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Autore: _Frame_    28/10/2018    3 recensioni
[Epilogo di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[LietPol Human!AU; Past!RusLiet; Fake!BelaLiet]
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La fuga da Londra è l’occasione che serve a Toris per tornare a inseguire la felicità che ha tanto desiderato assieme all’unica persona che abbia mai amato veramente, lontano dall’ombra di Ivan e dalla vita di strada che lo ha devastato durante gli anni trascorsi in Inghilterra. Ma i Siberian Cubs potrebbero aver influenzato in maniera permanente il suo destino, sottraendolo per sempre alla possibilità di vivere lontano dal passato che lo ha quasi ucciso e da quei traumi che ancora continuano a perseguitarlo.
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Estratto da “Chinese Cub”:
«Quello che c’è fra me e lui non ha niente a che vedere con quello che c’è fra me e te. Toris è il mio oppio, serve solo a stordirmi e a dimenticarmi del dolore che provo stando separato da te. Lui è solo una bambola di pezza in confronto a quello che significhi tu. Perché è debole, perché non conosce l’amor proprio, perché tiene sempre lo sguardo basso, e perché permette alle persone di usarlo come vogliono. È tutto quello che non sei tu.»
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Estonia/Eduard von Bock, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Ucraina
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
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Lithuanian Cub

 

 

 

Scarico tutta la rabbia che provo contro me stesso, è questa la depressione, dicono. Però la depressione provoca anche una mancanza di motivazione. Mi cresce un vuoto dentro. La droga mi serve a riempire il vuoto, e mi aiuta anche a soddisfare il mio bisogno di distruggere me stesso, e qui torniamo alla rabbia diretta contro di sé.

[...]

L’eroina è una droga onesta, perché toglie di mezzo tutte le illusioni. Con l’ero, se stai bene ti senti immortale. Se stai male ti senti ancora più di merda, ma è merda che c’era già da prima. È l’unica droga veramente onesta. Non perdi mai la conoscenza. Ti dà una botta e basta, ti fa star bene. Poi dopo vedi quanto fa schifo il mondo così com’è e non ci puoi fare più un cazzo, non ti funziona più l’anestesia.”

 

(Trainspotting, Irvine Welsh)

 

 

 

1. Caro Eduard – Estate

 

 

2 dicembre 1989

 

Caro Eduard,

dopo tutto questo tempo ho finalmente trovato il coraggio di rintracciarti di nuovo e di scriverti per avere tue notizie. Sapevo che provare a contattarti prima di adesso sarebbe stato rischioso, lo sapevamo entrambi, ma ti prego lo stesso di scusarmi per tutti questi anni di silenzio che devono essere stati difficili da affrontare per te tanto quanto lo sono stati per me. Spero comunque che questa mia lettera ti raggiunga presto, e soprattutto che ora non ci sia più alcun pericolo nel tornare in contatto fra di noi, dati tutti gli enormi cambiamenti che sono avvenuti e che si stanno ancora susseguendo in Europa. Molte frontiere si sono aperte e molte si apriranno ancora, ma è difficile prevedere quanto questa rivoluzione influenzerà il clima attuale. Nutro comunque una forte speranza in un cambiamento positivo, e credo all’avvento di un futuro più libero e felice non solo per noi ma anche per le nostre nazioni.

Spero di trovarti in salute, e spero che anche Raivis stia bene, che entrambi abbiate vissuto con serenità nonostante il nostro passato, i difficili anni di Londra, e la vita nociva che abbiamo condotto quando abitavamo in Inghilterra. Dal canto mio, non ho nulla da rimpiangere. Allontanarmi dall’Ovest si è rivelata la mia salvezza, da qualsiasi punto di vista, anche se poi per me si è trattato di vivere in una città costrittiva come Berlino Est. Dopo gli anni di devasto trascorsi a Londra, non è stato difficile per me ambientarmi qui nella DDR. Se non altro non ho avuto più alcuna possibilità di autodistruggermi come facevo a Londra. Non ho mai considerato l’Est come una vera costrizione, non dopo aver provato sulla mia pelle gli effetti della vera prigionia data dalla dipendenza, dai Siberian Cubs, e ovviamente da Ivan che avevano stravolto in maniera così negativa la mia vita.

Se sono ancora vivo oggi, nonostante le speranze di farcela e di salvarmi da quel mondo fossero così poche, è anche grazie a te. Ti ringrazio di aver avuto cura di noi non solo quando vivevamo a Londra, ma anche dopo la nostra fuga dalla Siberia, e di aver permesso a me e a Natalia di trascorrere degli anni sereni qui a Berlino, anche se non sempre facili da affrontare. Ovviamente anche lei ti porge i suoi saluti e la sua gratitudine. Ti dobbiamo tutti molto.

Adesso Natalia ha preferito tornare in Siberia, da Katyusha, in modo da riallacciare quel legame che entrambe temevano si fosse perso dopo aver lasciato l’Unione Sovietica per la seconda volta. Natalia è troppo orgogliosa per ammetterlo apertamente, ma anche lei ha sofferto tremendamente la mancanza di sua sorella. Se ha voluto abbandonare una seconda volta sia la Siberia che Katyusha è stato solo per cercare di dimenticare Ivan, per allontanarsi dal suo doloroso ricordo, e per risanare quelle ferite che sono purtroppo rimaste aperte per molti anni anche qui in Germania Est. Ho già scritto una lettera anche a Katyusha per porgerle i migliori auguri per il futuro e per assicurarmi che sia lei che Natalia siano serene assieme, di nuovo riunite. Entrambe si meritano una vita felice e priva di dolori, e spero che sarà così da ora in poi.

La morte di Ivan è stato un peso enorme da affrontare per tutti quanti. Nemmeno io avrei mai creduto che mi sarei ritrovato così perso, così disarmato, e così disperato nell’apprendere che lui non ci sarebbe stato più. Ma è stato solo allora che ho realizzato pienamente che era Ivan la mia vera droga, che era lui il vero veleno che mi intossicava e da cui facevo così fatica a staccarmi. Forse nemmeno lui ne era consapevole, e infatti non riesco ancora a incolparlo per le mie disgrazie. Eravamo uniti in un legame che faceva male a entrambi, nel quale però cercavamo la stessa cosa: un sollievo. Nemmeno lui era immune alle nostre debolezze, a debolezze che io per primo ho sperimentato sulla mia pelle. Per questo, ancora oggi, non riesco a provare alcun tipo di rabbia o di risentimento nei suoi confronti. Non l’ho dimenticato e non ho intenzione di dimenticarlo, perché sarebbe disonesto e meschino da parte mia, considerando tutto quello che abbiamo significato l’uno per l’altro, ma anche per me è venuto il momento di andare avanti e di non farmi più perseguitare dai fantasmi del mio passato.

Il mio futuro è tuttavia ancora pieno di incertezze. Un’altra gabbia è stata distrutta e, come è accaduto quando i Siberian Cubs hanno cessato di esistere, mi sono ritrovato nuovamente perso, come se non esistesse un vero posto per me nel mondo. Ho vissuto in molti luoghi – in Lituania, in Inghilterra, in Siberia, a Berlino Est – eppure non possiedo nessun luogo che io possa chiamare “casa”. Se quel posto esisteva, l’ho capito forse troppo tardi, era accanto a Feliks, dovunque noi ci trovassimo, e ora il terrore di averlo perduto per sempre è più forte che mai.

Separarci però è stata la scelta più giusta, perché questi anni di solitudine, pur avendo Natalia affianco, mi hanno aiutato a capire molte cose di me stesso e a far luce su quello che ho sempre provato per lui e che ho sempre cercato di nascondere a me stesso per non doverne soffrire la mancanza. Tuttavia ora ho paura di non poterlo rivedere mai più, ho paura che per noi non esisterà una seconda possibilità di tornare uniti e di costruire assieme quel futuro felice che tante volte avevamo sognato quando eravamo ragazzi e vivevamo a Londra. Spero di riuscire a contattarlo, spero che lui desideri rivedermi tanto quanto lo voglio io, spero che mi ami ancora, e spero che per noi due non sia troppo tardi.

Mi auguro di ricevere presto notizie anche da parte tua e di Raivis. Se c’è una cosa che desidero è che questa distanza non abbia distrutto la nostra amicizia. Forse è una delle poche conseguenze positive che ha comportato la nostra vita a Londra, e non voglio rinunciarvi, perché per me ha ancora un valore profondo.

Teniamoci in contatto, con la speranza di rincontrarci tutti quanti nei prossimi anni. Sarebbe bello e mi rallegrerebbe molto sapere che state tutti bene e che questi anni di sacrifici non sono stati vani. Ho molte cose da raccontarvi, ho molte cose che voglio chiedervi, e mi mancate tremendamente.

 

 

Con tutto il mio affetto e la mia amicizia,

 

Toris

 

* * *

 

giugno 1974,

Londra

 

Feliks stringe la mano intrecciata alla mia, mi cammina davanti guidandomi lungo la stradina di sterrato che attraversa Regent’s Park, e passeggia sotto l’ombra degli alberi, circondato dalle foglie ondeggianti delle betulle che spandono un riflesso verde cristallino, come tanti frammenti di vetro sotto il sole. «Ed ecco perché la primavera è in assoluto la mia stagione totalmente preferita. Capito, no?» Tiene stretta la mia mano e si gira a guardarmi da sopra la spalla, senza smettere di passeggiare. I capelli raccolti in una coda che tiene scoperte le orecchie, alcune ciocche bionde a sventolargli sulle guance e davanti alla fronte. Feliks ne stringe una e la arrotola attorno alla punta dell’indice. Corruga un’espressione assorta e pensierosa, i suoi sottili occhi felini brillano come smeraldi sotto il riverbero dell’estate appena fiorita che pare aprirsi dovunque lui posi i passi. «Perché, cioè, in realtà anche l’estate non è che mi dispiaccia tanto, ma con tutto quel caldo che fa poi mi si incollano i capelli alla faccia, e c’è quello schifo di umidità che mi fa diventare le punte una cosa tipo terribile da gestire e non so mai come pettinarli.» Sfila l’indice dalla ciocca, passa le dita fra i capelli sfuggiti all’elastico e li pettina dietro la curva dell’orecchia. Le dita intrecciate alle mie stringono la presa, le mani dondolano fra i nostri fianchi, e Feliks continua a camminare rimirando i riflessi di luce creati dal tetto di rami scossi dalla brezza. «E poi dicono tutti che la cosa più bella dell’estate è andare al mare, no? Ma, sì, io non sono mai stato a fare il bagno quindi non saprei proprio se ne vale la pena. Oh, cioè, una volta, quando ero, sai, più piccolo, una specie di mia zia mi ha portato a fare il bagno al lago dove lei ha la casa, ma l’acqua era tipo ghiacciata come il Polo Nord, e c’erano tutte quelle schifo di alghe che credevo di trasformarmi in una specie di orripilante mostro di palude.» Rabbrividisce, e i tremori risalgono anche il mio braccio. «È stata sul serio una cosa stra traumatizzante e mi sono detto: “Feliks, mai più”.» Taglia l’aria con un secco gesto della mano libera. «“Questa è l’ultima volta che ti fai trascinare in uno schifo del genere, potessi crepare se ci dovessi cascare di nuovo”.»

Mi copro la bocca e rido, non riesco proprio a farne a meno. Feliks riesce sempre a ridarmi il buonumore. È un dono naturale. Il cuore diventa più tiepido, il petto si alleggerisce, e anche i passi si fanno meno faticosi da portare avanti, come se stessi camminando in mezzo al prato e non sullo sterrato. Il sole scalda le guance con una luce più vivace, nonostante l’ombra delle betulle a trattenerne i raggi.

Sollevo anch’io lo sguardo fra i rami, riparandomi con la mano libera che non stringe quella di Feliks, e inspiro il profumo del parco, dell’aria pulita, dello spazio aperto. I fiori che stanno sbocciando nelle aiuole mi solleticano la punta del naso con l’aroma di polline, simile a quello del miele. Il venticello che soffia dalle sponde del laghetto attraversa i capelli e i vestiti, rinfresca la pelle accaldata dalla giacca di cotone di cui non posso fare a meno neanche ora che le temperature si stanno alzando. Le maniche lunghe mi tengono le braccia coperte. Era da tanti giorni che non uscivo a prendere un po’ d’aria fresca, e ora che le piogge delle ultime settimane sono cessate il sole sembra splendere di una luce ancora più limpida e accesa. Passeggiando assieme a Feliks nel parco in fiore, sotto il frusciare dei rami, il canto degli uccellini e lo scrosciare delle acque sulle sponde del laghetto, sembra davvero che l’estate gli stia sbocciando attorno. «Mi sarebbe piaciuto vederti.»

