Lithuanian Cub

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Caro Eduard - Estate ***
Capitolo 2: *** Cara Katyusha - Autunno ***
Capitolo 3: *** Caro Feliks - Inverno ***
Capitolo 4: *** Caro Toris - Primavera ***



Capitolo 1
*** Caro Eduard - Estate ***


Lithuanian Cub

 

 

 

Scarico tutta la rabbia che provo contro me stesso, è questa la depressione, dicono. Però la depressione provoca anche una mancanza di motivazione. Mi cresce un vuoto dentro. La droga mi serve a riempire il vuoto, e mi aiuta anche a soddisfare il mio bisogno di distruggere me stesso, e qui torniamo alla rabbia diretta contro di sé.

[...]

L’eroina è una droga onesta, perché toglie di mezzo tutte le illusioni. Con l’ero, se stai bene ti senti immortale. Se stai male ti senti ancora più di merda, ma è merda che c’era già da prima. È l’unica droga veramente onesta. Non perdi mai la conoscenza. Ti dà una botta e basta, ti fa star bene. Poi dopo vedi quanto fa schifo il mondo così com’è e non ci puoi fare più un cazzo, non ti funziona più l’anestesia.”

 

(Trainspotting, Irvine Welsh)

 

 

 

1. Caro Eduard – Estate

 

 

2 dicembre 1989

 

Caro Eduard,

dopo tutto questo tempo ho finalmente trovato il coraggio di rintracciarti di nuovo e di scriverti per avere tue notizie. Sapevo che provare a contattarti prima di adesso sarebbe stato rischioso, lo sapevamo entrambi, ma ti prego lo stesso di scusarmi per tutti questi anni di silenzio che devono essere stati difficili da affrontare per te tanto quanto lo sono stati per me. Spero comunque che questa mia lettera ti raggiunga presto, e soprattutto che ora non ci sia più alcun pericolo nel tornare in contatto fra di noi, dati tutti gli enormi cambiamenti che sono avvenuti e che si stanno ancora susseguendo in Europa. Molte frontiere si sono aperte e molte si apriranno ancora, ma è difficile prevedere quanto questa rivoluzione influenzerà il clima attuale. Nutro comunque una forte speranza in un cambiamento positivo, e credo all’avvento di un futuro più libero e felice non solo per noi ma anche per le nostre nazioni.

Spero di trovarti in salute, e spero che anche Raivis stia bene, che entrambi abbiate vissuto con serenità nonostante il nostro passato, i difficili anni di Londra, e la vita nociva che abbiamo condotto quando abitavamo in Inghilterra. Dal canto mio, non ho nulla da rimpiangere. Allontanarmi dall’Ovest si è rivelata la mia salvezza, da qualsiasi punto di vista, anche se poi per me si è trattato di vivere in una città costrittiva come Berlino Est. Dopo gli anni di devasto trascorsi a Londra, non è stato difficile per me ambientarmi qui nella DDR. Se non altro non ho avuto più alcuna possibilità di autodistruggermi come facevo a Londra. Non ho mai considerato l’Est come una vera costrizione, non dopo aver provato sulla mia pelle gli effetti della vera prigionia data dalla dipendenza, dai Siberian Cubs, e ovviamente da Ivan che avevano stravolto in maniera così negativa la mia vita.

Se sono ancora vivo oggi, nonostante le speranze di farcela e di salvarmi da quel mondo fossero così poche, è anche grazie a te. Ti ringrazio di aver avuto cura di noi non solo quando vivevamo a Londra, ma anche dopo la nostra fuga dalla Siberia, e di aver permesso a me e a Natalia di trascorrere degli anni sereni qui a Berlino, anche se non sempre facili da affrontare. Ovviamente anche lei ti porge i suoi saluti e la sua gratitudine. Ti dobbiamo tutti molto.

Adesso Natalia ha preferito tornare in Siberia, da Katyusha, in modo da riallacciare quel legame che entrambe temevano si fosse perso dopo aver lasciato l’Unione Sovietica per la seconda volta. Natalia è troppo orgogliosa per ammetterlo apertamente, ma anche lei ha sofferto tremendamente la mancanza di sua sorella. Se ha voluto abbandonare una seconda volta sia la Siberia che Katyusha è stato solo per cercare di dimenticare Ivan, per allontanarsi dal suo doloroso ricordo, e per risanare quelle ferite che sono purtroppo rimaste aperte per molti anni anche qui in Germania Est. Ho già scritto una lettera anche a Katyusha per porgerle i migliori auguri per il futuro e per assicurarmi che sia lei che Natalia siano serene assieme, di nuovo riunite. Entrambe si meritano una vita felice e priva di dolori, e spero che sarà così da ora in poi.

La morte di Ivan è stato un peso enorme da affrontare per tutti quanti. Nemmeno io avrei mai creduto che mi sarei ritrovato così perso, così disarmato, e così disperato nell’apprendere che lui non ci sarebbe stato più. Ma è stato solo allora che ho realizzato pienamente che era Ivan la mia vera droga, che era lui il vero veleno che mi intossicava e da cui facevo così fatica a staccarmi. Forse nemmeno lui ne era consapevole, e infatti non riesco ancora a incolparlo per le mie disgrazie. Eravamo uniti in un legame che faceva male a entrambi, nel quale però cercavamo la stessa cosa: un sollievo. Nemmeno lui era immune alle nostre debolezze, a debolezze che io per primo ho sperimentato sulla mia pelle. Per questo, ancora oggi, non riesco a provare alcun tipo di rabbia o di risentimento nei suoi confronti. Non l’ho dimenticato e non ho intenzione di dimenticarlo, perché sarebbe disonesto e meschino da parte mia, considerando tutto quello che abbiamo significato l’uno per l’altro, ma anche per me è venuto il momento di andare avanti e di non farmi più perseguitare dai fantasmi del mio passato.

Il mio futuro è tuttavia ancora pieno di incertezze. Un’altra gabbia è stata distrutta e, come è accaduto quando i Siberian Cubs hanno cessato di esistere, mi sono ritrovato nuovamente perso, come se non esistesse un vero posto per me nel mondo. Ho vissuto in molti luoghi – in Lituania, in Inghilterra, in Siberia, a Berlino Est – eppure non possiedo nessun luogo che io possa chiamare “casa”. Se quel posto esisteva, l’ho capito forse troppo tardi, era accanto a Feliks, dovunque noi ci trovassimo, e ora il terrore di averlo perduto per sempre è più forte che mai.

Separarci però è stata la scelta più giusta, perché questi anni di solitudine, pur avendo Natalia affianco, mi hanno aiutato a capire molte cose di me stesso e a far luce su quello che ho sempre provato per lui e che ho sempre cercato di nascondere a me stesso per non doverne soffrire la mancanza. Tuttavia ora ho paura di non poterlo rivedere mai più, ho paura che per noi non esisterà una seconda possibilità di tornare uniti e di costruire assieme quel futuro felice che tante volte avevamo sognato quando eravamo ragazzi e vivevamo a Londra. Spero di riuscire a contattarlo, spero che lui desideri rivedermi tanto quanto lo voglio io, spero che mi ami ancora, e spero che per noi due non sia troppo tardi.

Mi auguro di ricevere presto notizie anche da parte tua e di Raivis. Se c’è una cosa che desidero è che questa distanza non abbia distrutto la nostra amicizia. Forse è una delle poche conseguenze positive che ha comportato la nostra vita a Londra, e non voglio rinunciarvi, perché per me ha ancora un valore profondo.

Teniamoci in contatto, con la speranza di rincontrarci tutti quanti nei prossimi anni. Sarebbe bello e mi rallegrerebbe molto sapere che state tutti bene e che questi anni di sacrifici non sono stati vani. Ho molte cose da raccontarvi, ho molte cose che voglio chiedervi, e mi mancate tremendamente.

 

 

Con tutto il mio affetto e la mia amicizia,

 

Toris

 

* * *

 

giugno 1974,

Londra

 

Feliks stringe la mano intrecciata alla mia, mi cammina davanti guidandomi lungo la stradina di sterrato che attraversa Regent’s Park, e passeggia sotto l’ombra degli alberi, circondato dalle foglie ondeggianti delle betulle che spandono un riflesso verde cristallino, come tanti frammenti di vetro sotto il sole. «Ed ecco perché la primavera è in assoluto la mia stagione totalmente preferita. Capito, no?» Tiene stretta la mia mano e si gira a guardarmi da sopra la spalla, senza smettere di passeggiare. I capelli raccolti in una coda che tiene scoperte le orecchie, alcune ciocche bionde a sventolargli sulle guance e davanti alla fronte. Feliks ne stringe una e la arrotola attorno alla punta dell’indice. Corruga un’espressione assorta e pensierosa, i suoi sottili occhi felini brillano come smeraldi sotto il riverbero dell’estate appena fiorita che pare aprirsi dovunque lui posi i passi. «Perché, cioè, in realtà anche l’estate non è che mi dispiaccia tanto, ma con tutto quel caldo che fa poi mi si incollano i capelli alla faccia, e c’è quello schifo di umidità che mi fa diventare le punte una cosa tipo terribile da gestire e non so mai come pettinarli.» Sfila l’indice dalla ciocca, passa le dita fra i capelli sfuggiti all’elastico e li pettina dietro la curva dell’orecchia. Le dita intrecciate alle mie stringono la presa, le mani dondolano fra i nostri fianchi, e Feliks continua a camminare rimirando i riflessi di luce creati dal tetto di rami scossi dalla brezza. «E poi dicono tutti che la cosa più bella dell’estate è andare al mare, no? Ma, sì, io non sono mai stato a fare il bagno quindi non saprei proprio se ne vale la pena. Oh, cioè, una volta, quando ero, sai, più piccolo, una specie di mia zia mi ha portato a fare il bagno al lago dove lei ha la casa, ma l’acqua era tipo ghiacciata come il Polo Nord, e c’erano tutte quelle schifo di alghe che credevo di trasformarmi in una specie di orripilante mostro di palude.» Rabbrividisce, e i tremori risalgono anche il mio braccio. «È stata sul serio una cosa stra traumatizzante e mi sono detto: “Feliks, mai più”.» Taglia l’aria con un secco gesto della mano libera. «“Questa è l’ultima volta che ti fai trascinare in uno schifo del genere, potessi crepare se ci dovessi cascare di nuovo”.»

Mi copro la bocca e rido, non riesco proprio a farne a meno. Feliks riesce sempre a ridarmi il buonumore. È un dono naturale. Il cuore diventa più tiepido, il petto si alleggerisce, e anche i passi si fanno meno faticosi da portare avanti, come se stessi camminando in mezzo al prato e non sullo sterrato. Il sole scalda le guance con una luce più vivace, nonostante l’ombra delle betulle a trattenerne i raggi.

Sollevo anch’io lo sguardo fra i rami, riparandomi con la mano libera che non stringe quella di Feliks, e inspiro il profumo del parco, dell’aria pulita, dello spazio aperto. I fiori che stanno sbocciando nelle aiuole mi solleticano la punta del naso con l’aroma di polline, simile a quello del miele. Il venticello che soffia dalle sponde del laghetto attraversa i capelli e i vestiti, rinfresca la pelle accaldata dalla giacca di cotone di cui non posso fare a meno neanche ora che le temperature si stanno alzando. Le maniche lunghe mi tengono le braccia coperte. Era da tanti giorni che non uscivo a prendere un po’ d’aria fresca, e ora che le piogge delle ultime settimane sono cessate il sole sembra splendere di una luce ancora più limpida e accesa. Passeggiando assieme a Feliks nel parco in fiore, sotto il frusciare dei rami, il canto degli uccellini e lo scrosciare delle acque sulle sponde del laghetto, sembra davvero che l’estate gli stia sbocciando attorno. «Mi sarebbe piaciuto vederti.»

Feliks si stringe nelle spalle, si copre il viso arrossito per l’imbarazzo, e trilla una risatina nervosa. «Oh, no, ti prego.» Sventola la mano per scacciare quell’idea. «Sarei stato tipo la cosa più oscena che tu abbia mai visto.»

Gli stringo la mano e sorrido. La luce del sole brilla attraverso l’oro dei suoi capelli che, raccolti all’indietro, mettono in risalto i tratti morbidi del volto, il colore roseo delle guance, la curva tonda delle orecchie e il battito delle ciglia davanti al verde delle iridi. Per quanto mi sforzi, non riuscirò mai a vedere nulla di orrendo in lui. «Non potresti mai esserlo.»

Feliks assottiglia le palpebre, nasconde un sorrisetto fra le labbra incurvate che gli rendono il viso ancora più rosso, e fa dondolare di nuovo le nostre mani giunte. Passa le dita fra i capelli, rigira di nuovo una ciocca ribelle attorno all’indice e la strofina con l’unghia laccata da un velo di smalto trasparente. «Tu hai mai fatto il bagno al mare?»

Accanto a noi passeggia un signore che porta a spasso un cane dalmata allacciato al guinzaglio. Il cane annusa a terra, solleva il muso verso me e Feliks, rizza le orecchie, e segue il padrone svanendo alle nostre spalle.

Annuisco. «Sì, una volta. Da piccolo.» L’ombra degli alberi che incorniciano la stradina mi risucchia nei ricordi. Socchiudo gli occhi e rievoco quell’estate, l’ultima realmente felice di cui ho memoria prima del mio arrivo in Inghilterra, prima che la mia vita cambiasse per sempre. Un forte senso di nostalgia mi stringe il cuore, spande fra le guance un sapore acre e dolce allo stesso tempo. «Quando ero piccolo, un’estate, io e la mia famiglia abbiamo trascorso una vacanza alla spiaggia di Klaipėda. Io in realtà ho sempre preferito le gite nei boschi, ma è stata una settimana indimenticabile. Uno di quei momenti che mi piace ancora ricordare.» Volto la guancia per posare lo sguardo sul laghetto che riposa fra le curve del prato. Il sole di giugno brilla in una composizione di scaglie che ondeggiano fra le acque calme, scomposte solo dal nuoto di uno stormo di anatre. Alcune si stanno avvicinando alla riva, dove una giovane coppia passeggia tenendosi per mano. Un’anatra sbatte le ali sollevando una serie di schizzi d’acqua, e altre s’immergono, scrollando le testoline non appena riemergono. I raggi del sole che scivolano sull’acqua come spennellate di luce alimentano i ricordi, schiariscono la patina grigia che li avvolge. «I tramonti erano molto belli, erano la parte che preferivo. La spiaggia era deserta e non si vedeva altro che una distesa di acqua rossa verso l’orizzonte con il sole a sfiorarne le onde, e non c’era altro suono se non lo scroscio dell’acqua e il fischio del vento.»

Lo sguardo di Feliks s’illumina, gli occhi brillano di meraviglia, e la stretta della sua mano mi trasmette un guizzo d’entusiasmo. «Ooh, e com’era fare il bagno nel mare vero?» Mi saltella davanti, prosegue camminando all’indietro, rimbalzando fra alcune radici che emergono dallo sterrato. «Com’era l’acqua? Fredda o calda? E c’erano anche lì tutte quelle schifo di alghe?»

«No» scuoto il capo. «L’acqua era molto limpida. Però era anche molto fredda, nonostante fosse estate.» Mi stringo nelle spalle, svelando un piccolo sorriso di dispiacere. «Temo sia sempre così quando si fa il bagno nel Mar Baltico. È inevitabile.»

Il sorriso di Feliks si spegne, i suoi occhi scivolano a terra, nascosti da una ciocca di capelli, ma le sue guance restano spolverate di rosa, di quella piccola emozione che gli ha fatto palpitare il cuore. «Oh.» Ma il broncio non dura a lungo. Feliks torna a saltellarmi affianco e fa sventolare la gonna a balze che oscilla attorno alle cosce. Le cinghie borchiate allacciate agli stivaletti emettono allegri squilli argentini a ogni sua falcata. «Perché dicono che il bagno al mare sia, sai, totalmente più bello, in realtà, rispetto a quello nel lago. Ma l’acqua è salata, e io non so proprio se avrei coraggio di bagnarmi i capelli. Pensa che disastro poi sciogliere tutti i nodi!» Stringe le dita intrecciate alle mie, e le catenelle dei braccialetti che gli pendono dal polso mi sfiorano la mano. Feliks si avvicina a posarmi la tempia sulla spalla, e sospira a fondo. «Magari un giorno andiamo in un mare caldo. Il mare più caldo di tutti!» Mi spreme due volte la mano. «Mi ci porti un giorno, mh? Mi ci porti?»

I suoi capelli così vicini mi sfiorano la guancia, mi solleticano con il loro profumo inconfondibile, di vaniglia e di frutta fresca. Una dolcezza in cui potrei annegare e che riesce sempre a farmi sentire bene, ad addolcirmi anche nelle giornate più buie.

Socchiudo le palpebre e mi abbandono a questa sensazione, al desiderio di potergli rimanere sempre affianco, ogni volta in cui mi sento triste e ho bisogno di lui. «Mi piacerebbe.»

Continuiamo a camminare attraverso il parco, superiamo i cespugli di rose recintati, le panchine di legno giù occupate da gente che legge e da gente che chiacchiera, e passiamo oltre la stradina che scende fino alle sponde del lago dove è possibile noleggiare le barchette. Una coppia di ragazzi sta lanciando pezzetti di pane alle anatre e ai cigni, sollevando un grande starnazzare che si mescola al frullare delle ali. Un uomo in bicicletta ci supera. Ci passano davanti anche una signora anziana che tiene la mano a un bambino e una donna che cammina senza staccare gli occhi dal libro che sta leggendo.

Feliks si guarda attorno, catturato dall’immagine dei cigni che sbattono le ali e che tornano a tuffarsi fra le acque del lago. Solleva gli occhi fra i rami delle betulle, dove uno scoiattolo è appena balzato da un albero all’altro, e lascia che la luce del sole torni di nuovo a rischiarirgli il volto. «Poi la primavera è in assoluto la stagione più bella perché in estate non ci sono i fiori e invece in primavera sì.» Solleva la tempia dalla mia spalla e indica il cielo. «Perché a me hanno insegnato, no, che i fiori cadono dagli alberi per lasciarci sopra i frutti, o qualcosa così. E io so fare le corone di fiori, sai? Ed è un peccato non avere fiori con cui farle.» Accosta la mano al mio viso, passa le punte delle dita fra i miei capelli, mi sfiora la guancia con le nocche, con quel tocco caldo e sottile che è come un piacevole fuocherello sulla pelle. Mi sorride. Mi scruta a fondo con quei suoi occhi misteriosi e indecifrabili persino per me. «Per me tu staresti tipo una favola con una corona di fiori.»

Fremo sotto il suo tocco tiepido, davanti alla luce del suo viso che sembra guardarmi fin dentro il cuore. Gli avvolgo la mano posata sulla mia guancia, sorrido da dietro il profilo delle dita. «Sono sicuro che a te starebbe di gran lunga meglio.»

Feliks scuote il capo facendo ciondolare la coda di cavallo. «Sciocchezze» cinguetta. «Un giorno te ne faccio una, e vedrai che meraviglia che sarai.»

«Mi piacerebbe vederti con una corona di fiori.»

«Mhm.» Feliks sbatte le ciglia e mi scocca un’occhiata maliziosa. Il rossore sulle guance e i fili di capelli che gli cadono sul viso gli donano un aspetto più timido. Si stringe nelle spalle e scosta una ciocca dietro l’orecchio, snuda il biancore del collo che ho già baciato così tante volte e che ora è avvolto da un nastrino verde in tinta con la camiciola. «Perché sarei tipo più carino?»

Sorrido con più naturalezza. «Ma tu sei già carino.»

Feliks mi stringe la mano, trasmettendomi quel guizzo di gioia che è brillato nel suo sguardo arrossito. Sistema la giacca appoggiata sulle spalle – l’ha tolta appena entrati nel parco, quando le nuvole si sono schiuse e il sole si è fatto più caldo – e continua a guidare la nostra passeggiata, spostando gli occhi in mezzo al prato dove delle persone si sono fermate a lanciare la palla a due cani, e verso il laghetto dove i cigni e le anatre stanno ancora beccando i pezzetti di pane sulle sponde. «E la tua stagione preferita qual è, invece?»

Tengo il passo con lui, senza lasciargli la mano, e anche io mi guardo attorno, schivando però gli occhi delle persone che ogni tanto incrociamo lungo la stradina. «Uhm» ci rimugino. «Non saprei, non ci ho...» Mi strofino la nuca. «Non ci ho mai pensato prima.»

«Ma è facile scoprirla!» Feliks compie un saltello più vivace, facendo trillare le borchie degli stivaletti, e mi supera sollevando un indice al cielo. «Pensa a quella che ti rende in assoluto più felice e che quando arriva tu sei tipo: “Che bello! È finalmente arrivata! È da tipo tutto l’anno che aspettavo che arrivasse questo momento e adesso non vedo totalmente l’ora di godermelo alla grande!” Ecco, quella che ti fa dire così è la tua stagione preferita.»

Compio anche io un saltello per stare al passo con lui ma torno subito a guardare per terra, a riflettere su questo pensiero inaspettato. «Quella che mi rende più felice» rimugino. Ho smesso di contare il tempo da anni, ormai. Per me una stagione vale l’altra, non c’è differenza fra i diversi mesi, fra un giorno feriale e uno festivo, e ultimamente il mio fisico è così indebolito che mi accorgo a malapena del cambio delle temperature o dell’aumentare dell’umidità.

Chiudo gli occhi e mi aggrappo di nuovo ai ricordi, mi lascio guidare dalle immagini che provengono dal mio passato, dai giorni in cui ero ancora sereno e in pace con me stesso. Dai giorni più felici che ancora oggi sogno con nostalgia.

Evoco il tepore di un caminetto acceso, il profumo della legna bruciata e della pece che scoppietta fra le fiamme, le sfumature arancio e rosse che avvolgono le pareti del soggiorno, gli sciami di scintille incandescenti trattenuti dalla grata. L’odore speziato della cucina, della zucca cotta, e quello dolce delle castagne arrostite. Il picchiettare morbido della pioggia sulle finestre, il grondare dell’acqua sui vetri, il cielo annuvolato fra i comignoli e dietro i rami spogli degli alberi, e la nebbia della mattina che avvolgeva le colline all’orizzonte. Lo scricchiolare delle foglie secche durante i pomeriggi ancora tiepidi e assolati che trascorrevo passeggiando nel bosco. Il profumo della corteccia, del muschio umido, del fumo proveniente dai comignoli, della terra dei campi, e il rosso sanguineo del sole al tramonto che calava all’orizzonte, tingendo le nuvole di rosa. Quei colori che ancora oggi ricordo con una profonda e dolorosa malinconia che mi fa desiderare di tornare a quei tempi.

«L’autunno, direi.» Continuo a camminare affianco a Feliks, risollevo lo sguardo da terra, scosto i capelli finiti sul viso, e mi lascio catturare dai riflessi della luce estiva che si scompone fra i rami delle betulle. Un mosaico di luce bianca e verde che, nonostante il tepore, non riesce lo stesso a scaldarmi il cuore. «Mi piace guardare le foglie che cambiano colore e che cadono, mi piace sentire il soffio del vento fra gli alberi che assumono quel buon profumo di corteccia bagnata dalla pioggia, e mi piace guardare gli acquazzoni da dietro le finestre, oppure svegliarmi la mattina presto e ascoltare il silenzio che di solito c’è sempre nelle campagne nebbiose. E poi accendere il caminetto e passeggiare in mezzo alle pozzanghere.»

Feliks compie un rimbalzo di gioia, i suoi occhi tornano a illuminarsi di entusiasmo. «Le pozzanghere sono divertenti!» Guarda anche lui verso il cielo ma il sorriso sbiadisce, si fa pensoso. «Ma il cielo d’autunno è sempre così nuvoloso.» Scuote il capo, imbronciando una piccola smorfia di disappunto. «Se non c’è il sole non è per niente divertente, mi mette di malumore il pensiero di dover sempre stare in casa al buio.»

«No, in realtà il sole c’è ancora. È questo il bello dell’autunno.» Indico il cielo, i raggi di sole trattenuti dagli alberi, e le nuvole bianche come sbuffi di cotone. «Le nuvole nascondono il sole ma, se si osserva attentamente e se si è pazienti, è ancora possibile sentirne il calore dei raggi.»

«Mhm.» Feliks si stringe nelle spalle, ancora poco convinto, e punta le dita verso l’orizzonte, mimando il movimento del sole che cala. «Ma è così triste vedere che piano piano sta andando sempre più giù e che sta, sai...» Sventola la mano facendo tintinnare l’intreccio di bracciali. «Diventando sempre più freddo e le giornate sempre più corte.»

«No, non è triste. È solo...» Mi strofino la manica della giacca e mi chiudo nelle spalle. Sottili brividi di freddo corrono attraverso la pelle, nonostante il calore del pomeriggio. «Solo un po’ malinconico, perché sai che un giorno comunque tornerà la primavera. La malinconia è un bel sentimento.»

Gli occhi di Feliks mi scivolano addosso, il suo sorriso mi sfiora, mi trasmette quel luccichio incantato che brilla nelle sue iridi smeraldine. «Come te.»

Sussulto, gli passo quel brivido attraverso la stretta di mano, e gli rivolgo un’occhiata smarrita, sentendomi diventare rosso in viso.

Feliks allontana gli occhi, torna a giochicchiare con le ciocche di capelli che gli celano il viso, ma annuisce mantenendo quell’espressione seria. «Anche tu sei un po’ come l’autunno, secondo me.»

Quell’improvviso e piacevole tepore al petto mi riscalda più del sole che splende su Regent’s Park. Riesco a sorridere anch’io. «Davvero?»

Feliks annuisce con convinzione. «Totalmente. Sei sempre...» Volge lo sguardo al di là del prato recintato, verso la curva dell’orizzonte dove i palazzi del centro emergono da dietro gli alberi, avvolti da una sottile nebbiolina di fumo. I suoi occhi non brillano più, appaiono distanti. «Triste e malinconico come l’autunno.»

Quella frase mi colpisce al cuore, dolorosa come se Feliks avesse infilato le dita in una ferita aperta. Guardo in disparte, verso gli alberi, verso dei piccioni che si sono messi a beccare fra le radici, e tengo sollevato quel sorriso di circostanza per nascondere il disagio nei miei occhi. «M-ma io...» Le labbra tremolano. La mano giunta a quella di Feliks irrigidisce. «Io non sono triste.»

Feliks scuote le spalle, srotola l’indice da una ciocca di capelli, e nei suoi occhi permane quella sfumatura grigia e avvilita. «Però, quando sorridi, lo fai solo con la bocca. E mai con gli occhi.»

Quelle parole, per quanto gentili, mi attraversano e mi denudano, facendomi provare una fitta di vergogna in fondo allo stomaco. Tengo stretta la mano di Feliks. Mi assale la paura di potermi allontanare da lui, che quel sottile divario sempre presente fra di noi aumenti, dividendoci per sempre.

Davanti a Feliks cerco sempre di mostrarmi sereno, di nascondere il mio dolore, di ricambiare tutto quell’affetto e quel calore che solo lui è in grado donarmi, ma c’è sempre qualcosa che mi blocca, sempre una sottile barriera di ghiaccio fra me e lui che non riesco nemmeno a scheggiare, sempre quel chiodo nel cuore che mi tormenta e che mi impedisce di sorridergli come vorrei, di lasciare che anche i miei occhi siano liberi di brillare di gioia come i suoi. E Feliks è l’unico ad accorgersi di questa mia tristezza celata, dei miei sforzi di apparire felice anche quando non lo sono, quando ho paura di esserlo.

«Tu sei davvero un po’ come la pioggia e come l’autunno» continua Feliks, saltando oltre lo spigolo di una pietra che emerge dalla stradina. «Come gli alberi che si fanno scuotere di qua e di là dal vento prepotente, lasciandosi togliere tutte le foglie di dosso.» Avvicina indice e pollice lasciando però un piccolo spazio fra i polpastrelli, come se stesse reggendo un sassolino. «Però c’è sempre quella specie di sole dietro le nuvole che si fa vedere solo in una parte piccola piccola, come se avesse tipo paura a sbucare fuori del tutto, come se si vergognasse.» Annuisce a se stesso, mantenendo quell’aria assorta. «L’autunno ti somiglia davvero un sacco, secondo me.»

Riesco a rasserenarmi, a sciogliere quella pesante e dolorosa paura di tenergli avvolta la mano, e mi soffermo sulla sua presenza che è davvero come un raggio di sole in mezzo al gelo invernale. Feliks mi cammina affianco facendo rimbalzare i passi sullo sterrato, accompagnato dal trillare delle borchie sugli stivaletti e dal tintinnio dei bracciali che si alternano come i singhiozzi di una risata. I suoi occhi splendono vivaci sotto il sole. I capelli biondi raccolti all’indietro, il profumo fresco e vanigliato della sua pelle, la sua mano sottile stretta nella mia, e quello sguardo luminoso che sembra aprire il cielo, scoprendo questo pacifico angolo di primavera che ci avvolge nel canto degli uccellini e nell’odore di fiori appena sbocciati. Gli sorrido, ma questa volta senza dovermi sforzare. «Allora anche tu assomigli alla primavera.»

Feliks sussulta, sgrana le palpebre segnate da un sottilissimo filo di eye-liner nero, e lascia che il verde delle iridi splenda come quello riflesso dalle foglie sopra di noi. «Ah, sì?»

«Certo» annuisco. «Perché tu splendi come il sole in primavera. È una luce fresca che non stufa mai e da cui non vorresti mai staccarti. Una luce...» Mi lascio di nuovo catturare dalle sfumature del cielo, da quell’azzurro limpido e terso che splende senza far male agli occhi. Il suo calore mi avvolge senza soffocarmi, trasmette un tepore che potrebbe davvero sciogliere il ghiaccio grigio in cui mi sento sempre imprigionato. «Una luce che dà l’impressione di essere appena rinata, di essere sopravvissuta all’inverno, e che ora è di nuovo forte e in grado di far rivivere tutto ciò che tocca.»

Feliks rosicchia un angolo delle labbra per nascondere un sorriso ammaliato, abbassa gli occhi lasciando che una ciocca di capelli gli scivoli sulla guancia, e torna ad appoggiarsi con la tempia alla mia spalla, celando quel rossore sul viso che lo imbarazza sempre. «Sai che è la cosa più carina che mi abbiano mai detto?»

Gli carezzo i capelli, stando però attento a non sciogliergli l’elastico. «Ma è la verità.»

Feliks sospira, lascia riposare il capo su di me senza sollevare la tempia dalla mia spalla, e passa una carezza sul mio braccio con la mano che non tiene unita alla mia. Ferma il tocco, stringe le dita sul tessuto della giacca, si tiene aggrappato. «Se però io non riesco a farti felice e a farti, sai no, tipo rinascere dal tuo autunno o da qualcosa così, allora non mi interessa proprio per niente essere come la primavera.»

Sorrido. Gli scosto un filo di capelli dalla guancia e gli sfioro la pelle intiepidita dal sole. «Ma scommetto che saresti bravissimo a farmi rinascere.»

Stringiamo le mani ancora unite fra i nostri fianchi e continuiamo a camminare seguendo il tragitto della stradina. Due bambini sorvegliati dalla loro mamma giocano nel prato, lanciandosi a turno una pallina da tennis rincorsa da un Golden Retriever. Tre ragazzi ci superano passandosi di mano in mano un sacchetto di noccioline comprato in uno dei chioschi all’entrata. Una signora si sfila il cappotto, ci passeggia affianco, va a sedersi su una delle panchine ombreggiate dalle betulle, e sistema qualcosa dentro la borsetta.

Un alito di vento più fresco, pregno dell’odore acquitrinoso del lago, ci passa attraverso, e mi scuote i capelli sopra le spalle. Mi affretto a pettinarli all’indietro e ad appiattirli sul lato sinistro del collo, in modo che tengano il tatuaggio coperto. 

Feliks si strofina le braccia nude sotto la stoffa della giacca che gli pende dalle spalle, e rabbrividisce. Quel piccolo spasmo di freddo gli fa sollevare lo sguardo verso l’ammasso di nuvole che si è trascinato davanti al sole, tappando il calore dei raggi. Gli rivolge un piccolo broncio da offeso, quasi lo stesse rimproverando per tenersi nascosto. «Ecco, secondo me invece la stagione peggiore di tutte è l’inverno.» Sventola una ciocca di capelli lontano dalla fronte e torna a far dondolare la mano stretta alla mia. «Cioè, è tutto congelato, è sempre buio, e si crepa dal freddo. Oh, be’, mai come da me su in Polonia, sai, ma anche qui in Inghilterra l’inverno è lo stesso tremendo perché mi si ghiacciano le dita, e devo sempre indossare vestiti pesanti e decisamente poco carini che sono una vera orripilanza.» Si liscia la gonna, tiene l’orlo stretto fra le dita, e la fa sventolare fra un passo e l’altro. «E non è per niente giusto, proprio.» È una gonna a balze nera e verde, lunga fin sopra il ginocchio, che Feliks ha abbinato a una camicetta, verde anche quella, ma a righe, simile a una divisa scolastica e che lo fa sembrare ancora più giovane di quello che è.

Gli stringo la mano, mi pizzico l’interno del labbro fra i denti, e questa volta sono io a provare quel caldo rossore sul viso che prima ha spolverato le sue guance. «Ehm. Sai, Feliks, non sei...» Lo guardo negli occhi, non più sulle gambe. «Come mai hai iniziato a indossare quelle? Non sei costretto, e...»

«Uh?» Feliks flette il capo di lato senza lasciare l’orlo della gonna, sbatte le ciglia, e mi rivolge un’occhiata interrogativa. «Non ti piace?»

Sobbalzo. «N-no, no, intendo...» Tentenno, le parole mi s’ingarbugliano sulla lingua, e le guance bruciano. «Mi piace, sul serio. Solo...» Mi stringo nelle spalle, nascondendomi, succube di una colpevolezza che non riesco a decifrare nemmeno io. «Non vorrei, ecco, aver fatto qualcosa di sbagliato nei tuoi confronti.» Apro e stringo il pugno libero sulla stoffa dei pantaloni, scarico tutta la tensione che prude fra le dita. «Qualcosa che ti abbia fatto credere che sei costretto a indossarla.»

Feliks torna a rigirarne l’orlo, strofina la stoffa fra le dita bianche e sottili, e rimira il tessuto color pino che sfuma di una tinta più chiara sotto la luce del pomeriggio. «In realtà è comoda, sai, ed è anche un sacco utile oltre che carina.» Fa spallucce e sventola la mano, lasciando trillare l’intreccio di bracciali attorno al polso. «Proprio non capisco dov’è che sta tipo scritto che i maschi non possono, sai, no, indossare le gonne, eccetera. Se una cosa è carina è carina, e non è giusto che uno non possa mettersela.»

Sollevo un sopracciglio. «Perché dici che è utile?»

Feliks abbassa lo sguardo di colpo. I suoi occhi sbirciano verso la coppietta che passeggia sulle rive del lago, il ragazzo e la ragazza che prima stavano spezzettando il pane per le anatre e per i cigni. Anche loro due si stanno tenendo per mano. La ragazza ride per qualcosa che le ha detto il ragazzo, si tiene stretta al suo braccio, e lui si china a scostarle i capelli dal viso, a darle un bacio sulla punta del naso mentre si incamminano verso l’uscita del parco. Feliks arriccia le labbra, aggrotta la fronte, e gonfia le guance in quel piccolo broncio contrariato che mima sempre quando è geloso di me. «Perché, se la indosso quando sono con te...» Fa dondolare le nostre mani giunte. «La gente non ci guarda strano se tipo ti abbraccio o ti tengo la mano.»

Una scossa di stupore mi punge, si trasmette anche all’intreccio delle nostre dita.

Lo sguardo di Feliks, da scuro e imbronciato, diventa più schivo, e lui lo nasconde contro la spalla. Lo stesso gesto che fa per evitare le occhiate degli uomini che lo incrociano per strada, quelle occhiate che sembrano volergli scavare sotto i vestiti. «E poi perché tu sei l’unico che non mi guarda come se volessi vedere solo una ragazza, no? Cioè, tu mi guardi come Feliks, e non mi guardi per le mie gambe, o per la mia faccia, o per i miei capelli, come fanno tutti quelli che ci provano e che mi ronzano attorno. Tu sei l’unico che quando mi guarda mi guarda tutto, e che riesci a vedere quelle cose di me di cui nessuno si accorge mai.» Torna ad appoggiare la fronte sulla mia spalla, avvicinandosi con il suo profumo, e mi avvolge il braccio tenendosi aggrappato alla manica della giacca. «È per questo che io sto bene solo assieme a te e che non mi scoccia mettermi le gonne, se so che ci sei tu a guardarmi e a proteggermi da quelli che mi fissano solo per quello.»

Mi tornano in mente tutte le volte in cui gli uomini o anche i ragazzi più grandi di noi si girano a lanciargli quel genere di sguardi, i bisbigli che si scambiano da sopra le spalle, le gomitate e le ridacchiate mentre fanno sfilare gli occhi sulle gambe che lui di solito tiene scoperte, fasciate solo da calze o da parigine. Quegli sguardi viscidi che spingono sempre Feliks a stringersi al mio fianco e a nascondersi dietro di me, dove si sente più protetto. «Oh.» Gli stringo più forte la mano, guidato dal bisogno di tenermi allacciato al nostro legame. A quel legame che però è sempre bloccato da qualcosa, da una sottile barriera fra di noi che non so mai come infrangere e attraversare. Io amo Feliks e non so mai come dimostrarglielo, come ricambiare tutto l’affetto che ricevo da lui ogni giorno, e questo scava un dolore dentro di me ancora più difficile da sopportare rispetto a quello causato dalla dipendenza.

Fermo il passo. Mi chino a scostargli una ciocca bionda che gli cade sul viso e gliela lascio scivolare dietro l’orecchio. Mi accosto al suo profumo di vaniglia, di zucchero caramellato e di frutta fresca che nasce nell’incavo del collo, sotto il bavero della camicetta, e gli poso un bacio sulla guancia. Una guancia morbida e tiepida come quella di una bambola.

Feliks sobbalza e mi rivolge lo sguardo. Il viso brilla di gioia e stupore, le labbra rimangono socchiuse in quel breve sussulto che sembra chiedermi il perché di un gesto così insolito da parte mia, soprattutto quando siamo in pubblico.

Per una volta non distolgo lo sguardo, nonostante l’espressione triste che so di star mostrando. Gli passo una carezza sul viso percorrendone il profilo liscio. «Scusami se non posso essere sempre con te come vorremmo.» Fermo il tocco sotto il mento. «E se non riesco a curarmi di te come dovrei.»

Feliks sbatte le ciglia e sospira, catturato dal mio sguardo. Raccoglie la mia mano, quella con cui gli ho carezzato il viso, e la tiene accostata alla guancia. Le sue labbra mi sfiorano le nocche, mormorano con tono basso e colpevole. «Scusami se ogni tanto faccio i capricci per averti sempre tutto per me.»

Lascio che una soffice risata malinconica mi muoia fra le labbra. «No, hai ragione.» Distendo le dita, gli carezzo la guancia con il pollice, all’altezza dello zigomo diventato più rosso e caldo. «Anche io lo vorrei, sai? Anche io vorrei poter essere sempre tutto per te.»

Feliks torna a sollevare gli occhi, senza più imbarazzo, senza più tristezza o alcun senso di colpa ad annebbiare lo sguardo, e sorride. Uno di dei suoi soliti sorrisi furbi e felini, da incantatore, ma dolci come il profumo che si cela fra i suoi capelli, nell’incavo del collo in cui amo immergermi e respirare a pieni polmoni.

Feliks si gira verso il laghetto, e nei suoi occhi si specchiano le scaglie di luce che oscillano nell’acqua, davanti a una panchina libera piantata all’ombra di un salice. «Oh!» Feliks rimbalza, mi stringe la mano, e indica verso la panchina. «Guarda, è libera!» Corre affondando gli stivaletti nell’erba tosata del prato, e mi guida verso l’ombra del salice che lascia cadere i suoi rami sulla riva del laghetto. La gonna svolazza attorno alle gambe, la giacca poggiata sulle spalle si agita come un piccolo mantello. Feliks rimbalza di due passi più rapidi per non ruzzolare giù dalla pendenza, senza lasciare la mia mano, e si gira a chiamarmi con una sbracciata. «Corri!» Il suo sorriso splende più di questo pomeriggio d’estate, i suoi occhi sono più verdi di tutta l’erba che ci circonda.

Mi lascio contagiare e cogliere da una capriola del cuore, da questa ventata di felicità improvvisa che sembra ridarmi un po’ della giovinezza che mi sono lasciato rubare durante questi ultimi anni di autodistruzione. Corro anch’io, aggrappato alla mano di Feliks, tenendomi stretto all’unica cosa che conta in questo momento.

Raggiungiamo la panchina sotto il salice, dove l’aria è più fresca e il profumo del laghetto si mescola con quello dolce delle aiuole in fiore disposte a corona dietro le recinzioni. Feliks abbandona la giacca sullo schienale della panchina, lascia che sia io a sedermi per primo e si sdraia su di me. Rannicchia le ginocchia sollevando i piedi da terra, mi avvolge le braccia attorno ai fianchi, lascia riposare il capo sopra le mie gambe, abbassa le palpebre e sospira, lasciando le labbra incurvate in quel sorriso beato, lo stesso che mostra sempre prima di addormentarsi. Alcune ciocche di capelli sfuggono all’elastico, gli scivolano sul viso. Lo carezzo, gli pettino i capelli all’indietro, e percorro la sua guancia con le nocche. Gli faccio solletico al naso. Feliks ridacchia ma non riapre gli occhi, fa finta di addormentarsi.

Mi abbandono anch’io, lasciandomi racchiudere nella pace di questo singolo attimo di pura felicità che pare sollevarci fino al candore delle nuvole.

La luce si spezzetta fra i rami del salice, compone striature verdi e argentate che riempiono l’aria di scintille. Al di là della sponda del laghetto, oltre le chiome delle betulle che spiovono sui viottoli di sterrato, gli edifici del centro di Londra risalgono il cielo sporcato solo da qualche nuvola bianca. Stormi di anatre volano sul pelo dell’acqua, si uniscono al nuoto dei cigni, immergono la testa fra le onde e la scrollano, sguazzando sotto i raggi del sole. Altre persone passeggiano circumnavigando le sponde e fermandosi al piccolo chiosco da cui proviene un profumo speziato di frittelle alle mele e cannella. Il resto è silenzio coronato solo dal soffiare del vento che mi passa fra i capelli e dal frusciare dei rami del salice che compongono le increspature d’acqua sulla riva del laghetto, senza disturbarne la pace.

