Essere Padre

di piccina
(/viewuser.php?uid=13141)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** TORONTO ***
Capitolo 2: *** PREPARATIVI ***
Capitolo 3: *** VERSO PITTSBURGH ***
Capitolo 4: *** ARRIVATI ***
Capitolo 5: *** BRITIN ***
Capitolo 6: *** EQUILIBRIO INSTABILE ***
Capitolo 7: *** CONFIDENZE ***
Capitolo 8: *** DI SCUOLA E ALTRI RICORDI ***
Capitolo 9: *** DISGELO? ***
Capitolo 10: *** SCOMODE VERITA' ***
Capitolo 11: *** RIPENSARE LA VITA ***
Capitolo 12: *** STANCHEZZA ***
Capitolo 13: *** FAMIGLIA ***
Capitolo 14: *** LOFT ***
Capitolo 15: *** TEMPESTA ***
Capitolo 16: *** VALDO SCHOOL ***
Capitolo 17: *** MANIE ***
Capitolo 18: *** IBIZA ***
Capitolo 19: *** CONOSCERE O IMMAGINARE? ***
Capitolo 20: *** PERSONALE ***
Capitolo 21: *** FLORIDA ***
Capitolo 22: *** REGALI DI SAN VALENTINO ***
Capitolo 23: *** EDUCAZIONE SESSUALE ***
Capitolo 24: *** DAPHNE ***
Capitolo 25: *** SALUTI ***
Capitolo 26: *** ORRORE ***
Capitolo 27: *** DECISIONI ***
Capitolo 28: *** NERVOSISMO ***
Capitolo 29: *** CONSAPEVOLEZZA ***
Capitolo 30: *** CENA CON DELITTO (mancato! ;) ) ***
Capitolo 31: *** LAVORO MATTO E DISPERATISSIMO ***
Capitolo 32: *** LA VITA VA AVANTI ***
Capitolo 33: *** ALTI E BASSI ***
Capitolo 34: *** FERIE ***
Capitolo 35: *** LE FERIE SONO FINITE ***
Capitolo 36: *** LITIGARELLI, ASSAI ***
Capitolo 37: *** CARO AFFITTI ... ***
Capitolo 38: *** MIRABILE DICTU ***
Capitolo 39: *** SUSAN ***
Capitolo 40: *** DA TRE A QUATTRO ***
Capitolo 41: *** DI LETTINI E ALTRE FACCENDE ***
Capitolo 42: *** PRESENTAZIONI ***
Capitolo 43: *** SIEDITI, GUS ... ***
Capitolo 44: *** PROVE DI QUOTIDIANITA' ***
Capitolo 45: *** CENA E ... ***
Capitolo 46: *** COMBATTERE O ARRENDERSI? ***
Capitolo 47: *** POTEVANO ESSERE NOTIZIE MIGLIORI ***
Capitolo 48: *** TENSIONE ***
Capitolo 49: *** Tapì Uan! ***
Capitolo 50: *** VACCINAZIONI ***
Capitolo 51: *** COLAZIONI ***
Capitolo 52: *** IMPREVISTI ***
Capitolo 53: *** SOLI! ***
Capitolo 54: *** VIDEOCHIAMATE ***
Capitolo 55: *** TUONI ***
Capitolo 56: *** LAVORO DI SQUADRA ***
Capitolo 57: *** FUMETTI ***
Capitolo 58: *** UOVI ***
Capitolo 59: *** POST SBORNIA ***
Capitolo 60: *** TESTA O CUORE? ***
Capitolo 61: *** INTERROGATORI ***
Capitolo 62: *** BUONE NOTIZIE ***
Capitolo 63: *** MANCA POCO ***
Capitolo 64: *** FINALMENTE SUSAN ***
Capitolo 65: *** UNI E MATERNA ***
Capitolo 66: *** PAPI E PAPA' ***
Capitolo 67: *** COSI' ALL'IMPROVVISO ***
Capitolo 68: *** MONTAGNE USSE ***
Capitolo 69: *** RESA DEI CONTI ***
Capitolo 70: *** DEMOLIZIONI ***
Capitolo 71: *** NUOVO INCARICO ***
Capitolo 72: *** Dr. HAMILTON ***
Capitolo 73: *** "ATISSA" ***
Capitolo 74: *** PENDOLARI ***
Capitolo 75: *** "MINCHIA JUSTIN!" ***



Capitolo 1
*** TORONTO ***


Ho scopero QAF da pochissimo, con circa dieci anni di ritardo e ne sono stata irretita. E' la prima FF che pubblico su EFP, spero che a qualcuno venga voglia di leggere e di lasciare un piccolo commento. Non ho ancora idea di quanti capitoli ci aspettino, ma mi auguro di aggiornare con una certa frequenza. Buona lettura. 

TORONTO

Non aveva aspettato il giorno seguente per prendere l’aereo, dopo l’ennesima telefonata sconfortata e angosciata di Linz, era salito in auto e adesso, dopo sette ore di guida praticamente ininterrotta, era arrivato a Toronto. Lo sciagurato non era a casa, era uscito sbattendo la porta e aveva lasciato le sue mamme sgomente e turbate. Per fortuna JR non era presente quando aveva alzato le mani strattonando prima Linz e poi Mel che cercava di calmarlo. Questo era veramente troppo, questo non poteva essere tollerato, per questo era lì: per rimettere in riga suo figlio.
Aprendo la porta di casa non si aspettava di trovarlo seduto in poltrona ad aspettarlo. La figura imponente, le gambe incrociate, lo sguardo serio che incontrò appena superata la porta, lì per lì lo intimidirono. Un effetto che suo padre otteneva senza sforzo quando era incazzato. Dopo un attimo di titubanza nel quale aveva distolto lo sguardo e abbassato gli occhi, aveva sfacciatamente dato mostra di ignorarne la presenza, non era più un moccioso cacasotto e anche quel fenomeno di suo padre se ne sarebbe accorto. Si era rivolto, quasi urlando, a sua madre che, muta, appoggiata allo stipite dell’arco della sala, assisteva alla scena.  
“Lo hai chiamato! Ma certo, hai chiamato il santo Brian, l’angelo vendicatore, l’infaticabile protettore della povera Linz. Statemi bene”
Non aveva fatto in tempo ad avvicinarsi alla scala per guadagnare il piano di sopra e camera sua, dove intendeva chiudersi, che si era trovato suo padre a ostruirgli il passaggio. Non si era neppure accorto che si fosse alzato dalla poltrona e adesso era lì, fermo, che lo fissava negli occhi dall’alto in basso. Per quanto fosse cresciuto e fosse mediamente più alto dei ragazzi della sua età era ancora sensibilmente più basso di suo padre, che in quel momento stava volutamente sfruttando i centimetri che li dividevano per metterlo in difficoltà.
“Gira le chiappe, torna in sala e mettiti seduto” gli aveva ordinato senza scomporsi. “Tua madre ed io abbiamo da dirti alcune cosette”
“Non mi interessa, lasciami passare” aveva ribattuto cercando di scansarlo con un piccolo spintone. Rapidissima la mano di suo padre lo aveva afferrato fra il collo e la spalla, stringendo e costringendolo a piegarsi per il male. Con una leggera spinta l’aveva costretto a voltarsi e a dirigersi verso il divano.
“Muto e apri bene le orecchie, chiaro? Oppure da domani canterai in falsetto, parola mia” aveva aggiunto mettendolo a sedere con poca grazia. Quindi si era aggiustato la giacca e aveva preso posto sulla poltrona davanti a lui. Quando lo vide, furibondo, ma seduto e zitto, Linz ebbe la certezza di aver fatto bene a chiedere l’intervento di Brian, per quanto Mel non fosse così convinta. Da troppi mesi avevano perso contatto e controllo con Gus, diventato un incattivito e intrattabile adolescente e la situazione stava degenerando, era evidente che né lei né Mel riuscivano a scalfire la corazza di dolore e cattiveria che si era posata sul ragazzo. Il malessere era evidente anche a scuola, con voti che peggioravano, note comportamentali, insofferenza agli allenamenti che invece lo avevano appassionato fino a pochi mesi prima.
La stanza era rimasta per qualche minuto nel più profondo silenzio. Linz faceva fatica a trattenere le lacrime, mentre Brian sembrava perfettamente padrone di sé e incredibilmente calmo, forsanche un po’ scocciato e Gus osservava, prima uno e poi l’altra, con aperto sguardo di sfida. Si chiese come mai Mel non fosse presente, quando c’era da fargli il culo non mancava mai, men che meno se c’era anche suo padre, cosa che, a dire il vero, avveniva di rado.
In quel momento non glielo avrebbe mai concesso, non lo avrebbe mai ammesso, ma era difficile che suo padre si incazzasse, non era un rompicoglioni, anzi spesso era stato un insospettabile alleato nel convincere le mamme a lasciarlo respirare e a non stargli troppo addosso.
Strano che Mel lasciasse soli i suoi genitori biologici a vedersela con lui. Le prima parole che avevano rotto il silenzio e che provenivano dalla voce pacata e determinata di Brian avevano svelato il mistero.
“Domani partiamo, vieni a Pittsburgh e mercoledì inizi alla St Jeams. Per quest’anno avrai a che fare con me e vedremo se ti risulterà così facile alzare le mani quando ti si chiede un comportamento civile”
“Tu sei pazzo” era esploso il ragazzo.
Brian aveva annuito, aveva puntato la lingua contro la guancia prima di rispondere: “Lo pensano in molti, ciò non toglie che ti sei messo nella merda e da domani vieni e a vivere con il tuo caro papà” aveva concluso con ironia. “Non ci penso neanche”  
“Gus …” provò intervenire Linz prima di essere assalita dalle parole del figlio: “Non ti vado più bene e mi scarichi a papà. Brava, brave, tenetevi JR. Lei sì che va bene, brava giudiziosa, femmina. Se poi diventa lesbica avete fatto bingo. Vaffanculo a te e a Mel. Dov’è la grande lesbica con le palle? A scaricare il figlio venuto male ci ha lasciato solo te eh?”
Linz aveva sgranato gli occhi, aperto la bocca, ma non era riuscita a far uscire neppure un suono. Le parole di Gus l’avevano schiaffeggiata così forte da toglierle il respiro. Forse stavano sbagliando, forse non era una buona idea mandarlo da Brian, forse era colpa loro se Gus stava male, forse non si sentiva amato, forse … In meno di mezzo secondo stava per mettere in discussione tutto, tutti e la decisione che avevano preso insieme, lei, Mel e Brian per cercare di trovare una soluzione al dolore di Gus: allontanarlo da Toronto, da quella casa dove non riuscivano più a comunicare se non litigando, ferendosi e scappando. Brian non le lasciò il tempo di far percepire al figlio quella ondata di pensieri confusi, amareggiati, spaventati e pieni di sensi di colpa.
Era convinto che portalo con sé a Pittsburgh fosse la scelta giusta, non era mai stato un padre tradizionale, ma a quel figlio voleva bene e sentiva che in questo momento aveva bisogno di lui, aveva bisogno di confrontarsi con un uomo, aveva bisogno di scontrarsi con chi lo amava, ma riusciva a non farsi schiacciare da quell’amore. Aveva bisogno di suo padre e lui ci sarebbe stato, che Gus lo volesse o meno è con lui che avrebbe dovuto fare i conti nei prossimi mesi.
“Oliver Twist, risparmiati la sceneggiata strappalacrime. Le tue mamme non ti stanno scaricando, abbiamo - e sottolineo abbiamo - deciso che per un po’ starai con me. Punto. Fine.”
“E di cosa ne penso io non ve ne frega un cazzo?”
“Esatto” aveva replicato serafico il padre “proprio così, non ce ne frega un cazzo. Sta ancora a noi decidere per il tuo bene. Quindi puoi venire con me incazzato o facendo buon viso, per me è lo stesso. Adesso vai ad aiutare Mel a finire di fare i tuoi bagagli.”
“Col cazzo”
“Ok, ma non venire a chiedere a me di ricomprarti qualcosa che hai lasciato qui, ne farai a meno.”
“Col cazzo che vengo via con te!” aveva chiarito il figlio.
“Puoi scommetterci, figliolo” gli aveva risposto innalzando leggermente le sopracciglia, poi senza degnarlo di uno sguardo si era rivolto a Linz, che sembrava stare in piedi solo perché sorretta dalla parete alla quale si era appoggiata “Mi fai compagnia per una sigaretta?”  e si era allontanato verso la porta finestra che si apriva sul giardino, prima di uscire aveva aggiunto:
“Hai tempo fino a domani mattina per chiedere scusa a tua madre. A tutte e due.”
“Vaffanculo”
“Non mancherò appena saremo arrivati a casa da Justin”
Inutile, sapeva per esperienza che non gli avrebbe mai lasciato l’ultima parola, sbattè con stizza i piedi sul pavimento, mentre lasciava la stanza e saliva in camera.
Avrebbe fatto i bagagli, non aveva altra scelta, ma suo padre si sarebbe pentito di averlo trascinato a Pittsburgh.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** PREPARATIVI ***


Avete letto il primo capitolo circa in trenta, spero vi sia piaciuto. Mi farebbe tanto piacere se mi lasciaste un commento. Cosa ne pensate di Brian in questa veste? A presto. 