Feliks si stringe nelle spalle, si copre il viso arrossito per l’imbarazzo, e trilla una risatina nervosa. «Oh, no, ti prego.» Sventola la mano per scacciare quell’idea. «Sarei stato tipo la cosa più oscena che tu abbia mai visto.»

Gli stringo la mano e sorrido. La luce del sole brilla attraverso l’oro dei suoi capelli che, raccolti all’indietro, mettono in risalto i tratti morbidi del volto, il colore roseo delle guance, la curva tonda delle orecchie e il battito delle ciglia davanti al verde delle iridi. Per quanto mi sforzi, non riuscirò mai a vedere nulla di orrendo in lui. «Non potresti mai esserlo.»

Feliks assottiglia le palpebre, nasconde un sorrisetto fra le labbra incurvate che gli rendono il viso ancora più rosso, e fa dondolare di nuovo le nostre mani giunte. Passa le dita fra i capelli, rigira di nuovo una ciocca ribelle attorno all’indice e la strofina con l’unghia laccata da un velo di smalto trasparente. «Tu hai mai fatto il bagno al mare?»

Accanto a noi passeggia un signore che porta a spasso un cane dalmata allacciato al guinzaglio. Il cane annusa a terra, solleva il muso verso me e Feliks, rizza le orecchie, e segue il padrone svanendo alle nostre spalle.

Annuisco. «Sì, una volta. Da piccolo.» L’ombra degli alberi che incorniciano la stradina mi risucchia nei ricordi. Socchiudo gli occhi e rievoco quell’estate, l’ultima realmente felice di cui ho memoria prima del mio arrivo in Inghilterra, prima che la mia vita cambiasse per sempre. Un forte senso di nostalgia mi stringe il cuore, spande fra le guance un sapore acre e dolce allo stesso tempo. «Quando ero piccolo, un’estate, io e la mia famiglia abbiamo trascorso una vacanza alla spiaggia di Klaipėda. Io in realtà ho sempre preferito le gite nei boschi, ma è stata una settimana indimenticabile. Uno di quei momenti che mi piace ancora ricordare.» Volto la guancia per posare lo sguardo sul laghetto che riposa fra le curve del prato. Il sole di giugno brilla in una composizione di scaglie che ondeggiano fra le acque calme, scomposte solo dal nuoto di uno stormo di anatre. Alcune si stanno avvicinando alla riva, dove una giovane coppia passeggia tenendosi per mano. Un’anatra sbatte le ali sollevando una serie di schizzi d’acqua, e altre s’immergono, scrollando le testoline non appena riemergono. I raggi del sole che scivolano sull’acqua come spennellate di luce alimentano i ricordi, schiariscono la patina grigia che li avvolge. «I tramonti erano molto belli, erano la parte che preferivo. La spiaggia era deserta e non si vedeva altro che una distesa di acqua rossa verso l’orizzonte con il sole a sfiorarne le onde, e non c’era altro suono se non lo scroscio dell’acqua e il fischio del vento.»

Lo sguardo di Feliks s’illumina, gli occhi brillano di meraviglia, e la stretta della sua mano mi trasmette un guizzo d’entusiasmo. «Ooh, e com’era fare il bagno nel mare vero?» Mi saltella davanti, prosegue camminando all’indietro, rimbalzando fra alcune radici che emergono dallo sterrato. «Com’era l’acqua? Fredda o calda? E c’erano anche lì tutte quelle schifo di alghe?»

«No» scuoto il capo. «L’acqua era molto limpida. Però era anche molto fredda, nonostante fosse estate.» Mi stringo nelle spalle, svelando un piccolo sorriso di dispiacere. «Temo sia sempre così quando si fa il bagno nel Mar Baltico. È inevitabile.»

Il sorriso di Feliks si spegne, i suoi occhi scivolano a terra, nascosti da una ciocca di capelli, ma le sue guance restano spolverate di rosa, di quella piccola emozione che gli ha fatto palpitare il cuore. «Oh.» Ma il broncio non dura a lungo. Feliks torna a saltellarmi affianco e fa sventolare la gonna a balze che oscilla attorno alle cosce. Le cinghie borchiate allacciate agli stivaletti emettono allegri squilli argentini a ogni sua falcata. «Perché dicono che il bagno al mare sia, sai, totalmente più bello, in realtà, rispetto a quello nel lago. Ma l’acqua è salata, e io non so proprio se avrei coraggio di bagnarmi i capelli. Pensa che disastro poi sciogliere tutti i nodi!» Stringe le dita intrecciate alle mie, e le catenelle dei braccialetti che gli pendono dal polso mi sfiorano la mano. Feliks si avvicina a posarmi la tempia sulla spalla, e sospira a fondo. «Magari un giorno andiamo in un mare caldo. Il mare più caldo di tutti!» Mi spreme due volte la mano. «Mi ci porti un giorno, mh? Mi ci porti?»

I suoi capelli così vicini mi sfiorano la guancia, mi solleticano con il loro profumo inconfondibile, di vaniglia e di frutta fresca. Una dolcezza in cui potrei annegare e che riesce sempre a farmi sentire bene, ad addolcirmi anche nelle giornate più buie.

Socchiudo le palpebre e mi abbandono a questa sensazione, al desiderio di potergli rimanere sempre affianco, ogni volta in cui mi sento triste e ho bisogno di lui. «Mi piacerebbe.»

Continuiamo a camminare attraverso il parco, superiamo i cespugli di rose recintati, le panchine di legno giù occupate da gente che legge e da gente che chiacchiera, e passiamo oltre la stradina che scende fino alle sponde del lago dove è possibile noleggiare le barchette. Una coppia di ragazzi sta lanciando pezzetti di pane alle anatre e ai cigni, sollevando un grande starnazzare che si mescola al frullare delle ali. Un uomo in bicicletta ci supera. Ci passano davanti anche una signora anziana che tiene la mano a un bambino e una donna che cammina senza staccare gli occhi dal libro che sta leggendo.

Feliks si guarda attorno, catturato dall’immagine dei cigni che sbattono le ali e che tornano a tuffarsi fra le acque del lago. Solleva gli occhi fra i rami delle betulle, dove uno scoiattolo è appena balzato da un albero all’altro, e lascia che la luce del sole torni di nuovo a rischiarirgli il volto. «Poi la primavera è in assoluto la stagione più bella perché in estate non ci sono i fiori e invece in primavera sì.» Solleva la tempia dalla mia spalla e indica il cielo. «Perché a me hanno insegnato, no, che i fiori cadono dagli alberi per lasciarci sopra i frutti, o qualcosa così. E io so fare le corone di fiori, sai? Ed è un peccato non avere fiori con cui farle.» Accosta la mano al mio viso, passa le punte delle dita fra i miei capelli, mi sfiora la guancia con le nocche, con quel tocco caldo e sottile che è come un piacevole fuocherello sulla pelle. Mi sorride. Mi scruta a fondo con quei suoi occhi misteriosi e indecifrabili persino per me. «Per me tu staresti tipo una favola con una corona di fiori.»

Fremo sotto il suo tocco tiepido, davanti alla luce del suo viso che sembra guardarmi fin dentro il cuore. Gli avvolgo la mano posata sulla mia guancia, sorrido da dietro il profilo delle dita. «Sono sicuro che a te starebbe di gran lunga meglio.»

Feliks scuote il capo facendo ciondolare la coda di cavallo. «Sciocchezze» cinguetta. «Un giorno te ne faccio una, e vedrai che meraviglia che sarai.»

«Mi piacerebbe vederti con una corona di fiori.»

«Mhm.» Feliks sbatte le ciglia e mi scocca un’occhiata maliziosa. Il rossore sulle guance e i fili di capelli che gli cadono sul viso gli donano un aspetto più timido. Si stringe nelle spalle e scosta una ciocca dietro l’orecchio, snuda il biancore del collo che ho già baciato così tante volte e che ora è avvolto da un nastrino verde in tinta con la camiciola. «Perché sarei tipo più carino?»

Sorrido con più naturalezza. «Ma tu sei già carino.»

Feliks mi stringe la mano, trasmettendomi quel guizzo di gioia che è brillato nel suo sguardo arrossito. Sistema la giacca appoggiata sulle spalle – l’ha tolta appena entrati nel parco, quando le nuvole si sono schiuse e il sole si è fatto più caldo – e continua a guidare la nostra passeggiata, spostando gli occhi in mezzo al prato dove delle persone si sono fermate a lanciare la palla a due cani, e verso il laghetto dove i cigni e le anatre stanno ancora beccando i pezzetti di pane sulle sponde. «E la tua stagione preferita qual è, invece?»

Tengo il passo con lui, senza lasciargli la mano, e anche io mi guardo attorno, schivando però gli occhi delle persone che ogni tanto incrociamo lungo la stradina. «Uhm» ci rimugino. «Non saprei, non ci ho...» Mi strofino la nuca. «Non ci ho mai pensato prima.»

«Ma è facile scoprirla!» Feliks compie un saltello più vivace, facendo trillare le borchie degli stivaletti, e mi supera sollevando un indice al cielo. «Pensa a quella che ti rende in assoluto più felice e che quando arriva tu sei tipo: “Che bello! È finalmente arrivata! È da tipo tutto l’anno che aspettavo che arrivasse questo momento e adesso non vedo totalmente l’ora di godermelo alla grande!” Ecco, quella che ti fa dire così è la tua stagione preferita.»

Compio anche io un saltello per stare al passo con lui ma torno subito a guardare per terra, a riflettere su questo pensiero inaspettato. «Quella che mi rende più felice» rimugino. Ho smesso di contare il tempo da anni, ormai. Per me una stagione vale l’altra, non c’è differenza fra i diversi mesi, fra un giorno feriale e uno festivo, e ultimamente il mio fisico è così indebolito che mi accorgo a malapena del cambio delle temperature o dell’aumentare dell’umidità.

Chiudo gli occhi e mi aggrappo di nuovo ai ricordi, mi lascio guidare dalle immagini che provengono dal mio passato, dai giorni in cui ero ancora sereno e in pace con me stesso. Dai giorni più felici che ancora oggi sogno con nostalgia.

Evoco il tepore di un caminetto acceso, il profumo della legna bruciata e della pece che scoppietta fra le fiamme, le sfumature arancio e rosse che avvolgono le pareti del soggiorno, gli sciami di scintille incandescenti trattenuti dalla grata. L’odore speziato della cucina, della zucca cotta, e quello dolce delle castagne arrostite. Il picchiettare morbido della pioggia sulle finestre, il grondare dell’acqua sui vetri, il cielo annuvolato fra i comignoli e dietro i rami spogli degli alberi, e la nebbia della mattina che avvolgeva le colline all’orizzonte. Lo scricchiolare delle foglie secche durante i pomeriggi ancora tiepidi e assolati che trascorrevo passeggiando nel bosco. Il profumo della corteccia, del muschio umido, del fumo proveniente dai comignoli, della terra dei campi, e il rosso sanguineo del sole al tramonto che calava all’orizzonte, tingendo le nuvole di rosa. Quei colori che ancora oggi ricordo con una profonda e dolorosa malinconia che mi fa desiderare di tornare a quei tempi.

«L’autunno, direi.» Continuo a camminare affianco a Feliks, risollevo lo sguardo da terra, scosto i capelli finiti sul viso, e mi lascio catturare dai riflessi della luce estiva che si scompone fra i rami delle betulle. Un mosaico di luce bianca e verde che, nonostante il tepore, non riesce lo stesso a scaldarmi il cuore. «Mi piace guardare le foglie che cambiano colore e che cadono, mi piace sentire il soffio del vento fra gli alberi che assumono quel buon profumo di corteccia bagnata dalla pioggia, e mi piace guardare gli acquazzoni da dietro le finestre, oppure svegliarmi la mattina presto e ascoltare il silenzio che di solito c’è sempre nelle campagne nebbiose. E poi accendere il caminetto e passeggiare in mezzo alle pozzanghere.»

