Il colore dei girasoli di Piperilla (/viewuser.php?uid=167897)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 23: *** Speciale - Mappa dei luoghi ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
In quella tiepida notte
di primavera, Vera pensò che non poteva desiderare altro
dalla vita. Aveva ventiquattro anni, una laurea presa da poco e si era
appena qualificata per i campionati nazionali di ginnastica artistica;
in più una delle sue migliori amiche, Giulia, solo
un’ora prima aveva partorito una splendida bambina ed erano
entrambe in buona salute, nonostante la gravidanza non fosse stata
delle più semplici.
Alle tre del mattino lei e Noemi –
l’altra migliore amica sua e di Giulia – salirono
nella vecchia Seicento bianca della seconda.
«Sono così felice che non
dormirò fino a dopodomani» esclamò
estatica Vera mentre si allacciava la cintura di sicurezza.
«Anche i quattro caffè che
abbiamo bevuto nell’attesa hanno la loro colpa»
ridacchiò Noemi, imitando Vera prima di mettere in moto.
Mentre Noemi si immetteva nelle strade deserte,
Vera prese il proprio cellulare e quello dell’amica e
inviò due messaggi identici ai rispettivi genitori.
«Ho detto che saremo a casa tra una mezz’ora,
così possiamo andare tranquille e non si
preoccupano».
«Ben fatto» approvò
l’altra.
Avevano imboccato la Tiburtina; erano ormai vicino
casa e parlavano ancora di Giulia, quando un SUV che avanzava nella
direzione opposta imboccò la loro carreggiata contromano
attraverso un varco nel guardrail di cemento e le colpì in
pieno.
L’ultima cosa che Vera vide furono i
fari che le andavano incontro.
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Vera guardò
la rampa di scale che portava al pianterreno della casa in cui era
cresciuta: sapeva che erano solo diciotto gradini
perché li aveva contati centinaia di volte, quando era
bambina, ma adesso le sembravano mille. Si aggrappò
alla balaustra, prese un respiro profondo e mise il piede destro sul
primo gradino; quando vi posò anche il sinistro, il tonfo
sordo che risuonò la fece sobbalzare.
Con lentezza estenuante Vera scese gli altri
diciassette gradini, ripensando a quando li saltava tre a tre:
nove mesi che le sembravano lontani come il suo quinto compleanno.
La ragazza arrivò in cucina dove ad
aspettarla c’era soltanto Fabiola, sua madre, intenta a
guardare il telegiornale del mattino.
«Vera». La donna
scattò in piedi e corse ai fornelli.«Cosa vuoi per
colazione?»
«Basta il caffè,
ma’» rispose Vera. Si strofinò gli
occhi, ancora mezzo addormentata. «Devo andare in
ufficio».
«Torni per pranzo? Vuoi che ti prepari
qualcosa di speciale?» chiese ancora sua madre.
«No. Vado direttamente da Giovanna, oggi
pomeriggio sono di turno in palestra» grugnì Vera.
Fabiola riempì quei minuti di
chiacchiere sebbene sapesse che sua figlia, come lei, durante la
colazione desiderava il silenzio assoluto. Vera la lasciò
fare: si sbrigò a finire il caffè e, dopo aver
preso le proprie cose, salì sulla propria auto nuova e
partì verso Roma.
Quando arrivò
all’università il suo umore già
precario precipitò verso terra: un incidente sul Raccordo
l’aveva fatta arrivare mezz’ora più
tardi del solito, e lo spazio antistante le porte della
facoltà era gremito di studenti intenti a chiacchierare o a
fumare una sigaretta prima di andare in aula per la prima lezione del
mattino.
A denti stretti, Vera si sistemò la
borsa a tracolla e si aggrappò al corrimano per la seconda
volta in quella giornata: arrancò faticosamente su per la
scalinata, consapevole degli sguardi curiosi che gli studenti le
stavano lanciando e delle risatine di alcuni di loro. Ogni gradino che
si lasciava alla spalle, invece di renderla più calma,
serviva solo ad aumentare la rabbia e la frustrazione che le si
agitavano dentro: gli occhi che analizzavano la sua andatura
claudicante erano sempre più numerosi, sempre
più concentrati su di lei.
Quando finalmente arrivò in cima, Vera
si guardò intorno: un centinaio di studenti,
sparpagliati tra le scale e lo spiazzo coperto davanti
all’ingresso, la guardavano con vari gradi di sfacciataggine.
Una di loro, una biondina vestita di tutto punto e truccata alla
perfezione, indicò apertamente le gambe di Vera e
bisbigliò qualcosa ai propri vicini.
«Be’? Che hai da guardare,
perfettina? Non hai mai visto nessuno con problemi di
deambulazione?» abbaiò Vera, guardando
fisso la ragazza. La bionda arrossì fino alla punta dei
capelli e riprese a bisbigliare furiosamente con alcuni dei
suoi compagni. Vera, invece, lanciò uno sguardo di sfida
tutt’intorno: gli altri distolsero il proprio e lei
zoppicò verso le porte e all’interno
della facoltà, canticchiando tra i denti mentre le sue dita
tormentavano la cinghia della borsa. Incrociò alcuni
dipendenti della facoltà e rispose con un cenno del capo ai
loro saluti mormorati, lieta che, almeno loro, distogliessero lo
sguardo da lei invece di osservare la sua andatura incerta.
Appena salì sull’ascensore,
Vera si appoggiò alla parete di metallo e prese un respiro
profondo: era quasi arrivata, e doveva schiacciare in fondo
alla mente tutto quel nervosismo se voleva sperare di concentrarsi sul
lavoro.
Giunta al terzo piano, la giovane donna
uscì dall’ascensore e si diresse lenta ma sicura
verso la quarta porta sulla sinistra, a cui bussò
due volte prima di entrare.
«Buongiorno, professore»
salutò mentre raggiungeva la propria scrivania.
Franco Maesani, professore di Economia
Internazionale, le sorrise.
«Buongiorno, signorina
Nicolini!» rispose. «Siamo arrivate un
po’ più tardi del solito, stamattina. Va
tutto bene?»
La ragazza non poté fare a meno di
sbuffare. «Niente di importante, professore: solo uno dei
tanti incidenti sul Raccordo. Sono rimasta bloccata per
mezz’ora!»
Maesani si accarezzò i folti baffi con
espressione comprensiva. «Tocca a tutti almeno una volta a
settimana: non si scappa. Ma adesso parliamo di cose serie: ha
già fatto colazione? Posso offrirle un
caffè?»
Vera gli sorrise suo malgrado. Quando, due mesi e
mezzo prima, si era messa alla ricerca di un lavoro, il suo ex
professore di francese dell’università
l’aveva subito indirizzata verso il professor Maesani, che
stava cercando qualcuno che rivedesse e traducesse gli articoli che
scriveva per numerose riviste specializzate internazionali: con la sua
laurea in Mediazione Linguistica e la buona parola messa dal professor
Gaillard, aveva ottenuto subito il posto, pur non essendo convinta che
fosse adatto a lei. Il professor Maesani, però, si era
dimostrato da subito una persona affabile e un datore di lavoro niente
affatto severo, sempre pronto a riconoscere i suoi meriti e a
metterla a suo agio; e se all’inizio Vera aveva avuto il
sospetto che l’uomo fosse gentile con lei solo per un
profondo senso di compassione, si era dovuta ricredere quando
lui non aveva mai fatto il minimo cenno ai suoi problemi fisici e aveva
visto che si comportava alla stessa maniera con tutti.
«La ringrazio, professore, ma ho
già fatto colazione» rispose. «Allora:
di cosa parlerà il suo prossimo articolo?»
***
Al comando dei carabinieri di Tor Sapienza la confusione regnava
sovrana.
Il maresciallo Luciano Testa, che dirigeva la
caserma, avrebbe tanto voluto nascondersi il volto tra le mani
finché il caos non fosse passato: purtroppo, il suo grado
gli imponeva un certo contegno.
Davanti alla sua scrivania, l’appuntato
Ivan Zarlatti e il brigadiere Vittorio Valenti – ultimo
acquisto del comando e vecchia conoscenza del maresciallo –
si scrutavano torvi, trattenendosi a stento dal ricominciare a
ringhiarsi contro.
«Cerchiamo di mettere in chiaro una cosa
che dovreste già sapere entrambi» disse il
maresciallo a denti stretti. «Io non tollero per
nessun motivo che i miei sottoposti attacchino briga tra di loro.
Zarlatti, tu sei un ottimo agente e mi dispiacerebbe dover rovinare il
tuo stato di servizio immacolato con una nota di biasimo, ma se
accadrà di nuovo una cosa simile, sarò
costretto a farlo. Puoi andare; parlerò con Valenti
da solo» aggiunse, scoccando uno sguardo di rimprovero
all’interessato.
Zarlatti se ne andò, non senza aver
lanciato un’occhiata perfida al collega. Collega che, se
avesse potuto, in quel momento gli occhi glieli avrebbe cavati.
La porta si richiuse con uno scatto soffocato.
«Spiegami che t’è
preso, Valenti» esordì Luciano con voce dura.
«Sei stato trasferito qui da poco proprio per problemi
disciplinari: problemi che, ti ricordo, ti sono costati la
degradazione da maresciallo ordinario a brigadiere. Vuoi
già metterti nei guai un’altra volta?»
Vittorio Incrociò le braccia al petto.
«Senti, Luciano...»
«Maresciallo Testa, quando siamo in
servizio» lo corresse secco l’altro.
«Maresciallo Testa»
sbuffò Vittorio, incurante del modo in cui gli occhi del suo
superiore si assottigliarono. «A me quello Zarlatti sta sullo
stomaco: si è messo a fare battute proprio sul mio essere
stato degradato, ed è stato così stupido da farlo
davanti a me».
«Solo che lui può permettersi
di ricevere un richiamo: tu, invece, no!». Luciano si
passò una mano sugli occhi. «Vittorio, e dai,
ragiona: sto cercando di aiutarti, in caso non l’avessi
capito!»
L’altro scrollò le spalle con
aria indifferente.
«Devi stare tranquillo e buono per un
bel po’, oppure rischi che ti caccino a pedate
dall'Arma» proseguì Luciano.
«Credevo che con l’età ti saresti
calmato, invece sei ancora l’irascibile scalmanato
che ho dovuto addestrare vent’anni fa. Hai
quarant’anni… non ti sembra arrivato il
momento di comportarti un po’ meglio? Almeno un
po’?»
«Me lo dice sempre anche
Emanuela» rispose Vittorio con una smorfia. «Ma io
sono fatto così».
«Eppure non ti farebbe affatto male,
dare ascolto a tua moglie» Luciano lo guardò con
attenzione. «A proposito,
quand’è che ti raggiungerà? Capisco che
lasciare Milano non le faccia piacere, ma ormai sei accampato
qui in caserma da quasi un mese».
«Dice che ha da fare al lavoro, e che
non sa quando otterrà il trasferimento». Vittorio
sbuffò di nuovo. «Secondo me non l’ha
neanche chiesto: quando le ho detto che mi avevano degradato e
che sarei stato rispedito a Roma, mi ha buttato fuori di casa e non mi
ha parlato per una settimana».
«Capisco». L’altro
si grattò il mento. «Vuoi venire a cena
da me, stasera? Ad Anna farebbe piacere rivederti, e anche ai
ragazzi».
«Magari un’altra
volta». Vittorio diede uno sguardo all’orologio.
«Devo andare; non voglio farmi nemico anche
Pastore».
«È la prima cosa sensata che
ti ho sentito da quando sei tornato» sogghignò
Luciano. «Oggi vi toccano i blocchi stradali:
divertitevi!»
Vittorio grugnì infastidito dalla porta.
***
Vittorio e Claudio Pastore, il collega con cui faceva coppia ormai da
un paio di settimane, erano fermi sul bordo della carreggiata e
guardavano le macchine scorrere davanti a loro ormai da ore;
ne avevano fermate una decina, e adesso smaniavano per un panino.
«Valenti, se ti faccio una domanda,
provi a mordermi come hai fatto prima con Zarlatti?»
domandò Claudio.
«Basta che non mi provochi» lo
avvertì Vittorio.
L’altro alzò le mani in un
gesto di pace. «Non provoco. Vorrei soltanto sapere che hai
combinato per essere degradato e spedito a centinaia di
chilometri da casa e in un comando di periferia».
Vittorio sbuffò come un toro
inferocito. «È stata una somma di cose»
ammise controvoglia. «Ho fatto a pugni con un paio di fermati
che opponevano resistenza, preso a parolacce tre o quattro stronzi
durante degli interventi per liti domestiche e per coronare il tutto ho
detto al capo del mio reparto che è un imbecille con meno
cervello di un acaro della polvere».
Il suo collega rimase in silenzio per qualche
istante; poi, incapace di trattenersi, scoppiò a
ridere con tanta veemenza da scuotersi tutto, e fu costretto
ad appoggiarsi alla macchina per non cadere.
«Oddio, ci credo che t’hanno
cacciato!» sghignazzò esilarato. Si
asciugò le lacrime di divertimento che gli colavano
sulle guance. «Ma dai, te la sei proprio cercata…
non dico il resto, può capitare di perdere le
staffe anche se non dovremmo lasciarci andare così, ma
almeno gli insulti al tuo superiore te li potevi risparmiare!»
«Non è colpa mia se
è un deficiente» si difese Vittorio. «Ha
minacciato di sospendermi dopo che avevo fermato un tizio per rissa
perché aveva un paio di lividi sul braccio e quando siamo
arrivati in caserma ha iniziato a dire che glieli avevo fatti io. Ma
dai...»
Claudio scosse la testa e rientrò nella
volante. «Forse hai scelto il mestiere sbagliato,
Valenti. Sarai pure bravo, ma mi sa che ti manca
l’autocontrollo».
«Certe volte l’autocontrollo
non serve a niente» decretò l’altro.
«Se lo dici tu» lo
liquidò il collega. «Torniamo a lavorare che
è meglio».
I due rimasero in silenzio per un po’,
Claudio a ricontrollare i dati degli automobilisti che avevano fermato,
Vittorio con gli occhi fissi sulla strada, a scrutare le automobili di
passaggio: ce n’era una sfilza in arrivo,
praticamente tutte bianche, grigie o nere. Soltanto una
spiccava nel mucchio: la Up! rosso fuoco attirò la
sua attenzione e, presa la paletta, Vittorio la agitò in
direzione dell’auto, che mise la freccia e accostò.
Il carabiniere si avvicinò al
finestrino abbassato.
«Agente» mugugnò la
donna alla guida. No, non donna: ragazza. A occhio doveva avere una
quindicina d’anni meno di lui, considerò Vittorio:
il trucco leggero e la treccia scura mezzo disfatta la
facevano sembrare ancora più giovane, e il broncio che le
piegava le labbra morbide non aiutava.
«Patente e libretto» disse
Vittorio, annoiato: aveva sempre detestato fare controlli casuali agli
automobilisti, e di certo non avrebbe cambiato idea quel giorno.
Sbuffando e sbattendo, Vera iniziò a
frugare nella borsa e nel portafogli; quando ebbe trovato
tutto, ficcò i documenti richiesti nella mano di lui con
malagrazia.
Vittorio si accigliò. Uno dei motivi
per cui proprio non sopportava quel genere d’incarico era
proprio la scortesia di tanti automobilisti, che quando venivano
fermati prendevano la cosa come un affronto personale invece di capire
che lui stava soltanto facendo il proprio la voro.
«Siamo nervosi?» la
stuzzicò con freddezza. Il volto di Vera, abitualmente
pallido, si tinse di rosso, e Vittorio si accorse di come la ragazza si
stesse mordendo la lingua per non replicare. «Questo
è un semplice controllo: se non ha niente da nascondere, non
c’è motivo di essere agitata».
«Se è un semplice controllo,
allora non c’è neanche motivo di essere tanto
lenti» replicò lei tra i denti: quel carabiniere
dagli occhi scuri e i lineamenti decisi la stava fissando con
un’espressione provocatoria che non le piaceva per
niente, e abituata com’era a rispondere sempre a tono, le
riusciva difficile trattenersi dal mandarlo al diavolo.
Gli occhi di Vittorio mandarono un lampo
pericoloso.
«Scenda dall’auto»
sibilò.
Vera provò il desiderio di nascondersi
il volto tra le mani: a quell’ora sarebbe già
dovuta essere in palestra per aiutare Giovanna e quel
prepotente, evidentemente convinto di poter fare quello che voleva per
il solo fatto d’indossare una divisa, le stava facendo
perdere un mucchio di tempo.
Tuttavia, Vera sapeva di non potersi sottrarre.
Con una smorfia irritata aprì la portiera; mise fuori la
gamba sinistra con cautela, poi la destra e, spingendo le mani sul
sedile con studiata naturalezza, riuscì ad alzarsi senza
troppa fatica.
A Vittorio, però, la manovra della
ragazza non sfuggì: socchiuse gli occhi e la
scrutò con più attenzione, registrandone i
movimenti rigidi e incerti.
Se Vera avesse saputo che il carabiniere aveva
notato tutto questo, avrebbe pianto di rabbia: per una come lei, che
era stata una ginnasta per tutta la vita, non riuscire a spostarsi che
con movimenti goffi e scoordinati era un’agonia. Ogni passo,
per quanto piccolo o insignificante, le ricordava che non era
più l’atleta dai gesti leggeri e aggraziati, ma
soltanto una zoppa rancorosa.
L’uomo non immaginava affatto cosa
stesse passando nella testa di Vera: era troppo occupato a
studiarne ogni movimento ed espressione.
«Sei ubriaca?» le chiese a
bruciapelo.
Gli occhi di lei si sgranarono e il suo intero
volto si modellò in un’espressione di profonda
offesa.
«No!» rispose con veemenza.
«Guarda che se sei ubriaca è
meglio se lo dici subito» insisté Vittorio, per
nulla persuaso dalla risposta della ragazza.
Vera gli rivolse uno sguardo cattivo.
«Non. Sono. Ubriaca» scandì
rabbiosamente.
Vittorio inarcò le sopracciglia.
«Allora non ti dispiacerà dimostrarlo».
Indicò la linea bianca che delimitava la carreggiata.
«Cammina lungo la linea».
Stavolta Vera sentì davvero le lacrime
salirle agli occhi. Nove mesi prima, su quella linea ci avrebbe fatto
le piroette senza sgarrare di un centimetro; adesso sarebbe stata
un’impresa anche solo arrivarci. La ragazza non
poté fare a meno di maledire la propria
incapacità di tenere la bocca chiusa: se fosse stata zitta,
a quell’ora sarebbe già stata di nuovo in marcia
verso la palestra.
Troppo orgogliosa per dire qualcosa, Vera
arrancò verso la linea bianca tentando, con scarso successo,
di minimizzare la propria andatura claudicante. Una volta
lì, guardò la striscia di vernice allo stesso
modo in cui si guarda un enorme, spaventoso mostro; poi prese un
respiro profondo e, prima di poterci ripensare, iniziò a
camminare.
Vera non aveva bisogno di guardare il carabiniere
sconosciuto per sapere di stare facendo un pessimo lavoro: la gamba
destra, su cui s’intestardiva a poggiare tutto il proprio
peso, le faceva male già da un po’, e la gamba
sinistra si alternava tra il dolore e l’intorpidimento. Con
uno sforzo inimmaginabile ondeggiò per un paio di metri
prima di abbandonarsi pesante mente contro il guardrail.
«Per fortuna non sei ubriaca»
commentò sarcastico Vittorio.
«Ti ho detto che sono sobria!»
abbaiò Vera.
Il tono di lei sarebbe stato sufficiente a far
saltare i nervi di Vittorio anche senza quella che considerava
un’ostinazione del tutto fuori luogo nel continuare a
mentire. Soffocando la voglia di urlarle contro, Vittorio
andò dal collega rimasto nella volante e si fece dare
l’etilometro; tornato da Vera, gliene
ficcò l’estremità in bocca con un gesto
brusco.
«Soffia, così la facciamo
finita» borbottò.
Scoccandogli uno sguardo che gli augurava una
morte lenta e dolorosa, Vera soffiò. Per qualche momento
l’apparecchio restò muto, analizzando i dati, poi
trillò. Vittorio guardò il piccolo schermo, e
quasi gli venne un colpo: sul display campeggiava uno zero bello tondo.
«Non è possibile»
mormorò incredulo, più a se stesso che alla
ragazza. Il suo cervello si affannò alla ricerca di
una risposta alternativa, una qualsiasi, perché era chiaro
che qualcosa che non andava doveva esserci, se quella ragazza
maleducata ma giovane e, stando all’etilometro, sobria, non
riusciva a fare neanche due passi di seguito senza barcollare.
«Se abbiamo finito, io me ne
andrei» disse gelida Vera, zoppicando verso la propria
macchina. Desiderava talmente andarsene di lì, da
gettare alle ortiche la prudenza con cui ormai faceva ogni passo; si
mosse troppo in fretta; una fitta lancinante le risalì la
coscia sinistra fino all’anca, la ragazza perse
l’equilibrio e cadde sull’asfalto, proprio ai piedi
del carabiniere, che la fissò senza capire.
Vittorio si accovacciò e le strinse il
mento tra le dita per guardarla da vicino negli occhi scuri.
«Ma ti sei drogata?» le
chiese.
Per Vera, quella fu l’ultima goccia.
Quell’uomo arrogante e prepotente le aveva appena
fatto passare dei minuti d’inferno,
l’aveva accusata di essere ubriaca e adesso, pur di non
ammettere di averla giudicata male fin dall’inizio,
si stava convincendo del fatto che fosse drogata. Dopo il
terribile incidente che meno di un anno prima le aveva cambiato
irrevocabilmente la vita, sentire qualcuno insinuare che lei
fosse come il bastardo che aveva causato tutto quel dolore era
insopportabile.
«Sei uno stupido coglione!»
esplose Vera, con tanta rabbia che d’istinto Vittorio la
lasciò andare e balzò indietro. «Solo
perché non riesco a camminare bene hai deciso che devo
essermi fatta di qualcosa? Sei proprio un povero
idiota!»
Il volto di Vittorio divenne così rosso
da fare concorrenza a quello di Vera.
«Purtroppo per te sono anche un
carabiniere, e questo è oltraggio a pubblico
ufficiale» disse mortifero. La prese per le braccia e la
strattonò, rimettendola in piedi; Vera si morse la lingua
per non lasciarsi sfuggire un’esclamazione di dolore. Senza
fare una piega, Vittorio l’ammanettò.
«Adesso vieni in caserma con me».
«Fammi almeno prendere la borsa e
chiudere la mia macchina, brutto stronzo!» tuonò
Vera, resa ancor più feroce dall’atteggiamento di
lui.
Nel sentire il trambusto, Claudio li raggiunse di
corsa.
«Valenti, ma che è
successo?» chiese sgomento: Vittorio aveva le braccia tese
per tenere a distanza la ragazza, che si dimenava e digrignava i denti
nel chiaro tentativo di raggiungere una qualsiasi parte
dell’uomo per morderlo.
«Niente che non si risolva con un
giretto in caserma» ringhiò l’altro.
«Prendi la borsa di questa pazza e chiudile la macchina: non
mi va di sentire lagne se gliela rubano».
***
Seduta su una sedia di plastica in un corridoio deserto della caserma
di Tor Sapienza, Vera schiumava di rabbia. Non solo era
irrimediabilmente in ritardo e bloccata nell'ultimo posto al mondo in
cui voleva stare, ma, come se non bastasse, l’agente Valenti
non le aveva tolto le manette, e la ragazza sentiva il proprio
cellulare squillare senza sosta nella borsa accanto a lei senza poterlo
raggiungere.
Mentre Vera si sforzava di elaborare un modo
creativo di ammazzarlo e farla franca, Vittorio si trovava
nell’ufficio di Luciano.
«Claudio mi ha detto che il vostro turno
di pattuglia è stato movimentato»
commentò Luciano, intento a sbuffare su una pila di
rapporti. «Sei tornato solo da un mese e già
arresti gli automobilisti?»
Vittorio sbuffò a sua volta.
«Quella ragazzina mi ha insultato. In più,
è evidente che sia strafatta, anche se non so di
cosa: non riesce a camminare dritta neanche sforzandosi».
«Una ragazzina?». Luciano si
lasciò andare per un momento contro lo schienale della
poltrona, poi districò la sua imponente mole
dall’esiguo spazio tra la sedia e la scrivania.
«Fammela un po’ vedere».
Vittorio lo precedette, aprì la porta e
indicò la piccola sala d’attesa: era deserta,
fatta eccezione per Vera che mugugnava tra sé a
occhi chiusi.
Luciano fissò la ragazza per alcuni
lunghi momenti con espressione indecifrabile, poi
sospirò e tornò indietro, facendo cenno
all’altro di seguirlo. Quando fu di nuovo seduto nella
propria poltrona, il maresciallo sospirò una
seconda volta.
«Vittorio» esordì,
«adesso ti dirò cosa devi fare, e mi aspetto che
tu lo faccia senza discutere». Vittorio
annuì. «Vai da quella ragazza, falle le tue scuse
per lo spiacevole equivoco e riaccompagnala alla sua auto».
L’altro uomo, che si aspettava una
risposta completamente diversa, assunse un’espressione sempre
più incredula a mano a mano che Luciano andava avanti.
Quando il maresciallo tacque, si era ripreso abbastanza da
fare esattamente quello che gli era stato detto di non fare:
discutere quella decisione.
«Hai capito che quella mi ha insultato e
che sospetto sia sotto l’effetto di droghe?»
ripeté.
«Non è drogata»
rispose semplicemente il più vecchio. «Quanto agli
insulti, che ti avrà mai detto perché tu
decidessi di prendertela tanto?»
«Mi ha chiamato “stupido
coglione”».
Inaspettatamente, Luciano scoppiò in
una breve, roca risata.
«Allora non è un insulto, ma
solo la verità» commentò divertito.
«Ho perso il conto delle volte che anch'io ti ho chiamato
così!»
«Ma fai sul serio?» gli chiese
Vittorio, offeso e stupito.
Il maresciallo tornò serio
all’istante.
«Sì, sono serio»
rispose duro. «E in caso non l’avessi capito, il
mio era un ordine».
Vittorio strinse i denti, ma non
replicò: si può discutere con un amico, non con
un superiore.
Di malagrazia, il più giovane
tornò in corridoio e raggiunse Vera con poche, ampie
falcate; lei, che sentendo i suoi passi aveva riaperto gli occhi, lo
fissò arcigna, in attesa.
«Alzati» disse scontento
l’uomo; non appena Vera riuscì a rimettersi in
piedi, le tolse le manette e le restituì i
documenti. «Secondo il mio capo, oltre a lasciarti andare via
senza neanche farti un test antidroga, dovrei anche scusarmi e
riportarti alla tua macchina, ma non ho intenzione di
farlo» disse, cristallino. Affilò lo sguardo e
abbassò la voce di un paio di ottave. «Luciano
Testa è mio amico da vent’anni ed è un
uomo onesto: io non lo
so, come sei riuscita a raggirarlo tanto da farlo pendere
dalle tue labbra al punto da far sì che ti difenda, ma ti
conviene stare alla larga da lui, o te la farò
pagare».
Vera, che era riuscita a calmarsi appena un
po’, a quelle nuove accuse s’infiammò di
rabbia più rapidamente di prima.
«Sei ancora più stupido di
quanto pensassi, e lo credevo impossibile» sibilò.
«Il maresciallo Testa – sì, idiota, so
perfettamente chi è il tuo superiore» disse
beffarda in risposta all’espressione sorpresa
dell’uomo, «ti ha detto di lasciarmi andare via non
perché sono la sua amante, lo ricatto o qualsiasi altro
stupido motivo ti sia venuto in mente ma solo
perché, a differenza tua, lui non giudica le persone in base
a un’idea tutta personale costruita in cinque minuti su basi
sbagliate» proseguì, senza mai prendere fiato: il
suo volto divenne di un’allarmante sfumatura
cremisi, ma Vera non si fermò. «Lui sa che non sono
una tossica e che per nessun motivo prenderei mai quella
merda, e che di sicuro non mi metterei mai alla guida ubriaca:
sarebbe un insulto a tutto quello che è successo,
alle difficoltà, al dolore, e soprattutto uno schiaffo a me
stessa».
Vittorio la fissò con le sopracciglia
inarcate: non riusciva più a seguire quel discorso
delirante, ma provava un fascino bizzarro per quel torrente
d’informazioni che la ragazza stava sputando.
«Lo sai che sembri esattamente una
persona sotto l’effetto di sostanze stupefacenti?»
commentò.
Vera gli rivolse uno sguardo disgustato e si
rimise la borsa a tracolla.
«Chiunque tu sia, sei proprio un
imbecille senza cervello, ed è strano: ero convinta che per
entrare nelle Forze Armate bisognasse superare dei test psicologici, ma
a quanto pare hanno aperto le porte a cani e porci. E per la cronaca,
non ho bisogno che mi accompagni: preferirei tornare alla mia macchina
strisciando sui gomiti per tutta la strada, piuttosto che accettare
qualcosa da te» sputò con disprezzo.
Con un misto di fastidio e ammirazione, Vittorio
guardò Vera uscire dalla caserma e avviarsi
zoppicando verso la fermata dell’autobus più
vicina. Scosse la testa tra sé: quella ragazza era matta, ma
in un modo che oltre a irritarlo, scoprì in quel momento, lo
divertiva anche un po’.
Vera intanto fumava ancora di rabbia; non aveva
fatto cinque passi oltre la soglia dell’edificio che
già aveva il cellulare in mano. Si affrettò a
chiamare Giovanna per scusarsi, poi i propri genitori: sapeva
che dovevano essersi spaventati come la notte in cui la sua migliore
amica aveva partorito, e voleva rassicurarli di stare bene il
prima possibile.
Per ultimo fece proprio il numero di Giulia:
avviò la chiamata, e la voce dell’altra esplose a
metà del primo squillo.
« Vera!
Dio, ma dov’eri finita? Eravamo terrorizzati!»
gridò la donna.
Vera provò a rispondere, ma
sentì altre urla in sottofondo: Tiziano, che considerava un
vero e proprio cognato, doveva essere rientrato prima dal lavoro, e
stava strillando a tutto spiano.
«Metti il vivavoce, Giù,
così mi sente anche quel pazzo di tuo marito»
sbuffò. Un pigolio acuto le risuonò nelle
orecchie. «Tizià, Giù, sto bene. Prima
non ho potuto rispondere perché ero in caserma».
« In
caserma? A fare che?» domandò subito
Tiziano.
Vera sbuffò per l’ennesima
volta. «Ma niente, un coglione di carabiniere mi ha fermata e
ci ho litigato, quindi mi ha portata in caserma. Ammanettata,
oltretutto. Ma ti rendi conto?»
« Vuoi
che lo ammazzi?» s’informò
l’uomo in tono zelante. Vera scoppiò a ridere.
«Hai una figlia da crescere,
Tizià: conserva tutta questa energia per quando Ludovica
sarà grande e inizierà a uscire con i
ragazzi!»
« Lulù
non uscirà mai con i maschi»
decretò serissimo Tiziano.
«Credici» sogghignò
Vera. «Comunque è tutto a posto: questo cretino
sta al comando di Tor Sapienza e il maresciallo Testa gli ha detto di
lasciarmi andare via. Quindi ho solo perso due ore della mia
giornata».
« L’importante
è che tu stia bene» disse Giulia,
sollevata. « Quando
passi da noi? Lulù ha voglia di stare un po’ con
la sua zia preferita, io di spettegolare con la mia migliore amica e
Tiziano ha bisogno di qualcuno che ascolti i suoi sproloqui sul calcio».
Vera sorrise suo malgrado al pensiero di Ludovica.
«Sabato? A che ora vi va bene?»
« Quando
vuoi tu, Vè: mi casa es su casa»
rispose dolcemente Giulia.
L’altra si mise quasi a piangere: era
stata Noemi ad attaccare loro l’abitudine a usare quella
frase.
«A sabato» salutò
in fretta.
Solo quando ebbe chiuso la chiamata si concesse di
scoppiare in lacrime: pianse per cinque minuti interi, scossa dai
singhiozzi, poi si asciugò gli occhi con un fazzoletto e
riprese a camminare verso la fermata dell’autobus,
più lenta e stanca di prima.
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
Vera aveva dimenticato
in fretta lo spiacevole incontro con quel carabiniere che era riuscita
a farla esplodere in soli dieci minuti: il lavoro per il professor
Maesani e gli impegni in palestra l’avevano tenuta occupata,
né lei desiderava impiegare il proprio tempo ripensando a
quell’episodio.
Tiziano, a differenza sua, sembrava aver occupato
ogni momento libero per insultare l’agente Valenti.
«Fa’ qualcosa» disse
esasperata Giulia quando Vera arrivò a casa loro quel sabato
mattina. «Tiziano continua a rampognare contro il carabiniere
che ti ha fermata l’altro giorno e davvero, non
voglio finire in carcere per aver ucciso mio marito, ma se continua
così, è proprio quello che
succederà!»
«Dai, Giù,
rilassati» tentò di rabbonirla l’altra,
scompigliandole i capelli ramati. «Adesso ci penso
io… ma non prima di aver visto la mia nipotina.
Lulù, dove sei? Vieni a salutare la zia!»
La piccola Ludovica arrivò, gattonando
veloce; Giulia la sollevò da terra e la passò a
Vera, che sorrise alla bambina.
Tiziano arrivò nella scia di sua
figlia. «Ohi, Vè! Ciao!». Le
stampò due rapidi baci sulle guance prima di riprendersi la
bambina. «Ridammi mia figlia: sai che non riesco a staccarmi
da lei!»
Vera sorrise indulgente: Tiziano poteva inventarsi
tutte le panzane che voleva, ma lei sapeva comunque che erano solo
scuse per impedire che si stancasse. Non che avesse intenzione di
protestare: le era già difficile camminare senza portare dei
pesi, e pensare di spostarsi tenendo in braccio Ludovica era pura
fantascienza, se non altro perché non avrebbe mai corso il
rischio di cadere e trascinare la piccolina con sé.
«Sopportalo ancora per un po’,
tesoro» disse a Ludovica. «Tanto tra una quindicina
d’anni inizierai a uscire con i ragazzi, e a quel punto tuo
padre avrà bisogno dei ricordi di questi giorni felici in
cui era l’unico uomo della tua vita!»
Giulia scoppiò in una risata fragorosa,
divertita tanto dalle parole dell’amica quanto
dall’espressione offesa e terrorizzata di suo marito.
«Vado a controllare il pranzo»
ridacchiò all’indirizzo degli altri due prima di
eclissarsi in cucina.
Tiziano fece strada verso il salotto.
«Vè, ti avverto: ho preso i
biglietti per la partita che ci sarà la settimana
prossima» annunciò, mettendo Ludovica sul
tappeto. «Di’ a tuo padre di tenersi libero, e lo
stesso vale per te».
Vera alzò gli occhi al cielo.
«Oh, ma dai, Tizià… come faccio a
venire allo stadio?»
L’uomo le rivolse una smorfia saccente.
«Non trovare scuse: è di sabato sera, e te lo sto
dicendo in anticipo proprio perché tu sappia di non
dover prendere impegni per quel giorno».
Lei scosse la testa e si batté la mano
sulla coscia sinistra. «Lo sai che intendo» disse
desolata.
«Scuse» ribadì
Tiziano mentre passava RincoRino a Ludovica, che lo strinse felice tra
le braccia: gliel’aveva comprato Vera il giorno in cui era
nata, e lei stava letteralmente crescendo con quel rinoceronte
di pezza. «Lo sappiamo tutti e due quanto ti piaccia il
calcio. Dai, Vè, se puoi guardare la partita a casa, puoi
guardarla anche allo stadio! Non dire di no!»
Vera si passò le dita sulla fronte e sorrise tra
sé.
«Dio, se ripenso a quando ci siamo
conosciuti» sbuffò divertita. «Due pazzi
di Roma che si incontrano per la prima volta nella curva
Scirea…»
«Tre pazzi» la corresse
Tiziano. «C’era anche tuo padre: ricordo ancora la
discussione di mezz’ora su quale sia il miglior giocatore
nella storia della Juve, e il gol più bello!»
La donna annuì e sorrise di nuovo.
«Sono passati già otto anni, ci puoi
credere?»
«Otto anni» ripeté
lui in tono sognante. «Ne avevo appena compiuti venti, e
adesso ne ho quasi trenta: quante cose sono
cambiate…»
«Già»
mormorò tristemente Vera.
Tiziano tornò serio. «Scusa,
Vè» disse dispiaciuto. «Io…
per un attimo, mi sono dimenticato».
Lei si strinse nelle spalle. «Forse mi
ferisce di più il fatto che te ne sia scordato solo per un
attimo» rispose. «A volte vorrei soltanto che tutti
dimenticassero quello che è successo».
«Mi sa che vuoi
l’impossibile» commentò Tiziano, sedendo
sul divano; Vera si buttò poco lontano, rimbalzò
sui cuscini mentre faceva smorfie buffe a Ludovica e la bambina rise.
«Ma non cambiare discorso. Tu devi venire a
vedere la partita con me e tuo padre: era il nostro rito sacro, e mi
manca. E se provi a sfuggire» aggiunse in tono terribilmente
serio, «chiamerò Eugenio e gli
dirò che stai rinnegando la fede di una vita».
Vera trasalì a quella minaccia: dire a
suo padre che lei rinnegava il calcio equivaleva a firmare la
sua condanna a morte. Era cresciuta passando le domeniche seduta sul
divano insieme a lui; dalla sua voce aveva imparato i nomi dei
campioni del passato e sentito descrivere i gol entrati nella storia.
Insieme avevano esultato per ogni vittoria, imprecato per ogni
sconfitta; avevano commentato con spirito critico ogni azione
della loro squadra del cuore, e l’aggiunta di
Tiziano al loro duo non aveva fatto che esaltare ancora di
più la loro passione.
«Va be’, ho capito: mi
arrendo» bofonchiò sconfitta.
«Verrò allo stadio».
Il padrone di casa esultò a gran voce e
si complimentò con se stesso per le sue capacità
persuasive. Vera non se la sentì di fargli notare
che, più che di persuasione, s’era trattato di
coercizione: Tiziano era troppo felice.
Vera si chinò verso la nipote.
«Impara, Ludovica: gli uomini sono dei gran rompiscatole, ma
a volte basta poco per farli felici e riconquistare la
tranquillità».
Ludovica ridacchiò, pur non avendo
capito niente del discorsetto della zia.
******
Nella propria stanza in caserma, Vittorio sbatteva scarpe e vestiti da
una parte all’altra, senza mai smettere di sbuffare. Era
stanco di vivere lì: per diciassette anni aveva goduto
dell'indipendenza derivante dall’avere una casa
tutta sua, e stare di nuovo in pianta stabile al comando lo faceva
sentire come se fosse tornato ai tempi dell’addestramento.
Questo e la rude benevolenza di Luciano, che sembrava deciso a tentare
di rimetterlo in riga come aveva fatto vent’anni
prima.
«Valenti, ti si sente dagli
spogliatoi» lo informò Claudio, mettendo dentro la
testa senza neanche premurarsi di bussare.
«Sai che mi frega»
replicò l’altro mentre lanciava un paio di fruste
scarpe da jogging all’altro lato della stanza.
Il suo collega alzò gli occhi al cielo.
«Tu la disciplina militare non sai proprio
cos’è» commentò.
«Datti una calmata: se il maresciallo sente il casino che
stai facendo, ti fa di nuovo shampoo, taglio e messa in
piega» ridacchiò mentre se ne andava.
«Grazie del consiglio non
richiesto!» gli urlò dietro Vittorio prima di
buttare tutti i vestiti che aveva tra le braccia in un mucchio
disordinato sul letto: all’improvviso si era reso conto del
caos che aveva creato e aveva deciso che era molto meglio uscire.
Mezz’ora più tardi, fedele a
quella decisione presa d’impulso, il carabiniere passeggiava
su Ponte Milvio con le mani affondate nelle tasche dei jeans e
osservava distratto i folti gruppi di adolescenti che affollavano il
posto insieme ad alcuni turisti e altre persone. Non sapeva neanche lui
perché avesse scelto di andare proprio lì: forse
gli ricordava gli anni turbolenti ma piacevoli che avevano preceduto
l’addestramento, o forse sperava di assorbire un
po’ della spensieratezza di quei ragazzi soltanto
passandogli accanto.
Stava camminando lungo uno dei muretti che
delimitavano il ponte quando scorse, isolata dagli altri, una ragazza
seduta sul muretto opposto, una decina di metri più avanti.
In altre occasioni questo non avrebbe attirato la sua
attenzione, ma il fatto che fosse seduta con le gambe fuori
dal parapetto, invece che rivolta verso la strada come tutti gli altri,
e il modo in cui si sporgeva, gli fecero scattare un campanello
d’allarme nel cervello.
Senza esitare, Vittorio le si avvicinò
con passi lunghi e rapidi, attento a non spaventarla per timore che
potesse buttarsi.
«Ohi, tu! Sul parapetto!»
chiamò con voce ferma. La ragazza non si mosse; Vittorio
fece un altro paio di passi, l’afferrò saldamente
per le braccia e la trascinò sul selciato senza troppe
cerimonie, sordo alle urla indignate che lei aveva lanciato non appena
si era sentita afferrare.
Quando la lasciò andare e lei si
voltò, Vittorio si scontrò con una faccia
furibonda e familiare.
«Di nuovo tu!»
sbottò irata Vera. Lo guardò malissimo.
«Si può sapere che vuoi da me?»
«Ma che volevi fare?»
replicò l’uomo, irritato come non mai, indicando
il parapetto. «Qualsiasi problema tu abbia,
suicidarsi non è mai la soluzione!»
Vera batté le palpebre più
volte mentre la comprensione si faceva strada sul suo volto.
«Credevi che volessi
buttarmi?» disse, incredula. «Allora eri tu lo
scemo che strillava, poco fa!». Sbuffò.
«Tutto questo casino solo perché stavo seduta con
le gambe in fuori? Te lo devo proprio dire: tu non stai bene. Non stai
bene per niente!»
«Quale imbecille si siede sul parapetto
di un ponte con le gambe di fuori?» insisté
mordace Vittorio. Quei pochi giorni trascorsi dal loro primo incontro
gli erano stati sufficienti a dimenticare il vago divertimento che
aveva provato: per lui, nulla poteva giustificare tutta
quell'aggressività immotivata.
«Magari uno che vuole guardare il
fiume?» replicò sarcastica la ragazza.
«E come mai di tutti quelli che stanno
guardando il Tevere, tu eri l’unica
seduta in modo da cadere alla minima perdita di equilibrio?»
ribatté l’uomo, per nulla pronto a cedere.
Vera alzò gli occhi al cielo,
esasperata. «Senti, coso...»
Lui la guardò male. «Ho un
nome: mi chiamo Vittorio».
«Sì, come ti pare»
sbuffò lei. «Allora, Vittorio, finiamo qui questa
conversazione: tanto io non cambierò idea e nemmeno tu lo
farai, quindi è inutile continuare a discutere».
Vittorio si accigliò. «Tu sei veramente una
ragazzina insopportabile, lo sai?»
«E tu sei un uomo detestabile»
replicò Vera senza fare una piega. Gli voltò le
spalle. «A mai più rivederci».
«Non sei un po’ troppo giovane
per essere già così acida?» le
gridò dietro Vittorio mentre lei si allontanava.
In risposta non ottenne che un gestaccio.
******
Vittorio trascorse i giorni seguenti in uno stato di grazia. Il lavoro
filava liscio come l’olio; non aveva più discusso
con nessun collega; persino Luciano sembrava nutrire la tenue
speranza che Vittorio stesse finalmente mettendo la testa a
posto. L’unica nota negativa erano i rapporti con sua moglie:
le rare occasioni in cui si sentivano per telefono, la conversazione
era tesa e monotematica. Ognuno domandava all’altro come
andasse la vita di tutti i giorni, senza interessarsi davvero alla
risposta; poi Vittorio le chiedeva quando avrebbe ottenuto il
trasferimento a Roma e a quel punto Emanuela o s’infuriava e
gli rinfacciava la colpa dell'essere a centinaia di chilometri
di distanza, dicendogli che non poteva pretendere che lei
mandasse all’aria la propria carriera solo per
affrettarsi a seguirlo, oppure ignorava completamente la
domanda e riagganciava in fretta con una scusa qualsiasi.
Per questo quando quel giovedì gli
comunicarono che due giorni dopo avrebbe prestato servizio
allo stadio, se ne rallegrò: la situazione con sua moglie
era così tesa da fargli desiderare qualcosa di diverso dal
solito servizio di pattuglia, qualcosa che fosse in grado di tenergli
occupata la mente.
La risposta di Vittorio a quella comunicazione fu
tanto entusiasta che Luciano stesso non poté fare a meno di
esserne contento: aveva l’impressione che Vittorio stesse
diventando ogni giorno più inquieto e difficile da tenere
sotto controllo, persino più di quando, giovane
allievo, aveva iniziato l’addestramento. Luciano
poteva solo intuire da dove provenisse tutta quella nuova
suscettibilità, ed era determinato a fare quanto in suo
potere per evitare che l’altro si facesse buttare fuori
dall’Arma.
******
Quel sabato pomeriggio il cielo invernale era coperto di nuvole,
abbastanza da far presagire un temporale; nonostante questo, la zona
dello stadio Olimpico era gremita dai tifosi pronti ad assistere a una
delle partite più sentite del campionato.
A dispetto di tutte le sue proteste solo una
settimana prima, a Vera erano bastati cinque minuti in quel
marasma per sentire l’antico entusiasmo risvegliarsi. Tenuta
sottobraccio da suo padre e da Tiziano avanzava lenta in mezzo al caos,
avvolta dal rumore di passi e dal chiacchiericcio di migliaia
di persone che risuonava nell’aria. Una parte di lei non
vedeva l’ora che iniziasse la partita; l’altra
sarebbe stata contenta anche solo restando lì, se solo
avesse potuto dilatare all’infinito quel momento di pace
interiore.
«Vè?». La voce di
Tiziano la riscosse dai propri pensieri. «Allora, che ne
dici?»
«Che non ti stavo ascoltando»
rispose candidamente lei. «Parli un sacco,
Tizià».
Il padre di Vera soffocò a fatica una
risata, mentre l’altro scoccò uno sguardo torvo
alla donna.
«Io e tuo padre stavamo dicendo che
abbiamo sete» sintetizzò secco. «Andiamo
a prendere qualcosa da bere prima di entrare?»
Vera si strinse nelle spalle. «Io sto
bene così, ma voi andate pure».
I due uomini si scambiarono un’occhiata.
«Vieni comunque con noi, no?»
insisté cauto Tiziano. «Se ci separiamo, poi
ritrovarci sarà un bel problema».
La donna inarcò le sopracciglia. Suo
padre e Tiziano potevano non rendersene conto, ma la preoccupazione per
lei ce l’avevano stampata in faccia; ma dato che era stato
proprio il secondo a insistere perché lei andasse
alla partita, allora avrebbe fatto i conti con tutte le
conseguenze che ne derivavano, decise Vera, infastidita.
«Facciamo così: voi andate a
prendere da bere e io vi aspetterò
laggiù» disse soave, indicando il cordone
di carabinieri più vicino. Batté una mano sulla
spalla di Tiziano, che boccheggiava alla ricerca di
un’obiezione qualunque. «Sbrigatevi, su!»
Estremamente compiaciuta, la donna
voltò le spalle ai suoi compagni e si avviò
decisa verso il punto che aveva indicato. Quasi subito, la
punta d’irritazione che provava verso Tiziano e la sua
ostinazione nel trattarla come una statuetta di cristallo
svanì: la confusione cancellò ogni suo pensiero,
e l’unica cosa su cui riuscì a concentrarsi fu
l’insieme di sensazioni che le si agitavano dentro.
Anche se non avesse avuto la mente da
un’altra parte, di sicuro Vera non avrebbe sentito la
mancanza di Vittorio, e d’altra parte sarebbe stato strano il
contrario: quell’individuo era la quintessenza di
ciò che lei detestava in un uomo, e i loro precedenti
incontri non avevano certo gettato le basi perché
tra di loro potesse esserci un rapporto civile.
Trovarlo fuori dallo stadio in assetto
antisommossa fu solo una spiacevole sorpresa in una giornata che
sembrava promettere bene. Vera girò sui tacchi, pronta ad
andare da un’altra parte, ma non fu abbastanza
rapida.
«Cristo, ma sei dappertutto»
sbuffò Vittorio quando se la trovò davanti.
«Potrei dire lo stesso di te»
borbottò Vera di rimando. «Ma non prestavi
servizio al comando di Tor Sapienza? Perché non
potevi restartene là?»
«Tagli al personale» rispose
lui con espressione beffarda, come se questo spiegasse tutto; o magari
era soltanto arrabbiato con qualcuno che non era lei. Non era
impossibile: Vera aveva l’impressione che Vittorio Valenti
passasse la maggior parte della propria esistenza in collera con
qualcuno. «C’era bisogno di agenti in
più, stasera, e io ho iniziato nell’Ottavo
Reggimento “Lazio”: in pratica prima
facevo solo ‘ste cose» aggiunse.
«Molto interessante: o meglio lo sarebbe
se m’importasse qualcosa di te. E a dirla tutta,
l’unica cosa che ti riguarda di cui io mi preoccupi,
è di starti lontana il più possibile»
replicò altezzosa Vera.
«Uhhh, che lingua raffinata!»
la schernì Vittorio. «Un bel cambiamento, da
quando mi chiamavi “stupido
coglione”».
«Definizione che non mi
rimangerò mai» ribadì la donna.
«Vera?»
Vittorio notò solo in quel momento la
coppia di uomini appena sbucati dalla folla: uno aveva da poco
superato la cinquantina, l’altro dimostrava circa
trent’anni, ed entrambi lo scrutavano con sospetto.
Il più anziano cinse le spalle di Vera con un braccio, poi
accennò proprio al carabiniere con la testa.
«È un tuo amico?»
Vittorio sogghignò.
«Preferirei essere amico con Lucifero in persona piuttosto
che con lei» disse di getto.
Vera digrignò i denti.
«Agente Valenti, ti presento Eugenio,
mio padre, e Tiziano, il marito della mia migliore amica: praticamente
un cognato». Il carabiniere sbiancò in maniera
vistosa; godendosi il momento, la ragazza proseguì
con le presentazioni. «Papà, Tiziano, questo
è l’agente Valenti: è in forza al
comando del maresciallo Testa».
Tiziano gli scoccò uno sguardo
disgustato; Eugenio, invece, sembrava soltanto perso nelle proprie
riflessioni.
«Ho capito chi sei» disse
infine Eugenio, apparentemente tranquillo. «Tu sei quel pezzo
di sterco muffito che ha ingiustamente accusato mia figlia di stare
alla guida ubriaca e drogata».
«Questo è...»
sibilò Vittorio.
«Non oltraggio a pubblico ufficiale,
questo è certo: non stai compiendo un atto
d’ufficio, requisito necessario perché si
realizzi questo specifico illecito penale» lo interruppe
Eugenio con calma olimpica.
Fu il turno di Vera di sogghignare.
«Il mio papino sta studiando
Giurisprudenza» disse gongolante.
«Hai cinque anni, che lo chiami
“il mio papino”?» le ritorse contro
Vittorio.
«E tu ne hai sei, per infastidirmi
appena ne hai l’occasione? Perché prima avresti
anche potuto far finta di non vedermi e aspettare che me ne
andassi» replicò pronta Vera.
Eugenio li guardò con le sopracciglia
inarcate e diede un colpo di gomito a Tiziano, che annuì
controvoglia.
«Visto che te la cavi bene da sola,
Vè, noi andiamo a prendere posto. Tieni il tuo
biglietto» decise suo padre, mettendole in mano il rettangolo
di carta. «Raggiungici quando hai finito di chiacchierare con
il tuo amico».
« Non
siamo amici!» tuonarono all’unisono
Vera e Vittorio.
«Se hai problemi con le scale,
chiama» la liquidò Eugenio senza degnarla di uno
sguardo; afferrò Tiziano per un braccio e lo
trascinò via con sé, lasciando Vera lì
impalata e furiosa con entrambi.
Vittorio accennò con il mento ai due
che parlottavano e si facevano largo verso i tornelli.
«Che ci fai allo stadio con tuo padre e
il tuo praticamente cognato?» chiese.
«Secondo te?»
replicò ironica lei, poi scrollò le spalle.
«Siamo venuti a vedere la partita».
«Be’, sei romanista: almeno un
pregio dovevi averlo» commentò Vittorio.
Lei gli rivolse un sorrisetto irritante.
«Quando avrei detto di essere romanista?»
Vittorio sgranò gli occhi.
«No… pure juventina?». Fece una smorfia
schifata. «Sei una somma di difetti, ragazzina».
Vera gli mostrò la lingua. «E
tu sei una somma di pessimi
difetti».
«Valenti!» urlò un
altro carabiniere prima che Vittorio potesse replicare. «Dai
un po’! Hai finito di chiacchierare con la tua fidanzata? Sei
qui per lavorare, eh!»
Entrambi divennero di porpora. « Non siamo fidanzati!»
gridarono in coro.
«Strano, perché vi
punzecchiate proprio come facciamo io e mia moglie»
ribatté imperturbabile l’altro.
La ragazza fece un gesto vago con la mano,
rassegnata. «È meglio se me ne vado. Buon
lavoro, Valenti».
«No! Non si dice!»
urlò lui, ma Vera non si degnò di rispondergli.
Vittorio sbuffò forte e
lanciò un’occhiata all’andatura
vistosamente zoppicante di Vera, poi tornò dai colleghi: la
maggior parte teneva d’occhio la folla, ma un paio avevano lo
sguardo fisso su di lui.
«Certo che potevi almeno presentarcela
la tua ragazza, Valenti» disse malizioso lo stesso che
l’aveva richiamato solo un minuto prima.
«Non è la mia ragazza,
Fabbiani» rispose piccato Vittorio. Fabbiani gli rivolse
un’occhiata eloquente, e l’altro si
accigliò. «Io sono sposato. Sposato,
vedi?» aggiunse; sollevò la mano sinistra e
batté più volte l’indice sulla fede
nuziale per dimostrare la propria affermazione. «E di sicuro
non con quella ragazzina». Guardò trionfante il
collega. «Vuoi aggiungere altro?»
Fabbiani scrollò le spalle.
«Solo che si vede che tu e tua moglie dovete avere un sacco
di problemi» ridacchiò, noncurante
dell’irritazione dell’altro.
Mentre Vittorio discuteva con il collega, Vera
continuò a camminare, lanciando più di
un’occhiata al biglietto che stringeva in mano e alle
segnaletiche per essere certa di essere diretta verso il
tornello giusto. La fila era già piuttosto lunga, e per
quanto si sforzasse, la ragazza non vide da nessuna parte suo
padre e Tiziano.
Il suo cellulare iniziò a squillare,
distogliendola dalla sua ricerca.
«Ohi, Giù, dimmi»
mormorò mentre metteva il biglietto al sicuro nella tasca
del piumino.
« Mi
passi Tiziano? Ho provato a chiamarlo due volte ma quel tonto non ha
sentito il telefono» rispose stizzita
la sua migliore amica.
«Non sono con lui»
spiegò distratta Vera. Seguì la fila, che era
avanzata di un paio di passi. «È andato avanti con
mio padre, forse sono già dentro ed è per questo
che non ha sentito il cellulare».
« Scusa,
e perché tu non sei con loro?» chiese
all’istante Giulia.
Anche se l’amica non poteva vederla,
Vera si strinse comunque nelle spalle. «Avevano sete e hanno
deciso di andare a prendere qualcosa da bere prima di entrare, ma a me
non andava di seguirli...»
« E
ti hanno lasciata sola per questo ?»
berciò l’altra.
«Hai intenzione di lasciarmi
finire?» sbottò Vera.
« Sì,
sì, scusa» mugugnò Giulia.
«Fantastico» disse ironica
Vera. «Come stavo dicendo, non avevo voglia di seguirli e gli
ho detto che ci saremmo ritrovati vicini a un cordone di carabinieri
che stava a una decina di metri da noi, ma quando sono arrivata
lì ci ho trovato l’idiota dell’altro
giorno...»
« Ma
chi? Il carabiniere che ti ha portata in caserma e poi ha pensato che
volessi buttarti giù da Ponte Milvio?»
la interruppe di nuovo Giulia, improvvisamente molto più
interessata che arrabbiata.
«GIULIA!» esplose
l’altra.
« D’accordo,
d’accordo, sto zitta»
replicò stizzita Giulia. « Continua».
Vera sbuffò, e la fila
avanzò ancora. «Per la cronaca, sì,
parlo proprio di quell’insopportabile Valenti. Anche
perché scusa, quanti idioti conosciamo?»
« Un’infinità»
rispose pronta la sua migliore amica.
«In effetti...». Vera si
riscosse. «Comunque si è messo di nuovo a darmi
fastidio, il cretino: pare che non sia in grado di farne a meno.
Chissà, magari non ha abbastanza neuroni per capire
quando è il caso di stare zitto» spiegò
con acredine.
« Mh.
E tu che hai fatto?» indagò Giulia.
«Gli ho risposto per le rime,
ovvio» disse Vera. «Non mi faccio mettere i piedi
in testa dal primo idiota, prepotente, cafone...»
« Sì,
sì, sì, ho capito che non ti è tanto
simpatico» l’interruppe per
l’ennesima volta Giulia. « Se ti sta così sulle
scatole questo Valenti, perché non te ne sei andata e basta?»
«Forse non hai sentito la parte in cui
ti dicevo che avevo dato quel posto come punto di ritrovo a
papà e Tiziano» esclamò sarcastica
l’altra.
Giulia rimase in silenzio per un po’.
« Sai
che in fondo non sembra poi tanto male, questo tipo?»
disse infine.
Vera rise sardonica. «Oh, sì,
sono certa che sotto la maleducazione, la paranoia, la
prepotenza e l’abitudine di giudicare le persone
senza conoscerle si nasconda una perla d’uomo»
ribatté. «Accidenti, Giù, ma
ti senti quando parli?»
« Sempre»
disse Giulia. « E
tu, Vè, ti senti quando parli?» le
ritorse contro, sarcastica.
L’altra arricciò il naso e
fece qualche altro passo in avanti. «Cosa vorresti
dire?»
« Solo
che, nel bene o nel male – più spesso la seconda,
lo ammetto – ultimamente parli parecchio di questo
carabiniere» commentò Giulia.
« Al posto tuo,
mi farei qualche domanda».
«Me le sono fatte» ammise Vera
a mezza voce.
Giulia trattenne il fiato per un momento.
« E che
risposte ti sei data?»
«Che ne parlo tanto non solo
perché continua a capitarmi davanti, ma soprattutto
perché mi infastidisce e mi irrita come nessuno ha mai fatto
nella mia vita… tranne te quando attacchi con questa
filosofia spicciola» sciorinò Vera.
Giulia mugugnò qualcosa di
incomprensibile. « Messaggio
recepito, Vè. Ma se un giorno ti farai davvero delle
domande, te lo rinfaccerò e ripeterò
“te l’avevo detto” fino alla fine dei
tuoi giorni» minacciò.
«Vorrà dire che se mai si
verificherà una simile eventualità,
comprerò una bella scorta di tappi per le
orecchie» disse Vera, finalmente tranquilla.
«Giù, sono quasi al tornello. Vuoi che dica
qualcosa a Tiziano quando lo raggiungo, o ti faccio chiamare da
lui?»
« Fammi
chiamare» rispose Giulia. « E soprattutto, goditi la
partita: domani voglio trovarti senza voce per aver urlato troppo!»
«Puoi contarci»
ridacchiò Vera. Chiuse la chiamata e recuperò il
biglietto dalla tasca mentre l’atmosfera esaltata della
partita imminente l’avvolgeva di nuovo, facendole dimenticare
le insinuazioni della sua migliore amica.
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
Dopo aver partecipato al
servizio di sicurezza allo stadio, per Vittorio tornare ai soliti
incarichi non era stato entusiasmante. Contro ogni sua aspettativa, a
salvarlo dalla noia era stata di nuovo Vera: non l’aveva
più vista, ma l’atteggiamento pungente della
donna, insieme al protrarsi del suo zoppicare, avevano risvegliato una
volta per tutte la curiosità del carabiniere.
Per questo quel giovedì, dopo aver
finito il turno di notte, invece di togliersi la divisa e mettersi a
dormire, Vittorio andò dritto all’ufficio di
Luciano e bussò con decisione.
«Cos’è
successo?» chiese sconfortato il maresciallo quando il
più giovane si accomodò con aria risoluta su una
sedia davanti alla scrivania.
«Niente». Luciano non ebbe il
tempo di sospirare di sollievo che Vittorio aggiunse un allarmante:
«Dobbiamo parlare, tu e io».
«Perché questo non mi
rassicura?» mugugnò l’altro. Vittorio lo
guardò torvo e Luciano alzò gli occhi al cielo.
«Va bene, sputa il rospo».
«Te la ricordi la ragazzina che ho
portato qui un paio di settimane fa e che mi hai costretto a lasciar
andare via?» chiese Vittorio.
«Ancora con quella storia?»
sbottò Luciano.
«Non proprio». Il
più giovane batté la punta del piede a terra
mentre rifletteva. «L’ho incrociata altre due
volte, una a Ponte Milvio e una allo stadio, e non capisco come una
ragazza possa essere tanto maleducata, antipatica e incapace di star
zitta». Si grattò il collo, rimuginando.
«Sarò io, ma non è un po’
eccessivo avere sempre questo atteggiamento?»
«Perché hai deciso di
parlarne proprio con me?» gli chiese Luciano.
«Magari perché è
evidente che la conosci?» replicò sarcastico
l’altro.
Luciano prese un gran respiro, pizzicandosi la
punta del naso.
«Va bene» decise.
«Cosa vuoi sapere?»
Vittorio allargò le braccia.
«Come mai la conosci?»
L’altro si accomodò contro lo
schienale della poltrona girevole.
«Suo nonno – paterno
– è stato il mio professore di matematica e fisica
delle superiori, anni fa, e lo è stato anche dei miei
figli» spiegò. «Un ottimo insegnante,
molto conosciuto nella loro zona: ha sempre organizzato corsi di
recupero gratuiti per i ragazzi che avevano difficoltà nelle
sue materie e persino adesso, a ottant’anni passati, continua
a dare ripetizioni senza chiedere un centesimo. In generale
è sempre stato pronto a dare una mano, ed è stato
lui a convincere Daniele a prendere la laurea in fisica. Quando sono
tornato a vivere a Settecamini ho avuto modo di conoscere bene suo
figlio Eugenio, e altrettanto hanno fatto i nostri figli; credo anche
che Damiano abbia avuto una cotta per Vera, qualche anno fa».
«Deve essere dura, avere una cotta per
una ragazza così acida e scostante» disse Vittorio.
«Acida e scostante?». Dopo un
attimo di sbigottimento, Luciano scoppiò a ridere.
«Dio, Vera era la ragazza più allegra e vitale che
avessi mai visto: non si fermava un attimo, travolgeva tutti come un
uragano».
«Era?» gli fece eco Vittorio.
L’altro si rabbuiò.
«Dopo l’incidente, non è più
stata la stessa».
«È per questo che
zoppica?»
Luciano annuì. «Tornava a
casa insieme a una delle sue migliori amiche, una notte di maggio dello
scorso anno: erano state tutto il giorno al Pertini da
un’altra loro amica, che doveva partorire. Mentre erano sulla
Salaria, dirette a casa, un SUV che procedeva nella direzione opposta
ha invaso la loro corsia e ha preso in pieno la Seicento su cui si
trovavano. L’altra ragazza, Noemi, è morta sul
colpo; Vera si è salvata per un pelo, ma la gamba sinistra
era così malconcia e il ginocchio talmente frantumato che i
medici non hanno potuto fare altro che amputarla».
Vittorio sbiancò. « Le hanno amputato una gamba?»
Luciano annuì tristemente.
«Purtroppo, sì. Un classico incidente
d’auto: già dai primi rilievi venne fuori che il
conducente dell’altra auto, un ragazzo di
vent’anni, aveva un tasso alcolemico che era più
del doppio del limite consentito, e in seguitò si
accertò che aveva anche sniffato cocaina. Insomma, un
disastro annunciato».
Vittorio si prese la testa tra le mani.
«Adesso capisco perché quando l’ho
fermata mi ha dato del coglione. Per lei deve essere stato il peggiore
degli insulti, essere sospettata di stare guidando sotto
l’effetto di alcool e droga».
«Non ha mai superato davvero la
cosa» commentò l’altro. «Ha
avuto problemi di depressione e poi…
be’...»
«Poi cosa?» lo
incalzò Vittorio, incuriosito.
Ma Luciano liquidò la sua domanda con
un vago gesto della mano. «Sono cose sue: non è
giusto che sia io a parlatene».
«Lucià, non puoi fare
così» ribatté l’altro.
«Che le è successo?»
«Non sarò io a dirtelo: sono
affari di Vera, e deve essere lei a decidere se e con chi
parlarne» ripeté il più anziano,
inflessibile. «Non me lo chiedere più, e se
proprio vuoi sapere qualcosa, domandalo direttamente a lei».
«Tanto lo scoprirò
comunque» grugnì Vittorio, alzandosi.
«Vittò, non è mai
una buona idea andare a ficcare il naso negli affari altrui»
lo ammonì Luciano.
«E allora la prossima volta non mi
mettere la pulce nell’orecchio» rispose
l’altro, con un piede già fuori dalla porta.
Tornato nella propria stanza, Vittorio sedette sul
letto. Aveva avuto delle risposte, ma le domande nella sua testa erano
ancora numerose; l’improvvisa reticenza del superiore e
amico, poi, non aveva fatto che riattizzare la sua
curiosità. Aveva bisogno di qualcuno che conoscesse bene
Vera e fosse disposto a parlargli di lei, per appagare quella
curiosità e permettergli di dimenticare tutta quella
faccenda; ma dove trovare qualcuno del genere? In fondo di quella
ragazza non sapeva nulla tranne il suo nome e cognome, quello di suo
padre e il nome di battesimo di un suo caro amico. Era troppo poco per
fare una ricerca, tanto più che i due uomini erano apparsi
maldisposti nei suoi confronti; e poi, se Luciano avesse scoperto che
aveva sfruttato la propria posizione per immischiarsi ancora negli
affari di quella ragazza, come minimo gli avrebbe fatto una lavata di
capo difficile da dimenticare.
Alla ricerca di una soluzione, si alzò
e si mise a camminare per la stanza; in che modo poteva sfruttare le
ridottissime informazioni che aveva? Un nome era solo un nome, e senza
qualcos'altro serviva a ben poco...
Il suo cellulare trillò. Vittorio lo
prese, infastidito dall’ennesima notifica… e poi
una possibilità lo colpì come un pugno nello
stomaco.
L’uomo corse al computer e lo accese:
forse dei nomi non erano poi così scarni, come indizi.
******
Tiziano era rientrato solo mezz’ora prima dal lavoro: essere
un impiegato di banca non era certo faticoso come altri mestieri, ma
non per questo il trillare del campanello lo infastidì meno.
Per nulla al mondo avrebbe voluto alzarsi dal divano: per quanto lo
riguardava, chiunque avesse deciso di fargli visita senza preavviso
sarebbe potuto restare fuori dalla porta fino alla fine dei
tempi… o almeno finché sua moglie non si fosse
decisa ad aprire.
«Tizià, vai ad
aprire!» ordinò la voce ovattata di Giulia.
L’uomo sbuffò, sconfitto, e
il campanello trillò di nuovo. Tiziano si alzò
dal divano e andando verso l’ingresso agguantò la
piccola Ludovica – che al suo passaggio gli si era aggrappata
alle gambe decisa a tenerlo con sé – e se la
sistemò su un fianco, tenendola con un braccio.
Arrivato a destinazione, Tiziano aprì
la porta: dall’altra parte del battente c’era
Vittorio.
«Non è il
benvenuto» disse gelido il padrone di casa. Fece per
richiudere la porta ma Giulia, attirata a sua volta dalle impazienti
scampanellate, si affacciò verso la porta.
«Chi è?»
domandò curiosa.
«Vittorio Valenti, signora»
disse in fretta Vittorio, prima che Tiziano potesse chiudergli la porta
in faccia.
«Tu sei il carabiniere che Vera continua
a incrociare» commentò Giulia, annuendo tra
sé. Raggiunse suo marito e lo spostò con una
gomitata. «Togliti, Tiziano. Signor Valenti, prego, si
accomodi».
Sconfitto, Tiziano fece dietrofront per tornare in
salotto con sua figlia.
«Quando sarai grande, Lulù,
non uscire mai con uomini come quello, oppure papà ti
chiuderà a chiave nella tua camera fino al tuo trentesimo
compleanno» disse a voce abbastanza alta da essere udito
nell'ingresso.
Giulia alzò gli occhi al cielo di
fronte alla teatralità di suo marito. «Lo scusi,
sa, è molto protettivo nei confronti di Vera. Venga, andiamo
in cucina».
Una volta tanto, Vittorio obbedì senza
fiatare. Quando fu certa che il suo ospite fosse comodamente sistemato
su una sedia, Giulia andò verso i fornelli.
«Le posso offrire un caffè,
signor Valenti, o preferisce qualcos’altro?»
«Il caffè va
benissimo» rispose in fretta lui. «E, la prego, mi
chiami soltanto Vittorio».
La donna sorrise. «Allora tu devi
chiamarmi Giulia».
Mentre preparava la caffettiera e la metteva sul
fuoco, Giulia ne approfittò per studiare di sottecchi
Vittorio: sapeva che Tiziano non lo poteva soffrire ma lei, da donna e
migliore amica di Vera, aveva colto qualcosa di particolare nel modo in
cui l’altra le aveva parlato di quello sconosciuto.
Sì, l’aveva insultato e probabilmente lui se
l’era anche meritato, ma Giulia aveva visto qualcosa che
mancava in Vera da quasi un anno: la passione. Nel bene o nel male,
quell’uomo aveva risvegliato almeno in parte lo spirito
infuocato di Vera, quello che l’incidente le aveva strappato,
e chiunque fosse in grado di scuotere la sua migliore amica dalla
tristezza e dai sensi di colpa in cui era sprofondata, era il benvenuto.
«Allora, Vittorio» disse
quando ebbe disposto sul tavolo le tazzine fumanti, la zuccheriera e
dei biscotti, «cosa ti porta qui?».
L’uomo si grattò il collo,
improvvisamente nervoso.
«Volevo sapere qualcosa di
più sulla tua amica» si decise a rispondere: in
fondo, era andato lì per quello. «Sono certo che
sai che sono agli ordini del maresciallo Testa: oltre a essere mio
superiore è anche un amico di vecchia data, e dato che
conosce la famiglia Nicolini, mi ha accennato qualcosa riguardo
l’incidente e le sue conseguenze, ma si è
rifiutato di dirmi altro, anche se è evidente che sa molto
più di quello che ha deciso di dirmi».
Giulia lo fissò con tanta
serietà da metterlo a disagio. «Prima di
rispondere, vorrei sapere per quale motivo sei così
interessato a Vera».
Quella semplice richiesta mostrò a
Vittorio come le sue domande potessero facilmente essere fraintese: si
era presentato lì, da perfetto sconosciuto, per chiedere
informazioni su una donna. Per un attimo si chiese come gli fosse
venuto in mente, e si diede dell’idiota; ma poi decise che,
visto che era già in ballo, tanto valeva ballare.
«Sono solo… curioso, ecco,
per quanto possa suonare male» ammise. «La tua
amica...»
«Vera» lo interruppe Giulia.
«Vera» sbuffò lui.
«Quando l’ho fermata, quel giorno, per strada, mi
si è rivoltata contro come una pazza. Lo sai che ha provato
a mordermi?» aggiunse, offeso al solo ricordo. Giulia
scoppiò a ridere e liquidò la cosa con un gesto
della mano: Vittorio intuì che quello doveva essere un
atteggiamento tipico di Vera. «E mi ha anche insultato.
Insomma, di sicuro lei ti ha raccontato cos’è
successo quel giorno e nelle altre occasioni in cui ci siamo
incrociati, quindi è inutile che io stia qui a ripetere
tutto. Però, come ho detto, stamattina Luciano mi ha
raccontato del ragazzo che guidava il SUV per farmi capire come mai lei
avesse reagito in quel modo che a me era sembrato spropositato, quindi
so dell’incidente e della sua dinamica. Quello che vorrei
sapere è… cos’è successo
dopo. Perché la Vera che mi ha descritto non è
quella con cui ho avuto a che fare io».
Giulia si lasciò andare contro lo
schienale della sedia, una profonda stanchezza dipinta sul volto.
«Devi capire, Vittorio»
esordì con dolcezza, «che Vera era una ragazza
molto felice: era convinta di avere tutto quello che potesse
desiderare, ed era difficile vederla scontenta o di cattivo umore.
Quell’incidente ha cambiato tutto».
Sospirò. «Io, Vera e Noemi siamo state legate fin
da bambine: da piccole ci eravamo convinte di essere sorelle, anche se
i nostri genitori ci assicuravano il contrario, e ci siamo promesse di
restare sempre unite. Persino quando sono rimasta incinta, anche se
entrambe volevano essere le madrine di mia figlia, non ci sono stati
dissapori: pensa che decisero che per non scontentare nessuno sarebbero
andate in ordine alfabetico, nel reclamare questo onore. Quindi Noemi
sarebbe dovuta essere la madrina di Ludovica e Vera quello del mio
secondo figlio, che mi intimò di avere al più
presto». Rise, genuinamente divertita da quel ricordo.
«Quando andarono via dall’ospedale, quella notte,
erano felici quanto me: la caposala, i medici, gli infermieri, vennero
tutti a dirmi che ero fortunata ad avere due amiche così.
Solo che il mattino dopo, le mie amiche non c’erano
più».
Giulia s’interruppe un momento per
asciugarsi le lacrime; Vittorio capì quanto fosse difficile
per la donna ripercorrere quella storia così dolorosa, e
distolse lo sguardo.
«Scusa» disse lei poco dopo.
«Quando Vera si risvegliò, dopo
l’incidente, si ritrovò senza una delle sue
migliori amiche e priva di una gamba; e se i sensi di colpa per essere
sopravvissuta a Noemi erano già abbastanza per distruggerla,
aver perso la gamba fu il colpo di grazia».
Cincischiò il fazzoletto con dita nervose. «Non so
se qualcuno te l’ha detto, ma Vera era una ginnasta: lo siamo
state tutte e tre, da piccole, ma lei è l’unica
che abbia proseguito, passando presto dalla ginnastica ritmica a quella
artistica. Era la sua grande passione; le piacciono gli sport in
generale, e ritrovarsi mutilata l’ha costretta a rivedere
tutta la propria vita e il proprio futuro. Era menomata, nel corpo
oltre che nello spirito, e quando ha potuto iniziare a usare la protesi
è diventata ancora più amareggiata, non ha
parlato con nessuno per settimane. Siamo riusciti a farla uscire di
casa soltanto per il battesimo di Ludovica». Le si
formò un nodo in gola, ma si sforzò di continuare
il proprio racconto. «Io te Tiziano le avevamo detto che la
madrina sarebbe stata lei, o che Ludovica non ne avrebbe avuta una:
è stato l'unico modo per trascinarla fuori dalla sua stanza.
Sembrava che stesse bene, quel giorno: cercava di sorridere e parlare
con tutti, coccolava Lulù… pensavamo tutti che
finalmente ne stesse uscendo, che quello fosse solo il primo passo, che
avremmo riavuto la Vera di prima. Non avevamo capito niente».
Scosse la testa e scoppiò in lacrime.
Vittorio, sempre più imbarazzato e in
difficoltà, si allungò e batté una
mano su quella della donna.
«Scusa, scusami tanto»
farfugliò Giulia. «È che quando ci
ripenso...». Deglutì. «Per farla breve
Vera, quando quella sera rientrò a casa, si chiuse in camera
e mandò giù tutte le pillole su cui
riuscì a mettere le mani. Ha provato a suicidarsi,e per poco
non c’è riuscita: dopo una lavanda gastrica e una
serie di sedute con lo psicologo si è ripresa, ha trovato un
lavoro, ha iniziato a ricostruire la sua vita e non ha più
provato a fare niente del genere, ma lo sappiamo tutti che non
è davvero viva. È come se in
quell’incidente fosse morta anche lei».
Giulia non riuscì ad aggiungere altro;
entrambi rimasero in silenzio a lungo, tanto che dopo un po' Tiziano
azzardò un'occhiata in cucina solo per trovarli a guardare
in direzioni opposte, chiaramente intenti a rimuginare. Il padrone di
casa rimase a osservarli per dieci minuti buoni senza che si
accorgessero della sua presenza.
«E allora» disse infine,
stanco di aspettare; Giulia e Vittorio si riscossero dalle loro
riflessioni, registrando solo in quel momento la sua presenza.
