sedersi accanto a Fabiola.
   «Che vuoi che ti dica?» mormorò, ripiegando la gamba sana sotto quella artificiale. «Che mi piace? Che con lui sto bene? È così, non ho motivo di negarlo. E neanche di tenerlo nascosto. Solo che… volevo tenere la cosa per me, almeno per un po’».
   «Perché? Non sei felice?» indagò Fabiola.
   «Sì che sono felice». Vera si grattò il naso, pensosa. «Ed è proprio questo che mi preoccupa».
   L'altra donna la fissò per un istante, esterrefatta. «Ti rendi conto che essere preoccupati perché si è felici non è normale, vero?»
   Sua figlia si strinse nelle spalle. «L'ultima volta che sono stata felice, che mi sembrava di non poter avere di più, Noemi è morta e io ho perso una gamba oltre a passare un mese e mezzo in ospedale perché ero piena di fratture e lesioni interne. Quindi… non lo so, diciamo che sono scaramantica e ho paura che capiti qualche altra disgrazia».
   Fabiola le strofinò una mano sulla schiena e si sporse a darle un bacio sulla guancia prima di alzarsi.
   «A proposito... tuo padre si è autoconvinto che non ci sia nulla, tra te e Vittorio» commentò leggera mentre se ne andava. «Lasciamolo crogiolarsi nelle sue illusioni».
   Vera sghignazzò tra sé, prese borsa e sacca e seguì sua madre giù per le scale; quando entrò in cucina quasi si scontrò con Eugenio che ne usciva, un bicchiere di tè freddo in mano e il telecomando del televisore in tasca.
   Eugenio scorse la sacca che sua figlia portava in spalla, ma prima che potesse dire alcunché, il cellulare della ragazza trillò; Vera lesse il messaggio di Vittorio e sorrise tra sé.
   «Pà, io esco» annunciò mentre faceva dietrofront.
   «Lo vedo» replicò l'uomo, tallonandola verso la porta. «Ma con chi?»
   «Indovina».
   Eugenio assottigliò lo sguardo. «Sarà mica quel carabiniere...?»
   «Proprio lui». Vera aprì la porta, poi scoccò un'occhiata sardonica all'espressione aggrondata di suo padre. «Perché quella faccia? Mi era parso di capire che ti fosse simpatico, quando me lo hai appioppato per l'appuntamento che avevo con Fabio» disse soave.
   L'uomo mugugnò qualcosa di incomprensibile e Vera ne approfittò per varcare la soglia.
   «Digli che lo tengo d'occhio!» le urlò dietro Eugenio.
   L’ex ginnasta sventolò una mano con fare noncurante, sgattaiolò fuori dal cancello sotto lo sguardo sospettoso di Eugenio e s'infilò nella macchina di Vittorio il più rapidamente possibile.
   Il sorriso rilassato con cui il carabiniere la accolse la fecero sospirare di sollievo.
   «Parti, Valenti: mio padre è sul piede di guerra».
   Vittorio eseguì, non senza ridacchiare. «Che gli hai fatto?»
   «Esco con te» rispose lei in tono innocente.
   «E lui non approva» sbuffò il quarantenne.
   «Per ora, si sforza di credere che tra me e te non ci sia nulla» replicò Vera. «Mia madre, invece, ci ha dato la sua benedizione... più o meno».
   «Be', è rassicurante sapere che almeno uno dei tuoi genitori non proverà a uccidermi» disse giulivo Vittorio. «Vorrà dire che se mai chiederò la tua mano a Eugenio, mi presenterò con l'armatura. O pensi sia meglio che ingaggi una decina di guardie del corpo?»
   Vera lo misurò con lo sguardo. «Quanto siamo allegri, Valenti. Per caso hai avuto un colpo di fulmine per una donna con tutte e due le gambe?»
   Vittorio accostò l'auto, slacciò la cintura di sicurezza e si sporse verso Vera fin quasi a salirle in braccio.
   «I miei gusti sono cambiati un po'» rispose, scoccandole uno sguardo ardente. Fece scivolare una mano sul ventre della ragazza mentre con l'altra le afferrava la nuca. «Adesso preferisco quelle con una gamba finta».
   Il carabiniere si avventò sulle labbra di Vera come se non la vedesse da un mese, invece che da sole ventiquattro ore. Vera rispose con entusiasmo: gli cinse il collo con le braccia e insinuò la lingua nella bocca di lui, strappandogli un gemito eccitato. Prima che gli animi potessero scaldarsi ancora di più, però, il cellulare di Vittorio prese a squillare con insistenza.
   L'uomo si staccò da Vera con un grugnito di disappunto e afferrò il cellulare; dopo aver gettato un rapido sguardo allo schermo, prese un respiro profondo e rispose sbuffando. «Mà? Che c’è?». Ascoltò in silenzio per mezzo minuto buono prima di schiaffarsi una mano sulla fronte in un gesto esasperato. «Sì, sì, vengo subito. T’ho detto che vengo!»
   E chiuse la chiamata.
   «Problemi?» chiese Vera. Lui prese a testate il poggiatesta, borbottando tra sé, e le sopracciglia della donna s’inarcarono. «Quello è troppo morbido: se vuoi ammazzarti, devi prendere a testate qualcosa di più duro. Tipo lo sportello di una cassaforte, considerato che è della tua testa che stiamo parlando».
   Vittorio la guardò storto e rimise in moto l’auto. «Devo andare da mia madre» bofonchiò contrariato. Il suo sguardo si accese. «Vieni con me!»
   «Ma che sei impazzito?» replicò Vera.
   «No, il livello di follia è sempre lo stesso» rispose lui, immettendosi nel traffico. «Dai, su, sono passato a prenderti solo dieci minuti fa: non mi va di riportarti a casa. Tuo padre potrebbe fucilarmi, per averti scomodata inutilmente!»
   «E io che pensavo me l’avessi chiesto perché ti fa piacere stare con me» ribatté lei, sardonica.
   «Anche» concesse Vittorio. «Dai, vedrai che ne varrà la pena: mia madre fa una crostata buona da impazzire».
   Vera quasi si mise a ridere nel sentire l’entusiasmo con cui il carabiniere aveva pronunciato le ultime parole. Per un attimo era sembrato un ragazzino, molto più giovane dei suoi quarant’anni e soprattutto molto meno amaro e cinico.
   «Visto che si parla di visite, questo sabato siamo invitati a cena da Giulia e Tiziano» annunciò mielata.
   «Basta che il tuo amico non provi a farmi diventare juventino» rispose pronto l'uomo.
   Il viaggio proseguì per un mezz'ora, durante cui Vittorio ne approfittò per raccontarle la propria giornata; Vera rise fino alle lacrime quando sentì della scena avvenuta in banca, e riuscì a ricomporsi giusto mentre Vittorio parcheggiava la macchina sotto casa di sua madre.