PREPARATIVI


“Brian, sei sicuro che sia opportuno trattarlo in questo modo?” L’uomo aveva annuito, aspirando una profonda boccata di sigaretta.
“Vi serve uno stacco, vi state massacrando. E Gus cerca sfacciatamente di farvi sentire in colpa, il guaio è che ci riesce, lo stronzo. A calci nel culo dovreste prenderlo quando fa il povero figlio incompreso e abbandonato. Invece vi viene il magone e iniziate a pensare che magari ha pure ragione. Avete cambiato Stato, lasciato famiglia e amici, abbandonato il lavoro e ricominciato tutto da capo per lui e sua sorella e gli permettete di strumentalizzarvi in questo modo. Si dovrebbe vergognare. Ha bisogno di un po’ di papà egoista e insensibile. Fidati.”
“Ho paura che tu sia troppo duro, Brian. E se finisse per odiarci? E se pensa veramente che lo stiamo scaricando?” aveva risposto, titubante, la sua amica.
“Stronzate” aveva replicato, scrollando le spalle “ e poi mi pare che la cura lesbica non stia dando grandi risultati. Ti ha messo le mani addosso, vogliamo che continui?”
“No, non vogliamo.” Era intervenuta Mel, che li aveva raggiunti. “Dobbiamo riportarlo a miti consigli, Linz” aveva aggiunto passando un braccio sulle spalle della moglie e tirandola a sé “e credo che, per una volta, Brian abbia ragione”
“La fine del mondo è vicina” aveva commentato e si era messo a guardarsi  intorno per cercare dove poter spegnere il mozzicone. Linz non poté fare a meno di sorridere. Brian non ne avrebbe mai fatta passare una a Mel. Era tradizione, anche se da anni i due andavano invece, nella maggior parte dei casi, sorprendentemente d’accordo. Ne era stupita ancora adesso.
“In sto cazzo di giardino c’è modo di spegnere una sigaretta o vi devo lasciare la cicca sul prato?” era sbottato.
“Troglodita” era stata la considerazione di Mel, mentre gli porgeva un posacenere.
Gus non era voluto scendere a mangiare e non era uscito dalla sua stanza neanche quando JR, tornata a casa,  aveva cercato di convincerlo.
Jenny adorava Brian, ma questa volta era furibonda. Non voleva che suo fratello partisse e la lasciasse a Toronto. Pensava fosse colpa sua l’idea di portare via Gus per un intero anno scolastico. Gli aveva tenuto il muso per tutta durata della cena.
“Jenny, mi aiuti a sparecchiare?”
Controvoglia la bambina lo aveva seguito in cucina.
“Sei arrabbiata con me?”
“Sì”
Diretta la domanda, diretta la risposta.
“Non è per sempre ed è per il suo bene.”
“Un anno è lunghissimo.”
“Ma ci sono le vacanze e tu scendi una volta al mese da papà, no?” 
Aveva annuito poco convinta, ma non si era scostata quando Brian le aveva scompigliato i capelli con una carezza. 
“Prima o poi anche papà mi porterà via?”
“Se non ti metterai a cioccare come tuo fratello non credo proprio e poi papà e Ben sono troppo buoni, mi sa che le mamme ti manderebbero da me e non da lui” Le aveva risposto sorridendo e si era accucciato per mettersi alla sua altezza. “Non sto rapendo Gus. Lo abbiamo deciso insieme, le mamme ed io. Pensiamo che sia meglio per tuo fratello stare un po’ a Pittsburgh. Gli mancherai anche tu.”
Jenny aveva tirato su con il naso, le veniva da piangere e si era fatta avvolgere dall’abbraccio di Brian. “Hai idea di cosa stia succedendo a tuo fratello?” le aveva chiesto. Si era limitata a dire no, con un gesto della testa. 

Prima di andare a dormire era passato e aveva provato ad aprire la porta. Contrariamente a quanto si aspettasse non era chiusa a chiave. Gus era sdraiato sul letto a pancia in su e fissava il soffitto. “Vattene” si era limitato a dire, senza muovere neppure un muscolo. Suo padre sembrava non aver sentito, perché si era avvicinato e si era seduto.
“Come sempre rispettoso dei desideri altrui. Cosa cavolo vuoi?” l’aveva apostrofato il figlio, senza degnarsi di guardarlo.
“Ho avuto anche io quindici anni e sono stato anche io incazzato con i miei genitori, con qualche ragione in più rispetto a te, ad ogni modo avremo tempo di indagare sulle tue motivazioni. Ora ci tenevo a dirti che mi ricordo quanto si sia coglioni quindi non farti venire in mente alzate d’ingegno tipo quella di dartela a gambe durante la notte, perché ti vengo a cercare, ti trovo e ti faccio mangiare le tue palle. E adesso prova a dormire perché domani vorrei partire abbastanza presto. Justin ci aspetta, cerchiamo di arrivare prima di cena”
“Certo, Signore e Padrone” aveva risposto strafottente, il padre non aveva abboccato alla provocazione e si era alzato per andarsene, ma prima di raggiungere la porta si era voltato.
“Ancora una cosa, Gus. - Il ragazzo non si era accorto di aver alzato lo sguardo verso il padre - Ti voglio bene” e si era chiuso la porta alle spalle.

Tutta colpa di Justin.
Tutta colpa di Justin. Sunshine. Il suo ragazzino, ormai uomo fatto da un pezzo. Il suo unico amore.
Tutta colpa di Justin se da anni diceva (con parsimonia) ti amo e ti voglio bene senza usare un antiemetico.
Tutta colpa di Justin, suo marito. 

“E’ tutta colpa tua” gli aveva rinfacciato acido al telefono, qualche minuto dopo.
“A chi hai detto ti voglio bene, ‘sta volta?” gli aveva chiesto ridendo.
“A Gus” 
“A Gus lo dicevi anche prima”
“Anche prima che mi rammollissi a causa tua, intendi?”
“Esattamente”
“Vero. Solo che gliel’ho detto pure stasera, anche se lo metterei nel tritacarne da quanto mi fa incazzare”
“Davvero incredibile, considerando che sei suo padre”
“Justin?”
“Eh”
“Vaffanculo”
“Per quello aspetto te”
“Farai bene a farlo”
Justin godette di questa piccola manifestazione di possessività da parte del marito e come sempre fece in modo di non sottolinearla. Brian si imbarazzava ancora quando gli succedeva e probabilmente non avrebbe mai smesso, pensò Justin con tenerezza. 
“Per che ora contate di arrivare?”
“Per cena”
“Ottimo, preparo costine d’agnello e carciofi, il suo piatto preferito”
“Guarda che non viene in vacanza premio”
“Lo so, ma non essere eccessivo. In ventiquattro ore gli hai sconvolto l’esistenza”
“Se l’è sconvolta facendo il coglione”
Justin provò quasi pena per  Gus. Non è bello avere a che fare con Brian Kinney incazzato e decisamente suo padre era determinato a fargliele cagare tutte le idiozie che aveva detto e fatto negli ultimi mesi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** VERSO PITTSBURGH ***


La colazione si era consumata in una sorta di armistizio fragile. Sua sorella gli sarebbe mancata e Gus non voleva salutarla durante una lite.
Aveva nascosto la rabbia e la frustrazione quando JR, insieme a Mel, lo aveva aiutato a caricare i bagagli sull’auto.
Le sue mamme erano tristi e si vedeva, suo padre, come al solito, sembrava indifferente al piccolo dramma che si stava consumando e fumava una sigaretta guardando svogliatamente le attività di carico.

“Attenta che se mi righi la macchina, ti tocca farmela riverniciare e non so se puoi permettertelo”
“Fottiti Brian”
“Ti avevo detto che facevo io, ma ti sei impuntata: solita lesbica ebrea e cocciuta”  
Una gomitata aveva messo fine alla discussione.
“Lasciala in pace, stronzo”
“Grazie Brian per esserci corso in auto. Grazie Brian per scoppiarti più di mille miglia in due giorni. Grazie Brian per prenderti quest’amabile rompicoglioni in casa dopo che ci siamo impantanate nell’adolescenza dell’unico maschio del nostro gineceo”
“Dacci un taglio. È anche tuo figlio.”
“Puoi scommetterci, se no con il cazzo che sarei qui” Poi l’aveva abbracciata.
“Coraggio Linz, puoi piangere. E’ uno dei pochi, veri, privilegi di voi lesbiche”
“Non voglio piangere. Non adesso. Sono preoccupata e mi manca già” aveva risposto posando gli occhi sulla schiena di Gus, intento a incastrare le valige nel vano bagagliaio.
“Andrà tutto bene e un po’ di lontananza servirà a voi e a lui. Per prima cosa lo rimetto in bolla. Adolescente quanto vuole, incazzato quanto vuole, ma se prova a comportarsi nuovamente da incivile, lo spezzo in due. Ristabilito un comportamento urbano, capiremo cosa è che l’ha ridotto così. E sì, io sono bastardo, ma ricordati che c’è anche Justin. Praticamente sarà come se ci foste voi. E’ una mamma perfetta”
Aveva appoggiato il capo sul petto di Brian e aveva sospirato.
“Speriamo tu abbia ragione”
“Io ho sempre ragione”

Si era fatto abbracciare dalle sue mamme senza ricambiare nessuna delle due. Entrambe gli avevano lasciato un bacio sulla fronte.
“Fai il bravo” gli avevano sussurrato.
“Come potrebbe essere diversamente alla corte di Sua Maestà Kinney” aveva risposto sprezzante e si era infilato in auto, guardando ottusamente davanti a sé.
“Gli passerà. Vi chiamiamo quando siamo arrivati” aveva detto loro dal finestrino abbassato mentre stava imboccando il vialetto di uscita.
Le prime tre ore di viaggio erano trascorse nel mutismo più totale, solo la musica dell’autoradio a rompere il silenzio.
Gus aveva mantenuto una postura rigida, lo sguardo fisso in avanti per non correre il rischio di posare gli occhi sul padre che guidava tranquillo, senza dare mostra di patire il suo atteggiamento sostenuto.
Si ritrovò a considerare che quantomeno non lo costringeva a parlare e a cercare di sviscerare ogni sospiro come facevano quelle due. Siccome gli parve un pensiero troppo carino da rivolgere a quello stronzo di suo padre che lo stava praticamente deportando, fece una smorfia e sollevò le spalle sbuffando.
Senza interpellarlo Brian si infilò nella stazione di servizio e fermò l’auto.
“Mi scappa da pisciare e ho bisogno di caffeina.”
Aveva annuito ed era sceso dalla macchina, precedendo suo padre che si era fermato a fare rifornimento.
Agli orinatoi si erano trovati fianco a fianco e Gus aveva notato, per l’ennesima volta, la sfrontatezza di suo padre, naturale come una seconda pelle, che si esprimeva in una carica erotica manifesta perfino mentre pisciava in un bagno d’autogrill.  Era percepibile persino lui che era suo figlio. Neanche ce l’avesse solo lui, si trovò a pensare.
Affascinava tutti suo padre, era uomo, era maschio ed era insopportabilmente frocio.
Come cazzo era possibile? Come cazzo si fa con un padre come lui, una dannata checca, che piace a tutte le tue amiche? Alle mamme di tutte le tue amiche. E porca puttana, anche ai tuoi amici.
Lo avrebbe volentieri preso a pugni, mentre lo guardava chiudersi la patta e lavarsi le mani.
“Mi prendo un caffè, vuoi qualcosa?”
“Ho fame”
“E allora mangia” e con un gesto della mano gli aveva mostrato l’offerta di sandwich esposti.   

