La rivincita di Jumanji

di apeirmon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lettura delle regole ***
Capitolo 2: *** Primo turno ***
Capitolo 3: *** Secondo turno ***
Capitolo 4: *** Terzo turno ***
Capitolo 5: *** Quarto turno ***
Capitolo 6: *** Vittoria ***



Capitolo 1
*** Lettura delle regole ***


Nota dell’autore: “jumanji”, secondo l’autore del romanzo Chris Van Allsburg, significa “molti effetti” in Zulu, ma non ho trovato questa traduzione. In compenso, è la pronuncia giapponese di un significato più adatto.

 

- 26 Dicembre 1994 -

Nadine pose la scatola sul letto del fratello quattordicenne e lo colpì sulla spalla per svegliarlo.

“Lève-toi, Philippe! J’ai remédié un cadeau pour toi. Je l’ai trouvé dans la plage.”

Il ragazzo castano fece leva con le braccia per guardare lo strano oggetto.

“C’est un jeu de société. Laisse-moi dormir!” replicò lui accasciandosi.

Nadine aprì la scatola e prese una delle statuine dal contenitore in legno in un angolo: un elefante grigio. La bambina raccolse un dado dallo stesso contenitore, ma il secondo le scivolò e lei poggiò la pedina sul tabellone per prenderlo con entrambe le mani.

L’elefante in miniatura scattò su uno dei posti di partenza agli angoli del tabellone, inducendo Philippe ad alzarsi di nuovo.

Nadine esitò un istante, poi disse: “Il suffit de lancer les dés. Je t’en suppli!”

“Oh! Ça va.”

Il ragazzo prese i dadi in mano e li lanciò sul tabellone. Un quattro e un uno.

Poi si stropicciò gli occhi, mentre la sorellina vedeva formarsi una frase verde al centro del tabellone: «Dans la jungle tu dois attendre jusqu'à ce que une catastrophe vous allez craindre»

Philippe spostò lo sguardo corrucciato dalla sorella alle parole appena composte. Infine alle sue mani. E gridò.

Nadine arretrò di scatto vedendo che le braccia di suo fratello evaporavano e che quella sostanza simile a fango liquido vorticava sopra il tabellone, avvicinandosi sempre di più alle parole verdi che ormai sfumavano quanto il ragazzo. Cercò di afferrare la spirale aeriforme, ma non riuscì a impedire che il suo regalo di Natale venisse ricevuto.

 

- Sedici anni dopo -

Ritornerò a leggere la stessa riga per la quarta volta senza capire cosa c'è scritto. No, non sarò dislessico: avrò scritto cinque libri in quel momento. Sarà solo che le mie emozioni non si saranno mai abbinate bene alla mia logica. Sarà come se mi mancasse un tassello da tutta la vita, qualcosa che vorrò recuperare, ma non saprò di cosa si tratterà.

Guarderò il tabellone dell’aeroporto: l’orario d’arrivo, le 5:15, sarà passato da cinque minuti. Chiuderò il libro e comincerò ad andare avanti e indietro per la sala d’attesa, finché non sentirò un ruggito dal cielo. A quel punto l’attesa sarà finita.

Aspetterò che l’atterraggio sia compiuto, poi resterò immobile davanti alla vetrata per veder scendere i passeggeri di ritorno a Brantford. E finalmente la vedrò.

I capelli biondi saranno liberi sotto il cappello bianco da sole mentre scenderà la scala con la valigia di lusso in mano. Il suo vestito turchese emanerà la sua dolcezza coprendo a tratti i suoi tacchi fucsia a ogni passo.

Mia sorella è la nona meraviglia del mondo moderno. Ovviamente l’ottava è la zoologia.

La guarderò arrivare all’edificio dell’aeroporto con la sua camminata decisa e rilassata al tempo stesso. Infine, me la vedrò arrivare davanti tra una vasta folla su cui spiccherà intensamente.

Mi vedrà. Verrà davanti a me per salutarmi. E butterà da una parte la valigia.

“Pete.” sussurrerà al mio orecchio mentre le sue braccia premono sul retro della mia camicia beige.

“Non sai quanto mi sei mancata, sorellina.” confesserò premendole la guancia sulla sua. “Bentornata.”

“Sono fortunata a tornare a casa e ritrovare un fratello che me la ricordi com’è sempre stata, nonostante tutti i cambiamenti.” mi dirà, prima di ritrarsi e guardarmi negli occhi, commossa.

“Nella tua vita potranno anche entrare e uscire centomila persone, ma ti prometto che io rimarrò sempre. La tua stanza ti aspetta.”

Dopo aver raccolto l’appariscente valigia, accompagnerò Judy alla mia Honda CR-Z biposto e, richiuso il bagagliaio, mi metterò alla guida.

“Allora, com’è andata l’asta di stamattina?” le chiederò.

“Abbiamo venduto quasi tutto. Un oggetto l’ho comprato anch’io per portartelo. Non è un Monet, ma spero ti piaccia.” mi risponderà con gli occhi contratti per la preoccupazione. Finta.

“Una volta a me dicevi sempre la verità anche in questi momenti. Possibile che tre anni a Parigi mi abbiano declassato a un estraneo?” scherzerò.

“Che non si possa nemmeno fare buona impressione con il proprio geniale fratellino! Ma l’avrebbero buttato comunque, tanto valeva portarlo con me. L’ho valutato io e non avevo mai visto un oggetto così ben conservato. Ti assicuro che l’impressione che ho avuto è indescrivibile!”

 

Mangerò una fetta di pandoro (integrale) accanto al fuoco, mentre Judy sfoglierà il mio ultimo libro seduta accanto a me sul divano in iuta indiana e cuscini di ramiè.

“Oh, Pete! È straordinario! In ogni tuo libro non ti limiti solo a descrivere le peculiarità e il comportamento delle specie che studi, ma anche le tecniche adottate da ogni esemplare in situazioni nuove indotte...”

“L’hai già letto, vero?” la interromperò prima di staccare un altro morso.

“Sì, ma pensavo che ti avrebbe fatto piacere sapere cosa ho pensato quando li ho letti.”

La osserverò con le labbra assottigliate.

“D’accordo, lo so che non ti piacciono queste recite, ma potresti stare al gioco per una volta?”

Le prenderò la mano.

“Judy… Non puoi abituarti alla finzione continua ogni volta che succede qualcosa. Lo so che ne hai passate molte, ma ora sono qui con te.”

La sua testa delicata si scuoterà rapidamente e impercettibilmente prima che le palpebre si chiudano e si posino sul mio petto.

“Finirò per restare una stima...trice d’arte se...senza amore!”

Le accarezzerò i capelli dorati poggiando con leggerezza attenta il mento sul suo capo.

“Almeno tu provi. Io non avrò mai il coraggio di sposarmi, e anche se fosse non riuscirei mai a portare avanti un divorzio come il tuo.”

Lei alzerà la testa con una smorfia che vuole sembrare un sorriso.

“Cosa? Tu ti stai prendendo la responsabilità di seguire mamma. Non puoi far passare la tua maturità per vigliaccheria. Adesso sono io che non ci casco.”

Sarà lei a mentirsi di nuovo: ciascuno di noi due vorrà ammirare l’altro perché sarà la persona più cara con cui confidarsi, trovare soluzioni e fare progetti.

“Nicéphore ti è servito per capire cosa evitare in un uomo. Osserva l’anaconda e saprai come sfuggirle.”

“Se non ti ha avvelenato prima. Io non l’ho studiato da lontano.”

Le sorriderò esitante: “Gli anaconda non secernono veleno.”

Si rimetterà a sedere dritta.

“Hai detto che i Parrish passano domani a trovarci. A che ora arrivano?”

“Hanno detto verso pranzo. Di solito intendono le 11. Bene, allora posso avere il prezioso souvenir della raffinata arte francese?”

Si asciugherà una riga nel fard vicino al naso: “Certo.”

Aprirà la sua valigia sul tavolo e ne estrarrà un involucro giallo. Mi sembrerà un parallelepipedo a base quadrata. Escluderò subito che si tratti di un libro.

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Capitolo 2
*** Primo turno ***


«Jumanji/ Un gioco che sa trasportar/ chi questo mondo vuol lasciar.»

Peter alzerà lo sguardo dal tabellone posato sulla scrivania in sheesham.

“Lo so che sembra una proposta di suicidio, ma devi ammettere che è intrigante. Le istruzioni in inglese fanno pensare che sia stato importato dalla Gran Bretagna. Potrebbe anche essere stato prodotto qui negli Stati Uniti.”

Alzerà l’altro sportello, in cui sono scritti degli avvertimenti.

«Avventurosi attenzione/ Non cominciate se non intendete finire/ Ogni sconvolgente conseguenza del gioco scomparirà/ solo quando un giocatore, raggiunto Jumanji, gridato forte il nome avrà.»

Mio fratello reagirà come avevo previsto: richiuderà le due ante del coperchio, tornerà a mangiare la fetta di pandoro lasciata sul piatto davanti al divano e si siederà sopra quest’ultimo.

“Andiamo! In Europa molte famiglie fanno giochi di società a Natale.” proverò a convincerlo.

“Non mi piace, Judy. Grazie del regalo, ma non voglio giocarci.”

Saprò benissimo quale sarà la sua sensazione, ma non vorrò che un grande biologo come lui si faccia condizionare da delle avvertenze per spaventare i bambini. Per questo mentirò sulle mie stesse preoccupazioni, sarà più forte di me: se non interpreterò la mia parte fino in fondo, le sofferenze che avrò vissuto si presenteranno tutte insieme, e io non avrò più un mezzo per sfuggire loro; dovrò affrontarle.

“Non crederai veramente che possa succedere qualcosa? È un gioco da tavolo! E comunque, non sei tu che adori il rischio e una vita piena, senza incompletezze o conti in sospeso?”

Abbasserà lo sguardo, nel solito mutismo che significherà: ‘Ho tratto le mie conclusioni, la ricerca è conclusa!’. Ma saremo entrambi testardi.

“Come vuoi… Allora ti proverò che non succede proprio nulla.” dirò, prendendo una pedina a forma di coccodrillo nero dalla piccola teca di legno accanto alle istruzioni.

Lui si alzerà, facendo cadere a terra il pandoro che starà mangiando: “Judy, per favore, smettila!”

“Voglio che ti accorga dell’irrazionalità del tuo allarmismo. Vedrai che...”

Non farò a tempo a finire che l’agilità allenata da mio fratello durante le spedizioni gli permetterà di strattonarmi il braccio. La pedina mi cadrà sul tabellone, per poi riposizionarsi su una delle quattro caselle di partenza agli angoli.

Io e Peter ci guarderemo.

“Hai visto? Questo gioco ha qualcosa di strano… Ora è mio e non ti permetto di…”

“Che vuoi fare? Denunciarmi per appropriazione indebita? Ho già fatto analizzare il gioco non appena il cliente l’ha messo in vendita. Pedine, interno e dadi emanano un campo magnetico intenso e la pedina già presente è bloccata finché non viene modificato. Si tratta di tecnologia avanzata, ma non abbiamo voluto aprirlo, come richiesto dal cliente.”

“Se se ne voleva liberare ci sarà un motivo!” tenterà ancora di fermarmi mentre prenderò i dadi.

“Sì, in Europa si chiamano ‘euro’. Pensi che se fosse pericoloso lo avrebbe venduto a un’asta?”

Guarderò la mia mano sopra il labirinto di caselle avorio. Avrò intenzione di rovesciare i dadi, ma i miei muscoli si rifiuteranno di muoversi. Alla fine, riuscirò a farli scivolare sul tabellone.

Non appena vedrò un tre ed un uno sotto il gesto improvviso della mano di Peter, la mia pedina avanzerà di quattro caselle e noterò del fumo verde comporsi in una scritta nel quadrante nero al centro dello spazio per giocare.

«In seguito a forti contaminazioni, sono previste allucinazioni»

Avvertirò un senso di disagio che mi imporrà di scandagliare tutta la stanza con lo sguardo, dai mobili, al pavimento, al soffitto. Vedrò Peter preoccupato, ma con lo sguardo fisso su di me.

“Come vedi, possiamo giocare tranquillamente.” cercherò di rassicurare entrambi.

“Ha parlato di contaminazioni. Chi ti dice che non abbia rilasciato un virus letale?”

“Ora sconfini nel ridicolo! Fammi felice e dimostrami di avere ancora un ottimo cervello tirando i dadi solo una volta. Ti prego!”

Dopo qualche secondo, infilerà lentamente una mano nella teca che avrà contenuto dadi e pedine per prendere una di queste, somigliante a una scimmia verde. La posizionerà su una delle due caselle di partenza libere, ed essa rimarrà immobile.