   I due entrarono nel palazzo e presero l'ascensore fino al quarto piano, dove Vittorio scoccò uno sguardo malandrino a Vera prima di incollare il dito al campanello della porta che avevano di fronte.
   Dei passi veloci risuonarono dietro la porta; il battente si aprì e Vera si trovò di fronte una signora di circa sessantacinque anni dall'aria energica.
   «Vittorio, smettila con quel campanello!» sbottò Agnese con aria furiosa. «E sbrigati a entrare: non so più che fare con quel lavandino!» proseguì, esasperata. Stava per aggiungere qualcos'altro quando finalmente scorse Vera, e si zittì.
   «Te lo dico io che devi fare: chiamare un idraulico e cambiarlo» borbottò Vittorio, entrando nell’appartamento e trascinando Vera con sé. «Mà, questa è Vera; Vera, questa è Agnese, mia madre».
   Imbarazzata, Vera strinse la mano dell’altra donna. «Salve, signora. Spero che non le dispiaccia se ci sono anch’io» mormorò.
   Agnese si riprese prontamente. «Macché!» disse decisa, chiudendo la porta. «Ti piacciono le crostate? Ne ho appena fatta una».
   «Guarda caso» commentò sarcastico Vittorio. Sua madre lo guardò male e Vera rischiò di scoppiare a ridere: era la stessa espressione che faceva Vittorio quando lei lo punzecchiava. Il carabiniere si rivolse a lei. «Ogni volta che mi chiama per sistemare questo maledetto lavandino, prepara una crostata per tenermi buono» spiegò.
   «Visto che funziona…» commentò candidamente Agnese. «Vieni, Vera. Vittorio, la cassetta degli attrezzi è al solito posto».
   Le due donne andarono in cucina, dove il televisore acceso faceva da sottofondo con il suo chiacchiericcio; la più giovane sedette con la schiena rivolta allo schermo mentre la padrona di casa le piazzava di fronte acqua, tè freddo e una crostata alla marmellata di ciliegie che sembrava uscita da una rivista di cucina.
   Vera annusò il dolce. «Ha un profumo divino» disse sincera.
   Agnese sorrise fiera e si accomodò; tagliò una bella fetta di crostata e la mise davanti alla ragazza, mentre Vittorio entrava nella stanza sbuffando e sferragliando.
   «Allora, Vera, dimmi: come mai conosci mio figlio?» chiese Agnese.
   Vera arrossì al ricordo. «Be’ io… io…»
   Il carabiniere aprì l’anta di legno che nascondeva il sifone, si sdraiò a terra e s’infilò per metà nel pensile. «Te lo dico io: l’ho fermata per un controllo mentre ero di pattuglia e mi ha insultato».
   La ragazza si nascose il volto tra le mani, mortificata.
   «Ma erano insulti meritatissimi» aggiunse Vittorio.
   Vera rialzò la testa di scatto e guardò le gambe che spuntavano dal mobiletto. «Non l’avevi mai detto prima!»
   «Perché sapevo che avrei firmato la mia condanna a morte» replicò la voce di lui. «Tanto so che mi pentirò presto di averlo ammesso».
   «Quando fai così, ti detesto» mugugnò Vera.
   «Tranquilla: io ti detesto sempre» replicò divertito Vittorio.
   Agnese, che aveva seguito quello scambio di battute in silenzio, tornò a rivolgersi alla sua ospite.
   «Sai che hai un’aria familiare?» disse pensosa, osservandola. «Ho l’impressione di averti già vista da qualche parte…». I suoi occhi furono calamitati dal televisore, dove le immagini di un servizio del telegiornale regionale scorrevano sullo schermo.
   «Prenderà il via tra pochi giorni il processo per il disastroso incidente d’auto avvenuto sulla Tiburtina nel maggio dello scorso anno» declamò fluido il giornalista. «Gianluca Moretti, unico imputato, dovrà rispondere di omicidio stradale e lesioni gravissime: nell’incidente, provocato mentre guidava sotto l’effetto di alcol e droga, perse la vita la ventiquattrenne Noemi Dei Giudici, mentre la sua coetanea, Vera Nicolini, subì l’amputazione di una gamba…»
   Vera divenne bianca come un lenzuolo. Senza battere ciglio, Agnese spense il televisore e riempì il bicchiere della ragazza, che sospirò silenziosamente di sollievo; Vittorio riemerse dal mobile e scoccò a sua madre uno sguardo grato.
   «Vittorio dice che vi siete conosciuti in modo un po’ turbolento, ma a me sembra che adesso andiate d’accordo» disse la signora, cambiando argomento.
   «Ci è voluto un bel po’» rispose Vera. «Abbiamo litigato parecchie volte prima di capire come prenderci».
   «Be’, non mi sorprende: mio figlio ha un caratteraccio impossibile» disse calma Agnese.    
   Il figlio in questione sbuffò contrariato. «Grazie, eh, mamma!»
   «Che c’è? Ho solo detto la verità» rispose impassibile la donna.
   «Confermo e sottoscrivo!» esclamò d’istinto Vera.
   Agnese sorrise. «Assaggia la crostata» la esortò. L’altra diede un morso alla fetta di dolce e sgranò gli occhi prima di socchiuderli con aria estatica. Mentre era intenta a masticare, la più anziana ripartì all’attacco. «Lo sai che mio figlio è sposato, vero?»
   Vera si strozzò. «Io… lui…» rantolò mentre si colpiva il petto con il pugno.
   «Te lo dico solo perché ho notato che non porta più la fede» aggiunse Agnese.
   Vittorio smanacciò alla cieca nella cassetta degli attrezzi. «Non la porto più perché io ed Emanuela siamo legalmente separati: ho firmato le carte giusto stamattina» informò sua madre, che si voltò repentinamente nella sua direzione.
   «Legalmente separati? E come mai?» chiese tagliente.
   «Perché quella stronza di mia moglie mi tradisce con il suo capo da più di due anni e io sono stanco di essere un cornuto» rispose brusco suo figlio. «È sufficiente?»
   «Te l’ho sempre detto, che non avresti dovuto sposarla» disse Agnese.
   «Oddio, non ricominciare!» sbottò Vittorio: colpì il sifone con una chiave inglese, creando un frastuono che fece storcere il naso a sua madre.
   La donna scosse la testa e si girò di nuovo verso Vera, che la scrutò allarmata.
   «Scusa, Vera, ma temevo che non te l’avesse detto» spiegò.
   Vittorio si mise a sedere di scatto e diede una testata al bordo del pensile. Imprecando a tutto spiano, si sporse in modo da poter guardare bene sua madre.