Feliks stringe le braccia allacciate attorno ai miei fianchi, spinge le spalle contro il mio busto e si tiene accoccolato rannicchiando le ginocchia al ventre. Sospira a fondo. Un’espressione di pace e beatitudine a imporporargli il viso assopito. «Ecco, vedi, io me ne starei qui sotto gli alberi a prendere il sole per tutto il giorno, solo a farmi le coccole con te.» Socchiude un occhio, sbircia verso di me da dietro le ciglia. «È un po’ da pigri, secondo te?»

Rilasso anch’io le spalle contro lo schienale della panchina e reclino il capo all’indietro. Mi faccio inondare dalla luce e dal calore del sole, lascio che le guance formicolino sotto il piacevole tepore al profumo di polline e di erba tagliata. «Ogni tanto ci vogliono dei momenti così. Come la primavera, direi. Non è pigra, perché ha comunque voglia di rinascere, ma...» Mi stringo nelle spalle. «Con i suoi tempi.»

Feliks solleva il capo dalle mie gambe, sale sulle ginocchia e batte le mani facendo trillare i bracciali. «Oh, allora ho tipo trovato un’altra cosa che tu hai uguale all’autunno!»

«Davvero?» Gli rivolgo uno sguardo intrigato. «E che cosa?»

Feliks fa scivolare le ginocchia attorno alle mie gambe, mi sale in grembo, passa le braccia sopra le mie spalle, cingendomi il collo, e intreccia le dita ai capelli, giochicchiando con le punte. China lo sguardo, sfiorandomi la punta del naso, e si avvicina con il suo profumo di vaniglia. «Hai presente quella storia, quella della cavalletta e la formica?»

Mi ci vuole qualche battito di palpebre per riprendermi dall’incanto del suo profumo e da quello dei suoi occhi che mi scrutano da dietro l’ombra delle ciglia delineate dall’eye-liner. «Ah, sì» confermo. «La cicala. La cicala e la formica.» Anche io gli sposto un filo di capelli dalla guancia. «È una favola di Esopo.»

Feliks annuisce. «Ecco.» Dondola indietro con le spalle e si posa una mano sul petto. «Io sono un po’ come la cicala, no? Che in autunno non vuole mettere via le cose da mangiare perché ha ancora voglia di divertirsi, e di ballare e di cantare, e tu invece sei come la formica perché in autunno lei è felice di lavorare, di fare cose barbose, e non si annoia nemmeno. Cioè, è proprio una brava formica.»

Gli cingo i fianchi sottili, intreccio le mani dietro la sua schiena, e abbasso lo sguardo. Mi nascondo dietro le ombre del mio passato. «Una volta ero così, è vero. Ma adesso che la mia vita è diversa...» Scuoto il capo. «Non so nemmeno io cos’è che sono, o come posso definirmi. Forse mi sento...» Per terra, ai piedi della panchina, sfila davvero una processione di formichine nere, tutte con una briciola di pane caricata sul dorso. Gli avanzi del pane che prima i due ragazzi stavano lanciando ai cigni e alle anatre. Sospiro, sentendomi anch’io piccolo e fragile come quelle formichine che potrei schiacciare solo posandoci il piede sopra. «Come una formica intrappolata dall’inverno nella sua tana da cui non riesce a uscire perché il gelo le risucchia tutte le forze, impedendole di reagire.»

Feliks solleva il mento, tutto inorgoglito, e si preme il pollice sul petto. «Allora sarò io a sciogliere il ghiaccio e ti farò uscire! Sono la primavera, o no?» Torna a passare le braccia attorno alle mie spalle e a intrecciare le mani dietro la nuca, affondando le dita fra i capelli. Le sue ginocchia oscillano attorno alle mie gambe. «E poi continuerò a saltare, a cantare e a ballare per te, perché sono come la cicala, e ti farò tornare di nuovo di buon umore.»

Gli sorrido. «Mi piacerebbe.» Stringo l’abbraccio e gli sfioro la fronte con la mia. «Mi piacerebbe che fossi proprio tu a farmi uscire dall’inverno.»

Feliks arriccia la punta del naso, facendomi il solletico. Distende il sorriso e inarca un sopracciglio in una delle sue espressioni sottili e ammiccanti. Si china a strofinare le labbra sulle mie, a posare un tocco di primavera su di me, e soffia un sussurro leggero come il petalo di una rosa. «Mi dai un bacio?»

Gli sfilo i capelli dal viso, chiudo gli occhi e gli poso un bacio sulla fronte.

Feliks stringe le dita fra i miei capelli, aggrotta le punte delle sopracciglia, mette il broncio, e le guance avvampano di rosso. «Un bacio vero, sennò non vale.»

Mi lascio scuotere da una risata, scaldandomi come se un raggio di sole fosse passato direttamente attraverso il mio cuore. «Scusa.» Riabbasso le palpebre e lo bacio di nuovo. Ha le labbra sottili e dolci, e baciarle è come rosicchiare un’albicocca non troppo matura. La bocca di Feliks sa di menta fresca. I suoi capelli mi sfiorano il viso, mi circondano con il loro profumo fruttato, di polline e di vaniglia, che mi trasporta lontano dal grigiore di Londra, in un luogo dove esistiamo solo io e lui, senza Ivan, senza Siberian Cubs, senza droga. In un luogo dove è sempre primavera.

Schiudo il bacio tenendo accostate le labbra umide alle sue, gli strofino un’altra piccola carezza sulla punta del naso, e rintano il viso nell’incavo del suo collo. Sprofondo nel suo profumo, nel biancore della pelle che dovrà rimanere sempre immacolato, senza filo spinato a intrappolarlo, senza orologi privi di lancette a fossilizzare il suo tempo, senza collari a incatenarlo come il nastrino che indossa.

Feliks accosta la bocca al mio orecchio, mi sfiora con il respiro ancora umido del nostro bacio, con un buon profumo di caramella alla menta. «Ehi, Toris.»

Riapro gli occhi. «Sì?»

Feliks arriccia le punte delle dita attorno ai miei capelli, arrotola e srotola le ciocche, le scosta dal lato sinistro del collo, e mi sfiora il tatuaggio, tenendo lo sguardo basso. «Io non posso, sai, no, sciogliere il ghiaccio, se tu però non vuoi andare via dall’inverno che ti tiene imprigionato.»

Raggelo sotto quel tocco, sotto quella piccola scossa che mi punge la gola, e sotto quelle parole che sembrano aprirmi il cuore in due. Dopotutto, sappiamo entrambi chi è l’inverno in questo gioco.

Sospiro, allontano il viso lasciandomi schiacciare dal peso dello sconforto. «Lo so, Feliks. Ma io...» Stringo le braccia attorno a lui, mi aggrappo al suo corpo così sottile ma caldo, ed è una sensazione completamente diversa rispetto a quella di essere abbracciato a Ivan. «Io ora mi trovo in una prigione di ghiaccio che mi tiene protetto. Anche se riuscissi a scalfirla, temo che poi non saprei cavarmela da solo, una volta uscito.»

Gli occhi di Feliks si inumidiscono di tristezza. «Nemmeno se ci fossi io?»

«Non lo so.»

Feliks sospira e abbassa la fronte, nascondendo quel piccolo broncio avvilito. Fa scivolare le ginocchia dalle mie gambe, slaccia le braccia dalle mie spalle e si raccoglie a sedere contro il mio fianco, tenendomi la mano stretta. Reclina il capo sul mio braccio e volge lo sguardo al lenzuolo di prato, alla tenda dei rami di salice che ci divide dalle sponde del laghetto. «Secondo me, tu saresti capace di dirglielo, però. Puoi dirglielo che vuoi andare via da lui.»

Sospiro, gli passo un braccio attorno ai fianchi per non allontanarlo da me. «Vedi, il fatto è che...» Strofino una carezza da sopra la stoffa della camicetta, guardo in basso per non dover mostrare quell’ombra di vergogna che m’ingrigisce il volto. «Che non so nemmeno io se lo voglio davvero.»

Feliks mi rivolge un’occhiata sbieca, restringe le palpebre, tamburella le dita fra le mie nocche. «Perché gli vuoi più bene che a me?»

«N-no. È solo che...» Mi strofino la nuca senza riuscire a guardarlo in viso. «Che è complicato» mi giustifico. «E in questo momento, io ho bisogno di lui, e sento che anche lui ha bisogno di me. Se lo lasciassi, temo che anche lui soffrirebbe, capisci?»

Feliks raddrizza le spalle, torna a premere le ginocchia sulle mie gambe per tenersi più vicino. «Be’, ma è lui quello che continua a permettere che tu ti faccia male in quella maniera.» Stringe delicatamente le mani attorno al mio avambraccio, strofina da sopra la stoffa della manica, carezza dove sa che le ferite mi chiazzano la pelle. «Se io fossi, sai, tipo al posto suo, non permetterei mai una cosa del genere, proprio mai, perché ti voglio troppo bene. Farei di tutto per tenerti lontano dai guai e dai pericoli.»

Il tepore di quel gesto e di quelle parole allevia tutto il bruciore che mi tormenta sulle braccia e lungo il collo, dove il tatuaggio dei Siberian Cubs esercita la pressione del suo filo spinato sul mio respiro, sul battito del mio cuore. L’affetto di Feliks è puro e sincero, riesce a farmi dimenticare persino del dolore derivato dalla presenza di quell’orologio che ha congelato il mio tempo per sempre. «Ne sono sicuro.» Gli avvolgo la mano, la accosto alle mie labbra, gli sfioro le nocche con un sussurro. «Ma mi prometti una cosa, Feliks?»

Feliks reclina il capo, mi rivolge uno sguardo dubbioso. «Che cosa?»

La mia mano trema, il tocco esita. Vorrei che queste parole non dovessero mai uscire dalla mia bocca. «Che se io un giorno ti dicessi di allontanarti da me, tu lo farai.»

Feliks increspa le sopracciglia, corruga una delle sue smorfie da arrabbiato, gli occhi luccicano di disappunto. «No, non voglio.» Torna a scivolare con le ginocchia attorno alle mie gambe e mi fronteggia a muso duro. «Tu sei il mio ragazzo, e non è giusto separarsi, non è proprio per niente giusto.»

«Feliks» sospiro. «Se mi vuoi davvero bene, allora...»

«E tu a me ne vuoi?»

«Certo che te ne voglio. E molto, anche.» Gli passo un’altra carezza sul suo viso imbronciato, come sperando di tornare a rasserenarlo. «È proprio perché ti voglio molto bene che non desidero che tu ti metta in pericolo per colpa mia. Non potrei mai perdonarmelo.»

«Ma quelli che si vogliono bene non hanno paura di mettersi nei guai per quella persona che amano» ribatte lui. «Ed è vero, te lo giuro. L’ho letto una volta su Jackie

Scuoto la testa, non posso demordere. «Feliks, ascoltami. Se io...» Non distolgo lo sguardo. Per una volta, sono io quello a non aver paura di guardarlo negli occhi. «Se io un giorno dovessi rimanere imprigionato per sempre...» Tentenno. Altri brividi freddi mi attraversano la schiena. «Imprigionato nell’inverno... non lasciare che io tenga intrappolato anche te.» Gli pettino una ciocca di capelli lontano dalla sua espressione scocciata. «Tu non sei fatto per essere prigioniero, Feliks.» Il tocco discende la curva sottile del suo collo, indugia sul nastrino che avvolge la gola immacolata. Sopra di noi, fra i rami del salice, svolazza uno stormo di passeri che sfreccia verso il lago. Liberi come Feliks dovrebbe sempre rimanere.

Feliks si mordicchia il labbro inferiore, tiene le sopracciglia aggrottate, ma poi china la fronte e sospira, mostra uno sguardo più triste e arrendevole. «Uhm.» Annuisce, cede alle mie parole, e mi avvolge la mano ancora posata sul suo viso. «Okay.» Torna a distendere le gambe sulla panchina, si accoccola contro il mio fianco, posa il capo sulla mia spalla e schiude la mano per intrecciare le dita alle mie. «Ma un giorno ti prometto che scioglierò proprio tutto il ghiaccio che ti tiene rinchiuso.»

Sorrido, più sereno, lasciando che il cuore si alleggerisca da questo peso che mi tormenta, e annuisco. «Sì.» Gli carezzo la curva del collo, quella linea sottile e libera dai capelli legati all’indietro. «Ne sono sicuro.» Il tocco indugia sul biancore della sua pelle. Formulo una preghiera in fondo al cuore, desiderando solo che rimanga per sempre pulito e libero da qualsiasi prigione.

 

***

 

agosto 1975,

Londra

 

Le mie dita scorrono sul collo tatuato di Feliks, attraversano la pelle arrossata che ancora scotta, gonfia dell’inchiostro nero che sembra sbordare dalle piccole ferite che hanno inciso quel marchio su di lui. Il mio tocco trema ed esita, vibra come la punta dell’ago che lo ha segnato a vita. I polpastrelli percorrono il contorno dell’orologio senza lancette, del filo spinato che soffoca il quadrante e che pianta i suoi rovi nella scritta “Siberian Cubs”, nera e lucida, attorno a cui si raggrumano minuscole tracce di sangue raffermo, dove le incisioni fanno ancora fatica a rimarginarsi.

Una frana di sensi di colpa mi travolge come una sassata piovuta dal cielo. Dentro di me si apre un vuoto gelido che risucchia le pareti della stanza in uno spazio nero senza fondo. Un crampo mi azzanna il cuore, spreme un battito di terrore che forma un nodo allo stomaco e che scende a tremare lungo le gambe. Devo compiere un mezzo passo all’indietro per non sentirmi sprofondare nel pavimento. «Cos’hai fatto?» Non distolgo gli occhi dal tatuaggio sulla pelle di Feliks. Sbatto le palpebre, prego di non continuare a vederlo dopo averle riaperte, ma l’orologio è sempre lì, a segnare per sempre il suo destino ormai condannato.

Fuori dalle finestre oscurate dal maltempo, un primo brontolio di temporale gorgoglia dietro le nubi che non hanno ancora versato una singola goccia di pioggia. La voce del temporale si ritira e lascia spazio a una violenta zaffata di vento che scricchiola contro il vetro. Torna il silenzio.

Feliks sovrappone la mano alla mia, tiene il tocco di entrambi accostato alla pelle arrossata e scottante, e china lo sguardo al pavimento. «È per proteggerti.»

Il mio sguardo vacilla, la vista si sdoppia. «M-ma...» Trema ancora. «Ma tu non dovevi...» Fare qualcosa che ora non potrà mai più essere cancellata. Sudo freddo e mi manca il respiro, come in quelle notti in cui mi sveglio avvolto dal buio pesto, dopo aver sognato proprio questa paura, dopo essere stato perseguitato dall’immagine del nostro tatuaggio impresso sulla pelle di Feliks. E ora me lo trovo davanti, solo che non posso svegliarmi, non posso cadere dal letto sperando di staccarmi dal sogno. Adesso è tutto vero.

Feliks stringe la mano sulla mia, cerca i miei occhi ancora smarriti. «È per starti vicino, no? Così ora non ci sono più segreti. Possiamo vivere nello stesso modo, e possiamo stare assieme sempre, ogni volta che vogliamo, anche quando tu sei...» Si pizzica il labbro inferiore fra i denti e rimangia le parole con un piccolo gemito.

Scuoto il capo. «Feliks, io...» Lascio scivolare la mano lontano dal suo collo, mi stacco da quel tocco che brucia anche sulla mia pelle, rievocando il ricordo di quando anche io ho acconsentito a farmi tatuare, e soffoco un primo nodo di pianto che pesa sullo stomaco. «Io ti avevo già detto che non avresti dovuto, che non volevo succedesse. Questo è un ambiente pericoloso, non lo capisci?»

«Io non ho paura.»

«Ma io sì. Perché...» La paura mi colpisce come un pugno alla pancia, mi fa tremare le ginocchia, chiudendo uno stretto e fitto anello di vertigini attorno alla testa. «Ora nemmeno tu avrai più la possibilità di scappare da tutto questo.»

«Quindi...» Feliks corruga la fronte attraversata dalle ciocche di capelli sciolti. Un’espressione delusa gli ingrigisce lo sguardo. «Non sei contento?»

Il mio respiro soffocato trema fra le labbra, un’altra botta di vertigini mi colpisce la nuca, mi fa sprofondare nell’incredulità. «Come faccio a esserlo?» Mi allontano tenendomi stretto nelle spalle, strofino le braccia, sfregando via i brividi corsi sotto le maniche della felpa, passo una mano fra i capelli e mi giro di nuovo ad affrontare Feliks. «Perché non mi hai detto prima che avevi intenzione di farlo?»

Feliks raccoglie una ciocca di capelli dalla spalla e la liscia fra le dita. «Perché sapevo che mi avresti detto di no, ecco perché.»

«Allora sapevi da solo di star facendo la cosa sbagliata.»

«Sbagliata solo per te. Ma per me è totalmente giusta.» Feliks si mette a braccia conserte, stringe le dita sulla pelle nuda, e sbuffa una smorfia seccata. «Guarda che anche io so scegliere da solo, e ormai ho deciso così, e tu non puoi farci proprio niente. Punto.» Fa proprio il bambino. È sempre così quando si arrabbia. Ma dev’esserci qualcos’altro dietro. Un gesto del genere, dopo tutto quello che gli ho sempre detto, dopo tutte le volte in cui l’ho implorato di tenersi lontano dai Siberian Cubs, dopo tutte le sue promesse...

Ricaccio indietro il bruciore delle lacrime con un forte respiro. Mi giro senza più la paura di dover affrontare quel marchio nero che segna il collo di Feliks, e mi impongo di restare lucido. «È davvero solo per me che lo hai fatto?»

Feliks smette di far tamburellare le unghie sulle braccia. Inarca un sopracciglio e mi guarda di sbieco da sopra la spalla. Increspa un angolo della bocca in una smorfia indecisa. «Sì.» Si tiene chiuso nelle spalle, mi dà la schiena, si gratta il tatuaggio fresco che dovrebbe tenere coperto per i primi giorni, e abbassa il tono di voce. «Perché così non ci saranno più segreti e posso starti vicino sempre, e posso rendermi conto davvero di com’è fare la vita che fai tu.»

Gli cammino vicino. «Quindi lo hai fatto solo perché entrando nei Siberian Cubs avresti potuto starmi vicino facendoti coinvolgere nella vita che conduco io? Solo questo?» Restringo le palpebre. «Oppure c’è anche qualcos’altro?» Un altro brontolio di temporale gorgheggia da dietro le nubi, il vento aumenta e scuote gli alberi fuori dalla finestra, solleva un ululato che riempie il pesante silenzio calato in mezzo a noi.

Feliks si stringe nelle spalle trattenendo un sussulto di paura, come fa sempre durante i temporali, e si affretta a guardare in basso, messo alle strette. Intreccia le dita ai capelli, strofina i polpastrelli fra le ciocche, e raggiunge l’orlo della gonna, stropicciandolo con gesti rapidi e nervosi. «Io...» Si morsica il labbro. Le guance si chiazzano di rosso, gli occhi stretti sotto la curva delle sopracciglia si riempiono di tutto il colore plumbeo che filtra dalla finestra. «Io non riesco proprio a sopportare che tu stai assieme a lui.»

Quell’accusa mi raggiunge come un sonoro schiaffo alla guancia, ma in qualche modo riesce a strappare via il peso dell’angoscia dal mio cuore, come se già mi aspettassi di ricevere quella risposta.

Feliks stringe i pugni sui fianchi, si volta a squadrarmi con un’espressione dura e imbronciata. «Non è giusto, tu sei il mio ragazzo, tu dovresti stare solo con me. E non fai nemmeno niente per evitare che lui ti stia sempre appiccicato, e sembra che tu stia meglio con lui che con me. E perché poi, anche quando io e te stiamo assieme, è come se lui fosse sempre presente, come se tu non riuscissi proprio a non pensare a lui, anche mentre dovresti pensare solo a me.» Torna a mettersi a braccia conserte, passeggia su e giù davanti alla parete, volgendo lo sguardo fuori dalla finestra, e soffia su una ciocca per togliersela dal viso. «Tu credi forse che io non me ne accorga, ma me ne accorgo. Me ne accorgo eccome. E anche se tu mi dici di no, io so che per te lui è più importante di me.»

Le parole accusatorie di Feliks sono una coltellata al cuore. La lama affonda e fa sorgere lo stesso dolore raggelante che mi ha trafitto quando ho visto per la prima volta il tatuaggio inchiostrato sul suo collo. «Feliks...»

«E come faccio...» Feliks serra i pugni schiacciati sui fianchi sollevando uno scricchiolio delle falangi, batte un piede a terra e mi affronta di nuovo a viso alto. Le guance arrossate, la fronte aggrottata, gli occhi sull’orlo delle lacrime che già traballano agli angoli delle palpebre, e la voce che si sforza di rimanere ferma. «Come faccio a superare lui se non divento anch’io uno dei Siberian Cubs?»

«Avresti dovuto dirmelo prima.» Lo raggiungo tendendo un braccio, gli sfioro il pugno tremante incollato al suo fianco, e infilo il tocco fra gli spazi delle dita che non ne vogliono sapere di schiudersi, di farsi raccogliere. Ammorbidisco il tono. «Credi davvero che avessi bisogno di questo per capire che tu tieni a me?» Cerco i suoi occhi nella penombra. «Credi che avessi bisogno di vederti buttare via la tua vita in questo modo per capirlo?»

Feliks mantiene quel broncio da offeso. «Serviva a me.» Strappa via il pugno dal mio tocco e si stringe il polso. «Serviva a me per capire se tu mi vuoi davvero bene. Se vuoi davvero più bene a me che a lui. Non me ne vuoi, Toris?» Le sue labbra tremolano, la rabbia si scioglie dagli occhi che però rimangono stretti sotto l’arco delle sopracciglia aggrottate. Un tremolio di disperazione gli spezza la voce. «Non mi vuoi bene?»

Socchiudo le labbra, soffio una singola sillaba, ma le parole tornano indietro, la voce si blocca in gola e mi impedisce di rispondere. Una nube di conflitto mi avvolge, annebbia i pensieri.

Dovrei rispondergli con un abbraccio, dovrei stringerlo a me più forte che posso e dirgli che non gli voglio bene, ma che lo amo. Che lo amo più di Ivan e più di me stesso. Ed è per questo che sono attanagliato dalla paura, è per questo che sono stato travolto da un’ondata di dolore quando ho visto il tatuaggio su di lui, non perché lo voglio tenere distante da me, ma perché so di aver fallito, so di non essere più in grado di proteggerlo come vorrei. Se dipendesse unicamente da quello che desidero, allora prenderei Feliks per mano, scapperei oggi stesso da Londra, e non penserei ad altro che a rifarmi una vita assieme a lui, lontano da qui, distanti da ciò che è sempre in agguato per farci del male. Noi due assieme, come abbiamo sempre desiderato.

Getto lo sguardo lontano e mi strofino il tatuaggio che ha ricominciato a prudere sotto i capelli.

Ma non è possibile un sogno del genere. E non lo sarà mai.

Sfilo il tocco dal collo, raccolgo per davvero la mano di Feliks, ma non per scappare assieme, non per portarlo in salvo. Gli do le spalle e lo accompagno verso la porta senza nemmeno guardarlo in faccia. «Ti riaccompagno a casa.» La mano di Feliks ha un sussulto, irrigidisce fra le mie dita.

Feliks tira via la mano, si dà un’altra grattata al tatuaggio fresco che è sempre più rosso e infiammato, annoda le braccia al petto e mi segue tenendo anche lui lo sguardo distante, fa lo scontroso. Fra di noi si spalanca un vuoto. Entrare nei Siberian Cubs avrebbe dovuto significare essermi più vicino, e invece non ha fatto altro che elevare fra me e lui un muro ancora più alto e invalicabile.

Usciamo dall’appartamento. Il cielo rimbomba, il temporale di fine estate si avvicina, e le prime gocce di pioggia lacrimano dalle nuvole, cadono fitte e pesanti come sassate, martellando su questo buio momento fra noi due che vorrei solo venisse disintegrato.

 

.

 

Le porte dell’autobus a due piani si richiudono, grondanti di pioggia, e il nostro riflesso si specchia sul lucido del vetro, attraversato da grigi rigagnoli d’acqua corrente. L’autobus sbuffa, soffia una nuvoletta color carbone, ingrana la marcia, sgomma sull’asfalto bagnato, e riparte immettendosi nel traffico. Imbocca la strada che curva dietro la galleria d’arte e se ne va, lasciandoci in attesa di quello successivo.

Il diluvio ci scroscia addosso, impregna i vestiti ormai ghiacciati e stretti come una seconda pelle, picchia sul viso come una manciata di sassi, e scorre attraverso i capelli incollati al viso e alle orecchie, gocciolando sulle spalle. Siamo usciti senza nemmeno un ombrello e non c’è alcun riparo a questa fermata, nemmeno una tettoia. Io e Feliks siamo rimasti da soli. Le ultime tre persone che aspettavano assieme a noi sono salite sull’autobus appena ripartito, hanno chiuso gli ombrelli, uno di loro ha abbassato il cappuccio dell’impermeabile, e si sono fatte inghiottire dalle porte pieghevoli che si sono tappate con un cigolio.

Il cielo brontola, le nuvole si addensano, spesse venature nere spaccano la coltre color cenere, e lo scroscio della pioggia aumenta, rovescia gocce dure e grosse come biglie. Pioggia di fine agosto, rimasta a soffocare in cielo per tutta l’estate, e che ora è esplosa come un palloncino bucato da un ago.

Le auto ci scorrono davanti. Ali d’acqua scrosciano da sotto le ruote e si abbattono contro il marciapiede. Gli schizzi arrivano a bagnarmi i piedi già infradiciati nonostante gli scarponi.

Piego le gambe e poggio le suole sul muretto su cui sono seduto, allontano i piedi dagli schizzi che continuano ad arrivare dalla strada. Strofino le maniche bagnate della felpa, gratto via i brividi che mi accapponano la pelle raggelata dall’abbraccio di stoffa imbevuta di pioggia, ma lascio che i capelli continuino a gocciolare davanti al viso chino, che mi nascondano lo sguardo. Alcune persone ci camminano davanti, riparate dagli ombrelli, sorpassano il palo della fermata, e ci lanciano occhiate storte, squadrando con sguardi spaesati i nostri corpi fradici seduti sul muretto, annaffiati dal diluvio che non accenna a diminuire. Proseguono il loro tragitto e ci lasciano perdere.

Accanto a me, Feliks smette di far dondolare le gambe, lascia anche lui che i capelli grondino lungo il viso arrossato, e si strofina le braccia nude, diventate bianche come gesso che tiene conserte al petto. Strizza le dita sulla pelle, rabbrividisce, arriccia la punta del naso per non far notare la smorfia di disagio che gli ha attraversato lo sguardo, e si mordicchia le labbra per non far battere i denti. Questa mattina si soffocava dal caldo, per questo è uscito senza giacca. Gli darei la mia felpa se non fosse ancora più fradicia della sua maglietta.

Le nuvole brontolano, il vento ulula fra i tetti e solleva larghe e grigie spazzate d’acqua che si rovesciano sulla strada. Scorrono altre auto, un taxi, ma ancora niente autobus. Feliks tiene le braccia conserte, le mani aggrappate alle spalle infreddolite, dà un’altra strofinata, e si sporge in avanti in cerca del nostro autobus. Torna indietro e fa di nuovo dondolare i piedi, forse per scaldare le gambe coperte solo dalle parigine zuppe che stanno scivolando verso le ginocchia. Si gratta il tatuaggio, la pelle ancora gonfia nonostante l’acqua ghiacciata che dovrebbe rinfrescarlo, e sposta lo sguardo su di me. Gli occhi nascosti dietro le ciocche di capelli che gocciolano incollate al suo viso. Rompe il silenzio con uno sbuffo. Feliks non sopporta i silenzi. «Non mi dici proprio niente?»

Stringo le braccia conserte, strizzo la felpa sotto le unghie piantate nelle spalle, lasciando sgorgare qualche rivoletto d’acqua fra le dita, ma non rispondo. Continuo a fissare l’asfalto bagnato, il fluire della pioggia sporca che scivola nella grata del tombino, i cerchi concentrici che si sovrappongono nella pozzanghera rafferma fra la strada e il marciapiede. La pioggia mi batte addosso e riempie il silenzio che permane fra noi due. Non ho idea di quello che dovrei dirgli.

Feliks punta i gomiti sulle ginocchia, raccoglie il viso fra i pugni, e fa di nuovo dondolare le gambe sfiorando il marciapiede con le punte degli stivaletti. «Dobbiamo tipo starcene così per tutta la vita, adesso? Senza nemmeno spiccicare una cavolo di parola? Guarda che io non ho mica smesso di volerti bene, anche se tu adesso mi odi.» Incrocia le caviglie, torna a stendere le gambe, e sposta lo sguardo sulla strada, tenendo la fronte aggrottata. Le dita tamburellano sulle guance. «Quindi mi devi sopportare ancora, perché io non ti abbandono lo stesso, anche se ormai non mi vuoi più bene e anche se non mi vuoi più vedere per il resto della tua vita.»

Mi mordo il labbro che sa di ferro, di acqua piovana. Stringo i pugni, inspiro a fondo dalle narici per ricacciare indietro il bruciore che si è già arrampicato fino agli occhi, ma non resisto. Tutto il dolore che ho provato davanti alla visione del suo tatuaggio insorge, affonda nel petto come un chiodo e vi rimane conficcato. La bocca bagnata trema, gli occhi diventano appannati e non so più se è per la pioggia o per le lacrime. Un primo singhiozzo mi rompe il respiro e brucia attraverso la gola. Sciolgo le mani dalle braccia, mi copro il viso con i palmi, affondo le dita fra i capelli bagnati, e singhiozzo ancora, lasciando che il pianto trabocchi, che mi svuoti il petto da tutto il dolore che si è cristallizzato attorno al cuore come ghiaccio. Lacrime e rivoli di pioggia si mescolano, rigano il viso già bagnato e gocciolano attraverso le mani che mi tengono nascosto.

Feliks flette il capo di lato, mi cerca con lo sguardo, addolcisce il tono di voce. «Perché piangi?» Scivola più vicino a me, mi tocca con una spallata e ridacchia. «Perché tipo mi devi sopportare ancora per tutta la vita e sei già mezzo disperato?»

Uno spasmo di risata rimbalza fra i singhiozzi, viene però subito risucchiato dal pianto che non si ferma. «Io non ti voglio lasciare.» Strofino entrambe le mani sugli occhi gonfi di lacrime, asciugo le palpebre che tornano subito a bagnarsi di pioggia. «Ma non voglio nemmeno che tu corra questo pericolo per me.» Tiro su col naso. «Non posso andarmene dai Siberian Cubs, ma restare dentro mette in pericolo sia te che me. Io ero già in una strada senza uscita e ora ho trascinato dentro anche te.» Guardo al di là della strada, poso gli occhi sul cielo di Londra, su quell’aria grigia e fumante che mi sta divorando da anni, tenendomi intrappolato nella sua nebbia. Mi poso la mano sul tatuaggio. «Ero io quello che avrei dovuto proteggerti, e per una volta credevo di aver trovato qualcosa per cui valesse la pena continuare a lottare e a provarci. Proteggere te mi dava l’impressione di non essere la persona miserabile che ho sempre creduto di essere, perché per una volta avevo l’occasione di fare qualcosa di buono per qualcun altro.» Altri tremori mi scuotono. Grappoli di lacrime insorgono e mi appannano la vista. «Attorno a me ci sono sempre state solo persone che hanno cercato di salvarmi e che hanno cercato di proteggermi, e io ho sempre deluso tutti perché non facevo altro che rendere i loro sforzi vani. Perché...» Graffio anch’io la pelle attraverso l’orologio, lasciandoci profondi segni rossi. «Perché non riesco a proteggerti?» La mano ancora aggrappata al collo trema. «Perché non riesco mai a essere forte come vorrei? Perché non sono mai abbastanza per niente?»

«Guarda che per me lo sei.»

Sfrego via un’altra scia di lacrime dalla guancia, tengo la mano accostata al viso, e mi giro. Trovo il coraggio di guardarlo a testa alta.

Gli occhi di Feliks brillano di sincerità, anche se i capelli bagnati li nascondono dietro i rivoletti d’acqua e le palpebre rimangono increspate da quella ruga offesa che ancora gli stropiccia la fronte. «Tu per me sarai sempre abbastanza. Non devi...» Scrolla le spalle, fa dondolare un piede, e si dà un’altra strofinata alle braccia nude. «Non devi mica sforzarti per esserlo, perché non ne hai proprio bisogno quando sei con me. Tu per me sei il ragazzo più perfetto del mondo.»

Ignoro quella piacevole fitta al cuore che mi ha intiepidito il petto, soffiando via un po’ del dolore che permane fra le costole come un macigno. Nonostante tutto, non riesco proprio a credergli. «N-no» mormoro. «No, io...» Getto lo sguardo in basso, di nuovo schiacciato dall’insicurezza, desiderando solo di venire inghiottito dal muretto su cui sono seduto. «Io non ho nulla di perfetto. Sei solo tu quello che riesce sempre a vedere del buono anche quando non ce n’è.»

Un’altra auto ci passa davanti, solleva un’ala di schizzi d’acqua sporca che si rompe davanti a noi e che ci bagna fino alle caviglie.

Feliks si avvicina ancora, mi sfiora la spalla con la sua e poggia la mano sul muretto di pietra, senza toccarmi, solo standomi affianco. «Sai...» Il picchiare costante del diluvio nasconde le sue parole, fa sì che sia solo io a udirle. «Ti ricordi quando quella volta abbiamo detto che è un po’ come se tu fossi sempre imprigionato in una specie di lastra di ghiaccio che non ti lascia andare?»

Ingoio un singhiozzo, asciugo altre lacrime che ormai non riesco più a distinguere dalla pioggia, strofino via il pianto opaco che mi appanna la vista, e annuisco. Torno anch’io a quella primavera di un anno fa e che ora sembra così distante e irraggiungibile.

Feliks annuisce. «Ecco, secondo me tu sei davvero dentro al ghiaccio, ma è una specie...» Apre le mani come a formare una barriera. «Di lago ghiacciato.»

Sollevo un sopracciglio. «D-di lago?»

«Sì.» Feliks distende le mani aperte, gesticola con le dita come se ne stesse tastando la superficie. «Ecco, tu sei in questa specie di lago ghiacciato, no? Ma non sei morto come qualcuno potrebbe credere, proprio per niente, e quindi non c’è nulla di male se qualcuno prova a rompere il ghiaccio per tirarti fuori, no? Ma se vuoi che qualcuno ti salvi, devi lasciare che almeno infili il braccio nell’acqua ghiacciata.» Si tocca il tatuaggio lucido e nero, la pelle scarlatta da cui l’orologio sembra sbordare. «Ora io ho infilato il braccio nel lago.» Strofina le dita sui segni delle unghiate fresche. «Puoi aggrapparti a questo, se vuoi.»

Altri brividi di paura mi aggrediscono. «E se tu finissi per...» Davanti a me si spalanca la visione del mio corpo che sprofonda nel lago, delle ultime bolle d’aria che abbandonano le mie labbra, del braccio di Feliks che sprofonda per appendersi alla mia mano, e di lui che viene trascinato dal mio peso sul fondo di acque nere e gelide da cui non c’è scampo, intrappolati per sempre sotto la barriera ghiacciata che trattiene tutta la luce e il calore. «E se finissi per aggrapparti così forte a me da finire per affogare?»

Feliks si avvicina ancora con un saltello, preme il fianco al mio, posa la mano sulla mia gamba, e reclina il capo di lato, toccandomi la guancia con la sua. La pioggia scorre fra i nostri volti, diventa tiepida come le mie lacrime. Il profumo di Feliks è ancora più dolce e pungente ora che la pioggia lo riveste. Il suo sussurro è un alito soffice come una carezza. «Se tu affoghi, se non ce la fai più a respirare sotto l’acqua ghiacciata...» Volta la guancia e accosta le labbra al mio orecchio. Una scia di brividi nasce dove la sua bocca calda e umida mi tocca il lobo, e discende lungo l’arco della nuca. «Io ti do tutto il fiato che ho. Anche se muoio con te.»

Sposto la guancia, lasciando che le sue labbra scivolino su di me, e mi affaccio al suo sguardo. Le nostre fronti si sfiorano, separate solo dai fili di capelli bagnati che si sono incollati al viso. Gli occhi di Feliks sono luci verdi nella penombra grigia, le guance rosse e umide di pioggia, il labbro inferiore trattenuto fra le punte dei denti, e una manica della maglietta fradicia che cade di sbieco, lasciandogli una spalla scoperta. Solo le vibrazioni del suo respiro a scivolarmi addosso.

Mi accorgo di star trattenendo il fiato solo quando il petto comincia a bruciare. Stringo i pugni, graffio i jeans bagnati, deglutisco trovando la gola secca, nonostante la pioggia che mi bagna la bocca, e il cuore accelera, galoppa facendo salire il sangue alla testa. Quel battito ritmico picchia sulle tempie e m’infiamma tutto il corpo, annodando la pancia in una piacevole stretta che rende il corpo più leggero. Soffio un sussulto. L’aria si condensa fra le gocce di pioggia che continuano a inondarmi.

Abbasso le palpebre e, prima ancora che io possa chinarmi ad avvicinare le labbra, la bocca di Feliks è già sulla mia.

Ci uniamo in un bacio soffice, le bocche bagnate premono una sull’altra, il respiro di Feliks soffia su di me, mi solletica la punta del naso, e le labbra si schiudono, aprendosi come petali. Il sapore di Feliks scivola sulla lingua, si lascia risucchiare. Sa di lecca-lecca alla fragola, quel gusto che ho assaporato tante volte sulle sue labbra assieme a quello di menta, di frutta fresca e di vaniglia. Un sapore nostalgico che, unito al calore di questo bacio e al sapore ferroso della pioggia, fa salire altre lacrime agli occhi, inondando il cuore di tristezza.

Feliks mi avvolge le spalle, si aggrappa alla mia felpa bagnata e sale con le ginocchia attorno alle mie gambe, cingendomi i fianchi. Stringo l’abbraccio, racchiudo quel corpicino più sottile del mio ma infinitamente più forte. Affondo le mani fra i suoi capelli bagnati e gli reggo la nuca per tenermi unito a questo bacio. Inspiro a fondo, lo bacio ancora, senza trattenermi, catturando tutta la sua essenza, scivolandogli fino in fondo all’anima.

Separiamo le labbra e i respiri si mescolano, ancora umidi e affrettati. Feliks sbatte le palpebre, gli occhi verdi e sottili brillano di desiderio, il rossore avvampa fino alle orecchie, le ginocchia nude stringono attorno ai miei fianchi, trasmettendomi quel fremito che mi scuote fino allo stomaco. Rivoletti trasparenti gocciolano dai suoi capelli, attraversano il viso imporporato, e gli rigano le guance fino al mento. Il suo naso si arriccia in una piccola smorfia, le sopracciglia guizzano sopra gli occhi assottigliati, gli angoli delle labbra s’incurvano in un fine sorriso che viene di nuovo pizzicato dalle punte dei denti. Non c’è bisogno di pronunciare nemmeno una sillaba.

Gli stringo la mano, scendiamo entrambi dal muretto, ci allontaniamo dal marciapiede, e Feliks mi guida verso il vicolo racchiuso fra le facciate di due edifici. Ci accoglie l’odore stagnante della spazzatura, accentuato da quello del diluvio, assieme al suono della pioggia che batte sulle tegole, che stride lungo le grondaie e che picchietta sui bidoni di latta come una grandinata di sassolini. Attraversiamo la cascata d’acqua creata dalla spiovenza dei tetti, simile a una tenda di perline di vetro, e ci rintaniamo contro il muro.

Feliks si aggrappa alle mie spalle, mi bacia di nuovo, scivola all’indietro, sbatte i piedi fra i sacchi della spazzatura raccolti fra le cassette di legno abbandonate, inciampa su uno dei bidoni, stringe le braccia su di me per non cadere, e schiaccia la schiena contro la parete di mattoni, accanto alla grondaia arrugginita. Avvolge il mio viso fra le mani, fa schioccare il bacio che si bagna di tutta la pioggia che gronda dal tetto, e torna ad affondare le labbra sulla mia bocca. Le sue mani scivolano, raggiungono la mia vita, s’infilano sotto l’orlo della felpa e bruciano come fuoco sulla pelle bagnata. Le dita infreddolite s’ingarbugliano alla cintura, le unghie tintinnano sulla fibbia, scivolano, la slacciano al terzo tentativo, e sbottonano la chiusura dei jeans. Il suo tocco fra le gambe evoca una fiammata di calore che risale la pancia, schiaccia i polmoni, trottola attorno alla testa, e mi fa ansimare sulle sue labbra.

Lo bacio ancora, gli sollevo la gonna e gli avvolgo le cosce fra le mani, lasciando che lui si regga a me e che scivoli a sedere su uno dei bidoni accatastati contro il muro. I suoi muscoli sottili si tendono e tremano, il suo respiro batte sulla guancia, mi solletica l’orecchio. Le braccia di Feliks tornano ad aggrapparsi alle mie spalle, le gambe si schiudono e si allacciano ai miei fianchi, i piedi s’incrociano dietro la schiena, facendomi sprofondare nel suo calore, e le sue labbra strappano un altro bacio dalle mie.

Mi lascio risucchiare e travolgere da quel fuoco estraniante che solo lui riesce ad accendere. Lo schiaccio al muro tenendolo fermo sulla superficie del bidone, la sua schiena sfrega sui mattoni, i nostri abiti bagnati strusciano, e i miei jeans grattano fra le sue cosce nude. Feliks pianta le unghie nella stoffa della mia felpa, contrae i muscoli delle gambe, chiamandomi più vicino, il suo respiro accelera, soffia sul mio viso, e dalle labbra accostate al mio orecchio scivola un sottile gemito che vibra sulla guancia bollente.

Ingoio il fiato, sgrano gli occhi, e mi fermo, trafitto da una sensazione che è come una frecciata di ghiaccio nel cuore, una morsa di pietra strangolata sulla nuca. Tutto il calore nato dal ventre viene risucchiato in quella sensazione gelata che penetra fino alle ossa.

Il fantasma di Ivan scivola fra di noi, mi investe come un’ombra, mi strappa dal corpo di Feliks, e mi rapisce racchiudendomi nel suo ricordo costante, freddo e colloso come i vestiti zuppi di pioggia in cui sono avvolto ora. Emerge il ricordo delle sue mani su di me, più grandi e dure rispetto a quelle di Feliks, del suo tocco più ruvido e granitico, dei suoi baci più amari che mi catturano l’anima, e del suo corpo che mi inghiotte, soffocandomi in uno straziante bozzolo di ghiaccio e fuoco da cui non so come liberarmi.

Strizzo gli occhi, scaccio via quella sensazione, mi allontano dalla costante presenza di Ivan che mi perseguita come un fantasma, e resto legato solo al corpo di Feliks. Non lascio che questo momento vada in frantumi come una bolla di cristallo.