“Come facevi a sapere qual’era quella giusta?” gli chiederò istintivamente.

Mi sorriderà di sbieco: “Ora chi è che ha pensieri assurdi? Avevo la metà delle possibilità.”

La sua risposta sarà perfettamente logica e semplice, ma per qualche motivo non mi convincerà.

Presi i dadi, li farà traballare sul palmo della mano, fino a farli rotolare in un due e un cinque.

«Finalmente hai compiuto il salto: imitandoti lo esalto»

La perplessità e l’ansia mi assaliranno di nuovo.

“A cosa servono queste frasi insensate? Capirei se fossero degli afo...”

Un fracasso acuto rimbomberà per tutta la casa. Peter indietreggerà velocemente contro la libreria affianco al camino. Subito dopo, il rumore verrà ripetuto più volte contemporaneamente e io mi volterò verso il corridoio.

Rane. Decine e decine di minuscole rane rossicce a strisce bianche balzeranno all’ingresso del salotto nella nostra direzione, gracidando in modo sorprendentemente forte.

“JUDY! VIENI SUBITO QUI!”

Gli obbedirò immediatamente, chiedendogli solo: “Cosa sono?”

Epipedobates tricolor, dette comunemente ‘rane dal veleno fantasma’. Superano di poco i 2 cm, ma possono paralizzarti completamente con il loro veleno non appena ti toccano.”

“Con ‘completamente’ intendi…?” verificherò, già preda del veleno prima di toccarlo.

“Sì: compreso il cuore. Presto, prendi un tronco! Hanno bisogno di molta umidità per vivere!”

Solo allora mi volterò per accorgermi che Peter avrà estratto due legni infuocati dal camino e me ne avrà porto uno. Lo afferrerò con mano tremante, per poi puntarlo verso gli anfibi, che non si avvicineranno alla parete del camino a più di due metri e mezzo.

“Le ha evocate quel coso! Vivono solo in Ecuador e non ce ne sono molti esemplari.”

“Non possono essere state importate?” azzarderò senza crederci.

“Così tante? Ne dubito. Io cerco di mandarle verso la finestra. Tu aprila.”

Intravederò il largo bovindo tra la libreria e il corridoio mentre continuerò a tenere d’occhio le rane. Inorridirò a pensare di allontanarmi dal camino, ma mi sposterò lateralmente, lasciando la torcia meticolosamente a 20 cm dal pavimento in amazzonite.

Mio fratello, intanto, si sarà spostato vicino al pianoforte, dall’altro lato della stanza, cominciando a far arretrare le rane spintesi lì verso il centro. Noterò che la sua fiamma sarà poco più in alto di come la terrò io, quindi mi correggerò.

Con la mano sinistra troverò a tentoni la maniglia della finestra centrale e riuscirò a spalancarla, per poi indietreggiare rapidamente fino alla libreria. Ma sarà una giornata ventosa.

Il legno nella mia mano si spegnerà completamente, così tutte quelle minuscole e delicate rane mi fisseranno tutte insieme. Poi balzeranno.

Mentre sentirò il mio vestito colpito come da palline di gomma su gambe, vita e seno, mollerò il tronchetto ad occhi spalancati, resistendo a strapparmi quegli anfibi di dosso con le mani.

All’improvviso, sentirò un intenso calore strusciarmi velocemente sul petto.

Peter mi starà togliendo le rane di dosso colpendole con la sua torcia. Mi trascinerà di nuovo davanti al camino mentre finirà di liberarmi le gambe.

“Non ti hanno toccato la pelle, vero?” griderà.

Riuscirò solo a scuotere la testa, prima che lui ricominci a spingere quei piccoli mostri verso il bovindo. Dopo qualche minuto in cui riprenderò fiato, chiuderà di scatto la finestra.

“Grazie. Fortuna che per tornare ho scelto un vestito a gonna lunga.” gli dirò sorridendo.

Ma lui non sorriderà: “Che ti serva di lezione! Tieni le mani lontane dal vestito mentre prendo dei guanti di protezione.”

“Per fare cosa?” domanderò, temendo la risposta.

“Per togliertelo in modo da rimuovere le tossine.” replicherà lui fermamente.

“Posso togliermelo io.” proporrò. Non mi piacerà per nulla che il mio caro fratello si avvicini a una situazione in cui mi sarò trovata con altri uomini.

“No, che non puoi: bisogna essere molto precisi e tenere la testa lontana dal tessuto. Hai un maglione sotto, vero?”

“Ma le gambe sono scoperte.” preciserò.

Mentre uscirà dal salotto, sospirerà e lo sentirò borbottare qualcosa sull’inverno. Osserverò le strisciate di carbone sul turchese: il passaggio dell’empirismo scientifico sull’apparenza.

Lancerò uno sguardo veloce alla scrivania su cui sarà ancora posato quell’orrore. Il cliente che l’avrà messo all’asta dovrà essere di una crudeltà e un’irresponsabilità immense! Avrà potuto liberarsene nascondendolo o allontanandolo dagli altri esseri umani, ma avrà tentato di passarlo a qualcuno per profitto. Non saprò ancora se avrà conosciuto lui stesso le conseguenze del gioco, ma penserò di sì: d’altronde ci sarà già una pedina in gioco.

Peter tornerà dal suo ufficio con un paio di guanti di protezione in nitrile e dei jeans che poggerà su un ripiano della libreria.

“Quando ti avrò tolto il vestito, mettiti questi stando davanti al caminetto, dove le rane non sono passate. Quando andrai di sopra, attenta a non camminare scalza e lascia le scarpe davanti alla porta della tua stanza, facendo poggiare solo il tacco e la suola al pavimento.” mi istruirà.

Con riluttanza, gli permetterò di sfilarmi il vestito da piedi a capo, sentendo sulle gambe l’aria invernale entrata dalla finestra nonostante il fuoco.

Allenterò la cinghia delle scarpe e terrò i jeans con le gambe ripiegate mentre li infilerò per evitare che sfiorino l’amazzonite verde. Nel frattempo, Peter ripiegherà accuratamente il mio abito per poi portarlo di nuovo verso il corridoio. Ma prima di raggiungerlo, si volterà verso Jumanji.

“Pete, cosa vuoi fare? No, fermati!”

In quattro falcate lo raggiungerà, lo prenderà e lo porterà al camino.

“Potrebbe liberarsi tutto se viene distrutto!”

Le mie parole gli faranno ritirare bruscamente la mano dal fuoco. I suoi occhi scuri mi guarderanno spaventati. Dovrò risalire alla mia prima infanzia per ricordare quell’espressione.

“Inizia ad andare a letto. Io devo segnalare un allarme biologico e disintossicare la casa. Non ho idea di cosa potrò dire quando mi chiederanno perché decine di rane endogene dell’Ecuador si trovavano in casa mia. Potrei finire in prigione.”

Sentirò una pietra comparirmi nel petto e le lacrime sgorgarmi dagli angoli degli occhi.

“Mi dispiace. Mi dispiace da morire! Volevo solo convincerti che…”

La sua espressione si ammorbidirà e mi abbraccerà con forza.

“Lo so. Ormai siamo in questa situazione. La colpa è di questo schifo di affare!”

Dopo aver sciolto l’abbraccio, aprirà uno sportello sotto la libreria e ci infilerà dentro la scatola bruscamente, per poi richiuderlo con uno scatto.

“Domani penserò a un modo per isolarlo dal mondo. Ora devo avvertire delle Epipedobates.”

“Come farai a occuparti del gioco, se sarai impegnato con il rischio biologico? Non sarebbe meglio aspettare fino a dopo il pranzo con i Parrish?” gli chiederò.

“E se nel frattempo si disperdono? Erano rosse, il che significa che sono mature sessualmente. In due settimane possono schiudersi anche quaranta uova per femmina. Considerando che potevano esserci decine di femmine, potrebbero riempire Brantford di migliaia di esemplari in mezzo mese, se non le troviamo subito!” mi spiegherà sbraitando.

“Ma se finissi davvero in prigione, quel gioco resterebbe a portata d’uomo.” obietterò, provando a impedire che rischi davvero di venire arrestato, oltre che non si liberi del gioco.

“Allora dovrai occupartene tu.” mi dirà semplicemente.

“È fuori questione! Non riuscirei a trovare un posto adatto se sarò preoccupata per te. Tu conosci luoghi irraggiungibili da esseri umani. Puoi tranquillamente nasconderlo durante una spedizione.”

Mi fisserà per qualche secondo, prima di prendere una decisione.

“D’accordo. Dopotutto si saranno solo riunite nella fontana. Hanno bisogno di reidratarsi. Ma domani pomeriggio dovremo avvertire le autorità. Ora inizia ad andare a letto.”

Annuirò e mi dirigerò verso la rampa di scale alla fine del corridoio, non accorgendomi che il pandoro caduto a terra avrà un puntino nero.

 

Sbattei la portiera di lusso con tutta la forza che avevo nelle braccia. Che si staccasse!

Anche quel giorno ero obbligata a far visita ad amici (e figli) di papà schifosamente ricchi.

“Bernie! Cerca di tenere a freno il tuo caratteraccio!” mi riprese mia madre come al solito. “Gli Shepherd sono sempre stati gentili con te: mostra un po’ di buone maniere!”

“Non è gentilezza, la loro! Perché hanno bisogno di così tanti lussi? Sono degli ipocriti, come voi!”

“Di me puoi dire quello che vuoi, signorina, ma non azzardarti a insultare Judy e Peter!” mi minacciò mio padre con tono basso ma brusco. “Sono due ragazzi meravigliosi e sei fortunata a poterli andare a trovare! Dovresti ringraziarmi.”

“Non è mia la fortuna: ci conoscono soltanto perché hanno approfittato della tua!” ribadii.

“Ora basta! Sei in punizione!” esclamò mia madre premendo il pulsante del campanello della villa.

“Più di così? Non potrò uscire per tutte le vacanze di Natale né impegnarmi nelle faccende domestiche! Cos’altro potete inventarvi?” li sfidai.

In quel momento, un ragazzo con folti boccoli castani, gilet verde e pantaloni in velluto grigio aprì la porta con in mano un telecomando e ci venne incontro con il suo solito sorriso palesemente falso.

“Alan! Sarah! Stavolta è venuta anche Berenice! Sono felicissimo di vedervi! Ieri Judy e adesso voi! Sarà un Natale stupendo…” chiocciò mentre faceva scorrere il cancello elettrico.

“Ciao, Peter! Ti trovo bene.” cominciò mia madre con le sue formalità.

“Non sarà il caso di accontentare qualche ragazza per una volta?” chiese mio padre in un patetico tentativo di fare il simpatico.

“Più che ragazze, ho incontrato Tamandua mexicana di recente. Ma detto da te, che hai incontrato la tua anima gemella alle medie, è proprio una scorrettezza. Prego, venite pure.”

Alzando gli occhi al cielo per tutti quei melensi convenevoli, seguii i tre aristocratici fino alla porta ornata sofisticatamente ed entrai nell’ampio ingresso.

Come al solito ignorai l’arredamento che ti faceva sembrare di essere in un villaggio primitivo e arrivai alla sala da pranzo, in cui quella civetta bionda di Judith Shepherd si alzò e cominciò a strillare: “Quanto mi siete mancati! Sono tornata da meno di un giorno e già tutte le persone più importanti della mia vita sono qui con me!”

“Ehi, Judy!” la abbracciò mio padre mentre trattenevo i conati.

“Come sei stata in Francia? Si vive bene?” chiese mia madre senza il minimo interesse.

“Tutto ottimo! Dal cibo alle leggi… Ciao Bernie! Sorprendente quanto tu sia cresciuta!”

Sicuramente più di te, razza di sostenitrice del foie gras! Volli proprio vedere se avesse avuto il corpo adattato ai suoi pensieri quanto le sarebbe piaciuto!

“Buona mattina, signorina Shepherd. Mi dispiace davvero che abbia dovuto abbandonare l’Europa.”

Vidi i lineamenti di mio padre irrigidirsi, mentre Judith continuava a sorridere fessamente.

“Oh, no: fa sempre piacere tornare in una città in cui si ha vissuto da ragazza…” rispose con gli occhi lucidi e tirando su col naso. “Vi offro del pandoro mentre aspettiamo il pranzo?”

“Per me no, grazie. Devo evitare per il diabete.” rifiutò mio padre.

“Anche la mia dieta non me lo consente.” aggiunse prevedibilmente mia madre. “Magari qualcosa di salato, se si può.”

“Ma per favore! Io ne prendo volentieri una fetta, graazie!” annunciai, sottolineando l’ultima parola.

“Arriva subito.” mi avvisò Judith scartando il dolce sul tavolo.