Feliks compie un rimbalzo di gioia, i suoi occhi tornano a illuminarsi di entusiasmo. «Le pozzanghere sono divertenti!» Guarda anche lui verso il cielo ma il sorriso sbiadisce, si fa pensoso. «Ma il cielo d’autunno è sempre così nuvoloso.» Scuote il capo, imbronciando una piccola smorfia di disappunto. «Se non c’è il sole non è per niente divertente, mi mette di malumore il pensiero di dover sempre stare in casa al buio.»

«No, in realtà il sole c’è ancora. È questo il bello dell’autunno.» Indico il cielo, i raggi di sole trattenuti dagli alberi, e le nuvole bianche come sbuffi di cotone. «Le nuvole nascondono il sole ma, se si osserva attentamente e se si è pazienti, è ancora possibile sentirne il calore dei raggi.»

«Mhm.» Feliks si stringe nelle spalle, ancora poco convinto, e punta le dita verso l’orizzonte, mimando il movimento del sole che cala. «Ma è così triste vedere che piano piano sta andando sempre più giù e che sta, sai...» Sventola la mano facendo tintinnare l’intreccio di bracciali. «Diventando sempre più freddo e le giornate sempre più corte.»

«No, non è triste. È solo...» Mi strofino la manica della giacca e mi chiudo nelle spalle. Sottili brividi di freddo corrono attraverso la pelle, nonostante il calore del pomeriggio. «Solo un po’ malinconico, perché sai che un giorno comunque tornerà la primavera. La malinconia è un bel sentimento.»

Gli occhi di Feliks mi scivolano addosso, il suo sorriso mi sfiora, mi trasmette quel luccichio incantato che brilla nelle sue iridi smeraldine. «Come te.»

Sussulto, gli passo quel brivido attraverso la stretta di mano, e gli rivolgo un’occhiata smarrita, sentendomi diventare rosso in viso.

Feliks allontana gli occhi, torna a giochicchiare con le ciocche di capelli che gli celano il viso, ma annuisce mantenendo quell’espressione seria. «Anche tu sei un po’ come l’autunno, secondo me.»

Quell’improvviso e piacevole tepore al petto mi riscalda più del sole che splende su Regent’s Park. Riesco a sorridere anch’io. «Davvero?»

Feliks annuisce con convinzione. «Totalmente. Sei sempre...» Volge lo sguardo al di là del prato recintato, verso la curva dell’orizzonte dove i palazzi del centro emergono da dietro gli alberi, avvolti da una sottile nebbiolina di fumo. I suoi occhi non brillano più, appaiono distanti. «Triste e malinconico come l’autunno.»

Quella frase mi colpisce al cuore, dolorosa come se Feliks avesse infilato le dita in una ferita aperta. Guardo in disparte, verso gli alberi, verso dei piccioni che si sono messi a beccare fra le radici, e tengo sollevato quel sorriso di circostanza per nascondere il disagio nei miei occhi. «M-ma io...» Le labbra tremolano. La mano giunta a quella di Feliks irrigidisce. «Io non sono triste.»

Feliks scuote le spalle, srotola l’indice da una ciocca di capelli, e nei suoi occhi permane quella sfumatura grigia e avvilita. «Però, quando sorridi, lo fai solo con la bocca. E mai con gli occhi.»

Quelle parole, per quanto gentili, mi attraversano e mi denudano, facendomi provare una fitta di vergogna in fondo allo stomaco. Tengo stretta la mano di Feliks. Mi assale la paura di potermi allontanare da lui, che quel sottile divario sempre presente fra di noi aumenti, dividendoci per sempre.

Davanti a Feliks cerco sempre di mostrarmi sereno, di nascondere il mio dolore, di ricambiare tutto quell’affetto e quel calore che solo lui è in grado donarmi, ma c’è sempre qualcosa che mi blocca, sempre una sottile barriera di ghiaccio fra me e lui che non riesco nemmeno a scheggiare, sempre quel chiodo nel cuore che mi tormenta e che mi impedisce di sorridergli come vorrei, di lasciare che anche i miei occhi siano liberi di brillare di gioia come i suoi. E Feliks è l’unico ad accorgersi di questa mia tristezza celata, dei miei sforzi di apparire felice anche quando non lo sono, quando ho paura di esserlo.

«Tu sei davvero un po’ come la pioggia e come l’autunno» continua Feliks, saltando oltre lo spigolo di una pietra che emerge dalla stradina. «Come gli alberi che si fanno scuotere di qua e di là dal vento prepotente, lasciandosi togliere tutte le foglie di dosso.» Avvicina indice e pollice lasciando però un piccolo spazio fra i polpastrelli, come se stesse reggendo un sassolino. «Però c’è sempre quella specie di sole dietro le nuvole che si fa vedere solo in una parte piccola piccola, come se avesse tipo paura a sbucare fuori del tutto, come se si vergognasse.» Annuisce a se stesso, mantenendo quell’aria assorta. «L’autunno ti somiglia davvero un sacco, secondo me.»

Riesco a rasserenarmi, a sciogliere quella pesante e dolorosa paura di tenergli avvolta la mano, e mi soffermo sulla sua presenza che è davvero come un raggio di sole in mezzo al gelo invernale. Feliks mi cammina affianco facendo rimbalzare i passi sullo sterrato, accompagnato dal trillare delle borchie sugli stivaletti e dal tintinnio dei bracciali che si alternano come i singhiozzi di una risata. I suoi occhi splendono vivaci sotto il sole. I capelli biondi raccolti all’indietro, il profumo fresco e vanigliato della sua pelle, la sua mano sottile stretta nella mia, e quello sguardo luminoso che sembra aprire il cielo, scoprendo questo pacifico angolo di primavera che ci avvolge nel canto degli uccellini e nell’odore di fiori appena sbocciati. Gli sorrido, ma questa volta senza dovermi sforzare. «Allora anche tu assomigli alla primavera.»

Feliks sussulta, sgrana le palpebre segnate da un sottilissimo filo di eye-liner nero, e lascia che il verde delle iridi splenda come quello riflesso dalle foglie sopra di noi. «Ah, sì?»

«Certo» annuisco. «Perché tu splendi come il sole in primavera. È una luce fresca che non stufa mai e da cui non vorresti mai staccarti. Una luce...» Mi lascio di nuovo catturare dalle sfumature del cielo, da quell’azzurro limpido e terso che splende senza far male agli occhi. Il suo calore mi avvolge senza soffocarmi, trasmette un tepore che potrebbe davvero sciogliere il ghiaccio grigio in cui mi sento sempre imprigionato. «Una luce che dà l’impressione di essere appena rinata, di essere sopravvissuta all’inverno, e che ora è di nuovo forte e in grado di far rivivere tutto ciò che tocca.»

Feliks rosicchia un angolo delle labbra per nascondere un sorriso ammaliato, abbassa gli occhi lasciando che una ciocca di capelli gli scivoli sulla guancia, e torna ad appoggiarsi con la tempia alla mia spalla, celando quel rossore sul viso che lo imbarazza sempre. «Sai che è la cosa più carina che mi abbiano mai detto?»

Gli carezzo i capelli, stando però attento a non sciogliergli l’elastico. «Ma è la verità.»

Feliks sospira, lascia riposare il capo su di me senza sollevare la tempia dalla mia spalla, e passa una carezza sul mio braccio con la mano che non tiene unita alla mia. Ferma il tocco, stringe le dita sul tessuto della giacca, si tiene aggrappato. «Se però io non riesco a farti felice e a farti, sai no, tipo rinascere dal tuo autunno o da qualcosa così, allora non mi interessa proprio per niente essere come la primavera.»

Sorrido. Gli scosto un filo di capelli dalla guancia e gli sfioro la pelle intiepidita dal sole. «Ma scommetto che saresti bravissimo a farmi rinascere.»

Stringiamo le mani ancora unite fra i nostri fianchi e continuiamo a camminare seguendo il tragitto della stradina. Due bambini sorvegliati dalla loro mamma giocano nel prato, lanciandosi a turno una pallina da tennis rincorsa da un Golden Retriever. Tre ragazzi ci superano passandosi di mano in mano un sacchetto di noccioline comprato in uno dei chioschi all’entrata. Una signora si sfila il cappotto, ci passeggia affianco, va a sedersi su una delle panchine ombreggiate dalle betulle, e sistema qualcosa dentro la borsetta.

Un alito di vento più fresco, pregno dell’odore acquitrinoso del lago, ci passa attraverso, e mi scuote i capelli sopra le spalle. Mi affretto a pettinarli all’indietro e ad appiattirli sul lato sinistro del collo, in modo che tengano il tatuaggio coperto. 

Feliks si strofina le braccia nude sotto la stoffa della giacca che gli pende dalle spalle, e rabbrividisce. Quel piccolo spasmo di freddo gli fa sollevare lo sguardo verso l’ammasso di nuvole che si è trascinato davanti al sole, tappando il calore dei raggi. Gli rivolge un piccolo broncio da offeso, quasi lo stesse rimproverando per tenersi nascosto. «Ecco, secondo me invece la stagione peggiore di tutte è l’inverno.» Sventola una ciocca di capelli lontano dalla fronte e torna a far dondolare la mano stretta alla mia. «Cioè, è tutto congelato, è sempre buio, e si crepa dal freddo. Oh, be’, mai come da me su in Polonia, sai, ma anche qui in Inghilterra l’inverno è lo stesso tremendo perché mi si ghiacciano le dita, e devo sempre indossare vestiti pesanti e decisamente poco carini che sono una vera orripilanza.» Si liscia la gonna, tiene l’orlo stretto fra le dita, e la fa sventolare fra un passo e l’altro. «E non è per niente giusto, proprio.» È una gonna a balze nera e verde, lunga fin sopra il ginocchio, che Feliks ha abbinato a una camicetta, verde anche quella, ma a righe, simile a una divisa scolastica e che lo fa sembrare ancora più giovane di quello che è.

Gli stringo la mano, mi pizzico l’interno del labbro fra i denti, e questa volta sono io a provare quel caldo rossore sul viso che prima ha spolverato le sue guance. «Ehm. Sai, Feliks, non sei...» Lo guardo negli occhi, non più sulle gambe. «Come mai hai iniziato a indossare quelle? Non sei costretto, e...»

«Uh?» Feliks flette il capo di lato senza lasciare l’orlo della gonna, sbatte le ciglia, e mi rivolge un’occhiata interrogativa. «Non ti piace?»

Sobbalzo. «N-no, no, intendo...» Tentenno, le parole mi s’ingarbugliano sulla lingua, e le guance bruciano. «Mi piace, sul serio. Solo...» Mi stringo nelle spalle, nascondendomi, succube di una colpevolezza che non riesco a decifrare nemmeno io. «Non vorrei, ecco, aver fatto qualcosa di sbagliato nei tuoi confronti.» Apro e stringo il pugno libero sulla stoffa dei pantaloni, scarico tutta la tensione che prude fra le dita. «Qualcosa che ti abbia fatto credere che sei costretto a indossarla.»

Feliks torna a rigirarne l’orlo, strofina la stoffa fra le dita bianche e sottili, e rimira il tessuto color pino che sfuma di una tinta più chiara sotto la luce del pomeriggio. «In realtà è comoda, sai, ed è anche un sacco utile oltre che carina.» Fa spallucce e sventola la mano, lasciando trillare l’intreccio di bracciali attorno al polso. «Proprio non capisco dov’è che sta tipo scritto che i maschi non possono, sai, no, indossare le gonne, eccetera. Se una cosa è carina è carina, e non è giusto che uno non possa mettersela.»

Sollevo un sopracciglio. «Perché dici che è utile?»

Feliks abbassa lo sguardo di colpo. I suoi occhi sbirciano verso la coppietta che passeggia sulle rive del lago, il ragazzo e la ragazza che prima stavano spezzettando il pane per le anatre e per i cigni. Anche loro due si stanno tenendo per mano. La ragazza ride per qualcosa che le ha detto il ragazzo, si tiene stretta al suo braccio, e lui si china a scostarle i capelli dal viso, a darle un bacio sulla punta del naso mentre si incamminano verso l’uscita del parco. Feliks arriccia le labbra, aggrotta la fronte, e gonfia le guance in quel piccolo broncio contrariato che mima sempre quando è geloso di me. «Perché, se la indosso quando sono con te...» Fa dondolare le nostre mani giunte. «La gente non ci guarda strano se tipo ti abbraccio o ti tengo la mano.»