Lo bacio di nuovo. M’immergo nel profumo dei suoi capelli bagnati, affondo le labbra nella pelle del suo collo, succhio i rivoletti di pioggia che rinfrescano il sapore di fiori appena sbocciati, e mi lascio avvolgere solo dal calore del suo abbraccio che mi accoglie, solleticato dal suo respiro rapido sulla guancia, dalla sua voce che vibra accanto all’orecchio, e mi abbandono, lasciandomi morire dentro di lui.

Feliks si aggrappa a me, come se stesse sprofondando, e gonfia il petto per lanciare un ultimo gridolino che echeggia nel vicolo.

I nostri respiri accelerati si mescolano, il cuore martella fino alle tempie, il calore brucia ancora fra le guance e nella pancia, rimbomba nella testa inebriata da quella sensazione densa ed estraniante che mi solleva dalla strada, dall’ambiente di bidoni e sacchi della spazzatura, catapultandomi dove esistiamo solo io e Feliks.

Il lampo bianco si dissolve. Tornano gli scrosci delle auto che corrono lungo la strada, lo sgasare di una motocicletta, i passi di qualcuno che cammina fuori dal vicolo, l’acqua che picchietta sui tetti e lungo la grondaia arrugginita, l’abbaiare di un cane in lontananza, ma nulla ci disturba, nulla riesce a intromettersi in questo spazio etereo che ricomincia ad acquistare la forma delle pareti di mattoni e il tocco freddo e costante della pioggia che ci cade addosso.

Riapro le palpebre senza sciogliere l’abbraccio, scrollo la pioggia dalle ciglia, dissolvo il lampo bianco che mi ha abbagliato per quell’istante perfetto, e lo sguardo si posa sul tatuaggio di Feliks. La pelle arrossata freme sotto i suoi respiri affaticati che vibrano anche sul mio petto. Rami di vene bluastre attraversano la pelle bianca e sottile da cui emerge il nero dell’orologio e del filo spinato che ne soffoca il quadrante. Rivoli trasparenti gocciolati dai capelli dividono la scritta “Siberian Cubs” tracciata a caratteri gonfi e tozzi.

Deglutisco. La mia bocca è ancora dolce, piena del suo sapore.

Sospiro a fondo e abbandono il peso del capo sulla sua spalla, cadendo con la fronte nell’incavo del suo collo. Non piango più. Tengo Feliks stretto, protetto dalla caduta della pioggia che continua a grondare dal tetto, e mi abbandono a una fredda e pesante rassegnazione. Anche piangendo, non lo salverei comunque. Ormai devo solo accettare la sua scelta, proprio come lui ha deciso di accettare il suo destino.

Un altro scroscio sfreccia lungo la strada fuori dal vicolo, il rombo di un motore sgomma e si allontana, portandosi dietro lo scricchiolio delle gomme sull’asfalto tappezzato di pozzanghere.

Feliks rilassa la tensione delle braccia, schiude le dita estrapolando le unghie dalla stoffa della mia felpa, e recupera altro fiato che soffia accanto al mio viso, sulla mia pelle bagnata. Gira lo sguardo, strofina la guancia sulla mia, e sbircia verso l’uscita del vicolo. Inspira, deglutisce anche lui. «Ehi. Mi sa tanto che...» Una flebile risata spezza il ritmo degli affanni. Feliks sfila un braccio dalle mie spalle e si strofina il viso. «Che abbiamo tipo appena perso l’autobus.»

Mi lascio contagiare e rido anch’io. Una triste risata singhiozzante da cui sgorgano due ultime righe di pianto che mi scivolano dalle palpebre, andando a bagnare anche la pelle di Feliks.

Feliks mi avvolge il viso fra i palmi, mi fa risollevare lo sguardo, e mi cattura nei suoi occhi. Stende le labbra in un sorriso caldo che mi riempie il cuore. Solleva i pollici e raschia via le lacrime dal mio viso, strofinando i polpastrelli sotto le palpebre. «Sai che c’è un’altra cosa troppo forte sulla primavera e sull’autunno?»

Ricambio il sorriso, ingoio un ultimo singhiozzo che spreme fuori dal petto l’ultimo guizzo di tristezza, e gli scosto una ciocca dal viso. «E cioè?»

Feliks rilassa la tensione delle gambe, distende i piedi, e scivola più vicino a me, tornandomi ad avvolgere fra le sue braccia allacciate sopra le spalle. «Che troppo sole in primavera non va bene, no? Perché fa caldo, ti soffoca, fa seccare le piante che invece dovrebbero rinascere, ed è una grande seccatura. Ma anche troppa pioggia va male, perché finisce per allagare tutto, per fare un mucchio di fango appiccicoso, e sarebbe troppo triste vedere il cielo grigio per l’eternità.» Rivolge un indice al cielo annuvolato, alla cascata di perle d’acqua che tintinna lungo la grondaia e sui coperchi dei bidoni. «Ma se il sole e la pioggia si incontrano, allora sbuca l’arcobaleno che è tipo la cosa più bella che c’è durante la primavera, no? Ma ci vogliono sia il sole che la pioggia per farlo. Io e te siamo un po’ così, secondo me.»

Annuisco, capisco quello che intende. «Riusciamo a tirare fuori il meglio l’uno dall’altro.»

Feliks fa dondolare le gambe, stringe le mani dietro la mia nuca e mi attira a sé, naso su naso come fa sempre quando si fa coccolare. «Ma solo se stiamo assieme.»

Un senso di sollievo mi avvolge, più caldo e appagante anche rispetto alla scossa che ci ha uniti solo qualche istante fa. Raccolgo Feliks fra le mie braccia e lascio di nuovo riposare il capo sulla sua spalla, con un unico pensiero costante a riempirmi la testa. Non lo lascerò mai andare, non permetterò mai che esca dalla mia vita, lo proteggerò per sempre.

 

.

 

La pioggia continua a cadere ma almeno il temporale ha smesso. Gocce grigie picchiettano sui finestrini dell’autobus, producendo un suono morbido e ovattato, mentre il paesaggio scorre fuori dal vetro. I fasci dei lampioni cadono sulla strada bagnata, brillano sull’asfalto luccicante, sulle facciate degli edifici sormontati dal cielo soffocato dai nuvoloni neri, e sulle persone che camminano riparate dagli ombrelli e dai cornicioni dei palazzi. Una sottile condensa si sta formando sui finestrini. L’abitacolo odora di pioggia rafferma e di stoffa bagnata, di suole sporche di fango e di gas di scarico, ma ci sono solo altre quattro persone assieme a me e a Feliks, e il silenzio interrotto solo dal picchiettare della pioggia e dal rombare basso e regolare dell’autobus che avanza ci culla.

Passo una carezza fra i capelli umidi di Feliks, sul suo capo che riposa sulle mie gambe, con le braccia avvolte attorno ai miei fianchi, come fa sempre quando si assopisce anche nel letto o sulle panchine del parco. Le gambe rannicchiate sul terzo sedile accanto al nostro, e la mia felpa ancora bagnata a coprirgli le spalle. Sotto i nostri sedili si sta allargando una chiazza di pioggia che gocciola dai vestiti e dalle poltroncine già inumidite. Un singolo rivolo continua a cadere – plic, plic, plic – e distende la pozza anche sotto gli altri sedili, arrivando fino ai piedi delle altre persone.

Una donna seduta tre poltroncine distanti da noi si gira, ci guarda storto, scocca un’occhiataccia alla pozza sempre più larga, ai nostri vestiti fradici che hanno impregnato la stoffa dei sedili, e al corpo di Feliks rannicchiato contro di me. La signora scuote il capo, si alza, e va a spostarsi di due file più avanti, lasciandoci da soli nell’angolino, proprio in fondo all’autobus. Gli altri passeggeri ci ignorano. Un signore legge il giornale, un ragazzo è già in piedi davanti alle porte pieghevoli, pronto a scendere alla prossima fermata, e un’altra donna è seduta proprio nei posti dietro il conducente. Passi rimbombano al piano di sopra, ma non scende nessuno.

Reclino il capo sul finestrino, appoggiandomi con la tempia, e tengo lo sguardo rivolto all’esterno, sulle strade di Londra avvolte nel grigio della sera. Sottili rivoletti d’acqua scivolano dai miei capelli e attraversano la condensa che appanna il vetro, si uniscono alla pioggia che continua a picchiettare, a sollevare quel suono morbido che ovatta i pensieri. La mia mano scorre fra i capelli di Feliks, le nocche percorrono la curva tondeggiante del viso. Gli carezzo le spalle coperte dalla mia felpa, e raccolgo questo singolo e prezioso attimo di serenità fra me e lui, rendendomi conto che mi basterebbe solo questo per essere felice. Io e Feliks sotto il sole di primavera, io e Feliks sommersi dalla pioggia d’autunno, ma sempre con un posto dove tornare e da poter chiamare “casa”.

Sospiro a fondo. Nonostante la pioggia, nonostante il cielo grigio e l’abbraccio di gelo stretto dai vestiti ghiacciati, questo silenzioso momento fra noi due mi gonfia il cuore di un coraggio inaspettato. «Glielo dico.»

Feliks schiude gli occhi, sbatte le palpebre, e solleva la guancia dalle mie gambe, mi guarda con stupore.

Alzo la tempia dal finestrino, gli rivolgo lo sguardo. «Parlerò con Ivan. Gli dirò che...» Mi coglie un brivido, più freddo e pungente rispetto a quello trasmesso dalle gocce d’acqua che mi corrono lungo la schiena. Uno strano e sgradevole senso di vuoto si apre nel petto e mi risucchia davanti a questo pensiero. Ma lo ingoio, ignoro la pelle d’oca, il prurito al tatuaggio, le vertigini di smarrimento che mi colgono al solo pensarci, e mi lascio solo guidare dall’affetto che provo per Feliks. «Che io e lui non possiamo più stare assieme. Non in quel modo. Che io non posso più stare con lui.» Scuoto il capo. «Non so se acconsentirà al fatto che io lasci i Siberian Cubs, ma voglio provarci.» Tengo la mano accostata alla sua guancia, mi lascio trasportare da questa promessa che sigilliamo nell’angolino umido di un autobus che odora di fumo e di stoffa bagnata. «Voglio lottare per te.»

Le ultime perle di pioggia gocciolano dai capelli di Feliks, cadono sul viso e traballano sulle guance ancora arrossate. Lui si rimette a sedere, mi cinge i fianchi, sale sulle ginocchia, e i suoi occhi luccicano di gioia e speranza. «Promesso?»

Annuisco. Gli carezzo ancora la guancia, il collo, il tatuaggio, e gli poso le labbra sulla fronte. «Promesso.» La sua pelle brucia sotto il mio tocco. Proseguiamo il viaggio in autobus mentre io contemplo i segni dell’inchiostro in rilievo e quelle piccole ferite non ancora rimarginate che lo rendono più simile a me, più vicino al dolore che patisco ogni giorno e che solo lui riesce ad alleviare.

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Capitolo 2
*** Cara Katyusha - Autunno ***


2. Cara Katyusha – Autunno

 

 

2 dicembre 1989

 

Cara Katyusha,

spero che questa lettera giunga presto fino a te e che ti faccia piacere ricevere mie notizie. Ho preferito affidarla a Natalia invece che spedirtela via posta perché, nonostante il clima in Europa sembra destinato a cambiare definitivamente, potrebbero esserci ancora difficoltà di comunicazione con l’Unione Sovietica, e non volevo rischiare che ci impiegasse troppo tempo a giungere fino a casa tua. Temo poi che tu abbia cambiato indirizzo dopo l’incidente di Chernobyl, e che ti sia trasferita in una zona più sicura del paese. In tal caso, sarei davvero felice di avere di nuovo il tuo indirizzo, in modo da poterci tenere in contatto anche in un prossimo futuro.

Spero inoltre che Natalia abbia fatto un buon viaggio, che non si sia affaticata troppo, e che ora possa essere serena nel vivere di nuovo assieme a te, all’unica persona che le è rimasta della sua famiglia. Porgile i miei più cari saluti e augurale da parte mia di essere felice nella ricerca di una nuova vita. Accoglila a braccia aperte come hai fatto con noi più di dieci anni fa. Sii orgogliosa di lei, perché ha saputo starmi vicino durante gli anni qua a Berlino, ed è solo grazie al sostegno reciproco che siamo stati entrambi in grado di andare avanti nonostante le difficoltà derivate dagli anni trascorsi a Londra. Anche Natalia ha sofferto molto, nonostante per lei sia difficile ammetterlo apertamente, ma è sempre stata più forte e coraggiosa di me, perciò non abbandonarla, sono sicuro che lei saprà fare lo stesso, e ti prego di non avercela con lei per la sua fuga dalla Siberia, perché è stato un gesto che ha compiuto solo per paura di rimanere attaccata al dolore che ci ha travolti tutti dopo la scomparsa di Ivan, e non di certo per una qualche tua colpa. Non lasciare che il vostro legame si spezzi per un motivo che invece dovrebbe tenervi più unite che mai.

In questi giorni ho provato a mettermi in contatto anche con Eduard e Raivis, sperando che si trovino ancora in Finlandia come quando ci siamo trasferiti dalla Siberia. Sono certo che ora non esista più alcun rischio per Eduard di venire allo scoperto, e che anche lui avrà la sua occasione di ricostruirsi una vita onesta senza più la paura di doversi nascondere a causa del suo passato. Vorrei rivederli, come vorrei rivedere anche te, e ringraziarvi tutti per quello che avete fatto per me, aiutandomi a uscire da quel buio periodo della mia vita da cui non credevo sarei mai riuscito a emergere. Ora ho finalmente trovato l’uscita da quel lungo tunnel nero in cui mi sono sentito intrappolato per tutti questi anni, e spero che il tempo possa concedere a tutti noi quella seconda possibilità di cui abbiamo bisogno per lasciarci definitivamente il passato alle spalle.

La notizia più triste in tutto questo è che purtroppo non ho nessun modo di contattare Feliks, dato che non so quale sia stata la sua destinazione dopo aver lasciato l’Unione Sovietica, dopo esserci separati. Se tu avessi anche solo un piccolo indizio su dove possa essere andato a vivere, se fosse tornato a Londra, o a casa in Polonia, ti sarei infinitamente grato se riuscissi a comunicarmelo, in modo da facilitarmi la ricerca. Non mi sono mai pentito di essermi separato da lui, perché questi anni di solitudine mi hanno aiutato a guardare dentro me stesso, a fare ordine nella mia vita e chiarezza sui miei sentimenti, a capire cos’è davvero importante per me e quello di cui ho bisogno per vivere un’esistenza felice. Ora so che Feliks ha sempre rappresentato quella felicità, e che voglio ritrovarlo per non abbandonarlo mai più.

Ti ringrazio di nuovo per esserti presa così tanta cura di noi quando abbiamo vissuto in Siberia assieme a te, quando non avevamo nessun altro su cui fare affidamento. Ti ringrazio per essere stata forte e per non aver ostacolato le decisioni di Natalia, nonostante tutto il dolore devono averti causato. Ti ringrazio per esserti preoccupata per me e per aver avuto a cuore il mio destino. Ti ringrazio per essere stata la più brava sorella del mondo. Oltre che, per un certo periodo, anche mia cognata.

Vivi felice, stai accanto a Natalia, siate serene assieme. Sono sicuro che anche Ivan avrebbe voluto così.

Porgi i miei saluti e i miei auguri anche a Natalia, e ringraziala nuovamente per essermi stata accanto in tutti questi anni che abbiamo superato assieme. Prenditi cura di lei e di te stessa.

 

 

Buona fortuna a entrambe,

 

vostro Toris

 

* * *

 

marzo 1976

Un paesino in Siberia, Unione Sovietica

 

Lascio scorrere le punte delle dita lungo il collo di Feliks, dal piccolo arco dell’orecchio all’incavo della clavicola che sporge dal bavero del pigiama. Il mio tocco attraversa il tatuaggio, i segni d’inchiostro nero che appaiono più sbiaditi sotto la luce della luna che gli bagna la pelle. Gli scosto due fili di capelli sciolti, li pettino lontani dalla sua guancia, e la ciocca ricade sul cuscino, fra le pieghe stropicciate dal peso del suo capo.

Feliks dorme. Il respiro lento e assopito, l’espressione serena, le labbra socchiuse, un braccio steso sotto la guancia leggermente rigonfia, la mano a pendere dal materasso, e l’altra stretta alle coperte che si spostano assieme a lui a ogni suo sospiro.

Sfilo il tocco dal suo viso e mi allontano per non svegliarlo. Stringo le ginocchia al petto, rannicchio i piedi, e mi trascino sulla sponda opposta del letto, accanto al ritaglio di vetro da cui penetrano i raggi della luna ancora alta nel cielo. Scosto una tendina, mi affaccio alla finestra socchiusa da cui entra il forte e umido profumo di erba bagnata e di fiume.

Le chiome degli alberi piantati in giardino non riescono ad arrivare fino al secondo piano dell’isba. I rami gremiti di boccioli ancora schiusi si frastagliano contro il cielo color cobalto da cui pende una luna bianca e panciuta che splende sulle stradine di sterrato incrociate fra le altre casette del paese. La corona dell’alba traccia il profilo dell’orizzonte. I primi raggi del mattino toccano il vialetto che conduce al cancelletto d’entrata, brillano sulla vernice della staccionata, e formano ritagli d’ombra sul portico riparato dal tetto spiovente abbellito dai fiori rampicanti che Katyusha cura ogni giorno. Un gallo canta in lontananza, da uno degli orti del vicinato, e il suo verso spezza il silenzio interrotto solo dallo scrosciare limpido del ruscello appena scongelato. Un soffio di vento scuote gli alberi di melo che non sono ancora fioriti, entra dallo spazio aperto della finestra, attraversa il mio viso portando con sé il gelo della notte che sta scemando, e mi fa rabbrividire.

Richiudo la finestra ma tengo la tenda scostata, in modo da poter guardare ancora fuori. Avvolgo il braccio attorno alle gambe piegate, accosto una spalla alla parete, poggio la tempia sul vetro e rimango in contemplazione delle stradine deserte districate in mezzo agli orti e ai giardini, come faccio durante ogni alba, come ogni mattina, prima che tutti si sveglino.

È strano addormentarsi e svegliarsi sempre avvolti in questo silenzio completo, quasi surreale rispetto alla confusione di Londra, quando fuori dall’appartamento regnava il costante rombo delle auto, gli squilli dei clacson, e la musica che tuonava dai pub e dai locali notturni. Questo silenzio mi calma e mi spaventa allo stesso tempo.

Strofino le braccia, dove i brividi si raccolgono e dove ogni tanto il bruciore si fa ancora sentire all’altezza degli ematomi che stanno guarendo e sbiadendo lentamente dalla mia pelle.

Quando mi ritrovo da solo, il silenzio non fa altro che accentuare la voce che si è risvegliata nella mia testa, ora che sono tornato pulito dopo anni. E il caos che martella nei miei pensieri è ancora più doloroso rispetto a quello in cui mi immergevo passeggiando fra le strade di Londra.

Lascio andare il lembo della tenda, allontano lo sguardo dal panorama affacciato alla strada, e lo sposto su Feliks che sta ancora dormendo al mio fianco. Lo sfioro con un’altra carezza lungo il viso, sulle sfumature azzurrine che gli tingono la guancia lattea e che rendono i suoi capelli biondi di un colore simile all’argento. Lui non è cambiato in nulla da quando siamo scappati qua in Siberia. Ha accettato di seguirmi, ha accettato di abbandonare la vita di Londra e di condurne una completamente diversa in Unione Sovietica. Ha accettato di assecondarmi per l’ennesima volta, anche ora che si è trattato di fuggire verso l’altro capo del mondo, anche senza sapere cosa ne sarebbe stato di noi una volta raggiunta la Siberia. Ha scelto di nuovo di essere coraggioso, mentre io continuo a lasciarmi trascinare dagli eventi senza sapere come reagire, impotente e debole davanti alla sua forza e al suo sostegno.

Mi lascio scivolare di nuovo fra le coperte. La schiena rivolta a Feliks, lo sguardo verso la parete e toccato dalla luce notturna che filtra fra le tendine. Chiudo gli occhi. Strofino di nuovo le braccia sotto le maniche del pigiama, gratto anche il collo all’altezza del tatuaggio, dove l’orologio continua a bruciare, e mi concentro sui pochi suoni che si mescolano fuori dalla casa – lo scorrere del ruscello, il canto del gallo a cui se n’è aggiunto un altro, e lo scricchiolare delle pareti sotto l’ululato del vento che sibila fra le assi di legno. Ogni rumore è un sottile e doloroso fischio nella testa, come la punta di un chiodo che scava sempre più a fondo.

Essere pulito è dura. Credevo che, una volta superata l’astinenza e i primi giorni trascorsi solo ad annegare nel senso di stordimento, avrei raggiunto un piacevole senso di liberazione. Non pensavo nemmeno io di ritrovarmi ad affrontare una sensazione così sgradevole. Tutto fa di nuovo male. Brividi costanti mi scorrono nel sangue, spingendomi a grattarmi le braccia e il collo anche quando non sento prurito. Ogni più piccolo rumore mi fa scattare come se qualcuno avesse sparato un colpo di pistola dietro il mio orecchio, ma rimanere in silenzio è ancora più insopportabile. I ricordi affiorano con più facilità e si susseguono come onde, persino quelli che credevo di aver dimenticato, di aver sepolto da anni.

L’odore di terra bagnata e della pioggia caduta ieri rievoca una lontana giornata dell’anno scorso, di fine estate. Io e Feliks in fondo all’autobus, fradici del diluvio che ci aveva annaffiati alla fermata. L’odore dei sedili bagnati, il gocciolare dell’acqua sul pavimento, lui rannicchiato al mio fianco, il suo capo a riposare sulla mia gamba, e la mia mano a scorrere fra i suoi capelli come poco fa. Quel giorno gli avevo promesso che avrei affrontato Ivan, che avrei troncato il nostro rapporto, che gli avrei confessato che non potevo più stare con lui, e invece non è successo, non ne ho mai avuto l’occasione, perché solo qualche giorno dopo c’è stato il rapimento.

Strizzo le mani sull’orlo delle coperte, schiaccio le ginocchia al ventre, nascondo la faccia nel cuscino e trattengo il fiato, soffocato dalla sensazione di star annegando nei miei stessi ricordi.

Un lago di pece nera mi risucchia, braccia fredde e collose artigliano il mio corpo, mi trascinano nelle sue profondità, dita ghiacciate stringono attorno alla gola e arrestano il respiro. Il cuore accelera, il petto si gonfia d’ansia, di una sensazione gelida e pesante che comprime i polmoni, accorciando il fiato e facendomi sudare freddo.

Riaffluiscono le immagini dei giorni in cui sono stato prigioniero, i suoni delle dita rotte, secchi come ramoscelli spaccati, i lampi dei calci in faccia, il dolore stridente dei tagli lungo la schiena, l’odore nauseabondo del sangue e della pelle bruciata, la sensazione umida e calda che fluiva dalle ferite scottanti, riversandosi sul pavimento sui cui mi avevano lasciato giacere come uno straccio usato. I dolori allo stomaco dovuti all’astinenza, la pancia in fiamme, i crampi ai muscoli che mi scuotevano come una serie di morsicate date a braccia e gambe, la testa soffocata da un ovattante senso di estraniamento che mi aveva staccato dal mondo, da quell’agonia che credevo avrebbe finito per uccidermi. Poi il salvataggio di cui ricordo solo qualche frammento d’immagine. La sagoma scura di Ivan comparsa sulla soglia, la luce traballante dietro di lui, i suoi passi in avvicinamento, il tepore della giacca stesa sul mio corpo ferito e dolorante, le sue braccia che mi hanno raccolto dal pavimento sporco di sangue, e il suo profumo familiare che mi ha avvolto, che mi ha stretto il cuore in una dolorosa sensazione di conforto. Era tutto finito.

Mi giro sull’altro fianco, rotolo accanto a Feliks affondando il viso nel lato fresco del cuscino, e avvolgo il suo corpo fra le braccia. Sopprimo contro di lui tutto il dolore dei ricordi che speravo di aver dimenticato e che invece mi hanno seguito anche ora che sono distante da Londra.

Dopo il rapimento, anche una volta che mi sono rimesso e che le ferite sono guarite, Ivan non mi ha più toccato. Nel dormiveglia, durante i giorni del recupero in cui non facevo altro che svenire e rivenire, sentivo che parlava con Eduard, ogni tanto facevano venire un medico – non potevano rischiare di portarmi all’ospedale – e quando riuscivo a riprendere conoscenza c’era sempre qualcuno ad accudirmi, o Feliks, o Eduard o Ivan, medicandomi le ferite o cambiandomi le bende. Ivan continuava a sorridermi come al solito, mi teneva la mano, mi baciava la guancia, mi carezzava i capelli parlandomi fino a che non mi addormentavo, mi trattava come se fossi stato fatto di cristallo, e anche una volta guarito è stato così. Non si è più spinto oltre. Credevo che sarei stato sollevato davanti a questo suo cambiamento, per aver ottenuto spontaneamente quello che avrei voluto chiedergli e che temevo avrebbe rifiutato. Pensavo davvero di voler troncare con Ivan, e invece la sua lontananza mi ha fatto sentire ancora peggio, ancora più vuoto e miserabile di quello che ero prima, quando ci andavo a letto. Durante il rapimento hanno fatto di me quello che hanno voluto per farmi parlare sui traffici di Ivan e sui Siberian Cubs, ma io non ho aperto bocca. Ne sono uscito distrutto ma vivo. E quando Ivan ha cominciato a distaccarsi mi sono sentito messo in disparte, costretto a impolverarmi in un angolo come una bambola rotta con cui lui non avrebbe più giocato.

Carezzo la schiena di Feliks, intreccio le dita ai capelli che ricadono fra le coperte, lascio scivolare un piede fra le sue gambe e contemplo il suo viso addormentato, il suo corpicino stretto al mio.

È stato Ivan a liberarmi, è stato Ivan a portarmi in salvo, ed è stata la sagoma di Ivan ad apparirmi poco prima di essere avvolto nella giacca e sollevato da terra, ma so che è solo grazie a Feliks se hanno scoperto chi mi aveva rapito e dove mi tenevano prigioniero. È stato Eduard a confessarmelo, nei primi giorni in cui ho ricominciato ad alzarmi dal letto, ma nessuno di loro ha mai proferito parola su come ci sia riuscito. Le volte in cui provavo a chiederglielo, Feliks allontanava gli occhi, si faceva più pallido, cominciava a giochicchiare con i capelli tirandoli davanti al viso, nascondendo lo sguardo basso che vacillava di vergogna, e si mordeva il labbro, come fa sempre quando si imbarazza, come quando non vuole più parlare. Non gli ho più chiesto nulla, non ho più avuto bisogno di saperlo, e non ho più voluto farglielo ricordare, costringendolo a rievocare quel dolore che deve aver patito anche lui. Tutti noi siamo qui per un motivo, dopotutto: dimenticare.

Il respiro di Feliks vibra sulla mia guancia, spezzato da un lieve mugugno. Le sue ciglia fremono sotto la luce della notte. Un occhio si schiude facendomi il solletico e sbircia, ancora appannato dal sonno che gli gonfia le palpebre. Le sue labbra si stendono, ne percepisco il tocco tiepido sulla guancia, e gli angoli della bocca si flettono in un sorriso insonnolito. «Ciao.»

Incontro l’iride verde che splende, irradiata dalla luna, e la sua espressione lievemente schiacciata dal cuscino che preme sulla sua guancia. Tutto il nero che prima ha rischiato di inghiottirmi svanisce, sciolto dal calore del suo sguardo.

Gli sorrido anch’io, sospiro a fondo sul cuscino. «Ciao.» Gli scosto i capelli dal viso, intreccio la mano alla sua, e avvicino il viso. Le punte dei nasi a sfiorarsi, come ci piaceva dormire quando vivevamo a Londra. «Ti ho svegliato?»

Feliks rotola supino, raccoglie una gamba, lascia ricadere un braccio sul petto, e si stropiccia gli occhi sotto le ciocche spettinate. «Dobbiamo già alzarci?» sbiascica. Fa sempre fatica a svegliarsi di punto in bianco.

«No.» Torno a sistemare la coperta, gliela rimbocco all’altezza delle spalle. «Torna a dormire, è ancora presto.»

Feliks sospira a fondo, stiracchia i piedi, sbatte di nuovo le palpebre che restano socchiuse, e volta il capo guardandomi attraverso la luce argentea che ricade sul suo viso. «Perché eri sveglio?»

Irrigidisco. Mi convinco a non girarmi, a non guardare di nuovo fuori dalla finestra, a non cercare nel buio la stessa sagoma che mi è apparsa quando si è trattato di venirmi a salvare, e a non tendere l’orecchio nel silenzio della notte, verso lo scricchiolio di passi lungo la strada che so non arriveranno presto quanto vorrei.

Rumori risalgono la cucina – cassetti che si aprono e si chiudono, una sedia che si sposta, il fornello del gas che schiocca –, attraversano le pareti e giungono fino in camera da letto. Qualcun altro è già sveglio.

Carezzo la fronte di Feliks. «Tu resta qui.» Scosto le coperte e lascio scivolare i piedi giù dal letto. «Io torno subito.»

Feliks torna a chiudere gli occhi, annuisce, si arrotola scivolando sul mio lato del materasso, e si riaddormenta di colpo. I capelli ricadono sul collo e sul viso, nascondono il tatuaggio.

Mi rivesto senza fare rumore, esco dalla camera in punta di piedi, senza nemmeno far scricchiolare le assi del pavimento, e lascio la porta socchiusa. Attraverso il corridoio seguendo il brusio proveniente dalla cucina al piano di sotto, mi dirigo verso le scale. Passo davanti alla camera di Natalia – la porta è chiusa – e davanti alle piccole scale di legno che portano alla soffitta dove dormono Eduard e Raivis. Katyusha ha insistito tanto per farli dormire nella sua camera, ma loro si sono rifiutati, non volevano costringerla a risalire il tetto ogni notte e a farla riposare fra gli spifferi e la polvere. Poi non rimarremo qua a lungo, sarà solo questione di settimane prima che Ivan torni a prenderci.

Discendo le scale e raggiungo il piano di sotto, supero l’Angolo Rosso, e seguo il tenue riverbero proveniente dalla cucina, mi immergo in un ambiente più tiepido e profumato che mi solletica la punta del naso. In questa casa c’è sempre qualcosa che cuoce sui fornelli, sempre qualche pentola di rame che fuma, sempre qualche mazzo di fiori raccolti dai campi ad abbellire il tavolo, e sempre qualche rametto di spezie o bucce di frutta ad abbrustolire nella stufa. Katyusha la accende ogni giorno, anche se è già marzo. La primavera sta sbocciando lentamente, quest’anno, e fino all’altro ieri camminavamo ancora sui mucchi di neve rimasti a incrostare la terra nera dell’orto, respirando il profumo del ghiaccio sciolto sospinto via dalla corrente del fiumiciattolo che attraversa il paese.

Raggiungo la cucina, mi fermo sulla soglia.

Katyusha mi dà le spalle. Si alza sulle punte dei piedi per rimettere a posto una pila di piatti in credenza, si china a raccogliere un legnetto caduto dalla catasta di ciocchi già disposta accanto alla stufa aperta, spegne il fornello su cui è sistemato un bollitore fumante da cui arriva un intenso profumo di foglie di tè, solleva una pentola vuota e raccoglie uno strofinaccio per ripulire il ripiano davanti ai barattoli di spezie.

Spingo via i capelli dagli occhi, stropiccio il viso ancora intiepidito dal calore del cuscino, strofino le palpebre appesantite dal sonno – ho dormito solo un paio d’ore, anche oggi – e metto a fuoco l’ambiente illuminato. «Katyusha?»

Katyusha si gira di scatto verso di me, sobbalza, e la padella le scivola dalle mani, sbattendo sulla credenza. «Ah!» Si china a raccoglierla al volo prima che cada sul pavimento, prima che anch’io abbia il tempo di afferrarla. «Oh, Cielo, Toris.» La riappoggia sotto la dispensa, accanto ai fornelli, e sistema lo scialle che le è quasi caduto dalle spalle per quel movimento improvviso. Si posa la mano sul petto e sorride con un sospiro. «Mi hai spaventata.» Quella piccola scossa di paura traballa ancora nel suo sguardo stanco.

«S-scusa.»

Katyusha rimette la padella a posto in dispensa. «Ma cosa ci fai già in piedi?» Richiude l’anta e mi guarda con occhi materni e apprensivi. «Ti sei sentito male? Vuoi che ti prepari qualcosa?»

Mi affretto a scuotere la testa e a gesticolare per allontanare le sue premure. «No, no, davvero, era solo...» L’occhio torna a cadermi sul bollitore che fuma sui fornelli, sulla cucina già lustra di prima mattina, sulla pila di piatti che ha appena messo in ordine, sul mucchietto di legni sottili raccolti accanto alla stufa aperta e ancora spenta, e sugli stivali di gomma messi accanto alla porta, quelli che di solito Katyusha indossa sempre per lavorare nell’orto. Sono già sporchi di terra. «Ho solo sentito dei rumori, e...»

«Oh, perdonami, devo averti svegliato.» Katyusha dà una spolverata al tavolo della cucina con lo stesso strofinaccio con cui ha ripulito il ripiano delle spezie. «Sai, stavo solo riordinando un po’. Ora che sta arrivando la primavera ne approfitto per fare un po’ di pulizie di prima mattina.» Le sue labbra si sollevano in un sorriso. Lo strofinaccio passa da una mano all’altra con un tremolio della sua presa. «È l’ideale, giusto?»

Mi pervade un sentimento di preoccupazione nei suoi confronti che rende il cuore freddo e pesante, ma annuisco comunque. «S-sì. Uhm, certo.» Anche io mi sveglio sempre prima degli altri, e ogni mattina mi accorgo dei rumori provenienti dalla cucina. So che lei è la prima ad alzarsi, come se vegliasse tutta la notte, come se non andasse nemmeno a dormire. Certe volte, quando mi affaccio alla finestra, la vedo camminare lungo il vialetto, sotto la luce dell’alba, e andare a controllare la cassetta della posta anche più di una volta, quasi sperasse di trovare notizie di Ivan, una sua lettera, un qualsiasi messaggio che possa darle la speranza che stia bene. La sera è sempre l’ultima di noi ad andare a letto. Trascorre le ore dopo il tramonto con lo sguardo rivolto fuori dalla finestra della cucina, sulla stradina, come faccio io, animata dallo stesso desiderio di vederlo comparire e tornare a casa. Ogni giorno appare sempre più stanca e sfibrata, le tremano le mani, è pallida, è dimagrita, ha gli occhi gonfi e arrossati, mangia poco e non dorme affatto. Ha i nervi a pezzi. È da settimane che si sta prendendo cura di noi e non è ancora arrivata nessuna notizia di Ivan da Londra. L’attesa sta diventando estenuante per tutti.

Katyusha raccoglie il bollitore dai fornelli, pinzandolo con una presina di stoffa, e mi rivolge un sorriso più disteso da dietro il nastro di vapore che emerge dal beccuccio. «Vuoi del tè? Ne ho preparato un poco proprio adesso.»

La mia pancia brontola, un gorgoglio inconscio ma gradevole. Mi poso la mano sullo stomaco per nasconderlo e chino lo sguardo per non far notare il rossore sulle mie guance. «Se non è troppo disturbo.» È strano e piacevole sentire di nuovo lo stimolo della fame. Uno dei pochi vantaggi derivati dalla disintossicazione.

Il viso pallido di Katyusha s’illumina, gli occhi luccicano come se non aspettasse altra risposta. «Assolutamente.» Raccoglie due bicchieri lunghi dalla credenza, quelli che usiamo sempre al pomeriggio per bere il distillato di frutta ed erbe che prepara lei stessa con quello che raccoglie dall’orto. «Fai attenzione, però, il tè siberiano è molto diverso da quello inglese, non tutti riescono a berlo.» Dispone i bicchieri sul tavolo appena ripulito e versa il tè nero dal bollitore. Salgono due bianche e dense colonne di vapore che riempiono l’ambiente con un profumo penetrante di foglie sminuzzate, così forte da somigliare a quello della liquirizia bruciata. «Questo si chiama Chifir. Di solito lo beviamo nelle occasioni speciali.»

Mi siedo al tavolo, affianco al vaso di fiori da cui trabocca un gonfio mazzo di mughetti, e raccolgo il mio bicchiere. Una fredda ondata di malinconia cancella il tepore del tè e il profumo dei fiori, rende l’ambiente più buio. «Forse dovresti conservarlo, allora.»

Katyusha scuote il capo, sgocciola il bollitore. «C’è solo un’occasione speciale che potrebbe davvero fare la differenza.» Lo riappoggia sui fornelli, si tiene aggrappata allo scialle, le mani stringono il tessuto e tremano, e nei suoi occhi torna a balenare quella luce triste che li rende più distanti e annacquati. «Ma temo che dovrò aspettare ancora molto per poterla vivere.»

Stringo le dita sulla superficie bollente del bicchiere, e sopprimo anch’io una morsa dello stesso dolore. Entrambi stiamo aspettando la stessa cosa, dopotutto. Entrambi ci trasciniamo da un giorno all’altro solo smossi dalla speranza di rivedere Ivan. Lui è una presenza costante in questa casa, anche ora che è assente. Esiste ancora negli sguardi tristi di Katyusha, in quelli truci di Natalia, nel profumo speziato di questa cucina che è simile a quello che inspiravo attraverso la sua pelle, nella sua camera che è rimasta intoccata come un santuario, nel giardino dove il ghiaccio si sta sciogliendo e stanno cominciando a sbucare i gambi dei primi girasoli che fioriranno solo con l’inizio dell’estate, e sui nostri tatuaggi, ogni volta in cui l’orologio brucia e ci ricorda da dove veniamo.

Katyusha si siede davanti a me, stringe anche lei le mani tremolanti attorno al bicchiere di tè bollente, le strofina, si riscalda, e mi sorride. «Hai preso un po’ di colorito da quando sei qui, vero?» Sorride sempre, anche quando è triste. Dev’essere da lei che ha Ivan ha preso.

Mi copro una guancia intiepidita dal vapore del tè e chino la fronte, nascondo un piccolo sorriso d’imbarazzo. «Ah, f-forse sì, è vero.» Strofino il viso, ma mi rendo conto che ha ragione. Ultimamente esco di casa ogni giorno per passeggiare in paese assieme a Feliks. Camminiamo fino agli orti, fino ai campi di grano che ora non sono altro che una larga e infinita distesa di terra nera spolverata di bianco, e fino alle rive del fiume dove ci sediamo a prendere il sole, a lanciare ciottoli fra gli schizzi della corrente, a respirare l’aria limpida e incontaminata che pare sciacquare via tutto il fumo che ci siamo portati dietro dalla nostra grigia vita di Londra. Rinnovo il sorriso, sentendomi più sollevato. «Un po’.»

Katyusha si sporge a carezzarmi l’altra guancia, a stringermi la pelle fra due nocche. «E sono finalmente riuscita a farti mettere su un po’ di ciccia» ridacchia. «Quando sei arrivato eri così magrolino che mi facevi una tenerezza indicibile.» Torna a sedersi, lascia che il bicchiere di tè fumi fra le sue mani. «Ma ora stai meglio, vero?»

Torno a guardare in basso, questa volta per nascondere una grigia maschera di colpevolezza che fa sbiadire il sorriso dalle labbra. «Scusa se ti stiamo dando così tanto da fare in questi mesi.» Mi lascio scivolare addosso i ricordi dei giorni nebbiosi della disintossicazione che ho dovuto trascorrere qui, circondato dalle attenzioni di tutti, di Katyusha per prima. «Ti dobbiamo molto.»

Katyusha scuote il capo. «Sciocchezze. Adoro prendermi cura di voi.» Beve un primo sorso del suo tè, lo fa oscillare fra le pareti del bicchiere, e scruta attraverso la colonna di fumo che le rende le guance più rosee. Gli occhi si fanno sognanti. «Mi fa tornare ai bei tempi, quando Ivan e Natalia erano ancora piccoli, quando non avevamo nulla se non l’affetto che ci teneva legati. Sembrava bastare, allora. Sembrava davvero che tutto quello di cui avessimo bisogno per essere felici fosse l’amore che ci univa.» Sospira, più pensierosa. Gli occhi tornano a intristirsi. «Nel periodo in cui loro due si sono allontanati da casa, prima Ivan e poi Natalia, mi sono sempre sentita così sola con i miei rimorsi, così impotente davanti al loro cambiamento, così...» Si stringe nelle spalle. «Abbandonata. Avervi tutti qui ora è come una benedizione. E poi avete riportato a casa Natalia.» Mi rivolge un sorriso di gratitudine. Lo sguardo s’inumidisce come quando ci ha visti arrivare ed è corsa ad abbracciare Natalia, scoppiando in lacrime. «Non vi ringrazierò mai abbastanza per questo.»

Lascio scivolare le labbra dall’orlo del bicchiere, e il sapore del tè mi riempie la bocca, amaro come le parole che pronuncio. «Noi non ci fermeremo a lungo, lo sai. Solo fino a che...» Stringo le mani, le unghie stridono sul vetro già graffiato, e le parole tornano indietro. Solo fino a quando Ivan non tornerà, vorrei dirle. E poi il nostro futuro ricomincerà a essere una parete grigia e nebulosa in cui non riusciremo a distinguere le ombre e le immagini o la strada su cui posare i passi per poter andare avanti.

Katyusha sorride. «Se dipendesse da me, io vi terrei qui anche per sempre. La Siberia forse non sarà movimentata e avventurosa come Londra, ma è un ambiente un po’ più sicuro per voi, che dici?»

Mi stringo nelle spalle, tento di sorridere anch’io. «Sicuramente sì.» Sfilo una mano dal bicchiere di tè e strofino una manica della maglia, grattando sotto l’incavo del gomito, dove il prurito s’intensifica. Le cicatrici non sono scomparse, anche ora che sono pulito e che non tocco siringa da settimane. Senza eroina, però, un familiare senso di irrequietezza ha ripreso a tormentarmi, a sciamare nella testa, e a bruciare attraverso le gambe, lungo il collo e fra le mani, come se il sangue stesse andando a fuoco.

Ora che la mia vita non gira più attorno alla droga, non so cosa aspettarmi dal mio futuro, non so in quale direzione volgere lo sguardo, non so dove poggiare i piedi senza essere aggredito dalla sensazione di precipitare in un terreno molle e fangoso, nello stesso ambiente color pece che poco fa mi stava inghiottendo mentre pensavo al passato e alla parte di me che ho lasciato Londra. È per questo che nemmeno io riesco a dormire, è per questo che non riesco a staccare lo sguardo dalla finestra, perché l’unico pensiero che riesce a darmi un po’ di pace è la convinzione che Ivan sta tornando da noi. Capisco il dolore che sta attraversando Katyusha. Comprendo l’ansia di voler solo vederlo arrivare, quel timore di distaccare gli occhi dalla porta, di perdere l’occasione di vedere la sua figura materializzarsi sulla soglia, e quel terrore di abbassare le palpebre, di addormentarmi, sapendo che quando mi sveglierò potrebbe essere già giunta la notizia che Ivan ha deciso di non tornare in Unione Sovietica. Che ci ha abbandonati per scappare ad Amsterdam.