“Alan, mi piacerebbe molto avere il tuo parere sulla foto di una pantera nera presa di notte. Non sono riuscito a determinare se si tratta di Panthera pardus o di Panthera onca, perché era di spalle e la coda era nascosta. Vieni, ce l’ho sul computer.”

Mentre guardavo i due uomini tornare in corridoio, addentai il pandoro, masticandolo con forza e pensando a quanto sarebbero stati più felici gli animali senza quel seccatore accademico.

Solo dopo aver ingoiato il primo boccone, mi accorsi che aveva un sapore disgustoso. Osservai il resto della fetta e notai varie macchie scure. Dovetti sforzarmi immensamente per rimanere composta, non urlare e, specialmente, non vomitare.

Rimisi quella schifezza nel piatto. Questi spendevano su tutti i lussi più inutili e servivano roba ammuffita agli ospiti? Nemmeno io credevo che arrivassero a tanto!

“ Judy… Non senti anche tu uno strano odore?” interruppe un insulso dialogo mia madre.

“Oh, non preoccuparti per quello: Peter ha lavato il pavimento con un prodotto insolito ieri sera. Oggi ho un po’ di rinite e non l’ho sentito. Se ti dà fastidio, posso chiedergli di pranzare fuori.”

“Oh no! Non è necessario!”

Purtroppo il vegetarianismo mi aveva tolto la capacità di sentire odori e, quasi del tutto, sapori. Ma ovviamente ai miei genitori non avevo intenzione di farlo sospettare.

Tum tum tum tum tum…

Un rullo di tamburi interruppe i miei pensieri.

Sembrava provenire dal corridoio, ma quando mi voltai non ne individuai l’origine. Tornai a guardare le due bionde intente a contemplare qualcosa nel giardino. Non si erano accorte di nulla.

Mi allontanai lentamente dal tavolo per scoprire chi facesse quel rumore continuo. Lo seguii oltre il corridoio e raggiunsi un salotto disgustosamente lussuoso e ben arredato, con tanto di pianoforte e caminetto. Ma mi avvicinai alla libreria.

Scostando una ciocca di capelli castani, feci scorrere l’orecchio davanti al mobile, fino a individuare la fonte dei tamburi: era uno sportello in basso.

Con molta cautela, lo aprii, e il rumore cessò.

Dentro non c’era una cassa stereo, come mi aspettavo, ma un gioco da tavolo elaborato come il resto di quel posto. Eppure, aveva qualcosa di selvaggio, di naturale.

Sullo sfondo riconobbi dei vulcani, degli alberi e dell’erba alta. Al centro di quattro icone, raffiguranti un anziano barbuto, una scimmia, un rinoceronte ed un elefante, si trovava una scritta bianca trafitta da una lancia: «Jumanji».

Posai la scatola in legno per terra e ne aprii le ante.

Su vari percorsi a caselle si trovavano tre pedine, che somigliavano a una scimmia, a un rettile e ad un elefante. Provai a muovere quest’ultima, ma sembrava incollata al tabellone. Verificai che anche le altre fossero irremovibili. Ancor prima di leggere le istruzioni, notai un piccolo comparto con sportello in legno, perciò lo aprii in modo da controllare se ci fossero altre pedine.

Assieme ai dadi, ce n’era una sola, bianca e a forma di rinoceronte. La portai davanti agli occhi.

“Bernie! Dove sei!?”

Pedina e dadi caddero. Tutti e tre rotolarono sul resto del gioco, una posizionandosi perfettamente su una delle caselle di partenza, gli altri fermandosi a indicare un due e un sei.

“Berenice! Si può sapere perché…?”

Ma non la ascoltai: avevo il fiato sospeso, mentre vedevo comporsi una frase verde sullo schermo circolare nero al centro del tabellone: «Se un luogo non ti piace, neanche fuori trovi pace».

Il rumore di vetro in frantumi e un tonfo mi indussero a voltarmi.

“Sarah!”

“Mamma!”

Vidi mia madre a terra sul tavolino distrutto del salotto. I suoi occhi erano quasi completamente neri. Solo due stretti aloni verde chiaro circondavano le pupille. Era fuori di sé.

Mi avvicinai a lei per aiutarla ad alzarsi, ma subito mi sentii trascinare indietro per la schiena. Feci appena a tempo a voltarmi, prima di essere sollevata da terra e trascinata nel camino.

Gridai a squarciagola, sentendo appena le mie braccia aggrapparsi saldamente alla mensola sopra di me. Sentivo le ossa delle gambe tirare su per la cappa quelle del bacino.

“BERNIE!” mi raggiunse la voce di mio padre.

Subito dopo, sentii due mani cercare di estrarmi da quel pozzo al contrario che mi risucchiava.

“È un uragano!” gridò un’altra voce maschile.

Sentii le ginocchia che si stavano per spezzare. Mi decisi a mollare.

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Capitolo 3
*** Secondo turno ***


 
Nota dell’autore: Gli tsukunogami sono oggetti con più di cento anni che, secondo la mitologia nipponica, si animano.
 
