Nella tela del ragno - Il cacciatore di magia

di WhiteLight Girl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il viaggio di Adrien ***
Capitolo 3: *** Briciole di pane ***
Capitolo 4: *** La sconosciuta ***
Capitolo 5: *** Storie di un altro mondo ***
Capitolo 6: *** Il bosco nel tempo ***
Capitolo 7: *** La bestia - parte 1 ***
Capitolo 8: *** La bestia - parte 2 ***
Capitolo 9: *** Il vuoto attorno ***
Capitolo 10: *** L'estraneo ***
Capitolo 11: *** Il sacrificio ***
Capitolo 12: *** La strada più lunga ***
Capitolo 13: *** Emma ***
Capitolo 14: *** Verità ***
Capitolo 15: *** Un peso sulla coscienza ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Rena Rouge strappò lo scudo di mano a Carapace e lo usò per colpirlo, il ragazzo urlò di dolore.
«Si uccideranno a vicenda.» disse la donna ragno a Ladybug, che era incapace di distogliere lo sguardo da loro. La donna parlava piano, con voce morbida, forse cercando di rendere meno terrificante quell’eventualità.
Ladybug scosse il capo. «Siamo più forti di quello che credi, possiamo difenderci.» disse, cercando di nascondere la paura e quella sensazione di impotenza che l’aveva travolta.
La donna ragno sorrise. «Probabilmente sì, ma sai chi non sarà in grado di difendersi?» domandò.
Si tese verso di lei e Ladybug dovette serrare le palpebre per forzarsi a non indietreggiare. Il suo fiato, quando parlò, le sfiorò l’orecchio e il collo facendola rabbrividire.
«Sei stata poco attenta, mia cara.» le sussurrò la donna. «E tu e il tuo Chat Noir siete così giovani, così impreparati a ciò che il mondo ha in serbo per voi.»
Ladybug strinse i denti, l’odore che la pelle dell’altra emanava le ricordava la carne marcia; si ritrovò a domandarsi se le capitasse mai di divorare qualcuna delle persone prese in ostaggio durante i suoi viaggi negli altri mondi, se avesse già pensato ad uno dei suoi amici come cena.
«Siamo supereroi da quando avevamo quattordici anni, siamo più preparati di quanto credi.»
La donna scosse il capo. «Non lo metto in dubbio, mia cara, ma non era a questo che mi riferivo.»
Allora, dopo averle lanciato un’occhiata quasi comprensiva, glielo disse chiaramente.

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Capitolo 2
*** Il viaggio di Adrien ***


IL VIAGGIO DI ADRIEN

Chat Noir fa scivolare la mano lungo il braccio di Ladybug, che sussulta per il contatto inaspettato. Il ragazzo non avrebbe mai immaginato che sarebbe riuscito ad arrivarle alle spalle così, ma sorride e la trascina indietro per portarla con sé al sicuro all’ombra del camino.
«Credevo che ti fossi ritrasformato.» gli dice lei, ma gli sorride a sua volta.
Chat Noir le sfiora il mento con una mano e la spinge contro i mattoni, ammiccando. «Plagg ha mangiato in fretta» spiega.
Ladybug ride. «Più in fretta del solito? Non mi stupirebbe affatto se un giorno gli andasse di traverso. Nel caso dovesse succedere sapresti cosa fare, vero?» gli domanda.
Lui sbuffa, in quel momento non gli importa affatto. Pizzica il fianco della ragazza e lei sussulta indietreggiando ed urtando la schiena contro la parete con un sussulto.
«No!» esclama, sollevando le braccia per difendersi da un secondo, prevedibile pizzicotto. Ma Chat Noir non la stuzzica di nuovo; gli è bastato che abbia smesso di pensare a Plagg ed ora vuole passare ad altro. Non ricorda quanto sia passato dall’ultima volta che lui e Ladybug si sono appartati tra i tetti a coccolarsi, ma è una cosa che ha scoperto mancargli terribilmente.
«Tikki è a posto?» domanda e si sporge verso la ragazza. Le bacia una guancia, poi la tempia e la fronte, lei rabbrividisce e lui si crogiola nella soddisfazione.
«Si è ricaricata nel vicolo qualche minuto fa, volevo trasformarmi per arrivare casa prima.» confessa. Chat Noir solleva le sopracciglia, si domanda se sia urgente, se la stiano aspettando e se lei sarebbe disposta a rimanere lì con lui comunque. Le bacia il collo, il mento e poi il labbro inferiore.
Ladybug si appoggia al camino, le gambe piegate e tremanti mentre cerca di nascondere il rossore delle guance restando a capo chino. «Tu non hai qualche lezione da seguire? Vestiti da provare? Sfilate a cui presenziare?»
«No.» le risponde, afferrandola per i fianchi. La spinge contro il muro e si preme contro di lei, all’improvviso la sua mente è sospesa mentre il corpo di Ladybug lo riscalda ed il suo cuore batte contro la cassa toracica.

Adrien si svegliò con un sussulto, il sobbalzo fece scivolare il diario di Marinette giù dalle sue gambe e quello si richiuse sul pavimento del treno, dove Plagg lo recuperò afferrandolo per un lembo della copertina cartonata.
Strofinò una mano sugli occhi, incapace di lasciare svanire le sensazioni che l’avevano colto durante quel sogno così vivido, e non si accorse che il suo Kwami stava sbirciando ciò che c’era scritto sul diario.
«Ma che schifo! Ha descritto voi che-» disse Plagg.
Adrien gli strappò il diario dalle mani e lo strinse al petto, strizzando gli occhi. «Tu non leggere e non ti ritroverai disgustato.»
Lui sorrise. «Scommetto che è la tua pagina preferita.»
Lo ignorò e non si scomodò a dirgli che non era così, che c’era qualcosa nelle pagine in cui Marinette parlava di lui e di ciò che provava nei suoi confronti che era molto meglio e lo faceva sentire speciale ed assolutamente non alla sua altezza. Ancora non era riuscito a ricordarla, ma aveva imparato a conoscerla una seconda volta grazie a quelle pagine e si era innamorato ancora di lei attraverso le sue parole. Non credeva di meritare tutto quell’amore; in un mondo perfetto un sentimento così forte non avrebbe dovuto poter essere strappato via con la facilità con cui mesi prima Adrien ne era stato privato. A volte si ritrovava a pensare che, se avessero provato a rubare i ricordi a Marinette, invece che a lui, avrebbero fallito miseramente, ma non aveva comunque alcuna intenzione di rinunciarci.
Probabilmente era egoista, forse anche un illuso, ma non avrebbe smesso di cercarla finché non fosse morto o qualcuno l’avrebbe fermato. Estrasse il suo taccuino dallo zaino, lì aveva appuntato i risultati delle sue ultime ricerche, ma gli appunti erano ben pochi nonostante le chiare indicazioni che Maestro Fu gli aveva dato per trovare l’uomo che avrebbe potuto aiutarlo a recuperare la memoria.
A volte, Adrien si ritrovava a pensare che avrebbe dovuto accettare l’aiuto di Alya, Nino e Chloe, ma non voleva che lo vedessero consumarsi nella ricerca di qualcosa che forse non avrebbe mai potuto riavere. Li aveva lasciati con la promessa di farsi sentire al più presto, ma fin da subito sapeva che sarebbe stata una menzogna, che li avrebbe contattati solo quando avesse ottenuto risultati concreti. Era certo di non essere minimamente vicino ad averne, ma sperava che nel frattempo gli amici riuscissero a trovare un modo per raggiungere Ladybug.
Poggiò con riverenza il diario sulle ginocchia e dispiegò un’orecchietta che si era formata, ci strofinò sopra il dito per ristendere il foglio e sospirò. Plagg gli si appallottolò sulla spalla, allungando il collo per guardare, così Adrien richiuse il diario e lo strinse al petto.
«È solo uno stupido diario.» gli ricordò il kwami.
Adrien sapeva che non lo faceva per offenderlo; Plagg era convinto che in qualche modo i suoi ricordi di Marinette fossero ancora dentro di lui, forse nascosti da qualche magia, ma lui si aggrappava comunque a ogni cosa che la ragazza si era lasciata dietro e potesse dirgli qualcosa di lei.
«Dormi, Plagg.» disse Adrien, tornando a scrutare il paesaggio fuori dal finestrino del treno. La Cina sarebbe stato un posto molto più bello, se avesse potuto visitarla in un altro momento e per un’altra ragione.
Plagg sbadigliò contro il suo orecchio e poi si strofinò contro il suo collo, per fortuna l’abitacolo era vuoto, o Adrien si sarebbe ritrovato a preoccuparsi di tenere al sicuro il suo zaino pieno di diari.
Né lui né il suo kwami erano riusciti a prendere sonno, quando il varco si aprì ondeggiando attorno a loro ingoiandoli e trascinandoli via dal treno. Il pavimento della carrozza aveva lasciato il posto al vuoto, il profilo delle montagne della Cina a dei rivoli ondeggianti che parevano colore liquido gocciolante contro la parete di un tunnel ed entrambi vi precipitarono dentro, incapaci di impedirlo.

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Capitolo 3
*** Briciole di pane ***


BRICIOLE DI PANE

Il pavimento della carrozza aveva lasciato il posto al vuoto, il profilo delle montagne della Cina a dei rivoli ondeggianti simili a colore liquido che scivolava contro la parete di un tunnel.
Adrien atterrò sul marmo freddo con un colpo di schiena che ed un gemito di dolore.
«Cazzo!» esclamò.
Di per sé, la caduta non era stata neanche tanto lunga, ma l’impatto era stato abbastanza forte da lasciarlo senza fiato per alcuni secondi. Invece Plagg gli fluttuava attorno, incuriosito e per nulla disturbato dall’accaduto; doveva aver frenato in volo prima di dare una musata al pavimento ed Adrien lo invidiava abbastanza per questo.
«Un viaggio interdimensionale!» esclamò il kwami euforico «Erano secoli che non ne facevo uno!» Fece un paio di giri attorno ad Adrien che, con uno sbuffo, inspirò forte e cercò di sollevarsi. Lo zaino si era rovesciato in volo ed ora i diari di Marinette erano sparpagliati attorno a loro assieme agli avanzi del pranzo e le altre poche cose che si era portato dietro in quel viaggio. Della valigia con i vestiti di ricambio, però, non c’era traccia.
Adrien sollevò il taccuino con i propri appunti e si guardò attorno; la sala era grande ed a tre navate, nel soffitto alto c’erano una serie di volte a crociera che collegavano tra loro diverse colonne intarsiate. Quello che attirò la sua attenzione, però, fu il piccolo altare posto a pochi metri da lui, rialzato sopra una specie di piedistallo e raggiungibile grazie a tre scalini che vi correvano attorno. Pareva che l’altare fosse un tutt’uno con il pavimento, a pensarci pareva che lo fossero anche le colonne. Forse l’intero edificio era stato scolpito da un unico enorme blocco di marmo. Era privo di finestre, ma la luce illuminava l’intera stanza e non c’era un solo angolo in ombra, nonostante non ci fosse alcuna lampada o candela.
Domandandosi come fossero arrivati lì, Adrien rimise nello zaino i diari e seguì Plagg verso l’altare; il kwami lo stava studiando, ma non aveva idea di cosa stesse cercando. Lo vide sorridere e lo lasciò fare, domandandosi quando si sarebbe reso conto di non aver ancora cercato di usare la scusa del lungo viaggio per avere un pezzo di camembert.
«Guarda! È magia del sangue!» lo sentì dire.
Gli parve che Plagg si aspettasse che sapesse qualcosa al riguardo, perché gli sorrise e gli fece cenno di avvicinarsi, ma lui non aveva idea di cosa stesse parlando.
«È ancora fresco.» disse, stringendo gli occhioni verdi.
Adrien si sporse sull’altare, sulla cui superficie alcune piccole gocce di sangue erano disposte in circolo, mentre altre erano scivolate giù lungo il rialzo in marmo. Era l’unico tocco di colore nella stanza e sembrava così fuori posto che Adrien sentì la nausea smuovergli lo stomaco, ma non era certo che non fossero i postumi del viaggio appena compiuto.
«Cos’è la magia del sangue?» domandò a Plagg.
Lui sbatté le palpebre e piegò le spalle, l’entusiasmo scemato all’improvviso.
«È un tipo di magia che si usa sfruttando il sangue. Puoi dare una certa quantità di sangue per chiedere in cambio qualcosa – di solito il pagamento deve essere proporzionale alla richiesta – oppure altre cose, come invocazioni.» s’illuminò, ripensando a chissà cosa. «Alcuni la usano per legare a loro spiriti, demoni, creature magiche, ma non credo che sia il caso. C’è troppo poco sangue per quel tipo di incantesimo.»
Adrien si sforzò di memorizzare quelle informazioni, chiedendosi se in futuro avrebbero potuto essergli utili, caricò in spalla lo zaino e si rilassò nel sentire sulla schiena il familiare peso dei diari di Marinette.
«Dobbiamo trovare qualcuno che ci spieghi dove siamo.» disse.
Plagg spalancò la bocca. «Macché, sei matto? Non sai chi abita in questo posto. Non possiamo farci vedere!»
Fu categorico, Adrien l’aveva visto poche volte così sicuro di sé e sapeva che quando succedeva c’era sempre una valida ragione, quindi non fece storie e si preparò ad obbedire, anche se ormai la curiosità gli rodeva.
«Dobbiamo capire dove siamo senza farci notare.» ordinò Plagg.
Adrien pensò a come avrebbe potuto mescolarsi alla gente del posto se avessero avuto sembianze umane, ma se avesse scoperto che gli abitanti di quel mondo fossero enormi draghi, elfi dalle orecchie a punta o cavalli con tre teste allora sarebbe stato ben difficile.
«Faccio un giro di ricognizione.» esordì il kwami alla fine «Tu aspettami qui.» disse. Sfrecciò via prima che Adrien potesse dirgli qualcosa.
Anche il portone di ingresso era bianco – il ragazzo si chiese come Plagg avesse fatto a trovarlo così in fretta, ma era in legno ed arrivava fin quasi al soffitto. Ad uno sguardo più attento si poteva notare la piccola porticina sulla destra che sarebbe stato ben più facile aprire senza essere notati. Mentre si faceva di lato per avvicinarsi alla piccola porta, lo sguardo gli cadde sul pavimento; c’erano altre macchie di sangue, ma chi le aveva perse era passato attraverso il portone più grande e forse non l’aveva fatto da solo. Si accostò alla porticina e vi posò sopra l’orecchio, quando fu certo che oltre essa non ci fossero voci o segni di vita diede una piccola spinta allo stipite e sbirciò all’esterno, curioso di scoprire il nuovo mondo.
Con sua grande delusione, si trovava in una grande vallata di nulla; c’era solo una distesa di quel marmo in cui era stato scolpito l’edificio, ma poteva guardare l’orizzonte senza ostacoli e osservare il cielo senza che nulla lo distraesse da ciò. In lontananza c’erano una serie di nuvole grigie; le vide schiarirsi e diventare ancora nere nell’arco di pochi istanti, poi lo sguardo si spostò verso un lembo di terra dove, a chilometri di distanza, probabilmente stava per scatenarsi una tempesta. Avrebbe osservato anche oltre, se non avesse sentito le grida e le incitazioni che provenivano dal fianco dell’edificio. Rimase per un secondo immobile, incerto se tornare dentro o uscire a trovare un rifugio migliore, poiché non gli pareva affatto che ci fosse un solo posto, sotto le tre navate illuminate, che gli avrebbe dato la copertura di cui avrebbe avuto bisogno.
Quando Plagg gli ricomparve davanti all’improvviso, Adrien quasi urlò.
«Non sono amici.» disse ansante, afferrandolo per una manica e trascinandolo verso l’esterno.
Adrien lo assecondò, incespicando oltre la porta ed uscendo allo scoperto. Lì non c’era tutta quella luce che c’era all’interno, ma il fatto che fossero in penombra non gli dava alcuna consolazione.
«Dobbiamo seminarli!» disse a Plagg. Lo vide annuire con la coda dell’occhio e accennò un sorriso. «Plagg! Fuori gli artigli!» esclamò.
Era la prima volta che si trasformava dopo mesi, ma non ricordava di essere mai stato così in ansia mentre il costume magico compariva sulla sua pelle prendendo il posto dei vestiti. Il cuore gli batteva forte nel petto, rimbombava nelle orecchie mentre il drappello di uomini lo inseguiva. Le loro armature sferragliavano ed una volta trasformato, Chat Noir dedicò loro un’occhiata veloce prima di dar loro le spalle e ricominciare a correre. Erano una dozzina, erano alti, barbuti e dalla pelle scura, alcune delle loro armature erano decorate, sugli scudi era dipinto un falco da cui lo sguardo fu catturato per qualche secondo di troppo. Si fece di lato appena in tempo per evitare che una freccia lo colpisse in pieno, ma non riuscì a non tornare ad osservare la familiare figura sugli scudi.
Ricordava ciò che Alya, Nino e Chloe avevano detto della carovana, ma non voleva illudersi di essere davvero vicino a ritrovare Marinette, specialmente dato che non sapeva in che modo ciò fosse successo. Diede ancora le spalle ai cavalieri, si assicurò che lo zaino fosse ben sicuro sulla propria schiena e puntò il bastone per terra per poi allungarlo. Lasciò indietro con un balzò il drappello di uomini straniti e si lasciò scivolare verso una vallata rigogliosa che dal basso non aveva visto, dove iniziava un bosco fitto in cui sperava avrebbe potuto nascondersi facilmente.