Un lento e profondo sospiro di Katyusha mi riporta con la mente nella cucina. «Sai, Toris, a volte mi chiedo...» Torna a sistemarsi lo scialle attorno alle spalle, strofina i polpastrelli sul vetro appannato del bicchiere pieno di tè solo a metà. Di nuovo quella profonda e addolorata espressione di tristezza torna ad attraversarle il volto. «Se lui abbia davvero intenzione di tornare a casa.»

Un brivido mi scuote. Quel timore aggredisce anche me, stringe il cuore e rende la faccia gelida, le labbra tremolanti. «Vorrà rivederti di sicuro.» Accosto la mano al tatuaggio, strofino la pelle. «E poi ha noi.» Ha me. «E di sicuro non vorrà abbandonarci.» Abbandonare me. «Non dopo tutto quello che ha fatto per salvarci da Londra.»

«Ma io temo di essere uscita dalla vita di Ivan tanto tempo fa, ormai. E con Natalia...» Katyusha sposta gli occhi sul soffitto, in cerca di quegli sguardi che sua sorella le nega sempre. «Temo che lei abbia accettato di tornare a casa solo perché ci siete anche voi, e perché è stato Ivan a ordinarglielo, altrimenti mi avrebbe abbandonata come ha fatto quando è partita per raggiungerlo a Londra.»

Giro anch’io lo sguardo verso la soglia della cucina da cui si intravede il corridoio, verso i primi gradini delle scale che portano ai piani superiori, dove anche Natalia sta dormendo assieme agli altri.

È da quando siamo arrivati che Natalia non ha mai rivolto la parola a Katyusha. Quando le passa affianco tiene lo sguardo schivo, le sbatte le porte in faccia, scende a pranzo e a cena quando noi abbiamo già lasciato la tavola, in modo da non dover mangiare assieme a sua sorella. Trascorre le giornate chiusa in camera, anche lei con lo sguardo fisso alla finestra, e non ha nemmeno finito di disfare le valige, come se si trattasse di dover ripartire da un giorno all’altro. Qualche volta, quando c’è poco sole e il cielo è carico di nuvole, esce da sola a passeggiare per il paese, ma vestendosi con gli abiti di Londra. La giacca di pelle, le camicette a quadri, le gonne a balze, le calze strappate, gli stivali col tacco, un nastro di raso fra i capelli, il trucco pesante attorno agli occhi, il rossetto nero sulle labbra, e lo smalto viola a laccarle le unghie. Percorre la sua strada ignorando le occhiatacce dei vicini di casa che la fissano come se provenisse da un altro pianeta. Nessuno l’ha riconosciuta quand’è tornata.

«Katyusha, se posso...» Allontano lo sguardo dalle scale, torno a rivolgerlo a Katyusha. «Se posso permettermi di chiedertelo...» Trascino la sedia più vicino al tavolo e abbasso la voce. Le pareti vuote della cucina danno l’idea di amplificare ogni suono, di spedire le mie parole fino al piano di sopra, fino alle sue orecchie. «Come mai Natalia è così arrabbiata nei tuoi confronti?»

Katyusha stringe le dita attorno al bicchiere, china la fronte e abbassa le palpebre. Un tremore le attraversa le labbra. «Perché lei mi considera in parte responsabile della fuga di Ivan, delle scelte che ha compiuto riguardo la sua vita, e di tutte le azioni che lo hanno portato sempre più lontano da noi, dalla nostra casa e dalla Siberia, spingendolo a cercare una nuova vita in un luogo così lontano e così...» Fa roteare lo sguardo. «Occidentale come Londra.»

«In che modo?» Proprio non riesco a immaginarne il motivo.

Sul viso di Katyusha si dipinge un conflitto nuovo, un dolore diverso che rimane celato negli occhi lucidi, in quello sguardo stanco volto a un passato rimasto racchiuso fra queste pareti per così tanti anni, come un segreto. «Tu hai...» Guarda anche lei verso le scale, solleva le sopracciglia, e torna a rivolgere gli occhi a me. La voce diventa un sussurro. «Voi avete conosciuto Yao, vero?»

Un pugno di dolore affonda nello stomaco, risucchia il sangue dal volto, annoda un groppo di nausea che ha lo stesso sapore amaro del tè appena bevuto. Sudori freddi bagnano gli abiti come durante i dolori della disintossicazione, un violento spasmo discende la schiena e si condensa nella pancia, dandomi il vomito. La pressione attorno alla gola stringe, mi toglie il respiro, il tatuaggio brucia, e le braccia cicatrizzate tremano, come se nelle vene fosse conficcata una fila di aghi che si sposta a ogni mio respiro.

Mi ritrovo catapultato fuori dalla porta dell’appartamento di Londra, l’orecchio premuto sull’anta e l’udito teso, dopo essere uscito con i documenti di spatrio che avevo fatto controllare a Ivan. Il ricordo della voce di Yao vibra come quel giorno, “Ivan, ti prego. Vieni ad Amsterdam con me”, e quella supplica rimbomba nella testa come una martellata.

Sciolgo i ricordi con un battito di palpebre. Inspiro a fondo e ricaccio indietro i sudori freddi, ma il dolore rimane ad annebbiare la mente. «Sì.» Prendo un’altra minuscola sorsata di tè per cancellare l’acido sapore della nausea dalla bocca. «È stato lui ad aiutarci quando si è trattato di... di salvarlo da quella brutta situazione.»

Katyusha annuisce. «E sai cosa Yao significava per Ivan, vero?»

«Sì.» Mi affaccio ancora a quel giorno. La mia mano stretta al pomello della porta che avevo aperto senza nemmeno preoccuparmi di bussare, l’altro braccio fasciato attorno ai documenti stretti al petto, e lo sguardo volato al centro della camera dove pensavo ci fosse solo Ivan. E invece lui era fra le braccia di Yao, raccolto fra le sue gambe che pendevano dal tavolo su cui era seduto. Gli sguardi catturati l’uno nell’altro, gli occhi di Ivan fissi su quelli di Yao, risucchiati in quell’espressione di adorazione, come se si fosse trovato in ginocchio davanti a una statua. Ivan non mi ha mai guardato in quella maniera. «Sì» mormoro ancora, sopprimendo un’altra fitta di dolore al petto. «So cosa significa per lui.»

Katyusha piega un gomito sull’orlo del tavolo, poggia il mento fra le nocche, contempla il vaso di mughetti attraverso il velo di fumo che sale dal suo bicchiere di tè, e gli occhi luccicano di nostalgia, nonostante il sorriso a regnare fra le sue labbra. «Loro due si sono conosciuti proprio qua, sapevi? Erano entrambi molto giovani. Ivan allora aveva appena compiuto diciassette anni, pensa un po’. Quando Yao è arrivato non dimostrava affatto la sua età, dava l’idea di essere molto più anziano. Era un caro ragazzo così ammodo, così rispettoso e adulto. Aveva aperto una deliziosa piccola bottega di manufatti orientali, spezie, incensi e tè, e anche dei tappeti. E so che coltivava anche dei papaveri. Incantevole, vero? Ma dovevano essere papaveri provenienti dalle sue parti, perché erano molto più grandi rispetto a quelli che crescono qui. Non ne avevo mai visti di così. Erano splendidi.» Sposta la sedia, si alza per raggiungere la stufa nell’angolo, e apre lo sportello sporco di cenere e carbone. Regge lo scialle attorno alle spalle e si china per disporre il mucchietto di bastoncini. «Qui in Siberia di solito non accogliamo bene gli stranieri come dovremmo, il rispetto è qualcosa che viene guadagnato e che non viene mai offerto incondizionatamente.» Bagna la legna con degli schizzi d’alcol spremuti dalla bottiglia di plastica che tiene accanto al cesto della legna, e raccoglie la scatola di fiammiferi lunghi. Ne estrae uno, lo strofina un paio di volte sulla striscia abrasiva della scatola. «Tutto ciò che proviene dall’Occidente è proibito, ma Yao si era trasferito da Hong Kong, parlava già benissimo il russo, e sembrava davvero molto abile nel cavarsela da solo. Era molto riservato e non dava mai fastidio a nessuno. Ha saputo fin da subito come farsi rispettare.» La fiamma insorge sulla punta del bastoncino. Katyusha la accosta al mucchio di legnetti e aspetta che la luce cresca, fino a che il fuoco non si espande e comincia a scoppiettare. Fa aria con un lembo del grembiule allacciato in vita, alimenta le fiamme e disperde il fumo che rimane intrappolato nella pancia della stufa. I suoi occhi restano fermi sulle fiamme sempre più vivaci, sulle scintille che scoppiettano fra i ramoscelli più verdi, e sul fumo sempre più grigio e spumoso. Volgono verso le nebbie del passato. «Fui io a portare Ivan e Natalia nella sua bottega, un giorno in cui eravamo usciti tutti e tre assieme per andare a vendere le marmellate al mercato.» Richiude lo sportello della stufa, solleva un cigolio trascinato e lo scatto secco della serratura. «Quando Yao e Ivan si conobbero fu...» Stringe la mano sulla presa del portello, le nocche callose sbiancano, il braccio trema, e Katyusha trattiene un sospiro. Chiude gli occhi. I tratti del suo viso irrigidiscono. «Capii subito che fra di loro si fosse acceso qualcosa di speciale.» Ripulisce le mani sporche di carbone sul grembiule. Riacquista quel sorriso triste che le inumidisce gli occhi. «Sai, quella piccola scintilla che ti illumina lo sguardo. Era una luce che non avevo mai visto negli occhi di Ivan. Mai. Era...» Anche sul suo viso si dipinge uno stupore lontano. La sua espressione non è mai stata così simile a quella dolce e sorpresa di Ivan. «Era incantato da Yao.»

Rivedo Ivan nello sguardo di sua sorella. Mi ritrovo di nuovo davanti a quell’espressione di adorazione che ho visto di sfuggita, prima che lui e Yao mi notassero e si staccassero, spezzando quell’abbraccio.

Katyusha raccoglie dal tavolo i nostri due bicchieri vuoti. Li sposta nell’acquaio. «Da noi...» Fa scorrere il getto d’acqua, lo richiude, e tiene la voce più bassa. «Da noi ovviamente è proibito questo genere di cose.» Prende un piattino vuoto, un coltello seghettato, e la ciotola di mele ancora piccole e verdi che ha comprato ieri al mercato, dato che quelle dell’orto non sono ancora mature. Comincia a sbucciarle. Il profumo acerbo di mela fresca si unisce a quello resinoso del fuoco appena acceso e a quello speziato del tè che abbiamo appena bevuto. «Io capii da sola cosa stava succedendo fra loro due, ma cercai in tutti i modi di convincermi del contrario, almeno all’inizio.» Scuote il capo. «Avevo il cuore spezzato, pensavo di essere io la responsabile di...» Smette di sbucciare la mela, le sue mani tremano, lo sguardo resta chino e nascosto nella penombra. «Di queste preferenze di Ivan.» Appoggia la mela sbucciata sul piatto pulito e prosegue il lavoro con le altre. Il suono ruvido del coltello che strofina sulla buccia scandisce la sua voce arrochita dal dolore. «Pensavo fosse una sorta di punizione per qualche azione che avevo commesso io, per non averlo cresciuto bene come avrei dovuto, per essere sempre stata troppo protettiva nei suoi confronti. E avevo paura soprattutto per la reazione che avrebbe mostrato la nostra comunità. Vieni escluso, completamente isolato come se avessi una malattia contagiosa, nessuno ti rivolge nemmeno più lo sguardo.» Si stringe nelle spalle e sospira. «Però poi mi resi conto che tutto quello che volevo era il suo bene.» Sbuccia anche la terza mela. «Così decisi di non fare nulla per impedire che si frequentassero di nascosto e che fra loro nascesse qualcosa di più rispetto... alla semplice amicizia. In ogni caso, anche se io gli avessi ordinato di tenersi lontano da Yao, Ivan non mi avrebbe di sicuro ascoltato. È fatto così, lui purtroppo non accetta ordini.» Ride a bassa voce, e le prime lacrime stillano dalle ciglia. Katyusha si asciuga gli occhi con la manica. «Gli è sempre piaciuta l’idea di essere l’unico padrone della sua vita. Poi Ivan è sempre stato...» Il sorriso cade. Di nuovo le labbra tremano, gli occhi tornano a inumidirsi e le mani rallentano gli scatti del coltello attorno alla mela sbucciata. «Un bambino molto solo. Mi piangeva il cuore nel vederlo sempre lontano dagli altri, sempre nel suo angolino, escluso da tutti. E nonostante questo riusciva sempre a sorridere e a mostrarsi felice, come gli avevo insegnato. Io...» Esita di nuovo, tiene le labbra socchiuse ma non riesce a terminare la frase. Deve appoggiare il coltello sul piattino, accanto alla mela mezza sbucciata, e tenersi aggrappata al ripiano per non cedere. «Io...» Un singhiozzo le rompe il fiato. Katyusha si copre il viso dietro le mani e spande un pianto lungo e amaro che strazia il cuore.

Vorrei aiutarla. Vorrei alzarmi e posarle una mano sulla schiena ricurva, convincerla che né Ivan né Natalia la odiano, che quello che è successo ai suoi fratelli non è colpa sua, che comprendo il senso di impotenza che si prova davanti alla volontà inflessibile di Ivan, e che so per primo cosa significa sentirsi piccoli e inadeguati davanti a lui, ma ho le gambe ingessate, le mani serrate sul tavolo da cui non riesco a staccarle, e la testa che ronza davanti a questa sua confessione.

Katyusha singhiozza ancora, strofina le dita fra le palpebre. «Io ho davvero cercato di essere una brava sorella.» Un altro singhiozzo, e la voce stride. «Sia con lui che con Natalia. E ho voluto esserlo anche se questo significava infrangere le nostre credenze e le nostre tradizioni. Ivan era felice con Yao.» Si posa la mano sul cuore e sospira. Il respiro rallenta, i singhiozzi si placano, ma qualche ultima lacrima scivola attraverso le guance arrossate. «E io non volevo distruggere la felicità che mio fratello era stato in grado di raggiungere dopo tutti quegli anni a soffrire nella sua solitudine. Per la prima volta in tutta la sua vita era realmente felice, e sarebbe stato ingiusto e crudele mettere le nostre tradizioni davanti alla sua felicità. Che razza di sorella sarei stata? Yao accettava Ivan com’era, con ogni suo difetto, a differenza di tutti gli altri bambini e ragazzi che ne erano sempre stati spaventati.» Estrae un piccolo fazzoletto dalla manica del maglione e si asciuga il viso. Si gira a fronteggiarmi tenendo il fazzoletto accostato alle labbra e la mano poggiata sul ripiano. «Perdonami.» Mi rivolge un tiepido sorriso di scuse. «Non dev’essere facile per te ascoltare tutto questo.»

Un fremito mi scuote. «Affatto» mento, ma dentro di me sento che Katyusha ha bisogno di parlarne con qualcuno e di svuotarsi l’anima da questo peso, dopo tutti gli anni di solitudine trascorsi con il rimorso di aver perso entrambi i fratelli. «Continua, ti prego.»

Katyusha annuisce, si asciuga un’ultima riga di lacrime e infila il fazzoletto nella tasca del grembiule. «Ivan a un certo punto iniziò ad assentarsi da casa sempre più spesso, e stava via anche per intere notti.» Poggia la schiena al ripiano della cucina e stringe le braccia al petto, dandosi una strofinata alle spalle. «A quel punto, anche io iniziai a domandarmi se non fosse il caso di fare qualcosa a riguardo, prima che si spingessero troppo oltre, prima che venissero a saperlo gli anziani. Così un giorno presi Ivan in disparte e gli chiesi: “Vanya, caro, c’è forse qualcosa che vorresti dirmi a proposito di Yao?”. E lui scosse la testa, mi sorrise come al solito e mi disse soltanto: “No, sorellona, assolutamente nulla. Non devi preoccuparti per lui”. Era sempre così. Ogni volta in cui provavo a chiedergli qualcosa, ogni volta in cui mi preoccupavo, per lui andava sempre tutto bene. Però quelle risposte mi addoloravano più del suo atteggiamento. Dentro di me non potevo fare a meno di vederle come un modo per tenermi distante, quasi volesse dirmi: “Non devi essere tu quella che si preoccupa per me. So badare a me stesso. Tu ormai non fai più parte della mia vita”. Forse se...» Scioglie la stretta delle mani dalle spalle e si guarda i palmi, quelle dita tremanti che non sono riuscite a trattenerlo. «Se lo avessi fermato in tempo.» Altre lacrime fioriscono fra le palpebre. «Se lo avessi davvero allontanato da Yao come avrei dovuto, ora lui non...» Si copre la bocca, inspira forte, ma non singhiozza e non piange. Resta forte e solida come questa casa che è rimasta in piedi per tutti questi anni, tenuta su solo dalla speranza di riaccogliere Ivan al suo interno.

So cosa prova Katyusha. So cosa significa soffrire per Ivan, per la paura di non essere abbastanza degno di far parte della sua vita. Io più di chiunque altro posso comprendere il suo dolore, e per questo mi sento in dovere di rassicurarla. «Non è stata colpa tua. È solo che...» Il mio tocco raggiunge inconsciamente il tatuaggio. «Che Ivan è fatto così. Lui non è fatto per vivere in una gabbia o sotto regole imposte da altri.»

Katyusha annuisce. «Lo so.» Si china a raccogliere un ceppo di legna più grossa, riapre la stufa, e lancia il ciocco fra le fiamme. «Io ho provato a essere una brava sorella.» Una cascata di scintille soffia dalle lingue di fuoco. «Dio solo sa quanto io ci abbia provato. E forse Natalia ha davvero ragione nel provare tutto questo risentimento nei miei confronti.» Katyusha richiude la stufa, torna a stringere le braccia al petto e si chiude nelle spalle. «Forse è davvero colpa mia se Ivan se n’è andato.»

Mi coglie un’altra botta di paura sorta da quelle parole. Il terrore che Katyusha possa avere ragione e che non rivedremo mai più Ivan, che ci ha abbandonati qua e che non ha mai avuto intenzione di far ritorno in Siberia. «Ma tornerà» mi affretto a dire, convincendo più me stesso che lei. «Sono...» Le mani strette sul tavolo tremano. La voce nella mia testa continua a ripetere che Ivan tornerà. «Sono sicuro che tornerà.»

Katyusha sposta una ciocca bionda dalla fronte, la sistema dietro l’orecchio, sotto la presa delle forcine, e i suoi occhi mi catturano. Mi guardano dentro, trascinandomi nelle misteriose profondità di questo cielo siberiano che mi risucchia, come erano capaci di fare anche quelli di Ivan. «Toris, dimmi...» Lei torna a sedersi al tavolo, di fronte a me, e stende un braccio per toccarmi la mano. «Ivan ha...» Chiude le dita, mi avvolge in una presa soffice e ancora tiepida delle sue lacrime. «Ha fatto qualcosa di simile anche a te, ho ragione, caro?» Mi guarda con quei suoi limpidi e sinceri occhi materni in cui potrei abbandonarmi e sentirmi lo stesso sicuro, come se la conoscessi da sempre. «Mh?»

Una scossa di comprensione si trasmette dalla sua mano alla mia. Mi lascia sbigottito. «Io...» Guardo in basso, nascondo la verità che si specchia sul mio viso. Sospiro, ma non mi sottraggo al tocco della sua mano. «Io forse mi sono sempre reso conto di non essere stato altro che un rimpiazzo per lui. Dopotutto...» Passo le dita fra i capelli, pettino le ciocche davanti al tatuaggio, come facevo per nascondermi anche a Londra, e forzo un sorriso consolatorio. «Io sono una persona così banale. Ivan sarebbe in grado di conquistare molto di più rispetto a me.»

Katyusha sorride con più naturalezza, scuote il capo. «Non mi sembra che Feliks ti consideri una persona banale.»

Al pensiero di Feliks, il cuore si alleggerisce, batte un palpito caldo che è come una carezza attraverso il petto. «Ma Feliks è speciale.» Ripenso al sollievo che ho provato solo qualche attimo fa stringendomi a lui fra le coperte, a come la sua presenza sia riuscita a cancellare quell’incubo nero in cui ho rischiato di affogare, alla pace che mi trasmette il suo profumo, alla sensazione delle mie dita fra i suoi capelli, e al suo respiro lento e assopito accanto all’orecchio. Una spolverata di rosso tinge il pallore delle mie guance. «È speciale per me.»

«Questo non l’ho mai messo in dubbio, dalla prima volta in cui vi ho visti.» La tiepida mano di Katyusha resta ad avvolgere la mia, le dita carezzano gli spazi fra le nocche. «Toris.» Lei tiene la voce bassa. La stufa all’angolo scricchiola, il tepore si diffonde fra le pareti della cucina assieme al profumo di legna resinosa e di bucce di mela. «Posso permetterti di darti un consiglio?»

Esito, sollevo un sopracciglio. «Certo.»

Katyusha sovrappone anche l’altra mano, mi trattiene in un guscio di calore. Solleva il mio pugno dal tavolo e accosta le labbra alle mie nocche. «Fuggi via.»

Una stilettata mi trafigge il cuore. Mi lascia attonito davanti a queste parole.

«Prendi Feliks, prendi Eduard e anche Raivis» continua Katyusha, «e fuggite tutti da qui. Tornate nei vostri paesi, o andate fuori dall’Unione, andate in Polonia, dove è più sicuro e dove nemmeno Ivan saprà trovarvi quando tornerà.»

Le parole di Katyusha sono sincere, il suo dolore è reale, il soffio del suo respiro sulla pelle è tiepido e confortante, ma quel consiglio mi scivola addosso come una carezza, senza lasciare alcun segno. Ho ancora il collare allacciato alla gola, il guinzaglio che mi trattiene, il tatuaggio che brucia e che mi spinge a rimanere legato a colui che me lo ha impresso sulla pelle. «Io...» Sfilo la mano da quelle di Katyusha e scuoto il capo, i capelli oscillano sopra le spalle. «Non posso. Ivan forse mi ha tenuto intrappolato nella dipendenza per molti anni, ma è stato lui a salvarmi la vita quando non avevo nessuno, e quando mi sono trovato in pericolo.» Prima mi ha raccolto dalla strada, mi ha dato una casa quando non ne avevo una, poi mi ha salvato dal rapimento, e anche adesso mi ha fatto fuggire da Londra pur di non farmi catturare da Scotland Yard assieme agli altri. «Non posso abbandonarlo, perché anche se so di non significare nulla per lui, non posso dire che lui non significhi nulla per me, sarei un bugiardo. E anche se io so...»

Ritorno con l’orecchio attaccato alla porta, dopo essere uscito dalla stanza lasciando soli lui e Yao. L’udito teso verso quello che hanno continuato a dirsi credendomi lontano. Torna la voce ovattata di Ivan, la sua giustificazione del nostro rapporto davanti alla gelosia di Yao. “Toris è il mio oppio, serve solo a stordirmi e a dimenticarmi del dolore che provo stando separato da te. Lui è solo una bambola di pezza in confronto a quello che significhi tu. Perché è debole, perché non conosce l’amor proprio, perché tiene sempre lo sguardo basso, e perché permette alle persone di usarlo come vogliono. È tutto quello che non sei tu.”

Quelle parole che mi hanno spezzato il cuore, che mi hanno sbattuto in faccia il modo in cui Ivan mi ha sempre guardato, nonostante le mie speranze di significare qualcosa per lui, continuano a torturarmi da quel giorno, a echeggiare nella testa come il ricordo di un incubo. Mi sembra di essere di nuovo scivolato sul pavimento, il viso ancora attaccato alla porta da cui avevo origliato, a trattenere le lacrime e a soffocare nel dolore che mi era piovuto addosso come una secchiata di cubetti di ghiaccio.

“Tutto quello con cui mi sono consolato è sempre stato solo per riempire il vuoto che mi hai lasciato dentro quando te ne sei andato” ripete ancora il ricordo di Ivan. “Non è mai stato per tradirti o perché ti avevo dimenticato.” La sua voce era cambiata. Aveva assunto quel tono straziante e addolorato che non avevo mai udito dalla sua bocca. Il tono disperato di chi crede di aver perso tutto. “Io amo solo te, Yao. Perché so che tu sei l’unico che mi ama davvero per ciò che sono.”

Eppure anche io l’ho sempre...

Scuoto il capo, mi poso la mano sul petto. «Io so di essere stato solo una sorta di contenitore vuoto da poter riempire con il ricordo di Yao. Ma se abbandonassi Ivan, allora mi pentirei per il resto della mia vita di averlo fatto. E non voglio questo.» Rabbrividisco al solo pensiero di trovarmi di nuovo abbandonato. «Non voglio convivere con il peso di avergli voltato le spalle.»

Katyusha sospira, batte le palpebre davanti agli occhi carichi di comprensione, ma sul suo viso rimane quella triste ombra d’impotenza di chi sa di non essere in grado di farmi cambiare idea. «Sei un ragazzo coraggioso, Toris. Prego solo...» Si rialza dal tavolo, raccoglie il vaso di mughetti per cambiare l’acqua diventata opaca e giallognola, e mi guarda da dietro la nuvola di fiori candidi come il suo sorriso. Un sorriso dolce come questi fiori primaverili sbocciati in anticipo. «Che un giorno tu riesca a trovare la felicità che meriti.»

Quella frase mi spinge di nuovo ad annegare nel dubbio, mi lascia la bocca impastata in un senso di amarezza, e getta un’ombra di colpevolezza sul mio sguardo perché, in tutto questo, non riesco a fare a meno di chiedermi se merito davvero la felicità che sto cercando.

 

.

 

Feliks e Raivis stanno ancora dormendo, ma poco fa ho sentito i passi di Eduard scendere le scale della soffitta, passare davanti alla nostra porta, e dirigersi verso il bagno in fondo al corridoio. Lo incrocio quando anch’io esco dalla camera da letto.

Eduard trascina i piedi felpati dai calzini, si copre la bocca per sopprimere uno sbadiglio, infila una nocca sotto una lente degli occhiali e si stropiccia la palpebra ancora rossa e appesantita dal sonno. È già vestito ma non ha arrotolato le maniche troppo lunghe del maglione, i bottoni del colletto sono slacciati e le ciocche di capelli cadono in disordine sulla fronte ancora umida dopo essersi sciacquato la faccia. Eduard sfila la nocca da sotto la lente, aggiusta la stanghetta degli occhiali dietro l’orecchio, apre la mano e sventola un saluto moscio e insonnolito nella mia direzione. «‘Giorno.»

Ricambio il saluto senza fatica, «‘Giorno», perché io sono già sveglio dall’alba, ma è insolito anche per lui essersi alzato così presto. Sono appena le sei. Percorriamo assieme il corridoio verso le scale che scendono al piano di sotto, ci lasciamo catturare e ammaliare dal dolce e tiepido profumo che giunge dalla cucina. Un profumo succulento che sa di colazione, di tè nero, di pane di segale imburrato, di uova al tegamino e di zuppa di semola dolce. «Come mai sveglio a quest’ora?» gli domando.

Eduard si passa una mano fra i capelli, dà un’altra stropicciata al viso rosso di sonno, e indica fuori. «Ho sentito arrivare il postino. I cani del vicino hanno iniziato a fare un gran chiasso, e non sono più riuscito ad addormentarmi.» Stiracchia le braccia sopra la testa e sospira con un mugugno. Arriccia il naso, tasta anche lui il profumo che sale dalla cucina, e sul suo viso si dipinge un sorriso sognante. «Speriamo che sia già pronta la colazione.»

Sorrido, lasciandomi contagiare e solleticare da un piacevole brontolio di stomaco che fa salire l’acquolina anche a me. È bello vedere Eduard sereno. Non pensavo che per lui sarebbe stato facile abituarsi alla vita lontano da Londra. Anche lui ha guadagnato un po’ di colorito sul viso, le guance appaiono più lisce e tondeggianti, e ha uno sguardo più luminoso. Forse questa fuga ha fatto davvero bene a tutti noi. «Hai fame?»

Eduard annuisce e torna a rilassare le braccia. «Un po’.» Imbocchiamo le scale. L’espressione di Eduard torna sognante e sorridente, come se avesse già un bicchiere di tè a fumare sotto il naso e una fetta di pane e burro fra le labbra. «Katyusha ci sta decisamente viziando troppo, devo stare attento a non farci l’abitudine. Quel piatto dell’altro ieri, ti ricordi? Era squisito, forse si chiamava...»

«E lo sai perché?» Il grido di Natalia precipita fra noi come un fulmine dal cielo. «Perché se avessi fatto sul serio qualcosa invece che passare la tua vita a piangere e a startene rintanata in questo buco di merda allora non sarebbe mai successo!»

Arresto il passo, il piede resta pietrificato a mezz’aria, sopra il gradino, e anche Eduard compie un rimbalzo di spalle per fermarsi di colpo. Raggeliamo entrambi.

I singhiozzi di Katyusha risalgono le scale assieme al suo pianto strozzato. «Natalia, non dire così.» Altri singhiozzi disperati la scuotono, s’ingoiano la sua voce. «Io...» Le sue parole annacquate dal pianto sfumano in un russo incomprensibile.

Eduard mi lancia un’occhiata scossa, snudata dalla maschera di sonno. Le sue guance sbiancano, gli occhi vacillano dietro le lenti, e un fremito gli attraversa le spalle. «Cosa succede?»

Schiudo le labbra, sto per rispondergli, ma la voce di Natalia grida sui miei pensieri vorticanti.

«Se avessi capito subito quello di cui avevamo bisogno io e lui allora non ce ne saremmo andati da qui, non avremmo mai sentito il bisogno di scappare!» Rumore di una sedia che sbatte sull’orlo del tavolo, di carta stropicciata. «È colpa tua e delle tue paure del cazzo che ci hanno fatto diventare marci come te!»

Una scossa di panico mi fulmina, ghiaccia il sangue e arresta il battito del cuore. Non ho mai sentito Natalia così arrabbiata, non è mai stata aggressiva come adesso. Cosa sta succedendo?

Raccolgo la mano di Eduard e lo guido attraverso gli ultimi gradini che ci separano dal piano terreno. «Vieni.» Corriamo giù e il brutto presentimento si avvicina in una vampata di gelo. È come andare incontro a nuvoloni plumbei di temporale, carichi di pioggia e di fulmini, di elettricità statica che pizzica sotto il naso e che fa salire la pelle d’oca.

Dall’ambiente della cucina, Natalia continua a strillare sopra il pianto di Katyusha. «E non osare metterti a fare la vittima! Tu non meriti nemmeno un briciolo della mia compassione, non meriti la pietà di nessuno, non meriti nulla!»

Katyusha singhiozza ancora. «Ma Natalia, anch’io ho perso mio fratello.» La sua voce è un lamento straziante. «L’ho perso anch’io e non solo tu.»

«No, tu l’avevi già perso da anni!» strilla Natalia. «Da quando lui se n’è andato da qui e tu non sei stata in grado di fermarlo! Sono stata io quello che ha provato fino all’ultimo a riportarlo a casa, e non ce ne sarebbe nemmeno stato bisogno se tu gli avessi impedito di andarsene!»

«N-Natalia...»

«Ho fatto io il tuo cazzo di lavoro per tutto questo tempo!» Un altro colpo secco sul legno, come un calcio dato a un mobile. «È colpa tua perché non sei mai stata in grado di occuparti né di me né di lui, fallita del cazzo!»

«Ti prego» la supplica Katyusha. «Non farmi...» E il pianto prosegue, atroce come se le stesse risucchiando l’anima dal petto.

Io ed Eduard ci precipitiamo in cucina. Eduard raggiunge per primo la soglia, si aggrappa allo stipite della porta per frenare la corsa e io finisco per urtargli il braccio, appendendomi alla sua spalla. Eduard boccheggia per la corsa, e il suo corpo freme contro di me. «Cosa...»

Natalia si gira di scatto. Una ciocca di capelli le vola sul viso, s’incolla alla guancia inondata dalle lacrime che sgorgano senza controllo dagli occhi arrossati e ristretti sotto la ruga delle sopracciglia contratte. Lo sguardo fiammeggia di rabbia, i pugni serrati sui fianchi tremano, i respiri accelerati le scuotono le spalle, le labbra lucide di pianto traballano sotto la pressione del suo fiato corto. Davanti a lei, appoggiata al ripiano della cucina, anche Katyusha sta piangendo, china, una mano a coprirle il viso e l’altra aperta sul petto, a stringere una lettera stropicciata. Sul tavolo giace una busta strappata, tappezzata di francobolli e timbri, e bordata dalle liste rosse e blu della posta aerea.

Eduard sgrana le palpebre, trae un ansimo, e il suo braccio ha uno spasmo sotto la mia stretta. «Cosa è successo? Vi abbiamo sentite e...»

Natalia si copre la faccia con un braccio, stringe i denti in un ringhio, e scappa via. Mi vola affianco urtandomi la spalla, imbocca le scale e sparisce al piano di sopra.

Tendo una mano ma non riesco a raggiungerla in tempo. «Natalia!»

Eduard compie un passo intimidito verso il centro della cucina. «Katyusha. Cos’è successo?»

Katyusha stringe la mano sul cuore, sulla pagina che tiene accostata al petto, e piange ancora, senza sosta. Un’unica parola scivola fra i singhiozzi, come una preghiera. «Ivan...» Si aggrappa al ripiano, piega i gomiti, respira più forte e le parole s’incastrano fra gli spasmi del pianto. «Ivan è...» Crolla in ginocchio sul pavimento, si copre il viso, continua a piangere e a singhiozzare, e la lettera le sfugge dalle mani.

Eduard accorre. «Katyusha!» S’inginocchia anche lui per soccorrerla, le regge le spalle. «Cosa c’è?»

Il foglio cade sulle piastrelle, aperto, e si adagia sotto il fascio di luce del lampadario. In alto, stampato prima del muro di scritte, spicca il timbro ovale dell’Ambasciata Britannica, il leone e l’unicorno impennati che sorreggono lo stemma sormontato dalla corona reale.

Una lettera da Londra.

Il panico sorge in un’ondata di ghiaccio, risale dai piedi, percorre le gambe come una saetta elettrica, affonda nello stomaco e stritola il cuore in una morsa soffocante. Cala il buio, le pareti si tingono di nero, il pianto di Katyusha si trasforma in un ronzio soffuso, un rumore bianco dove riecheggiano le sue ultime parole. “Ivan è...”. La rivedo crollare in ginocchio sul pavimento, nascondersi dietro le mani, Natalia in lacrime che scappa dopo averle urlato contro. La stessa sensazione di malessere che mi ha colto quando io ed Eduard stavamo scendendo le scale torna a torcermi la pancia, a farmi tremare le gambe.

Arretro di un passo senza staccare gli occhi dalla lettera caduta, sbatto le spalle al muro, affondo le dita fra i capelli e tengo ferma la testa, sperando di bloccare i pensieri e le immagini che trottolano, prima che la nausea mi uccida. Il cuore accelera, martella fino alle tempie. Il respiro soffia più rapido fra le labbra socchiuse. Le pareti vorticano, il pavimento mi risucchia, le gambe cedono, e cado anch’io come Katyusha. Mi copro la bocca, trattengo il fiato e annego lo stesso, finisco inghiottito nell’incubo che mi perseguita da quando ho lasciato Londra, in quel lago di pece dal quale non sono mai riuscito a riemergere.

Ivan è morto.

 

.

 

Rimango impalato sulla soglia della soffitta, traggo un sospiro che mi fa cadere il cuore nello stomaco, e sgrano lo sguardo davanti alla rivelazione di Eduard, incredulo. «Vai via?»

Eduard raccoglie la valigia accanto al vecchio guardaroba e si passa una mano fra i capelli, li allontana dal viso impallidito, ancora affannato dopo aver fatto le scale di corsa. «Già.» Getta la valigia sul letto e la spalanca. «E al più presto, anche. Ho già spiegato tutta la situazione a Raivis e...» Vola all’armadio, apre le ante, si aggrappa con entrambe le mani alle due ali di legno e irrigidisce. Lo sguardo annebbiato di confusione vaga nel vuoto, fermo fra gli abiti che lo occupano solo da poche settimane. Eduard inspira, aggiusta gli occhiali alla radice del naso, e mi scocca un’occhiata da sopra la spalla. «E anche lui ha già accettato di seguirmi.»

«E-Eduard, aspetta...» Compio un passo tremolante per raggiungerlo, ma le dita stringono sul corrimano, le unghie artigliano il legno e la paura di precipitare mi blocca. Le gambe tremano ancora, molli come gomma. Ho paura di cadere di nuovo, di finire in lacrime come Katyusha e di non riuscire più a rialzarmi. «Capisco che ora che i Siberian Cubs non esistono più noi siamo...» Liberi? Non riesco ancora a crederci, non riesco ancora a dirlo, non riesco a orientarmi in questa vertiginosa sensazione di smarrimento. Quella parola mi dà la nausea, proprio come mi faceva stare male il pensiero di voltare le spalle a Ivan. Mi tocco il collo, dove il collare sciolto ha lasciato la sua impronta bruciante. «Sì, ora noi siamo...» Inspiro. «Abbiamo la possibilità di andarcene. Ma Katyusha ha bisogno di noi, e dopo tutto quello che le abbiamo fatto passare da quando siamo arrivati, mi sembrerebbe di...»

«Toris.» Eduard lascia cadere tre camicie in valigia e si ferma. Stringe i pugni ai lati del bagaglio, tenendo il capo chino, e si gira a rivolgermi lo sguardo. I suoi occhi trasudano terrore. «Natalia andrà a Berlino Est.»

Compio uno scatto, le unghie graffiano il legno del corrimano, le labbra ricadono socchiuse. «C-cosa?» boccheggio. «A Berlino Est? Ma...» Forzo le dita a scollarsi dalla sbarra di legno che risale le scale della soffitta, compio un passo in avanti, le ginocchia ballano ma mi sostengono. Riesco a raddrizzare la schiena e a tenere lo sguardo fermo su quello di Eduard, anche se annebbiato di confusione. «Ma perché?» Fra tutti i luoghi che poteva scegliere, anche qui in Unione Sovietica, proprio a Berlino Est? E io che per un attimo ho davvero creduto che sarebbe tornata a Londra per vendicare Ivan.

«Me l’ha detto lei prima» conferma Eduard, «forse per mettermi in guardia. Io non...» Si stringe nelle spalle, si strofina le braccia e tiene lo sguardo basso, di nuovo tremante di paura. «Capisci che io devo per forza tornare a nascondermi, in queste condizioni. Non mi fido di lei e, conoscendola, sarebbe capace di vendermi alla Stasi, o potrebbe essere interrogata per qualsiasi motivo e potrebbero costringerla a confessare dove mi trovo, potrebbe rivelare tutto quello che ho fatto, tutti i miei contatti, e noi siamo pur sempre disertori dell’Unione Sovietica, abbiamo vissuto illegalmente in Occidente, e...» Ammutolisce, riprende fiato, abbassa le palpebre, torna a far correre le dita fra i capelli, strofina la nuca con gesti rapidi e nervosi. «Perdonami» Scuote il capo. «Ma non voglio trascorrere il resto dei miei giorni in una prigione della Germania Est.» La mano risale il collo, si sofferma sul tatuaggio e lo prende a unghiate. Un gesto così insolito da parte sua, ma non ho mai visto gli occhi di Eduard così stanchi e la sua espressione così grigia. «Ne ho avuto abbastanza di prigioni.»

Un senso di accettazione mi avvolge. Un abbraccio freddo che scava nel petto, lasciandomi un vuoto dentro. Non avrei mai voluto che questa storia ci separasse, ma capisco quello che Eduard sta provando, comprendo il pericolo che rischia di travolgerlo e di intrappolarlo di nuovo, e non riesco a fargliene un torto. «Ho capito.» E ora mi sento in colpa per non averlo compreso subito, per aver cercato di fermarlo solo per assecondare una mia paura. «Ma dove andrai, allora? Tornerai in Estonia?»

«Oh, no.» Eduard sventola una mano, allontana quell’ipotesi, e torna al guardaroba. «Sarebbe troppo facile scovarmi, e io sarei troppo rintracciabile. Avevo anche pensato di ritornare a Londra, ma...» Raccoglie i maglioni dal fondo dell’armadio, vicino alle scatole di scarpe. «Credo che Scotland Yard non abbia ancora chiuso le ricerche su di noi, ed è troppo pericoloso. Poi Londra...» Sistema gli abiti in valigia, li spreme sul fondo, e scuote le spalle. «Troppi ricordi che voglio dimenticare, temo.»

Sollevo un sopracciglio, continuando a non capire. «Ma allora come farai?»

Eduard guadagna un respiro profondo. «C’è...» Si strofina le braccia, sposta lo sguardo alla finestra triangolare incastrata sotto il tetto da dove penetra il limpido sole del pomeriggio. Il colore dei suoi occhi sfuma in una tinta più chiara, simile a quella del cielo. «C’è un amico – un mio vecchio amico, sì – che può nascondermi in Finlandia. Lui ora vive a Copenhagen, ed è meglio così, perché non voglio metterlo in pericolo, ma può comunque aiutarmi. Ha una vecchia casa proprio a confine con l’Unione Sovietica, poco più su di Leningrado, dove di solito va a trascorrere solo le vacanze. Io e Raivis andremo a stare là per un po’.» Fa roteare lo sguardo, arriccia un angolo della bocca per sopprimere un sorriso amaro. «Per lo meno fino a che le acque non si saranno calmate sul Caso Braginski

«Oh.» Provo comunque un dolore al petto al pensiero di dovermi separare da lui e da Raivis. Dopo tutti questi anni trascorsi assieme...

«Toris.» Eduard mi raggiunge, raccoglie una mia mano, la stringe fra le sue. «Vieni con noi.» I suoi occhi mi implorano da dietro le lenti, mi rivolgono uno sguardo carico di speranza. «E anche Feliks. Andiamo via assieme. Noi quattro staremo bene, fidati. Avremo la possibilità di cominciare una nuova vita, di stare meglio, poi ora che tu non sei più...» Eduard si morde il labbro inferiore, si rimangia le parole, «Ehm...», e il suo sguardo cade inconsciamente sul mio braccio.

Sfilo il tocco dal suo e nascondo il braccio dietro la schiena, come se lui fosse in grado di guardare sotto la manica della maglia, dove si celano i segni delle mie vergogne.

Eduard arretra di un passo ma non demorde. «Questa è un’opportunità immensa, capisci? Non possiamo lasciarcela sfuggire così. È il destino che finalmente ci sta venendo incontro.»