«Adesso che tu
hai spettegolato per bene» disse a sua moglie, «e
che tu sei
bene informato su affari non tuoi» proseguì con
un'occhiata a Vittorio, «siete soddisfatti? Spero di
sì. Perché Vera non sarà affatto
felice di questo»
commentò duro.
Giulia abbassò lo sguardo per un
istante; ma quando tornò a guardare Tiziano, i suoi occhi
brillavano determinati. «Tiziano, Vera
è...»
«Non si tratta di cosa Vera
è, ma di cosa Vera ha»
l'interruppe suo marito. «Il diritto alla privacy, per
esempio. A decidere lei cosa raccontare della sua vita, a chi, quando e
in che modo». Si strofinò la fronte con una mano.
«Giulia, tu la conosci da molto più tempo di me e
lo sai che s'infurierà come una belva, quando
saprà che hai detto tutte queste cose di lei... a lui».
«Ma Vera non può continuare
a... a sopravvivere, come sta facendo adesso!» insorse Giulia.
«Non spetta a te deciderlo»
ribatté secco Tiziano.
«Tu l'hai costretta ad andare allo
stadio anche se lei non voleva!» sbottò la donna.
«Perché quello che tu fai per lei va bene, e
quello che faccio io no?»
«Io l'ho solo spinta a riprendere una
sua vecchia abitudine. Una sua passione» precisò
Tiziano. «Tu, invece, hai appena infilato a forza nella sua
vita una persona con cui non va d'accordo; perché scusa
tanto se te lo dico» aggiunse, rivolto a Vittorio,
«ma Vera proprio non ti sopporta, e il fatto che tu sappia
tutte le cose peggiori che le sono successe, ti fa passare da uno
sconosciuto sgradito a uno che la conosce troppo bene nonostante il suo
volere. E come ho detto prima, questo la farà arrabbiare di
brutto». Si coprì il volto per un istante e prese
un respiro profondo. «Te ne devi andare»
decretò. «Adesso devi proprio uscire da casa mia,
e fammi il favore di non tornarci, men che meno per chiedere di
Vera».
«Tiziano...» esordì
Giulia con rabbia.
«No, lui ha ragione» la
bloccò Vittorio, alzandosi. Iniziava a rimpiangere la
propria curiosità: quello che aveva scoperto lo faceva
soltanto stare peggio. Un senso di nausea gli aveva appesantito lo
stomaco già da quando Luciano gli aveva detto
dell'incidente, e il racconto di Giulia non aveva fatto che peggiorare
la situazione. Sapeva che cose del genere accadevano ogni giorno, ma
vedere coi propri occhi come un istante, uno solo, e una
casualità sfortunata avessero stravolto una vita, lo
disturbava profondamente. Tese la mano a Giulia, che la strinse.
«Grazie per il caffè e... e le
risposte». Tese la mano anche a Tiziano, ma l'uomo si
rifiutò di prenderla. «Arrivederci»
mormorò.
In silenzio, Vittorio guadagnò la
porta, seguito dal padrone di casa; quando fu sul pianerottolo scese le
scale con passo stanco, e si chiese una volta di più chi
gliel'avesse fatto fare, di seguire una vana curiosità che
non gli aveva procurato altro che malessere.
Mentre il carabiniere lasciava il palazzo, Tiziano
tornò in cucina e fissò sua moglie, intenta a
ripulire e mettere tazzine e cucchiaini in lavastoviglie.
«Vera non te lo
perdonerà» disse semplicemente.
«Certo che lo farà: siamo
come sorelle» rispose Giulia.
«Questo non farà che renderla
più arrabbiata: poteva aspettarsi da chiunque un tradimento
simile, ma non da te» gli fece notare l'uomo.
Giulia si voltò a guardarlo.
«Addirittura tradimento!» commentò.
«Io sto solo cercando di aiutarla, Tiziano».
«Parlando degli affari suoi con uno
sconosciuto?» disse scettico suo marito.
«Parlando di lei con una persona che
riesce a tirarla fuori dal guscio in cui si è
rintanata» lo corresse la donna.
Tiziano sospirò. «Quell'uomo
la fa infuriare, Giù, e non penso che Vera abbia bisogno di
altra rabbia: ne prova già abbastanza per conto suo. Anzi,
forse è l'unica cosa che prova costantemente, da quando
è tornata a casa dopo aver tentato di suicidarsi».
Scosse la testa. «Non può farle bene, qualcuno che
riesce soltanto a riattizzare il rancore che ha dentro».
Per la prima volta da quando Vittorio aveva messo
piede in casa loro, il volto di Giulia mostrò segni
d'incertezza. «Magari non sarà sempre
così. Magari, col tempo, quel Vittorio riuscirà a
tirare fuori da Vera qualcosa di diverso dalla rabbia. In fondo
continuano a incontrarsi... dovrà pur significare qualcosa,
no? E se fosse un... che ne so, un segno del destino?»
concluse, disperata.
Tiziano si strinse nelle spalle: anche lui
desiderava con tutte le proprie forze che Vera tornasse a essere, se
non quella di un tempo – cosa impossibile, lo sapeva bene
– almeno serena e capace di andare avanti, ma non riusciva ad
avere la fede di sua moglie nel destino e altre cose del genere. Lui
era concentrato sul presente, sul “qui e ora”, e la
verità era che, in quel momento, Vittorio Valenti non faceva
alcun bene alla loro amica.
«Tanto ormai ci hai parlato: non si
torna indietro» commentò rassegnato.
«Però una cosa veramente utile per Vera puoi e
devi farla subito» aggiunse. Porse il proprio cellulare a
Giulia. «Dille che hai parlato con quel tizio prima che venga
a saperlo da lui: almeno questo glielo devi, e lo sai».
Giulia esitò per un istante, poi
chinò il capo e prese il telefono dalle mani di suo marito.
Avviò la chiamata e si mordicchiò un'unghia
mentre sentiva gli squilli succedersi uno dopo l'altro.
«Ve'? Sono Giulia. Devo dirti una
cosa...»
******
Il pensiero di Vera e di quello che le era capitato aveva perseguitato
Vittorio per tutto il fine settimana.
La conversazione con Giulia aveva fatto
sì che il carabiniere vedesse Vera sotto una luce diversa:
quelle che gli erano sembrate incoerenze d'un tratto avevano assunto un
senso, e anche se continuava a ritenere eccessivi alcuni atteggiamenti
e reazioni della venticinquenne, cominciava a comprenderla meglio.
Forse per questo, una parte della sua mente gli ripeteva da oltre tre
giorni che delle scuse per come l'aveva trattata erano d'obbligo; e
sebbene il suo orgoglio mal sopportasse l'idea, il suo buonsenso lo
convinse del fatto che era la cosa giusta da fare.
Quel lunedì pomeriggio, dunque,
Vittorio parcheggiò davanti alla palestra frequentata da
Vera ed entrò prima di poterci ripensare.
«Buonasera» salutò
la ragazza all'ingresso, rivolgendogli un bel sorriso. «Come
posso aiutarla?»
Vittorio si passò una mano sulla nuca.
«Sto cercando Vera Nicolini».
«E lei sarebbe?» chiese una
voce alle sue spalle.
Vittorio girò su se stesso e si
trovò di fronte una donna sulla cinquantina, con i capelli
cortissimi e l'espressione severa sul volto dai lineamenti delicati. Le
tese la mano. «Vittorio Valenti».
La sconosciuta soppesò con lo sguardo
quell’uomo così fuori posto, lì dentro,
prima di afferrare la sua mano e stringerla con vigore.
«Giovanna Cottarelli. Vera è in sala, si sta
allenando. Venga».
Giovanna precedette Vittorio attraverso la porta e
lungo un breve corridoio. I due sbucarono in un'ampia sala, in cui una
ventina di ragazze facevano riscaldamento e si allenavano con i vari
attrezzi. La donna proseguì verso la parete di
fondo e gli fece cenno con la testa di proseguire in quella direzione.
Vittorio continuò a camminare e si
avvicinò all’angolo in cui Vera, sdraiata su un
tappetino con una tuta sformata e un top sportivo addosso, faceva
addominali come se ne andasse della sua vita: tutta la sua pelle era
lucida di sudore, e i capelli scuri sfuggivano in gran parte alla
treccia in cui li aveva costretti.
«Valenti. Sei venuto a impicciarti un
altro po' degli affari miei?» sbuffò la ragazza.
L'uomo la fissò, interdetto; lei si fermò per un
istante e sbottò in una brevissima, cupa risata.
«Non fare quella faccia: credevi davvero che Giulia non mi
avrebbe detto della visitina che le hai fatto?»
«In realtà non ci ho pensato
affatto» ammise lui. La guardò con attenzione
mentre Vera riprendeva l'esercizio. «Hai la faccia di una che
si allena da un pezzo» considerò ad alta voce.
«Non credi che dovresti fermarti?»
«Già mi manca una gamba: se
dovessi anche ingrassare, sarebbe davvero la fine»
ansimò lei tra un addominale e l’altro.
«Non mi sembra che tu corra questo
rischio» commentò Vittorio.
«Perché mi alleno tutti i
giorni» ribadì Vera senza fermarsi.
«È importante. È anche per questo che
mi sono salvata: perché ero un’atleta, e il mio
corpo era più forte della media. Mi ha permesso di resistere
abbastanza perché i medici facessero quello che
dovevano».
Le sue ultime parole furono di
un’amarezza quasi soffocante.
«Non è la fine del mondo,
sai» mormorò Vittorio.
Vera smise di nuovo di allenarsi; puntò
i gomiti a terra e si sollevò parzialmente, fissando l'uomo
con occhi duri.
«Non è la fine del
mondo?» ripeté gelida. «No, immagino che
per te non lo sia, visto che non sei tu quello che ha
perso una gamba. Tu non sai come ci si sente a perdere una gamba senza
nessuna colpa, a dover abbandonare la passione di una vita e
ricominciare tutto daccapo; quindi, se sei venuto qui soltanto per
dirmi queste stronzate, farai meglio ad andartene».
«Sono venuto per scusarmi»
disse piano l'uomo, gli occhi puntati sul pavimento. Quando Vera non
rispose Vittorio rialzò lo sguardo, e scoprì che
la ragazza lo stava fissando incredula. «Che
c'è?»
«Sei venuto qui per scusarti?»
ripeté lei, scettica.
Il carabiniere le rivolse una smorfia irritata.
«Non sono mica una bestia, sai!» esclamò
stizzito. «Ti ho trattata male, soprattutto il giorno in cui
ti ho fermata per strada, anche se tu avresti potuto pure dirmelo, del
tuo problema. Ci saremmo risparmiati una brutta ora tutti e
due».
«Io non devo niente a nessuno e, cosa
più importante, non mi va di andare in giro a raccontare gli
affari miei a chiunque: non voglio la pietà della gente, non
mi serve e non so che farmene» dichiarò Vera.
«Non si tratta di avere
pietà, ma di sapere come stanno le cose per potersi
comportare di conseguenza» la corresse Vittorio.
«Cerchiamo di capirci: non mi fai pena, neanche un po'. Se tu
fossi dolce, timida e malinconica magari proverei pietà, ma
il tuo essere una stronzetta acida e intransigente mi salva dal provare
simpatia per te. Sono venuto a chiederti scusa perché te lo
dovevo, era la cosa giusta da fare, ma adesso siamo pari: da oggi in
poi, potrò essere stronzo quanto te senza sentirmi in
colpa».
«Sarebbe un peccato chiederti di
comportarti diversamente, visto quanto ti riesce bene essere
odioso» replicò Vera senza battere ciglio.
«Faccio del mio meglio per non sfigurare
nel confronto con te» disse Vittorio; le voltò le
spalle e se ne andò a passo deciso verso l'uscita, le mani
affondate nelle tasche e un sorrisetto sul volto.
«Impossibile raggiungere il tuo
livello!» gli urlò dietro Vera. L'uomo si
limitò a scrollare le spalle senza voltarsi né
rallentare; lei si ributtò sul tappetino,
incrociò le braccia dietro la testa e sbuffò, gli
occhi fissi sul soffitto e la voglia di allenarsi svanita nel nulla.
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
Era passata un'intera settimana dall'ultima volta che Vera aveva visto
Vittorio, e da quel giorno la donna non aveva più
trovato pace. Sebbene il carabiniere si fosse fatto vivo solo per
chiederle scusa – a modo suo, certo, ma almeno era riuscito a
pronunciare quella parola, cosa che l'ex ginnasta riteneva impossibile
– Vera non era più riuscita a essere di buonumore
per cinque minuti di fila. Per quale motivo si era preso il disturbo di
andare a farle le sue scuse? In che modo aveva trovato la sua palestra,
e prima ancora Giulia? Perché diamine aveva dovuto
invadere il suo spazio personale? La palestra era, paradossalmente, la
sua unica oasi, e Giovanna la sola persona a non averla mai trattata in
modo diverso, dopo l'incidente: così com'era stata brusca e
sbrigativa nei modi per i diciotto anni in cui era stata la sua
allenatrice, tale e quale era rimasta quando aveva scoperto
dell'incidente di Vera e di come la sua allieva si era lasciata andare
dopo l'amputazione della gamba. E se la cinquantenne non aveva mutato
registro neanche in quell'occasione tanto grave, non c'era motivo di
credere che l'avrebbe fatto soltanto perché Vera
era di malumore. Questo Vera lo sapeva bene; eppure neanche tale
consapevolezza le impedì di lanciare gli attrezzi da una
parte all'altra della sala senza alcun riguardo.
Giovanna, esasperata dal suo comportamento, quando
vide l'ennesimo tappetino fendere l'aria percorse la sala a
passo di marcia.
«Adesso basta!» esplose, le
mani sui fianchi e un cipiglio furioso sul volto. Vera si
voltò, sbuffò e lasciò cadere a terra
una palla medica.
«Che c'è?»
bofonchiò in risposta.
L'altra picchiettò la punta del piede a
terra. «C'è che questo tuo malumore mi ha
stancata» dichiarò senza mezzi termini.
«Da quando quel tizio è venuto a parlarti, la
settimana scorsa, non hai fatto che sbattere e sbuffare ogni singolo
minuto che hai passato qui dentro. Si può sapere che
problema hai?»
Vera mugugnò qualcosa di
incomprensibile.
«In una lingua comprensibile agli umani,
Vera!» scattò Giovanna.
«Ho detto che quello era il carabiniere
che mi ha fermata quel giorno in cui non sono potuta venire in
palestra» scandì Vera. «Continuo a
incontrarlo, e non lo sopporto: non sopporto lui, non sopporto i suoi
modi, e non sopporto quello che mi dice e il tono che usa. Ecco
perché sono di malumore: perché solo vederlo mi
fa saltare i nervi!»
«E, fammi indovinare... non lo
sopporti» aggiunse sarcastica Giovanna, incurante
dell'espressione infastidita dell'altra. «Che ti ha
detto, per farti arrabbiare tanto?»
«Chi? Quel coso
lì?» bofonchiò Vera. «Ha
detto che voleva scusarsi per come si era comportato, il
giorno in cui mi ha fermata».
Giovanna inarcò le sopracciglia.
«Be', certo, adesso capisco come mai ce l'hai tanto con
lui» aggiunse, senza perdere la nota sarcastica.
«Ha provato a dare la colpa a
me!» sbottò Vera. «Ha detto che se io
gli avessi spiegato del mio problema fisico, non ci sarebbero state
incomprensioni e non sarebbe successo nulla!»
«Ah, adesso capisco... è il
fatto che lui abbia ragione e tu torto, a disturbarti tanto».
Vera sbuffò come un toro inferocito, ma Giovanna non fece
una piega. «So quanto sei orgogliosa e che non ti piace
parlare di quello che ti è capitato, ma quell'uomo ha
ragione e lo sai: non puoi nasconderti sempre. Non sei mai stata
così, e anche se cambiare è una cosa naturale,
diventare radicalmente diversi non lo è. Prima o
poi dovrai trovare il modo di recuperare qualcosa di
ciò che eri prima dell'incidente».
La venticinquenne rivolse a Giovanna uno sguardo
rancoroso; poi le sue spalle si afflosciarono e lei
sospirò.
«Continuano a dirmelo, Gio, ma io... io
non so se c'è rimasto qualcosa, della vecchia me. Da dove
devo cominciare?» sussurrò con voce rotta.
Giovanna le si avvicinò; le prese il
volto tra le mani e le accarezzò le guance con un
movimento lento dei pollici.
«C'è ancora tanto di quello
che eri prima, Vera, anche se adesso non riesci ancora a
vederlo» le disse con dolcezza. «Però so
da cosa potresti cominciare» aggiunse con un sorriso.
«Cosa?» chiese Vera in
sussurro.
«Smettere di lanciare gli attrezzi qua e
là» rispose secca Giovanna, lasciandole il viso.
«Io l'ho pagata tutta questa roba, sai, e un tempo non
avresti mai maltrattato così questi oggetti!»
Vera non poté fare a meno di sbuffare
una risata: Giovanna era sempre Giovanna, e il suo essere immutabile
rappresentava per lei uno dei pochissimi punti saldi nella vita. Era
addirittura rassicurante, la sua capacità di essere
granitica anche quando cercava di consolarla e aiutarla.
«Messaggio recepito» si
arrese, sollevando le mani. Si chinò per prendere la palla
medica, ma l'altra la fermò.
«Lascia stare, Vera, posso pensarci
io» mormorò la cinquantenne, già
intenta a recuperare i tappetini sparpagliati ovunque.
«Prenditi il resto del pomeriggio e va' a fare una
passeggiata: l'aria fresca ti farà bene». Le
rivolse uno sguardo eloquente. «Magari incontri pure il
carabiniere... in fondo non è niente male. Vale la
pena di guardarlo» disse, e ammiccò.
Vera emise un gemito inarticolato. Per un attimo
il suo cervello le urlò di protestare, ma poi il buonsenso
ebbe la meglio: discutere con Giovanna non sarebbe servito a nulla.
Molto meglio seguire il suo consiglio: c'era ancora un po' di
luce, e un giretto all'aria aperta era proprio quello che le serviva.
******
Vittorio correva con passo regolare, scandagliando il parco con gli
occhi. Anche se in teoria quello sarebbe dovuto essere un momento di
relax, l’istinto del carabiniere era più forte:
avere tutto sotto controllo per lui era una
necessità, e osservare le persone che lo circondavano con il
suo sguardo inquisitorio e penetrante ormai era un’abitudine.
Emanuela lo detestava: gli diceva sempre che faceva sentire le persone
sotto esame e le metteva a disagio, ma lui non poteva –
né voleva – farci niente.
Spazzando il luogo con lo sguardo per
l’ennesima volta, Vittorio scorse un volto noto: Vera
avanzava nella direzione opposta alla sua, arrancando nella scia di un
giovane pastore tedesco che tirava il guinzaglio con foga, chiaramente
frustrato dalla lentezza della padrona.
«Fermo, diavolo d’un
cane!» la sentì sbraitare mentre dava uno
strattone al guinzaglio. Il cane si calmò: prese
un’andatura più contenuta e Vera si
asciugò la fronte sudata, borbottando contro il muso
dell’animale, che proprio non capiva cosa avesse la sua
padroncina da arrabbiarsi tanto.
Ormai Vera era a tiro d’orecchi, e il
carabiniere non resistette alla tentazione di stuzzicarla.
«Neanche i cani lasci in pace?»
La ragazza alzò lo sguardo, e quando
vide Vittorio, gemette esasperata.
«No, non è possibile: sei un
incubo!» esclamò, piena di sconforto.
«Che ci fai qui?»
«Corro» rispose lui,
guardandola come si guarda una persona particolarmente ottusa.
Abbassò gli occhi sul cane, che gli saltellava
intorno curioso nonostante i richiami borbottati di Vera.
Allungò una mano e accarezzò la testa setosa
dell’animale. «A quanto pare, al tuo cane sto
simpatico».
«È molto vivace»
spiegò Vera. La sua espressione divenne insofferente.
«Prima lo portavo qui a correre con me, ma
adesso…»
Vera abbassò lo sguardo sulle proprie
gambe, avvolte in un paio di morbidi pantaloni blu scuro: a prima vista
non si notava nulla, ma osservando con attenzione all'altezza della
coscia si poteva indovinare la forma della protesi attraverso il
tessuto.
Vittorio non disse nulla: poteva solo sforzarsi di
immaginare cosa significasse, per una giovane donna
così attiva, essere costretta a imparare a vivere in un
corpo che non poteva più assecondare la sua indole
sportiva ed esuberante. Si grattò la nuca, un po’
in imbarazzo.
«Se ti fidi, lo faccio correre un
po’ con me» si offrì.
La ragazza tentò un mezzo sorriso.
«Hermes è difficile da tenere a bada: anche se
è addestrato, scappa da tutte le parti. Non
è cattivo, solo un gran giocherellone, e gli piace
socializzare».
Vittorio le rivolse uno sguardo ironico.
«Hai dato al tuo cane il nome di un dio greco?»
Lei lo guardò con sincera ammirazione.
«Non mi aspettavo lo sapessi» ammise.
«Non sono un cafone totale»
replicò Vittorio. «Mio padre era appassionato di
letteratura epica: quando ero bambino me la leggeva al posto delle
favole della buonanotte, e mi ha insegnato tutto su queste
cose. Che poi, perché proprio Hermes? Di solito tutti
scelgono Zeus o Ares, come nome per il proprio cane».
Vera scosse la testa, lasciandosi sfuggire un
mezzo sorriso. «Visto che conosci il pantheon greco, saprai
che Hermes è il protettore dei ladri. È per
questo motivo che ho chiamato così la piccola peste a cui
stai tanto simpatico: gli piace prendere le cose e
nasconderle». Diede un buffetto sul muso del cane, che
ansimò felice. «Il mio piccolo
cleptomane».
Vittorio si mise a ridere, divertito, e memore
delle parole di Giovanna solo un'ora prima, Vera non poté
fare a meno di guardarlo: in quel momento non sembrava più
il carabiniere burbero e prepotente che tante volte l’aveva
fatta arrabbiare, ma solo un uomo qualunque. Dopo tanto tempo passato a
evitare la compagnia maschile, si accorse di stare osservando
l’uomo, se non con interesse, almeno con
curiosità: Vittorio aveva un bel sorriso e i
lineamenti mascolini, insieme al velo di barba e agli occhi
scuri e penetranti, lo rendevano affascinante. Anche se non
l’avrebbe mai ammesso, il suo sguardo era la cosa che le
piaceva di più: un tempo, estroversa com’era, non
si curava particolarmente di simili dettagli, mentre adesso uno sguardo
attento la sollevava dall’imbarazzo di dover dare spiegazioni
che l’addoloravano. E anche se di solito Vittorio
quel suo sguardo acuto lo usava per metterla a disagio, non per questo
Vera l’apprezzava di meno.
Certo, piuttosto che ammetterlo ad alta voce si
sarebbe strappata la lingua con le sue stesse mani, ma era un dettaglio
trascurabile.
Per evitare che Vittorio si accorgesse che lo
stava osservando, Vera zoppicò fino alla panchina
più vicina, seguita dall’uomo, sedette e
frugò nella grande borsa che portava a tracolla.
«Anche se non possiamo correre, però, ci siamo
attrezzati».
Pur sapendo che non era educato, Vittorio non
resistette alla tentazione di sbirciare in quella borsa stracolma, e
vide un po’ di tutto: portafogli, mazzi di chiavi,
fazzolettini, bottigliette d’acqua e un’ampia gamma
di giochi per cani.
Vera estrasse da quel marasma una palla da tennis
liscia e coloratissima: non appena la vide, Hermes agitò la
coda con entusiasmo e abbaiò felice, scattando a destra e a
sinistra.
La ragazza liberò Hermes dal
guinzaglio, poi si piegò finché i suoi occhi non
furono quasi all’altezza di quelli del cane.
«Ascoltami bene, Hermes: questa
è l’ultima» scandì
lentamente, mostrandogli la pallina azzurra.
«Trattala bene, o non ne avrai altre per due
settimane».
Hermes non sembrò interessarsi alla
notizia: abbaiò a più riprese, impaziente di
giocare, e con un sospiro Vera lo liberò del guinzaglio.
Nonostante tutto, un piccolo sorriso si schiuse
sul suo volto. «Pronto, Hermes?»
Dopo un paio di finte, Vera lanciò
lontano la palla; Hermes partì al galoppo, alla disperata
rincorsa del giocattolo, e lei e Vittorio guardarono il cane seguire la
parabola della sfera col naso puntato in aria.
«Sei rigida anche con quel povero
cane» commentò l’uomo, asciugandosi la
fronte con il bordo della maglietta sformata che indossava; senza dire
nulla, Vera gli passò una delle due bottiglie
d’acqua che si era portata dietro e lui
l’accettò in silenzio, sorpreso e riconoscente.
«Centellinargli le palline non ti sembra un po’
troppo?»
Soprappensiero, Vera si massaggiò il
moncone di gamba. «Non è che lo faccio per
indispettirlo, eh» rispose, un po’
infastidita. «A Hermes piacciono solo quelle specifiche
palline: le vendono in un negozio per animali a Tor di Quinto, e io in
quella zona ci passo solo una volta al mese. Di solito ne faccio una
bella scorta, ma lui le strapazza fino a farle a pezzi. Questa
settimana ha battuto ogni record: ne ha fatte fuori quattro»
spiegò.
Vittorio tenne gli occhi fissi sul cane, che
tornava da loro con la pallina tra i denti e scodinzolando:
evidentemente era molto fiero di sé. «È
un bel cane» commentò quando Hermes, dopo aver
considerato per un attimo la padrona, scelse di deporre la pallina tra
le mani di quell’umano puzzolente. Lanciò di nuovo
la palla, e il cane ripartì alla carica. «Quanto
ha?»
«Quasi due anni» rispose Vera,
sbuffando: Hermes era un traditore, a fraternizzare così col
nemico. «Per fortuna i miei genitori amano gli animali,
altrimenti ci sarebbe stata una guerra».
«Hai altri cani?» le chiese.
Lei rise. «No, solo Hermes. In compenso
ho due splendidi gatti: Afrodite ed Efesto».
«E la passione per la mitologia
greca» la punzecchiò Vittorio.
Vera lo ignorò. «Afrodite
è bianca e nera, identica al Silvestro dei cartoni animati,
e si dà un sacco di arie da diva. All’inizio avevo
pensato di darle un nome normale, sai, ma ho scoperto quasi subito che
è una gattaccia screanzata: mio padre detestava i gatti, io
l’ho portata a casa di straforo e lui
s’è infuriato, non voleva neanche vederla. Allora,
anche se aveva solo due mesi, Afrodite ha iniziato a inseguirlo e
corteggiarlo finché papà non ha ceduto: adesso
sono inseparabili e lui è l’unico a cui faccia le
fusa, quindi s’è beccata questo nome».
Vittorio soffocò una risata.
«Ed Efesto l’hai chiamato così
perché è brutto, scostante e rifiutato da
tutti?»
«Oh, no! Il mio Efesto è un
gattino tanto dolce e carino» insorse Vera. «Grigio
chiaro, tigrato, e con due begli occhi verdi. No,
l’ho chiamato così perché è
zoppo» disse amara. «Un giorno ero in macchina con
mio padre, non molto lontano da casa; c’era un po’
di traffico e questi quattro gattini che inseguivano la loro mamma. Uno
dei soliti tizi che non si curano di nulla, giusto davanti a noi, non
si è preoccupato di guardare che i cuccioli si fossero
spostati e con la ruota ha schiacciato la zampa anteriore destra a uno
di loro».
«E tu l’hai
adottato» concluse Vittorio mentre accarezzava Hermes, che
era tornato da loro.
Vera scoppiò a ridere. «Alla
fine sì... ma prima ho litigato con mio padre».
«Non voleva che lo prendessi?»
indagò l’uomo.
«Anche» ammise Vera. Prese la
palla dalle mani di Vittorio e la lanciò di nuovo.
«Prima di tutto s’è infuriato
perché sono schizzata giù dalla macchina e ho
urlato al tipo davanti a noi di scendere, così potevo
prenderlo a calci nel didietro; poi perché mi sono rifiutata
di risalire finché non si è deciso a portare me e
il gattino dal veterinario».
Vittorio non aveva difficoltà a
immaginarsela, arrabbiata e urlante, magari rannicchiata al margine
della carreggiata, con il gattino ferito tra le mani e l’aria
battagliera.
«Credo si sia arreso soltanto per farmi
contenta» proseguì Vera, ignara dei pensieri
dell’uomo. «Ero uscita da poco
dall’ospedale, e qualsiasi cosa chiedessi, cercavano di
assecondarmi. Purtroppo per la zampa di Efesto non si è
potuto fare nulla, è rimasta danneggiata, ma lui
è un gatto coraggioso: ha affrontato le bizze di Afrodite,
che all’inizio non voleva accettarlo in casa, e alla fine ha
imparato anche a saltare sui mobili, nonostante la zampa. E poi lui e
Hermes sono inseparabili: devo chiudere Efesto in casa quando
porto Hermes al parco, perché prova sempre a
seguirci».
Vittorio era stupito dal modo in cui si illuminava
l’espressione di Vera nel parlare dei suoi animali: sembrava
considerarli un misto tra amici, fratelli e figli. Forse,
rifletté, li amava tanto perché le ricordavano
lei stessa: Hermes, scattante e giocherellone, rappresentava quella che
era stata prima di perdere la gamba; Efesto era l’unico che
potesse capirla, afflitto dalla stessa menomazione; e Afrodite,
altezzosa e gelosa dei propri spazi, teneva gli estranei a
distanza proprio come faceva lei.
«E tu, Valenti? Hai degli
animali?» gli chiese Vera.
Lui sbuffò. «Sì,
uno: Emanuela, mia moglie». Vera gli sferrò un
pugno nelle costole e Vittorio gemette di dolore.
«Che c’è? Non si può neanche
più fare una battuta?» si lamentò.
«Sei un bruto»
sbuffò Vera. «Un troglodita. Retrogrado e
sessista».
«E tu sei priva di senso
dell’umorismo» grugnì lui,
massaggiandosi la parte colpita. «Comunque no, non
ho animali: mia moglie non li vuole, dice che sporcano e danno
fastidio».
Vera storse la bocca. «Ovviamente non
condivido. Anche se forse per lei, che deve già
sopportare te, avere anche degli animali sarebbe
troppo».
«Emanuela non sopporta un bel
niente» scattò Vittorio. «Lei se ne sta
bella comoda a Milano col suo lavoro e neanche si sogna di
raggiungermi a Roma».
La ragazza era sorpresa.
«Perché no?»
L’uomo digrignò i denti.
«Perché è una stronza. Ti basta, come
risposta?»
«No» disse Vera, arricciando
il naso. «Mi pare una valutazione del tutto
arbitraria».
«Allora diciamo che mia moglie non ha
mai fatto mistero del fatto che il suo lavoro viene prima di tutto,
prima anche di me». L’espressione di Vittorio
divenne amara. «Non ha voluto neanche avere dei figli:
abbiamo litigato per anni, ma non sono mai riuscito a
convincerla».
Vera lo scrutò, pensosa.
«Allora perché non divorziate?»
L’uomo sorrise sardonico.
«Perché a lei non conviene, e io non ho voglia di
imbarcarmi in una causa di divorzio: tanto siamo già due
estranei, non cambierebbe molto».
«Non mi sembrano dei buoni motivi per
restare sposati» commentò lei, stringendosi nelle
spalle. «Magari, se la lasciassi, saresti meno rancoroso e
aggressivo nei confronti degli altri».
«Da che pulpito». Vittorio le
lanciò uno sguardo eloquente. «Sei tu quella che
ha tentato di mordermi quando ti ho fermata per quel controllo,
ricordi?»
«Tu mi avevi fatta davvero
infuriare» bofonchiò Vera.
«Tu sei sempre infuriata»
replicò lui.
La donna tirò su la gamba sana e si
abbracciò il ginocchio. «Spiegami un po’
perché ti sei sposato, se tua moglie mette il lavoro prima
di tutto e a te questo non sta bene».
Vittorio, che stava osservando Hermes rotolarsi
nel prato con la pallina in bocca, si voltò verso di lei e
inarcò le sopracciglia. «Lo sai che sei
un’impicciona niente male?»
«Potevi far finta di non vedermi, prima.
Adesso è troppo tardi» replicò lei.
«E poi vorrei ricordarti che non sei da meno: sei
tu, quello che si è presentato a casa della mia migliore
amica solo per farti gli affari miei»
precisò. «A proposito, si può sapere
come hai fatto a trovarla?»
L'uomo si lasciò sfuggire una smorfia e
tastò le tasche della felpa; ne trasse un pacchetto di
sigarette un po' malridotto, lo studiò per un momento e poi
se lo rimise in tasca con aria rassegnata.
«Una sigaretta ci vorrebbe
proprio» mugugnò.
«Non svicolare» lo
ammonì Vera.
Vittorio sospirò. «Avevo il
tuo nome e cognome. Ti ho cercata su Facebook, poi ho cercato quel
Tiziano con cui eri alla partita tra i tuoi amici e dal suo profilo
sono arrivato a quello di sua moglie.
Dopodiché...». S'interruppe per un momento.
«Ho fatto una ricerca veloce tramite il nostro sistema per
trovare il loro indirizzo» bofonchiò a mezza voce.
Vera la guardò incredula per un
istante, poi sogghignò. «Un carabiniere stalker
proprio non me lo aspettavo!»
Vittorio arrossì e si grattò
la nuca. «Non sono uno stalker!»
protestò. «Volevo solo... solo...».
Sbuffò e tacque.
«Dai, Valenti, non te la prendere
così: giuro che non ti denuncio» lo prese in giro
la ragazza. «Adesso capisco anche come hai fatto a trovare la
palestra che frequento: sta scritta nelle informazioni del mio
profilo». Rimase in silenzio per un momento, persa in
pensieri tutti suoi suoi, poi si strinse nelle spalle.
«Comunque, questo risponde a una delle mie domande, ma non
all'altra. Allora?» insisté imperterrita.
«Tu e tua moglie?»
«Va bene, va bene». Lui si
appoggiò allo schienale della panchina e allungò
le gambe. «Ero di stanza a Milano quando ho conosciuto
Emanuela; abbiamo iniziato a uscire e poi siamo andati a
convivere. Solo che a un certo punto stavano per trasferirmi di nuovo,
nei primi anni è normale che ti spostino di continuo, e per
poter restare a Milano con lei, ci siamo sposati».
Vera rimase in silenzio per un bel po’,
pensierosa.
«Be’, ti sei sposato per un
motivo imbecille, quindi ora non ti puoi lamentare se il tuo
matrimonio non funziona» decretò
impietosa.
«Tu sì che sai come
risollevare il morale della gente» replicò
sarcastico Vittorio.
«Ehi, meglio una dura verità
di una bugia pietosa» disse Vera. «Le prime
aiutano, le seconde no».
«Quindi se adesso ti dicessi che sei una
piccola rompiscatole rigida, spesso rabbiosa e probabilmente
bipolare, questo ti aiuterebbe?» chiese Vittorio, col chiaro
intento d’infastidirla.
«No, ma solo perché sono
tutte cose che sapevo già» rispose lei con
nonchalance. Diede uno sguardo all'orologio e sospirò.
«Devo tornare a casa, si sta facendo tardi. Hermes!
Qui!» chiamò.
Il pastore tedesco arrivò al galoppo,
la pallina stretta tra i denti. Vera gliela tolse dalla bocca e la mise
in una busta dentro la borsa; il cane guaì scontento mentre
la sua padrone tirava fuori il guinzaglio e glielo agganciava
al collare, ma lei lo ignorò. Solo a quel punto la ragazza
riportò la propria attenzione su Vittorio.
«Be', Valenti, non posso dire che sia
stato un piacere, ma almeno è stato meno peggio delle altre
volte» commentò. «Passa una buona
serata».
Vittorio accennò un inchino ironico.
«È sempre un piacere avere a che fare con il tuo
garbo e la tua delicatezza».
Hermes partì alla carica lungo il
viale, trascinandosi dietro Vera.
«Tranquillo, Valenti, so di essere
irresistibile: non devi sentirti in imbarazzo!» disse forte
la donna mentre zoppicava rapida dietro il cane.
Incredulo, Vittorio si appoggiò allo
schiena della panchina e rise.
******
Quando Vera entrò nel giardino di casa, dieci minuti
più tardi, il televisore del salotto sparava a tutto volume
le voci di alcuni commentatori sportivi, e attraverso le tende della
cucina poteva vedere due sagome femminili muoversi nella
stanza.
Liberato Hermes del guinzaglio, Vera
varcò la porta d'ingresso e seguì l'odore di
cibo; in cucina, sollevò le braccia con un gesto drammatico.
«Potete cessare il vostro affaccendarvi, donne: sono tornata.
Adesso la vostra vita ha di nuovo un significato!»
«Cretina» disse
affettuosamente Giulia.
«Sei sempre la solita»
commentò Fabiola, alzando gli occhi al cielo.
Vera sghignazzò tra sé.
«Dovreste esserne felici: per quanto il mondo cambi, io
rimango un punto saldo». Chiuse gli occhi e protese una mano,
come a tenere a bada una folla immaginaria. «No, no,
vi prego, non c'è bisogno di fare così! Costruire
un tempio in mio onore è eccessivo; una statua in
oro massiccio che mi raffiguri sarà più che
sufficiente!»
«Sempre la solita»
bofonchiò di nuovo Fabiola.
«Come se la cosa non ti
divertisse» le ritorse contro sua figlia senza rancore.
«Posso darvi una mano?»
«Abbiamo tutto sotto
controllo». Giulia afferrò la sua migliore amica e
la spinse su una sedia prima di sedere a sua volta, poi le
rivolse un lungo sguardo inquisitorio. «Lo sai che sei di
buonumore? Ma proprio tanto».
«Ma va?» replicò
ironica Vera. «Meno male che me l'hai detto: io non me n'ero
accorta!»
«Non mi porterai fuori strada facendo la
sarcastica» disse Giulia, agitandole contro un dito.
«Che cos'è successo per farti tornare a casa col
sorriso?»
«Perché deve per forza essere
successo qualcosa?» chiese Vera.
«Perché fino a stamattina
avresti staccato la testa a quasi tutta la gente che conosci»
rispose sicura la sua migliore amica. Le due si soppesarono l'un
l'altra con lo sguardo, poi negli occhi della seconda si accese una
scintilla curiosa. «Non è che per caso hai
incontrato il principe azzurro?»
Vera la guardò, disgustata.
«Se esiste il mio principe azzurro, spero si sia
perso» decretò. «A che mi servirebbe, un
tizio in calzamaglia celeste?»
Fabiola ridacchiò e guardò
sua figlia di sottecchi, curiosa; Giulia, invece, le agitò
davanti una mano per zittirla.
«Allora?» la
incalzò.
L'altra alzò gli occhi al cielo.
«Sì, ho incontrato una persona...»
ammise. Non appena vide la sua migliore amica rimbalzare sulla sedia,
chiaramente elettrizzata, le rivolse uno sguardo incendiario.
«Quel simpaticone con cui ti diverti tanto a
spettegolare».
Giulia la guardò con gli occhi
sgranati, simile a un cerbiatto di fronte ai fari di
un'automobile; poi, con sommo stupore di Vera, un sorriso
malizioso si allargò sul suo volto.
«Hai incontrato il bel
carabiniere...» sogghignò. «Quindi
è per questo che sei così allegra!»
«Oddio, Giù, no. No»
replicò sgomenta Vera. «Lo sai che quel tizio mi
fa saltare i nervi...»
«E allora perché sei tornata
a casa felice e sorridente?» insisté l'altra.
Vera incrociò le mani dietro la testa e
sorrise compiaciuta. «Perché oggi sono stata io a
far saltare i nervi a lui!»
Giulia gemette di disappunto. «Dio,
Vè, sei incorreggibile!» si lamentò.
«Sei tu che ti fai i film
mentali» ribatté Vera. «Te l'ho
già detto un mucchio di volte che io quel Valenti proprio
non lo sopporto...»
«Sì è vero, me
l'hai detto tante volte» convenne Giulia. «E sai
perché? Perché ultimamente non fai che parlare di
lui... soprattutto in quest'ultima settimana» aggiunse,
insinuante.
«Sei insopportabile»
l'accusò Vera.
«E tu sei una zuccona
ostinata» controbatté Giulia.
«Perché non ammetti che ti piace?»
«Perché non mi piace»
rimarcò seccata l'altra. «E se non la smetti di
scocciarmi con questa storia» aggiunse, improvvisamente
minacciosa, «dirò a Tiziano che pensi che Valenti
sia bello!».
Giulia boccheggiò indignata alla
minaccia dell'amica. «Perfida!»
«Sei tu che mi costringi»
sottolineò Vera.
Fabiola batté un cucchiaio di legno
pulito sul tavolo, proprio tra le due ragazze. «Smettetela di
darvi fastidio!» intimò.
Entrambe misero il broncio.
«È stata lei a
cominciare» mugugnò Vera.
«È lei che continua a negare
l'evidenza» bofonchiò Giulia.
Fabiola si mise le mani sui fianchi e le
guardò severamente; quando finalmente tutte e due tacquero,
la padrona di casa inarcò le sopracciglia.
«Era ora» commentò.
«Adesso che avete smesso di comportarvi come due bambine,
possiamo parlare di cose serie» annunciò;
guardò con attenzione Giulia, per poi passare a scrutare la
propria figlia. «Questo Valenti è davvero
così bello?» chiese maliziosa.
Giulia lanciò un grido di trionfo e
Vera fuggì quasi di corsa dalla stanza, inseguita dalle
risate delle altre due donne: se Vittorio Valenti non le fosse
stato antipatico per il modo in cui si comportava, avrebbe potuto
odiarlo anche solo per tutte le insinuazioni che Giulia – e
adesso anche sua madre – faceva su di lui.
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
Quando gli agenti del primo turno rientrarono, Luciano ebbe una
piacevole sorpresa.
Vittorio si fece strada tra i colleghi
fischiettando allegro, le mani affondate nelle tasche e l'espressione
rilassata: dietro di lui, Claudio si sforzava di non ridere.
«Chi sei tu, e che ne hai fatto di
Vittorio Valenti?» chiese sgomento il maresciallo.
Vittorio smise di fischiettare e lo
guardò perplesso. «Perché?»
I tentativi di Claudio di contenere la propria
ilarità si rivelarono vani.
«Perché sei di buonumore,
Valenti, ecco perché» spiegò tra una
risata e l'altra. «Da quando sei qui nessuno ti ha mai visto
allegro o tranquillo, e adesso invece sono già quattro o
cinque giorni che vai in giro senza provare ad azzannare
qualcuno!»
Vittorio si adombrò all'istante.
«Ma quanto sei simpatico» replicò in
tono burbero.
«Ecco che subito se la prende»
lo punzecchiò l'altro carabiniere, dandogli una spintarella
con la spalla proprio in mezzo alla schiena. «Non metterti
sulla difensiva, sto solo scherzando... pensavo che il nuovo
Vittorio l'avrebbe capito».
«Io sono sempre lo stesso»
reagì il quarantenne.
«Dillo al tizio che ti sorride dallo
specchio» sogghignò Claudio.
«Pastore, lascialo stare!»
intervenne Luciano. «Una volta tanto che non è
nervoso di suo, devi pensarci tu a farcelo diventare?»
Claudio alzò le mani. «Non
oserei mai!» ridacchiò. «E adesso
scusatemi, ma ho due nanerottoli a casa a cui ho promesso che
saremmo andati al parco giochi, quindi è meglio se
vado».
Vittorio l'osservò allontanarsi con
occhi pieni d'invidia.
«Però è vero che
sei di buonumore» disse Luciano per distrarlo. Sapeva bene il
perché di quello sguardo, e se c'era una cosa che lo
rattristava più del modo in cui Vittorio era riuscito a
mettere a repentaglio la propria carriera, era proprio vederlo scrutare
in quel modo ogni altro uomo che avesse dei figli, compreso lui stesso.
«Mi fa piacere: somigli di più al ragazzino
scalmanato ma buono che ho addestrato».
L'altro alzò gli occhi al cielo, il
pensiero di Pastore e dei suoi figli ormai scivolato in
secondo piano. «Mi rivorresti com'ero a diciotto
anni?» chiese sarcastico. «Immaturo e
impulsivo?»
«Impulsivo lo sei ancora»
commentò Luciano. «Io intendevo senza tutta questa
rabbia nei confronti del mondo intero: perché quando avevi
diciott'anni eri pieno di rabbia contro te stesso e non pensavo potesse
esserci qualcosa di peggio, ma c'è. Il te di adesso
è molto, molto peggio».
Vittorio affondò di nuovo le mani nelle
tasche e si strinse nelle spalle. «Sai che c'è,
Lucià? Ho passato vent'anni a fare il mio dovere e l'ho
fatto con passione e orgoglio, sai quanto, e ad amare una donna con cui
forse non sono mai andato davvero d'accordo: adesso sono a un
soffio dall'essere cacciato dall'Arma e il mio matrimonio
è praticamente finito. Per cosa ho lavorato
– per cosa ho vissuto – in tutti questi
anni?» disse amaro.
Luciano gli mise una mano sulla spalla e lo
guidò verso il distributore automatico.
«Tanto per cominciare hai imparato a non
odiarti più, e questo è già un ottimo
risultato» esordì, frugandosi le tasche alla
ricerca di alcune monete. «Poi pensa a tutte le persone che
hai aiutato, a tutte quelle che sono state al sicuro anche grazie a te.
Sì, l'Arma ti ha punito per aver violato le regole, ma puoi
vedere questa cosa come una possibilità di raddrizzare
quello che non va nella tua vita e ricominciare a essere un ottimo
carabiniere, perché è quello che sei sempre
stato: anche se i tuoi modi spesso sono stati un po' ruvidi, diciamo
così, le persone che si rivolgono alle autorità
si sono fidate di te, e quando ce n'è stato bisogno hai
sempre dimostrato di essere una persona gentile e comprensiva, con un
gran cuore tutto sommato morbido». Infilò
le monete nel distributore e pigiò un paio di pulsanti: un
bicchierino di plastica cadde nei supporti e la macchina
iniziò a ronzare. «Quanto al tuo
matrimonio...». Sospirò.
«Vittò, i matrimoni non sempre funzionano, e a
volte funzionano all'inizio e poi si guastano. Lo capisco che prendi la
cosa come una sconfitta personale, ma se pensi che il tuo
matrimonio proprio non vada, allora secondo me hai solo due
possibilità: o cerchi di rimettere insieme i pezzi per
sistemare la situazione con Emanuela, o chiedi la
separazione». Gli porse il caffè.
«Dipende tutto da quello che vuoi: ma tu, lo sai cosa
vuoi?»
Vittorio fissò il liquido scuro.
«No, non lo so» ammise in un sussurro.
Luciano gli batté una mano sulla
spalla. «E allora pensaci: qualche volta, trascinarsi dietro
i problemi è peggio che dare un taglio netto alle
cose».
Il maresciallo si allontanò tranquillo
in direzione del proprio ufficio mentre Vittorio
continuò a fissare il bicchierino di plastica e le
volute di vapore che si alzavano dal caffè, con quella
domanda su cui non s'era mai soffermato ormai prepotentemente in primo
piano nella mente: che cos'era, che voleva?
******
Quel giorno, Vera uscì in giardino con un'idea ben precisa
in mente: senza fermarsi a dire alcunché ai suoi
genitori, mise il guinzaglio a Hermes e andò diretta verso
il parco che frequentava sempre.
Anche se per molto tempo non se n'era resa conto,
da quando aveva avuto l'incidente aveva abbandonato del tutto
l'abitudine di portare Hermes al parco: all'inizio non ne aveva avuto
la capacità fisica, poi le era mancata la voglia di tornare
in quel posto dove era stata solita correre e rotolare
sull'erba col proprio cane. Quel pomeriggio in cui Giovanna l'aveva
cacciata dalla palestra e lei aveva deciso, seguendo l'impulso
del momento, di portare fuori Hermes, si era resa conto di quanto
quelle passeggiate fossero mancate non soltanto al pastore tedesco, ma
anche a lei stessa. La felicità di Hermes nel trascinarla
per strada e poi scorrazzare e inseguire la palla al parco le
aveva fatto comprendere quanto avesse trascurato quel cane, con cui
aveva avuto un rapporto quasi simbiotico fin dal primo giorno in cui
l'aveva portato a casa, e si era vergognata del proprio comportamento:
così quel sabato pomeriggio, libera dal lavoro, decise di
portarlo di nuovo fuori.
Appena arrivarono al parco, Vera liberò
il cane dal guinzaglio e avanzò lenta lungo il viale,
sorridendo dell'euforia di Hermes che le saltellava intorno e faceva
piccoli scatti in avanti per poi tornare da lei.
Cane e padrona passeggiarono per una buona
mezz'ora lungo le stradine del parco e quando Vera vide comparire dal
nulla Vittorio, intento a far dondolare una busta di plastica, neanche
si sorprese: ormai erano diventati un’abitudine, quei
continui incontri.
A differenza sua, Hermes sembrò
felicissimo di rivedere il suo nuovo amico.
«Ciao, bel cucciolone» lo
salutò Vittorio, grattandolo sotto il mento; il cane
guaì felice. «Ciao anche a te, Gamba
Bionica».
Vera avvampò di rabbia. «Come
mi hai chiamata?»
Vittorio sogghignò. «Non ti
scaldare troppo: stavo solo scherzando. L'avresti capito, se avessi un
po’ di senso dell’umorismo».
«Io ho un senso dell’umorismo
fuori dal comune» replicò Vera con grande
dignità.
«Letteralmente fuori dal comune: nel
senso che ha chiesto la separazione e si è
trasferito» la punzecchiò ancora l’uomo.
Vera strinse i denti, poi sorrise melensa.
«Come va con tua moglie, Valenti?» chiese
zuccherina.
L’espressione di Vittorio
s’incupì di botto.
«A quanto pare, sai dove
colpire» mugugnò. «Mi sa che preferisco
il tuo cane».
«Anch’io preferisco il mio
cane: a te, poi… ecco, a te preferisco persino gli
scarafaggi» affondò il colpo la ragazza.
Vittorio decise di ignorarla e si rivolse
direttamente a Hermes. «Meglio giocare che parlare con la tua
padrona. Che ne dici?». Il cane abbaiò e
l’uomo guardò compiaciuto Vera. «Vedi?
Anche lui è d’accordo con me».
«Stupida solidarietà
maschile» bofonchiò lei, tirando fuori dalla borsa
un frisbee verde. Sia il cane che l’umano si accigliarono.
«Niente palla?»
indagò Vittorio.
Vera agitò un dito contro Hermes, che
si sdraiò pancia a terra e assunse un’espressione
mortificata, schiacciando il muso tra le zampe. «Il signorino
ha distrutto anche l’ultima; quindi, fino alla prossima
settimana, si dovrà accontentare del frisbee».
Vittorio sospirò con aria drammatica e
aprì la busta. «Vedi, Hermes? Mai fare affidamento
sulle donne. Rigide, sono rigide. Per fortuna, c’è
il tuo nuovo amico che pensa a te».
La ragazza, che stava per ribattere con una frase
pungente, sentì le parole morirle in gola: Vittorio aveva
appena tirato fuori un pacco delle palle preferite di Hermes.
«Ma cosa…
come…» balbettò, incredula.
L’uomo scelse una pallina rosa e la
lanciò, lasciando che Hermes partisse
all’inseguimento; poi prese Vera per un braccio e la
guidò verso la panchina più vicina.
«Quando le hai comprate?»
riuscì ad articolare lei quando furono seduti.
«Un paio di giorni fa».
Vittorio colse lo sguardo indagatore di Vera e scrollò le
spalle. «Ho chiesto ad alcuni dei miei colleghi quale potesse
essere il negozio di cui avevi parlato, e visto che non avevo niente da
fare, ci sono andato».
In Vera, lo stupore per quella gentilezza fu tale
da non lasciare spazio nemmeno alla commozione. Quando poi si
accorse che Vittorio aveva comprato ben due confezioni extralarge di
palline, si mise a cercare il portafogli. «Non dovevi.
Aspetta, ti ridò i soldi».
La mano ruvida di Vittorio spinse la sua di nuovo
nella borsa insieme al portafogli. «Non voglio
niente».
«Devo insistere» rispose Vera.
«No, non devi».
L’uomo le rivolse la sua espressione più
irritante. «Il regalo l’ho fatto a Hermes, mica a
te».
La ragazza non riuscì a rispondere. Si
limitò a guardare Vittorio: fissava Hermes, che
saltava felice e si rotolava nel prato di fronte a loro con la
pallina in bocca, e un vago sorriso soddisfatto gli aleggiava
sulle labbra. Non l’aveva mai visto così
rilassato: in quel momento appariva in pace con il mondo, ed
era così strano che non sembrava neanche lui.
«Sai, Valenti»
esordì lentamente Vera, «sei proprio...».
«... stronzo?» concluse l'uomo
per lei.
La donna arricciò il naso.
«Sì, ma non era quello che volevo dire adesso. Tu
sei strano» annunciò.
Vittorio inarcò le sopracciglia.
«Da coglione, a stronzo, a strano: facciamo
progressi!»
Lei gli diede uno schiaffo sul braccio.
«Mi lasci parlare?»
«Se proprio devo...». Vittorio
si piegò di lato per evitare un secondo colpo.
«Sei violenta, ragazzina».
«E tu irritante»
sbuffò Vera. Incrociò le braccia e strinse le
labbra prima di voltarsi dall'altra parte: il carabiniere si trattenne
a stento dal ridere di fronte all'espressione petulante di lei.
«Avanti, parla» la
spronò mentre le punzecchiava le costole con un dito.
«Sono strano, e poi?»
«Perché, non
basta?» brontolò Vera. Guardò gli occhi
ridenti dell'uomo e alzò i propri al cielo. «Ti
sei fatto la strada fino a Tor di Quinto solo per comprare le palline
preferite del mio cane: dire che sei strano è il
minimo».
Il carabiniere si strinse nelle spalle.
«Ne stai facendo un affare di Stato. Hai detto che tu da
quelle parti ci passi solo una volta al mese, e immagino che tra il
lavoro e tutto il resto non ti avanzi tempo per andarci quando ti pare:
io invece, una volta finito il turno, non ho niente da fare, quindi non
mi è costato nulla farmi una passeggiata in zona e
approfittarne per cercare il negozio e comprare le palline. Tutto
qui».
Vera inarcò le sopracciglia.
«Sarebbe “tutto qui” se l'avessi fatto
per un amico o un parente... ma l'hai fatto per me».
S'interruppe un momento. «O meglio, per il mio cane, ma
è lo stesso. Insomma, tu non mi sopporti, ormai si
è capito – e il sentimento è reciproco,
eh – quindi la cosa mi confonde un po'».
«Io non ti sopporto quando fai la strega
acida» la corresse Vittorio. «Che è il
tuo modo di fare di tutti i giorni, quindi sì, ai fini della
nostra conversazione non ti sopporto praticamente mai... ma non sono
cattivo come pensi tu» aggiunse, un po' offeso. «E
poi non ho fatto niente di speciale, però a forza di
parlarne inizio a pentirmene, quindi possiamo cambiare
argomento?»
Vera incrociò di nuovo le braccia e si
affondò le dita nei bicipiti. «Non hai risposto
alla mia domanda, prima».
«Che domanda?»
replicò lui, confuso.
«Su come va con tua moglie»
ripeté paziente la donna.
«Quando ti ho chiesto di cambiare
argomento, non intendevo certo dire che preferisco parlare di questo»
brontolò Vittorio. «E poi, perché ti
importa?»
Lei sospirò. «Neanche io sono
cattiva come credi, sai?»
Vittorio si accigliò e si
grattò il mento. Hermes scelse quel momento per tornare da
loro con la pallina tra i denti; l'uomo gliela tolse di bocca e lo
accarezzò un paio di volte prima di lanciare di
nuovo il giocattolo, per prendere tempo.
«Con mia moglie non va»
rispose lentamente il carabiniere, decidendosi a parlare.
«Non ci vediamo da quando sono tornato a Roma e ci sentiamo
forse due volte a settimana ormai... e solo per litigare». Si
appoggiò allo schienale della panchina. «Sono
stufo anche di pensare a lei: mi sembra che il mio matrimonio sia
diventato una farsa, ma dopo quasi vent'anni insieme non...
non riesco ancora a pensare di dargli un taglio netto». Rise
con disprezzo. «Forse perché non voglio ammettere
la sconfitta, chissà...»
Vera scrollò le spalle. «Io
non ne so granché di queste cose, ma penso sia normale,
avere difficoltà a lasciare una persona con cui hai
trascorso metà della tua vita».
«Be', non dovrebbe esserlo, se insieme
non si sta più bene» commentò Vittorio.
«È che mi sento come se mi avessero tagliato fuori
dalla mia stessa vita, e questa cosa mi manda in
bestia».
«Non sentirti solo»
mugugnò Vera.
L'uomo si voltò a guardarla e si rese
immediatamente conto di quello che aveva detto. «Scusa.
Pessima scelta di parole... pessima davvero».
Vera scrollò le spalle una seconda
volta. «Almeno tu non continui a ricordarmi che mi
manca una gamba» disse in tono incoraggiante.
Vittorio la guardò con tanto d'occhi.
«Hai appena detto una cosa positiva su di me!». Si
accasciò sulla panchina, una mano premuta sul
cuore. «Presto, un defibrillatore! Il mio cuore non
reggerà!»
«Imbecille»
bofonchiò Vera. Alzò gli occhi con l'intento di
controllare Hermes appena in tempo per vedere il pastore tedesco
partire alla carica verso due ragazzini che giocavano con un frisbee,
fare un gran salto e afferrare il disco prima di ricadere a terra e
saltellare con il giocattolo tra i denti, fiero di sé.
«Hermes!»
Il cane la ignorò e continuò
a saltare a destra e a sinistra per evitare i tentativi dei ragazzi di
recuperare il frisbee: a giudicare dal suo entusiasmo, lo considerava
un fantastico gioco.
«Io davvero non so che fare con quel
cane!» esplose Vera. Si alzò per andarlo a
prendere, ma Vittorio si mise in piedi a sua volta prima che lei
potesse fare un solo passo.
«Lascia stare, ci penso io» la
bloccò. Vera sbuffò, ma non disse nulla: si
limitò a fare un gesto eloquente con la mano in
direzione di Hermes, e Vittorio andò dritto verso il punto
in cui il cane continuava a rotolare e saltare tra le risate dei due
ragazzini.
I due guardarono Vittorio non appena fu vicino a
loro: a occhio dovevano avere circa dodici anni, e sembravano divertiti
quanto Hermes.
«Bel cane! È tuo?»
chiese il più alto dei due.
«No, è della ragazza
laggiù, quella arrabbiata» rispose Vittorio,
indicando Vera: era ancora in piedi davanti alla panchina e fissava
Hermes con uno sguardo di disapprovazione, le mani sui fianchi.
Vittorio diede una pacca leggera sulla schiena del cane. «Sei
nei guai, amico: molla l'arma del delitto e torna indietro con me,
prima che la tua padrona si arrabbi sul serio».
Hermes non sembrava pronto a rinunciare al suo
nuovo passatempo; guaì intorno al frisbee e tentò
di portarsi fuori tiro, ma Vittorio afferrò al volo il disco
di plastica.
«Non ci siamo capiti, caro amico
peloso» disse il carabiniere. «Non sono venuto per
trattare: molla il frisbee... e molla!» aggiunse;
tirò il disco, Hermes fece altrettanto, e i due ragazzini
scoppiarono a ridere. Vittorio guardò il cane dritto negli
occhi. «Hermes, lascia il frisbee»
ordinò con voce bassa e decisa. «Adesso».
A malincuore, il pastore tedesco aprì
la bocca; Vittorio restituì il frisbee ai due ragazzini,
afferrò il collare di Hermes per assicurarsi che il cane non
scappasse e lo guidò con delicatezza verso la panchina, dove
furono accolti da una Vera indignata.
«Cane cattivo!»
sbottò la donna non appena Hermes le fu davanti. Il cane
uggiolò e la guardò con occhi imploranti, ma lei
non si lasciò intenerire. «Quante volte ti ho
detto che non puoi andare a fare lo scemo con gli
sconosciuti?»
«Dai, Gamba Bionica, non è
successo niente» commentò Vittorio, lasciandosi
cadere di nuovo sulla panchina.
«Valenti, Hermes sarà pure
carino e coccolone, ma rimane un cane da difesa»
ribatté secca Vera, sorvolando su quel soprannome che
proprio non le andava giù. «Magari qualcuno che ha
paura dei cani o semplicemente non sa che è addestrato e di
buon carattere, se lo vede arrivare addosso a tutta velocità
e si spaventa a morte. Potrebbero anche pensare che li stia attaccando,
e io non voglio che nessuno si metta paura, né che il mio
cane venga portato via per controllare che non sia pericoloso: va' a
sapere che potrebbe succedergli!» esplose.
Vittorio tacque per alcuni istanti.
«Be', sì, tu hai ragione» ammise.
«Però non ha fatto comunque niente di
male...»
Hermes appoggiò il muso alla panchina e
guardò fisso Vittorio, quasi avesse capito che l'uomo lo
stava difendendo.
«Non guardare lui, Hermes: guarda
me» lo richiamò Vera. «Tanto non
è con lui che tornerai a casa, e non ci sarà
sempre a perorare la tua causa! Sei stato cattivo, hai capito? Non si
fa. E adesso resti qui: per oggi non si gioca più»
proseguì, indicando il pavimento accanto alla panchina in un
chiaro comando. «A cuccia!»
Hermes si sdraiò con aria mesta e Vera
sedette di nuovo. Lanciò un altro sguardo al cane.
«Da quando hai scelto Valenti come tuo nuovo amico, stai
diventando un ragazzaccio indisciplinato» lo
rimproverò, agitandogli contro il dito.
«Così proprio non va!»
«E ti pareva che era colpa
mia» bofonchiò Vittorio. Rialzò la
testa con uno scatto d'orgoglio. «Ma non staremo qui a farci
maltrattare: spostati, Gamba Bionica».
«Smettila di chiamarmi
così!» ringhiò lei.
«Sì, sì, come ti
pare: basta che ti fai più in là»
rispose sbrigativo. «Dai! Muoviti!»
Vera scivolò fino
all'estremità della panchina; il carabiniere la
seguì, poi batté la mano sulla seduta libera.
«Hermes! Qui, bello, sali!»
Il pastore tedesco non se lo fece ripetere:
balzò sulla panchina, si sdraiò occupando tutto
lo spazio libero e posò il muso sulla coscia di Vittorio,
felice. Il carabiniere prese ad accarezzarlo e fargli grattini sulla
testa e sui lati del muso; Hermes guaì contento e
scodinzolò con tutta la forza che aveva.
«Bello. Sei proprio bello bello
bello» lo vezzeggiò Vittorio.
«Sì, bravo, vizialo anche
tu» mugugnò Vera. «Già
c'è mio padre che gli dà gli snack anche quando
non obbedisce e mia madre che di nascosto gli riporta i giochini quando
glieli porto via per punizione: mancavi solo tu, a coccolarlo quando
non fa il bravo».
«Non è colpa nostra se Hermes
è irresistibile» replicò Vittorio prima
di rivolgersi al diretto interessato. «È vero che
sei irresistibile, no?»
Hermes abbaiò, soddisfatto delle
attenzioni che stava ricevendo.
«Vanesio» disse Vera a mezza
voce.
Tanto Vittorio quanto il cane la ignorarono. La
ragazza decise di fare altrettanto: infilò le mani nelle
tasche del giaccone e guardò distrattamente i passanti,
prestando orecchio solo di tanto in tanto ai complimenti che il
carabiniere sussurrava a Hermes e agli uggiolii di quest'ultimo. Rimase
immersa nei propri pensieri tanto che, quando l'uomo accanto a lei le
rivolse la parola, neanche lo sentì: Vittorio fu costretto a
darle un colpetto con la spalla per attirare la sua attenzione.
«Bentornata!» disse ironico
Vittorio quando Vera si girò a guardarlo con espressione
interrogativa.
Lei sbuffò. «Che
vuoi?»
Vittorio si strinse nelle spalle. «Fare
due chiacchiere? Intendiamoci, Hermes è cento volte
più piacevole di te, ma con lui la conversazione
langue».
Vera tentò con scarso successo di
reprimere una risata: il risultato fu uno strano grugnito nasale, e per
soffocarlo si premette la mano sulla parte inferiore del viso. Quando
finalmente riuscì a riprendere fiato, scelse di ignorare
l'espressione compiaciuta del carabiniere.
«D'accordo, Valenti: mi hai fatta
ridere, quindi direi che ti sei guadagnato il diritto di
parlarmi» decretò la donna.
Lui inarcò le sopracciglia.
«No! Sei davvero troppo
generosa!»
«Ehi, non farmi cambiare subito
idea» lo ammonì.
«Non sia mai»
sghignazzò Vittorio. Per un istante Vera lo
guardò malissimo e sembrò pronta a dargli un
altro pugno; poi, con un grugnito incomprensibile, affondò
ancora di più le mani nelle tasche. «Se spingi un
po' di più, ci farai i buchi, in quelle tasche»
aggiunse lui.
Vera gli rivolse uno sguardo sardonico.
«Sei irritante. E poi ti sorprendi che l'unico a sopportarti
sia un cane...»
«Non è colpa mia se sei
suscettibile» le fece notare Vittorio.
«Senti chi parla!»
ribatté all'istante la donna, mettendosi diritta di scatto.
Vittorio alzò le mani in un gesto
conciliante. «Piano, ragazzina: non c'è bisogno di
mordere. Piuttosto, perché non mi dici che lavoro
fai?»
Vera si lasciò di nuovo andare contro
lo schienale della panchina. «Curioso, Valenti?»
«Abbastanza» ammise lui.
«È che non ce la vedo, una come te, ferma dietro
una scrivania. Non se puoi evitarlo».
La donna scosse la testa e ridacchiò.
«Non hai proprio capito niente di me. Stai pensando al fatto
che ero una ginnasta, vero?». Vittorio annuì.
«Be', tuo padre non era l'unico a leggerti i classici al
posto delle fiabe. Il mio, per esempio...»
Vera si lanciò nel racconto dei propri
studi e del lavoro per il professor Maesani, incalzata dalle domande di
Vittorio, e quando i due si resero conto che il parco era praticamente
deserto, l'ora di cena era passata ormai da un pezzo.
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
Vera aveva trascorso una settimana insolitamente tranquilla. Finalmente
le sue giornate si erano assestate su una piacevole routine:
lavoro col professor Maesani al mattino, palestra tre pomeriggi a
giorni alterni, e in quelli liberi lunghe passeggiate al parco con
Hermes. Quel martedì sera aveva scelto di dedicarlo a Giulia
e Tiziano: aveva cenato da loro, giocato con Ludovica, riso e scherzato
con i suoi migliori amici come non succedeva da quasi un anno. Quando
era rientrata a casa era mezzanotte passata, e sebbene in quel momento
l'allegria l'avesse fatta sentire carica di energie, Vera aveva avuto
il fondato sospetto che il giorno seguente sarebbe stata parecchio
più stanca.
Per sua fortuna, il mattino dopo ci
pensò Eugenio a strapparla dall'intontimento.
Erano le sette e venti; la ragazza era
già al secondo caffè e seguiva distratta la
rassegna stampa in televisione quando sentì suo padre
incespicare giù per le scale e correre in salotto mentre
parlava al telefono.
«Sì... sì, l'ho
trovato» annunciò trionfante la voce dell'uomo;
pochi istanti più tardi, Eugenio sbucò in cucina.
«Non lo so, sono in ritardo anch'io...»
Vera rivolse uno sguardo interrogativo a suo
padre. «Che è successo?»
mimò, accompagnando il tutto con un eloquente gesto
della mano.
«Luciano e Anna sono stati a cena da noi
ieri, e a Luciano è caduto il portafogli in sala»
rispose in fretta Eugenio dopo aver scostato un po' il
telefono, agitando il portafogli in questione. «Se
n'è accorto solo adesso e gli serve, ma non fa in tempo a
passare prima di andare in caserma e io sono in ritardo».
«Be', glielo porto io, no?»
disse semplicemente sua figlia. «Tanto sono in pari con il
lavoro; devo aspettare che arrivi il professore per sapere cosa devo
fare, e lui non arriva mai prima delle nove».
Eugenio sospirò di sollievo e si
premette di nuovo il cellulare sull'orecchio.
«Lucià, tutto a posto: passa Vera in caserma a
riportarti il portafogli, vai tranquillo. E di che, e di che... ci
mancherebbe. Ciao». Diede il portafogli a Vera e le
scoccò un bacio sulla guancia. «Grazie,
tesoro».
«Capirai pa', per così
poco» rispose lei. «Ci vediamo stasera».
«A stasera!» rispose
frettolosamente Eugenio, già in corridoio.
Vera scosse la testa tra sé e
finì di bere il caffè; stava giusto mettendo la
tazzina nella lavastoviglie quando anche sua madre
entrò in cucina.
«Che era tutto quel casino,
prima?» chiese Fabiola.
«Soltanto papà che non vede
mai le soluzioni che ha sotto il naso» sbuffò
divertita Vera. «Senti, ma', hai bisogno di qualcosa?
Perché devo uscire un po' prima e fare una cosa per
papà, e se non ti serve una mano qua a casa, vado
subito».
«Tranquilla, tesoro, devo solo stendere
i panni e fare le solite cose: non mi serve nulla»
rispose Fabiola. L'abbracciò per un momento e le
diede un bacio sulla guancia. «Mi raccomando, vai
piano. Ci vediamo a pranzo».
«Ci puoi scommettere: ho visto in frigo
un avanzo di tiramisù col mio nome sopra»
sogghignò sua figlia. «Non osare
toccarlo!»
Fabiola alzò gli occhi al cielo.
«Fossi matta! E adesso sbrigati, su».
«Sissignora»
ridacchiò Vera; mise al sicuro nella borsa il portafogli del
maresciallo Testa, s'infilò la giacca e uscì.
******
Vittorio capì che qualcosa non andava prima ancora di aprire
gli occhi.
Con un grugnito, il carabiniere rotolò
su un fianco e aprì gli occhi: la parete della sua
vecchia camera da letto lo accolse, ancora completa dei poster
che aveva attaccato da adolescente. Nulla di strano,
considerato che sua madre non aveva toccato né buttato
nulla, dal giorno in cui lui aveva lasciato quella casa.
Vittorio scalciò le coperte, si
alzò e andò in cucina strofinandosi gli occhi.
Agnese, sua madre, gli si avvicinò, e
non appena fu seduto, gli diede un bacio sulla fronte e
iniziò a lisciargli i capelli.
«Buongiorno, amore di mamma»
disse la donna. Vittorio mugugnò e provò a
scostarsi, ma sua madre lo tenne fermo. «Sei ancora conciato
così?» aggiunse mentre squadrava la vecchia tuta e
la maglietta sformata con cui aveva dormito.
«Mi hai costretto a venire qui alle
dieci di sera per sistemarti quel dannato lavandino, hai insistito
perché restassi a dormire da te e cerchi di farmi la predica
appena sveglio?» bofonchiò l'uomo.
«Tu non mi vuoi per niente bene, ma'».
Sua madre gli diede un buffetto tutt'altro che
gentile sulla testa. «Lo dicevo per te: pensavo iniziassi il
turno alle otto».
«E allora?»
sbadigliò Vittorio.
In silenzio, Agnese indicò l'orologio
appeso alla parete.
«Le sette e un quarto!».
Vittorio schizzò in piedi, ormai perfettamente sveglio, e si
scaraventò fuori dalla porta. «Cazzo,
cazzo, cazzo!»
«Modera il linguaggio,
signorino!» gli urlò dietro sua madre.
«Ma che modero»
borbottò furioso Vittorio tra sé mentre
s'infilava a tutta velocità i vestiti del giorno prima.
«Me modera Luciano se faccio tardi, cazzo! N'artro richiamo
no!»
Agnese, che l'aveva seguito, lo guardò
saltellare su un piede solo verso il corridoio e tentare
contemporaneamente di allacciarsi l'altra scarpa.
«Non fai colazione?» chiese
candidamente la donna.
«Ma che faccio,
mààà» ruggì
Vittorio. «Non c'ho tempo manco de lavamme la faccia e
secondo te me posso fermà a magnà? Me
devo sbrigà!»
Sua madre allargò le braccia.
«Non c'è bisogno di scaldarsi: non ti trattengo
mica».
«E ce mancherebbe»
grugnì lui; recuperò le ultime cose,
spalancò la porta d'ingresso e corse giù
per le scale saltando i gradini tre a tre, pregando tutti i santi che
gli vennero in mente di arrivare in tempo al lavoro.
******
Alle otto meno un quarto, il comando di Tor Sapienza era
pressoché deserto: quando Vera arrivò,
c'era soltanto il carabiniere nella guardiola all'ingresso.
«Buongiorno» salutò
cordiale Vera, avvicinandosi al vetro. «Sono Vera Nicolini,
avevo avvertito il maresciallo Testa che sarei passata.
È già arrivato?»
Il carabiniere la squadrò, un po'
sospettoso. «Un momento». Alzò la
cornetta del telefono e compose un numero interno.
«Maresciallo? C'è qui una ragazza che dice di
doverla vedere...». Guardò Vera. «Come
ha detto che si chiama?»
«Vera Nicolini»
ripeté paziente lei.
«Vera Nicolini»
ripeté il carabiniere nel microfono. «Subito,
maresciallo». Mise giù la cornetta e
indicò un battente a vetri poco distante. «Oltre
la porta vada a destra, l'ufficio del maresciallo è
la terza stanza sempre sulla destra».
«Grazie mille». Vera
seguì le indicazioni del carabiniere e imboccò il
corridoio: sentì le voci soffocate di alcune persone
provenire dalla direzione opposta alla sua mentre camminava
– probabilmente agenti che si preparavano a iniziare il turno
– ma non si fermò fino a quando non
arrivò alla porta in questione. Bussò forte e la
porta si aprì; Luciano l'accolse con un gran sorriso,
sebbene fosse chiaramente di fretta: era ancora in abiti civili e
torturava l'orologio da polso.
«Ciao, Vera!» la
salutò il maresciallo.
«Ciao, Luciano» rispose lei.
Si frugò nella borsa e ne estrasse il portafogli.
«Ecco qua».
L'uomo prese l'oggetto e lo appoggiò
alla scrivania dopo avergli lanciato un'occhiataccia, neanche fosse
stata colpa del portafogli l'essergli caduto di tasca.
«Grazie per esserti scomodata a venire fin qui,
Vera, sul serio».
«Non c'è bisogno di
ringraziarmi, dai: tanto il tempo ce l'avevo» rispose Vera.
«Tu invece mi sembri di fretta, quindi non ti trattengo
oltre».
Luciano allargò le braccia in un gesto
eloquente, come a darle ragione. «Lo ammetto, sono veramente
in ritardo. Scusami...»
«Ma va', scusa di che» lo
liquidò Vera con un sorriso. Gli tese la mano, e lui la
strinse. «Passa una buona giornata».
«Anche tu, e salutami tuo
nonno!» replicò Luciano.
Vera lasciò l'ufficio e ripercorse il
corridoio, poi si fermò un istante per rivolgere un cenno di
saluto al carabiniere all'ingresso: era appena uscita dal comando
quando Vittorio quasi la travolse.
«Ehi, Valenti, già isterico
di prima mattina?» sbuffò, aggrappandosi alla
porta per non cadere.
«Sono in ritardo».
L’uomo ringhiò a nessuno in particolare.
«Non ho neanche fatto colazione. Io non posso
iniziare la giornata senza caffè, e non sono riuscito a
berne nemmeno un goccio. E poi ho fame!»
La ragazza arricciò il naso.
«Lascia perdere la colazione, Valenti, e vatti a preparare,
sennò il maresciallo ti prende a calci» lo
ammonì, glissando sul fatto che Luciano stesso era in
ritardo.
«Grazie del consiglio inutile»
grugnì lui: girò sui tacchi e corse a prepararsi,
maledicendo d’aver assecondato sua madre restando a dormire
da lei.
Vera lo guardò sparire nell'edificio e
scosse la testa, sorridendo tra sé; poi se ne
tornò alla propria auto e ripartì alla volta
dell'università.
Vittorio, al contrario di Vera, non le
dedicò un secondo pensiero: si precipitò nella
propria stanza e indossò la divisa in due minuti netti, poi
si unì agli altri carabinieri già intenti a
espletare le procedure obbligatorie prima di entrare in servizio.
Nel momento in cui riemerse insieme ai colleghi
del suo turno, nell’ingresso c’era soltanto un
barista dall’aria scocciata.
«Chi di voi è
l’agente Valenti?» chiese. Quando Vittorio si fece
avanti, gli ficcò un bicchierino di plastica e un
sacchetto di carta tra le mani. «Caffè doppio,
cornetto alla crema e saccottino al cioccolato»
elencò.