   «Ahò, ma da quand’è che mi consideri così infame?» chiese risentito.
   Agnese assunse un’aria molto severa. «Sei mio figlio, non potrei mai considerarti un infame!» replicò piccata. «Ma sapevo già da un pezzo che tra te ed Emanuela non andava bene, e credevo che ti fossi trovato un’amante. Che altro avrei dovuto pensare, vedendoti arrivare con una ragazza tanto più giovane di te?»
   Vera emise un verso strangolato, incerta se piangere di vergogna o scavare una buca nel pavimento e nascondercisi dentro.
   «Mà, puoi farla finita? Stai mettendo in imbarazzo la mia fidanzata» disse secco l’uomo, tornando a lavorare sullo scarico del lavandino.
   «Da quand’è che sarei la tua fidanzata?» farfugliò allibita Vera.
   «Oh, ma dai» brontolò Vittorio. «Ci vediamo tutti i giorni, andiamo a cena, al cinema, usciamo con i miei amici e con i tuoi… che credevi di essere?»
   «Fate sesso?» indagò Agnese.
   Vera divenne paonazza.
   «Mamma!» insorse Vittorio: anche se il suo volto era nascosto, dalla sua voce si intuiva come quella domanda avesse messo in imbarazzo anche lui. «Ma che domande fai?»
   «È una domanda normalissima» si difese sua madre.
   «Ho detto che è la mia fidanzata, no?» bofonchiò Vittorio. «Avrei detto che è un'amica, se non facessimo… be’, facciamo tutto quello che fanno le coppie» mugugnò. «Ti basta?»
   «Sì» concesse sua madre. «Posso sperare in dei nipotini, nel prossimo futuro?»
   «MAMMA!» tuonò di nuovo Vittorio. Vera preferì schiacciare la faccia sul ripiano del tavolo e coprirsi la testa con le mani.
   «Oddio, è un incubo. Questo è un incubo» piagnucolò disperata la ragazza.
   Agnese si accigliò. «Eh, via, mio figlio non è poi così male!»
   Vittorio sbuffò. «Guarda che parlava di te: l’hai terrorizzata».
   «Perché? Non vuole dei figli?» domandò Agnese, sinceramente perplessa.
   «Perché a malapena stiamo insieme!» sbottò l’uomo.
   «E allora?» chiese imperterrita la sessantacinquenne. «Mica vorrà aspettare vent'anni, per averne!». Si voltò verso Vera, che la fissò con palese terrore. «Quanti anni hai?»
   «Ven-venticinque» farfugliò la ragazza.
   «Ecco: l'età perfetta per iniziare avere dei figli» commentò Agnese, soddisfattissima. «Avevo la tua stessa età quando è nato Vittorio. Se vi sbrigate, potreste averne almeno un paio prima che tu compia trent'anni, con un po' di fortuna anche tre».
   Vera strabuzzò gli occhi. «Mi sembra un discorso un po' prematuro» tentò con voce flebile.
   «Gamba Bionica, non farti scrupoli solo perché è mia madre: sentiti libera di mangiarla viva per essere una simile ficcanaso, se ti va» la esortò il carabiniere.
   «Meglio di no, Valenti, dammi retta» rispose convinta la ragazza. «Lo sai che è meglio se non vado a briglia sciolta».
   Agnese guardò dall'uno all'altra con aria risentita. «Comincio a capire come mai andate tanto d'accordo» disse, un po' altera. Il suo sguardo si fece comprensivo. «Ma io sto parlando nel vostro interesse: siete giovani, si vede che non sapete bene cosa volete e di cosa avete bisogno, quindi credo sia giusto guidarvi nella giusta direzione...»
   «Va bene, ora basta» esplose Vittorio. Si rialzò e chiuse il pensile con un gesto secco. «Mà, il lavandino è posto e noi ce ne andiamo».
   «Di già?» replicarono in coro Vera e Agnese: la prima in tono sollevato, la seconda genuinamente sorpresa.
   «Sì» rispose l'uomo. Prese la venticinquenne per mano e la costrinse ad alzarsi. «Vera, saluta mia madre, che se dipende da me, non la vedrai almeno per i prossimi quattro anni!»
   Agnese gli scoccò uno sguardo tagliente. «Smettila di fare il maleducato!»
   «Smettila di farci l'interrogatorio e la paternale» replicò pronto suo figlio. «Papà non l'avrebbe mai fatto, e se fosse qui ti avrebbe tappato la bocca già da un pezzo, lo sai bene!»
   La donna decise di cambiare tattica. «E dove andate?»
   Vittorio trascinò Vera fuori dalla cucina e verso la porta d'ingresso. «A fare quello che fanno le coppie quando sono da sole» annunciò, e sgattaiolò fuori dall'appartamento prima che Agnese potesse replicare.
   Vera lo seguì in ascensore, paonazza e con un'espressione esasperata sul volto.
   «Dovevi per forza dire a tua madre che stiamo andando a casa a fare sesso?» si lamentò.
   Vittorio la guardò con le sopracciglia inarcate. «A parte che è stata lei a chiederlo, Vè, mia madre non è mica stupida: di sicuro non pensa che passiamo il tempo a giocare a briscola...». Sogghignò. «Anche se qualcosa in comune le due cose ce l'hanno».
   «E sarebbe?» lo sfidò la ragazza, le braccia incrociate sul petto.
   Il ghigno di Vittorio si allargò. «L'asso di bastoni».
   Vera gemette e gettò indietro la testa per un momento, incredula; poi sferrò uno schiaffo sulla fronte di Vittorio.
   «Sei indecente!» ululò. «Ma ti senti, quando parli?»
   «Sai, tesoro, devi imparare a lasciarmi fare il cafone volgare in santa pace, almeno ogni tanto» replicò imperturbabile Vittorio. «E poi non fare la santarellina con me: scommetto che quando sei da sola con Giulia dici di peggio!»
   Sconfitta, Vera mugugnò irritata tra sé Vittorio ne approfittò per abbracciarla.
   «Dai, smettila di tenermi il muso» le sussurrò all'orecchio appena prima di baciarle il collo.    «Prometto che a casa mi faccio perdonare».
   La ragazza gli rivolse uno sguardo altero. «Dovrai impegnarti parecchio».
   «Ho tutta l'intenzione di farlo» rispose suadente Vittorio, premendo il proprio corpo contro quello di lei.
   Vera ridacchiò. Il carabiniere fece per baciarla, ma lei lo schivò e sgusciò fuori dall'ascensore appena prima che si richiudesse. Si avvicinò al portone del palazzo, camminando lentamente all'indietro.
   «Meglio sbrigarsi ad arrivare a casa tua, allora. Non credi?»
   Vittorio la raggiunse a grandi falcate, la prese in braccio e andò verso la macchina a passo di marcia, la risata di Vera che gli riempiva le orecchie e le sue dita che scavavano impietose nel suo petto.
   Sì, sbrigarsi ad andare a casa era davvero un'ottima idea.