Quando smisi di vorticare, mi ritrovai in una stanza piena di scaffali e di libri. In un angolo noto una scatola di plastica con delle rane velenose.
La mia testa lavorava freneticamente per cercare di capire ciò che stava accadendo, eppure non ci riusciva. Ma non ci sarebbe comunque stato lo spazio necessario per dei pensieri.
Ero libero!
La gioia di essere tornato nel luogo della mia infanzia mi aveva riscaldato come un monsone. Non mi sembrava casa mia, ma non sapevo quanto potesse essere cambiata durante la mia assenza.
- Maman!? - cominciai a chiamare, voltandomi verso un corridoio, ma la mia voce fu sovrastata da un grido di ragazza che rimbombò sulle pareti.
- Nadine!
Uscii di corsa dalla stanza, percorsi l’andito e mi affacciai in un salotto in cui si trovavano cinque esseri umani, tutti coperti da vestiti: una donna bionda cercava di farne rialzare un’altra, un uomo castano guardava un forte vento infuriare fuori dalla finestra e un altro uomo stava tirando una ragazza fuori da un buco nella parete. Lei aveva gli stessi capelli di Nadine…
Fu impressionante ritrovarmi davanti tutte quelle persone dopo tanto tempo, ma l’istinto mi fece spostare lo sguardo per terra. E ricordai: perché ero finito nella giungla, cosa provocava quel gioco e cosa mi aveva tolto. Ma non mi importava: avevo aspettato così tanto per rivedere Nadine, impegnandomi giorno dopo giorno per vivere, con la speranza che qualcuno mi avrebbe trovato.
Dovevo salvarla dal vento.
Non sapevo perché, ma mi gettai accanto al gioco di società e tirai i dadi sul tabellone. Sapevo che non sarei tornato indietro, e l’istinto mi diceva che era la cosa giusta da fare. Vidi che in alto c’erano tre puntini e vidi la pedina dell’elefante grigio spostarsi di tre caselle.
Dei simboli verdi si composero al centro del tabellone; sapevo che erano lettere, ma non riuscivo a riconoscerle più. Avevano questa forma: «Pour te souhaiter la bienvenue, s’apaiseront tes soucis».
Un tonfo.
Mi alzai in piedi e osservai l’uomo dai capelli grigi caduto sulla schiena abbracciare la ragazza castana, che si voltò piangendo sul suo petto. La donna bionda che si era rialzata li fissava con occhi spalancati, piena di un’emozione che conoscevo continuamente da almeno cinque anni.
Anche l’altra donna aveva gli occhi spalancati, ma fissava me. Aveva guance rosee e lisce, di una semplicità che mi fece dimenticare di respirare; gli occhi erano luminosi, nonostante quasi del tutto neri, in quel poco azzurro che li circondava; sotto il suo naso piccolo e delicato, le labbra rosa scuro distanti tra loro lasciavano scorgere denti più bianchi di quelli di un caimano.
Osservai il suo petto rigonfio sotto il maglione nero e mi sforzai di rimanere fermo, quando mi accorsi che il mio sesso si era ingrandito e sollevato.
“Ehi! Non azzardarti!” mi minacciò l’uomo castano mettendosi davanti a me e avvicinando un cuscino ai miei genitali. Sembrava parlare in una lingua che un tempo conoscevo, ma che avevo dimenticato del tutto. Presi il cuscino, capendo che per loro la nudità era spaventosa.
“No! No...” esclamò e sussurrò l’altro uomo alzandosi e portando una mano alla bocca, con gli occhi fissi sul gioco. “Non può essere. Come è finito qui?”
La sua preoccupazione era immensa. La ragazza castana mi guardava e vidi perfettamente che non era mia sorella: gli occhi non erano marroni, ma verdi.
“Conosci Jumanji?” domandò sorpreso l’uomo castano.
L’altro non rispose subito, ma mi guardava con compassione.
“Ci sono stato dentro, proprio come quest’uomo. Capisci l’inglese?” mi chiese.
Non ricordavo molto della mia lingua, ma provai a dirgli che non lo capivo.
Je sais pas… tu dis…
“È francese.” disse la donna bella continuando a fissarmi. “Il… Il gioco l’ho importato dalla Francia. Comment-tu t’appelles?
Mi stava chiedendo qualcosa!!! E sapeva il francese! Cosa le avrei risposto? Credo mi stesse chiedendo il nome. Cercai di ricordarlo. Ne ero quasi sicuro perché l’avevo scritto su una roccia con un sasso rosso, molto tempo prima, e ogni tanto passavo di lì.
Phi… Philippe.
Philippe? C’est un beau prénom!” si complimentò con me. Qualcosa lo ricordavo.
“Come sarebbe che ci sei stato dentro?” domandò l’uomo che mi aveva dato il cuscino all’altro. In inglese! Ricordavo che era inglese!
“In una specie di giungla… Non chiedermi di ricordarlo, ma ci ho già giocato. Ci abbiamo giocato.”
Perché mi ignoravano? Finalmente ero uscito da lì e avevo davanti degli esseri umani. Volevo ritrovare la mia famiglia, ma non ricordavo abbastanza francese per spiegarlo.
“Come ‘abbiamo’? ‘Abbiamo’ chi?” continuò l’uomo castano.
“Io, Sarah…” l’uomo dai capelli grigi allargò i polmoni, “tu e Judy.”
“Cosa!? Come fai a sapere che ci abbiamo giocato ieri!?” disse la ragazza dai bei tratti. L’altro uomo aveva improvvisamente la faccia piena di pieghe.
“Non ieri… Nel 1995. Siamo tornati indietro nel tempo di ventisei anni. Voi non eravate ancora nati. Lo so che è difficile da… NO! SARAH!”
Sobbalzai al grido che fece quando voltò la faccia. Seguii il suo sguardo: l’altra bionda aveva preso un oggetto lungo e grigio dal buco in cui veniva risucchiata la ragazza simile a Nadine e l’aveva alzato sopra il gioco da tavolo.
L’uomo che aveva urlato le aveva afferrato le braccia e cercava di spingerla verso il divano.
“Lasciami, Alan! Bernie non deve più toccarli quei dadi!”
“Certo, ma non sappiamo cosa succede rompendolo! Ne avevamo già parlato, ricordi?”
Non mi piaceva quella situazione: volevo scappare, allontanarmi da tutti questi estranei aggressivi!
Ma vidi qualcosa che me lo impedì: la ragazza castana aveva gli occhi spalancati, ma non sulla scena di lotta, bensì verso la parete. Mollai il cuscino e la raggiunsi prima che iniziasse a cadere a terra. Riuscii a sostenerla.
“BERNIE!” urlarono i due smettendo di lottare e balzando verso di noi. Lasciai loro la ragazza che evidentemente si chiamava “Berni”. Ma poco prima avevo sentito un odore disgustoso.
“Sei pazzo! Io non… Non ho mai giocato prima a quel gioco!” inveì l’uomo vicino alla finestra.
“Peter!” gridò la donna che ammiravo cambiando espressione, prima di chinarsi anche lei su Berni.
All’improvviso, sentii lo stesso odore di prima arrivare dal corridoio.
“Che cos’ha!? Bisogna chiamare un’ambulanza!” urlò la donna che teneva la ragazza.
“Potrebbe essere solo lo spavento per il tornado.” rispose l’uomo accanto a lei.
L’altro si era seduto per terra e fissava il pavimento.
Corsi verso la fonte dell’odore strano: oltre il corridoio c’era una stanza con un tavolo, e lì sopra c’era del cibo. Ma non era mangiabile, era chiaramente contaminato.
Presi il piatto su cui era poggiato e lo riportai in salotto.
La donna dall’aspetto meraviglioso mi stava venendo a cercare. Mi venne di nuovo voglia di saltarle addosso, ma mi sforzai di pensare alla ragazza svenuta.
Mi guardò i genitali tesi, impressionata, ma quando vide il cibo che portavo si spaventò, portandosi una mano alla bocca. Volevo rassicurarla, ma non riuscivo a parlarle.
“No! Come può essersi…? ‘Contaminazioni’!” disse, prima di prendere il piatto. “Merci!
Mi aveva ringraziato! Ero felice. Non provavo quell’emozione da tantissimo tempo.
“Perché non mi avete mai detto nulla? Mi conoscete da quando avevo sette anni!” sentii chiedere l’uomo castano.
“Non volevamo spaventarvi! Eravate dei bambini. E poi non ci avreste creduto: i vostri genitori vi avrebbero solo allontanato da noi!” rispose l’altro.
“Alan...” cominciò la più bella.
“E dopo?! Avresti dovuto avere più fiducia in me! Non ti sembro abbastanza intelligente da capire?”
“Lo sai che non è così! Sei uno scienziato: come avresti potuto ammettere un gioco che trasforma la realtà?”
“PRIMA DI GIOCARCI LO SAPEVO CHE ERA PERICOLOSO!” gridò il castano prima di affannare pesantemente. Mi spaventava. Più di rettili, felini e ragni: a quelli ero abituato. Ma la rabbia di quell’uomo dagli occhi castani mi atterriva davvero.
“Ora c’è un problema più grave: Bernie non è svenuta per lo spavento!”
La donna che reggeva la ragazza guardò il piatto: “Che… Che cos’è quella roba nera?”
“Mi sembra proprio ergot, o Claviceps purpurea, una muffa che attacca le graminacee e ostacola la circolazione, se ingerita. È originaria del Sud America e credo…” abbassò la voce “credo di averla fatta uscire io dal gioco.”
“Che stai aspettando, Alan?! Portiamola in ospedale!” gridò l’evidente madre della ragazza, in lacrime.
“No. Non potrebbero fare niente.”
“Ma che stai dicendo?”
“Ricordi le piante carnivore? A Jumanji ogni specie ha caratteristiche potenziate rispetto a quelle che conosciamo sulla Terra. Non potrebbero fare nulla se non studiare il caso.”
“Sempre meglio tentare, no?! Non possiamo aspettare che le si fermi il sangue!”
“Sai cosa dobbiamo fare. È il solo modo per annullare l’effetto.” disse lui fissandola intensamente.
Lei scosse la testa freneticamente: “No! Non può continuare a giocare! È fuori questione! Saranno i medici a trovare una cura adeguata.”
“Se la portiamo in ospedale non potrà continuare la partita e morirà di sicuro. Credimi: è l’unico modo.” rispose lui prima di abbracciarla.
“Come fai a conoscere quella muffa?” domandò l’uomo spaventoso.
“Ho dovuto valutare una sedia fatta con alcune graminacee e l’ho trovata, quindi mi sono documentata. Peter, non possiamo far morire Berenice.”
L’altro scosse la testa. Poi mi guardò: “Lo porto a vestirsi e a farsi la barba, prima che ti violenti.”
Mi prese per un braccio. Ero troppo spaventato per fare resistenza. Mi portò in una stanza tra quella in cui mi ero ritrovato e c’erano le rane e il salotto. Credevo fosse un bagno.
Chiuse la porta e io sentii uno scatto: mi ricordai delle chiavi. Perché mi aveva chiuso dentro?
Piansi.
La mia famiglia era sicuramente morta, le persone che avevo incontrato, a parte quel dolce splendore, mi ignoravano o mi trattavano male e non conoscevo più nulla del mio mondo.
La mia faccia era tutta bagnata. Non riuscivo a respirare.
La porta si riaprì e sentii che qualcuno entrava nel bagno. Poi un sospiro.
“Su, non fare così. Mi dispiace di essere stato brusco. Pardon! Ti prometto che ritroveremo la tua casa. Maison. Maison.” mi disse afferrandomi dalle braccia e tirandomi in piedi.
Avevo capito che si riferisse a una casa. Forse voleva dirmi che ero al sicuro.
Mi portò nella doccia e mi lavò. I getti d’acqua mi spaventarono all’inizio, ma poi mi rilassai.
Dopodiché mi asciugò e mi tolse la barba con un rasoio. Anche quello mi preoccupava, ma sapevo che voleva aiutarmi. Poi mi ricordò come infilarmi mutande, jeans, una maglietta azzurra e scarpe a strip. Infine mi tagliò i capelli fino al collo con delle forbici.
Merci.” lo ringraziai. “Ton prénom?
“Ah, il mio nome! Peter. Pi-ter.”
Pitèrre.” ripetei. Lui mi sorrise e aprì la porta per riportarmi dagli altri.
Tutti e quattro erano seduti al tavolo su cui avevo trovato il cibo avvelenato. La donna dai bei tratti mi osservò con la bocca socchiusa. Berni era sveglia ma scossa.
“Mi dispiace per non averti detto niente, Peter, ma ho bisogno del tuo aiuto per salvare Bernie.” disse suo padre. “Se lo si finisce, tutti gli effetti del gioco si annullano e il tempo torna indietro.”
“Ti prego, Peter.” aggiunse la madre con gli occhi ancora lucidi.
Pitèrre aspettò qualche secondo, prima di dire: “Va bene.”
La madre di Berni gli sorrise commossa, mentre il padre gli disse: “Grazie! Grazie!”
Philippe… Ils sont Peter… Alan… Sarah… et Bernie. Je suis Judy.” mi disse lentamente la donna con gli occhi luminosi indicandomi gli altri. Ma solo un nome mi era rimasto impresso.
Judy. Tu es… Tu es trés belle.” le dissi.
“Ah! Merci.” rispose con occhi sgranati verso il pavimento.
Guardai la famiglia al lato del tavolo: “Berni… Sara… et Al…
“Alan. Ma anche solo ‘Al’ mi sta bene.” disse l’uomo coi capelli grigi sorridendo.
“Come mai tu ricordavi benissimo l’inglese quando sei uscito dal gioco?” gli domandò Sara.
“Van Pelt era molto loquace. Per lo più mi insultava, ma a volte faceva anche noiosissimi discorsi.”
Philippe, quel-est ton nom?” mi chiese Judy.
Mi aveva chiesto il cognome. Ma non me lo ricordavo.
Nadine!” risposi invece. “Maman, papa et Nadine!”
“Nadine dev’essere sua sorella.” commentò Judy.
“Be’, finché non ricorderà il suo cognome, non sarà facile rintracciarla.” disse Pitèrre.
“Aspettate… Se non sbaglio era il nome della moglie del cliente che mi ha dato Jumanji!”
“L’hai rubato a un’asta?!” si sorprese Alàn. “Ma io dico: non potevi lasciarlo lì?!”
“Mi dispiace… Ma almeno abbiamo liberato Philippe!”
“E avvelenato Berenice!” urlò Sara. Judy abbassò di nuovo il capo e io le accarezzai un braccio per consolarla. Lei si ritrasse per un attimo e Pitèrre fece un movimento brusco con la mano, ma poi entrambi mi permisero di continuare.
“Ora calmiamoci. Finirete il gioco come l’altra volta. Vi guideremo noi.” disse Alàn fermo. “Judy, ora tocca a te, se non sbaglio.”
“Io non voglio giocare.” sentii parlare per la prima volta Berni. Tutti la guardammo.
“Tesoro, se riusciamo a finire il gioco, non sarai più avvelenata.” le disse suo padre.
“Non voglio rischiare di essere sbranata da un leone o di essere incenerita da un fulmine… Io non gioco!” rispose lei, decisa.
“Tu giocherai!” gridò Sara. “Siamo noi responsabili di quello che ti succede e non ho proprio…”
Un tonfo che veniva dal corridoio fece alzare tutti. Pochi secondi dopo, vari uomini in divisa invasero la stanza e ci afferrarono. Mi scrollai di dosso quello che aveva provato a prendermi e mi lanciai a liberare Judy. L’ultima cosa che vidi fu un pugno guantato.
 