«Io non ho ordinato niente»
replicò Vittorio, cercando di restituirgli il tutto.
«Lo so» rispose sbrigativo il
barista. «Ah, la ragazza che le ha pagato la colazione mi ha
chiesto di darle anche questo» aggiunse, porgendogli un
bigliettino.
«Una ragazza? Valenti, che ti sei
trovato un’ammiratrice?» lo presero in giro i
colleghi.
Lui non li ascoltò e aprì il
foglietto. «“Una
colazione sostanziosa tutta per te, così non
appesterai le orecchie del tuo collega lamentandoti per la
fame. Vera”» lesse sottovoce. Sorrise
suo malgrado: Emanuela non si era mai sognata di mandargli la colazione
prima o dopo un turno, e non si era preoccupata di fargli trovare
qualcosa di pronto da mangiare se non nei primissimi mesi di
matrimonio. «Ehi!» urlò, richiamando il
barista che già si allontanava. Alzò il
caffè. «E lo zucchero?»
Quello sbuffò. «La ragazza ha
detto che era inutile metterlo, perché non basterebbe tutto
lo zucchero del mondo ad addolcirla».
Stavolta i suoi colleghi scoppiarono tutti a
ridere di gusto.
«Hai proprio
un’ammiratrice… e che ammiratrice! Deve essere una
tosta!» commentarono.
Vittorio addentò il saccottino.
«Oh, lo è».
******
Quel pomeriggio, Vera aveva il turno nella palestra di Giovanna; in
tuta e con le mani sui fianchi, stava dirigendo già da venti
minuti una ragazzina impegnata con gli esercizi sulla trave
quando Giovanna l'affiancò.
«Vè, hai visite»
annunciò la cinquantenne.
«Chiunque sia,
aspetterà» replicò l'altra prima di
rivolgersi alla dodicenne che si allenava. «Diana, tesa la
gamba avanzata, quando prepari la rondata: non piegare il
ginocchio». Diana annuì ed eseguì
l'esercizio, atterrando in piedi sul tappetino all'estremità
della trave; anche Vera annuì. «Bravissima. Lo
vedi che quando vuoi, ti riesce? Adesso torna su e rifallo».
«Vera, ci penso io a seguire Diana. Tu
vai all'ingresso» la richiamò Giovanna.
La venticinquenne sbuffò irritata.
«Giovà, mi dà fastidio che vengano a
scocciarmi mentre sto lavorando: non lo devono fare a meno che non sia
una questione di vita o di morte, e se fosse questo il caso, non
saresti così tranquilla».
Giovanna incrociò le braccia sul petto.
«Vera, io apprezzo la tua etica sul lavoro, non sai quanto:
quando sei qui non ti lasci distrarre da niente e nessuno per dedicarti
completamente ai ragazzi, e non potrei chiederti di più.
Quindi, se per una volta sono io stessa a dirti di farti distrarre per
cinque minuti, dammi retta, va bene?» replicò.
«Ah, il “va bene” finale è
solo retorico: vai all'ingresso e spicciati!»
Vera alzò per metà le
braccia, esasperata, poi si allontanò, consapevole che per
nessun motivo Giovanna avrebbe ceduto. Percorso tutta la
strada bofonchiando tra sé, e quando
oltrepassò le porte che separavano l'ingresso dalla
palestra vera e propria, si trovò davanti Vittorio.
«Valenti» disse tra i denti la
ragazza: se c'era qualcosa in grado di irritarla più di aver
interrotto il proprio lavoro, era l'averlo fatto per
quell'uomo. «Che ci fai qui?»
«Sono venuto a ringraziarti per la
colazione» rispose lui, le mani infilate in tasca e l'aria
rilassata.
«Figurati» commentò
Vera con una scrollata di spalle. «Non c'era bisogno di
venire fin qui solo per questo».
«Mi andava». Vittorio colse
l'espressione sbalordita di Vera e soffocò una risata.
«Ti vorrei offrire una birra. Hai da fare, stasera?»
«N-no» balbettò
lei, ancora incredula. «Però non ce n'è
bisogno, sai».
Vittorio sospirò con aria da martire.
«Perché stamattina mi hai pagato la colazione e me
l'hai fatta portare in caserma?»
Vera si strinse nelle spalle, improvvisamente
insicura: quel mattino aveva solo seguito un moto dettato dall'istinto,
facendo portare la colazione a Vittorio, e non si era voluta fermare a
pensarci. «Non so... mi faceva piacere, ecco»
pigolò.
«E a me farebbe piacere offrirti
qualcosa da bere» disse Vittorio. «Non rendere
tutto più complicato come fai sempre: di' di sì e
basta».
«Io... va bene» cedette Vera.
«Certo, però, che sei proprio un
prevaricatore».
«Sei tu che fai storie anche per le cose
semplici» ribatté lui. «Va bene se ti
passo a prendere alle nove?»
«Guarda che ho sia la patente che la
macchina» gli ricordò Vera.
«Dio, perché devi sempre
protestare?» esalò Vittorio, chiudendo gli occhi;
si strinse la radice del naso tra pollice e indice per un
momento prima di guardare di nuovo la ragazza. «Quando invito
una donna a uscire, che sia per amicizia o per altro, sono abituato ad
andarla a prendere e riaccompagnarla: mio padre mi ha insegnato
così. Quindi, per favore, puoi assecondarmi e
basta?»
Vera alzò gli occhi al cielo e
sospirò. «Va bene, Valenti, come ti
pare».
Vittorio allargò le mani e
guardò al cielo a sua volta in un muto gesto di sollievo,
poi rubò un pezzo di carta e una penna dal banco della
segretaria e ci scribacchiò sopra prima di darlo a Vera.
«Questo è il mio numero: più tardi
mandami un messaggio con l'indirizzo di casa tua. E non fingere di
dimenticartene solo per darmi buca» l'ammonì con
le sopracciglia inarcate.
«Non oserei mai» rispose
ironica Vera.
«Non sei credibile» gli
ritorse contro Vittorio, agitandole l'indice davanti al naso.
«A stasera, Gamba Bionica»
salutò mentre usciva.
«Ancora? Non farmi pentire di averti
detto di sì!» strillò furiosa Vera, ma
l'uomo se n'era già andato. Incerta se essere esasperata con
lui per quell'abitudine di farle saltare i nervi o con se stessa per
aver accettato il suo invito, Vera si mise le mani nei capelli e
borbottò oscenità per un intero minuto prima di
decidersi a tornare da Giovanna, chiedendosi vagamente se la sua ex
allenatrice, sua madre e la sua migliore amica non avessero fondato un
fan club segreto di Vittorio Valenti.
******
Vera non era certa di quale follia l'avesse posseduta quando aveva
accettato l'invito di Vittorio; non l'aveva capito sul
momento, e ancora meno riusciva a comprenderlo ore dopo. Erano ormai le
nove meno un quarto; aveva mandato il messaggio come intimato dal
carabiniere e in quel momento, con il cappotto in una mano e la borsa
nell'altra, si chiese per la prima volta cosa avrebbe raccontato ai
suoi genitori per spiegare il fatto che stava per uscire con un uomo a
cui avrebbe volentieri staccato la testa.
Sospirando tra sé, Vera uscì
dalla propria stanza, sistemò cappotto e borsa
perché non la intralciassero troppo e scese a fatica le
scale; giunta nell'ingresso, appese tutto all'attaccapanni e
seguì le voci dei suoi genitori fino al salotto.
Eugenio fu il primo a notare la sua presenza.
«Vè? Che ci fai vestita
così?» chiese: in casa sua figlia era solita
indossare tute e vecchie felpe, e non jeans e magliette scollate come
in quel momento.
«Esco» replicò lei.
«Sono venuta ad avvisarvi».
Suo padre le rivolse uno sguardo indagatore.
«Esci» ripeté. «E con
chi?»
Vera alzò gli occhi al cielo.
«Con chi vuoi che esca, pa'? Non è che io sia una
grande amante del genere umano. Non più,
almeno» rispose con un pizzico d'amarezza, nel tentativo di
sviare la domanda. «Non ho voglia di mettermi a fare nuove
amicizie, credevo te ne fossi accorto».
Eugenio la scrutò con attenzione per
alcuni lunghi istanti, poi scrollò le spalle,
apparentemente convinto.
«Mandami un messaggio quando arrivi e
uno quando riparti» ordinò prima di tornare a
guardare la televisione.
«Sì» rispose Vera,
alzando di nuovo gli occhi al cielo mentre andava verso la porta.
«E non fare tardi» le
urlò dietro Fabiola.
«Sì-ì»
cantilenò sua figlia; recuperò il cappotto e se
lo infilò.
«E divertiti!»
gridò ancora Fabiola.
«Sì, ma', sì!»
urlò in risposta Vera: prese la borsa e zoppicò
fuori dalla porta d'ingresso prima che ai suoi genitori
venisse in mente di dirle o chiederle qualcos'altro. In giardino
accarezzò Hermes, che era corso da lei non appena l'aveva
vista aprire la porta, e soppesò la macchina con lo sguardo
prima di mettere il broncio e uscire dal cancello.
La ragazza si guardò intorno: un paio
di metri più avanti, sulla destra, c'era un'Alfa gt grigio
scuro, ferma ma col motore e i fari accesi. Il guidatore mise il
braccio fuori dal finestrino e lo agitò un paio di volte, e
Vera raggiunse la macchina per poi buttarsi a peso morto sul sedile del
passeggero.
Vittorio inarcò le sopracciglia.
«Comoda?»
«Abbastanza» rispose Vera,
ironica; tirò un po' indietro il sedile e osservò
attentamente gli interni dell'auto. «Bella
macchina» disse sincera.
L'uomo batté una mano sul cruscotto con
fare affettuoso. «Lo so». Ingranò la
prima e si avviò lungo la strada deserta.
«Hai preferenze su dove andare, o ti fidi di me?»
Vera sbuffò piano. «Visto che
si tratta solo di andare a bere qualcosa, farò uno sforzo e
proverò a fidarmi di te» disse.
«Ma se mi porti in un qualche locale equivoco, giuro che ti
ammazzo» aggiunse minacciosa.
«Pensi davvero che potrei portarti in
uno strip club, o magari in un locale di scambisti? Non ci sono mai
andato neanche quando ero ragazzo, di sicuro non inizierò
adesso e con te» replicò Vittorio,
alzando gli occhi al cielo per un brevissimo istante.
«Tieni gli occhi sulla strada, va
bene?» scattò Vera. «Quando avrai
parcheggiato potrai pure camminare a occhi chiusi, ma fino a quel
momento, guarda dove vai».
Vittorio si morse la lingua per frenare la
risposta aspra che gli era spontaneamente salita alle labbra. In una
qualsiasi altra situazione, con un'altra persona, niente l'avrebbe
fermato dal mandarla al diavolo; ma con Vera, ormai sapeva che si
trattava solo di una reazione istintiva dettata dalla paura.
«Posso parlare o devo anche stare
zitto?» chiese calmo dopo aver preso un bel respiro.
Lei ci pensò su per un po'.
«Puoi parlare» concesse
infine. «Ma solo se non mi fai infuriare».
Vittorio sbuffò. «La serata
promette bene» bofonchiò a mezza voce. Decise di
tacere e accese la radio: entrambi ascoltarono la musica senza
dire una parola, e dopo circa venti minuti arrivarono a destinazione.
«Eccoci» annunciò
Vittorio; parcheggiò vicino all'ingresso e corse ad aprire
la portiera per far uscire Vera, che lo guardò con le
sopracciglia inarcate e l'espressione beffarda. «Non
guardarmi così, non è un trattamento
speciale riservato a te» mugugnò.
«Non avevo dubbi».
Chiusa la macchina, i due entrarono nel locale: un
posto simile a molti altri, con tavoli di varie misure completati da
sedie di legno e in alcuni casi delle panche, un lungo bancone ad
angolo e un palco addossato alla parete opposta alla porta. Era caldo
e, per essere mercoledì sera, piuttosto affollato.
Vittorio fece un cenno di saluto all'uomo alla
cassa, che ricambiò prima di indicargli un tavolino
seminascosto in un angolo; il carabiniere annuì e
guidò Vera fin lì, poi le spostò la
sedia perché potesse accomodarsi. Quando lei gli
rivolse l'ennesimo sguardo sardonico, lui s'incupì.
«Togliti quell'espressione dalla faccia,
ragazzina: faccio così con tutte le donne, a
cominciare da mia madre. Non sei speciale»
ribadì.
Vera intrecciò le dita e vi
appoggiò il mento, guardandolo malandrina. «Anche
con tua moglie?»
«Per i primi otto anni»
rispose Vittorio, sedendo a sua volta. «Poi una sottospecie
di femminismo deviato ha preso possesso del suo cervello e mi
ha intimato di smettere di tenerle aperta la porta, o
spostarle la sedia, e tutte queste cose, perché non
è una bambolina delicata incapace di farlo da sola:
come se il mio essere galante la rendesse meno indipendente».
La venticinquenne scoppiò a ridere.
«E poi dici a me che sono acida? Anche facendo del mio
meglio, confronto a tua moglie resto uno zuccherino!»
«Vero» convenne Vittorio.
«Ma visto l'impegno che ci metti, mi sembra giusto premiare i
tuoi sforzi».
Vera rise ancora; era talmente intenta a
sghignazzare che sulle prime non notò la cameriera che si
era avvicinata al loro tavolo.
«Buonasera» disse la ragazza.
Aveva all'incirca l'età di Vera, e l'ex ginnasta la
guardò con invidia: la sua pelle chiara sembrava liscia come
seta e contrastava in modo netto con i capelli neri, e i lineamenti
delicati facevano pensare a una bambola di porcellana finissima. In
più, notò Vera con amarezza, non solo aveva
entrambe le gambe, ma sembravano anche lunghe e affusolate, fasciate
dai jeans aderenti che indossava. Più la guardava,
più Vera si sentiva insignificante: sapeva di
essere carina, ma dall'incidente aveva iniziato a curare molto meno il
suo aspetto e il suo abbigliamento, e quella ragazza così
bella la faceva sentire sciatta e trascurata.
Immersa in quei pensieri cupi, Vera non si accorse
che Vittorio le stava parlando fino a quando non le schioccò
le dita davanti al naso.
«Ci sei?» chiese il
carabiniere quando la vide battere le palpebre.
«Sì, ci sono»
mugugnò Vera. «Che mi sono persa?»
«Ti ho chiesto se hai voglia di mangiare
qualcosa» disse paziente l'uomo. Vera scosse la
testa, e lui tornò a rivolgersi alla cameriera.
«Non ci serve il menù, prendiamo solo da bere. Per
me una...»
Vittorio s'interruppe: Vera lo stava fissando con
aria truce, quasi gli avesse letto nel pensiero l'intenzione
di ordinare una birra. Sospirò.
«Prendo una Coca-Cola»
annunciò, rassegnato. «Per lei, invece, una birra
media chiara» decise. Lanciò a Vera uno sguardo
penetrante, quasi sfidandola a rifiutare.
Vera arricciò il naso. Non amava bere
sin da prima dell'incidente, e nell'ultimo anno aveva evitato con cura
l'alcool... ma visto che quella sera non avrebbe guidato, poteva
concedersi il lusso di gustare una birra e contemporaneamente fare
l'esatto contrario di quello che il carabiniere si aspettava.
«La birra è
perfetta» convenne, con un sorriso talmente finto che la
cameriera fece fatica a ricambiarlo prima di andarsene. Vittorio scosse
lentamente la testa; Vera, invece, si guardò
intorno, curiosa.
«È carino questo
posto» disse di punto in bianco. «Ci vieni
spesso?»
«Qualche volta, con alcuni
colleghi» rispose Vittorio; si sfilò la giacca di
pelle e si appoggiò allo schienale della sedia.
«Mi annoio a stare sempre in caserma, e lì non
è che ci sia granché da fare, soprattutto la
sera».
«A meno che tu non sia di turno,
impegnato ad attirare su di te le ire degli automobilisti» lo
punzecchiò la ragazza.
«Oh, quello è senza dubbio il
mio passatempo preferito» replicò ironico lui.
«L'ho notato»
commentò Vera sullo stesso tono. «Che poi non
capisco perché quel giorno hai deciso di fermare proprio
me».
«Per via del colore della macchina:
praticamente si vedeva solo la tua» rispose Vittorio.
«Toglimi una curiosità: perché proprio
rossa?»
Vera s’incupì.
«Perché è di un colore talmente acceso
che non puoi non vederla» rispose piano.
Lui non aggiunse nulla: sapeva che Vera stava
pensando all’incidente. Cercò qualcosa da dire per
distoglierla da quei ricordi, ma la fatica gli fu risparmiata dal
ritorno della cameriera.
«Ecco qua: la birra per la
signorina» annunciò, mettendo il bicchiere davanti
a Vera, «e la Coca-Cola per te»
proseguì; appoggiò il secondo bicchiere sul
tavolo e rivolse un sorriso luminoso a Vittorio.
«Posso portarti qualcos'altro?»
Vera digrignò i denti e
lanciò uno sguardo malevolo all'altra donna.
«Siamo a posto, grazie» rispose bruscamente prima
che Vittorio potesse aprire bocca.
La cameriera decise che era più saggio
battere in ritirata: annuì una sola volta e si
allontanò.
Vittorio guardò con un misto di
perplessità e fastidio la faccia scura di Vera.
«Non trattare male quella
poveretta» la redarguì.
«Non ho fatto niente: ho solo risposto
alla sua domanda» reagì lei all'istante.
«E comunque, la prossima volta che vuoi andare a rimorchiare,
portati dietro un tuo collega».
Il carabiniere le lanciò uno sguardo
sospettoso, mentre un pensiero improvviso gli attraversava il
cervello: un'idea a dir poco impossibile, ma Vittorio decise di darle
voce ugualmente.
«Ragazzina» esordì
cauto, «non è che sei gelosa di me?».
Vera sbuffò come un toro inferocito di
fronte a un drappo rosso.
«Ti piacerebbe»
replicò in tono asciutto.
«Sicura?» insisté
lui. «Perché mi sembri un po' troppo
infastidita...»
Lei lo guardò con qualcosa di molto
simile a un pietoso disprezzo.
«Valenti, a me non piace fare da spalla
agli uomini quando vogliono sedurre una donna: l'unico che
abbia mai aiutato è Tiziano, ma lui è
mio amico ed era cotto di Giulia, quindi la situazione
meritava un'eccezione».
Vittorio s'incupì al modo in cui Vera
mise l'accento sul fatto che Tiziano fosse suo amico: ai suoi occhi era
lampante come lei avesse voluto, in realtà, ribadire che
loro due invece non lo erano. Le rivolse un'occhiata torva mentre lei,
indifferente, si portava il bicchiere alle labbra e mandava
giù un gran sorso di birra. Lui la imitò;
rimasero in silenzio per quasi dieci minuti, ben decisi a ignorarsi a
vicenda.
Il primo a cedere fu Vittorio.
«Sei sempre così...
dura» commentò all'improvviso, calamitando gli
occhi di Vera su di sé. «Sembra che non ci sia
limite alla tua perfidia».
«Infatti non c'è: ne ho una
scorta extra nello scomparto segreto» replicò
Vera, battendosi le nocche sulla gamba artificiale prima di
ridacchiare debolmente.
Anche Vittorio, dopo un attimo di stupore, rise.
«Questa era buona, lo ammetto»
disse. D'istinto diede a sua volta una pacca leggera sul
ginocchio sinistro di Vera, ed entrambi
s’immobilizzarono: Vittorio le aveva toccato la protesi, e
quello per Vera era un tabù assoluto.
La ragazza si alzò di scatto,
aggrappandosi al tavolo per non ricadere seduta.
«Devo andare» disse con voce
tremante; con dita incerte ripescò una banconota da dieci
euro dalla borsa e la lanciò sul tavolo.
Anche Vittorio si alzò, e
provò a fermarla. «Aspetta, Vera, ti
riaccompagno!»
«Non c’è
bisogno» rispose subito lei, sgusciandogli tra le dita.
«Prendo un taxi. Ciao, Vittorio».
Vera uscì dal locale alla massima
velocità consentitale dalla gamba artificiale e
l’uomo si lasciò ricadere sulla panca, sentendosi
stranamente deluso.
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Capitolo 8 *** Capitolo VII ***
Profumo di biscotti.
Questa fu la prima cosa che sentì Vera
quando arrivò a casa di Giulia: l'odore era tanto
penetrante da permeare persino l'aria del pianerottolo, e una
nuvola più intensa di quel profumo stava uscendo dalla porta
socchiusa.
«Ohilà!»
chiamò Vera, entrando nell'appartamento. Dopo essersi
richiusa la porta alle spalle andò dritta in cucina, sicura
di trovare lì l'amica, e non rimase delusa: Giulia stava
tirando fuori due teglie dal forno.
«Che tempismo, arrivare proprio mentre
sto sfornando i biscotti!» grugnì Giulia,
sarcastica.
«Non l'ho mica fatto apposta!»
si difese Vera; si tolse la giacca e la buttò sulla sedia
più vicina. «Posso aiutarti in qualche
modo?»
«Nah, questi sono gli ultimi: ormai ho
finito» replicò la padrona di casa, sistemando le
teglie perché non cadessero.
«Tanto meglio» rispose Vera;
fece la linguaccia a Giulia, che le aveva appena scoccato uno sguardo
esasperato, poi rubò un biscotto dal grosso contenitore
poggiato sul tavolo apparecchiato per il pranzo.
«Certo, però, potevi anche fare un altro paio di
infornate, perché mi sembrano un po' pochini,
questi biscotti» aggiunse ironica.
«Ah-ah» replicò
Giulia con una smorfia.
«Sul serio, Giù, quanti
biscotti hai preparato? Dieci chili? Undici?»
insisté l'altra, decisa a punzecchiare l'amica.
«Oggi pomeriggio ho due gruppi di
ragazzini delle elementari: hai idea di quanto mangino sei
bambini?» bofonchiò Giulia.
«Quanto Tiziano da solo?»
sghignazzò Vera.
«Quasi» sbuffò
l'altra. «È felice che io faccia questo servizio
di doposcuola quasi solo per la quantità di dolci che
cucino: ne avanzano sempre un po' e lui ci si ingozza sia prima che
dopo cena».
«Tipico suo: è senza
fondo» commentò Vera. «E
Ludovica?»
«Da mia madre». Giulia mise
via le teglie ormai vuote e si lasciò cadere pesantemente
sulla sedia. «Ho il primo gruppo tra un'ora: fammi fare il
pieno di chiacchiere tra adulti prima che arrivino». Prese un
panino dal piatto che aveva preparato prima dell'arrivo dell'amica, gli
diede un morso e masticò lentamente, scrutando con
attenzione Vera; poi deglutì e si sporse verso di
lei. «Hai riflettuto su quello che è successo ieri
sera?»
Vera appoggiò la fronte al tavolo con
troppa forza: si sentì un tonfo, ma entrambe le donne fecero
finta di nulla. «Ricordami per quale motivo ieri ti ho
chiamata per raccontartelo» grugnì.
«Ah, non lo so: so solo che l'hai fatto,
quindi ora ti sorbisci tutte le mie domande»
replicò decisa Giulia, posando il panino sul proprio piatto.
«Lo sai che dovresti chiamarlo e scusarti per essere
scappata, sì?»
Vera mugugnò qualcosa, ma la sua voce
venne soffocata dalla tovaglia.
«Vè, anche se ti è
antipatico, stavolta non ha fatto niente di male»
insisté Giulia in tono paziente. «Anzi,
è stato carino, e lo sai. Mi spieghi perché
sei scappata in quel modo?»
«Mi ha toccato la protesi»
mormorò Vera, rialzando la testa. «E lo so che
l'ha fatto sovrappensiero, che non voleva schernirmi né...
né altro, ma...» si torse le mani, «ma
mi ha... mandata nel panico. Io... io...».
«Tu non hai mai permesso a nessuno di
toccare la tua protesi» concluse Giulia per lei,
calma. «Neanche a me. Neanche a tua madre, quando i
primi tempi avevi ancora qualche difficoltà a
prepararti per metterla e voleva aiutarti. Ti sei lasciata toccare solo
dai fisioterapisti e dagli ortopedici che ti hanno curata, e lo capisco
che per te sia ancora un trauma. Perché ti conosco.
Perché siamo come sorelle. Perché fin dal primo
giorno ti ho vista faticare per accettare di avere un pezzo di
plastica e metallo a sostituire una parte del tuo corpo. Io lo so
– ma Vittorio no, e per quanti difetti abbia, stavolta non
è colpa sua».
«Lo so che non può saperlo
né capirlo. Ti giuro che lo so» rispose Vera,
senza smettere di torturarsi le dita. «Ma è stato
più forte di me. Mi è... mi è come
mancata l'aria, quando ha appoggiato la mano sulla protesi, neanche
potessi percepire il suo tocco. E forse è proprio
quello, che mi ha ferita». Una lacrima solitaria le
scivolò lungo la guancia. «Non poter
più sentire niente».
Giulia si alzò e
l'abbracciò, chinandosi su di lei.
«Però questo lo
senti» disse incoraggiante, stringendo le braccia intorno al
corpo dell'amica. «E questo» aggiunse prima di
scoccarle un bacio sulla testa. «E questo»
proseguì in tono scherzoso, premendo appena il piede su
quello sano di Vera. «Quando ti metti a pensare alla protesi
e al fatto che lì non puoi più sentire nulla,
ricordati di tutto il resto; ricordati di ogni altra parte del tuo
corpo che ancora percepisce il tocco di qualcun altro, le carezze, il
caldo e il freddo. Ricordati di questo».
Vera annuì, tremante; si
aggrappò alle spalle di Giulia e pianse.
******
Vittorio correva lungo i viali del parco, lanciando occhiate a destra e
a sinistra per controllare ogni panchina sul suo cammino. Era occupato
in questo modo già da mezz'ora: la sua fronte era madida di
sudore e la maglietta che indossava esibiva una chiazza umida proprio
al centro della schiena.
Il carabiniere iniziò un secondo giro
del parco, senza mai smettere di guardarsi intorno: bambini e cani
affollavano i prati, mentre gli adulti li tenevano d'occhio dalle
panchine e dai viali.
Fu solo quando sentì un cane abbaiare
molto vicino che Vittorio guardò di nuovo avanti a
sé: a mezzo metro da lui, Hermes lo fissava e saltava come
se avesse avuto le molle sotto le zampe.
«Era ora» disse burbero
Vittorio. Allungò la mano ed Hermes corse da lui per farsi
accarezzare. «Andiamo, grillo peloso: portami dalla
tua padrona» aggiunse, dando due pacche sulla schiena del
cane.
Il pastore tedesco abbaiò di nuovo e
scattò in avanti; Vittorio gli tenne dietro con una corsa
leggera per una quindicina di metri, e finalmente trovò
Vera. La ragazza era seduta da sola e stava leggendo alcuni fogli con
tanta concentrazione da non accorgersi di Vittorio fino a quando il
continuo abbaiare di Hermes non la costrinse ad alzare gli occhi.
«Valenti» salutò
scontenta. «Come fai a essere dappertutto?»
Vittorio non si lasciò scoraggiare dal
tono di lei e le sedette accanto. «Abilità di
natura?» propose.
«E io che speravo fossero solo
coincidenze» mugugnò Vera.
«Non oggi». La ragazza si
girò a guardarlo e lui si strinse nelle spalle.
«Sapevo che prima o poi saresti arrivata».
«Quindi mi aspettavi». La voce
di Vera suonava rassegnata mentre metteva via i fogli.
«Sì. Dovevo ridarti
questi» replicò Vittorio; frugò nel
marsupio che portava in vita e ripescò una banconota da
dieci euro che ficcò in mano alla ragazza.
«Non li rivoglio»
protestò Vera; cercò di restituirli a Vittorio,
ma lui li afferrò e con un gesto fulmineo li
infilò nella borsa semiaperta della ragazza per poi
afferrarle le mani.
«Lascia quei soldi dove sono, Gamba
Bionica» disse perentorio. «Ieri avevo detto che
volevo offrirti
da bere» spiegò. «Se paghi la tua parte,
viene meno lo scopo del mio invito». Le rivolse uno
sguardo provocatorio. «O magari stai tentando di farti
invitare di nuovo a uscire?»
Vera sbuffò. «No di certo,
Valenti!»
L'uomo sorrise dell'espressione indignata di lei;
le lasciò le mani e si grattò la nuca.
«Senti, la verità è che ti stavo
cercando anche per un altro motivo. Io... io voglio chiederti scusa, se
ieri sera ho fatto o detto qualcosa che ti ha infastidita».
Vera batté rapidamente le palpebre,
confusa. «Perché pensi che fossi
infastidita?»
Vittorio le rivolse uno sguardo altrettanto
confuso. «Sei scappata» rispose semplicemente.
La ragazza chiuse gli occhi e prese un respiro
profondo.
«Non posso credere a quello che sto per
dire, ma tu non hai fatto niente di male, ieri» disse Vera
dopo qualche istante di silenzio. «Se fossi stata infastidita
o arrabbiata ti avrei mandato al diavolo: dopo tutti gli insulti che ti
ho rivolto, ormai dovresti sapere che non ho problemi a dirtene di
tutti i colori. È che ieri sera...».
Esitò per un istante, poi si fece forza: una vocina, dentro
la sua testa, continuava a ripeterle che Vittorio meritava una
spiegazione degna di tale nome. «Ieri sera, quando mi hai
toccato la protesi, sono andata nel panico. E non credo che sia stata
colpa tua» aggiunse in fretta quando lo vide aprire la bocca
per replicare. «Ci ho pensato, e credo che avrei reagito allo
stesso modo anche se fosse stato qualcun altro, a farlo,
perché non... non dipende da te: dipende da me». Si
strofinò forte il volto con le mani. «Accidenti,
non riesco a spiegarlo!»
«Penso d'aver capito comunque»
disse piano Vittorio. «Mi dispiace di averti toccato proprio
quella gamba: l'ho fatto senza pensarci e non immaginavo che avresti
reagito così... anche se forse avrei dovuto».
Vera scosse la testa. «Io stessa non
immaginavo che avrei reagito in quel modo: come avresti potuto
prevederlo tu?»
«Non lo so» rispose Vittorio
con onestà. «So solo che non era quello che
volevo: speravo di parlare un po' con te senza saltarci alla gola come
facciamo di solito, e invece è andato tutto
storto» aggiunse quasi tra sé.
Vera lo guardò, incuriosita, poi
s'infilò le mani in tasca e piegò la testa di
lato, senza mai staccare gli occhi da lui. Il carabiniere
rischiò di scoppiare a ridere: Vera aveva la stessa
espressione di Hermes che, seduto davanti a loro, li scrutava battendo
furiosamente la coda.
«Che c'è di tanto
divertente?» chiese la ragazza, interpretando correttamente
l'espressione di Vittorio.
Lui indicò Hermes. «Siete
uguali» sghignazzò.
Vera alzò gli occhi al cielo per un
istante prima di tornare a osservare Vittorio con lo stesso sguardo
curioso di poco prima.
«Valenti, se ti faccio una domanda,
prometti di rispondere sinceramente?» chiese a
bruciapelo.
Vittorio le scoccò un'occhiata colma di
sospetto. «Non me ne pentirò, vero?»
Lei incrociò le braccia al petto e lo
guardò male. «Certo che no!» rispose
piccata. «Uomo di poca fede...» aggiunse in un
borbottio ben udibile.
Il carabiniere sospirò. «Va
bene, allora: spara».
Vera gli lanciò un altro sguardo torvo
e per un attimo ebbe la tentazione di cancellargli quell'espressione da
martire dalla faccia a suon di schiaffi, ma decise di lasciar perdere.
Rifletté su come chiedergli cosa avesse voluto
dire, affermando che la sera precedente era andato tutto
storto, ma prima che potesse parlare il cellulare di Vittorio
iniziò a squillare. Lui lo prese, lesse il nome di chi lo
stava chiamando e fece una smorfia.
«Scusa, ma a questa devo proprio
rispondere».
«Nessun problema» disse Vera.
Il carabiniere accettò la chiamata.
«Ciao, Emanuela. Come va il lavoro? Soddisfacente come
sempre?» chiese pungente. Ascoltò in silenzio sua
moglie, e più ascoltava più sul suo volto si
dipingeva una rabbiosa incredulità. «Che
significa, che non verrai a Roma neanche questo mese? Ma almeno
l’hai chiesto, quel dannato trasferimento?».
Digrignò i denti alla breve risposta di Emanuela.
«Lo sapevo, Cristo! E no, non mi rifilare le solite cazzate
su quanto sia importante il tuo lavoro! Sono tuo marito, cazzo!».
Tacque, sempre più sconcertato. «Che
cazzo significa, che ho smesso di essere tuo marito quando mi sono
fatto rispedire a Roma? Non l’ho scelto io!».
Ascoltò la replica di Emanuela e d'istinto scattò
in piedi. «Ma che cazzo dici? Secondo te ho rischiato di
farmi cacciare a calci in culo dall’Arma solo per essere
degradato e rimandato a Roma? Io a Roma volevo tornarci da un pezzo, e
per farlo mi sarebbe bastato chiedere il trasferimento: cosa che non ho
mai fatto, e sai perché? Perché tu non volevi
lasciare Milano!». Rise amaro, senza alcuna traccia di
divertimento. «Ma smettila, Emanuela. Io lo so che non
è solo per il lavoro, che non vuoi trasferirti. E visto che
la metti così, se io ho smesso di essere tuo marito per
essermi fatto spedire a Roma contro la mia volontà,
allora tu hai smesso di essere mia moglie già da qualche
anno. Ti farò contattare dal mio avvocato per le pratiche
della separazione, e non ti illudere di passarla liscia,
perché sappiamo tutti e due che posso ottenerla con
l’addebito a tuo carico». Le urla della donna
furono tanto alte da uscire dall’altoparlante del cellulare.
«Non sprecare energie a urlare, e soprattutto, non
mi rompere più i coglioni. Addio».
Vittorio chiuse la chiamata con il volto paonazzo
e il fiato corto. Alzò lo sguardo, e si accorse che
Vera la stava fissando con la bocca aperta e gli occhi fuori dalle
orbite.
L’uomo tornò a sedere. Vera
fece per toccargli un braccio; si bloccò a metà
del gesto, poi prese coraggio e appoggiò le dita
sull’avambraccio di Vittorio. Lui non si spostò;
con un movimento lento estrasse dal marsupio un pacchetto di
sigarette dall’aria frusta e un accendino, si accese
una sigaretta e prese una gran boccata.
«Sto smettendo»
spiegò a Vera, «ma aver mandato a fanculo mia
moglie mi ha fatto venire voglia di festeggiare». Le
allungò la sigaretta. «Vuoi?»
Lei scosse la testa. «Io non
fumo».
Vittorio rise con un pizzico di sarcasmo.
«Già, dimenticavo: la salutista, che non beve, non
fuma, mangia sano e si allena tutti i giorni… e nonostante
tutto, sta peggio di me!»
Per una volta, Vera non se la prese: si rendeva
conto che, per quanto il matrimonio di Vittorio potesse non
essere stato ben riuscito, chiuderlo in quel modo l’aveva
ferito.
«Vittorio, stai bene?» gli
chiese con dolcezza.
Lui si alzò di scatto.
«Sto benissimo, ho solamente bisogno di
stare un po’ da solo» rispose brusco.
«Va bene». Vittorio la
guardò sorpreso, e Vera si sforzò di sorridere.
«Muoviti, Valenti: va' a sfogarti, ma cerca di non staccare
la testa a nessuno, per riuscirci».
Vittorio annuì, schiacciò la
sigaretta sotto la scarpa e dopo aver dato una pacca leggera sulla
testa di Hermes a mo' di saluto, ricominciò a correre nella
direzione da cui era arrivato. Vera abbracciò Hermes e
guardò Vittorio sparire nei viali del parco, fingendo
persino con se stessa di non essere delusa.
******
Vittorio rientrò al comando ancora fumante di rabbia, con i
vestiti incollati alla pelle sudata e i capelli ritti sulla testa:
senza neanche fermarsi dieci minuti per fare una doccia,
andò a passo di marcia fino all'ufficio di Luciano e
bussò con tanta forza da far tremare il battente.
Nessuno rispose; in compenso pochi istanti
più tardi la porta si spalancò, rivelando la
faccia scura del maresciallo.
«Valenti, pensi che tentare di buttare
giù la porta sia una decisione saggia?»
abbaiò.
Vittorio s'insinuò nell'ufficio e prese
a misurarlo a lunghi passi, le braccia lungo i fianchi e i pugni
serrati.
«Mi serve un avvocato»
annunciò a Luciano. L'espressione dell'altro
passò da torva a minacciosa, e Vittorio fece una
smorfia. «Divorzista» precisò.
Le sopracciglia di Luciano si sollevarono tanto da
rischiare di raggiungere l'attaccatura dei capelli.
«Addirittura? Ti va di parlarne?»
Il quarantenne incrociò le braccia al
petto. «Non c'è granché da dire.
Emanuela non ha nessuna intenzione di farsi trasferire a Roma,
e la capisco: dopo due anni di relazione con il suo capo, non se la
sente di lasciarlo» spiegò in tono acido.
Luciano emise un fischio basso e prolungato, poi
indicò a Vittorio una delle sedie di fronte alla scrivania;
quando il più giovane si fu seduto, lui tornò
alla propria poltrona, prese l'agenda e la sfogliò
per un paio di minuti prima di appuntare un nome e un numero di
telefono su un pezzo di carta.
«Quest'avvocato è molto
bravo» commentò Luciano. «Gli basta poco
per vincere le cause. Ma tu hai qualche prova che Emanuela ti
tradisca?»
Vittorio rise amaro; prese il foglietto e
appoggiò i pugni sulla scrivania. «Lo sanno tutti che mi
tradisce col suo capo: i suoi colleghi, la sua famiglia, i nostri
amici... è peggio del segreto di Pulcinella».
Luciano si accarezzò il mento.
«Posso chiederti come mai hai deciso solo ora di chiedere la
separazione, se hai sempre saputo che aveva una relazione con il suo
capo?»
L'altro si strinse nelle spalle. «Il
nostro matrimonio si è rovinato almeno sei anni fa, e a me
non interessava davvero quello che faceva: era più semplice
ignorarla. E per lei valeva lo stesso: avrei potuto fare sesso con
tutte le donne che avessi voluto, ma...». Scosse la testa.
«Ci avevo creduto troppo, in quelle promesse, per tradirle.
Volevo almeno conservare la dignità».
«È più di quanto
si possa dire di molti altri». Luciano si allungò
e batté la mano su quella di Vittorio. «Sei un
brav'uomo, Vittò, e qui puoi avere degli amici, se lo vuoi:
buttati tutto alle spalle e ricomincia da capo. Ne sei in grado, e se
dovessi avere bisogno di aiuto o anche solo di qualcuno che ti ascolti,
ricorda che io ci sono».
Vittorio sorrise debolmente e annuì.
«Anche tu sei un brav'uomo, Lucià. Uno dei pochi
che rispetto davvero». Alzò appena la mano che
stringeva il foglietto e si alzò. «Meglio che vada
a fare una doccia: puzzo».
«Concordo». Luciano
ridacchiò. «Cerca di non far impazzire Pastore,
stanotte».
«Farò del mio
meglio». Vittorio raggiunse la porta e rivolse un'ultima
occhiata all'amico. «Grazie di tutto,
Lucià».
«Quando vuoi» disse quieto
l'altro mentre Vittorio lasciava l'ufficio.
******
Vera pestò i tasti del computer con tanta foga da farli
scricchiolare.
A quanto pareva, il professor Maesani aveva
procrastinato per l'ennesima volta: quel mattino si era
presentato in ufficio tutto trafelato con la bellezza di tre saggi
brevi da tradurre – due in inglese e uno in tedesco
– pregandola di finirli il prima possibile, dato che la
scadenza imposta dagli editori era fissata per quel pomeriggio. Per quel pomeriggio,
si era ripetuta Vera con furia malcelata mentre lavorava a tutta
velocità: aveva saltato il pranzo e convinto il suo cervello
e la sua vescica che utilizzare il bagno non fosse necessario, ma il
punto più alto l'aveva raggiunto cacciando il professore dal
suo stesso ufficio per non farsi distrarre. Franco Maesani era di
indole troppo pacifica per prendersela; in più aveva
già ammesso di aver rimandato troppo a lungo la
stesura di quei saggi, dunque era stato pronto ad accettare la
scortesia di Vera senza battere ciglio.
In quel momento, intenta a dare i tocchi finali
all'ultima traduzione, Vera non si sarebbe mossa neanche se le fosse
esplosa una bomba davanti al naso; quindi la porta dell'ufficio che si
apriva passò completamente inosservata.
Vera rilesse la frase che aveva appena sistemato,
annuì tra sé e salvò il documento;
mosse le spalle e il collo irrigiditi per distendere i muscoli, e
quando alzò lo sguardo dallo schermo del computer si accorse
di avere di fronte uno sconosciuto che la fissava.
«Oddio!» urlò la
ragazza, schiacciandosi contro lo schienale della poltrona. Si
portò una mano al petto, il cuore che batteva frenetico, per
poi scoccare uno sguardo cauto all'uomo. Doveva avere trent'anni o poco
più; la barba e i capelli scuri tagliati corti le
ricordarono vagamente Vittorio, ma il volto era più
pieno e gli occhi più vivaci rispetto al carabiniere.
«E lei chi è?»
Lo sconosciuto non si scompose: le rivolse un
sorriso e tese la mano.
«Sono Fabio, un ex studente del
professor Maesani» si presentò.
Vera prese la mano che lui le offriva e la strinse
debolmente. «Vera».
Fabio si sistemò la giacca.
«Il professore non c'è?»
Vera mosse una mano verso le sedie in un muto
invito ad accomodarsi, e l'uomo si lasciò cadere in quella
più vicina.
«Evidentemente no» rispose
infine, accennando alla scrivania vuota dall'altro lato della stanza
prima di controllare l'orologio: mancavano pochi minuti alle tre.
«Dovrebbe tornare tra poco, però, se vuole
aspettarlo» aggiunse.
«Solo se non la disturbo»
replicò Fabio. «Lei è un'assistente del
professore?»
La ragazza sbuffò. «No: mi ha
assunta per tradurre gli articoli per le riviste internazionali. Sono
la traduttrice e oggi sono praticamente Dio, perché ho fatto
un miracolo: sono riuscita a rimediare alla pessima abitudine del
professore di rimandare sempre tutto all'ultimo
momento!»
Senza alcun preavviso, Fabio scoppiò in
una gran risata.
«È bello sapere che certe
cose non cambiano mai» commentò tra un singhiozzo
di divertimento e l'altro. «Ricordo che la
metà delle volte che prometteva di portarci delle dispense o
qualsiasi altro materiale, finiva per presentarsi a mani vuote
perché non aveva preparato nulla!»
Vera alzò gli occhi al cielo.
«Sicuramente capitava più della metà
delle volte: direi almeno otto volte su dieci, se era già
così».
Fabio rise di nuovo, e stavolta Vera si
unì a lui: i due erano ancora intenti a sghignazzare quando
Maesani fece capolino nell'ufficio per accertarsi che fosse sicuro
tornare lì.
«Martini!» tuonò
gioviale Maesani. Diede una pacca sulla spalla del più
giovane e lo scosse. «Sei passato a salutare il tuo
vecchio professore, eh?». Guardò Vera.
«Lo sa, signorina, che sono stato il relatore di questo
screanzato? Mi ha fatto impazzire con quella tesi, continuava
a cambiarla. Alla fine però ne è uscito un gran
bel lavoro, uno dei migliori che abbia mai supervisionato!»
La donna inarcò le sopracciglia.
«Ne so qualcosa di uomini che ti fanno impazzire con il loro
lavoro» lo punzecchiò. «A proposito, le
traduzioni sono pronte».
«Ottimo, ottimo! Lei è la mia
salvezza, signorina Nicolini». Maesani le rivolse un gran
sorriso, che si trasformò subito in un'espressione
implorante. «Non è che le invierebbe per email
alle redazioni?»
Vera sbuffò. «Sì,
sì, ci penso io – basta che mi dica a chi va
inviato cosa».
«Lei è la mia
salvezza» ripeté convinto Maesani prima di dare
un'altra pacca sulla spalla di Fabio. «Allora, Martini,
andiamo a prenderci un caffè: voglio proprio sapere che stai
combinando e mi conviene approfittarne, visto che non ti fai
vedere quasi mai!»
Fabio prese una penna, scribacchiò
veloce il proprio numero di telefono su un pezzetto di carta
abbandonato sulla scrivania e poi si alzò per seguire
Maesani, ma non prima di aver rivolto un piccolo sorriso a
Vera. «Credo che passerò più spesso a
trovarla, professore».
Maesani tuonò la propria approvazione e
lo trascinò via, e Fabio ebbe appena il tempo di scorgere
Vera arrossire e ricambiare il suo sorriso.
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Capitolo 9 *** Capitolo VIII ***
Era trascorsa una
settimana da quando Vera aveva visto Vittorio per l'ultima volta e,
anche se non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, iniziava a essere
preoccupata: dopo che Vittorio aveva litigato con sua moglie e se n'era
andato, la ragazza non l'aveva più visto né
sentito e, considerata la frequenza con cui si incontravano di solito,
tutti quei giorni di silenzio assoluto l'avevano messa a disagio.
Così quel giovedì, dopo aver finito il lavoro dal
professor Maesani, Vera era andata dritta al comando di Tor
Sapienza e si era seduta su un muretto lì di fronte, decisa
ad aspettare per tutto il tempo necessario che Vittorio emergesse
dall'edificio.
Erano quasi le quattro quando le volanti
iniziarono a rientrare per il cambio turno. Vera non riuscì
a individuare Vittorio nelle auto che le passavano davanti; fu lui a
vederla, e non appena scese dalla macchina le andò
incontro con un misto di perplessità e preoccupazione sul
volto.
«Ehi» disse; tese una mano per
aiutare Vera ad alzarsi e lei l'accettò. «Che ci
fai qui? È successo qualcosa? Da quanto sei seduta su questo
muretto?»
«È un interrogatorio,
Valenti?» sbuffò divertita la ragazza.
«Solo qualche domanda più che
lecita» ribatté il carabiniere.
«Allora?»
Vera si strinse nelle spalle. «Come
stai?»
Lui la guardò in un modo che Vera non
riuscì a decifrare. «Sei venuta qui per questo? Solo per
questo?»
«Sì» rispose Vera,
come se passare più di due ore seduta su un muretto in
attesa di qualcuno fosse la cosa più naturale del mondo.
«È da una settimana che sei sparito ed
è tipo un record: iniziavo a credere che qualche
automobilista si fosse arrabbiato durante un controllo e ti
avesse investito» lo punzecchiò.
«Scherza, scherza»
mugugnò lui. «Un paio di volte ci hanno
provato».
Vera soffocò una risata prima di
parlare ancora. «Allora, come stai? L'ultima volta che ci
siamo visti eri arrabbiato di brutto».
Vittorio s'infilò le mani in tasca e si
guardò intorno, pensoso.
«Sto... meglio, credo» disse
infine. «Più tranquillo, sai: ho parlato con un
avvocato e avviato le pratiche per la separazione»
le rivelò. «Avrei dovuto farlo appena ho scoperto
che mi tradiva...»
La ragazza sgranò gli occhi.
«Ti tradisce pure?»
Lui si strinse nelle spalle. «Ha una
relazione col suo capo che va avanti da un paio d'anni, non
è più una novità. Adesso spero solo
che quella stronza non faccia storie: voglio che questa farsa
di matrimonio finisca il più presto possibile»
aggiunse in un ringhio.
«Mi sembri troppo nervoso
perché possa essere la verità» disse
cauta Vera. «Non ti senti... ferito? Neanche un
po'?»
L'uomo le rivolse uno sguardo incerto e parve
riflettere attentamente sulla risposta. Dopo l'ultima lite telefonica
con Emanuela, l'unica cosa che Vittorio aveva provato nei confronti di
sua moglie era stata rabbia: per essersi allontanata da lui quanto lui
si era allontanato da lei, per aver deciso di tradirlo con
regolarità negli ultimi due anni, per non aver neanche
provato a stargli vicino quando era stato trasferito a Roma. Quella
stessa rabbia, simile a una fiammata alimentata dalla benzina,
l'aveva spinto a muoversi in modo rapido e deciso per avviare la
separazione e rimuovere definitivamente Emanuela dalla propria vita, e
non c'era stato posto per nient'altro: adesso che Vera gliel'aveva
chiesto, però – adesso che con la sua solita
sfacciataggine l'aveva costretto a pensarci –
Vittorio si era reso conto di aver agito in quel modo nella speranza
che risolvere velocemente la situazione diminuisse il dolore,
così come si strappa via un cerotto con un colpo secco per
non sentire nulla.
Era ferito,
proprio come aveva suggerito Vera con quella domanda. Ferito dal fatto
che vent'anni della sua vita stessero finendo così: con
rabbia, con risentimento, e con la sensazione del tradimento sempre
annidata in fondo allo stomaco.
Vittorio sbuffò e annuì
controvoglia prima di guardare Vera. «Come fai a sapere
meglio di me quello che provo?» chiese con sincera
curiosità.
«Ti guardo,
Valenti» replicò lei. «Se uno ti osserva
abbastanza a lungo, riesce a leggerti in faccia buona parte di quello
che pensi».
Vittorio s'imbronciò. «Mi sa
che non ci parlo più, con te» bofonchiò.
«Perché? Hai forse qualcosa
da nascondermi?» lo stuzzicò Vera; per accentuare
il tutto gli affondò un dito tra le costole.
Il carabiniere le schiaffeggiò con
delicatezza la mano per allontanarla. «No, ma comunque un po'
mi scoccia, che tu possa capire quello che mi passa per la
testa».
«Dai, Valenti, non tenermi il
muso» disse allegramente Vera, per metà divertita
e per metà soddisfatta dal fastidio di lui.
«Qualsiasi cosa vedrò sulla tua faccia, prometto
di non usarla contro di te. Così va bene?»
Vittorio ci rifletté con attenzione.
«Immagino di non poter ottenere nulla di meglio»
sospirò infine.
«Certo che ti lamenti sempre»
commentò Vera. «Non te l'hanno mai detto che chi
si accontenta, gode?»
Lui si strinse nelle spalle. «Io non mi
accontento. Odio le cose a metà: o tutto, o
niente».
«E questo spiega il tuo essere
costantemente scontento».
«Scusa, ma tu non eri venuta qui per
sapere come sto? O era solo una scusa per infastidirmi come tuo
solito?»
«Guarda che quello fastidioso sei
tu». Vera tacque per un momento e arricciò il
naso. «Perché finiamo sempre per
bisticciare?»
«Perché abbiamo entrambi un
carattere impossibile» rispose pronto Vittorio.
«Hai da fare?»
La ragazza, spiazzata dalla domanda inaspettata,
rimase in silenzio per qualche istante. «No»
rispose infine. «Perché?»
«Perché se mi dai mezz'ora
sbrigo le formalità di fine turno, mi cambio e andiamo a
mangiarci un tramezzino: sto morendo di fame»
spiegò lui.
«Ecco, questa è
un'idea» esclamò Vera. «Allora ogni
tanto anche tu ne hai di buone!»
«Simpatica»
borbottò Vittorio; la punzecchiò tra le costole
con un dito per ripagarla di quanto aveva fatto poco prima e sorrise
nel sentire il verso indignato di lei. «Allora aspettami
– nella sala d'attesa, va bene? Non stare qui fuori da
sola».
Vera alzò gli occhi al cielo, ma lo
affiancò comunque ed entrambi si avviarono in direzione
dell'ingresso. «Sì, papà»
disse con voce strascicata.
Vittorio mise su una faccia nauseata.
«Non dirlo neanche per scherzo».
«Perché? Ti dà
fastidio?» indagò Vera. Vittorio annuì
e lei inarcò un sopracciglio. «Ecco, questo
è un ottimo motivo per ripetertelo in
continuazione» aggiunse compiaciuta.
«Insolente» replicò
l'uomo, ma senza vigore: ormai ci aveva preso gusto, a quei continui
battibecchi. Varcarono la soglia e lui le indicò la
stanzetta in questione. «Cerca di non combinare guai mentre
mi aspetti».
«Sì, papino»
cinguettò Vera.
Vittorio alzò gli occhi al cielo,
esasperato. «E smettila» grugnì un
istante prima di scoccarle un rapido bacio sulla guancia. Quel gesto
sorprese Vera al punto da ammutolirla; Vittorio
sparì oltre la porta a vetri e la ragazza rimase in
attesa, lo sguardo perplesso e la punta delle dita appoggiate
inconsciamente sul punto in cui le labbra del carabiniere l'avevano
sfiorata.
******
Il pub traboccava di persone, com'era lecito aspettarsi il sabato sera:
un gruppo rock si esibiva sul palco, e la musica e le voci degli
avventori si intrecciavano in un mix di cui era difficile distinguere
le singole componenti.
Vittorio guardò con occhi distratti la
band: allungato scompostamente sulla sedia, con la birra in mano e un
piede che continuava a punzecchiare le caviglie di Claudio nella
speranza d'infastidirlo, era l'immagine della tranquillità.
Era così da un paio di giorni, ormai: dopo aver parlato con
Vera, la furia che aveva provato nei confronti di sua moglie si era
sgonfiata come un palloncino bucato e Vittorio era riuscito a calmarsi
abbastanza da ammettere che forse tutta quella rabbia non
nasceva soltanto dal tradimento di Emanuela, ma anche – e
soprattutto – dal fatto che la cosa in sé aveva
avuto il potere di ferirlo.
Lo sbuffo irritato del collega lo
riportò alla realtà.
«La smetti?» si
lamentò Claudio. «Se continui a prendermi a calci,
domani sarò pieno di lividi».
« Calci?»
gli fece eco Vittorio. «Ti sto a malapena toccando!»
«Continua a trattarmi male, e con te non
ci esco più» minacciò Claudio.
«Non ti meriti la mia compagnia una sera a
settimana!»
Vittorio sogghignò. «Da
quando sei così permaloso?»
L'altro mise il broncio e il ghigno di Vittorio si
allargò: Claudio aveva trentaquattro anni, ma a volte gli
ricordava un bambino petulante. O magari era solo una sua impressione:
in fondo, Luciano pensava lo stesso di lui.
«E tu da quando sei così
simpatico?» disse Claudio di rimando. «Negli ultimi
due giorni sei stato vergognosamente allegro».
«Da quando essere allegri è
una vergogna?» inquisì l'altro.
Claudio gli rivolse un sorriso angelico.
«Da quando si tratta di te: tu sei la quintessenza
della rabbia, Vittò».
Vittorio mugugnò qualcosa di
incomprensibile, ma Claudio ebbe la netta sensazione che si trattasse
di un insulto. La soddisfazione per aver cancellato il sorriso dalla
faccia del collega, però, fu più forte di tutto
il resto.
«Allora? A cosa si deve tanta improvvisa
gioia di vivere?» insisté in tono pomposo.
«All'avvio delle pratiche per la
separazione» annunciò; sollevò il
bicchiere in un brindisi silenzioso e mandò giù
un gran sorso di birra, mentre il volto dell'altro uomo si adombrava.
«Mi dispiace, Vittorio. Non lo
immaginavo» disse serio.
«A me non dispiace»
replicò Vittorio con una scrollata di spalle.
«Anzi, adesso mi sento molto meglio: avrei dovuto farlo anni
fa».
Claudio lo guardò per un minuto buono
prima di parlare ancora.
«Perché adesso?
Perché non prima?» chiese cauto.
L'altro aprì la bocca, pronto a
rispondere, ma una strana sensazione lo costrinse a
richiuderla senza dire nulla: a Vittorio occorse qualche
istante per capire che quella specie di bolla tiepida che gli
si era accesa alla bocca dello stomaco era commozione. Il quarantenne
si schiarì la voce un paio di volte: era passato parecchio
tempo dall'ultima volta in cui qualcuno che non fosse sua madre o sua
sorella si era interessato alla sua vita tanto da chiedergli
perché avesse preso una certa decisione invece di un'altra,
e Vittorio si rese conto in quel momento di aver iniziato a considerare
Claudio Pastore un amico.
«Non ne sono sicuro» rispose
con sincerità. «Forse allontanarmi fisicamente da
Emanuela mi ha aiutato a capire che non c'è proprio
più niente, del nostro rapporto, che sia possibile
salvare».
«E tu di questo sei proprio
sicuro?» insisté Claudio, scettico.
«Capita spesso che la lontananza riavvicini le
persone: questa potrebbe essere solo una fase».
Vittorio scosse la testa. «Non credo. Il
nostro rapporto si è guastato qualche anno fa e nessuno dei
due si è mai impegnato per recuperarlo... e almeno per me,
è troppo tardi».
«Mh». L'altro uomo si
piegò sul tavolo, vi appoggiò i gomiti e
puntò il mento sui pugni. «E non c'entra niente
quella ragazza che hai trascinato al comando... quanto, un mese e mezzo
fa?»
Il quarantenne si strozzò con la sua
stessa saliva. Si colpì più volte il petto con il
pugno, tossendo, mentre Claudio continuava a fissarlo senza battere
ciglio.
«Io... che... ma che domanda
è?» farfugliò infine Vittorio quando
riuscì a riprendere fiato.
«Ho notato che era in caserma, la
mattina in cui qualcuno
ti ha mandato la colazione, e l'altro ieri era di nuovo
lì e siete andati via insieme». Le sopracciglia di
Claudio volarono verso l'attaccatura dei capelli.
«È stato naturale farmi qualche domanda».
Vittorio sbuffò. «L'ho
incrociata, qualche volta, dopo quel giorno in cui
l'abbiamo...» Claudio gli scoccò
un'occhiataccia, «...
l'ho fermata» si corresse. «A un certo
punto abbiamo iniziato a comportarci da persone civili, senza
passare il tempo a coprirci di insulti, e tra le altre cose si
è parlato anche del mio matrimonio».
Sbuffò di nuovo, stavolta con un mezzo sorriso stampato in
volto. «Mi ha fatto notare che mi sono sposato per un motivo
idiota e che se l'unica cosa che provo nei confronti di mia
moglie è rabbia, allora starò meglio dopo aver
divorziato. E la cosa peggiore è che ha ragione».
«Fammi capire» disse
lentamente Claudio. «Tu stai divorziando perché
una persona che a malapena conosci ti ha detto di farlo?»
«No: io sto divorziando
perché una pazza che a malapena conosco è stata
più lucida di me, abbastanza da mostrarmi la cosa sotto un
altro punto di vista e farmi capire che trascinare un matrimonio ormai
finito mi faceva soltanto male» precisò l'altro in
un tono che non ammetteva repliche.
Claudio decise di cambiare tattica. «Non
è che magari quella ragazza ti piace?» chiese a
bruciapelo.
«È pazza»
rimarcò Vittorio. «Sarcastica, suscettibile,
attaccabrighe...»
«Aspetta, stiamo parlando di lei o di
te?» lo interruppe Claudio con un ghigno provocatorio.
L'altro appallottolò un tovagliolino e
glielo tirò sul naso. «Non so neanche
perché ti rispondo» grugnì.
«Perché anche se cerchi di
nasconderlo, ti piaccio» rispose all'istante il
trentaquattrenne. «E anche perché in fondo, molto
in fondo, ma proprio in fondo, sai che ho ragione» aggiunse
compiaciuto.
Vittorio gli rivolse un'occhiata fosca ma non
replicò; Claudio sollevò il pugno in un gesto di
trionfo e l'altro decise che avrebbe impiegato meglio il proprio tempo
ascoltando il gruppo che ancora suonava sul palco.
******
Nonostante fossero innamorati l'uno dell'altra e felici di avere una
figlia c'erano alcune cose a cui Giulia e Tiziano non avevano mai
voluto rinunciare, e una di quelle erano le uscite tra soli adulti.
Prima che Giulia restasse incinta c'erano state parecchie serate
memorabili, di cui alcune in discoteca, in compagnia di Vera e
Noemi; e anche se da quasi due anni avevano optato per dei programmi
più tranquilli, continuavano a riservarsi una sera a
settimana per stare tra di loro.
Quel sabato sera non faceva eccezione: Ludovica
era stata affidata ai nonni paterni e Tiziano, Giulia e Vera
se n'erano andati in un locale del centro dopo che le due donne avevano
tentato inutilmente di convincere le rispettive madri ad andare con
loro.
Poco dopo le dieci, seduti a un tavolino dell'Hard
Rock Cafe con il secondo cocktail della serata di fronte, i tre
ridevano tanto da non riuscire a prendere fiato.
«E allora» proseguì
Tiziano, con le lacrime agli occhi per il gran divertimento,
«Luca guarda il direttore e gli fa: “Ah, ma le procedure
di sicurezza bisogna seguirle per forza? Allora da lunedì
vedrò di applicarle!”. E lui ha fatto
una faccia... impagabile! È diventato verdastro, con gli
occhi spalancati e ha iniziato a farfugliare: credevo che gli sarebbe
venuto un colpo!».
Le due donne eruppero in una nuova serie di
risate: Vera fu costretta a posare il bicchiere per non rischiare di
rovesciarsene addosso il contenuto mentre Giulia si batteva una mano
sulla coscia.
«Poveraccio»
commentò la prima con ardore. «Certo che siete
proprio perfidi, però!»
Tiziano la liquidò agitando la mano con
fare sbrigativo. «Esagerata! Per uno scherzetto
innocente...»
«Mica tanto innocente»
s'intromise Giulia, che ancora sghignazzava. «L'hai detto tu
che gli avete quasi fatto venire un infarto!»
Suo marito scrollò le spalle.
«Era da un pezzo che volevamo prenderlo un po' in giro:
adesso che finalmente è arrivato uno nuovo, non
possiamo non approfittarne».
«Siete solo fortunati che questo Luca
sia disposto a reggervi il gioco» precisò Vera.
L'uomo le rivolse un gran ghigno.
«È troppo simpatico, non
potete nemmeno immaginare quanto!». S'interruppe,
meditabondo: di fronte a lui Giulia decise di costruire una
torre di tortilla chips mentre beveva il cocktail con la
cannuccia, ma Tiziano neanche se ne accorse, tanto era assorto nei
propri pensieri. «Forse dovrei invitarlo a bere qualcosa con
noi, una sera di queste» aggiunse, scoccando un'occhiata
eloquente all'amica.
A Vera quello sguardo non piacque affatto.
«Non provare a incastrarmi con un
appuntamento al buio, Tizià, o tua figlia si
ritroverà orfana prima ancora di aver compiuto un
anno» lo minacciò.
Tiziano s'imbronciò.
«Però lasci che Valenti ti
giri intorno» si lagnò.
Giulia si strozzò; Vera le
batté una mano in mezzo alla schiena con forza fino a quando
l'altra non si riprese.
«E tu che ne sai?»
rantolò Giulia, lo sguardo fisso su suo marito. Lui
esitò.
«Non ho origliato!»
sbottò infine; le due donne lo squadrarono con evidente
scetticismo. «È che voi... voi... parlate forte,
ecco!» aggiunse.
Vera e Giulia si scambiarono uno sguardo.
«Stai cercando di incolpare noi del fatto che tu origli le nostre
conversazioni?» chiese la seconda, incredula.
«Pensi davvero che io lasci che Valenti
mi ronzi intorno?» sibilò Vera, indignata.
«Oh, questo è vero»
tagliò corto Giulia; la sua migliore amica le rivolse uno
sguardo offeso e tradito, ma l'altra non se ne diede per inteso e
tornò a rivolgersi a suo marito. «Lo sai che hai
una bella faccia tosta, ficcanaso dei miei stivali?»
Tiziano arrossì in zona collo.
«Ha parlato la pettegola del condominio!»
Sua moglie sgranò gli occhi.
«Rimangiatelo!»
«Mai» rispose fiero Tiziano.
Giulia gli lanciò una manciata di
noccioline in piena faccia: centrato negli occhi dai salatini, Tiziano
emise un gemito da animale ferito e iniziò a tastarsi il
viso.
«Basta, voi due!» li
redarguì Vera; prese la ciotola delle noccioline e la mise
fuori portata. «Se volete farvi la guerra, aspettate di
essere a casa vostra. E che non ci sia la mia figlioccia!»
disse decisa.
Marito e moglie incrociarono le braccia al petto e
la guardarono con un'identica espressione contrariata.
«Traditrice»
l'accusò Giulia.
«Svizzera» grugnì
scontento Tiziano.
« Svizzera?»
gli fece eco Vera, incerta se ridere o essere perplessa.
«Sì, Svizzera»
ribadì Tiziano. «Resti neutrale solo per non
doverti schierare!»
L'ex ginnasta si sporse sul tavolino e gli
sbuffò dritto in faccia. «Io non resto neutrale
– io faccio da arbitro, e lo faccio per evitare che ci
caccino» lo corresse.
«Me, non mi caccerebbero mai»
disse l'uomo con grande dignità. «Sono troppo
carino!»
Vera e Giulia lo scrutarono con aria scettica
prima di scambiarsi uno sguardo d'intesa.
«In quale Universo parallelo?»
sogghignò Vera.
Tiziano boccheggiò, indignato, ma prima
che potesse mettere insieme una frase di senso compiuto, qualcuno
scoppiò a ridere vicinissimo a loro: i tre amici si
voltarono verso il punto da cui proveniva il suono, ma soltanto Vera
riconobbe l'uomo che sghignazzava appoggiato al muro.
«Fabio!» chiamò
allegra. Si alzò, un gran sorriso sul volto; Fabio non perse
tempo e la raggiunse con due passi per poi scoccarle due baci sulle
guance. «Che ci fai qui?»
Lui si strinse nelle spalle. «Avevi
detto che saresti venuta qui stasera, e ho pensato di passare
a salutarti».
«Hai fatto bene» rispose Vera,
senza smettere di sorridere. «È solo che non me
l'aspettavo: mi hai presa alla sprovvista!»
Dietro di lei Giulia, non vista,
sollevò con cautela una gamba, avvicinò il piede
al fondoschiena dell'amica e le diede uno spintone: Vera
barcollò e finì dritta addosso a Fabio.
«Vera, non ci presenti il tuo nuovo
amico?» disse Giulia in tono zuccherino.
L'altra si raddrizzò e
scoccò un'occhiata torva prima alla donna, che continuava a
fissarla con espressione innocente, e poi a suo marito, che scrutava
entrambe con malcelato divertimento. Ancora risentita, Vera
fece un gesto vago con la mano. «Fabio, questi sono Giulia e
Tiziano, i miei migliori amici; ragazzi, lui è Fabio, un ex
studente del professor Maesani».
«Immagino vi siate conosciuti
nell'ufficio del professore» commentò Tiziano,
mentre Fabio lasciava la mano di Giulia per stringere la sua.
L'altro uomo annuì. «Proprio
così: penso di non essere mai stato più felice di
aver fatto visita a un ex professore!»
ridacchiò.
«Ci credo!» intervenne Giulia.
Rivolse un rapido sguardo a Vera e tornò a concentrarsi sul
nuovo arrivato. «Perché non ti siedi,
Fabio?»
Lui scosse la testa.
«Mi piacerebbe, ma i miei amici mi
aspettano fuori: avevamo già deciso di andare in un
locale nuovo all'Esquilino» spiegò.
Strinse brevemente Vera. «Io e te ci sentiamo domani,
magari la settimana prossima potremmo uscire»
mormorò, in modo che solo lei lo sentisse.
«Volentieri» sorrise Vera.
Fabio ricambiò il sorriso;
salutò gli altri due e si avviò deciso verso
l'uscita. Quando fu lontano Vera tornò a sedersi,
ma fece a malapena in tempo a sistemarsi che Giulia e Tiziano
iniziarono a bombardarla di domande.
«Certo che è un bel ragazzo!
Da quant'è che lo conosci?»
« Perché
non ci hai detto di lui?»
«Ti ha già invitata a
uscire?»
«Che lavoro fa? È
economicamente solido?»
«Com'è stato il vostro primo
incontro?»
«Aspetta, la cosa più
importante! Per che squadra tifa?»
Vera scoppiò a ridere.
«Avete finito?»
esalò tra una risata e l'altra. Quando gli altri due
annuirono, si sforzò di controllarsi e prese un respiro
profondo. «Con tutte le domande che mi avete fatto, non so a
quale rispondere per prima...»
«A quella più importante,
ovviamente» la interruppe Tiziano. «Per che squadra
tifa? Te l'ha detto?»
Vera si accarezzò la mandibola,
pensosa. «Onestamente non lo so» ammise.
«Ci siamo sentiti qualche volta e ho accennato al
fatto che ogni tanto vado allo stadio, ma lui non ha aggiunto
nulla».
Tiziano gemette sconfortato. «Dai,
Vè, non ci posso credere! Come puoi sentire un ragazzo e non
chiedergli se e per quale squadra tiene? È tipo una delle
domande basilari per iniziare o meno una frequentazione!»
«Be', Valenti tifa e credo che sia
romanista» commentò distratta lei.
«Lascia perdere quello
lì!» disse sbrigativo l'uomo. «Che poi
già non è un granché, ma se
è pure romanista, lasciamo proprio perdere e stendiamo un
velo pietoso!»
«Lui ha detto una cosa simile quando ha
scoperto che tifo Juve» sogghignò Vera.
Tiziano aprì la bocca per ribattere, ma
Giulia gli sferrò un gran calcio sotto il tavolo e lui
tacque.
«Tralasciando una cosa fondamentale come
la fede calcistica» disse sarcastica Giulia, «quel
Fabio è stato carino a passare a salutarti. Quindi adesso
rispondi alla mia
domanda: ti ha già invitata a uscire?»
La sua migliore amica annuì, divertita.
«Poco fa, appena prima di andare via».
«Fantastico!»
esultò Giulia. Batté le mani, entusiasta, ma
smise quando si accorse dell'espressione di Vera, che era diventata
pensosa. «Che hai che non va, Vè?»
Lei scosse di nuovo la testa. «Non lo
so» rispose, incerta. «È che non sono
più uscita con nessuno da prima dell'incidente, se non
contiamo la sera in cui sono andata a bere una cosa con
Valenti...»
«No, lui decisamente non lo
contiamo» intervenne deciso Tiziano.
«...e non... non so bene come
comportarmi, né se sono pronta» concluse Vera,
senza dare cenno d'aver sentito l'amico.
Moglie e marito si scambiarono un lungo sguardo,
uno di quelli in cui si concentra una conversazione silenziosa tra chi
riesce a capirsi senza bisogno di parlare.
«Ma questo Fabio ti piace?» si
decise a chiedere Tiziano.
Vera lo guardò in silenzio per un
istante.
«Sì, credo» rispose
piano.
«Allora esci con lui»
intervenne Giulia. «Se va bene ne sarà valsa la
pena, e se andrà male... be', in quel caso, nessuno ti
costringe a vederlo ancora». Le prese la mano e la strinse.
«È solo un appuntamento, Vè: non
c'è niente di cui aver paura, e da qualche parte devi pur
ripartire» disse incoraggiante.
«E se non dovesse comportarsi bene, lo
prenderò a schiaffi» aggiunse Tiziano in tono
solenne.
L'ex ginnasta annuì, un sorriso
stiracchiato sulle labbra, e pensò che i suoi amici avevano
ragione: da qualche parte doveva ricominciare.
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Capitolo 10 *** Capitolo IX ***
Con l'inizio della primavera, le persone che affollavano il parco
vicino casa di Vera si erano moltiplicate: il clima più mite
e le ore di luce che aumentavano parevano invogliare gli
abitanti della zona a passare un po' più di tempo
tra quei viali. Vittorio non ne era troppo felice: fare jogging era
decisamente più complicato, con tutta quella gente intorno,
e fare lo slalom tra gruppetti di adolescenti e manipoli di bambini con
genitori al seguito rovinava il piacere che provava nel correre
all'aperto. Nonostante questo, il carabiniere scelse di restare: si
diresse verso i viali più lontani dal cuore del
parco per evitare la maggior parte delle persone, e fu solo dopo un'ora
buona che si decise ad andare via.
Vittorio rallentò la propria corsa fino
a fermarsi a un paio di metri di distanza da una delle uscite del
parco; si piegò in avanti, appoggiandosi le mani sulle cosce
per riprendere fiato, quando qualcosa di grosso, pesante e vivo gli
piombò sulle spalle e lo abbatté al suolo.
Steso a braccia e gambe larghe, con la faccia
premuta sul cemento, l'uomo grugnì di dolore mentre il peso
che l'aveva inchiodato a terra gli saltellava sulla schiena e un coro
di risate si levava intorno a lui.
Con uno sforzo immenso, Vittorio si
scrollò di dosso l'entità ignota che l'aveva
scambiato per un tappeto elastico, rotolò su se stesso per
mettersi supino e provò a guardarsi intorno, ma il muso di
un cane occupò il suo campo visivo e l'animale gli
leccò la faccia con entusiasmo.
«Togliti, teppista»
brontolò Vittorio, tentando con scarso successo di spostare
Hermes. Alzò appena la testa e scorse Vera a un metro dai
propri piedi: la ragazza rideva forte, una mano premuta sul fianco e
grosse lacrime di divertimento che le scivolavano lungo le guance.
«Be', ti stai divertendo?»
scandì sarcastico, ora rivolto alla donna.
«Da morire» riuscì
a esalare Vera. Hermes scelse quel momento per saltare sullo stomaco
del carabiniere: lui gemette e il cane, dopo un'apparente breve
riflessione, decise di mettersi comodo e usare l'umano come un
materasso. Vera eruppe in un nuovo torrente di risate: ben presto la
donna rimase senza fiato sotto lo sguardo contrariato di un Vittorio
semisepolto da quaranta chili di ossa, muscoli e peli.
Alla fine, Vera decise di liberare Vittorio; prese
uno snack per cani dalla borsa e lo sventolò invitante.
«Qui, Hermes! Vieni a prendere il tuo
premio!»
Il pastore tedesco balzò in piedi,
strappando l'ennesima esclamazione sofferente all'uomo, e si
scaraventò dalla sua padrona; prese lo snack e lo
masticò mentre Vera lo coccolava energi camente.
«Bravo il mio cucciolo, che fa quello
che gli dice la sua padrona!» disse orgogliosa. Prese un
secondo snack dalla borsa e lo offrì al cane. «Uno
per essere saltato addosso a Valenti quando ti ho detto di farlo e uno
per averlo usato come materasso: un colpo di genio, Hermes. Un vero
colpo di genio!» continuò in tono amorevole.
Vittorio si rimise in piedi lentamente,
strofinandosi una mano sullo stomaco e poi sulla parte bassa
della schiena.
«Quindi sei stata tu a dirgli di
stendermi» grugnì scontento.
Vera sghignazzò. «Che vuoi
che ti dica, Valenti? Tu eri distratto, e l'occasione troppo
ghiotta per non coglierla».
Lui le scoccò un'occhiataccia.
«Avrò la mia vendetta».
«In questo mondo o
nell'altro?» lo stuzzicò la ragazza, senza
smettere di sghignazzare.
«Ridi, ridi finché puoi. La
prossima volta sarò io a ridere»
minacciò Vittorio.
Vera alzò le mani in gesto di pace, ma
non riuscì a nascondere il sorrisetto compiaciuto che le
incurvava le labbra. Il carabiniere sbuffò irritato, ma
decise di lasciar correre... almeno per quel giorno.
«State andando via?» chiese
quando vide la donna mettere il guinzaglio a Hermes.
Lei annuì. «È
quasi ora di cena: se facciamo tardi, mia madre mi uccide».
Piegò appena la testa di lato. «E tu?»
Vittorio annuì e insieme si
incamminarono verso il cancello. «Oggi ho il turno di notte:
dopo aver dormito tutto il pomeriggio, volevo sgranchirmi un po' le
gambe».
«Ha senso» concesse Vera.
«Anche perché immagino che stanotte starai seduto
in macchina per la maggior parte del tempo».
«Immagini bene». Vittorio non
aggiunse altro: il trillo caratteristico delle notifiche in arrivo
risuonò svariate volte in pochi secondi e Vera
agguantò il cellulare per controllare i nuovi messaggi. Il
carabiniere la osservò con attenzione mentre lei sorrideva
allo schermo del telefonino e rispondeva rapida.
«Come mai tanto allegra?»
disse noncurante Vittorio non appena la ragazza mise via il
cellulare. «Finalmente hai trovato un uomo che
sopporti il tuo caratteraccio?»
Con somma sorpresa di Vittorio, le guance di Vera
si imporporarono. Lui la fissò, interdetto: aveva
sperato di infastidirla con quella domanda, ma a quanto pareva aveva
indovinato, anche se in modo del tutto involontario.
«In effetti, sì»
rispose Vera in tono di sfida.
Vittorio continuò a guardarla, a
malapena consapevole di dove stesse mettendo i piedi; fu solo quando
evitò per un soffio l'impatto con un lampione che
tornò a concentrarsi sulla
strada.
«Non aggiungi altro?» la
spronò.