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Capitolo 4
*** La sconosciuta ***


LA SCONOSCIUTA

Diede ancora le spalle ai cavalieri, si assicurò che lo zaino fosse ben sicuro sulla propria schiena e puntò il bastone per terra per poi allungarlo. Lasciò indietro con un balzò il drappello di uomini straniti e si lasciò scivolare verso una vallata rigogliosa che dal basso non aveva visto, dove iniziava un bosco fitto in cui sperava avrebbe potuto nascondersi facilmente.
C’era una distesa di alberi bianchi di cui non riusciva a vedere la fine, il cielo era scuro, di un blu che non aveva mai visto prima di allora e che non aveva tempo di fermarsi ad osservare. Scivolò tra le fronde e si nascose sotto esse, perdendosi nel sottobosco senza sapere se sarebbe riuscito ad uscirne.
Le foglie scricchiolavano sotto i suoi piedi ad ogni passo, mentre correva tra i tronchi ampi come case. Si spostò sempre più lontano dal pendio, saltò e scattò di ramo in ramo come un ninja, il bastone sempre stretto in mano e le orecchie tese per captare ogni minimo rumore. C’erano decine di respiri, scatti di mascelle, ringhi, guaiti, versi di ogni genere di animale che Chat Noir non riusciva ad inquadrare; il suono sferragliante delle armature era sempre più distante, ma qualcosa lo distrasse dalla sua fuga.
Si fermò, certo di aver messo abbastanza distanza tra sé stesso e gli inseguitori per poterselo permettere, e trattenne il fiato per sentire meglio. Lasciò che i versi degli animali diventassero solo un sottofondo per concentrarsi su quello che aveva attirato la sua attenzione, l’unico suono umano che raggiungeva le sue orecchie sensibili a parte quello dei cavalieri. Era un bambino in lacrime.
Esitò, pensando che potesse essere una trappola o un’allucinazione, che non c’era alcuna ragione logica per cui un bambino dovesse essere in un posto simile, ma non poteva andare oltre senza prima controllare.
Seguì in silenzio quel pianto, muovendosi di soppiatto come solo un gatto saprebbe fare. I singhiozzi erano sommessi, chiunque fosse si stava nascondendo, forse dagli stessi uomini da cui stava fuggendo lui.
Arrivò sull’albero più vicino e si acquattò su uno dei rami più bassi per fiutare l’aria, l’odore del bosco e delle foglie era intenso, quasi riusciva a coprire quello del sangue, ma a Chat Noir non sfuggì. Strizzò gli occhi e scrutò tra i cespugli, sapeva esattamente dove guardare, ma non come scendere dall’albero senza spaventare la ragazzina bionda che stava rannicchiata proprio in mezzo a due radici. Fosse stato a Parigi non avrebbe avuto alcun problema, tutti sapevano di potersi fidare di lui e degli altri supereroi, ma la tuta nera e gli artigli avrebbero potuto farlo sembrare un mostro agli occhi di chi non sapeva.
Esitò un istante, poi allungò il proprio bastone e lo incastrò tra le sterpaglie, usandolo come ascensore. Quando i suoi piedi poggiarono sul manto di foglie secche che ricoprivano il terreno, la ragazzina sollevò il viso mostrandogli i suoi grandi occhi verdi umidi di lacrime. Doveva avere poco più di dieci anni, aveva le guance rosse ed il sangue gocciolava sul vestito chiaro da un taglio sulla mano.
Lei scattò in piedi pronta a correre via, ma Chat Noir lasciò cadere a terra il suo bastone e sollevò le mani per dimostrarle di non avere armi, allora lei parve rilassarsi.
Non ti farò male, stai tranquilla.» le disse.
La ragazzina si asciugò le lacrime ed annuì.
«Stai scappando dai soldati?» le domandò, facendole un cenno verso in punto in cui pensava fosse quella specie di cattedrale dentro cui si era svegliato.
Lei annuì, non sembrava più avere paura, ma non poteva esserne sicuro, quindi si avvicinò con cautela, piegandosi verso di lei solo dopo essersi accertato che glielo lasciasse fare, e le afferrò la mano per guardare meglio la ferita che aveva sul palmo.
Il taglio non era profondo, ma lungo e sporco. Doveva essere caduta scappando, perché la gonna e le ginocchia erano sporche anche di terra. Chat Noir realizzò che avrebbe dovuto darle una ripulita, prima di aiutarla a trovare i suoi genitori. Ma una bambina persa in un bosco così immenso poteva essersi allontanata così tanto dalla sua famiglia senza l’aiuto di qualcuno?
«Mi chiamo Chat Noir.» disse. Non si aspettava una risposta in cambio ma, quando poggiò per terra lo zaino e ne tirò fuori una bottiglietta d’acqua mezza vuota, la sentì rispondere.
«Sono Emma.»
Le sorrise e le sciacquò il palmo, scoprendo con sollievo che già non sanguinava più.
«Ciao, Emma. Per te va bene se cerchiamo insieme un posto sicuro?» chiese.
Lei annuì, allora Chat Noir tese le braccia verso di lei per incoraggiarla ad andargli incontro, la sollevò da terra e la strinse a sé; era molto più leggera di quanto avesse immaginato e non era certo che fosse una buona cosa, sperò di avere qualche merendina con sé, oltre ai pochi pezzi rimasti di camembert. Si chinò con attenzione a raccogliere il bastone, rimise lo zaino in spalla e si arrampicò ancora sul tronco di uno degli alberi.
Con Emma tra le braccia il suo passo si fece più lento; lui fu più attento a non scivolare e a non urtare contro i piccoli rami e restò ritto per bilanciare il peso e non perdere l’equilibrio. Sentiva la ragazzina stringersi a lui, respirare contro il suo collo e rilassarsi in quell’abbraccio.
Avanzò alla cieca, non poteva fare altro, finché i polpacci iniziarono a fargli male, le braccia ad essere pesanti, il fiato a mancargli e cominciò a pensare che il bosco fosse infinito. Andò avanti per ore, imperterrito, ed alla fine iniziò ad arrancare, lo zaino divenne pesante, Emma si addormentò premuta contro il suo petto ed il Miraculous iniziò a suonare per avvertirlo che il suo tempo da trasformato era quasi scaduto. Fu allora che decise che era il momento per fermarsi e trovare un rifugio e poi, se la notte non fosse arrivata nel frattempo, una volta che Plagg si fosse nutrito avrebbe potuto ricominciare a correre.
Oscillò sull’ultimo ramo su cui era atterrato e rimase a pensare alle possibili conseguenze di ciò che avrebbe dovuto fare, se fosse tornato a terra sarebbe stato una preda facile, ma nessuno gli assicurava che anche nascosto tra le fronde non fosse lo stesso. Attorno a lui si muovevano animali sconosciuti, enormi uccelli colorati con becchi ricurvi, quelli che parevano insetti fosforescenti distratti a mangiare le foglie secche. Ringraziò il cielo che sembrassero erbivori, perché altrimenti sarebbe bastato poco perché lui, Plagg ed Emma diventassero le prede.
Individuò una rientranza nel tronco, un punto in cui la corteccia era stata scavata via formando una piccola insenatura che sarebbe stata perfetta per riposare, vi si avvicinò e si assicurò che fosse tutto pulito, allora vi fece scivolare dentro la ragazzina con delicatezza ed entrò dietro di lei. Sorrise, nel vederla stiracchiarsi e dischiudere gli occhi, e posò lo zaino al proprio fianco.
La trasformazione si dissolse poco dopo, lasciandolo con il volto scoperto davanti allo sguardo intontito di Emma. Plagg le volò attorno perplesso, ma lei non si scompose.
«Facciamo anche i baby-sitter, ora?» domandò il kwami.
Adrien scrollò le spalle e gli porse un pezzo di camembert. «Non potevo lasciarla lì.» spiegò.
E nonostante le sue parole era certo che neanche Plagg avrebbe potuto farlo, poiché già sorrideva e scrutava la ragazzina con simpatia.
«Sei qui per combattere la carovana, per impedire che porti qui altre persone?» domandò Emma.
Adrien trattenne il fiato, aveva avuto paura di sperare di essere davvero riuscito a trovare la strada giusta, ma ora poteva permetterselo, non si era mai sentito più vicino a Marinette, neanche dopo che aveva iniziato a sognarla.



Penso che abbiate abbastanza materiale su cui rimuginare, per ora, e vi concedo una settimana di pausa per farlo e per recensire con calma. Al prossimo capitolo ^^

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Capitolo 5
*** Storie di un altro mondo ***


STORIE DI UN ALTRO MONDO

Adrien aspettò che Plagg avesse la pancia piena e, quando Emma fu totalmente sveglia, le offrì l’ultimo pezzo del panino che gli era avanzato a pranzo ed attese che lo mangiasse. Quando lei ebbe finito, spolverò via le briciole dal suo vestito e le sorrise.
«Allora, cosa sai della carovana?» domandò. Lo fece sottovoce, con cautela, mentre Plagg gli si accoccolava su una spalla facendosi spazio tra i capelli arruffati.
Emma chinò lo sguardo con gli occhi umidi.
«Loro comandano tutti, portano qui le persone che gli servono.» disse. Poi alzò gli occhi verso di lui. «Non le lasciano più andare, neanche quando non servono più.»
Deglutì, domandandosi quale sorte fosse toccata a Marinette, cosa avesse patito negli ultimi mesi. «Sto cercando una ragazza.» spiegò ad Emma. «L’hanno rapita da alcuni mesi, io devo trovarla.» Lei scrollò le spalle. «Hanno preso tanta gente.» ripeté.
Adrien strinse i pugni. «Sì, ma lei è speciale!» esclamò.
Al sussulto di Emma sospirò e si passò una mano tra i capelli; aveva fretta, ma non poteva dimostrarlo così, se voleva che la ragazzina lo aiutasse non doveva spaventarla. Pensò a cos’altro poter dire, ma lei lo precedette.
«Era magica, vero?» gli domandò.
Lui annuì.
«Allora sarà in un tempio. Quelli magici li tengono sempre nei templi.»
A sentirlo dire così, in fondo non sembrava così male. Poteva sperare che l’avessero servita, riverita e tratta con rispetto per avere in cambio ciò che volevano; e poi Marinette non era inerme ed aveva Tikki con sé.
«Tu puoi dirmi dove sono?» chiese ad Emma.
Lei annuì.
«Sì, certo.» disse. Rimase in attesa, speranzoso, con Plagg che respirava piano contro il suo orecchio mentre aspettavano che dicesse altro. «Ti porterò lì se sconfiggerai la carovana.»
Adrien deglutì, la vendetta non gli sarebbe dispiaciuta, ma sapeva che Marinette aveva la precedenza, che tutto il resto poteva aspettare anche se per un po’ avrebbe dovuto dare corda alla sua nuova amica. Rimase ad osservarla, mentre lei si sporgeva ad osservare il bosco pensierosa. Anche Plagg era rimasto a fissarla, premuto contro il suo collo e silenzioso come non era mai stato prima di allora, salvo i casi di forte necessità.
Emma si guardava attorno, sembrava che non riuscisse a smettere, i suoi occhi correvano dalle fronde sopra di loro ad un punto imprecisato tra gli alberi, Adrien realizzò che era la direzione da cui erano arrivati; forse la ragazzina conosceva quel bosco molto meglio di lui, doveva essersi resa conto in qualche modo della strada che avevano fatto.
«Qual è il problema?» le domandò.
Lei si tirò indietro, sedette contro il tronco e strinse le ginocchia al petto. «Siamo vicini ad un cambio di tempo.»
«Un cambio di cosa?» chiese Plagg prima che potesse farlo lui.
Emma scrollò le spalle, sembrava che per lei la risposta fosse ovvia, probabilmente lo era. «Il punto in cui il tempo del bosco inizia a scorrere più veloce.»
Adrien sgranò gli occhi. «Il tempo fa cosa?»
Emma si grattò una guancia. «Nel tuo mondo non succede? Il tempo scorre diversamente a seconda di dove sei.» disse. Puntò il dito alla sua destra e, solo in quel momento, Adrien realizzò che alcune decine di metri più in là gli alberi erano molto più grandi e alti, e che le loro fronde erano quasi spoglie, come se stesse arrivando l’inverno.
«Se attraverseremo quella zona del bosco, quando usciremo, noi saremo stati lì giorni, ma in città saranno passate diverse settimane. Se però scegli di fare un giro diverso» continuò Emma. «Potresti trovarti in un posto in cui sono passati anni o dove è ancora ieri.»
Plagg grugnì. «Questo non ha senso.» disse. E rise.
Ma Emma era seria.
In un altro momento, Adrien avrebbe pensato che fosse interessante, in un altro luogo che lo stesse prendendo in giro, ma c’era qualcosa in Emma che gli faceva pensare che non potesse mentirgli.
«Quindi, se Marinette è qui quanto tempo è passato per lei?»
Emma sollevò il capo, il volto era pallido e le labbra tremavano, forse per il freddo. «Marinette?» domandò.
Adrien annuì. «La ragazza di cui ti ho parlato.»
La ragazzina strinse l’orlo della gonna tra le dita. «Dipende da dov’è stata, un po’ anche dalla strada che ha preso per arrivarci.»
Adrien sorrise, forse in fondo non sarebbe stato un fidanzato così pessimo, nonostante l’amnesia. Balzò in piedi e rielencò le sue priorità, ma Emma lo fissava e non sembrava affatto felice.
«Cosa c’è?» le chiese.
La vide chinare lo sguardo. «Potrebbe non essere più al tempio.» disse.
Il sorriso di Adrien si spense.
«Hai detto che quelli magici li tengono lì.»
«Sì, come colonne portanti. A questo mondo serve energia per non morire, lo sanno tutti. Ma alcuni non sono abbastanza forti e vengono consumati. In realtà vengono consumati tutti, alla fine.» rivelò Emma. «Con alcuni ci vuole di più, con altri di meno. Dipende da quanta magia hanno.» aprì la bocca per continuare, ma scosse la testa e non lo fece.
«Ascoltami» le disse Adrien, chinandosi e sfiorandole la spalla. «Marinette era forte, lei non è ancora morta, se mi porterai da lei potremo salvarla e poi insieme distruggeremo la carovana.»
Le lacrime scivolarono sulle guance di Emma, lei si premette le mani sul volto per nasconderle. «Mi dispiace.» disse, singhiozzando. «Mi dispiace, ma prima dobbiamo fermare la carovana.»
E fu irremovibile, nonostante le promesse di Adrien e le minacce di Plagg che le assicuravano che non avrebbero fatto nulla prima di riuscire a trovare la ragazza. Un’ora dopo, Emma si preparò a guidarli attraverso il bosco.


***


Ed ecco qui il nuovo capitolo. Mi farebbe piacere, ovviamente, sapere cosa ne pensate e soprattutto cosa i vostri adorabili cervelli stanno ipotizzando nella speranza di trovare una risposta a questa spiacevole situazione. Esponete le vostre ipotesi senza trattenervi e, forse, sarò clemente con i poveri Adrien e Marinette nei prossimi capitoli. Credetemi, Marinette ha davvero bisogno che io sia clemente con lei...