Una scossa di stupore mi punge, si trasmette anche all’intreccio delle nostre dita.

Lo sguardo di Feliks, da scuro e imbronciato, diventa più schivo, e lui lo nasconde contro la spalla. Lo stesso gesto che fa per evitare le occhiate degli uomini che lo incrociano per strada, quelle occhiate che sembrano volergli scavare sotto i vestiti. «E poi perché tu sei l’unico che non mi guarda come se volessi vedere solo una ragazza, no? Cioè, tu mi guardi come Feliks, e non mi guardi per le mie gambe, o per la mia faccia, o per i miei capelli, come fanno tutti quelli che ci provano e che mi ronzano attorno. Tu sei l’unico che quando mi guarda mi guarda tutto, e che riesci a vedere quelle cose di me di cui nessuno si accorge mai.» Torna ad appoggiare la fronte sulla mia spalla, avvicinandosi con il suo profumo, e mi avvolge il braccio tenendosi aggrappato alla manica della giacca. «È per questo che io sto bene solo assieme a te e che non mi scoccia mettermi le gonne, se so che ci sei tu a guardarmi e a proteggermi da quelli che mi fissano solo per quello.»

Mi tornano in mente tutte le volte in cui gli uomini o anche i ragazzi più grandi di noi si girano a lanciargli quel genere di sguardi, i bisbigli che si scambiano da sopra le spalle, le gomitate e le ridacchiate mentre fanno sfilare gli occhi sulle gambe che lui di solito tiene scoperte, fasciate solo da calze o da parigine. Quegli sguardi viscidi che spingono sempre Feliks a stringersi al mio fianco e a nascondersi dietro di me, dove si sente più protetto. «Oh.» Gli stringo più forte la mano, guidato dal bisogno di tenermi allacciato al nostro legame. A quel legame che però è sempre bloccato da qualcosa, da una sottile barriera fra di noi che non so mai come infrangere e attraversare. Io amo Feliks e non so mai come dimostrarglielo, come ricambiare tutto l’affetto che ricevo da lui ogni giorno, e questo scava un dolore dentro di me ancora più difficile da sopportare rispetto a quello causato dalla dipendenza.

Fermo il passo. Mi chino a scostargli una ciocca bionda che gli cade sul viso e gliela lascio scivolare dietro l’orecchio. Mi accosto al suo profumo di vaniglia, di zucchero caramellato e di frutta fresca che nasce nell’incavo del collo, sotto il bavero della camicetta, e gli poso un bacio sulla guancia. Una guancia morbida e tiepida come quella di una bambola.

Feliks sobbalza e mi rivolge lo sguardo. Il viso brilla di gioia e stupore, le labbra rimangono socchiuse in quel breve sussulto che sembra chiedermi il perché di un gesto così insolito da parte mia, soprattutto quando siamo in pubblico.

Per una volta non distolgo lo sguardo, nonostante l’espressione triste che so di star mostrando. Gli passo una carezza sul viso percorrendone il profilo liscio. «Scusami se non posso essere sempre con te come vorremmo.» Fermo il tocco sotto il mento. «E se non riesco a curarmi di te come dovrei.»

Feliks sbatte le ciglia e sospira, catturato dal mio sguardo. Raccoglie la mia mano, quella con cui gli ho carezzato il viso, e la tiene accostata alla guancia. Le sue labbra mi sfiorano le nocche, mormorano con tono basso e colpevole. «Scusami se ogni tanto faccio i capricci per averti sempre tutto per me.»

Lascio che una soffice risata malinconica mi muoia fra le labbra. «No, hai ragione.» Distendo le dita, gli carezzo la guancia con il pollice, all’altezza dello zigomo diventato più rosso e caldo. «Anche io lo vorrei, sai? Anche io vorrei poter essere sempre tutto per te.»

Feliks torna a sollevare gli occhi, senza più imbarazzo, senza più tristezza o alcun senso di colpa ad annebbiare lo sguardo, e sorride. Uno di dei suoi soliti sorrisi furbi e felini, da incantatore, ma dolci come il profumo che si cela fra i suoi capelli, nell’incavo del collo in cui amo immergermi e respirare a pieni polmoni.

Feliks si gira verso il laghetto, e nei suoi occhi si specchiano le scaglie di luce che oscillano nell’acqua, davanti a una panchina libera piantata all’ombra di un salice. «Oh!» Feliks rimbalza, mi stringe la mano, e indica verso la panchina. «Guarda, è libera!» Corre affondando gli stivaletti nell’erba tosata del prato, e mi guida verso l’ombra del salice che lascia cadere i suoi rami sulla riva del laghetto. La gonna svolazza attorno alle gambe, la giacca poggiata sulle spalle si agita come un piccolo mantello. Feliks rimbalza di due passi più rapidi per non ruzzolare giù dalla pendenza, senza lasciare la mia mano, e si gira a chiamarmi con una sbracciata. «Corri!» Il suo sorriso splende più di questo pomeriggio d’estate, i suoi occhi sono più verdi di tutta l’erba che ci circonda.

Mi lascio contagiare e cogliere da una capriola del cuore, da questa ventata di felicità improvvisa che sembra ridarmi un po’ della giovinezza che mi sono lasciato rubare durante questi ultimi anni di autodistruzione. Corro anch’io, aggrappato alla mano di Feliks, tenendomi stretto all’unica cosa che conta in questo momento.

Raggiungiamo la panchina sotto il salice, dove l’aria è più fresca e il profumo del laghetto si mescola con quello dolce delle aiuole in fiore disposte a corona dietro le recinzioni. Feliks abbandona la giacca sullo schienale della panchina, lascia che sia io a sedermi per primo e si sdraia su di me. Rannicchia le ginocchia sollevando i piedi da terra, mi avvolge le braccia attorno ai fianchi, lascia riposare il capo sopra le mie gambe, abbassa le palpebre e sospira, lasciando le labbra incurvate in quel sorriso beato, lo stesso che mostra sempre prima di addormentarsi. Alcune ciocche di capelli sfuggono all’elastico, gli scivolano sul viso. Lo carezzo, gli pettino i capelli all’indietro, e percorro la sua guancia con le nocche. Gli faccio solletico al naso. Feliks ridacchia ma non riapre gli occhi, fa finta di addormentarsi.

Mi abbandono anch’io, lasciandomi racchiudere nella pace di questo singolo attimo di pura felicità che pare sollevarci fino al candore delle nuvole.

La luce si spezzetta fra i rami del salice, compone striature verdi e argentate che riempiono l’aria di scintille. Al di là della sponda del laghetto, oltre le chiome delle betulle che spiovono sui viottoli di sterrato, gli edifici del centro di Londra risalgono il cielo sporcato solo da qualche nuvola bianca. Stormi di anatre volano sul pelo dell’acqua, si uniscono al nuoto dei cigni, immergono la testa fra le onde e la scrollano, sguazzando sotto i raggi del sole. Altre persone passeggiano circumnavigando le sponde e fermandosi al piccolo chiosco da cui proviene un profumo speziato di frittelle alle mele e cannella. Il resto è silenzio coronato solo dal soffiare del vento che mi passa fra i capelli e dal frusciare dei rami del salice che compongono le increspature d’acqua sulla riva del laghetto, senza disturbarne la pace.

Feliks stringe le braccia allacciate attorno ai miei fianchi, spinge le spalle contro il mio busto e si tiene accoccolato rannicchiando le ginocchia al ventre. Sospira a fondo. Un’espressione di pace e beatitudine a imporporargli il viso assopito. «Ecco, vedi, io me ne starei qui sotto gli alberi a prendere il sole per tutto il giorno, solo a farmi le coccole con te.» Socchiude un occhio, sbircia verso di me da dietro le ciglia. «È un po’ da pigri, secondo te?»

Rilasso anch’io le spalle contro lo schienale della panchina e reclino il capo all’indietro. Mi faccio inondare dalla luce e dal calore del sole, lascio che le guance formicolino sotto il piacevole tepore al profumo di polline e di erba tagliata. «Ogni tanto ci vogliono dei momenti così. Come la primavera, direi. Non è pigra, perché ha comunque voglia di rinascere, ma...» Mi stringo nelle spalle. «Con i suoi tempi.»

Feliks solleva il capo dalle mie gambe, sale sulle ginocchia e batte le mani facendo trillare i bracciali. «Oh, allora ho tipo trovato un’altra cosa che tu hai uguale all’autunno!»

«Davvero?» Gli rivolgo uno sguardo intrigato. «E che cosa?»

Feliks fa scivolare le ginocchia attorno alle mie gambe, mi sale in grembo, passa le braccia sopra le mie spalle, cingendomi il collo, e intreccia le dita ai capelli, giochicchiando con le punte. China lo sguardo, sfiorandomi la punta del naso, e si avvicina con il suo profumo di vaniglia. «Hai presente quella storia, quella della cavalletta e la formica?»

Mi ci vuole qualche battito di palpebre per riprendermi dall’incanto del suo profumo e da quello dei suoi occhi che mi scrutano da dietro l’ombra delle ciglia delineate dall’eye-liner. «Ah, sì» confermo. «La cicala. La cicala e la formica.» Anche io gli sposto un filo di capelli dalla guancia. «È una favola di Esopo.»

Feliks annuisce. «Ecco.» Dondola indietro con le spalle e si posa una mano sul petto. «Io sono un po’ come la cicala, no? Che in autunno non vuole mettere via le cose da mangiare perché ha ancora voglia di divertirsi, e di ballare e di cantare, e tu invece sei come la formica perché in autunno lei è felice di lavorare, di fare cose barbose, e non si annoia nemmeno. Cioè, è proprio una brava formica.»

Gli cingo i fianchi sottili, intreccio le mani dietro la sua schiena, e abbasso lo sguardo. Mi nascondo dietro le ombre del mio passato. «Una volta ero così, è vero. Ma adesso che la mia vita è diversa...» Scuoto il capo. «Non so nemmeno io cos’è che sono, o come posso definirmi. Forse mi sento...» Per terra, ai piedi della panchina, sfila davvero una processione di formichine nere, tutte con una briciola di pane caricata sul dorso. Gli avanzi del pane che prima i due ragazzi stavano lanciando ai cigni e alle anatre. Sospiro, sentendomi anch’io piccolo e fragile come quelle formichine che potrei schiacciare solo posandoci il piede sopra. «Come una formica intrappolata dall’inverno nella sua tana da cui non riesce a uscire perché il gelo le risucchia tutte le forze, impedendole di reagire.»

Feliks solleva il mento, tutto inorgoglito, e si preme il pollice sul petto. «Allora sarò io a sciogliere il ghiaccio e ti farò uscire! Sono la primavera, o no?» Torna a passare le braccia attorno alle mie spalle e a intrecciare le mani dietro la nuca, affondando le dita fra i capelli. Le sue ginocchia oscillano attorno alle mie gambe. «E poi continuerò a saltare, a cantare e a ballare per te, perché sono come la cicala, e ti farò tornare di nuovo di buon umore.»

Gli sorrido. «Mi piacerebbe.» Stringo l’abbraccio e gli sfioro la fronte con la mia. «Mi piacerebbe che fossi proprio tu a farmi uscire dall’inverno.»

Feliks arriccia la punta del naso, facendomi il solletico. Distende il sorriso e inarca un sopracciglio in una delle sue espressioni sottili e ammiccanti. Si china a strofinare le labbra sulle mie, a posare un tocco di primavera su di me, e soffia un sussurro leggero come il petalo di una rosa. «Mi dai un bacio?»

Gli sfilo i capelli dal viso, chiudo gli occhi e gli poso un bacio sulla fronte.

Feliks stringe le dita fra i miei capelli, aggrotta le punte delle sopracciglia, mette il broncio, e le guance avvampano di rosso. «Un bacio vero, sennò non vale.»

Mi lascio scuotere da una risata, scaldandomi come se un raggio di sole fosse passato direttamente attraverso il mio cuore. «Scusa.» Riabbasso le palpebre e lo bacio di nuovo. Ha le labbra sottili e dolci, e baciarle è come rosicchiare un’albicocca non troppo matura. La bocca di Feliks sa di menta fresca. I suoi capelli mi sfiorano il viso, mi circondano con il loro profumo fruttato, di polline e di vaniglia, che mi trasporta lontano dal grigiore di Londra, in un luogo dove esistiamo solo io e lui, senza Ivan, senza Siberian Cubs, senza droga. In un luogo dove è sempre primavera.