“Ma quanto diamine di cibo ingurgiti?” gli aveva chiesto sinceramente stupito dopo che Gus aveva finito di sbranare, in auto, il terzo panino.
Il figlio l’aveva squadrato con occhi sgranati.
“Papà hai detto diamine!!”
“Cazzo, ho detto diamine. Questo è il risultato a stare 24 ore filate con due lesbiche”
“Dillo a me” aveva risposto sottovoce Gus.
Brian aveva alzato il sopracciglio perplesso, che razza di commento era?  
Qualcosa stonava, ma aveva preferito non replicare.
Gus finalmente gli aveva rivolto la parola e per la prima volta, da quando si erano visti il giorno precedente, l’aveva chiamato papà.
“Vuoi cambiare CD? Ce ne sono un po’ sotto il sedile” si era limitato a chiedergli.
“Mmmh” aveva risposto il ragazzo e si era messo a trafficare per vedere se ci fosse qualcosa che gli piacesse.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** ARRIVATI ***


ARRIVATI

“Hai mancato l’uscita”
“Per niente”
“Hai appena superato lo svincolo per casa. Se non torni indietro usciamo da Pittsburgh ”
Suo padre non aveva risposto, ma un sorriso appena accennato gli aveva modificato l’espressione.
“Non staremo andando a Britin?” aveva chiesto realizzando sgomento.
“E dove se no?”
“Al loft, per esempio” aveva replicato con quel tono supponente che lo faceva pericolosamente assomigliare a lui.
“Sì, certo. In tre, accatastati in un loft con una sola camera da letto. Davvero geniale”
“Non puoi farmi questo. In campagna, a mezz’ora da Pittsburgh! Nel nulla”
“A parte che posso e infatti lo sto facendo, non ti è sempre piaciuto stare a Britin?”
Si era passato una mano sul viso, quest’anno con il padre sarebbe stato davvero lungo. Iniziava solo adesso a immaginare quanto. Aveva provato a rispondere calmo.
“Certo, è una figata d’estate, quando sono in vacanza. Quando abbiamo ospiti – suo padre e Justin erano sempre stati più che ben disposti a invitare i suoi amici – quando si possono sfruttare la piscina, il campo da tennis e sembra di essere in un villaggio vacanze, ma viverci… Ci metterò un secolo solo per andare a scuola e anche se mi farò degli amici loro saranno in città e io dovrò tornare qui. Non c’è un cinema, un bar, un cazzo di niente nei dintorni. Mi vuoi morto.”
Brian considerò che alla sua età e anche per parecchi anni dopo aveva pensato lo stesso.
D’altro canto al loft non potevano stabilirsi in pianta stabile, non c’era un posto per Gus e per quanto a lui sembrasse irrilevante per un adolescente i propri spazi sono fondamentali, inoltre considerato l’andazzo che aveva assunto a Toronto un po’ di sana vita di campagna non gli avrebbe fatto male, almeno i primi tempi.
Per quanto non riuscisse a crederci suo padre non intendeva torturarlo o dimenticarsi della sua età. Pensava che fra qualche settimana, raggiunto un equilibrio, per i weekend e qualche volta in settimana, quando gli fosse servito fermarsi in città, il loft poteva andare più che bene, ma non era questo il momento di dirlo a Gus.

“A scuola ti ci porto io andando al lavoro, così controllo anche che entri, coglioncello.
Mel mi ha detto che hai pure iniziato a marinare. Complimenti.
Mi costa un occhio della testa farti studiare in questa fottuta scuola privata e non sono abituato a fare investimenti in perdita, chiaro?
Alla St Jeams non sei l’unico che arriva dall’hinterland e sono ancora tutti vivi, pare. Ce la farai”
“Ho capito. Sono in galera”
“No, sei a casa. Forza, scendi” gli aveva detto tirandogli un affettuoso scappellotto.

Mentre discutevano erano arrivati e aveva appena fermato la macchina nel vialetto davanti casa. Justin doveva aver sentito il rumore dei pneumatici sulla ghiaia perché era sulla porta sorridente che li guardava.


“Ciao Jus”
“Ciao Gus. Ben arrivato. Entra che a scaricare ci pensiamo Brian ed io”
Lo aveva abbracciato brevemente, come si conviene fra uomini e non fra froci, come amava sottolineare il ragazzo da qualche tempo. Giusto per il gusto di menarla a suo padre che di tutto si poteva accusare, ma non di essere una checca sdolcinata.
Di solito si beccava uno scappellotto da Brian che lo agguantava bloccandolo e gli strofinava le nocche sulla testa, fino a quando Gus chiedeva pietà.  E poi ridevano, i due Kenney.
Justin sperò che tornassero presto a farlo.
Gus non se lo era fatto ripetere due volte ed era sparito dentro casa.
“Ben tornato” aveva detto sulle labbra del marito che gli aveva cinto la vita “com’è andato il viaggio?”
“Piuttosto silenzioso e lungo. Ho il culo piatto dopo tutte queste ore”
Justin allungò le mani sulle chiappe e tirò un pizzicotto.
“No, non mi pare piatto, in ogni caso più tardi controllerò” aveva riso, sciogliendosi dall’abbraccio e dirigendosi verso il portabagagli.
Brian era rimasto qualche momento a guardarlo sorridendo e poi era andato ad aiutarlo.
“Come stanno le ragazze?”
“Linz e Mel in crisi nera. Deve avergli fatto vedere i sorci verdi nelle ultime settimane, più di quanto ci abbiano voluto far credere al telefono. Non ho idea di cosa stia passando nella testa di Gus – aveva aggiunto quasi soprappensiero, prima di continuare -  e Jenny è incazzata perché ho portato via suo fratello. A parte questo, tutto bene”
“Perfetto, direi”
“Già”
“Ti fai una doccia?”
“Sì, ne ho bisogno. Mi fai compagnia?”
“Sei sempre il solito. Meglio di no, però, dopo 600 miglia, sarai stanco: ormai hai una certa età” non aveva ancora finito la frase che già stava scappando. Non abbastanza veloce per evitare di venir acchiappato alla maglia e riportato indietro.
“Cosa cazzo hai detto?”  stringendolo in un abbraccio che non permetteva fughe. Le prese in giro del marito lo accarezzavano come una mano esperta, ma una parte di sé tremava, come un tempo, come sempre, all’idea del tempo che passava e ai suoi quaranta anni suonati da un po'.
Justin aveva alzato il viso con l’espressione divertita che aveva conservata intatta del ragazzino diciassettenne che lo provocava e gli teneva testa.
“…che sarai stanco”
“Quello che hai detto dopo, stronzetto”
“Che ho la cena sul fuoco e non posso se no si brucia”
“Avevo capito un’altra cosa” aveva risposto appoggiando la fronte sulla sua e stando al gioco.
“Sei duro d’orecchi” e gli aveva lasciato una carezza sul viso.
“Non ti sei fatto la barba” aveva considerato passando un dito sul profilo della mascella di Brian.
“ Mi sono scordato il rasoio, pensavo di farmelo imprestare da Mel… Non ci crederai, ma non lo usa”
“Vai a farti la doccia, scemo. Porto io le valigie in camera di Gus”

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** BRITIN ***


Con questo capitolo vi auguro un buon sabato sera. Se lasciate un commento (va bene anche una stroncatura) mi fate molto piacere. Ciao!

Con i capelli bagnati e con indosso solo i pantaloni della tuta si era fermato a osservarlo prima che il ragazzo si accorgesse della sua figura appoggiata allo stipite. Erano passati circa sei mesi da quando Gus era stato lì per più di un we, un mese, come d’abitudine, durante le vacanze estive. Era stato in quell’occasione che si era accorto che era cambiato, da Toronto non era arrivato il suo bambino, ma uno strano mutante che era cresciuto di dieci centimetri in due mesi e mezzo, che stava modificando la voce, che a volte si incupiva per scordarsene due istanti dopo e ridere con una risata acuta e cristallina dimentica dei toni bassi di qualche minuto prima. Le spalle si erano allargate e la vita fatta più stretta, ma l’andatura dinoccolata e scomposta tradiva ancora poca familiarità con le nuove dimensioni. Era bastato un semestre per restituirgli un ragazzo più in confidenza con il suo corpo, ma dal casino immane nella testa.
Cosa diavolo ti succede, Gus?


“Il letto è nuovo”
Aveva annuito. In realtà era stata un’idea di Justin.
“Sai cosa ho comprato come prima cosa appena ho avuto una casa tutta mia? Un letto matrimoniale, ne avevo abbastanza di stare stretto come una sardina e di avere sempre mezzo piede che spuntava dal fondo. Sei diventato grande anche tu. Una piazza e mezzo ci è sembrata più adatta, pensavamo ti avrebbe fatto piacere. Sono ingombrante, come dice Justin, e anche tu mi sembri sulla buona strada”  
“Non sono alto come te”
“Non ancora, no”
Gus si era lanciato con un balzo sul materasso, allargando braccia che debordavano dai lati.
“Già che c’eri potevi comprarlo direttamente a due piazze”
Brian aveva riso. “Ci avevo pensato, ma Justin ha obiettato che fosse un invito troppo esplicito a condotte sconvenienti per la tua giovane età” e gli aveva fatto un sorriso allusivo. Non aveva idea se Gus avesse già avuto qualche esperienza, ma sperava che avessero abbastanza confidenza perché gliene parlasse, se necessario. Fino a un anno prima ci avrebbe messo la mano sul fuoco, adesso non ne era più così sicuro. Suo figlio era scivolato lontano e solo a tratti gli sembrava di riuscire ancora ad avere un contatto. Prima non gli era sfuggito il sussurro, che di certo Gus non voleva far sentire: sei ingombrante, sì.
“Vado a finire di vestirmi. Lavati le mani e scendi ad apparecchiare, che fra cinque minuti si cena”
Quando era entrato in cucina Justin stava spegnendo il fuoco sotto una pentola di terracotta.
Aveva preso tovagliette, piatti e stoviglie dal mobile e le aveva disposte sulla penisola. Suo padre era fissato con i banconi e gli sgabelli alti e li aveva voluti anche a Britin. L’attrezzatura della cucina invece era stata tutta in mano a giovane marito che si era sbizzarrito. Era equipaggiata meglio di quella di un ristorante medio. Debbie gliela invidiava da matti.
“Cosa si mangia?” aveva chiesto finendo di sistemare i bicchieri.
“Agnello con carciofi” aveva risposto il biondo alzando il coperchio e lasciando che l’aroma si diffondesse nell’ambiente. Gus non aveva nascosto il suo apprezzamento.
“Fantastico. Jus sei un grande”
“Ricordalo a tuo padre”
“Cosa mi deve ricordare?” aveva domandando il consorte avvicinandosi.
“Che hai un culo pazzesco ad avermi incontrato e poi sposato”
“Come se mi avessi lasciato scelta” aveva risposto Brian inarcando le sopracciglia con la sufficienza che il marito si aspettava. Aveva provato, anni prima, a modificare la sua natura, a mordersi la lingua, a essere politicamente corretto e lo aveva quasi perso.
“Eppure non ricordo di essere stato io a piombarti a casa per pregarti di tornare. Forse la memoria mi inganna, ma rammento un tuo blitz a NY” si era beccato come risposta, compiaciuta da fare schifo.
“Non ho pregato una beata minchia”

Andy Warhol, mi sono rotto il cazzo di essere altruista e comprensivo. Prendi pennelli, tele, colori e tutto il fottuto armamentario che ti serve e riporta il tuo culo a casa. Sei diventato abbastanza famoso per i miei gusti.

“Giusto, è vero. Tu sei arrogante anche quando supplichi”
Brian aveva schioccato la lingua prima di cambiare completamente discorso. Justin sembrava in gran forma, meglio svicolare con eleganza. Eleganza, insomma …
“Hai fatto solo finta di cucinare o si mangia?”
Justin non aveva trattenuto la risata, seguito da Gus.
“Se possibile a tuo padre, con gli anni, sta peggiorando il carattere”
“Se avete finito …” e si era seduto a tavola.  
Da poco più di un anno Gus aveva iniziato a osservare con altri occhi il rapporto fra i due ed era, ogni volta di più, affascinato da Justin, o meglio da come Justin trattava suo padre e da come lui accettasse senza quasi battere ciglio battute, strigliate e allusioni che uscite dalla bocca di altri avrebbero assicurato risposte al vetriolo e sdegno graffiante. Suo padre era bravissimo a far sentire una merda chiunque e con il minimo sforzo. Non era particolarmente delicato neppure quando si rivolgeva a Justin, ma non era mai, mai, sprezzante o cattivo.

“Jus, è buonissimo”
Justin aveva ringraziato con un cenno del capo e facendo l’occhiolino al ragazzo.
“Sei una fogna, come lui quando ci siamo conosciuti. Meglio vestirvi che darvi da mangiare” aveva commentato Brian vedendo Gus servirsi una seconda abbondante porzione.
Non che il marito adesso fosse inappetente, ma non era più la termite senza fondo di quando era ragazzo. Si era voltato a guardarlo mentre si era alzato per prendere una bottiglia di vino. Trentadue anni, era decisamente un bel uomo ancora giovane, il corpo aveva perso le asprezze adolescenziali, l’espressione aveva assunto una sfumatura più intensa, solo i lineamenti erano rimasti delicati come quelli di un fanciullo.
Era cresciuto sotto i suoi occhi e sotto le sue carezze, conosceva quel corpo meglio del proprio, amava quella testa caparbia e quel carattere deciso e dolce, a volte gli sembrava impossibile che fosse ancora lì, dopo quindici anni, da ragazzino a uomo, ancora con lui, nonostante lui.  
Aveva avuto il coraggio di sposarsi prima di aver compiuto ventitré anni, senza dubbi o ripensamenti. Era partito per NY con la fede che ancora luccicava e ci era rimasto per due anni senza tentennamenti, senza cedere a tentazioni.