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Capitolo 6
*** Il bosco nel tempo ***


IL BOSCO NEL TEMPO

Emma oltrepassò la linea di confine con un singolo passo sicuro; Adrien e Plagg, invece, rimasero indietro ad osservarla.
Adrien aveva cercato di reprimere il nervoso per la discussione che non era riuscito a vincere, ma non si fece alcun problema a ostentare la sua delusione ed il suo disappunto; sperava che le sue occhiate di traverso ed il suo broncio facessero cambiare idea ad Emma, ma fino a quel momento lei non aveva dato alcun segno di voler cedere.
«Perché sembra che tu stia seguendo il nostro stesso tempo?» domandò Plagg, volando verso di lei. Emma accennò un sorriso tirato. «Ci si mette un po’ ad iniziare ad assestarsi con il nuovo flusso.» Ancora incerto, Adrien fece solo qualche altro passo.
«Andiamo, non è pericoloso.» lo incalzò Emma. «Sono cresciuta in un posto come questo, è perfettamente sicuro.»
Con un sospiro di rassegnazione ed un ultimo passo verso di lei, Adrien fu dentro. Non ci fu alcun cambiamento evidente, nessuna nausea o vertigine, nessun improvviso sovraccarico di energie o stanchezza, ma poi si guardò alle spalle e trovò una foglia sospesa a mezz’aria che, oltre il confine, era la palese dimostrazione di come fuori il tempo scorresse più piano. Si sporse e la afferrò con due dita per tirarla verso di sé e la lasciò cadere, quella ondeggiò tranquilla fino ad arrivare a terra.
«Avevi detto che ci voleva un po’ per prendere il ritmo.» fece notare ad Emma.
Lei sorrise. «Sì, ma vale solo per le persone che non sono di qui.» fece strada, Plagg si poggiò sulla testa di lei e si sedette comodo, Adrien si domandò cosa gli fosse preso e cosa l’avesse portato a prenderla in simpatia, ma non disse nulla.
«Quindi neanche tu sei di qui.» domandò Adrien.
«Nessuno è davvero di qui, molti sono discendenti di gente che è stata portata qui.» spiegò Emma. Adrien sbuffò, chiedendosi se la ragazzina desse le informazioni con il contagocce perché era distratta o solo perché non le andava di parlare con lui. «Allora sei una di loro?»
Emma si fermò e chinò il capo, Plagg rischiò di scivolare e volò via, tornando ad appollaiarsi sulla sua spalla. «Mia mamma è stata portata qui» rivelò Emma. «prima che io nascessi.»
Si fecero largo tra i rami sempre più fitti, l’aria era sempre più fredda, Adrien rabbrividì e si grattò una guancia cercando di evitare una bizzarra fossa che ricordava l’impronta di un cane. Si chiese quale cane potesse essere così grande e se fosse pericoloso, sperò che non finissero per trovarselo davanti all’improvviso.
«Quindi, dov’è tuo padre?» le domandò. Sperò che il discorso lo distraesse dall’idea di incontrare l’enorme cane, ma temeva anche le risposte che avrebbe avuto.
Emma si fermò e spostò un mucchio di foglie per scoprire la base di una radice. «Lui è rimasto nel mondo da cui veniva mamma, credo. Non ho mai avuto l’occasione di parlare con lei di lui.»
Adrien annuì rimuginando su quelle ultime parole, immagino Emma sola e sperduta in un posto a cui non apparteneva; sua madre poteva aver passato ciò che ora stava passando Marinette, ma forse non aveva avuto nessuno che la cercasse.
«Lei dov’è adesso?» domandò, pur temendo la risposta.
«È morta.» rispose Emma. Riprese a camminare, questa volta senza fermarsi e senza voltarsi indietro.
Adrien chinò il capo, pensò che forse non avrebbe dovuto insistere sull’argomento, che era stato indelicato e che avrebbe dovuto saperlo. Da ora in poi avrebbe dovuto evitare le domande la cui risposta probabilmente non gli sarebbe piaciuta.
Avrebbe voluto dirgli che gli dispiaceva, ma lei alzò il passo.
«L’inverno si avvicina.» disse Emma. «Ci serve un riparo.»
«Vuoi passare qui tutto l’inverno?» le domandò. Avrebbe dovuto essere uno scherzo, un modo per stemperare la tensione, per farle tornare il sorriso, ma Emma era ancora seria.
«Se fosse una zona di tempo stretto potremmo.» disse Emma. «Ma con il tempo largo non possiamo.»
Forse avrebbe dovuto essere una spiegazione, pensò Adrien, ma lui aveva bisogno di averne una migliore ed il suo silenzio parve farlo capire ad Emma, perché lei continuò.
«Chi è nato da persone che sono discendenti di chi vive qui da diverse generazioni ci mette di meno a sintonizzarsi sul nuovo tempo. Se fossimo in un posto in cui il tempo è più lento loro diventerebbero più lenti più in fretta di noi. È così che siamo scappati la prima volta; siamo andati dove eravamo più veloci.»
Adrien si sforzò di capire il senso, ma Emma non rallentò e non gliene diede il tempo; forse più tardi avrebbe potuto sedersi in un angolo e farsi un qualche schema mentale. Spostò lo zaino sull’altra spalla e agitò il braccio intorpidito per risvegliarlo, rassegnato a dover continuare a camminare.
Il cielo era terso, uguale a come era stato dall’altra parte del bosco, e si domandò come funzionasse il ciclo dei giorni e se anche l’arrivo del giorno e della notte fosse sottomesso al flusso del tempo dei diversi luoghi. Forse, realizzò non trovando il sole nel cielo, semplicemente non esistevano. Ma allora cosa rendeva rigoglioso il raccolto, se piante e fiori non potevano fare la fotosintesi con la luce solare?
Plagg gli fece schioccare le dita davanti agli occhi. «Sento le tue rotelle che girano anche da qui.» gli disse. «Lascia stare, ti verrà solo il mal di testa.»
Adrien sbuffò, spingendolo di lato con il dorso della mano per proseguire.
«Aspetta! Mica hai ancora qualche pezzo di Camembert?» disse lui.
Scosse il capo, ripensando alla scorta ben nascosta nella valigia che era rimasta sul treno. Cos’avrebbero pensato i suoi amici una volta che l’avessero trovata, chiedendosi che cosa potesse essergli successo? Non gli importava; avrebbe spiegato tutto con calma una volta che fosse tornato indietro con Marinette.
Ripensò a quello che Emma aveva detto. «Aspetta,» disse. «Quindi quando loro ci raggiungeranno diventeranno più veloci perché qui il tempo scorre più veloce, mentre noi saremo più lenti.» realizzò. «Già.» rispose lei.
Adrien ignorò Plagg che gli tirava il colletto. «Perderemo tutto il nostro vantaggio!»
Raggiunse Emma, le si affiancò e incespicò su una roccia rischiando di scivolare sul muschio umido. Già li vedeva, a raggiungerli, arrestarli e farli giustiziare prima che riuscissero anche solo a capire cosa fosse successo, ma allontanandosi non aveva camminato sul terreno, forse poteva contare sul fatto di non aver lasciato abbastanza tracce perché riuscissero a ritrovarlo.
Nel peggiore dei casi avrebbero potuto usare lui ed il potere del suo Miraculous come colonna portante, ma se l’avessero voluto, probabilmente, l’avrebbero già preso assieme a Marinette.
Si morse il labbro; non ci aveva mai pensato, ma l’avrebbe di gran lunga preferito a ciò che gli era toccato.
«Qual è il piano, allora?» domandò.
Emma si fermò a pensarci e all’improvviso, ad Adrien, affidarsi ad una ragazzina non sembrò più una buona idea; avrebbe dovuto essere lui a occuparsi di lei, ad assicurarsi che non le succedesse nulla e che tornasse a casa sana e salva, ovunque essa fosse. Forse, alla fine, avrebbe potuto portarla con sé nel suo mondo e trovare qualcuno che si potesse occupare di lei e darle una vita migliore. Con un po’ di fortuna forse avrebbe potuto rintracciare il padre.
«Se tutto va come previsto saremo fuori di qui prima di rallentare.» spiegò Emma.
Adrien sospirò; ragazzina o no, non aveva altri a cui potersi affidare.




***


Già lo sento nella mia testa, quello che state pensando di Marinette dopo che Emma ha parlato di sua madre, ma vorrei vederlo anche per iscritto xD
Chissà, magari il recensore più assiduo vincerà la possibilità di leggere l’ultimo capitolo in anteprima.

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Capitolo 7
*** La bestia - parte 1 ***


LA BESTIA (PARTE 1)

Una parte di Adrien aveva pensato, visto che il freddo cominciava a filtrargli fin dentro le ossa, che ad un certo punto avrebbe nevicato. Non successe, allora realizzo che i suoi ragionamenti erano confusi e che, in qualche modo, l’inverno in arrivo era un inverno precedente all’autunno che c’era fuori di lì.
Si sforzò di tenere d’occhio le altre eventuali stranezze, sfiorò le cortecce degli alberi, i piccoli rami nudi che si avviluppavano verso l’alto, cercò ancora una volta il sole e di nuovo non lo trovò.
Dietro di loro la foresta da cui erano arrivati era sparita da tempo e davanti a loro era esattamente come alle sue spalle.
«Sei davvero sicura di sapere dove stai andando?» domandò Plagg. Non era la prima volta che lo chiedeva e Adrien sapeva che non sarebbe stata l’ultima, ma almeno non aveva più implorato di avere del Camembert, distratto com’era dalla nuova ragazza.
Il modo in cui le ronzava attorno quasi lo infastidiva, ma se ne fece una ragione, perché altrimenti sarebbe stato ben più seccante. Poteva scommettere, però, che se non avessero trovato al più presto del formaggio, la pace non sarebbe durata.
«Te l’ho detto, sono cresciuta spostandomi di flusso in flusso.» ripeté Emma per l’ennesima volta.
Adrien si domandò quanto potesse essere stata dura, come fosse sopravvissuta e cosa aveva fatto per riuscirci; la immaginò a nascondersi nel bosco, a cacciare per vivere ed a rubare quando ne aveva avuto bisogno, magari dei vestiti caldi per l’inverno. Poi ricordò la questione dei flussi temporali e si chiese se semplicemente non si spostasse dove – o quando – il clima era più favorevole ogni volta che ne aveva la necessità.
Una folata di vento molto forte spinse all’improvviso Plagg contro la corteccia di un albero, lui gemette e scrollò il capo per riprendersi, poi volò verso Adrien e si rifugiò dietro il colletto della sua maglia, mettendosi al riparo tra i suoi capelli.
«Questo posto non mi piace.» disse il Kwami «È strano, c’è troppo da camminare e non c’è abbastanza formaggio.»
Adrien trattenne una risata, era incredibile che avesse resistito fino a quel momento senza lamentarsene.
«Di formaggio ce n’è tanto in città.» rivelò Emma.
Le orecchie di Plagg si sollevarono e gli solleticarono il collo, Adrien dovette trattenersi dal sollevare la spalla di colpo per grattarsi ed usò la mano opposta per spostare la testolina del Kwami e trovare sollievo. Altre folate di vento smuovevano le fronde attorno a loro, sempre più forti e gelide, e gli spingevano i capelli negli occhi.
«Sembra che stia arrivando una tempesta.» osservò.
Emma scrollò le spalle. «La vedo.» disse, senza neanche voltarsi.
Fu imperscrutabile; Adrien pensò che ci fosse abituata, oppure che ne avesse vissute talmente tante che ora nulla riusciva più a scalfirla, sperava che si trattasse della prima opzione, ma era più probabile che fosse una combinazione di entrambe.
Plagg si raggomitolò contro il suo colletto, i suoi baffi erano rigidi e gli pizzicavano la guancia. «Quindi, giusto per sapere, quanto dista questa città e quanto ci impiegheremo per raggiungerla?» disse, parlando a pochi centimetri dal suo orecchio.
Ridendo per le implicazioni di quella domanda e per come il Kwami stesse cercando di mostrarsi disinteressato, Adrien attese con lui la risposta, ma Emma si voltò a guardarli come se fossero due teste sullo stesso corpo.
«Noi non andremo affatto in città.» disse «Come vi è saltata in mente, questa idiozia?»
Il rantolo deluso di Plagg fu coperto dal frusciare del vento sempre più forte, ma Adrien pensò che la ragazzina avesse ragione; quello che era importante in quel momento era che trovassero un rifugio che li tenesse al sicuro dalle intemperie e dai soldati. Emma sembrò ricordarlo all’improvviso quando si udì un falco stridere in lontananza e lei riprese a camminare di gran lena senza voltarsi indietro.
«Stiamo andando dalle uniche persone che hanno avuto il coraggio di provare a opporsi a tutto questo.» spiegò, la voce flebile per la fatica di camminare e parlare contemporaneamente. «C’è solo una resistenza, ho passato gli ultimi anni con loro, tu potrai aiutarli, così finalmente avranno un vantaggio.»
Adrien non era convinto; non era la strada che avrebbe voluto intraprendere né la missione che avrebbe voluto avere sulle spalle, ma Emma non sembrava disposta a dargli scelta, o almeno non ancora. Forse, se avesse pazientato, alla fine l’avrebbe aiutato.
Nel momento in cui iniziò a pensare che non sarebbero potuti andare più di fretta, il bosco lasciò spazio ad una landa semi desertica in cui sarebbero stati praticamente allo scoperto. Fu allora che Emma iniziò a correre davvero, Adrien la seguì senza esitazione costringendo Plagg ad aggrapparsi al suo orecchio per non perdere l’equilibrio; i suoi piccoli artigli affondarono nel lobo con un pizzico, mentre lo zaino ondeggiava contro la sua schiena sobbalzando ad ogni saltello.
A diverse centinaia di metri da loro, dritti sulla traiettoria che stavano percorrendo, c’erano numerosi spuntoni di roccia che si issavano verso il cielo sbiadito. Il vento sollevava la sabbia e la terra gettandogliele negli occhi con forza, tanto che si dovettero coprire il volto ed Adrien stette ben attento a non aprire la bocca per non ritrovarsi a mangiarla. Sentì Plagg scivolare contro la sua schiena e spostarsi, sempre aggrappato alla sua maglia, fino a trovare rifugio nella tasca laterale dello zaino e rallentò per permettergli di accomodarsi al suo interno senza rischiare di essere sbalzato via. Pochi passi più lenti permisero ad Emma di prendere terreno, nonostante Adrien avesse le gambe più lunghe era evidente che la ragazzina fosse allenata.
Almeno, pensò Adrien, saprò che se qualcuno dovesse trovarla potrebbe seminarlo.
Si sforzò di stare al passo, ma era fuori esercizio e in quel mondo si sentiva quasi più pensante. Forse era solo una sua impressione, forse c’era qualcosa di diverso in quella gravità, non avrebbe saputo dirlo.
Il verso del falco li raggiunse ancora, Emma si guardò indietro, gli occhi sgranati, i capelli spinti dal vento contro il naso e le gote arrossate dalla fatica. «Corri!» gridò, e tornò a guardare in avanti.
Il vento si frappose tra loro, la terra e la sabbia gli offuscarono la vista, qualche granello doveva esserglisi infilato nei calzini e nella biancheria, poiché avvertiva un fastidio tremendo sul retro del piede e sui fianchi, ma provò ad ignorarlo.
Un nuovo rumore superò il frusciare del vento, non era né il movimento delle fronde degli alberi, né tantomeno quello del fischio che derivava dal passaggio dell’aria che si muoveva all’interno dell’apertura del canyon che stava diventando appena visibile davanti a loro.
Emma si voltò ancora. «Corri!» gridò più forte, allora Adrien decise di voltarsi a sua volta e capì il perché della sua fretta.
La creatura che li stava seguendo era un millepiedi gigantesco con le tenaglie ricurve che fuoriuscivano da una bocca umida e bavosa, il corpo piatto permetteva al vento di scorrergli addosso senza dargli fastidio, il peso lo teneva ben inchiodato a terra mentre strisciava ondeggiando nella loro direzione, sempre più vicino in quello che, probabilmente, era il suo terreno di caccia.
Emma doveva averlo saputo fin da subito, visto che aveva iniziato a correre già prima di abbandonare il riparo della boscaglia, e Adrien pensò che non era stato carino non avvertirlo, ma se ne sarebbe lamentato a tempo debito. Un’occhiata dietro di sé gli fece scoprire con orrore che la creatura era ancora più vicina, allora strinse i denti, realizzando che aveva un modo rapido e indolore per raggiungere il canyon molto più velocemente, dove era certo che Emma fosse diretta fin dall’inizio.
Strinse il pugno per sentire il freddo familiare del proprio anello contro la pelle e, senza esitare, gridò: «Plagg! Fuori gli artigli!»
Ignorò le grida di Emma che gli diceva di non farlo, le sue parole offuscate dal suono del vento arrivarono al suo cervello solo pochi istanti dopo, ma era troppo tardi.
Plagg fu trascinato fuori dal suo angolo sicuro all’interno della tasca, i vestiti di Adrien cambiarono lasciando il posto alla familiare tutta in pelle di Chat Noir, gli stivali premettero contro il terreno al passo successivo della corsa, invece lo zaino rimase dov’era.
Con un solo balzo, il ragazzo riuscì a raggiungere Emma. La afferrò per la vita e la sollevò, la gettò su una spalla ed usò il bastone per issarsi e prendere terreno. Sentì la ragazzina agitarsi contro la sua schiena, vide le sue gambe sollevarsi, probabilmente per il timore di cadere.
«Sentono la magia!» la sentì dire.
Anche quelle parole ci misero del tempo ad essere metabolizzate dal suo cervello. Lo fecero quando, una volta arrivati ai piedi del canyon, dove a poche decine di metri c’era l’insenatura oltre la quale forse avrebbero potuto trovare rifugio, numerose altre creature emersero dal terreno circostante e puntarono dritto contro di loro.