Lei annuì. «Soltanto una
cosa».
«Cosa?»
Vera indicò l'auto accanto a cui si
erano fermati. «Questa non è la tua
macchina?»
Il carabiniere batté più
volte le palpebre e guardò l'auto in questione.
«Sì».
La ragazza gli batté una mano sulla
spalla. «Allora buon ritorno a casa».
A bocca aperta, Vittorio salì in
macchina senza staccare gli occhi da Vera e Hermes che proseguivano
tranquilli verso casa; mise in moto, ma prima di ripartire non
resistette e mise la testa fuori dal finestrino.
«Avanti, Gamba Bionica, dimmi
qualcosa!» le urlò dietro. «Chi
è questo tizio? Che lavoro fa? Quanti anni ha?»
Vera lo liquidò con un gesto della mano
senza neanche voltarsi.
«E dai, una cosa qualsiasi!»
insisté il carabiniere. «Dimmi almeno se ha
precedenti penali o ha mai fatto uso di droghe!»
Di nuovo, la ragazza lo ignorò.
Rassegnato, Vittorio sospirò e prese la strada per
tornare in caserma; era appena entrato nella propria stanza quando il
suo cellulare suonò, annunciando l'arrivo di un nuovo
messaggio.
L'uomo prese il telefono e digrignò i
denti di fronte alla singola linea di testo davanti ai suoi occhi.
“Quando
saprò le risposte, te lo dirò”.
******
Stando alla guida tv, quella sera era in programma un film in grado di
mettere d'accordo tutti i membri della famiglia Nicolini;
così, dopo cena, i tre si strizzarono sul divano per
guardare un telegiornale in attesa che il film iniziasse.
Eugenio, Fabiola e Vera erano intenti a commentare
le notizie quando una serie di scampanellate lunghe e
ravvicinate li fece sobbalzare.
«Ma chi è il deficiente che
suona così?» sbottò Eugenio.
Fabiola andò al citofono.
«Chi è?». Un'arrabbiata voce maschile
uscì dall'altoparlante e lei si voltò verso il
salotto. «Vittorio Valenti non è quel carabiniere
che continua a incontrare Vera?» gridò.
Padre e figlia sbucarono in corridoio, entrambi
increduli.
«Che c'entra Valenti?» chiese
Vera.
Sua madre indicò il citofono.
«È qui fuori».
La più giovane alzò le
braccia al cielo, stizzita. «Ma che cavolo vuole quello, da
me? Che ci è venuto a fare qui? Che strazio!»
«Fallo entrare» disse cupo
Eugenio.
Fabiola pigiò un paio di volte il
pulsante di apertura del cancello e poi andò ad aprire la
porta di casa: Vittorio entrò come un treno e subito
andò a pararsi di fronte a Vera.
«Buonasera, signori Nicolini, e scusate
l'intrusione» disse brusco, senza mai staccare gli
occhi dalla venticinquenne.
«Che diavolo vuoi, Valenti?»
sibilò Vera.
«Solo capire se per caso, nell'incidente
dell'anno scorso, non hai subito anche danni al
cervello» abbaiò lui,
«perché tu sei fuori di testa. Vuoi uscire con uno
sconosciuto? Da sola?».
«Sì a entrambe le domande,
idiota» ringhiò la donna in risposta.
«Non vedo cosa ci sia di male né in che modo la
cosa ti riguardi».
Vittorio si mise le mani nei capelli.
«Ma sei stupida? Non li guardi i telegiornali? Gli atti di
violenza contro le donne sono ormai una realtà quotidiana,
la maggior parte neanche viene denunciata, e tu vorresti uscire con un
tizio senza sapere chi è?»
«Senti, Valenti, io lo so chi
è Fabio, va bene?» rispose Vera, irritata.
«È un ex studente del mio capo, e il professor
Maesani mi ha garantito che è una persona per bene. Quindi
qual è il problema?»
«Il problema è che il tuo
capo di sicuro non conosce abbastanza questo Fabio da sapere come si
comporta con le donne!» mugghiò lui.
«Sai, Vè, non ha mica
torto» intervenne Eugenio.
«Non ti ci mettere anche tu!»
reagì Vera. «Mi avete perseguitata con la storia
che devo ricominciare a vivere normalmente, e adesso che ho accettato
l'invito di un uomo, volete che rinunci? Voi non state bene,
ma per niente proprio!»
«Non ti azzardare a parlarci
così!» tuonò Eugenio.
«Parlo come mi pare»
sibilò sua figlia. «Se posso guidare, votare,
lavorare e rispondere delle mie azioni davanti alla legge,
allora posso anche uscire con un uomo senza che vi mettiate tutti a
cercare di farmi cambiare idea!»
«Non ci puoi andare da sola»
insisté Vittorio.
«Concordo!» esclamò
Eugenio.
«E che dovrei fare? Presentarmi con la
scorta armata?» disse sarcastica Vera.
Vittorio gonfiò il petto.
«Verrò io con te».
Lei sbuffò. «Pensa che
bell'appuntamento!». Affilò lo sguardo e gli
lanciò un'occhiataccia. «Non ti azzardare,
Valenti. Per una volta che un ragazzo carino e simpatico mi chiede di
uscire, non ho intenzione di averti tra i piedi. Non ti voglio
lì: andrò da sola, e questo è
quanto».
«Andrai?»
ripeté il carabiniere, disgustato. «Non ti viene
neanche a prendere a casa? Che schifo! Ma che razza di uomo
è?»
«Ho detto anch'io la stessa
cosa» confidò Eugenio all'altro uomo.
«E ci credo!»
«Fatela finita!» esplose Vera.
Si voltò verso sua madre. «Mi vuoi dare una mano?
In fondo uno dei due è marito tuo».
Fabiola esitò. «Be', tesoro,
sai... anch'io sarei più tranquilla, se con te ci fosse
qualcuno che conosciamo. Di questi tempi se ne sentono
tante...»
Vera guardò incredula i propri
genitori. «Ma da che parte state? E poi, da
quand'è che c'è tutta questa fiducia in Valenti?
Se non ricordo male, tu»
aggiunse, puntando il dito contro suo padre, «non lo potevi
soffrire, fino a cinque minuti fa!».
Eugenio si strinse nelle spalle.
«Stavolta ha ragione».
«Grazie tante!»
sbottò Vera.
«Da sola non ci vai»
decretò Vittorio. «Ti accompagno io e resto nei
paraggi, giusto per tenere d'occhio questo tizio».
«Valenti, quale parte della frase
“non ti voglio lì” non ti è
chiara?» ringhiò lei.
«Nicolini, quale parte della frase
“da sola non ci vai” non riesci a
capire?» le ritorse contro lui.
I due si squadrarono torvi, entrambi restii a
cedere.
«Per quanto mi scocci ammetterlo, sono
d'accordo con lui» intervenne Eugenio. Rivolse a Vera uno
sguardo severo. «Se davvero vuoi uscire con questo Fabio
– che peraltro non so chi sia» disse freddo,
«il signor Valenti verrà con te, visto che
è stato così gentile da offrirsi di
accompagnarti; altrimenti, resterai a casa».
Il volto di Vera si tinse di una brutta sfumatura
di rosso.
«Scusa tanto, papà, ma credo
tu abbia dimenticato che sono maggiorenne già da un po': non
ho più quindici anni, e non puoi impedirmi di
uscire» replicò con voce tagliente.
Eugenio incrociò le braccia al petto:
la sua espressione ostinata era l'esatto riflesso di quella di Vera.
«Vogliamo scommettere?»
abbaiò. «Ti toglierò le chiavi della
macchina e sono pronto a smontare mezzo motore, pur di tenerti a casa.
Quindi scegli: o lasci che sia Valenti a portarti a questo
appuntamento, o non ci andrai affatto!»
La ragazza alzò le braccia al cielo in
un gesto rabbioso.
«Bene! Fantastico, avete vinto
voi!» berciò, furente. Lanciò uno
sguardo astioso a Fabiola. «E a te, grazie per il
sostegno» disse acida prima di zoppicare risoluta fuori dalla
stanza.
******
La sera seguente, nonostante lo scorno di Vera, Vittorio si
presentò puntuale sotto casa sua; Eugenio scortò
sua figlia fino all'auto del carabiniere per accertarsi che vi salisse
davvero, e i due uomini si scambiarono uno sguardo di insolita intesa.
Il viaggio si svolse in silenzio. Vera, ancora
contrariata dall'improvvisa coalizione che si era formata tra i suoi
genitori e il quarantenne al suo fianco, tenne la bocca sigillata e lo
sguardo ostinatamente fisso oltre il finestrino; Vittorio
intonò a bocca chiusa un motivetto dietro l'altro,
battendo le dita sul volante a tempo con la musica, chiaramente
compiaciuto per quella vittoria. Quando giunsero a destinazione Vera
scese dall'auto prima ancora che il motore fosse spento, per impedire a
Vittorio di replicare il gesto gentile della volta precedente: sapeva
che questo l'avrebbe frustrato, e se lui poteva impicciarsi impunemente
degli affari suoi, allora lei aveva tutto il diritto di fargli saltare
i nervi.
Come aveva previsto, Vittorio chiuse la macchina
dopo averle scoccato uno sguardo infastidito; poi, sfruttando
la ridotta agilità della ragazza, l'affiancò con
pochi passi e agganciò il proprio braccio al suo per
guidarla dentro il locale.
«Posso camminare da sola»
sibilò Vera.
«Rinfodera gli artigli, tigre: manca un
quarto d'ora al vostro appuntamento, con ogni
probabilità il tuo principe azzurro non
è ancora arrivato» replicò sarcastico
Vittorio mentre oltrepassavano la porta. La guidò
verso un tavolo libero e l'aiutò a sedersi; poi, senza
aggiungere una parola, andò a sistemarsi a un altro tavolo.
I minuti trascorsero lenti; arrivò
l'ora dell'appuntamento, ma Fabio non si vedeva da nessuna
parte. Il cellulare di Vera squillò e lei ascoltò
il messaggio vocale che aveva appena ricevuto.
Il carabiniere la raggiunse in meno di due
secondi. «Allora? Ti ha dato buca?» la
provocò.
La ragazza non abboccò. «Mi
ha appena mandato un messaggio: dice che c'è traffico e
arriverà con un po' di ritardo» rispose
calma.
Vittorio sbuffò. «Ma che
campione, guarda».
Vera digrignò i denti.
«Valenti, smettila: il traffico non è certo colpa
sua!»
«Se lo dici tu». Tutt'altro
che convinto l'uomo tornò al proprio tavolo, lasciandola
sola coi propri pensieri. Dopo aver fissato la porta per un po', Vera
lanciò uno sguardo di sottecchi a Vittorio: stava seduto a
una discreta distanza da lei, ma comunque abbastanza vicino da
sentire tutto quello che lei e Fabio si sarebbero detti, e si
guardava intorno con aria apparentemente distratta. Il
carabiniere si voltò apertamente verso di lei e
batté un dito sull'orologio da polso con deliberata
lentezza. Vera sbuffò: sapeva benissimo che Fabio era in
ritardo di un quarto d'ora senza che ci si mettesse Vittorio,
a ricordarglielo.
Passarono altri dieci minuti, ma finalmente Fabio
arrivò: scrutò la folla fino a quando non
individuò il tavolino a cui si era seduta Vera, poi
andò veloce in quella direzione.
«Ciao Vera» la
salutò, chinandosi a baciarla sulle guance; lei gli sorrise.
«Scusa per il ritardo, ma come ti ho detto, c'era
traffico. Certo, se tu abitassi più vicino a me non ci avrei
messo così tanto...»
Vera decise di non ribattere. «Be',
l'importante è che tu sia arrivato» disse sincera.
Fabio scrollò le spalle.
«Sì, ma comunque dovrò andare via
presto, perché con il tempo che mi ci vuole per tornare a
casa, non posso fermarmi troppo».
«Lo capisco... quindi meglio sfruttare
la serata, no?» tentò lei, incoraggiante.
«Ah sì,
assolutamente!» convenne Fabio.
I due intavolarono una conversazione. Per un po'
parlarono di viaggi e di musica; poi Fabio si lanciò nel
racconto di una vacanza in Giappone fatta un paio d'anni prima. Vera si
sforzò di seguirlo, ma dopo un quarto d'ora si rese conto
che quel racconto era in realtà un monologo –
fatto in tono di enorme compiacimento, per di più
– e iniziò ad annoiarsi terribilmente.
Lanciò un rapido sguardo a Vittorio, e quasi
scoppiò a ridere quando si accorse che sembrava
annoiato almeno quanto lei.
Dopo un'altra mezz'ora spesa sullo stesso
argomento, Fabio sembrò non trovare altro da dire sul
Giappone e si fermò per riprendere fiato.
«Be', a sentirtene parlare quasi quasi
viene voglia anche a me di andarci» commentò Vera,
sollevata: iniziava a temere che Fabio non avrebbe più
smesso di parlare. «Io però preferirei girare
l'Europa: mi piacciono i piccoli borghi antichi e le città
d'arte, sai...»
«L'Europa? Ma che noia! Hai descritto le
mete da borghesucci pigri» la interruppe lui con espressione
schifata.
Vera si zittì, interdetta.
«Che ti devo dire? A me piacciono»
obiettò con una punta di freddezza.
«Ma sono molto meglio i paesi
orientali» insisté Fabio.
«Per i tuoi gusti,
sì» rispose lei, sforzandosi di essere
diplomatica. «A me piacciono cose diverse».
«Be', se mai faremo un viaggio insieme,
la meta la sceglierò io» decretò Fabio
con grande decisione.
«O magari non faremo mai un viaggio
insieme, così il problema non si porrà
proprio» tagliò corto Vera.
Fabio non rispose: si limitò a
scrutarla con attenzione dalla testa ai piedi, e arrivò
persino a piegare la testa di lato per guardarle le scarpe.
«Certo però, che potevi anche
vestirti un po' meglio» commentò senza alcun
preavviso. «Truccarti di più e mettere un paio di
tacchi, magari, così saresti sembrata più alta.
La prossima volta che usciamo fatti più carina...
tipo quella ragazza laggiù, vedi?» aggiunse,
indicando una donna in piedi vicino al bancone. «Quella
sì che è bella, anche tu potresti esserlo se ti
curassi di più».
Vera boccheggiò, incredula: quello
proprio non se l'aspettava. «Che hanno di sbagliato i miei
vestiti? Siamo in un bar, mica in un ristorante di lusso!»
replicò. «E comunque io non uso le scarpe col
tacco» aggiunse a mezza voce.
«E perché no?»
chiese Fabio. «Dovresti volerti fare bella, quando esci con
un uomo, e a me piacciono le donne femminili, non quelle che stanno
sempre in jeans e scarpe da ginnastica».
Lei si agitò un po' sulla sedia e si
torse le mani. «Io ho... ho una protesi»
sussurrò.
Fabio batté le palpebre più
volte. «Che cos'hai, scusa?»
Vera prese un respiro profondo. «Ho una
protesi. La mia gamba sinistra è... è una
protesi». Si batté le nocche sull'arto in
questione, poi tirò appena i jeans per scoprire la caviglia
artificiale. «Come faccio a usare gonne e tacchi,
con questa?»
L'uomo la guardò, scontento.
«Anche la gamba finta? E quando me lo volevi
dire?». Sbuffò. «Quindi non ti
vedrò mai vestita carina e sistemata. Bene!»
Vera aprì la bocca per ribattere, ma
prima che potesse riuscirci, un Vittorio dall'espressione tempestosa
piombò tra di loro.
«E no eh, adesso basta!»
esplose il carabiniere. «Fai proprio schifo: ti pare il modo
di parlare a una donna?»
«E tu chi sei?»
replicò Fabio, infastidito.
«Un suo amico» rispose
Vittorio, accennando a Vera.
«E allora diglielo anche tu che dovrebbe
cercare di truccarsi di più e farsi bella!» disse
Fabio. «Già non si può vestire
in modo femminile perché ha una protesi, potrebbe almeno
cercare di curarsi di più...»
«Vera non ha bisogno di coprirsi la
faccia col cerone o mettersi i tacchi, per essere bella»
ribatté Vittorio a denti stretti. «Tu
invece sei una testa di cazzo, e questo non lo puoi sistemare neanche
con tutto il trucco del mondo. E adesso è proprio ora che te
ne vai».
«Ma che vuoi, coso?»
sibilò l'altro.
Vittorio perse la pazienza. «Coso ce lo
chiami tu' fratello, hai capito?» abbaiò.
«E mo' vedi d'annattene, sennò te manno via io a
carci 'nculo. Vattene! De corsa, stronzo!»
Fabio lanciò uno sguardo astioso prima
a Vittorio, poi a Vera; dopodiché si mise la giacca e
fermò una cameriera di passaggio.
«Mi scusi, quanto costa il cocktail che
ho preso?» le chiese altero mentre tirava fuori il
portafogli.
Vittorio s'infiammò di nuovo.
«Dopo il modo in cui hai trattato Vera,
neanche ti offri di pagare anche per lei?». Scosse la testa,
un'espressione di profondo disgusto sul volto.
«Guarda, manco te lo posso spiega' quanto me fai schifo. Pago
io, basta che te ne vai da qua perché non te vojo proprio
vede'. Esci!»
Fabio si rimise il portafogli in tasca e se ne
andò. Vittorio, col volto ancora paonazzo per la rabbia, si
lasciò cadere nella sedia che l'altro aveva appena liberato
e guardò Vera: la ragazza aveva appoggiato la fronte sul
tavolo e si era coperta la testa con le mani.
«Puoi rimetterti dritta: se
n'è andato» annunciò il carabiniere.
Vera rialzò la testa e gli
lanciò uno sguardo assassino.
«Oh, mi posso rialzare?
Davvero?» sibilò. «Ma che gentile da
parte tua farmelo sapere!»
Vittorio si accigliò. «Che
hai che non va, Gamba Bionica?»
«Ho te
che non va!» esplose lei. «Dovevi per forza fare
quella piazzata, vero? Vero?»
ululò.
«Sì, dovevo»
rispose l'uomo senza battere ciglio.
«Sei uno stronzo arrogante che per puro
caso è finito sulla mia strada: non hai nessun diritto di
immischiarti nei fatti miei» ringhiò Vera.
«A me Fabio piaceva!»
Vittorio agitò una mano con fare
sprezzante. «Quello lì ha smesso di piacerti al
minuto diciotto del monologo sul Giappone: esattamente quando
hai preferito guardare me piuttosto che ascoltare lui. E tutto quello
che ti ha detto dopo te l'ha fatto proprio detestare.
Ammettilo!»
La donna s'imbronciò e si girò da
un'altra parte; Vittorio continuò a guardarla fisso, e alla
fine lei alzò le braccia al cielo in un gesto esasperato.
«E va bene: mi è andato sulle
scatole in tre minuti netti!» confessò, scontenta.
«Soddisfatto?»
«Molto». Vittorio si
appoggiò allo schienale della sedia e distese le gambe sotto
il tavolo. «Significa che non sei stupida e ti rispetti:
nessuna donna sana di mente sopporterebbe un coglione come
quello».
Suo malgrado, Vera sorrise. «Per una
volta, sono d'accordo con te».
«No!». L'uomo le
afferrò i polsi e tentò di scuoterla.
«Chi sei tu, e che ne hai fatto di Gamba
Bionica?»
«Non la smetterai mai con questa storia
della Gamba Bionica, vero?» mugugnò lei.
«Mi sa proprio di no. Ti conviene
abituartici» replicò il carabiniere.
Incrociò le braccia sul petto e le scoccò uno
sguardo penetrante. «Adesso che ti sei calmata, mi spieghi
perché ti sei arrabbiata con me per averti difesa?»
Vera strinse le labbra e assottigliò lo
sguardo. «Mi sono arrabbiata perché non sono una
debole damigella bisognosa di protezione, e non serve che
qualcuno mi difenda: sono in grado di farlo da sola» disse
freddamente.
Vittorio si sporse verso di lei. «Sei
troppo intelligente per credere in questa specie di... di femminismo
folle!» esclamò. «Non ho pensato neanche
per un secondo che tu avessi bisogno
di essere protetta: ho avuto a che fare con il tuo caratteraccio e la
tua lingua biforcuta abbastanza da sapere che puoi far
scappare chiunque in lacrime. Se sono intervenuto è solo
perché non sopportavo l'atteggiamento di quell'idiota
né quello che ti stava dicendo, e alla fine non sono
più riuscito a trattenermi» precisò.
«Detto questo, se anche avessi voluto proteggerti, che male
ci sarebbe?»
Lo sguardo della donna s'infiammò.
«Tu credi davvero che sia così facile, non
è vero?» sputò rabbiosa.
«Magari per te lo è, ma non per me. Io non posso
permettermi di essere debole né solo di sembrarlo. Sai
quanta fatica ho fatto, dopo l'incidente, per riavere indietro una
parvenza di normalità? Mi trattavano tutti come se fossi
stata sul punto di rompermi in mille pezzi: non mi lasciavano fare
più niente da sola, che fosse uscire o soltanto preparare un
caffè. Volevano persino vendere la mia
macchina!». Ansante, Vera si spostò una ciocca di
capelli dal viso, senza mai smettere di fissare Vittorio. «Ho
dovuto lottare
per riavere indietro la mia indipendenza: come se non fosse bastato
tutto quello che dovevo già affrontare, ho dovuto
anche combattere per non essere trattata come una bambina
incapace di badare a se stessa e prendere le proprie decisioni, per non
essere... annullata
dalle loro eccessive premure! Se i miei genitori o i miei amici
avessero anche solo per
un secondo l'impressione che io sia debole,
ricomincerebbero daccapo!»
Vittorio si appoggiò allo schienale
della sedia. «Non so cosa si provi a essere nei tuoi panni o
nei loro, ma sono sicuro che l'abbiano fatto a fin di bene»
disse con dolcezza.
Lei alzò le braccia al cielo.
«Lo so, lo so che volevano soltanto aiutarmi... ma hanno
quasi soffocato quel poco che ancora c'era di me, e non potevo... non
potevo neanche urlare o infuriarmi, perché li avrei
feriti! Più cercavo di dire loro che avevo bisogno dei miei
spazi, di respirare,
più mi ricoprivano di gentilezze e mi impedivano di fare
qualsiasi cosa!»
Vera tacque, apparentemente svuotata da quello
sfogo, e Vittorio la guardò senza muoversi di un centimetro.
Alla fine, prese un respiro profondo e la fissò dritto negli
occhi.
«Con me puoi urlare» disse
semplicemente.
Suo malgrado, il volto di Vera si
ammorbidì.
«Grazie per aver terrorizzato
quell'idiota» rispose.
«Oh, è stato un piacere,
credimi» replicò compiaciuto l'uomo.
Vera ridacchiò, poi gli tese la mano.
«Pace?»
Vittorio sorrise; afferrò la mano che
lei gli offriva e la scosse deciso. «Pace».
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Capitolo 11 *** Capitolo X ***
Quel sabato, Giulia non
sapeva dove sbattere la testa: tra le faccende di casa, fare la spesa,
accompagnare sua madre a sbrigare delle commissioni e la festa di
compleanno di una sua ex collega, non aveva quasi tempo per respirare.
Nonostante questo, la curiosità sua e di Tiziano di sapere
com'era andato l'appuntamento di Vera fu più forte di tutto
il resto: i due si erano messi al lavoro di buona lena fino a
ritagliarsi un'ora libera dopo pranzo, e si erano affrettati a invitare
l'amica a prendere un caffè a casa loro.
Vera aveva fiutato la loro intenzione di
sottoporla a un interrogatorio nel momento stesso in cui Giulia l'aveva
chiamata; aveva cercato di tergiversare, di trovare scuse, ma le
pressioni combinate dei due – e le minacce di Tiziano di
organizzarle una serie di appuntamenti al buio – l'avevano
fatta capitolare.
Alle due e mezza del pomeriggio, una Vera
sbuffante e scontenta zoppicò verso la porta di casa
Massari-Ranghieri, pronta a essere bombardata di domande.
La coppia non la deluse: Vera fece appena in tempo
a varcare la soglia che Giulia l'afferrò per un braccio e la
trascinò in cucina, dove Tiziano la spinse su una sedia. I
due sedettero di fronte a lei, spalla a spalla, e per un istante Vera
non seppe se ridere o essere spaventata.
«Allora: dicci tutto»
ordinò Giulia, saltando ogni preambolo.
Vera sospirò: non aveva proprio voglia
di raccontare quello che era successo la sera prima, ma sapeva
perfettamente che i suoi migliori amici non avrebbero desistito fino a
quando non avessero conosciuto tutti i particolari. Così la
ragazza raccontò in modo rapido e dettagliato com'era andata
la serata, dal momento in cui Vittorio era andata a prenderla a casa
fino a quando non ce l'aveva riportata.
Quando finalmente tacque, i padroni di casa
fumavano di rabbia.
«Quel verme schifoso!»
tuonò Giulia, battendo un pugno sul tavolo. «Se
penso che sabato scorso gli ho stretto la mano... gliela dovevo
sbattere in faccia, la mano!»
«Vuoi che lo ammazzi?»
preferì chiedere Tiziano con aria fosca.
Vera si accigliò.
«Tizià, mi sa che hai qualche problema di gestione
della rabbia» commentò.
«Perché quando qualcuno manca di rispetto a me o a
Giulia, la tua prima e unica opzione è l'omicidio?»
«Perché lei è
l'amore della mia vita e tu la mia sorellina» rispose lui
senza esitazioni. «Nessuno tratta male le mie donne,
se vuole restare tutto intero».
Giulia manifestò la sua approvazione
per le parole di Tiziano con un bacio talmente focoso da far gemere di
disgusto Vera.
«Ma insomma! Non potete aspettare che me
ne vada?» si lamentò l'ex ginnasta. «Non
voglio assistere al concepimento del mio secondo
nipote!»
«Ah no? Sicura?» la
punzecchiò l'amica prima di tornare seria. «Per
fortuna Valenti ne ha dette quattro a quel deficiente... anche se gli
avrebbe dovuto mollare anche un paio di ceffoni, giusto per rafforzare
il concetto».
«Zitta, va', che c'è mancato
poco che lo facesse» replicò l'altra.
Per alcuni lunghi istanti calò il
silenzio, mentre i tre erano persi ognuno nei propri pensieri.
«Dannazione!»
sbottò Tiziano, alzando le braccia al cielo.
Le due donne si voltarono verso di lui.
«Che c'è?» chiese
perplessa Giulia.
Suo marito sbuffò, contrariato.
«C'è che Valenti è stato un grande.
Adesso devo farmelo stare simpatico per forza!»
Vera e Giulia lo fissarono per un momento,
incredule; poi scoppiarono a ridere.
«Glielo farò sapere: ne
sarà estasiato»
sghignazzò la prima.
«Non c'è niente da ridere:
sono serio» replicò immusonito l'uomo.
«Adesso che ti ha difesa in questo modo, non sono
più libero di detestarlo: è una
catastrofe!»
«Non ti sembra di esagerare?»
gli chiese sua moglie in tono ragionevole. «In fondo si sta
rivelando una brava persona. Un po' burbera, ma buona. Che male ci
sarebbe, a non detestarlo?»
Tiziano si voltò con tutto il corpo
verso di lei e le mise le mani sulle spalle. «Tesoro, io ti
amo e lo sai, ma ti sfugge il nocciolo della questione» disse
serio, guardandola dritto negli occhi. «Anche se
Valenti avesse baciato la terra su cui cammina Vera dal primo istante
in cui l'ha incontrata, resta un ostacolo insormontabile tra
un'eventuale amicizia tra me e lui». Fece una pausa.
«È romanista».
Vera scoppiò a ridere e Giulia gli
diede uno spintone: Tiziano rischiò di cadere dalla sedia, e
per alcuni istanti mulinò disperatamente le braccia nel
tentativo di non perdere l'equilibrio.
«Valenti sarà pure romanista,
ma tu sei un idiota» decretò Giulia, corrucciata.
«E pensare che ti ho sposato!»
«E pensare che ci hai fatto una
figlia!» rincarò la dose Vera tra una risata e
l'altra.
La sua migliore amica impallidì.
«Ci ho fatto una figlia»
ripeté con voce flebile. Si coprì il volto con le
mani. «Oh Dio, Ludovica potrebbe diventare come
lui!» gnaulò disperata.
«Ehi!» sbottò
Tiziano, oltraggiato, e l'ex ginnasta rise più forte.
«Penso che questo sia il momento giusto
per andar via» commentò, alzandosi.
«Buon divertimento!»
I due neanche la sentirono, impegnati com'erano a
battibeccare, e Vera si affrettò a lasciare l'appartamento
prima che la loro attenzione si appuntasse di nuovo su di lei.
******
Nonostante fosse trascorsa una settimana da quando aveva assistito al
disastroso appuntamento di Vera, Vittorio provava ancora il
desiderio di prendere a calci Fabio: glielo suggeriva lo stesso tipo di
rabbia che più volte l'aveva messo nei guai con i suoi
superiori o mentre era in servizio, e sebbene una parte di lui fosse
fiera di aver dominato quell'impulso, l'altra si lamentava a
gran voce per aver perso l'occasione di insegnare a quell'omuncolo che
quello in cui si era esibito non
era il modo giusto di trattare una donna. Soprattutto non una come
Vera, non poteva fare a meno di pensare: sì, quella ragazza
aveva un caratteraccio in grado di fargli saltare i nervi un
giorno sì e l'altro pure, ma dopo tutto quello che aveva
passato, di sicuro non meritava di essere umiliata in quel
modo.
Seduto sul proprio letto, il quarantenne stava
immaginando di stringere la mani intorno al collo di Fabio quando
qualcuno bussò alla porta.
«Valenti?». Uno dei suoi
colleghi mise dentro la testa e scandagliò veloce la stanza
con gli occhi, alla sua ricerca. «C'è una persona
che chiede di te».
Sbuffando, Vittorio s'infilò le scarpe
e andò nell'ingresso.
«Non si risponde più al
telefono?» disse Vera a mo' di saluto non appena lo vide
arrivare.
L'uomo si tastò le tasche, perplesso,
prima di ricordare che aveva lasciato il cellulare sul
comodino il pomeriggio precedente e non l'aveva più toccato.
«Deve essersi scaricato».
Incrociò le braccia al petto e la
squadrò, cauto. «Che è
successo?»
«È sabato e io mi
annoio» rispose Vera con una scrollata di spalle.
«E allora?» insisté
Vittorio.
Lei s'infilò le mani nelle tasche dei
jeans e piegò appena la testa di lato. «Vuoi
proprio sentirmelo dire, vero?»
Vittorio le rivolse uno sguardo innocente.
«Non so di cosa stai parlando».
Vera alzò gli occhi al cielo.
«Senti, a casa mi annoiavo e ho pensato che se non eri di
turno potevi aver voglia di andare a prendere un caffè qua
vicino e fare quattro chiacchiere, ma se non ti va...»
«Mi va» la interruppe il
carabiniere. «Fammi prendere la giacca e andiamo».
Dieci minuti più tardi, i due entrarono
in un bar poco distante il comando, ordinarono un caffè e
andarono a sedersi a uno dei tavolini all'esterno.
«Allora, Gamba Bionica».
Vittorio sorrise compiaciuto al mugugno iracondo con cui Vera rispose
al nomignolo. «Come mai hai scelto di uscire proprio con
me?»
Lei gli scoccò un'occhiataccia.
«Francamente non lo so più»
ringhiò. «Venerdì scorso avevo avuto
l'impressione che potesse
essere piacevole passare del tempo in tua compagnia, ma inizio
a credere di aver preso un granchio».
«Tutto questo astio mi pare
eccessivo» replicò l'uomo, accigliato.
«E poi non lo sai che un sorriso fa sembrare più
giovani?»
«Prendendo per buona questa teoria, tu
dovresti dimostrare cent'anni» ribatté prontamente
Vera. Inarcò le sopracciglia e sorrise beffarda.
«E comunque sei tu quello che ha sempre la fronte aggrottata,
come in questo momento: ti farà venire un sacco di
rughe».
D'istinto Vittorio si lisciò la fronte
con la mano, e altrettanto spontaneamente guardò Vera con un
cipiglio che non la intimorì affatto, quando lei gli
scoppiò a ridere dritto in faccia.
«Sei insopportabile»
bofonchiò Vittorio.
«Almeno in questo siamo
uguali» commentò la ragazza con sincero
divertimento.
Vittorio si adagiò contro lo schienale
della sedia e si preparò a lanciare una risposta
tagliente; prima che potesse riuscirci, però,
un'ombra si allungò sul tavolino ed entrambi si voltarono
verso la donna alta e attraente che si era appena fermata lì
accanto.
Allarmata, Vera osservò il volto del
carabiniere irrigidirsi e impallidire, per poi coprirsi di chiazze
rossastre tra il collo e le orecchie.
«Vittorio» disse altera la
sconosciuta che torreggiava su di loro. «Finalmente ti ho
trovato».
Vittorio si alzò.
«Emanuela» ringhiò
con una ferocia che Vera non gli aveva mai sentito nella voce.
«Che ci fai qui?»
Emanuela incrociò le braccia al petto e
lo guardò, apparentemente incurante della sua
rabbia. «Visto che da oltre due settimane non
rispondi alle mie chiamate né ai miei messaggi, ho deciso di
venire a Roma e parlare con te...»
«Un po' tardi per entrambe le cose, non
trovi?» disse sarcastico Vittorio.
«Per fortuna il tuo collega, al comando,
mi ha detto che eri uscito a piedi e che di sicuro eri nelle
vicinanze» proseguì Emanuela, ignorando la sua
interruzione. Si spostò una ciocca di capelli scuri dal
volto e rivolse uno sguardo torbido a Vera. «Anche
se di sicuro non mi aspettavo di trovarti con la tua... amichetta».
«Lasciala fuori»
esclamò brusco l'uomo. «Adesso, smettila con tutte
queste pose e dimmi che diavolo vuoi: non ho tutta la giornata, e anche
se l'avessi, non la sprecherei con te».
«No, immagino bene con chi e come la
sprecheresti» ribatté sua moglie, scoccando
un'altra occhiataccia a Vera.
«Ti ho detto di lasciarla fuori da
questa storia» le abbaiò contro Vittorio.
«Se avesse voluto restare fuori da
questa storia, non sarebbe dovuta venire a letto con te»
rispose mordace Emanuela.
Vera si alzò e prese la borsa. Le
insinuazioni e l'indignazione di Emanuela non la toccavano affatto, ma
a quanto pareva la sua presenza stava surriscaldando ulteriormente gli
animi, e non voleva creare a Vittorio più problemi di quanti
già non ne avesse.
«Valenti, è meglio se me ne
vado» disse, prima di voltarsi a guardare l'altra donna.
«Signora, mi spiace doverla deludere ma tra me e suo
marito non c'è mai stato niente di illecito:
soltanto parecchi insulti e qualche conversazione
amichevole».
«Certo. Ed è per questo che
eri seduta qui con lui, a covartelo con gli occhi, vero?» la
provocò l'altra.
La venticinquenne inarcò le
sopracciglia. «L'unica cosa che abbia mai covato nei
confronti di Valenti è il desiderio di prenderlo a
calci».
Emanuela rise sprezzante. «Se ti aiuta a
dormire la notte continua pure a negare, ma sappi che so
riconoscere un traditore e una puttana, quando li
vedo».
Gli occhi ridotti a fessure, Vera
lasciò cadere la borsa sulla sedia, fece due passi avanti
con insolita rapidità e si fermò di fronte
all'altra donna, tanto vicina che i loro nasi quasi si
sfioravano.
«Visto che a quanto pare sei tarda di
comprendonio, ciccia, cercherò di spiegarmi nel modo
più semplice possibile» sibilò Vera.
«Io e tuo marito non abbiamo mai fatto sesso: a
differenza tua,
che gli metti le corna da un bel pezzo, Vittorio è un uomo
perbene, onesto e rispettoso, e anche se non lo conosco da molto, ho
visto abbastanza di lui da sapere che è fedele anche con chi non se lo merita»
ringhiò, calcando in maniera significativa le ultime parole.
«La verità è che tu non meriti
Vittorio, sennò non ti saresti scopata il tuo capo, e
saresti venuta a Roma appena possibile pur di stargli
vicino». Le rivolse uno sguardo disgustato. «E se
proprio hai tutta quest'urgenza di guardare una puttana, posso
prestarti uno specchio».
«Piccola bastarda!»
strillò Emanuela, furibonda; alzò una mano con
l'intento di schiaffeggiare Vera, che da parte sua non si
mosse, quasi sfidandola a colpirla e fornirle così un
pretesto per picchiarla a sua volta. Vittorio, invece, si
mosse eccome: con uno scatto abbrancò Emanuela alla vita e
la trascinò indietro prima che potesse toccare l'altra donna.
«Lasciala, Valenti» disse
minacciosa Vera, facendo un altro passo in avanti. «Lascia
che questa troia mi dia uno schiaffo, così ho la scusa per
prenderla a calci e ficcarle la protesi dove non batte il
sole!»
«Ti riduco la faccia in poltiglia,
stronzetta!» urlò in risposta Emanuela.
«Vera, ferma lì!»
tuonò Vittorio. Scrollò Emanuela, che si
divincolava nella sua stretta e tirava calci alla rinfusa nel
tentativo di colpire Vera. «E tu, smettila!».
Nessuna delle due lo ascoltò, e lui indietreggiò
ancora. «Volete smetterla di azzuffarvi come due gatte
selvatiche?» ululò.
Di nuovo, entrambe le donne lo ignorarono.
Vittorio decise di passare alle maniere forti.
«Se non vi fermate subito vi arresto, vi
butto in due celle separate e vi ci lascio per una
settimana!» urlò a pieni polmoni.
Finalmente Vera smise di avanzare ed Emanuela di
dimenarsi.
«Era ora» esalò
esausto l'uomo. Notò sconfortato che un gran numero di
persone si era radunato intorno a loro per assistere alla
lite, e chiuse gli occhi per un istante, racimolando la poca pazienza
che gli era rimasta. «Vera, giuro che non te lo vorrei
chiedere, ma...»
«È meglio che io me ne vada,
sì» concluse Vera al suo posto con voce gelida.
Rivolse uno sguardo cattivo a Emanuela e scoprì i denti in
una smorfia feroce, poi girò sui tacchi,
recuperò la propria borsa e sparì oltre
l'angolo.
Dopo aver atteso un minuto buono per sicurezza,
Vittorio lasciò la presa su sua moglie.
«Adesso che hai fatto questa sceneggiata
sei soddisfatta?» sibilò rabbioso.
«Se la tua puttana non
avesse...» esordì irritata la donna.
«Ha ragione lei: sei tarda di
comprendonio» la interruppe Vittorio. «O forse vuoi
soltanto sentirti meno colpevole per avermi tradito pensando che io
abbia fatto lo stesso, ma non è così, e qualsiasi
cosa tu dica, non cambierà la realtà dei
fatti». Aprì la bocca, pronto ad
aggiungere qualcosa, ma ci ripensò;
ripescò da una tasca alcune monete e le lanciò
sul tavolo, poi prese Emanuela per un gomito e la trascinò a
una ventina di metri dal bar. Quando la lasciò,
incrociò le braccia al petto e la soppesò con lo
sguardo. «Basta giochetti, Emanuela. Che – cosa
– vuoi?»
Lei lo guardò male per alcuni momenti;
poi chiuse gli occhi e prese un gran respiro.
«Te l'ho detto: sono venuta per parlare
con te» rispose piano prima di tornare a guardarlo.
L'espressione tempestosa di Vittorio non si attenuò ed
Emanuela chinò la testa. «Vittorio, io... io
voglio provare a recuperare il nostro matrimonio»
mormorò.
«No» rispose all'istante il
carabiniere.
Emanuela rialzò la testa di scatto.
«Perché no?» chiese brusca.
«Stiamo insieme da vent'anni: non conta proprio
niente, per te?»
Istintivamente Vittorio fece un passo in avanti,
le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati.
«Non sono io quello che ha calpestato le
promesse che ci eravamo fatti!» sibilò.
«Non sono io che ho provato a cambiarti, non sono io ad
averti tradita né ad averti lasciata sola!»
«Mi dispiace, va bene?»
replicò la donna, gli occhi umidi. «Ho sbagliato a
tradirti, ma tu puoi dire, in tutta onestà, di non aver
avuto una parte di responsabilità, in questo?»
Vittorio la fissò con gli occhi
sgranati. «Scusa? Adesso sarebbe colpa mia se tu mi hai
tradito per più di due anni?»
«Tu eri così... distante!»
sbottò Emanuela, passandosi le mani tra i capelli.
«Passavi in caserma più tempo di quanto
si aspettassero da te, pur di non stare a casa!»
«Come potevo aver voglia di stare a
casa, se non facevamo altro che discutere?»
ribatté Vittorio.
«Discutevamo
perché...» esordì Emanuela.
«... perché volevi cambiare
quello che sono!» la interruppe l'uomo, inacidito.
«Dovevamo uscire sempre con i tuoi amici chic, continuavi a
comprarmi vestiti che detestavo, a trascinarmi in locali alla
moda e a dirmi che dovevo cambiare modo di comportarmi, parlare, pensare!»
«Volevo solo condividere più
cose con te!» si difese lei, le braccia incrociate sul petto.
«No, tu volevi farmi vivere secondo i
tuoi gusti» controbatté Vittorio.
«Neanche una volta, negli ultimi anni, hai accettato di fare
qualcosa che piacesse a me,
ma ti aspettavi che io facessi tutto quello che
piace a te».
«E tu, per tutta risposta, ti sei
allontanato e mi hai lasciata sola!» strillò
Emanuela. «E poi ti sorprendi che io ti abbia
tradito?»
La bocca di Vittorio si arricciò fin
quasi a scoprirgli i denti.
«La verità, Emanuela,
è che se anche sei stata innamorata di me, hai smesso di
esserlo molto tempo fa» disse con calma forzata.
«Se lo fossi stata non avresti cercato di cambiarmi... e non
mi avresti negato dei figli».
«Ecco qual è il
problema!». Emanuela alzò le braccia al cielo,
esasperata. «Ancora la questione dei figli, sempre la
questione dei figli!»
«Ovviamente!»
abbaiò Vittorio. «Hai sempre saputo che ne volevo
e non hai mai
pensato di dirmi che tu, invece, non ne vuoi!»
«Non è vero che non li
voglio!» urlò la donna in risposta. «Io
li voglio, dei figli, ma come posso mettere al mondo dei bambini con te
se continui a fare questo lavoro? Come faccio a diventare madre e stare
tranquilla, se in qualsiasi momento può capitarti qualcosa?
Il tuo è un lavoro pericoloso!»
Vittorio la fissò a bocca aperta.
«Tu non hai mai accettato di avere dei
figli per il mio lavoro?»
ripeté in un sibilo.
«E ti sorprendi?»
berciò Emanuela.
«Certo che mi sorprendo!»
replicò lui. «Che ti aspettavi che facessi
– che ti sposassi e dopo qualche anno lasciassi l'Arma e mi
trovassi un bel lavoretto da scrivania?»
« Sì!»
gridò Emanuela. «Sì, è
esattamente quello che mi aspettavo! Che tu cambiassi, che crescessi e capissi
che non non c'era modo costruire una famiglia, se continuavi a fare
quel lavoro!». Tacque e prese qualche respiro profondo nel
tentativo di calmarsi. «È per questo che sono
venuta a Roma: possiamo ancora salvare il nostro matrimonio, se sei
disposto a fare qualche sacrificio». Gli rivolse uno sguardo
duro e limpido. «Lascia i Carabinieri, e sono pronta ad avere
un figlio. Subito».
Incredulo, Vittorio la squadrò per un
minuto buono prima di richiudere la bocca.
«Se avessi avuto ancora qualche dubbio
sul volere il divorzio, questa conversazione li avrebbe fugati
tutti» disse con calma ingannevole. «Io amo essere
un carabiniere, perché il punto è proprio questo:
non è un lavoro – è una vocazione, uno
stile di vita. Io sono questo e non ho nessuna intenzione di cambiare:
è sempre stato così, e lo sai dal giorno in cui
ci siamo conosciuti. Come hai potuto pensare che un giorno sarei stato
disposto a congedarmi dall'Arma?». La
squadrò di nuovo, stavolta con disprezzo. «Io non
ti ho mai chiesto di cambiare, mentre tu non hai fatto altro che
cercare di farmi diventare una persona diversa. A questo punto
è chiaro che io non sono quello che vuoi, e francamente tu
non sei più la persona con cui voglio
invecchiare». Scosse la testa e le voltò le
spalle. «Vattene, Emanuela, è meglio».
Emanuela, invece, l'afferrò per un
braccio e lo costrinse a guardarla di nuovo.
«No che non me ne vado!»
protestò. «Non puoi rinunciare così a
tutto quello che abbiamo costruito in vent'anni! Voglio un'ultima
possibilità – me lo devi!»
«Io non ti devo niente»
rispose gelido Vittorio. «È finito il tempo in cui
eri tutto quello che volevo. Adesso, l'unica cosa che ancora voglio da
te è il divorzio».
La donna lasciò la presa sul suo
braccio e sussultò come se l'avesse schiaffeggiata.
«Sei sicuro di volere questo?»
chiese piano.
Il carabiniere non mosse un muscolo. «Tu
eri sicura di volermi cambiare, quando hai tentato di farlo?
Eri sicura di voler fare sesso con il tuo capo, quando hai deciso di
tradirmi? Eri sicura di voler stare lontana da me, quando sono
stato rispedito qui e tu hai scelto di restare a Milano?»
Due lacrime colarono dagli occhi di Emanuela.
«Lo so che ho sbagliato» mormorò.
«Dovevi pensarci prima: adesso
è tardi» rispose secco Vittorio.
«Quindi finisce tutto...
così?» disse Emanuela.
L'uomo si passò una mano sul volto.
«È già finito, e da un pezzo»
commentò. «Ci siamo ostinati a stare insieme, a
fingere che non fosse cambiato nulla, ma era cambiato tutto e lo
sappiamo entrambi. Continuare in questo modo non ha senso».
Sua moglie abbassò lo sguardo.
«No, forse non ce l'ha».
Vittorio incrociò le braccia e prese un
bel respiro. «Emanuela, ascoltami: dopo tutti questi anni
di... di nervosismo, e di astio reciproco, vorrei chiudere la nostra
storia in modo rapido e pulito. Non ho voglia di combattere attraverso
avvocati e giudici: preferirei evitarlo, e ho una proposta da
farti».
«Ti ascolto» rispose lei in
tono piatto.
«Allora, partiamo da un presupposto che
credo sia chiaro a tutti e due: tu mi hai tradito in modo regolare e
guadagni il triplo di me, il che significa che posso ottenere gli
alimenti senza problemi» disse Vittorio, andando dritto al
nocciolo della questione. «Quello che veramente mi interessa,
però, è liberarmi della mia parte del mutuo:
ormai dell'appartamento a Milano non me ne faccio più
niente. La mia proposta è questa: se metti subito in vendita
la casa, estingui il mutuo e mi dai la mia metà dei soldi
che restano, io rinuncio agli alimenti».
Emanuela si strinse goffamente nelle spalle.
«Va bene. In fondo non è come se tirarla per le
lunghe potesse farti cambiare idea, no?» commentò
amara. «Ormai hai deciso».
Vittorio scosse piano la testa. «Non
sono in grado di dimenticare tutto quello che è
successo. Fidati, Emanuela: è meglio
così».
Anche Emanuela incrociò le braccia al
petto, e rivolse a Vittorio uno sguardo astioso. «Se lo dici
tu, sarà così» rispose glaciale.
Il carabiniere scosse di nuovo la testa e le si
avvicinò, le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti
verso l'alto in un gesto conciliatorio. «Emanuela,
mi...»
La donna si scostò con un gesto brusco.
«Non dire che ti dispiace. Quella è la mia
battuta, no?» lo interruppe sarcastica. «Ti
terrò aggiornato sulla vendita della casa» si
congedò.
Vittorio la guardò andare via, poi
girò sui tacchi e tornò verso la caserma a passo
di marcia; quando vi rimise piede, un paio di suoi colleghi ancora in
abiti civili e un terzo alla guardiola lo salutarono, ma lui non si
fermò a ricambiare.
Nella propria stanza, Vittorio si
scaraventò sul comodino, attaccò il cellulare al
caricabatterie prima di riaccenderlo e provò a
chiamare Vera: batté nervosamente la punta del piede a terra
mentre gli squilli si succedevano, ma nessuno rispose.
Riprovò a chiamarla una seconda e una terza volta, sempre
senza successo; al quarto tentativo a vuoto, Vittorio posò
il cellulare sul comodino con tanta forza da rischiare di rompere il
telefono e si lasciò sfuggire un ringhio inarticolato.
«Vittò?»
chiamò cauta una voce. Il carabiniere alzò lo
sguardo e vide Claudio nel vano della porta, l'espressione
guardinga. «Che ti è successo?»
Vittorio prese a camminare per la stanza,
lanciando, a intervalli regolari, occhiatacce al cellulare.
«Mia moglie è venuta a
Roma» mugugnò scontento. «È
venuta a cercarmi proprio mentre ero al bar con Vera e ha fatto una
sceneggiata in mezzo alla strada, davanti a lei».
«Vera?» gli fece eco l'altro,
perplesso dall'unico pezzo su cui non aveva informazioni.
«La ragazza della Up! che abbiamo
portato in caserma tempo fa» spiegò distratto
Vittorio; prese il cellulare e provò ancora a chiamare Vera.
«Dai, Vera, rispondi...» bofonchiò a
tempo con gli squilli, ma per l'ennesima volta non ottenne
risposta. «Che palle!» urlò.
Claudio lo osservò dalla porta.
«Vittorio, che t'importa che quella ragazza fosse
presente?» domandò cauto.
«M'importa!»
sbraitò l'altro in risposta. Sferrò un pugno
all'armadio. «Perché quella stronza di Emanuela
deve complicarmi la vita sempre?»
Il più giovane scosse la testa.
«E vuoi dirmi ancora che quella ragazza non ti
piace?»
Vittorio si mise le mani nei capelli, furioso.
«Non mi piace!» ribadì. «Ma a
parte te è l'unica persona con cui abbia fatto amicizia da
quando sono tornato a Roma, e dopo aver assistito a quella sceneggiata,
non mi stupirei se non volesse più avere niente a che fare
con me!»
«Se è davvero tua amica, non
cambierà nulla» gli fece notare Claudio.
Il quarantenne sbuffò.
«Emanuela ha puntato Vera non appena l'ha vista»
spiegò. «È partita col sarcasmo
aggressivo e in un minuto è passata all'attacco frontale:
l'ha accusata di essere venuta a letto con me e l'ha chiamata puttana.
Ma ti rendi conto che faccia tosta? Maledetta ipocrita...»
Le sopracciglia di Claudio s'inarcarono tanto da
far pensare che si sarebbero fuse con l'attaccatura dei
capelli.
«Però»
commentò soltanto. «E questa Vera come ha
risposto?»
«Per le rime»
replicò Vittorio. «Sono arrivate alle mani. Se non
avessi trattenuto Emanuela, penso che sarebbero ancora lì a
picchiarsi in mezzo al marciapiede: lei era andata fuori di
testa, e Vera aveva la faccia di una pronta a
uccidere». Sbuffò. «Ho dovuto minacciare
di arrestarle, per farle stare ferme!»
«Però!»
ripeté Claudio, sempre più colpito.
«Certo, penso che qualunque altra donna avrebbe
reagito così, se un'altra le avesse dato della
troia».
«Mh?» fece Vittorio, vago,
mentre riprovava a chiamare Vera. «Ah, no, veramente
è stata Emanuela a cominciare: ha provato a prendere a
schiaffi Vera dopo che lei gliene ha dette di tutti i colori per
difendermi...»
« Eh?»
esclamò Claudio. Vittorio alzò gli occhi e vide
l'espressione sbalordita dell'altro. «Mi stai dicendo che
quelle due hanno provato a suonarsele perché tua moglie ti
ha offeso e la tua... amica, o quello, che è... le ha detto
qualcosa in grado di farle saltare i nervi per difendere te?»
Vittorio batté in fretta le palpebre.
«Eh... sì?» azzardò
debolmente.
Claudio continuò a fissarlo a bocca
aperta per almeno mezzo minuto prima di ricomporsi.
«Cristo, Vittorio, mi rimangio quello
che ho detto finora» esclamò infine.
«Non è lei che piace a te. Sei tu che piaci a lei,
e di brutto!»
L'altro sbuffò una risata.
«Diglielo dopo che ha finito di insultarmi: è
praticamente l'unica cosa che fa».
Claudio diede uno sguardo all'orologio.
«Finiremo questa discussione in macchina. Adesso dobbiamo
prepararci: se iniziamo il turno in ritardo, Testa ci
ammazza». Vittorio gli rivolse uno sguardo poco convinto, il
cellulare ancora stretto tra le mani, e Claudio scosse la testa, diviso
tra la voglia di ridere e quella di prendere l'amico a schiaffi per
farlo tornare in sé. «Vittò, proverai a
richiamarla dopo».
«Quest'affare è
scarico» mugugnò Vittorio, senza allentare la
presa sull'oggetto.
Esasperato, Claudio lo raggiunse e gli
sfilò a forza il telefono dalle mani, incurante delle
proteste dell'altro uomo. «Abbiamo un paio di caricabatterie
da automobile, in guardiola, che abbiamo comprato tempo fa proprio per
queste situazioni: te ne prendo uno, basta che adesso ti
prepari!» disse perentorio.
«Va bene, va bene» si arrese
Vittorio.
Soddisfatto, Claudio andò nello
spogliatoio per indossare la divisa, portandosi dietro il
telefono dell'amico per evitare che cedesse alla tentazione di
usarlo invece di cambiarsi, mentre si chiedeva come fosse possibile che
un uomo acuto come Vittorio non riuscisse a vedere quello che aveva
proprio davanti al naso.
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Capitolo 12 *** Capitolo XI ***
Vera sospirò.
Era in macchina, diretta al centro di Roma, e la
suoneria del suo cellulare le martellava il cervello come faceva ormai
da tre giorni. La ragazza non aveva neanche bisogno di guardare lo
schermo per sapere che era di nuovo Vittorio, a chiamarla: dopo aver
trascorso il sabato pomeriggio a ignorare i suoi tentativi di mettersi
in contatto con lei, stanca di controllare il cellulare per essere
sicura che non fosse qualcun altro, a cercarla, si era decisa a
impostare una suoneria personalizzata per il numero del carabiniere.
Per il momento in cui Vera parcheggiò,
il suo cellulare aveva ripreso a squillare, e per la sesta
volta in quella giornata la ragazza si trovò ad ascoltare
Demon's eye dei Deep Purple uscire a tutto volume
dall'altoparlante del telefono.
Rassegnata, Vera prese il cellulare e rispose.
« Finalmente!»
strillò la voce di Vittorio prima ancora che Vera potesse
dire alcunché. « Ci voleva così tanto,
a rispondere?»
«Che vuoi, Valenti?»
replicò Vera a denti stretti.
« Prima
di tutto assicurarmi che tu stia bene: ero preoccupato»
disse il carabiniere. « A
giudicare dal tono acido, direi che sei in perfetta forma»
aggiunse pungente.
«Ah-ah» cantilenò
sardonica Vera. «Adesso che hai detto la battutona di
giornata, ti serve altro?»
« Dobbiamo
parlare» sparò Vittorio.
«Guarda che non sono tua moglie, che fai
minacce del genere» ribatté la ragazza.
« Non
la nominare!» mugghiò Vittorio.
«Come ti pare»
tagliò corto lei. «Valenti, ho da fare: arriva al
punto, in fretta,
per favore!»
« Voglio
parlare con te di quello che è successo l'altro giorno»
articolò l'uomo, sbuffando. « Di persona, prima che tu dica
qualcosa tipo “Stiamo già
parlando”» l'anticipò. «E
voglio parlarne oggi: quindi o mi dici dove ci possiamo vedere, o vengo
a cercarti a casa. Sono sicuro che tuo padre sarà
felice di offrirmi un caffè...»
Anche Vera sbuffò, inferocita.
«Sei fastidioso, Valenti: te l'ha mai detto
nessuno?»
« Dove?»
insisté imperterrito Vittorio.
La donna si passò la mano libera sulla
fronte. «Ho un appuntamento tra un quarto d'ora»
ringhiò. «Non posso liberarmi prima delle
cinque...»
« Dimmi
dove sei: vengo lì e aspetto che tu finisca»
la interruppe lui.
«Sono a Tor di Quinto!»
sbottò Vera, frustrata. «Ti mando l'indirizzo su
WhatsApp, contento?»
« Molto»
rispose soddisfatto Vittorio. « Ci vediamo alle cinque».
Senza perdere tempo a replicare Vera gli chiuse la
chiamata in faccia, appoggiò la testa al volante e gemette
di rabbia e fastidio.
******
Alle cinque e un quarto, in una via a pochi minuti da Ponte Flaminio,
Vittorio passeggiava nervoso davanti al civico che Vera gli aveva
indicato nel messaggio, controllando i portoni d'ingresso di due
palazzine ogni volta che invertiva la direzione della propria marcia.
Era lì già da mezz'ora nonostante Vera gli avesse
detto che non si sarebbe liberata prima delle cinque, e quella
lunga, infruttuosa attesa stava facendo nascere in lui il sospetto che
la ragazza gli avesse detto un indirizzo a caso, probabilmente dalla
parte opposta di Roma rispetto a quella in cui si trovava davvero.
Vittorio era intento a valutare le proprie opzioni
– se attaccarsi di nuovo al telefono fino a quando Vera non
gli avesse risposto, andare direttamente a casa di lei o tornarsene in
caserma – quando uno dei portoni si spalancò e
l'intreccio confuso di due voci si levò nell'aria.
Il carabiniere si voltò a guardare la
scena: Vera era aggrappata allo stipite della porta, mentre un
uomo di qualche anno più grande di lui cercava in tutti i
modi di spingerla fuori.
«Non lo voglio vedere: fammi restare
qui!» gnaulò la ragazza.
Lo sconosciuto le piantò una spalla in
mezzo alla schiena nel tentativo di smuoverla. «Vera, io ho
da fare e la tua non è un'emergenza»
ribatté. «Te lo ricordi quali sono le situazioni
che consideriamo emergenze, no?»
«Sì» rispose
scontenta Vera, senza però allentare la presa sul portone.
«Ma scusa, Gianpaolo, che fastidio ti do se rimango
giusto un altro paio d'ore? Mi metto in un angolo senza
fiatare, neanche ti accorgerai che ci sono!»
«Stai solo facendo i capricci»
ansimò lui. Si passò una mano tra i capelli
brizzolati prima di afferrare le mani di Vera per cercare di staccarle
dal montante. Invano. «Vera, questo tuo improvviso
comportamento infantile mi preoccupa molto: forse dovremmo ricominciare
a vederci più spesso, magari una o due volte a
settimana...» disse in tono scaltro.
Vera lasciò lo stipite come se di colpo
fosse diventato incandescente. «No!»
Gianpaolo sogghignò e la ragazza si
rese conto con un attimo di ritardo di essere stata messa nel
sacco: provò ad aggrapparsi di nuovo alla porta, ma l'uomo
l'aveva già spinta in avanti, sul pianerottolo, verso i
pochi gradini che scendevano fino al piazzale tra i due condomini.
«Ti odio!» grugnì
Vera al suo indirizzo.
«Ci lavoreremo la prossima
volta» replicò Gianpaolo senza battere ciglio;
scorse Vittorio, che si era avvicinato tanto da trovarsi solo a un paio
di metri dall'ingresso, e gli rivolse un allegro cenno di
saluto con la mano prima di tornare dentro, ignorando completamente la
ragazza.
Rassegnata, Vera scese i gradini con la testa
incassata tra le spalle.
«Ciao, Valenti»
mugugnò.
Vittorio non rispose: il suo sguardo sconcertato
continuava a saettare da lei al portone oltre cui Gianpaolo era sparito.
«Cosa... che... quello...
chi...» farfugliò. Sotto lo sguardo sardonico
della ragazza, deglutì e si sforzò di comporre
una frase di senso compiuto. «Chi era quello?»
riuscì a chiedere.
«Il mio psicologo» rispose
Vera. Accennò con la testa al marciapiede.
«Facciamo una camminata?»
Vittorio annuì. I due si avviarono
lentamente verso il Lungotevere; in silenzio lo raggiunsero e
si fermarono a metà strada tra Ponte Flaminio e Ponte
Milvio, dove si appoggiarono alla ringhiera, a guardare il fiume.
«Allora» disse Vera dopo un
po'. «Non... non volevi parlare dell'altro giorno?»
Il carabiniere si girò verso di lei, un
gomito appoggiato al parapetto.
«Io sì, ma tu no»
rispose calmo. «Almeno a giudicare dal modo in cui il tuo
psicologo ha dovuto spingerti fuori dallo studio».
Vera abbassò lo sguardo sulle proprie
dita. «È che non credo siano affari
miei» mormorò.
«Sciocchezze»
replicò Vittorio, senza staccare gli occhi dalla ragazza.
«Sono diventati affari tuoi nel momento in cui
Emanuela ha deciso di prendersela con te». Prese un respiro
profondo. «Volevo chiederti scusa per quello che ti
ha detto...»
Lei lo zittì agitando una mano.
«Tua moglie è una donna adulta: solo lei
è responsabile delle sue azioni. Non devi scusarti
per come si è comportata». Lo guardò di
sottecchi. «Anzi, forse sono io a dover chiedere scusa a te:
ho l'impressione di aver peggiorato la situazione,
provocandola».
«Nah» commentò il
carabiniere con una scrollata di spalle. «Voleva attaccare
briga, ci ha provato anche con me, dopo che te ne sei andata».
L'espressione di Vera divenne scettica.
«E sarebbe venuta fin qui solo per litigare?»
Vittorio si lasciò sfuggire una strana
risata strozzata, simile a un grugnito. «No, per chiedere
un'altra possibilità» replicò.
«Come può aver pensato che gliel'avrei concessa,
io proprio non lo so...»
«Forse perché
dovresti» disse piano la ragazza, rivolgendo di nuovo lo
sguardo al Tevere.
L'uomo sbuffò, l'incredulità
dipinta a chiare lettere sul volto. «Ti dirò
quello che ho detto a lei, Gamba Bionica: per quanto mi riguarda, il
matrimonio tra me ed Emanuela è finito da un pezzo. Sto solo
facendo quello che avrei dovuto fare anni fa».
Vera scosse lentamente la testa. «Non lo
so, Valenti. Insomma, non sono nella tua testa quindi non
posso esserne sicura, ma credo che tu ci tenga ancora al tuo
matrimonio, e a tua moglie; per questo dico che forse lei ha
ragione. Gliela dovresti dare, un'ultima
possibilità».
«E perché dovrei?»
chiese beffardo Vittorio.
«Perché se ci tieni ancora e
invece ti ostini a volere la separazione e in seguito anche il
divorzio, un domani rischi di pentirtene»
spiegò Vera in tono asciutto, scandendo le parole come
avrebbe fatto con un bambino.
Vittorio si sporse verso di lei, scrutando
attentamente la sua espressione.
«Spiegami un po' come mai continui a
dire che tengo ancora a Emanuela» la esortò con un
gesto eloquente della mano.
Vera indicò quella stessa mano che lui
le aveva appena sventolato davanti.
«Porti ancora la fede» disse
piatta.
Vittorio abbassò lo sguardo sul punto
in questione e si rese conto che Vera aveva ragione: la fascia d'oro
giallo che portava da vent'anni brillava beffarda dal suo anulare
sinistro, quasi a schernirlo di aver creduto in quelle promesse tanto
da non sfilarsi mai quel gioiello dal dito. Si era talmente abituato
alla sua presenza da non accorgersi neanche più di
indossarlo; era diventato parte della sua mano al punto da
passare inosservato, e aveva finito per dimenticarsi della sua
esistenza. Un po', rifletté, come i voti che avevano
accompagnato quelle vere nuziali: erano diventati entrambi
inutili e dimenticati.
Di colpo, il contatto tra quell'oggetto e la sua
pelle gli risultò insopportabile.
«Vuoi vedere che ci faccio, con questa
fede?». Vittorio si sfilò l’anello con
gesti bruschi e fece per lanciarlo nel fiume. «Ecco, che ci
faccio!»
Vera gli afferrò il polso e lo
fermò prima che potesse gettare la fede nel Tevere.
«Non credo che dovresti farlo» disse seria.
Vittorio la guardò, aspettandosi un discorso profondo sul
non arrendersi e sul fare tesoro anche delle brutte esperienze, e
un’esortazione a tenere quell’oggetto come
ricordo di quel che di buono c’era stato nel suo matrimonio,
ma Vera lo spiazzò. «L’oro sta a
ventisette euro al grammo. Se proprio vuoi disfarti della fede,
vendila: almeno ti metti in tasca un po’ di soldi, fanno
sempre comodo».
Vittorio la fissò con un misto di
incredulità e ammirazione. «Cristo, Vera, sei
più cinica persino di me!»
Lei si strinse nelle spalle. «Preferisco
dire che ho uno spirito pratico» rispose. «Allora,
che vogliamo fare? Butti quell’anello e ce ne andiamo, o ti
rimetti quell’anello e ce ne andiamo?»
Il carabiniere si mise a ridere. «Mi
pare di capire che te ne vuoi andare».
Vera si finse sorpresa. «Oh,
è così evidente?»
«Appena appena». Vittorio
infilò la fede in un taschino del portafogli e
passò un braccio intorno alle spalle di Vera, che
lo guardò perplessa. «Che
c’è? Mi sento allegro: hai rimesso le cose nella
giusta prospettiva e adesso sono tranquillo».
La donna sbuffò, scettica.
«Secondo me, tu non sei tranquillo neanche quando
dormi».
«Forse hai ragione» concesse
lui, insolitamente mansueto; si mosse, costringendo Vera a mettersi in
moto. «Ciò non toglie che ora sono di
buonumore».
«Questo sì che è
un evento: adesso mi aspetto di tutto. Piaghe bibliche, catastrofi
naturali, unicorni che starnutiscono caramelle…»
replicò ironica Vera.
Vittorio strinse un po’ di
più la presa intorno alle sue spalle. «Non puoi
goderti il momento e basta, Gamba Bionica?»
Lei alzò gli occhi al cielo e gli
passò un braccio intorno alla vita. «Va bene:
godiamoci il momento. Ma non ci fare l'abitudine!»
«Non oserei mai»
sghignazzò Vittorio, e suo malgrado, anche Vera sorrise.
******
Quel giorno, Vera era afflitta da un dilemma apparentemente senza
risposta: quale era la versione di Vittorio Valenti che le
dava più sui nervi?
Fino a una settimana prima l'ex ginnasta avrebbe
detto senza esitazioni che il Vittorio dei primissimi incontri-scontri
era imbattibile nel farla infuriare, ma adesso correva il rischio di
ricredersi: la nuova abitudine del carabiniere di chiamarla a raffica
per farsi rispondere riusciva davvero a mandarla fuori di
testa... e senza neanche averlo di fronte: un risultato che Vera non
avrebbe mai creduto possibile.
Borbottando tra sé, la donna
avanzò verso l'indirizzo che Vittorio le aveva dato mezz'ora
prima per telefono, dopo averla – appunto –
bombardata di chiamate per assicurarsi una pronta risposta,
domandandosi cosa ci fosse di tanto urgente da farla correre
lì.
Vittorio l’aspettava camminando su e
giù lungo il marciapiede, le mani affondate nelle
tasche dei jeans e l’espressione impaziente. Quando
finalmente la scorse, sbuffò.
«Era ora, Gamba Bionica!»
salutò.
Una volta tanto, Vera non si scompose.
«Continua a chiamarmi Gamba Bionica e finirò per
ficcarti questa protesi dove non batte il sole».
«Come siamo permalose!».
L’uomo l’afferrò per un braccio e la
condusse verso un portone qualche metro più giù.
«A proposito, grazie di essere venuta».
«Peccato che me ne stia già
pentendo» rispose sarcastica Vera. «Allora, si
può sapere che ti serve? Visto che al telefono non hai
voluto dirmi niente…»
Vittorio non ebbe il tempo di rispondere: una
donna sui trent’anni, in pantalone scuro e blusa a
colori vivaci si fece loro incontro, con un sorriso a trentadue denti
stampato sul volto perfettamente truccato.
«Buongiorno, signor Valenti: io sono
Annamaria Giuffrida, dell’agenzia immobiliare» lo
accolse calorosamente, stringendogli la mano prima di concentrarsi su
Vera. «E lei deve essere sua moglie».
«Per carità!»
scattò Vera, raggelando tanto l’altra donna quanto
il carabiniere.
«Non è mia moglie: soltanto
un parere femminile raccattato all’ultimo momento»
spiegò Vittorio, pungente.
Vera digrignò i denti. «Tu
sì che ci sai fare con le donne, Valenti»
ringhiò.
Lui finse di non sentirla. «Ci fa vedere
la casa, allora, Annamaria?» chiese, sfoderando un sorriso
pieno di fascino.
L’agente immobiliare si sciolse in brodo
di giuggiole; Vera trattenne l’istinto di prendere entrambi a
schiaffi. «Certo, signor Valenti. Se lei e la signorina
volete seguirmi…»
Annamaria prese un mazzo di chiavi dalla borsa e
pescò con sicurezza quella che apriva il portone; i tre
andarono dritti verso l’ascensore e salirono fino al terzo
piano, per poi entrare nell’appartamento sulla sinistra.
«Come aveva chiesto, siamo a soli cinque
minuti dal comando di Tor Sapienza» esordì
Annamaria mentre Vittorio si guardava intorno con aria critica
e Vera sbirciava dalle finestre. «L’appartamento
è parzialmente ristrutturato: il bagno principale
è stato rinnovato un paio d’anni fa e le pareti
sono tinteggiate di fresco. Gli impianti sono un po’
vecchiotti, ma finora non hanno dato problemi».
Vera lasciò Vittorio a discutere con
l’agente immobiliare e diede un rapido sguardo a tutte le
stanze prima di tornare indietro.
«Valenti, toglimi una
curiosità» disse, intromettendosi nel discorso.
«Che te ne fai di tre camere da letto, due bagni e
una sala da pranzo? Questa è una casa per una famiglia
numerosa, non per un uomo da solo».
«È vicinissima al
lavoro» obiettò lui.
«È troppo grande»
replicò lei. «Pensa al tempo che ti ci
vorrà per pulirla, o ai soldi che dovresti spendere
per una donna delle pulizie. E poi è esposta interamente a
nord: questo significa poco sole».
Vittorio aggrottò le sopracciglia.
«Da quando sei un’esperta di case?»
«Ne ho girate tante con Giulia e
Tiziano, quando hanno deciso di andare a convivere e comprarne
una» rispose Vera con una scrollata di spalle.
«Dovresti esserne contento: mi hai chiamata o no per
avere un parere?»
«Ma è vicina al
comando» si lagnò Vittorio, restio a darle ragione.
Vera alzò gli occhi al cielo e scosse
la testa. «Senti, Valenti, fa’ un po’
come ti pare: tanto l’affitto lo paghi tu!»
L’uomo s’imbronciò,
poi si voltò verso Annamaria. «Ne ha altre da
farci vedere?» si arrese.
Cinque minuti e un paio di vie più
giù, il terzetto entrò in un altro palazzo:
stavolta l’appartamento era al quarto piano.
«L’ascensore è
fuori uso per manutenzione» si scusò Annamaria.
Vera cambiò colore. «Niente di grave, stanno
già risolvendo il problema: se dovesse prendere questa casa,
signor Valenti, per il momento in cui si trasferirà la cosa
sarà già stata risolta».
Vittorio non l’aveva ascoltata: era
troppo impegnato a guardare Vera. «Se non vuoi venire, non fa
niente» mormorò goffamente.
Lei raddrizzò le spalle. «Non
c’è problema» affermò decisa.
«Qualche rampa di scale non sarà certo un
ostacolo».
L’uomo si permise di lanciarle uno
sguardo scettico, che Vera ignorò. La sua salita fu
penosamente lenta: nonostante tentasse di mantenere
l’andatura degli altri due, vedeva con chiarezza
come Vittorio e Annamaria si sforzassero di andare piano per aspettarla
senza metterla a disagio. Quando il carabiniere tentò di
offrirle il proprio braccio come sostegno, Vera lo
rifiutò con uno sguardo indignato.
Arrivare al quarto piano fu un sollievo per tutti.
Annamaria fece strada, decantando i vantaggi di
quell’appartamento; Vittorio si attardò fuori
dalla porta, aspettando imbarazzato Vera. Lei, da parte sua, gli
rivolse una smorfia supponente e lo superò, zoppicando
più che mai.
L’agente immobiliare era imbarazzata
quanto il carabiniere: si era resa conto che Vera era molto disturbata
dal fatto che si notasse la sua andatura faticosa e claudicante, e non
sapeva da che parte guardare per non infastidirla. Avrebbe voluto dire
qualcosa – offrirle una sedia, chiederle se stesse bene
– ma gli occhi di fuoco dell’altra la mettevano in
soggezione: era come se la sfidassero ad aprire l’argomento,
e promettevano battaglia a chiunque fosse stato tanto audace da
cogliere quella sfida.
L’appartamento era decisamente
più piccolo del precedente: un bilocale in cui il sole
inondava la camera da letto e la sala con angolo cottura.
Vera diede un colpetto di gomito a Vittorio e
indicò le finestre. «Questa casa è
esposta a sud: la vedi, la differenza?»
Vittorio la vedeva eccome, la differenza: anche se
erano solo cinquanta metri quadrati, l’appartamentino aveva
un’aria molto più allegra e accogliente
dell’altro. E poi, piccolo com’era, sarebbe stato
facile da tenere in ordine: lui con le faccende di casa se la cavava
bene, ma non voleva certo esserne schiavo. Insomma, Vera aveva avuto
ragione, anche se lui non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Anche perché in quel momento la sua preoccupazione era
un’altra: avendo Vera così vicino non gli
poteva sfuggire il pallore del suo volto, né il fatto che
fosse chiaramente sofferente.
«Perché non ti
siedi?» le mormorò: il suo imbarazzo ogni volta
che toccava l’argomento della disabilità di Vera e
il timore di esprimersi in un modo che potesse infastidirla erano tali
da offuscare la sua sincera preoccupazione per lei.
Vera affilò lo sguardo.
«Perché dovrei sedermi?» chiese a denti
stretti. «Sto benissimo così. Pensa agli affari
tuoi, Valenti».
Vittorio distolse lo sguardo, offeso da quella
replica sgarbata: lui si era soltanto preoccupato per lei, e Vera lo
trattava così? Bene: non si sarebbe mai più dato
pena per lei, decise.
La ragazza si allontanò da lui e
andò a guardare la strada sottostante da una finestra
aperta. Annamaria vide come la sua andatura si fosse fatta ancora
più faticosa e, punzecchiata dalla coscienza, si decise a
parlarle.
«Le… le fa male qualcosa? Si
vuole sedere un momento?» chiese con gentilezza a Vera.
Prima che Vera potesse rispondere,
però, Vittorio sbuffò.
«Non ci fare caso, Annamaria: sembra
tanto carina e gentile, ma in realtà è una
piratessa assetata di sangue» disse in tono di
scherno. «Cammina male solo perché ha una gamba di
legno».
«Brutto bastardo!»
ululò Vera, infuriandosi all’istante. Gli
lanciò la borsa stracolma dritto nello stomaco, mozzandogli
il fiato.
«Ma che hai lì dentro? I
mattoni?» grugnì Vittorio mentre si massaggiava il
diaframma.
«Se ce li avessi avuti, te li avrei
tirati in testa: altro che mirare allo stomaco!»
L’agente immobiliare li
fissò, sconcertata: Vera e Vittorio le sembravano una via di
mezzo tra una vecchia coppia di sposi e due acerrimi nemici. Non
osò intromettersi mentre loro continuavano a
litigare, indifferenti alla sua presenza: sull’onda della
rabbia le loro voci si alzavano sempre di più.
«Magari avresti potuto prendermi a
calci» la provocò il carabiniere.
«Mi hai stancata con
quest’umorismo da quattro soldi: è della mia gamba
che ridi!» strillò Vera.
«Non mi lasci altra scelta! Con questo
tuo stupido orgoglio non fai che mettere in evidenza ancora di
più il problema che tu
hai con le tue gambe, e la gente non sa mai come
comportarsi!» abbaiò Vittorio.
«Metti tutti in difficoltà, non accettando che le
persone siano gentili o si preoccupino per te: non lo fanno per
ricordarti quello che ti è successo, ma solo per evitare che
tu stia male! Se la gamba te l’avessero ingessata, invece di
amputarla, non avresti mai fatto tutte queste scene: avresti
permesso alle persone che ti vogliono bene di coccolarti senza
diventare un’acida insopportabile! E quando qualcuno ti
chiede se vuoi sederti perché vede che ti fa male
quella dannata gamba, potresti anche rispondere con un semplice
“no, grazie” invece di maltrattarlo e fingere che
il problema non esista!»