Schiudo il bacio tenendo accostate le labbra umide alle sue, gli strofino un’altra piccola carezza sulla punta del naso, e rintano il viso nell’incavo del suo collo. Sprofondo nel suo profumo, nel biancore della pelle che dovrà rimanere sempre immacolato, senza filo spinato a intrappolarlo, senza orologi privi di lancette a fossilizzare il suo tempo, senza collari a incatenarlo come il nastrino che indossa.

Feliks accosta la bocca al mio orecchio, mi sfiora con il respiro ancora umido del nostro bacio, con un buon profumo di caramella alla menta. «Ehi, Toris.»

Riapro gli occhi. «Sì?»

Feliks arriccia le punte delle dita attorno ai miei capelli, arrotola e srotola le ciocche, le scosta dal lato sinistro del collo, e mi sfiora il tatuaggio, tenendo lo sguardo basso. «Io non posso, sai, no, sciogliere il ghiaccio, se tu però non vuoi andare via dall’inverno che ti tiene imprigionato.»

Raggelo sotto quel tocco, sotto quella piccola scossa che mi punge la gola, e sotto quelle parole che sembrano aprirmi il cuore in due. Dopotutto, sappiamo entrambi chi è l’inverno in questo gioco.

Sospiro, allontano il viso lasciandomi schiacciare dal peso dello sconforto. «Lo so, Feliks. Ma io...» Stringo le braccia attorno a lui, mi aggrappo al suo corpo così sottile ma caldo, ed è una sensazione completamente diversa rispetto a quella di essere abbracciato a Ivan. «Io ora mi trovo in una prigione di ghiaccio che mi tiene protetto. Anche se riuscissi a scalfirla, temo che poi non saprei cavarmela da solo, una volta uscito.»

Gli occhi di Feliks si inumidiscono di tristezza. «Nemmeno se ci fossi io?»

«Non lo so.»

Feliks sospira e abbassa la fronte, nascondendo quel piccolo broncio avvilito. Fa scivolare le ginocchia dalle mie gambe, slaccia le braccia dalle mie spalle e si raccoglie a sedere contro il mio fianco, tenendomi la mano stretta. Reclina il capo sul mio braccio e volge lo sguardo al lenzuolo di prato, alla tenda dei rami di salice che ci divide dalle sponde del laghetto. «Secondo me, tu saresti capace di dirglielo, però. Puoi dirglielo che vuoi andare via da lui.»

Sospiro, gli passo un braccio attorno ai fianchi per non allontanarlo da me. «Vedi, il fatto è che...» Strofino una carezza da sopra la stoffa della camicetta, guardo in basso per non dover mostrare quell’ombra di vergogna che m’ingrigisce il volto. «Che non so nemmeno io se lo voglio davvero.»

Feliks mi rivolge un’occhiata sbieca, restringe le palpebre, tamburella le dita fra le mie nocche. «Perché gli vuoi più bene che a me?»

«N-no. È solo che...» Mi strofino la nuca senza riuscire a guardarlo in viso. «Che è complicato» mi giustifico. «E in questo momento, io ho bisogno di lui, e sento che anche lui ha bisogno di me. Se lo lasciassi, temo che anche lui soffrirebbe, capisci?»

Feliks raddrizza le spalle, torna a premere le ginocchia sulle mie gambe per tenersi più vicino. «Be’, ma è lui quello che continua a permettere che tu ti faccia male in quella maniera.» Stringe delicatamente le mani attorno al mio avambraccio, strofina da sopra la stoffa della manica, carezza dove sa che le ferite mi chiazzano la pelle. «Se io fossi, sai, tipo al posto suo, non permetterei mai una cosa del genere, proprio mai, perché ti voglio troppo bene. Farei di tutto per tenerti lontano dai guai e dai pericoli.»

Il tepore di quel gesto e di quelle parole allevia tutto il bruciore che mi tormenta sulle braccia e lungo il collo, dove il tatuaggio dei Siberian Cubs esercita la pressione del suo filo spinato sul mio respiro, sul battito del mio cuore. L’affetto di Feliks è puro e sincero, riesce a farmi dimenticare persino del dolore derivato dalla presenza di quell’orologio che ha congelato il mio tempo per sempre. «Ne sono sicuro.» Gli avvolgo la mano, la accosto alle mie labbra, gli sfioro le nocche con un sussurro. «Ma mi prometti una cosa, Feliks?»

Feliks reclina il capo, mi rivolge uno sguardo dubbioso. «Che cosa?»

La mia mano trema, il tocco esita. Vorrei che queste parole non dovessero mai uscire dalla mia bocca. «Che se io un giorno ti dicessi di allontanarti da me, tu lo farai.»

Feliks increspa le sopracciglia, corruga una delle sue smorfie da arrabbiato, gli occhi luccicano di disappunto. «No, non voglio.» Torna a scivolare con le ginocchia attorno alle mie gambe e mi fronteggia a muso duro. «Tu sei il mio ragazzo, e non è giusto separarsi, non è proprio per niente giusto.»

«Feliks» sospiro. «Se mi vuoi davvero bene, allora...»

«E tu a me ne vuoi?»

«Certo che te ne voglio. E molto, anche.» Gli passo un’altra carezza sul suo viso imbronciato, come sperando di tornare a rasserenarlo. «È proprio perché ti voglio molto bene che non desidero che tu ti metta in pericolo per colpa mia. Non potrei mai perdonarmelo.»

«Ma quelli che si vogliono bene non hanno paura di mettersi nei guai per quella persona che amano» ribatte lui. «Ed è vero, te lo giuro. L’ho letto una volta su Jackie

Scuoto la testa, non posso demordere. «Feliks, ascoltami. Se io...» Non distolgo lo sguardo. Per una volta, sono io quello a non aver paura di guardarlo negli occhi. «Se io un giorno dovessi rimanere imprigionato per sempre...» Tentenno. Altri brividi freddi mi attraversano la schiena. «Imprigionato nell’inverno... non lasciare che io tenga intrappolato anche te.» Gli pettino una ciocca di capelli lontano dalla sua espressione scocciata. «Tu non sei fatto per essere prigioniero, Feliks.» Il tocco discende la curva sottile del suo collo, indugia sul nastrino che avvolge la gola immacolata. Sopra di noi, fra i rami del salice, svolazza uno stormo di passeri che sfreccia verso il lago. Liberi come Feliks dovrebbe sempre rimanere.

Feliks si mordicchia il labbro inferiore, tiene le sopracciglia aggrottate, ma poi china la fronte e sospira, mostra uno sguardo più triste e arrendevole. «Uhm.» Annuisce, cede alle mie parole, e mi avvolge la mano ancora posata sul suo viso. «Okay.» Torna a distendere le gambe sulla panchina, si accoccola contro il mio fianco, posa il capo sulla mia spalla e schiude la mano per intrecciare le dita alle mie. «Ma un giorno ti prometto che scioglierò proprio tutto il ghiaccio che ti tiene rinchiuso.»

Sorrido, più sereno, lasciando che il cuore si alleggerisca da questo peso che mi tormenta, e annuisco. «Sì.» Gli carezzo la curva del collo, quella linea sottile e libera dai capelli legati all’indietro. «Ne sono sicuro.» Il tocco indugia sul biancore della sua pelle. Formulo una preghiera in fondo al cuore, desiderando solo che rimanga per sempre pulito e libero da qualsiasi prigione.

 

***

 

agosto 1975,

Londra

 

Le mie dita scorrono sul collo tatuato di Feliks, attraversano la pelle arrossata che ancora scotta, gonfia dell’inchiostro nero che sembra sbordare dalle piccole ferite che hanno inciso quel marchio su di lui. Il mio tocco trema ed esita, vibra come la punta dell’ago che lo ha segnato a vita. I polpastrelli percorrono il contorno dell’orologio senza lancette, del filo spinato che soffoca il quadrante e che pianta i suoi rovi nella scritta “Siberian Cubs”, nera e lucida, attorno a cui si raggrumano minuscole tracce di sangue raffermo, dove le incisioni fanno ancora fatica a rimarginarsi.

Una frana di sensi di colpa mi travolge come una sassata piovuta dal cielo. Dentro di me si apre un vuoto gelido che risucchia le pareti della stanza in uno spazio nero senza fondo. Un crampo mi azzanna il cuore, spreme un battito di terrore che forma un nodo allo stomaco e che scende a tremare lungo le gambe. Devo compiere un mezzo passo all’indietro per non sentirmi sprofondare nel pavimento. «Cos’hai fatto?» Non distolgo gli occhi dal tatuaggio sulla pelle di Feliks. Sbatto le palpebre, prego di non continuare a vederlo dopo averle riaperte, ma l’orologio è sempre lì, a segnare per sempre il suo destino ormai condannato.

Fuori dalle finestre oscurate dal maltempo, un primo brontolio di temporale gorgoglia dietro le nubi che non hanno ancora versato una singola goccia di pioggia. La voce del temporale si ritira e lascia spazio a una violenta zaffata di vento che scricchiola contro il vetro. Torna il silenzio.

Feliks sovrappone la mano alla mia, tiene il tocco di entrambi accostato alla pelle arrossata e scottante, e china lo sguardo al pavimento. «È per proteggerti.»

Il mio sguardo vacilla, la vista si sdoppia. «M-ma...» Trema ancora. «Ma tu non dovevi...» Fare qualcosa che ora non potrà mai più essere cancellata. Sudo freddo e mi manca il respiro, come in quelle notti in cui mi sveglio avvolto dal buio pesto, dopo aver sognato proprio questa paura, dopo essere stato perseguitato dall’immagine del nostro tatuaggio impresso sulla pelle di Feliks. E ora me lo trovo davanti, solo che non posso svegliarmi, non posso cadere dal letto sperando di staccarmi dal sogno. Adesso è tutto vero.

Feliks stringe la mano sulla mia, cerca i miei occhi ancora smarriti. «È per starti vicino, no? Così ora non ci sono più segreti. Possiamo vivere nello stesso modo, e possiamo stare assieme sempre, ogni volta che vogliamo, anche quando tu sei...» Si pizzica il labbro inferiore fra i denti e rimangia le parole con un piccolo gemito.

Scuoto il capo. «Feliks, io...» Lascio scivolare la mano lontano dal suo collo, mi stacco da quel tocco che brucia anche sulla mia pelle, rievocando il ricordo di quando anche io ho acconsentito a farmi tatuare, e soffoco un primo nodo di pianto che pesa sullo stomaco. «Io ti avevo già detto che non avresti dovuto, che non volevo succedesse. Questo è un ambiente pericoloso, non lo capisci?»

«Io non ho paura.»

«Ma io sì. Perché...» La paura mi colpisce come un pugno alla pancia, mi fa tremare le ginocchia, chiudendo uno stretto e fitto anello di vertigini attorno alla testa. «Ora nemmeno tu avrai più la possibilità di scappare da tutto questo.»

«Quindi...» Feliks corruga la fronte attraversata dalle ciocche di capelli sciolti. Un’espressione delusa gli ingrigisce lo sguardo. «Non sei contento?»

Il mio respiro soffocato trema fra le labbra, un’altra botta di vertigini mi colpisce la nuca, mi fa sprofondare nell’incredulità. «Come faccio a esserlo?» Mi allontano tenendomi stretto nelle spalle, strofino le braccia, sfregando via i brividi corsi sotto le maniche della felpa, passo una mano fra i capelli e mi giro di nuovo ad affrontare Feliks. «Perché non mi hai detto prima che avevi intenzione di farlo?»

Feliks raccoglie una ciocca di capelli dalla spalla e la liscia fra le dita. «Perché sapevo che mi avresti detto di no, ecco perché.»

«Allora sapevi da solo di star facendo la cosa sbagliata.»

«Sbagliata solo per te. Ma per me è totalmente giusta.» Feliks si mette a braccia conserte, stringe le dita sulla pelle nuda, e sbuffa una smorfia seccata. «Guarda che anche io so scegliere da solo, e ormai ho deciso così, e tu non puoi farci proprio niente. Punto.» Fa proprio il bambino. È sempre così quando si arrabbia. Ma dev’esserci qualcos’altro dietro. Un gesto del genere, dopo tutto quello che gli ho sempre detto, dopo tutte le volte in cui l’ho implorato di tenersi lontano dai Siberian Cubs, dopo tutte le sue promesse...