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Capitolo 8
*** La bestia - parte 2 ***


LA BESTIA 2

Strinse il pugno per sentire il freddo familiare del proprio anello contro la pelle e, senza esitare, gridò: «Plagg! Fuori gli artigli!»
Ignorò le grida di Emma che gli diceva di non farlo, le sue parole offuscate dal suono del vento arrivarono al suo cervello solo pochi istanti dopo, ma era troppo tardi.
Plagg fu trascinato fuori dal suo angolo sicuro all’interno della tasca, i vestiti di Adrien cambiarono lasciando il posto alla familiare tutta in pelle di Chat Noir, gli stivali premettero contro il terreno al passo successivo della corsa, invece lo zaino rimase dov’era.
Con un solo balzo, il ragazzo riuscì a raggiungere Emma. La afferrò per la vita e la sollevò, la gettò su una spalla ed usò il bastone per issarsi e prendere terreno. Sentì la ragazzina agitarsi contro la sua schiena, vide le sue gambe sollevarsi, probabilmente per il timore di cadere.
«Sentono la magia!» la sentì dire.
Anche quelle parole ci misero del tempo ad essere metabolizzate dal suo cervello. Lo fecero quando, una volta arrivati ai piedi del canyon, dove a poche decine di metri c’era l’insenatura oltre la quale forse avrebbero potuto trovare rifugio, numerose altre creature emersero dal terreno circostante e puntarono dritto contro di loro.
Chat Noir schivò la prima con un salto, trascinandosi dietro Emma e stringendola a sé per non perdere la presa, sollevò la spalla per tenere la ragazzina in equilibrio su essa e fece roteare il bastone, sperando che bastasse ad allontanare la creatura, ma quella esitò un solo istante e poi si tuffò verso di lui.
Puntò il bastone sul terreno e lo allungò, restandovisi aggrappato mentre esso gli dava lo slancio verso il cielo. Sentì Emma strillare e cercare un appiglio al suo vestito, quasi riuscire ad afferrare la sua coda e si lasciò cadere in avanti nel momento in cui il muso della bestia urtò contro la base del bastone sbilanciandolo. Poi ritirò il bastone, scendendo in caduta libera fino al dorso della creatura ed atterrando su un ginocchio. L’impatto lo destabilizzò, ma riuscì a rimanere in sella, mentre avvertiva l’eco del gemito di Emma nella propria testa. Il peso della ragazzina e dello zaino sulla propria schiena, combinato al fatto che fosse molto tempo che non si trasformava, lo rendeva quasi goffo; avrebbe dovuto trovare al più presto il modo di liberarsene, trovando un posto sicuro per loro fino alla fine del combattimento.
Rizzò le orecchie, oscillando per non cadere mentre un’altra creatura lo raggiungeva dalla sua destra a fauci spalancate. Aspettò l’ultimo istante, sentì Emma che si stringeva a lui e strillava ancora di terrore, e saltò via solo quando fu certo che la creatura che aveva preso la rincorsa non avrebbe potuto tirarsi indietro, in modo che le tenaglie affondassero nel guscio dell’altra.
Lo stridio di dolore gli trafisse il cervello, fu tanto forte da farlo incespicare all’atterraggio. Fu solo una fortuna che fosse riuscito a fermarsi a pochi metri dallo strapiombo che fino a poco prima non aveva notato, impegnato com’era a difendersi prima dalla terra portata dal vento e poi dagli attacchi di quelle enormi bestie disgustose.
Mise giù Emma, che ondeggiò pallida e si rimise in equilibrio stringendosi lo stomaco che fino ad allora era stato premuto contro la sua spalla, e fece scivolare lo zaino lungo il braccio per passarglielo. Lei lo afferrò per la bretella e lo guardò confusa.
«Tienilo al sicuro, non perderlo per nessuna ragione al mondo, ok?» le disse.
Non aspettò una risposta, ma si parò tra lei e le creature e strinse i palmi sul bastone.
Posso usare il Cataclisma su uno di loro, ma poi sarò inerme contro gli altri, se mi detrasformo, pensò. Forse, se fosse riuscito ad attirare l’attenzione di tutte le creature, Emma avrebbe potuto raggiungere l’insenatura da sola e mettersi in salvo.
«Stai indietro!» disse ad Emma. «Ti libero la strada, tu corri al riparo, poi ti raggiungo.»
Non la vide annuire o dare qualunque altro cenno di assenso, ma sperò che avesse capito e corse verso le creature che gli correvano incontro con il bastone teso davanti a sé. Saltò per arrivare all’altezza della prima, sferrò un colpo dritto in mezzo ai suoi piccoli occhietti scuri e raggiunse la successiva scivolandole sul dorso. Entrambe lo seguirono, sgusciando una contro l’altra come serpenti che hanno puntato la stessa preda.
Si sforzò di non voltarsi a controllare che Emma stesse bene, ogni distrazione avrebbe potuto essere fatale, udì uno scatto, ne cercò la fonte con lo sguardo e trovò una terza creatura a pochi metri da lui, le numerose file di denti ben esposti verso di lui. Grossa com’era, avrebbe potuto ingoiarlo in un boccone.
Emma urlò, riscuotendolo dal suo momentaneo stato di stordimento, questo gli permise di realizzare ciò che stava accadendo e scansarsi, allora si chinò per scivolare sotto il corpo viscido della creatura ed evitare di essere preso in pieno dalla sua bocca. Sollevando gli occhi mentre slittava via, scorse un sottile strato di peluria lungo tutto il ventre dell’animale. La corazza era solo lungo la parte superiore, realizzò allora, pensando con sollievo che non ci sarebbe stato bisogno di spingerli tutti ad attaccarsi a vicenda. Sollevò il bastone e lo piantò contro il petto dell’animale, domandandosi dove fosse il cuore e se sarebbe mai stato in grado di trovarlo. La creatura stridette, si ripiegò su sé stessa ed ondeggiò per liberarsi dell’arma, che quasi sfuggì dalla presa di Adrien.
«Lasciali stare! Raggiungi il canyon!» gli urlò Emma.
Le lanciò un’occhiata e la vide correre lungo il ciglio del burrone con lo zaino in spalla, sapeva di doversi fidare di lei, ma il suo istinto lo spingeva a combattere così come aveva fatto con tutti gli Akuma nel corso degli anni.
Aveva scoperto tramite i diari di Marinette che Ladybug dava facilmente ordini, che lui era sempre stato bravo a eseguirli, ma forse qualcosa in lui si era rotto quando l’avevano privato dei ricordi di lei o forse, in fondo, era solo stato propenso a seguire le indicazioni di lei e di nessun altro, perché non le diede ascolto.
Diede uno strattone al bastone per sfilarlo dal ventre della creatura e scivolò a terra, le gambe tremarono per il brusco atterraggio, la sabbia su cui era posato per i numerosi passi dei mostri che correvano verso di lui. Deglutì, chiedendosi cosa fare.
«Il canyon!» gli ripeté Emma.
Ma lui non sapeva più in quale direzione fosse, all’ombra del muro di roccia il vento non era impetuoso come lo era stato poco prima, ma lui aveva corso e saltato così tanto da aver perso il senso dell’orientamento; non era certo di riuscire a trovarlo a colpo sicuro con quei mostri alle calcagna.
Una rapida occhiata per individuare il varco gli fece capire di essere circondato, che forse avrebbe dovuto fare prima quello che Emma gli aveva suggerito, ma piangere sul latte versato non l’avrebbe aiutato a salvare entrambi.
«Dov’è?» domandò ad Emma. Non sentì la sua risposta, evitò le zanne di una creatura infilandosi sotto il corpo teso di un’altra e cercò di tornare dalla ragazzina, ma lei non era più sola. Aveva pensato, forse stupidamente, che avrebbe potuto attirare i giganteschi mostri lontani da lei, ma alcuni la stavano accerchiando, bramandola come formiche attirate da una zolletta di zucchero. Solo pochi metri e lei sarebbe rimasta bloccata tra loro e il precipizio, Chat Noir usò ancora una volta il bastone per issarsi, deciso a superarli e raggiungerla. Era ancora a mezz’aria quando lei tese le mani avanti per indicargli di fermarsi.
«Trova la resistenza, farò il giro lungo e ti raggiungerò!» gli disse.
La vide lanciarsi nel burrone, spalancando le braccia e lasciandosi cadere all’indietro con una sicurezza tale che, dopo che il cuore gli si fu fermato per un istante, fu certo che in qualche modo sarebbe sopravvissuta.
Le creature che erano state più vicine a lei si tesero in avanti per afferrarla, alcune di loro urtarono contro quella che gli parve essere una barriera invisibile, che le respinse indietro con una specie di scarica elettrica, le altre si fermarono.
Devo trovare l’ingresso del canyon, si disse Chat Noir. Poi realizzò che probabilmente non lo vedeva perché ne era già all’interno, che seguendo la parete di roccia avrebbe trovato un punto abbastanza stretto per mettersi al riparo, allora si diede lo slancio di lato, lasciandosi cadere e ritirando il bastone, poi corse senza fermarsi e senza voltarsi indietro.

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Capitolo 9
*** Il vuoto attorno ***


Il vuoto attorno

«Sei stata poco attenta, mia cara.» le sussurrò la donna. «E tu il tuo Chat Noir siete così giovani, così impreparati a ciò che il mondo ha in serbo per voi.»
Ladybug strinse i denti, l’odore che la pelle dell’altra emanava le ricordava la carne marcia; si ritrovò a domandarsi se le capitasse mai di divorare qualcuna delle persone prese in ostaggio durante i suoi viaggi negli altri mondi, se avesse già pensato ad uno dei suoi amici come cena.
«Siamo supereroi da quando avevamo quattordici anni, siamo più preparati di quanto credi.»
La donna scosse il capo. «Non lo metto in dubbio, mia cara, ma non era a questo che mi riferivo.»
Allora la guardò, a Marinette parve di scorgere comprensione, nei suoi occhi.


Marinette strinse al petto il fagotto e continuò ad avanzare, avrebbe voluto trasformarsi, ma tutto le doleva e non sarebbe stata in grado di usare lo yo-yo.
«Non fermarti!» le disse Tikki, che la precedeva. «Continua a correre.»
Marinette obbedì, si sforzò di mettere un piede dopo l’altro nonostante le caviglie gonfie ed i muscoli insensibili e formicolanti. Si aggrappò alle enormi radici che si trovava davanti, girò attorno ai fossi ed ai punti in cui il terreno era friabile solo perché Tikki continuava ad incoraggiarla ed avvertirla di ogni ostacolo.
«Forza, Marinette!»
Tikki la afferrò per la manica, ne tirò il polsino per tenerla in piedi, ma Marinette non sentiva più le dita dei piedi né quelle delle mani, tremava, stringeva la bambina al petto per cercare di infonderle quello che restava del proprio calore mentre il gelo della notte provava in ogni modo a portarglielo via.
Iniziava a faticare a tenere gli occhi aperti, restò china in avanti per fare scudo alla neonata con il proprio corpo, ma presto realizzò che anche se avesse voluto sollevarsi non ne sarebbe stata in grado ed incespicò in avanti, inciampando in una radice e spostandosi su un lato per impedire alla bambina che stringeva di arrivare per primo per terra.
«Marinette!» esclamò Tikki.
Marinette si rannicchiò nel fango, la mano immersa in una pozzanghera fino al polso, il tremito che il freddo le provocò le fece perdere le ultime forze che aveva e finì con la guancia premuta sul terreno. Tenne la bambina stretta contro il petto, sospesa a pochi centimetri da terra, il palmo aperto sulla sua nuca per sorreggerla come meglio poteva.
Inspirò, poi si sollevò tremante e si mise a sedere, strisciò contro il tronco di un albero e sollevò gli occhi al cielo, mentre sentiva che le ultime forze iniziavano ad abbandonarla.
Ogni cellula del suo corpo pareva essere sul punto di esplodere, era come se la stessa aria che aveva attorno fosse pesante, la spingesse verso terra, la avvolgesse e stritolasse in una morsa per non lasciarla andare.
«Non posso farcela, Tikki, non da sola. Ho bisogno di Adrien.» gemette. Le lacrime scivolarono giù per le sue guance. Anche la bambina piangeva, con gli occhi chiusi e le ciglia grondanti di lacrime che scivolavano veloci verso le dita di Marinette. «Sapevo di essere incinta da appena venti secondi ed ho già fatto la scelta peggiore della mia vita.»
Tikki si avvicinò, gli occhi erano lucidi nella penombra mentre le sfiorava la guancia. «No, Marinette. Hai avuto paura che ti facessero del male e che così potesse accadere qualcosa al bambino, qualunque madre avrebbe fatto la scelta che hai fatto tu.»
Marinette scosse il capo. «Avrei dovuto combattere, fidarmi del fatto che Adrien e gli altri avrebbero potuto proteggerci.»
Tikki inclinò il capo, nessuna traccia di rimprovero sul suo musetto preoccupato.
«Ma non ne eri certa, non te la sei sentita di rischiare, lo capisco, va bene.» disse.
Marinette gemette.
«No! Non va bene per niente!» le parole le morirono in gola, mentre la smorfia della bambina che stringeva tra le braccia disegnava due profonde fossette sulle sue guance piene. «Lei... Lei non ha neanche un nome ed ha già perso così tanto...»
Tikki le sfiorò la fronte. «Lo so, Marinette. Però tu puoi cambiare le cose, darle tutto quello che puoi.»
Scuotendo il capo, Marinette avvertì le forze mancarle, le parve che il mondo ondeggiasse tutto attorno a loro. «No, no! Io non posso farlo. Non da sola, non così. Ho bisogno di Adrien, lui neppure lo sa, non sono riuscita a dirglielo!»
«Marinette!» esclamò Tikki. La voce ferma e lo sguardo severo puntato verso di lei. «Stai avendo un attacco di panico, devi controllarti. Non sopravvivremo se non riprendi il controllo e non ti alzi.»
Ma Marinette scosse il capo ancora una volta, aveva solo voglia di stendersi sull’erba lasciarsi andare, avrebbe voluto addormentarsi e riaprire gli occhi per scoprire che era stato solo un orrendo e lungo incubo troppo vivido e magari scoprire che Adrien era al suo fianco.
«Marinette, guardala.» disse Tikki. La zampa, ancora ferma contro la sua pelle, fu l’unica cosa che Marinette riuscì a percepire per alcuni istanti e, quando finalmente riuscì a riaprire gli occhi ed a tornare a guardare Tikki, lei le fece un cenno verso la bambina in lacrime. I suoi strilli erano come un faro nella notte e nel silenzio si udivano di certo già da diverse centinaia di metri di distanza.
«Lei ha bisogno di te, ora sei l’unica persona che ha.» le ricordò Tikki.
Marinette si fermò ad osservare la bambina, la boccuccia sdentata spalancata, le guance bagnate, gli occhi chiusi e le braccine sollevate oltre il colletto della giacca in cui l’aveva avvolta. Aveva ancora la pelle umida e sporca di sangue, poiché non c’era stato il tempo di ripulirla dopo che era venuta al mondo.
«Non so neanche da dove cominciare...» disse Marinette.
Tikki strinse la zampetta attorno al suo dito, il gesto più vicino che potesse fare allo stringerle la mano per infonderle coraggio. «Non ha un nome, Marinette, scegligliene uno. Comincia da questo.» Con il cuore che batteva a mille, Marinette deglutì.
«Io?» domandò.
Le mani le tremarono, la presa sulla bambina quasi si allentò, ma non avrebbe mai lasciato che le cadesse.
Tikki annuì. «Sei l’unica che può farlo, adesso. Questa bambina merita un nome, non credi?»
Marinette inspirò. «Certo.»
«Allora forza, scegline uno.» ripeté Tikki.
Marinette si morse il labbro e annuì.
«Lei... Ho sempre pensato che se avessi avuto una bambina l’avrei chiamata Emma...» disse. Fece ondeggiare la bambina tra le braccia, sperando che così si sarebbe calmata.
Tikki sorrise. «Lo so. Ora andiamo, abbiamo perso terreno. Devi farlo per Emma e non solo per lei.» Marinette premette la mano sulla terra umida e fece leva sul braccio per alzarsi, ma tra il fagotto stretto tra le braccia ed il ventre che doleva rischiò di cadere indietro. Scattò in avanti per rimettersi in equilibrio, fu allora che il dolore allo stomaco la colse, dandole quasi l’impressione di essersi spezzata in due.
«Tikki...» sussurrò, la voce rotta per via del fiato mancante. «Qualcosa non va.»
Entrambe guardarono in basso, dove i vecchi pantaloni logori che ora le andavano troppo stretti iniziavano ad imbrattarsi rapidamente di sangue.

«Puoi combattere fino alla morte, se vuoi, ma con te morirebbe anche il bambino. Credimi, è meglio che tu ci segua senza fare storie. È per il suo bene.»