Un brivido mi percorre, mi fa di nuovo sentire in bilico su un terreno cedevole, senza più l’appiglio di Ivan a potermi sostenere. «I-io...» Scuoto il capo con vigore. «Non posso. Io non credo...» Mi giro, mi strofino le braccia fino alle spalle, racchiudendomi nel mio guscio di dolore. «Io non credo di meritarmi un’occasione per ricominciare. Mi sembrerebbe di voltare le spalle a Ivan, e non potrei mai vivere serenamente con questo peso addosso.»

Eduard stringe i pugni sui fianchi, sospira, sconfortato, e mi rivolge uno sguardo avvilito come la sua voce. «Lui non ha mai voluto il nostro bene. Lo sai questo, vero?» Torna accanto al letto dove la valigia è ancora aperta. Sistema la manica di una camicia scivolata fuori dal bordo. «Se ti avesse amato come speravi, o come ti faceva credere, allora non ti avrebbe mai permesso di entrare nei Siberian Cubs. Non ti avrebbe mai permesso di continuare a farti del male in quella maniera. Ti avrebbe messo al sicuro, anche se avrebbe significato separarsi da te.»

«La tossicodipendenza è dipesa solo da me, non da lui» ribatto. «Ivan non mi ha mai costretto a fare nulla.»

«Ma tu non gli devi niente, Toris, e non devi...» La voce di Eduard assume una sfumatura d’incredulità. «Non devi punirti, se è quello che stai cercando di fare. Non è giusto e non te lo meriti, credimi. Hai già sofferto abbastanza.» Torna ad avvicinarsi a me. «Tu non gli stai voltando le spalle, ti stai...» Stringe di nuovo una mia mano e la trattiene, come per guidarmi verso la strada giusta. «Ti stai semplicemente riprendendo la vita che lui aveva rubato a tutti noi, no?»

Lo sguardo di Eduard è sincero, mi trasmette tutta la volontà di aiutarmi che a me è sempre mancata, come ha tentato di fare Katyusha, invitandomi a fuggire dalla Siberia. Io però ho già deciso. Ho già scelto la mia seconda condanna, perché non ho mai smesso di essere un Siberian Cub. Non ho mai smesso di essere prigioniero di me stesso. «Ivan non ci ha mai rubato nulla.» Sfilo la mano da quella di Eduard. «Siamo sempre stati noi a decidere di farci togliere tutto.» Compio un passo indietro, chino il capo, senza il coraggio di dirglielo guardandolo negli occhi. «Mi dispiace, Eduard.» Gli do le spalle e imbocco le scale per andare a parlare con qualcun altro. «Saluta Raivis da parte mia, quando partirete.» Percepisco di sbieco lo sguardo incredulo di Eduard, quel piccolo guizzo che ha la sua mano, le dita che si tendono verso di me e che si ritraggono, capendo che ormai è troppo tardi per trattenermi. Non so cos’altro fare, non so cos’altro dire per consolarlo, per fargli capire che non è colpa sua. «Mi dispiace tanto.» Esco dalla soffitta. Esco dalla sua vita.

 

.

 

«Tu?» Natalia sbatte un’altra gonna in valigia, si strofina la mano sulla guancia ancora umida del pianto che ha versato prima, e mi trapassa con uno sguardo che riesce a essere truce come al solito, nonostante gli occhi ancora rossi di lacrime. Sposta una ciocca di capelli incollata al viso, mi percorre da capo a piedi con occhi inquisitori, e aggrotta un sopracciglio, scrutandomi con quell’espressione di scherno e compassione, ancora però incrinata dalla rabbia che ha scaricato contro sua sorella. «A Berlino con me?»

«Sì» confermo. «E ci andrò comunque, anche se...» Inspiro, stringo i pugni ai fianchi, tengo il viso alto, mi carico di coraggio. «Anche se tu non fossi d’accordo.»

Natalia stringe le labbra, singhiozza una risata acida, e scuote il capo. Torna a pettinare i capelli che le sono scivolati sul viso, li sposta dietro l’orecchio, sotto l’abbraccio del nastro di raso. «Non hai le palle per vivere in un ambiente come quello.» Attraversa la camera, spalanca uno dei cassetti della credenza, e raccoglie delle calze bianche, un altro paio nere e un altro color carne. «Che cazzo ne sapete voi di come si vive in Unione Sovietica, se avete passato più tempo a Londra che qua.»

«Anche tu sei scappata a Londra.»

«Io non sono scappata!» Natalia stringe le dita sul bordo del cassetto, affonda le unghie da cui ha grattato via lo smalto, fa scricchiolare la vernice, e fra le sue labbra ricompare quel ringhio di rabbia che ha già mostrato prima, durante la sfuriata con Katyusha. «Lui è scappato, lui lo ha fatto, e io ho solo cercato di proteggerlo.» Sbatte il cassetto – slam! –, e l’intera parete trema sotto quel colpo. Natalia lancia le calze in valigia, spremendole fra gli abiti che ha già ripiegato. «E mi sono addossata quel cazzo di lavoro che quella cretina di mia sorella non è riuscita a fare. Lei...» Tiene una mano aperta sulla valigia, china le spalle, e riprende fiato con un lungo e profondo sospiro che le fa tremare la schiena inarcata. «Lei non è stata in grado di fermarlo» dice con tono più basso, «di tenerlo al sicuro qua a casa, di proteggerlo, e ora...» Vacilla. Le mani stringono la valigia e sbiancano. I capelli ricadono sulla sua espressione corrugata. «E ora è colpa di quella deficiente se lui...» Esita, si morde la bocca, gli occhi si caricano di un dolore liquido che non le ho mai visto addosso. «Se lui...» Raddrizza le spalle, inspira a fondo, e si asciuga di nuovo il viso con un forte strofinio della manica. Anche lei sta cercando di essere forte. Dà la colpa di tutto a Katyusha, ma so che è lei quella che si sente responsabile per la morte di Ivan. Nemmeno scappando a sua volta dalla Siberia e standogli affianco in Inghilterra è riuscita a riportare suo fratello a casa, a salvarlo dal mondo che alla fine lo ha ucciso.

«Berlino non è l’Unione Sovietica, Natalia.»

Natalia sbuffa. «E tantomeno lo era Londra, se è per questo.» Getta il braccio lontano dal viso e torna al guardaroba. Stacca la sua giacca di pelle dall’appendiabiti, quella che indossava a Londra, la rigira, schiocca la lingua increspando un’altra dura occhiata di disprezzo, e la ributta dentro, sul fondo dell’armadio. La lascia lì. «Sporco buco di sudici capitalisti dal cervello marcio. Crepassero tutti nella merda dove sguazzano.» Si alza sulle punte dei piedi, tende le braccia per raggiungere gli scomparti più alti dell’armadio, e raccoglie le gonne, i maglioni e le camicette che indossava qua in Unione Sovietica. Abiti grigi e anonimi, senza borchie, senza strass, senza catenelle, senza strappi e senza colori. «Perché non te ne torni là invece di seguirmi e starmi fra le palle?»

Scuoto il capo. «Non posso tornare a Londra» mi affretto a rispondere. «Non posso tornare in Occidente. Se ricominciassi a vivere in Inghilterra...» Il bruciore alle braccia insorge come una scia di fuoco. L’ondata nera riemerge, si abbatte su di me e mi cattura nel suo abbraccio viscido, dentro a incubi di siringhe lucenti, di auto che accostano il marciapiede e che aprono lo sportello per farti salire, di una bolla di nebbia costantemente chiusa attorno alla testa. Al pensiero di dover di nuovo calpestare quelle strade e di dover respirare quell’aria di fumo e pioggia stagna, un altro conato di nausea brucia attraverso lo stomaco, mi rende le guance ghiacciate e la testa pesante, dandomi l’impressione di soffocare. «Allora ricomincerebbe tutto da capo.» Apro e strizzo i pugni. Il dolore delle unghie che affondano nei palmi mi riporta alla realtà. «E non voglio questo.» Graffio più volte il tatuaggio. «Troppe persone si sono sacrificate e hanno sofferto per me, non voglio che i loro sforzi siano stati inutili.»

«Portati dietro il tuo sgorbio, no?» Natalia raggiunge la credenza accanto al guardaroba, si affaccia allo specchio, stacca gli orecchini neri dai lobi, li sbatte nel portagioie, e si slaccia il girocollo con cui teneva coperto il tatuaggio. Fruga fra i gioielli, solleva un suono squillante e argentino, scava fino al fondo, guarda fra le scintille, ma richiude la scatola e la lascia lì senza raccogliere niente. «Andatevene in Polonia.»

«No.» Mi allontano subito da quell’idea, prima di avere la possibilità di pensarci due volte. «Feliks non si merita questo. Feliks merita una vita serena, una vita felice, e io sento di non potergliela dare.»

Natalia mi guarda di traverso. Occhi rossi ma meno aggressivi che mi scrutano attraverso una nera espressione di compassione. «Sei proprio un patetico smidollato.»

Lo so.

Natalia rimane in piedi davanti allo specchio. Raccoglie la spazzola, pettina i capelli biondi, li liscia lungo la schiena, e aggiusta il fiocco del nastro esaminando la sua immagine riflessa. «Non sei stato in grado di salvare niente di quello che eri riuscito a guadagnarti nella tua vita. Né mio fratello, né Feliks.» Scuote il capo. «E nemmeno te stesso.»

Ricambio la sua occhiata dura, senza il timore di tenere il viso alto. «Nemmeno tu sei stata in grado di salvare Ivan.»

Natalia ferma i colpi di spazzola, schiaccia la mano attorno al manico di legno e china il capo fra le spalle. Le ciocche tornano a scivolarle sul viso, celano il tremore che le ha di nuovo contratto la fronte, cadono sulle labbra morsicate dalle punte degli incisivi. Natalia lascia la spazzola, mi raggiunge a passo pesante, mi si pianta davanti e mi guarda dritto negli occhi. È la prima volta in cui ho l’impressione di essere sul suo stesso livello. «Fai quel cazzo che ti pare della tua patetica vita», aggrotta la fronte, «ma non osare interferire con la mia.» Afferra la maniglia della porta. «Io parto questa notte.» E me la sbatte in faccia.

Sospiro, lascio cadere il capo fra le spalle e sfioro con la fronte il mio riflesso specchiato sul legno lucido. Ora resta solo un’ultima persona a cui dire addio. E sarà la decisione più difficile della mia vita.

 

.

 

Feliks si aggrappa alle mie spalle, sale sulle punte dei piedi, e si avvicina col suo sguardo supplicante. «Portami con te.» Gli occhi luccicano e mi implorano, una prima botta di sconforto mi coglie davanti alla sua preghiera. Sapevo che sarebbe andata a finire così, ma devo essere forte.

Sospiro. «Feliks, ascoltami. Noi...» Gli poso anch’io le mani sulle spalle. Stringo le dita per non far vacillare il tocco. «Io...» Scivolo di un passo all’indietro e lo guardo dritto negli occhi. «Questo non è comunque un addio, te lo prometto.»

Feliks corruga un broncio da offeso, i fili di capelli scivolati sul viso attraversano la fronte aggrottata e le guance già rosse di rabbia. «Lo so che non lo è.» Sfila le spalle dalle mie mani e schiaccia i pugni sui fianchi. «Non lo è proprio per niente, perché anche io voglio venire a Berlino, non voglio stare lontano da te.»

«E nemmeno io voglio separarmi da te, ma...»

«E allora perché lo fai?» esclama Feliks. «Perché mi vuoi abbandonare? Ora che...» Sussulta, si rimangia le parole, distende la tensione dei pugni, e abbassa la voce. «Ora che noi possiamo stare insieme, tu te ne vai e mi lasci da solo. E non è giusto, non lo è proprio per niente.»

«Io devo andarmene perché non potrei mai vivere felice con questo peso. E non voglio che la mia infelicità faccia del male anche a te.»

«Ma...» Feliks getta lo sguardo al pavimento. Strizza le dita sulla maglia, ne stropiccia l’orlo, si morde il labbro, trattiene un sospiro, e la voce cede. «Ma io...» Scuote il capo e tiene le palpebre strette, forse per non piangere. «Tu mi hai sempre detto che io ero l’unico che ti faceva stare bene quando tu eri triste. E come fai a essere felice se io non ci sono, eh, come?»

Distolgo lo sguardo e mi allontano, nascondo la maschera di sensi di colpa. «Tu con me non saresti felice.»

«E invece sì» insiste lui. «Totalmente sì.»

«Ma io no.»

Feliks sgrana gli occhi e socchiude le labbra, travolto da un’espressione sconvolta e arrabbiata allo stesso tempo, come se lo avessi schiaffeggiato a tradimento. «Non saresti felice con me?»

«Non sarei felice pensando di averti portato di nuovo dentro a una vita pericolosa» specifico. «Perché non sarei mai in grado di proteggerti come vorrei.» Scuoto il capo. «Non in queste condizioni.»

Gli occhi di Feliks tornano a riempirsi di dolore e incomprensione. Scivolano di nuovo verso il basso, si perdono nel vuoto, la sua bocca trema. «Ma non è giusto.» Singhiozza, tira su col naso, si strofina il viso anche se non ha ancora versato lacrime. «Non è per niente giusto. Me l’avevi promesso. Me l’avevi promesso che ora noi potevamo stare assieme sempre, che ci saremmo protetti a vicenda. E dopo...» Tiene i pugni stretti, pesta un passo davanti a me e mi fronteggia con i suoi affilati occhi felini. «Dopo tutto quello che lui ti ha fatto, dopo tutti i pericoli in cui Ivan ti ha cacciato...» Trema di rabbia. «Perché continui a preferire lui a me? Anche adesso che è morto!»

Quell’ultima frase si abbatte su di me come un mattone sulle costole. “Anche adesso che è morto”. È vero: Ivan è morto. Morto. Non dovrei più preoccuparmi di lui, dovrei essere felice di sentirmi libero, dovrei provare sollievo davanti al fatto che i Siberian Cubs non esistono più, e invece mi sento più smarrito che mai. Ho addosso questo costante e colloso senso di nausea di cui non riesco a disfarmi, come un abito bagnato che non si sfila dalla pelle. Non avrei mai immaginato che Ivan sarebbe potuto morire, e non avrei mai immaginato che io mi sarei sentito così devastato all’idea di dover vivere senza di lui.

«Feliks.» Gli poso la mano sul tatuaggio, sotto le ciocche di capelli che ricadono sulla spalla, e mi torna in mente la prima volta in cui gliel’ho toccato, quando la sua pelle era ancora rossa, gonfia e bollente, e il nero dell’inchiostro sembrava spingere fuori dal collo per potersi liberare. «Tu hai già corso un grande pericolo solo per stare accanto a me.» Strofino una carezza con il pollice sull’orlo dell’orologio soffocato dal filo spinato. «Tu sei sempre stato il più coraggioso fra noi due, infinitamente più coraggioso di quanto lo sia stato io. Mi hai salvato la vita quando ero in pericolo e quando nessuno sarebbe stato in grado di tirarmi fuori dai guai.» Gli rivolgo un’occhiata più ferma. «Adesso devi permettere a me di salvarti e di proteggerti.»

Feliks corruga di nuovo una faccia imbronciata e scosta il collo dal mio tocco, arretra di un passo. «Guarda che io quella volta non è che ti ho salvato per...» Si morde il labbro e stringe le braccia conserte al petto, fa tamburellare le dita, guarda verso la parete. «Per avere una specie di debito o qualsiasi cosa così. Io l’ho fatto perché ti amo e basta!»

Quel “Ti amo” improvviso affonda nel mio petto e il suo peso bruciante vi rimane come succede ogni volta in cui glielo sento pronunciare. Non merito queste parole. «Io non ti sto abbandonando, Feliks. Lo giuro.»

«Ma allora che senso ha?» esclama lui. «Se io e te non stiamo assieme, che razza di senso ha?»

«Io tornerò, te lo prometto. Tu sei...» Mi avvicino a raccogliergli la mano. La mano calda e sottile che ho tenuto stretta tante volte e da cui avevo promesso non mi sarei mai separato. «Tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata nella mia vita, e non voglio perderti. Questo non è un addio, e non permetterò che lo diventi.» La accosto al mio petto, sopra il cuore che sta ancora battendo. Al contrario di Ivan, io sono sopravvissuto. Il mio tempo non ha cessato di scorrere. «Io e te un giorno ci rincontreremo. E questa è una promessa.»

Feliks singhiozza. Le prime lacrime rotolano dalle palpebre e gli rigano le guance, rendono i suoi occhi così limpidi che potrei guardarci attraverso, fino in fondo all’anima. «E staremo assieme, allora?»

«Sì.» Gli asciugo una lacrima col pollice. Lo stesso gesto con cui era lui a raccogliere il mio pianto. Per la prima volta, sono io a incoraggiare lui, sono io la spalla su cui piangere. «Ti prometto che allora potremo stare assieme e che non ti lascerò mai più. Andremo a passeggiare nei parchi ogni giorno, come facevamo a Londra.»

Le guance di Feliks si fanno più rosee, gli occhi verdi luccicano di speranza e di aspettativa, di una gioia che aspetta solo di fiorire come una primavera rintanata sotto il manto bianco e freddo dell’inverno. «E mi porti anche a fare il bagno?»

Annuisco, trattengo una risata. «Anche a fare il bagno. Al mare, però, e non nel lago dove ci sono le alghe. Andremo assieme in un mare caldo.»

«Promesso?»

«Te lo prometto.» Un groppo di pianto risale la mia gola, trema attraverso le mie labbra, soffoca la voce che diventa un mormorio. «E tu mi prometti che mi aspetterai?»

Feliks annuisce. «Io ti aspetterò anche più di per sempre, ma tu...» Si appoggia a me, mi stringe fra le braccia. «Ma tu non ti dimenticare di me.»

Ricambio l’abbraccio, lo stringo forte a me, le fronti si toccano e il mio sussurro gli intiepidisce la pelle. «Non potrei mai dimenticarmi di te.» Affondo il viso fra i suoi capelli e inspiro forte. Mi inebrio per un’ultima volta del suo profumo di vaniglia, di frutta dolce e di prato fiorito. L’unica consolazione che riesce a rincuorarmi davanti alla prospettiva degli anni di solitudine che mi aspettano.

Feliks singhiozza, stringe le mani sulla mia schiena in quest’ultimo disperato tentativo di trattenermi. «Ti amo.»

Mi coglie un altro sussulto al cuore. Gli occhi si appannano, il viso brucia, il peso sul petto si scioglie e risale le palpebre. Ma non voglio piangere.

Gli stringo una mano fra i capelli, tengo chiuso quest’ultimo abbraccio. «Ti amo anch’io.» Questa volta glielo dico senza timore. Non ho più paura che queste parole lo condannino, che lo imprigionino in un legame che rischierebbe di rovinarlo. Feliks è salvo, il mio dolore non è stato inutile, ma per me la prigionia non è ancora finita.

 

.

 

Allento la presa dalla maniglia della valigia, lasciandola ricadere ai miei piedi. Rimbocco il cappotto, soffio un bianco alito di condensa che si disfa attraverso l’umidità dell’aria, e mi fermo sulla soglia di casa, davanti alla stradina di sterrato su cui cadono i raggi della luna e il riverbero più caldo proveniente dalle finestre delle altre abitazioni. Una distesa color indaco si staglia davanti a me, fino all’orizzonte. Una cascata di stelle sciama nel cielo notturno. La luna pende sul paesino, come un faro, e la sua luce d’argento si specchia sulle tegole ghiacciate, dando l’impressione che siano rivestite di neve appena caduta. Mi avvolge il profumo dell’orto che sta riposando sotto lo strato di brina, quello dei boccioli dei meli che non sono ancora in fiore, e quello del fumo che evapora dai camini delle altre case. Rimbocco la sciarpa sopra la giacca, aggiusto il tessuto sul lato sinistro del collo, in modo da coprire il tatuaggio, e sfilo i guanti dalla tasca. Indosso il primo.

Eduard mi raggiunge, si ferma al mio fianco, rimanendo dentro la luce di casa, senza attraversare l’uscio, e tiene le braccia conserte al petto. Lui e Raivis partiranno domani. «State proprio andando via, eh?»

Indosso l’ultimo guanto e annuisco. «Sì.» Tengo la valigia in equilibrio fra le gambe, sollevo lo sguardo verso le finestre del piano di sopra, verso le luci accese provenienti dalla camera di Natalia. Lei non è ancora scesa, sta sistemando gli ultimi bagagli, o forse sta ancora litigando con Katyusha che non ha mai smesso di implorarla di restare in Siberia. Ma discutere con Natalia è inutile, non c’è niente che la tratterrà. È irremovibile come lo era Ivan.

Anche Eduard solleva lo sguardo, lancia un’occhiata alle scale d’ingresso alle sue spalle, solleva un sopracciglio. «E Feliks?»

Scuoto il capo. «Ci siamo già salutati. E poi...» Mi strofino il braccio, tengo le labbra nascoste sotto la sciarpa, e mi consolo con questo tepore, ora che non potrò più abbracciare quello di Feliks. «Poi sarebbe stata dura per entrambi lasciarci in questa maniera. Abbiamo preferito non rischiare che fosse troppo difficile separarci.»

«Capisco.» Eduard si strofina le braccia come me, sposta il peso da un piede all’altro, compie un paio di passi senza varcare la soglia della casa, rabbrividisce sotto quest’aria fredda che odora di terra indurita dal gelo e di ghiaccio sciolto, e guarda ancora verso le scale, tenendo però gli occhi bassi.

Mi schiarisco la voce, strofino la nuca e mi giro a fronteggiarlo. Non voglio separarmi da lui in questa maniera, come se stessi dando le spalle a un estraneo. «Saluta Raivis, e...» Un nodo di dolore risale la gola. Deglutisco, ma la voce suona di nuovo rauca e appesantita dal fiato che mi strozza. «E di’ a Katyusha che mi dispiace. Mi dispiace tanto per tutto quello che è successo, per tutto quello che le abbiamo fatto passare, e per tutto quello che ci siamo portati dietro da Londra. E che mi dispiace anche per quello che è successo a Ivan.» Intreccio le mani sul grembo, raccolgo un lembo della sciarpa, lo ingarbuglio fra le dita, e sfilaccio il tessuto sotto le unghie. Socchiudo le palpebre per trattenere il bruciore che pesa sugli occhi. «Mi dispiace sul serio.»

Eduard annuisce. Una ruga di dispiacere gli attraversa la fronte. «Rimarrà di nuovo da sola.»

«Già.»

Passi pesanti si spostano dal piano di sopra. La voce di Natalia attraversa le pareti, ovattata, ma non riesco a capire quello che sta dicendo. Quando lei scenderà dovremo partire, dovrò dire addio a Eduard senza la certezza che un giorno ci rivedremo. Non posso andarmene così. Non con questo peso nel cuore.

«Eduard.» Gli cerco lo sguardo. Gli rivolgo le parole più sincere che riesco a trovare davanti a tutta questa situazione. «Mi dispiace per quello che è successo a Londra. Ma in un certo senso...» Stropiccio ancora la sciarpa. «Sono contento di... di avervi incontrati.» Mi stringo nelle spalle, nascondo un tiepido sorriso malinconico che formicola attraverso le labbra. «E se non fosse stato per i Siberian Cubs, noi non...»

Eduard coglie al volo il mio pensiero. Sorride anche lui, sdrammatizza. «Non dispiacerti.» Attraversa l’uscio, scende i tre gradini del portico, e soffia un alito bianco che si squaglia subito contro il suo viso. Si affaccia al cielo notturno, e la distesa di stelle si specchia sulle sue lenti. «Nessuno di noi ha la piena colpa di tutto quello che ci è capitato a Londra, immagino.»

«Ma nessuno di noi è completamente innocente. Perciò cerca...» Annuisco, come per cercare di convincerlo. «Cerca di avere una vita felice da ora in poi. Tu sei in gamba, meriti molto di più rispetto a quello che ti dava Ivan, meriti una vita migliore.» Lo raggiungo con pochi passi. «Promettimi che avrai cura di te. E abbi cura anche di Raivis.»

Eduard annuisce. «Anche tu.» Fa scivolare una mano sulla mia spalla, mi rivolge uno sguardo calmo e rassicurante. «Non ti devi preoccupare di niente, penserò io a tutto, e tu e Natalia sarete al sicuro, farò in modo che nessuno vi crei problemi. Perciò cerca...» Stringe la presa, mi trasmette un’ultima scossa di solidarietà e incoraggiamento. «Cerca di essere felice, ti prego.»

Ricambio quel gesto, poso la mano sulla sua, cancello quell’aria disperata dal mio viso, e gli regalo un ultimo sorriso d’addio. «Ci proverò.» Batto due volte le dita fra le sue nocche, strofino il tocco sul dorso, sulla sua mano magra, ma non lascio la presa, provando di nuovo quella scossetta di paura all’idea di separarmi.

Continuiamo a guardarci. Inspiro, tendo anche l’altro braccio in un ultimo impeto di coraggio, Eduard fa lo stesso, ci urtiamo, ritiriamo assieme il tocco, lui guarda in basso e trattiene una risata nervosa. Mi avvicino di un passo e gli faccio correre le braccia sulle spalle, sposto il capo per non sbattere la fronte sulla sua testa, struscio la tempia sui suoi capelli e accosto il viso al suo profumo. Lo avvolgo in un abbraccio impacciato come questo addio, come se avessimo paura di romperci a vicenda. Eduard stringe le braccia, mi cattura senza timore, il suo corpo irrigidisce, le dita si aggrappano alla mia giacca, e un suo sospiro muore sulla mia spalla.

Gli batto la mano fra le scapole, mormoro accanto all’orecchio. «Grazie per tutto quello che hai sempre fatto per noi.»

Eduard tiene la fronte accostata alla mia spalla e annuisce. «Mi mancherai.» È l’ultimo ricordo che catturo di lui.

Una porta si chiude al piano di sopra, passi rapidi scendono le scale d’ingresso.

Io ed Eduard sciogliamo l’abbraccio, ci stacchiamo, e per poco non inciampo sulla valigia ancora ai miei piedi. Volgiamo lo sguardo in disparte.

Natalia cammina affianco a Eduard, stringe la presa sulla valigia che rimbalza sul suo fianco a ogni passo, rimbocca il cappotto, e mi lancia uno sguardo da sopra la spalla. «Ehi, pivello.» Mi fa un cenno col mento, scende i gradini del portico, imbocca il vialetto. «Ti dai una mossa o no? Guarda che ti lascio qui.»

«Arrivo.» Mi chino a raccogliere la mia valigia con entrambe le mani. Rivolgo a Eduard un ultimo cenno col capo. «Addio, Eduard.»

Eduard sventola un saluto. «Vedrai che ci rivedremo.» Sorride. Un sorriso carico di speranza che mi intiepidisce il cuore. «Un giorno. Sicuramente.»

Annuisco e sorrido. «Un giorno.» Percorro anch’io il vialetto, i passi scricchiolano sullo sterrato incrostato dal ghiaccio, raggiungo Natalia che mi sta aspettando tenendo aperto il cancelletto della staccionata, e mi giro a guardare per un’ultima volta l’isba di legno, le finestre illuminate come in una cartolina di Natale, la cappa di fumo che esce dal comignolo della stufa, i fiori che crescono sul tetto, e il buio e freddo cielo siberiano che mi sto lasciando alle spalle, lo stesso cielo sotto il quale Ivan è vissuto e che lui stesso ha abbandonato per scappare a Londra. Il cielo che forse ora ha accolto la sua anima, concedendogli quella pace che ha rincorso tutta la vita.

Stringo gli occhi, trattengo le lacrime, risucchio tutta la tristezza e il dolore nel petto, perché questo non è un addio, non è un saluto definitivo. Torneremo. Feliks mi aspetterà, e questo pensiero dovrà accompagnarmi e darmi forza nei prossimi anni. Dovrà ricordarmi che anche io ho qualcuno che mi sta aspettando in un luogo chiamato “casa”.

Mi stringo nel cappotto, supero il cancelletto di staccionata, e mi porto al fianco di Natalia, camminiamo entrambi sullo sterrato che scricchiola, sotto le luci delle stelle e delle finestre che proiettano i loro fasci sulla strada, e scaviamo assieme la via che ci guiderà verso la nostra nuova vita.

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Capitolo 3
*** Caro Feliks - Inverno ***


3. Caro Feliks – Inverno

 

 

maggio 1986

Berlino Est, Repubblica Democratica Tedesca

 

Heinz batte la mano sul tavolo apparecchiato, fa traballare il suo calice di vino, e conclude la storia senza riuscire a contenere un sorrisino d’anticipazione. «E io a quel punto gli faccio: “Ma glielo sto dicendo da mezz’ora che lo sportello giusto era quello di destra!”»

La tavolata scoppia a ridere, Franz si copre con il tovagliolo e sogghigna, anche se lui sapeva già come andava a finire, e persino Natalia si sfila la forchetta dalle labbra per non sorridere con il cibo in bocca.

Linda porta la mano alla bocca per trattenere la risata più squillante, e le sue guance avvampano di rosso per tutto il vino che ha già bevuto durante il corso della cena. Riprende fiato e fa aria al viso accaldato, abbandona le spalle sullo schienale della sedia. «Oh, cielo, non puoi dirmi queste cose, sono già ubriaca.» Sopprime un altro singhiozzo di risata. Raccoglie il suo calice vuoto laccato di vino rosso, e lo sventola davanti a Sonja, verso Franz. «Sii gentile, tesoro, e versamene un altro.»

Franz posa il suo tovagliolo, raccoglie la bottiglia di Merlot accanto a una delle candele accese, e versa il vino alla moglie. Linda gli fa l’occhiolino e butta giù un ennesimo sorso, placa la risata che ancora le scuote il petto.

Rido anch’io, mi lascio sciogliere dall’atmosfera della serata, dal gusto delizioso della cena, dal tepore delle candele che decorano la tavola. Era da tanto che io e Natalia non ci concedevamo una sera libera per distrarci dal lavoro.

Sospiro, poso la forchetta, allento il bavero della camicia, e mi faccio raggiungere dall’aroma dei caffè che hanno ordinato quelli al tavolo affianco al nostro. Un cameriere mi passa dietro reggendo un vassoio con dei piatti di zuppa, incrocia il passo con quello che sta spingendo il vassoio dei dolci verso le cucine, e si porta in disparte per lasciar passare una coppia appena entrata nel locale.

Heinz rigira la forchettata di crauti nel sugo di Blutwurst e cetriolini, fa spallucce. «Ma cosa volete che vi dica, anche questi sono i rischi del mestiere.» Mangia il boccone, sventola la forchetta. «Avendo a che fare continuamente con persone diverse ogni giorno, ogni tanto capita anche di imbattersi in soggetti del genere.»

«Oh, ma le nostre signore non possono capirlo.» Franz affetta una delle sue polpette di carne e patate, annuisce a se stesso con aria assorta. «Svolgiamo mestieri talmente differenti, dopotutto. L’approccio umano è una nostra esclusiva.»

Linda sfila il calice di vino dalle labbra e sgrana gli occhi verso il marito. «Franz, questa è la cosa più scortese e cafona che potessi dire durante tutto il corso della serata.» Ma la bocca vibra ancora per la risata che l’ha scossa prima. Una ciocca castana scivola dalla presa delle forcine e ricade sulla guancia rossa come il vino.

«E perché?» sbuffa Franz. «Io non mi lamenterei nel svolgere un lavoro come il vostro. È più...» Mangia la fettina di polpetta. «Concreto rispetto a quello di segretario, dopotutto. I frutti si vedono subito, è un contributo solido a cui è molto più facile dare un valore.» Anche i suoi occhi seguono la camminata di uno dei camerieri che ci passa affianco. «Venite apprezzate decisamente più di noi, su questo non c’è dubbio.»

Sonja rimesta il cucchiaio nella zuppa di patate e funghi, e solleva il viso dal suo piatto. Inarca un sopracciglio, storce uno dei suoi mezzi sorrisi sarcastici, un po’ altezzosi, e gli occhi ristretti si fanno neri come i suoi capelli. «Guarda che noi non abbiamo bisogno dell’approvazione di nessuno per dare valore al nostro lavoro.»

Heinz ridacchia e si versa dell’altro vino. «Il compagno Toris può sicuramente capirci, non è vero?»

Arresto il movimento del coltello affondato nel fegato di vitello che giace nel mio piatto, tengo ferma la forchetta senza raccogliere la fettina appena tagliata, e rivolgo ad Heinz uno sguardo schivo, «I-io?», ancora spolverato di rosso per la risata di prima.

Heinz annuisce, sorseggia il vino che si è appena versato, e sposta lo sguardo accanto a me, sul profilo di Natalia. Distende il sorriso, socchiude le palpebre. «O fra te e tua moglie non sbocciano mai diverbi di questo genere?»

Sbircio Natalia di traverso, incrocio il suo viso basso, concentrato sulle mani che affettano lo stesso Blutwurst che ha ordinato Heinz, e mi tengo distante per non sorbirmi un’occhiataccia accondiscendente.

Torno anch’io al mio fegato di vitello, intingo la fettina già tagliata in un ciuffo di purè di patate bagnato dal soffritto di funghi. «Veramente, io e Natalia parliamo poco di lavoro.» Assaggio il boccone. È delizioso. «Non succede mai nulla di così interessante che valga la pena condividere.»

Linda pesca dal suo piatto una cucchiaiata di brodo su cui galleggiano pezzetti di verdure cotte, e la ferma davanti alle labbra. Sgrana gli occhi. «Ma davvero?» Le guance arrossate le danno un’aria ancora più esterrefatta. «Pur con un mestiere stimolante come il tuo?» Rimette il cucchiaio nella scodella, intreccia le mani e stiracchia le braccia sopra la testa, torna a stravaccarsi contro la seggiola foderata di velluto. «Aah, cosa darei io per svolgere un lavoro che mi permetta di starmene seduta tutto il giorno, in mezzo a libri e riviste, in un ufficio riscaldato...» Scioglie l’intreccio delle dita e rigira le mani davanti allo sguardo, gratta l’unghia del pollice sulle nocche. «Invece che rovinarmi le mani, sollevare pesi dalla mattina alla sera, e uscire dalla fabbrica ogni giorno con la puzza di tintura fra i capelli.»

Sonja raccoglie una fetta di pane dal cesto, ne strappa un pezzo e lo intinge nella sua zuppa di patate e funghi. I suoi neri occhi da incantatrice mi scrutano da dietro le fiammelle delle candele. «Sul serio tu e Natalia parlate poco di lavoro?»

Heinz ridacchia. «Non mi sorprende.» Passa un’altra forchettata di crauti nel sugo burroso del Blutwurst e sventola la posata in segno di rimprovero. «Toris, sei decisamente troppo silenzioso questa sera, amico mio.» Mangia la fetta di carne, rivolge lo sguardo a Natalia, e mi indica con un cenno del mento, ridacchiando a bocca chiusa. «O è sempre così?»

Natalia distende un sorriso sornione, sfila la forchetta dalle labbra dopo aver sgranocchiato un cetriolino, e alza gli occhi al soffitto. «Non hai idea.»

Franz ride. «Con una moglie come Natalia, anche io avrei poco da parlare.» Anche lui si rivolge a me, mettendomi all’angolo assieme all’occhiata pressante di Heinz, e ammicca con le sopracciglia bionde. «Mi stupisco solo che in tutti questi anni non ti abbia mangiato la lingua.»

Le guance di Linda diventano scarlatte come il Merlot che ha appena finito di sorseggiare. Lei schiude le labbra ancora sorridenti, trae un ansito scandalizzato, e gli batte una mano sulla spalla. «Franz!»

Anche la mia bocca tremola, le guance pizzicano come se mi avessero accostato le candele al viso, e un formicolio di timore e imbarazzo mi solletica le pareti dello stomaco. Placo tutto bevendo un sorso d’acqua.

Natalia assottiglia le ciglia, stira il sorriso tenendo le labbra strette, fulmina Franz con quell’occhiataccia che rimane in penombra, e affonda il coltello nel Blutwurst. La lama sprofonda nella carne, schizza il sugo sul bordo del piatto, e stride sul fondo di porcellana. Natalia pianta la forchetta nel boccone e mastica lentamente. Messaggio piuttosto crudo ed eloquente, ma in parte gliene sono grato. Nemmeno io riesco a farmi piacere commenti di questo genere nei suoi confronti.

Sonja assaggia un’altra cucchiaiata di zuppa e posa il cucchiaio, il suo sorriso spalmato di rossetto intiepidisce la tensione di ghiaccio congelata dallo sguardo di Natalia. «Sono sicura che stasera parla poco solo perché non si è ancora scaldato a dovere.» Raccoglie la bottiglia di Merlot, ormai mezza vuota. «Un goccio di vino, compagno?» Mi strizza l’occhiolino e la inclina già verso il mio calice. «Vedrai come ti scioglierà la lingua.»

Il vino oscilla nella pancia della bottiglia, il suo profumo corposo mi raggiunge, brucia attraverso il naso ed evoca un lieve senso di nausea che cancella il buon aroma di fegato alla piastra e purè di patate. Mostro un palmo per rifiutare. «No, ti ringrazio, ma non bevo molto. Preferisco solo l’acqua.»

Heinz porta una mano alla fronte, trae un sospiro melodrammatico. «Solo l’acqua! Ma sentitelo!» Fa oscillare il suo calice pieno e scuote il capo con aria grave. «Ahi, ahi, Natalia. Ma che razza di soggetto ti sei sposata?»

Linda arriccia il naso in una piccola smorfia che fa squittire la sua risata. «Oh, smettetela voialtri, siete dei bruti. Così non fate altro che metterlo a disagio.» Poggia i gomiti sul tavolo, accanto alla sua scodella di brodo di verdure, e raccoglie il viso fra le nocche. Flette il capo di lato e mi sorride, un sorriso che splende come gli orecchini d’argento che pendono dai suoi lobi. «Non hai idea da quanto aspettassimo di organizzare questa serata, Toris. Eravamo così impazienti di conoscerti. Natalia ci parla sempre così bene di te.»

Sposto lo sguardo, contengo un mezzo sorriso. «Allora deve trattarsi di certo di qualcun altro.»

Natalia mi dà un calcetto al piede.

Sonja finisce di mangiare un altro boccone di pane che ha affondato nella sua zuppa. «E...» Ci indica entrambi. «Da quanto siete sposati, avete detto?»

Mi coglie un sussulto, una scossetta che mi estranea e che mi riporta davanti ai ricordi di tutti gli anni trascorsi qua a Berlino. Persino io faccio fatica a credere che sia passato così tanto tempo. «Dieci anni.» Affondo la forchetta in un funghetto e lo intingo nel purè bagnato dal sugo di carne. «Sì, a marzo abbiamo festeggiato dieci anni. Ci siamo sposati poco prima di trasferirci qua a Berlino.»

Linda sospira, sognante, e poggia la guancia sul dorso della mano. I suoi occhi splendono, illuminati dal caldo riverbero delle candele. «Siete davvero una bella coppia, sapete?»

Il sorrisetto di Natalia trema, e lei lo maschera prendendo un sorso del suo vino. Il Merlot oscilla nel calice, spande riflessi scarlatti sulle sue guance lattee, fra le ciglia allungate dal trucco, e nelle iridi violacee, più scure nell’ambiente tenue del ristorante.

«E come mai avete deciso di trasferivi?» domanda Franz. «Così distanti dall’Unione Sovietica, poi...»

Esito, arresto il movimento del coltello nella fetta di fegato.

Io e Natalia ci guardiamo.

Lei pettina attorno all’orecchio una ciocca di capelli, scopre il lobo in cui ha pinzato gli orecchini di perla che le ho regalato io per il suo compleanno, e solleva un sopracciglio, rivolgendomi un’occhiata d’intesa. Un nastro di raso nero le avvolge il collo su cui ha spalmato della cipria per nascondere il tatuaggio, come fa sempre quando non può indossare maglie a collo alto o sciarpe. Una mantella di velluto nero ricade attorno alle spalle, sulle braccia nude, adorna l’abito da sera color blu notte che le sta d’incanto. Il nastro attorno al collo s’intona a quello che le tiene legati i capelli, più rigido, simile a un cerchietto che si chiude con un fiocco che cade sulla tempia sinistra. Natalia rinnova quel fine sguardo di complicità che dice esattamente quello che sto pensando io.

Sospiro e recepisco il messaggio.

Ci siamo. Via con le bugie. Io e Natalia abbiamo recitato così tante volte questo teatrino che non mi disturba più ripeterlo fino alla nausea. Ormai è come inserire una monetina in un distributore automatico. Le parole escono da sé.

«Veramente...» Mangiucchio il mio boccone di fegato. «È una storia un po’ lunga.» Nella tavolata scende il silenzio. Heinz separa le labbra dal suo calice di vino, fa oscillare quel che è rimasto fra le pareti di vetro, Franz si ripulisce la bocca con il tovagliolo ricamato e mi scruta con occhi attenti, Linda tiene il mento appoggiato sulle nocche, e anche Sonja smette di mangiare la fetta di pane che ha intinto nella zuppa. Natalia torna alla sua cena, affonda il coltello nel Blutwurst, e il cigolare della lama sul fondo del piatto si unisce al brusio del ristorante, al suono dei bicchieri che trillano, delle voci basse, di una risata soffusa, e del passo dei camerieri. Guadagno un profondo e proseguo cauto. Non posso sbilanciarmi troppo, in questo paese non ci si può fidare di nessuno, tantomeno di amici e colleghi. «Io in realtà sono nato a Vilnius. Quando ero giovane, io e la mia famiglia ci siamo trasferiti nella regione della Siberia, in cerca di lavoro. Dopo aver terminato gli studi, ho cominciato a lavorare in un cantiere edile, come mio padre prima di me, e lì ho conosciuto il fratello di Natalia, che era mio collega. È stato lui a farci conoscere.» Tengo la forchetta fra le punte dei denti, il sapore amaro dell’argento è simile a quello dei ricordi. Socchiudo le palpebre, e un dolore autentico mi stringe il cuore. Il disagio sul mio volto è reale. «Poi purtroppo c’è stato un incidente. Un crollo di una struttura in uno dei reparti. E il fratello di Natalia ha perso la vita assieme ad altri operai.»

Un pesante e freddo silenzio di cordoglio avvolge la tavolata. La luce delle candele rabbuia, e anche i rumori attorno a noi si dissolvono, isolandoci nel dolore trasmesso dalle mie parole.

Sonja china lo sguardo sulla sua zuppa, Franz tiene il tovagliolo accostato alle labbra e tossicchia. Linda stende un braccio attraverso il tavolo, fra il cesto di pane e la brocca dell’acqua, e raggiunge la mano di Natalia. «Cara.» Le strofina una carezza sul dorso, distende un sorriso dolce e comprensivo, la guarda con occhi commossi.

Natalia annuisce, non si sottrae al suo tocco. «È successo tanto tempo fa.»