« Io
non voglio pietà!» tuonò
Vera.
«Non è pietà,
è affetto!»
gridò in risposta Vittorio.
I due si scrutarono torvi per qualche istante
sotto lo sguardo attonito di Annamaria.
«Basta, me ne vado» disse
infine la ragazza; passando accanto al carabiniere, prese la
propria borsa e zoppicò decisa verso la porta.
«Buona fortuna con la tua stupida casa!»
«Sì, brava, scappa di
nuovo!» le urlò dietro l’uomo.
«Tanto non sai fare altro!»
Vera neanche si voltò.
Ancora intimorita, Annamaria si schiarì
la voce. «Vuole… vuole vedere... altri
appartamenti?» chiese in un coraggioso tentativo di
riprendere il controllo della situazione.
Il ringhio inarticolato di Vittorio fu una
risposta eloquente.
******
Dopo aver avvertito sua madre che non sarebbe tornata per cena, Vera
andò dritta a casa di Giulia e Tiziano. Fu la sua migliore
amica ad aprirle la porta, e capì subito che c’era
una tempesta in arrivo.
«Entra» disse soltanto,
lasciandole spazio.
Vera si scaraventò oltre la soglia alla
massima velocità consentita dalla protesi.
«Che è successo?»
le chiese Giulia non appena si fu richiusa la porta alle spalle.
«Niente» rispose Vera.
«Volevo soltanto salutare te, Tiziano e Ludovica come si
deve, prima di finire in carcere. Perché ci
finirò, e presto».
A quelle parole Giulia si allarmò.
«Oddio, Vera, che hai fatto? Che è successo? Ti
sei messa nei guai?». Si girò verso le viscere
della casa. «Tiziano! TIZIANO! Chiama l'avvocato!»
«Ma che stai dicendo? Non ho ancora
fatto nulla!» obiettò Vera.
L’altra la fissò immobile per
qualche secondo, poi le sferrò un pugno sul braccio.
«Sei una cretina!» strillò.
«Soltanto previdente»
sbuffò la sua amica. «Perché,
t’avverto, se senti di una donna che in un raptus di rabbia
ha ucciso il carabiniere più stronzo di tutta Roma e
dintorni, sappi che quella donna sono io».
Giulia la spinse senza troppi riguardi in cucina e
poi su una sedia. «Spiega»
ordinò.
Vera le raccontò in due minuti della
lite nell’appartamento sfitto. Quando tacque, Giulia la
fissò pensosa.
«Ascolta, Vè»
esordì cauta, «non dico che approvo quello che ti
ha detto Vittorio, ma… ma capisco perché
l’ha fatto».
«Gli stai dando ragione?»
esclamò Vera, incredula.
«In parte» ammise
l’altra. «È vero che dopo
l’incidente sei cambiata. No, non parlo della
gamba» disse in fretta, intuendo i pensieri di Vera.
«Sei cambiata tu,
e lo sai. Io ti voglio bene e so che ci sei ancora, lì
dentro, da qualche parte, perché la gamba era soltanto una
gamba e tutto il resto di te è rimasto, ma… a
volte non ti riconosco. E mi manchi».
Vera abbassò lo sguardo, mentre un
improvviso senso di colpa le invadeva lo stomaco. Era davvero cambiata
così tanto? Forse Vittorio aveva ragione, e il suo nuovo
modo di fare – la Vera post-incidente – stava
rendendo la vita più difficile a tutti quelli che le stavano
intorno?
«Giulia, devo chiederti una cosa ma tu
devi giurare che mi dirai la verità». Si
coprì gli occhi per un istante e prese un respiro tremante
per calmarsi prima di tornare a fissare la sua migliore amica.
«Vi sto rendendo la vita impossibile?»
«Dio, Vera, no!». Incredula e
scioccata, Giulia l'abbracciò. «No, no –
come ti è venuta in mente una stupidaggine del
genere?». Scosse la testa, lottando con un nodo in gola che
le rendeva difficile parlare; e anche se non lo sapeva, per
Vera era lo stesso. «Dopo quello che ti è successo
hai il diritto di essere arrabbiata e irragionevole, di tanto in tanto:
nessuno si aspetta che tu non lo sia, e tu stai facendo più
di quanto chiunque si aspettasse... ti impegni tanto con il lavoro di
traduttrice e quello in palestra, hai ricominciato a uscire, a fare
alcune delle cose che facevi prima dell'incidente, e non è
passato neanche un anno da... da...» la sua voce si
spezzò.
L'altra si fissò le mani. «Ma
sono diversa» sussurrò, così piano che
Giulia a stento la sentì. «Sono diversa, ma quello
che mi fa più paura è la possibilità
di essere cambiata in
peggio».
Giulia si staccò da lei e la
guardò. «Vera, l'unica cosa davvero... negativa, se
vogliamo dire così, della nuova te, è
l'ostinazione con cui rifiuti di ammettere che il tuo corpo
è diverso» disse cauta. «Hai perso una
gamba, e devi accettare che questo non solo comporta dei limiti, ma
anche che chi ti ama vuole poterti aiutare a stare bene». Le
sorrise. «Non c'è niente di male a lasciare che
gli altri si prendano cura di noi, quando ne abbiamo bisogno. Che
avresti fatto, se quando ero incinta di Ludovica e bloccata a letto, mi
fossi intestardita a fare tutto da me invece di lasciare che tu, Noemi,
Tiziano e le nostre famiglie mi aiutaste?» le chiese con
dolcezza.
Vera sbuffò una mezza risata.
«Mi sarei infuriata» ammise.
«E perché ti saresti
infuriata?» la spronò Giulia, stringendole le mani
nelle proprie.
«Perché avrei voluto essere
sicura che tu stessi bene» mormorò Vera.
«Appunto» disse la sua
migliore amica. «Per noi è la stessa cosa: io e
Tiziano, tuo padre, tua madre – e a questo punto credo anche
Vittorio – vogliamo soltanto essere sicuri che tu stia bene e
che non soffra solo perché sei una zuccona orgogliosa che
non accetta l'aiuto di nessuno» concluse con una
punta di durezza.
L'altra alzò gli occhi al cielo.
«Piantala di fare la maestrina: se non ricordo male, quando
eri incinta io e Noemi abbiamo dovuto minacciare di legarti al letto,
per impedirti di andare in giro!»
«Dettagli» rispose Giulia con
grande dignità.
Vera si alzò e l'abbracciò
con forza. «Grazie, Giù. Di esserci sempre, di
ascoltare i miei scleri, di aiutarmi a ragionare quando vado in tilt
– grazie, di tutto».
Giulia ricambiò la stretta.
«È a questo che servono le sorelle, no?»
«Proprio a questo»
bisbigliò Vera con voce soffocata.
Le due donne si separarono e tornarono a sedersi,
notevolmente più calme e rilassate.
«Adesso resta solo da capire che farai
con Vittorio» disse la padrona di casa.
«Mi sa che mi tocca chiedergli scusa... di nuovo»
si lagnò Vera. «E in tempi brevi: l'altra
settimana ha minacciato di venire a cercarmi a casa, se non avessi
accettato di vederlo per parlare di quel casino successo con sua
moglie» aggiunse preoccupata.
Giulia inarcò le sopracciglia.
«Paura che dica ai tuoi genitori che hai provato ad
ammazzarlo a colpi di borsa?» ridacchiò.
«Paura della loro reazione se sapessero
cosa mi ha detto, più che altro»
ribatté la sua migliore amica.
«Dici che la prenderebbero male come hai
fatto tu?» chiese meditabonda Giulia.
«Ma no, figurati!» disse
sarcastica Vera. «Dai, li conosci: mia madre
s’arrabbia subito e mio padre, anche se sembra tranquillo,
quando si infuria fa più danni di una bomba
atomica!»
«E sarebbe un peccato metterli contro
Vittorio proprio adesso che hanno iniziato ad averlo almeno un po' in
simpatia, giusto?» disse maliziosa Giulia.
Vera si sforzò di trattenere un
sorriso, ma i suoi occhi brillarono malandrini.
«Giusto» replicò
allegramente: in fondo, Vittorio non si meritava l'odio incondizionato
dei coniugi Nicolini.
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Capitolo 13 *** Capitolo XII ***
Quel martedì
di inizio maggio, Vera mise via le proprie cose e lasciò
l'ufficio del professor Maesani, più nervosa del solito: la
sua irrequietezza era tale che persino chi abitualmente si fermava a
scambiare due parole con lei, quel giorno preferì girare al
largo. In ascensore, la ragazza prese il cellulare: c'erano un paio di
messaggi di sua madre e una buona decina di Giulia, ma niente da parte
di Vittorio. Vera si morse l'interno della guancia; la sera precedente
gli aveva scritto per chiedergli se si sarebbero potuti vedere all'ora
di pranzo, ma il carabiniere non si era degnato di risponderle, e le
doppie spunte blu di WhatsApp accanto a quel particolare messaggio
sembravano irriderla ogni volta che le guardava.
Quando la venticinquenne uscì dalla
facoltà di Economia, tirò un gran sospiro di
sollievo: Vittorio era lì, appena fuori dalla porta, con la
schiena appoggiata al muro e le braccia incrociate sul petto.
«Potevi dirmi che saresti
venuto» bofonchiò Vera con una punta di rimprovero
nella voce.
«Non ero certo di farcela: ho parecchio
da fare, in questi giorni» rispose freddamente lui.
Vera lo osservò in silenzio. Non era
abituata a un Vittorio tanto distaccato: di solito quell'uomo passava
da un'emozione all'altra come una girandola investita dal vento, e
anche quando era calmo sembrava sempre vibrare di energia repressa,
tanto non riuscire mai a stare del tutto fermo. In quel momento,
invece, era perfettamente immobile: persino il suo sguardo era fisso, e
tranne che per quando aveva aperto bocca per risponderle, pochi istanti
prima, non aveva ancora mosso un muscolo.
«Allora, che ti serve?» le
chiese Vittorio con voce inespressiva. «Non ho molto
tempo».
L'ex ginnasta si riscosse dalle proprie
riflessioni. L'atteggiamento del carabiniere non l'aiutava, ma in fondo
era lei a essere nel torto; un po' se lo meritava, rifletté
la donna.
«Riguardo l'altro giorno...»
esordì; tentò un'occhiata a Vittorio, ma il suo
volto era ancora impassibile. «Non dovevo tirarti addosso la
borsa, né urlarti contro».
Il carabiniere non si mosse.
«Be', è un passo
avanti» commentò gelido. «Speravo
dicessi che ti dispiace di averlo fatto, ma evidentemente è
chiedere troppo».
Vera gli scoccò uno sguardo
incendiario. «Non vuoi proprio rendermelo facile,
vero?»
«Perché dovrei? Tu con me non
l'hai mai fatto» replicò duro Vittorio.
«Va bene: mi dispiace di
averti tirato addosso la borsa e di averti urlato contro»
sciorinò lei.
L'uomo si staccò dal muro con un colpo
di reni.
«Non ho bisogno di scuse insincere: se
avessi saputo che mi avevi cercato per questo, non sarei
venuto» dichiarò, facendo per andarsene.
La ragazza sbuffò e alzò le
braccia al cielo.
«Non sono brava in queste
cose» ammise. «Cioè, con la mia famiglia
e i miei migliori amici sì, ma tu certe volte mi fai
impazzire di rabbia e allora mi passa la voglia di scusarmi...
però so di aver esagerato, lì
all'appartamento» precisò.
Vittorio si fermò e si girò
a guardarla, le sopracciglia inarcate in un'espressione a
metà tra l'incredulità e il sarcasmo.
«Sono le scuse più anomale che abbia mai sentito,
ma apprezzo lo sforzo».
«Be', è un passo
avanti» gli fece il verso la donna, ironica. «Anche
se speravo dicessi che le accetti».
Lui si mise le mani in tasca e
contemplò quelle parole per qualche istante.
«Non ti sei impegnata
abbastanza» decretò infine.
A quell'uscita del carabiniere, Vera
farfugliò indignata.
«Tu... tu... sei incontentabile,
ecco!» sbottò. Vittorio si mise a ridere e lei gli
scoccò un cipiglio talmente irato da distorcerle
completamente i lineamenti del volto. «Non so neanche
perché perdo tempo con te» sibilò. Si
avviò verso la scalinata ma Vittorio, senza smettere di
sghignazzare, l'afferrò per un braccio.
«Perché in fondo sei pazza di
me» disse ilare il carabiniere.
La donna si divincolò dalla sua presa
con un gesto brusco. «Ti piacerebbe!»
Vittorio provò a smettere di ridere. Ci
provò davvero, ma Vera furibonda era uno spettacolo che lo
divertiva da morire, e in realtà aveva già
iniziato a perdonarla quando lei gli aveva chiesto di raggiungerla
fuori dalla facoltà, quindi si sentiva di buonumore al punto
da trovare tutto molto spassoso.
«Metti via gli artigli, dai»
riuscì a sbuffare l'uomo tra una risata e l'altra.
«Non c'è bisogno di arrabbiarsi
così».
«Non ce n'è
bisogno?» gli fece eco Vera. «Provaci tu, ad avere
a che fare con te, e poi ne riparliamo!»
Il carabiniere le rivolse uno sguardo
provocatorio. «Ho già a che fare con te: non
è abbastanza?». Vera ringhiò qualcosa
di incomprensibile; lui sorrise di nuovo e le picchiettò la
punta dell'indice in mezzo alla fronte. «Avanti, smettila...
o devo chiamare l'accalappiacani? Perché inizi a somigliare
a un levriero rabbioso».
Di nuovo senza parole, Vera boccheggiò.
«Io... perché un levriero?»
riuscì a chiedere. Un istante più tardi,
provò il desiderio di prendersi a schiaffi: ma che razza di
domanda era?
Vittorio le rivolse un sorriso sghembo.
«Davvero non vedi la
somiglianza?» le chiese. «Snello, elegante, pelo
lungo e setoso...» spiegò, sventolandole davanti
agli occhi una ciocca dei suoi stessi capelli. «Non era
così difficile».
Lei gli scoccò uno sguardo tagliente;
poi le sue spalle si afflosciarono.
«Molto spiritoso»
grugnì.
«Lo so: ho un senso dell'umorismo
davvero impagabile» replicò l'uomo.
Vera si grattò la fronte.
«Scusa se ho dato di matto un'altra volta»
mormorò. «In questi giorni sono un po' nervosa, ma
stavolta tu non c'entri».
Vittorio scrollò le spalle con aria
noncurante. «Tranquilla: ormai sono abituato ai tuoi malumori
improvvisi». Diede uno sguardo all'orologio. «Mi
piacerebbe restare ancora un po', ma devo proprio andare».
Vera si strinse nelle spalle.
«Sì, l'avevi detto. Sei di turno?»
«Attacco alle quattro, ma non
è per questo». Vittorio si mise di nuovo le mani
in tasca. «Ho preso l'appartamento: devo solo firmare le
ultime carte, e voglio andarci subito».
«L'appartamento? Intendi quello in cui
abbiamo litigato?» indagò l'ex ginnasta.
«Proprio quello»
confermò Vittorio.
Vera inarcò le sopracciglia.
«E perché l'hai scelto? Per i lieti
ricordi?» chiese, ironica.
«Certo che sì»
rispose lui, sullo stesso tono. «A questo proposito... ho una
proposta da farti» aggiunse, con uno sguardo calcolatore alla
ragazza.
«Oh Dio, devo aver paura,
vero?» gnaulò lei.
«Dipende. Quanto ti spaventa un viaggio
all'Ikea?» disse il carabiniere. Vera lo scrutò
guardinga e l'uomo sospirò. «La casa è
ammobiliata ma mi mancano un sacco di cose, tipo lenzuola e
asciugamani, e non ho voglia di andare a comprare tutto da solo... ma
se coinvolgessi mia madre, un'uscita di un'ora o due diventerebbe tre
sopralluoghi all'appartamento e quattro giorni in giro per
negozi».
«E in tutto questo, io c'entro
perché...» insisté Vera, ancora
sospettosa.
«Perché tu non renderesti
tutto così complicato». Vittorio le
lanciò un'occhiata scaltra e si preparò a giocare
il jolly. «Se mi accompagni, ti perdono per quello che mi hai
detto l'altro giorno».
La ragazza alzò gli occhi al cielo.
«Immagino che avresti potuto chiedermi di peggio»
commentò. «Adesso vattene all'agenzia immobiliare,
altrimenti non farai in tempo a fare tutto prima di andare al lavoro. E
chiamami stasera, così troviamo un giorno in cui siamo
liberi tutti e due per andare a comprare quello che ti serve».
Vittorio annuì. «Ci puoi
contare».
I due scesero insieme la scalinata, e una volta
sul marciapiede si salutarono con un sorriso.
******
Un paio di giorni dopo quella chiacchierata fuori dalla
facoltà di Economia, Vera tornò per la prima
volta all'appartamento in cui aveva litigato con Vittorio.
«Però» disse
soltanto quando varcò la porta d'ingresso: la sala era
invasa da una serie di scatoloni accatastati negli angoli.
«Questo è niente»
replicò Vittorio; entrò a sua volta e chiuse la
porta. «Ho detto a Emanuela di inscatolare tutte le cose che
ho lasciato a Milano e di mandarmele giù con un furgone: me
le portano sabato».
«Ti servirà un bel po' di
aiuto, per mettere tutto a posto» considerò la
donna.
«Ti stai offrendo volontaria?»
chiese il carabiniere.
Vera scrollò le spalle. «Se
vuoi».
«Se voglio?» le fece eco
Vittorio. «Ti sembro così scemo da rifiutare un
paio di mani in più? Fossi matto! Anzi, per me possiamo
cominciare anche subito!»
«Un po' scemo lo sei, in
effetti» rispose l'ex ginnasta: tentò senza
successo di restare seria. «Forse per oggi conviene di
più fare una lista delle cose che ti servono e andare
all'Ikea, così magari puoi venire a stare qui già
da sabato e mettere a posto la tua roba un po' alla volta».
Vittorio valutò la sua proposta per un
minuto buono.
«Okay, mi sa che la tua idea ha
senso» ammise a malincuore.
«Mi raccomando, Valenti, meno entusiasmo
nel dirlo» commentò Vera in tono acido.
Il carabiniere la ignorò; i due
iniziarono a segnare le cose di cui Vittorio aveva bisogno per andare a
stare nell'appartamento, concentrandosi su una stanza alla volta, e fu
solo un'ora e parecchie discussioni più tardi che salirono
nell'automobile dell'uomo.
C'era un centro Ikea a una decina di minuti da
lì; un altro lato positivo dell'aver scelto proprio
quell'appartamento, agli occhi di Vittorio, ma Vera riuscì a
rendere turbolento anche quel breve viaggio.
Erano per strada da meno di cinque minuti e,
nonostante il traffico quasi inesistente lungo le vie scelte dal
carabiniere, Vera aveva già dato segnali di nervosismo; ma
quando attraversarono il ponte sopra la A24 e arrivarono nella parte
più popolata di Via di Tor Cervara, l'ex ginnasta
sembrò perdere il lume della ragione, e bastò un
nonnulla per portarla all'esplosione.
«Bravo, eh! Complimenti
vivissimi!» strillò Vera, sporgendosi fino alla
vita fuori dal finestrino per sbraitare contro un automobilista che era
uscito a tutta velocità da un cancello, giusto di fronte a
loro, senza controllare che il passaggio fosse libero. Agitò
il braccio con fare isterico. «'Ndo' cazzo pensi che stamo, a
Monza? Stronzo! Vorrei proprio sape' chi t'ha dato 'a patente! Ma tu
guarda 'sto...»
Vittorio l'afferrò per la maglietta e
con uno strattone la riportò all'interno dell'abitacolo,
interrompendo così la sua tirata, poi accostò
davanti al primo passo carrabile disponibile.
«Oh, ma si può sapere che
hai?» sbottò Vittorio all'indirizzo della ragazza.
Vera, ancora fumante di rabbia, fece per scendere dall'auto, ma l'uomo
la trattenne per un braccio. «Non ci pensare
neanche» l'ammonì cupo. «Ultimamente
scatti per qualsiasi cosa, e se devo fare a pugni con qualche
automobilista perché tu
non riesci a darti una calmata, allora voglio almeno saperne il
motivo!»
Constatata l'impossibilità di liberarsi
dalla stretta dell'uomo, Vera sbatté la schiena contro il
sedile e si morse l'interno delle guance mentre i suoi occhi saettavano
da un lato all'altro della strada; rimase in silenzio così a
lungo che Vittorio si convinse che non avrebbe più aperto
bocca.
«Mercoledì prossimo
è il compleanno della mia figlioccia» disse infine
la ragazza.
Vittorio tenne lo sguardo fisso sul suo volto: era
chiaro Vera che non gli stava dicendo tutto.
«E...?» la incalzò.
Vera prese un respiro profondo. «E
l'anniversario dell'incidente» aggiunse in tono piatto.
Il carabiniere trattenne bruscamente il fiato.
Luciano gli aveva detto che l'incidente in cui Vera e Noemi erano
rimaste coinvolte era avvenuto il maggio precedente, ma non aveva mai
saputo la data precisa; adesso però ne era al corrente, e si
rese conto che mancava meno di una settimana a quel giorno. Nessuna
sorpresa che la ragazza fosse di umore così instabile: con
l'avvicinarsi di quella ricorrenza, il ricordo di quanto era successo
doveva essere più vivido e soffocante che mai.
Vittorio lasciò la presa sul suo
braccio.
«Cambio di programma»
annunciò, immettendo di nuovo l'auto sulla carreggiata.
«Dove ti piacerebbe andare?»
L'ex ginnasta lo fissò, perplessa.
«Non dovevamo andare a comprare...»
«Quello può
aspettare» tagliò corto Vittorio. «Dove
vuoi andare?» ripeté.
Vera lasciò vagare lo sguardo oltre il
finestrino. «A Ponte Milvio».
L'uomo le rivolse un cenno d'assenso e si
concentrò sulla strada. I due non scambiarono una parola per
tutto il tragitto; Vittorio la guardava in tralice ogni volta che
qualche automobilista vicino a loro compiva manovre al limite, ma Vera
non sembrava più prestare attenzione al traffico.
Ci volle un po', ma alla fine giunsero a
destinazione. Parcheggiarono e si avviarono lungo il ponte uno accanto
all'altra, ancora in silenzio, fino a un punto meno affollato;
lì si appoggiarono al parapetto e guardarono il fiume
scorrere.
Fu solo allora che Vittorio si decise a spezzare
il silenzio.
«Mi piace questo posto» disse
senza alcun preavviso.
Vera gli lanciò un'occhiata.
«Ci venivi spesso, prima di trasferirti a Milano?»
L'uomo annuì e indicò la
torretta con l'ingresso ad arco all'estremità nord del
ponte. «Lì ho dato il mio primo bacio»
disse nostalgico.
«Come? Vorresti dirmi che all'epoca il
ponte già esisteva?» lo prese in giro la ragazza.
«Quanto sei divertente»
replicò Vittorio, ma sorrideva.
«Quanti anni avevi?» gli
chiese Vera, curiosa.
«Sedici». Vittorio
guardò in lontananza, verso Ponte Flaminio.
«Annalisa – si chiamava così, la mia
prima ragazza – aveva la mia stessa età: ci ho
messo sei mesi a convincerla a uscire con me e altri due per riuscire a
baciarla...». Rise. «Una fatica che non ti
dico».
«Posso immaginarlo»
commentò maliziosa Vera.
Il carabiniere le scoccò uno sguardo
penetrante. «Anche tu sembri fissata con questo
ponte» buttò lì un momento
più tardi.
La ragazza voltò le spalle al Tevere,
imitata da Vittorio; entrambi si appoggiarono al muretto e guardarono
l'andirivieni di persone di fronte a loro.
«Qui è dove siamo venute io,
Giulia e Noemi la prima volta che abbiamo saltato la scuola»
rivelò. «Eravamo al primo anno delle superiori...
sai, no, quando a casa iniziano a darti un po' di libertà e
ti sbrighi ad approfittartene?». Vittorio fece cenno di
sì con la testa. «Ecco. Era scoppiata da poco la
moda di venire qui e attaccare i lucchetti ai lampioni per poi gettarne
le chiavi nel fiume, e ci siamo dette: se possono farlo le coppiette di
innamorati che magari dopo un mese si lasciano, perché non
possiamo farlo noi, che siamo come sorelle e non ci separeremo mai?
Così abbiamo comprato un lucchetto – uno bello
grosso – ci abbiamo scritto sopra le nostre iniziali e una
mattina, invece di entrare a scuola, siamo venute qui e lo abbiamo
attaccato a quel lampione laggiù»
proseguì, indicando con sicurezza un lampione in
particolare. «Subito dopo abbiamo buttato le chiavi nel
Tevere, ed è stato... solenne. Quel giorno è come
se ci fossimo promesse di nuovo di stare sempre insieme». Si
asciugò una lacrima solitaria dal volto con un gesto brusco.
«Se quel giorno qualcuno mi avesse detto che neanche dieci
anni dopo saremmo già state divise, non ci avrei mai
creduto» mormorò amara.
Vittorio le passò un braccio intorno
alle spalle e posò il mento sopra la testa di lei. Non disse
nulla: si limitò a tenerla stretta in quel modo per un tempo
lunghissimo, fino a quando non la sentì rilassarsi. Quando
la lasciò, Vera alzò la testa e lo
guardò negli occhi.
«Mi dispiace di averti incasinato la
giornata» mormorò.
«Sciocchezze» la
liquidò lui. «All'Ikea posso andarci quando
voglio, tanto è sempre aperto, e stare qualche giorno in
più in caserma non mi ucciderà». Le
strofinò una mano in mezzo alla schiena. «Cosa ti
va di fare, adesso?»
Vera chiuse gli occhi. «Voglio andare a
casa».
Il carabiniere la prese per mano.
«Allora andremo a casa».
******
Quel sabato, Vera arrivò a casa di Vittorio appena cinque
minuti dopo il camion dei traslochi.
«Valenti» salutò
mentre raggiungeva la parte posteriore del furgone.
Vittorio, che stava per scaricare uno scatolone,
si raddrizzò e le diede una pacca sulla spalla.
«Ciao, Gamba Bionica».
Un inizio di risata subito soffocato da un colpo
di tosse fece voltare entrambi.
«Lui è Claudio, un mio
collega» aggiunse sbrigativo Vittorio, agitando una mano in
direzione dell'altro uomo.
«Sì, me lo ricordo: era con
te quando mi hai fermata, a febbraio» replicò
Vera. Tese la mano a Claudio. «Piacere di
conoscerti».
Lui prese la mano che gli veniva offerta.
«Piacere mio». Studiò Vera per qualche
istante con curiosità, poi accennò a Vittorio con
la testa. «Hai più provato a morderlo?»
La ragazza aggrottò le sopracciglia.
«No». Un istante più tardi parve
rendersi conto della reale portata della propria risposta, e sul suo
volto si dipinse un'espressione sbigottita. «No!»
ripeté. All'improvviso, parve disperata.
«Perché non ci ho più
provato?»
Claudio le batté una mano sulla spalla.
«Forse ti sei resa conto che Vittorio è un caso
perso» disse, incoraggiante.
L'espressione di Vera si rischiarò.
«Hai ragione!»
L'interessato sbuffò. «Avete
finito?». Gli altri due si strinsero nelle spalle e lui
alzò gli occhi al cielo prima di concentrarsi di nuovo su
Vera e indicare la busta che la ragazza aveva in mano. «Che
hai, lì dentro?»
«Tramezzini» rispose Vera.
«A un certo punto dovremo pur mangiare, no? Specialmente voi
due, che iniziate il turno alle quattro. Anzi, penso che
inizierò a salire: tanto casa tua è aperta no,
Valenti?»
Vittorio mugugnò un'affermazione mentre
controllava il contenuto di uno scatolone. «L'ascensore
è ancora rotto» annunciò.
«Me ne farò una
ragione» ribatté Vera. Quando sparì nel
portone del palazzo, Claudio affiancò l'amico.
«Comincio a capire perché
quella ragazza ti piace tanto» commentò il
trentaquattrenne.
«Non mi piace: né tanto,
né poco» replicò l'altro.
«Se è quello che ti ripeti
per dormire la notte...» sogghignò Claudio;
afferrò un pacco e si incamminò a sua volta verso
il portone. Vittorio lo imitò; i due uomini varcarono la
soglia e scorsero subito Vera, che si trovava ancora a metà
della prima rampa di scale. Scrollando le spalle, Vittorio
posò lo scatolone a terra e la raggiunse con quattro passi;
dopodiché l'afferrò per i fianchi e se la
gettò in spalla, premendole un avambraccio dietro le cosce
per tenerla ferma. Ignorando l'urlo spaventato della ragazza, il
carabiniere prese a salire le scale.
«Valenti? VALENTI!»
strillò Vera, mentre il battito impazzito del proprio cuore
le rimbombava nelle orecchie. «Sei ammattito? Mettimi
giù!»
«Dopo» rispose placido lui.
Incredula e contrariata dall'evolversi della situazione, Vera decise di
manifestare il proprio disappunto: un istante più tardi, una
pioggia di pugni tempestò la schiena di Vittorio.
«Sei un prevaricatore!»
gridò la donna, colpendolo ancora più forte.
«Prepotente e incurante del volere altrui! Cavernicolo! Mettimi giù!»
«Basta con i complimenti, Gamba Bionica,
o mi farai arrossire» ribatté Vittorio senza fare
una piega. Raggiunse la porta del proprio appartamento e la
varcò; una volta all'interno, rimise Vera coi piedi per
terra e si sistemò la maglietta come se nulla fosse.
« Non
ho bisogno che cammini per me!» urlò
Vera, fumante di rabbia.
«Non l'ho fatto per te: io e Claudio
dobbiamo portare su gli scatoloni, e se tu sei per le scale, non ci
passiamo» replicò cristallino il padrone di casa.
«Ho solo velocizzato il tutto».
«Dio se ti odio, Valenti!»
tuonò Vera.
Lui agitò una mano con fare noncurante
e si voltò verso la porta. «Se vuoi iniziare a
mettere a posto qualcosa, fa' pure».
La donna ruggì, furiosa ed esasperata,
mentre Vittorio spariva giù per le scale. Ormai sola,
posò la busta sul tavolo e mosse qualche passo avanti e
indietro, nel tentativo di dominare l'irritazione: non riusciva a
credere alla semplicità con cui Vittorio riusciva a farle
saltare i nervi.
Non si era ancora calmata del tutto quando i due
uomini tornarono nell'appartamento, ognuno col proprio carico. Subito
puntò il dito contro Vittorio.
«Hai intenzione di portarmi su e
giù in quel modo finché non avranno riparato
l'ascensore?» chiese a bruciapelo.
Lui posò la scatola che aveva tra le
braccia e la guardò con le sopracciglia inarcate.
«Certo che no».
La donna arricciò il naso per un
istante. «Allora resto».
Detto questo, Vera si chinò a prendere
uno scatolone su cui spiccava in grosse lettere nere la scritta
“libri” per posarlo sul tavolo, ma fece appena in
tempo ad afferrarlo che le mani di Vittorio tentarono di sfilarlo alla
sua presa.
Vera lanciò a Vittorio uno sguardo
tagliente, a cui lui rispose con uno esasperato.
«Dobbiamo veramente litigare sempre per
lo stesso motivo?» sbottò il carabiniere.
La venticinquenne ci rimuginò su.
«No» concesse infine con un
sospiro, lasciando la scatola.
Soddisfatto, Vittorio sollevò il pacco
e lo appoggiò sul tavolo. «Io e Claudio andiamo a
prendere altri scatoloni» annunciò, già
diretto alla porta. «Divertiti!»
Vera brontolò tra sé e
aprì la scatola. Era piena fino all'orlo; la ragazza
iniziò a tirare fuori un volume dopo l'altro, accarezzando
ogni copertina prima di passare al successivo. Ben presto la scatola fu
vuota; Vera la mise sotto il tavolo, prese una bracciata di libri e
andò agli scaffali vuoti che occupavano una parete,
sorridendo tra sé ogni volta che i suoi occhi trovavano un
titolo presente anche nella propria collezione.
******
Nei giorni seguenti, Vera trascorse ogni momento libero a casa di
Vittorio: quel martedì sera rientrò a casa poco
prima di mezzanotte, e solo perché il carabiniere l'aveva
buttata fuori dal proprio appartamento intimandole di tornare a casa e
filare a dormire. L'ex ginnasta era sicura che i suoi genitori fossero
già a letto, dunque si stupì di trovare le luci
in cucina accese e sua madre seduta al tavolo, intenta a fissare con
sguardo vacuo lo schermo del televisore mentre sorseggiava lentamente
un bicchiere di tè freddo.
«Mamma?» chiamò
cauta.
Fabiola scosse appena la testa e mise a fuoco
Vera, accorgendosi solo in quel momento che sua figlia era finalmente
rientrata a casa.
«Vera, tesoro» rispose Fabiola
con un sorriso stentato. «Vieni a sederti».
La venticinquenne avanzò guardinga: da
quando aveva avuto l'incidente non era insolito che sua madre
l'aspettasse alzata in quelle sere che passava fuori casa, ma
l'espressione con cui l'aveva appena accolta l'aveva messa a disagio.
Non appena Vera fu seduta accanto a lei, Fabiola
si sforzò di sorriderle con maggiore naturalezza.
«Non fare quella faccia, Vè:
non ti ho aspettata per rimproverarti» disse Fabiola con un
pizzico d'ironia.
«E allora perché?»
chiese piano la più giovane.
Sua madre si strinse nelle spalle. «In
questi ultimi giorni non sei praticamente mai stata a casa»
commentò. «Volevo solo sapere dove ti eri nascosta
e se stai bene».
Vera abbassò lo sguardo per un momento.
«Sono stata a casa di Valenti... il carabiniere. Te lo
ricordi, immagino».
Gli occhi di Fabiola si spalancarono e la sua
schiena si irrigidì.
«Sei stata a casa sua... da
sola?» chiese, incredula.
Sua figlia sbuffò. «A volte
c'era anche un suo collega» replicò.
«Valenti ha appena affittato un appartamento e gli abbiamo
dato una mano con il trasloco: da solo non avrebbe mai finito di
mettere tutto a posto».
Le spalle dell'altra donna si rilassarono e lei
lasciò andare un silenzioso sospiro di sollievo prima di
parlare.
«Mi sembrava che quel Valenti non ti
fosse poi tanto simpatico» disse Fabiola dopo qualche momento
di riflessione. Rivolse a Vera uno sguardo penetrante. «Come
sei finita ad aiutarlo praticamente in ogni momento libero?»
Vera esitò. «Io... non
c'è un motivo particolare» rispose, sfuggendo lo
sguardo di sua madre.
« Vera»
la incalzò Fabiola.
La ragazza incassò la testa tra le
spalle.
«È che quando sono con lui,
non c'è niente che mi ricordi Noemi». Vera tacque
per un momento. «Non sto cercando di dimenticarla, non potrei
riuscirci neanche se lo volessi, ma è solo che...
è solo...». S'interruppe e deglutì, gli
occhi umidi. «Ma è solo che, certi giorni, pensare
a lei fa troppo male».
Fabiola la prese tra le braccia, le mise una mano
sulla nuca e le spinse la testa nell'incavo del proprio collo,
cullandola, mentre si sforzava di respirare normalmente
perché Vera non si rendesse conto di quanto anche lei fosse
turbata. Cosa poteva dire – cosa poteva fare – per
aiutare Vera a superare quel trauma? Sua figlia, la sua unica figlia,
era spezzata: per la gamba era bastata una protesi, ma la sua anima?
Come guarirla? Per un momento desiderò di tornare a
vent'anni prima, quando poteva cancellare un dolore o una delusione di
sua figlia con qualche dolce o un giocattolo, ma non era possibile.
Peggio ancora, sapeva che in quella circostanza non era in suo potere
guarire nulla di Vera: non aveva potuto sanarne il corpo, e ancor meno
poteva fare con la mente e l'anima.
«Andrà meglio»
mormorò Fabiola, ma quelle parole suonarono vuote e
inadeguate alle sue stesse orecchie. «Andrà
meglio, amore mio, ti prometto che andrà meglio... e tu non
sei sola: noi siamo qui con te, per
te, hai capito? Non lo dimenticare, non dimenticare che
non devi affrontare tutto da sola, ci siamo noi ad aiutarti...
andrà meglio, andrà meglio... te lo prometto,
andrà meglio» disse con voce spezzata.
«Ti credo» sussurrò
Vera; la sua, di voce, era soffocata dalle lacrime. «Ti
credo, mamma».
Fabiola si staccò da lei e la
guardò negli occhi.
«È meglio che tu vada a
dormire» disse decisa. Le accarezzò il volto con
mani tremanti. «Domani sarà una giornata...
d-difficile» aggiunse, incespicando sull'ultima parola.
Vera annuì; premette una guancia sulle
dita di Fabiola, quasi lasciando che la mano di sua madre sostenesse
per intero il peso della sua testa – che in quel momento le
sembrava pesare cento volte più del normale, piena com'era
di tanti pensieri e sentimenti differenti – prima di
sporgersi e deporre un bacio sulla gota dell'altra donna.
«Buonanotte, mamma» le
augurò piano; si alzò e andò
lentamente verso le scale, e il suono discordante dei suoi passi
sembrò risuonare per tutta la casa.
Fabiola si accasciò contro lo schienale
della sedia, priva anche solo dell'energia necessaria a raggiungere il
letto, e guardò il mondo circostante senza vederlo per molto
tempo ancora.
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Capitolo 14 *** Capitolo XIII ***
Il dieci di maggio
iniziò cupo come l'umore di Vera: il cielo era velato da
nuvole scure che filtravano la luce calda del sole rendendola grigia e
smorta, e il meteo prevedeva temporali.
La conversazione avuta con Fabiola la sera
precedente perseguitò Vera dal momento in cui si
alzò e per tutto il tempo che trascorse al lavoro: aver
ammesso ad alta voce i tentativi di non pensare all'amica persa un anno
prima aveva risvegliato in lei un senso di colpa più
profondo del solito, che si intensificava ogni minuto che passava. Vera
si vergognava di se stessa: che diritto aveva non solo di essere viva,
ma anche felice? Che diritto aveva di non soffrire, evitando di pensare
a Noemi e a quanto la sua assenza fosse così feroce da aver
assunto una dimensione quasi fisica, bruciando all'interno del suo
corpo, simile a veleno? Che amica era – che persona era
– se per respirare normalmente doveva evitare i ricordi di
quella che ancora considerava una sorella?
In ufficio non combinò
granché, e alle undici fu felice di salutare il professor
Maesani: forse, credeva, fuori da quelle quattro mura le sarebbe stato
più facile concentrarsi su altro e tenere così a
bada il grumo viscido e pesante che le si agitava senza sosta nello
stomaco. Il viaggio dalla facoltà a Settecamini fu tedioso,
ma tranquillizzante: concentrarsi unicamente sul traffico le permise di
nuovo di non pensare, ma stavolta senza sentirsi in colpa.
Quando arrivò di fronte alla chiesa
vicino casa, a mezzogiorno meno dieci, sul piazzale c'erano
già parecchie persone: erano riunite in gruppuscoli e
parlavano piano, e qualcuno si spostava da un capannello all'altro per
salutare qualche conoscente appena arrivato.
Vera varcò il cancello che delimitava
la proprietà e scrutò la gente che aveva di
fronte: Eugenio e Fabiola erano vicini all'ingresso della chiesa
insieme ai signori Massari – i genitori di Giulia –
mentre la sua migliore amica e Tiziano si erano sistemati accanto a
un'aiuola rotonda e parlavano con alcuni vecchi compagni di classe
della prima.
L'ex ginnasta chiuse gli occhi e prese un respiro
profondo per prepararsi ad affrontare i presenti; proprio in quel
momento, però, sentì qualcuno avvicinarsi a lei
tanto da sfiorarle il braccio col proprio.
Alzò la testa e vide l'ultima persona
che si sarebbe aspettata di trovare lì.
«Valenti?» esclamò
Vera, sorpresa. «Che ci fai qui?»
«Sostegno morale» rispose lui.
Lasciò vagare lo sguardo sulle persone che indugiavano
vicino alle porte della chiesa. «Ho pensato che qualcuno
dovesse essere qui solo per te».
La ragazza inarcò le sopracciglia.
«Sei andato a ficcanasare in giro un'altra volta, per sapere
che oggi c'era la... la messa di commemorazione per Noemi?»
Vittorio si grattò la nuca.
«Ho visto le epigrafi quando sono andato al parco la
settimana scorsa» ammise.
«Okay, ha senso» concesse lei.
«Ma comunque, tu non... non dovresti essere al
lavoro?»
Vittorio scrollò le spalle.
«Mi sono fatto cambiare di turno da Luciano».
«Ti sei fatto...»
ripeté Vera con qualcosa di simile alla meraviglia. Tacque
per qualche momento. «Sai, Valenti, tu sei
davvero...»
«... strano?» concluse l'uomo
per lei.
Vera gli rivolse un sorriso stentato ma sincero.
«Buono».
Vittorio si appoggiò un po' di
più a lei e la spinse appena. «È la
prima volta che mi fai un complimento vero quando invece
potresti insultarmi. Mi devo preoccupare?» scherzò.
«Nah» rispose piano la
ragazza, gli angoli della bocca lievemente sollevati.
«È stato solo un episodio: non farci
l'abitudine».
Il carabiniere sorrise per un momento, poi
tornò serio e accennò con la testa alla chiesa.
«Credo sia ora di entrare»
mormorò.
Vera fece un cenno affermativo e
sollevò lo sguardo appena in tempo per vedere sua madre
scrutarla con attenzione; Fabiola fece per andare verso di lei, ma Vera
scosse lentamente la testa e lasciò che Vittorio prendesse
la sua mano e se la sistemasse nell'incavo del gomito. Fabiola
annuì e tornò da Eugenio; la coppia, insieme ai
signori Massari, si avviò all'interno della chiesa seguendo
la famiglia di Noemi, presto imitati dagli altri presenti.
Tiziano si avvicinò rapido a Vera.
«Vè?»
mormorò mentre rivolgeva un frettoloso cenno di saluto a
Vittorio. «Stai bene?»
«Io...». Vera sentì
la propria gola chiudersi e si sforzò di annuire mentre
tentava di recuperare l'uso della parola. «Sì.
Sì, sto bene». Scoccò una rapida
occhiata a Giulia: era pallida e si guardava intorno con aria smarrita.
«Torna da Giulia. Io non sono sola» lo
spronò, dando, al contempo, una lieve strizzata al braccio
di Vittorio.
Tiziano le scoccò un rapido bacio sulla
fronte e tornò da sua moglie a passi veloci. Vera
alzò lo sguardo su Vittorio e gli si avvicinò
tanto da fargli conficcare il suo stesso gomito tra le costole, ma lui
non ci badò: si limitò a guardarla, aspettando
che fosse lei a decidere di muoversi.
Vera fece un passo in avanti con gambe incerte, e
il carabiniere la seguì prontamente; procedettero lenti,
lasciandosi sfilare dagli ultimi ritardatari, e Vittorio poteva sentire
la riluttanza della venticinquenne nel tremito della mano appoggiata al
suo braccio, e nella cadenza breve e spezzata del suo respiro.
Appena varcarono la porta la ragazza si
bloccò, incapace di andare avanti. Vittorio le rivolse uno
sguardo preoccupato, ma Tiziano venne in suo aiuto: da un banco nella
terza fila agitò con discrezione la mano, accennando ai
posti liberi al suo fianco.
«Vera, avanti» le
mormorò all'orecchio il carabiniere. «Il tuo amico
ci sta aspettando, ti ha tenuto il posto accanto a Giulia. Puoi
arrivare fin lì, lo so che puoi arrivarci...»
Vera prese un respiro tremante e
raddrizzò le spalle; Vittorio annuì incoraggiante
al debole tentativo della ragazza di mostrarsi coraggiosa e la
guidò da Tiziano e Giulia. Vera zoppicò verso
l'amica e quasi inciampò nell'inginocchiatoio; la mano di
Vittorio, avvolta saldamente intorno al suo bicipite, la tenne in
piedi, e Giulia le accarezzò i capelli non appena furono
vicine.
L'ex ginnasta posò una mano sulla
guancia dell'altra, gli occhi fissi nei suoi.
«Ciao» mormorò, senza fiato.
Giulia le percorse di nuovo la lunghezza dei
capelli con le dita. «Ciao» rispose debolmente.
In quel momento iniziò il canto
d'ingresso e tutti tacquero. Il tempo trascorse con lentezza quasi
agonizzante, e la mente di Vera si perse nelle varie fasi della messa;
fu solo alle prime parole dell'omelia che la ragazza si riscosse.
«La nostra è una piccola
parrocchia» esordì il sacerdote, «e oggi
quasi tutti i presenti sono intervenuti per una messa di suffragio; per
questo, sebbene non sia d'uso farlo, ho deciso di spendere qualche
parola in più rispetto alla sola intercessione».
L'uomo tacque per un momento: i suoi occhi vagarono sui banchi
affollati, soffermandosi in particolare su Giacomo e Carmela, i
genitori di Noemi, e sul loro secondogenito Nicola.
«Affrontare la perdita di una persona cara non è
mai facile, ma quando a lasciarci è una persona giovane e
sana, il lutto può diventare impossibile da superare. Oggi
ci siamo ritrovati nella casa del Signore per ricordare Noemi, che
è tornata al fianco del Padre esattamente un anno fa, e non
starò qui a dirvi quanto fosse buona e generosa, piena di
vita, o di quanto ancora avesse da dare e ricevere; non solo
perché tutti voi la conoscevate, ma soprattutto
perché non è per queste cose, che la ricordate.
Come ognuno di noi Noemi aveva numerosi difetti e imperfezioni, ed
erano proprio questi a renderla meravigliosamente umana: e il suo
impegno giornaliero per essere migliore ce la rendeva ancora
più cara. La sua assenza è dolorosa, ma anche se
ci è stata portata via quando avrebbe potuto restare con noi
ancora a lungo, Noemi ha amato ed è stata amata: parte di
lei resterà sempre nei nostri cuori e ci guiderà,
fino al giorno in cui saremo tutti riuniti».
Il sacerdote si allontanò dal pulpito
per proseguire con la funzione e Vera, che aveva resistito fino a quel
momento, cedette alle lacrime. Vittorio le passò un braccio
intorno alla vita e l'attirò a sé, mentre con la
mano libera le accarezzava la testa; accanto a loro, Tiziano teneva
stretta Giulia allo stesso modo, sussurrandole parole di conforto.
Alla cieca, Vera allungò una mano verso
la sua migliore amica: l'altra l'afferrò e le due donne
rimasero in quella posizione per parecchi minuti, recuperando
lentamente il controllo.
Fu solo quando finì la messa che Vera
si staccò da Vittorio.
«Grazie» mormorò
con voce soffocata mentre si asciugava il volto con la mano libera,
senza mai incontrare il suo sguardo.
L'uomo s'infilò le mani in tasca.
«Quando vuoi, Gamba Bionica» rispose placido.
Giulia tirò la mano dell'amica, ancora
saldamente stretta nella propria, e quando ebbe la sua attenzione,
accennò a un punto un paio di metri più avanti:
Carmela e Giacomo erano attorniati da parecchie persone, tra cui i
genitori di entrambe le ragazze, ma Nicola si era sistemato un po'
più in là, solo e con lo sguardo puntato a terra.
Vera e Giulia si fecero strada tra la folla e
raggiunsero il ventenne: insieme lo avvolsero in un abbraccio,
mettendoci dentro tutta la forza che avevano, e con delicatezza gli
fecero rialzare la testa.
«Nico, va tutto bene»
bisbigliò Vera. «Va bene stare male, va bene
essere arrabbiati. È normale: Noemi ti manca da
morire». La sua voce tremò. «Manca anche
a noi».
Il ragazzo annuì, in silenzio.
«Quando ti sembra di non farcela e vuoi
parlare di lei, quando vuoi ricordarla, vieni da noi»
aggiunse Giulia in un sussurro. «Lo sappiamo che non
è la stessa cosa, ma Noemi per noi era una
sorella». Gli accarezzò una guancia e si
sforzò di sorridere. «E questo fa di te il nostro
fratellino».
«Minore e un po' scemo»
tentò di scherzare Vera. «Perché queste
cose te le abbiamo già dette, e comunque hai deciso di
tenerti tutto dentro. Guarda che ti veniamo a cercare noi e ti facciamo
fare tutte le figuracce che prima ti... ti faceva fare Noemi».
La bocca di Nicola si curvò appena
all'insù, quasi contro la sua volontà.
«Va bene» mormorò
con voce rotta. Per la prima volta da quando l'avevano abbracciato, il
ragazzo ricambiò la stretta. «Ma la cosa
è reciproca».
«Fai pure del tuo peggio»
sorrise Vera; una nuova lacrima scese dai suoi occhi mentre depositava
un bacio leggero sulla guancia del ventenne.
Tiziano, che si era avvicinato con passi leggeri,
posò una mano sulla spalla di sua moglie.
«Stanno uscendo tutti» li
informò in tono basso e calmo. «Nico, i tuoi
genitori e altri stanno andando al cimitero per... per portare dei
fiori a Emi». Deglutì. «Vuoi venire con
noi?»
Nicola scosse la testa. «È
meglio se vado con i miei genitori». Raddrizzò la
schiena e si asciugò gli occhi. «Ci vediamo
lì».
I tre annuirono mentre il più giovane
si allontanava; quando fu a metà strada verso la porta della
chiesa, Vera si voltò a cercare Vittorio e lo
trovò che la fissava da un angolo, in disparte. Lo raggiunse
senza staccargli gli occhi di dosso.
«Valenti, noi... noi stiamo andando
da... da N-Noemi» farfugliò la ragazza.
Il carabiniere la guardò da vicino per
la prima volta dopo parecchi minuti: era pallida, col viso gonfio e gli
occhi cerchiati di rosso, e in quel momento gli parve così
fragile da fargli credere che un soffio di vento avrebbe potuto
mandarla in pezzi.
«Ragazzina, vuoi che venga con
te?» le domandò sottovoce, afferrandole i gomiti
con delicatezza e chinandosi su di lei.
«Io... ti va?»
replicò Vera, supplichevole.
«Certo. Certo che mi va»
dichiarò Vittorio, col tono di chi dica
un'ovvietà. «Vieni in macchina con me? Qualcuno
deve farmi da navigatore».
«Sì, io...
sì» riuscì a dire Vera. Raggiunsero la
porta, seguiti da vicino da Tiziano e Giulia, e appena fuori dalla
chiesa trovarono Eugenio e Fabiola in attesa.
«Papà?»
chiamò Vera con voce strozzata. «Io vado al
cimitero con... con Valenti. Non... non sa dov'è e
così gli... gli posso indicare la strada».
Eugenio rivolse un lungo sguardo prima a sua
figlia, poi al carabiniere.
«D'accordo» disse infine.
Vera si voltò per dire qualcosa a
Giulia, ancora vicina a loro, ed Eugenio fece cenno a Fabiola di
seguirlo; quando passò accanto a Vittorio,
rallentò per un istante. «Grazie»
mormorò al suo indirizzo, senza fermarsi. Il quarantenne
annuì e le tre coppie si separarono.
Il viaggio fino al cimitero e la visita alla tomba
di Noemi furono ancora peggiori, almeno per Vittorio: Vera rimase in
silenzio per tutto il tempo, alternando istanti in cui pareva chiudersi
completamente nella propria testa con i pensieri che l'assillavano, a
periodi in cui sembrava così smarrita da non capire dove si
trovasse. Vittorio fu costretto dapprima a fermare Tiziano per
chiedergli di fargli strada con la propria auto, e più tardi
a trascinare Vera praticamente di peso fuori dalla macchina e dentro al
cimitero.
L'ex ginnasta sembrò riscuotersi solo
al momento di affiancare i suoi genitori per offrire il mazzo di fiori
che avevano portato. Vittorio era restio a lasciarla allontanare da
sé: se possibile, Vera sembrava ancora più
sconvolta che in chiesa, quasi terrorizzata dalla foto allegra della
sua migliore amica che le sorrideva dalla lapide di marmo chiaro.
Quando la vide barcollare, appena dopo aver posato
i fiori, Vittorio decise di infischiarsene delle formalità:
sgomitò tra le persone accalcate davanti al loculo e la
prese per i fianchi, sostenendo quasi tutto il suo peso.
«Vera? Vè?»
sussurrò con urgenza al suo orecchio. La ragazza non rispose
e lui la trascinò indietro, verso un punto sgombro e
tranquillo, tallonato dai coniugi Nicolini. «Ragazzina? Gamba
Bionica?»
Vera alzò su di lui uno sguardo perso.
«Eh?»
Vittorio la scrollò appena.
«Ci sei?»
La venticinquenne batté rapidamente le
palpebre. «Sì. Sì, ci sono...
più o meno». Prese un respiro profondo, e per la
prima volta dal momento in cui avevano messo piede in chiesa, a
Vittorio apparve davvero padrona di sé.
«Scusa, scusatemi tutti» disse; nella sua voce era
ancora presente un tremito, ma con un secondo respiro lento e profondo,
riuscì a contenerlo. «Mi ero un po'...
persa».
«Non fa niente: era il meno che potesse
succedere» la rassicurò Vittorio.
«Senti, ho il turno di notte quindi non devo tornare al
comando prima delle undici e mezza. Vuoi che... che facciamo qualcosa,
vuoi andare da qualche parte...?»
Vera scosse la testa. «Devo andare a
casa a cambiarmi e prendere la macchina: ho detto a Giovanna che oggi
avrei lavorato lo stesso, ho bisogno di farlo, mi... mi aiuta a
distrarmi».
Il carabiniere lasciò la presa sui suoi
fianchi soltanto per afferrarle le spalle. Piegò appena le
ginocchia per portare gli occhi all'altezza di quelli di lei.
«Se ti serve qualcosa, qualsiasi cosa,
chiamami» scandì lento. «Non stare da
sola se non ce n'è bisogno. Capito?»
«Capito» rispose Vera.
«Sono calma, Valenti. Adesso sono calma».
«D'accordo» disse Vittorio.
«E non sarò sola»
aggiunse la ragazza. «Quando finisco in palestra vado da
Giulia – facciamo una piccola cena per festeggiare il
compleanno di Ludovica. Sarò sempre con qualcuno».
«D'accordo» ripeté
l'uomo. Lasciò la presa sulle sue spalle e Vera
ondeggiò per un breve istante. «Ci sentiamo
più tardi».
Vera fece un cenno affermativo e rimase a
guardarlo andare via; e nonostante le braccia di sua madre fossero
avvolte intorno alla sua vita e la mano di suo padre premuta sulla sua
spalla, per un lungo istante si sentì terribilmente sola.
******
La cena per festeggiare il compleanno di Ludovica era stato un affare
semplice e riservato: oltre a Tiziano e Giulia erano presenti i quattro
nonni della bambina, i due zii – tutti e due da parte di
padre e, come era solita dire Giulia, più matti persino di
lui – e Vera. Nonostante la tristezza che aveva
caratterizzato la maggior parte della giornata, durante quelle tre ore
scarse nell'appartamento erano risuonate chiacchiere allegre e anche
risate; tutti si erano concentrati su Ludovica, e il naturale buonumore
della bambina era riuscito a risollevare gli animi.
In quel momento Vera sedeva coi gomiti appoggiati
al tavolo e il mento puntato sulle mani, lo sguardo fisso sulla sua
figlioccia. La bimba era seduta sul pavimento, insieme agli zii e a una
delle nonne, intenta a giocare: al suo fianco, un cagnone di pezza
più grande di lei – evidentemente il
più gradito dei regali fatti da Vera – copriva il
pavimento come un tappeto, con l'inseparabile RincoRino piazzato sulla
schiena.
«Come fai a scovare sempre il pupazzo
in grado di farla innamorare al primo sguardo?» chiese Giulia
con sincera curiosità, sistemandosi accanto all'amica.
«Abilità naturale»
rispose Vera con leggerezza forzata, senza distogliere gli occhi da
Ludovica: ogni volta che si spostava, anche solo di pochi centimetri,
aveva la sensazione di scorgere Noemi ai margini del proprio campo
visivo, proprio lì dove sarebbe dovuta essere, e dopo oltre
un'ora aveva scoperto che era più semplice tenere lo sguardo
fisso su un unico punto il più a lungo possibile.
«Oppure potrei
aver notato che Lulù si illumina ogni volta che in
televisione appaiono dei San Bernardo».
«Sapevo che c'era il trucco!»
gnaulò Giulia.
«È un'informazione riservata:
vedi di non dirlo a tutti» sogghignò l'altra. Dopo
qualche istante, si alzò. «Si sta facendo tardi:
è meglio se torno a casa».
Giulia tornò seria all'istante.
«Vuoi che venga con te?»
Vera le rivolse un'occhiata sardonica.
«Vorresti salire sulla tua
macchina solo per seguirmi fino a casa e poi tornare
indietro?»
La padrona di casa rifletté per un
istante. «Va bene, messa così suona veramente come
un'idea scema».
«Perché è
un'idea scema» ribatté Vera con voce serica.
Schivò il tovagliolo appallottolato che Giulia le aveva
appena tirato contro. «Tranquilla: non lo dirò a
nessuno... per stavolta».
«Troppo buona»
bofonchiò sarcastica Giulia.
Vera sorrise in modo genuino; prese la borsa e la
giacca, salutò i presenti e con un ultimo bacio sulla fronte
di Ludovica, lasciò l'appartamento. Una volta in macchina,
al riparo dalla pioggia che cadeva da oltre un'ora, tirò
fuori il cellulare dalla borsa e lo soppesò per un minuto
buono; poi si decise e avviò una chiamata.
La persona all'altro capo rispose al secondo
squillo.
« Ciao»
disse subito la voce di Vittorio. « Allora, Gamba Bionica? Come ti
senti?»
Vera prese un respiro profondo e lasciò
che ogni emozione, dentro di lei, sfumasse fino a sparire: solo allora
vide cos'era rimasto.
«Stanca» rispose in tono
piatto.
« Quanto
stanca?» indagò il carabiniere.
La ragazza esitò per un istante.
«Così stanca che, se mi sdraiassi, non riuscirei a
rialzarmi mai più».
Il silenzio regnò sovrano per alcuni
secondi.
« Vera?
Non sento niente in sottofondo. Perché?»
chiese Vittorio, inquieto.
«Sono uscita da casa di Giulia cinque
minuti fa» spiegò lei. «Sono in
macchina. Ti ho chiamato prima di partire: ho pensato fosse...
meglio».
« Quindi
stai per andare a casa?» la incalzò
Vittorio.
«Io... io ho bisogno di stare un po' da
sola» rispose Vera. «Devo... devo riordinare tutto
quello che ho in testa, e... e rimettere a fuoco le cose».
Prese un respiro breve e spezzato. «Buonanotte,
Valenti» mormorò un attimo prima di chiudere la
chiamata.
Ad alcuni chilometri di distanza, Vittorio
fissò il telefono ormai muto con un macigno sullo stomaco.
Le parole e il tono di Vera non gli erano piaciuti per niente: da che
la conosceva l'aveva sentita arrabbiata, sarcastica, allegra,
rilassata... ma così spenta, mai, e questo lo spaventava.
Negli ultimi giorni l'umore di Vera era stato instabile, sì,
ma per il momento in cui aveva lasciato il cimitero gli era sembrata
abbastanza calma e controllata; aveva pianto ed era stata sconvolta,
certo, ma c'era da aspettarselo; nei pochi messaggi che si erano
scambiati nel pomeriggio era anche riuscita a parlare dei regali di
compleanno che aveva comprato per Ludovica, e lui si era convinto che
il peggio fosse passato, che se Vera non era crollata dopo essere
andata via dal cimitero, allora per quel giorno non sarebbe
più potuto succedere.
Vittorio si diede mentalmente dell'idiota: dopo
quello che gli aveva raccontato Giulia mesi prima, avrebbe dovuto
aspettarsi che Vera cedesse non nel momento più triste, ma
in quello – almeno teoricamente – più
felice: quello in cui spiccava l'assenza di Noemi. Proprio com'era
successo al battesimo di Ludovica.
Il carabiniere afferrò la giacca di
pelle e le chiavi dell'auto prima di schizzare fuori dal comando: corse
in macchina tanto velocemente che la pioggia a stento gli
inumidì i capelli e mise in moto mentre provava a chiamare
Vera; gli squilli si susseguirono lenti, in totale contrasto col
battito frenetico del suo cuore, ma lei non rispose.
Fermo a un semaforo, Vittorio si spremette le
meningi mentre continuava inutilmente a chiamare inutilmente la
ragazza: dove poteva essere andata? Non a casa, questo era sicuro: poco
prima gli aveva detto chiaramente di voler stare da sola. Ma a
quell'ora, di mercoledì sera, e con quel tempaccio, in che
posto poteva rifugiarsi senza essere disturbata?
La risposta gli attraversò la mente
rapida come una stella cadente nella notte; la luce verde del semaforo
s'illuminò e Vittorio schiacciò il piede
sull'acceleratore, facendo due rapidi calcoli. Se la sua intuizione era
giusta, Vera era molto più vicina di lui a Ponte Milvio: da
casa di Giulia non poteva distare più di sette chilometri,
la metà di quelli che separavano quel particolare ponte dal
comando, e la ragazza era già in macchina quando le aveva
parlato. Vittorio pregò di non trovare traffico, di essere
più veloce di Vera, mentre imboccava una strada dopo l'altra
e si avvicinava alla sua meta.
Una decina di minuti più tardi,
Vittorio giunse a destinazione: abbandonò l'auto nel
parcheggio più vicino e corse lungo il ponte. La pioggia si
era trasformata in un temporale, ed era tanto fitta da ostacolare la
visibilità. Il maltempo, l'ora tarda e la serata feriale
avevano fatto scappare le persone che solitamente affollavano il posto:
l'unico suono era quello dei suoi passi, che rimbombava attraverso il
fragore della pioggia.
«Vera!» urlò a
pieni polmoni. «Vera!»
Nessuno rispose. Vittorio non si fermò;
continuò a correre, voltando la testa da destra a sinistra
per controllare i parapetti del ponte. Si chiese se non avesse preso un
abbaglio, se la sua intuizione non fosse sbagliata, ma il suo istinto
continuò a urlargli che Vera era lì, che non
poteva fermarsi, che non doveva perdere nemmeno un secondo.
E poi una sagoma scura, a stento visibile nel
temporale, apparve davanti ai suoi occhi: era in piedi sul parapetto di
sinistra, incerta sulle gambe e incurante della pioggia che le
martellava addosso.
« Vera!»
gridò Vittorio. Scattò con tanta foga da sentire
i muscoli dolere e i polmoni bruciare alla ricerca d'ossigeno; ormai
era vicinissimo e poté vedere il volto di Vera, i suoi
lineamenti stravolti dall'agonia, e per un istante ebbe l'impressione
che si stesse piegando in avanti...
Senza rallentare, Vittorio le cinse la vita con un
braccio e la trascinò sul selciato: lo slancio e il peso
della ragazza gli fecero perdere l'equilibrio ed entrambi franarono a
terra.
L'uomo sentì il corpo di lei sotto il
proprio e un dolore sordo al braccio e al ginocchio che aveva battuto
nella caduta. Senza lasciare la presa su Vera, rotolò di
fianco per non pesare su di lei e la tirò sopra di
sé.
«Non farlo mai più»
ansimò, sconvolto e terrorizzato; la strinse tra le braccia
con tutta la forza che aveva, e anche se una parte di lui sapeva di
farle male, non allentò la morsa in cui l'aveva serrata.
«Non farlo mai più, Vera, non farlo mai
più, maledizione».
Vera spinse le mani sul petto di Vittorio in una
muta richiesta di lasciarla andare; non appena le braccia dell'uomo si
aprirono, la ragazza si rimise goffamente in piedi.
«Che hai fatto? Che cos'hai fatto?»
chiese con voce distorta dal dolore. «Dovevi lasciarmi
andare!»
Anche Vittorio si rialzò, e le rivolse
uno sguardo sconcertato.
« Lasciarti
andare?» ripeté. «Lasciarti
suicidare, vorrai dire!»
«Sì, è esattamente
quello che voglio dire!» replicò Vera.
Vittorio la prese per le spalle e fissò
i propri occhi nei suoi. «Sei diventata pazza? Come puoi dire
che avrei dovuto lasciare che ti suicidassi?»
sbottò. Tacque e si sforzò di prendere un respiro
profondo per dominarsi. «Vera, io capisco che questa per te
sia stata una giornata tremenda, ma non è suicidandoti che
risolverai i problemi, o che starai meglio!»
La donna si divincolò dalla sua presa.
«Tu capisci?» gli fece eco.
«No che non capisci! Ma che ne sai, tu? Hai mai perso
qualcuno che ami? Hai mai perso una sorella? Be', io sì, in
caso te ne fossi dimenticato! Ogni mattina, quando mi sveglio, resto
sdraiata nel letto e mi chiedo perché io sono ancora viva e
Noemi no! E anche se mi hanno spiegato cento volte la dinamica
dell'incidente – che Noemi è stata centrata in
pieno dal SUV, che l'angolo dell'impatto ha fatto sì che a
parte la mia gamba io non fossi colpita in modo letale dall'altra auto
– continuo a chiedermi ogni
giorno per quale motivo la mia migliore amica sia morta e
io invece no, perché quella Seicento era un vecchio macinino
e a rigor di logica anch'io sarei dovuta morire, incastrata tra quelle
lamiere!» urlò.
«Ma tu sei viva,
Vera!» gridò di rimando Vittorio.
L'afferrò e la strinse di nuovo, incurante del suo
divincolarsi. «Sei viva, dannazione, anche se ti ostini a
comportarti come se fossi morta, ma non ci sto. Ormai fai parte della
mia vita, e non ti lascerò suicidare. Hai capito?»
disse con voce tremante.
«Chi sei tu per dirmi cosa posso o non
posso fare?» sibilò lei, intrappolata tra le sue
braccia.
«Sono uno stronzo arrogante che per puro
caso è finito sulla tua strada» rispose Vittorio,
ripetendo le parole che lei gli aveva rivolto settimane prima.
«Se vuoi morire prima devi avere il mio permesso, e io non te
lo darò mai. Tutto quello che puoi fare è
impegnarti per rendere la mia
vita un inferno: questo te lo concedo».
«Sei davvero uno stronzo
arrogante! Non puoi decidere per me!» tuonò Vera.
«Non posso lasciarti morire, Vera. Non
posso» sussurrò lui.
Vera gli tempestò le spalle di pugni.
«Bastardo prepotente! Non potrai starmi addosso ventiquattro
ore su ventiquattro, e non arriverai sempre in tempo!»
«Vuoi scommettere?». Vittorio
appoggiò il mento sulla sua testa. «Mi
congederò dall'Arma e mi ammanetterò a te, se
sarà necessario per non farti fare sciocchezze. Sono
più cocciuto di te, sai che sono capace di farlo».
Sfinita, Vera si afflosciò tra le sue
braccia. «Perché lo fai?»
singhiozzò, mentre la tensione della giornata finalmente
esplodeva dentro di lei. «Perché t'interessa tanto
che io viva?»
L'uomo prese un respiro incerto. «Non lo
so. So solo che il mondo è un po' più brutto, se
tu non ci sei». Sospirò. «Vera, ti prego,
promettimi che non proverai mai più a farti del
male».
«Va bene» bofonchiò
lei.
Vittorio strizzò gli occhi per un
istante. «No, Vera, devi prometterlo sul serio,
perché io non... non posso lavorare, non posso dormire, non
posso respirare, se ho il timore che tu possa provare di nuovo a fare
una follia come quella di stasera. Devi darmi la certezza che non farai
mai più una cosa del genere».
L'uomo abbassò lo sguardo e
incontrò quello di Vera.
«Come faccio a prometterti una cosa del
genere? Non so neanch'io se riuscirò a non avere
più un desiderio simile. In che modo posso garantirlo a
te?» mormorò lei.
«Allora giurami che se penserai di nuovo
di fare una cosa del genere, me lo dirai» la
implorò Vittorio. «Non devi seguire per forza
quell'impulso: se lo proverai di nuovo vieni a parlarne con me, e io ti
terrò stretta finché quel momento non
sarà passato. Almeno questo me lo puoi promettere?»
Vera prese un respiro tremante, ma non distolse
gli occhi da quelli di lui. «Sì, questo te lo
posso promettere».
Vittorio lasciò andare un vistoso
sospiro di sollievo; poi si mise a ridere, le prese il volto tra le
mani e iniziò a costellarlo di baci.
«Dio, Vera, grazie, grazie,
grazie...» esclamò tra un bacio e l'altro.
Vera sorrise suo malgrado prima di mettergli una
mano sulla faccia per spingerlo via.
«E smettila!»
ridacchiò. Dopo un momento tornò seria.
«Senti, Valenti, possiamo... possiamo tenere per noi quello
che è successo poco fa?» chiese, desolata.
Lui gettò indietro la testa e
inspirò lentamente, accecato dalle gocce di pioggia che gli
martellavano gli occhi.
«Non lo so» rispose piano.
«Una parte di me sa che dovrei dirlo almeno ai tuoi genitori,
per la tua sicurezza, ma...». Deglutì, un po' a
fatica; Vera vide il suo pomo d'Adamo, appena accennato, tremare.
«Mi hai appena fatto una promessa»
proseguì. «Se dicessi a qualcuno quello che
è successo stasera significherebbe che non mi fido di te,
che non credo che terrai fede alla tua parola, ma io ci
credo». Chiuse gli occhi. «Spero solo di non
pentirmene».
Vera scosse la testa quasi tra sé.
«Non te ne pentirai» mormorò.
Vittorio si avvicinò al parapetto,
senza mai staccare gli occhi dalla ragazza, e prese la borsa che Vera
aveva abbandonato sul selciato; poi tornò indietro, le
passò un braccio intorno alla vita e si avviò con
lei verso l'estremità del ponte da cui era arrivato.
«Vieni: sei fradicia, voglio portarti a
casa prima che ti venga una polmonite» la esortò.
Un po' spingendola, un po' trascinandola, il
carabiniere riuscì a farla arrivare al parcheggio: la
sentiva tremare contro il suo fianco, e si affrettò a
portarla alla propria auto.
«Ho la mia macchina» disse
fiaccamente Vera quando lui tentò di farla entrare nell'Alfa.
«Te la riporto io domani mattina, quando
stacco dal turno» rispose deciso Vittorio. Le spinse sul
sedile del passeggero e le mise la borsa tra le braccia.
«Anzi, dammi le chiavi, va'».
Appena Vittorio si mise alla guida, la ragazza gli
porse le chiavi della Up! con un gesto rassegnato e si
lasciò andare contro il sedile; il viaggio trascorse in
silenzio, e quando arrivarono davanti casa Nicolini, il carabiniere si
voltò a guardare Vera.
«Tieni sempre il telefono con
te» le disse calmo.
«Perché, Valenti? Vuoi
assicurarti che non mi anneghi nel lavandino durante la
notte?» chiese Vera; nella sua voce non c'era alcun ardore.
«Sì» rispose
Vittorio. «A meno che tu non voglia che io faccia una
chiacchierata con tuo padre...»
«Ricattatore»
bofonchiò la donna. Fece per scendere dall'auto, ma Vittorio
le afferrò il polso con un gesto fulmineo e la trattenne.
«Per favore»
insisté.
Lei abbassò lo sguardo. «Va
bene».
Vittorio la lasciò andare; Vera
entrò in casa e salì cautamente le scale, attenta
a non far rumore per non svegliare i suoi genitori. Quando
entrò nella sua stanza, si affacciò alla finestra
e fece un cenno con la mano; solo allora l'Alfa ripartì.
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Capitolo 15 *** Capitolo XIV ***
Il temporale della notte
precedente aveva lasciato il passo a un mattino luminoso, spazzato da
un venticello freddo che aveva reso l'aria ancora più
limpida.
Seduta sul divano, Vera leggeva un libro mentre
ascoltava la radio, sbadigliando a intervalli regolari; il professor
Maesani si era dimostrato incredibilmente comprensivo, quando poco
prima l'aveva chiamato, ed era stato felice di lasciarle la mattinata
libera. Vera gliene era grata: era così stanca che non
riusciva a concentrarsi, e anche se fosse andata al lavoro, di sicuro
avrebbe combinato poco o nulla.
Mancava poco alle nove quando suonò il
citofono; la ragazza si alzò e, senza neanche controllare
chi fosse, aprì il cancello e poi la porta d'ingresso. Un
minuto più tardi entrò Vittorio, anche lui
sbadigliando.
«Sono a pezzi»
annunciò il carabiniere; sollevò le braccia sopra
la testa e si stiracchiò con un gemito soddisfatto prima di
seguire la ragazza in cucina.
«Hai fame?» chiese Vera,
facendogli cenno di sedersi. «Ho cucinato un po' di
roba».
Vittorio batté le palpebre
più volte: Vera stava mettendo sul tavolo due torte, una
crostata e due barattoli pieni di biscotti.
«Un po'?» ripeté
l'uomo. « Un
po'?»
«Be', sei stato tu a tenermi sveglia
tutta la notte con chiamate e messaggi: in qualche modo dovevo passare
il tempo» si difese lei.
Vittorio scrollò le spalle, per nulla
dispiaciuto.
«Buon per me»
commentò. «Passa quella crostata, va'».
Vera si affaccendò in cucina per
permettergli di fare colazione in pace, scoccandogli di quando in
quando uno sguardo: il carabiniere era pallido, due pesanti occhiaie
violacee gli adornavano il volto e in generale tutto il suo aspetto
appariva un po' stropicciato. La ragazza sapeva di non essere in
condizioni migliori.
Quando Vittorio smise di mangiare e le
puntò addosso uno sguardo penetrante, Vera capì
all'istante che non avrebbe potuto evitare ancora a lungo le sue
domande.
«Dobbiamo parlare»
esordì l'uomo.
Vera sospirò. «Sì,
ma non qui: andiamo di là».
La ragazza fece strada fino al salotto e sedette
sulla chaise longue, le gambe distese di fronte a sé.
Vittorio rimase in piedi vicino al divano, chiaramente a disagio.
«Siamo tutti e due stanchi morti: meglio
qui che sulle sedie in cucina» spiegò Vera.
Batté la mano sul posto accanto al suo. «Mettiti
comodo» lo invitò.
L'uomo la prese in parola: si buttò di
schiena sui cuscini della seduta, lasciando solo i piedi a penzolare di
fuori, e appoggiò la testa sulla gamba sana di Vera,
usandola a mo' di guanciale. Vittorio chiuse gli occhi e
mugugnò contento.
Vera scosse la testa, incredula e divertita allo
stesso tempo.
«Sai, Valenti, visto che mio padre, mia
madre e Hermes li conosci già, penso che coglierò
l'occasione di presentarti il resto della tribù»
annunciò. Affondò la mano tra i cuscini e
ripescò un sacchettino di plastica che scosse con vigore.
«Efesto! Vieni qui, piccolino!»
Mezzo minuto più tardi un gatto
varcò la soglia, miagolando sonoramente, e apparve davanti
al divano: nonostante si muovesse senza appoggiare una delle zampe
anteriori, Vittorio notò sorpreso che correva con notevole
velocità.
Vera sorrise al felino e prese uno snack dalla
busta. «Sali, Efesto, dai».
Il micio non si fece pregare: miagolò
in risposta, saltò sulla chaise longue e prese lo snack
dalla mano della padrona, divorandolo in pochi istanti.
Vittorio agitò le dita in direzione del
gatto. «Vieni qui, piccoletto».
Senza alcun timore, Efesto zampettò da
Vittorio; gli annusò la mano e, apparentemente soddisfatto,
si infilò nello spazio esiguo tra il corpo dell'uomo e lo
schienale del divano. Il carabiniere accarezzò il manto
grigio chiaro del gatto, seguendo le striature con la punta delle dita,
ed Efesto chiuse gli occhioni verdi mentre iniziava a fare le fusa.
Vittorio sbuffò divertito.
«Non perde tempo, il piccoletto».
«È socievole, lui»
commentò Vera. «L'esatto opposto della regina
della casa». Agitò il sacchetto con tanta forza da
farlo quasi volare attraverso la stanza. « Afrodite! Vieni a
prendere la pappa!» urlò con quanto fiato aveva in
gola.
Che fosse stato il richiamo di Vera o il rumore
della busta era impossibile dirlo, ma quasi all'istante una gatta
bianca e nera apparve nel salotto, galoppando come un cavallo selvaggio
nella prateria: l'irruenza del felino era tale che i suoi passi erano
chiaramente udibili nonostante la radio accesa.
L'ex ginnasta sventolò uno snack in
direzione della gatta e batté la mano sullo schienale del
divano. «Piantala di fare la preziosa e muoviti».