Tu fai come vuoi -  gli aveva detto -  ma io sono solo tuo. E non per te, non ti agitare e non ti montare la testa, ma perché così sono più felice.  

E con quel tu fai come vuoi aveva segnato il suo destino di marito monogamo.

Non aveva preteso fedeltà neanche con il matrimonio. Si era limitato a offrigli la sua e lui non era più riuscito ad andare con altri neppure nei giorni fra un fine settimana e l’altro, quando erano uno a Pittsburgh e l’altro a NY, ma non gliel’aveva confessato se non alcuni anni dopo.
A quel tempo ci teneva ancora a mantenere la sua immagine.
A trentaquattro anni Brian Kenney, il dono di Dio ai gay, si era ammazzato di seghe come neanche da ragazzino.  
Brian sorrise di sé.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** EQUILIBRIO INSTABILE ***


Capitolo un po' più lungo, perchè non sono sicura di riuscire ad aggiornare a brevissimo. Grazie a tutti quelli che in questi giorni hanno lasciato recensioni e in particolar modo a Cristina Qaf e Nuel che mi lasciano un pensiero ad ogni capitolo, non avete idea di quanto mi faccia piacere. Buona lettura. 

“Meglio dell’arrosto di mamma” aveva mugolato Gus con la bocca ancora mezza piena riportando il padre alla realtà.
“Artista anche ai fornelli” era stata la riflessione dedicata a Justin, mentre appoggiava la mano sul dorso di quella del marito.
“A proposito di mamma, hai chiamato?” aveva domandato al figlio, che aveva scosso la testa.
“Telefona e prova a fare di meglio rispetto alle scuse di stamattina”
Erano bastate quelle parole per indurire immediatamente l’espressione di Gus e fargli assumere una postura aggressiva. Si era leggermente proteso verso padre e a denti stretti aveva risposto: “Mi hai obbligato. E’ il meglio che otterrai, fatevelo bastare. Mando un whatsapp a Mel” 
“Chiama - aveva ribadito lapidario e senza ammettere repliche, portandosi il bicchiere alle labbra – si aspettano di sentirti”
“E io non ho voglia di sentire loro! Posso almeno decidere di non fare una cazzo di telefonata?” aveva urlato e sbattuto il tovagliolo sul tavolo.
Era stato fulminato dallo sguardo del padre, che lentamente aveva girato il viso verso di lui. Justin era stato rapido a intervenire prima di permettere alla bocca di Brian di dare fiato a parole difficili da gestire, perché, anche se in seguito si fosse accorto di essere stato eccessivo, piuttosto che ritrattarle o mitigarle si sarebbe mangiato una merda.   
“Chiamo io e mi faccio passare Jenny che magari con lei Gus ha voglia di parlare” aveva detto afferrando veloce il cellulare appoggiato sulla credenza poco distante e lanciando un’occhiata inequivocabile al marito. Stai buono, gli aveva ordinato con gli occhi.
Brian aveva sospirato cercando di calmarsi e si era rimesso a mangiare, mentre Justin già parlava al telefono con Linz.
“JR ti reclama” e aveva passato l’apparecchio a Gus, aggiungendo con tono gentile “magari un saluto veloce lo puoi fare anche alle mamme”
Gus si era alzato da tavola ed era andato nella stanza affianco.

“Non puoi parlargli sempre così” aveva esordito a bassa voce.
“Così come? Hai visto come minchia risponde?” aveva replicato a tono più alto Brian.
“Distribuisci ordini, per giunta con aria noncurante. Non fai incazzare solo lui quando fai così”
“Gli ho semplicemente detto di chiamare le sue mamme. Non credo di dover approntare una tavola rotonda per una stronzata simile. Telefoni e non schizzi come un isterico”
“Non è quello che hai detto, è come l’hai detto”
“Cristo Justin, quando ti metti a fare il sofista non ti sopporto”
“Vabbè, ne parliamo dopo” aveva troncato il discorso, vedendo Gus rientrare in cucina.
Brian aveva alzato gli occhi al cielo, dopo cena voleva rilassarsi un po’, magari andare a letto presto e dimostrare a Justin che gli era mancato e invece, adesso, prevedeva molte chiacchiere inutili e poco sesso. Fanculo.
Intanto Gus si era nuovamente seduto e in completo silenzio stava finendo quanto aveva nel piatto.
“Che dice Jenny?” gli aveva chiesto, per provare a smorzare la tensione.
“Che sei uno stronzo”
“Molto bene” aveva sospirato con forza Brian, alzandosi e appoggiando, con fare minaccioso, i palmi sul bancone.
“Che c’è? – aveva replicato con falsa innocenza Gus – Me l’hai chiesto tu. Non è colpa mia se ha detto così”
“Fila in camera tua”
“Ma non ho ancora finito di mangiare” aveva protestato.
“Hai finito. Fidati che hai finito. E luci spente alle undici”
Gus era rimasto un attimo interdetto e non si era alzato.
“MUOVITI” aveva urlato il padre.

Non appena Gus era sparito dalla vista Justin si era messo a sparecchiare mentre Brian si era lasciato cadere, incazzato, sullo sgabello.

“Dobbiamo discutere del mio tono, eh?” gli aveva chiesto sarcastico. 

Gli dava la schiena, dal momento che era impegnato a riporre i piatti nella lavastoviglie, ma sentiva lo sguardo del marito piantato fra le scapole. Aveva stretto le labbra in una smorfia.
C’era da dire che quando partivano in quarta, quei due, avevano un modo di rivolgersi l’uno all’altro che sembrava studiato a tavolino per farsi reciprocamente imbestialire.
Belli, belli cazzi.
Una cosa era certa, Brian aveva ragione a non voler tollerare un atteggiamento strafottente e gratuitamente maleducato come l’ultimo di Gus.
Si era asciugato nello strofinaccio e fattosi dietro gli aveva appoggiato le mani sulle spalle, accennando un massaggio. Brian aveva reclinato la testa e a occhi chiusi aveva sibilato: “Lo smonto. Se non sta attento lo smonto”
“Calma Mr. Kenney, calma. Se non ci fosse da lavorarci non sarebbe qui, no? E’ un mezzofondo, questo, non uno sprint.”
Brian si era passato un palmo sulla fronte, come a schiarirsi le idee.
“Hai ragione. Hai assolutamente ragione, è che mi fa andare il sangue al cervello.”
Gli aveva fermato le mani con le sue e guardandolo dal basso aveva continuato: “Solo tu riuscivi a mandarmi al manicomio in questo modo, i primi tempi”
“A me non hai mai dato la soddisfazione di vederlo, però” aveva sorriso intrecciando le dita con quelle di Brian.
“Non ero molto più grande di quanto sia Gus adesso e con me hai avuto pazienza” aveva concluso dolcemente.
“Non eri mio figlio”
“Decisamente no. Ero il tuo amante adolescente. Pervertito che non sei l’altro” gli aveva tirato un buffetto mentre la mente correva a un articolo quattrodici anni prima, a firma del famoso opinionista gay Howard Bellweather.
Lui si era indignato profondamente per quella rappresentazione di Brian e della loro relazione, mentre  Brian era stato infastidito che nell’articolo gli avessero attribuito trentun anni, invece dei trenta che aveva. Quello sì che l’aveva indispettito.
Per il resto se ne era allegramente fottuto, come suo solito.
“In pochi sanno che era l’adolescente pervertito a stolkerarmi”
Con questa risposta Brian era tornato a sorridere.
“Se ti lascio da solo prometti che non vai a menarlo?”
Brian era rimasto interdetto.
“Esci?”
Non vivevano in simbiosi, capitava che uscissero separatamente anche per la serata, ma gli sembrava strano che Justin si fosse organizzato proprio oggi che rientrava a casa con Gus.
“Ma va là, vorrei lavorare un po’. Ho lasciato una tela a metà per preparare la cena e …” la frase era rimasta in sospeso perché Brian gli aveva chiuso la bocca con un bacio.
“Quando l’ispirazione chiama si deve rispondere - gli aveva soffiato sulle labbra – mi guardo un po’ di TV”
“Grazie” aveva risposto con entusiasmo e si era diretto veloce verso il suo studio. A metà scala, però, era tornato indietro, lo aveva raggiunto sul divano e gli aveva schioccato un bacio - “Ti amo” - e senza aspettare risposta era volato nuovamente via.
Al quarto sbadiglio in pochi minuti aveva convenuto con se stesso che era stanco e per quanto fosse abbastanza presto per le sue abitudini se ne sarebbe andato a letto. Era passato da Justin e l’aveva sorpreso con l’aria assorta, il pennello in mano, la lingua stretta fra le labbra, con la vecchia maglia slabbrata, che usava per dipingere, sghemba su una spalla e gli era sembrato bellissimo.
Osservava il suo dipinto da lontano e ci mise qualche secondo ad accorgersi di lui.
“Vado a letto”
“Aspetta, vengo con te. Finisco domani” e aveva riposto il pennello nel bicchiere con l’acqua ragia. Gli aveva passato il braccio intorno alla vita, posato un bacio sulla tempia dopo aver spostato con una carezza i capelli biondi che teneva quasi lunghi e si erano incamminati verso la camera da letto.
“Faccio un salto a controllare il giovane Werter” aveva detto a Justin quando questi l’aveva osservato perplesso vedendolo girare nel corridoio sbagliato.

“Cosa non hai capito di luci spente alle undici?” Si stava irritando nuovamente.
Gus era sussultato per l’agguato, non si aspettava l’improvvisata del padre. “Spengo, spengo. Stavo spegnendo – aveva risposto rapido e aveva smorzato la abatjour del comodino per poi aggiungere a voce bassa: madonna che incubo con sto qui.”  
Un lampo, non si era neppure reso conto e si era ritrovato in piedi, sollevato a forza dal padre che a due centimetri dal naso gli stava scandendo: “Sto qui, lo dici a qualcun altro. Sto qui è tuo padre e se ti permetti ancora una volta di parlarmi in questo modo i prossimi mesi saranno veramente un incubo. È una promessa” poi con uno strattone l’aveva fatto cadere seduto sul letto, si era girato ed era uscito dalla camera.    

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** CONFIDENZE ***


Aggiornamento breve, buttato giù di fretta, spero sia accettabile, non ho neppure avuto il tempo di rileggerlo. A presto.

Si era spogliato con rabbia e aveva gettato la maglia sulla sedia con poca grazia.
“Embè?” aveva commentato Justin uscendo dalla doccia con l’asciugamano avvolto alla vita.
Aveva scosso la testa. “Niente, lascia stare. Si permette delle espressioni che …, lasciamo perdere. Vieni qui” aveva concluso allungando la mano prontamente afferrata dal compagno.
Si erano stretti in un abbraccio caldo e pieno di promesse.
Brian aveva appoggiato il mento nell’incavo fra la spalla e la nuca di Justin e aveva sospirato piano per poi iniziare a lasciare una leggera scia di baci, lui aveva allungato il collo per lasciargli migliore accesso.
Era stato il preludio delicato e consolante di un amplesso lento e morbido, un tornare a casa, alla calma. 
Sdraiato su un fianco, con il braccio piegato e la mano a sorreggere la testa, aveva sorriso alle parole di Justin.
“Gus ti fa uno strano effetto, erano circa sei mesi che non mi scopavi con questa dolcezza. Bisogno di coccole, Mr. Kenney?”