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Capitolo 10
*** L'estraneo ***


L’ESTRANEO

Chat Noir continuò a correre e non si guardò indietro neanche quando i polpacci iniziarono a fargli male, le pareti del canyon si fecero sempre più strette attorno a lui, fino a diventare un semplice corridoio di rocce in cui fu al riparo sia dal vento che dalle creature. Sciogliendo la trasformazione e tornando ad essere il solito semplice Adrien Agreste, ripensò ad Emma ed alla sua caduta nel vuoto e, solo allora rallentò. Dietro di sé intravedeva ancora le sagome degli enormi vermi che cercavano di infilarsi nella fessura per inseguirlo, ma le rocce sembravano reggere.
Plagg gli si posò su una spalla e si distese a pancia in giù. «Ci è mancato davvero poco.» disse. «Direi che mi merito una tripla porzione di Camembert, questa volta.»
«Non ho neanche usato il Cataclisma.» gli ricordò Adrien.
Dopo mesi passati a girovagare per la Cina con lo zaino pieno di diari in spalla, ora che aveva la schiena libera si sentiva quasi nudo. Sperò vivamente che Emma glielo riportasse, perché non avrebbe sopportato l’idea di perdere anche quell’ultimo legame che gli era rimasto con Marinette. Continuò a mettere un piede dopo l’altro meccanicamente, in qualche modo la voce di Plagg diventò un brusio di sottofondo e lui ebbe l’impressione di essere totalmente solo in quel posto sconosciuto. La luce era scarsa, ma questo non lo preoccupava, i versi delle creature divennero sempre più ovattati ed indistinti, poi svanirono totalmente lasciandolo solo con i suoi pensieri. Emma si era fidata di lui, gli aveva detto cosa fare, ma il fatto di averla lasciata indietro non gli dava pace nonostante lei avesse reso palese di non aver bisogno della sua protezione. Avrebbe dovuto fidarsi di lei, si ripeté per l’ennesima volta, così come sapeva essersi fidato di Ladybug quando era stato necessario. Non importava che fosse solo una ragazzina.
«Plagg.» disse, dopo l’ennesima protesta da parte sua. «Non ho nulla da darti da mangiare, non credo che andare in città possa essere una buona idea.»
Lui sbuffò, si agitò sulla sua spalla e lo colpì con la zampetta. «Sono il tuo Kwami, nutrirmi è il tuo compito.»
Adrien sorrise tra sé, ma durò solo un istante, perché l’immagine di Emma che si lasciava cadere nel vuoto tornò prepotente assieme al desiderio di trovare Marinette. Si guardò indietro, ma c’erano sollo rocce; ne era circondato. Aveva rocce sotto i piedi, davanti a sé e per decine di metri sopra la testa, un’unica strada da percorrere senza alcun dubbio su dove svoltare poiché, almeno da dov’era, non riusciva a vederne.
«Ti troverò qualcosa, lo prometto.» disse a Plagg.
Lui rispose con un semplice mugugno e si mise di schiena, le orecchie tese contro il collo di Adrien. «Presto, spero. Potrei spirare nell’attesa.»
Adrien si domandò dove avesse imparato certi termini, poi ricordò che aveva vissuto per chissà quanti secoli e si trovò a domandarsi per la prima volta quante lingue conoscesse. Il fatto che in tutti quegli anni non si fosse mai posto questa domanda lo fece sentire stupido, ma per quanto ne sapeva avrebbe potuto essersi posto la domanda assieme a Marinette e, come molte delle cose che erano accadute con lei, averlo dimenticato. Era un pensiero che lo tormentava da mesi.
Quando fu troppo stanco per continuare si fermò, si accucciò su una roccia e vi rimase seduto sopra fino a quando il sangue non smise di scorrere attraverso i gluter. A quel punto, ricominciare a camminare fi quasi un sollievo nonostante le gambe intorpidite. Non aveva più troppa fretta, grazie alla copertura che gli dava il canyon, o almeno questo era quello che gli piaceva pensare, perché l’alternativa era l’idea che in qualche modo le creature potessero raggiungerlo anche lì e questo non gli piaceva.
Camminò ancora, non poteva fare altrimenti, non c’era modo di sbagliare strada finché riuscì a scorgere l’uscita. Non fu come vedere una luce in fondo al tunnel, il fatto che il canyon si allargasse non gli permise ancora di vedere il sole, il cielo era ancora grigio e l’aria ancora fredda.
La prima freccia gli sfiorò il fianco, il suo sobbalzo fece quasi cadere a terra Plagg, che si strinse al suo collo aggrappandovisi con gli artigli. La seconda freccia lo mancò totalmente, tanto che si domandò a cosa stessero mirando per davvero.
«Chi siete? Cosa volete?» domandò.
Non riprovarono a colpirlo, nonostante fosse ciò che aveva immaginato avrebbero fatto. Seguirono alcuni minuti di silenzio in cui Adrien si domandò se avrebbe dovuto ripetere la domanda, poi qualcuno gli urlò: «Solleva le braccia e getta le armi!»
«Non sono armato.» rispose.
«Dimostralo!» ribatté la voce. Riecheggiava nel canyon ripetutamente, tanto che Adrien non riusciva a capire da dove provenisse.
Forse, se vi fosse riuscito, avrebbe potuto trasformarsi e difendersi, ma con Plagg in preda ai morsi della fame avrebbe avuto ben poche possibilità anche di fare quello.
«Ascoltami, non voglio farti del male, non voglio fare del male a nessuno, sono solo di passaggio.» dichiarò Adrien, tentando la via diplomatica.
Seguirono alcuni momenti di silenzio in cui pensò che forse l’altro ci stesse riflettendo su, poi lo sentì dire: «Dammi tutto quello che hai e ti lascerò passare.»
Adrien sollevò un sopracciglio, non aveva poi granché, quello che lui considerava prezioso per altri sarebbe stato nulla (ed era comunque tra le mani di Emma), ma se questo avesse peggiorato le cose?
Infilò le mani nelle tasche e ne estrasse il portafoglio. «Prendo solo una cosa» disse «niente che sia di valore per te.»
Aveva appena messo il dito sulle due foto che teneva nella tasca laterale quando un’altra freccia gli sibilò accanto all’orecchio.
«Lascia tutto com’è!» gli ordinò l’aggressore.
«Sono solo foto!» gli disse Adrien. Il pensiero di lasciare che lui vedesse i volti dei suoi amici e di Marinette gli strinse il petto, anche se le possibilità che riuscisse a raggiungerli erano infinitesimali. Lasciarle era impensabile.
Sentì Plagg agitarsi all’interno del suo colletto, là dove era rimasto nascosto per tutto il tempo.
«Ehi, ragazzo.» gli disse il Kwami. «Tu distrailo, io lo trovo e lo prendo alle spalle.»
Adrien gli fece un cenno d’assenso, lasciò cadere il portafoglio per terra e si rimise dritto. Guardò in alto, cercando un segno di dove l’altro potesse essere mentre Plagg si allontanava.
«Mi sono perso, mi hanno detto di seguire questa strada.» spiegò.
«Non è affar mio.» ribatté lo sconosciuto.
Adrien accennò un sorriso. «Speravo che potessi aiutarmi a capire dove andare.»
«Ti sembra di essere nelle condizioni di chiedere favori?»
Ignorò il tono ostile con cui gli era stata posta la domanda, fece appello a tutti i suoi istinti da Chat Noir e scrollò le spalle. «È che non sono di qui e non so proprio dove andare.»
Adrien era girato verso destra, ma l’uomo spuntò da sinistra, scivolando giù roggia per roccia fino ad arrivare alla sua altezza.
«Un novellino, eh? Da dove ti hanno preso?» gli domandò mentre gli andava incontro, la balestra sempre protesa davanti a lui.
Adrien fissò la punta della freccia domandandosi se avrebbe fatto in tempo a schivarla, nel caso Plagg avesse fallito.
«Un pianetino carino di un posto chiamato Sistema Solare. Si chiama Terra.» spiegò.
L’uomo gli fece cenno di arretrare, lui lo fece, lasciando a terra il portafoglio.
«Sì, ne abbiamo altri che vengono da lì.» disse l’uomo, chinandosi e iniziando a frugare nelle tasche con una mano. Quando estrasse alcune banconote, sollevò il capo, rosso in volto. «Che roba è questa?»
«Sono tutti i miei soldi.» gli disse Adrien.
L’uomo li lanciò davanti a sé, lasciando che ondeggiassero fino a posarsi sul terreno. «Questi non servono a nulla, quali oggetti magici hai?»
Adrien strinse il pugno per sentire il Miraculous contro la pelle, la calma che il gesto gli dette fu seguita dal peso sullo stomaco che gli dava l’idea che potessero portarglielo via.
«Nessuno.» disse, scandendo bene le parole e assottigliando lo sguardo.
L’uomo infilò la mano nel marsupio e ne estrasse una piccola sfera rotonda, si alzò in piedi e gliela tese. «Allora generi magia,» concluse. «metti qui dentro tutta quella che puoi»
Prima che Adrien potesse smentirlo, prima che potesse dirgli che non aveva idea di cosa stava parlando, né tantomeno di come si potesse fare una cosa simile, l’uomo sobbalzò e si inarcò all’indietro, strillando. La freccia partì automaticamente, schiantandosi contro la parete alle sue spalle e rompendosi, Adrien fece un salto in avanti, disarmò l’uomo e lo costrinse a terra, Plagg fu subito al suo fianco, i dentini sporchi del sangue che sgorgava dai due piccoli tagli che aveva fatto sul collo dell’uomo.
«Mi dispiace.» disse Adrien, inchiodandolo a terra. «Non è nulla di personale.»
Ma lui non lo ascoltava più, intento com’era a fissare Plagg ad occhi sgranati.
Adrien temette di aver fatto un errore, che ora glielo avrebbe portato via, invece l’uomo smise di dibattersi.
«Quello è un Kwami? Del Gatto Nero?» domandò.
Stupito com’era dalla cosa, Adrien non poté che annuire.
L’uomo sospirò e disse: «Ho conosciuto quello della Coccinella, tempo fa, e la sua portatrice.»

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Capitolo 11
*** Il sacrificio ***


IL SACRIFICIO

Dopo che ebbe capito che Plagg era un Kwami, l’ostilità dell’uomo parve svanire e lui mise via l’arma, permettendo ad Adrien di alzarsi. Non gli spiegò perché ora si fidasse, né dove e perché aveva incontrato Tikki e Marinette, ma lasciò che Adrien lo seguisse lungo il canyon e continuò a camminare in silenzio come se i due non fossero lì.
Non rispose a nessuna delle domande di Adrien su cosa volesse e cosa ci facesse lì, ma quando il ragazzo gli domandò di Marinette lui si fermò un istante, proprio sotto uno sperone di roccia, e si voltò a sorridere.
«Sì, lei aveva detto che saresti venuto a cercarla, ne era sicurissima.» commentò.
Adrien si sentì improvvisamente leggero, libero di un peso che aveva percepito per così tanto tempo da essersi convinto che ormai fosse parte di lui. L’aveva già immaginato, ma la consapevolezza che Marinette lo stesse aspettando gli scaldava il cuore in un modo che non avrebbe mai immaginato possibile.
«Lei sta bene?» domandò.
L’uomo sospirò e gli diede ancora le spalle, riprese a camminare, il borsone in spalla che ondeggiava ad ogni suo passo.
Il percorso scavato nella roccia iniziò a salire, i sassi si mossero e scivolarono sotto le loro suole, Adrien cercò di raggiungerlo, ma era di nuovo stanco e l’uomo era veloce e sicuro in quel territorio a lui familiare. Non esitava nei punti più bui, dove il canyon lasciava spazio a piccole gallerie appena sufficienti al passaggio di un uomo, né si preoccupava di controllare che lui riuscisse a stare al passo. Spazientito, Adrien tese un braccio e gli afferrò l’orlo della giacca.
«Aspetta.» gli disse. «Dimmi lei dov’è.»
L’uomo lo spinse avanti, trattenendolo al suo fianco ed impedendogli di fermarsi, Plagg gli ruotò attorno e lo fissò imbronciato.
«Sai, ragazzo, alcune domande sarebbe meglio che restassero senza risposta.» gli sorrise, ma il suo sguardo sotto le sopracciglia inarcate era triste.
Adrien strattonò il braccio per liberarsi dalla sua presa e puntò i piedi per terra, grazie a Gabriel Agreste era diventato molto bravo a controllare le proprie emozioni, ma la rabbia e l’esasperazione gli ribollivano dentro, il non sapere era come il gancio del coperchio di una pentola a pressione in procinto di esplodere. Si domandò quanto ci avrebbero impiegato, tutti quei sentimenti, a consumarlo dall’interno.
«Io voglio saperlo.» disse.
«Io, se fossi al tuo posto, preferirei di no, forse.» rispose l’uomo. Tastò con la mano una delle rocce che aveva davanti e si chinò per passare sotto ad uno spuntone che pendeva dal soffitto.
«Sei un vigliacco, allora.» ribatté Adrien.
Non era mai stato così duro, prima di allora, a parte forse qualche accesa discussione che aveva avuto con il padre nel corso degli ultimi anni, prima di decidere che non voleva avere più nulla a che fare con lui.
«Forse, ma ho cose più importanti a cui pensare che preoccuparmi di una ragazza che probabilmente è morta.» fu la risposta dell’uomo.
Non sembrava esserci rabbia nei confronti di Adrien, né riguardo a ciò che gli aveva detto, né sul modo in cui l’aveva fatto.
La sicurezza di Adrien, il suo desiderio di sapere, vacillarono per un istante. Le parole che aveva letto sui diari, i racconti di ciò che era successo nella vita di lei risuonarono nella sua testa. Deglutì.
«No, lei non può esserlo...» sussurrò. Ignorò la zampa di Plagg che gli accarezzava la guancia e respinse il suo tentativo di confortarlo a pugni stretti.
L’uomo scrollò le spalle. «Forse no, chi lo sa. Ma visto come è andata non mi stupirebbe se l’avessero uccisa.»
Tutto si riduceva a ciò che era successo; forse, se avesse saputo, avrebbe potuto prevedere cosa potesse essere accaduto dopo. Dopotutto, se l’uomo non aveva visto con certezza la morte di lei, se non l’avesse vista lui stesso con i suoi occhi, Adrien non era disposto a crederci.
«Perché? Come è andata?» domandò.
«Ha lasciato che la prendessero.»
Adrien scosse il capo, incredulo. Aveva sentito parlare di una Ladybug sicura sé, irriverente, furba, geniale e sempre con un asso nella manica. Non una sola parola tra quelle che aveva letto e sentito gli permetteva di pensare che lei potesse arrendersi.
«Non è possibile.» rispose.
«Era una ragazza dal cuore d’oro, quel giorno ha salvato molte vite.» ribatté l’uomo.
Forse era l’unica cosa che Adrien non avrebbe voluto sentire, poiché avrebbe reso possibile quell’eventualità. Marinette non si sarebbe mai arresa, a meno che questo non avesse significato salvare la vita a qualcuno e fosse l’ultima chance. Tornò a pensare a quello che Alya gli aveva raccontato del momento in cui gliel’avevano portata via, se non era riuscito a salvarla allora, avrebbe provato a farlo adesso; non poteva voltarsi da parte senza neanche averci provato.
«Se era così speciale allora dovresti permettermi di cercarla, dimmi da dove posso cominciare.» disse.
Avrebbe voluto che il suo tono non sembrasse una supplica, che l’uomo non potesse avvertire la sua disperazione, ma l’incertezza stava avendo la meglio su di lui e sembrava che non volesse lasciargli scampo.
«Da nessuna parte!» insisté l’uomo, gli occhi grigi che lo squadravano con biasimo, le labbra sottili strette e diritte. «Questo posto è un casino e sta morendo, ci trascinerà tutti nel nulla; l’unica cosa che puoi fare è unirti a noi e cercare di fermare la Carovana.»
Era quello che aveva detto anche Emma, ciò che si era preoccupata di ripetergli fino alla nausea come se fosse l’unica cosa che avesse importanza.
«Sei parte della resistenza.» Osservò allora.
L’uomo annuì. «Chi ti ha detto della resistenza?» gli chiese.
«Una ragazzina, si chiama Emma.»
Adrien lo vide accennare un sorriso, non se lo sarebbe aspettato. «Allora è viva. Ed era da sola?» domandò.
Gli fece cenno di seguirlo, ormai vedevano bene l’uscita dal canyon e, oltre essa, se Adrien strizzava gli occhi abbastanza, poteva vedere le rocce che lasciavano il posto ad una serie di cespugli rinsecchiti e morenti con i ramoscelli ripiegati verso l’interno.
«Sì, perché?» rispose, seguendolo mesto per quelle ultime decine di metri.
«Dove l’hai lasciata?» gli chiese l’uomo, invece di rispondere.
Adrien ripensò a lei per l’ennesima volta, alle sue parole, ai capelli che si agitavano nell’aria mentre cadeva.
«Si è lanciata in un burrone, ma ha detto che mi avrebbe raggiunto.»
Dirlo ad alta voce lo fece sentire ben più stupido di quanto avesse immaginato; come poteva una persona lanciarsi nel vuoto e sopravvivere? A meno il burrone non fosse ben meno profondo di quanto lui avesse immaginato.
L’uomo non pareva avere i suoi stessi dubbi. «Ottimo.» gli disse «Faremo in modo che trovi il suo piatto riferito a cena per i prossimi tre giorni. Ma non ti aspettare che ci raggiunga nello stesso modo in cui l’hai lasciata.»
Non spiegò cosa intendesse ed Adrien non pose domande, poiché non era sicuro che avrebbe potuto sopportare altre risposte negate o peggio, troppo sibilline.
Le pareti di roccia iniziarono a richiudersi sopra di loro; prima Adrien aveva pensato che fosse un effetto ottico, che le pareti si avvicinassero al punto da sembrare toccarsi, invece si unirono davvero per lasciare spazio ad una piccola galleria che proseguiva fino ai cespugli di rovi.
Avanzarono mesti, all’esterno c’era un vociare che li allertò, quindi tacerono entrambi camminando fianco a fianco, perfino Plagg iniziò a tendere le orecchie per capire di cosa si trattasse.
L’uomo spinse Adrien in un’insenatura, lo costrinse ad acquattarsi a pochi metri dai cespugli, restando abbastanza indietro per essere coperti da essi ed al contempo riuscire a vedere cosa stesse accadendo fuori.
Ormai Adrien era in grado di riconoscere le armature tipiche delle guardie di quel mondo, le loro armi ed i loro modi di fare, ma il vederli fare spazio ad un ragazzotto paffuto poco più grande di lui gli diede comunque una stretta al cuore.
«Fai silenzio.» gli raccomandò l’uomo fermo al suo fianco.
Adrien annuì, ma non poté impedirsi di domandare sottovoce: «Che succede?»
Vide il ragazzotto sorridere ai presenti, abbracciare la donna che lo accompagnava e stringere la mano di uno dei cavalieri. Nello spiazzo sembravano esserci solo loro, stretti in ranghi serrati tutti attorno ad una tavola di pietra rossa che sembrava essere scavata nella roccia stessa.
«Nutrono l’elemento Terra.» spiegò l’uomo ad Adrien.
Lui si corrucciò, confuso nel vedere salire il ragazzotto sulla tavola e stendervisi sopra, a pancia all’aria come se volesse fare un sonnellino.
«Che significa?» chiese Adrien.
«Sta’ a guardare.» insisté l’uomo.
Adrien strizzò gli occhi, qualcosa scintillava nella mano della donna, mentre lei si avvicinava alla tavola di pietra ed al ragazzotto. Plagg inclinò il capo, forse incuriosito, inspirò forte e sollevò il nasino come se avesse percepito qualcosa. La donna era ora accanto al ragazzotto, le larghe maniche svolazzanti ondeggiarono mentre lei sollevava le braccia, il pugnale stretto in mano.
«Adrien! Non guardare!» esclamò Plagg contro il suo orecchio.
Adrien si sentì tremare, mentre comprendeva il perché della preoccupazione del suo Kwami. Le zampette di Plagg gli coprirono gli occhi cercando di costringerlo a chiuderli, ma nonostante la nausea che l’aveva colpito, lui voleva vedere. Spinse via Plagg con dolcezza, malgrado la foga del momento, e si sporse in avanti con l’istinto che gli gridava di accorrere e intervenire. L’uomo e Plagg lo trattennero, lui frenò quell’impulso, la donna estrasse il pugnale intriso di sangue e il ragazzotto rimase inerme, già morto, sull’altare sacrificale.
Le guardie misero via le armi, tutti si inginocchiarono, iniziando a mormorare parole che Adrien non riusciva a distinguere, mentre il sangue sgorgava dal corpo del giovane e scivolava lungo la tavola di pietra e poi giù, fino al pavimento.
Poi il sangue divenne polvere e con lui anche il corpo del ragazzotto, i cavalieri e la donna si rialzarono e si allontanarono con calma, come se avessero strappato un semplice fiore da un campo. «È orribile.» disse Adrien, solo dopo diversi minuti, quando fu certo che fossero rimasti soli. Aveva ancora la nausea, sentiva la gola secca ed il cuore che rimbombava forte nell’orecchio. Se anche gli fossero arrivati alle spalle ed avessero provato a colpirlo, era certo che non se ne sarebbe accorto. L’uomo che era con lui, invece, non pareva affatto scosso. «È un membro della carovana in meno.» ribatté, tagliando corto.
Poi lo guidò fuori dalla grotta ed Adrien lo seguì, senza riuscire a distogliere lo sguardo dall’altare, dove ogni traccia dell’omicidio appena commesso pareva essere svanita.