Aspetto che un cameriere passi dietro la mia schiena, reggendo un vassoio con dei piatti di patate al burro che va a deporre sul tavolo affianco. Mi schiarisco la voce, spezzo questa grigia bolla di tristezza che ci ha avvolti. «Io e Natalia ci eravamo appena sposati, e dopo per noi si è rivelato difficile continuare a vivere in Unione Sovietica. Troppi ricordi. Così abbiamo deciso di trasferirci qui in Germania Est e di costruirci una nuova vita.» Mi stringo nelle spalle, rigiro la forchetta nel purè. «So che può sembrare un gesto di codardia, ma...»

«E perché mai?» interviene Franz. «Un dolore del genere non è cosa da poco. Avete fatto bene, davvero. Probabilmente anche io avrei reagito così.»

Heinz annuisce. «E qui c’è sempre bisogno di qualche mano in più, dopotutto. Poi i sovietici...» Raccoglie la forchetta e infilza l’ultima fetta di Blutwurst che gli è avanzata nel piatto. Il suo sguardo assume un’espressione assorta e compiaciuta. «Tutti grandi lavoratori, gente che si dà da fare, che sa rimboccarsi le maniche e sporcarsi le mani senza la minima lamentela. È rincuorante sapere che riponete così tanta fiducia anche verso noi tedeschi.»

Porto alle labbra il mio bicchiere d’acqua, ma arresto la mano, senza bere. Un altro brivido di allarme si arrampica lungo il collo, pizzica sul lato sinistro, all’altezza del tatuaggio, e guizza fra i miei occhi ristretti. Tengo la voce bassa, «Siamo noi che dobbiamo ringraziarvi per averci accolti», e mi astengo dall’aggiungere altro. Prendo un piccolo sorso.

Linda sospira, ancora sognante, e rivolge lo sguardo al soffitto, verso le scintille cristalline provenienti dal lampadario. «Già dieci anni sposati, caspita.»

«Ma allora...» Sonja picchietta il tovagliolo all’angolo della bocca, per non togliersi il rossetto. «Come mai non avete ancora figli?»

Mi strozzo con il sorso d’acqua. Natalia affonda il coltello nella carne con un gesto più secco e violento, e la lama stride sul piatto.

Allontano il bicchiere, tossisco, batto due volte il pugno sullo sterno per guadagnare fiato, e le guance vanno a fuoco, il bruciore risale fino alle orecchie. «E-ecco, noi, veramente...» E ora cosa mi dovrei inventare? Non sarebbe credibile dire che io e Natalia non possiamo permetterceli: abbiamo entrambi un ottimo lavoro, lei potrebbe tornare alla fabbrica poco dopo aver partorito, e qua in Germania Est non dovremmo nemmeno pagare l’asilo nido, ci spetterebbe di diritto, e poi riceveremmo sussidi economici, quindi...

«Mio marito è sterile.»

Mi strozzo nuovamente con un ansito e mi giro di scatto verso di lei. «N-Natalia...» Il rossore sbiadisce, mi sento sbiancare.

Natalia non si scompone, posa la forchetta e il coltello, raccoglie il tovagliolo e ne picchietta una punta all’angolo delle labbra, come ha fatto prima Sonja per non sbavare il rossetto. Mantiene quell’espressione calma e solenne, illuminata dagli orecchini di perle e dai capelli biondi che ricadono dietro le spalle, lungo la mantella. È straordinario come lei sia sempre stata in grado di plasmare il suo carattere per adattarsi in qualsiasi ambiente sociale, per ammaliare chiunque e conquistare la fiducia di chi le vive affianco. L’ho sempre ammirata per questo. «Per un certo periodo ci abbiamo effettivamente provato, senza successo» continua a raccontare. «Dopo qualche tempo abbiamo cominciato a capire che c’era qualcosa che non andava nonostante i tentativi, così abbiamo fatto entrambi delle analisi e...» Sospira, tiene la punta del tovagliolo davanti alle labbra e inarca le sopracciglia in una soffusa espressione di dispiacere. Lascia intendere il resto.

La vampata d’imbarazzo si ritira, il cuore rallenta, e le guance smettono di bruciare. Quell’idea stuzzica anche me, fa sbocciare un sentimento di gratitudine e ammirazione nei confronti di Natalia.

Effettivamente, quella della sterilità potrebbe essere una buona scusa, ma se qualcuno di loro fosse davvero un collaboratore della Stasi, allora gli basterebbe poco per verificare se mentiamo. Basterebbe controllare le nostre analisi cliniche, le cartelle dell’ospedale, e scoprirebbe subito che non abbiamo mai effettuato esami simili. Tuttavia, se la Stasi ci tenesse d’occhio, se gli agenti avessero davvero installato microspie in casa nostra, allora sarebbero già a conoscenza del fatto che io e Natalia non abbiamo mai avuto rapporti da quando ci siamo trasferiti a Berlino Est, quindi la scusa del “ci abbiamo provato” non reggerebbe comunque. Piuttosto insolito per una coppia sposata e ancora giovane come noi.

Scuoto il capo, sospiro, e stringo il pugno sul tavolo. Strofino la fede sull’anulare sinistro per sciogliere questo formicolio di tensione.

In ogni caso, anche se fosse così, questo non servirebbe a incriminarci di nulla. Il fatto che stiamo mentendo sul non avere figli e sul non avere rapporti non influisce sulla nostra immagine davanti al regime socialista, non potrebbero accusarci di nulla. Poi io e Natalia non parliamo mai di Londra, della nostra vecchia vita all’Ovest, per evitare di essere intercettati e di essere incastrati. Se sentiamo il bisogno di discuterne lo facciamo sempre in inglese, a letto, a voce bassissima, per paura delle microspie. Natalia ha persino mantenuto il cognome “Arlovskaya”, quello che Ivan stesso le aveva fatto prendere a Londra per non coinvolgerla in qualche pericolo e per tenerla più lontana possibile dal Caso Braginski che ormai è chiuso da anni, anche per quanto riguarda l’Ovest. Non abbiamo nulla da temere. Io e Natalia siamo al sicuro. Nessuno ha intralciato le nostre vite per dieci anni, e di sicuro non cominceranno a farlo ora, non dopo tutti i nostri sforzi per proteggerci a vicenda.

Heinz sospira. «Uhm.» Stringe le braccia al petto, rilassa le spalle sullo schienale, e corruga un’espressione amareggiata. «È un vero peccato, non c’è che dire.»

Natalia posa il tovagliolo e sistema la mantella che ricade sulle braccia nude. «In realtà non ci è mai mancata la presenza di un figlio. Siamo entrambi molto assorbiti dal nostro lavoro, e abbiamo deciso di concentrarci su tutto il resto. Sul...» Mi sfiora con un’occhiata che è come la carezza di un’unghia sulla guancia. Batte le ciglia, affila il sorriso in una furba espressione ammaliatrice che riconosco solo io. «Sul nostro rapporto.» Posa la mano sulla mia e distende le dita. Il metallo della sua fede mi tocca, mi trasmette una scossetta, quasi a sottolineare il legame fittizio che ci lega e dal quale non possiamo separarci se vogliamo continuare a vivere nella tranquillità che abbiamo costruito dopo tanta fatica e tanti sacrifici. Natalia sorride. «E per noi è tutto ciò che conta.» Stringe le dita fra le mie.

Una fredda botta di colpevolezza mi schiaccia il petto. La mia mano trema sotto la sua, il tocco metallico della fede è come la punta di uno spillo sulla pelle.

Non è la prima volta che mi sento in debito nei confronti di Natalia. Se non fosse stato per me, se non fosse stato per il fatto che io ho deciso di seguirla a Berlino e di sposarla per coprirci le spalle a vicenda, ora lei avrebbe davvero potuto condurre una vita diversa. Avrebbe potuto trovare un marito che ama, avrebbe avuto dei figli, si sarebbe costruita una famiglia, invece che rimanere legata a me, a un’ombra di quel passato che lei sta cercando di dimenticare. L’ho reclusa in una vita di finzione. Continuo a essere quel piccolo intralcio che le impedisce di girare pagina definitivamente.

Franz china una spalla verso di me, si copre una guancia per non farsi sentire da Linda, e mi bisbiglia all’orecchio. «Ti sei risparmiato una rogna, lasciatelo dire.»

Sospiro, ignoro quel commento inappropriato e indesiderato, e le parole di Franz mi scivolano addosso come un alito di vento. Stringo il pugno sotto la mano di Natalia e mi lascio abbracciare da una tiepida ventata di malinconia che apre un senso di vuoto nel petto, una sensazione di mancanza che tocca entrambi e che non ci ha mai abbandonati, nonostante i dieci anni trascorsi dalla nostra fuga dalla Siberia e dalla morte di Ivan.

 

.

 

Sonja scende i gradini del ristorante accompagnata dallo schiocco ritmico dei tacchi sulla pietra, attraversa la luce dei lampioni, rabbrividisce sotto l’improvvisa vampata di aria fredda e umida, e si getta la pelliccia attorno alle spalle. «Che freddo fa qua fuori.» Infila le maniche e le arrotola attorno ai polsi, stando attenta che non rimangano impigliate nei bracciali.

Linda le trotterella dietro, compie anche lei le scale e rimbalza sul marciapiede, davanti alle uniche due auto parcheggiate sotto l’insegna del ristorante. «Eppure le serate dovrebbero cominciare già a scaldarsi.» Indossa il cappellino senza scompigliare i capelli castani che le ricadono sulle spalle, abbottona il cappotto scamosciato, e sfila i guanti dalla tasca. Indossa il primo. «Quest’anno la primavera non vuole proprio farsi sentire.»

Sonja sbuffa, infila anche lei una mano nella tasca della pelliccia ed estrae l’accendino e un pacchetto di sigarette. «Sarà colpa di quelle porcherie radioattive venute su dalla centrale in Ucraina che tappano i raggi del sole o che ne so.» Se ne accende una, le labbra spalmate di rossetto sporcano il filtro di rosso, e soffia una prima nuvoletta di fumo che si disperde sotto il fascio bianco del lampione. L’odore di tabacco sostituisce il dolce profumo al gelsomino che si è spruzzata al collo e che le ha sempre galleggiato attorno da quando ci siamo seduti a tavola.

Anche Heinz si sistema la giacca. Mi passa accanto scoccandomi un’occhiata interrogativa. «Sicuro di non voler venire a teatro assieme a noi? È presto per concludere la serata, no?»

Schivo il suo sguardo, rimbocco la sciarpa attorno al collo e ne sfioro la stoffa con le labbra. «Vi ringrazio, ma preferisco tornare a casa a riposarmi. Domani devo lavorare presto, e non vorrei rischiare di addormentarmi sulla scrivania.»

Franz ci raggiunge, mi passa di fianco, e si ferma a stringermi la spalla, a darmi una pacca sulla scapola. «È stato un vero piacere conoscerti, compagno.» Sorride. Gli occhi azzurri sfumano in una tinta più chiara sotto l’abbaglio del lampione rispetto alle luci tenui del ristorante. «Grazie per la splendida serata.»

Annuisco, ricambio anch’io con un sorriso sincero. «Grazie a voi per averci invitati.»

Linda batte le mani inguantate, la sua voce squilla d’entusiasmo. «Dovremmo decisamente rifarlo più spesso, almeno una volta al mese!»

«Certo» borbotta Franz, raggiungendola. «Tanto poi sono io a pagare la cena.»

«Oh, ma cosa dici?»

Natalia mi viene incontro, si sfila la borsetta dalla spalla e me la spinge fra le mani. «Reggimi questa un attimo.» La apre e ne estrae lo specchietto e il rossetto, concentra lo sguardo sul suo riflesso e passa un velo di trucco sulle labbra. «Non aspettarmi alzato, forse torno più tardi del solito.»

«Non ti preoccupare.»

Fermi sul ciglio della strada, lontani da noi, Franz, Heinz, Sonja e Linda chiacchierano fra loro, aspettano che Natalia li raggiunga. Linda ride ancora, Sonja risucchia altre nuvolette di fumo dalla sigaretta che brilla sulla punta, e Franz si sporge a guardare verso l’altro lato della strada deserta, senza nemmeno un’auto a percorrerla.

Sulle mie guance brucia di nuovo il rossore d’imbarazzo che mi ha aggredito prima a tavola davanti alle parole di Natalia. «Ehm.» Tossicchio, strofino una mano sulla nuca, tengo lo sguardo basso. «Senti, per quello che hai detto prima sul non avere figli...»

Natalia si sfila il rossetto dalle labbra e storce un sopracciglio, la sua occhiataccia mi attraversa. «Che c’è?» Richiude il rossetto con uno schiocco del tappo. «Non dirmi che te la sei presa. Ho detto “sterile”, non “impotente”. Non fare la lagna.»

Mi abbandono a un sospiro sconsolato. «Natalia...»

Lei mi ignora. Rinfila tutto nella borsetta. «Quando torni a casa sta’ attento a quello stronzo del piano di sotto.» La richiude e torna a infilarsela sotto la spalla, pettina i capelli all’indietro e sistema il nastro di raso attorno al tatuaggio. «L’altra settimana ha piantato un gran casino perché dice che le tubature dell’appartamento perdono e gli hanno aperto una macchia sul soffitto della cucina, quando non è vero un cazzo perché l’idraulico è venuto il mese scorso ed era tutto a posto. Se lo vedi, digli che la prossima volta che mi rompe ancora le palle le tubature gliele infilo su per il –»

«Ehm, ci...» La blocco prima che possa degenerare. «Ci penso io a rassicurarlo, non ti preoccupare.» Le rivolgo un’occhiata più apprensiva. «Tu però fai attenzione quando torni a casa.»

Natalia fa roteare lo sguardo, si rimbocca il cappotto, sistema lo scialle nero che ha passato attorno al collo, e arriccia una piccola smorfia per nascondere il sorrisetto sarcastico acceso dal rossetto appena spalmato. «E tu vedi di non cacciarti in qualche guaio.»

Le sorrido, sventolo la mano. «Divertiti a teatro.»

Linda trotterella accanto a Natalia, la prende a braccetto, si spinge al fianco di Sonja, e si gira a sventolare la mano inguantata verso di me. «Buonanotte, compagno.» Ridacchia. Le guance ancora rosse come quando scolava un calice di vino dietro l’altro.

Sonja le dà una spallata, nasconde un sorriso prendendo un’altra boccata di fumo dalla sigaretta, e cammina lasciandosi dietro una scia azzurrina al profumo di tabacco. I tacchi delle sue scarpe calpestano piccole chiazze di cenere piovute dalla punta rossa e traballante, una lucciola nella notte.

Tutti e cinque svoltano la strada, imboccano la via verso il teatro seguiti dal loro chiacchierare, e svaniscono assieme all’eco dei loro passi.

Traggo un sospiro profondo, distendo la pressione accumulata sulle spalle, massaggio il collo sotto la sciarpa, e strofino due unghiate attraverso il tatuaggio, dove la pelle brucia sempre quando si avvicina il maltempo o dopo un periodo piovoso. Sta diventando sempre più difficile passare le mie giornate a ingannare chiunque, a mentire sul mio passato, a recitare la parte del bravo compagno socialista, e a raccontare una bugia dietro l’altra per salvarmi la pelle e per tenere Natalia al sicuro. Prima sono stati tutti così affabili nei miei riguardi, ma chissà cosa penserebbero di me se sapessero che sono vissuto in Occidente, che ho un passato da tossico, e che quello fra me e Natalia è solo un matrimonio di copertura. Non mi rivolgerebbero più quegli sguardi rispettosi e ammirati, quei sorrisi gentili, e quelle parole comprensive. Ma sono contento di avere la possibilità di trascorrere queste serate tranquille che mi fanno dimenticare il mio passato e che mi danno l’occasione di sentirmi qualcuno di diverso, anche se solo per qualche ora.

Una bava di vento mi attraversa, scuote gli alberi piantati sul ciglio della strada, i rami che stanno mettendo le foglie ogni giorno più rigogliose. Una fresca aria di primavera s’innalza attraverso la strada ancora umida della pioggia di ieri, mi soffia addosso il profumo del parco qua vicino, il dolce aroma dei germogli e dei boccioli, dell’erba bagnata, e depone su di me una tristezza infinita, la stessa nostalgia che mi assale ogni primavera, quando passeggio attraverso i giardini in fiore, sotto i rami che mi sfiorano la testa, abbagliato dai raggi del sole appena risorto.

La malinconia mi schiaccia, trascina via le risate e i sorrisi che ci siamo scambiati durante la cena, e mi lascia addosso un’impronta fredda, il ricordo di Feliks evocato dal profumo dolce della primavera ma calpestato da quello di Ivan che è emerso tramite le mie parole e quelle di Natalia, tramite quelle false memorie con cui inganniamo sia gli altri che noi stessi.

Non voglio tornare subito a casa, a rintanarmi nel silenzio del nostro appartamento, e trascorrere la notte in balia di queste voci che l’inizio della primavera rende sempre più forti e dolorose.

Rimbocco la giacca, sistemo i lembi della sciarpa attorno alle spalle, e mi dirigo nella direzione opposta presa da Natalia e gli altri, distante anche dalla via verso casa. M’incammino verso l’Alexanderplatz.

 

.

 

Spingo la porta del bar sull’Alexanderplatz. «Buonasera.» L’interno del locale mi accoglie con un’atmosfera più calda rispetto all’aria esterna, con un profumo di fondi di caffè, di cenere di sigaretta, di schiuma di birra, di vecchie bottiglie di liquori, e di detersivo per piatti.

Richiudo la porta alle mie spalle, sbottono la giacca e allento la sciarpa tenendo però coperto il tatuaggio. Il tepore spande un piacevole formicolio attraverso le guance infreddolite e mi solletica la punta del naso. Attraverso l’entrata superando un uomo che siede da solo in un tavolo all’angolo, leggendo il Neues Deutschland, affianco allo scaffale con i quotidiani. Gli altri tavoli sono tutti vuoti, non c’è nessuno in giro a quest’ora. L’unica voce che risuona nel bar è quella del televisore acceso in un angolo del soffitto, al di là del bancone. Danno il notiziario.

Raggiungo il banco del bar e mi arrampico su uno sgabello, davanti alla vaschetta delle bustine di zucchero e quella delle salviette.

Il barman richiude il lavandino, raccoglie un canovaccio, si asciuga le mani e mi si avvicina con il suo profumo di detersivo. «Cosa le porto?» Strofina il panno fra le dita.

Mi sistemo sullo sgabello traballante e intreccio le mani sul bancone. «Solo una Club Cola, per favore.»

«Subito.» Il barman si china a raccogliere una bottiglietta e torna accanto al lavello, apre un cassetto e raccoglie un cavatappi dallo scomparto delle posate.

Rumore di carta che fruscia alle mie spalle, di una pagina di giornale che viene sfogliata.

Volto lo sguardo.

L’uomo vestito in impermeabile che legge il Neues Deutschland mi squadra con occhi scuri da dietro le pagine, la fronte corrugata e un’ombra a celare quell’espressione dura e fredda. Solleva il giornale davanti a sé, gli dà una scrollata, e sfoglia un’altra pagina. Sul suo tavolo, accanto al gomito, giace un bicchiere sporco di un liquido bruno, forse un liquore, che lui ha già prosciugato.

Mi torno a voltare, dandogli la schiena, stringo le mani intrecciate sul bancone e spingo le gambe a trascinare lo sgabello di un saltello lontano dal suo sguardo. Mi rimbocco la sciarpa e premo la stoffa sul lato sinistro, tappo il tatuaggio in un gesto inconscio, anche se lui non può vederlo. Quelle occhiate mi rimangono addosso come una serie di impronte di ghiaccio, bruciano sulla pelle e lasciano scivolare lungo la schiena una sensazione viscida e appiccicosa, dandomi i brividi. Non posso permettermi di abbassare la guardia, chiunque potrebbe essere una spia. Solo due settimane fa un mio collega è sparito. Nessuno ha fatto domande, nessuno si sta chiedendo che fine abbia fatto e quando tornerà a comparire, semplicemente sono cose che succedono e noi non possiamo fare altro che assecondarle per non finirci in mezzo. Forse stanno indagando anche su di me. Forse quest’uomo sapeva già che io non sarei andato a teatro assieme agli altri, questa sera. Magari deve averglielo detto proprio uno di quelli che erano a cena con me e Natalia, deve essere stato spedito da loro per seguirmi. Oppure sono io che vedo minacce dove non ce ne sono, ma è questo paese che ti spinge a dubitare del tuo migliore amico, di un tuo fratello, della tua stessa moglie. Devo essere cauto come lo sono stato fino a ora.

Il barman cava il tappo di alluminio dalla bottiglietta di Club Cola – fsssh! –, dispone un bicchiere davanti a me, e versa la bibita schiumante. «A lei.»

Riprendo a respirare, sfilo la mano dal collo e annuisco, ringrazio con un tiepido sorriso. «Grazie.» Prendo un primo dolce sorso di cola e rivolgo un’ultima occhiata di striscio all’uomo col giornale che siede in fondo al bar. Lui sfoglia un’altra pagina e legge a fronte bassa, senza badare a me. Sospiro, sollevato, e bevo ancora, lasciando che il sapore fresco e frizzante della bibita stenda i nervi.

Il barman si rimette a lavare le stoviglie, ma il suono dell’acqua che scorre non è così forte da coprire le parole notiziario provenienti dal televisore incastonato all’angolo del soffitto. La voce del presentatore continua indisturbata.

«... e da questo grafico abbiamo un chiaro panorama dell’attuale situazione in Europa. Anche a distanza di un mese, la nube tossica continua a spostarsi velocemente verso nord, diretta verso le regioni scandinave, e per ora interessa maggiormente l’area della Finlandia.»

La parola “Finlandia” mi solletica l’orecchio. Sfilo il bordo del bicchiere dalle labbra e sollevo lo sguardo verso il televisore.

Una mappa dell’Europa riempie lo schermo, contrassegnata in basso a destra dall’insegna della Aktuelle Kamera. Una soffusa chiazza verde nasce poco sopra Kiev, accanto all’insegna “URSS”, si espande verso nord, ingloba Mosca, Leningrado, fino a raggiungere Helsinki e dilatarsi su tutta la Scandinavia, Norvegia compresa.

La voce fuoricampo continua a dettare il servizio.

«Il presidente Gorbačëv ha tenuto un nuovo discorso alla stampa, mettendo chiarezza sull’accaduto e sulla reale entità dei danni provocati dalla fusione del nocciolo nel reattore della centrale nucleare.» La mappa scompare, sostituita da vecchie riprese di Gorbačëv che parla in conferenza stampa. La bocca del presidente si muove a vuoto, l’audio manca, si sente solo la voce del presentatore del notiziario. «E conferma il fatto che saranno presi doverosi provvedimenti nei confronti della popolazione che sta già venendo evacuata nelle zone più a rischio di contaminazione.»

Le immagini cambiano ancora: riprese di supermercati svuotati e di persone che camminano fra gli scaffali con i cestini della spesa.

«Il pericolo tuttavia è ancora presente in gran parte dell’Europa Est, e tutti sono chiamati a prendere le dovute precauzioni, a partire dall’alimentazione. Non è consigliabile consumare latte confezionato dopo l’incidente, e nemmeno le uova sono un alimento sicuro. Se pensate di possedere degli alimenti a rischio, non consumateli, non conservateli e non gettateli nella spazzatura, ma sotterrateli. Assicuratevi di fare scorta di cibi non deperibili. Non bevete assolutamente acqua piovana e cercate di non venirne nemmeno in contatto, in quanto la nube tossica non si è ancora completamente dissolta dall’atmosfera.»

La mappa che hanno mostrato prima, e che tante altre volte ho visto sia in televisione che sui giornali nelle ultime settimane, torna a lampeggiare nella mia mente assieme alle parole del presentatore.

L’incidente è avvenuto in Unione Sovietica. Forse Katyusha potrebbe essere in pericolo, potrebbe essersi trasferita in una zona più sicura o potrebbero aver evacuato anche il suo paese. E la nube si sta spostando sempre più a nord, verso la Finlandia.

Le parole che Eduard mi ha rivolto dieci anni fa si sovrappongono a quelle del presentatore, suonano come un eco lontano. “C’è un mio vecchio amico che può nascondermi in Finlandia. Lui ora vive a Copenhagen, ed è meglio così, perché non voglio metterlo in pericolo, ma può comunque aiutarmi. Ha una vecchia casa proprio a confine con l’Unione Sovietica, poco più su di Leningrado, dove di solito va a trascorrere solo le vacanze. Io e Raivis andremo a stare là per un po’.”

Stringo le mani sul bicchiere, e le unghie stridono sullo strato di condensa formato sul vetro dalla bibita fredda. Tremori di timore mi scuotono le braccia, un nodo di frustrazione mi pesa sul cuore. Non posso rischiare di contattare Eduard, sarebbe troppo pericoloso sia per lui che per me, ma il fatto di non sapere se lui e Raivis siano al sicuro mi lascia comunque un pastoso senso di amaro in bocca. Spero solo che non gli sia accaduto niente di brutto.

«E ora le notizie degli ultimi giorni.» L’immagine salta ancora. Sullo schermo compare lo studio televisivo, il presentatore seduto al bancone con un paio di fogli fra le mani. L’uomo solleva lo sguardo verso la telecamera, continua con lo stesso tono di voce. «Giungono altre ottime notizie riguardo il primo modulo della stazione spaziale Mir, in orbita dallo scorso febbraio.» Compare la fotografia della stazione spaziale in orbita e l’immagine della Terra in sottofondo. «Gli esperti stimano che entro il prossimo anno l’assemblaggio modulare potrà accogliere anche il progetto Sojuz, con la prima spedizione che prevederà un equipaggio di cosmonauti a bordo del veicolo spaziale. Tre cosmonauti infatti sosteranno nella stazione per incrementare le ricerche scientifiche volte a un’esplorazione sempre più ampia del nostro universo.» Un’altra fotografia – tre cosmonauti vestiti in uniformi spaziali che sventolano la mano, galleggiando in un labirinto di tubi, in un ambiente che sembra fatto di carta stagnola. «Un traguardo importantissimo e motivo di orgoglio per tutta l’Unione Sovietica, e un nuovo faro di speranza per la corsa al cosmo che continua sempre rapida e agguerrita...» Passa un’altra immagine. Un’esplosione a forma di razzo che schizza lapilli incandescenti su un cielo azzurro terso. «Anche dopo l’incidente di gennaio avvenuto negli Stati Uniti, quando lo Space Shuttle Challenger è esploso pochi momenti dopo la partenza dalla stazione di Kennedy Space Center.»

L’immagine sparisce, torna il presentatore seduto al bancone con i fogli fra le mani e lo sguardo rivolto alla telecamera.

«E ora torniamo in Germania. Non cessano i disagi a Berlino Ovest, dove la settimana scorsa si è verificato un grave attacco terroristico in una discoteca della città.»

Lo sostituiscono riprese di Berlino Ovest. Ragazzi che corrono per le strade celate dal buio della notte, alcuni che lanciano bottiglie infiammate, nascosti da bandane strette sul viso, e altri che fuggono davanti alle forze dell’ordine.

«Il clima della Germania Federale non è mai stato così pesante. Il numero dei crimini è in aumento, il tenore di vita è problematico, e l’ordine è spesso fuori controllo, con conseguenze disastrose che si riversano su tutti gli abitanti, soprattutto verso le generazioni più giovani...» Immagini di ragazzi portati via dai furgoni della polizia, di gambe che attraversano i bagni della stazione, e di un braccio disteso su un pavimento piastrellato, inerme affianco a una siringa svuotata. «Che si ritrovano a crescere in un ambiente ingestibile e caotico, ben diverso dall’ordine e dalla sicurezza che invece regnano nella Repubblica Democratica.»

Un’ondata di sudori freddi mi aggredisce. Un groppo di nausea stringe alla bocca dello stomaco, il sapore della Club Cola rimonta e brucia attraverso la gola, acido come una spremuta di limone. Le braccia pizzicano, la sensazione degli aghi nelle vene torna a conficcarsi nella carne, il tatuaggio prude, e attorno al collo si arrotola il dolore del filo spinato, di nuovo stretto e soffocante come un cappio.

Distolgo lo sguardo dal televisore, da quelle immagini così reali e vicine che mi colpiscono come tanti schiaffi sulle guance, come se ritraessero me stesso, come se ci fossi io al posto di quei ragazzi, come se appartenessi ancora al loro mondo.

Allento la sciarpa, infilo la mano sotto la stoffa e gratto il tatuaggio fino a lasciare profondi solchi rossi attraverso l’orologio. Erano anni che non sentivo il bisogno di prenderlo a unghiate in questa maniera, assalito dall’urgenza di strapparmelo dalla pelle. Ma va tutto bene.

Guadagno lenti e profondi respiri che rallentano il battito del cuore.

Io ormai sono salvo, sono fuggito dall’Inferno, non corro più alcun rischio di morire in quella maniera, non appartengo più a quella realtà che ha rischiato di uccidermi. Va tutto bene.

La porta del bar si apre, entra una zaffata d’aria fredda, e si materializzano tre figure che varcano la soglia accompagnate da voci maschili.

«Sì, è già tornata al lavoro la settimana scorsa.» Il primo uomo strofina le scarpe sullo zerbino d’ingresso. «Sarebbe stato inutile aspettare più a lungo, poi ha recuperato in fretta.»

Uno dei due che lo accompagna fa un cenno al barman dietro il bancone. «Salve.»

Seguito anche dall’altro che si sbottona il bavero della giacca. «Sera.»

Il barman rimette a posto una fila di boccali appena lavati e accoglie tutti e tre con un cenno del capo. «Buonasera.»

I miei occhi cadono sulle giacche dei tre uomini che vestono alla stessa maniera. Uniformi verdi, musi appuntiti da mastini in caccia, fasce del Partito al braccio. Polizia del Popolo.

Un guizzo di paura mi punge la nuca. Torno a stringermi nelle spalle, a chiudere le ginocchia sotto il bancone, e a spingere lo sgabello lontano dai tre uomini. Tengo comunque lo sguardo girato da sopra la spalla, non li perdo di vista, e tendo l’orecchio sui loro discorsi.

Tutti e tre si avvicinano al bancone, senza sedersi, e uno di loro appoggia un gomito sul ripiano, passa la mano fra i capelli brizzolati. «E pensare che è stata dimessa dall’ospedale solo due settimane fa. Tua moglie è un carro armato.»

L’altro gli risponde con un’alzata di spalle. «È già la terza gravidanza, poi la piccola è già stata ammessa al nido, e Bruno è così bravo che ci aiuta sempre quando in casa c’è bisogno.»

«Non è già nei Pionieri, lui?»

«Dallo scorso anno, sì.»

«Come il mio.» Il terzo di loro sistema la vaschetta delle bustine di zucchero che ha urtato quando ha incrociato le braccia sul banco, fa tamburellare le dita sul legno e ridacchia. «Fosse per lui si cucirebbe la divisa addosso.»

«Sono più in gamba di noi, cosa vuoi farci.»

Il barman si approccia ai tre dopo aver finito di sistemare le posate asciutte, si getta il panno sulla spalla. «Cosa vi porto?»

L’uomo con il gomito poggiato sul ripiano solleva due dita. «Due vodka lisce e un Eismint, grazie.»

Uno degli altri due strabuzza gli occhi, lo guarda con stupore. «Eismint a quest’ora?»

L’altro risponde con un sospiro sconfortato, alza gli occhi al soffitto. «Devo consolarmi.» Infila due dita sotto il bavero della giacca e allenta la pressione attorno alla gola. «La prossima settimana passa di qua mia suocera.»

«Ooh.» Il terzo di loro si gira ad appoggiare la schiena al bancone, il suo sguardo s’illumina. «Quella delle banane!»

«Si tenga le banane.» L’uomo stringe il pugno sul banco, dà un’altra strofinata ai capelli, grattandosi la nuca, e picchietta un piede a terra. «Che me ne faccio delle banane? Crede davvero che qua si viva male senza le banane?» Aggrotta la fronte. «Tanto non mi sono mai piaciute.»

«Ma tre anni fa non ti ha mandato anche la cioccolata e i dolci italiani? Quelli non era male, no?»

«Fossero quelli i problemi...»

Il barman spacca tre cubetti di ghiaccio dalla vaschetta estratta dal congelatore e li fa cadere con un trillo dentro il bicchiere vuoto. Svita la bottiglia di Eismint, rovescia lo sciroppo verde sul ghiaccio, spandendo un dolce e piacevole profumo di menta, e fa scivolare il bicchiere davanti all’uomo.

Lui riacquista un mezzo sorriso, nonostante la ruga d’irritazione che ancora gli stropiccia la fronte. «Grazie, compagno.» Butta giù un sorso.

Il barman dispone altri due bicchieri davanti agli uomini. Pesca la bottiglia della vodka dallo scomparto degli alcolici e stappa anche quella.

L’odore esplode, rapido e violento come un colpo di proiettile alla tempia. Un bruciore ghiacciato mi penetra le narici, l’ondata di gelo risale la testa, discende la gola e mi soffoca, facendomi ingoiare il fiato. Sgrano gli occhi e incasso quella botta di dolore che mi strappa il respiro dal petto. Uno spazio nero inghiotte il bar, mi trascina in un ambiente buio e silenzioso. Le voci degli uomini e del televisore si fanno soffuse, si trasformano in un assordante rumore bianco a cui si sovrappone solo il martellare del mio cuore gonfio di panico.

Mi chiudo nelle spalle, serro le cosce sotto il bancone, e schiaccio la mano attorno al bicchiere, facendo stridere le unghie sul vetro bagnato di condensa. Il tatuaggio ricomincia a bruciare, doloroso come una corona di aghi conficcati nella pelle.

Abbasso la sciarpa e mi gratto di nuovo, fino a tastare la sensazione umida e calda di sottili rivoletti di sangue che scorrono lungo la gola. Sollevo una manica della giacca e graffio anche il braccio, sotto l’incavo del gomito, scortico via quella sensazione come se si trattasse di strapparmi di dosso una maglia bagnata di acqua gelida.

Porto la mano davanti alla bocca e al naso, trattengo il respiro per non inalare di nuovo l’odore della vodka, strizzo gli occhi per isolarmi dal buio che ha inghiottito le pareti del bar. Violenti tremori mi scuotono fino alle ossa.

Assieme al profumo di vodka riaffiora il sapore dei suoi baci, la consistenza dura e fredda della sua bocca premuta sulla mia, il formicolio del suo respiro fra le labbra e sulla gola, la pressione delle sue mani sul mio corpo, le carezze fra i capelli, il tocco dietro l’orecchio, lungo il collo, attraverso la schiena inarcata, e sulle mie gambe tremanti allacciate a lui, in quell’abbraccio soffocante.

Scuoto il capo, strofino le braccia e le spalle da sopra la giacca, spremo via le scosse di gelo e disagio che mi fanno accapponare la pelle. Il battito accelera, il respiro sibila fra le labbra socchiuse, lacrime di sudore gelato rigano la fronte e bruciano fra le ciglia strizzate, la testa trottola facendo sorgere uno sciame di vertigini che mi dà l’impressione di essere sospeso nel vuoto.

Non è qui. Non è qui, Toris, non è qui perché è morto. Ivan è morto dieci anni fa, non fa più parte della tua vita, e devi farlo uscire anche dalla tua testa.

«Sono morto perché tu non significavi abbastanza per me, altrimenti sarei scappato con te in Siberia, invece che rimanere a Londra e rischiare la vita per una causa ormai persa.»

Quella voce mi ghiaccia il sangue. Un anello di nausea stringe attorno alla testa, stride nelle orecchie, sorgendo in un’ondata di vertigini che mi dà l’impressione di finire inghiottito nel pavimento.

Mi volto, vado incontro alla voce che mi ha raggiunto come una pugnalata al cuore.

Ivan siede accanto a me, le braccia conserte sul bancone, un bicchiere di vodka fra le dita, come se il barman l’avesse versata anche a lui, e un’aura di solennità a circondarlo, a rendere l’ambiente più tetro. Volta lo sguardo su di me. La guancia appoggiata al dorso della mano, la sciarpa ad avvolgergli il collo e a ricadergli sulle spalle, gli occhi fini e glaciali identici a quelli che ancora regnano nei miei ricordi. «Non sei riuscito a salvarmi, vero, Toris?» Mi sorride. Un sorriso dolce e crudele allo stesso tempo. «E non sei riuscito a salvare nemmeno te stesso. Non ti sei mai liberato della mia ombra, anche dopo tutti questi anni trascorsi a isolarti e a punire te stesso.»

Tengo gli occhi sbarrati sulla sua immagine. Lo sguardo vacilla ma non si sposta, quasi sperando di vederlo scomparire. «Non...» Deglutisco. «Non è vero.» Non è vero e tu non sei reale, sei morto, non puoi essere qui, me lo sto solo immaginando.

Ivan sfila la mano dal bicchiere, tende il braccio verso di me e mi tocca la guancia. Le dita gelide discendono il collo, s’infilano sotto la stoffa della mia sciarpa e indugiano sul tatuaggio dei Siberian Cubs, soffocanti come se avessero impugnato il guinzaglio che ancora mi tiene legato a lui. China le spalle, accosta la bocca al mio orecchio, posa un bacio che brucia come una spalmata di neve. Il suo respiro gelido mi travolge con il profumo rovente di vodka, mi paralizza come una scarica elettrica. Le labbra di Ivan si inarcano in un sorriso. «La mia bambolina.»

Salto all’indietro, scivolo dallo sgabello, batto i piedi a terra, e mi sottraggo a quel tocco di ghiaccio. Il cuore gonfio di terrore ma gli occhi che non riescono a separarsi dallo sguardo di Ivan. Arretro di un passo e sbatto sul bancone, il gomito urta il bicchiere vuoto, e il vetro sbatte contro la vaschetta dei tovaglioli. Il trillo spacca la bolla di buio che mi ha avvolto e isolato, mi riporta alla realtà, fa emergere un’altra voce che risuona fra le pareti del bar.

«Ho chiesto una birra vera, maledizione, non questo piscio sovietico!»

Scatto di nuovo, quel sussulto mi scuote e mi scaraventa fuori dal buio, sbattendomi di nuovo sotto le luci del bar e sotto il riverbero del televisore che si specchia sul bancone.

Rimango a bocca aperta, le labbra secche, la lingua pietrificata, la gola incapace di soffiare anche solo una sillaba.

Questa voce... non è possibile. Ma forse è un’altra allucinazione. Ho ancora le allucinazioni, sono le vertigini di paura che me la fanno immaginare, non può essere reale, non lui, non qui, non dopo tutti questi anni.

«E credevo che almeno qui potessimo permetterci qualcosa di meglio!» La voce continua a sbraitare contro il barman, batte anche sulle mie orecchie, solida e reale, inconfondibile. Anche se è la prima volta che lo sento parlare tedesco, non potrei mai sbagliarmi. È la sua. È una voce più autentica rispetto a quando parlava in inglese, gli appartiene di più, come un grido dell’anima. «O non contrabbandate abbastanza? Che credete che non lo sappia?»

Stringo il pugno ancora schiacciato sul bancone, volto il capo, mi giro verso la sua sagoma, e mi sembra di star andando incontro all’ennesimo fantasma.

Quell’ombra spalanca un braccio verso la porta del bar. «Che poi perché mai?» continua a lamentarsi, a graffiare l’aria con le sue esclamazioni. «Quando mai potremmo permetterci qualcosa di meglio in questo paese del cazzo che non sa nemmeno da che parte girare la faccia?»

Schiudo le labbra che mi sembrano fatte di gesso, senza sapere se troverò fiato. «Gil...» Soffio il suo nome, «Gilbert?», proprio come se stessi evocando uno spirito del passato.

Gilbert raggela, irrigidisce il braccio spalancato verso la porta e pietrifica la bocca in una mezza esclamazione che s’incastra in gola con un gemito. Gira la coda dell’occhio, i nostri sguardi s’incrociano. Sgrana le palpebre, sobbalza, sbatte la schiena sul bancone e si aggrappa con le mani all’orlo, come per non precipitare a terra. Ora sembra lui quello ad aver visto un fantasma. «No.» La sua faccia sbianca come una presa di sale. «T...» Apre e richiude le labbra a vuoto, riguadagna una sorsata di fiato. «Tu? M-ma cos...» Si guarda attorno. «Dove? Quando...» Tentenna, le ginocchia tremano, la mano aggrappata al bancone stringe la presa. Gilbert si dà uno schiaffetto alla guancia. «Non è possibile.» Apre una mano davanti alla bocca, alita contro il palmo, e tira su col naso. «Sono già ubriaco?»

«C-ciao, Gilbert.» La scossa di stupore si ritira, mi lascia addosso un’intensa e inaspettata ondata di nostalgia che rende le guance tiepide e il cuore più dolorante. «Quanto tempo.»

Gilbert rilassa la mano attorno all’orlo del bancone, sbatte le palpebre e torna a guardarmi negli occhi. Le sue labbra si schiudono in un sospiro. «Non ci posso credere.» Si stacca dal banco, urta uno sgabello, e compie un passo verso di me. Mi viene incontro col suo sguardo ancora sconvolto, con il suo viso più asciutto e invecchiato su cui ricadono ciocche di capelli sfoltiti e in disordine, ma con gli stessi intensi occhi rossi di quando era ragazzo a Londra, senza però l’ombra della tossicodipendenza ad annebbiarli. «Sei proprio tu?»

Annuisco.

«E sei ancora vivo?»

Tengo anch’io le labbra socchiuse, incapaci di far scomparire questa espressione spaesata. «Anche tu.»

«M-ma cosa...» Gilbert si guarda ancora attorno, intercetta l’occhiataccia sbieca del barman, quelle acute dei tre uomini della Polizia del Popolo, e quella in ombra dell’uomo che sta leggendo il giornale all’angolo del locale. Ha abbassato le pagine per spiarci. Gilbert si avvicina di un altro passo a me, abbassa il tono. «Cosa ci fai qua?»

Faccio per rispondergli ma mi blocco e mi guardo attorno anch’io, catturato dagli sguardi delle altre cinque persone che occupano il bar, ammutolite da questo nostro incontro. Solo il televisore continua a parlare e a dettare le previsioni del meteo.

Ci sono troppi occhi che guardano, troppe orecchie che ascoltano, non possiamo rimanere qui.

Sarà una lunga notte.

 

.

 

Gilbert impenna la sua bottiglia di birra verso il cielo notturno e alza la voce per terminare la battuta. «E il sole gli risponde: “Baciami il culo, ormai sono a ovest del Muro.”» Riabbassa il braccio, mi punzecchia con una serie di gomitate alla spalla, e gracchia un’altra risata inasprita dall’alcol. «Capita, no? Perché il sole tramonta a ovest. A ovest!»