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Capitolo 22
*** Capitolo XXI ***


Quell'estate era già calda, calda, troppo calda.
   Vera avrebbe potuto giurare di non aver mai sudato tanto come in quegli ultimissimi giorni di giugno: quel giorno in particolare, poi, nonostante fosse ormai pomeriggio inoltrato, minuscole gocce salate le scorrevano sul volto e lungo il collo.
   La venticinquenne salì l'ultimo gradino e lanciò un'occhiataccia all'ascensore del palazzo, sulla cui porta era attaccato un cartello con la scritta “GUASTO” che sembrava sbeffeggiarla. Sbuffando inferocita, infilò la chiave nella serratura ed entrò nell'appartamento di Vittorio.
   «Ehi». Vittorio mise fuori la testa dalla porta della cucina e le scoccò uno sguardo perplesso. «Tutto bene, Gamba Bionica?»
   «Non chiamarmi così, non chiamarmi così» ringhiò Vera; si buttò a peso morto sul divano e chiuse gli occhi, le mani strette intorno alla coscia sinistra.
   Il carabiniere si pulì le dita sul grembiule da cucina che indossava e la raggiunse. «Ti fa male la gamba?»
   «Sì, dannazione, » sibilò lei in risposta. «Mi faceva male già prima, e arrampicarmi su per tutte quelle stramaledette rampe di scale non mi ha aiutata per niente!». Sbatté la testa contro i cuscini dello schienale. «La casa al quarto piano doveva prendere, proprio quella!» mugugnò tra sé.
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Quindi immagino sia colpa mia» replicò pungente.
   Vera lo guardò mentre ci rifletteva sopra. «In parte» confermò infine.
   Il carabiniere alzò gli occhi al cielo. «È bello sapere che qualsiasi cosa io dica, qualunque cosa io faccia, avrò sempre la colpa di ogni evento negativo che ti capita» dichiarò, sarcastico. «In fondo, avere dei punti saldi, nella vita, è importante».
   «Piantala di fare la vittima: non ti si addice» rispose secca Vera. «E poi, non ho voglia di discutere».
   «Sarebbe una novità assoluta». Vittorio ignorò lo sguardo rabbioso della sua fidanzata e le staccò le mani dalla gamba. «Se la protesi ti fa così male, toglila» le suggerì.
   «E poi come cammino? Saltellando su un piede solo?» domandò Vera, sarcastica quanto lo era stato Vittorio poco prima.
   Per tutta risposta, lui si alzò sbuffando e sparì verso nella zona notte della casa per tornare un minuto più tardi con un paio di stampelle.
   «To'» disse scocciato. «Le ho prese un po' di tempo fa perché ho pensato che non si sa mai, magari un giorno ti sarebbero potute servire mentre eri da me. E adesso piantala con tutto 'sto malumore» aggiunse prima di andare in cucina.
   La ragazza grugnì un assenso; arrotolò completamente la gamba del pantalone, poi si sfilò la protesi e l'appoggiò con malagrazia accanto a sé; Estia, curiosa, saltò sul divano e prese a osservare e annusare l'oggetto.
   «Ti piace, Estia? Perché se la vuoi, te la regalo».
   «Non penso se ne farebbe granché; Efesto, invece, potrebbe apprezzare l'offerta» commentò Vittorio, tornando a sedere accanto a Vera. «Per la cena manca ancora un po', se ti va puoi riposarti».
   «Voglio una gamba nuova!»
   Il carabiniere allungo una mano verso la protesi, ma si fermò prima di afferrarla. «Posso?»
   Vera sghignazzò suo malgrado. «Quando si tratta di altre parti di me, il permesso non lo chiedi mica».
   «Sulle altre parti non sei così suscettibile». Vittorio schivò il pugno di Vera e prese la gamba artificiale per studiarne l'interno della cuffia in silicone. «Sei sicura che questo affare vada bene, per te? Va bene tutto, ma non so se sia normale che tu abbia tutti questi dolori».
   «Me lo sono chiesto anch'io» ammise lei.
   «E...?»
   «E niente, Vittò. La uso da otto mesi, con un po' di tempo in più potrei avere meno problemi» rispose Vera, massaggiandosi il moncone con fare distratto.
   «Mhhh» mugugnò l'uomo, poco convinto, mentre metteva la protesi su una sedia. Finalmente con le mani libere, si appoggiò al bracciolo del divano e trascinò Vera tra le proprie gambe, allungate sui cuscini. «Vieni qui».
   La donna ridacchiò. «Non hai caldo?»
   «Nah» replicò Vittorio. «E tu?»
   Vera si sistemò meglio con la schiena contro il petto di lui. «Non abbastanza da spostarmi».
   «Ottimo». Il carabiniere le baciò una tempia. «Adesso che siamo belli comodi e pronti a una sudata da record, ti va di parlarmi di qualcosa in particolare?»
   «Tipo cosa?»
   «Non lo so. Tipo il processo che dovrebbe iniziare a giorni?»
   Vera batté rapidamente le palpebre e si contorse nel suo abbraccio per tentare di guardarlo in volto. «E tu come...»
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Casa di mia madre?»
   «Ah, già. Stupido telegiornale» sbuffò Vera. Si grattò l'attaccatura dei capelli, lo sguardo fisso sulla libreria che aveva di fronte. «Sì, be', la prima udienza è tra una decina di giorni e l'idea non mi fa impazzire, quindi penso... penso che non ci andrò» disse. «Giulia vuole andarci, e se ci va lei, ci va anche Tiziano; i genitori e il fratello di Noemi ci saranno di sicuro, ma io... io non so se ce la faccio».
   L'uomo tacque per un istante. «Di cos'hai paura, Vè?» chiese lentamente.
   Lei deglutì. «Dovrò andarci comunque, più avanti, per testimoniare su... sull'incidente» sussurrò. «Non lo posso evitare, non posso scappare, e allora... allora ho pensato che forse è meglio se... se non ci vado, in aula, prima di quel giorno. Ho paura, Vittò» disse con voce tremante. «Che succede se quando sono lì non riesco a parlare? Che succede se ci vado già dalla prima udienza e poi non riesco a sedermi su quella sedia e dire com'è stato quando... quando quella macchina ci è venuta addosso, quando mi sono svegliata senza una gamba, quando continuavo a cercare Noemi perché ero abituata a condividere tutto con lei e mi dimenticavo che non c'era più? Come...»
   La voce di Vera si spezzò.
   Vittorio sospirò e le accarezzò i capelli. «I giudici non ti mangiano, tesoro» la rassicurò. «Forse l'avvocato del ragazzo potrebbe provarci, ma dopo quello che hai passato, penso che sarebbero i giudici stessi a dirgli di darsi una calmata, se si agita troppo. E comunque, se ci vai tu, allora ci vado anch'io». Tacque per un istante. «Se tu mi vuoi lì con te».
   Nonostante il pensiero del processo le gravasse sul petto come un macigno, Vera ridacchiò di nuovo. «Stai dicendo che te la senti di affrontare i miei genitori?»
   «Non mi sembra di aver avuto problemi, due mesi fa» ribatté Vittorio in tono spavaldo.
   «No, ma due mesi fa non stavamo insieme» sogghignò Vera prima di tornare seria. «Comunque, se non ti crea problemi con il lavoro, io... io ti vorrei in aula con me, sì».
   «Non ti preoccupare del mio lavoro: a quello ci penso io».
   «Io...». Vera deglutì un paio di volte prima di riuscire a parlare di nuovo. «Grazie, Vittorio» sussurrò.
   La risposta dimessa di Vera punse Vittorio come una vespa feroce: era così poco da lei da farlo vibrare dalla testa ai piedi in modo negativo. Dopo aver spinto la venticinquenne in posizione seduta si alzò di scatto, afferrò la protesi e gliela porse. «Sai che ti dico? Possiamo cenare più tardi. Adesso rimettiti la gamba: usciamo».
   Vera lo guardò, incuriosita. «E dove andiamo?»
   «Aspetta e vedrai».