Ricaccio indietro il bruciore delle lacrime con un forte respiro. Mi giro senza più la paura di dover affrontare quel marchio nero che segna il collo di Feliks, e mi impongo di restare lucido. «È davvero solo per me che lo hai fatto?»

Feliks smette di far tamburellare le unghie sulle braccia. Inarca un sopracciglio e mi guarda di sbieco da sopra la spalla. Increspa un angolo della bocca in una smorfia indecisa. «Sì.» Si tiene chiuso nelle spalle, mi dà la schiena, si gratta il tatuaggio fresco che dovrebbe tenere coperto per i primi giorni, e abbassa il tono di voce. «Perché così non ci saranno più segreti e posso starti vicino sempre, e posso rendermi conto davvero di com’è fare la vita che fai tu.»

Gli cammino vicino. «Quindi lo hai fatto solo perché entrando nei Siberian Cubs avresti potuto starmi vicino facendoti coinvolgere nella vita che conduco io? Solo questo?» Restringo le palpebre. «Oppure c’è anche qualcos’altro?» Un altro brontolio di temporale gorgheggia da dietro le nubi, il vento aumenta e scuote gli alberi fuori dalla finestra, solleva un ululato che riempie il pesante silenzio calato in mezzo a noi.

Feliks si stringe nelle spalle trattenendo un sussulto di paura, come fa sempre durante i temporali, e si affretta a guardare in basso, messo alle strette. Intreccia le dita ai capelli, strofina i polpastrelli fra le ciocche, e raggiunge l’orlo della gonna, stropicciandolo con gesti rapidi e nervosi. «Io...» Si morsica il labbro. Le guance si chiazzano di rosso, gli occhi stretti sotto la curva delle sopracciglia si riempiono di tutto il colore plumbeo che filtra dalla finestra. «Io non riesco proprio a sopportare che tu stai assieme a lui.»

Quell’accusa mi raggiunge come un sonoro schiaffo alla guancia, ma in qualche modo riesce a strappare via il peso dell’angoscia dal mio cuore, come se già mi aspettassi di ricevere quella risposta.

Feliks stringe i pugni sui fianchi, si volta a squadrarmi con un’espressione dura e imbronciata. «Non è giusto, tu sei il mio ragazzo, tu dovresti stare solo con me. E non fai nemmeno niente per evitare che lui ti stia sempre appiccicato, e sembra che tu stia meglio con lui che con me. E perché poi, anche quando io e te stiamo assieme, è come se lui fosse sempre presente, come se tu non riuscissi proprio a non pensare a lui, anche mentre dovresti pensare solo a me.» Torna a mettersi a braccia conserte, passeggia su e giù davanti alla parete, volgendo lo sguardo fuori dalla finestra, e soffia su una ciocca per togliersela dal viso. «Tu credi forse che io non me ne accorga, ma me ne accorgo. Me ne accorgo eccome. E anche se tu mi dici di no, io so che per te lui è più importante di me.»

Le parole accusatorie di Feliks sono una coltellata al cuore. La lama affonda e fa sorgere lo stesso dolore raggelante che mi ha trafitto quando ho visto per la prima volta il tatuaggio inchiostrato sul suo collo. «Feliks...»

«E come faccio...» Feliks serra i pugni schiacciati sui fianchi sollevando uno scricchiolio delle falangi, batte un piede a terra e mi affronta di nuovo a viso alto. Le guance arrossate, la fronte aggrottata, gli occhi sull’orlo delle lacrime che già traballano agli angoli delle palpebre, e la voce che si sforza di rimanere ferma. «Come faccio a superare lui se non divento anch’io uno dei Siberian Cubs?»

«Avresti dovuto dirmelo prima.» Lo raggiungo tendendo un braccio, gli sfioro il pugno tremante incollato al suo fianco, e infilo il tocco fra gli spazi delle dita che non ne vogliono sapere di schiudersi, di farsi raccogliere. Ammorbidisco il tono. «Credi davvero che avessi bisogno di questo per capire che tu tieni a me?» Cerco i suoi occhi nella penombra. «Credi che avessi bisogno di vederti buttare via la tua vita in questo modo per capirlo?»

Feliks mantiene quel broncio da offeso. «Serviva a me.» Strappa via il pugno dal mio tocco e si stringe il polso. «Serviva a me per capire se tu mi vuoi davvero bene. Se vuoi davvero più bene a me che a lui. Non me ne vuoi, Toris?» Le sue labbra tremolano, la rabbia si scioglie dagli occhi che però rimangono stretti sotto l’arco delle sopracciglia aggrottate. Un tremolio di disperazione gli spezza la voce. «Non mi vuoi bene?»

Socchiudo le labbra, soffio una singola sillaba, ma le parole tornano indietro, la voce si blocca in gola e mi impedisce di rispondere. Una nube di conflitto mi avvolge, annebbia i pensieri.

Dovrei rispondergli con un abbraccio, dovrei stringerlo a me più forte che posso e dirgli che non gli voglio bene, ma che lo amo. Che lo amo più di Ivan e più di me stesso. Ed è per questo che sono attanagliato dalla paura, è per questo che sono stato travolto da un’ondata di dolore quando ho visto il tatuaggio su di lui, non perché lo voglio tenere distante da me, ma perché so di aver fallito, so di non essere più in grado di proteggerlo come vorrei. Se dipendesse unicamente da quello che desidero, allora prenderei Feliks per mano, scapperei oggi stesso da Londra, e non penserei ad altro che a rifarmi una vita assieme a lui, lontano da qui, distanti da ciò che è sempre in agguato per farci del male. Noi due assieme, come abbiamo sempre desiderato.

Getto lo sguardo lontano e mi strofino il tatuaggio che ha ricominciato a prudere sotto i capelli.

Ma non è possibile un sogno del genere. E non lo sarà mai.

Sfilo il tocco dal collo, raccolgo per davvero la mano di Feliks, ma non per scappare assieme, non per portarlo in salvo. Gli do le spalle e lo accompagno verso la porta senza nemmeno guardarlo in faccia. «Ti riaccompagno a casa.» La mano di Feliks ha un sussulto, irrigidisce fra le mie dita.

Feliks tira via la mano, si dà un’altra grattata al tatuaggio fresco che è sempre più rosso e infiammato, annoda le braccia al petto e mi segue tenendo anche lui lo sguardo distante, fa lo scontroso. Fra di noi si spalanca un vuoto. Entrare nei Siberian Cubs avrebbe dovuto significare essermi più vicino, e invece non ha fatto altro che elevare fra me e lui un muro ancora più alto e invalicabile.

Usciamo dall’appartamento. Il cielo rimbomba, il temporale di fine estate si avvicina, e le prime gocce di pioggia lacrimano dalle nuvole, cadono fitte e pesanti come sassate, martellando su questo buio momento fra noi due che vorrei solo venisse disintegrato.

 

.

 

Le porte dell’autobus a due piani si richiudono, grondanti di pioggia, e il nostro riflesso si specchia sul lucido del vetro, attraversato da grigi rigagnoli d’acqua corrente. L’autobus sbuffa, soffia una nuvoletta color carbone, ingrana la marcia, sgomma sull’asfalto bagnato, e riparte immettendosi nel traffico. Imbocca la strada che curva dietro la galleria d’arte e se ne va, lasciandoci in attesa di quello successivo.

Il diluvio ci scroscia addosso, impregna i vestiti ormai ghiacciati e stretti come una seconda pelle, picchia sul viso come una manciata di sassi, e scorre attraverso i capelli incollati al viso e alle orecchie, gocciolando sulle spalle. Siamo usciti senza nemmeno un ombrello e non c’è alcun riparo a questa fermata, nemmeno una tettoia. Io e Feliks siamo rimasti da soli. Le ultime tre persone che aspettavano assieme a noi sono salite sull’autobus appena ripartito, hanno chiuso gli ombrelli, uno di loro ha abbassato il cappuccio dell’impermeabile, e si sono fatte inghiottire dalle porte pieghevoli che si sono tappate con un cigolio.

Il cielo brontola, le nuvole si addensano, spesse venature nere spaccano la coltre color cenere, e lo scroscio della pioggia aumenta, rovescia gocce dure e grosse come biglie. Pioggia di fine agosto, rimasta a soffocare in cielo per tutta l’estate, e che ora è esplosa come un palloncino bucato da un ago.

Le auto ci scorrono davanti. Ali d’acqua scrosciano da sotto le ruote e si abbattono contro il marciapiede. Gli schizzi arrivano a bagnarmi i piedi già infradiciati nonostante gli scarponi.

Piego le gambe e poggio le suole sul muretto su cui sono seduto, allontano i piedi dagli schizzi che continuano ad arrivare dalla strada. Strofino le maniche bagnate della felpa, gratto via i brividi che mi accapponano la pelle raggelata dall’abbraccio di stoffa imbevuta di pioggia, ma lascio che i capelli continuino a gocciolare davanti al viso chino, che mi nascondano lo sguardo. Alcune persone ci camminano davanti, riparate dagli ombrelli, sorpassano il palo della fermata, e ci lanciano occhiate storte, squadrando con sguardi spaesati i nostri corpi fradici seduti sul muretto, annaffiati dal diluvio che non accenna a diminuire. Proseguono il loro tragitto e ci lasciano perdere.

Accanto a me, Feliks smette di far dondolare le gambe, lascia anche lui che i capelli grondino lungo il viso arrossato, e si strofina le braccia nude, diventate bianche come gesso che tiene conserte al petto. Strizza le dita sulla pelle, rabbrividisce, arriccia la punta del naso per non far notare la smorfia di disagio che gli ha attraversato lo sguardo, e si mordicchia le labbra per non far battere i denti. Questa mattina si soffocava dal caldo, per questo è uscito senza giacca. Gli darei la mia felpa se non fosse ancora più fradicia della sua maglietta.

Le nuvole brontolano, il vento ulula fra i tetti e solleva larghe e grigie spazzate d’acqua che si rovesciano sulla strada. Scorrono altre auto, un taxi, ma ancora niente autobus. Feliks tiene le braccia conserte, le mani aggrappate alle spalle infreddolite, dà un’altra strofinata, e si sporge in avanti in cerca del nostro autobus. Torna indietro e fa di nuovo dondolare i piedi, forse per scaldare le gambe coperte solo dalle parigine zuppe che stanno scivolando verso le ginocchia. Si gratta il tatuaggio, la pelle ancora gonfia nonostante l’acqua ghiacciata che dovrebbe rinfrescarlo, e sposta lo sguardo su di me. Gli occhi nascosti dietro le ciocche di capelli che gocciolano incollate al suo viso. Rompe il silenzio con uno sbuffo. Feliks non sopporta i silenzi. «Non mi dici proprio niente?»

Stringo le braccia conserte, strizzo la felpa sotto le unghie piantate nelle spalle, lasciando sgorgare qualche rivoletto d’acqua fra le dita, ma non rispondo. Continuo a fissare l’asfalto bagnato, il fluire della pioggia sporca che scivola nella grata del tombino, i cerchi concentrici che si sovrappongono nella pozzanghera rafferma fra la strada e il marciapiede. La pioggia mi batte addosso e riempie il silenzio che permane fra noi due. Non ho idea di quello che dovrei dirgli.

Feliks punta i gomiti sulle ginocchia, raccoglie il viso fra i pugni, e fa di nuovo dondolare le gambe sfiorando il marciapiede con le punte degli stivaletti. «Dobbiamo tipo starcene così per tutta la vita, adesso? Senza nemmeno spiccicare una cavolo di parola? Guarda che io non ho mica smesso di volerti bene, anche se tu adesso mi odi.» Incrocia le caviglie, torna a stendere le gambe, e sposta lo sguardo sulla strada, tenendo la fronte aggrottata. Le dita tamburellano sulle guance. «Quindi mi devi sopportare ancora, perché io non ti abbandono lo stesso, anche se ormai non mi vuoi più bene e anche se non mi vuoi più vedere per il resto della tua vita.»