Stringo Berenice al mio fianco. Ma ho paura anch’io.
Non mi sarei mai immaginato di ritrovare quel maledetto affare nella mia vita. Ero certo di averlo fatto sprofondare definitivamente sul fondo dell’oceano Atlantico.
E invece, adesso mi aveva intrappolato di nuovo! Non nella giungla, ma nella cella di una nave con la mia famiglia, i ragazzi che mi stanno più a cuore e un giovane svenuto che ha passato il mio stesso inferno.
“Non preoccupatevi… Ne usciremo! Se avessero voluto ucciderci l’avrebbero già fatto.” dico.
Judy mi guarda scettica, Peter fissa il muro e Sarah ha ancora la faccia tra le mani.
A un tratto, alcuni militari si avvicinano alle sbarre.
“Vi prego: mia figlia è stata avvelenata. Permetteteci di salvarla!” imploro.
“Seguiteci tutti tranne la ragazzina. Se provate a fare scherzi, sarà lei a pagarne le conseguenze.”
Chi di noi aveva giocato a Jumanji in una dimensione parallela è obbligato a seguirli. Ci portano in una grande stanza con un tavolo al centro a cui è seduto un vecchio orientale. Ha il volto pieno di rughe e petecchie, è calvo e si intravedono le ossa sotto la pelle tirata.
Veniamo fatti sedere davanti a lui. Tra di noi ci sono solo il tavolo e Jumanji.
“Benvenuti sulla mia umile nave! Mi scuso per le maniere, ma dovevo essere sicuro di potervi parlare in un luogo riservato. Mi chiamo Mononobe e voglio parlarvi.”
“Lei sa cos’è Jumanji?” gli chiede Judy.
“Meglio di chiunque altro. L’ho costruito io.”
Non riesco a sbalordirmi: provo immediatamente un disprezzo talmente forte per quell’essere da volergli staccare la testa all’istante. Tutti gli istinti che avevo sviluppato quarantuno… no: sessantasette anni prima mi stanno riassalendo e solo l’amore per mia figlia mi tiene seduto.
“Perché l’hai costruito?”
La voce di Peter, affianco a me, è calma e controllata, ma ne avverto l’odio.
“La magia tradizionale giapponese è andata quasi del tutto perduta o trasformata in racconti mitologici nei secoli, ma io sapevo praticarla. Esistevano maledizioni, poi trasformate nella leggenda degli tsukunogami, capaci di legare l’anima di un umano ad un oggetto. Ho costruito questo gioco da tavolo e l’ho fornito di potenti abilità magiche in modo che pensi autonomamente, guidi il gioco in base ai giocatori e colleghi due dimensioni. In questo modo, sottrae energia vitale ai bambini che lanciano i dadi e regalano alla mia vita il tempo che va dall’inizio alla fine della partita. Se un giocatore muore, ricevo gli anni di vita che gli sarebbero rimasti.” ci spiega con distacco l’uomo.
“Lei è un essere spregevole! Infligge sofferenza ai bambini per allungarsi la vita!” urlò Sarah.
“Per i primi secoli riuscii a controllare gli spostamenti del gioco. Poi, nel decimo secolo, uno tsunami trasportò Jumanji sull’altra sponda dell’Oceano Pacifico. Sapevo che era arrivato ad altri esseri umani perché continuavo a rimanere in vita, ma in tutti quei secoli non potevo rintracciarlo e dovevo affidarmi alla capacità del gioco di attirare i bambini. Nella mia lingua 'juuman ji' significa 'centomila esperienze personali'. Dato che nessuno viene creduto quando le racconta, sono davvero molto personali.”
Mi chiedo perché ci stia raccontando tutto questo. Dove vuole arrivare?
“Dai primi contatti tra America e Giappone, ho costruito un’organizzazione qui volta a ritrovare Jumanji. Ma le capacità magiche del gioco di nascondersi agli adulti impossibilitava anche i miei uomini. Infine, due sere fa, sono venuto a conoscenza che questo artefatto era stato messo all’asta a Parigi. Se avessi potuto, sarei morto d’infarto. Ma sono protetto da qualsiasi tipo di morte, quindi non sperateci. Quando sono arrivato a Parigi, però, l’asta era già conclusa e Jumanji era sparito. Mi sono informato su chi l’avesse valutato, e ho scoperto che la responsabile, Judy Shepherd, aveva preso un aereo per Brantford, perciò l’ho seguita. Quando ho saputo che vi si era formata una temporanea tromba d’aria, ho subito capito dov’era Jumanji ed eccoci qui.”
“Che cosa vuoi?” chiedo acido.
“Voglio che appena vinto il gioco, ma prima che il vincitore pronunci “Jumanji”, uccidiate l’unica minorenne che sta giocando.”
Rovescio la sedia e salgo sul tavolo per spezzargli il collo, ma due soldati mi tirano indietro.
“RAZZA DI BASTARDO! IO TI BUTTO IN UN VULCANO! COSÌ TE LA GODI LA VITA ETERNA!” grido, ma un colpo alla tempia mi impedisce di continuare.
“Se un bambino muore a gioco vinto, il conteggio degli anni che gli mancano diventa infinito, e quel tempo viene passato a me, rendendomi immortale. In tal caso, non avrei più bisogno di Jumanji, perciò risparmiereste molte sofferenze a bambini innocenti. Oltretutto, la ragazzina tornerebbe in vita. Sappiate che mantengo la mia memoria ogni volta che il tempo viene riavvolto, e che so dove è stata iniziata questa partita. Se non eseguirete le mie istruzioni, recupererò il gioco, vi ucciderò e convincerò degli ingenui bambini ad obbedirmi.”
“Non daremmo mai l’immortalità ad una schifezza come te!” gli annuncia Judy.
“Questa è la vostra opinione generale?” ci chiede.
Ma prima che qualcuno possa rispondergli, del fumo da sotto il tavolo riempie il centro della sala, ottenebrando tutte le nostre viste. Io ricordo la posizione di Jumanji e lo prendo, per poi tirare Sarah a terra. Sento Peter fare lo stesso con Judy.
“Bloccate le porte!” ordina la schifezza decrepita, quindi sento decine di piedi dirigersi verso due posti. Dagli stessi due posti, sento venire due detonazioni, che spazzano via il fumo sopra di noi.
Una donna castana di occhi e di capelli, vestita da militare, ci fa segno di raggiungerla oltre la porta da cui eravamo entrati, ormai ridotta a uno squarcio.
Immediatamente, tiro su Sarah e seguo Judy e Peter tenendola per mano.
“Grazie!” dice Judy, correndo.
“Arriveranno altre guardie che hanno sentito le esplosioni!” ci avvisa lei con l’‘r’ moscia.
“Mia figlia è in una cella della nave!” le dice Sarah.
“L’ho ja liberata. Ora sta fujendo con Philippe su una scialuppa.”
“Tu sei Nadine, vero?” le chiede Judy, non sorprendendomi affatto.
Oui. Tutti dentro!” ci ordina, entrando in una stanza. Quando anche Sarah è dentro, chiude la porta.
Mentre riprendo fiato, sento i soldati correre appena fuori. Tornato il silenzio, ricomincia a guidarci fino a una rampa di scale. La saliamo e ci ritroviamo sul ponte della nave.
Ma sono rimasti dei soldati.
Nadine evita un proiettile e ne manda a segno un altro. Vedo Peter disarmare un uomo con un calcio, mentre io mollo il gioco e sferro un pugno da far perdere i sensi.
“Judy, tira i dadi! Non possiamo uscirne così!” le grido.
Una raffica di proiettili mi costringe a ripararmi dietro il muro che protegge le due donne, così vedo un quattro e un cinque sui dadi. Sparo con l’arma che ho sottratto al soldato caduto, ma non ne ho mai usate: Van Pelt me le ha sempre fatte detestare. Così devo ritrarmi sprecando un proiettile.
«Anche il corso della tua giornata finirà con una bella cascata» sento leggere Judy.
Il mio sguardo si dirige automaticamente al cielo: un immenso muro d’acqua sta precipitando sulla prua, anche se il cielo è assolutamente limpido.
Faccio appena a tempo ad afferrare Sarah e Judy che la nave si ribalta. Tutti e tre veniamo premuti contro uno dei muri accanto alla porta, mentre sento urla sfrecciarmi accanto.
“PETER!” grida Judy, tenendo il gioco ben chiuso.
Il pavimento è quasi completamente in verticale. Mi alzo e guardo giù: no, sarebbe davvero un salto troppo alto. Meglio non rischiare!
Noto che un proiettile ha spaccato un cardine della porta e mi viene un’idea: sparo anche all’altro cardine, attento all’angolazione per non colpire le due donne di rimbalzo, poi stacco la porta.
“Quando sarò dall’altra parte, avvicinatemi la porta facendola scorrere sul muro!”
“Alan, che intenzioni…?”
Ma prima che finisca la frase, ho già preso la rincorsa sul muro, ho saltato e mi sono aggrappato al parapetto come se fosse una scala a pioli. Mi volto verso di loro, aspettando che mi avvicinino la porta abbastanza da metterci una mano sotto.
“L’ho presa! Correteci sopra in fretta e aggrappatevi al parapetto!”
“Alan, non credo che sia una…” comincia Sarah, ma Judy ha già fatto due falcate e si è appesa due barre sopra di me. “E figuriamoci!”
“Coraggio, Sarah!” la sprona la mia amica.
Dopo un attimo di esitazione, corre sulla porta, ma scivola e cade di lato.
“SARAH!”
La caduta mi sembra interminabile…
La vedo precipitare contro l’acqua violenta della cascata che continua a spostarsi sull’estremo inferiore della nave, la vedo sfracellarsi straziantemente nell’impatto, e poi, più nulla.
Ma la porta non ci serve più adesso, e la mia presa è salda sulla mano di mia moglie, che riesce ad aggrapparsi alle sbarre sotto di me.
Quando siamo giunti a circa dieci metri dal mare, mi porto dall’altra parte del parapetto: “Saltate!”.
Ci tuffiamo finalmente nel mare gelido. Quando riemergo, cerco Peter e Nadine, ma vedo solo uomini in divisa militare. Sarah e Judy tornano in superficie pochi secondi dopo. Eppure…
“Dov’è il gioco!?” grido. Judy e Sarah cominciano a spostare lo sguardo da una parte all’altra.
“Eccolo lì!” mi indica mia moglie. Riesco a intravedere una scatola verde e nuoto in stile libero per raggiungerla. La afferro, ma le ante sono aperte.
“Mancano i dadi!” urlo alle due bionde.
“Ce li ho io!”
Peter è a qualche metro da me e nuota nella mia direzione. È un sollievo che si sia salvato!
Quando mi raggiunge, mi tende i dadi, ma non riesce a darmeli: uno dei soldati lo colpisce alla testa con il calcio di un’arma da fuoco. Vedo i dadi rotolare sul tabellone e comporre un undici.
Sferro un pugno all’aggressore e sorreggo Peter. Poi leggo il messaggio.
«Ti accorgerai dei nostri denti, e non solo perché siamo contenti»
“SARAH! JUDY! VERSO LA SPIAGGIA! NUOTATE!”
Non mi piace! Ho entrambe le mani impegnate. Squali? Coccodrilli marini?
La cascata è terminata e la nave è tornata in orizzontale, anche se fortemente oscillante.
“ALAN! IO NON TI LASCIO QUI!” mi risponde quella cocciuta di mia moglie.
Poi capisco cosa sono: attorno al corpo di vari soldati, a una trentina di metri da noi, l’acqua si sta tingendo di rosso. Peter le chiamerebbe ‘Serrasalminae', ma io preferisco 'piranha'.
Ogni manciata di secondi, un nuovo corpo viene circondato dal suo stesso sangue, e Sarah non accenna a fuggire. È finita…
Alàn!” grida una voce.
Mi giro.
Nadine sta spingendo con i remi una scialuppa di salvataggio a cinque metri da me, affiancata da Philippe e Bernie. Con un ampio sorriso, scalcio sott’acqua per risparmiare tempo e lancio Jumanji nel veicolo per poter far issare meglio Peter a Philippe.
“Sali anche tu, papà!” mi grida mia figlia.
Per un attimo penso di tornare indietro a salvare Sarah e Judy, ma poi la ragione ha la meglio dicendomi che posso salvarle solo dalla scialuppa.
Salgo sull’imbarcazione, aiutato da Philippe, e riabbraccio mia figlia.
“Pensavo che ti avrebbero ucciso!” mi confessa sussurrando.
“Ora siamo al sicuro. Nadine, prendo io i remi!”
“No, sci vuole esperienza! Tiratele su!”
Quando raggiungiamo le due donne, afferro le braccia di Sarah e la traggo in salvo.
Ma sento Judy urlare, poco prima che Philippe la tiri su e la abbracci.
Co… Comment vas-tu?” le chiede.
C’est juste une petite morsure.” risponde osservando il brandello di jeans strappato.
Guardo i piranha agitarsi furibondi sotto il pelo dell’acqua.
“Ora si può proscedere.”
Vedo Nadine lasciare i remi ed estrarre un sacchetto di plastica dalla tasca della divisa. Preme il pulsante del telecomando che contiene e subito si sente un’altra esplosione.
Quella che dev’essere la sala macchine della nave va in fiamme.
Sono piuttosto contrariato dalla freddezza della donna, ma non è niente in confronto allo sconcerto che leggo sul volto di Philippe.
Nadine!
Désolée, mon frère, mais c’était le seul moyen.
“So che ci avrebbero seguiti, altrimenti, ma c’era davvero bisogno di danneggiarla così pesantemente?” le chiede Judy delusa.
“Voi non li conoscete. Forse non è abbastanza neanche così. E comunque, il tempo tornerà indietro, justo?” ci dice senza il minimo rimpianto.
“Voglio aiutarvi a finire il gioco.” ci comunica Berenice guardandomi con stima. “So che con voi posso stare tranquilla.”
“Ottima decisione. Degna di una non-Parrish!” rispondo, alludendo all’ereditaria avversione per il proprio cognome nella nostra famiglia.
“Se ci cercheranno ancora, forse, non è una buona idea tornare a casa di Peter.” fa notare Sarah.
“Già. Ci trasferiremo a casa mia.” dichiaro.

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Capitolo 4
*** Terzo turno ***


 
“Grazie, Nora.” le sorrido per il succo d’ananas che mi porge.
Siamo passati a casa di Jim e Martha perché Judy e Peter vogliono salutarli, prima di continuare la partita. I due fratelli sono seduti accanto al letto della madre, profondamente addormentata, mentre noi siamo seduti in sette sedie insieme al padre e alla zia.
“Vi ringrazio per essere passati. La cirrosi biliare di Martha mi toglie già molto tempo da dedicare alla fabbrica, è davvero un gentile regalo di Natale.” ci apprezza Jim.
Sento uno sbuffo in direzione di Nadine: non posso darle torto se ha fretta!
Nora sembra meno comprensiva rispetto a me: “Non ho ancora capito chi siete.”
“Loro sono due amici che ho conosciuto in Francia: Philippe e Nadine.” mente Judy tenendo la fragile mano di Martha con premura. Scorgo le loro auree ingrandirsi in trasparenza.
Mentre sorseggio il succo, mi chiedo se potrò mai avere la stessa cura da parte di mia figlia. Le rivolgo un’occhiata.
Bernie osserva come me i fratelli Shepherd; ma il suo sguardo è perso nel vuoto, come se riflettesse e solo a tratti tornasse a vedere la scena commovente.
Tra poco non la rivedrò per diverso tempo. Perché la rivedrò!
Non appena finiranno la partita, tornerò al momento in cui Philippe ha tirato i dadi. Nadine ha detto che era la fine del 1994. In quel periodo ero incinta. Se solo potessi ricordare, avrei una seconda possibilità di crescerla in modo giusto. Judy e Peter dovrebbero potercelo raccontare.
Ma se quel giapponese ci trova, come posso fare? È sicuramente abbastanza influente da poterci uccidere, e non riusciremo a convincere i federali a proteggerci.
È davvero una situazione senza uscita…
“Adesso dovremmo proprio andare. Non possiamo trattenerci.” annuncia Alan alzandosi.
“Ma siete appena arrivati!” cerca di trattenerci Jim.
“Mi dispiace, ma Alan ha ragione.” convengo, imitandolo insieme a Bernie.
“Ragazzi, noi vi aspettiamo fuori. Fate presto. Jim, è sempre piacevole passare a trovarvi. Nora.”
Alan stringe la mano al nostro amico e esce dalla stanza.
“Auguri di guarigione a Martha. Sono sicura che quando guarirà sembrerà più giovane di prima!” gli dico, sforzandomi di sorridere.
“Grazie.” è la sua risposta. “La vostra presenza la aiuta.”
“Tornate quando volete.” ci saluta Nora mentre seguiamo Alan.
“Arrivederci.” mormora Bernie con lo sguardo basso. Nadine e Philippe non dicono nulla.
Passando dal vialetto, Nadine controlla che l’affare tremendo sia ancora nel telo che abbiamo preso dalla scialuppa.
“Non abbiamo tempo per la vita sosciale! Dovreste sbrigarvi a finire la partita!”
“Capisco la tua fretta, ma potrebbe essere l’ultima volta che Judy e Peter vedono la loro famiglia.” le faccio notare.
“Per questo vostra figlia dovrebbe tirare subito i dadi.” ribatte.
Mi avvicino a lei con le mani sui fianchi.
“Che c’è, ragazzina?! Lavorare su quella nave ti ha tolto l’umanità?”
“Neanche immajini cosa ho passato.”
“Affronteremo il prossimo pericolo tutti insieme.” interviene Alan. “Le conoscenze di Peter potrebbero essere fondamentali per salvarci. Io so molto sugli animali indiani e africani, ma in questa partita sono usciti solo animali del Sud America. Forse, però, può aiutarci Philippe.”
Il ragazzo lo guarda incuriosito.
Il a dit que peut-être tu peux savoir quelque chose environ les animaux du jeu et nous aider.
Oh… Oui.” risponde lui.
“Come ci aiuterà se non ricorda quasi nulla di francese e l’inglese non lo parla?” domando.
“Non c’è bisogno di parole per comunicare.” mi risponde a sorpresa mia figlia. “Philippe è bravo a farsi capire anche in silenzio.”
“Bernie ha ragione.” dice Alan lentamente. “Ricordo ancora come ogni movimento fosse questione di vita o di morte davanti a un animale feroce.”
“Anche tu sei finito nel joco?”
Mio marito annuisce: “Una vita fa, in ogni senso. Sono l’unico a sapere come si sente.”
Il aussi était été aspiré dans le jeu.” informò il fratello Nadine.
Lui rivolse uno sguardo pieno d’ammirazione ad Alan, che gli sorride comprensivo.
Sentiamo la porta chiudersi: l’altra coppia di fratelli ci raggiunge.
“Ora dobbiamo proprio continuare.” dice Judy determinata. “Bernie, sei pronta?”
“Non si può essere pronti per questo, ma voglio continuare.”
 