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Capitolo 12
*** La strada più lunga ***


LA STRADA PIÙ LUNGA

Il giaciglio che la resistenza aveva fornito ad Adrien era piccolo e scomodo, ma anche se fosse stato il materasso migliore del mondo il ragazzo non sarebbe riuscito comunque ad addormentarsi. Plagg aveva borbottato per ore contro il suo orecchio, ripetendo fino alla nausea quanto lo stomaco gli dolesse per la fame e quanto fosse poco rispettoso che i loro ospiti non fossero corsi immediatamente a cercargli del Camembert. Ad un certo punto, quando il Kwami si era finalmente assopito, il suo stomaco aveva iniziato a brontolare al punto che, per una volta, Adrien ebbe davvero pietà di lui.
Quel rumore ed il russare continuo degli uomini era diventato presto quasi una ninna nanna, ed alla fine Adrien era crollato, stremato e raggomitolato su sé stesso, riflettendo sulle parole che avrebbe voluto dire a Marinette quando fosse riuscito a trovarla.
Il risveglio fu altrettanto spiacevole, con la branda che si agitava cigolando mentre colui che aveva dormito sul lettuccio superiore saltava giù. Adrien sobbalzò, dischiuse gli occhi, intravide la figura esile in piedi accanto a lui e richiuse le palpebre stordito; la luce non era molta, ma bastava a dargli fastidio. Sentì Plagg scivolare sotto al cuscino scricchiolante - non era altro che una federa ripiena di foglie secche - e mosse le labbra per risvegliare anche la bocca impastata.
Vi furono altri scricchiolii, altri uomini si alzarono e, uno dopo l’altro, iniziarono a vestirsi. Erano coordinati come i militari, tanto che Adrien si chiese se non facessero anche loro parte di un esercito. Forse, in quanto membri di un gruppo di ribelli, era come se lo fossero. Attese che tutti fossero fuori, stanco come non avrebbe mai immaginato potesse sentirsi, e solo allora si mise a sedere.
La notte precedente, quando era arrivato e Jonas - l’uomo che li aveva portati lì e gli aveva assegnato un posto - non aveva avuto tempo per familiarizzare con nessuno e quindi, probabilmente, nessuno si era accorto di lui.
I vestiti che Adrien indossava ero sporchi e stropicciati, il suo stomaco brontolava. Cercò a tentoni lo zaino accanto a letto, ma ricordò che per il momento non era in suo possesso e grugnì di disappunto mentre realizzava che quella giornata, soprattutto ora che non poteva leggere qualcuno dei resoconti di Marinette, stava cominciando davvero male.
Si alzò, gli occhi puntati contro il cuscino sotto cui Plagg era ancora nascosto, e rimase lì ad aspettare che lui ne venisse fuori per poter uscire insieme.
Jonas aveva detto che sarebbe stato al sicuro, che nessuno in quel posto aveva interesse a fare del male o ad usare il suo Kwami, ma Plagg non si fidava e forse, in fondo, avrebbe fatto bene a non farlo neanche lui.
Quando vide che Plagg non aveva alcuna intenzione di uscire da solo, Adrien gli domandò: «Non vuoi fare colazione?»
Questo parve risvegliarlo, le sue zampette riemersero da sotto il cuscino sollevandone un lembo ed i suoi grandi occhi lo scrutarono indispettiti dal suo angolino sicuro.
«Come ti pare.» gli disse allora Adrien. «Ti porterò io qualcosa, sperando di trovarti ancora qui al mio ritorno.»
Si allontanò, percorrendo lo stretto spazio tra le brande che l’avrebbe condotto all’uscita, e non si preoccupò per guardarsi indietro per incoraggiare ancora Plagg. Solo pochi istanti dopo sentì il Kwami urtargli contro la nuca e tornare a rifugiarsi all’interno del colletto. Sorrise tra sé per questo.

Una volta all’esterno, poté finalmente osservarsi attorno. Era una foresta, abbastanza fitta per coprirli da invasioni aeree, ammesso che lì avessero gli aerei o qualunque altro pericolo volante, e abbastanza in profondità da fargli pensare che le possibilità che li trovassero fossero scarse. Sperava davvero che fosse così, perché sembrava che Emma conoscesse la posizione di quell’unica base e se si fossero spostati avrebbe avuto difficoltà a trovarli.
Tra gli alberi erano state sistemate alcune tavolate grezze a volte sostenute da tronchi, a volte da rocce muschiate. Jonas lo salutò da una di esse e gli fece cenno di raggiungerlo, aveva già due ciotole in mano, più un sacco di juta logoro che gli pendeva da un braccio.
«Allora» gli domandò. «dormito bene?»
Adrien annuì, nel complesso avrebbe potuto dire che era vero; il giorno prima non avrebbe potuto immaginarlo, ma la stanchezza aveva avuto la meglio su di lui nonostante l’adrenalina che aveva in corpo e dopo essere crollato non aveva sentito più nulla.
«Grazie, Jonas, davvero.»
Gli era grato, ma gli era stato rimproverato più volte di essere un ingenuo che tendeva a fidarsi troppo facilmente delle persone, Marinette l’aveva scritto numerose volte, nei suoi diari, indicandolo come uno dei tratti che più amava di lui. Ma Adrien non aveva scelta, Jonas era l’unico appoggio che Adrien aveva e, almeno fino a quando Emma non fosse tornata, avrebbe dovuto farselo bastare e farselo andare bene. Avrebbe solo dovuto stare attento a non farsi cogliere di sorpresa.
Lasciò che Jonas gli indicasse il posto che gli avevano riservato e si accomodò, la zuppa che l’uomo gli posò sotto il naso aveva l’aria di un pranzo, più che di una colazione, ma lui mandò giù il primo boccone, pur ripensando con affettuosa nostalgia ai pasticcini ed ai cornetti della pasticceria Dupain-Cheng, ai quali si era assuefatto (probabilmente per una seconda volta) dopo la scomparsa di Marinette.
Per Plagg, invece, Jonas svuotò il sacco di juta sul tavolo. Alcune forme di formaggio dall’aria non troppo invitante rotolarono sul legno, Jonas impedì ad una di esse di cadere sull’erba e, finalmente, Plagg riemerse per controllare cosa gli avessero portato.
«Non ho idea di cosa sia il camembert» disse Jonas «Ma questi sono i formaggi più puzzolenti che sono riuscito a trovare.»
Adrien vide Plagg avvicinarvisi con fierezza, il petto in fuori e la coda dritta, i modi di fare regali e controllati.
«Sì, può andare.» disse, ma quando si voltò a guardarlo, Adrien capì dallo scintillio dei suoi occhi che era ben più che soddisfatto.
Lasciò che mangiasse il suo formaggio ed affondò il cucchiaio nella zuppa una seconda volta, la fame lo portò a mandarla giù in fretta, più di quelli che erano attorno a lui e poi, quando non riuscì più a recuperare altro dal fondo, portò il piatto alle labbra e bevve ciò che ne restava.
Per un momento si sentì in imbarazzo per ciò che aveva fatto, ma nessuno pareva averci fatto caso e, anzi, c’era chi stava facendo la stessa cosa. Sorrise, la pancia finalmente piena, e prese la ciotola con l’acqua che Jonas gli passò per bere tutto d’un fiato.
Finalmente soddisfatto, realizzò che se avessero voluto avvelenarlo sarebbe probabilmente caduto nella loro trappola, ma si sentiva bene, quindi accantonò quel pensiero.
«Allora» gli disse Jonas. «scommetto che hai un sacco di domande.»
Era vero, i sogni di Adrien erano stato gremiti delle immagini del ragazzo sanguinante, a volte al suo posto aveva visto Marinette e l’aveva sentita gridare ed invocare il suo meno, chiedergli aiuto, supplicarlo di salvarla. Non ci era mai riuscito ed il sogno era svanito, i ricordi gli stavano tornando alla mente solo in quel momento.
«Ieri hai detto che stavano nutrendo la terra. In che senso? Come concime?» domandò, e si chiese quanto quella domanda fosse stupida, ma Jonas non rise e tutti quelli che erano seduti a quel tavolo parvero ricordarsi all’improvviso di dover fare qualcosa. In pochi secondi lui e Jonas rimasero soli.
«È un po’ più complicato di così.» rispose Jonas. «Vedi, il fatto è che questo mondo è stato creato sovvertendo quelle che ho sentito chiamare “leggi della fisica”, ed è per questo che oscilla in continuazione su sé stesso con il rischio di collassare.»
Adrien annuì, spingendolo a continuare.
«Vedi, in qualche modo devono nutrire l’essenza che tiene in piedi questo mondo, la magia non è inesauribile e va sostituita ogni volta che quella che c’è già viene consumata. La Carovana rapisce le persone con poteri magici dagli universi più vicini e li porta qui, li aiuta a sviluppare al massimo il loro potenziale e poi li sacrifica perché gli elementi li assorbano e si rinvigoriscano.»
Ripensando al sorriso del ragazzo morto, Adrien si domandò il perché di quella calma. Perché non aveva provato a ribellarsi? Perché aveva lasciato che lo uccidessero?
Jonas parve leggerglielo negli occhi, perché rispose: «Li prendono fin da bambini, sai? Se riescono ad individuare in tempo dove e da chi nasceranno portano qui le loro madri, li fanno nascere qui, li educano e raccontano loro un mucchio di frottole sul perché di tutto questo. Li convincono che sia l’unico modo per salvare le persone che abitano qui, in modo che si facciano sacrifichino volontariamente.»
«Era questo che volevano fare a Marinette? Sacrificarla?»
Jonas gli premette una mano sul capo. «Ho detto che li prendono fin da piccoli, lei era già grandicella per subire il lavaggio del cervello.»
Adrien sospirò, gli occhi puntati sul tavolo mentre la immaginava spalle al muro, con i soldati che le puntavano le armi contro e la costringevano a seguirli.
Per fortuna, si disse, almeno Tikki era con lei.
Si morse il labbro, scambiò un’occhiata con Plagg ed accennò un sorriso. Il Kwami non aveva mai fatto mistero della nostalgia che anche lui provava nei confronti della ragazza, né nei confronti del suo Kwami, anche se era rimasto discretamente da parte, seppure sempre disponibile per consolarlo ad ogni accenno di necessità. In quei mesi aveva dato la priorità al suo dolore e questo aveva fatto sì che lui lo apprezzasse ancora di più.
Sospirarono entrambi, ancora occhi negli occhi, beandosi di quell’empatia complice che nel corso degli anni si era formata tra loro. Finché fossero rimasti insieme avevano ancora speranza.
I tavoli si svuotarono, alcuni gruppi si allontanarono e sparirono nella boscaglia, alcuni arrivarono con enormi secchi d’acqua.
Adrien rimase seduto con Jonas, sfilò da sotto il naso di Plagg alcune forme di formaggio e le rimise nel sacco di juta.
«Queste è meglio tenerle da parte.» disse.
Jonas annuì. «Ottima scelta.»
Adrien si alzò, pronto a seguirlo, ma lui si fermò e gli fece cenno di voltarsi a guardare dietro di sé. Ferma in mezzo ai tavoli, i capelli biondi raccolti in una crocchia disordinata e lo zaino logoro con i diari di Marinette appeso alla spalla, c’era Emma. Ad Adrien parve più alta di come la ricordava, con i tratti meno infantili. Al suo fianco, appena qualche centimetro al di sopra della sua spalla, c’era Tikki.