******

Vittorio portò indietro il braccio e lo spinse in avanti con un movimento simile a un colpo di frusta.
   «Avanti, Hermes, prendila!»
   Il pastore tedesco partì all'inseguimento della pallina che l'uomo aveva appena lanciato verso Vera; la ragazza scoppiò a ridere e l'afferrò al volo mentre il cane si bloccava di fronte a lei, in attesa.
   Quando Vittorio le aveva proposto di uscire, l'ultima cosa che Vera si sarebbe aspettata era un'uscita al parco con Hermes. Sulle prime era stata scettica: fosse stato per lei, si sarebbe parcheggiata di fronte al ventilatore dopo una bella doccia fredda e, a giudicare da come Hermes stava spalmato in un angolo d'ombra sul pavimento del giardino, il suo cane aveva più o meno gli stessi progetti.
   Vittorio, invece, li aveva trascinati per strada incurante della loro pigrizia, sordo all'ansimare di Hermes e al mugugnare incessante di Vera; aveva rallentato solo quando si erano inoltrati lungo i viali del parco, e per quel momento sia il cane che la donna si erano rassegnati all'inevitabile.
   In quel momento, però, mentre una brezza appena accennata dava loro un po' di respiro, Vera non poté fare a meno di essere contenta che il carabiniere li avesse portati lì contro la loro volontà: nonostante la gamba le facesse ancora male, nonostante la sua pelle fosse appiccicaticcia a causa del sudore e il suo stomaco brontolasse per la fame, le corse disperate di Hermes alle calcagna della pallina e la risata ricca e profonda di Vittorio la facevano sentire infinitamente più leggera.
   Vera agitò la palla colorata sotto il naso di Hermes e la scagliò lontano, gli occhi fissi sul cane che galoppava, prima di spostare lo sguardo su Vittorio.
   «Un po' mi scoccia ammetterlo, ma hai fatto bene a trascinarci qui» commentò, con un sorriso sul volto.
   Vittorio la fissò con tanto d'occhi. «Le mie orecchie mi ingannano o hai appena detto che ho fatto bene? Che io ho fatto bene qualcosa?». Si coprì la testa con le mani. «Presto, corriamo al riparo prima che si scateni una bufera di neve!»
   Hermes tornò da Vera giusto due secondi più tardi e lei ne approfittò per prendere la palla dalla sua bocca e lanciarla dritto in faccia a Vittorio; e anche se in condizioni normali il carabiniere quel colpo l'avrebbe schivato a occhi chiusi, in quel momento era troppo impegnato con la sua scena da melodramma greco per muoversi con la consueta prontezza di riflessi.
   La pallina, coperta di erba e bava di cane, si spiaccicò sulla guancia sinistra dell'uomo.
   «Centro!» esultò Vera, alzando le braccia al cielo.
   Vittorio si ripulì col dorso della mano ed emise un verso disgustato. «Quando fai così, ti odio! Sei persino peggio di mia sorella!»
   «Perché? Che fa tua sorella?» indagò la venticinquenne, curiosa.
   «L'ultima volta che le ho tappato la bocca con la mano, me l'ha leccata» grugnì Vittorio.
   Vera scrollò le spalle. «Capirai! Chissà che m'immaginavo!»
   «Capirai?» le fece eco lui, incredulo. «Ti pare una cosa normale? Valeria...». S'interruppe, improvvisamente cereo, gli occhi fissi su un gruppo di quattro persone che avanzava a passo di marcia alle spalle di Vera, dritto verso di loro. Fece un movimento come per fuggire. «Valeria!»
   Vera si voltò verso il punto fissato da Vittorio appena in tempo per vedere una donna, con un caschetto di capelli scuri e mossi,  fare un gesto ai due bambini che le camminavano accanto e puntare il dito verso il carabiniere.
   «All'attacco, piccoli mostri!»
   I ragazzini partirono urlando e si scagliarono su Vittorio; l'uomo barcollò vistosamente e cadde all'indietro sull'erba. Senza perdere un istante, i due bambini gli saltarono addosso e lo sommersero proprio come aveva fatto Hermes qualche settimana prima, e che in quel momento girava intorno al groviglio umano che si agitava a terra, annusando curioso.
   «Cristo santo...» gemette Vittorio, tentando invano di liberarsi. Cercò Vera con lo sguardo. «Aiutami!»
   L'ex ginnasta inarcò le sopracciglia. «Non so se voglio farlo. Insomma, non è che hai una doppia vita e un paio di figli e adesso hai paura di essere ammazzato di botte da me e dalla loro madre?»
   «Figli? Con 'sto qui?» disse l'altra donna, che finalmente li aveva raggiunti. «Per carità!»
   Vera la scrutò attentamente. «Tu mi sei simpatica» decretò. «Sempre che tu non sia davvero la compagna di Vittorio e la madre dei due bambini che stanno tentando di soffocarlo».
   «La madre dei due mostri, sì; la compagna di quello sciagurato, no». La sconosciuta sbuffò. «Sono sua sorella e fidati, se potessi scegliere, al momento non lo sarei!»
   La venticinquenne la guardò con una nuova consapevolezza negli occhi. «Ah, sei quella che gli lecca la mano quando prova a zittirti».
   «E tu la sua nuova ragazza». L'altra donna le porse la mano. «Valeria».
   Vera l'afferrò e la strinse. «Vera». Accennò all'uomo alle loro spalle, che guardava Vittorio sogghignando. «Tuo marito, immagino».
   Valeria annuì. «E il padre dei due mostriciattoli. E il cognato dell'imbecille lì per terra».
   L'uomo tese la mano a Vera come aveva fatto Valeria un minuto prima. «Simone; piacere di conoscerti».
   Vera accettò anche la sua mano. «Vera: piacere mio».