A differenza di quanto aveva fatto Efesto,
Afrodite non emise un solo suono: balzò sul punto in cui si
era posata la mano di Vera e accettò lo spuntino che le
veniva offerto, frustando i cuscini con la coda. Dopo essersi leccata i
baffi, rivolse uno sguardo indifferente a Vittorio e si
sdraiò con la pancia sul cuscino, lasciando penzolare le
zampe ai lati dello schienale.
Il carabiniere mosse una mano per accarezzare
Afrodite; la gatta sbatté la coda con violenza e gli
puntò addosso gli occhi gialli, e Vittorio avrebbe potuto
giurare di averci visto dentro un avvertimento tutt'altro che
amichevole.
«Io non lo farei» gli
consigliò Vera, nascondendo di nuovo la bustina tra i
cuscini del divano. «A lei non piace essere
toccata».
«È bellissima»
disse sincero Vittorio. «Anche Efesto lo è, ma lei
ha qualcosa...»
«... di regale?» concluse Vera
al posto suo. «Sì, lo so. Di regale ha anche la
spocchia, però: ci guarda come se fossimo tutti suoi servi e
stare al suo cospetto sia un onore troppo grande».
«Mi ricorda qualcuno»
sogghignò Vittorio.
La ragazza alzò una mano con cautela;
passò un paio di volte la punta dell'indice sulla corta
peluria che copriva il ponte del naso di Afrodite, che chiuse gli
occhi, poi le accarezzò la testa tre o quattro volte col
dorso delle dita, stando attenta a non toccarle le orecchie, prima di
ritrarre la mano.
«Attento, Valenti: potrei sempre
aizzartela contro» minacciò infine.
«E ti darebbe ascolto?» chiese
l'uomo, scettico.
Vera ci rifletté con attenzione per
qualche momento. «Probabilmente no» ammise.
Vittorio sorrise; accarezzò di nuovo
Efesto, poi tornò serio.
«Voglio parlare con te, Vera»
disse piano.
Lei spinse fuori un breve sospiro. «Di
quello che è successo ieri sera, vero?»
«No» rispose Vittorio. Vera,
più sorpresa che mai, sobbalzò e lo
fissò incredula, e lui chiuse gli occhi una seconda volta.
«O meglio, non proprio». Si accarezzò il
mento, coperto da un velo di barba; Efesto gli punzecchiò il
petto con la zampa e l'uomo lo accontentò, riportando la
mano sulla sua testa. «Anche se ho passato vent'anni a Milano
io sono nato e cresciuto qui a Roma, ormai lo sai»
esordì, cambiando completamente discorso. «Facevo
la vita di qualsiasi altro ragazzino: andavo a scuola, giocavo a
calcetto all'oratorio della parrocchia, aiutavo mia madre con le
faccende di casa». Sorrise appena, gli occhi chiusi.
«I miei genitori lavoravano entrambi: mio padre come vigile
urbano e mia madre in una scuola elementare, in amministrazione, e mi
è stato insegnato fin da piccolo che in casa bisogna
dividersi i compiti e collaborare. Certo, più crescevo
più erano le occasioni in cui mi scocciava fare la mia parte
e a volte, quando mia madre non c'era, mio padre mi lasciava uscire e
faceva anche quello che sarebbe toccato a me: è sempre stato
lui a coprirmi quando combinavo qualche guaio, a comprarmi il motorino
quando mia madre non voleva, a insegnarmi come comportarmi con le
ragazze...». Sorrise di nuovo. «Mia mamma, lei era
– è – una generalessa: comanda tutti a
bacchetta, a volte senza che neanche tu possa accorgerti che ti sta
facendo fare esattamente
quello che vuole. L'unico che non riusciva a comandare era
papà: quando discutevano era come... come guardare una palla
d'acciaio che colpisce un muro di gomma: lei furiosa e lui impassibile.
In questo, penso di aver preso da mamma». A quelle parole,
sia Vittorio che Vera ridacchiarono. «Quando sono cresciuto
un po', i fine settimana estivi sono diventati la pace.
Letteralmente. Mia madre prendeva mia sorella, che ha cinque anni meno
di me, e la portava a Santa Severa dalla zia; io e mio padre, invece,
ce ne restavamo a Roma, per conto nostro, e mettevamo tutto in ordine
solo un'ora prima che tornassero, la domenica sera. Erano belle
giornate: parlavamo tanto, di tutte quelle cose di cui non potevamo o
volevamo discutere davanti a mia madre. E poi sono cresciuto ancora:
un'estate ho iniziato a uscire di sera con gli amici, ad avere una
fidanzatina, e papà mi permetteva di tornare più
tardi del solito. Mi guardava, ammiccava e diceva: “ Quando la generalessa non
c'è, i detenuti ballano!”. Ma io
ero... ero stupido, no, come lo sono spesso i ragazzi a diciassette
anni. A volte non mi bastava neanche così, e c'erano
occasioni in cui non rispettavo il coprifuoco: rientravo una, anche due
ore più tardi del previsto, senza avvisare,
perché non pensavo al fatto che... che mio padre si sarebbe
potuto preoccupare. E infatti si preoccupava; mi aspettava in piedi, e
quando finalmente tornavo a casa, mi mollava anche un paio di
ceffoni». La sua bocca si torse nell'amara parodia di un
sorriso. «Ma continuavo a farlo: non importava che mia madre
mi chiedesse di tenere d'occhio mio padre perché era stato
poco bene, non importava che lui fosse già tanto permissivo
di suo – ero un ragazzino egoista, ed ero arrivato in quella
fase della vita che alcuni sperimentano: pensavo solo a quello che
volevo io, e tutto il resto non aveva importanza».
S'interruppe e deglutì vistosamente. «E
così arrivò un sabato sera di metà
luglio, caldissimo, afoso da morire: io e i miei amici eravamo riuniti
nel rustico della casa di uno della comitiva, a bere birra ghiacciata e
dire scemenze, e io non avevo voglia di tornare a casa. Non ce l'avevo.
Così, anche se sarei dovuto rientrare all'una, sono rimasto
fuori fino alle tre passate: ho aperto la porta di casa, sicuro che mio
padre mi avrebbe riempito di schiaffi appena avessi varcato la soglia
per aver fatto così tardi e aver bevuto tanto e poi guidato
il motorino fino a lì, ma lui... lui non c'era, ed era
strano, perché le luci erano accese e la televisione anche.
Sono... sono andato in cucina e mio padre era lì... sul...
sul pavimento, e io sono corso da lui ma non si muoveva, non respirava,
non...». S'interruppe e prese un respiro spezzato; una
lacrima gli scivolò verso la tempia e se
l'asciugò con un gesto brusco. «Aveva avuto un
infarto. Aveva avuto un infarto e io non c'ero: ero fuori, troppo
impegnato a fare il deficiente, a bere troppo, a perdere tempo in modo
stupido. Con l'autopsia hanno stabilito che si era trattato di un
infarto fulminante: mi hanno detto tutti che anche se fossi stato a
casa quando era successo non avrei potuto fare niente, quasi di sicuro
sarebbe morto ugualmente, ma io mi odiavo comunque: ero disgustato da
me stesso, e mi sono sentito in colpa per parecchi anni. Mi ritenevo
responsabile per quello che era successo, e... e neanche mia madre
è mai riuscita a convincermi che non fosse così:
sono dovuto arrivare a trentaquattro anni per smettere di pensare che
mio padre sia morto a causa mia». Rise amaro. «Ho
smesso di odiarmi per la sua morte, soltanto per farlo per un altro
motivo. Perché se non fossi stato tanto egoista magari non
l'avrei salvato, ma almeno sarei stato con lui: invece, per colpa della
mia stupidità, mio padre non solo è morto, ma
è morto da
solo, e questo sì non me lo
perdonerò mai».
Vera gli asciugò una seconda lacrima
che era sfuggita ai suoi occhi, poi gli sfiorò le palpebre
con i polpastrelli: Vittorio le schiuse, e vide che la ragazza lo stava
fissando con aria comprensiva.
«Perché mi stai raccontando
tutto questo?» mormorò Vera.
Vittorio prese un altro respiro profondo e
puntò lo sguardo verso il soffitto. «Per farti
capire che quello che hai detto ieri sera non è vero: io so che significa,
perdere una persona amata e sentirsi in colpa per questo, e so che
significa essere schiacciati da quel senso di colpa al punto da cercare
l'autodistruzione. Tu hai provato a suicidarti; io ho iniziato a
scatenare una rissa dopo l'altra per buttarmici dentro a testa bassa,
per pestare a sangue gli altri ed essere massacrato con altrettanta
violenza. Alla fine, è stato diventare un carabiniere che mi
ha salvato: ho scelto l'Arma quando sono stato costretto a fare l'anno
di leva obbligatoria e ho capito che non c'ero stato per mio padre
quando ne aveva avuto più bisogno, ma che ci sarei potuto
essere per altre persone; è stato il mio modo di espiare la
colpa che mi soffocava, e lentamente si è trasformato
nell'unica cosa in grado di rendermi felice e fiero di me
stesso».
La ragazza gli picchiettò un dito in
mezzo alla fronte.
«Pensi che diventare un carabiniere
guarirebbe anche me?» chiese con leggerezza forzata.
Vittorio tornò a fissarla.
«Penso che anche tu possa trovare
qualcosa che non ti faccia più sentire in colpa di essere
viva» replicò serio.
Vera si lasciò andare contro lo
schienale del divano.
«Come un salvagente?» chiese
piano.
«Come un salvagente». Vittorio
chiuse di nuovo gli occhi, di colpo esausto; si girò su un
fianco e si accoccolò meglio contro la gamba di lei, una
mano appoggiata sulla schiena di Efesto. «Se vuoi, posso
essere io il tuo salvagente. Finché non trovi qualcosa che
ti renda di nuovo felice» mugugnò, già
mezzo addormentato.
Vera gli accarezzò la fronte.
«Sarebbe carino» mormorò.
Vittorio non rispose: il suo respiro era lento e
profondo, chiaro segno che stava scivolando nel sonno. Vera chiuse gli
occhi a sua volta, e nonostante la schiena le facesse male e le sue
gambe fossero intorpidite, anche lei in breve tempo si
addormentò.
******
Quella parentesi di tranquillità non durò a
lungo: a mezzogiorno e tre minuti, infatti, Vittorio
spalancò gli occhi, perfettamente sveglio.
Il carabiniere si stiracchiò,
rischiando di schiacciare Efesto. Il gatto tigrato miagolò
intontito e gli rivolse un'occhiata in parte confusa e in parte offesa,
e Vittorio gli concesse una veloce grattatina sulla collottola per
farsi perdonare; Afrodite, invece, socchiuse un solo occhio,
scoccò ai due uno sguardo indifferente e tornò a
dormire. Per un momento, Vittorio invidiò la totale
noncuranza del felino placidamente spalmato sullo schienale del divano;
poi si mise a sedere con cautela e si girò a guardare Vera.
Nel sonno, la ragazza si era inclinata su un
fianco, fino ad accoccolarsi contro il bracciolo della chaise longue:
la sua testa penzolava di lato, e quando si fosse svegliata, di sicuro
sarebbe stata parecchio dolorante. A colpire di più
Vittorio, però, fu l'espressione di Vera: persino mentre
dormiva, il suo volto restava serio, quasi contratto in una smorfia
aspra. Era triste – almeno ai suoi occhi – come
neanche nell'incoscienza, Vera riuscisse a essere del tutto serena.
Vittorio si sporse e le posò una mano
sulla spalla.
«Ehi, è ora di
svegliarsi» mormorò, scuotendola leggermente. Vera
si rannicchiò di più contro i cuscini e l'uomo
alzò gli occhi al cielo. «Avanti, Gamba Bionica,
svegliati».
«La smetterai mai con questo
dannato soprannome?» grugnì lei, rassegnandosi
all'inevitabile e aprendo gli occhi.
«Visto che funziona... no»
ribatté Vittorio. «Allora, sei tornata nel mondo
reale?»
«Sfortunatamente,
sì» mugugnò Vera. «Si
può sapere perché non mi hai lasciata
dormire?»
«Perché io e te abbiamo una
cosa da fare» rispose il carabiniere. Vera
impallidì.
«Oddio, e adesso che ti sei messo in
testa?» gemette, sconfortata. Vittorio le lanciò
un'occhiataccia, ma lei finse di non accorgersene. «Allora?
Non tenermi sulle spine! Lo sai come si dice, no? Via il dente, via il
dolore!»
«Bene». L'uomo la
guardò, un po' torvo. «Devi chiamare il tuo
psicologo e dirgli che deve vederti subito».
Vera gli rivolse uno sguardo incendiario.
«E se non volessi?»
Vittorio non perse un istante. «Non hai
voce in capitolo» replicò duro.
«Credi?» sibilò la
ragazza. «Perché, per quanto ne so, non mi puoi
costringere».
«Io forse no, ma qualcun altro
sì» ribatté mordace Vittorio.
«Sono serio: se non chiami il tuo psicologo in questo istante,
dirò ai tuoi genitori cos'è successo ieri sera.
Scommetto che loro
hanno il potere di costringerti e lo useranno».
Vera boccheggiò. «Avevi
promesso che non lo avresti detto a nessuno!» esplose,
tradita.
«E infatti non voglio farlo»
disse Vittorio. «Ma non posso neanche permetterti di tenerti
dentro quello che ieri sera ti ha fatta di nuovo arrivare al limite. Non posso, Vera,
riesci a capirlo?»
La ragazza appoggiò i gomiti sulle
ginocchia e si prese la testa tra le mani.
«Mi vergogno di essermi spinta tanto
oltre» confessò con voce bassissima.
«Dopo tutto quello che è successo, dopo aver
varcato quel limite già una volta ed essere viva solo per un
caso fortuito, dopo tutto il lavoro fatto per non ripetere
quell'errore, io... io l'ho fatto lo stesso».
Sospirò. «Ho fallito, Valenti. Mi sento una
maledetta fallita».
Il carabiniere di spostò più
vicino a lei. «Non sei una fallita: sei una persona che nella
vita ha alti e bassi come tutti... solo un po' più...
accentuati, diciamo».
Vera sbuffò.
«Accentuati...» ripeté.
«Questo è l'eufemismo dell'anno».
«Sì, forse non è
il termine adatto» ammise l'uomo. «Questo
però non cambia la sostanza di quello che ho detto. Avere
dei momenti di debolezza non significa fallire: soltanto essere
umani». Le mise una mano sul ginocchio destro.
«Vera, ci devi andare, dal tuo psicologo. Questa è
esattamente una di quelle situazioni in cui è giusto e
sacrosanto ricevere l'aiuto di uno specialista». Le sue
spalle si afflosciarono. «Non è diverso
dell'andare da... da un gastroenterologo, o da un fisioterapista, o da
un qualsiasi altro medico. È la stessa cosa».
«No che non lo è»
replicò secca la ragazza. «Non agli occhi di molta
gente, comunque».
«Questo non toglie che devi
andarci» sottolineò Vittorio.
Vera si strofinò gli occhi.
«Mi scoccia: andare dal dottor Sanesi significa parlare dei
miei errori, ed è una cosa che non sopporto».
«Commettere errori, o ammettere ad alta
voce di averlo fatto?»
«Entrambi».
Vittorio sbuffò incredulo.
«Tutti sbagliamo, e di continuo: mi sa che ti conviene
fartene una ragione, Gamba Bionica». Le diede una pacca sul
ginocchio e si alzò. «Avanti, chiamalo».
Vera gli lanciò uno sguardo irritato,
di cui Vittorio non si curò; rassegnata, prese il cellulare,
selezionò il numero dello psicologo dalla rubrica e
avviò la chiamata.
«Gianpaolo? Sono Vera, Vera
Nicolini» disse la ragazza non appena Gianpaolo rispose.
«Lo so che sei pieno di appuntamenti ma... ma ho bisogno di
parlare con te». L'uomo replicò brevemente e Vera
si mordicchiò un'unghia. «Ne ho davvero bisogno:
è... è un'emergenza. Una vera»
pigolò. Rimase in ascolto per qualche momento.
«Sì, va bene. Sì, sì. A
dopo».
Vera chiuse la chiamata e guardò
Vittorio.
«Può vedermi all'una:
soddisfatto?» mugugnò.
«Sì». Il
carabiniere si frugò nelle tasche dei pantaloni e le
lanciò le chiavi della macchina. «Prendi la borsa
e andiamo».
******
La sala d'aspetto del dottor Gianpaolo Sanesi era piccola e
confortevole: un rettangolo di nove metri quadrati scarsi, con due
soffici divani posti uno di fronte all'altro, addossati alle pareti
adornate da un paio di quadri astratti, e tra loro una finestra da cui
la luce del sole entrava a fiotti.
In quel momento, Vera e Vittorio erano gli unici
occupanti della saletta: la prima era seduta il più vicino
possibile alla finestra e guardava ostinatamente oltre il vetro dal
momento in cui aveva messo piede lì dentro; il secondo, da
parte sua, si era limitato a studiare l'ambiente circostante per circa
trenta secondi e il resto del tempo l'aveva trascorso fissando l'ex
ginnasta.
Per il settimo minuto consecutivo, gli occhi di
Vittorio rimasero incollati alle gambe di Vera: erano accavallate, la
destra posata rigidamente sulla protesi, e il piede dondolava rapido e
nervoso ormai da un pezzo.
«Smettila».
Preso alla sprovvista, Vittorio
sobbalzò e scosse la testa prima di alzare lo sguardo sul
volto della ragazza: lo stava fissando con espressione imperscrutabile,
e soltanto una piccola ruga tra le sopracciglia lasciava intuire la sua
irritazione.
«Devo smettere... cosa?»
chiese perplesso il carabiniere.
«Di guardarmi le gambe: mi dà
fastidio» spiegò secca Vera. Rimise a terra il
piede destro e si massaggiò il moncone, una smorfia di
dolore sul volto. «Stupida protesi»
ringhiò.
Vittorio osservò guardingo Vera;
ripensò all'ultima volta che le aveva chiesto se stesse
bene, e si chiese se fosse saggio azzardare di nuovo una simile
domanda, proprio lì, proprio in quel momento.
«Ti fa male?»
domandò a bruciapelo. «E non mi mordere»
aggiunse rapido prima che Vera potesse esplodere un'altra volta.
Lei gli scoccò un'occhiataccia, ma si
morse la lingua e contò fino a dieci per evitare di essere
sgarbata. «Sì che mi fa male: sono stata in piedi
troppo a lungo, non ho fatto riposare la gamba, non ho mai tolto la
protesi... tutto quello che non
dovevo fare». Si diede un pugno sulla coscia, come se quel
gesto potesse far cessare il dolore invece di peggiorarlo. « Odio questi
momenti».
Il carabiniere incrociò le braccia al
petto. «A nessuno piace star male».
«Non è il dolore fisico:
quello ho imparato a sopportarlo» brontolò Vera.
«È che ogni volta che mi fa male questo inutile
pezzo di gamba, ricordo quanto sono rotta, e difettosa,
e limitata, anche nelle azioni più semplici».
«Serve a qualcosa dirti che non sei
così difettosa e limitata come credi?»
replicò Vittorio.
Vera tornò a guardare fuori dalla
finestra. «Non serve, Valenti, perché è
una bugia talmente evidente da essere ridicola».
Vittorio la fissò, senza sapere cosa
dire. Vera aveva ragione: affermare che non aveva dei grossi limiti era
una panzana così sfacciata da risultare offensiva. Quello
che avrebbe voluto dirle, e che non sapeva come esprimere, era che quei
limiti, sebbene fossero reali, erano molto meno importanti di quanto
potessero apparire: non diminuivano in alcun modo ciò che
era, ma al contrario, finivano per accentuare tutto di lei, tanto i
pregi quanto i difetti.
Prima che Vittorio potesse trovare un modo di
tradurre in parole quei pensieri, la porta dello studio dello psicologo
si spalancò e ne emerse il dottor Sanesi; Gianpaolo
lanciò loro un rapido sguardo, poi accompagnò
all'uscita il paziente con cui era stato occupato fino a quel
momento. Quando si richiuse il battente alle spalle, lo psicologo
scrutò la coppia nella sua sala d'attesa.
«Vera» esordì in
tono d'avvertimento, «credevo avessimo stabilito che lui»
proseguì, indicando Vittorio, «non rientra tra le
emergenze».
I due si alzarono quasi contemporaneamente, ma fu
Vittorio a prendere la parola.
«Non è per parlare di me, che
è qui» disse laconico il carabiniere. Prese Vera
per un braccio e la sospinse con gentilezza oltre Gianpaolo e dentro
l'altra stanza.
«Guardi che lei qui non ci
può stare» chiarì lo psicologo a
Vittorio, seguendoli all'istante.
«Me ne vado subito» lo
tranquillizzò l'altro. Indicò Vera. «O
almeno, non appena Vera le avrà detto perché ha
bisogno di vederla».
Gianpaolo gli lanciò uno sguardo
tutt'altro che felice, ma decise di concentrarsi sulla ragazza.
«Vera?»
Lei deglutì. «Allora, ieri...
ieri era l'anniversario dell'incidente».
«Sì, ne avevamo parlato
l'ultima volta» assentì Gianpaolo. «Qual
è il problema? Hai avuto delle difficoltà durante
la giornata?»
«Sì, è... io ho...
ho faticato un po' a... ad arrivare... a oggi»
farfugliò Vera con voce sottile.
Vittorio sbuffò. «Questo
è l'eufemismo del secolo» dichiarò,
tagliente. «Digli quello che hai fatto».
Gianpaolo scoccò un rapidissimo sguardo
al carabiniere prima di tornare a fissare Vera; la ragazza si torse le
mani ed evitò il suo sguardo.
«Ieri sera ho avuto un... un piccolo...
momento... di confusione» proseguì lei.
« Un
piccolo momento di confusione?» le fece eco
Vittorio, incredulo. Gianpaolo aprì la bocca per intimargli
di tacere, ma non ne ebbe il tempo. «Quello non è
stato un “momento di confusione”! Non è
stato normale!» tuonò. «Digli cos'hai
fatto!»
«Lo sto facendo!»
reagì la ragazza, furiosa.
«Non è vero!»
gridò Vittorio, arrabbiato quanto lei. «Ci stai
girando intorno, stai cercando di non dire chiaramente cos'è
successo per farlo sembrare meno grave!». I due si
scambiarono uno sguardo cattivo, entrambi ansanti. «Avanti!
Dillo! Se hai almeno un po' di coraggio, se hai almeno un po' di
decenza e di rispetto per chi ti sta intorno, se hai un minimo desiderio di
stare meglio quantomeno per loro, dillo!»
« Volevo
buttarmi giù da Ponte Milvio!»
esplose Vera.
La rabbia che riempiva l'aria sembrò
sgonfiarsi come un palloncino bucato; Vera si coprì la bocca
con una mano, scioccata dalla sua stessa ammissione, mentre le spalle
di Vittorio persero tutta la tensione che le aveva irrigidite fino a
quel momento e si afflosciarono. Gianpaolo guardò dall'uno
all'altra, spiazzato dalla breve, improvvisa lite a cui aveva appena
assistito e dalle parole di Vera.
«D'accordo: questa è
un'emergenza» commentò lentamente Gianpaolo,
spezzando infine il silenzio. «Vera, siediti: abbiamo molto
di cui discutere» disse in tono calmo e rassicurante.
«Lei adesso deve proprio uscire» aggiunse, rivolto
a Vittorio.
Il carabiniere annuì; raggiunse la
porta con un passo e la aprì prima di guardare Vera.
«Ti aspetto fuori»
mormorò.
Vera si lasciò cadere sul divanetto al
centro della stanza e chiuse gli occhi, esausta.
«Non ce n'è bisogno,
Valenti» sospirò.
«Quando hai finito mi devi accompagnare
al comando: sono senza macchina, ricordi?» replicò
leggero Vittorio.
L'ex ginnasta riaprì gli occhi e gli
scoccò uno sguardo affilato. «E non c'è
nessun altro che possa venire a prenderti, vero?»
Il carabiniere scrollò noncurante le
spalle. «Sicuramente c'è, ma preferisco farmi dare
un passaggio da te».
Vera sbuffò. «Solo
perché così mi puoi tenere d'occhio»
disse aspra.
«Anche» confermò
l'uomo, per nulla toccato dal suo malumore. Varcò la soglia
e si richiuse la porta alle spalle. «A dopo!»
urlò attraverso il battente.
La ragazza scosse la testa; quando si
fermò, Gianpaolo era seduto davanti a lei.
«Allora, Vera: parliamo un
po'» disse dolcemente.
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Capitolo 16 *** Capitolo XV ***
Dopo quella seduta dallo
psicologo non prevista, Vera aveva trascorso quattro giorni ad affinare
le proprie tecniche dilatorie: era riuscita con successo a evitare del
tutto Vittorio, a non parlare di nulla di diverso dal lavoro con
Giovanna e a sottrarsi alle domande esitanti di sua madre e di Giulia.
Quel martedì pomeriggio avrebbe dovuto
trascorrerlo rintanata da qualche parte, sola con un paio di libri come
stava diventando sua abitudine, ma la telefonata di Giovanna e il
conseguente ordine di raggiungerla in palestra era stato
così perentorio da non lasciarle scampo.
Per il momento in cui Vera mise piede oltre la
porta d'ingresso, trovò Giovanna di fronte al banco
dell'accettazione, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso
sul battente a vetri.
«Finalmente»
commentò spiccia la proprietaria della palestra.
«Andiamo nel mio ufficio».
La più giovane la seguì
verso un'estremità dell'ingresso e dentro la stanzetta
ingombra da cui Giovanna gestiva i propri affari; una volta dentro
lasciò cadere a terra la borsa e si appoggiò al
muro, mentre l'altra misurava il poco spazio a disposizione con passi
rapidi e nervosi.
«Non credere che io non sappia cosa sta
succedendo» esordì a sorpresa Giovanna,
bloccandosi per un istante. Senza attendere risposta, riprese a
muoversi. «Perché lo so, e ti dico subito che non
mi sta bene».
«Giovanna» esordì
Vera, guardinga, «di cosa stai...».
«Non fare la finta tonta con
me» la interruppe bruscamente l'altra. Le si
avvicinò. «Guardati: capelli spettinati»
prese a elencare, con un gesto verso la sua testa. «Vestiti
sgualciti» proseguì, afferrando un lembo della
maglietta piena di grinze che indossava Vera e agitandola con
disprezzo. «Smalto rovinato» aggiunse, indicando il
colore scheggiato sulle unghie della ragazza. «E non ti
alleni da una settimana. Anche l'ultima volta è stato
così» disse dura. «Ti eri lasciata
andare in questo stesso modo e tutti ti hanno permesso di farlo, ma se
credi che starò a guardarti mentre ricominci a crogiolarti
nell'autocommiserazione...»
« Crogiolarmi
nell'autocommiserazione?» ripeté
Vera, offesa. «Ero sopravvissuta per miracolo a un incidente
in cui era morta una delle mie migliori amiche e mi avevano appena
amputato una gamba! Non mi stavo crogiolando nell'autocommiserazione
– ero
sconvolta!»
«Il primo mese!»
abbaiò Giovanna in risposta. «Il secondo, magari
– ma poi hai lasciato l'ospedale, sei entrata nel centro di
riabilitazione per imparare a camminare con la protesi, e quando ne sei
uscita è stato ancora peggio! Invece di tornare alla
normalità ti sei buttata giù tanto da diventare
un relitto umano, ed è quello che stai cercando di fare
anche stavolta!»
«Perché non mi sono pettinata
e la mia maglietta è sgualcita?» chiese la
venticinquenne, incredula.
«Perché la prima cosa che fai
quando sei depressa è smettere di curare il tuo aspetto, poi
passi a trascurare il tuo corpo e infine la tua mente!»
urlò Giovanna. «Sveglia, Vera! Tutti stanno male,
tutti soffrono, ma se tutti ci comportassimo come fai tu, la specie
umana si sarebbe estinta secoli fa!»
«Quindi non sono autorizzata a
soffrire?» gridò Vera.
«Non sei autorizzata a fare solo
quello!» tuonò in risposta Giovanna.
Furiosa, Vera afferrò la borsa,
spalancò la porta e andò verso l'uscita.
«Vera! Dove vai?» le
strillò dietro la sua ex allenatrice. «Non ho
ancora finito!»
La venticinquenne girò su se stessa con
tanta foga da barcollare. «Be', io sì!»
Vera lasciò la palestra,
salì in auto e imboccò una strada a caso dopo
l'altra, senza badare a dove stesse andando; dopo aver messo svariati
chilometri tra sé e Giovanna, parcheggiò nel
primo posto libero che trovò e si afflosciò
contro il sedile.
La giovane donna si strofinò le mani
sulla testa e si sforzò di non pensare
all’incidente, a come avesse distrutto ogni cosa nel giro di
pochi secondi. Un momento prima rideva con Noemi ed era la persona
più felice del mondo; poi tutto era diventato dolore. Vera
ricordava ancora il risveglio in ospedale, quattro giorni dopo lo
schianto: aveva aperto gli occhi, sentendo ogni muscolo e ogni osso far
male come non avrebbe mai immaginato fosse possibile. Solo la gamba
sinistra sembrava illesa: fino a metà coscia provava un
dolore così lancinante da rivoltarle lo stomaco nonostante
la morfina, poi più niente.
Solo quando aveva allungato una mano verso
l’arto in questione, Vera aveva capito che in quella parte
del proprio corpo non provava dolore solo perché non
c’era più nulla che potesse farle male. Sotto
shock, aveva tastato forse dieci volte il punto vuoto in cui ci sarebbe
dovuta essere la sua gamba; poi era scoppiata a piangere come una
bambina, incredula e stordita, con la testa che le pulsava come se
fosse dovuta esplodere da un momento all’altro.
Quando poi aveva chiesto di Noemi e sua madre si
era sciolta in lacrime, Vera aveva capito subito che la sua amica aveva
perso ben più di una gamba. Era morta; e lei, confinata in
ospedale, non era neanche potuta andare al suo funerale.
Ben presto la stanza che avrebbe occupato per sei
settimane era stata presa d’assalto. Sua madre e suo padre
non l'avevano mai lasciata sola; Giulia, appena uscita
dall’ospedale, si era precipitata lì in lacrime
con la piccola Ludovica in braccio e Tiziano alle calcagna. Poi era
stata la volta dei parenti, degli amici, di Giovanna e di tutti i
ragazzi della palestra; persino alcuni dei suoi ex professori erano
andati a trovarla, offrendole il loro aiuto.
Ma Vera non voleva aiuto: voleva soltanto tornare
a prima dell’incidente per evitare che accadesse, per riavere
Noemi, la propria gamba e la vita così come
l’aveva vissuta fino ad allora. Quello, però,
nessuno poteva darglielo. Tutti i medici e gli infermieri del reparto
avevano provato a convincerla che la sua vita non sarebbe cambiata poi
molto, che avrebbe potuto avere ancora un’esistenza normale,
e che una volta messa la protesi sarebbe stata di nuovo come tutti gli
altri. Ma come poteva essere come tutti gli altri, se non
c’era più Noemi? Come avrebbe potuto continuare
con la ginnastica artistica, con una gamba artificiale?
Alla fine aveva finto di crederci solo per essere
lasciata in pace. Era tornata a casa, aggrappata alle stampelle; si era
intestardita a fare tutto da sola, a cominciare dal salire le scale,
perché almeno i suoi genitori smettessero di trattarla come
un’invalida, e alla fine la pietà negli occhi
delle persone a lei più vicine si era smorzata. Nonostante
questo, Vera era ben lontana dal sentirsi normale: anche a distanza di
un anno, ogni movimento, ogni piccolo passo, le ricordavano come quel
corpo di cui era sempre andata tanto fiera fosse ormai soltanto una
gabbia, un meccanismo rotto, impossibile da aggiustare.
Giovanna era stata la prima a tirare fuori Vera
dal guscio in cui si era chiusa. La sua ex allenatrice si era
presentata a casa sua quattro mesi dopo l’incidente ed era
andata a sedersi in cucina, annunciando che non se ne sarebbe andata
finché Vera non si fosse decisa a parlare con lei. E quando
Vera era emersa dalla sua stanza, Giovanna l’aveva squadrata
a lungo prima di rilevare tutto quello che non andava e sbatterglielo
in faccia senza alcun tatto. Quella ragazza sciatta, con i capelli
sporchi e i vestiti in disordine che non celavano i chili che stava
rapidamente accumulando, non era la Vera che conosceva lei; aver perso
la gamba era l’ultimo dei suoi problemi; e lei, che era
andata lì per offrirle un lavoro come sua assistente, come
avrebbe potuto assumerla, se continuava a essere così
trasandata?
Con parole al vetriolo Giovanna l’aveva
costretta a guardarsi con obbiettività; l’aveva
spronata a tornare in palestra, a rimettersi in forma, e le aveva dato
un modo per continuare ad avere la ginnastica artistica nella sua vita,
anche se non poteva più praticarla.
Vera ricordava ancora le parole con cui Giovanna
si era congedata da casa sua, quel giorno.
«Trattare
così il tuo corpo è un insulto a tutto quello che
avevi ottenuto» le aveva detto con durezza. «È stato
grazie agli allenamenti costanti negli anni, che sei sopravvissuta
all’incidente. Come puoi essere così
irriconoscente verso te stessa?»
Vera scosse la testa, tornando al presente. Quello
era esattamente ciò a cui non avrebbe voluto pensare, e
sapere che Giovanna aveva ragione – almeno in parte
– non placava la sensazione di essere stata tradita da quella
donna che era quasi una seconda madre. Le accuse della
cinquantacinquenne la facevano bruciare di rabbia: perché
non le era consentito avere dei momenti di debolezza? Perché
tutti sembravano aspettarsi che fosse in grado di gettarsi alle spalle
tutto quello che era successo? Lei non sapeva neanche se le sarebbe mai
stato possibile vivere godendo di nuovo di una pura, completa
serenità; perché
le persone che la circondavano non solo parevano convinte che fosse
possibile, ma addirittura si aspettavano che lei raggiungesse quel
risultato in breve tempo, senza difficoltà?
Loro
non lo sanno, pensò rabbiosamente Vera. Loro hanno perso Noemi; io ho
perso Noemi e me stessa.
Piena d'ira, la ragazza ripartì e
raggiunse il parco vicino casa; andò a sedere su una
panchina, al sole, tirò fuori un libro dalla borsa e si
immerse nella lettura per concentrarsi su qualcosa di innocuo per la
sua mente. E ci sarebbe riuscita, se Vittorio non le si fosse parato
davanti neanche mezz'ora dopo, le braccia incrociate sul petto e la
faccia aggrondata.
Vera chiuse il libro e lo sbatté sulla
panchina.
«No, Valenti»
esordì secca prima ancora che l'uomo riuscisse ad aprire
bocca. «Oggi non è proprio giornata: è
meglio se te ne vai».
«Oh, per te non è
giornata?» le fece eco il carabiniere, sarcastico.
«Peccato che non me ne importi nulla».
«Dovevo immaginarlo»
sibilò Vera. Rimise il libro nella borsa e si
alzò per andarsene, ma Vittorio si spostò per
bloccarle il passo. «Valenti, togliti».
«Non penso proprio». Vittorio
la scrutò torvo. «Mi stai evitando di
nuovo...»
«Forse perché non ho voglia
di starti a sentire?» lo interruppe Vera.
«Questo non mi ha mai fermato, e lo
sai» replicò lui.
La ragazza emise un ringhio ben udibile.
«Valenti, oggi ho già litigato con Giovanna: non
ho voglia di discutere anche con te».
«Non puoi evitarmi ogni volta che
c'è qualcosa che non vuoi sentirti dire!»
sbottò Vittorio. «Non è così
che funziona!»
«E com'è che funziona,
allora?» lo provocò Vera. «Tu devi
essere un esperto, visto che ci hai messo... quanto? Due anni, per
affrontare il fatto che il tuo matrimonio era morto e
sepolto?» aggiunse crudele.
Vittorio divenne livido di rabbia, ma si morse la
lingua e prese un gran respiro attraverso il naso prima di parlare
ancora: non voleva dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito.
«Il fatto che io abbia ignorato i miei
problemi non significa che debba farlo anche tu» rispose
infine con calma forzata.
«Non venire a farmi la
paternale» scattò Vera. «Non te lo puoi
permettere».
«Invece penso proprio di poterlo
fare» replicò l'uomo, mordendo ogni parola.
«Levati di mezzo, Valenti» gli
intimò la ragazza con pari ferocia.
«Tu mi starai a sentire adesso, fosse
l'ultima cosa che faccio!» dichiarò Vittorio.
«Perché non potete lasciarmi
tutti in pace?» gridò Vera.
«Perché tu non vuoi essere
lasciata in pace – tu vuoi poter raggiungere il fondo senza
interferenze!» urlò il carabiniere.
«E se anche fosse?»
strillò Vera con tutto il fiato che aveva.
Vittorio si passò le mani tra i
capelli. «Cristo, Vera, non lo vedi quanto sia sbagliato? Lo fai
ogni volta!» esplose. «Lotti come una tigre per
ogni sciocchezza, per ogni minima cosa, anche quelle insignificanti, ma
quando devi combattere per l'unica cosa davvero importante, ti arrendi!
Quando è il momento di tirare fuori le unghie e fare di
tutto per sopravvivere, ti lasci andare! Ti arrendi, sempre!
È l'unica cosa che sai fare!»
«Sta' zitto!» gridò
Vera. «Io non mi arrendo – sono stanca! Stanca di
dover nascondere o giustificare ogni momento in cui non sono felice,
stanca di ricordare quella notte! E tu non sei nessuno, nessuno, per
potermi parlare così, non sai niente di me, quindi non
parlare come se mi conoscessi!»
«Ma io ti conosco!»
tuonò Vittorio. «Che ti piaccia o no, io ti
conosco ormai, e tu conosci me: è questa la
realtà dei fatti, e negarlo non cambierà
niente!»
«Tu di me sai soltanto quello che hai
scoperto ficcando il naso in affari che non ti riguardano, e questo non
significa sapere chi io sia!» sputò la ragazza.
Vittorio le si avvicinò e
portò il naso a un centimetro da quello di lei: alla luce
del sole tutto il volto di Vera sembrava illuminarsi e riflettere i
raggi dorati come uno specchio, ma neanche quel fugace pensiero
smorzò la sua rabbia.
«Invece so bene chi sei, e sai come lo
so? Perché
ti ho vista al tuo peggio!» abbaiò il
carabiniere.
« Non
è sufficiente!» gli ritorse contro
Vera. «Io non sono solo quello che è successo
l'altra sera: c'è così tanto che non sai, e ti
comporti come se ciò che non hai ancora visto di me, non
esistesse! Non hai intravisto che qualche sprazzo della persona che
realmente sono, eppure continui a comportarti come se mi conoscessi da
tutta la vita e onestamente, sono stufa della tua presunzione e vorrei
tanto che tu mi lasciassi in pace!»
«Tu vuoi qualcuno che non ti
combatta!» la contraddisse l'uomo. «Vuoi qualcuno
che ti lasci affondare senza provare ad aiutarti!»
«Io voglio non dovermi vergognare dei
momenti in cui cedo!» ruggì Vera.
«Da quando ti conosco, sono sempre stato
il primo a dirti che non c'è niente di male nell'avere dei
momenti di debolezza!» le ricordò l'uomo. Scosse
la testa. «Ma che te lo dico a fare? Tanto parlare con te
è solo una perdita di tempo: non vuoi proprio capire. Eppure
ti ho vista al tuo peggio e sono ancora qui!»
« Vorrei
che non ci fossi!» esplose Vera: strinse i pugni
tanto da farsi sbiancare le nocche delle dita. «Non ti ho
chiesto di esserci, non ti ho mai chiesto di far parte della mia
vita!»
«Non so nemmeno perché
continuo a darti retta!» urlò Vittorio, alzando le
braccia al cielo. «Sei solo una ragazzina che passa
metà del suo tempo a piangersi addosso e odia gli altri
perché non stanno lì a darle pacche sulla spalla
e dirle: “ Brava,
continua pure così!”».
Vera gli diede una violenta spinta e l'uomo
barcollò indietro.
«Sei uno schifoso ipocrita»
sibilò la ragazza, gli occhi colmi di lacrime e lo sguardo
rabbioso. «Tu hai finto per anni di non vedere
come la tua vita privata stesse andando a rotoli e hai il coraggio di
giudicare gli altri? Io sono tutt'altro che perfetta; mi costa una
maledetta fatica provare a superare le mie difficoltà e lo
faccio con una lentezza estrema; spesso e volentieri mi fermo e devo
ricominciare tutto da capo, ma almeno io guardo in faccia
i miei problemi, invece di negarli! Sono talmente consapevole del peso
che mi porto dietro da permettergli di schiacciarmi: e non credo tu
sappia che sensazione sia, visto quanto sei bravo a ignorare i tuoi, di
problemi!». Lo guardò, ansante.
«Vattene, Valenti». Lo spinse di nuovo. « Vattene via!»
Vera si allontanò da lui di due passi,
ma Vittorio l'afferrò per un braccio e la trattenne: il suo
volto era rosso di rabbia, e sembrava furioso almeno quanto lei.
«Sei solo una bambina che non sa di che
parla» ringhiò a un centimetro dalla sua faccia.
Con uno strattone, Vera si divincolò e
lo schiaffeggiò con tanta forza da imprimergli sul viso
l'impronta della propria mano.
«Invece lo so bene, e me l'hai appena
confermato» sussurrò perfida.
«Lo sai che ti dico? Non voglio saperne
più niente di te!» urlò Vittorio con
voce intrisa di cattiveria. «Sei solo uno spreco di tempo e
fatica!»
«Ecco, bravo: vattene!»
replicò Vera. «Vattene con la tua ipocrisia, tu
che mi rinfacci sempre di scappare
quando c'è qualcosa che non voglio sentirmi dire»
lo schernì, facendogli il verso.
Vittorio la scrutò torvo, mentre una
vena gli pulsava frenetica sul collo; Vera ricambiò, lo
sguardo fisso e le labbra arricciate a scoprirle i denti. Dopo qualche
istante il carabiniere girò sui tacchi e si
allontanò deciso, e Vera si guardò intorno: ogni
singola persona presente stava fissando il punto in cui lei e Vittorio
avevano appena litigato.
«Be'? Che avete da guardare?»
berciò incattivita la ragazza. «Pensate agli
affari vostri!»
Tutti si affrettarono a distogliere lo sguardo, e
alcuni ritennero addirittura saggio mettere una maggiore distanza tra
sé e Vera. Lei si asciugò le guance bagnate
mentre nuove lacrime di rabbia minacciavano di sgorgare dai suoi occhi,
poi si premette una mano al centro del petto, come se quel gesto
potesse placare tutto quello che le si agitava dentro.
******
Quel mercoledì segnò una settimana precisa
dall'anniversario dell'incidente di cui erano state vittime Noemi e
Vera; e Luciano, che aveva notato con sollievo come Vittorio
– dopo avergli chiesto un cambio di turno per stare vicino a
Vera proprio in quella giornata così delicata –
avesse mantenuto la calma, fu costretto ad assistere al totale e
repentino cambiamento d'umore del quarantenne.
In realtà, il maresciallo aveva avuto
una giornata tutto sommato tranquilla: la maggior parte del proprio
tempo l'aveva trascorso barricato in ufficio, impegnato con un nutrito
numero di scartoffie, e non c'era stato nulla a turbarne la calma.
Ma quando, poco prima delle sei del pomeriggio,
Claudio Pastore si precipitò nel suo ufficio ancora in
divisa, con l'aria disperata e – fatto assolutamente insolito
– sull'orlo delle lacrime, Luciano capì che quella
pace insperata stava per finire.
«Maresciallo, deve fare
qualcosa» esclamò nervoso il trentaquattrenne: i
corti capelli biondo scuro gli stavano ritti sulla testa, chiaro segno
che doveva averci fatto scorrere le dita quasi senza sosta.
«Questa giornata è stata un incubo, e se
Vittorio non si calma, io non posso e non voglio
più lavorare con lui».
Luciano si coprì il volto con le mani:
evidentemente la sua buona stella si era eclissata.
«Perché? Cos'è
successo?» chiese.
« Cos'è
successo?» ripeté Claudio.
«Vittorio Valenti è una maledetta bomba a
orologeria, ecco cos'è successo!». Mosse qualche
passo per la stanza, irrequieto, agitando le braccia.
«È tutto il giorno che cerco di tenerlo
tranquillo: scatta per qualunque cosa – anzi, scatta anche
senza motivo! Oggi ha rischiato di azzuffarsi con qualsiasi persona
l'abbia anche solo guardato:
un paio di volte sono stato costretto a placcarlo per impedirgli di
fare a botte!»
Il maresciallo si strofinò gli occhi.
«Ho capito, Pastore. Adesso vai e mandamelo qui».
«Non serve» intervenne
l'interessato dalla porta: era appoggiato allo stipite e guardava torvo
Claudio, le braccia incrociate strette sul petto. «Sei corso
a piangere dal maresciallo appena hai messo piede qui dentro?
Prevedibile» disse cattivo.
Claudio andò alla porta per uscire, ma
quando fu accanto a Vittorio, gli scoccò uno sguardo
incendiario.
«Non so che problema tu abbia, Valenti,
ma ti conviene risolverlo e darti una calmata»
sibilò. «Oggi ti ho salvato il collo
perché sono tuo amico, ma se continui a fare lo stronzo, ti
lascerò impiccarti con le tue stesse mani, visto che ci
tieni tanto!»
Vittorio lo afferrò per il davanti
della divisa. «Chi ti ha chiesto niente?»
ruggì.
Luciano si alzò di scatto e diede un
pugno alla scrivania.
« Ora
basta!» tuonò. «Valenti,
lascia subito
il tuo collega o ti becchi una sanzione disciplinare!»
Il quarantenne lasciò Claudio e gli
rivolse un ultimo sguardo colmo di disprezzo; Claudio, da parte sua,
scosse la testa, incredulo e arrabbiato, e uscì dalla stanza
senza degnare l'amico di un saluto.
«Cristo, Vittorio, ma che problema
hai?» abbaiò Luciano non appena la porta fu
chiusa. «Stavi andando così
bene! Perché adesso hai ricominciato a comportarti da...
da... da pazzo?»
«Sono incazzato, va bene?»
sbraitò Vittorio. «Ieri ho litigato con quella
deficiente cocciuta: è riuscita a farmi imbestialire e non
l'ho ancora smaltita!»
Luciano si accigliò, disturbato tanto
dal tono quanto dalle parole dell'altro. «Quando dici
“deficiente cocciuta” per caso intendi
Vera?» chiese, gelido.
«Sì, intendo proprio
lei» ringhiò il quarantenne in risposta.
«A volte fa delle cose che mi fanno ammattire, e come se non
bastasse, non sta a sentire nessuno! Preferisce
autodistruggersi!» sbottò, alzando le braccia al
cielo.
«Tu dovresti saperne parecchio, al
riguardo». Vittorio gli scoccò un'occhiata
rancorosa, ma Luciano non batté ciglio. «Sul
serio, Vittò, tu sei stato la personificazione della
testardaggine e dell'autodistruzione per quasi vent'anni... quindi,
ecco, capisco che tu voglia aiutare Vera, ma non trovi che sia un po'
ipocrita, da parte tua, criticare qualcuno perché sta
commettendo gli stessi errori che a suo tempo hai commesso anche
tu?»
«Anche lei mi ha definito
ipocrita» commentò irritato l'altro. «Io
voglio solo che non si faccia del male!»
Il maresciallo affilò lo sguardo.
«Perché? È successo
qualcosa?» domandò in tono tagliente.
«No» negò
all'istante Vittorio. Luciano lo guardò, scettico, ma lui
non si scompose: poteva essersi scannato con Vera ed essere furioso con
lei, ma le aveva fatto una promessa, e non aveva intenzione di
infrangerla.
«Torniamo al nocciolo della
questione» disse lentamente Luciano. «Oggi sei
andato fuori di testa perché Vera non ti ascolta... o
perché avete litigato?»
Vittorio esitò. «Le ho detto
delle cose brutte» ammise. «Verso la fine. Penso
che se mai mi rivedrà, si fermerà soltanto per
sputarmi in faccia».
Luciano incrociò le braccia al petto e
inarcò le sopracciglia. «Sentiamo che
cos'è uscito da quella fogna che hai al posto della
bocca».
Il quarantenne lanciò al maresciallo
uno sguardo offeso, ma non ribatté. «Le ho detto
che avere a che fare con lei è solo uno spreco di tempo e
fatica».
«E non ti ha ammazzato?»
chiese serio Luciano.
Vittorio s'incupì. «A modo
suo, mi aveva già ammazzato» mugugnò.
Luciano lo guardò a lungo, in silenzio.
«Per come la vedo io,
Vittorio» esordì, «se ti dispiace di
averle detto quelle cose – se ti dispiace davvero –
la cosa migliore che puoi fare è andare a chiederle scusa il
prima possibile: secondo la mia esperienza personale, più
tempo fai passare prima di scusarti con una donna, più
lunga, lenta e dolorosa sarà la punizione che ti
riserverà». Inarcò di nuovo le
sopracciglia. «Hai già fatto passare ventiquattro
ore: se non vuoi che ti ammazzi davvero e faccia sparire il tuo
cadavere, ti conviene andarla a cercare, e di corsa».
Vittorio bofonchiò qualcosa di
incomprensibile, ma invece di contestare, incassò la testa
tra le spalle e uscì dall'ufficio, lasciando Luciano a
scuotere la testa tra sé.
******
Il giorno seguente alle liti con la sua ex allenatrice e Vittorio, Vera
si presentò in palestra in perfetto orario, con il mento
sollevato in un gesto orgoglioso e l'aria altera: si era lavata i
capelli, rifatta lo smalto, indossava un paio di pantaloni nuovi e una
camicia perfettamente stirata, e si era anche truccata un po'.
Giovanna osservò l'arrivo della
venticinquenne e sbuffò, le sopracciglia inarcate in
un'espressione sardonica: tutto in Vera – dalla punta dei
capelli a quella delle scarpe – era un enorme invito a
rimangiarsi quello che le aveva detto il pomeriggio precedente. Non che
fosse interessata a farlo: che fosse stato merito di ciò che
le aveva detto o del desiderio di Vera di smentirla, lei aveva
raggiunto il suo obiettivo, e non aveva nessuna intenzione di scusarsi
per questo.
Due ore più tardi, constatata la
perseveranza di Vera nell'ignorarla, la cinquantacinquenne decise di
interrompere quell'improvvisata guerra fredda e, al primo momento
libero, affiancò la più giovane, che stava
seguendo un ragazzo impegnato agli anelli.
«Vera» disse a mo' di saluto.
«Giovanna» rispose l'altra in
tono incolore, senza distogliere lo sguardo dal sedicenne che si
esercitava.
Giovanna attese per un paio di minuti che Vera
aggiungesse qualcosa, ma quando fu chiaro che la più giovane
non avrebbe parlato, lo fece lei.
«Bella camicia»
buttò lì in tono casuale.
Come prima, Vera neanche si voltò nella
sua direzione. «Grazie».
Fu a quel punto che la pazienza di Giovanna
– notoriamente scarsa – finì.
«Sei veramente cambiata tanto da portare
rancore per una piccola discussione?» chiese a bruciapelo.
«Simone, basta così: vai a
fare stretching e poi passa agli esercizi a corpo libero»
disse bruscamente Vera al ragazzo: Simone, che conosceva bene entrambe
le donne, fu lieto di allontanarsi dal punto in cui con ogni
probabilità, entro cinque minuti, sarebbe esplosa
l'equivalente di una bomba. Quando furono relativamente sole, Vera si
girò a guardare Giovanna.
«Allora, Giovanna, cercherò
di spiegarti il mio punto di vista, dato che nessuno sembra
interessarsene tanto da tentare di capirlo»
esordì con voce gelida, controllata. «Tutti quanti
sembrate pretendere
che io sia costantemente allegra, sorridente, accomodante, felice: esigete da
me una perfezione che non ho mai raggiunto prima dell'incidente,
figuriamoci adesso. Sono sempre stata perfida con chi ritengo mi stia
infastidendo, capace di infuriarmi in tre secondi se qualcuno mi tocca
un nervo scoperto, propensa a piangermi addosso nei momenti
più difficili e stressanti, e nessuno ha mai preteso che io non fossi anche
queste cose. Da quella maledetta notte di un anno fa, invece, sembra
che chiunque abbia a che fare con me ritenga sia un mio dovere non
provare nessun tipo di sentimento negativo, come se, in qualche modo,
qualcuno mi avesse tagliato via la capacità di provare cose
brutte insieme alla gamba. Be', non è così; non
è così, e se poteste smetterla di aspettarvi da
me qualcosa di impossibile,
ve ne sarei davvero grata!»
Giovanna la guardò in silenzio per un
po'.
«Con chi altro hai litigato?»
chiese infine.
L'altra la guardò, interdetta.
«Che cosa...»
«Hai detto più volte
“tutti quanti” e “nessuno”, nel
tuo discorso di poco fa. Non “tu”» la
interruppe Giovanna. «Quindi la mia domanda: con chi altro
hai litigato?»
Vera alzò lo sguardo al soffitto e ne
fissò i pannelli quadrati.
«Ho litigato con Valenti»
mugugnò un minuto dopo.
«Il carabiniere che è venuto
qui un paio di volte?» indagò la
cinquantacinquenne. Quando Vera fece un gesto
affermativo, inarcò le sopracciglia. «Be', non
è la prima volta che sei di malumore perché hai
discusso con quell'uomo» aggiunse provocatoria.
Vera si voltò di scatto a guardarla,
l'espressione incredula. «Io non... non ho mai...»
farfugliò indignata.
«Sì che tu... tu
hai...» la liquidò Giovanna agitando sbrigativa
una mano, riuscendo nell'ardua impresa di contraddirla, schernirla e
farle il verso in un'unica frase. «La domanda è:
stavolta hai almeno un buon motivo per essere arrabbiata con lui?
Perché l'ultima volta che lo sei stata in mia presenza, non
ce l'avevi».
«Tu sì che sai come tirare su
di morale le persone» commentò sarcastica Vera.
L'altra scrollò le spalle, noncurante.
«Non era mia intenzione farlo, quindi tutto a
posto».
Vera scosse la testa: a volte ancora non riusciva
a credere a quanto fosse rocciosa la personalità di
Giovanna. Si grattò la fronte, pensierosa. «Mi ha
detto delle cose non belle, ieri» disse lentamente.
«Ma anch'io l'ho fatto, quindi non sono sicura di cosa
provare. Una parte di me è ancora furiosa con lui; l'altra
si sente in colpa per essere stata volutamente crudele».
Sospirò. «Non ci capisco più
niente».
«In realtà, non
c'è molto da capire» considerò Giovanna
ad alta voce. «Si riduce tutto a una domanda: vuoi far pace
con lui?»
La ragazza affondò le mani nelle tasche
dei pantaloni e lasciò vagare lo sguardo su chi si allenava.
«Non so se sono pronta a
perdonarlo» ammise lentamente. «Ma forse glielo
devo».
Giovanna le batté una mano sulla
spalla. «Non è una decisione vera e propria, ma
sempre meglio di niente» dichiarò prima di tornare
al proprio lavoro; anche Vera tornò al suo e, anche se le
costò un po' di fatica, riuscì a concentrarsi di
nuovo sui ragazzi che stava allenando.
Le ore trascorsero più rapidamente di
quanto si sarebbe aspettata e presto arrivarono le sette; sollevata,
Vera salutò i presenti e recuperò le proprie cose
per andarsene. Quando uscì dalla palestra, fu sorpresa di
trovare qualcuno ad aspettarla.
Vittorio era appoggiato alla propria auto e
scoccava sguardi nervosi alla porta della palestra; intanto, strusciava
a terra gli anfibi e torturava il voluminoso mazzo di fiori che teneva
in mano. Quando la vide, si staccò dalla carrozzeria e la
raggiunse rapidamente, per non lasciarle il tempo di scappare.
«Ciao» disse Vittorio. La
ragazza batté le palpebre, confusa: non l'aveva mai visto
così teso, e il suo silenzio sembrò innervosirlo
ancora di più. Le tese i fiori con un gesto goffo.
«Sono per te».
Sempre senza parlare, Vera lo liberò
dell’ingombrante fardello: una dozzina di girasoli, di un bel
giallo vivace, la fissarono di rimando.
«Perché?» chiese
Vera.
«Per chiederti scusa» rispose
lui grattandosi il collo, a disagio.
Lei scosse la testa. «No, volevo dire:
perché i girasoli?»
Per un brevissimo istante, Vittorio sorrise.
«Mentre litigavamo, ieri, mi sono accorto che alla luce del
sole i tuoi occhi diventano dorati; e in quel momento, con la pupilla
scura al centro, mi hanno ricordato il colore dei girasoli»
ammise, in imbarazzo.
Vera distolse lo sguardo da lui per scrutare di
nuovo i fiori; poi, senza neanche rendersene conto, sorrise con pura,
inadulterata, totale felicità per la prima volta dopo un
anno. Quando tornò a guardarlo, Vittorio si rese conto che
anche alla luce del crepuscolo, gli occhi di lei brillavano come in
pieno sole.
«Grazie» mormorò
Vera.
Vittorio alzò una mano come per
toccarle il viso, ma si fermò a metà strada e
lasciò di nuovo cadere il braccio lungo il fianco, per poi
farlo oscillare rigidamente avanti e indietro. Senza sapere cosa dire,
prese a spostare ritmicamente il peso del proprio corpo dalle punte dei
piedi ai talloni e viceversa, senza mai smettere di osservare Vera; lei
preferì guardare il mazzo di fiori e accarezzò
con la punta dell'indice i petali di un girasole, tracciandone il
profilo.
«Perché sei così
nervoso, Valenti?» chiese piano. I suoi occhi rimasero
ostinatamente appuntati sui girasoli. «Non sono
più arrabbiata con te, sai. Non quanto ieri, insomma
– neanche lontanamente».
Il carabiniere ripiombò sulle piante
dei piedi e smise di ondeggiare.
«Io...». Vittorio si
passò le mani nei capelli e strofinò ancora i
piedi a terra, poi si fermò di colpo. «Va bene,
adesso basta» sbottò; prese il volto di Vera tra
le mani e lo avvicinò al proprio, guardandola fisso.
«Ma che...»
farfugliò lei, confusa.
«Tu mi piaci»
rivelò Vittorio, senza fiato. «Sei acida,
sarcastica, certi giorni sei intrattabile e a volte mi fai imbestialire
così tanto che mi strapperei i capelli – ma mi
piaci, Vera, e non riesco a smettere di pensarci».
Vera ricambiò lo sguardo dell'uomo per
alcuni istanti, in silenzio, perfettamente immobile, mentre il suo
cervello assimilava quelle parole; il mazzo di girasoli le
scivolò tra le dita e finì a terra con un tonfo
morbido.
D'istinto Vittorio abbassò lo sguardo
verso i fiori, ma prima che potesse dire qualcosa o anche solo capire
cosa stesse succedendo, Vera lo afferrò per la maglietta, lo
tirò verso di sé e schiacciò la
propria bocca su quella di lui.
Quel gesto folgorò Vittorio: per un
momento rimase congelato sul posto, spiazzato tanto dall'audacia di
Vera quanto dal fatto che lei avesse anticipato le sue stesse
intenzioni. Poi divenne pienamente consapevole della pressione delle
labbra di Vera sulle proprie; poteva percepirne la morbidezza e le
screpolature della pelle sottile, il calore, il loro movimento appena
accennato. Senza pensarci due volte, Vittorio infilò le dita
tra i capelli della donna e le prese il labbro inferiore tra i denti
per poi succhiarlo dolcemente.
Vera lasciò la maglietta di Vittorio
soltanto per circondargli il collo con le braccia; gli
affondò le unghie nella nuca mentre faceva scivolare la
propria lingua sulla sua in una carezza sensuale, che lui
ricambiò prontamente.
Quando si staccarono, parecchi minuti
più tardi, entrambi erano senza fiato e incapaci di
distogliere gli occhi da quelli dell'altro.
«Be'» esordì
incerta Vera, «è stato...».
«... incredibile» concluse
Vittorio.
La ragazza si chinò e prese il mazzo di
fiori abbandonato sull'asfalto; spazzolò ogni girasole con
delicatezza, quasi volesse scusarsi di averli gettati a terra. Vittorio
le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e le
accarezzò la guancia.
«Non ignorarmi»
mormorò.
Vera alzò lo sguardo su di lui.
«Non ti ignoro»
replicò, sorpresa. «Sono solo... non avevo deciso
di baciarti, è... è successo, e anche se sono
stata io a fare tutto, non me l'aspettavo».
La mano di Vittorio indugiò sul volto
di Vera. «Sei pentita?»
Senza esitare, Vera scosse la testa.
«Per niente».
E Vittorio le sorrise; le sorrise e, per la prima
volta da quando si erano incontrati, sul suo volto non c'era traccia
del suo carattere eccitabile. Le uniche emozioni presenti erano la
stessa calma e la stessa tenue felicità che anche Vera stava
provando, e quando salirono ognuno sulla propria auto, entrambi
sentirono che qualcosa era definitivamente cambiato.
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Capitolo 17 *** Capitolo XVI ***
Il giorno seguente Vera
non riusciva ancora a credere di aver davvero baciato Vittorio Valenti,
quarant'anni, carabiniere e provocatore extraordinaire:
più ripensava a come si era evoluta la loro conoscenza,
più la cosa le sembrava tanto improbabile da poter accadere
solo in un romanzo di fantascienza, e arrivata all'ora di pranzo era
quasi del tutto convinta che quel bacio, in realtà, non
fosse stato altro che un sogno bizzarro.
La presenza di Vittorio fuori dalle porte della
facoltà fece sfumare quella convinzione come nebbia al sole.
«Che ci fai qui?» gli chiese
Vera, sorpresa di vederlo.
L'uomo le rivolse un sorrisetto per nulla
rassicurante e si mise le mani in tasca.
«Ho pensato che potrebbe essere
interessante pomiciarti davanti al tuo capo»
annunciò.
Il volto di Vera divenne scarlatto.
«VALENTI!»
Vittorio alzò le mani in segno di resa.
«Stavo scherzando, Gamba Bionica: non c'è bisogno
di farsi sentire da tutto l'isolato».
La ragazza si coprì il viso con le
mani. «Cristo, Valenti, sarai la mia morte!»
«Credevo avessimo appurato che sono
colui che ti renderà la vita un inferno»
replicò divertito Vittorio.
Vera abbassò lentamente le braccia e
gli rivolse uno sguardo minaccioso.
«Valenti, te lo chiederò solo
un'altra volta» sibilò, irritata dallo sfacciato
buonumore di lui. «Che diamine ci fai qui?»
Vittorio si strinse nelle spalle.
«Attacco alle quattro e ho deciso che voglio passare un po'
di tempo con te». La prese sottobraccio. «Andiamo a
mettere qualcosa sotto i denti».
Incredula, la ragazza si lasciò
trascinare giù per la scalinata e lungo Viale Ippocrate,
fino a una delle tante pizzerie e paninoteche frequentate dagli
studenti; comprato qualcosa da mangiare – e persa l'ennesima
battaglia contro Vittorio, che non aveva nessuna intenzione di
lasciarle pagare la sua parte – Vera andò a sedere
su una delle panchine all'esterno, al sole.
«Lo sai, Valenti, che nella tua
galanteria sei un filino prepotente?» disse Vera non appena
il carabiniere la raggiunse.
«Lo dici solo perché non ci
sei abituata». Vittorio si lasciò cadere accanto a
lei sulla panchina e le cinse la vita con un braccio.
«Allora, ancora nessun ripensamento su quello che
è successo ieri?»
«Stranamente, no» rispose
Vera. «Anche se, con ogni probabilità, dipende
solo dal fatto che il mio cervello non ha ancora realizzato che sia
successo davvero».
L'uomo le diede un pizzicotto sul fianco.
«Perché devi sempre cercare di buttarmi
giù di morale?»
«Perché è
divertente la faccia che fai quando ci riesco?»
ribatté lei.
Vittorio diede un morso al panino e
contemporaneamente pizzicò di nuovo Vera. «Sei
perfida» dichiarò, la voce soffocata dal cibo.
Vera scelse di non rispondere; invece
seguì il suo esempio, scartò il panino e
iniziò a mangiarlo. Entrambi rimasero in silenzio per un
po', intenti a masticare un boccone dopo l'altro; quando ebbero
divorato anche l'ultima briciola, la ragazza aprì la lattina
di Coca-Cola che avevano comprato insieme ai panini e bevve un bel
sorso.
«Da' qua». Vittorio
cercò di sfilarle la lattina dalle mani, ma lo sguardo
strano che Vera gli riservò lo fece immobilizzare.
«Che c'è?»
«Vuoi attaccarti alla lattina da cui ho
appena bevuto?» chiese lei, come se non avesse mai sentito
una cosa simile.
Vittorio la guardò beffardo.
«Di che dovrei avere paura? Della tua
saliva?». Le rivolse un'occhiata eloquente. «Ce ne
siamo scambiata parecchia, ieri: abbiamo superato quella fase, Gamba
Bionica».
«Non smetterai mai di fare allusioni al
fatto che ci siamo baciati, non è
così?» mugugnò Vera, lasciando la presa
sulla lattina e guardando da un'altra parte.
Il carabiniere bevve fino all'ultimo sorso di
Coca-Cola e lanciò la lattina vuota nel cestino poco
distante. «Perché dovrei? Sono felice che sia
successo e non ho intenzione di ignorare la cosa». Strinse la
presa sul fianco di lei. «Credevo avessi detto che non hai
ripensamenti».
Vera alzò gli occhi al cielo.
«Non ce li ho, ma il modo in cui continui a ribadire che ci
siamo baciati mi mette un po' in imbarazzo»
bofonchiò.
Vittorio le scoccò un bacio sullo
zigomo. «Brontolona».
«Mi dispiace» disse la donna,
lo sguardo fisso di fronte a sé.
Improvvisamente serio, Vittorio la
scrutò guardingo. «Stavo scherzando,
Vera».
«Ma non rende meno vero ciò
che hai detto». Vera sospirò. «Ero molto
più di questo, sai» aggiunse. «Prima
dell'incidente ero molto più di questo».
Vittorio scivolò più vicino
a lei, fino a premere il proprio fianco e la gamba contro quelli di
Vera. «Sei abbastanza così come sei»
mormorò.
Vera scosse la testa. «No, non
è vero. Per te, che non mi hai conosciuta prima di quel
giorno, forse lo è, ma per me non può esserlo.
Non riesco a riconoscermi nella persona che sono diventata: mi sento
come se fossi sempre sul punto di frantumarmi in mille pezzi e non...
non ero mai stata così fragile».
L'uomo appoggiò la guancia sulla testa
di Vera. «È che sei cambiata in modo radicale
letteralmente dalla sera alla mattina» commentò.
«Non è stato graduale, non hai avuto il tempo di
abituarti all'idea – un giorno ti sei svegliata e quasi tutto
era differente. Anche se ti ho conosciuta parecchio tempo dopo
l'incidente, sono sicuro che non sei niente di meno di ciò
che eri prima: sei solo diversa».
La ragazza passò un braccio intorno
alle spalle di Vittorio. «Forse non sono niente di meno, ma
ci sono tanti nuovi aspetti di me che non mi piacciono».
Prese un breve respiro. «Continuo a vergognarmi di quello che
è successo la settimana scorsa» disse.
«Anche se Gianpaolo mi ha fatto capire che probabilmente non
volevo davvero suicidarmi, non posso fare a meno di considerarlo
comunque un passo indietro, un cedimento. Ci avevo lavorato tanto e
credevo che non avrei più pensato di farla finita, e
invece...». La sua voce sfumò e si spense.
«Ma lui pensa davvero che non volevi
suicidarti sul serio?» chiese piano Vittorio.
Vera annuì. «Ti avevo
sentito, sai» rivelò. «Quella sera,
mentre ero in piedi sul parapetto, ti ho sentito chiamarmi. Se avessi
voluto farlo, avrei avuto il tempo di buttarmi prima che tu arrivassi e
mi trascinassi via, ma non... non ci sono riuscita. Una parte di me
continuava a ripetermi che facendo solo un passetto in avanti sarebbe
finito tutto – i pensieri, gli incubi, i ricordi, il dolore
– ma un'altra parte mi tratteneva, mi buttava in faccia tutte
le persone e le cose buone che ancora sono presenti nella mia vita, e
non sono riuscita a fare quell'unico passetto in avanti».
Sospirò ancora. «La prima volta non è
stato così, la prima volta non c'era niente a trattenermi,
nessuna voce nella mia testa che mi dicesse che stavo commettendo un
errore, che c'era un'alternativa, che non era tutto nero come lo
vedevano i miei occhi».
Vittorio le accarezzò i capelli con la
mano libera.
«Sì... l'avevi detto, quella
mattina a casa tua, che la prima volta sei sopravvissuta solo per
caso» disse, esitante.
«Perché è
così». Vera tacque per qualche istante.
«Lo so che Giulia ti ha raccontato com'è successo
– che dopo il battesimo di Ludovica, una volta che i miei
genitori erano andati a dormire, mi sono chiusa in camera e ho mandato
giù tutto quello che sono riuscita a trovare nell'armadio
delle medicine. Quello che non ti ha detto è che non mi sono
salvata perché ho avuto dei ripensamenti e ho chiesto aiuto:
non ero pentita, per niente. Anzi: ero assolutamente convinta di aver
fatto la cosa giusta ed ero decisa ad aspettare di morire senza
muovermi, senza far capire a nessuno cosa stesse succedendo. Ero seduta
sul mio letto e aspettavo: nient'altro».
«Allora... allora come...».
Vittorio deglutì, incapace di formulare quella domanda.
Ma Vera non aveva bisogno che Vittorio aggiungesse
nulla.
«Mia madre» disse
semplicemente. «Aveva mangiato la panna della torta, quella
che si usa per le decorazioni, e lei quella panna lì non
è mai
riuscita a digerirla: le ha fatto venire l'acidità di
stomaco e non riusciva a dormire, quindi si è alzata ed
è andata all'armadio delle medicine per prendere qualcosa
che gliela facesse passare, ma l'ha trovato vuoto. L'ha trovato vuoto
e... e lei sa sempre a menadito cosa c'è lì
dentro, fino all'ultima compressa, quindi è venuta da me per
sapere che fine avessero fatto le medicine e ha trovato tutte le... le
confezioni vuote intorno a me, sul letto. Ha urlato...». La
sua voce tremò. «Non l'ho mai sentita urlare
così» sussurrò. «Ma io ero
già stordita da tutte quelle pasticche e lei ha capito, ha
capito cos'avevo fatto: mi ha buttata per terra, e mi ha ficcato due
dita in gola per farmi vomitare la roba che avevo preso, mentre urlava
a papà di chiamare l'ambulanza». Si
passò una mano sul volto nonostante fosse asciutto.
«L'ho odiata – Dio, l'ho odiata per settimane per
essere venuta in camera mia proprio in quel momento, per avermi fatta
vomitare, per avermi tenuta su questa Terra prendendomi per i
capelli». Tirò su col naso. «Certi
giorni ho creduto che non l'avrei mai perdonata».
«Stai dicendo che me la sono cavata a
buon mercato?» scherzò Vittorio.
Vera gli rifilò uno schiaffo sulla
parte posteriore della testa.
«Sto dicendo che stavolta, pur essendo
arrivata così vicina a suicidarmi, non volevo farlo davvero.
Non ce l’ho mai avuta con te per essere venuto a cercarmi e
avermi tirata via da lì, mentre ho odiato mia madre per
avermi impedito di buttare via quella stessa vita che mi ha donato con
tanti sacrifici». Arricciò la bocca,
l’espressione sardonica. «Già solo
questo dà l’idea di quanto, in realtà,
le due situazioni siano diverse. O almeno, Gianpaolo ha detto
così».
«E tu non sei
d’accordo?» indagò l’uomo.
«Da che ho iniziato le sedute con lui,
Gianpaolo è sempre riuscito prima di me a trovare il bandolo
di certe matasse di sentimenti che a volte mi si aggrovigliano
dentro» replicò Vera. «Non sono ancora
riuscita a capire se fa parte del suo lavoro o se sono io che rifiuto
di vedere quello che ho sotto il naso».
«Forse, qualche volta, fai solo fatica a
capire cosa provi e perché, ma capita a tutti».
Vittorio rise. «A me succede fin troppo spesso!»
«Perché tu sei un
uragano» lo stuzzicò la ragazza.
«Vero» convenne lui.
«Però alla fine ne vengo sempre a capo…
e anche tu, mi pare. Anche perché non credo che tu corra dal
tuo psicologo ogni volta che qualcosa non va, no?»
Vera sbuffò. «Se solo ci
provassi, mi ammazzerebbe». S’interruppe, pensosa.
«E poi, per le piccole cose quotidiane,
c’è Giulia». Sorrise. «Certi
giorni non so come farei, se non ci fosse lei ad ascoltarmi».
«Per me sta diventando lo stesso con
Claudio». Appena pronunciate quelle parole, Vittorio si
rabbuiò. «Dovrò chiedergli scusa,
più tardi: ieri l’ho trattato malissimo, e lui
stava solo cercando di aiutarmi» aggiunse, sinceramente
pentito.
Vera lo guardò di sottecchi, un
sopracciglio inarcato. «Che hai combinato? Hai provato a fare
a pugni con qualcuno mentre eri di turno?». Il carabiniere
distolse lo sguardo e Vera sgranò gli occhi, voltandosi
completamente verso di lui. «Dio santo, Vittorio!»
«Ero ancora arrabbiato con
te!» si difese Vittorio. «Il mio autocontrollo non
era al massimo».
«E ti sembra una buona
scusa?». La ragazza si schiaffò una mano sulla
fronte, incredula. «Sei incorreggibile».
«Ma ti piaccio
così» dichiarò Vittorio, deciso a
distogliere l’attenzione di Vera da quella notizia ed evitare
così quella che aveva tutta l’aria di stare per
diventare una ramanzina coi fiocchi.
«E ancora non capisco come sia
possibile» rispose lapidaria Vera.
«Magari perché con me stai
bene?» la stuzzicò l’uomo.
Di colpo l’espressione di Vera divenne
chiusa, cauta; la donna tornò a guardare
l’andirivieni delle automobili, in silenzio, senza
però allontanarsi da Vittorio.
«Parlami, Vera» la
esortò lui in tono pacato. «Non
smettere».
La ragazza prese un respiro profondo ed
espirò poco alla volta, persa nei propri pensieri.
«Certe sere – la maggior
parte, a essere onesti – mi metto a letto e, pur avendo
trascorso una giornata piena e tranquilla, non riesco a stare bene:
sento che mi manca qualcosa qui dentro» spiegò
premendosi il palmo della mano sul petto, in corrispondenza del cuore.
«Allora cerco di fare qualcosa di più –
dedicare maggiore attenzione al mio lavoro, ai ragazzi che alleno;
trascorrere più tempo con Giulia e Tiziano, giocare di
più con Ludovica, parlare di più con i miei
genitori… cerco con tutte le mie forze di sentirmi di nuovo intera, e certi
giorni quasi mi aggrappo
alle persone che amo, alle cose che mi fanno sentire utile. Mi ci
aggrappo con una disperazione che mi fa sentire ancora più
danneggiata, ma continuo a farlo comunque; lo faccio pur sapendo che in
fondo l’approccio è sbagliato e non
risolverà il mio problema, perché nonostante
tutto mi dà un po’ di sollievo e, anche se
è debole e temporaneo, è meglio di
niente».
«Eppure ci metti passione»
disse piano Vittorio. «Quando parli di quello che ti piace
– che sia il lavoro da traduttrice o quello in palestra, i
libri, i film, i tuoi animali o la tua famiglia – si vede
quanta cura e quanto amore dedichi a queste cose».
«Sono i motivi per cui resisto ai
momenti bui, alla fatica che certe mattine mi costa alzarmi dal letto,
alla depressione» rispose Vera in tono piatto.
«Tutti insieme sono la mia ragione di vita, e quando mi
concentro su una o più di queste cose, vedo quanta bellezza
ci sia ancora intorno a me».
Vittorio la guardò a lungo prima di
parlare.
«E riesci a essere felice?»
«Sono felice quando la mia figlioccia mi
sorride e viene dritta da me, quando continua a seguirmi anche se la
rimprovero per insegnarle cosa è giusto e cosa è
sbagliato. Sono stata felice quando, dopo mesi, ho visto i miei
genitori tranquilli e rilassati, senza una sola preoccupazione al
mondo. Ecco quando».
«E ti basta?»
«È molto più di
quanto abbiano tanti altri: sarei ingrata, se non mi
accontentassi».
Vittorio rimase in silenzio per un minuto,
guardandosi i piedi; poi rialzò lo sguardo.
«Forse tu hai ragione, ma sai una cosa?