Dopo le varie manutenzioni, Villa Parrish è tornata all’antico solito splendore che si augurava il padre di Alan prima di lasciarci. Solo l’impianto elettrico è ancora in fase di ristrutturazione.
Nadine poggia l’affare sullo stesso tavolo testimone del mio primo lancio di dadi, in soggiorno.
Judy prende la mano a Bernie: “Qualunque cosa esca dal gioco, ci saremo noi.”
“Sì: vedrai che finiremo in fretta.” aggiunge Peter, la mano e le parole.
“Grazie.” risponde Bernie sinceramente. Tutte queste novità l’hanno cambiata. È un peccato che non se le ricorderà.
Philippe posa la propria mano sulle altre e ricordo che lo stesso patto l’avevo fatto anch’io. O l’avrei fatto, dato che si tratta di una realtà parallela.
“Allora tira, per favore.” le dice Nadine.
Dopo un lancio tremulo, compaiono un tre, un quattro e la frase verde: «Una piratessa che vien dalla foresta vuole appendere al muro la tua testa»
Sento il freddo scorrermi nelle vene: “Alan! È la stessa struttura…!”
Ma lui ha già sollevato nostra figlia per trascinarla al sicuro.
“Per carità… Bernie, stai dietro il divano! Nadine, controlla che fuori non ci siano pericoli! Peter, mi serve che smonti il salvavita: è già aperto. Sarah, prendi…”
Pum!
Il rumore di uno sparo e il televisore dietro Bernie viene forato.
Immediatamente lei si abbassa, Alan si frappone tra lei e la finestra, Peter corre verso il contatore elettrico e io grido, raggiungendo la mia famiglia con un balzo.
Vedo Nadine rispondere al fuoco con la sua arma ormai asciutta e ricaricata.
“L’ho presa in testa! … Aspettate: non si è fermata! NON SANGUINA NEMMENO!”
“Non si può uccidere, né ferire! È la Van Pelt di Bernie!” urla Alan.
La finestra va in frantumi sotto il fendente di una sciabola. Una donna salta sul davanzale e colpisce Nadine con un calcio in faccia. Sotto un cappello nero da pirata ha capelli biondi; tiene la sciabola corta nella mano destra, mentre l’altra regge una pistola a pietra focaia.
Dopo essere scesa sul pavimento, brandisce l’arma bianca in nostra direzione, ma Philippe le afferra il braccio.
“SCAPPA!” ordino a Bernie, che per una volta mi obbedisce.
“Non è buona educazione lasciare gli ospiti da soli! Devi essere gentile!” strilla Van Pelt.
Dopo aver fatto roteare la pistola in aria per impugnarla per la canna con destrezza, colpisce il ragazzo alla tempia, facendolo crollare al suolo.
“No! Philippe!” gli si avvicina Judy.
“Sarah, andate alla piscina!” mi grida Alan prima di cercare di fermare Van Pelt.
Io mi precipito a cercare Bernie in corridoio. Perché vuole che andiamo alla piscina? Figurarsi se una piratessa non sa nuotare… No, aspetta: ha chiesto a Peter di smontare il salvavita; i tubi di scarico sul fondo conducono l’elettricità per abbastanza spazio da lasciarla paralizzata. Ma come la fulmino?
“Mamma!”
Bernie è in cima alle scale, con in mano un secchio.
“Cosa vuoi fare? Scendi giù!” le urlo.
“Se scivola da qui potrete prenderle la sciabola!” mi risponde.
“Tuo padre ha avuto un’idea. Lui conosce bene il gioco; per favore, fidati di lui!” la supplico.
Dopo un momento per decidere se credere in noi o al proprio orgoglio, abbandona il secchio e torna al piano terra. Insieme ci dirigiamo all’ingresso, poi facciamo il giro del giardino e arriviamo alla piscina, che riflette i fasci di luce provenienti dai faretti lì attorno. Subito raggiungo quello più lontano dalla villa.
“Volete farle prendere la scossa? Avevo capito che non poteva morire.”
Prima che io le risponda, la finestra della biblioteca si spacca per consentire il passaggio di Van Pelt, che ci si avvicina a falcate con la sciabola di lato.
Invasa dal panico, spingo mia figlia di lato e mi lancio contro il braccio destro dell’assassina. Sento uno schizzo d’acqua dovuto al tuffo di Bernie bagnarmi i pantaloni viola.
Ma Van Pelt è agile e si alza quasi subito. Provo a trattenerla per uno stivale, però quello si sfila senza rallentarla granché.
Mia figlia è in acqua, inerme, ancora stordita dalla caduta.
Sopra di lei, Van Pelt è pronta a sferzarle il corpo con la sua sciabola affilata.
D’istinto, lancio il faretto che tengo in mano nella traiettoria del colpo e il metallo penetra i cavi.
Van Pelt rimane paralizzata, vibrante per la scarica ad alto voltaggio, ma non capisco perché. Perché la differenza di potenziale non si esaurisce riportandola a potersi muovere? La piscina, grazie a Dio non è percorsa da elettricità, quindi cosa prolunga l’evento?
“Complimenti, Sarah! Hai usato il tubo d’irrigazione anziché la piscina!” mi dice Alan, afffiancato da Peter.
Guardo il tubo per annaffiare l’erba e poco lontano, collegato ad esso da una pozza d’acqua clorata, il piede nudo di Van Pelt, ancora in preda ai tremori.
Alan aiuta Bernie a uscire dalla piscina.
“Grazie, mamma. Ti voglio bene”
Questa frase mi riempie di prati di gioia, in cui ogni fiore ha la sua aura ben manifesta e colorata.
Sorrido apertamente e largamente: “Sai che lo rifarei sempre, piccola mia.”
“Devo dire che un vantaggio nell’essere ricchi c’è: così abbiamo comprato un tubo in metallo.” scherza lei.
Peter prende un ramo e spinge Van Pelt sul tubo d’irrigazione, per evitare che si liberi inavvertitamente.
“Mi dispiace, mamma, di averti fatta disperare così tanto: ora lo so che stavi cercando di insegnarmi qualcosa.” ammette.
Io le prendo il mento e le rispondo: “Spesso siamo noi a dover imparare dai nostri figli.”
“Non per interrompervi, ma Judy e Nadine si stanno prendendo cura di Philippe. È ancora svenuto.” ci informa Peter.
“Questo vuol dire che per ora non possiamo continuare la partita.” aggiunge Alan.
Torniamo tutti in soggiorno per vedere come se la cava Philippe.
“Visto che per il momento non possiamo proseguire, Nadine, ci spiegheresti un po’ di più su tutta la vostra storia? E mi sembra che ne sappia di più di noi anche su Jumanji.” le chiede Alan.
Dopo un sospiro rassegnato, acconsente: “Come volete. Inisierò da quando ho trovato Jumanji sulla spiaja per regalarlo a Philippe. Sedetevi, sarà un racconto lungo.”
Noi ci accomodiamo per lasciarla parlare.
“Mi chiamo Nadine Bonnet, Moreau da nubile. Dopo che Philippe è stato risucchiato, non ho detto nulla a nessuno, nemmeno ai miei jenitori: ero jà troppo rimproverata per la mia fantasia. Fesci delle riscerche per conto mio, entrando nella marina militare e scercando informasioni su un’organizzasione che bramava Jumanji: la Trappola.”
Il nome mi sembra più che appropriato in più di un senso.
“Mi infiltrai fino a scoprire che quell’uomo, Mononobe, è immortale a causa del joco.”
“AAAAH!” allora, Bernie grida, fissando terrorizzata la finestra.
Forse Van Pelt si è liberata. Ma prima che possiamo scoprirlo, mia figlia sviene.
“Bernie!” mi avvicino a lei impaurita.
“È come l’altra volta. Devono essere le allucinazioni della muffa.” ci spiega Judy.
“Intanto che Aspettiamo che si riprenda, sai perché Mononobe ci ha chiesto di uccidere Bernie?” si interessa Peter. Non potrebbe farlo fare a un suo soldato?”
“Un jocatore di Jumanji può essere usciso solo da qualcosa di interno a Jumanji: questa è la regola.”
“Allora è questo che dà l’immortalità a quel vecchiaccio.” intervengo. “Noi possiamo ucciderlo se possiamo anche con… uno di noi.”
“Non è così semplisce: non ne sono sicura, ma potrebbe avere un ruolo superiore al nostro, come un supervisore del joco. Potremmo non fargli nulla comunque.”
“Ma ci dev’essere una soluzione per salvare Bernie!” esclamo, emettendo tutta la frustrazione che finora dovevo nascondere.
“Ad ogni modo, mio marito ha trovato Jumanji e si è fatto spiegare cos’è. Ho fatto un errore a fidarmi: si è spaventato e ha voluto venderlo all’asta prima che lo sapessi. E quindi è finito in mano a voi. Ho saputo da Mononobe che Jumanji era stato preso da Judy, quindi mi sono organisata per far saltare il rapimento. E la nave.”
“Judì...”
Philippe si sta rialzando.
Mon frère, reste ici. Ne mouve-toi pas.”
“Lui lo sa tutto questo?” chiede Peter in tono empatico.
“Gliene ho parlato mentre arrivavamo qui.”
“Ecco perché aveva quelle espressioni. Sei sempre così brutale anche con tuo fratello, allora?”
“Siamo in una situasione di pericolo, non posso fermarmi alle emosioni degli altri. O alle mie.”
“Devono averti fatto il lavaggio del cervello su quella nave!”
“Peter, smettila! È grazie a lei se siamo ancora vivi.” interviene Judy.
“Ascolta: mi dispiasce per tua madre, ma adesso dobbiamo sbrigarsci a finire il joco, oppure...”
“E che ne sarà di Bernie?” domanda Alan.
Nadine lo guarda lievemente impietosita: “Dovrete farla vinscere e usciderla.”
“Questo è troppo! Fuori da casa mia!”
“Se non lo fasceste ci usciderebbe comunque e per sempre. Credetemi: non abbiamo scampo. Solo così potrò tornare in vita e far vivere anche voi. Forse per me è già troppo tardi, ma...”
“E lasciare che quel mostro viva in eterno? No! Ci dev’essere un altro...”
Fermez-les!” esclama Philippe lanciando due tre sul tabellone.
Tutti tratteniamo il fiato leggendo la frase.
«Il est certain que vos yeux ne sont pas en sécurité»
Sentiamo un grido. Ma non un grido umano: il grido di un’aquila!
“Io proteggo Bernie!” urla subito Alan posandole il petto sulla faccia.
“Sono Harpia Harpyja, molto aggressive.” ci illustra opportunamente Peter.
“Ci sono degli attrezzi per il camino in veranda!” informo gli altri, e subito io, gli Shepherd e Nadine andiamo a prenderli, mentre Philippe ci segue.
“Io torno indietro a salvare Alan.” ci dice Nadine appena afferrate delle pinze.
Io prendo un attizzatoio e comincio a dare randellate per aria all’impazzata. Dio, quanto mi ricordano quei pipistrelli!
Ne colpisco una e sento la finestra frantumarsi, forse per opera di Judy.
A un certo punto sento degli artigli graffiarmi la testa e mi faccio prendere dal panico: mollo l’attizzatoio e corro strillando e scuotendo le mani sopra di me per tutta la stanza.
Un colpo secco da parte del soffietto preso da Judy mi libera da quell’uccello, che vola oltre il davanzale.
“Grazie.” le dico senza fiato.
Subito dopo corriamo a vedere come se la cava Nadine. Sembra che abbia diretto le aquile verso la finestra già rotta da Van Pelt, perché la vediamo arrivare dal soggiorno.
“Tutti a posto? Nessuno orbo?” chiede insensibilmente Nadine.
“Tutti sani e salvi.” risponde Judy stizzita.
Qu’est-ce que il t’a pris? Lancer les dés de quelle manière...” sbraita Nadine sul fratello.
Je… deteste vos querelles!” esclama lui in un francese perfetto prima di correre in biblioteca.
“Cosa ha detto?” chiede Peter.
“Che non gli va che litighiamo.” rispose Alan. “Lo capisco anche senza traduzione: una persona che non vede esseri umani per anni ha paura di ogni sorta di collera e farebbe di tutto per farla smettere.”
“Ci parlo io.” dice Judy andando verso la biblioteca.
Nadine aprì bocca per fermarla, ma poi la richiuse.
 