Con uno scatto improvviso l’aveva inchiodato al materasso, le braccia sopra la testa e i polsi bloccati. “Cerchi rudezza, tesoro?” aveva chiesto con una vena di divertimento nella voce e calcando la parola tesoro, che sulla sua bocca assumeva sempre un retrogusto ironico.
Il bacio che ne era seguito non aveva nulla di romantico, era forte, predatorio e prepotente, così come quelli sul petto e i morsi sui capezzoli, mentre lo teneva fermo.
“Girati” aveva ordinato.
Non aveva fatto in tempo ad accennare di voltarsi che una manata l’aveva spinto giù, costringendolo ad affondare il viso sul materasso. Il palmo fra le scapole e l’altra mano che indirizzava il sesso verso il suo culo. Con una sola spinta gli era dentro senza cerimonie, come mille altre volte e lui aveva sentito, dopo il dolore, un fremito percorrerlo fino alla punta dei piedi.
Immobilità e poi spinte costanti e profonde, la mano di Brian aveva inseguito la sua a intrecciare le dita.
Aveva girato il volto in cerca di un bacio e aveva trovato la bocca del marito che lo stava amando come solo anni di consuetudine e complicità potevano insegnare.
Era ancora bello, come sempre, come un tempo, fare l’amore con Brian, che fosse dolce o irruento, romantico o passionale, non credeva di sarebbe mai stancato di lui.
Il secondo orgasmo, così vicino al primo, era esploso senza quasi avvisaglie, cogliendolo all’improvviso e facendogli impazzire il cuore.
Brian, come sempre, aveva pensato prima a lui e poi gli era venuto dentro, scaldandolo con il suo seme.  
A pancia in su, con lo sguardo al soffitto avevano aspettato, vicini, che il respiro tornasse regolare, poi Justin si era accoccolato nell’abbraccio del marito, ricoprendogli il viso di piccoli baci.
“Soddisfatto ragazzino?” gli aveva chiesto tirandoselo sul petto.
La risata divertita di Justin era stata la risposta, poi si era alzato per pulirsi e gli aveva lanciato una salvietta dal bagno.

“Domani non va ancora a scuola, vero?”
“Inizia mercoledì, fra due giorni. Rimango a casa anche io, devo solo fare un salto in ufficio domani mattina, per un paio d’ore”  
Justin aveva annuito, poi aveva sbadigliato “ ’Notte” e giratosi su un fianco si era addormentato di schianto.
Gliela invidiava da sempre la capacità di addormentarsi in due secondi, cosa che a lui non riusciva mai. Aveva coperto meglio Justin con la trapunta e lo aveva abbracciato da dietro facendosi cullare dal suo respiro, in attesa di scivolare nel sonno pure lui.
Al risveglio non c’era traccia del marito né nel letto, né in camera. Aveva guardato l’ora e in effetti erano le dieci passate, aveva dormito più del solito. Il giorno prima era stato lungo e stressante, evidentemente Justin non aveva ritenuto opportuno svegliarlo. Le due ore in ufficio potevano slittare al pomeriggio, aveva mandato un messaggino a Ted e Cynthia, si era stiracchiato ed era rimasto a poltrire ancora una mezz’oretta.
Quando era sceso al pian terreno, in cucina, li aveva beccati a chiacchierare.
Gus, ancora mezzo addormentato stava facendo colazione, mentre Justin in tenuta da lavoro stava probabilmente sorseggiando la terza tazza di caffè della giornata. Era mattiniero.
“Sul serio faceva così anche con te?” stava domandando stupito e divertito Gus.
“Puoi giurarci. Luci spente alle undici – aveva risposto imitando la voce di Brian. - Andavo ancora al liceo. Nonna Jennifer disperata dal mio colpo di testa e spaventata che scappassi chissà dove, aveva portato la mia roba in ufficio e mi aveva appioppato a Brian. E tuo padre, invece di mandarci a stendere entrambi, mi aveva preso a casa e aveva interpretato con serietà la parte, per cui lui usciva, ma a me non era permesso farlo durante la settimana, solo nel week end, controllava che facessi i compiti e mi spediva a letto. Un gendarme.”
Gus, incredulo, ascoltava a bocca aperta.
Era arrivato di soppiatto alle spalle di Justin lo aveva abbracciato e nell’orecchio gli aveva soffiato: “però ti facevo anche divertire ... ”

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** DI SCUOLA E ALTRI RICORDI ***


Scusate il ritardo, ma sono giornate piene e non sono riuscita a scrivere. Buon sabato sera. 

“…però mi facevi divertire” aveva convenuto allegro, poi si era rivolto a Gus “a dispetto di quanto possa sembrare tuo padre è, ed è sempre stato, una persona serissima. Agisce spesso fuori dagli schemi, ma a certe cose ci tiene molto ed è un tradizionalista assoluto. Sull’istruzione, per esempio, non scherza.
Quando sono tornato da NY, o meglio, quando mi ha trascinato via da NY” Il discorso era stato interrotto da Brian, che gli aveva lanciato una mollica di pane, presa dal suo toast: “Ma se non vedevi l’ora di tornare e non avevi il coraggio di dirlo. Come al solito ti ho dovuto togliere dall’empasse. Se devi raccontare tutti i fatti nostri, almeno fallo bene” 
“Sì, sì certo dall’empasse. Gus, dimenticavo, un trucco fondamentale per averci a che fare è fargli credere che ti bevi tutte le stronzate che dice per fare il duro”
Brian non aveva resistito ed era scoppiato a ridere. “Che razza di serpe in seno” aveva commentato, addentando la fetta di pane.
Justin non l’aveva considerato e aveva continuato a rivolgersi al ragazzino, svelandogli che quando era rientrato a Pittsburgh era un pittore discretamente affermato, i suoi lavori vendevano bene e guadagnava di che vivere agiatamente eppure Brian l’aveva messo a perdere perché finisse l’ultimo anno di accademia e si diplomasse.

“Non mi serve a niente e se non stai attento, presto, guadagnerò più di te.”
“Ottimo, così potrai restituirmi i soldi che ho speso per un’istruzione lasciata a metà” lo aveva rintuzzato.
“Gesù Brian, ma cosa te ne frega se mi diplomo o no!”
“Le cose quando si iniziano si portano a termine. E preferirei non avere un marito ignorante.”



“E tu ti sei fatto convincere?”
Justin aveva stretto le labbra, erano veramente poche le volte nelle quali non aveva ceduto alle richieste di Brian.
“Sì, e mi sono iscritto solo per non sentire più le sue frecciate del cavolo. Sono andato alle prime lezioni con uno scazzo cosmico. Invece, come al solito, aveva ragione. Sono felice di aver concluso gli studi e non per gli altri, per me stesso.”
“Ma era il tuo fidanzato, tuo marito o tuo padre?” aveva domandato con pungente ironia Gus.
Justin aveva sgranato gli occhi, simulato terrore, ed aveva esclamato: “Non dire mai più fidanzato. Tuo padre non è mai stato fidanzato. Non ha mai avuto un fidanzato, lui. Unico caso al mondo che si è trovato sposato all’improvviso.”
“Sei veramente un coglione” aveva riso Brian “vado a cambiarmi e poi vado a correre. Gus vieni con me, così lasciamo in pace Jus a dipingere?”
Gus aveva scosso la testa, non gli andava di fare jogging, preferiva un giro in bici.
“Vuoi andare da solo o ti va di avere compagnia?” aveva rilanciato Brian.
“Se vuoi venire …” aveva risposto indolente, ma il padre non aveva fatto caso al tono. Durante la notte aveva riflettuto e forse Justin aveva ragione, doveva essere meno imperativo con Gus e lasciar correre le provocazioni. Non voleva la guerra, voleva capire cosa avesse il figlio e aiutarlo a ritrovare la rotta. Se non riusciva a parlargli senza cedere alla rissa, non ne sarebbero mai usciti.   
“E bici, sia. Mezz’ora e andiamo, ce la fai a essere pronto?”
Gus aveva annuito e lui era salito verso la camera da letto.
Avevano pedalato per più di due ore e aveva fatto fatica a tenere il ritmo di Gus, che aveva quindici anni ed era allenato. Aveva benedetto la sua forza di volontà che lo portava a correre almeno tre volte alla settimana e a non disdegnare la palestra, però all’ennesima salita che il figlio sembrava intenzionato ad aggredire senza batter ciglio, aveva cercato quanto rimaneva del suo fiato per urlargli da dietro: “Capisco che ti sto un po’ sulle palle, ma mi vuoi vedere morto?”. Gus aveva smesso di pedalare e si era fermato. “Sei stanco?” gli aveva chiesto un po’ stupito.
“Sono a un passo dall’estrema unzione” era stata la risposta. “Riprendo fiato e poi ci cerchiamo un posto, nei dintorni, dove pranzare. Non devo partecipare al Tour de France e dobbiamo anche tornare indietro. Ci terrei a sopravvivere ancora qualche anno.”
“Scusa Pa’ “ aveva risposto il ragazzo e girata la bici l’aveva raggiunto.
Una risposta carina e spontanea. Forse aver rischiato un infarto, avere le ginocchia a pezzi e una sete da disperso nel deserto era servito a qualcosa.
Avevano telefonato a casa per avvertire che si sarebbero fermanti fuori e si erano seduti in un tavolo all’aperto dell’unica tavola calda nei dintorni. Gus aveva ordinato una quantità imbarazzante di cibo, lui un sandwich con il pollo senza maionese e aveva optato per l’acqua invece di una birra, il rientro sarebbe già stato sufficientemente difficile così.
Avevano chiacchierato del più e del meno, senza tensioni e gli pareva che Gus fosse sereno e contento di essere lì insieme, come succedeva normalmente prima di questa crisi.  Gli aveva chiesto se sarebbe rimasto a casa anche il giorno dopo, era raro che suo padre si concedesse dei giorni di ferie al di fuori dei periodi canonici.
“Devo solo andare in ufficio qualche ora, pensavo di farlo questo pomeriggio, ma non credo ne avrò la forza” e gli aveva confermato che pensava di rientrare in ufficio mercoledì, quando lui sarebbe rientrato a scuola. “Ti sto troppo addosso?” gli aveva domandato morbido, sembrava che fosse la tecnica vincente. Gus aveva negato. “No, mi fa piacere” aveva inaspettatamente risposto e poi aveva fatto una domanda che non si aspettava, apparentemente fuori contesto. “La St. Jeams è il liceo che frequentava Justin?” Brian aveva risposto di sì, aggiungendo che si trattava del migliore della città e gli aveva chiesto il perché di quella domanda.
Gus aveva risposto che si trattava di semplice curiosità, ma il padre non ne era tanto convinto, dal momento che l’aveva visto impallidire quando gli aveva confermato che si trattava della stessa scuola frequentata un tempo da Justin. Gus aveva ripreso a parlare e Brian non aveva intenzione di rompere il fragile equilibrio di quel momento, aveva avuto modo di vedere, nelle ultime quarantotto ore,  quanto fosse facile che la situazione degenerasse e invece voleva che Gus parlasse, si aprisse e non si sentisse soffocato o controllato in ogni pensiero e parola.
“Era piccolo Justin quando vi siete messi insieme, non ci avevo mai pensato” aveva detto a un certo punto. Il dialogo stava prendendo una strada insolita, Brian era stupito, ma senza darlo a vedere aveva risposto tranquillamente: “Non giovane, giovanissimo”
“E non ti faceva impressione, papà?”
“Impressione no, era un po’ strano ed è stato un pelino complicato, in effetti. E a dir la verità non sapevo che avesse solo diciassette anni quando l’ho invitato.”


 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** DISGELO? ***


La storia è tutta nella mia testa, non manca l'ispirazione, ma il tempo. Portate pazienza, piano piano si va avanti. Questo è un atipasto, spero di servire la prima portata nel giro di qualche giorno e non farvi aspettare molto. Grazie a chi legge e a chi commenta. A presto. 

Gus si era fatto pensieroso per qualche minuto e poi aveva riflettuto a voce alta: ”… solo due anni più di me”
Brian non aveva potuto evitare di sollevare le sopracciglia con fare dubbioso. 
“Mi hai visto con Justin da quando sei nato, come mai tutti questi pensieri e queste domande adesso? E’ successo qualcosa?”
“No, no. È che non ci avevo mai pensato prima, come dici tu, per me tu e Jus siete insieme da sempre, semplicemente non mi era mai capitato di riflettere che fossi così tanto più vecchio di lui. Me ne sono reso conto ultimamente, non so neppure io perché. Tutto qui”
“Vecchio?” aveva ripetuto il padre con una piccola smorfia, ma stava sorridendo ed era passato il tempo nel quale una affermazione del genere lo avrebbe mandato in crisi, eppure da qualche anno alcuni fili d’argento illuminavano il viso. Si era passato una mano fra i capelli che teneva corti rispetto a qualche anno prima e stava ripensando allo sconcerto che l’aveva colto quando aveva scoperto, asciugandoli, i primi capelli bianchi. Era stato Justin a convincerlo a non tingersi -  lui ci aveva pensato eccome - dicendogli che quell’accenno di brizzolatura lo rendeva ancora più sexy. Che fosse vero o no, gli era piaciuto credergli. Si era abituato a vedersi così e a dirla tutta non si trovava niente male.
Quanto a Justin, anche adesso dopo tanti anni, lo guardava in un modo che lo rendeva certo di essere ancora bello e sexy e desiderato.
Alla fine non era morto giovane, come i suoi miti, stava accettando il tempo che passava con patetica naturalezza ed era felice, a tratti.
Tutta colpa di due occhi azzurri e una testa bionda, come al solito. Lo stesso, identico, esatto, motivo che undici anni prima gli aveva fatto decidere di combattere il cancro, che gli aveva reso possibile affrontare la malattia, le terapie e pure l’impotenza senza scegliere di farla finita, sempre per lui, sempre per Justin. Non lo aveva lasciato, si era imposto e gli aveva insegnato ad appoggiarsi a qualcuno senza andare nel panico. Aveva sempre visto i suoi difetti, glieli aveva enumerati crudamente più di una volta, non gli aveva mai fatto sconti, ma lo aveva sempre accettato per come era, non per quel che voleva far credere di essere.
Neppure Michael lo ha mai conosciuto in quel modo viscerale e definitivo.
Ci aveva messo veramente poco - Justin -  a vedere che il Re era nudo e ad amarlo lo stesso.   
“Volevo dire più grande” si era corretto Gus ricordandosi che c’erano degli argomenti che suo padre affrontava con poco piacere, fra questi l’età. Le mamme lo prendevano spesso in giro.
Brian aveva allungato un braccio, gli aveva scompigliato i capelli e annuendo aveva convenuto sorridendo: “più grande lo preferisco, ma in effetti più vecchio mi pare adeguato. Vuoi il dolce?”
“Una fatta di torta ci starebbe bene, tu la prendi?”
“Per me solo un caffè, ma tu ordinala, termite!”
Erano tornati a casa a metà pomeriggio e avevano trovato un messaggio attaccato al frigorifero.