Mi mordo il labbro che sa di ferro, di acqua piovana. Stringo i pugni, inspiro a fondo dalle narici per ricacciare indietro il bruciore che si è già arrampicato fino agli occhi, ma non resisto. Tutto il dolore che ho provato davanti alla visione del suo tatuaggio insorge, affonda nel petto come un chiodo e vi rimane conficcato. La bocca bagnata trema, gli occhi diventano appannati e non so più se è per la pioggia o per le lacrime. Un primo singhiozzo mi rompe il respiro e brucia attraverso la gola. Sciolgo le mani dalle braccia, mi copro il viso con i palmi, affondo le dita fra i capelli bagnati, e singhiozzo ancora, lasciando che il pianto trabocchi, che mi svuoti il petto da tutto il dolore che si è cristallizzato attorno al cuore come ghiaccio. Lacrime e rivoli di pioggia si mescolano, rigano il viso già bagnato e gocciolano attraverso le mani che mi tengono nascosto.

Feliks flette il capo di lato, mi cerca con lo sguardo, addolcisce il tono di voce. «Perché piangi?» Scivola più vicino a me, mi tocca con una spallata e ridacchia. «Perché tipo mi devi sopportare ancora per tutta la vita e sei già mezzo disperato?»

Uno spasmo di risata rimbalza fra i singhiozzi, viene però subito risucchiato dal pianto che non si ferma. «Io non ti voglio lasciare.» Strofino entrambe le mani sugli occhi gonfi di lacrime, asciugo le palpebre che tornano subito a bagnarsi di pioggia. «Ma non voglio nemmeno che tu corra questo pericolo per me.» Tiro su col naso. «Non posso andarmene dai Siberian Cubs, ma restare dentro mette in pericolo sia te che me. Io ero già in una strada senza uscita e ora ho trascinato dentro anche te.» Guardo al di là della strada, poso gli occhi sul cielo di Londra, su quell’aria grigia e fumante che mi sta divorando da anni, tenendomi intrappolato nella sua nebbia. Mi poso la mano sul tatuaggio. «Ero io quello che avrei dovuto proteggerti, e per una volta credevo di aver trovato qualcosa per cui valesse la pena continuare a lottare e a provarci. Proteggere te mi dava l’impressione di non essere la persona miserabile che ho sempre creduto di essere, perché per una volta avevo l’occasione di fare qualcosa di buono per qualcun altro.» Altri tremori mi scuotono. Grappoli di lacrime insorgono e mi appannano la vista. «Attorno a me ci sono sempre state solo persone che hanno cercato di salvarmi e che hanno cercato di proteggermi, e io ho sempre deluso tutti perché non facevo altro che rendere i loro sforzi vani. Perché...» Graffio anch’io la pelle attraverso l’orologio, lasciandoci profondi segni rossi. «Perché non riesco a proteggerti?» La mano ancora aggrappata al collo trema. «Perché non riesco mai a essere forte come vorrei? Perché non sono mai abbastanza per niente?»

«Guarda che per me lo sei.»

Sfrego via un’altra scia di lacrime dalla guancia, tengo la mano accostata al viso, e mi giro. Trovo il coraggio di guardarlo a testa alta.

Gli occhi di Feliks brillano di sincerità, anche se i capelli bagnati li nascondono dietro i rivoletti d’acqua e le palpebre rimangono increspate da quella ruga offesa che ancora gli stropiccia la fronte. «Tu per me sarai sempre abbastanza. Non devi...» Scrolla le spalle, fa dondolare un piede, e si dà un’altra strofinata alle braccia nude. «Non devi mica sforzarti per esserlo, perché non ne hai proprio bisogno quando sei con me. Tu per me sei il ragazzo più perfetto del mondo.»

Ignoro quella piacevole fitta al cuore che mi ha intiepidito il petto, soffiando via un po’ del dolore che permane fra le costole come un macigno. Nonostante tutto, non riesco proprio a credergli. «N-no» mormoro. «No, io...» Getto lo sguardo in basso, di nuovo schiacciato dall’insicurezza, desiderando solo di venire inghiottito dal muretto su cui sono seduto. «Io non ho nulla di perfetto. Sei solo tu quello che riesce sempre a vedere del buono anche quando non ce n’è.»

Un’altra auto ci passa davanti, solleva un’ala di schizzi d’acqua sporca che si rompe davanti a noi e che ci bagna fino alle caviglie.

Feliks si avvicina ancora, mi sfiora la spalla con la sua e poggia la mano sul muretto di pietra, senza toccarmi, solo standomi affianco. «Sai...» Il picchiare costante del diluvio nasconde le sue parole, fa sì che sia solo io a udirle. «Ti ricordi quando quella volta abbiamo detto che è un po’ come se tu fossi sempre imprigionato in una specie di lastra di ghiaccio che non ti lascia andare?»

Ingoio un singhiozzo, asciugo altre lacrime che ormai non riesco più a distinguere dalla pioggia, strofino via il pianto opaco che mi appanna la vista, e annuisco. Torno anch’io a quella primavera di un anno fa e che ora sembra così distante e irraggiungibile.

Feliks annuisce. «Ecco, secondo me tu sei davvero dentro al ghiaccio, ma è una specie...» Apre le mani come a formare una barriera. «Di lago ghiacciato.»

Sollevo un sopracciglio. «D-di lago?»

«Sì.» Feliks distende le mani aperte, gesticola con le dita come se ne stesse tastando la superficie. «Ecco, tu sei in questa specie di lago ghiacciato, no? Ma non sei morto come qualcuno potrebbe credere, proprio per niente, e quindi non c’è nulla di male se qualcuno prova a rompere il ghiaccio per tirarti fuori, no? Ma se vuoi che qualcuno ti salvi, devi lasciare che almeno infili il braccio nell’acqua ghiacciata.» Si tocca il tatuaggio lucido e nero, la pelle scarlatta da cui l’orologio sembra sbordare. «Ora io ho infilato il braccio nel lago.» Strofina le dita sui segni delle unghiate fresche. «Puoi aggrapparti a questo, se vuoi.»

Altri brividi di paura mi aggrediscono. «E se tu finissi per...» Davanti a me si spalanca la visione del mio corpo che sprofonda nel lago, delle ultime bolle d’aria che abbandonano le mie labbra, del braccio di Feliks che sprofonda per appendersi alla mia mano, e di lui che viene trascinato dal mio peso sul fondo di acque nere e gelide da cui non c’è scampo, intrappolati per sempre sotto la barriera ghiacciata che trattiene tutta la luce e il calore. «E se finissi per aggrapparti così forte a me da finire per affogare?»

Feliks si avvicina ancora con un saltello, preme il fianco al mio, posa la mano sulla mia gamba, e reclina il capo di lato, toccandomi la guancia con la sua. La pioggia scorre fra i nostri volti, diventa tiepida come le mie lacrime. Il profumo di Feliks è ancora più dolce e pungente ora che la pioggia lo riveste. Il suo sussurro è un alito soffice come una carezza. «Se tu affoghi, se non ce la fai più a respirare sotto l’acqua ghiacciata...» Volta la guancia e accosta le labbra al mio orecchio. Una scia di brividi nasce dove la sua bocca calda e umida mi tocca il lobo, e discende lungo l’arco della nuca. «Io ti do tutto il fiato che ho. Anche se muoio con te.»

Sposto la guancia, lasciando che le sue labbra scivolino su di me, e mi affaccio al suo sguardo. Le nostre fronti si sfiorano, separate solo dai fili di capelli bagnati che si sono incollati al viso. Gli occhi di Feliks sono luci verdi nella penombra grigia, le guance rosse e umide di pioggia, il labbro inferiore trattenuto fra le punte dei denti, e una manica della maglietta fradicia che cade di sbieco, lasciandogli una spalla scoperta. Solo le vibrazioni del suo respiro a scivolarmi addosso.

Mi accorgo di star trattenendo il fiato solo quando il petto comincia a bruciare. Stringo i pugni, graffio i jeans bagnati, deglutisco trovando la gola secca, nonostante la pioggia che mi bagna la bocca, e il cuore accelera, galoppa facendo salire il sangue alla testa. Quel battito ritmico picchia sulle tempie e m’infiamma tutto il corpo, annodando la pancia in una piacevole stretta che rende il corpo più leggero. Soffio un sussulto. L’aria si condensa fra le gocce di pioggia che continuano a inondarmi.

Abbasso le palpebre e, prima ancora che io possa chinarmi ad avvicinare le labbra, la bocca di Feliks è già sulla mia.

Ci uniamo in un bacio soffice, le bocche bagnate premono una sull’altra, il respiro di Feliks soffia su di me, mi solletica la punta del naso, e le labbra si schiudono, aprendosi come petali. Il sapore di Feliks scivola sulla lingua, si lascia risucchiare. Sa di lecca-lecca alla fragola, quel gusto che ho assaporato tante volte sulle sue labbra assieme a quello di menta, di frutta fresca e di vaniglia. Un sapore nostalgico che, unito al calore di questo bacio e al sapore ferroso della pioggia, fa salire altre lacrime agli occhi, inondando il cuore di tristezza.

Feliks mi avvolge le spalle, si aggrappa alla mia felpa bagnata e sale con le ginocchia attorno alle mie gambe, cingendomi i fianchi. Stringo l’abbraccio, racchiudo quel corpicino più sottile del mio ma infinitamente più forte. Affondo le mani fra i suoi capelli bagnati e gli reggo la nuca per tenermi unito a questo bacio. Inspiro a fondo, lo bacio ancora, senza trattenermi, catturando tutta la sua essenza, scivolandogli fino in fondo all’anima.

Separiamo le labbra e i respiri si mescolano, ancora umidi e affrettati. Feliks sbatte le palpebre, gli occhi verdi e sottili brillano di desiderio, il rossore avvampa fino alle orecchie, le ginocchia nude stringono attorno ai miei fianchi, trasmettendomi quel fremito che mi scuote fino allo stomaco. Rivoletti trasparenti gocciolano dai suoi capelli, attraversano il viso imporporato, e gli rigano le guance fino al mento. Il suo naso si arriccia in una piccola smorfia, le sopracciglia guizzano sopra gli occhi assottigliati, gli angoli delle labbra s’incurvano in un fine sorriso che viene di nuovo pizzicato dalle punte dei denti. Non c’è bisogno di pronunciare nemmeno una sillaba.

Gli stringo la mano, scendiamo entrambi dal muretto, ci allontaniamo dal marciapiede, e Feliks mi guida verso il vicolo racchiuso fra le facciate di due edifici. Ci accoglie l’odore stagnante della spazzatura, accentuato da quello del diluvio, assieme al suono della pioggia che batte sulle tegole, che stride lungo le grondaie e che picchietta sui bidoni di latta come una grandinata di sassolini. Attraversiamo la cascata d’acqua creata dalla spiovenza dei tetti, simile a una tenda di perline di vetro, e ci rintaniamo contro il muro.

Feliks si aggrappa alle mie spalle, mi bacia di nuovo, scivola all’indietro, sbatte i piedi fra i sacchi della spazzatura raccolti fra le cassette di legno abbandonate, inciampa su uno dei bidoni, stringe le braccia su di me per non cadere, e schiaccia la schiena contro la parete di mattoni, accanto alla grondaia arrugginita. Avvolge il mio viso fra le mani, fa schioccare il bacio che si bagna di tutta la pioggia che gronda dal tetto, e torna ad affondare le labbra sulla mia bocca. Le sue mani scivolano, raggiungono la mia vita, s’infilano sotto l’orlo della felpa e bruciano come fuoco sulla pelle bagnata. Le dita infreddolite s’ingarbugliano alla cintura, le unghie tintinnano sulla fibbia, scivolano, la slacciano al terzo tentativo, e sbottonano la chiusura dei jeans. Il suo tocco fra le gambe evoca una fiammata di calore che risale la pancia, schiaccia i polmoni, trottola attorno alla testa, e mi fa ansimare sulle sue labbra.

Lo bacio ancora, gli sollevo la gonna e gli avvolgo le cosce fra le mani, lasciando che lui si regga a me e che scivoli a sedere su uno dei bidoni accatastati contro il muro. I suoi muscoli sottili si tendono e tremano, il suo respiro batte sulla guancia, mi solletica l’orecchio. Le braccia di Feliks tornano ad aggrapparsi alle mie spalle, le gambe si schiudono e si allacciano ai miei fianchi, i piedi s’incrociano dietro la schiena, facendomi sprofondare nel suo calore, e le sue labbra strappano un altro bacio dalle mie.

Mi lascio risucchiare e travolgere da quel fuoco estraniante che solo lui riesce ad accendere. Lo schiaccio al muro tenendolo fermo sulla superficie del bidone, la sua schiena sfrega sui mattoni, i nostri abiti bagnati strusciano, e i miei jeans grattano fra le sue cosce nude. Feliks pianta le unghie nella stoffa della mia felpa, contrae i muscoli delle gambe, chiamandomi più vicino, il suo respiro accelera, soffia sul mio viso, e dalle labbra accostate al mio orecchio scivola un sottile gemito che vibra sulla guancia bollente.