Dopotutto ero ancora solo.
Avevo ritrovato mia sorella, è vero, ma non era più la dolce bambina che ricordavo: era diventata un’assassina e anche irascibile.
E anche le altre persone che avevo conosciuto erano sempre pronte a urlare, tranne…
La porta della biblioteca si aprì ed entrò Judì, stupenda come sempre.
Peux-je entrer, Philippe?” mi chiese dolcemente.
Io annuii e lei si avvicinò chiudendo la porta.
Ta sœur est très préoccupée pour tout le monde. Elle veut que tu vit. C’est pour ça qu’elle a criée.
Je comprend. Mais pourquoi les autres aussi?
Parce-que la vie de Bernie serait en danger.
Alors je ne veut pas ça.” dissi con forza.
Tu es très doux.
Non seppi nemmeno come successe. Le sue labbra si accarezzavano alle mie e io facevo la stessa cosa, solo che mettevo anche la mia lingua sulla sua. Credevo che ci stessimo baciando.
“Ehm, scusate se vi interrompo, ma Bernie si è svegliata.” sentii la voce di Pitèrre.
Ci staccammo lievemente. Judì mi sollevò da terra e insieme ci dirigemmo in soggiorno.
“C’era un mostro verde dal cranio allungato con le zanne ricurve. Proprio fuori dalla finestra.” stava piangendo Bernì, abbracciata a sua madre.
“Su, era solo un’allucinazione. Una stupidissima visione per quella muffa.”
“Dovremmo andare avanti con il gioco.” disse Alan, comunque preoccupato. “Philippe ha fatto un doppio. Sta bene?”
“Sì. Adesso è tranquillo.” rispose Judì. “Philippe, c’est ton tour à nouveau.
Presi di nuovo i dadi. Per la prima volta, avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere.
Ne feci uscire un tre e un uno.
«Si elle reste à toute l’heure, elle n’est pas agréable la chaleur»
Un’ondata di caldo sostituì velocemente quel gelo tipico della città in cui eravamo.
“Presto: i condisionatori d’aria!” ci ordinò Nadine. “Bisogna deumidificare!”
Alàn, Sara e Bernì cominciarono a correre per le stanze mentre io mi sentivo soffocare come dentro il gioco nelle ore più calde.
“In sala da pranzo c’è dell’acqua: bevetela a piccole dosi.” stabilì Alàn.
Mia sorella mi portò in un’altra stanza, mentre sentii l’afa diminuire. Prese una bottiglia d’acqua dal cucinino e me la porse.
Petit à petit.” mi disse, mentre la svitavo e lei ne prese un’altra.
Subito dopo ci raggiunsero anche gli altri e Alàn distribuì bottiglie da una specie di dispensa.
“Forse se ritiro i dadi, si ferma l’effetto.” azzardò Judì con il gioco sottobraccio.
Lo depose in terra e contò le caselle che le mancavano alla fine, poi tirò un dodici.
“NO!” gridò Sara, ma la pedina stava già tornando all’inizio.
«Avrai anche rinfrescato, ma il tuo sangue non ne è grato»
“Perché? Ho fatto dodici, dovrei aver vinto.”
“Non se hai barato!” sbraitò Alan. “La stessa cosa l’aveva fatta tuo fratello nell’altra partita e si era trasformato nella propria pedina.”
“Nella propria pedina? Vuol dire…” Judì accennò al coccodrillo nero al punto di partenza.
“Oh, non diventerai un’alligatore completo, tesoro, solo qualche soomiglianza.” disse Sara.
“E perché non me l’avete detto prima?”
“Sono passati decenni da quella partita: non possiamo ricordarci tutto.”
“Judy…” Pitèrre stava indicando il collo di Judì terrorizzato. Un collo con delle squame.
Judì si tastò in quel punto e gridò ad alta voce.
“Non preoccuparti, Judy, tutto finirà quando finiremo il gioco.” disse Alan.
“Resta la questione di come lo finiremo.” rimbeccò Nadine.
“In modo normale. Judy e Peter ci informeranno dopo. E noi ci nasconderemo.” ribatté Sara.
Se solo avessi saputo di cosa stavano parlando. Sapevo solo che si trattava dello stesso litigio di prima. E continuava a non piacermi.
“Di cosa state parlando?” domandò Bernì all’improvviso.
“Niente di cui preoccuparsi, cara.” disse Sara.
“Non pensate che...” cominciò Pitèrre.
“Che cosa?” chiese Alàn. “Vai avanti.”
“Be’, io credo che debba scegliere lei. Poi non se ne ricorderebbe neppure.”
“No! È da escludere! Noi siamo i suoi genitori e dobbiamo occuparci sella sua sicurezza.” replicò Alàn.
“Però è una sua esperienza. Siete sicuri di avere il potere di privargliela?”
“Non ti ci mettere anche tu, Judy.” la bloccò Sara.
“Voglio dire se fosse definitiva sarei d’accordo con voi, ma qui si tratta di vederla e poi tornare indietro. Mi sembra un’esperienza rara. Sicuri di volergliela togliere?”
“Mi spiegate cosa state dicendo? Devo morire prima che finisca il gioco?” tentò Bernì.
“Adesso basta! Il discorso è chiuso. Non permetterò che le facciate del male, né che quel mostro abbia vita eterna.” continuò Sara.
“Allora è così. Se muoio prima che finisca il gioco l’uomo che ci ha rapiti vivrà in eterno e ci lascerà in pace. E anche tutti gli altri bambini che prenderanno Jumanji.”
“Non suscederà mai.”
A sorpresa, tutti fissarono Nadine.
“Ora l’ho capito: un uomo così malvajo non si fermerebbe neanche dopo aver avuto l’immortalità. Dovete vinscere normalmente, qualunque cosa capitasse ai noi stessi passati.”
“Ben detto.” disse Alàn vagamente stupefatto.
“Grazie, Nadine.” si sorrisero Sara e mia sorella.
“Scusateci. È stata un’idea stupida.” disse Pitèrre.
“Anche un genio può permettersi un momento stupido ogni tanto.” ammiccò Alàn.
“Berenice, tu non vuoi mettere in atto questa cosa, vero?” le chiese la madre.
“Certo che no. Sono sicura anche io che peggiorerebbe le cose. Ma avrei preferito che me ne aveste parlato.”
“Noi volevamo solo proteggerti” replicò Alàn.
“Lo capisco, papà.”
Cadde un lungo silenzio in cui finalmente sapevo tutto ciò che c’era di importante da sapere: si erano rappacificati. E sembra fosse stato grazie a mia sorella.
Un silenzio simile a quello che abbiamo condiviso con Bernì quando mi sono svegliato in quella cella sulla nave.
Anche se spaventata, anche se non poteva parlarmi, si è assicurata che mi fossi ripreso da quella botta in testa e mi ha ricordato Nadine più della mia vera sorella, con la sua sicura dolcezza. Mi ha tenuto compagnia finché Nadine non ci ha liberati. Ecco come avrei voluto ritrovare mia sorella.
Ed ecco come credevo stesse tornando ad essere.
“Dobbiamo ancora completare il gioco: forza, Peter, ti manca un sette.” disse Judì con altre scaglie sul viso.
“Già, prima facciamo, meglio è.” rispose lui prendendo i dadi.
Accarezzai il volto di Judì per farle capire che il suo aspetto non mi importava.
Uscirono un cinque e un quattro.
“Ho vinto…” esalò Pitèrre a mezza voce.
Ma la pedina raggiunse il centro del tabellone e tornò indietro di due caselle.
“Che cosa?!” esclamò lui.
“Dev’essere preciso! Il tiro non era preciso!” sbottò Alàn mentre si formava la frase.
«Per una riprova futura, ti mandiamo una puntura»
Silenzio. Un silenzio diverso dal precedente, carico di tensione.
E poi zampettare da più direzioni. Nadine urlò, indicando uno scorpione giallo che camminava su un mobile vicino a Judì. Lei non si voltò in tempo e le cadde sulla schiena.
Vidi chiaramente la puntura dell’animale e Pitèrre afferrare un libro per scacciarlo.
“JUDY!” le strappò il retro della maglietta, ma incredibilmente si rilassò.
Quando mi avvicinai, vidi solo squame impenetrabili.
“Sono Tityus Serrulatus, scorpioni gialli brasiliani. Potevano ucciderti con delle neurotossine.” spiegò Alàn. “Direi che il tuo turno ti ha salvata.”
“Non è il momento di discutere!” urlò Bernì, che aveva preso una mazza da golf per allontanare altri due scorpioni.
“Come ce ne liberiamo?” chiese Sara, che aveva ripreso l’attizzatoio.
“Sparando.” rispose Nadine riprendendo la sua arma.
Ci fu una serie di uccisioni di scorpioni per tutta la stanza, finché tutti non furono colpiti.
Pitèrre guardò Nadine: “Sono animalista, ma ti ringrazio lo stesso.”
“Figurati.”
“Dobbiamo azzeccare proprio il numero di caselle che ci mancano e non possiamo forzare il tiro: praticamente potremmo stare in eterno a far fuori animali del Sud America!” sbottò Judì.
“Jà, questa è la trappola del joco da tavolo chiamato Jumanji.”

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Capitolo 5
*** Quarto turno ***