   «Avete finito di scambiarvi piacevolezze?» sbraitò Vittorio, ancora impegnato in quella sorta di incontro di wrestling. «Simò, toglimi di dosso questi due bulldozer!»
   Simone affondò le mani nelle tasche dei bermuda e lo fissò impassibile. «Non ci penso proprio» rispose. «È il primo di luglio e ancora non ti sei degnato di venire a trovarci: ti meriti tutto quello che ti faranno, e anche di più».
   «E dai!» ruggì Vittorio.
   L'altro scrollò le spalle. «Nah. Cristian, Samuel, fatelo nero!»
   Vittorio grugnì mentre i due bambini gli saltavano sulle costole strillando eccitati e Vera, mossa a pietà, decise di dargli una mano.
   «Pssst! Cristian! Samuel!» li richiamò, sottovoce e con un gesto cospiratore. I due, che a occhio avevano sette e cinque anni, trotterellarono verso di lei, tallonati da Hermes. «Vi va di giocare con il mio cane? Si chiama Hermes, è buonissimo e adora rincorrere le palline».
   Cristian si girò verso il pastore tedesco e lo guardò serio.
   «Hermes» ripeté. «Ti va di giocare?»
   Il cane agitò freneticamente la coda.
   «Prendete quella e vedrete come scatta» gli suggerì Vera, indicando la pallina abbandonata a poca distanza da un Vittorio dolorante e ancora intento a rialzarsi.
   «Credo di avere le costole polverizzate» gnaulò il quarantenne.
   «Sta’ zitto e aiuta i tuoi nipoti a fare amicizia con Hermes» ordinò Vera, mentre i bambini prendevano la palla e venivano rincorsi da Hermes.
   Vittorio la ignorò e rimase dov'era, gli occhi fissi sulla propria sorella. «Come hai fatto a trovarmi?»
   Valeria sbuffò. «Mamma mi ha detto che hai una nuova ragazza e volevo conoscerla...»
   «Non ti ho chiesto perché sei qui, ma come hai fatto a trovarmi» la interruppe lui.
   La trentacinquenne sbuffò una seconda volta. «Ho chiesto a mamma, che ha chiamato il maresciallo, che ha contattato il collega con cui sei sempre di pattuglia, che ci ha dato il tuo indirizzo e ha detto che se non eri a casa, allora forse eri qui perché ti piace venire a correre in questo parco».
   Vera scoppiò in una risata. «Quindi è una cosa di famiglia, rintracciare la gente per vie traverse!»
   Simone sghignazzò qualcosa di incomprensibile e Vittorio scosse la testa.
   «Mi sa che hai ragione tu, Gamba Bionica: sto meglio coi miei nipoti» commentò il secondo, girando sui tacchi per raggiungere i due bambini.
   Quando Vittorio fu fuori tiro d'orecchi, Valeria soppesò Vera con lo sguardo. «Per caso tu sei la stessa che ha provato a prendere a schiaffi la mia ex cognata?»
   L'altra sibilò un paio di imprecazioni. «È solo colpa di tuo fratello e del suo vizio di mettersi in mezzo, se non ci sono riuscita. E ti assicuro che lo volevo proprio tanto».
   «Oh, non sei sola, fidati» ribatté cupa Valeria. «Per fortuna si è deciso a lasciarla e a trovarsi una ragazza normale».
   Vera inarcò le sopracciglia. «Grazie, credo».
   La trentacinquenne agitò una mano con fare noncurante. «Ti pare!»
   Simone sghignazzò di nuovo e rivolse un'occhiata eloquente a Vera. «Si somigliano un sacco, non trovi?» commentò, accennando a sua moglie e a suo cognato.
   «Anche troppo» soffiò Vera. «Io pensavo che un Valenti fosse un cataclisma naturale, ma due potrebbero essere proprio l'Apocalisse».
   «Ehi!» insorse Valeria, in una perfetta replica del tono più indignato di Vittorio, quando gli altri due scoppiarono a ridere. «Io non sono pessima come Vittorio! Neanche lontanamente!»
   «Tu sei peggio di Vittorio: sei la sua versione riveduta e corretta» ribatté Simone. «Ma molto più bella» aggiunse di fronte all'espressione aggrondata di sua moglie. Tornò a rivolgersi a Vera. «Però devo farmi spiegare da Vittorio come ha fatto a trovarsi una fidanzata giovane, normale e pure bella!»
   Valeria gli rifilò un violento schiaffo sulla nuca. «Perché? Devi fare conquiste?» abbaiò.
   «Gelosona» disse compiaciuto suo marito; l'abbracciò stretta per impedirle di schiaffeggiarlo ancora e le schioccò un umido, rumoroso bacio sulla guancia. «Sono solo curioso. Tuo fratello è un po' troppo burbero per il suo bene: ecco perché mi chiedo come ci sia riuscito».
   «Perché io sono peggio di lui» rispose Vera con sincerità.
   «Impossibile» decretò all'istante Valeria. «Questo...». S'interruppe e masticò un insulto tra i denti. «Questo» riprese, con un gesto eloquente in direzione di suo fratello, «ha una capacità mai vista nella storia del genere umano, di far saltare i nervi alla gente: in parole povere, sa essere irritante come una pianta d'ortica ficcata nelle mutande».
   Vera sbottò in una via di mezzo tra una risata e un grugnito.
   «Quanta grazia in un corpo solo, amore mio» esclamò sardonico Simone.
   «Ho solo detto la verità» replicò sua moglie. «Ha quarant'anni – anzi, quarantuno, visto che tra un paio di settimane è il suo compleanno – ma su certe cose, è ancora un ragazzino!»
   L'ex ginnasta drizzò le orecchie. «Ah sì?»
   Valeria sbuffò. «Ci stai insieme: vorresti dirmi che non ti sei accorta che a volte Vittorio ha la maturità di un bambino delle elementari?»
   «Non parlavo di quello, ma del suo compleanno» spiegò Vera. «Anzi, dimmi il giorno preciso: fino a due secondi fa non avevo la minima idea sulla sua data di nascita».
   L'altra le rivolse un sorrisetto. «Tu hai in mente qualcosa».
   «Oh, è solo una cosetta... ma forse mi puoi aiutare».