Kenney al quadrato, vi ho chiamato due volte, nessuno che abbia risposto. Tale padre, tale figlio! Faccio un salto in città. Torno con la cena. Baci J.

Nel leggere il biglietto Brian si era messo una mano in tasca e aveva guardato il cellulare. Merda, sei chiamate senza risposta, due erano quelle di Justin, una di Michael e tre dall’ufficio.
Aveva afferrato una bottiglietta d’acqua dal frigo e a grandi falcate si era diretto verso il suo studio. “Fatti la doccia, io ho delle telefonate da fare” e con quelle parole aveva salutato il figlio.
Poco più di mezz’ora dopo Gus, con i capelli ancora bagnati, aveva messo la testa dentro la stanza per chiedergli se volesse un po’ di the. “Asciugati i capelli, che non fa così caldo” gli aveva suggerito e si era rimesso al lavoro. Le dita avevano ripreso a ticchettare veloci sulla tastiera e il tempo era volato, quando aveva alzato la testa, il cielo era già scuro e il silenzio serale si era accomodato sulla campagna che circondava la tenuta. Aveva sgranchito il collo, scrocchiato le dita, sfilato gli occhiali che ormai doveva usare per leggere e si era chiesto che fine avesse fatto Gus, dopo l’offerta del the non si era più fatto vivo. Un’ultima occhiata al documento e aveva chiuso il pc.
Aveva seguito il suono della TV accesa e aveva trovato il figlio addormentato sul divano, mentre sullo schermo scorrevano le immagini di un video musicale. Nell’abbandono del sonno sembrava ancora un cucciolo, gli aveva scostato una ciocca di capelli dal viso e Gus aveva sospirato.
Aveva spento il televisore e gli aveva adagiato addosso il plaid che Justin teneva sempre ai piedi del sofà.
Erano le diciotto passate, che fine aveva fatto l’artista di casa? Era uscito in veranda, faceva fresco, ma non abbastanza per rientrare a prendere una felpa, si era stretto fra le spalle, aveva accesso una sigaretta e schiacciato il tasto per la chiamata rapida.
“Ehi Jus, dove sei?”
“Sono ancora in Accademia, la riunione docenti è andata per le lunghe e dopo avevo ricevimento studenti. Sto uscendo, cinque minuti e salgo in macchina. Passo a prendere del cinese e per le sette e mezzo al massimo dovei essere a casa. Voi tutto bene?”
“Sorprendentemente bene se si esclude il fatto che ha tentato di stroncarmi fisicamente però adesso è il campione che dorme alla grossa sul divano. Ho lavorato un po’e adesso mi sto fumando una sigaretta.”
Si erano salutati ed era rientrato. In cucina aveva trovato le tracce della merenda di Gus, la tazza nel lavello e qualche briciola qua e là sulla penisola. Aveva passato lo straccio e messo la tazza in lavastoviglie, prima che quel maniaco dell’ordine di suo marito storcesse il naso.
Fortunatamente venerdì sarebbero rientrati Fernando e Naty, in quella casa senza di loro il caos era sempre un’eventualità incombente.
Ci avevano messo un po’ a rassegnarsi al fatto che a Britin non potevano cavarsela con una domestica ad ore. Soprattutto lui aveva resistito all’idea di avere estranei fra i piedi tutto il giorno, ma quando Justin si era messo in sciopero e aveva smesso di fare il piccolo orsetto lavatore la situazione in casa era presto degenerata e lui aveva capitolato.
Erano con loro da quasi dieci anni, ormai a pieno titolo di famiglia, al momento erano in dal Messico per il matrimonio della figlia e se Gus non avesse dato di matto ci sarebbero stati anche lui e Justin. Era stata dura senza di loro per dieci giorni.
Leggermente disturbato aveva realizzato che erano diventati proprio due viziati signori borghesi. Aveva dell’incredibile.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** SCOMODE VERITA' ***


Avevano mangiato cinese seduti per terra, su uno dei tavolini da caffè che tanto piacevano a Brian, perché Justin voleva vedere la finale dell'Australian Open e il maxi schermo che troneggiava in sala era stata la scelta scontata.
Gus e Justin sembravano due indemoniati, tifosi scatenati di Murray speravano che con questa vittoria si riprendesse lo scettro del tennis mondiale.
Lui invece non era un grande appassionato, sapeva tenere la racchetta in mano, ma aveva iniziato da grande, gli era utile per gli affari, non come Justin che, figlio della buona borghesia di Pittsburgh, aveva calcato i campi del The Pittsburgh Golf Club Tennis Courts fin da bambino ed era un discreto giocatore.
Una delle prime cose che aveva fatto quando aveva iniziato a guadagnare con la vendita delle sue opere era stato iscriversi a un circolo di tennis, uno diverso però, per non rischiare di incontrare il padre.
Neppure gli anni, il matrimonio, l’evidenza che quel ragazzino ribelle era diventato un uomo come si deve, un artista affermato con una vita stabile e appagante avevano ammorbidito Carig Taylor che aveva continuato a disprezzare la scelta di Justin di non nascondere la sua omosessualità, anzi di andarne fiero. Erano quindici anni, da quando l’aveva fatto arrestare, che suo marito non parlava con il padre. Decisamente non erano stati fortunati da quel punto di vista.
Justin però, contrariamente a lui, aveva potuto contare su una grande madre. Non rispettava i cliché, forse è perché erano froci, ma lui adorava sua suocera e molte delle caratteristiche che amava in Justin arrivavano da lei.
“E bravo Roger” aveva commentato dopo aver fatto spostare Justin che gli si era stravaccato addosso. Appena vista rimbalzare l’ultima palla per due volte sul campo, non si era trattenuto oltre: “Alzati che me la faccio addosso”.
Justin era scivolato di lato sull’ampio divano lasciandolo alzare ed era rimasto pigramente disteso. Aveva allungato il braccio e aveva sfiorato le dita di Brian, mentre quello si allontanava. Non aveva faticato a comprendere il significato del gesto. “Torno, non mi dileguo in studio. Vedete un po’ di capire se c’è un film accettabile”  
“Cavolo, mostruoso, passano gli anni ed è sempre più forte, ma come fa?” si era domandato quasi stizzito Gus, dopo l’ultimo colpo vincente di Federer.
Già di spalle aveva ribattuto al figlio: “Ne avete di strada da fare ragazzini” e se ne  era uscito sorridendo.
Quando, poco dopo, era tornato in sala non aveva trovato l’atmosfera che si aspettava. Gus camminava avanti e indietro e aveva il viso accaldato. Justin non era più sdraiato, ma seduto abbastanza rigido, si stava massaggiando il naso come quando cercava di stare calmo e capire qualcosa che non gli quadra.
Che minchia avevano combinato in tre minuti? Perché Justin stava chiedendo: ”Cosa vuol dire che devo aiutarti a convincere Brian a non mandarti a scuola mercoledì?”
“Ti prego Jus, ti prego” aveva continuato a ripetere, senza spiegarsi, il ragazzo.
Brian gli era arrivato dietro e gli aveva appoggiato i palmi sulle spalle, stringendo piano con dolcezza. “Che succede?” aveva chiesto. Gus si era girato, l’aveva fissato, muto, negli occhi e poi si era lasciato cadere sulla poltrona poco distante, nascondendosi il viso fra le mani.
Brian aveva volto lo sguardo verso il marito che, scrollando le spalle dubbioso, aveva iniziato a parlare: “Stavamo guardando la programmazione sul satellite e gli ho chiesto se si sentiva pronto per iniziare dopodomani.  È impallidito. Si è alzato e ha iniziato a camminare avanti indietro. Non mi vuole dire cosa c’è, ripete solo che non può andare a scuola mercoledì e che devo aiutarlo a convincerti. Poi sei arrivato tu.”
Avevano sentito fioca la voce di Gus che si era intromesso. “Per favore papà…”
Non stava provocando, non era incazzato, era affranto.
Brian si era accucciato davanti alla poltrona e con due dita aveva cercato di far sollevare il viso al figlio che non ne aveva voluto sapere e aveva continuato a tenere gli occhi puntati sul pavimento.
“Ehi figliolo - lo aveva chiamato – guardami” e con riluttanza Gus aveva alzato la testa. Aveva gli occhi lucidi. “Perché piangi? Cos’è sta storia che non vuoi andare a scuola?”
Aveva fatto una smorfia carica di angoscia: “Non puoi sul serio volermi mandare lì”
“Ma che stai dicendo? Ma perché? È un’ottima scuola, ha anche un fantastico programma sportivo. Potrai continuare ad allenarti come a Toronto, non dovrai rinunciare a niente.”
Aveva lasciato cadere la testa all’indietro, aveva smesso di combattere le lacrime e aveva singhiozzato: “Papà, papà …”
“Sono qui, Gus, ma tu mi devi far capire” e lo aveva abbracciato veloce e stretto.
“E’ una scuola cattolica - aveva sputato sul torace del padre, prima di aggiungere, con un sospiro – e lì tutti sanno chi sei”
Brian aveva sgranato gli occhi “e chi sarei?” gli aveva chiesto.
Gus aveva respirato a fondo, come chi fa fatica a parlare.
“Uno dei froci più famosi della città, cazzo”
Brian non aveva saputo cosa pensare, cosa c’entravano le sue inclinazioni sessuali che per altro Gus conosceva da sempre? Lo aveva guardato interrogativo, prima di essere travolto dalle parole concitate del ragazzo.
“L’ho letto anche ieri sulla rivista che hai in studio. Brian Kenney il noto imprenditore gay, esponente di spicco della comunità LGBT di Pittsburgh è, insieme al marito Justin Taylor, giovane artista conosciuto ormai anche oltre oceano, uno dei principali finanziatori ... Ti basta?” aveva concluso urlando.
“Ma mi basta cosa?” aveva risposto, passandosi le mani sul viso e scuotendo la testa.
Il volto di Gus si era deformato in una smorfia dovuta all’angoscia che provava nel vedere che Brian non capiva e ancor di più al senso di colpa per i pensieri che aveva nei confronti del padre che era sempre stato un bravo genitore e che adesso per il solo fatto di essere com’era, stava diventando la sua croce.
Si vergognava da morire di provare quel che sentiva, era come tradirlo, ma le parole gli erano volate fuori dalla bocca, prima che riuscisse a fermarle.
“Papà, sono un cazzo di fenomeno da baraccone. Ho due madri, due lesbiche e un padre finocchio, sposato con un uomo. Non c’è una fottuta cosa normale nella mia famiglia.”
“Oh Cristo” era scappato dalle labbra di Justin che era rimasto in silenzio fino a quel momento.
 Gus ormai aveva rotto gli argini e non si era fermato.
“Mi prendono per il culo oppure sono curiosi come se fossi un marziano, una cavia da laboratorio. A me piacciono le ragazze e non ci crede un cazzo di nessuno. E poi vi chiedete perché ho iniziato a marinare. È un inferno di merda andare a scuola. Ma tanto per voi è normale, è tutto normale. Così normale che a te è sembrato giusto iscrivermi in una scuola cattolica, anzi nella scuola dove hanno quasi fatto la pelle a Justin perché era un frocio. Voi siete pazzi e io non posso difendermi.” 
Un silenzio scuro e denso era sceso sulla stanza, interrotto solo dal tonfo di Brian che si era lasciato cadere seduto, a peso morto, sul pavimento. Le mani sugli occhi che poi erano scivolate fra i capelli e dietro sulla nuca, fino al collo. Il volto tirato e le palpebre socchiuse.
Non era riuscito a dire una parola. Aveva guardato Gus e non aveva fiatato.
Sul volto un’espressione che Justin non gli aveva mai visto.
Era scoppiato in singhiozzi e si era accasciato. “Scusami. Scusami, papà, non volevo” aveva ansimato. Aveva allungato un braccio, l’aveva preso per il colletto, se lo era tirato addosso e senza emettere un suono l’aveva stretto a sé. Gus piangeva e Brian lo accarezzava sulla schiena mentre lacrime vigliacche gli rigavano il viso stravolto. 
Senza far rumore Justin si era alzato ed era uscito dalla stanza. Non c’era posto per lui in quel momento fra quei due uomini che cercavano una risposta nel reciproco abbraccio, tentando di riportare il respiro alla norma.
Si erano messi seduti rimanendo per terra, uno a fianco all’altro, la schiena appoggiata al divano. Gus aveva smesso di piangere e Brian si era ricomposto.
“Mi dispiace, non volevo dire …” aveva iniziato ansioso.
Brian gli aveva dato una leggera spinta spalla su spalla e l’aveva interrotto. “Volevi dire esattamente quello che hai detto e non ti devi scusare. Non tu. Non ci abbiamo mai pensato e siamo stati dei coglioni, tutti quanti dei coglioni.”
“Papà …”
Lo aveva zittito con fermezza “non sono arrabbiato, non sono offeso e ti voglio bene, tanto. Stai tranquillo Gus. Sono addolorato di non aver capito un accidente di niente e non averti saputo difendere dalle nostre scelte e tu non c’entri. No, tu non c’entri.” Aveva sospirato forte.
“Siamo, decisamente, nei casini perché né io, né le tue mamme o Justin possiamo farci qualcosa. Siamo così, non l’abbiamo scelto, ciò non toglie che tu non debba scontare la nostra vita”
“Ma non è colpa tua” aveva protestato, forse contro la sorte, Gus.
“No, hai ragione. Non è colpa mia, ma è una mia responsabilità”
“Non ti vorrei diverso e neppure la mamma, anche se so che non ha senso dopo quello che ho detto. È che …” e si era interrotto, incapace di esprimere a parole il turbinio contrastante di emozioni che lo stava attraversando. Aveva di nuovo gli occhi lucidi e la voce rotta.
“Lo so, lo so Gus. Credo di aver, finalmente, capito la situazione in cui ti trovi. In cui ti abbiamo messo.”
Aveva scrollato la schiena a togliersi un peso, non era abituato a vedere suo padre così mesto e addolorato. Non riusciva a credere di esserne lui la causa.
Preferiva mille volte quando era incazzato, quando lo straccionava o lo rimetteva al suo posto, quello almeno era suo padre, non questo uomo amareggiato.
“Tu non devi stare male per quel che dico, sono un figlio di merda ad incolparti per essere come sei. E solo perché hai voluto fare un favore alla mamma”
Si era trovato il braccio del padre a stringerli le spalle. “Smettila” aveva detto semplicemente, poi quasi se ne fosse reso conto solo in quel momento aveva ripetuto: “favore alla mamma?”
“Lo so benissimo che era lei che voleva un figlio e tu le hai voluto fare un regalo e adesso ti trovi in sto casino a farti insultare”
Aveva stretto le labbra e annuito piano. “E’ vero, hai assolutamente ragione. L’ho fatto per fare un piacere a Linz. Sono sempre stato un padre un po’ particolare, probabilmente non sono neppure molto tagliato per la parte, ma sei una delle cose migliori che abbia fatto nella vita, temo sia andata peggio a te.”
Gus aveva incuneato il capo sotto la clavicola del padre ed era rimasto lì, immobile.
Ci sono momenti in cui il cuore fa male e questo era uno di quelli.  
Dopo un tempo infinito si erano alzati ed erano usciti dalla sala. Non avevano risolto nulla, anzi erano state dette parole che non avrebbero immaginato, si erano manifestati scenari impensati e dolorosi, eppure si sentivano vicini, come mai prima.
Era difficile avere un papà come Brian, ma in quella feroce sera di verità Gus aveva avvertito per la prima volta, in modo adulto, tutto l’amore che provavano l’uno per l’altro.
Era fiero di suo padre e fanculo a tutti.
Lo aveva colto di sorpresa abbracciandolo alla vita. Brian aveva sentito un brivido caldo risalirgli la schiena. Non sapeva bene come, ma ne sarebbero usciti.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** RIPENSARE LA VITA ***