Non mi ero ancora ripresa dall’orrenda visione che avevo avuto.
Sentivo il respiro leggermente affaticato e mi faceva male muovere braccia e gambe. Dovevano essere gli effetti potenziati della muffa a rendere tutto così rapido, proprio come aveva detto papà.
Dovevo sbrigarmi a continuare a giocare. Ma prima c’era qualcosa che volevo dire a Judy e a Peter.
“Grazie per aver chiesto a papà e mamma di farmi sapere tutto. E mi dispiace molto per vostra madre. Spero che tornando indietro il tempo vada diversamente.”
I due fratelli mi sorrisero, non sapendo come li avevo trattati negli ultimi anni.
“Grazie, Bernie. Per noi vale molto.” disse Piter.
“Sì. Sei molto gentile a dircelo.”
Non riuscii più a trattenere le lacrime.
“Io non sono gentile: sono stata perfida con voi! Vi consideravo dei parassiti perché papà vi ha aiutato negli studi e con la casa... Ma forse ero solo gelosa.”
Le espressioni dei due fratelli erano allibite. La cosa peggiore era che se ne sarebbero ricordati nel caso avessimo finito il gioco, mentre io sarei stata ancora nell’utero di mamma.
“Non fa niente, piccola.” disse infine Judy abbracciandomi.
“Sì: lo capiamo.” confermò Peter.
Non me l’aspettavo. Il mio era stato un comportamento egoista e pieno di pregiudizi e loro lo avevano scusato così facilmente.
“Siete davvero grandiosi!”
E dicendo questa frase, crollai.
“Berenice!” urlarono i miei genitori avvicinandosi a me.
“Il suo corpo si sta indebolendo. Bisogna fare in fretta!” ci raccomandò Nadine.
Papà mi distese sul divano accanto a Jumanji. Vidi gli altri prendere delle armi di fortuna.
Tirai i dadi e non feci il dieci sperato, ma un tre.
Riuscii a stento a leggere la frase di lato: «Se ti sembra il momento di dormire, cadrai certo nelle mie spire».
Udii un sibilo.
“Correte!” disse Peter. “È un Eunectes Murinus, un’anaconda verde.”
Sentii mio padre prendermi in braccio e gli scalpiccii degli altri. Poi, papà cadde.
“NO! ALAN!” gridò mamma.
Improvvisamente, un corpo forte e liscio sfregò sul mio braccio. Lo avvertii strisciare su mio padre e poi di nuovo sotto di me.
E lo sentii stringermi a papà più di quanto avrei mai voluto.
Ma riuscivo ancora a vedere Peter davanti a me con in mano una mazza da golf e Nadine con la sua arma da fuoco.
“Non sparargli: potresti colpire loro due! Judy, tu hai il soffietto. È più adatto di questa… No, non avvicinarti! L’anaconda è abbastanza lunga da prendere anche te. Ti guiderò io.”
Mi sentivo mancare il fiato, mentre Peter indicava vicino a noi e diceva frasi di cui non mi accorgevo. Sentivo i polmoni di mio padre resistere, ma io non ce la facevo più.
Poi l’aria.
“Ecco, così: ora infila il soffietto sotto la coda e fai di nuovo leva.” continuava il ragazzo.
Sembrava che Judy fosse riuscita a toglierci il serpente di dosso, perché aveva alzato il soffietto e fatto un gesto brusco, mentre papà mi aveva lasciato, facendomi rigirare.
“Tutto a posto?” ci chiese mamma cercando di tenermi su.
“Sì.” riuscì a malapena a dire mio padre.
“Ci sei riuscita! Ottimo lavoro, sorellina!” si complimentò Peter.
“Proprio come avevi detto tu: ho osservato l’anaconda e ho saputo come cacciarla.” sorrise lei.
Io stavo ancora riprendendo fiato.
“Non è sajo restare in questo piano; dobbiamo salire le scale.” ci consigliò Nadine.
“Solo che… non credo di poter portare Bernie su, dopo questa.” ammise papà.
Philippe, peux-tu prendre Bernie en haut?” chiese Nadine al fratello.
Lui annuì e mi prese con gentilezza in braccio.
Facemmo una rampa di scale, finché, sul ballatoio, non sentimmo la porta aprirsi.
“Cercate in tutte le stanze! L’aumento di temperatura è stato registrato qui: non c’è dubbio che sia questa la casa!” gridò una voce da anziano, probabilmente quel Mononobe di cui parlavano gli altri.
“Sono gli uomini della Trappola!” sussurrò Nadine.
“Ne sono sopravvissuti?” chiese Judy a bassa voce.
“Quelli sono addestrati a tutto.” rispose lei.
“Mi fa piacere che tu non abbia detto ‘noi’.” scherzò Peter.
“Sembrano pochi. Voi andate a nascondervi e finite il joco. Io provo a fermarli.” ci dice Nadine.
Philippe mi portò per un’altra rampa di scale nella nostra soffitta e mi poggiò delicatamente a terra.
 
Aprirò il tabellone e prenderò i dadi: “Force, Philippe.
Il tiro darà un quattro e un uno, a una casella dalla fine.
Fichu!” imprecherà Philippe, ricordando sorprendentemente bene la sua lingua.
«C’est la fin désormais pour toi, qui deviendras du tout en bois.»
Le mani di Philippe cominceranno a irrigidirsi e diventare marroni.
“NO! Non può essere!” esclamai.
Tu es belle avec les écailles aussi.” sarà l’ultima sua frase prima di immobilizzarsi del tutto.
Ormai quello stupendo e gentile ragazzo sarà diventato di legno.
Anche nella disperazione, sentirò i colpi di fucile al piano di sotto.
“Dobbiamo aiutare Nadine! Non può farcela da sola!” dirà Peter, portandosi Jumanji appresso.
“Pete, aspetta!” cercherò di fermarlo.
“Va’ con lui. Pensiamo noi a Berenice.” mi assicurerà Sarah.
Io annuirò e correrò giù per le scale dietro mio fratello, sapendo che vorrà sperare di usare il gioco contro i soldati.
Appena arrivata nel corridoio, vedrò Nadine a terra, sanguinante dallo stomaco, con il fucile a pochi passi da lei. Dall’altra parte ci sarà Peter, intento a tirare i dadi come previsto.
Correrò appena in tempo per vedere uscire un quattro e un uno, che lo faranno ancora una volta tornare indietro.
«Se in casa hai troppe persone, dei fulmini saranno un’occasione»
Alzerò lo sguardo oltre la ringhiera, solo per vedere due uomini di Mononobe salire le scale.
Ma all’improvviso si formerà una nube densa e grigia sul soffitto e, prima che mi potrò accorgere di cosa starà succedendo, vedrò due fulmini partirne verso le armi di metallo dei due uomini: il piano di Peter avrà funzionato, lasciandoli stecchiti.
“Sono fulmini perenni del Catatumbo! Non possiamo restare in casa, oppure...”
Prima che mio fratello potrà finire la frase, un fulmine colpirà il corridoio da cui sarò appena passata, appiccando un incendio.
“NO! GLI ALTRI SONO RIMASTI SU!” strillerò.
“Non possiamo passare da lì. Dobbiamo sperare che tu faccia una serie di doppi.” mi dirà. “So che è folle, ma dobbiamo tentare. Presto, andiamo in giardino!”
Scenderemo la rampa di scale, finché non incontreremo Van Pelt e Mononobe sull’ingresso.
“Non penserete di poter nascondere la ragazzina?” ci provocherà la piratessa alzando la spada.
Ma Peter sarà più veloce: mollato il gioco, le afferrerà il braccio e condurrà la spada dritta al petto di Mononobe.
Ma quello non sanguinerà.
“Pensavate che potessi essere ucciso da uno degli effetti del gioco come voi? No: io mi sono protetto anche da questo, e ora mi prenderò il gioco per iniziare un’altra partita!”
Il vecchio si avvicinerà al gioco, ma io gli mollerò un calcio che lo farà cadere disteso in soggiorno.
Improvvisamente griderà e si alzerà.
Guardando per terra, vedrò uno scorpione giallo sfuggito a Nadine.
Mononobe comincerà a lacrimare e vomitare, cadendo in ginocchio.
“JUDY, PORTA IL GIOCO FUORI!” mi ordinerà Peter ancora lottando con Van Pelt.
Io gli darò retta e poggerò il tabellone sul sentiero in pietra.
“Andiamo… Fai che sia un dodici!”
Invece sarà un dieci, scomposto in tre e sette.
Sarà la fine.
«Ora, per prendermi le vostre vite, farò cadere un meteorite»
Sarà decisamente la fine, e di tutta Brantford.
Se non avrei convinto Peter, non saremo arrivati a questo punto. Sarà tutta colpa mia.
Ma sarebbe giusto sacrificare una vita innocente per risparmiare una città?
No, dovrà esserci qualcosa di giusto che potrò fare per risolvere tutto: prenderò una pietra dal prato e la lancerò alla finestra della soffitta dei Parrish.
Sarah la aprirà del tutto e io afferrerò altri due oggetti.
“Sarah, dai i dadi a Berenice!”
Il mio sarà finalmente il lancio di dadi che volevo: finiranno nella stanza.
Poco dopo, vedrò Alan far sporgere Bernie dalla finestra.
I dadi finiranno dritti sul tabellone che avrò posizionato apposta, formando un due e un cinque.

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Capitolo 6
*** Vittoria ***


 
Nota dell’autore: “Berenice” in greco significa il titolo.
 
- 26 Dicembre 1994 -
Accendo l’abat-jour.
È l’una e venti.
Più in fretta che posso, esco dalla mia prima stanza per trovare quella dei miei genitori. Più piano che posso, apro la porta e dalla luce del corridoio riesco a vederne i visi: sono giovani e sani.
“Pete.”
Mi volto verso la Judy dodicenne, che ha avuto la mia stessa idea e li guarda dietro di me. E poi la abbraccio, con uno scambio di differenza di statura.
“Saranno tutti a posto? Voglio dire: Philippe era di legno quando è scoppiato l’incendio.” mi dice.
Mi mordo un labbro: “Non lo so. Potrebbe anche non ricordarsi nulla. Però di una cosa sono sicuro: l’artefice di Jumanji non potrà cercarci.”
“Perché?”
“Per le neurotossine degli scorpioni gialli brasiliani: gli impediranno di muoversi del tutto.”
“Ma il tempo è tornato indietro!” si sorprende lei.
“Non per il suo cervello: ricordi: è una clausola che ha inserito ricordare sempre ciò che avverrà durante le partite anche con il riavvolgersi del tempo: questo implica che il suo sistema nervoso non viene riportato indietro. Anche se i suoi neuroni si rigenerassero continuamente, ormai le neurotossine avrebbero devastato il suo DNA. Di conseguenza non potrà ricordarsi di noi.”
“Ma Jumanji esiste ancora, vero? E, se Philippe non si ricorda, sta per tirare di nuovo i dadi, perché siamo tornati all’inizio della partita.”
“O li ha già tirati. Dobbiamo solo sperare che abbia ancora la sua memoria.”
“Il fumo!” esclama Judy a voce un po’ più alta. Chiudo la porta per lasciar dormire i nostri genitori.
“Quale fumo?”
“Bernie ha vinto il gioco lanciando i dadi dalla finestra, ma non ho visto fumo. Devono aver isolato la soffitta dall’incendio. Quindi Philippe dovrebbe ricordare tutto!”
“Allora non sei stata tu a vincere la partita. Dalla finestra… Ottima idea, sorellina.”
“Ma io lo voglio ritrovare! Come possiamo fare?”
“Be’, sappiamo che si chiamano ‘Moreau’: dovrebbe essere semplice ritrovarli da un elenco telefonico francese. Ma da domani voglio fare una chiacchierata con Alan e Sarah.”
 
- 22 dicembre 2010 -
Suona il campanello.
“Va’ ad aprire tu, tesoro, per favore.” chiedo a Bernie, mentre controllo il bilancio dell’azienda.
“Va bene, mamma.” mi dice affettuosamente, allontanandosi dalla sala da pranzo.
So già chi è, naturalmente. Oggi è il giorno in cui, in una realtà parallela, nostra figlia ha vinto il gioco che è stato il mio incubo in un’altra realtà ancora.
“Ciao! Mamma, sono Judy e Peter!”
Mi alzo e vado da loro. Naturalmente, Berenice sa tutto del racconto che ci hanno fatto i fratelli Shepherd sedici anni fa. Abbiamo deciso che si tratta di un’avventura troppo importante per non regalalela, oltre al fatto che così la mettiamo in guardia nel caso le capitasse in mano quell’affare.
“Ciao, ragazzi! È un piacere rivedervi!” dico mentre li bacio sulle guance. “E questo giovane chi è?”
“Ti presento Philippe, il mio fidanzato.” me lo presenta Judy.
“Lieto di rivederLa.” mi dice lui in un inglese esperito.
“Quel Philippe?”
“Sì, proprio lui.” mi sorride Judy.
“Ma è grandioso! Allora vieni dalla Francia!” gli dice mia figlia.
È merito di Peter e Judy se Bernie è sempre così entusiasta anche con ospiti nuovi: sono stati loro a descriverci la situazione che si sarebbe potuta creare se non avessimo insegnato a nostra figlia a dare fiducia alle persone finché non compiono azioni sbagliate, senza giudicarle perché hanno molti soldi o per altre questioni superficiali. Le abbiamo spiegato fin da bambina che i soldi possono essere usati anche per aiutare gli altri, ma che prendersi cura di sé è più che giusto. Passando molto tempo con Carl Bentley (pace all’anima sua), si è accorta che si può essere ricchi e umani al tempo stesso e ha imparato ad apprezzare la famiglia in cui è nata.
“Perché mia figlia strilla ai miei amici senza chiamarmi?” domanda Alan arrivando dalla biblioteca.
“Come stai, Alan?” gli chiede Judy.
“Non potrei vivere in un mondo migliore!” è la sua risposta.
 
- 3 giugno 2014 -
Nadine Shepherd si rigirò nel letto a guardare il brillante zoologo che aveva sposato.
Erano più di tre anni che lo conosceva, eppure lui pareva conoscerla da molto di più.
Certo, suo fratello le aveva raccontato la bizzarra partita che avrebbero giocato lui e Peter in un altro universo, fin da quand’era bambina, eppure lei non ci aveva mai creduto del tutto.
Non aveva potuto sperimentare di persona se fosse vero perché suo fratello aveva gettato il gioco di nuovo in mare con legati dei sassi, ma il fascino negli occhi di Peter la prima volta che Philippe li aveva presentati era incredibilmente nostalgico.
Forse era solo il suo mestiere che gli faceva vedere la belva che si nascondeva sotto il carattere gentile di Nadine e la rendeva così semplice ai suoi occhi.
O forse no.
Ad ogni modo, Nadine tornò a dormire.
 
- 20 ottobre 2081 -
Tum-tum… tum-tum… tum-tum… tum-tum… tum.
 
 
NdA: Dedico la storia alla ragazza che più mi ha alleggerito il cuore.

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