******

Vera non era mai stata meno convinta di una propria scelta, benché in più di un'occasione si fosse pentita di una decisione presa; sì, aveva avuto dei dubbi quando si era iscritta all'università e per tenere il passo con le lezioni e gli allenamenti aveva trascorso così tante notti insonni da perdere il conto, e sì, aveva capito di aver commesso un errore madornale quando, a sedici anni, aveva accettato di uscire con Daniele Terenzi – non s'era mai annoiata tanto nella sua vita quanto in quei tre mesi in cui era stata fidanzata col suo compagno di allenamenti in palestra – ma assecondare la sua migliore amica e far sedere Vittorio e Tiziano allo stesso tavolo... be', quella decisione le batteva tutte.
   Dall'altro lato del tavolo rettangolare, Giulia sembrava di tutt'altro avviso: l'ampio sorriso soddisfatto che le troneggiava sul volto la diceva lunga su come lei, invece, fosse convinta che quell'uscita a quattro – o meglio, a cinque, se si contava la piccola Ludovica inerpicata sul seggiolone a capotavola – fosse una delle trovate più brillanti che avesse mai avuto.
   L'ex ginnasta scoccò un'occhiata preoccupata prima a Vittorio, seduto giusto di fronte a lei, e poi a Tiziano, che le stava accanto. Loro non se ne accorsero nemmeno: erano troppo occupati in una sfida di sguardi, e nessuno dei due sembrava intenzionato a cedere. Nel momento in cui si erano accomodati al tavolo del ristorante, Vera aveva considerato un successo essere riuscita a farli sedere a una distanza sufficiente da impedire eventuali contatti fisici tra i due, ma non aveva messo in conto la petulanza di entrambi: iniziava a pensare che, di quel passo, i due uomini non avrebbero spiccicato parola per tutta la sera.
   Trascorse un'altra manciata di minuti senza che la tensione che aleggiava sulla tavolata si allentasse; poi, senza distogliere lo sguardo da Tiziano, Vittorio incrociò le braccia al petto e rivolse un sorrisetto all'altro uomo.
   «Puoi anche rilassarti, juventino» disse il carabiniere, spezzando finalmente il silenzio. «Il buongusto in fatto di calcio non si trasmette per via aerea».
   Per un attimo Tiziano boccheggiò, indignato. «E ce l'avresti tu, il buongusto in fatto di calcio?»
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Visto che io non tifo per una squadra di ladri, direi proprio di sì».
   Vera si voltò verso Tiziano, allarmata: provocarlo sulla sua squadra del cuore era un modo certo per farlo infuriare. E infatti il suo migliore amico sembrava aver temporaneamente perso l'uso della parola; il suo volto, però, si stava chiazzando di rosso, segno che l'esplosione era imminente. L'ex ginnasta lanciò uno sguardo fugace a Giulia, che appariva altrettanto preoccupata.
   «Ma... ma... ma pensa per te, romanista» replicò infine il trentenne, sputando l'ultima parola con aria disgustata. «Tifi per una squadra che se vince uno scudetto ogni vent'anni, è grasso che cola!»
   Il ghigno sul volto di Vittorio si allargò. «Almeno a noi gli scudetti non li revocano».
   Tiziano sbuffò. «E che vuoi revocare, se non vincete nemmeno la coppa del nonno?»
   «La differenza tra la mia squadra e la tua si riassume in una sola parola» ribatté il carabiniere. «Calciopoli».
   Tiziano fece per alzarsi, ma prima di poterci riuscire, Giulia e Vera si dimenarono sulle sedie in un identico movimento; i due uomini grugnirono di dolore quasi contemporaneamente e assunsero un'espressione risentita.
   «Ehi!» disse oltraggiato il più giovane, guardando sua moglie, mentre si piegava per massaggiarsi lo stinco. «Mi hai fatto male!»
   Vittorio, invece, appoggiò la caviglia destra sul ginocchio sinistro e se la strinse tra le mani. «Non vale, prendermi a calci con la gamba finta» si lagnò, fissando l'ex ginnasta.
   «In realtà ho usato quella vera» replicò lei, alzando gli occhi al cielo. «Non vi sopporto più, voi due. Pensate di riuscire a comportarvi da adulti almeno finché siamo qui?»
   «Ha cominciato lui» borbottò Tiziano, indicando il carabiniere; Giulia lo guardò, in parte incredula in parte esasperata.
   «Molto maturo» commentò.
   «Io volevo solo rompere il ghiaccio» mugugnò Vittorio, accanto a lei. «Visto che mi guarda storto da quando sono arrivato...»
   Giulia scosse la testa. «Siete insopportabili. Ma come mi è venuto in mente, di organizzare questa cena?»
   «Prenditela con te stessa: io ti avevo detto che era una cattiva idea» replicò Vera.
   «Scusa tanto se pensavo di andare a cena con degli uomini, e non con due bambini dell'asilo!»
   «Sono maschi, Giù: che ti aspettavi?»
   Tiziano conficcò un dito tra le costole di Vera per richiamare la sua attenzione. «Io e il coso romanista siamo ancora qui, eh».
   Sua moglie si portò una mano alla fronte. «Non puoi chiamarlo “coso romanista” e poi prendertela se ti provoca!»
   Vera agitò un braccio per attirare l'attenzione di un cameriere qualunque. «Scusi, ci porta il menù dei bimbi?»
   «Oh, ah ah, ma quanto sei spiritosa!» grugnì Tiziano.
   Giulia gemette sconfortata. «Una serata tranquilla, volevo solo una serata tranquilla...»
   L'ex ginnasta premette i palmi delle mani sulla tovaglia e guardò prima il suo migliore amico, poi il proprio fidanzato. «Fatemi il favore, tutti e due, di dimenticarvi che esiste il calcio e comportarvi da persone adulte che parlano senza guardarsi male, senza provocarsi e senza azzuffarsi, sennò prendo Giulia e Ludovica e ce ne andiamo a cena per conto nostro» sibilò.
   I due uomini si scrutarono torvi per qualche istante; poi sospirarono e scrollarono le spalle.
   «Immagino che per una sera, si possa fare» mugugnò Tiziano.
   «Purché non diventi un'abitudine» brontolò Vittorio.
   Giulia guardò Vera a bocca aperta, scuotendo lentamente la testa.
   «Sono impossibili» commentò. «Però hanno fatto un passetto in avanti, dai».
   «Sì, ma sbrighiamoci lo stesso a ordinare: mentre mangiano non possono azzuffarsi» sospirò Vera.
   Fatta la loro ordinazione, Vera e Giulia si misero a chiacchierare tra di loro ignorando platealmente i rispettivi compagni e i loro tentativi di inserirsi nella conversazione. Alla fine, i due si rassegnarono ad ascoltarle in silenzio; continuarono così fino al momento in cui furono portati via i piatti degli antipasti, poi Vittorio scoccò un'occhiata furtiva all'altro uomo.
   «Insomma...» mugugnò.
   «Be'...» rispose Tiziano, poco convinto.
   Il carabiniere alzò le braccia al cielo. «Ce l'avremo pure qualcosa in comune di cui parlare, no?» sbottò. «Sono stanco del gioco del silenzio».
   «Sì, anch'io» convenne l'altro.
   «Allora... allora...». Vittorio si frugò il cervello alla ricerca di qualcosa da dire che non scatenasse una miccia. «Quest'inverno ci saranno i Metallica in concerto in Italia e io non sono riuscito a procurarmi i biglietti!»
   Il volto di Tiziano s'illuminò. «Anche tu fan dei Metallica?»
   Il carabiniere annuì vigorosamente. «Sono andato al DatchForum per il World Magnetic Tour otto anni fa... una roba pazzesca, sono stato senza voce per due settimane!»
   «Me lo ricordo, quello! L'unica altra data oltre a Milano è stata a Roma due giorni dopo, ci sono andato con degli amici» rispose Tiziano. «Quel palco al centro coi fan tutto intorno... grandioso, veramente! Pensavo che il Palalottomatica sarebbe venuto giù!»
   «Eh, i Metallica» sospirò affettuosamente Vittorio. «Ho provato in tutti i modi a trovare i biglietti per Torino, l'anno prossimo, ma non c'è stato verso».
   Tiziano puntellò i gomiti sul tavolo e appoggiò il mento sui pugni chiusi.
   «Sì, ma ci sono anche due date a Bologna» commentò. «Secondo me, se teniamo d'occhio la situazione tutti e due, un paio di biglietti riusciamo a rimediarli... tanto c'è sempre qualcuno che finisce fregato per un imprevisto o per l'altro e si rivende i biglietti».
   «Bologna si può fare: da qua è pure abbastanza comodo arrivarci, sia con la macchina che con il treno...» rimuginò il carabiniere a mezza voce. «Sì, ci sto. Senti un po', dei Kasabian che dici?»
   «Che mi piacciono» replicò il trentenne. «Perché?»
   «Perché possiamo vedere se riusciamo a trovare i biglietti per il loro concerto al Rock in Roma. È il ventuno di questo mese, magari anche qua, qualcuno che li rivende perché non ci può più andare lo troviamo».
   Fu la volta di Tiziano di annuire. «Andata!»
   I due uomini continuarono a fare progetti, dimentichi di avere compagnia.
   Vera guardò Giulia, le sopracciglia inarcate e l'espressione beffarda. «Hanno protestato fino allo sfinimento e adesso già parlano di andare ai concerti insieme».
   L'altra fece una smorfia. «E ci voleva tanto, no, a trovare un punto d'incontro?»
   Le due amiche si guardarono per un istante.
   «Maschi!» sbottarono in perfetta sincronia.