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Capitolo 13
*** Emma ***


EMMA

Adrien realizzò che la ragazza era Emma solo dopo alcuni minuti, ed anche quando il suo cervello pareva averlo assimilato c’era ancora parte di lui che insisteva a negarlo ed a pensare che non fosse possibile. Jonas, invece, le sorrise e la avvicinò senza alcuna esitazione, riempiendole una ciotola di zuppa ed invitandola a sedersi con loro.
Emma sembrò ben lieta di fare come lui diceva e prese posto proprio accanto ad Adrien, scansando con una bracciata le stoviglie sporche che chi aveva mangiato lì prima di lei aveva lasciato.
«Sei stata veloce.» osservò Jonas.
Emma annuì. «Ero motivata.» disse.
Adrien arricciò il naso al modo in cui anche la voce della ragazza sembrava diversa, più matura, e lei dovette notarlo, perché gli sorrise e gli porse il vecchio zaino.
«Li ho protetti come meglio potevo, si sono un po’ rovinati ma ci sono tutti.» gli spiegò.
I suoi occhi lo evitavano, le mani le tremavano, l’incertezza era trapelata anche dalle sue parole, poi Adrien la vide lanciare un’occhiata a Tikki come se cercasse il suo appoggio. Il Kwami annuì e sorrise, Adrien si decise ad afferrare lo zaino e lo strinse a sé.
«Ti ringrazio.» sussurrò.
In qualche momento dopo il ritorno di lei aveva perso la voce, perché le parole gli uscirono gracchianti dal fondo della gola secca. Tossì per scacciare la sensazione fastidiosa di esse e tornò a guardare Tikki.
Anche Plagg la guardava, gli occhi umidi, le labbra strette. Fu lei a fare la prima mossa e ad andargli incontro. Lo strinse tra le braccine corte e lo cullò a sé, lasciando che lui nascondesse il volto contro la sua spallina e sorridendo.
«Adrien.» disse lei, senza lasciare andare Plagg. «Sapevamo che sareste arrivati, alla fine.»
Il ragazzo si domandò il perché di tanta fiducia, visto che Marinette non era ancora con lui. Si chiese per l’ennesima volta cosa fosse accaduto da quando gliel’avevano portata via.
Deglutì. «Lei dov’è?»
Spostò le mani attorno ai due Kwami, riparandoli in una specie di nido improvvisato, loro si appoggiarono al suo palmo.
Il sorriso di Tikki si spense.
«Si è liberata degli orecchini, non voleva che li prendessero, non ho idea di cosa le sia successo dopo.» rivelò.
Adrien sentì le lacrime pizzicargli agli angoli negli occhi. Perché sembrava che fosse destinato ad arrivare sempre troppo tardi?
Emma tese il pugno e lo aprì davanti ai sui occhi, rivelando gli orecchini della Coccinella. «Li ho cercati dovunque, non potevo tornare da te senza.»
Adrien la guardò incerto, il fiato ancora gli mancava, il mondo non esisteva più oltre i suoi dubbi e le sue speranza sempre meno solide.
Plagg si mise ritto e li osservò. Tikki scosse il capo, facendo tentennare Emma.
«Dovresti tenerli tu.» disse Tikki. «Una Ladybug ci servirebbe.»
La ragazza scosse il capo ed Adrien gliene fu grato, poiché non pensava che esistesse qualcuno che non fosse Marinette degno di indossarli.
Tese la mano a sua volta, prendendo il Miraculous dal palmo della ragazza. «Ti ringrazio.» le disse. Strinse gli orecchini a sé, ben deciso a non perderli, e si chiese se in essi ci fosse ancora un po’ della fortuna che aveva sempre contraddistinto Ladybug e di cui in quel momento aveva tremendamente bisogno.
Sotto quelle fronde immense cariche di frutti grossi come noci di cocco, la temperatura stava salendo in fretta, il sudore gli gocciolò dalla fronte e lui si sentì come in piena estate.
Emma rimase seduta al suo fianco, mangiando in silenzio, mentre Jonas metteva via le altre scodelle. Adrien attese che finisse, con Plagg e Tikki che si coccolavano premuti contro la sua mano.
«Cosa ti è successo?» domando alla fine, rivolto ad Emma.
Lei scosse le spalle. «Sono finita in una zona di tempo stretto, poi sono dovuta risalire ma ci ho messo troppo tempo perché volevo cercare gli orecchini e quindi ho finito per adattarmi.» spiegò.
Tikki continuò per lei. «Una volta che è riuscita a trovarmi abbiamo smarrito la strada un paio di volte, orientarsi laggiù è difficile, molti di quelli che ci sono andati non sono più tornati.»
Adrien annuì, infilò gli orecchini nella tasca laterale dello zaino e si assicurò che non fosse bucata, poi la richiuse e strinse lo zaino a sé, ben felice di poter percepire ancora il peso familiare dei diari. «Ti ringrazio davvero tanto per quello che hai fatto.» disse ad Emma.
Lei gli sorrise, gli occhi lucidi, e tacque.
Adrien lasciò che bevesse, le versò ancora dell’acqua, ripensò a tutto ciò che aveva scoperto quando era arrivato lì e tentò di riordinare le informazioni nella propria testa. Rifletté su ciò che gli avevano detto dei rapimenti, del modo in cui il mondo funzionava, a come sembrava fosse così facile perdersi e rincorrersi per poi non riuscire a ritrovarsi più pur percorrendo le stesse strade o cercando di raggiungere la stessa meta attraverso percorsi diversi. Scrutò il profilo di Emma, i suoi occhi verdi, i capelli biondi e il naso tappezzato da piccole lentiggini chiare che fino ad allora non aveva notato. Ripensò a ciò che gli aveva detto su sua madre, su come l’avessero trascinata lì solo per avere lei.
«Ti è capitato spesso di finire in una zona di tempo stretto?» domandò.
Emma accennò un sorriso. «Oh, sì!»
Jonas continuò per lei, arruffandole i capelli. «Questa peste continuava a smarrirsi, ma per fortuna è sempre stata brava a sopravvivere. L’ultima volta che l’ho vista, un paio di mesi fa per me, aveva dieci anni.»
Emma si grattò il naso, probabilmente in imbarazzo per il modo in cui Jonas la stava trattando e lui la stava guardando. Adrien deglutì e si leccò le labbra nel tentativo di fermare la domanda che gli stava sostando sulla lingua.
«Com’era tua madre?» chiese alla fine, incapace di impedirselo.
Emma abbassò gli occhi lucidi. «Non l’ho mai conosciuta.» rivelò. «è morta il giorno in cui sono nata per salvare me e... altri.»
Adrien si morse il labbro, avvertendo una fitta al petto a cui non voleva soccombere.
Il rimorso per averle posto quella domanda gli nacque spontaneo, ma ormai non avrebbe potuto rimediare. Quello che poteva fare era prometterle un futuro migliore, ma non voleva dire nulla ad alta voce, poiché non gli pareva giusto farlo. Avvertiva prepotente la necessità di proteggerla, c’era una sorta di familiarità innata che li legava entrambi, forse perché la sua storia era così simile a quella di Marinette, per quel poco che ne sapeva. Il pensiero che l’aveva colto poco prima tornò a farsi sentire, il ricordo vivido di quello che Jonas gli aveva detto meno di un’ora prima sul fatto che Marinette non aveva l’età giusta perché le facessero il lavaggio del cervello. Invece, Marinette aveva l’età giusta per essere una madre, e se fosse stato così, per come le cose andavano in quel mondo, Emma avrebbe potuto benissimo essere sua figlia. Aveva letto decine di volte i nomi che Marinette aveva scelto per i suoi possibili futuri figli, aveva letto anche di quanto fosse felice del fatto che lui li avesse approvati, tanto che si chiese come mai non gli fosse venuto in mente prima.
Emma aveva i capelli biondi, anche se più scuri dei suoi, ed anche gli occhi erano simili, ma allora perché non aveva detto nulla? Perché non l’aveva fatto Tikki ora che era tornata?
Seppellì i suoi dubbi sotto il lungo elenco delle cose più importanti che avrebbe dovuto fare prima di preoccuparsene, ma si ripromise che, sempre e comunque, avrebbe dato alla ragazza tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno.
Si alzò e si pulì i palmi delle mani sudate sui pantaloni logori.
«Allora, qual è il piano?» domandò.
Jonas gli sorrise. «Distruggere la carovana.» rispose.
Adrien fu quasi sul punto di ribattere, di ricordargli che Marinette era la sua priorità assoluta, ma all’improvviso realizzò che se Emma era davvero sua figlia e le sue parole erano veritiere allora Marinette era morta, da sola, lì da qualche parte, per proteggere un figlio che era anche suo e di cui lui neppure conosceva l’esistenza.
Sarei il padre peggiore del mondo, se fosse così, si disse con un sospiro.
Fu tentato di chiedere ancora una volta ad Emma di sua madre, ma Jonas l’aveva già distratta e condotta verso un albero morto poco distante.
Emma sorrideva, Adrien la vide premere le mani sul tronco sottile e chiudere gli occhi. Ciò che Adrien vide allora non se lo sarebbe mai aspettato, perché la pelle della ragazza iniziò a brillare e l’albero rinvigorì, numerosi fiori sbocciarono sui suoi ramoscelli, e poi i boccioli divennero fiori ed infine frutti, fino a divenire grossi e succosi come quelli degli altri alberi lì attorno.
Adrien ricordò cosa avevano fatto al ragazzotto sull’altare di pietra, si ripromise che non avrebbe mai permesso che lo facessero anche ad Emma.

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Capitolo 14
*** Verità ***


Verità

Adrien passò il resto della mattinata aggirandosi nei dintorni del dormitorio femminile, là dove Jonas aveva trovato ad Emma un posto per dormire. Con tutti in giro a svolgere le loro mansioni, rimasero solo lui, Plagg ed i rumori del bosco. Per un po’, Adrien si guardò attorno in cerca di qualcosa di interessante, poiché continuava ancora a domandarsi quali bizzarre creature sconosciute si muovessero tra le fronde ed i cespugli. Riuscì a scorgere qualcosa che si arrampicava sulla parete di roccia della grotta, aveva le dimensioni di un grosso topo ed un’ampia coda piatta che lo faceva somigliare ad uno scoiattolo volante. Con uno sbuffo, il ragazzo realizzò che non l’aveva visto abbastanza chiaramente da poter essere sicuro che non fosse davvero un ratto.

I pensieri tornavano sempre ad Emma, alle decine di domande che non riusciva ad evitare di farsi su come fosse cresciuta, chi avesse incontrato durante la sua vita e quali torti avesse subito senza che nessuno che teneva a lei potesse proteggerla. Cosa era successo nei pochi giorni in cui si erano separati? Per lei il tempo era passato davvero così velocemente oppure lo scorrere del tempo differente aveva avuto effetto solo sul suo corpo?

Passarono ore, le chiome degli alberi nascondevano quasi totalmente il cielo, ma ormai Adrien era quasi certo che non vi avrebbe trovato il sole in ogni caso. Realizzò di apprezzare davvero il silenzio di Plagg solo dopo questo pensiero, allora lo cercò con lo sguardo e lo scoprì intento a fissare la porta del dormitorio, là dove Tikki si era rifugiata insieme ad Emma, e sospirò nel fermarsi a pensare davvero, forse per la prima volta, a quanto probabilmente anche lui avesse sofferto per essere stato separato dalla sua metà.

Quando il sottobosco si permeò di un calore quasi insopportabile, lo stomaco di Adrien iniziò a brontolare; fu l’unica ragione per cui riuscì a capire che probabilmente l’ora di pranzo si avvicinava, ma non aveva alcun orologio o riferimento per confermarlo. Il velo di sudore sulla pelle lo spinse a passarsi un lembo della maglia sul viso, l’impazienza lo faceva fremere.

Avrebbe voluto fare a Tikki decine di domande ma, per la prima volta, iniziava a pensare che Jonas avesse ragione; non era più sicuro di voler conoscere le risposte. Cosa avrebbe fatto se avesse scoperto che Marinette era morta e che erano rimasti solo lui, Plagg, Tikki ed Emma?

Scrollò per l’ennesima volta il capo, scacciando quel pensiero e ripetendosi che avrebbe potuto benissimo non essere sua figlia, che certamente l’avrebbe sentito prima, se lo fosse stata.

Si appoggiò alle rocce accanto all’ingresso del dormitorio, la porta era stata scavata nella pietra ed era incassata alla meglio in modo da riparare l’interno dalla temperatura esterna. Ogni stanza, in quella base, era stata ricavata ai piedi di un’alta montagna che dava sulla foresta. Adrien si chiese se avrebbe potuto sbirciare all’interno, giusto per capire se Emma e Tikki stessero bene, ma ripensò agli orecchini ora al sicuro nella tasca dello zaino e sospirò, rinunciando all’idea.

Alla fine, Plagg si appollaiò nel taschino della sua giacca, proprio sopra al petto, cosa che non faceva ormai da diversi anni, e iniziò a tenerlo d’occhio con un cipiglio per niente camuffato.

«Smettila, sto bene.» sbottò Adrien alla fine incrociando le braccia.

Plagg gli accennò un sorriso ed abbandonò il taschino, facendo un giro attorno alla sua testa e poi piazzandosi a mezz’aria ad un soffio dal suo naso.

«Non so cosa stia passando in quel tuo cervelletto da umano» gli disse. «ma di certo non stai bene.»

La sincerità di quelle parole, però, non fece che abbattere Adrien ancora di più.

«Starò bene quando saprò che cosa è successo a Marinette.» dichiarò.

Plagg annuì, ma non sembrò affatto soddisfatto dalla risposta. «A meno che non scoprirai che è morta.» disse.

Adrien si lasciò scivolare contro le rocce e sedette sul muschio umido. «Almeno troverò pace.» Incrociò le braccia e posò la fronte contro le ginocchia, nascondendo il volto.

Non voleva che Plagg lo vedesse mordersi il labbro per trattenere le lacrime, anche se di sicuro aveva capito che stava mentendo. Se Marinette fosse morta, Adrien era certo che non ci sarebbe stata più nessuna ragione per vivere, per lui.

«Lei è fortunata.» sentì dire a Plagg. Adrien sollevò il capo, confuso, allora il Kwami continuò. «è la coccinella fortunata, ci sono buone probabilità che sia viva.»

Adrien gli sorrise, sperava davvero che fosse così.

Plagg si allontanò, Adrien non fece in tempo a domandargli cosa avesse in mente che lo vide sparire all’interno del dormitorio. Pochi istanti dopo ne uscì trascinando Tikki per una delle zampette.

«Ci serve un piano per trovare Marinette, ci serve la tua fortuna.» disse il Kwami.

L’espressione contrariata di Tikki si sciolse all’istante, un velo di tristezza le coprì lo sguardo, ma sorrideva. Poi guardò Adrien.

«Cosa vuoi sapere?» gli domandò.

Adrien sentì la voce mancargli, ma mise a tacere le proprie preoccupazioni, ignorando il battito tuonante del proprio cuore e la sensazione di formicolio che gli stava percorrendo tutto il corpo a causa dell’emozione e dell’ansia.

«Cosa è successo quando vi hanno portate via?» chiese.

Troppe volte aveva provato ad immaginarlo, sognando Marinette che veniva uccisa, incatenata o rinchiusa in piccole celle. Quelle visioni gli facevano mancare il fiato.

«Non ricordo molto.» ammise Tikki. Si poggiò sul suo ginocchio e si mise a sedere a capo chino, pensierosa. «Ci hanno fatto qualcosa mentre eravamo nel varco e noi ci siamo addormentate... Ladybug si è addormentata... e noi siamo rimaste così, bloccate nella trasformazione per mesi fino a quando ci hanno svegliate e costrette a fuggire.»

Si interruppe, forse pensando a come raccontare quello che era successo. O forse, pensò Adrien dubbioso, a come non farlo.

«Continua, non tralasciare nulla.» raccomandò.

Tikki sospirò e si sporse verso di lui.

«Adrien.» disse. «Voglio che tu sappia che non avresti potuto impedirlo, la donna ragno quel giorno sapeva esattamente cosa fare o dire a Marinette per avere la sua resa totale e incondizionata.»

Questo Adrien l’aveva già capito da tempo, grazie ai racconti dettagliati di Rena Rouge. Se lo era fatto ripetere talmente tante volte che aveva vissuto quel momento nella sua testa fino alla nausea ed ora non riusciva a capire se era solo immaginazione o i ricordi gli stessero tornando.

«Come ho detto a Plagg, starò bene quando saprò.» disse. «Cosa le ha detto? Perché Ladybug si è arresa?»

Tikki gli volò incontro e gli sfiorò la guancia con una zampetta, ma quel gesto non gli diede alcun conforto, anzi gli parve utile solo a fermare per un istante il suo cuore nel petto. Il dolore ai polmoni gli rendeva difficile respirare, ma lui si costrinse ad inspirare forte, perché l’incertezza di Tikki gli dava la certezza che questa fosse una delle risposte che non voleva sentire.

Tikki annuì, comprensiva.

«Voglio solo che tu capisca che non è e non sarà mai colpa tua.» disse.

Adrien scosse il capo. «Lascia che sia io a giudicarlo.»

Tikki premette le zampette contro le sue guance e gli afferrò il volto perché continuasse a guardarla, ma Adrien non voleva guardare da nessuna altra parte.