“Sciacquati il viso, io mi faccio un goccetto ne ho bisogno” aveva stretto per un attimo le mani su quelle di Gus intrecciate sul suo addome. “Coraggio” aveva detto, infine, sciogliendosi dall’abbraccio e voltatosi aveva lasciato un bacio sui capelli del figlio.
Justin l’aveva raggiunto nel salottino mentre si stava versando una generosa porzione di whiskey e con due dita si stropicciava gli occhi. “Ne vuoi?” gli aveva chiesto. “Faccio io” aveva risposto annuendo. Brian si era appoggiato alla parete e teneva gli occhi dritti al soffitto, muoveva solo il braccio per portare il bicchiere alle labbra e prendere brevi sorsi.
Justin gli si era affiancato, così vicino da sfiorare con la spalla il torace del marito e aveva domandato: “Quindi?”
Una smorfia e poi aveva risposto con voce stranamente roca: “L’ho portato qui da Toronto, credevo di doverlo rimettere in riga, pensavo fosse una testa di cazzo, di doverlo punire e invece – Justin si era sentito morire nel sentire la sofferenza con la quale Brian aveva concluso esitante – e invece il problema di Gus sono io”
“Non esagerare. - aveva ribattuto sottovoce - Lo siamo un po’ tutti e tutti insieme riusciremo ad aiutarlo.”
“Come ho potuto non pensarci? Come abbiamo potuto non pensarci? Linz ed io, così fottutamente concentrati su cosa volevamo noi, su cosa avevamo il diritto di desiderare ed avere. Io e tutte le mie minchiate sul ruolo di contorno, pure il dubbio che non lo volessi gli ho fatto venire.”
“Kenney, non fare la checca melodrammatica. Che lo ami, che lo vuoi, che l’hai sempre voluto Gus l’ha vissuto, ogni giorno. Lo sa, è solo dannatamente in crisi, ma lo sa.” Si era allungato e gli aveva lasciato, con la consueta delicatezza, un bacio sulla guancia.
Brian non l’aveva lasciato allontanare, con una mano teneva il bicchiere e con il braccio aveva stretto il marito al petto. “Mercoledì non ce lo posso mandare a scuola, mi pare ovvio. E porca vacca, tutte le scuole migliori sono gestite da enti religiosi” aveva mormorato forse più a se stesso che a Justin.
Lui aveva alzato il viso, gli aveva piantato il mento sullo sterno e considerato pratico: “Ci sono diverse scuole e soprattutto molte confessioni” Brian l’aveva osservato attento, sapeva per esperienza che quando Justin aveva quel tono e quell’espressione nascondeva un piano.  
“Mentre eravate in sala ho fatto qualche ricerca, tanto per farmi un’idea. E’ piuttosto piccola, ma i suoi studenti hanno percentuali alte di accesso alle migliori università. Non è facile essere ammessi, ma credo che potremmo riuscirci”
“Di cosa stai parlando, Jus?”
“Del liceo valdese. Riconoscono le unioni come la nostra. Sostengono e promuovono concretamente, nell'ottica di uno Stato laico, progetti e iniziative tesi a riconoscere i diritti civili delle persone e delle coppie discriminate sulla base dell'orientamento sessuale e denunciano il peccato della discriminazione delle persone omosessuali e delle sofferenze imposte loro dalla mancanza di solidarietà. La chiesa valdese invita pubblicamente i suoi fedeli ad accogliere le persone omosessuali senza alcuna discriminazione. Non è necessario fare parte della loro congregazione per essere ammessi. Potrebbe essere un ambiente scolastico più favorevole per Gus. Ne parlerei con lui e prenderei un appuntamento con il rettore, che ne dici?”
“Cosa farei senza di te, Sunshine?” gli aveva ripetuto a distanza di circa dieci anni dalla prima volta. La risposta era stata la stessa: ”Non lo so proprio”, si era alzato sulle punte e lo aveva baciato sulla bocca.
“Intanto vado a tranquillizzare Gus che non lo manderò alla Saint Jeams, per il resto vorrei informarmi meglio prima di parlargliene, ma mi pare una buona alternativa. Domani chiamo per un appuntamento”
Justin si era sciolto dall’abbraccio: “Trovi il numero sulla tua scrivania” gli aveva sussurrato sulle labbra, strizzandogli l’occhio.
“Ehi” aveva detto, entrando in camera del figlio.
“Ehi” aveva risposto Gus.
“Stai un po’ meglio?” gli aveva domandato il padre. Aveva annuito. L’espressione era più serena, ma sembrava stanco. Gli aveva chiesto di rimando: ”E tu papà?”
“Mmm, un po’ frastornato a dire il vero, ma sono sollevato dal fatto che abbiamo parlato. Non te lo tenere mai più dentro un dolore così senza cercare aiuto, ok?” Mentre parlava si era accomodato sul bordo del letto, Gus si era tirato seduto e aveva risposto: “Promesso”
“Sono stanco morto e anche tu mi sembri esausto. Ne abbiamo consumante di energie nervose, domani parliamo di come gestire la situazione, una soluzione la troviamo, vedrai, ma che ne dici se ce ne andiamo a dormire?”
“Sì, sono stanco, ma prima voglio chiamare le mamme”
Brian gli aveva scompigliato i capelli con una carezza: “Bravo Gus, buona idea. Volevo dirtelo. Salutamele” Lo aveva abbracciato rapido ed era uscito dalla stanza, mentre il ragazzo prendeva il cellulare dal comodino.

PS: per il discorso di J riguardo alla chiesa Valdese ringrazio Wikipedia. Alcune considerazioni sulle scuole possono essere forzate, ma sono funzionali alla storia. 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** STANCHEZZA ***


Solo poche righe per augurarvi buon fine settimana.

Sta per telefonarvi. Ha bisogno di mamma e di sapere che gli vogliamo bene, a prescindere, anche se ha dato di matto. Siate affettuose. Domani vi chiamo. Buona notte.
Questo il wahtsapp che aveva mandato a Linz e Mel immediatamente dopo essere uscito dalla stanza di Gus.
Non pensava che il figlio intendesse telefonare per attaccare briga, tutt’altro, ma considerata la serata appena trascorsa e lo stato d’animo di Gus, un cambiamento repentino di tono e umore era a rischio anche per una banalità e magari Linz e Mel erano ancora indispettite dal modo in cui Gus si era accomiatato da loro due giorni prima. Un’eventualità da evitare.
D’altra parte il discorso che dovevano affrontare richiedeva calma, tempo e freschezza mentale, tutte cose che in quel momento gli mancavano, le avrebbe messe al corrente delle novità l’indomani.
Mel e Linz avevano letto il messaggio praticamente in contemporanea sui rispettivi cellulari. Si erano scambiate una occhiata sbigottita – che tono particolare per essere un messaggio di Brian. “Siate affettuose” aveva letto a voce alta Mel, neanche avesse ricevuto una ingiuria, cosa che, probabilmente, visto il mittente l’avrebbe stupita meno.
“Brian ci invita a essere dolci? Sta male?”
In quel momento il cellulare di Mel aveva squillato. Era Gus.