Alzo gli occhi al cielo, mi scosto di un passo di lato per sottrarmi alle sue gomitate, e scuoto il capo, senza riuscire a forzare nemmeno un piccolo sorriso di accondiscendenza. Sempre meglio delle storielle di Heinz, ma se Gilbert la raccontasse alla persona sbagliata poi non avrebbe più così tanta voglia di ridere.

Gilbert tiene le labbra inarcate in quell’aguzzo ghigno di soddisfazione e sospira, come se si fosse liberato di un peso. «Aah, non hai idea di quanto morissi dalla voglia di raccontarla a qualcuno.» Getta il capo all’indietro e scola altre due sorsate di birra.

Gli cammino affianco tenendomi accostato al marciapiede, nonostante le strade siano deserte e non scorra nemmeno un’auto. Tamburello le unghie sulla bottiglia di Berliner Weisse che pende dalle mie dita e che non ho ancora bevuto. Usciti dal bar ci siamo fermati in un altro locale subito dietro l’Alexanderplatz, e ora stiamo passeggiando verso il parco di Friedrichshain. Non ho preso nemmeno un sorso dalla mia birra, solo l’odore mi fa venire la nausea, mentre Gilbert ha già quasi prosciugato la sua, nonostante non sia la prima della serata. Non riesco ancora credere che sia vivo dopo tutti questi anni. E che sia ancora libero, considerando che ora vive in Germania Est e considerando che la sua bocca larga non sembra essersi acquietata rispetto a quando abitavamo a Londra.

Sospiro. «Da quanto tempo sei qui a Berlino Est?»

Gilbert stacca le labbra dalla bottiglia con uno schiocco. «Sono arrivato solo ieri, in realtà.» Strofina il fianco della mano sulla bocca e fa dondolare la bottiglia fra le dita, continua a camminare spostando lo sguardo fra i palazzi di cemento che si stagliano contro il cielo, oltre i fasci di luce dei lampioni. «Ora vivo a Neubrandenburg, con il mio vecchio. Lo aiuto a portare avanti un negozio di orologi, e immagino voglia lasciarmelo in eredità. Ce la caviamo, suppongo, e il lavoro non manca anche se non ce n’è mai quanto vorremmo. Di quello non posso lamentarmi.» Compie un altro passo e calcia un sasso che va a sbattere contro un bidone della spazzatura. Il sassolino rimbalza e rotola attraverso un parcheggio occupato solo da tre Trabant parcheggiate in fila. Gilbert risucchia un altro sorso di birra. Gli occhi rabbuiano, appaiono più rossi e stanchi, e la voce s’inasprisce. «Tempo fa, mio fratello aveva fatto richiesta di un visto valido un giorno per poter passare qua all’Est, come un turista, diciamo, per poter incontrarmi. Sembrava tutto in regola, e così ieri io e mio nonno siamo arrivati qui a Berlino ad aspettare che lo facessero passare.» Sospira, scuote il capo. «Ma niente.» Colpisce un altro sassolino. «Al Checkpoint gli hanno rifiutato tutto e lo hanno rispedito indietro. Probabilmente sapevano che voleva incontrare me, e devono anche aver saputo della vita che ho fatto prima, dei miei anni di Berlino Ovest, di quelli di Londra e di tutto il resto, e avranno creduto chissà cosa. Che volesse aiutarmi di nuovo a scappare o che stessimo complottando una sorta di fuga di massa, valli a capire.» Le dita stringono attorno alla bottiglia fino a sbiancare e le unghie stridono sull’etichetta. Gilbert fa schioccare la lingua, allontana lo sguardo, e i suoi occhi si riempiono di una rabbia cruda. «Comunisti di merda.» Calcia un altro sasso che va a sbattere sul marciapiede davanti al cancello di un condominio. «Non posso nemmeno tornare nella mia vera casa, non posso nemmeno vedere mio fratello che è stato l’unico a preoccuparsi veramente per me negli anni di Londra, e tutto per le loro stupide paranoie. Che mondo del cazzo.»

Sgrano le palpebre, gli rivolgo uno sguardo sorpreso. «Vivevi a Berlino Ovest, prima di Londra? Non lo sapevo.»

Gilbert sbuffa. «E dove credi che abbia iniziato a entrare nel giro?» Beve ancora e fa oscillare la bottiglia che emana riflessi bruni sotto l’abbaglio dei lampioni. «Qui all’Est sarà una merda per tutto quanto, ma almeno sono al sicuro da quel punto di vista. E non fraintendermi, la roba gira anche qua, se vuoi trovarla la trovi, tramite il mercato nero, ma è molto più difficile.» Gli occhi rossi appaiono più stanchi e vecchi, racchiusi fra palpebre cerchiate di nero e appesantite dal tempo. «E sono diventato così stanco di tutto, ormai.» Infila la mano sotto il bavero della giacca, raggiunge il punto dove so che il tatuaggio continua a marchiargli la pelle, a ricordargli il suo passato, e vi passa profonde unghiate. «Persino di autodistruggermi.»

Il suo profilo coronato dalle luci dei lampioni mi riporta indietro ai tempi di Londra. I capelli chiari che ora appaiono solo più sfoltiti e disordinati, gli occhi bronzei sfumati da un’ombra di stanchezza, i tratti spigolosi del suo volto, e la voce graffiante che ho subito riconosciuto. Un Gilbert più adulto, vestito con sobri abiti dell’Est invece che con il chiodo di pelle e i jeans dell’Occidente, ma sempre lo stesso. «Quand’è che sei andato via da Londra?»

Gilbert sospira, alza gli occhi al cielo. «Uhm, vediamo.» Ci rimugina picchiettando la bocca della bottiglia sulle labbra. «Ad aprile del Settantasei, se non ricordo male. Quasi subito dopo che è successo il fattaccio.» Beve ancora e mi scocca un’occhiata da sopra la spalla, percorre il mio profilo come se anche lui stesse rievocando il ricordo di quello che ero. «Tu da quanto qua nella vecchia Berlino?»

Allontano lo sguardo, scostandomi da quegli occhi rossi che paiono guardarmi dentro. «Anche io mi sono trasferito nel Settantasei, verso fine marzo. Ma sono fuggito da Londra a febbraio, dopo che...» L’ultimo sguardo rivolto a Ivan, l’ultimo suo sorriso, le sue ultime parole che mi promettevano ci saremmo rivisti. Lo stesso sconforto di allora torna a schiacciarmi il cuore. «Be’, lo sai.»

Gilbert annuisce. «Immaginavo che il Gran Capo vi avesse nascosti tutti, anche subito dopo l’arresto.»

«Sì, Ivan ci ha mandati in Unione Sovietica, in Siberia, da sua sorella maggiore. Poi abbiamo saputo che...» Riaffiora il ricordo di Natalia che scappa dalla cucina e che si copre gli occhi con il braccio per trattenere le lacrime. «C-che lui era...» Katyusha che si regge il viso fra le mani e che crolla in ginocchio sul pavimento, sorretta da Eduard che gli era corso incontro. La lettera che si adagiava fra le piastrelle, lo stemma dell’Ambasciata Britannica che mi aveva colpito come un pugno allo stomaco. Scrollo il capo, dissolvo il ricordo. «E allora io e Natalia siamo venuti a vivere qua.»

Gilbert strabuzza lo sguardo, si strozza con un sorso di birra. «Ma dai, non ci credo» esclama. «C’è anche la vecchia strega?»

«A quanto pare.»

Gilbert arresta il passo, le suole strusciano sull’asfalto. «Un momento...» Stende l’indice verso di me, socchiude una palpebra, inarca il sopracciglio, e mi rivolge uno sguardo stranito. «Voi due ora non sarete per caso...»

«Oh, no» mi affretto a rispondere. «Niente...» Sventolo un palmo e nascondo un lieve rossore che mi ha imporporato le guance. «Niente del genere. Però...» Stringo le dita, il metallo della fede pizzica contro il palmo. Abbasso lo sguardo, intreccio le mani reggendo la bottiglia di birra fra le falangi, e rigiro l’anellino d’oro attorno all’anulare su cui si è formato il segno. «Ufficialmente, io e Natalia ora siamo sposati.»

Gilbert sputa un sorso di birra, mi acchiappa per la giacca, tirandomi a sé, e mi guarda con occhi che sembra stiano per schizzare fuori dal cranio. «Che cooosa

Sobbalzo sotto quello strattone improvviso. «È solo...» Gli sfioro il naso con la mano che non regge la birra per tenermelo lontano. «Solo una copertura, nulla di più. È stato Eduard a procurarci un certificato di matrimonio falso. Ci ha permesso di avere subito diritto a un appartamento, altrimenti ci avrebbero sicuramente confinato negli alloggi pubblici e saremmo stati costretti a vivere separatamente.»

Gilbert storce un sopracciglio, non abbandona quella sua espressione scettica, quella scintilla scandalizzata che ha fatto tornare i suoi occhi rossi e incandescenti come un tempo. Rilassa la presa della mano e mi lascia andare, sorseggia dell’altra birra senza smettere di squadrarmi come se gli avessi detto che sono sposato a Honecker in persona.

Aggiusto la sciarpa e liscio la giacca nel punto dove Gilbert l’ha stropicciata. Riprendo a camminare. «Ora io e lei viviamo nello stesso Plattenbau. Viviamo...» Mi stringo nelle spalle. «Viviamo assieme, sì, e non stiamo male, abbiamo anche il riscaldamento. Siamo sereni così, immagino. Siamo riusciti a costruirci la nostra piccola tranquillità dopo...» Un sospiro mi svuota il petto, ma vi rimane un piacevole tepore, lo stesso che provo la sera quando mi addormento nel silenzio del nostro appartamento, sapendo di avere Natalia affianco e di non essere solo. «Dopo tutto il caos di Londra.»

«Uhmm.» Gilbert distende un sorriso ammiccante, torna a spremere la spalla contro la mia e mi punzecchia con un’altra serie di gomitate. «Mai consumato il matrimonio, quindi?»

Il cuore sobbalza, il viso brucia, e il calore scotta fino alle orecchie. «No. Non...» Mi scosto dalle sue gomitate, mi strofino il fianco dove lui mi ha punzecchiato. «Non mi permetterei mai.»

«Non ti permetteresti» specifica Gilbert, «o non lo vorresti

Faccio roteare lo sguardo e sospiro, senza nemmeno prendermela.

Non mi stupisco, Gilbert non cambierà mai, a prescindere dagli anni che passano e dalla lontananza con l’Ovest.

«Diciamo che...» Ignoro il suo commento e continuo a passeggiare lungo la strada senza badarci troppo. «Io e Natalia ci teniamo d’occhio a vicenda e abbiamo cura l’uno dell’altro in una maniera un po’ insolita. Per il primo anno io ho lavorato in un’acciaieria, Natalia invece in un’industria tessile. Non avevamo alternative, non conoscevamo la lingua e non potevamo permetterci un impiego migliore, ma il fatto di essere entrambi sovietici e di conoscere il russo ci ha aiutato molto.»

«Be’, parli bene tedesco.»

«Ti ringrazio.» Mi guardo attorno anch’io, catturato dalle luci provenienti dalle finestre ancora illuminate dei palazzi che, di notte, somigliano a tante cellette d’alveare. Un uomo percorre la strada in direzione opposta alla nostra, spinge il cancello di uno degli edifici, ed entra nel condominio. Il resto è silenzio. L’aria però si sta infittendo e l’umidità è diventata più pesante ora che ci stiamo avvicinando ai pressi del parco. Rimbocco la sciarpa, respiro attraverso la stoffa che ha lo stesso profumo del nostro soggiorno. «Ora Natalia è una caporeparto ed è anche un’attivista del Partito. Lavora molto, si dà da fare, si è adattata bene. Io cerco di tenermi più lontano possibile da quell’ambiente, ma...»

Gilbert sghignazza. «E come fai a tenerti lontano?» Solleva la bottiglia vuota sopra la testa e prende la mira su un cestino. «Proletari di tutto il mondo, unitevi!» Lancia la bottiglia e centra il cestino, sollevando lo scroscio secco della spazzatura spostata. Gilbert mi lancia un’occhiata di traverso, squadra la mia Berliner Weisse da cui non ho ancora preso nemmeno un sorso, e la indica. «Non la bevi, quella?»

Gli passo la bottiglia.

Le mie parole però continuano a ronzarmi attorno alla testa, a pesare come quest’aria fredda e umida che ci circonda. Il rapporto fra me e Natalia è cambiato molto in questi anni. Per i primi tempi lei era chiusa in se stessa, scontrosa e schiva come al solito, reggeva la parte della brava moglie quando ci trovavamo in pubblico, ma quando eravamo da soli preferiva evitarmi. Scaricava tutto il suo dolore nel lavoro, nel Partito, tenendosi sempre impegnata, quasi per non dare a se stessa l’occasione di ricordare il passato. Poi il tempo è trascorso, gli anni si sono susseguiti, i ricordi si sono mitigati, le ferite hanno cominciato a richiudersi, e anche il suo dolore ha cominciato ad affiorare. Ha ripreso a parlare di Ivan. Mi ha confessato di come lei si sia sempre sentita tradita dal fatto che Ivan avesse preferito noi e la sua vita a Londra rispetto a lei e a Katyusha, e che forse è stato quello il vero motivo che l’ha spinta a rimanermi vicino. In tutti questi anni, io per lei ho sempre rappresentato quel frammento di Ivan che si è rifiutata di lasciar andare. Ma anche Natalia per me ha sempre rappresentato il ricordo di Ivan che mi sono rifiutato di dimenticare e al quale sono rimasto attaccato nonostante tutti i dolori che lui mi ha causato. Entrambi forse ci siamo usati a vicenda per tenerci aggrappati a Ivan, eppure fra di noi è nato un affetto genuino che sono contento di aver conquistato. Senza Natalia, una vita solitaria qua a Berlino sarebbe stata insostenibile.

Sospiro, lascio scivolare fuori i ricordi assieme alla lieve condensa che si forma nell’umidità della notte, e infilo le mani nelle tasche della giacca. «Comunque, io ho smesso di lavorare all’acciaieria perché non sono portato per il lavoro manuale, mi affaticavo troppo spesso e le polveri mi facevano male ai polmoni. Ho cercato qualche impiego più tranquillo, sfruttando il fatto di conoscere il russo, e così mi hanno assunto al Berliner Zeitung. Mentre lavoravo nello stabilimento ho fatto un corso di giornalismo.» Continuo a camminare e accelero il passo per attraversare una stradina fra due marciapiedi, schivo una pozzanghera infossata nell’asfalto. «Per lo più ora traduco articoli dal russo al tedesco, ogni tanto qualche saggio, e do una mano in redazione, sistemo gli archivi, mi occupo delle telefonate. Non mi dispiace come impiego.»

«Uhm.» Gilbert fa tamburellare le dita sul collo della bottiglia e annuisce compiaciuto. «Bene, bene, quindi tu e la vecchia strega vi state dando da fare per la nobile Repubblica Democratica.» Beve un altro sorso, riprende fiato, e si pulisce le labbra con la manica. «E gli altri che fine hanno fatto?»

Un guizzo rovente mi punge dietro la nuca. I miei occhi emanano una scintilla di ostilità. «Non posso dirti dove si trovano.»

Gilbert ride ma ricambia la mia occhiataccia. «Che credi? Che vada a fare la spia?» Si ferma e spalanca un lembo della giacca, lo sventola verso di me. «Pensi che abbia i microfoni addosso? Ti sembro un burattino della Stasi?»

Restringo le palpebre, lo squadro da sopra la spalla, e sollevo il mento in un’espressione carica di sfida. «Potrei esserlo io.»

Gilbert incassa il mio sguardo. Sbatte le palpebre, inarca un sorriso compiaciuto che s’increspa nella penombra del viso, e sta al gioco. Gli occhi ardono come quando era giovane, torna il ragazzino stupido e sfrontato che ho conosciuto più di dieci anni fa dall’altro capo d’Europa.

Gilbert si gira di scatto verso i palazzoni, apre una mano accanto alla bocca, e inspira a fondo per rigettare un urlo tonante. «Sfasciate il Muro!» Marcia sotto gli appartamenti e continua a lanciare quelle grida verso le finestre. «Stampa libera! Aprite le porte con l’Occidente! Germania unita! A morte l’Unione So –»

«Gilbert!» Gli corro addosso e mi aggrappo al suo braccio, zittendolo. Lo fulmino. Brividi di terrore mi attraversano, mi fanno sudare freddo come al bar, e stringono un nodo di nausea alla bocca dello stomaco.

Razza di irresponsabile. Sapevo che non c’era da fidarsi di lui. Ora sì che mi stupisco del fatto che sia ancora vivo e in libertà dopo tutti questi anni passati in Germania Est.

Gilbert rilassa il ghigno, mi guarda dritto in viso. «Tu non hai mai avuto gli occhi da bugiardo» mi rivela. «Non saresti mai capace di ingannare nessuno.» La sua espressione torna seria, la voce bassa. «Forse è proprio per quello che hai rischiato di rimanerci quando eravamo a Londra.»

La mia presa sul suo braccio freme, i brividi si ritirano ma mi lasciano addosso una bruciante sensazione di disagio. Le cicatrici risalenti al sequestro e ormai sbiancate tornano a scottare. Sotto il naso scivola l’odore del sangue, delle mie ferite aperte, della pelle bruciata, e della stanza buia dove mi avevano rinchiuso. Gli lascio il braccio, arretro di un passo.

Gilbert scivola via dal mio tocco e sospira. «Aah, mi chiedo...» Si strofina la nuca e si guarda attorno, verso le finestre illuminate dei palazzi, forse per assicurarsi che nessuno abbia davvero sentito quello che ha urlato prima. «Dopo tutto quello che abbiamo passato, come abbiamo potuto accettare di ridurci a vivere un’esistenza simile.»

Faccio spallucce, mi strofino il braccio, ancora succube dei ricordi tornati a scivolare sulla pelle. «Non c’erano molte alternative. Probabilmente, se non avessimo lasciato Londra, ora saremmo morti. Io e te, per lo meno.»

«Già.» Gilbert continua a passeggiare, a sorseggiare la sua birra, e a lanciare occhiate di disprezzo a quel mondo grigio in cui lo hanno buttato pur di salvargli la vita. «Ogni tanto ci penso, e mi chiedo se questo sia davvero meglio della morte. I primi periodi sono stati i più duri, in realtà. Sarei un bugiardo se dicessi di non aver mai cercato di filarmela. Ma scappare dalla Germania Est non è così facile come lo era stato per me scappare dall’Ovest. Poi...» Si posa la mano sul petto, solleva il mento. «Ora che anche io sono responsabile di qualcuno di speciale. E adesso che mi sono preso l’impegno di averne cura, proprio non potrei permettermi di andarmene.»

«Qualcuno di speciale?» Mi coglie un dubbio. Che si sia sposato anche lui? «Ma chi...»

Gilbert distende un sorriso raggiante e batte il pollice sul petto. «Il mio canarino, ovvio!»

«Oh.» Un leggero rossore torna a spolverarmi le guance. «Capisco.»

Proseguiamo lungo la strada che circumnaviga il parco di Friedrichshain. Il vento fruscia attraverso i cespugli, gli alberi piantati sul ciglio del marciapiede, e pochi rumori ovattati provengono dai grigi palazzi di cemento che si ergono contro il cielo notturno. 

Gilbert alza lo sguardo verso la distesa nera ricoperta di stelle su cui splende la luna calante, batte la bocca della bottiglia fra le labbra, e i suoi occhi si annebbiano, tornano distanti e malinconici come se fossero affacciati alle strade di Londra abbagliate dalle insegne al neon. «Adesso sono lontano dai miei amici, lontano da mio fratello, ma almeno sono vivo.» Scrolla le spalle. «È una speranza anche questa, suppongo. Magari un giorno il mondo cambierà.»

«Già.» Annuisco, ma non riesco proprio a percepire la dolcezza di quella parola. Mi sembra fin troppo distante da raggiungere. «Una speranza.»

Gilbert struscia la punta del piede su un ciuffo d’erba cresciuto da una crepa in mezzo alla strada e mi lancia un’occhiata interrogativa. «A te non danno rogne?»

Inarco un sopracciglio. «Per cosa?»

«Sarai stato dal medico almeno una volta da quando sei qua, no?» Gilbert si riabbottona la giacca che prima ha sventolato e rimbocca il bavero attorno al collo. «Non dirmi che non si è accorto che c’è qualcosa che non va. Avrai di sicuro le vene bruciate, i valori del sangue sballati, o almeno qualche acciacco al fegato.»

Un’inconscia fitta di dolore mi morde il costato. Mi torna in mente come alla cena di questa sera io abbia rifiutato il vino e di come basti l’odore della birra per far salire un’ondata di nausea. Mi poso una mano sul ventre, strofino da sopra la giacca. «Sì, ogni tanto il fegato mi dà qualche problema, ma non è grave. Mi basta stare attento con quello che mangio. In ogni caso bevo pochissimi alcolici, quindi non lo affatico inutilmente. Al medico ho mentito. Gli ho detto che da piccolo ho avuto l’epatite per aver bevuto dell’acqua infetta.» Porto le braccia conserte al petto e do una strofinata anche alle maniche. «Per il resto le vene non sono ridotte così male, stanno guarendo bene. Nessuno mi ha mai fatto altre domande.»

«E per il tuo passato?» insiste Gilbert. «A Londra eravamo pur sempre schedati, e dopo tutto quello che è rimasto negli archivi su di noi...»

«Eduard ha pensato a tutto, in realtà. Ha praticamente cancellato il nostro passato, prima che ci separassimo. Ufficialmente, io sono vissuto in Unione Sovietica e non ho mai messo piede a Londra o in Occidente. Nessuno sa niente.»

«E il tatuaggio?» Gilbert infila le dita sotto il bavero della giacca e picchietta l’indice sull’orologio soffocato dal filo spinato. «Quello nemmeno Eddie può farlo scomparire.»

«Lo tengo coperto.» Apro anch’io la mano sul lato sinistro del collo. Il contatto della mano fredda sulla pelle tiepida mi fa sussultare. «A volte ci spalmo sopra della cipria se non riesco a nasconderlo con i vestiti. Anche d’estate, poi, indosso sempre maglie a collo alto o sciarpe. Anche Natalia fa così.»

Gilbert sbuffa. «Iconico.»

«Già.» Sistemo di nuovo la sciarpa attorno al collo, la rimbocco e imito la gestualità di Ivan, quel modo che aveva di tenersi la gola nascosta e di aggiustarsi sempre un lembo attorno alle spalle. Con me teneva sempre il collo coperto, anche a letto. Non mi ha mai permesso di toccarglielo. «Iconico.»

Gilbert beve un altro sorso di birra, tiene le labbra accostate al vetro, e mi rivolge un’occhiata sbieca. «E la tua principessina dov’è finita?»

Quella domanda mi scava un vuoto nel cuore. Sgrano gli occhi, e tutto torna nero e freddo come quando ho avuto la sensazione di trovarmi di nuovo accanto a Ivan, toccato dalla sua mano gelida, sfiorato dal ricordo delle sue labbra, schiacciato dalla dolorosa presenza del suo ricordo. Si spalanca ancora quella finestra sul passato dove però la presenza di Feliks è un’ombra sempre più evanescente, lontana e difficile da raggiungere.

Gilbert solleva un sopracciglio. «Uhm?» Scolla la bocca dalla bottiglia con uno schiocco e mi dà un’altra gomitata. «Dov’è Feliks?»

Soffio un filo di fiato. «I-io...» Mi soffoco con quel sussulto d’aria. Mi stringo nelle spalle e strofino a fondo le braccia conserte al petto. Le labbra si schiudono con un tremolio che si condensa in parole fredde e sofferenti. «Non lo so.»

Gilbert arresta il passo e strabuzza lo sguardo.

Tengo il capo girato, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. «Ci siamo separati subito dopo essere scappati dalla Siberia, dopo che io e Natalia abbiamo deciso di trasferirci qua. Forse è tornato a casa, a Varsavia.» Scuoto la testa, e un familiare senso di rimorso e amarezza mi riempie la bocca. «Non lo vedo da allora.»

«Ma come?» sbuffa Gilbert. «Eravate così pucci-pucci assieme e vi siete mollati? Non era l’amore della tua vita?»

«E lo è.» Un brivido mi attraversa. Stringo la mano sul braccio e pianto le unghie nella stoffa della giacca, sopprimendo il dolore che mi corre nel sangue. «Lo è ancora. Io amo Feliks. Ma le cose non sono facili come sembrano.» Riprendo a camminare. Le luci dei lampioni allungano la mia ombra davanti a me. «Io ho deciso di separarmi da lui per proteggerlo. Feliks era entrato nei Siberian Cubs per colpa mia. Se non fosse stato per me, lui avrebbe potuto avere una vita normale, senza pericoli, e lontano dalla strada. Io avevo ancora la mia pena da scontare, anche dopo la morte di Ivan. E Feliks non meritava di essere coinvolto più di così, lui si merita una vita felice e sicura.»

«Ti sei condannato da solo?»

«Me lo merito. Perché nessuno di noi ha ancora smesso di scontare la sua pena.» Guardo Gilbert di striscio e gli rivolgo un’occhiata più buia, perché so che anche lui prova lo stesso. «Dico bene, Gilbert?»

Gilbert sorride tenendo lo sguardo distante. «Forse.» Annuisce. «Forse è così.» Scola quel che è rimasto della bottiglia di birra. «Anche io penso che il peso di quegli anni non ci sia mai scivolato completamente di dosso.» Torna a posarsi la mano sul petto. «Guarda me. Sono salvo solo grazie al mio fratellino, eppure non posso nemmeno vederlo, non posso parlargli, non posso rifarmi degli anni perduti in cui non ho fatto il mio dovere da fratello maggiore.» Si dirige verso una delle panchine piantate davanti agli alberi e che affaccia sulla strada. «Noi Siberian Cubs non siamo mai usciti dalla nostra rete di filo spinato.» Vi si abbandona, accavalla le ginocchia, distende un braccio attorno allo schienale, e reclina il capo all’indietro. «Siamo semplicemente passati da una gabbia all’altra.»

Annuisco. «Le gabbie ci danno l’illusione del controllo, per questo ci sentiamo più sicuri al loro interno.» Mi siedo accanto a lui. La panchina ghiacciata trasmette una scossa di freddo alle cosce. «Ed è per questo che arriviamo a costruircele da soli.»

«Probabile.» Gilbert flette le dita e fa dondolare la bottiglia vuota sotto il cono di luce che cade dal lampione. «È per questo che ti stai tenendo ancora stretto alle tue catene. Ed è per questo che tieni Feliks lontano da te.»

Attorno a noi il vento soffia di nuovo, un lampione traballa facendo sfarfallare la sua luce, e un’auto ci scorre davanti, si perde attraverso la larga distesa nera della strada deserta.

Strizzo le mani sui pantaloni, incrocio i piedi sotto la panchina, mi mordo il labbro che ha ancora il sapore dolciastro e sciropposo della Club Cola che ho bevuto al bar, e torno a sentire sull’anima quel peso che mi tortura ormai da dieci anni, pungente e fastidioso come un sasso rimasto incastrato in una scarpa.

Inspiro. Glielo chiedo con un mormorio. «Come avete fatto?»

«Mh?» Gilbert sbatacchia le palpebre, confuso. Flette il capo e mi squadra con occhi già annebbiati dall’alcol. «Fatto cosa?»

Apro e strizzo i pugni sulle cosce. «A incastrare Ivan. Come avete fatto a...» Risollevo lo sguardo, vado incontro ai suoi occhi che non mi trasmettono più quella soggezione con cui mi hanno travolto al bar. «A distruggere i Siberian Cubs?»

Gilbert sbatte di nuovo gli occhi. Sgrana le palpebre e lo sguardo torna limpido, libero anche dalla patina nebulosa creata dalle due bottiglie di birra scolate d’un fiato. «Ooh, quella storia.» Ricade con la schiena sulla panchina, scuote il capo e si prende la fronte, spalma una manata lungo il viso soffiando un sospiro aspro e stanco. «Merda, mi servirebbe davvero un’altra birra.» Si attacca di nuovo alla bottiglia ma beve a vuoto. La scrolla, si ricorda che l’ha già prosciugata, e la ribalta lasciando che dalla bocca di vetro coli l’ultima goccia schiumosa. «Ti ricordi di Køhler?»

Cosa? Mathias? «Sì.» Ma cosa può c’entrare Mathias in tutto questo?

Gilbert torce il busto per gettare la bottiglia nel cestino affianco alla panchina. «Sai che è schiattato di overdose, vero?»

«Sì. C’era sui giornali.» Mi ricordo bene quel giorno. Ivan era furioso. Mathias era pur sempre una sua proprietà ed è morto sotto l’effetto della sua eroina, quindi risalire a noi Siberian Cubs tramite la sua morte sarebbe stato ancora più facile.

«Lui viveva con un ragazzo, a quel tempo» racconta ancora Gilbert. «Un norvegese, uno studente.»

«Sì, Lukas. Mi ricordo.» Mi ricordo anche di come Mathias se la sia presa con me poco prima di morire, di come lui per primo mi abbia accusato di aver messo in pericolo Feliks permettendogli di entrare nei Siberian Cubs, e di come Feliks mi abbia difeso mettendosi fra me e lui, tirandogli uno schiaffo. È successo il giorno dopo in cui Feliks si era fatto tatuare l’orologio, solo un paio di giorni prima del mio sequestro. Quello è il mio ultimo ricordo di Mathias: i suoi occhi arrabbiati e accusatori puntati contro di me, e la mano premuta sulla guancia gonfia su cui era rimasto lo stampo rosso dell’impronta di Feliks.

«Dopo che Mathias è morto» continua Gilbert, «il suo ragazzo è venuto da noi, in realtà da me, e mi ha dato un pacchetto di sigarette. Dentro le sigarette c’era tutto quello che dovevamo sapere per incastrare Ivan. C’era un foglietto con scritte tutte le tane dei Siberian Cubs, anche quelle a cui noi non avevamo accesso. Da lì la polizia ha impiegato poco a stanare Ivan.»

«Ma...» No, continuo a non capire. «Ma Mathias come faceva a sapere dove...»

«Non lo sappiamo.» Gilbert spalanca le braccia e le fa ricadere sulle gambe accavallate. «Non lo abbiamo mai scoperto, e suppongo che sia un mistero destinato a marcire nella tomba assieme a lui.»

«Ma perché Eduard non se n’è accorto?» insisto. C’è ancora qualcosa che non torna, qualche tassello che non riesco a incastrare. «Perché non è riuscito a scoprire che Scotland Yard fosse in possesso di informazioni del genere? Ne è sempre stato in grado, è sempre riuscito a infiltrarsi nei loro archivi e ad avvisare Ivan prima di una retata.»

«Perché noi non siamo andati direttamente da Scotland Yard. Arthur...» Gilbert congela le parole fra le labbra, il suo respiro s’interrompe. Lo sguardo si estranea, si nasconde nella penombra, e si riprende. Scrolla il capo come se avesse battuto le palpebre su un ricordo lontano e si schiarisce la voce, riprendendosi. «Arthur aveva iniziato a frequentare un poliziotto. Un americano.»

«Un americano?» Mi coglie un ricordo lampeggiante, una di quelle informazioni di cui sono venuto a conoscenza tramite la comunicazione dell’Ambasciata. «Ah, l’incendio al cantiere!»

«Lui» conferma Gilbert. «È stato lui a occuparsene, a proteggerci, e a fare in modo che arrestassero subito Ivan. È stato un po’ come il nostro salvatore personale, si può dire.»

Adesso tutto combacia, i tasselli mancanti si agganciano al quadro che non sono mai riuscito a completare. «Ora ho capito.» Mi lascio avvolgere da un tiepido ma amaro senso di accettazione che allevia il peso sul mio cuore, mi dona una carezza di pace dopo tutti questi anni trascorsi a chiedermi di chi fosse stata la responsabilità della morte di Ivan e della distruzione dei Siberian Cubs. Pensavo che avrei provato rabbia nei confronti dell’assassino di Ivan, e invece c’è solo questo tiepido senso di rassegnazione che mi fa sentire più leggero. Forse anche più libero. «Ho capito tutto.» E non riesco a credere che sia stato proprio Gilbert a svelare il mistero dopo tutti questi anni. Gilbert, riapparso a Berlino Est davanti ai miei occhi, rincontrato dall’altra parte d’Europa in questa maniera assurda, dopo tutto quello che abbiamo passato a Londra dove ora probabilmente sarà rimasto solamente... «Fra di noi, quindi, solo Arthur è rimasto a vivere a Londra.»

Gilbert stringe i denti sul labbro inferiore, trattiene di nuovo il respiro, e il suo viso impallidisce, come se gli avessi affondato un pugno nella pancia. Una luce diversa gli attraversa gli occhi, li riempie di un dolore che non riesco a decifrare.

Gli rivolgo un’occhiata stupita, sollevo un sopracciglio. «Gilbert?» Ho detto qualcosa di sbagliato?

Gilbert tiene le labbra strette e la sua bocca tremola. Inspira di nuovo a fondo, china la fronte, fa dondolare la gamba accavallata, stringe il braccio accasciato sullo schienale della panchina, e tamburella le unghie sul legno verniciato. L’ombra calata dalla frangia gli nasconde lo sguardo. «Arthur è morto.»

Una botta di stupore mi schiaffeggia la faccia, secca e fredda come una sberla d’acqua gelida. «No» soffio, soffocato da quelle parole. «Sul...» Sbatto le palpebre. Quella frase rimbomba in testa e il suo eco mi assorda. Non riesco a crederci. «Sul serio?»

Gilbert annuisce.

«E quando?»

Gilbert scrolla le spalle, schiacciato dalla stessa rassegnazione di cui mi sono avvolto anch’io. «È morto già dieci anni fa, ormai. Nel...» Risolleva gli occhi al cielo, assottiglia una palpebra, e scava nei ricordi. «Nel novembre o nel dicembre del Settantasei, se non mi ricordo male. Io ero già qui, e ovviamente non sono nemmeno potuto tornare in Inghilterra per il funerale. È stato Francis a inviarmi una lettera per dirmelo – lui ora fa su e giù fra Londra e Parigi, e lavora tipo in un ristorante o in una pasticceria, che ne so – ma mi è arrivata quattro anni dopo.»

«Ma allora...» Cerco anch’io nei miei ricordi, mi aggrappo alle ultime immagini che ho di Arthur, quando lo incontravo alla fermata di Piccadilly Circus assieme agli altri. Quello sguardo sempre sprezzante e un po’ altezzoso, le ciocche disordinate di capelli biondi che ricadevano sulla fronte sempre increspata in una ruga d’indifferenza. Quei verdi occhi cinici che erano persi nel vuoto come i nostri, quell’ombra di condanna che gli gravava addosso e che aspettava solo di portarselo via. A quanto pare Arthur non è stato fortunato come noi, non c’è stato nessuno che lo ha aiutato a sfilarsela di dosso. «Allora Arthur era ancora nel giro.»

«No.» Gilbert scuote la testa. «Anche lui ne era uscito ed era pulito da mesi. Gli è collassato il fegato, per un’epatite o una cirrosi, una merdata del genere. È semplicemente stato più sfortunato di noi.» Reclina di nuovo il capo all’indietro, abbandona le spalle contro lo schienale della panchina, e si massaggia il volto, stropiccia quel dolore che è tornato a comparire dopo tutto questo tempo. «Che fine, povero disgraziato, ci ha impiegato sei mesi a morire. Io al posto suo mi sarei ammazzato da solo prima di arrivare alla fine trascinandomi in quelle condizioni.»

Il doloroso eco di quelle parole non mi abbandona.

Un’epatite. Qualcosa che avrebbe potuto colpire chiunque di noi, qualcosa che avrebbe potuto ucciderci con la stessa facilità.

Mi poso una mano sul ventre, sotto il costato. «Per il fegato.» Do un’altra strofinata. Ricompaiono le immagini della cena di questa sera, le mie posate affondate nel fegato di vitello, il coltello che tagliava la carne, proprio come noi stessi abbiamo fatto a fette la nostra vita e i nostri corpi durante il periodo della tossicodipendenza. Gelidi brividi risalgono la schiena, nonostante la giacca e la sciarpa a scaldarmi. «Sai, ogni tanto...» Mi stringo nelle spalle, mi schiaccio contro lo schienale della panchina e torno a chinare lo sguardo sul marciapiede attraversato dai ciuffi d’erba nati fra le crepe. «Ogni tanto mi chiedo...» Strizzo i pugni sulle cosce. «Se fossimo ancora tutti a Londra, se non ci fossimo mai separati, se...» Il respiro trema. Mi assale una violenta ondata di nostalgia che strazia il cuore. «Se Ivan fosse ancora vivo e...»

«Che?» esclama Gilbert, guardandomi con occhi scandalizzati. «Stai scherzando, vero? Non posso credere che ti manchi.»

«Non...» Raccolgo un lembo della giacca e lo rigiro fra le dita sudate. Altri tremori mi attraversano e mi chiudono lo stomaco. «Non è che mi manca, è solo che...» Allontano lo sguardo per non dover affrontare la pressione dei suoi occhi. «Che lui era...» Riemerge l’allucinazione del bar, quando ho inalato l’odore bruciante della vodka, quando è riapparso il ricordo di Ivan, facendomi provare un turbinio di terrore e sollievo che mi ha soffocato il cuore. Scuoto il capo. «Non è così facile. Anche se volessi sbarazzarmi del suo ricordo, non sarebbe così semplice. Tanto più ora che Natalia vive così vicino a me e che la sua presenza continua sempre in qualche modo a serbare vivo il ricordo di Ivan. Io non lo voglio dimenticare.» Risollevo il capo, senza più paura di farmi vedere in volto. «E non sarebbe nemmeno giusto dimenticarlo.»

Gilbert storce un sopracciglio, mi guarda di sbieco, un’occhiata buia e circospetta. Sbuffa. «Sai, mi sono sempre chiesto cosa ti passasse per la testa per farti strapazzare da lui in quella maniera.» Distende le labbra e soffia una risatina di scherno. «In realtà ce lo chiedevamo un po’ tutti, lasciatelo dire.»

Alzo gli occhi al cielo. Ecco che ci risiamo con questa storia... «Ivan non mi strapazzava. Questo eravate solo voi a crederlo. Lui non mi ha mai fatto del male.» Porto le braccia conserte al petto, strofino le spalle. «Aveva solo bisogno di me. Ivan aveva bisogno di me per riempire il vuoto lasciatogli da un’altra persona.»

Gilbert ridacchia. «Oppure eri tu quello ad aver bisogno di lui.» China una spalla verso di me, si copre la guancia con il dorso della mano, le sue labbra mormorano al mio orecchio. «Magari ti piaceva l’idea di essere il preferito del capo.»

Scatto come se mi avesse piantato un ago nella nuca. «N-non è vero.»

Gilbert però non demorde, tiene inarcato quel suo sorriso da piantagrane. «Magari eri tu quello che usava lui per riempire un vuoto dentro di te. E forse tu stesso ti sei divertito a prendere in giro Feliks esattamente come Ivan prendeva in giro te.»

Mi alzo con uno scatto e schiaccio i pugni ai fianchi. «Smettila!» Ma un altro tremore mi scuote, come se Gilbert mi avesse strappato i vestiti di dosso, lasciandomi spoglio e al freddo.

Gilbert appiattisce il sorriso. Il suo sguardo rabbuia, perde la voglia di scherzare. «Sul serio credi che andare via da Londra ci abbia cambiati?»

Esito, messo all’angolo da quegli occhi che mi leggono dentro, che hanno provato sulla loro pelle la bufera di dolore che mi tiene intrappolato da anni.

Gilbert allontana lo sguardo da me, torna a rivolgerlo al cielo notturno, alla mezza luna che pende fra le stelle, a un passato che non tornerà più. «Possiamo scappare in giro per il mondo quanto vogliamo,» dondola ancora la gamba accavallata, «ma i nostri fantasmi non smetteranno mai di inseguirci. A Londra avevamo l’eroina, ma anche la droga non li faceva sparire, li teneva solo zitti prima del bisogno di un altro buco. Devi accettarlo anche tu.» Si stringe nelle spalle. Lo sguardo triste e rassegnato come le sue parole. «Forse è quello l’unico modo che abbiamo per farli sparire per sempre dalle nostre teste.»

 

.

 

Passo un’altra profonda unghiata lungo il tatuaggio che ha continuato a bruciare per tutta la notte, anche dopo essermi separato da Gilbert, anche dopo essere rincasato, e la sensazione umida e scottante delle gocce di sangue appena sgorgate bagna i polpastrelli. L’orologio avvolto dalla corona di filo spinato brucia come succedeva a Londra, quando il respiro accelerava, il cuore si gonfiava d’angoscia, e un intenso prurito correva attraverso le vene, facendo salire il bisogno urticante di grattarmi fino a sporcarmi le dita di rosso.

Un ennesimo singhiozzo di disperazione risale il petto, scuote la schiena schiacciata alla parete di casa, e altre lacrime sgorgano attraverso il viso già caldo e umido.

Spingo i piedi a terra, mi spremo all’angolo del muro, le ginocchia contro il busto, un braccio avvolto attorno alle gambe, e lo sguardo annacquato rivolto fuori dalla finestra oscurata dalla notte. Sbatto le palpebre rigonfie, le strofino, ma altre righe di lacrime mi bagnano le guance, versano il pianto che ho trattenuto per tutti questi anni trascorsi solo a nascondere il mio dolore, e schiariscono la vista affacciata sul panorama che si staglia dall’undicesimo piano del palazzo. Fronteggio le strade buie di Berlino Est, le luci bianche e rosse gettate dalla Torre della Televisione che si eleva fino a bucare il cielo, quelle provenienti dalle cellette degli altri Plattenbau che occupano il quartiere, e anche quelle che arrivano dall’orizzonte, da Berlino Ovest, al di là dei riflettori proiettati nella zona del Muro.

È notte fonda ma Natalia non è ancora tornata, ed è l’unico pensiero che mi rasserena. Non potrei mai farmi vedere in lacrime da lei, ma il silenzio dell’appartamento non mi è mai sembrato così duro e pesante da sostenere. Le voci del mio passato, assopite dal tempo e da questa vita di reclusione, riemergono come mi aveva avvertito Gilbert, mi fanno ricordare che le ho solo nascoste, senza mai riuscire a cancellarle. Non ho mai ucciso i fantasmi del mio passato.

Affondo il viso sulle ginocchia piegate e mi aggrappo ai ricordi felici di quel periodo, dei miei nebulosi anni trascorsi a Londra. Quel giorno sull’autobus assieme a Feliks, io e lui fradici di pioggia ma felici, rinchiusi in quell’angolino che ci aveva isolati dal resto del mondo e che non sono più riuscito a ritrovare. Il giorno del nostro addio, l’ultimo abbraccio in Siberia, in quella terra che ci ha sia uniti che separati. L’ultima volta in cui mi sono immerso nel suo profumo, l’ultima volta in cui mi sono rintanato nel tepore delle sue braccia sottili ma forti. Le sue ultime parole che non ho mai scordato. “Io ti aspetterò anche più di per sempre, ma tu... ma tu non ti dimenticare di me.” La nostra promessa sigillata con quell’abbraccio caldo, diverso da quelli di Ivan che, per quanto freddi, riuscivano lo stesso a farmi sentire protetto.