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Capitolo 23
*** Speciale - Mappa dei luoghi ***


Buonasera bella gente!

Andando avanti con la storia mi sono resa conto che, avendola ambientata in periferia, chi non è di Roma potrebbe avere qualche problema a "visualizzare" i vari luoghi che vengono citati - e che spesso ricorrono più volte. Ho riflettuto per un po' su questo problema e oggi ho deciso di fare qualcosa in proposito: mi sono messa al lavoro nel pomeriggio e spero di aver creato qualcosa che possa rivelarsi utile.

Senza ulteriori indugi, ecco a voi la Mappa del Malandri... ah no, no, scusate, devo aver fatto confusione! (O forse sono i miei desideri più nascosti che parlano... sigh.)

Scemenze a parte, ho creato una piccola mappa dei posti più importanti della storia - anche quelli che voi ancora non avete visto. ;-) Ho fatto del mio meglio, quindi apprezzate almeno lo sforzo! xD


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Legenda della mappa:

1. Settecamini (la zona comprende casa Nicolini, il parco dei famosi incontri e la parrocchia di Santa Maria dell'Olivo)

2.
Comando dei Carabinieri di Tor Sapienza

3.
Facoltà di Economia de La Sapienza (praticamente attaccata a Viale Ippocrate)

4.
Ponte Milvio (e accanto a questo c'è Ponte Flaminio)

5.
Ospedale Sandro Pertini (che forse è inutile ma ormai nella mappa c'è, quindi ve lo beccate!)

6.
Casa Massari-Ranghieri (il nido di Giulia, Tiziano e Ludovica, per capirci xD)

7.
Stadio Olimpico (zona Tor di Quinto)

8.
Palestra di Giovanna

9.
Hard Rock Cafe

10.
Pub frequentato da Vittorio e Claudio

11.
Appartamento di Vittorio

12.
Casa Fossati-Valenti

13.
Tribunale Ordinario di Roma


Per ora dovrebbe essere tutto, ma se ce ne fosse bsogno aggiornerò la mappa e questo capitolo resterà sempre in coda alla storia, così potrete darle un'occhiata ogni volta che ne avrete voglia. Fatemi sapere se è stata utile e ricordate che tra dieci  giorni ci sarà l'aggiornamento col nuovo capitolo!

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