«La carovana non ha mai voluto te, i Miraculous, Carapace, Rena Rouge o Queen Bee.» spiegò il Kwami. Adrien questo l’aveva già capito da tempo, ma lasciò che continuasse. «La carovana non voleva neanche Ladybug.»

Adrien strinse i pugni, ecco la risposta che non voleva sentire, quella che rimbombava prepotente nella sua testa nonostante Tikki non lo avesse ancora detto ad alta voce, perché da quello che aveva capito c’erano solo due motivi per cui la gente veniva trascinata in quell’universo.

«La carovana voleva il vostro bambino.»

Adrien sentì la testa che girava, la nausea lo colse impreparato. Perse l’equilibrio e dovette sorreggersi alla parete di roccia per non cadere, Tikki distolse lo sguardo e lanciò un’occhiata verso il dormitorio. Il pensiero di Emma da sola in quel mondo divenne tutto d’un tratto soffocante, il desiderio di proteggerla ancora più impellente.

Dischiuse le labbra per avere conferma di ciò che aveva iniziato a pensare nelle ultime ore, ma Tikki si era già distratta a pensare a Plagg.

«È lei?» domandò comunque.

Tikki lo guardò confusa.

«Emma.» chiarì Adrien.

Tikki sgranò gli occhi. «Lei? Oh!»

Non gli sorrise, la sua espressione si fece anzi mesta e colpevole. Non quella in cui Adrien avrebbe sperato dopo averle posto una domanda simile, vista la risposta che pensava avrebbe avuto. Alla fine, Tikki scosse il capo. «No, Marinette ha avuto un maschio.»



Marinette si sentiva leggera, quasi fluttuante, era al caldo e l’aria profumava di fiori. La sensibilità alle dita tornò poco a poco, così come la consapevolezza che c’era qualcuno attorno a lei che parlava e dava ordini. Fu il pianto di un neonato, però, a farle sentire il bisogno di tornare alla realtà. Spalancò gli occhi, scoprendo un complesso intreccio di fiori e rampicanti appesi sopra la sua testa e strinse le dita sulle lenzuola per riflesso.

Voleva chiedere dove si trovasse, voltarsi a cercare con lo sguardo le persone che sapeva essere lì con lei, assicurarsi che il bambino che stava piangendo stesse bene. Si rese conto di conoscere quel pianto, di essere responsabile di quella piccola vita anche se non le apparteneva direttamente.

«Emma...» sussurrò. Ogni lettera le graffiava la gola con forza. «Dov’è Emma?»

Prese lo slancio per alzarsi, ma diverse mani la tennero giù e Tikki entrò nel suo campo visivo con le braccine tese, come se fosse pronta a trattenerla con quelle persone sconosciute.

«Non muoverti, Emma sta bene, ora sei tu che hai bisogno di aiuto.»

Una mano le si posò sulla guancia, era piacevolmente calda ed estremamente gentile mentre la aiutava a voltarsi. La donna di cui Marinette incrociò lo sguardo sorrideva mesta.

«Ci prenderemo cura di Emma per te, lo prometto.» disse.

Una fitta di dolore trafisse Marinette, spingendola ad urlare.

«Calma. Stai calma.» disse la donna. «Il bambino sta per nascere.»

Sollevando il capo per cercare ancora una volta di guardarsi attorno, Marinette non poté evitare di guardare dritto davanti a sé, dove la sua pancia gonfia nascondeva il ragazzino che, nell’angolo opposto della stanza, cercava di cullare Emma come meglio poteva.

Quando arrivò la fitta successiva, Marinette sentì le prime lacrime scorrerle sulle guance. Qualcuno le afferrò una mano e lei la strinse involontariamente, desiderando con tutto il cuore che fosse quella di Adrien.

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Capitolo 15
*** Un peso sulla coscienza ***


Un peso sulla coscienza

La porta del dormitorio si aprì e Tikki tacque. Emma non li vide subito, impegnata com’era a stropicciarsi gli occhi assonnati, ma quando lo fece sbatté le palpebre e si fece indietro per rifugiarsi nella penombra.

«Tutto bene?» domandò.

Adrien non trovò la voce per risponderle, ma Tikki le volò incontro e le posò un bacio sulla guancia. «Non preoccuparti, è un discorso da grandi.»

«Guardami.» ribatté Emma. «Sono grande, adesso. Faccio cose da grandi, penso cose da grandi, probabilmente mi uccideranno come ucciderebbero i grandi.»

Il suo sguardo si incupì, Adrien la vide puntare gli occhi verso il pavimento, gli parve di vederli umidi.

«Nessuno ti ucciderà.» le disse facendo un passo verso di lei. «Te lo prometto.»

Lei rimase in silenzio, ancora a capo chino, ma accennò un sorriso.

«Certo, forse hai ragione.» disse, ma fu un sussurro incerto e quasi rassegnato.

«E forse hai ragione anche tu.» aggiunse Tikki. «è arrivato il momento di trattarti da grande.»

Emma li guardò, ma poi tornò subito a rabbuiarsi e si sedette accanto ad Adrien.

Lui e fece spazio, ma non si scostò di troppo, preoccupato dall’idea che lei potesse pensare che non la volesse lì. Quando il braccio di Emma sfiorò il suo non si scostò, invece fu lei a farlo, stringendo le braccia a sé come se questo potesse aiutarla.

«Mi dispiace che tu sia finito qui, pensavamo che avresti potuto aiutarci.» ammise sottovoce, incapace di guardarlo in volto.

Adrien inclinò il capo, di nuovo privo di ogni certezza. Emma era esitante, lo vedeva dai suoi gesti, dal modo in cui ancora evitava il suo sguardo.

Anche Tikki pareva confusa, ma quando le volò ancora davanti la ragazza non si scostò.

«Di che cosa stai parlando?» le domandò.

Plagg rimase ancora in silenzio; evidentemente non aveva nulla da dire né da domandare, ed era stato tanto tranquillo che negli ultimi minuti Adrien si era quasi dimenticato della sua presenza.

«Devo fare una confessione.» continuò Emma, ora le lacrime le si erano adagiate nell’angolo dell’occhio, pronte a scivolare via, ma Adrien riusciva a vederle scintillare anche attraverso la frangia scompigliata.

Tikki si posò sul suo ginocchio e la guardò con il musetto in su. «Riguarda quello che è successo a lui?» domandò. E ad Adrien non sfuggì l’occhiata che lei mandò nella sua direzione.

«Anche.» rispose Emma. E non gli diede il tempo di chiedere altro, perché iniziò a spiegare.

«Abbiamo scoperto che esisteva una magia del sangue capace di chiamare un consanguineo da un altro mondo, allora l’abbiamo eseguita. Io sapevo che quello che poteva aiutarci eri tu, ma abbiamo messo comunque il sangue entrambi. Pensavamo che non avesse funzionato, quindi ce ne siamo andati, ma le guardie ci hanno raggiunti ed hanno preso Hugo.»

Quello, pensò Adrien, era un altro nome che grazie ai diari di Marinette gli era molto familiare; un altro masso che si appese al suo cuore e provò a trascinarlo a fondo con forza, facendogli male.

«Credo che se non avessi voluto a tutti i costi mettere anche il mio sangue forse l’incantesimo avrebbe funzionato prima, tu saresti arrivato e magari avresti potuto salvarlo.» confessò Emma.

Adrien si morse il labbro e strinse i pugni.

Tikki scosse il capo. «Non è colpa tua, non pensarlo mai.»

Ma Adrien sapeva bene che nessuna parola gentile avrebbe potuto convincerla che non fosse così, poiché era lo stesso senso di colpa che stava provando anche lui.

Questa volta, però, non osò chiedere conferma sull’identità di Hugo, aspettò che fossero loro stesse a concludere il racconto, a dargli gli ultimi pezzi da mettere insieme per completare quell’assurdo puzzle.

«È Hugo, tuo figlio.» spiegò Tikki. «Marinette ha cercato di tenerlo al sicuro per tutto il tempo che ha potuto, nell’attesa che tu arrivassi a salvarli, quando è stata messa alle strette ha affidato lui ed Emma alla resistenza ed ha fatto da esca, ma prima ha gettato me e gli orecchini della Coccinella dove non avrebbero potuto trovarci.»

Ora un altro pensiero terribile si stava facendo largo nella mente di Adrien; finché aveva pensato che Emma fosse sua figlia si era immerso in una sorta di tranquillità forzata, nel sapere che lei era vicino a lui e che avrebbe potuto fare di tutto per proteggerla. Hugo, invece, non aveva idea di dove fosse, ed anche se avesse trovato qualche indizio non era assolutamente certo che sarebbe riuscito a raggiungerlo in tempo, se lui avesse avuto bisogno di aiuto.

Sospirò, cercando di concentrarsi su un punto alla volta, ma quello di cui ora era sicuro era che aveva due persone da trovare invece che una.

«Che cosa potrebbe essergli accaduto?» chiese.

Emma scrollò le spalle. «Non lo so, ma non credo che gli faranno del male fino a quando non avrà sviluppato a pieno i suoi poteri.»

«Pensi che ci impiegherà molto?» le domandò Adrien.

Emma si alzò. «Non lo so, forse. È sempre stato molto dotato.» aggiunse. Poi si allontanò in silenzio.

Adrien Chino il capo, guardò la punta dei propri piedi e rifletti sulle parole della ragazzina. La lasciò andare, anche se avrebbe voluto fermarla e domandarle se avesse idea di dove l'avessero portato e di come fare a raggiungerlo. Forse, probabilmente, avrebbe avuto più possibilità di avere risposte se avesse parlato con un adulto come Jonas, che però era sparito, forse per lasciar loro del tempo.

Ripensò al fatto che non sapeva nulla sul mondo in cui si trovava, ricordava di aver visto una serie di mappe appese alla parete di del dormitorio maschile, così vi entrò e andò a cercarle. Si fermò alcuni istanti ad osservarle, indeciso sul da farsi. Se le avesse staccate per portarle in un angolino tranquillo e studiarle forse qualcuno non ne sarebbe stato felice, Ma come avrebbe potuto biasimarlo se avesse provato a cercare Hugo anche da solo? Forse era tardi per Marinette, ma non per lui, anche se non poteva sapere in quale tipo di zona lui fosse finito in quell’ultimo periodo e quanto tempo fosse passato per lui.

Alla fine decise di sedersi sulla branda più vicina alle mappe, realizzò che era quella di Jonas che, forse, avrebbe lasciato correre. La mappa era un insieme di vortici colorati. Pensò che fosse folle, anche perché erano disegni tanto grandi da impedire la comprensione del territorio che c'era disegnato sotto.

«Cos'è questa strana cosa?» gli domandò Plagg, di nuovo al suo fianco.

Scrollò le spalle, conscio che da solo non avrebbe potuto interpretare ciò che aveva davanti, allora rimase seduto sulla branda in attesa che arrivasse qualcuno a cui poter chiedere aiuto, anche se si sentiva fremere al punto da non riuscire a smettere di muovere la gamba. Il piede batté per terra ritmicamente per molto tempo; iniziò a sentire i morsi della fame e poi li dimenticò anche, durante le interminabili ore in cui dovette aspettare che Jonas arrivasse.

Quando l’uomo fu accanto a lui, Adrien aveva ancora i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il volto proteso in avanti, gli occhi fissi verso la mappa.

«Tutto bene?» gli domandò Jonas.

Solo allora Adrien si rialzò dalla branda, la gamba sinistra che formicolava e la sensazione di aver bisogno di fare una lunga corsa per stemperare la tensione.

«Ho bisogno di trovare mio figlio.» disse. Puntò la mano verso la mappa e domandò: «Mi spieghi come funziona questa cosa?»

Jonas fece schioccare la lingua, gli si avvicinò e sollevò una mano verso la piantina.

«Ognuno di questi vortici indica un uno scorrere del tempo differente. Quelli rossi e azzurri sono i punti da cui generalmente non si fa il ritorno, dove il tempo scorre talmente tanto velocemente che non si fa neanche in tempo ad entrare che praticamente si è già morti. Questi azzurri sono dove il tempo scorre lento, tanto che probabilmente non esci più perché ci resti bloccato dentro, quasi congelato.» spiegò Jonas.

Jonas continuò a spiegare. «Quelli verdi e viola sono un po' nel mezzo, ma poi in realtà dipende tutto anche da dove sei partito. Se parti da un posto col vortice rosso e finisci in uno col vortice blu la differenza è ovviamente maggiore di quanto non sia se parti da un vortice verde e arrivi nel vortice blu. È tutto un po' contorto, effettivamente.»

Adrien aveva le sopracciglia corrucciate al punto che quasi gli facevano male, i denti serrati a causa dello sforzo di comprendere ogni parola. Ma era difficile, se Jonas riassumeva il tutto come avrebbe fatto con qualcuno che sapeva già di cosa stava parlando.

Vide l’uomo sospirare, riconobbe sul suo volto la rassegnazione, quando capì che avrebbe dovuto semplificare la cosa.

«Immagina di partire qui da qui, dove siamo noi» disse indicando una zona caratterizzata da un vortice verde «e di avere a disposizione lo stesso spazio di movimento, come se le zone fossero esattamente delle stesse dimensioni. Nell'arco dei nostri due giorni nei territori a destra e a sinistra di dove siamo trascorrerà solo mezza giornata mentre sopra e sotto di noi» disse indicando gli altri due «trascorreranno tre giorni. Quindi se tu ti muovessi partendo dalla zona in cui il tempo scorre più lentamente, quella con vortice blu, e poi attraverso quella con il vortice viola, viaggiando per tre giorni e mezzo, per noi passerebbero due giorni durante la mezza giornata che trascorreresti tu all’interno del primo territorio ed altri due mentre tu saresti nel secondo. Per noi saranno passati quattro giorni.»

«Lo so,» disse Jonas «questi vortici specifici non sono un ottimo esempio data la minima differenza temporale, ma se prendessimo come esempio invece quest’altra zona temporale» continuò indicando un punto segnato da un vortice rosso «il discorso potrebbe risultare più chiaro. Qui passano dodici giorni ogni due trascorsi per noi, quindi se tu invece di tornare direttamente dalla zona temporale che abbiamo preso in esame prima passassi da quest'altra ci impiegheresti dodici giorni rispetto ai sei di noi che ti aspettiamo. Sarebbero mezza giornata più tre giorni più dodici, quando per noi sono due in relazione alla mezza giornata della prima zona in cui ti trovi, due in relazione ai tre che trascorrono nella seconda zona in cui passi, altri due mentre tu sei nell’ultima.» Adrien sbuffò, ripensò al bosco in cui era stato con Emma, alla foglia sospesa in aria dove il tempo scorreva in modo diverso. Immaginò di restare ad osservare da oltre il confine una persona che era in un’altra zona e di vedere tutta la sua vita consumarsi nell’arco di pochi secondi, si chiese se a qualcuno fosse mai successo.

Se avesse avuto le informazioni adatte avrebbe potuto usarle per cercare di raggiungere il sé stesso del passato nel momento in cui era arrivato lì, forse sarebbe riuscito anche a trovare Hugo e salvarlo prima che lo portino via.

Jonas gli lanciò un'occhiata di traverso, lo scontento era palese sul suo volto, quando gli disse: «Non pensarci nemmeno.»

«Se torni indietro e avvisi il te stesso del passato, non ci sarà più un te stesso del futuro che avvisi il te stesso del passato. Sono sicuro che tu sappia le nozioni di base di ciò che accade cambiando il corso del tempo. È sempre sconsigliabile pasticciare con queste cose. Chi c'ha provato ha creato grossi danni, incrementando ancora di più il già fragile equilibrio di questo mondo. Perché credi che devono uccidere sempre più persone e che gli serva sempre più magia? Abbiamo imparato, con il tempo, che incrociare un'altra versione di te è male. Dicono che porti sfortuna, qualcuno anche che se le due versioni della stessa persona si toccano esplodono entrambe creando un cratere largo anche diversi chilometri, non so se sia vero ma credo che sia meglio non rischiare.»

Adrien strinse i pugni. «Non puoi chiedermi di far finta di niente e di lasciare che facciano del male a mio figlio quando potrei raggiungerlo e salvarlo.»

Jonas sollevò il capo.

«Quando sei nel tuo mondo» disse Jonas «puoi tornare indietro e rimediare agli errori? Ne dubito fortemente. Puoi solo guardare il futuro e cercare di migliorarlo. Dai retta a me, ho un piano migliore.»

Adrien sollevò un sopracciglio, la curiosità ebbe la meglio su di lui. Se anche non avesse funzionato forse prima o poi avrebbe trovato la combinazione giusta di vortici per poter raggiungere Hugo e forse anche Marinette, nessuno avrebbe potuto impedirgli di farlo. Se non ci fosse riuscito da solo, poi, avrebbe costretto qualcuno ad aiutarlo, aveva il dubbio che Emma avrebbe saputo dove e quando cercarli.






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