Ingoio il fiato, sgrano gli occhi, e mi fermo, trafitto da una sensazione che è come una frecciata di ghiaccio nel cuore, una morsa di pietra strangolata sulla nuca. Tutto il calore nato dal ventre viene risucchiato in quella sensazione gelata che penetra fino alle ossa.

Il fantasma di Ivan scivola fra di noi, mi investe come un’ombra, mi strappa dal corpo di Feliks, e mi rapisce racchiudendomi nel suo ricordo costante, freddo e colloso come i vestiti zuppi di pioggia in cui sono avvolto ora. Emerge il ricordo delle sue mani su di me, più grandi e dure rispetto a quelle di Feliks, del suo tocco più ruvido e granitico, dei suoi baci più amari che mi catturano l’anima, e del suo corpo che mi inghiotte, soffocandomi in uno straziante bozzolo di ghiaccio e fuoco da cui non so come liberarmi.

Strizzo gli occhi, scaccio via quella sensazione, mi allontano dalla costante presenza di Ivan che mi perseguita come un fantasma, e resto legato solo al corpo di Feliks. Non lascio che questo momento vada in frantumi come una bolla di cristallo.

Lo bacio di nuovo. M’immergo nel profumo dei suoi capelli bagnati, affondo le labbra nella pelle del suo collo, succhio i rivoletti di pioggia che rinfrescano il sapore di fiori appena sbocciati, e mi lascio avvolgere solo dal calore del suo abbraccio che mi accoglie, solleticato dal suo respiro rapido sulla guancia, dalla sua voce che vibra accanto all’orecchio, e mi abbandono, lasciandomi morire dentro di lui.

Feliks si aggrappa a me, come se stesse sprofondando, e gonfia il petto per lanciare un ultimo gridolino che echeggia nel vicolo.

I nostri respiri accelerati si mescolano, il cuore martella fino alle tempie, il calore brucia ancora fra le guance e nella pancia, rimbomba nella testa inebriata da quella sensazione densa ed estraniante che mi solleva dalla strada, dall’ambiente di bidoni e sacchi della spazzatura, catapultandomi dove esistiamo solo io e Feliks.

Il lampo bianco si dissolve. Tornano gli scrosci delle auto che corrono lungo la strada, lo sgasare di una motocicletta, i passi di qualcuno che cammina fuori dal vicolo, l’acqua che picchietta sui tetti e lungo la grondaia arrugginita, l’abbaiare di un cane in lontananza, ma nulla ci disturba, nulla riesce a intromettersi in questo spazio etereo che ricomincia ad acquistare la forma delle pareti di mattoni e il tocco freddo e costante della pioggia che ci cade addosso.

Riapro le palpebre senza sciogliere l’abbraccio, scrollo la pioggia dalle ciglia, dissolvo il lampo bianco che mi ha abbagliato per quell’istante perfetto, e lo sguardo si posa sul tatuaggio di Feliks. La pelle arrossata freme sotto i suoi respiri affaticati che vibrano anche sul mio petto. Rami di vene bluastre attraversano la pelle bianca e sottile da cui emerge il nero dell’orologio e del filo spinato che ne soffoca il quadrante. Rivoli trasparenti gocciolati dai capelli dividono la scritta “Siberian Cubs” tracciata a caratteri gonfi e tozzi.

Deglutisco. La mia bocca è ancora dolce, piena del suo sapore.

Sospiro a fondo e abbandono il peso del capo sulla sua spalla, cadendo con la fronte nell’incavo del suo collo. Non piango più. Tengo Feliks stretto, protetto dalla caduta della pioggia che continua a grondare dal tetto, e mi abbandono a una fredda e pesante rassegnazione. Anche piangendo, non lo salverei comunque. Ormai devo solo accettare la sua scelta, proprio come lui ha deciso di accettare il suo destino.

Un altro scroscio sfreccia lungo la strada fuori dal vicolo, il rombo di un motore sgomma e si allontana, portandosi dietro lo scricchiolio delle gomme sull’asfalto tappezzato di pozzanghere.

Feliks rilassa la tensione delle braccia, schiude le dita estrapolando le unghie dalla stoffa della mia felpa, e recupera altro fiato che soffia accanto al mio viso, sulla mia pelle bagnata. Gira lo sguardo, strofina la guancia sulla mia, e sbircia verso l’uscita del vicolo. Inspira, deglutisce anche lui. «Ehi. Mi sa tanto che...» Una flebile risata spezza il ritmo degli affanni. Feliks sfila un braccio dalle mie spalle e si strofina il viso. «Che abbiamo tipo appena perso l’autobus.»

Mi lascio contagiare e rido anch’io. Una triste risata singhiozzante da cui sgorgano due ultime righe di pianto che mi scivolano dalle palpebre, andando a bagnare anche la pelle di Feliks.

Feliks mi avvolge il viso fra i palmi, mi fa risollevare lo sguardo, e mi cattura nei suoi occhi. Stende le labbra in un sorriso caldo che mi riempie il cuore. Solleva i pollici e raschia via le lacrime dal mio viso, strofinando i polpastrelli sotto le palpebre. «Sai che c’è un’altra cosa troppo forte sulla primavera e sull’autunno?»

Ricambio il sorriso, ingoio un ultimo singhiozzo che spreme fuori dal petto l’ultimo guizzo di tristezza, e gli scosto una ciocca dal viso. «E cioè?»

Feliks rilassa la tensione delle gambe, distende i piedi, e scivola più vicino a me, tornandomi ad avvolgere fra le sue braccia allacciate sopra le spalle. «Che troppo sole in primavera non va bene, no? Perché fa caldo, ti soffoca, fa seccare le piante che invece dovrebbero rinascere, ed è una grande seccatura. Ma anche troppa pioggia va male, perché finisce per allagare tutto, per fare un mucchio di fango appiccicoso, e sarebbe troppo triste vedere il cielo grigio per l’eternità.» Rivolge un indice al cielo annuvolato, alla cascata di perle d’acqua che tintinna lungo la grondaia e sui coperchi dei bidoni. «Ma se il sole e la pioggia si incontrano, allora sbuca l’arcobaleno che è tipo la cosa più bella che c’è durante la primavera, no? Ma ci vogliono sia il sole che la pioggia per farlo. Io e te siamo un po’ così, secondo me.»

Annuisco, capisco quello che intende. «Riusciamo a tirare fuori il meglio l’uno dall’altro.»

Feliks fa dondolare le gambe, stringe le mani dietro la mia nuca e mi attira a sé, naso su naso come fa sempre quando si fa coccolare. «Ma solo se stiamo assieme.»

Un senso di sollievo mi avvolge, più caldo e appagante anche rispetto alla scossa che ci ha uniti solo qualche istante fa. Raccolgo Feliks fra le mie braccia e lascio di nuovo riposare il capo sulla sua spalla, con un unico pensiero costante a riempirmi la testa. Non lo lascerò mai andare, non permetterò mai che esca dalla mia vita, lo proteggerò per sempre.

 

.

 

La pioggia continua a cadere ma almeno il temporale ha smesso. Gocce grigie picchiettano sui finestrini dell’autobus, producendo un suono morbido e ovattato, mentre il paesaggio scorre fuori dal vetro. I fasci dei lampioni cadono sulla strada bagnata, brillano sull’asfalto luccicante, sulle facciate degli edifici sormontati dal cielo soffocato dai nuvoloni neri, e sulle persone che camminano riparate dagli ombrelli e dai cornicioni dei palazzi. Una sottile condensa si sta formando sui finestrini. L’abitacolo odora di pioggia rafferma e di stoffa bagnata, di suole sporche di fango e di gas di scarico, ma ci sono solo altre quattro persone assieme a me e a Feliks, e il silenzio interrotto solo dal picchiettare della pioggia e dal rombare basso e regolare dell’autobus che avanza ci culla.

Passo una carezza fra i capelli umidi di Feliks, sul suo capo che riposa sulle mie gambe, con le braccia avvolte attorno ai miei fianchi, come fa sempre quando si assopisce anche nel letto o sulle panchine del parco. Le gambe rannicchiate sul terzo sedile accanto al nostro, e la mia felpa ancora bagnata a coprirgli le spalle. Sotto i nostri sedili si sta allargando una chiazza di pioggia che gocciola dai vestiti e dalle poltroncine già inumidite. Un singolo rivolo continua a cadere – plic, plic, plic – e distende la pozza anche sotto gli altri sedili, arrivando fino ai piedi delle altre persone.

Una donna seduta tre poltroncine distanti da noi si gira, ci guarda storto, scocca un’occhiataccia alla pozza sempre più larga, ai nostri vestiti fradici che hanno impregnato la stoffa dei sedili, e al corpo di Feliks rannicchiato contro di me. La signora scuote il capo, si alza, e va a spostarsi di due file più avanti, lasciandoci da soli nell’angolino, proprio in fondo all’autobus. Gli altri passeggeri ci ignorano. Un signore legge il giornale, un ragazzo è già in piedi davanti alle porte pieghevoli, pronto a scendere alla prossima fermata, e un’altra donna è seduta proprio nei posti dietro il conducente. Passi rimbombano al piano di sopra, ma non scende nessuno.

Reclino il capo sul finestrino, appoggiandomi con la tempia, e tengo lo sguardo rivolto all’esterno, sulle strade di Londra avvolte nel grigio della sera. Sottili rivoletti d’acqua scivolano dai miei capelli e attraversano la condensa che appanna il vetro, si uniscono alla pioggia che continua a picchiettare, a sollevare quel suono morbido che ovatta i pensieri. La mia mano scorre fra i capelli di Feliks, le nocche percorrono la curva tondeggiante del viso. Gli carezzo le spalle coperte dalla mia felpa, e raccolgo questo singolo e prezioso attimo di serenità fra me e lui, rendendomi conto che mi basterebbe solo questo per essere felice. Io e Feliks sotto il sole di primavera, io e Feliks sommersi dalla pioggia d’autunno, ma sempre con un posto dove tornare e da poter chiamare “casa”.

Sospiro a fondo. Nonostante la pioggia, nonostante il cielo grigio e l’abbraccio di gelo stretto dai vestiti ghiacciati, questo silenzioso momento fra noi due mi gonfia il cuore di un coraggio inaspettato. «Glielo dico.»

Feliks schiude gli occhi, sbatte le palpebre, e solleva la guancia dalle mie gambe, mi guarda con stupore.

Alzo la tempia dal finestrino, gli rivolgo lo sguardo. «Parlerò con Ivan. Gli dirò che...» Mi coglie un brivido, più freddo e pungente rispetto a quello trasmesso dalle gocce d’acqua che mi corrono lungo la schiena. Uno strano e sgradevole senso di vuoto si apre nel petto e mi risucchia davanti a questo pensiero. Ma lo ingoio, ignoro la pelle d’oca, il prurito al tatuaggio, le vertigini di smarrimento che mi colgono al solo pensarci, e mi lascio solo guidare dall’affetto che provo per Feliks. «Che io e lui non possiamo più stare assieme. Non in quel modo. Che io non posso più stare con lui.» Scuoto il capo. «Non so se acconsentirà al fatto che io lasci i Siberian Cubs, ma voglio provarci.» Tengo la mano accostata alla sua guancia, mi lascio trasportare da questa promessa che sigilliamo nell’angolino umido di un autobus che odora di fumo e di stoffa bagnata. «Voglio lottare per te.»

Le ultime perle di pioggia gocciolano dai capelli di Feliks, cadono sul viso e traballano sulle guance ancora arrossate. Lui si rimette a sedere, mi cinge i fianchi, sale sulle ginocchia, e i suoi occhi luccicano di gioia e speranza. «Promesso?»

Annuisco. Gli carezzo ancora la guancia, il collo, il tatuaggio, e gli poso le labbra sulla fronte. «Promesso.» La sua pelle brucia sotto il mio tocco. Proseguiamo il viaggio in autobus mentre io contemplo i segni dell’inchiostro in rilievo e quelle piccole ferite non ancora rimarginate che lo rendono più simile a me, più vicino al dolore che patisco ogni giorno e che solo lui riesce ad alleviare.

   
 
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