Il ricordo di Ivan è altrettanto vivo dentro di me, si contrappone a quello di Feliks come una corrente che mi soffoca e mi trascina in direzione opposta. Ma alla fine... «Ma alla fine li ho persi entrambi.» Asciugo le palpebre, tampono gli occhi con la manica della camicia, e reggo il capo fra le mani bagnate di lacrime. Lo sguardo vacilla, le luci che chiazzano la notte fuori dalla finestra sono tante fiaccole traballanti. «Ho perso Ivan perché non ero abbastanza importante per lui, e ho perso Feliks perché l’ho allontanato in modo che non diventasse come me.»

Ritorno al giorno della nostra fuga dalla Siberia, davanti alla rabbia di Natalia, davanti alle sue parole accusatorie, “Non sei stato in grado di salvare niente di quello che eri riuscito a guadagnarti nella tua vita. Né mio fratello, né Feliks. E nemmeno te stesso.” Mi rendo conto di quanto abbia sempre avuto ragione. Non sono mai stato in grado di trattenere nulla fra le mie mani, di stringere la presa su ciò che amavo. Ho sempre lasciato scivolare via tutto, come Feliks.

La stessa morbida voce che mi ha solleticato l’udito e toccato il cuore al bancone del bar torna a cogliermi come una carezza. «Ma perché lo hai voluto allontanare da te?»

Stavolta il fantasma di Ivan rimane celato nella penombra, seduto come me sul pavimento, immerso in un’oscurità dove brilla solo il colore dei suoi occhi. Quel viola livido come un cielo siberiano in tempesta, così profondo, impenetrabile e misterioso come lui. Un’altra allucinazione, come quella evocata dall’odore della vodka appena stappata, ma questa volta mi abbandono alla sua presenza, mi lascio risucchiare dal ricordo del suo sguardo, senza alcun timore di rispondergli.

«Per proteggerlo.»

Ivan solleva un sopracciglio, volta la guancia tenendo il viso nell’angolo di penombra, e mi rivolge quello sguardo increspato dal dubbio. «O forse perché volevi punirti?»

Un singhiozzo di stupore mi fa ingoiare il fiato, un respiro amaro come le lacrime che smettono di scorrere e che traballano fra le ciglia, appannandomi la vista.

Ivan distende le gambe lungo il pavimento, dentro il fascio di luce bluastra proiettato dalla finestra, e mi si avvicina, sfiorandomi con la sua presenza fredda che profuma di vodka e neve sciolta. «È sempre stato così, Toris, anche a Londra.» Mi posa la mano sul viso. Sussulto sotto il suo tocco familiare, annego nel colore dei suoi occhi che mi guardano dentro. «Tu hai sempre cercato una maniera di punirti per essere in pace con te stesso. Prima con la droga, poi con me, e adesso con questa vita reclusa in un paese così costrittivo che non è nemmeno il tuo.» Strofina una carezza con il pollice, asciuga una mia lacrima rotolata lungo lo zigomo. «Sei scappato da Londra, sei scappato dalla Siberia, ma i tuoi fantasmi ti hanno comunque seguito, senza mai darti un attimo di pace.»

Sopprimo un altro sussulto. «Però...» Gli tocco la mano distesa sulla mia guancia. «Però io a Londra...» Un altro singhiozzo. Le labbra tremano a sfioro delle sue dita. «A Londra sentivo di poter essere felice. A volte... a volte lo ero. Lo ero sul serio. E sentivo di amare davvero Feliks.»

Ivan scuote il capo. «Eppure, lo hai cacciato via.» Sfila la mano dal mio viso, si separa dal mio tocco. «Hai cacciato via l’unica persona che avrebbe potuto renderti felice.» Mi sorride. Lo stesso sorriso amaro e consapevole che mi ha rivolto prima Gilbert. «Oppure non lo era? Forse, ti sei separato da Feliks perché hai scoperto che non era poi così importante per te.»

«N-no!» scatto. «Non...» Scuoto il capo, scaccio quell’idea. «Non è vero. Io lo amavo.» Stringo il pugno sul pavimento, il braccio trema, una scia di brividi scuote le spalle ingobbite. «Io lo amo ancora.»

«E me?» Ivan flette il capo di lato, mi scruta con uno sguardo dolce e innocuo. «Mi amavi, Toris?»

Mi lascio risucchiare da quegli occhi così vivi e reali, simili a quelli di Natalia, ma velati da una scura ombra di mistero che ho già incontrato e a cui sento di non poter mentire. «Sì.»

Ivan distende un sorriso di soddisfazione che rimane celato nel buio.

Mi allontano, struscio la schiena contro il muro, stringo l’abbraccio attorno alle gambe, e riprendo a guardare fuori dalla finestra, il mio riflesso specchiato sul vetro. «Non avrei mai voluto né dovuto innamorarmi di te. Non era giusto, sapevo di illudermi, sapevo che tu non mi amavi. Sapevo che non mi avresti mai amato.»

«Per questo eri geloso di Yao?»

Stringo i pugni, affondo le unghie nella stoffa dei pantaloni, e morsico il labbro fino a risucchiare il sapore aspro delle lacrime. Torna la stessa botta di dolore che è affondata nel mio petto quando sono entrato nella stanza e li ho visti assieme. Non riesco a rispondergli.

«Perché, Toris?» mi domanda l’ombra di Ivan. «Come poteva renderti felice il pensiero del mio amore nei tuoi confronti? Cosa potevo darti io che non ti dava già Feliks?»

Stringo ancora i denti sul labbro umido di lacrime, le braccia irrigidiscono attorno alle gambe piegate. «Uno...» La mia voce tentenna, ma alla fine riesco a confessarlo. «Uno scopo. Io mi sentivo...» Sospiro. Placo i singhiozzi che mi scuotono la voce. «Davvero importante per la prima volta. Anche se mi usavi solo per dimenticare Yao, io ero importante. Significavo qualcosa per te. Riuscivi a darmi un valore che io non sono mai riuscito a trovare da solo dentro me stesso. Per la prima volta potevo far felice qualcun altro, anche se per poco, anche se in maniera fittizia. E sapere che in realtà è sempre stato tutto inutile, perché l’unico che davvero sarebbe stato in grado di renderti felice era Yao e non io, è...» Stringo la mano al petto, mi aggrappo al mio dolore. «Mi... mi ha fatto sentire un miserabile.» Altre lacrime fioriscono dagli occhi appannati, sgorgano da quel nodo di sofferenza rimasto a stagnare nel petto per tutti questi anni. Strofino la mano lungo le guance, i singhiozzi mi scuotono, affievoliscono la voce. «Sono tornato a essere la nullità che mi sono sempre considerato.»

Ivan scivola più vicino a me e le sue braccia mi circondano, mi avvolgono in un abbraccio inaspettatamente caldo. Posa la fronte su una mia spalla, torna a trasmettermi la sensazione tiepida e umida del suo respiro sul collo. «Tu ti sei sempre sentito una nullità, vero? Dovunque tu andassi, qualsiasi cosa facessi, non eri mai abbastanza. È per quello che hai sempre cercato una maniera per punirti.» Mi stringe più forte. Rilasso i muscoli e mi abbandono. Mi aggrappo anch’io al suo corpo e chiudo gli occhi, affondo con il viso nel suo petto e sopprimo gli ultimi singhiozzi di dolore su di lui. Ivan mi carezza i capelli, li scosta dal mio viso e posa le labbra sulla mia fronte. «Hai ragione, Toris. Io stesso ero diventato la tua droga, proprio come tu eri diventato la mia.» Fa correre un’altra carezza fra i capelli e li pettina dietro l’orecchio. «Entrambi avevamo bisogno l’uno dell’altro per riempire i vuoti che la vita ci aveva lasciato, ed eravamo dipendenti l’uno dall’altro. Tu eri importante per me perché mi facevi dimenticare Yao, anche solo per poco, solo per il tempo di trovare un po’ di pace. E allo stesso tempo tu volevi che io avessi bisogno di te, perché questo colmava il senso di inadeguatezza che ti sei sempre trascinato dietro. Eri importante per me, e questo ti dava valore. Un valore che tu non sei mai riuscito a trovare in te stesso solo con le tue forze.» Il suo tocco scende, mi avvolge la guancia. Di nuovo i nostri occhi si incontrano sotto il fascio di luce blu proveniente dalla finestra. «Tu, Toris, sei semplicemente incapace di costruirti da solo la tua felicità senza dover dipendere da qualcuno.»

Mi riprendo. Le lacrime smettono di sgorgare, il cuore rallenta, il gelo mi abbandona lasciandomi avvolto solo in questa sensazione di tepore e di rinascita. «Ma esiste davvero qualcuno che ne è in grado?» Separo l’abbraccio, scivolo via da lui, mi scollo dalla sua prigionia. «Perché dovrei per forza riuscirci solo con le mie forze? Perché non potrebbe essere Feliks la persona in grado di tirarmi fuori dalla mia gabbia?» Mi porto la mano sul petto, stringo il pugno sopra il cuore. «Feliks mi ha sempre amato incondizionatamente. È stato lui che ha provato a liberarmi dalla mia prigione, è stato lui a dimostrarmi che valeva la pena continuare a vivere. Ed è per lui che posso ancora far cambiare le cose.»

Ivan socchiude le palpebre e il suo sguardo s’intristisce, come se capisse. Scuote il capo. «Non cambierà nulla, Toris. Puoi confinarti dove vuoi...» Rivolge l’indice fuori dalla finestra. «A Londra, in Unione Sovietica, in Germania Est.» Mi posa la mano sul capo. Una morbida carezza di consolazione. «Ma rimarrai sempre lo stesso. E tu lo sai.»

Una fiamma di combattività mi asciuga le lacrime dalle palpebre, mi aiuta a risollevare il capo, a trovare il coraggio di tenere lo sguardo alto, di non sentire più il peso delle catene sulle braccia e attorno al collo. «No. No, invece...» Mi rifiuto di credere di essere condannato per sempre. Mi rifiuto di credere che ormai il mio destino è segnato. «Invece le cose cambieranno.»

I tempi cambiano, le persone possono cambiare, e anch’io sono cambiato da quando sono scappato da Londra. Cercherò Feliks, lo ritroverò e non lo lascerò andare mai più, sarò io a raggiungerlo proprio come lui ha raggiunto me e mi ha salvato più di dieci anni fa. E allora nessuno di noi sarà più solo, nessuno sarà più triste. Romperò definitivamente la maledizione dei Siberian Cubs, scioglierò il filo spinato che ci tiene ancora prigionieri, e rimetterò le lancette al nostro tempo.

L’autunno fiorirà, e non sarà mai più inverno.

 

* * *

 

20 marzo 1990

 

Caro Feliks,

quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui ci siamo visti, vero? Quasi quindici anni, ormai. Quindici anni separato da te e quindici anni lontani da Londra e da tutto quello che eravamo quando ci siamo incontrati per la prima volta.

Non so se riceverai presto questa mia lettera, non so se vorrai leggerla, non so se ormai non vorrai più avere nulla a che vedere con me e se quindi la strapperai gettandola via, ma spero che in qualche modo ti raggiunga e che ti trasmetta tutto il mio desiderio di rincontrarti, di riabbracciarti, e di chiederti scusa per tutto quello che c’è stato fra me e te, per la debolezza che ho mostrato quando ho deciso di lasciarti, e per tutti gli anni persi che avremmo potuto trascorrere assieme, costruendoci quella vita felice che tanto avevamo immaginato e sognato quando vivevamo in Inghilterra.

Tuttavia, questi anni di solitudine non sono stati vani per me. Mi hanno permesso di riflettere su tutto quello che è successo a Londra, sulle scelte che mi hanno poi intrappolato nella gabbia dei Siberian Cubs, sui sentimenti che mi tenevano legato a Ivan e ovviamente sui sentimenti che mi tenevano legato a te. Quando io e te ci siamo separati, Feliks, prima di lasciare la Siberia, ti avevo confessato che volevo proteggerti, che volevo essere in grado di darti la vita che meritavi, lontano dai pericoli, e che per questo sarebbe stato meglio starcene lontani fino a che io non avrei saputo fare ordine nella mia mente e nel mio cuore. Avevo paura di stare affianco a te perché sentivo di non meritarmelo, di non meritare te, di non meritare tutta quella felicità che sapevi donarmi anche solo sorridendomi.

In parte era vero, ma dall’altro canto esiste una seconda verità che nemmeno io ero in grado di riconoscere. Inconsciamente, Feliks, io ho sempre sperato in un ritorno di Ivan, esattamente come lo ha sperato Natalia per tutti questi anni in cui è vissuta assieme a me. È stato difficile da capire, è stato doloroso da accettare, ma purtroppo non esiste un’altra verità.

La morte di Ivan è stata improvvisa, è stata dolorosa, è stata un trauma che pensavo non avrei mai dovuto affrontare e che non pensavo si sarebbe riversato in tutta quella sofferenza che mi ha travolto.

È vero: io amavo Ivan. Era un amore diverso da quello che provavo e che continuo a provare per te, ma era autentico, e il fatto di non averlo mai pienamente realizzato mi ha reso succube di questo sentimento che tanto cercavo di nascondere persino a me stesso. Purtroppo Ivan non amava me, io per lui ero solo un rimpiazzo, un involucro vuoto da riempire con il ricordo di qualcun altro. Quando me ne sono reso conto, quando ho realizzato di essere stato usato per tutto quel tempo, e quando ho capito che i miei sentimenti non sarebbero mai potuti essere ricambiati, ho sofferto ancora di più, ho sofferto più di quello che avrei dovuto. Credevo di valere qualcosa per Ivan, credevo di stare facendo la cosa giusta nel rimanergli affianco e nell’alleviare il suo dolore, e quando mi sono reso conto che io non avrei mai potuto donargli quello che poteva dargli solo Yao, mi sono sentito di nuovo una persona inutile e insignificante, tornando a provare tutta quella bufera interiore che ho sempre cercato di placare con la droga.

Tutto questo dolore mi ha sempre reso cieco, ha fatto sì che io non mi rendessi conto che accanto a me c’eri tu. Tu che mi avresti amato incondizionatamente, a prescindere dal mio passato, a prescindere dalle mie insicurezze, a prescindere da come io vedevo me stesso. Tu mi amavi e io non me ne sono mai reso conto, accecato com’ero dai sentimenti che provavo verso Ivan.

Questi anni di isolamento mi hanno aiutato a capirlo, mi hanno aiutato a realizzare che è con te che voglio passare il resto della mia vita, che solo tu potrai restituirmi tutta la felicità che ho perso nel mio passato. E l’unica cosa che spero è che non sia troppo tardi, che tu sia disposto a perdonarmi e a darmi una seconda occasione.

Ti amo.

 

 

Tuo per sempre,

 

Toris

 

 


N.d.A.

La barzelletta che racconta Gilbert (di cui ho riportato solo la parte finale) è tratta dal film “Le vite degli altri”. Potete trovarla integralmente qui. Ma è un film talmente bello che ne consiglio comunque la visione integrale.

E col prossimo capitolo sigilliamo definitivamente la saga dei London Cubs, signori miei! Sono molto felice ma allo stesso tempo molto triste. Questa saga è durata quasi due anni interi, mi ha tenuto compagnia, mi ha fatta divertire, mi ha fatta disperare, mi ha dato occasione di migliorarmi, di confrontarmi con voi lettori, e di scrivere riguardo argomenti che ho molto a cuore, anche se non proprio leggerissimi. La prossima storia giuro che sarà tutta fatine e unicorni...

Ci becchiamo fra due settimane per salutarci come si deve. :)

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Capitolo 4
*** Caro Toris - Primavera ***


4. Caro Toris – Primavera

 

 

21 gennaio 1990

 

Caro Toris,

ho letto la tua lettera con le lacrime agli occhi, le stesse lacrime che ho versato quando ho visto Natalia tornare a casa sana, salva e cresciuta, dopo tutti questi anni. Ovviamente le ho subito riferito il contenuto della tua lettera (nonostante me l’abbia consegnata lei stessa, non l’aveva aperta, come le avevi chiesto tu), e posso dirti che sono io a dover ringraziare te per esserti preso cura di lei e per esserle stato affianco durante questi lunghi anni di lontananza che non sembravano avere fine. L’hai ricondotta fra le mie braccia per ben due volte, e non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto quello che hai fatto per la nostra famiglia che è di nuovo tornata calda e sicura come lo era un tempo. E non importa come la prenderai: io continuerò a considerarti il mio caro e amato cognato per tutta la vita! Ormai siamo tutti una famiglia e tale dobbiamo rimanere, anche se saremo distanti.

Come potrai vedere tu stesso, ho inserito nella busta della lettera anche il nostro nuovo indirizzo. Non ci siamo ancora trasferite, ma lo faremo entro pochi mesi. Anche dopo l’incidente di Chernobyl, non mi sono mossa da casa nostra, perché non ci sono stati pericoli di contaminazione in questa zona del Paese, questo almeno è quello che ci hanno assicurato. In ogni caso, non me ne sarei andata lo stesso, anche se mi avessero costretta, anche se si fosse rivelato pericoloso rimanere. Dovevo restare qua per offrire a Natalia una casa in cui tornare. Durante questi anni mi sono sentita come una fiaccola sempre accesa per indicare la via a chi vuole fare ritorno, e abbandonare il nostro paese avrebbe significato abbandonare mia sorella. Non avrei mai potuto fare una cosa simile. Ora che Natalia è tornata, però, ho deciso che è tempo per entrambe di cambiare vita, così andremo a vivere lontane dalla campagna, in una cittadina un po’ più grande dove lei potrà di nuovo sentirsi libera e indipendente, senza le dure restrizioni della nostra società siberiana, e io potrò comunque starle accanto godendomi in tranquillità gli anni della mia vecchiaia. Potrà non sembrare, ma l’età si fa sentire anche per me, e la vita di campagna si stava facendo decisamente troppo pesante e solitaria da sopportare. Cambiare aria farà sicuramente bene a entrambe, e non vedo l’ora di scoprire cosa il futuro avrà in serbo per noi.

Devo però darti una brutta notizia. Nemmeno io so dove possa trovarsi Feliks. Ha lasciato la Siberia il giorno dopo la vostra partenza, come Eduard e Raivis, senza però dirci quale sarebbe stata la sua destinazione, e da allora non ho più avuto sue notizie. Mi auguro con tutto il cuore che Eduard possa essere in grado di aiutarti (porgi i miei saluti anche a lui, nel caso dovessi rincontrarlo presto o dovessi scrivergli prima di me), e che anche tu sia in grado di trovare quella vita felice che tanto meriti dopo tutti questi anni di cordoglio.

Spero di rivedere presto tutti quanti voi, e di poter tornare a trascorrere mille altri giorni assieme come una vera famiglia. Mi siete diventati tutti molto cari.

Sii felice e vivi sereno, mi raccomando.

 

 

Con tutto il mio amore,

 

tua Katyusha

 

* * *

 

4 febbraio 1990

 

Caro Toris,

che bello poterti di nuovo sentire dopo tutti questi anni! Lo scorso novembre ho assistito in televisione alla caduta del Muro, e ho subito pensato sia a te che a Natalia. Hai ragione, ora i tempi stanno davvero cambiando, si prospetta un periodo ricco di rivoluzioni per tutti noi e, cosa più importante, io sono di nuovo un uomo libero! Quando ho saputo degli assalti agli uffici della Stasi ho fatto i salti di gioia, per davvero, come se mi fossi liberato di un enorme peso, delle ultime catene che mi tenevano legato alla mia vecchia vita e ai dolori del mio passato. Per il resto, per me gli anni passati qua in Finlandia sono stati ricchi di esperienze, mi hanno guidato nella costruzione di una vita nuova e onesta, hanno saputo mostrarmi come inseguire uno scopo più nobile a cui dedicare il mio lavoro. Mi hanno dato l’occasione di espiare tutti gli errori che ho compiuto quando ho vissuto a Londra, e non mi pentirò mai di aver compiuto questa scelta, anche se non si è sempre rivelata facile da portare avanti.

Sono felice di sapere che sia tu che Natalia state bene e che avete trascorso un periodo a Berlino senza troppe difficoltà. Siete stati entrambi molto coraggiosi a intraprendere quella scelta, molto più di me, perché so quanto deve essere stata dura vivere in Germania Est. Sono stato molto in pena durante tutti questi anni, chiedendomi se separarci fosse stata la scelta più giusta, e sapere che ora anche tu potrai iniziare a godere di una vita serena mi riempie di gioia. Teniamoci in stretto contatto, perché probabilmente ora io viaggerò attraverso tutta l’Europa e sarà difficile trovarmi in un luogo fisso. Pensavo innanzitutto di tornare a trovare la mia famiglia in Estonia (chissà se mi riconosceranno e se si ricorderanno ancora di me?), poi di fare un salto in Siberia per ringraziare Katyusha di persona (le dobbiamo tutti molto) e, una volta fatto tutto questo, probabilmente mi trasferirò o a Mosca o a Leningrado o forse addirittura negli Stati Uniti. Vivendo qua in Finlandia ho avuto modo di studiare molto e di lavorare nella ricerca delle nuove tecnologie. Mi sono state offerte molte opportunità e voglio davvero sfruttare l’occasione di utilizzare le mie capacità a fin di bene, nella costruzione di una società migliore e a servizio di gente onesta, per rifarmi in questo modo di tutto quello di cui mi sono macchiato quando lavoravo per Ivan.

E ora preparati perché ho delle ottime notizie da darti: so dove si trova Feliks! L’indirizzo lo potrai trovare assieme a questa lettera e, come puoi ben vedere, è tornato a vivere in Polonia, a Varsavia. Ora lavora in un piccolo albergo di famiglia che ha un discreto successo, per questo è stato così facile rintracciarlo. È lì dal Settantasei.

Non avere paura di rincontrarlo. Sono sicuro che anche lui non ha mai smesso di amarti, e che è ansioso quanto te all’idea di tornare assieme, ora che non c’è più nulla che possa ostacolare il vostro legame. Cerca di essere felice da ora in avanti, e di goderti la vita serena per cui hai tanto sofferto e lottato. Incontriamoci di nuovo, facciamo vedere che i Siberian Cubs sono cresciuti e che non sono più prigionieri di alcuna catena!

Anche io ho molte cose da raccontarti, cose che devono essere dette, e spero che in questi anni avremo occasione di poter rincontrarci come semplici vecchi amici.

Salutami tanto Feliks, quando lo incontrerai, e dagli un forte abbraccio anche da parte mia e di Raivis.

 

 

Tuo amico per sempre,

 

Eduard

 

* * *

 

aprile 1990

 

Ripiego la lettera di Eduard e liscio le piccole pieghe che si sono stropicciate sugli orli già consumati per tutte le volte in cui l’ho aperta e riletta senza sosta, provando sempre lo stesso tepore al petto, lo stesso battito di gioia che ha saputo riaccendere in me quella luce di speranza che ho tanto inseguito durante gli anni più bui. Rinfilo la pagina nella busta tappezzata da timbri e francobolli, dove è conservato anche il foglietto con il nuovo indirizzo di Feliks, e sistemo la lettera assieme a quella di Katyusha, scritta in cirillico, dentro la borsa da viaggio che riposa sulle mie gambe.

Rilasso la schiena contro il sedile del treno, stiracchio le gambe urtando i posti vuoti davanti a me, e abbandono una spalla contro la superficie del finestrino che irradia l’ambiente. Sospiro. Scosto una ciocca dal viso, pettinandola dietro l’orecchio, e mi lascio cullare dal rimbalzare ritmico del treno che corre attraverso gli ultimi scorci di campagna prima dell’arrivo in città.

La cristallina luce del sole splende sulla distesa verde smeraldo tagliata dal passaggio dei binari. Fitti alberi che crescono come tante piccole chiazze di bosco si stagliano contro il cielo di azzurro terso, diviso anch’esso dal passaggio dei cavi della corrente. I tetti delle abitazioni sempre più numerose sbucano all’orizzonte, accanto a edifici più alti – palazzoni prefabbricati di cemento, come quelli di Berlino Est – e ad alcuni cartelloni pubblicitari che preannunciano l’entrata nella periferia.

Il paesaggio scorre ancora, rapido come una pellicola. Il treno supera altri alberi, l’ombra gettata da un angolo di foresta, e sfreccia oltre un cartello a lettere cubitali affacciato ai binari.

 

Warszawa

 

Quella scritta mi punge come una scossetta e provoca un guizzo al cuore, un sussulto che mi fa rimbalzare sul sedile.

Fra poco entreremo in città e ci fermeremo alla stazione di Varsavia. Siamo al capolinea.

Strizzo i pugni sulle gambe, graffiando i pantaloni, inspiro a fondo per rallentare il battito che pulsa dritto nelle orecchie, ma un nodo di tensione blocca l’aria in gola. Brividi d’ansia mi scuotono, la paura attorciglia lo stomaco e spande una sensazione fredda e sgradevole attraverso la pancia e le guance, nonostante il tepore dei raggi solari a scaldarmi il viso. Varsavia ormai è vicina. Ancora pochi minuti e la mia vita potrebbe cambiare per l’ennesima volta.

Dei passi superano il mio scompartimento. Alcuni passeggeri che si sono già alzati attraversano il corridoio, si abbottonano le giacche, sfilano le borse dal portabagagli sopra le loro teste e trascinano le valigie dirigendosi alle uscite del vagone. Due bambini corrono davanti ai loro genitori e spariscono oltre i sedili. Un uomo si gira, raccoglie la valigia dalla mano di sua moglie e le parla in polacco, si sposta per farla passare e le sostiene la schiena mentre lei gli cammina davanti urtando i braccioli delle poltroncine.

Io resto seduto, preferisco aspettare che il treno arrivi in stazione prima di alzarmi. Ho paura che le gambe tremanti non riescano a reggermi abbastanza a lungo.

Abbasso le palpebre, massaggio la fronte dolorante dopo l’intera notte insonne passata a rigirarmi nel letto e dopo le undici ore di viaggio senza sosta da Berlino, e stringo la borsa al petto, aggrappandomi all’unico peso che mi dà l’impressione di sostenermi e di impedirmi di cadere nello spazio vuoto spalancato sotto i miei piedi.

Dopo la prima lettera che ho inviato a Feliks, quella in cui ho scritto riguardo gli anni in Germania e i miei sentimenti nei confronti di Ivan, e in cui confessavo di voler riallacciare i legami con lui, gliene ho spedita un’altra dove lo avvertivo che sarei giunto a Varsavia oggi, apposta per incontrarlo. Non ho ricevuto alcuna risposta, a nessuna delle due lettere, ma ho deciso lo stesso di mettermi in viaggio, anche a costo di non trovare nessuno in stazione ad aspettarmi, anche a costo di andare di persona all’indirizzo che mi ha spedito Eduard e di presentarmi davanti a Feliks, anche se lui decidesse di chiudermi la porta in faccia, anche se mi gridasse di non volermi mai più rivedere e che ormai fra di noi è finita, che era finita fin da quando ho deciso di separarmi da lui dopo la partenza dalla Siberia, che ormai la nostra storia assieme è stata un’occasione sprecata. Nonostante la paura che sia troppo tardi, fissa come un chiodo nel cuore, ho deciso che devo correre questo rischio, che voglio correre questo rischio, e che non lascerò che questi anni di solitudine siano stati vani. Ieri ho fatto i bagagli, ho chiuso la casa a Berlino per non tornarci mai più, e sono partito senza nemmeno sapere se Varsavia sarebbe stata la mia destinazione finale, senza sapere cosa mi succederà se Feliks decidesse di allontanarmi definitivamente dalla sua vita. È stata l’azione più impulsiva e coraggiosa di tutta la mia vita, e ho deciso che la porterò fino in fondo. Questa volta non mi lascerò sfuggire la felicità dalle mani. La inseguirò fino alla fine e stringerò la presa per non farla scappare mai più.

Sfilo la mano dalla borsa stretta al petto e raggiungo il tatuaggio sul lato sinistro del collo. Strofino la pelle sotto il bavero della giacca, gratto via la sensazione di prurito e disagio che si è riaccesa come una brace, e respiro a fondo per placare i brividi di agitazione che mi scuotono le braccia e le ginocchia.

La corsa del treno rallenta, altri fasci di binari si aggiungono alla rotaia su cui stiamo viaggiando noi, i cavi della tensione s’infittiscono, e una lunga piattaforma di cemento sostituisce il paesaggio verdeggiante che confina con la periferia di Varsavia. Il treno stride, un piccolo sobbalzo lo fa rallentare ancora, e le prime persone compaiono sulla piattaforma, affianco alle colonne portanti e a un altro cartello che ripete la scritta “Warszawa”, la nostra destinazione.

Sono arrivato.

 

.

 

Compio l’ultimo passo lungo i gradini che scendono dal vagone e balzo sulla piattaforma della stazione. Stringo la presa sulla maniglia della valigia rimbalzata contro la gamba e finisco urtato dalle persone che stanno scendendo dietro di me. Mi metto in disparte, all’ombra di una delle colonne che salgono per sostenere le tettoie, rimbocco il colletto della giacca contro il tatuaggio, in un gesto inconscio, e lascio che tutti mi camminino affianco strusciando le spalle sulle mie e riversandosi sulla superficie di cemento dove attende altra gente o in piedi o seduta sulle panchine.

Una ragazza con i capelli rossi salta giù dai gradini del vagone, molla il suo bagaglio, e corre con un sorriso verso un ragazzo che la sta aspettando. Lui spalanca le braccia, la accoglie stringendola a sé, e le fa compiere una mezza piroetta. Ridono entrambi, le loro voci si mescolano a quelle della folla, e il fiume di persone inghiotte i loro profili. Un altro passeggero appena sceso solleva un braccio e richiama l’attenzione di un signore con i baffi che gli risponde con un cenno del capo. Una coppia di anziani si lascia abbracciare da un bambino corso in mezzo alle gambe di tutti quegli sconosciuti solo per accoglierli; la vecchia signora si inginocchia e raccoglie il piccolo fra le braccia, stampandogli una serie di baci sulle guance. Un altro uomo si infila il capello in testa e sventola anche lui un saluto sopra le persone che lo circondano. Lo raggiunge una donna che gli getta le braccia al collo e che si tira sulle punte dei piedi per baciarlo sulle labbra.

La folla si addensa, il vociare si mescola allo schiocco dei passi sul cemento e allo stridere degli altri treni giunti in stazione. Altre persone scendono dai vagoni, si uniscono alla gente in attesa sulla piattaforma fino a che non riesco più a riconoscere quelli che arrivano e quelli che aspettano.

Rimango immobile, lontano dagli altri, lontano dalle voci e lontano dai loro passi che rischiano di trascinarmi via come una corrente. Chiudo gli occhi, mi isolo dalla confusione della stazione ferroviaria, e inspiro il profumo di Varsavia, l’odore acre e ferroso della stazione, simile quello della cenere di sigaretta, ma anche quello più dolce del vento primaverile che attraversa gli alberi e che soffia sulle guance, intiepidendole assieme ai raggi del sole. Mi riempio del profumo della terra di Feliks, di quell’aroma dolce e speziato in cui amavo immergermi quando accostavo il viso alla sua nuca, abbandonandomi alla morbidezza dei suoi capelli e lasciandomi trascinare in un altro mondo dove avrei anche potuto morire felice. È la prima volta dopo anni che sento realmente profumo di casa. Un profumo che gonfia il cuore di speranza e nostalgia, e che mi fa fluttuare sopra la folla, teso verso il cielo simile a una distesa di lucido smalto azzurro.

Riapro gli occhi, trascinato dalla speranza che ha lo stesso profumo dei fiori appena sbocciati, la stessa dolcezza di questo vento che mi sfiora le labbra, e lo stesso calore del sole che splende sulla stazione.

La folla è ancora attorno a me. Altre persone si abbracciano, le ultime rimaste sui vagoni scendono dai gradini, un altro signore anziano col bastone si fa aiutare a poggiare i piedi sulla banchina, altre si prendono per mano e attraversano la piattaforma per raggiungere l’uscita reggendo il peso dei bagagli.

Mi giro. Altra folla. Un mare di facce sconosciute. Compio un paio di passi in avanti, salgo sulle punte dei piedi evitando la spalla di un uomo che mi passa affianco, porto una mano davanti alla fronte e aguzzo lo sguardo in cerca di una presenza familiare, di un viso che riconosco, oltre tutti queste facce estranee. Resto in questa posizione fino a che non mi fanno male le caviglie, fino a che le punte dei piedi non bruciano e traballano, fino a che le gambe tese non riescono più a reggere il mio peso. Mi abbandono, torno con i talloni a terra e mi lascio schiacciare dal peso dello sconforto precipitato sulle spalle. Non c’è nessuno ad aspettarmi. Nessuno che mi correrà incontro sventolando un saluto sopra la testa, nessuno che mi accoglierà con un sorriso, nessuno che spalancherà le braccia per stringermi a sé.

Stringo la mano sul bagaglio, rilasso le dita, e sospiro. Abbandono il capo fra le spalle, restando chino nel mio triste e scuro angolino d’ombra, e lascio che le persone mi fluiscano affianco, superandomi come se fossi invisibile.

Alla fine è andata così. Feliks mi ha davvero abbandonato, ha sul serio deciso di non darmi più alcuna possibilità. La nostra storia è davvero finita. L’ho perso per sempre.

Qualcosa mi tocca la spalla, picchietta due volte. «Ehi, Siberian Cub.»

Quella voce mi pizzica l’udito, brucia attraverso le orecchie. Un rovente tuffo al cuore fa schioccare una scossa attraverso la schiena, ghiacciandomi come una statua e stringendo un anello di vertigini attorno alla testa. È la stessa sensazione stroncante che ho provato anni fa nel sentire la voce di Gilbert al bar di Berlino Est, quel tuffo nel passato che mi ha catapultato fra le strade di Londra. Ma questa volta è diverso. È una sensazione che mi fa implorare di non aver sentito male.

Mi giro.

I raggi del sole coronano il profilo di Feliks, splendono sui suoi capelli biondi, illuminano quei furbi e verdi occhi felini che bucano l’anima come un tempo, e tingono le guance sfiorate dal piccolo sorriso che gli tiene incurvate le labbra. Lui ritira il braccio che ha teso per toccarmi la spalla e giunge le mani dietro la schiena, flette il capo di lato e tiene il fianco leggermente flesso in quella posa che tante volte gli ho visto assumere anche quando era giovane. Sopra gli abiti indossa un semplice cappotto primaverile che gli arriva alle ginocchia. Non ha più la minigonna, o gli stivaletti, o la giacca di pelle. È diverso ma è sempre lui. Un Feliks più adulto ma sempre con quel fine viso da ragazzina, con quel sorriso dolce come il suo profumo che non ho mai dimenticato e che ora mi travolge in una soffocante ondata di malinconia.

Tremo. I brividi discendono le braccia, le dita schiacciano la maniglia della valigia fino a che le falangi non perdono sensibilità. Lascio cadere il bagaglio ai miei piedi e la valigia emette un tonfo secco, lo stesso del mio cuore che picchia un ultimo battito soffocante. Mi porto le mani alla bocca e trattengo un sospiro che attraversa il petto in una sfrecciata di gioia, paura e confusione.

Non è possibile...

Feliks socchiude le palpebre, solleva un sopracciglio, e flette il sorriso in un piccolo broncio da finto offeso. «Be’, non mi riconosci?» Il vento gli soffia attraverso, scuote i lembi del cappotto attorno alle gambe, sparge il suo forte profumo di fiori e vaniglia, e agita le punte dei capelli biondi, scoprendo il tatuaggio dei Siberian Cubs sul lato sinistro del collo. Feliks raccoglie una ciocca, la arriccia fra le dita e sfrega con l’unghia che non è più smaltata di rosa. Giochicchia con i capelli e china lo sguardo, mostrando la stessa timidezza di quando era ragazzo. «Non sarò mica invecchiato così tanto, no? Guarda che mi offendo.»

Le prime brucianti lacrime sgorgano prima ancora che io riesca a rendermi conto di aver cominciato a piangere, scendono a bagnarmi le guance, e scivolano attraverso le mani premute sulla bocca. Mi copro la faccia, nascondo i primi singhiozzi che mi scuotono e che vibrano fra le labbra, e dentro di me sorge il terrore soffocante di sollevare i palmi, di riaprire gli occhi, e di scoprire che me lo sto immaginando, che Feliks non è qui davanti a me, che la sua immagine è solo l’ennesimo fantasma, l’ennesima illusione.

Strofino le lacrime che continuano comunque a scorrere, riapro le palpebre gonfie e brucianti, e mi affaccio alla luce che splende sulla piattaforma della stazione. Feliks è ancora davanti a me. Le punte delle dita strette alla ciocca di capelli che rigira fra le unghie, il suo sguardo che mi sfiora, le sue labbra che mi sorridono, il profilo snello e sottile – solo un po’ più alto – incorniciato da una corona di luce bianca e fresca come questa primavera che ci circonda.

Vorrei piangere ancora, vorrei ridere dalla disperazione, cadere ai suoi piedi in mezzo a tutta questa gente, anche a costo di farmi calpestare. Continuo a singhiozzare e a bagnare le mani di lacrime, a svuotarmi di tutta quella sofferenza di cui posso finalmente liberarmi.

Feliks stringe la mano sull’anca, flette il capo sull’altra spalla, e si sforza per nascondere il sorriso di gioia dietro il piccolo broncio. «Non mi saluti nemmeno?»

Singhiozzo ancora. Trattengo una risata insorta dal cuore gonfio di gioia, svuotato di tutta l’ansia che mi ha stritolato durante tutto il viaggio. «S-scusa.» Altro singhiozzo. «Sono...» Sorrido. Lascio che la luce del sole sciolga tutto il dolore che ho deciso di lasciarmi alle spalle. «Sono a casa.» E questa parola ha un sapore buonissimo. Casa. Feliks.

Anche Feliks sorride. Mi riaccoglie nella sua vita. «Bentornato.»

Strofino via le ultime lacrime dal viso e spalanco le braccia, mi getto io a raccoglierlo e a stringerlo di nuovo nella mia vita. Feliks salta e si aggrappa a me, strizza le dita sulla mia giacca e tuffa il viso contro la mia spalla, sfiorandomi il viso con i capelli. Il suo respiro mi tocca, morbido come una carezza. Ci abbracciamo come succedeva sempre a Londra, quando lui attraversava la strada lasciando sventolare la gonna e facendo tintinnare i bracciali, e si tuffava fra le mie braccia segnate dai lividi e coperte dalle maniche della giacca di pelle nera.

Allentiamo la presa soffocante. Ricomincio a respirare, risucchio le ultime lacrime, sbatto le ciglia per dissolvere la patina appannata dal pianto, e incontro gli occhi verdi di Feliks, così vicini da risucchiarmi nel suo sguardo. Gli scosto una ciocca di capelli dal viso. Il mio tocco percorre il profilo morbido e tondo della sua guancia tiepida, raggiunge il collo, si sofferma sul tatuaggio. Anche Feliks posa la mano sul mio viso, mi carezza con quelle dita sottili e calde che si sono strette alle mie tante volte, che scorrevano fra i miei capelli, che stropicciavano le maniche della giacca quando era nervoso, e che mi asciugavano le lacrime dal viso. Solleva il pollice per strofinare via un’ultima lacrima perlacea rotolata sul mio zigomo. Ripete quel gesto che ha compiuto tante volte a Londra, perché fra di noi è sempre stato lui quello forte, quello che mi asciugava le lacrime quando non c’era nessun altro a farlo, quando nemmeno io ne ero in grado.

Il vento di primavera ci circonda, scuote gli alberi piantati oltre il confine della stazione, spinge via una nuvoletta dal sole, e lascia che i suoi raggi ci abbaglino. Un vortice di petali turbina attorno a noi, agita i capelli, e ci risucchia nel suo dolce profumo di rinascita.

Mi tengo stretto a Feliks, intreccio la mano ai suoi capelli, sostengo la nuca, e chino la fronte a occhi chiusi. Lo bacio assaporando il sapore delle lacrime che scivolano fra le nostre labbra, ma la bocca di Feliks è dolce come un tempo. Serba il sapore della mia nuova vita, del nostro futuro assieme. Un futuro che sarà sempre luminoso come questa primavera sbocciata solo per noi e che non sfiorirà mai.

Con un bacio ricomincio la mia vita; con un bacio termina la storia dei Siberian Cubs.

 

 

 

 

 

 

– Fine –

 


N.d.A.

Signori, è stato un viaggio ben più lungo di quello che mi aspettavo.

Siberian Cub era nata come una piccola storiella senza pretese di circa dodici capitoli, e invece poi si è trasformata in un bel malloppo di ventiquattro capitoli più tre spin-off che compongono dieci capitoli complessivi per un totale di trentaquattro capitoli, quasi il triplo rispetto a quelli che mi ero prefissata. E quando mai io riesco a rispettare i limiti che mi auto impongo, nevvero? Quest’anno a Babbo Natale mi sa tanto che chiederò il dono della sintesi. Ma lui scenderà dalla slitta, si accomoderà sul divano, mi farà sedere sulle sue ginocchia, e carezzandomi la testolina mi dirà: “No, Frame, niente dono della sintesi, ché col Miele sei solo al Quarantuno e c’hai ancora cinquecentoottantasei capitoli da scrivere. Tieni: eccoti invece dei cerotti alla caffeina per aiutarti a rimanere sveglia anche quando cominceranno a sanguinarti gli occhi e il cervello ti sbrodolerà dalle orecchie”.

Grazie, Babbo Natale. Grazie.

In ogni caso, la saga dei London Cubs era un progetto a cui tenevo davvero molto, quindi vederla realizzata nella sua interezza è sicuramente un gran bella soddisfazione. ^-^

Ringrazio calorosamente tutti i cari lettori che hanno seguito queste quattro storie, quelli che sono arrivati fino in fondo e che stanno leggendo queste ultime parole, i lettori silenziosi, e in particolar modo quelli che hanno commentato e condiviso le loro opinioni con me. Il vostro sostegno è stato preziosissimo. Miele escluso, questo è stato il mio progetto più longevo, e se sono riuscita a portarlo a termine è stato soprattutto grazie a voi e alle vostre belle parole d’incoraggiamento che mi hanno sempre dimostrato che valeva la pena andare avanti fino in fondo, anche quando fatica e demoralizzazione si facevano sentire.

Grazie infinite a tutti!

Ora scusatemi, ma ho una Seconda Guerra Mondiale da portare avanti... *abbottona l’uniforme, indossa lo zaino, si infila l’elmetto, imbraccia il Carcano 91, ed esce di scena*.

Il Miele torna settimanale! *\(>.<)/* Dopo le vacanze, ovvio...

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