A me non basta. Ho ceduto e rinunciato troppe volte, a troppe cose, per
troppo tempo. Adesso sono stanco. Voglio essere spudoratamente
felice... e dovresti volerlo essere anche tu».
«Lo voglio» ammise Vera a
mezza voce. «È che non so se sono più
in grado di esserlo».
Il carabiniere le depose un bacio sulla tempia e
la strinse più forte.
«Ne sei in grado. Sei perfetta e sei
intera: dentro di te i pezzi ci sono ancora tutti, basta solo finire di
rimetterli insieme – e ci riusciremo, fosse
l’ultima cosa che faccio» disse risoluto.
Vera sorrise suo malgrado; chiuse gli occhi e lo
baciò sulla mandibola.
«Sei più cocciuto di quanto
credessi… e anche più paziente»
mormorò. «Ma sei sicuro che valga la pena di
spendere tanto tempo ed energie solo per rimettermi insieme?»
«Quanto sono sicuro di essere nato per
fare il carabiniere» rispose Vittorio.
******
Più tardi, quello stesso pomeriggio, Vittorio
tornò al comando ben deciso a chiedere scusa a Claudio per
il modo in cui si era comportato il giorno precedente.
Purtroppo per lui, si rese conto quasi subito che
sarebbe stata un'ardua impresa.
Claudio raggiunse i colleghi del proprio turno
nello spogliatoio, li salutò e iniziò a
cambiarsi, avendo cura di schivare Vittorio come se fosse contagioso.
Non lo degnò neanche di uno sguardo distratto, cosa che al
quarantenne non sfuggì: a quanto pareva, Claudio Pastore era
determinato a fingere che il suo collega più stretto non
esistesse nemmeno.
Vittorio decise di lasciarlo cullare in un senso
di falsa sicurezza: non fece alcun tentativo di parlare con Claudio e
continuò a prepararsi mentre scambiava due chiacchiere con
altri agenti. Più tardi, seguì il
trentaquattrenne nell'autocivetta e si piazzò sul sedile del
passeggero in religioso silenzio; per tutta la prima ora del turno, i
due si ignorarono a vicenda.
All'inizio della seconda ora, Claudio era appena
più rilassato; e non appena Vittorio vide la tensione
abbandonare le spalle dell'amico, partì all'attacco.
«Allora, lo dico io o lo dici
tu?» sparò a bruciapelo.
«Non ho niente da dirti»
rispose Claudio, rigido, serrando la presa sul volante.
Vittorio sospirò con fare teatrale.
«Allora lo dico io: sono uno stupido coglione».
«Lieto di sapere che sei capace di
autocritica» ribatté acido l'altro.
«Solo i giorni festivi e ogni primo
martedì del mese». Vittorio azzardò
un'occhiata a Claudio: a giudicare dall'espressione arrabbiata che
aveva sul volto, il suo tentativo di alleggerire l'atmosfera non aveva
funzionato. «Clà, avanti, puoi smetterla di fare
l'offeso almeno il tempo necessario ad ascoltarmi davvero?»
Claudio non rispose; continuò a guidare
fino a trovare un parcheggio libero, dove fermò la macchina
e si girò a guardare Vittorio con occhi tempestosi.
«Non puoi fare il pazzo e il giorno dopo
comportarti come se non fosse successo nulla» disse, fosco.
«Lo so» rispose calmo Vittorio.
«Non puoi trattare male le persone che
ti stanno vicino e pretendere che non se l'abbiano a male»
aggiunse Claudio.
«Lo so» ripeté il
quarantenne.
«E smettila di darmi ragione!»
sbottò l'altro.
«Ti sto dando ragione perché
ce l'hai» replicò tranquillo Vittorio.
«Ieri mi sono comportato come un pazzo e un deficiente; e mi
dispiace di averlo fatto non tanto per me, quanto perché in
questo modo ti ho reso difficile fare il tuo lavoro, ti ho messo in una
brutta posizione, e per finire non ho neanche apprezzato il fatto che
tu abbia passato otto ore a impedirmi di buttare nel cesso quel che
resta della mia carriera». Si grattò la nuca.
«Volevo solo chiederti scusa e ringraziarti per avermi tenuto
a bada... e assicurarti che non ricapiterà».
La furia che riempiva Claudio si
sgonfiò col progredire del discorso di Vittorio; quando il
secondo tacque, sul volto del primo non c'era più traccia di
rabbia.
«Non mi piace per niente il Vittorio che
ho visto ieri» disse infine, agitando l'indice contro l'amico
con fare ammonitore.
«Cercherò di tenerlo sotto
chiave il più possibile» gli assicurò
Vittorio.
«Sarà meglio»
bofonchiò Claudio mentre rimetteva in moto la macchina.
«Perché non è per niente
simpatico».
Vittorio non riuscì a trattenere un
sorrisetto. «Preferisci quello che ti prende a
calci?»
«Sì, lo preferisco; il che
è tutto dire» replicò asciutto Claudio.
Lanciò un'occhiata di traverso all'altro. «Quando
finiamo il turno mi aspetto una birra e che tu mi dica che cavolo ti
è preso, ieri».
«Signorsì»
sbuffò Vittorio.
Il resto del turno trascorse tranquillo; una volta
rientrati in caserma e smessa la divisa, i due amici raggiunsero il
solito pub e sedettero al bancone per una birra e una mezz'ora di
chiacchiere.
«Sei sicuro che a Michela non
darà fastidio, vederti rientrare ancora più tardi
del previsto?» chiese Vittorio.
«Inutile che ci provi: non me ne vado
finché non mi dai una spiegazione per quello che
è successo ieri» disse all'istante Claudio.
«E adesso parla».
L'altro sbuffò. «Vuoi la
versione lunga o quella corta?»
«Quella corta».
«Ero incazzato come una
biscia».
Claudio si lasciò sfuggire uno strano
suono, una via di mezzo tra una risata, uno sbuffo e un grugnito.
«Va be', questa è davvero troppo
corta» replicò. «Prova con la
lunga».
Vittorio si rassegnò al fatto che
l'amico non avrebbe mollato la presa e gli raccontò gli
eventi degli ultimi giorni, avendo cura di omettere alcuni dei fatti
più delicati che riguardavano Vera. Quando finalmente
tacque, Claudio lo guardò incredulo per alcuni istanti prima
di reagire nell'ultimo modo che Vittorio si sarebbe aspettato.
La risata che proruppe dalla bocca di Claudio era
alta, tonante, e fece voltare nella loro direzione i pochi avventori
che ancora indugiavano nel locale; passò un minuto, poi due,
ma la risata dell'uomo, invece di placarsi, divenne ancora
più impetuosa, quasi sguaiata, sotto lo sguardo stralunato
di Vittorio. Fu solo quando rimase completamente senza fiato che
Claudio riuscì a smettere.
«Se qualcuno mi avesse detto»
ansimò il trentaquattrenne, tra un respiro spezzato e
l'altro, «che mi avresti fatto divertire così
tanto, sarei andato su a Milano anni
fa a chiedere che ti trasferissero qui!».
Vittorio si accigliò. «Che cosa c'è
tanto da ridere!»
Claudio agitò una mano nella sua
direzione mentre ricominciava a sghignazzare, stavolta più
quietamente. «Hai quarant'anni e ti comporti come un
ragazzino di quindici alla prima cotta» esalò.
«Vuoi ancora chiedermi che ci trovo da ridere in quello che
ti è successo nell'ultima settimana?»
L'altro grugnì e sospirò,
gettando indietro la testa. «Sono stato sposato per
vent'anni» gli ricordò. «Non sono
più abituato a stare accanto a una persona di cui non
conosco le reazioni. Mi mette in difficoltà».
«Si vede!» sbuffò
Claudio, tentando con scarso successo di soffocare l'ennesima risata.
Batté un pugno sul bancone. «E comunque te l'avevo
detto – te
l'avevo detto! Secoli fa! – che quella ragazza
ti piaceva e tu hai sempre
negato!»
Vittorio borbottò tra sé
quelle che sembravano imprecazioni.
«Ero sposato: non riuscivo neanche a
prendere in considerazione una simile eventualità»
bofonchiò infine. Colse lo sguardo tutt'altro che convinto
di Claudio e sbuffò. «Serve a qualcosa dire che
non me lo sarei mai immaginato?»
«Serve a qualcosa dire che avevi ficcato
la testa sotto la sabbia?» replicò prontamente
l'altro.
I due si scambiarono un'occhiata, torva quella di
Vittorio, esilarata quella di Claudio.
«Va be', hai vinto: ho fatto lo
struzzo» ammise il quarantenne.
«Soddisfatto?»
Claudio ci rifletté su.
«Molto» decretò. Trangugiò
l'ultimo rimasuglio della propria birra e diede una pacca sulla schiena
dell'amico. «Adesso che hai smesso di fare lo struzzo, ogni
tanto potremmo anche organizzare un'uscita a quattro» disse
con un sorrisetto eloquente.
Vittorio si nascose il volto tra le mani,
terrorizzato dall'idea quanto Claudio ne era divertito.
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Capitolo 18 *** Capitolo XVII ***
Vittorio era
ufficialmente stanco di quel tempo matto.
A un passo dall'estate, non ci sarebbero
più dovuti essere temporali un giorno sì e uno
no: era questo che pensava il carabiniere in quella sera di fine maggio
mentre usciva dal portone del palazzo, un grosso ombrello in pugno per
ripararsi dalla pioggia torrenziale che martellava il terreno. Proprio
di fronte al palazzo era parcheggiata la macchina di Vera: la ragazza
era seduta all'interno dell'abitacolo con aria scocciata, in attesa, e
Vittorio le si avvicinò rapidamente per poi bussare al
finestrino.
«Vittorio Valenti al suo servizio,
madame» disse forte.
Vera alzò gli occhi al cielo e scosse
la testa per un attimo prima di sorridere; sgusciò fuori
dall'auto il più agilmente possibile e si strizzò
sotto l'ombrello accanto a Vittorio.
«Grazie» disse Vera. Gli
scoccò un bacio sulla guancia. «Ero sicura di
avere un ombrello in macchina, ma a quanto pare mi sbagliavo»
sbuffò.
«Poteva andare peggio» la
consolò Vittorio. «Pensa se ti fossi dimenticata
la gamba!»
«Divertente»
bofonchiò lei. I due si mossero cauti verso il portone,
attenti a non mettere i piedi in qualche pozzanghera, ed erano a
metà strada quando un movimento accanto all'ingresso del
palazzo accanto attirò la loro attenzione.
Vittorio non era certo di cosa avesse visto; Vera,
invece, doveva essersene fatta un'idea precisa, perché
schizzò in quella direzione a una velocità che il
carabiniere non si sarebbe mai aspettato.
«Vera?». A Vittorio occorse
qualche istante per rendersi conto che la ragazza si era lanciata in
avanti e scattare al suo inseguimento; quando la raggiunse, Vera stava
goffamente accovacciata accanto a un vaso. «Perché
con te si finisce sempre
per stare sotto la pioggia?» brontolò.
Vera non lo degnò di uno sguardo:
continuò a fissare lo spazio esiguo tra il muro e il vaso, i
capelli e gli abiti bagnati incollati addosso, le mani tese, incurante
dell'acqua che continuava a inzupparla.
«Vieni, piccolino, vieni qui»
chiamò con voce dolce. Le rispose un miagolio profondo, e
finalmente Vittorio capì: quello che aveva intravisto poco
prima era un gatto alla ricerca di un riparo. Vera si
trascinò in avanti di mezzo passo. «Avanti,
piccolo, non ti faccio nulla: voglio solo aiutarti» disse
ancora in tono calmo. La testa tigrata di un gatto, col pelo fradicio e
gli occhi spalancati, fece capolino; annusò sospettoso le
dita della ragazza e si ritrasse in fretta, terrorizzato, quando il
rombo di uno tuono riempì l'aria. «Oh, hai paura,
lo so, ma se vieni fuori ti porto all'asciutto, tesoro, lo
prometto» lo esortò.
«È un gatto, ragazzina: non
può capire quello che gli dici» le fece notare il
carabiniere in quello che sperava fosse un tono ragionevole. Quando
Vera non si mosse, sospirò tra sé e
spostò l'ombrello in modo che la coprisse. «Per
quanto dovremo stare qui?» grugnì.
«Per tutto il tempo
necessario» replicò brusca Vera, lanciandogli una
rapida occhiataccia. «Avanti, micio, vieni fuori: lo so che
questo soggetto vicino a me sembra antipatico, ma non è poi
così male, te lo assicuro».
«Sempre gentile»
bofonchiò Vittorio, convinto che quel gatto non sarebbe mai
uscito dal proprio nascondiglio; solo un paio di minuti più
tardi, però, il felino lo smentì, facendo qualche
passo esitante verso Vera e lasciando che la ragazza lo prendesse in
braccio.
«Bravo cucciolo!»
esultò Vera; si sistemò il gatto sul petto e lo
coprì coi lembi della felpa che indossava prima di
rivolgersi al carabiniere. «Dai, Valenti, tirami su e andiamo
dentro».
L'uomo alzò gli occhi al cielo ma
eseguì, lieto di sfuggire al temporale; i due entrarono in
silenzio nell'androne e poi in ascensore, e appena Vittorio
aprì la porta di casa, Vera andò dritta verso il
divano e sedette a terra, con la schiena appoggiata al pezzo di mobilio.
«Ce l'hai un asciugamano
vecchio?» chiese Vera mentre tirava fuori il gatto dalla
felpa.
Vittorio non rispose; andò direttamente
in camera da letto e tornò con due asciugamani tra le
braccia. Porse alla ragazza quello scolorito, poi sedé sul
divano, aprì il secondo telo di spugna e lo gettò
sulla testa di Vera.
«Ehi!» protestò
lei, temporaneamente accecata.
«Zitta, Gamba Bionica: visto che tu
pensi solo ad asciugare quel gatto, io penso ad asciugare te... prima
che ti venga una polmonite» replicò il carabiniere.
Vera sbuffò ma non rispose: si
sistemò il randagio in grembo e iniziò a
strofinargli la pelliccia con delicatezza, mentre Vittorio faceva lo
stesso con i suoi capelli. Il micio non oppose resistenza: si
accoccolò contro lo stomaco della ragazza e si
lasciò asciugare, facendo le fusa.
«Povero piccolo»
mormorò Vera, senza smettere di tamponare l'animale con il
telo. «Guarda quant'è buono» aggiunse,
rivolta a Vittorio. «Devono averlo abbandonato: un randagio
non si lascerebbe tenere e toccare così».
«Sì, lo penso
anch'io» convenne Vittorio. Si mise a sedere a terra, accanto
a lei, e passò a strofinarle il collo e le spalle.
«Però, tutto sommato, è stato
fortunato: l'hai trovato tu».
«Io direi che è
più fortunato ad aver trovato un nuovo padrone che ama gli
animali almeno quanto me» ribatté Vera,
scoccandogli un'occhiata eloquente.
Vittorio rimase in silenzio per alcuni lunghi
momenti.
«Scusa?» disse infine,
incredulo.
«Se porto a casa un altro gatto, mio
padre mi ammazza» replicò Vera.
«Quindi stai dicendo che questo gatto
deve stare a casa mia?» insisté il carabiniere,
tanto per essere certo d’aver capito bene.
«Non possiamo mica buttarlo di nuovo in
mezzo alla strada!». Vera lo guardò implorante.
«Non lo adotteresti, Vittorio? Per me?»
Vittorio tentennò, poi
sbuffò, sconfitto.
«E va bene: hai vinto. Lui
resta» grugnì.
La ragazza gli rivolse un gran sorriso, lo
afferrò per la maglietta e gli stampò un bacio
sulle labbra. «Grazie, grazie, grazie!»
«Solo lui, però»
disse severo l’uomo. «Niente altri
randagi».
«Solo lui: promesso» gli
assicurò Vera.
Vittorio sbuffò di nuovo.
«Come se potessi crederci».
«Oh, smettila di brontolare»
lo rimproverò la ragazza, senza degnarlo di uno sguardo,
mentre frugava nella propria borsa; recuperato il cellulare,
iniziò a scrivere un messaggio a tutta velocità.
«Che fai?» indagò
Vittorio, sospettoso: l'ultima volta che l'aveva vista trafficare al
cellulare con tanto entusiasmo, si era trovato ad accompagnarla a un
appuntamento con un altro uomo, e non ci teneva affatto a ripetere
l'esperienza.
Vera scoccò un rapido sguardo alla sua
espressione e sorrise beffarda, quasi gli avesse letto in volto i
pensieri che gli passavano per la testa.
«Sto scrivendo a mia madre: ora che sei
il felice padrone di un gatto ti serviranno un po' di cose, e vista
l'ora non credo che farai in tempo a passare in un negozio, stasera. Io
ho qualcosa in più a casa e sto chiedendo a mamma di fare
una busta e avvertirla che tra...» diede un rapido sguardo
all'orologio da polso, «venti minuti passi a casa nostra a
prendere quella roba».
Il carabiniere inarcò le sopracciglia.
« Passerò
a casa tua?» sottolineò.
«Non ho detto ai miei genitori che io e
te stiamo... che siamo...» Vera sbuffò,
«qualsiasi cosa sia, insomma. E non ho intenzione di farlo:
dopo tutte le volte che ci siamo azzuffati ci vorrebbero davvero
troppe, troppe, troppe
spiegazioni che al momento non sono in grado di dare; quindi, per
quanto ne sanno loro, io sono da Giulia e tu mi hai chiamata
per dirmi di aver appena salvato un gatto dalla strada e chiedermi se
posso prestarti qualcosa per il micio, fino a quando non potrai andare
a comprare quello che ti serve».
Le sopracciglia di Vittorio si sollevarono un po'
di più. «Hai pensato proprio a tutto»
esclamò bruscamente.
La ragazza lo fissò, anche lei con le
sopracciglia inarcate. «Valenti, gli affari nostri sono nostri»
rimarcò. «E no,
non mi vergogno di te, tonto» aggiunse spazientita.
Vittorio, che aveva aperto la bocca per replicare,
la richiuse e rimuginò per qualche istante sulle parole di
lei; dopodiché si alzò e sparì in
camera da letto per riemergerne un paio di minuti più tardi
con una felpa pulita addosso e un fagotto tra le mani.
«To'» disse secco, lanciando
il proiettile di stoffa in direzione di Vera e colpendola con
precisione in piena faccia. «Cambiati, mentre non ci
sono».
Vera sputacchiò indignata mentre
recuperava le cose che Vittorio le aveva appena tirato addosso: una
tuta da uomo, una maglietta in cui sarebbero potuta entrare comodamente
almeno due volte e una felpa enorme, asciutte e profumate.
«Dovevi proprio tirarmeli in
faccia?» domandò immusonita.
Vittorio prese le chiavi della macchina e quelle
di casa dal tavolo e scrollò le spalle, andando verso la
porta. «Se tu puoi insultarmi...»
«Se tu pensi una cosa stupida, come
faccio a non insultarti?» domandò lei in tono
ragionevole.
«Facile: ti mordi la lingua e conti fino
a dieci» replicò il carabiniere.
«Ma tu non lo fai mai!»
protestò Vera.
Vittorio scrollò di nuovo le spalle.
«Irrilevante» dichiarò, richiudendosi la
porta alle spalle.
Vera scrutò il punto in cui Vittorio
era sparito, incredula, poi si chinò a guardare il micio
ancora accoccolato sulle sue gambe e lo grattò sotto il
mento. «Tranquillo, piccolino, Valenti è matto
come sembra ma non è pericoloso».
«Guarda che ti sento!»
arrivò la voce di Vittorio, attutita dalla porta.
«Spione!» gridò in
risposta Vera.
Il carabiniere non replicò. La ragazza
sentì la porta dell'ascensore chiudersi e decise che, in
fondo, l'idea di Vittorio non era male: i vestiti fradici che indossava
erano diventati ancora più freddi di quanto già
non fossero, e al contatto con la pelle le davano una sensazione
sgradevole.
Mezz'ora più tardi, una Vera
infagottata negli abiti di Vittorio stava accoccolata sul divano e
guardava il gatto annusare con cura ogni angolo e ogni mobile della
stanza quando, con un fracasso tale da disturbare l'intero piano, il
padrone di casa fece ritorno.
«Mi sento un mulo da soma»
mugugnò l'uomo non appena mise piede nell'appartamento, due
grosse buste nelle mani. Alzò lo sguardo e vide Vera
sogghignare dal divano. «Ti sei messa comoda»
commentò.
Lei si strinse nelle spalle. «Il tuo
nuovo coinquilino sta esplorando la casa e io non avevo niente da
fare». Guardò Vittorio posare le buste vicino alla
porta e frugarsi in tasca con aria assorta. «Non è
che vuoi tirarmi di nuovo qualcosa in faccia, vero?» chiese,
sospettosa.
«Non in faccia, no: sarebbe un peccato,
rovinare una delle poche cose gradevoli di te» la
punzecchiò il carabiniere. «Aha!»
aggiunse trionfante, trovando ciò che cercava. «Al
volo, Gamba Bionica!»
Vera sbuffò, ma afferrò
comunque l'oggetto che Vittorio le aveva appena lanciato; perplessa,
osservò alternativamente il mazzo di chiavi che stringeva
tra le dita e l'uomo che gliel'aveva appena consegnato.
«Che cosa sono?»
domandò Vera.
Vittorio la fissò come se avesse avuto
di fronte una persona particolarmente stupida. «A te cosa
sembrano? Sono chiavi».
«Lo vedo che sono chiavi»
replicò spazientita la ragazza. «Vorrei capire che
devo farci».
Il carabiniere tacque per un istante.
«Non me l'hai chiesto davvero» disse infine.
«Ti serve un manuale di istruzioni, Vera? Magari un
disegnino?» aggiunse sarcastico. «Sono chiavi, e le chiavi
aprono»
proseguì lentamente, scandendo con cura ogni parola.
«Queste, nello specifico, aprono la porta d'ingresso, il
portone di sotto e la cassetta della posta».
Vera gli lanciò uno sguardo minaccioso.
«Smettila di trattarmi come se fossi stupida»
abbaiò, «e dimmi perché ho in mano le
chiavi di casa tua!».
Stavolta fu Vittorio a stringersi nelle spalle.
«A qualcuno dovevo lasciarne una copia, per qualsiasi
evenienza, e tu sei la persona che abita più vicina a me. E
poi, visto che mi hai appioppato un gatto, puoi passare a controllare
che non mi stia distruggendo casa, mentre sono al lavoro. E ancora, se
ci diamo appuntamento qui e arrivi prima di me, puoi entrare invece di
aspettarmi da sola per strada. Oppure, metti che io stia facendo la
doccia e non possa venire ad aprirti, non saresti costretta a stare
impalata fuori dalla porta in attesa che io finisca. O
ancora...»
«Ho capito!» esplose Vera.
«Non mi piace, ma ho capito!»
«E perché non ti
piace?» indagò lui.
Vera fece un buffo movimento con le spalle e la
testa.
«Non lo so» ammise
controvoglia. «È che avere le chiavi di casa di
qualcuno... è una cosa abbastanza intima, no? Ci vuole
fiducia» bofonchiò.
Vittorio gettò il resto delle chiavi
sul tavolo, si buttò a peso morto sul divano e nascose il
volto contro lo stomaco di Vera.
«Be', io mi fido di te»
dichiarò, la voce soffocata dalla felpa. L'espressione sul
volto di Vera si ammorbidì. «Però sei
noiosa e brontoli troppo».
Qualsiasi tenero sentimento avesse suscitato in
Vera la precedente dichiarazione di Vittorio fu spazzata via dalle sue
ultime parole. La ragazza piazzò le mani sul petto del
carabiniere e gli diede un violento spintone: lui rotolò
sulla schiena e cadde sul pavimento prima di poter capire cosa fosse
successo.
«Alzati, Valenti: dobbiamo sistemare le
cose per il tuo nuovo gatto e dargli da mangiare» disse Vera
in tono zuccherino, alzandosi e scavalcando con superba noncuranza
l'uomo ancora steso a terra. «Qui, micio, vieni!»
Gatto e donna sparirono in un'altra stanza;
Vittorio guardò il soffitto per un lungo momento e si chiese
come fosse finito a farsi maltrattare e dare ordini nella sua stessa
casa, prima di rimettersi in piedi e seguire gli altri due.
******
Quando Vera aveva detto a Vittorio che l'evoluzione del loro rapporto
non riguardava altri all'infuori, appunto, di loro, era stata sincera:
prova ne era il fatto che, solo tre giorni dopo quell'affermazione, era
in procinto di entrare nell'appartamento di Giulia senza alcuna
intenzione di rivelare il nuovo stato delle cose alla sua migliore
amica.
«Alla buon'ora» l'accolse la
padrona di casa. «Iniziavo a pensare che avessi dimenticato
dove abito!»
«Esagerata e drammatica come
sempre» tagliò corto Vera, già sulla
soglia della cucina.
«Dici?» replicò
Giulia, sarcastica. «L'ultima volta che ti sei fatta vedere
è stata al compleanno di Ludovica. Venti giorni fa»
precisò.
«Ho avuto da fare»
replicò l'altra con grande dignità. Sedette e si
guardò intorno. «Be'? Il senso di
ospitalità e le buone maniere dove sono finite? Offrimi
almeno un caffè, donna!»
Brontolando, Giulia andò al lavello e
iniziò a preparare la caffettiera.
«Te la do io,
l'ospitalità» bofonchiò tra
sé, scuotendo la lunga chioma fulva. «Te la do io
l'ospitalità e pure il caffè: prima sparisce, poi
torna e pretende che le venga steso davanti il tappeto rosso...
insensibile e ingrata...»
Vera sorrise, divertita dalle scene di Giulia, ma
non parlò; aspettò che il caffè fosse
pronto e la sua migliore amica seduta vicino a lei, per farlo.
«La verità, Giù,
è che ho fatto un po' di fatica a tirare avanti, in questi
giorni» ammise mentre girava il cucchiaino nella tazzina, lo
sguardo fisso sul liquido scuro. «Non ero esattamente di
buonumore e ho litigato con alcune persone – litigato di
brutto, intendo – e... non so, non ero proprio di
compagnia» spiegò.
Anche Giulia fissò a lungo il proprio
caffè prima di alzare gli occhi e guardare l'amica.
«Perché non mi hai detto
nulla?» chiese, delusa. «Ci siamo sempre dette
tutto. Avrei potuto aiutarti... tirarti su di morale».
Vera sorrise di nuovo, stavolta debolmente.
«Credo sia ora che io ritrovi la capacità di
gestire i miei sbalzi d'umore da sola. Non posso contare sempre sugli
altri, per riuscirci: non va bene né per me né
per voi. E mi sto impegnando, però faccio ancora fatica e ci
metto più tempo di quanto sia normale, a ritrovare
l'equilibrio».
Giulia non rispose subito; si portò la
tazzina alle labbra e bevve un sorso con aria assorta. Fece una smorfia
quando il caffè ormai freddo le toccò la lingua e
appoggiò la tazzina sul tavolo come se le avesse fatto torto.
«Lo vedo che ti stai impegnando; lo
vediamo tutti, veramente» disse infine. «E,
Vè... col rischio di suonare presuntuosa... penso di aver
avuto ragione fin dall'inizio, a dire che Vittorio Valenti avrebbe
avuto un impatto positivo sulla tua vita».
L'altra sbuffò. «Hai ragione:
suoni presuntuosa, anzi, sei
presuntuosa». Scrollò le spalle allo sguardo
piccato che le rivolse Giulia. «Per fortuna ci sono
abituata».
« Comunque»
riprese pungente la padrona di casa, «persino Tiziano ha
dovuto darmi ragione, soprattutto dopo aver visto quanto Vittorio sia
stato premuroso nei tuoi confronti nell'anniversario dell'incidente, e
abbiamo pensato che sarebbe carino invitarlo a cena per instaurare un
rapporto amichevole e civile. Da parte di Tiziano, cioè,
perché io non gli sono mai stata ostile»
precisò.
Vera la fissò, un sopracciglio inarcato.
«Vorresti farmi credere che Tiziano
è riuscito a superare il fatto che Vittorio è
romanista?» domandò con evidente scetticismo.
«Ma quando mai»
sbuffò Giulia. «Continua a lagnarsi dicendo che
è crudele da parte mia pretendere che fraternizzi col nemico, ma
è davvero l'unica cosa di cui si lamenta... e credo che
ormai lo faccia più per partito preso che per una reale
convinzione».
«Tu sottovaluti il suo antagonismo da
juventino verso alcune squadre» commentò Vera.
« Tu
sottovaluti il mio potere di rendergli la vita un inferno»
replicò Giulia, leggera.
L'ex ginnasta si strozzò con la propria
saliva.
«Sei perfida»
riuscì a dire tra un colpo di tosse e l'altro.
Giulia scrollò le spalle, indifferente.
«Uso le armi che ho a disposizione...»
«... per costringerlo a fare a modo
tuo» concluse Vera per lei. «Come ho detto, sei
perfida. Ma, in fondo, basta tenerli lontani quando Juve e Roma giocano
una contro l'altra».
«Come ti pare» disse l'altra
con fare sbrigativo. «Allora, quando la facciamo questa
cena?»
Vera alzò gli occhi al cielo. Non
riusciva a crederci: com'era possibile che Tiziano avesse deciso di
tollerare Vittorio, e Giulia di includerlo nella loro cerchia di
amicizie, proprio nel momento in cui il suo rapporto col carabiniere
stava cambiando e lei desiderava tenere la cosa per sé, in
attesa di capire come si sarebbe sviluppata la situazione? Se non
avesse avuto la certezza assoluta che Giulia fosse all'oscuro di quanto
accaduto pochi giorni prima, avrebbe scommesso che quella fosse
l'ennesima trovata dell'amica per irritarla a morte.
«Più avanti, Giù:
più avanti» borbottò sconfitta.
******
Più tardi in quello stesso pomeriggio, Vera, sbrigate alcune
commissioni, si ritrovò nel condominio in cui abitava
Vittorio, e più precisamente nell'ascensore: dopo aver
citofonato quattro volte a vuoto, infatti, aveva ricevuto un messaggio
dal carabiniere, che la esortava a usare per la prima volta quel mazzo
di chiavi che le era stato graziosamente consegnato solo settantadue
ore prima. Vera non era affatto convinta che fosse appropriato, entrare
in casa d'altri come se fosse stata la propria; soltanto un secondo
messaggio di Vittorio – con cui l'uomo le aveva detto
chiaramente che la scelta era tra usare le chiavi e restare impalata
fuori dal portone – l'aveva persuasa a cedere.
Quando finalmente varcò la porta
d'ingresso, Vera capì all'istante il perché di
tale insistenza.
«Lo sapevo! Lo sapevo che c'era un altro
motivo, per darmi le chiavi di casa tua!» sbottò
la ragazza: Vittorio era spaparanzato sul divano, con la gatta
– avevano scoperto che era una femmina mentre la lavavano e
spazzolavano – accoccolata sul suo petto a fare le fusa.
«Sei pigro, ecco cosa!»
«L'ho fatto per Estia»
tentò di discolparsi il carabiniere, indicando la gatta.
«Ha ancora bisogno di essere rassicurata e non volevo
lasciarla sola».
«Ma se la lasci sola per andare al
lavoro!» ribatté Vera.
Vittorio ebbe il buongusto di mostrarsi almeno un
po' imbarazzato. «Non volevo lasciarla sola più del necessario»
si corresse.
«Come no» sbuffò
Vera; andò a sedersi sul divano, accanto allo stomaco di
Vittorio, e accarezzò il felino. «Estia,
eh?» ripeté, lo sguardo malandrino.
L'uomo si strinse nelle spalle, o almeno ci
provò. «Mi piaceva l'idea di continuare la tua
tradizione, e lei non prova neanche ad avvicinarsi alla porta: sta bene
in casa, al caldo. Quindi Estia, la dea del focolare
domestico».
«Sì, direi che è
appropriato» convenne Vera con un sorriso.
Accarezzò di nuovo Estia e prese un sacchetto dalla borsa.
«Piccolina, che ne dici di uno scambio? Io ti do una
caramella all'erba gatta e tu molli questo pigrone». La gatta
annusò freneticamente l'aria, attirata dal sacchetto; Vera
lanciò un paio di snack sul pavimento, ed Estia
balzò giù dal petto di Vittorio per correre
all'inseguimento dei dolcetti.
«Vieni qui». Senza perdere un
istante, Vittorio afferrò la ragazza e se la tirò
sul petto, costringendola a sdraiarsi su di lui, poi nascose il volto
nell'incavo del collo di lei.
Nonostante fosse in equilibrio precario, Vera
sorrise.
«Hai carenze d'affetto,
Valenti?» chiese, divertita.
«Sì» rispose lui,
la voce soffocata; Vera poteva sentire la sua bocca muoversi contro la
propria pelle mentre parlava. «E visto che hai mandato via
Estia, adesso tocca a te farmi sentire amato e coccolato. Anche se
penso d'averci perso, nel cambio».
Sebbene Vittorio non potesse vederla, la ragazza
inarcò un sopracciglio.
«Stai mettendo in dubbio la mia
capacità di fare le coccole?»
«Non oserei mai»
replicò Vittorio. «Solo che prima avevo addosso
una gatta, mentre adesso...»
«Mentre adesso?» lo
incalzò Vera.
Il carabiniere si staccò da lei quel
tanto che bastava per guardarla negli occhi.
«Be', più che un gatto, tu mi
ricordi una tigre dai denti a sciabola» dichiarò.
La ragazza sorrise di nuovo e scosse la testa.
«Che ci esci a fare con me, se sono una bestia
feroce?»
«Amo il pericolo»
sogghignò Vittorio in risposta.
Rapidissima, Vera girò la testa e morse
il braccio di Vittorio; lui gemette di dolore.
«Non mi mordere!» si
lagnò. «Sono delicato io, cosa credi?»
«Non eri tu quello che due secondi fa
amava il pericolo?» ridacchiò Vera.
«Stai abbracciando una tigre: dovevi aspettarti qualcosa del
genere. E comunque tu sarai delicato il giorno in cui io mi
metterò alla guida ubriaca».
«Tu non ti metterai mai alla guida
ubriaca» replicò all'istante Vittorio.
Stavolta fu Vera a sogghignare.
«Appunto».
L'uomo la strinse di nuovo tra le braccia e per
buona misura avvolse una delle proprie gambe intorno a quelle di lei
prima di chiudere gli occhi.
«Shhht: smettila di ruggire»
mugugnò.
Vera lanciò uno sguardo all'orologio da
polso. «Non dovevamo andare a cena e poi al
cinema?». Vittorio bofonchiò qualcosa di
incomprensibile e lei gli punzecchiò le costole con un dito.
«Inutile grugnire: è un'idea tua» gli
ricordò.
«Tra dieci minuti mi alzo»
borbottò il carabiniere.
«Tra dieci minuti sarà
tardi» replicò Vera.
Vittorio aprì un occhio solo.
«Otto?»
«Cinque» rilanciò
la ragazza.
«Cinque e un bacio: è la mia
ultima offerta» offrì Vittorio.
«Che è un altro modo di dire
dieci minuti» sbuffò Vera. L'uomo le
scoccò uno sguardo ardente e lei sorrise suo malgrado.
«Vorrà dire che faremo tardi»
ridacchiò un istante prima che Vittorio le catturasse la
bocca con la propria.
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Capitolo 19 *** Capitolo XVIII ***
Nonostante tenessero
gelosamente segreta la neonata relazione tra di loro, ormai Vera e
Vittorio trascorrevano la maggior parte del tempo libero insieme; e
come stava diventando sua abitudine, quel mercoledì sera
l'ex ginnasta lasciò la palestra e andò dritta a
casa del carabiniere.
«Dimmi che hai preparato da mangiare:
sto morendo di fame» disse non appena Vittorio le
aprì la porta.
Lui inarcò le sopracciglia.
«Non si saluta più?»
Vera gli scoccò un rapido bacio sulla
bocca. «Ciao. Dimmi che hai preparato da mangiare,
perché sto
morendo di fame».
«Ho cucinato»
confermò Vittorio mentre Vera appendeva la borsa e si
chinava ad accarezzare Estia, che si era avvicinata facendo le fusa.
«Anche se speravo di contare più del
cibo».
« Niente
conta più del cibo» dichiarò la donna.
«Senza di te posso vivere, senza mangiare no».
«Tu sì che sai come lusingare
l'ego di un uomo» sbuffò Vittorio. «Puoi
stare tranquilla sulle tue probabilità di sopravvivenza,
Gamba Bionica: è quasi pronto».
«Ottimo» rispose Vera,
soddisfattissima. «Posso darti una mano?»
«Solo smettendo di maltrattarmi: il
resto è tutto sotto controllo» replicò
il carabiniere, già diretto in cucina.
Sola, Vera sedette sul divano e prese in braccio
Estia: somigliava a un Silvestro col pelo tigrato al posto di quello
nero, e sul petto, in mezzo al pelo bianco, aveva una grossa macchia
tigrata a forma di cuore. Quel particolare fece sorridere Vera: Estia
continuava a dimostrarsi sempre più una gatta dolce e
affamata d'affetto, ed era come se la Natura avesse voluto imprimere su
di lei un segno visibile del suo carattere. Per fortuna,
rifletté ancora la ragazza, non valeva per tutti: altrimenti
lei e Vittorio avrebbero avuto la pelle rossa come le fiamme
dell'Inferno, un bel set di grosse corna nere sulla testa e un forcone
incollato alla mano. Il pensiero le fece grugnire una mezza risata.
«Perché ridi?» le
chiese Vittorio, guardingo; andò al tavolo apparecchiato e
posò due piatti pieni di pasta. «Sei impazzita una
volta per tutte o stai tramando?»
Di nuovo, l'immagine di se stessa e Vittorio nelle
vesti di due diavoli lampeggiò nella mente di Vera, e lei
faticò a non ridere.
«Nessuna delle due, uomo di poca
fede». La ragazza lasciò Estia sul divano e
raggiunse il tavolo; una volta lì, si chinò su un
piatto e annusò il profumo che saliva in spirali di vapore.
«A quanto pare, sei bravo in cucina. Niente niente, mi
toccherà riconoscere che hai anche delle
qualità!» lo stuzzicò.
Vittorio le rivolse uno sguardo di sfida.
«Di' solo un'altra parola e mangerò tutto io».
Vera socchiuse gli occhi, e per un attimo parve
esitare; poi il suo stomaco brontolò sonoramente e lei
decise di sedersi.
I due mangiarono in un silenzio rilassato,
spezzato solo dal tintinnare delle posate sui piatti e dai rumori che
arrivavano dalla strada. Una volta sparecchiato e rassettato, andarono
a sedersi sulla parte di divano non occupata da Estia; sempre in
silenzio rimasero abbracciati per un po', cullati dalla musica che
usciva dalla radio accesa.
Alla fine fu Vera a parlare per prima.
«Dio, potrei anche mettermi a
dormire» sospirò contenta.
Vittorio le depose un bacio sulla testa.
«Aspetta di tornare a casa tua per farlo»
replicò. «Stanotte sono di
turno e non mi va di saperti per strada insonnolita».
«Sembri mia madre»
ridacchiò la ragazza. «Da giorni continua a farmi
raccomandazioni sceme, tipo di non dimenticarmi le pentole sul gas
acceso o la porta di casa aperta». Alzò gli occhi
al cielo, ma sorrideva. «La prospettiva di tornare al lavoro
le fa male».
«Ferie?» indagò il
carabiniere.
Vera scosse la testa in segno di diniego.
«Congedo straordinario: l'ha preso dopo l'incidente per
seguirmi in ospedale, durante la riabilitazione e poi a casa mentre mi
abituavo a fare tutto con la protesi» spiegò.
«Ricomincia lunedì e credo che l'idea di tornare
del tutto alla normalità la metta in ansia; ha paura che io
possa avere bisogno di qualcosa mentre non c'è».
Vittorio sbuffò. «Possiamo
farle fare cambio con mia madre: deve andare in pensione l'anno
prossimo e già si lamenta perché non vuole smettere
di lavorare».
«Per carità»
replicò la ragazza. «Lascia che la mia, di madre,
torni in ufficio: ormai ha troppe energie represse, e c'è un
limite a quante volte le superfici di casa possono essere lavate e
strofinate prima di polverizzarsi!»
Vittorio scoppiò a ridere.
«Se ci sentissero parlare
così di loro, ci ammazzerebbero!»
«Parla per te: grazie alla protesi, io
posso sempre appellarmi alla loro pietà e comprarmi il
perdono» sghignazzò di rimando lei.
L'uomo la fissò, ammirato.
«Sei subdola».
«Solo quando serve». Vera si
stiracchiò. «Questo divano è una
trappola mortale: se non mi alzo, rischio davvero di
addormentarmi». Si rimise in piedi e andò verso il
bagno; passando, diede una pacca leggera sulla testa di Estia, che si
era allungata tanto da occupare un buon terzo della seduta.
«Mentre sono di là cerca di non rubarmi il posto,
tu» disse alla gatta.
Estia fece le fusa più forte e Vittorio
si mise di nuovo a ridere: in che modo Vera riuscisse a farsi
rispondere dai gatti che le stavano intorno era una cosa al di
là della sua comprensione.
Rilassato, il carabiniere reclinò la
testa contro i cuscini e chiuse gli occhi, canticchiando tra
sé. Vittorio rimase in quella posizione per dieci minuti
abbondanti prima di ricordare che non era solo in casa e chiedersi che
fine avesse fatto Vera: riaprì gli occhi e la
trovò appoggiata al tavolo, intenta a fissarlo, con le
braccia incrociate sotto il seno e l'espressione concentrata.
«Che c'è?» chiese
cauto.
La ragazza gli sorrise. «Ti sto solo
guardando».
«Sì, ma...
perché?» insisté lui, perplesso.
Vera scrollò le spalle.
«Onestamente? Più ti guardo, e meno capisco come
tu possa essere così bello».
Il collo di Vittorio si tinse di rosso e lui si
schiarì la voce un paio di volte. «Bello,
io?» ripeté, una sfumatura scettica nella voce.
«Mi sa che oltre alla gamba finta ti servono anche un paio
d'occhiali, ragazzina, perché di sicuro non sono
bello».
Vera gli sorrise di nuovo, stavolta con dolcezza.
«Per me lo sei».
Vittorio arrossì un po' di
più e si grattò la nuca; si alzò con
un gesto rapido, raggiunse Vera e infilò le dita tra i suoi
capelli per massaggiarle lo scalpo.
«Allora hai veramente qualche rotella
fuori posto» commentò, mentre lei sospirava
soddisfatta. «E io che pensavo stessi facendo progressi, con
lo psicologo».
«Inutile fare il sarcastico,
Valenti» disse placida Vera, gli occhi chiusi e la testa
abbandonata tra le mani dell'uomo. «Credo che tu sia bello, e
neanche punzecchiarmi mi farà cambiare idea».
L'uomo scosse la testa. «Lo dici
soltanto perché abbiamo smesso di saltarci alla gola ogni
volta che ci vediamo».
«Mh-mhhh» mugolò la
ragazza. «In realtà ho iniziato a pensarlo quando
ancora non ti sopportavo» rivelò. Aprì
un occhio solo e gli rivolse uno sguardo sardonico.
«Comunque, grazie per la fiducia nella mia
lucidità mentale, eh».
Vittorio le baciò la punta del naso.
«La tua intelligenza ha perso ogni credibilità nel
momento in cui mi hai baciato fuori dalla palestra».
«O magari ho soltanto gusti
strani» sogghignò Vera.
«Questo è chiaro come la luce
del sole». Vittorio si lasciò sfuggire un
sorrisetto. «Non c'è verso: riusciamo a discutere
anche quando ci diciamo cose gentili». Il suo sorriso si
allargò fino a trasformarsi in una risata. «Siamo
due idioti!»
«Stavolta hai cominciato tu, quindi
parla per te» ribatté l'ex ginnasta. Gli cinse il
collo con le braccia. «Adesso smettila di dire stupidaggini e
baciami» ordinò.
Vittorio lasciò vagare lo sguardo sul
corpo di lei con deliberata lentezza. «Dove?»
Stavolta fu Vera ad arrossire, ma la voglia di
zittirlo fu più forte dell'imbarazzo. «E se ti
dessi carta bianca?» lo provocò.
Invece di rispondere, Vittorio catturò
la bocca di lei in un bacio; spinse il bacino contro quello di Vera,
intrappolandola tra il proprio corpo e il tavolo mentre insinuava la
lingua tra le sue labbra socchiuse.
Vera replicò con entusiasmo
all'iniziativa dell'uomo e infilò le mani sotto l'orlo della
sua maglietta, per accarezzargli la schiena e il petto. Senza fiato,
staccò le labbra da quelle di Vittorio per mordicchiargli la
mandibola coperta da un velo di barba e scese a deporre una scia di
baci umidi sul suo collo, soffermandosi sui punti in cui poteva sentire
le vene pulsare frenetiche: aveva tutta l'intenzione di esplorare ogni
centimetro del corpo di Vittorio, e a giudicare dai gemiti del
carabiniere, non avrebbe trovato resistenza.
Vittorio fece un passo indietro e
trascinò la ragazza con sé, allontanandola dal
tavolo, poi le afferrò il fondoschiena con le mani e
l'attirò di nuovo contro il proprio corpo. Incurante delle
manovre di lui, Vera gli morse un orecchio: per tutta risposta,
Vittorio emise un basso verso gutturale.
Finalmente, Vera si staccò dal
carabiniere abbastanza da guardarlo in volto.
«Hai ringhiato?»
ridacchiò.
«Colpa tua»
brontolò Vittorio, nascondendo il visto nell'incavo del
collo di lei mentre spingeva le mani ancora più in basso, ad
accarezzarle le cosce.
Quando le toccò la protesi, Vera
sentì tutte le sue insicurezze riemergere dall'esaltazione
del momento e piombarle addosso come una doccia fredda;
sussultò e fece per ritrarsi, ma Vittorio la trattenne.
«No» disse piano.
«Non te ne andare, Vera».
Le fece scivolare un braccio intorno alla vita e
la strinse più forte; le accarezzò i capelli,
coprendole il volto di baci, ma quando provò di nuovo a
sfiorarle le gambe, Vera ricominciò a dimenarsi.
«Lasciami, Vittorio, ti prego»
lo supplicò. «Non posso, non ce la faccio,
non…»
«Vera, guardami. Guardami»
disse Vittorio con forza. Le afferrò il mento e la
fissò dritto negli occhi, senza battere le palpebre, lo
sguardo deciso. «Non ha importanza».
«Certo che ce l’ha!»
singhiozzò Vera, coprendosi il volto con le mani.
«Mi manca una gamba. Sono orribile!»
«Non lo sei. Non per me».
Mentre continuava a tenere Vera contro di sé, con la mano
libera prese quelle di lei, una alla volta, e se le portò
sul petto, senza mai distogliere lo sguardo dal suo. «Io sto
baciando te, Vera. Sto baciando la tua bocca, il tuo cervello acuto, i
tuoi occhi così belli, il tuo coraggio, la tua forza e
sì, anche la tua protesi». Baciò via
una lacrima che le era sfuggita. «Mi piaci talmente,
così come sei, che se avessi ancora la tua gamba
probabilmente mi piaceresti molto meno» scherzò.
Vera rise, incerta, ma non cercò
più di allontanarlo. «Sei sicuro che non ti
disgusterà, vedere il moncone della mia gamba?»
sussurrò.
Vittorio alzò gli occhi al cielo.
«Sono sicuro». Le mise le mani sulle spalle.
«Adesso lasciati guardare».
La baciò di nuovo; lentamente,
stavolta, senza fretta. Poco a poco, Vera tornò a rilassarsi
nel suo abbraccio; Vittorio poteva sentirlo nei muscoli di lei che,
sotto le sue dita, perdevano gradualmente la tensione che li aveva resi
rigidi e tornavano a essere morbidi e accoglienti.
Quando la sentì gemere, il carabiniere
ebbe la certezza che ormai Vera si era calmata: le passò un
braccio sotto il fondoschiena, l'altro intorno ai fianchi e le
sollevò i piedi da terra per poi dirigersi verso la camera
da letto. Vera non disse nulla: si limitò ad aggrapparsi
alle spalle di Vittorio e ad appoggiare la fronte sulla sua guancia, il
corpo premuto contro quello di lui per tutta la sua lunghezza.
Poi qualcosa di duro la colpì al centro
della schiena e Vittorio imprecò.
«Maledetta porta»
grugnì l'uomo. Fece un passo di lato e imprecò di
nuovo quando urtò il gomito sullo stipite. «E che
cazzo!»
Vera scoppiò a ridere. «Mi sa
che così non ci passiamo»
«Invece ci passiamo»
s'intestardì lui. «Col cazzo che ti metto
giù!»
«Forse sarebbe meglio» rise
ancora la ragazza quando, al terzo tentativo di oltrepassare la porta,
sbatté la parte posteriore della testa sul muro.
«Almeno ci arriveremmo interi».
Vittorio le morse il collo. «Zitta: devo
concentrarmi».
Vera continuò a sghignazzare mentre
Vittorio – tenendola ostinatamente in braccio – si
metteva di lato e attraversava cauto lo stretto vano della porta e si
lasciò andare a una nuova, rumorosa risata nel momento in
cui l'uomo sospirò sollevato per essere finalmente riuscito
nel suo intento.
«Dio, Valenti, sei uno spasso»
trillò esilarata.
«Adesso te lo do io, lo
spasso» replicò Vittorio: la lasciò
cadere sul letto e sogghignò soddisfatto quando Vera, presa
alla sprovvista, squittì spaventata.
L'ex ginnasta si tirò a sedere, decisa
a punzecchiarlo con un piede per vendicarsi, ma si bloccò:
Vittorio era inginocchiato di fronte a lei, tra le sue gambe, e la
guardava dal basso mentre appoggiava cauto le mani sulle sue ginocchia.
Lentamente, l'uomo le risalì le gambe con le dita fino alla
chiusura dei pantaloni; li aprì con gesti agili e li
tirò appena, deciso a levarglieli di dosso.
Sempre in silenzio, Vera alzò i fianchi
e permise a Vittorio di sfilarle i jeans e le scarpe; trepidante, si
lasciò scrutare dallo sguardo attento del carabiniere, che
la percorreva con cura dalla punta dei piedi fino al volto.
Quando i loro occhi si incontrarono di nuovo,
Vittorio percorse col pollice il punto in cui la gamba di Vera spariva
nella protesi.
«Insegnami» mormorò.
Con dita tremanti, la donna girò la
cuffia di silicone verso l’esterno e rimosse la gamba
artificiale prima di allungarsi verso il comodino e appoggiarla in modo
che non cadesse.
Appena Vera si raddrizzò, Vittorio
prese tra le mani quel che restava della sua coscia sinistra e
l’accarezzò per tutta la sua lunghezza; poi, con
un gesto lento, tracciò col pollice la cicatrice
dell’amputazione, da un’estremità
all’altra.
Nel momento in cui il carabiniere chiuse gli occhi
e posò un bacio delicato proprio al centro della cicatrice,
Vera tremò violentemente. Con un gesto istintivo
afferrò i corti capelli dell’uomo e li
tirò, costringendolo ad alzare la testa; appena i loro
sguardi si incontrarono, Vera si sentì mancare il fiato.
«Vittorio» mormorò
con voce quasi inudibile. Deglutì a fatica, ma non distolse
gli occhi da quelli di lui neanche per un istante. «Fai
l’amore con me».
Vittorio si alzò lentamente,
posò un ginocchio sul materasso e si allungò su
di lei, sostenendosi con un braccio per non pesarle addosso, senza mai
smettere di osservare la sua espressione. Solo quando lei gli sorrise
le catturò la bocca con la propria per l’ennesima
volta, ogni incertezza spazzata via da quel semplice gesto.
******
Quel giovedì, Giulia vagava da una stanza all'altra della
propria casa come un'anima in pena, in attesa che il campanello
trillasse annunciando la visita della sua migliore amica;
perché così come aveva la certezza che Tiziano
non avrebbe mai
rinunciato a vedere una partita della Juventus, lei sapeva che quel
giorno Vera sarebbe andata a trovarla. Era una sicurezza che derivava
dal conoscere l'altra donna da tutta la vita, quasi meglio di quanto
conoscesse se stessa; questo... e il fatto che da oltre settantadue ore
le stava inviando messaggi con cui la invitava – non troppo
gentilmente – a non sparire di nuovo per tre settimane.
Insomma, per lei, l'ex ginnasta non aveva segreti;
per questo, quando Vera entrò nella cucina di casa sua
rilassata e sorridente come non era stata per tanto tempo, Giulia
capì al volo che qualcosa era cambiato.
«Qualcuno ha fatto sesso!»
esclamò entusiasta.
Vera, che si era seduta sistemando Ludovica sulle
proprie ginocchia, d’istinto tappò le orecchie
della bimba. «Giù, la bambina!» disse,
scandalizzata.
L’amica la liquidò con un
gesto sbrigativo della mano. «Lulù è
ancora troppo piccola per capire di cosa stiamo parlando e ci
vorrà un po’ di tempo perché cominci a
ripetere quello che diciamo per imparare a parlare… non
è vero, tesoro?» concluse, rivolta direttamente a
sua figlia.
Ludovica rise e batté le manine,
istintivamente felice di vedere la sua mamma tanto allegra.
«Ho l’impressione che mi
stiate abbandonando tutti, ultimamente: prima Hermes, poi mio padre e
adesso tu…» bofonchiò Vera alla
bambina. «Per fortuna, almeno Efesto mi è
fedele!»
«Smettila di parlare a
vanvera» la rimproverò Giulia. Tirò
fuori una bottiglia di succo all’ananas e la
schiaffò sul tavolo insieme a due bicchieri, poi
passò un biberon a Ludovica, che iniziò a bere
avidamente.
«Niente caffè?»
chiese speranzosa Vera, cercando di prendere tempo.
Ma Giulia non aveva nessuna intenzione di
lasciarsi sfuggire la preda.
«Niente caffè»
rispose lapidaria. «Allora? Chi è il
fortunato?»
Vera alzò gli occhi al cielo.
«Com’è che ti sei fissata con questa
storia che ho fatto sesso?»
La sua migliore amica le agitò contro
un dito con fare saccente. «Non pensare di potermi ingannare,
cara mia: siamo amiche da quando eravamo piccole, ti conosco come le
mie tasche!»
Rassegnata, Vera sbuffò. «Va
bene, è vero. Ho fatto sesso. Con…». Si
guardò intorno circospetta.
«Dov’è Tiziano?»
«In camera da letto» rispose
sbrigativa Giulia. «Allora?»
La sua migliore amica abbassò ancora la
voce. «Con Vittorio».
«LO SAPEVO!» esultò
Giulia. Saltò in piedi e improvvisò una danza sul
posto. «Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo!»
Alle grida di Giulia, Tiziano arrivò in
cucina a tempo di record; tentò inutilmente di frenare la
propria corsa e fu costretto ad aggrapparsi allo stipite della porta
per non cadere. «Che succede? Che è tutto
‘sto macello?»
Sua moglie lo abbracciò. «Non
ci crederai mai! La nostra Vera…»
«GIULIA!» tuonò la
diretta interessata.
Insospettito dalla sua veemenza, Tiziano
staccò Giulia da sé e si piegò a
scrutare bene il volto dell’amica. «Tu hai fatto
sesso!» dichiarò, sconvolto.
Vera iniziò a tastarsi la faccia.
«Ma che ce l’ho scritto da qualche parte?»
«Più o meno: nella tua
espressione» sbuffò divertito l’amico.
«Ma con chi? Non vuoi mai uscire con
nessuno…». Impallidì, mentre un
sospetto si faceva strada nella sua mente. «Non con
quello!»
«Quello chi?» chiese Giulia.
«Giù, ti
prego…» esalò Vera.
«Vittorio Valenti, il
carabiniere» scandì Tiziano.
Giulia ricominciò a saltellare,
battendo le mani. «Proprio lui!»
«Ma NO!» esplose Tiziano.
«Grazie, Giù,
davvero» bofonchiò sarcastica Vera.
«Hai fatto sesso con quello! Vera, ma ti
rendi conto? È romanista! È il nemico!»
disse schifato l’unico uomo presente. Ludovica
lanciò allegramente il biberon ormai vuoto e Tiziano si
accorse solo in quel momento della presenza della bambina.
«State parlando di sesso davanti a mia figlia?»
ruggì.
«Credevo fosse anche figlia
mia» replicò Giulia in tono pungente.
Vera si limitò a indicare
l’amica. «Ha cominciato lei. Dillo,
Lulù, dillo a papà che la zia Vera ti ha anche
tappato le orecchie!»
«Bell’amica!»
insorse Giulia.
«Ehi, qui si tratta di
sopravvivere» si difese l’altra.
Tiziano prese la bambina tra le braccia e si
avviò verso il corridoio. «Vieni, amore di
papà: allontaniamoci da queste screanzate».
Le due donne si offesero enormemente.
«Screanzate a chi?»
s’indignò Vera.
«Te la do io, la screanzata…
aspetta stasera, aspetta!» gli urlò dietro sua
moglie, furente.
Giulia e Vera si guardarono per un momento, poi
scoppiarono a ridere come pazze.
«Adesso che quel guastafeste se
n’è andato, voglio parlare seriamente con
te» disse la prima, sedendo di nuovo e abbassando la voce.
«Come ti senti?»
Vera inarcò le sopracciglia.
«Come una che ha fatto sesso dopo un periodo
d’astinenza troppo lungo».
«Non fare la stupida: sai che
intendo» la rimbrottò Giulia. «Dopo
l’incidente ti sei rifiutata di fare qualunque cosa potesse
mettere in vista la protesi, e… be’, non credevo
che ti saresti mai più fatta vedere nuda da un
uomo».
L’altra arrossì.
«Infatti non volevo: ero sicura che vedere la mia…
la mia gamba, o quello che ne resta, senza neanche la protesi, lo
avrebbe disgustato; e invece Vittorio è
stato…» scosse la testa, incerta sul termine da
usare, «meraviglioso. Per quanto possa sembrare strano
mettere le parole “Vittorio” e
“meraviglioso” nella stessa frase».
Giulia rise di gusto. «Non lo facevo
così sensibile» commentò.
«Neanche io».
L’espressione di Vera si ammorbidì notevolmente.
«Non pensavo che avrei mai incontrato un uomo
così. Anzi, quando mi ci sono scontrata per la prima volta,
avrei giurato che Vittorio fosse l’ultimo uomo al mondo in
grado di restituirmi quel tipo di coraggio».
«E invece...» disse maliziosa
l'altra.
Vera sbuffò. «Non
cominciare».
«Te l'avevo detto, io»
proseguì imperterrita Giulia.
«Giù: non cominciare»
ripeté Vera.
«Ma io te l'avevo detto»
insisté la sua migliore amica.
L'ex ginnasta fece per rispondere, ma il suono di
piedi pestati a terra con rabbia annunciò il ritorno di
Tiziano; l'uomo si stagliò nel vano della porta con la
fronte aggrottata, Ludovica e RincoRino in braccio e Woof, l'enorme
cane di pezza, sulla spalla.
«Non ci posso credere» disse,
saltando ogni preambolo. Puntò un dito contro l'amica.
«Non posso credere che tu abbia deciso di uscire proprio con
un romanista!»
«A proposito: ci esci, o state
insieme?» s'intromise Giulia.
L'altra donna mugugnò tra sé
per qualche istante. «Stiamo insieme»
bofonchiò infine.
Le reazioni dei due coniugi non avrebbero potuto
essere più diverse: Giulia esultò di nuovo,
mentre Tiziano gemette di disappunto e si coprì gli occhi
con la mano.
«Perché, Vera? Perché
mi fai questo?» si lagnò il secondo.
Suo malgrado, Vera inarcò le
sopracciglia e gli scoccò uno sguardo a metà tra
il perplesso e il sardonico. «Perché faccio cosa a te?»
Tiziano le puntò di nuovo contro
l'indice con fare accusatore. «Se tu stai con un romanista,
allora anch'io devo averci a che fare» spiegò.
«È una cattiveria bella e buona!»
Le sopracciglia di Vera si sollevarono un po' di
più. «Vorresti farmi credere che tutti i tuoi
familiari, amici, colleghi e conoscenti sono juventini?
Perché so per certo che uno dei tuoi fratelli è
milanista...»
Il padrone di casa arrossì.
«Non posso scegliermi i parenti!»
«E neanche evitare chi non tifa per la
tua stessa squadra di calcio» ribatté pronta Vera.
«Ma posso provarci! Io...»
E s'interruppe: Ludovica gli aveva appena infilato
in bocca la testa di RincoRino. Tiziano sputacchiò e
tossì, mezzo soffocato dal pupazzo e dall'indignazione per
essere stato tradito dalla sua stessa figlia.
Risero tutti tranne lui.
Vera fu la prima a riprendere fiato.
«La verità, Tizià,
è che sei geloso e ti preoccupi perché mi vuoi
bene» disse infine l'ex ginnasta. «E anche se lo
apprezzo tanto, non puoi fare così... soprattutto se la fede
calcistica è l'unica cosa che vuoi rimproverare a
Vittorio».
Tiziano s'imbronciò. «Dammi
un po' di tempo e vedrai che qualcos'altro da rinfacciargli lo trovo.
Oh, se lo trovo!»
«Sei senza speranza» disse sua
moglie con una buona dose d'affetto. «Uno zuccone senza
speranza. Sii felice per Vera e rassegnati al fatto che anche tu dovrai
frequentare Vittorio».
Il broncio dell'uomo divenne, se possibile, ancora
più accentuato. «E se non volessi?»
Giulia affilò lo sguardo, per nulla
toccata dal tono petulante di Tiziano.
«Ti conviene volerlo, e in fretta,
marito mio adorato, perché ho tutta l'intenzione di
invitarlo a cena... e se proverai a mettermi i bastoni tra le ruote,
inizierò lo sciopero del sesso!» rispose, pungente.
Sia Vera che Tiziano la fissarono a bocca aperta.
«Non lo faresti!» esclamarono
in perfetta sincronia.
Giulia scrollò le spalle e prese
Ludovica dalle braccia dell'uomo.
«Vieni, piccola, andiamo a giocare e
lasciamo tranquillo papà... ha una decisione importante da
prendere» disse, ignorando il volto paonazzo di Tiziano e il
suo boccheggiare.
La donna uscì dalla cucina senza
voltarsi indietro e Vera ne approfittò per dileguarsi a sua
volta: aveva la sensazione che la sfida di Giulia avrebbe reso Tiziano
ancora più ostile a Vittorio, almeno nel breve periodo, e
per una volta non ci teneva affatto ad ascoltare le rimostranze
dell'amico.
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Capitolo 20 *** Capitolo XIX ***
Vittorio accolse con
gioia la notizia che Vera aveva parlato a Giulia della loro relazione,
per almeno due motivi. Primo: si era scoperto particolarmente felice di
stare con quella donna, quindi doversi nascondere gli andava stretto.
Secondo: nonostante Vera gli avesse chiesto di tenere la cosa per
sé, lui aveva raccontato tutto a Claudio già da
un pezzo, e stava aspettando quel momento per tentare di limitare i
danni... possibilmente, facendo di tutto perché la sua nuova
fidanzata non scoprisse che la loro storia non era stata poi tanto
segreta.
Sin da quella sera al pub, infatti, Claudio aveva
preso l'abitudine di chiedere a Vittorio come procedesse la relazione
con Vera a ogni inizio turno; il quarantenne, da parte sua, era lieto
di poter parlare con qualcuno, dunque non si faceva mai scrupoli a
rispondere.
Come quel giorno.
«Allora, Vittorio»
esordì il trentaquattrenne, buttandosi di peso sul sedile
della volante, «come va con la tua fidanzatina?».
Vittorio si accigliò mentre avviava il
motore e guidava l'auto fuori dal parcheggio del comando.
«Devi per forza chiamarla così?»
Claudio sogghignò. «Sei tu
che ti sei preso una ragazzina, eh».
Il cipiglio dell'altro aumentò.
«Vera non è una ragazzina»
grugnì.
«Quindi non ti dà fastidio la
differenza d'età tra voi due?» insisté
Claudio.
Vittorio sbuffò. «Se mi desse
fastidio, non starei con Vera».
Il più giovane si accarezzò
il mento, fingendosi pensieroso.
«Mh. Allora non è per questo,
che la tieni nascosta?» sparò.
Vittorio, che stava rallentando in
prossimità di un semaforo rosso, premette sul pedale sul
freno con troppa foga e la macchina inchiodò.
«Ma che cazzo...»
imprecò. Tirò fuori un braccio dal finestrino e
rivolse un gesto di scuse all'automobilista dietro di lui, che lo
scrutava furibondo attraverso il parabrezza: c'era mancato poco che lo
centrasse in pieno e Vittorio quasi si aspettava un gestaccio in
risposta, divisa o no. Preso un respiro profondo, si voltò
verso il collega e gli scoccò un'occhiata truce.
«Io non tengo nascosto nessuno, men che meno Vera, quindi
vedi un po' che altre cazzate devi farti uscire dalla bocca»
disse a denti stretti. «E, giusto per tua informazione,
è stata lei
a non voler far sapere che ci stiamo frequentando: prima voleva essere
sicura che tra noi le cose funzionassero». Mugugnò
qualcosa tra sé e ingranò la prima per ripartire.
«Per fortuna si è decisa a dire alla sua migliore
amica che stiamo insieme, così non verrò
più tenuto nascosto. Perché sono stato io quello
che è stato nascosto, non lei» aggiunse in tono
risentito.
Lo sguardo di Claudio divenne malizioso ma
Vittorio, concentrato sulla strada, non se ne accorse.
«Non dirmi che ti sei offeso!»
esclamò giulivo. Vittorio mugugnò di nuovo e lui
scoppiò a ridere. «Mhhh... potrebbe essere il
titolo di un romanzo. “ Vittorio
Valenti: uno scomodo segreto”».
Sghignazzò di nuovo senza ritegno dell'espressione furiosa
dell'amico e si preparò a lanciare l'esca. «Ma hai
detto che adesso state uscendo allo scoperto, no?»
«Sì»
brontolò il quarantenne. «Finalmente,
direi».
«Quindi inizierete a farvi vedere in
pubblico» aggiunse Claudio.
«Mh-mh».
«Quindi comincerete a conoscere l'uno
gli amici dell'altro».
«Mh-mhhh».
« Quindi
non hai più scuse per rifiutare un'uscita a quattro con lei,
me e Michela!» disse Claudio in tono di trionfo.
Preso in contropiede, Vittorio
boccheggiò e per poco non inchiodò di nuovo.
«Io... che? Perché
dovremmo organizzare un'uscita a quattro?»
farfugliò agitato.
«Perché io e te siamo
amici» replicò soave il più giovane.
A Vittorio il sorriso di Claudio non piacque per
niente.
«Perché hai tanta voglia di
conoscere meglio Vera?» domandò, guardingo.
Sventolò un dito contro l'altro uomo. «Che hai in
mente, Pastore?»
«Io? Niente. Voglio solo conoscere
meglio la fidanzata del mio amico e collega» rispose Claudio
con espressione innocente.
«Sì, e io sono un giovincello
di primo pelo» sbuffò il quarantenne.
«Guarda che tanto non mollo»
lo avvertì Claudio. «Domani abbiamo l'ultimo turno
di notte, quindi... dopodomani sera dovrebbe andar bene»
decretò.
«Se ti dicessi che voglio evitare questo
momento il più a lungo possibile, cambieresti
idea?» grugnì Vittorio.
«No».
«Ti pareva». Vittorio
mollò una pacca frustrata al volante e digrignò i
denti. «Va bene, dopodomani sera. Basta che mi lasci in pace
e che non provi a terrorizzare Vera».
«Terrorizzarla? Io?»
ribatté Claudio. «La donna che ti ha urlato a due
centimetri dal naso e ha provato a morderti la prima volta che vi siete
visti, e che voleva spappolare la faccia di tua moglie
perché ti stava insultando?». Sbuffò
una mezza risata. «Non lo so mica, se c'è qualcuno
in grado di terrorizzare la tua ragazza, Valenti. Forse sei tu che sei
troppo protettivo e ti preoccupi senza motivo».
«Sì, sì»
brontolò l'altro. «Ti ho già detto che
ci saremo, dopodomani, quindi risparmiami almeno la tua psicologia
spicciola».
Claudio intrecciò le dita dietro la
testa e sorrise soddisfatto. «Allora me la tengo tutta per
dopo quella serata, la psicologia spicciola»
ridacchiò. «Oh, quanto mi
divertirò!»
******
Due giorni dopo quella conversazione, Vittorio era nella propria camera
da letto e si stava vestendo mentre imprecava tra sé a tutto
spiano: mancava meno di un'ora all'appuntamento con Claudio e Michela,
e lui ancora non aveva detto a Vera che quella sera sarebbero usciti. E
non si aspettava che convincerla a mettere il naso oltre la porta fosse
un'impresa facile: la venticinquenne sembrava felice all'idea di
restare a casa e giusto in quel momento era sdraiata sul divano insieme
a Estia, ignara di quel che l'aspettava.
L'uomo sospirò tra sé:
avrebbe potuto cercare di convincere Claudio a rimandare quell'uscita a
quattro ma, oltre a non essere certo di riuscirci, sapeva che l'amico
gli avrebbe dato il tormento per giorni.
Insomma: da qualunque punto di vista analizzasse
la situazione, Vittorio non vedeva modo di vincere.
Rassegnato, Vittorio s'infilò il
portafogli in tasca e tornò in salotto. Quando lo
sentì arrivare, Vera alzò lo sguardo e d'istinto
corrugò le sopracciglia, confusa dall'abbigliamento del
fidanzato: ormai aveva imparato che Vittorio passava la maggior parte
del proprio tempo libero scalzo, in tuta e magliette sformate,
soprattutto quando restava a casa, quindi vederlo in jeans, con una
maglietta in perfette condizioni e le scarpe ai piedi cozzava parecchio
con le sue aspettative. E questo senza contare l'espressione incerta e
insofferente sul volto dell'uomo.
Tutto considerato, Vera decise di dare voce alle
proprie perplessità.
«Che ci fai vestito così,
Vittò?»
Il carabiniere strinse le labbra e
arricciò il naso, poi si grattò la nuca.
«Ci tieni tanto a restare a casa,
stasera?»
L'espressione confusa di Vera divenne sospettosa.
«Che cosa stai tramando, Valenti?»
Le sopracciglia dell'uomo si inarcarono
all'istante mentre lui registrava l'improvviso ritorno all'uso del
cognome. Avrebbe potuto continuare a tastare il terreno e girare
intorno al nocciolo della questione per ore, ma questo non avrebbe reso
più facile far alzare Vera da quel divano. Quindi Vittorio
prese la borsa di lei e se la mise a tracolla, poi convinse Estia a
spostarsi con una caramella all'erba gatta. Fatto questo con gli occhi
sorpresi di Vera sempre incollati addosso, Vittorio la mise in piedi di
peso, l'afferrò per un polso e la trascinò verso
la porta.
«Usciamo».
«Di nuovo?» gnaulò
Vera. «Ma non senti mai il bisogno di far riposare le tue
vecchie ossa stanche?»
L'uomo non la degnò di uno sguardo: si
limitò a farla entrare nell'ascensore e a pigiare il
pulsante per il piano terra. «Se è una
provocazione per spingermi a darti una dimostrazione pratica del
contrario, sappi che non funziona».
«Quale provocazione?»
ribatté lei. «Io ero seria».
Di nuovo, Vittorio non perse neanche tempo a
voltarsi verso di lei. «Allora mettiamola così:
anche se vecchio e stanco, almeno io ho ancora tutte e due le
gambe».
«Perfido!»
«Ma ho detto la
verità».
«Insensibile, allora. Ecco!
Insensibile!»
«Mai sostenuto il contrario».
Senza battere ciglio, Vittorio spinse Vera fuori
dal portone e in macchina, corse al posto di guida e mise in moto.
Sconfitta, la ragazza incrociò le
braccia sul petto e scoccò un'occhiataccia a Vittorio.
«Posso almeno sapere perché
di punto in bianco hai deciso di uscire, o anche questo è
chiedere troppo?» domandò, petulante.
Il carabiniere non si scompose. «Non
all'improvviso» la corresse. «Claudio sa che stiamo
insieme e ha deciso che dovevamo per forza fare un'uscita a quattro: mi
ha rotto le scatole finché non ho detto di
sì».
Vera sogghignò. «Basta
davvero così poco per convincerti a fare qualcosa che non
vuoi?»
«Tu sottovaluti la capacità
di Claudio di esasperare una persona» rispose Vittorio con
grande serietà. «Diventa peggio di un martello:
immagina di passare otto ore con una persona che batte e ribatte senza
sosta sempre sullo stesso punto, e mi capirai!»
L'ex ginnasta sollevò per
metà le braccia e si stiracchiò. «Il
tuo collega già mi stava simpatico prima, ma adesso credo
che potrei addirittura adorarlo: c'è bisogno di qualcuno che
ti faccia saltare i nervi anche quando non posso pensarci io»
sghignazzò perfida.
Vittorio si accigliò. «Faccio
ancora in tempo a girare la macchina e tornare a casa».
Il sorriso di Vera avrebbe illuminato una stanza
buia. «Fa' pure: tanto io vinco in entrambi i casi!»
Il cipiglio di Vittorio si accentuò
mentre l'uomo borbottava qualcosa tra sé; la sua voce era
troppo bassa perché Vera potesse distinguere con chiarezza
quel che stava dicendo, ma fu sicura di aver sentito le parole
“ragazzina guastafeste” e il suo sorriso si
allargò ancora di più.
I due lasciarono che la musica che usciva dalla
radio riempisse il resto del tragitto; alla fine Vittorio
parcheggiò l'Alfa a poca distanza dal solito pub e insieme a
Vera raggiunse la porta del locale e la varcò.
Avevano a malapena messo piede all'interno che
già un uomo si sbracciava frenetico nella loro direzione,
mentre la donna bionda seduta insieme a lui si copriva il volto con la
mano e scuoteva la testa con fare sconsolato.
«Accidenti»
commentò Vera: l'espressione di Claudio era entusiasta in
maniera quasi inquietante. «Non ti pare un po' troppo
felice?»
«Certo che è felice: ha
qualcosa in mente... solo che non so cosa»
bofonchiò scontento Vittorio. «Tanto lo so che mi
pentirò di aver ceduto, lo sapevo già prima e
adesso ne sono proprio convinto. Andiamo, va': tanto, ormai, non
possiamo più scappare».
«Sei sicuro?» chiese incerta
la donna.
Neanche avesse sentito le loro parole, Claudio
scoccò a Vittorio uno sguardo che prometteva dure
rappresaglie e indicò con un gesto secco le sedie libere.
«Sì, sono sicuro»
sbuffò infine il quarantenne.
Senza aggiungere altro, Vera e Vittorio fecero lo
slalom tra i tavoli fino a raggiungere quello occupato dalla coppia che
li aspettava; Claudio balzò in piedi all'istante,
mollò sulla schiena di Vittorio una pacca tanto forte da
mozzargli il fiato e tese la mano a Vera.
«Ciao, Vera, è bello
rivederti... finalmente»
cinguettò. «Questa è Michela, mia
moglie».
Vittorio lo interruppe rifilandogli uno schiaffo
deciso sul retro della testa. «Non siamo cani: la prossima
volta, quel gesto da addestratore cinofilo fallo a tua
sorella».
«Io non ho sorelle»
replicò l'altro uomo.
«E la fortuna è tutta
loro».
Scuotendo la testa al battibecco tra i due, Vera
sedette accanto all'altra donna e le tese la mano come aveva fatto
Claudio con lei solo un momento prima.
«Ciao, Michela: è un piacere
conoscerti».
Michela le prese la mano e la strinse.
«Piacere mio, Vera». La studiò con aria
divertita. «Claudio mi ha parlato parecchio di te,
specialmente negli ultimi due giorni». Sospirò,
improvvisamente abbattuta. «Scusa».
Vera batté più volte le
palpebre, perplessa. «Scusa... di cosa?»
L'altra accennò con la testa al proprio
marito. «Scusa di qualsiasi cosa dirà o
farà: lo vedo, che ha qualcosa in mente».
La venticinquenne trattenne una risata.
«Vittorio ha detto la stessa cosa appena siamo
entrati».
«Be', Vittorio sembra aver imparato a
conoscere Claudio piuttosto in fretta». Michela
lanciò un'occhiata ai due uomini che, ancora in piedi,
proseguivano nel loro botta e risposta. «Vanno d'accordo, i
due mocciosi, eh?»
Vera scoppiò in una grassa, rumorosa
risata: non poté proprio impedirselo, e la cosa
attirò l'attenzione di Claudio e Vittorio.
«Che c'è da
ridere?» chiese il secondo.
L'ex ginnasta annaspò nel vano
tentativo di riprendere fiato e indicò Michela, che li
osservava con un sorrisetto compiaciuto sul volto. «Lei...
lei... vi ha chiamati... mocciosi» singhiozzò a
fatica, «e, Dio... c'ha preso... in pieno!».
Entrambi i carabinieri si voltarono verso la
trentatreenne bionda. « Mocciosi?»
«Se non vi piace, posso sempre chiamarvi
marmocchi» replicò placida Michela.
«Tanto è lo stesso».
«Tua moglie è un tantino
stronza» disse Vittorio all'amico.
«Sì, lo so»
replicò lapidario Claudio.
«Non dargli retta» intervenne
Vera. Batté una mano su quella dell'altra. «Tu sei
un genio
assoluto, Michela, fidati».
«Ci credo che la consideri un genio: a
quanto mi ha raccontato Vittorio, non sei da meno di lei»
commentò Claudio.
Vera gli rivolse uno sguardo supponente.
«Stai dicendo che siamo due stronze? Bella
scoperta!»
«Sì, infatti: se proprio
dovete parlare, almeno diteci qualcosa che non sappiamo
già» aggiunse Michela con noncuranza prima di
voltarsi verso Vera. «Lasciali perdere, Vera. Piuttosto...
Claudio mi ha detto che Vittorio gli ha raccontato che fai la
traduttrice».
L'ex ginnasta guardò gli uomini, le
sopracciglia inarcate a formare due archi perfetti.
«Pettegoli» commentò.
«Comunque sì, è vero. Traduco gli
articoli di un professore di Economia che a tempo perso scrive per
varie riviste internazionali. Tutta roba abbastanza noiosa, ma lui
è una pasta d'uomo e ci si lavora che è una
meraviglia».
«Ah, meglio così. Io ho
lavorato per tre anni come segretaria per un infame che non ti dico...
non si sopportava. Penso di essere stata più felice il
giorno in cui ho potuto lasciare quel posto che in quello del mio
matrimonio!»
«Ehi!» sbottò
Claudio, indignato.
Nessuna delle due diede cenno d'averlo sentito:
continuarono a chiacchierare allegramente, come se Vittorio e Claudio
neanche fossero presenti.
Il quarantenne batté la mano sulla
spalla dell'altro uomo.
«Volevi tanto farle incontrare? Eccoti
servito!» disse giulivo.
Claudio assottigliò lo sguardo.
«Mi rifarò la prossima volta: tanto peggio per la
tua ragazza!»
«Buona fortuna»
sghignazzò Vittorio.
******
A differenza di Claudio, Vittorio si era ripreso in fretta dalla
rapidità con cui Vera e Michela avevano stretto amicizia: in
fondo, lui
non aveva niente da temere dal sodalizio tra le due donne... almeno per
il momento. C'era però qualcosa da cui si sarebbe ripreso
molto meno in fretta e, pur sapendolo, si trattava di un appuntamento
che non poteva evitare.
Fu così che, quella domenica mattina,
Vittorio sospirò rassegnato e suonò il campanello.
Sua madre aprì la porta neanche dieci
secondi più tardi.
«Tua sorella è arrivata prima
di te e lei
abita a Viterbo» furono le prime parole di Agnese.
«E ti pareva che non si partiva
all'istante con le lodi di Valeria la perfettina!»
sbottò Vittorio. «Guarda, mà, te lo
dico subito: se mi devi rompere così per tutto il pranzo,
giuro che me ne vado adesso».
«Come sei suscettibile!»
replicò offesa sua madre. «Entra, che è
meglio!»
Brontolando tra sé, il carabiniere
varcò l'uscio e andò dritto in sala da pranzo:
lì, già schierati intorno al tavolo, c'erano i
suoi zii e sua sorella, quest'ultima incredibilmente senza marito e
figli al seguito.
«Guarda un po' chi si è
finalmente fatto vivo» disse sarcastica Valeria.
«Il mio fratellone stronzo, che è tornato a Roma
da sei mesi e non si è mai
fatto vedere!». Gli si avvicinò e gli
sferrò un pugno in pieno petto. «Sei un
disgraziato: se non fossi venuta io qua, chissà quando ti
saresti degnato di venire a salutarmi!»
Vittorio si massaggiò il punto colpito
con una smorfia di fastidio. «Sei sempre la solita scimmietta
manesca» mugugnò. Schivò un secondo
pugno. «Senti, ho avuto un sacco di casini da sistemare e
poco tempo libero, va bene? Verrò a trovarti, basta che la
smetti di picchiarmi!»
«Non lo so se te lo meriti»
borbottò Valeria mentre gli scoccava uno sguardo torvo.
«Ma piantala di fare la
sostenuta» replicò suo fratello.
«Piuttosto, dove hai lasciato il resto della Banda
Bassotti?»
Valeria sbuffò. «Simone ha
portato i due pazzi scatenati a pescare al lago e io ne ho approfittato
per venire qui».
Vittorio gemette. «Ma così
non vale! A saperlo, sarei andato con loro!»
Il terzo pugno della trentacinquenne lo
colpì dritto al diaframma; Vittorio, preso alla sprovvista,
si piegò a metà con un gemito di dolore.
«Se ti fossi degnato di venirci a
trovare, l'avresti saputo!» abbaiò Valeria.
«I tuoi
nipoti muoiono dalla voglia di vederti: adorano lo zio Vittorio, in
caso te lo fossi scordato!»
Il carabiniere si raddrizzò e si
grattò la nuca. «Non me lo sono scordato, ma ho
avuto un periodaccio e mi è mancato proprio il
tempo».
Sua sorella gli rivolse una lunga occhiata
penetrante, studiandolo con cura dalla punta delle scarpe a quella dei
capelli; le sue sopracciglia si aggrottarono ancora di più
prima di distendersi appena.
«Dopo mi racconti»
bisbigliò minacciosa.
«Va bene» mugugnò
l'uomo a mezza voce.
« Tutto!»
mormorò decisa Valeria.
«Ho già detto di
sì!» replicò Vittorio in un sussurro
furioso. Si allontanò da Valeria. «Ciao zia Adele,
zio Ernesto» salutò, abbracciando entrambi.
«Era ora di rifare un pranzo in famiglia...»
«Peccato che se dovessimo aspettare te,
per organizzarlo, ci rivedremmo solo all'altro mondo»
bofonchiò Agnese.
«E basta, Agnè»
sbuffò Adele. «Lascia in pace 'sto povero figlio,
che quando hai bisogno di una mano, corre sempre... e fa pure un
lavoraccio duro». Pizzicò la guancia del
quarantenne. «Bello de zia, non stare a sentirla a tua madre,
che se non si lamenta, non è mai contenta!»
Vittorio scoccò un'occhiata gongolante
ad Agnese, che gli rivolse una smorfia irritata e sparì in
cucina.
Nonostante le premesse, il pranzo filò
via più liscio del previsto: i battibecchi tra Vittorio e
Agnese rimasero al minimo, grazie anche agli interventi di Adele,
spudoratamente a favore del nipote, e di Ernesto, che abituato agli
scontri tra le due sorelle, sapeva bene come deviare la conversazione
in modo da farle concentrare su tutt'altro.
Giusto un paio d'ore dopo l'arrivo del
carabiniere, Adele e Agnese presero a battibeccare sulla corretta
potatura delle rose; Ernesto si vide costretto a fare di nuovo da
paciere, e questo lasciò Valeria e Vittorio a intrattenersi
tra di loro.
«Io e te dobbiamo parlare»
bisbigliò Valeria all'orecchio del fratello.
Il carabiniere si alzò. «Vado
a fare il caffè» annunciò. Quando
nessuno diede cenno d'averlo sentito, si voltò verso la
trentacinquenne. «Vieni ad aiutarmi».
I due filarono in cucina prima che Agnese potesse
accorgersi del fatto che avevano lasciato la tavola; Valeria si
richiuse la porta della stanza alle spalle e Vittorio andò
subito a frugare nella credenza, alla ricerca della caffettiera
più grande.
«Tanto vale prepararlo
davvero» disse, in risposta all'occhiata perplessa di
Valeria.
La donna incrociò le braccia al petto e
lo fissò mentre preparava la moka e la metteva sul gas;
continuò a seguire ogni sua mossa anche mentre preparava
vassoio, tazzine e zuccheriera, e soltanto quando lo vide ripulirsi con
uno strofinaccio si decise a parlare.
«Mi pare che manchi qualcosa»
osservò Valeria. Il carabiniere, confuso, osservò
prima la caffettiera e poi il vassoio, e sua sorella sbuffò.
«Sulla tua mano, manca qualcosa. Dov'è la
tua fede?» chiese, tagliente.
D'istinto Vittorio si guardò le dita,
maledicendo tra sé la propria sbadataggine: avrebbe dovuto
aspettarsi che qualcuno notasse l'assenza dell'anello. In preda al
panico tentò inutilmente di nascondere la mano, ma ormai il
danno era fatto.
«Mi sto separando»
rivelò controvoglia.
Valeria sgranò gli occhi. «TI
STAI...»
Vittorio le schiaffò una mano sulla
bocca. «Zitta!» sibilò con voce
mortifera. Si lanciò uno sguardo alle spalle e rimase in
ascolto: dopo qualche istante, sentì sua madre e sua zia
ancora intente a bisticciare e si rilassò. Tolse la mano dal
volto di Valeria, non senza scoccarle un'occhiata di ammonimento.
« Ti
stai separando?» lo incalzò sua
sorella.
«Parla piano!» la
rimbrottò Vittorio. «Sì, mi sto
separando. Tanto, ormai, è inutile negare l'evidenza: il mio
matrimonio è irrecuperabile e da quando sono tornato a Roma
ho capito di stare molto, molto meglio senza Emanuela. E comunque, vedi
di farti gli affari tuoi, eh» aggiunse in fretta.
«Evita di correre a dirlo a mamma!»
«Che palle, Vittò! E falla
finita!» sbottò sua sorella. «Lo sai che
non sono mai
andata a raccontare i tuoi segreti a mamma!»
Vittorio inarcò le sopracciglia.
«Ah, no? E quando hai trovato quel pacchetto di sigarette nel
cassetto delle mutande, in camera mia?»
«Avevo undici anni!» insorse
Valeria. «Per quanto tempo ancora hai intenzione di
rinfacciarmelo? E poi anche tu mi hai beccata a marinare la scuola e
l'hai detto a mamma!»
«Avevi tredici anni: 'ndo volevi
andà io ancora non l'ho capito»
bofonchiò l'uomo.
«Non provare a cambiare
discorso» bisbigliò minacciosa la trentacinquenne.
«Tu non mi stai raccontando tutto, lo so!»
«Che vuoi che ti racconti? Che porto le
corna da più di due anni? Eccoti accontentata!»
esplose sottovoce Vittorio.
Valeria trattenne bruscamente il fiato.
«Quella stronza!».
Schivò la mano di suo fratello, che tentava di nuovo di
chiuderle la bocca. «Non me fai sta' zitta, proprio no!
Quella puttana!
Se la pijo, je spacco la faccia!»
Vittorio la abbrancò alla vita e, con
un certo sforzo, riuscì contemporaneamente a bloccarla e
soffocare la sua voce con la propria mano.
«Già ne ho dovuta fermare
una, ci manca solo che ci provi anche tu, a prendere a schiaffi
Emanuela!» ansimò l'uomo.
«Perché sono circondato da donne fuori di
testa?»
Valeria farfugliò qualcosa contro il
suo palmo, l'espressione furiosa, ma Vittorio non allentò la
presa; due secondi più tardi, però, ritrasse di
scatto la mano con aria disgustata.
«Mi hai leccato!» disse,
incredulo.
«Così impari a tapparmi la
bocca!» ribatté Valeria.
«Che schifo, ma che schifo!»
proseguì Vittorio mentre si lavava le mani.
«Cristo, Valè, c'hai trentacinque anni, mica
otto!»
Sua sorella gli sferrò un calcio sul
polpaccio. «E tu continui a fare il prepotente come quando ne
avevi dieci e io cinque!» sbottò.
Controllò la caffettiera e spense il gas prima di
concentrarsi di nuovo su Vittorio. «E adesso dimmi chi
è che voleva pestare Emanuela, senza che io debba tirarti
fuori le parole con le pinze!»
Vittorio esitò: un errore madornale,
perché Valeria fiutò all'istante la sua
incertezza. Il carabiniere prese a versare il caffè nelle
tazzine, sperando così di sfuggire all'interrogatorio di sua
sorella.
Peccato che Valeria fosse ostinata quanto lui.
« Vittorio»
ringhiò la donna.
«Bada ai fatti tuoi»
reagì brusco il quarantenne. «Ti voglio bene,
Vale, sai che te ne voglio, ma questo non mi obbliga a raccontarti
tutti gli affari miei!»
Valeria gli scoccò un'occhiata truce
prima di scuotere la testa.
«Fammi almeno il favore di non metterti
nei casini» disse cupa.
«La tua fiducia in me è
commovente» rispose sarcastico Vittorio mentre prendeva il
vassoio. «Torniamo di là, prima che mamma venga a
impicciarsi».
Sua sorella gli trotterellò dietro.
«Hai preso lo zucchero di canna per me?»
«Sì»
brontolò l'uomo.
«E il mio cucchiaino
preferito?»
«Ho preso anche quello, razza di
rompiscatole».
«Ehi! Rompiscatole a chi?»
«A te: ne vedi altri, in giro?»
I due rientrarono nella sala da pranzo senza mai
smettere di punzecchiarsi e, una volta lì, Adele coinvolse
Valeria nella discussione con Agnese.
Vittorio tirò un silenzioso sospiro di
sollievo: era salvo, per il momento... ma conoscendo sua sorella,
quella pace non sarebbe durata a lungo.
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Capitolo 21 *** Capitolo XX ***
Milano era esattamente
come Vittorio la ricordava: rumorosa e frenetica persino più
di Roma, e afosa il doppio.
Il carabiniere sbadigliò,
massaggiandosi il collo, e si avviò a passi pesanti verso
una delle uscite della Stazione Centrale: a quell'ora di mattina era
piena di persone che andavano al lavoro e ben presto Vittorio si
ritrovò trascinato all'esterno da una fiumana di gente.
Il quarantenne conosceva bene quella zona: ci
aveva prestato servizio così tante volte da perdere il
conto, quindi si avviò con decisione verso un bar ben
preciso, all'apparenza uguale agli innumerevoli altri che sorgevano nei
dintorni.
Lì, come previsto, trovò ad
attenderlo l'avvocato che gli aveva raccomandato Luciano.
«Buongiorno, Valenti». L'uomo
gli lanciò una lunga occhiata.
«Nottataccia?»
«Buongiorno, avvocato»
grugnì Vittorio in risposta. «Ho fatto uno dei
viaggi peggiori della mia vita su un notturno interregionale che...
lasciamo stare, è meglio». Richiamò
l'attenzione del barista con una mano. «Ti prego, fammi un
caffè. Doppio. E portami anche un paio di cornetti
farciti».
Giuliano Santini inarcò le
sopracciglia. «Goditelo 'sto caffè, Valenti,
perché stamattina abbiamo parecchio da fare. Tra un'ora
vediamo tua moglie e il suo avvocato per firmare le carte per la
separazione; sono state fatte le stime sui beni di valore che possedete
insieme – all'infuori della casa, s'intende – ed
è disposta a pagare per tenersi tutto, visto che hai detto
che non vuoi niente di quello che avete comprato durante il
matrimonio».
«Meno male»
brontolò Vittorio. «E la casa?»
«Tua moglie ha rinunciato al diritto di
prelazione, ma abbiamo trovato comunque un compratore per la tua
metà e disposto ad accollarsi la tua parte di
mutuo» rispose Santini. «Ho già parlato
anche con la banca: abbiamo appuntamento alle undici e trenta per
finalizzare le carte riguardanti il mutuo. Se tutto va bene, riusciamo
a sistemare ogni cosa entro oggi». Gli fece l'occhiolino.
«Dopo, l'unica cosa che ti resta da fare è pagarmi
la parcella».
Vittorio sbuffò. «Luciano non
me l'aveva detto, che sei tanto simpatico».
L'avvocato si sistemò la giacca.
«Questo è un privilegio che riservo ai clienti
paganti».
« Molto
spiritoso».
«Valenti, pensa a fare colazione, che
l'orologio corre!»
Vittorio decise di seguire il suggerimento di
Santini; dopo dieci minuti i due uomini erano fuori dal bar, e altri
diciassette più tardi, facevano il loro ingresso nello
studio dell'avvocato di Emanuela.
Quando la donna arrivò, posò
lo sguardo su Vittorio per un brevissimo istante prima distoglierlo in
tutta fretta, senza nient'altro che un cenno del capo a mo' di saluto.
Il carabiniere strinse d'istinto gli occhi, reso
guardingo dall'atteggiamento di sua moglie. O meglio, quasi ex moglie,
si corresse tra sé mentre continuava a rimuginare sullo
strano comportamento di Emanuela: che stesse pensando di rimangiarsi la
parola? Magari di giocargli un brutto tiro? Vittorio non se la sentiva
di escluderlo: Emanuela gli aveva portato rancore molto più
a lungo e per motivi molto meno importanti, in passato, e non si era
mai fatto scrupolo di manifestare il proprio malumore. Dunque lo
rendeva inquieto, quel contegno così remissivo di Emanuela:
in fondo, quella era la donna che era venuta fino a Roma e non s'era
fatta scrupoli ad azzuffarsi con una sconosciuta in mezzo alla strada.
Vittorio spinse quei pensieri in fondo alla mente
quando la segretaria dell'avvocato milanese li fece accomodare nel suo
studio. Da lì, le cose procedettero senza intoppi, al
contrario di quanto s'era aspettato: ricontrollati i termini
dell'accordo e del tutto soddisfatto, Vittorio firmò i
documenti subito dopo sua moglie.
Il quarantenne lanciò uno sguardo
all'orologio e sorrise. Adesso la separazione era ufficiale, senza
contare che il tutto si era svolto in poco più di un'ora e
senza scambiare una sola parola con Emanuela, il che aveva del
miracoloso: Vittorio si era aspettato ore di contrattazioni e urla
furibonde da parte di entrambi, e non gli sembrava vero di essersela
cavata così a buon mercato.
«Sbrigati, Valenti: dobbiamo andare in
banca» lo spronò Santini, quasi più
giulivo del suo cliente.
Vittorio lo seguì, non senza scoccargli
uno sguardo sardonico. «Non dovrei essere io, quello
così spudoratamente allegro?»
«No» rispose all'istante
l'avvocato. «Tu ti sei separato una volta sola; io faccio
questo lavoro da anni, e se tutte le separazione fossero
così semplici e veloci, la mia vita sarebbe
perfetta». Sospirò con quella che pareva genuina
felicità mentre uscivano dal palazzo che ospitava lo studio
dell'altro avvocato e si avviavano lungo il marciapiede. «Non
vi siete nemmeno urlati contro: e pensare che mi ero anche portato
dietro i tappi per le orecchie».
« I
tappi per le orecchie?» gli fece eco il
quarantenne.
L'altro si voltò appena verso di lui e
ammiccò. «Luciano mi ha avvertito: dice che quando
ti arrabbi, tiri fuori due polmoni niente male!»
Vittorio grugnì qualcosa tra
sé ma scelse di non replicare. I due uomini continuarono in
silenzio la loro lenta camminata verso la banca; quando arrivarono,
vennero accolti quasi subito da un impiegato solerte, che li
guidò in un cubicolo nascosto a occhi indiscreti dalle
pareti di vetro sabbiato.
Non appena entrò, il carabiniere si
rese conto che l'acquirente era già arrivato; ma gli ci
volle una seconda occhiata per riconoscere l'uomo dall'aria altera che
gli stava di fronte, affiancato da un volto che Vittorio conosceva fin
troppo bene e che aveva guardato per l'ultima volta solo mezz'ora prima.
Incredulo, Vittorio fissò Emanuela e
Carlo, il superiore della prima nonché suo amante, per
alcuni lunghi istanti; poi un sorriso gli stirò la bocca
quasi contro la sua volontà.
Due secondi più tardi, il carabiniere
esplose in una grassa risata sotto gli sguardi increduli dell'impiegato
della banca e dell'avvocato Santini.
«I-i-io... non ci posso... credere!»
riuscì a rantolare Vittorio, tenendosi le costole.
Indicò prima Carlo, che lo scrutava truce, poi Emanuela, sul
cui viso campeggiava un'espressione per metà ostinata e per
metà atterrita. «Proprio... non...
posso!»
«Hai finito?» chiese arcigno
Carlo.
«Per niente» ansimò
l'altro, mentre si sforzava di tenere a bada quello scoppio di
ilarità. «Scusa, ma la tua faccia era proprio
l'ultima che mi sarei aspettato di vedere, qui e oggi». Gli
lanciò uno sguardo divertito. «Non ti facevo
così audace da ricomprare la mia metà di casa
sotto il naso di tua moglie!»
Carlo passò un braccio intorno alle
spalle di Emanuela con aria arrogante.
«Mi sono separato»
annunciò, come se ne andasse particolarmente fiero.
«Non appena avremo risolto questa situazione»
sputò con disprezzo, lanciando uno sguardo eloquente a
Vittorio, «andremo a convivere».
Vittorio si asciugò gli occhi umidi col
dorso della mano, il sorriso sempre stampato sulle labbra.
«Se non avessi più fretta di te di chiudere questa
storia, ti terrei sulla corda per il puro gusto di farlo».
Per un attimo sembrò sul punto di aggiungere qualcos'altro,
ma prima di poterci riuscire, eruppe in un nuovo torrente di risate,
tanto violente da costringerlo di nuovo a premersi le mani sullo
stomaco.
Quando fu riuscito a prendere fiato un paio di
volte, si raddrizzò e guardò Emanuela.
«Se penso che sei venuta fino a Roma per
supplicarmi di darti un'altra possibilità e che ti
comportavi come se ti avessi spezzato il cuore... per fortuna non ci
sono cascato!» commentò il carabiniere,
ricominciando a sghignazzare senza ritegno. Spostò lo
sguardo su Carlo. «Adesso è tutta tua. Tienitela
stretta, se ci riesci; io, di sicuro, non la
rimpiangerò». Allegro come non mai, si
voltò verso l'impiegato che lo fissava impietrito.
«Allora, dove devo firmare?»
******
Vera lanciò l'ennesimo sguardo al cellulare prima di tornare
verso l'armadio.
La notte precedente Vittorio era partito per
Milano e, eccezion fatta per un messaggio con cui l'avvisava di essere
arrivato, Vera non aveva avuto sue notizie; e sebbene sapesse che di
sicuro Vittorio non si era fatto sentire soltanto perché
troppo occupato, lei non poteva fare a meno di essere agitata. In
fondo, pensava la ragazza, Vittorio era sposato con Emanuela da
vent'anni: non era così improbabile che, dopo quell'ultima
lite e quel distacco tanto netto, uno o entrambi avessero cambiato idea
sulla separazione. Magari rivedendosi si erano resi conto che c'era
ancora dell'amore tra loro, o che non erano pronti a lasciarsi, o che
c'era ancora la voglia o la possibilità di salvare il loro
matrimonio...
Vera scosse con forza la testa e tornò
a riempire la piccola sacca che aveva appoggiato sul letto. Il giorno
prima, quando si erano salutati, Vittorio le aveva detto che, salvo
imprevisti, sarebbe tornato in tempo per passarla a prendere intorno
alle ventuno; e visto che non aveva avuto comunicazioni diverse
– e che ormai il tempo stringeva, almeno stando
all’orologio – alla fine si era decisa a preparare
quello che le serviva.
In quel momento Fabiola entrò nella sua
stanza e guardò con attenzione sua figlia che riempiva la
borsa.
«Dormo fuori»
annunciò Vera, anticipando la domanda di sua madre.
Fabiola inarcò le sopracciglia.
«Devo chiederti dove?»
«Ti aspetti una risposta diversa dal
solito?» ribatté ironica la venticinquenne.
Sua madre le rivolse un lungo sguardo calcolatore:
Vera era sicura che avesse visto il suo bluff, ma non aveva intenzione
di darle nessun tipo di conferma.
Dopo un minuto intero, Fabiola sedette sul bordo
del materasso e sospirò.
«Non capisco perché,
all'improvviso, ci sono tutti questi segreti tra me e te»
disse piano, lo sguardo fisso sulle proprie mani. «Pensi che
avrei qualcosa da ridire? Per quel che ho visto finora, Vittorio mi
sembra un brav'uomo».
Vera deglutì. «Che c'entra
Vitt...»
Fabiola rialzò la testa. «Per
favore, Vè, non trattarmi come se fossi stupida!»
la interruppe sferzante. Prese un breve respiro. «Ultimamente
state sempre appiccicati e si vede, che gli piaci, si vede da come ti
guarda quando siete insieme». Le rivolse un'occhiata
penetrante. «E se a te non piacesse lui, se ti fosse
antipatico come quando l'hai incontrato per la prima volta, l'avresti
già fatto scappare».
«Non sono così
cattiva!» insorse Vera.
«Quando ti ci metti sai essere peggio
che cattiva, Vè: negare l'evidenza non cambia i
fatti» sbuffò sua madre. «E non cambiare
discorso».
Vera mise le ultime cose nella sacca e la chiuse,
poi andò a sedersi accanto a Fabiola.
«Che vuoi che ti dica?»
mormorò, ripiegando la gamba sana sotto quella artificiale.
«Che mi piace? Che con lui sto bene? È
così, non ho motivo di negarlo. E neanche di tenerlo
nascosto. Solo che… volevo tenere la cosa per me, almeno per
un po’».
«Perché? Non sei
felice?» indagò Fabiola.
«Sì che sono
felice». Vera si grattò il naso, pensosa.
«Ed è proprio questo che mi preoccupa».
L'altra donna la fissò per un istante,
esterrefatta. «Ti rendi conto che essere preoccupati
perché si è felici non è normale,
vero?»
Sua figlia si strinse nelle spalle.
«L'ultima volta che sono stata felice, che mi sembrava di non
poter avere di più, Noemi è morta e io ho perso
una gamba oltre a passare un mese e mezzo in ospedale perché
ero piena di fratture e lesioni interne. Quindi… non lo so,
diciamo che sono scaramantica e ho paura che capiti qualche altra
disgrazia».
Fabiola le strofinò una mano sulla
schiena e si sporse a darle un bacio sulla guancia prima di alzarsi.
«A proposito... tuo padre si
è autoconvinto che non ci sia nulla, tra te e
Vittorio» commentò leggera mentre se ne andava.
«Lasciamolo crogiolarsi nelle sue illusioni».
Vera sghignazzò tra sé,
prese borsa e sacca e seguì sua madre giù per le
scale; quando entrò in cucina quasi si scontrò
con Eugenio che ne usciva, un bicchiere di tè freddo in mano
e il telecomando del televisore in tasca.
Eugenio scorse la sacca che sua figlia portava in
spalla, ma prima che potesse dire alcunché, il cellulare
della ragazza trillò; Vera lesse il messaggio di Vittorio e
sorrise tra sé.
«Pà, io esco»
annunciò mentre faceva dietrofront.
«Lo vedo» replicò
l'uomo, tallonandola verso la porta. «Ma con chi?»
«Indovina».
Eugenio assottigliò lo sguardo.
«Sarà mica quel carabiniere...?»
«Proprio lui». Vera
aprì la porta, poi scoccò un'occhiata sardonica
all'espressione aggrondata di suo padre. «Perché
quella faccia? Mi era parso di capire che ti fosse simpatico, quando me
lo hai appioppato per l'appuntamento che avevo con Fabio»
disse soave.
L'uomo mugugnò qualcosa di
incomprensibile e Vera ne approfittò per varcare la soglia.
«Digli che lo tengo d'occhio!»
le urlò dietro Eugenio.
L’ex ginnasta sventolò una
mano con fare noncurante, sgattaiolò fuori dal cancello
sotto lo sguardo sospettoso di Eugenio e s'infilò nella
macchina di Vittorio il più rapidamente possibile.
Il sorriso rilassato con cui il carabiniere la
accolse la fecero sospirare di sollievo.
«Parti, Valenti: mio padre è
sul piede di guerra».
Vittorio eseguì, non senza ridacchiare.
«Che gli hai fatto?»
«Esco con te» rispose lei in
tono innocente.
«E lui non approva»
sbuffò il quarantenne.
«Per ora, si sforza di credere che tra
me e te non ci sia nulla» replicò Vera.
«Mia madre, invece, ci ha dato la sua benedizione...
più o meno».
«Be', è rassicurante sapere
che almeno uno dei tuoi genitori non proverà a
uccidermi» disse giulivo Vittorio.
«Vorrà dire che se mai chiederò la tua
mano a Eugenio, mi presenterò con l'armatura. O pensi sia
meglio che ingaggi una decina di guardie del corpo?»
Vera lo misurò con lo sguardo.
«Quanto siamo allegri, Valenti. Per caso hai avuto un colpo
di fulmine per una donna con tutte e due le gambe?»
Vittorio accostò l'auto,
slacciò la cintura di sicurezza e si sporse verso Vera fin
quasi a salirle in braccio.
«I miei gusti sono cambiati un
po'» rispose, scoccandole uno sguardo ardente. Fece scivolare
una mano sul ventre della ragazza mentre con l'altra le afferrava la
nuca. «Adesso preferisco quelle con una gamba
finta».
Il carabiniere si avventò sulle labbra
di Vera come se non la vedesse da un mese, invece che da sole
ventiquattro ore. Vera rispose con entusiasmo: gli cinse il collo con
le braccia e insinuò la lingua nella bocca di lui,
strappandogli un gemito eccitato. Prima che gli animi potessero
scaldarsi ancora di più, però, il cellulare di
Vittorio prese a squillare con insistenza.
L'uomo si staccò da Vera con un
grugnito di disappunto e afferrò il cellulare; dopo aver
gettato un rapido sguardo allo schermo, prese un respiro profondo e
rispose sbuffando. «Mà? Che
c’è?». Ascoltò in silenzio
per mezzo minuto buono prima di schiaffarsi una mano sulla fronte in un
gesto esasperato. «Sì, sì, vengo
subito. T’ho detto che vengo!»
E chiuse la chiamata.
«Problemi?» chiese Vera. Lui
prese a testate il poggiatesta, borbottando tra sé, e le
sopracciglia della donna s’inarcarono. «Quello
è troppo morbido: se vuoi ammazzarti, devi prendere a
testate qualcosa di più duro. Tipo lo sportello di una
cassaforte, considerato che è della tua testa che stiamo
parlando».
Vittorio la guardò storto e rimise in
moto l’auto. «Devo andare da mia madre»
bofonchiò contrariato. Il suo sguardo si accese.
«Vieni con me!»
«Ma che sei impazzito?»
replicò Vera.
«No, il livello di follia è
sempre lo stesso» rispose lui, immettendosi nel traffico.
«Dai, su, sono passato a prenderti solo dieci minuti fa: non
mi va di riportarti a casa. Tuo padre potrebbe fucilarmi, per averti
scomodata inutilmente!»
«E io che pensavo me l’avessi
chiesto perché ti fa piacere stare con me»
ribatté lei, sardonica.
«Anche» concesse Vittorio.
«Dai, vedrai che ne varrà la pena: mia madre fa
una crostata buona da impazzire».
Vera quasi si mise a ridere nel sentire
l’entusiasmo con cui il carabiniere aveva pronunciato le
ultime parole. Per un attimo era sembrato un ragazzino, molto
più giovane dei suoi quarant’anni e soprattutto
molto meno amaro e cinico.
«Visto che si parla di visite, questo
sabato siamo invitati a cena da Giulia e Tiziano»
annunciò mielata.
«Basta che il tuo amico non provi a
farmi diventare juventino» rispose pronto l'uomo.
Il viaggio proseguì per un mezz'ora,
durante cui Vittorio ne approfittò per raccontarle la
propria giornata; Vera rise fino alle lacrime quando sentì
della scena avvenuta in banca, e riuscì a ricomporsi giusto
mentre Vittorio parcheggiava la macchina sotto casa di sua madre.
I due entrarono nel palazzo e presero l'ascensore
fino al quarto piano, dove Vittorio scoccò uno sguardo
malandrino a Vera prima di incollare il dito al campanello della porta
che avevano di fronte.
Dei passi veloci risuonarono dietro la porta; il
battente si aprì e Vera si trovò di fronte una
signora di circa sessantacinque anni dall'aria energica.
«Vittorio, smettila con quel
campanello!» sbottò Agnese con aria furiosa.
«E sbrigati a entrare: non so più che fare con
quel lavandino!» proseguì, esasperata. Stava per
aggiungere qualcos'altro quando finalmente scorse Vera, e si
zittì.
«Te lo dico io che devi fare: chiamare
un idraulico e cambiarlo» borbottò Vittorio,
entrando nell’appartamento e trascinando Vera con
sé. «Mà, questa è Vera;
Vera, questa è Agnese, mia madre».
Imbarazzata, Vera strinse la mano
dell’altra donna. «Salve, signora. Spero che non le
dispiaccia se ci sono anch’io» mormorò.
Agnese si riprese prontamente.
«Macché!» disse decisa, chiudendo la
porta. «Ti piacciono le crostate? Ne ho appena fatta
una».
«Guarda caso»
commentò sarcastico Vittorio. Sua madre lo guardò
male e Vera rischiò di scoppiare a ridere: era la stessa
espressione che faceva Vittorio quando lei lo punzecchiava. Il
carabiniere si rivolse a lei. «Ogni volta che mi chiama per
sistemare questo maledetto lavandino, prepara una crostata per tenermi
buono» spiegò.
«Visto che
funziona…» commentò candidamente
Agnese. «Vieni, Vera. Vittorio, la cassetta degli attrezzi
è al solito posto».
Le due donne andarono in cucina, dove il
televisore acceso faceva da sottofondo con il suo chiacchiericcio; la
più giovane sedette con la schiena rivolta allo schermo
mentre la padrona di casa le piazzava di fronte acqua, tè
freddo e una crostata alla marmellata di ciliegie che sembrava uscita
da una rivista di cucina.
Vera annusò il dolce. «Ha un
profumo divino» disse sincera.
Agnese sorrise fiera e si accomodò;
tagliò una bella fetta di crostata e la mise davanti alla
ragazza, mentre Vittorio entrava nella stanza sbuffando e sferragliando.
«Allora, Vera, dimmi: come mai conosci
mio figlio?» chiese Agnese.
Vera arrossì al ricordo.
«Be’ io… io…»
Il carabiniere aprì l’anta di
legno che nascondeva il sifone, si sdraiò a terra e
s’infilò per metà nel pensile.
«Te lo dico io: l’ho fermata per un controllo
mentre ero di pattuglia e mi ha insultato».
La ragazza si nascose il volto tra le mani,
mortificata.
«Ma erano insulti
meritatissimi» aggiunse Vittorio.
Vera rialzò la testa di scatto e
guardò le gambe che spuntavano dal mobiletto. «Non
l’avevi mai detto prima!»
«Perché sapevo che avrei
firmato la mia condanna a morte» replicò la voce
di lui. «Tanto so che mi pentirò presto di averlo
ammesso».
«Quando fai così, ti
detesto» mugugnò Vera.
«Tranquilla: io ti detesto
sempre» replicò divertito Vittorio.
Agnese, che aveva seguito quello scambio di
battute in silenzio, tornò a rivolgersi alla sua ospite.
«Sai che hai un’aria
familiare?» disse pensosa, osservandola. «Ho
l’impressione di averti già vista da qualche
parte…». I suoi occhi furono calamitati dal
televisore, dove le immagini di un servizio del telegiornale regionale
scorrevano sullo schermo.
« Prenderà
il via tra pochi giorni il processo per il disastroso incidente
d’auto avvenuto sulla Tiburtina nel maggio dello scorso anno»
declamò fluido il giornalista. « Gianluca Moretti, unico
imputato, dovrà rispondere di omicidio stradale e lesioni
gravissime: nell’incidente, provocato mentre guidava sotto
l’effetto di alcol e droga, perse la vita la ventiquattrenne
Noemi Dei Giudici, mentre la sua coetanea, Vera Nicolini,
subì l’amputazione di una gamba…»
Vera divenne bianca come un lenzuolo. Senza
battere ciglio, Agnese spense il televisore e riempì il
bicchiere della ragazza, che sospirò silenziosamente di
sollievo; Vittorio riemerse dal mobile e scoccò a sua madre
uno sguardo grato.
«Vittorio dice che vi siete conosciuti
in modo un po’ turbolento, ma a me sembra che adesso andiate
d’accordo» disse la signora, cambiando argomento.
«Ci è voluto un bel
po’» rispose Vera. «Abbiamo litigato
parecchie volte prima di capire come prenderci».
«Be’, non mi sorprende: mio
figlio ha un caratteraccio impossibile» disse calma
Agnese.
Il figlio in questione sbuffò
contrariato. «Grazie, eh, mamma!»
«Che c’è? Ho solo
detto la verità» rispose impassibile la donna.
«Confermo e sottoscrivo!»
esclamò d’istinto Vera.
Agnese sorrise. «Assaggia la
crostata» la esortò. L’altra diede un
morso alla fetta di dolce e sgranò gli occhi prima di
socchiuderli con aria estatica. Mentre era intenta a masticare, la
più anziana ripartì all’attacco.
«Lo sai che mio figlio è sposato, vero?»
Vera si strozzò.
«Io… lui…» rantolò
mentre si colpiva il petto con il pugno.
«Te lo dico solo perché ho
notato che non porta più la fede» aggiunse Agnese.
Vittorio smanacciò alla cieca nella
cassetta degli attrezzi. «Non la porto più
perché io ed Emanuela siamo legalmente separati: ho firmato
le carte giusto stamattina» informò sua madre, che
si voltò repentinamente nella sua direzione.
«Legalmente separati? E come
mai?» chiese tagliente.
«Perché quella stronza di mia
moglie mi tradisce con il suo capo da più di due anni e io
sono stanco di essere un cornuto» rispose brusco suo figlio.
«È sufficiente?»
«Te l’ho sempre detto, che non
avresti dovuto sposarla» disse Agnese.
«Oddio, non ricominciare!»
sbottò Vittorio: colpì il sifone con una chiave
inglese, creando un frastuono che fece storcere il naso a sua madre.
La donna scosse la testa e si girò di
nuovo verso Vera, che la scrutò allarmata.
«Scusa, Vera, ma temevo che non te
l’avesse detto» spiegò.
Vittorio si mise a sedere di scatto e diede una
testata al bordo del pensile. Imprecando a tutto spiano, si sporse in
modo da poter guardare bene sua madre.
«Ahò, ma da
quand’è che mi consideri così
infame?» chiese risentito.
Agnese assunse un’aria molto severa.
«Sei mio figlio, non potrei mai considerarti un
infame!» replicò piccata. «Ma sapevo
già da un pezzo che tra te ed Emanuela non andava bene, e
credevo che ti fossi trovato un’amante. Che altro avrei
dovuto pensare, vedendoti arrivare con una ragazza tanto più
giovane di te?»
Vera emise un verso strangolato, incerta se
piangere di vergogna o scavare una buca nel pavimento e nascondercisi
dentro.
«Mà, puoi farla finita? Stai
mettendo in imbarazzo la mia fidanzata» disse secco
l’uomo, tornando a lavorare sullo scarico del lavandino.
«Da quand’è che
sarei la tua fidanzata?» farfugliò allibita Vera.
«Oh, ma dai»
brontolò Vittorio. «Ci vediamo tutti i giorni,
andiamo a cena, al cinema, usciamo con i miei amici e con i
tuoi… che credevi di essere?»
«Fate sesso?»
indagò Agnese.
Vera divenne paonazza.
« Mamma!»
insorse Vittorio: anche se il suo volto era nascosto, dalla sua voce si
intuiva come quella domanda avesse messo in imbarazzo anche lui.
«Ma che domande fai?»
«È una domanda
normalissima» si difese sua madre.
«Ho detto che è la mia
fidanzata, no?» bofonchiò Vittorio.
«Avrei detto che è un'amica, se non
facessimo… be’, facciamo tutto quello che fanno le
coppie» mugugnò. «Ti basta?»
«Sì» concesse sua
madre. «Posso sperare in dei nipotini, nel prossimo
futuro?»
«MAMMA!» tuonò di
nuovo Vittorio. Vera preferì schiacciare la faccia sul
ripiano del tavolo e coprirsi la testa con le mani.
«Oddio, è un incubo. Questo
è un incubo» piagnucolò disperata la
ragazza.
Agnese si accigliò. «Eh, via,
mio figlio non è poi così male!»
Vittorio sbuffò. «Guarda che
parlava di te: l’hai terrorizzata».
«Perché? Non vuole dei
figli?» domandò Agnese, sinceramente perplessa.
«Perché a malapena stiamo
insieme!» sbottò l’uomo.
«E allora?» chiese
imperterrita la sessantacinquenne. «Mica vorrà
aspettare vent'anni, per averne!». Si voltò verso
Vera, che la fissò con palese terrore. «Quanti
anni hai?»
«Ven-venticinque»
farfugliò la ragazza.
«Ecco: l'età perfetta per
iniziare avere dei figli» commentò Agnese,
soddisfattissima. «Avevo la tua stessa età quando
è nato Vittorio. Se vi sbrigate, potreste averne almeno un
paio prima che tu compia trent'anni, con un po' di fortuna anche
tre».
Vera strabuzzò gli occhi. «Mi
sembra un discorso un po' prematuro» tentò con
voce flebile.
«Gamba Bionica, non farti scrupoli solo
perché è mia madre: sentiti libera di mangiarla
viva per essere una simile ficcanaso, se ti va» la
esortò il carabiniere.
«Meglio di no, Valenti, dammi
retta» rispose convinta la ragazza. «Lo sai che
è meglio se non vado a briglia sciolta».
Agnese guardò dall'uno all'altra con
aria risentita. «Comincio a capire come mai andate tanto
d'accordo» disse, un po' altera. Il suo sguardo si fece
comprensivo. «Ma io sto parlando nel vostro interesse: siete
giovani, si vede che non sapete bene cosa volete e di cosa avete
bisogno, quindi credo sia giusto guidarvi nella giusta
direzione...»
«Va bene, ora basta» esplose
Vittorio. Si rialzò e chiuse il pensile con un gesto secco.
«Mà, il lavandino è posto e noi ce ne
andiamo».
«Di già?»
replicarono in coro Vera e Agnese: la prima in tono sollevato, la
seconda genuinamente sorpresa.
«Sì» rispose
l'uomo. Prese la venticinquenne per mano e la costrinse ad alzarsi.
«Vera, saluta mia madre, che se dipende da me, non la vedrai
almeno per i prossimi quattro anni!»
Agnese gli scoccò uno sguardo
tagliente. «Smettila di fare il maleducato!»
«Smettila di farci l'interrogatorio e la
paternale» replicò pronto suo figlio.
«Papà non l'avrebbe mai fatto, e se
fosse qui ti avrebbe tappato la bocca già da un pezzo, lo
sai bene!»
La donna decise di cambiare tattica. «E
dove andate?»
Vittorio trascinò Vera fuori dalla
cucina e verso la porta d'ingresso. «A fare quello che fanno
le coppie quando sono da sole» annunciò, e
sgattaiolò fuori dall'appartamento prima che Agnese potesse
replicare.
Vera lo seguì in ascensore, paonazza e
con un'espressione esasperata sul volto.
«Dovevi per forza dire a tua madre che
stiamo andando a casa a fare sesso?» si lamentò.
Vittorio la guardò con le sopracciglia
inarcate. «A parte che è stata lei a chiederlo,
Vè, mia madre non è mica stupida: di sicuro non
pensa che passiamo il tempo a giocare a briscola...».
Sogghignò. «Anche se qualcosa in comune le due
cose ce l'hanno».
«E sarebbe?» lo
sfidò la ragazza, le braccia incrociate sul petto.
Il ghigno di Vittorio si allargò.
«L'asso di bastoni».
Vera gemette e gettò indietro la testa
per un momento, incredula; poi sferrò uno schiaffo sulla
fronte di Vittorio.
«Sei indecente!»
ululò. «Ma ti senti, quando parli?»
«Sai, tesoro, devi imparare a lasciarmi
fare il cafone volgare in santa pace, almeno ogni tanto»
replicò imperturbabile Vittorio. «E poi non fare
la santarellina con me: scommetto che quando sei da sola con Giulia
dici di peggio!»
Sconfitta, Vera mugugnò irritata tra
sé Vittorio ne approfittò per abbracciarla.
«Dai, smettila di tenermi il
muso» le sussurrò all'orecchio appena prima di
baciarle il collo. «Prometto che a casa
mi faccio perdonare».
La ragazza gli rivolse uno sguardo altero.
«Dovrai impegnarti parecchio».
«Ho tutta l'intenzione di
farlo» rispose suadente Vittorio, premendo il proprio corpo
contro quello di lei.
Vera ridacchiò. Il carabiniere fece per
baciarla, ma lei lo schivò e sgusciò fuori
dall'ascensore appena prima che si richiudesse. Si avvicinò
al portone del palazzo, camminando lentamente all'indietro.
«Meglio sbrigarsi ad arrivare a casa
tua, allora. Non credi?»
Vittorio la raggiunse a grandi falcate, la prese
in braccio e andò verso la macchina a passo di marcia, la
risata di Vera che gli riempiva le orecchie e le sue dita che scavavano
impietose nel suo petto.
Sì, sbrigarsi ad andare a casa era
davvero un'ottima idea.
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Capitolo 22 *** Capitolo XXI ***
Quell'estate era
già calda, calda, troppo
calda.
Vera avrebbe potuto giurare di non aver mai sudato
tanto come in quegli ultimissimi giorni di giugno: quel giorno in
particolare, poi, nonostante fosse ormai pomeriggio inoltrato,
minuscole gocce salate le scorrevano sul volto e lungo il collo.
La venticinquenne salì l'ultimo gradino
e lanciò un'occhiataccia all'ascensore del palazzo, sulla
cui porta era attaccato un cartello con la scritta
“GUASTO” che sembrava sbeffeggiarla. Sbuffando
inferocita, infilò la chiave nella serratura ed
entrò nell'appartamento di Vittorio.
«Ehi». Vittorio mise fuori la
testa dalla porta della cucina e le scoccò uno sguardo
perplesso. «Tutto bene, Gamba Bionica?»
«Non chiamarmi così, non chiamarmi così»
ringhiò Vera; si buttò a peso morto sul divano e
chiuse gli occhi, le mani strette intorno alla coscia sinistra.
Il carabiniere si pulì le dita sul
grembiule da cucina che indossava e la raggiunse. «Ti fa male
la gamba?»
«Sì, dannazione, sì»
sibilò lei in risposta. «Mi faceva male
già prima, e arrampicarmi su per tutte quelle stramaledette
rampe di scale non mi ha aiutata per niente!».
Sbatté la testa contro i cuscini dello schienale.
«La casa al quarto
piano doveva prendere, proprio quella!»
mugugnò tra sé.
Vittorio inarcò le sopracciglia.
«Quindi immagino sia colpa mia» replicò
pungente.
Vera lo guardò mentre ci rifletteva
sopra. «In parte» confermò infine.
Il carabiniere alzò gli occhi al cielo.
«È bello sapere che qualsiasi cosa io dica,
qualunque cosa io faccia, avrò sempre la colpa di ogni
evento negativo che ti capita» dichiarò,
sarcastico. «In fondo, avere dei punti saldi, nella vita,
è importante».
«Piantala di fare la vittima: non ti si
addice» rispose secca Vera. «E poi, non ho voglia
di discutere».
«Sarebbe una novità
assoluta». Vittorio ignorò lo sguardo rabbioso
della sua fidanzata e le staccò le mani dalla gamba.
«Se la protesi ti fa così male, toglila»
le suggerì.
«E poi come cammino? Saltellando su un
piede solo?» domandò Vera, sarcastica quanto lo
era stato Vittorio poco prima.
Per tutta risposta, lui si alzò
sbuffando e sparì verso nella zona notte della casa per
tornare un minuto più tardi con un paio di stampelle.
«To'» disse scocciato.
«Le ho prese un po' di tempo fa perché ho pensato
che non si sa mai, magari un giorno ti sarebbero potute servire mentre
eri da me. E adesso piantala con tutto 'sto malumore»
aggiunse prima di andare in cucina.
La ragazza grugnì un assenso;
arrotolò completamente la gamba del pantalone, poi si
sfilò la protesi e l'appoggiò con malagrazia
accanto a sé; Estia, curiosa, saltò sul divano e
prese a osservare e annusare l'oggetto.
«Ti piace, Estia? Perché se
la vuoi, te la regalo».
«Non penso se ne farebbe
granché; Efesto, invece, potrebbe apprezzare
l'offerta» commentò Vittorio, tornando a sedere
accanto a Vera. «Per la cena manca ancora un po', se ti va
puoi riposarti».
«Voglio una gamba nuova!»
Il carabiniere allungo una mano verso la protesi,
ma si fermò prima di afferrarla. «Posso?»
Vera sghignazzò suo malgrado.
«Quando si tratta di altre parti di me, il permesso non lo
chiedi mica».
«Sulle altre parti non sei
così suscettibile». Vittorio schivò il
pugno di Vera e prese la gamba artificiale per studiarne l'interno
della cuffia in silicone. «Sei sicura che questo affare vada
bene, per te? Va bene tutto, ma non so se sia normale che tu abbia
tutti questi dolori».
«Me lo sono chiesto anch'io»
ammise lei.
«E...?»
«E niente, Vittò. La uso da
otto mesi, con un po' di tempo in più potrei avere meno
problemi» rispose Vera, massaggiandosi il moncone con fare
distratto.
«Mhhh» mugugnò
l'uomo, poco convinto, mentre metteva la protesi su una sedia.
Finalmente con le mani libere, si appoggiò al bracciolo del
divano e trascinò Vera tra le proprie gambe, allungate sui
cuscini. «Vieni qui».
La donna ridacchiò. «Non hai
caldo?»
«Nah» replicò
Vittorio. «E tu?»
Vera si sistemò meglio con la schiena
contro il petto di lui. «Non abbastanza da
spostarmi».
«Ottimo». Il carabiniere le
baciò una tempia. «Adesso che siamo belli comodi e
pronti a una sudata da record, ti va di parlarmi di qualcosa in
particolare?»
«Tipo cosa?»
«Non lo so. Tipo il processo che
dovrebbe iniziare a giorni?»
Vera batté rapidamente le palpebre e si
contorse nel suo abbraccio per tentare di guardarlo in volto.
«E tu come...»
Vittorio inarcò le sopracciglia.
«Casa di mia madre?»
«Ah, già. Stupido
telegiornale» sbuffò Vera. Si grattò
l'attaccatura dei capelli, lo sguardo fisso sulla libreria che aveva di
fronte. «Sì, be', la prima udienza è
tra una decina di giorni e l'idea non mi fa impazzire, quindi penso...
penso che non ci andrò» disse. «Giulia
vuole andarci, e se ci va lei, ci va anche Tiziano; i genitori e il
fratello di Noemi ci saranno di sicuro, ma io... io non so se ce la
faccio».
L'uomo tacque per un
istante. «Di cos'hai paura,
Vè?» chiese lentamente.
Lei
deglutì. «Dovrò andarci
comunque, più avanti, per testimoniare su...
sull'incidente» sussurrò. «Non lo posso
evitare, non posso scappare, e allora... allora ho pensato che forse
è meglio se... se non ci vado, in aula, prima di quel
giorno. Ho paura, Vittò» disse con voce
tremante. «Che succede se quando sono lì
non riesco a parlare? Che succede se ci vado già dalla prima
udienza e poi non riesco a sedermi su quella sedia e dire
com'è stato quando... quando quella macchina ci è
venuta addosso, quando mi sono svegliata senza una gamba, quando
continuavo a cercare Noemi perché ero abituata a condividere
tutto con lei e mi dimenticavo che non c'era più?
Come...»
La voce di Vera si spezzò.
Vittorio sospirò e le
accarezzò i capelli. «I giudici non ti
mangiano, tesoro» la rassicurò. «Forse
l'avvocato del ragazzo potrebbe provarci, ma dopo quello che hai
passato, penso che sarebbero i giudici stessi a dirgli di darsi una
calmata, se si agita troppo. E comunque, se ci vai tu, allora ci vado
anch'io». Tacque per un istante. «Se tu mi vuoi
lì con te».
Nonostante il pensiero del processo le gravasse
sul petto come un macigno, Vera ridacchiò di nuovo.
«Stai dicendo che te la senti di affrontare i miei
genitori?»
«Non mi sembra di aver avuto problemi,
due mesi fa» ribatté Vittorio in tono spavaldo.
«No, ma due mesi fa non stavamo
insieme» sogghignò Vera prima di tornare seria.
«Comunque, se non ti crea problemi con il lavoro, io... io ti
vorrei in aula con me, sì».
«Non ti preoccupare del mio lavoro: a
quello ci penso io».
«Io...». Vera
deglutì un paio di volte prima di riuscire a parlare di
nuovo. «Grazie, Vittorio» sussurrò.
La risposta dimessa di Vera punse Vittorio come
una vespa feroce: era così poco da lei da farlo vibrare
dalla testa ai piedi in modo negativo. Dopo aver spinto la
venticinquenne in posizione seduta si alzò di scatto,
afferrò la protesi e gliela porse. «Sai che ti
dico? Possiamo cenare più tardi. Adesso rimettiti la gamba:
usciamo».
Vera lo guardò, incuriosita.
«E dove andiamo?»
«Aspetta e vedrai».
******
Vittorio portò indietro il braccio e lo spinse in avanti con
un movimento simile a un colpo di frusta.
«Avanti, Hermes, prendila!»
Il pastore tedesco partì
all'inseguimento della pallina che l'uomo aveva appena lanciato verso
Vera; la ragazza scoppiò a ridere e l'afferrò al
volo mentre il cane si bloccava di fronte a lei, in attesa.
Quando Vittorio le aveva proposto di uscire,
l'ultima cosa che Vera si sarebbe aspettata era un'uscita al parco con
Hermes. Sulle prime era stata scettica: fosse stato per lei, si sarebbe
parcheggiata di fronte al ventilatore dopo una bella doccia fredda e, a
giudicare da come Hermes stava spalmato in un angolo d'ombra sul
pavimento del giardino, il suo cane aveva più o meno gli
stessi progetti.
Vittorio, invece, li aveva trascinati per strada
incurante della loro pigrizia, sordo all'ansimare di Hermes e al
mugugnare incessante di Vera; aveva rallentato solo quando si erano
inoltrati lungo i viali del parco, e per quel momento sia il cane che
la donna si erano rassegnati all'inevitabile.
In quel momento, però, mentre una
brezza appena accennata dava loro un po' di respiro, Vera non
poté fare a meno di essere contenta che il carabiniere li
avesse portati lì contro la loro volontà:
nonostante la gamba le facesse ancora male, nonostante la sua pelle
fosse appiccicaticcia a causa del sudore e il suo stomaco brontolasse
per la fame, le corse disperate di Hermes alle calcagna della pallina e
la risata ricca e profonda di Vittorio la facevano sentire
infinitamente più leggera.
Vera agitò la palla colorata sotto il
naso di Hermes e la scagliò lontano, gli occhi fissi sul
cane che galoppava, prima di spostare lo sguardo su Vittorio.
«Un po' mi scoccia ammetterlo, ma hai
fatto bene a trascinarci qui» commentò, con un
sorriso sul volto.
Vittorio la fissò con tanto d'occhi.
«Le mie orecchie mi ingannano o hai appena detto che ho fatto
bene? Che io
ho fatto bene qualcosa?». Si coprì la testa con le
mani. «Presto, corriamo al riparo prima che si scateni una
bufera di neve!»
Hermes tornò da Vera giusto due secondi
più tardi e lei ne approfittò per prendere la
palla dalla sua bocca e lanciarla dritto in faccia a Vittorio; e anche
se in condizioni normali il carabiniere quel colpo l'avrebbe schivato a
occhi chiusi, in quel momento era troppo impegnato con la sua scena da
melodramma greco per muoversi con la consueta prontezza di riflessi.
La pallina, coperta di erba e bava di cane, si
spiaccicò sulla guancia sinistra dell'uomo.
«Centro!» esultò
Vera, alzando le braccia al cielo.
Vittorio si ripulì col dorso della mano
ed emise un verso disgustato. «Quando fai così, ti
odio! Sei persino peggio di mia sorella!»
«Perché? Che fa tua
sorella?» indagò la venticinquenne, curiosa.
«L'ultima volta che le ho tappato la
bocca con la mano, me l'ha leccata» grugnì
Vittorio.
Vera scrollò le spalle.
«Capirai! Chissà che m'immaginavo!»
« Capirai?»
le fece eco lui, incredulo. «Ti pare una cosa normale?
Valeria...». S'interruppe, improvvisamente cereo, gli occhi
fissi su un gruppo di quattro persone che avanzava a passo di marcia
alle spalle di Vera, dritto verso di loro. Fece un movimento come per
fuggire. «Valeria!»
Vera si voltò verso il punto fissato da
Vittorio appena in tempo per vedere una donna, con un caschetto di
capelli scuri e mossi, fare un gesto ai due bambini che le
camminavano accanto e puntare il dito verso il carabiniere.
«All'attacco, piccoli mostri!»
I ragazzini partirono urlando e si scagliarono su
Vittorio; l'uomo barcollò vistosamente e cadde all'indietro
sull'erba. Senza perdere un istante, i due bambini gli saltarono
addosso e lo sommersero proprio come aveva fatto Hermes qualche
settimana prima, e che in quel momento girava intorno al groviglio
umano che si agitava a terra, annusando curioso.
«Cristo santo...» gemette
Vittorio, tentando invano di liberarsi. Cercò Vera con lo
sguardo. «Aiutami!»
L'ex ginnasta inarcò le sopracciglia.
«Non so se voglio farlo. Insomma, non è che hai
una doppia vita e un paio di figli e adesso hai paura di essere
ammazzato di botte da me e dalla loro madre?»
«Figli? Con 'sto qui?» disse
l'altra donna, che finalmente li aveva raggiunti. «Per
carità!»
Vera la scrutò attentamente.
«Tu mi sei simpatica» decretò.
«Sempre che tu non sia davvero la compagna di Vittorio e la
madre dei due bambini che stanno tentando di soffocarlo».
«La madre dei due mostri, sì;
la compagna di quello sciagurato, no». La sconosciuta
sbuffò. «Sono sua sorella e fidati, se potessi
scegliere, al momento non lo sarei!»
La venticinquenne la guardò con una
nuova consapevolezza negli occhi. «Ah, sei quella che gli
lecca la mano quando prova a zittirti».
«E tu la sua nuova ragazza».
L'altra donna le porse la mano. «Valeria».
Vera l'afferrò e la strinse.
«Vera». Accennò all'uomo alle loro
spalle, che guardava Vittorio sogghignando. «Tuo marito,
immagino».
Valeria annuì. «E il padre
dei due mostriciattoli. E
il cognato dell'imbecille lì per terra».
L'uomo tese la mano a Vera come aveva fatto
Valeria un minuto prima. «Simone; piacere di
conoscerti».
Vera accettò anche la sua mano.
«Vera: piacere mio».
«Avete finito di scambiarvi
piacevolezze?» sbraitò Vittorio, ancora impegnato
in quella sorta di incontro di wrestling. «Simò,
toglimi di dosso questi due bulldozer!»
Simone affondò le mani nelle tasche dei
bermuda e lo fissò impassibile. «Non ci penso
proprio» rispose. «È il primo di luglio
e ancora non ti sei degnato di venire a trovarci: ti meriti tutto
quello che ti faranno, e anche di più».
« E
dai!» ruggì Vittorio.
L'altro scrollò le spalle.
«Nah. Cristian, Samuel, fatelo nero!»
Vittorio grugnì mentre i due bambini
gli saltavano sulle costole strillando eccitati e Vera, mossa a
pietà, decise di dargli una mano.
«Pssst! Cristian! Samuel!» li
richiamò, sottovoce e con un gesto cospiratore. I due, che a
occhio avevano sette e cinque anni, trotterellarono verso di lei,
tallonati da Hermes. «Vi va di giocare con il mio cane? Si
chiama Hermes, è buonissimo e adora rincorrere le
palline».
Cristian si girò verso il pastore
tedesco e lo guardò serio.
«Hermes» ripeté.
«Ti va di giocare?»
Il cane agitò freneticamente la coda.
«Prendete quella e vedrete come
scatta» gli suggerì Vera, indicando la pallina
abbandonata a poca distanza da un Vittorio dolorante e ancora intento a
rialzarsi.
«Credo di avere le costole
polverizzate» gnaulò il quarantenne.
«Sta’ zitto e aiuta i tuoi
nipoti a fare amicizia con Hermes» ordinò Vera,
mentre i bambini prendevano la palla e venivano rincorsi da Hermes.
Vittorio la ignorò e rimase dov'era,
gli occhi fissi sulla propria sorella. «Come hai fatto a
trovarmi?»
Valeria sbuffò. «Mamma mi ha
detto che hai una nuova ragazza e volevo conoscerla...»
«Non ti ho chiesto perché sei
qui, ma come hai fatto a trovarmi» la interruppe lui.
La trentacinquenne sbuffò una seconda
volta. «Ho chiesto a mamma, che ha chiamato il maresciallo,
che ha contattato il collega con cui sei sempre di pattuglia, che ci ha
dato il tuo indirizzo e ha detto che se non eri a casa, allora forse
eri qui perché ti piace venire a correre in questo
parco».
Vera scoppiò in una risata.
«Quindi è una cosa di famiglia, rintracciare la
gente per vie traverse!»
Simone sghignazzò qualcosa di
incomprensibile e Vittorio scosse la testa.
«Mi sa che hai ragione tu, Gamba
Bionica: sto meglio coi miei nipoti» commentò il
secondo, girando sui tacchi per raggiungere i due bambini.
Quando Vittorio fu fuori tiro d'orecchi, Valeria
soppesò Vera con lo sguardo. «Per caso tu sei la
stessa che ha provato a prendere a schiaffi la mia ex
cognata?»
L'altra sibilò un paio di imprecazioni.
«È solo colpa di tuo fratello e del suo vizio di
mettersi in mezzo, se non ci sono riuscita. E ti assicuro che lo volevo
proprio tanto».
«Oh, non sei sola, fidati»
ribatté cupa Valeria. «Per fortuna si è
deciso a lasciarla e a trovarsi una ragazza normale».
Vera inarcò le sopracciglia.
«Grazie, credo».
La trentacinquenne agitò una mano con
fare noncurante. «Ti pare!»
Simone sghignazzò di nuovo e rivolse
un'occhiata eloquente a Vera. «Si somigliano un sacco, non
trovi?» commentò, accennando a sua moglie e a suo
cognato.
«Anche troppo»
soffiò Vera. «Io pensavo che un Valenti fosse un
cataclisma naturale, ma due potrebbero essere proprio
l'Apocalisse».
«Ehi!» insorse Valeria, in una
perfetta replica del tono più indignato di Vittorio, quando
gli altri due scoppiarono a ridere. «Io non sono pessima come
Vittorio! Neanche lontanamente!»
«Tu sei peggio di Vittorio:
sei la sua versione riveduta e corretta» ribatté
Simone. «Ma molto più bella» aggiunse di
fronte all'espressione aggrondata di sua moglie. Tornò a
rivolgersi a Vera. «Però devo farmi spiegare da
Vittorio come ha fatto a trovarsi una fidanzata giovane, normale e pure
bella!»
Valeria gli rifilò un violento schiaffo
sulla nuca. «Perché? Devi fare
conquiste?» abbaiò.
«Gelosona» disse compiaciuto
suo marito; l'abbracciò stretta per impedirle di
schiaffeggiarlo ancora e le schioccò un umido, rumoroso
bacio sulla guancia. «Sono solo curioso. Tuo fratello
è un po' troppo burbero per il suo bene: ecco
perché mi chiedo come ci sia riuscito».
«Perché io sono peggio di
lui» rispose Vera con sincerità.
«Impossibile»
decretò all'istante Valeria.
«Questo...». S'interruppe e masticò un
insulto tra i denti. « Questo»
riprese, con un gesto eloquente in direzione di suo fratello,
«ha una capacità mai vista nella storia del genere
umano, di far saltare i nervi alla gente: in parole povere, sa essere
irritante come una pianta d'ortica ficcata nelle mutande».
Vera sbottò in una via di mezzo tra una
risata e un grugnito.
«Quanta grazia in un corpo solo, amore
mio» esclamò sardonico Simone.
«Ho solo detto la
verità» replicò sua moglie.
«Ha quarant'anni – anzi, quarantuno, visto che tra
un paio di settimane è il suo compleanno – ma su
certe cose, è ancora un ragazzino!»
L'ex ginnasta drizzò le orecchie.
«Ah sì?»
Valeria sbuffò. «Ci stai
insieme: vorresti dirmi che non ti sei accorta che a volte Vittorio ha
la maturità di un bambino delle elementari?»
«Non parlavo di quello, ma del suo
compleanno» spiegò Vera. «Anzi, dimmi il
giorno preciso: fino a due secondi fa non avevo la minima idea sulla
sua data di nascita».
L'altra le rivolse un sorrisetto. «Tu
hai in mente qualcosa».
«Oh, è solo una cosetta... ma
forse mi puoi aiutare».
******
Vera non era mai stata meno convinta di una propria scelta,
benché in più di un'occasione si fosse pentita di
una decisione presa; sì, aveva avuto dei dubbi quando si era
iscritta all'università e per tenere il passo con le lezioni
e gli allenamenti aveva trascorso così tante notti insonni
da perdere il conto, e sì, aveva capito di aver commesso un
errore madornale
quando, a sedici anni, aveva accettato di uscire con Daniele Terenzi
– non s'era mai annoiata tanto nella sua vita quanto in quei
tre mesi in cui era stata fidanzata col suo compagno di allenamenti in
palestra – ma assecondare la sua migliore amica e far sedere
Vittorio e Tiziano allo stesso tavolo... be', quella decisione le
batteva tutte.
Dall'altro lato del tavolo rettangolare, Giulia
sembrava di tutt'altro avviso: l'ampio sorriso soddisfatto che le
troneggiava sul volto la diceva lunga su come lei, invece, fosse
convinta che quell'uscita a quattro – o meglio, a cinque, se
si contava la piccola Ludovica inerpicata sul seggiolone a capotavola
– fosse una delle trovate più brillanti che avesse
mai avuto.
L'ex ginnasta scoccò un'occhiata
preoccupata prima a Vittorio, seduto giusto di fronte a lei, e poi a
Tiziano, che le stava accanto. Loro non se ne accorsero nemmeno: erano
troppo occupati in una sfida di sguardi, e nessuno dei due sembrava
intenzionato a cedere. Nel momento in cui si erano accomodati al tavolo
del ristorante, Vera aveva considerato un successo essere riuscita a
farli sedere a una distanza sufficiente da impedire eventuali contatti
fisici tra i due, ma non aveva messo in conto la petulanza di entrambi:
iniziava a pensare che, di quel passo, i due uomini non avrebbero
spiccicato parola per tutta la sera.
Trascorse un'altra manciata di minuti senza che la
tensione che aleggiava sulla tavolata si allentasse; poi, senza
distogliere lo sguardo da Tiziano, Vittorio incrociò le
braccia al petto e rivolse un sorrisetto all'altro uomo.
«Puoi anche rilassarti,
juventino» disse il carabiniere, spezzando finalmente il
silenzio. «Il buongusto in fatto di calcio non si trasmette
per via aerea».
Per un attimo Tiziano boccheggiò,
indignato. «E ce l'avresti tu, il buongusto in
fatto di calcio?»
Vittorio inarcò le sopracciglia.
«Visto che io
non tifo per una squadra di ladri, direi proprio di
sì».
Vera si voltò verso Tiziano, allarmata:
provocarlo sulla sua squadra del cuore era un modo certo per farlo
infuriare. E infatti il suo migliore amico sembrava aver
temporaneamente perso l'uso della parola; il suo volto,
però, si stava chiazzando di rosso, segno che l'esplosione
era imminente. L'ex ginnasta lanciò uno sguardo fugace a
Giulia, che appariva altrettanto preoccupata.
«Ma... ma... ma pensa per te, romanista»
replicò infine il trentenne, sputando l'ultima parola con
aria disgustata. «Tifi per una squadra che se vince uno
scudetto ogni vent'anni, è grasso che cola!»
Il ghigno sul volto di Vittorio si
allargò. «Almeno a noi gli scudetti non li
revocano».
Tiziano sbuffò. «E che vuoi
revocare, se non vincete nemmeno la coppa del nonno?»
«La differenza tra la mia squadra e la
tua si riassume in una sola parola» ribatté il
carabiniere. « Calciopoli».
Tiziano fece per alzarsi, ma prima di poterci
riuscire, Giulia e Vera si dimenarono sulle sedie in un identico
movimento; i due uomini grugnirono di dolore quasi contemporaneamente e
assunsero un'espressione risentita.
«Ehi!» disse oltraggiato il
più giovane, guardando sua moglie, mentre si piegava per
massaggiarsi lo stinco. «Mi hai fatto male!»
Vittorio, invece, appoggiò la caviglia
destra sul ginocchio sinistro e se la strinse tra le mani.
«Non vale, prendermi a calci con la gamba finta» si
lagnò, fissando l'ex ginnasta.
«In realtà ho usato quella
vera» replicò lei, alzando gli occhi al cielo.
«Non vi sopporto più, voi due. Pensate di riuscire
a comportarvi da adulti almeno finché siamo qui?»
«Ha cominciato lui»
borbottò Tiziano, indicando il carabiniere; Giulia lo
guardò, in parte incredula in parte esasperata.
«Molto maturo»
commentò.
«Io volevo solo rompere il
ghiaccio» mugugnò Vittorio, accanto a lei.
«Visto che mi guarda storto da quando sono
arrivato...»
Giulia scosse la testa. «Siete
insopportabili. Ma come
mi è venuto in mente, di organizzare questa cena?»
«Prenditela con te stessa: io ti avevo
detto che era una cattiva idea» replicò Vera.
«Scusa tanto se pensavo di andare a cena
con degli uomini,
e non con due bambini dell'asilo!»
«Sono maschi,
Giù: che ti aspettavi?»
Tiziano conficcò un dito tra le costole
di Vera per richiamare la sua attenzione. «Io e il coso
romanista siamo ancora qui, eh».
Sua moglie si portò una mano alla
fronte. «Non puoi chiamarlo “coso
romanista” e poi prendertela se ti provoca!»
Vera agitò un braccio per attirare
l'attenzione di un cameriere qualunque. «Scusi, ci porta il
menù dei bimbi?»
«Oh, ah ah, ma quanto sei
spiritosa!» grugnì Tiziano.
Giulia gemette sconfortata. «Una serata
tranquilla, volevo solo una serata tranquilla...»
L'ex ginnasta premette i palmi delle mani sulla
tovaglia e guardò prima il suo migliore amico, poi il
proprio fidanzato. «Fatemi il favore, tutti e due, di
dimenticarvi che esiste il calcio e comportarvi da persone adulte che
parlano senza guardarsi male, senza provocarsi e senza azzuffarsi,
sennò prendo Giulia e Ludovica e ce ne andiamo a cena per
conto nostro» sibilò.
I due uomini si scrutarono torvi per qualche
istante; poi sospirarono e scrollarono le spalle.
«Immagino che per una sera, si possa
fare» mugugnò Tiziano.
«Purché non diventi
un'abitudine» brontolò Vittorio.
Giulia guardò Vera a bocca aperta,
scuotendo lentamente la testa.
«Sono impossibili»
commentò. «Però hanno fatto un passetto
in avanti, dai».
«Sì, ma sbrighiamoci lo
stesso a ordinare: mentre mangiano non possono azzuffarsi»
sospirò Vera.
Fatta la loro ordinazione, Vera e Giulia si misero
a chiacchierare tra di loro ignorando platealmente i rispettivi
compagni e i loro tentativi di inserirsi nella conversazione. Alla
fine, i due si rassegnarono ad ascoltarle in silenzio; continuarono
così fino al momento in cui furono portati via i piatti
degli antipasti, poi Vittorio scoccò un'occhiata furtiva
all'altro uomo.
«Insomma...»
mugugnò.
«Be'...» rispose Tiziano, poco
convinto.
Il carabiniere alzò le braccia al
cielo. «Ce l'avremo pure qualcosa in comune di cui parlare,
no?» sbottò. «Sono stanco del gioco del
silenzio».
«Sì, anch'io»
convenne l'altro.
«Allora... allora...».
Vittorio si frugò il cervello alla ricerca di qualcosa da
dire che non scatenasse una miccia. «Quest'inverno ci saranno
i Metallica in concerto in Italia e io non sono riuscito a procurarmi i
biglietti!»
Il volto di Tiziano s'illuminò.
«Anche tu fan dei Metallica?»
Il carabiniere annuì vigorosamente.
«Sono andato al DatchForum per il World Magnetic Tour otto
anni fa... una roba pazzesca, sono stato senza voce per due
settimane!»
«Me lo ricordo, quello! L'unica altra
data oltre a Milano è stata a Roma due giorni dopo, ci sono
andato con degli amici» rispose Tiziano. «Quel
palco al centro coi fan tutto intorno... grandioso, veramente! Pensavo
che il Palalottomatica sarebbe venuto giù!»
«Eh, i Metallica»
sospirò affettuosamente Vittorio. «Ho provato in
tutti i modi a trovare i biglietti per Torino, l'anno prossimo, ma non
c'è stato verso».
Tiziano puntellò i gomiti sul tavolo e
appoggiò il mento sui pugni chiusi.
«Sì, ma ci sono anche due
date a Bologna» commentò. «Secondo me,
se teniamo d'occhio la situazione tutti e due, un paio di biglietti
riusciamo a rimediarli... tanto c'è sempre qualcuno che
finisce fregato per un imprevisto o per l'altro e si rivende i
biglietti».
«Bologna si può fare: da qua
è pure abbastanza comodo arrivarci, sia con la macchina che
con il treno...» rimuginò il carabiniere a mezza
voce. «Sì, ci sto. Senti un po', dei Kasabian che
dici?»
«Che mi piacciono»
replicò il trentenne.
«Perché?»
«Perché possiamo vedere se
riusciamo a trovare i biglietti per il loro concerto al Rock in Roma.
È il ventuno di questo mese, magari anche qua, qualcuno che
li rivende perché non ci può più
andare lo troviamo».
Fu la volta di Tiziano di annuire.
«Andata!»
I due uomini continuarono a fare progetti,
dimentichi di avere compagnia.
Vera guardò Giulia, le sopracciglia
inarcate e l'espressione beffarda. «Hanno protestato fino
allo sfinimento e adesso già parlano di andare ai concerti
insieme».
L'altra fece una smorfia. «E ci voleva
tanto, no, a trovare un punto d'incontro?»
Le due amiche si guardarono per un istante.
« Maschi!»
sbottarono in perfetta sincronia.
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Capitolo 23 *** Speciale - Mappa dei luoghi ***
Buonasera bella gente!
Andando avanti con la storia mi sono resa conto che, avendola
ambientata in periferia, chi non è di Roma potrebbe avere
qualche problema a "visualizzare" i vari luoghi che vengono citati - e
che spesso ricorrono più volte. Ho riflettuto per un po' su
questo problema e oggi ho deciso di fare qualcosa in proposito: mi sono
messa al lavoro nel pomeriggio e spero di aver creato qualcosa che
possa rivelarsi utile.
Senza ulteriori indugi, ecco a voi la Mappa del Malandri... ah no, no,
scusate, devo aver fatto confusione! (O forse sono i miei desideri
più nascosti che parlano... sigh.)
Scemenze a parte, ho creato una piccola mappa dei posti più
importanti della storia - anche quelli che voi ancora non avete visto.
;-) Ho fatto del mio meglio, quindi apprezzate almeno lo sforzo! xD
Legenda
della mappa:
1. Settecamini (la
zona comprende casa Nicolini, il parco dei famosi incontri e la
parrocchia di Santa Maria dell'Olivo)
2. Comando dei Carabinieri di Tor Sapienza
3. Facoltà di Economia de La Sapienza
(praticamente attaccata a Viale Ippocrate)
4. Ponte Milvio (e accanto a questo c'è Ponte
Flaminio)
5. Ospedale Sandro Pertini (che forse è
inutile ma ormai nella mappa c'è, quindi ve lo beccate!)
6. Casa Massari-Ranghieri (il nido di Giulia, Tiziano e
Ludovica, per capirci xD)
7. Stadio Olimpico (zona Tor di Quinto)
8. Palestra di Giovanna
9. Hard Rock Cafe
10. Pub frequentato da Vittorio e Claudio
11. Appartamento di Vittorio
12. Casa Fossati-Valenti
13. Tribunale Ordinario di Roma
Per ora dovrebbe essere tutto, ma se ce ne fosse bsogno
aggiornerò la mappa e questo capitolo resterà
sempre in coda alla storia, così potrete darle un'occhiata
ogni volta che ne avrete voglia. Fatemi sapere se è stata
utile e ricordate che tra dieci giorni ci sarà
l'aggiornamento col nuovo capitolo!
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