“Domani hai tempo per una video chiamata con Linz e Mel?” aveva chiesto a Justin mentre si faceva cadere sul letto. Il materasso era leggermente affondato sotto il peso di Brian e a Justin era stato facile rotolare verso di lui.
“Certo, ma sei sicuro di non voler parlare da solo? Almeno all’inizio”
“Sicurissimo. Non sentirti obbligato, però”
Justin non aveva dato peso all’ultima affermazione, gli aveva passato un dito sullo sterno e aveva risposto: “Domani non ho lezione, contavo di stare a casa a lavorare, quindi per me va bene in qualunque momento.”
Brian aveva mosso il capo per un leggero assenso e sospirando rumorosamente si era girato sulla pancia.
“Ho tutti i muscoli indolenziti, non so dire se per la sgambata o per la tensione” e nel dirlo aveva roteato il capo e il collo, che aveva scrocchiato. Le dita di Justin erano volate leggere a fare una piccola pressione sui muscoli alla base della nuca e Brian aveva apprezzato emettendo un debole soffio.
Per una decina di minuti le abili mani del marito si erano dedicate alla schiena, al collo, ai punti di pressione sulla testa, poi le cosce, i polpacci, la pianta dei piedi e un po’ di tensione era scivolata via. Brian stava quasi per addormentarsi quando aveva sentito la lingua di Justin risalirgli la spina dorsale. “Hai proprio una bella schiena” aveva commentato rifacendo il percorso al contrario, scendendo lento e umido verso il culo.
Un’espressione beata gli aveva aperto il viso, aveva spostato il capo sul guanciale per stare più comodo e rilassato si era offerto alle cure del compagno. Quei gesti, quella confidenza silenziosa erano un balsamo su quella giornata terribile.
Non sapeva fin dove avesse intenzione di arrivare Justin, ma era una di quelle sere in cui voleva essere nelle sue mani.  
Mentre il cuore accelerava il battito, Brian per una frazione di secondo aveva pensato che Jus l’aveva imparato proprio bene cosa fosse il rimming.
Più passavano gli anni e più gli capitava di ricordare Justin ragazzino, Justin che lo tormentava impedendogli di metterlo via, di archiviarlo, Justin che gli stava addosso, che gli era entrato sotto pelle a tradimento e c’era rimasto. Il loro presente era già tutto lì, in quei primi mesi, scritto nella sua incredibile incapacità di chiudere, in quell’arrendersi all’ineluttabilità di averlo intorno senza che sentisse di doversi ribellare.
Era impossibile che Justin facesse paura, così piccolo, così sbagliato e così dannatamente sexy ai suoi occhi. L’aveva fottuto con la tenerezza e il coraggio e quando se ne era accorto era veramente troppo tardi.
Stava quasi per venire, quando Justin aveva allontanato la bocca, una mano era rimasta all’attaccatura delle natiche e le accarezzava piano. Un dito fresco di lubrificante aveva sostituito la lingua a forzare la sua apertura.
Aveva respirato a fondo e si era preparato ad accogliere Justin che con un movimento lento e dolce stava entrando in lui.
Pochi secondi immobilità, un bacio sulla spalla, un dio quanto ti amo, sussurrato all’orecchio e Justin aveva iniziato una danza languida dentro di lui.   

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** FAMIGLIA ***


C’erano state le lacrime di Linz e l’espressione diventata di pietra di Mel e c’erano state le dita di Justin che si stringevano piano sulla sua coscia, sotto la scrivania, a dargli la forza di respirare e di condurre alla fine quella difficile chiamata.
“Domani ho appuntamento con il preside, per farmi un’idea. Pensate di riuscire a scendere a Pittsburgh nel fine settimana? Credo sarebbe meglio parlagli insieme”
Mel aveva alzato il cellulare e aveva mostrato lo schermo alla webcam. Si vedeva chiara la prenotazione del primo volo del sabato mattina.
Brian aveva annuito sollevato e aveva sorriso, anche se di un sorriso mesto.
“Forse siamo in tempo per affrontare la questione prima che esploda in faccia anche a JR. Dobbiamo parlare con Michael e Ben” aveva aggiunto Linz
Justin era intervenuto poco, si era limitato ad ascoltare e ad essere lì per il suo uomo, fino a quando aveva lanciato l’idea: “Sabato tutti a pranzo da noi. Chiediamo anche a Hunter se ha voglia di venire con Carol. I ragazzi saranno felici di rivedersi, finito di mangiare non ci fileranno neppure e noi potremmo parlare senza sembrare cospiratori ed evitiamo l’atmosfera da tragedia. Che ne dite?”
“E niente alberghi o stronzate simili” aveva aggiunto Brian, avvallando in un istante la proposta del marito “vi fermate da noi”
Justin aveva inclinato la testa per annuire, negli occhi la tipica espressione divertita “posto ce n’è e venerdì tornano pure Naty e Nando”
Le due donne avevano accettato senza neanche tentare un diniego pro forma, se c’era una cosa di cui avevano bisogno in quel momento era di essere nello stesso posto con il figlio, i giorni fino a sabato sarebbero stati lunghi.

“Gus?” aveva chiamato dal fondo delle scale.
“Che c’è?”
“Jus ed io usciamo”
Invece della risposta era arrivato il calpestio veloce di Gus che scendeva le scale. Si stava infilando il giubbotto.
“Andate in città? Me lo date un passaggio?”
“Veramente volevamo andare a fare due passi, ma… ”
“Fa niente, prendo il treno” aveva risposto Gus, superandolo e indirizzandosi a passo di marcia verso l’ingresso.
“Eih, frena!” e l’aveva acchiappato per il cappuccio.
A Gus era scappato da ridere, rendendosi conto solo in quel momento di essere stato piuttosto criptico e precipitoso. Si era voltato verso Brian. “Mi ha appena chiamato Paul, non so per quale fortunata congiuntura astrale, ma è anche lui a Pittsburgh dal padre per qualche giorno.”
“Paul Parker?” aveva chiesto Justin
“Proprio lui”
“Salutamelo. Saranno 12 anni che siete amici e considerando che ne avete 15, finirete come papà e Michael”
“Eravamo insieme all’asilo, se ne è andato con sua mamma, dopo il divorzio, più o meno quando noi ci siamo trasferiti a Toronto”
“Me lo ricordo bene – si era inserito il padre –  vi siete sempre fatti compagnia, negli anni, qui a Pittsburgh. I trasfertisti da papà – aveva detto strizzandogli l’occhio -  È un po’ che non lo inviti”
“Quest’estate non è venuto, era in Europa con sua madre. Comunque – aveva tagliato corto – è in città. Volevamo andarci a fare un giro e poi nonna ci ha invitato a cena, sempre che per voi non sia un problema”
“Quale nonna?”
“Jennifer, dice se mi fermo anche a dormire”
Di nonne biologiche Gus ne aveva due ed entrambe in vita, ma non era mai a loro che si riferiva quando diceva nonna. Le nonne erano Debbie, che tecnicamente era la mamma di Michael e Jennifer, la madre di Justin. Quelle che avevano sempre fatto le nonne, quelle che sapevano amare come nonne.  
“Mr Kenney, cambio di programma. Si va a Pittsburgh e si dorme al loft. Gus prendi le chiavi della Mercedes che andiamo”
Brian l’aveva osservato sorpreso.
“Beh, che c’è? – l’aveva apostrofato il marito – Gus è sistemato e io ti porto a cena fuori”
“Mmmh. Si può fare” aveva risposto accondiscendente, ma chiaramente divertito.  
“Anzi, prima aperitivo e poi cena. ‘Na botta di vita proprio” lo aveva preso in giro.
Gus aveva guardato suo padre sorpreso, ma era stato Justin a rispondere alla domanda sott’intesa.
“Il famoso pubblicitario, l’imprenditore affermato, il Re delle notti di Pittsburgh è diventato un orso che non si racconta.”
“Non dire cazzate”
Gus li aveva lasciati a punzecchiarsi ed era andato a recuperare le chiavi dell’auto. Non era una famiglia tradizionale la sua, ma non era niente male, in fondo.
L’aveva abbracciato, gli aveva bloccato le braccia dietro la schiena e gli aveva sibilato all’orecchio: “Ricordami un po’ con chi hai ballato al Babylon fino alle due di notte, tre giorni prima che andassi a prendere Gus”
“Non è che l’eccezione può fare la regola” aveva risposto già sghignazzando “già che ci sei e visto che abbiamo vinto la serata libera, vai a cambiarti che ti porto in un locale nuovo e molto figo. Sfoggia gli ultimi acquisti”
“Oh cazzo, quale dei stettordicimila anniversari mi sono dimenticato?” aveva chiesto, sinceramente preoccupato.
“Uno dei tanti, as usual” aveva risposto leggero il marito.
“Per forza, con tutte le volte che ci siamo mollati e ripresi e la tua contabilità, abbiamo più ricorrenze noi che il calendario della chiesa cattolica”
“Oggi, quindici anni fa, mi hai introdotto alle gioie del sesso e alle droghe sintetiche”
“Cazzate, non ti ho fatto avvicinare alle droghe per due anni, almeno”
Justin aveva riso accogliente, Brian accettava tutto, ma non l’idea di averlo corrotto e in effetti non l’aveva mai fatto.  
“Ok, solo alle gioie del sesso” aveva concesso.
“Andiamo o faccio prima a prendere il treno” li aveva interrotti Gus.
“Proprio tuo figlio” aveva commentato Justin, strappandogli le chiavi dell’auto dalle mani.

Avevano lasciato Gus in centro ed erano andati a parcheggiare la macchina sotto il loft. Si erano diretti verso il ristorante a piedi e per il rientro si sarebbero affidati a un taxi, così avrebbero potuto bere un po’ senza timore.
Da qualche anno avevano abbandonato il perimetro esclusivo di Liberty Avenue e si concedevano qualche sortita nel mondo degli etero, come lo chiamava Brian, anche quando non si trattava di lavoro, come quella sera.
Non era il paese della cuccagna, ma qualcosa era cambiato e in quella parte di mondo due uomini adulti, chiaramente coinvolti, con una fede al dito, potevano cenare in pubblico, senza essere infastiditi.
“Mi sembra che Gus oggi stia meglio”
“Se non altro ha sputato il rospo …” aveva risposto Brian, finendo di tagliare i filetto al sangue “sono contento che Paul sia in città, almeno si svaga un po’. Hai raccontato qualcosa a tua madre?”
“Le ho accennato. Non credo che l’invito di stasera sia casuale. Dice che le ho fatto fare una discreta esperienza di adolescenti in crisi”
“Povera Jennifer” aveva commentato sorridendo al ricordo di quegli anni e portandosi un sorso di vino alle labbra. “Mi piace ‘sto posto. Come l’hai scovato?”
“Ci avrei giurato che avresti apprezzato. Me ne ha parlato Ethan”
“Mi piace già un po’ meno”
“Avete i gusti più simili di quanto ti piaccia ammettere” lo aveva schernito il marito.
“Un bel problema, a volte, i gusti simili”  
Justin aveva allungato il braccio sul tavolo e gli aveva accarezzato la mano.
Con Ethan si erano incontrati casualmente al vernissage di un amico comune a NY, parecchi anni prima. Il tempo aveva attenuato le emozioni, entrambi avevano una vita ben indirizzata e un compagno, Justin si era addirittura sposato, si erano trovati a chiacchierare e avevano ripreso a sentirsi.
Si vedevano, qualche volta, quando Ethan capitava in città.
Non era stato facilissimo spiegare la cosa a Brian. Aveva fatto la pisciatina, rimarcato il territorio, usato scuse improbabili per qualche improvvisata di troppo per sembrare senza secondi fini, ma poi aveva accettato la faccenda.

Basta che non mi costringi a uscite a quattro, perché mi sta comunque sulle palle – era stato il verdetto finale.

Brian aveva stretto brevemente la mano del compagno e poi l’aveva lasciata. Lo sguardo era tornato limpido, anzi con un lampo divertito.
“Stavo pensando che mi devi delle scuse”
“Interessante”
“Abbiamo una miriade di ricorrenze, che dimentico, perché mi hai lasciato un sacco di volte. Mi hai sempre mandato a stendere tu Mr. Taylor e sei pure riuscito a passare per vittima. Sono sempre stato io la vittima, invece! Un genio, un fottuto genio, l’ho sempre saputo”
Justin non aveva potuto trattenere una risata contagiosa “Mi fornivi sempre ottimi motivi” aveva replicato e si era allungato sul tavolo per baciarlo velocemente sulle labbra.
“seee … seee, certo”  
“Ok, allora scusa. Scusa di averti costretto ad ammettere che mi amavi”
“Un genio. Inutile, non ce la farò mai…”

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** LOFT ***


Manco da una vita, scusatemi, spero che queste poche righe vi aiutino a perdonarmi. Grazie e ancora grazie a chi legge e lascia un commento. A presto, spero.

“Un genio. Inutile, non ce la farò mai…” lo aveva lasciato libero di compiacersi prima di aggiungere con noncuranza
“A proposito Jus, non sono rincoglionito come credi, è presto per prenotarmi il posto al ricovero per anziani”
Il marito lo aveva guardato senza capire, così Brian aveva continuato, sminuzzando un boccone di pane: “Mi posso scordare tutto, ma non il compleanno di Gus” e dopo una piccola pausa, a voce bassa in modo che potesse sentirlo solo lui “e la sera che ti ho scopato la prima volta”
Justin era scoppiato a ridere. “Te ne sei accorto. Nessun anniversario, solo il desiderio di uscire con mio marito, ma come perdere l’occasione di menartela. Per le ricorrenze sei uno scandalo, questo è assodato”
Brian l’aveva squadrato dall’alto,  aveva puntato la lingua contro la guancia e l’aveva osservato con aria strafottente.
Un’espressione tipica che aveva, da sempre, la capacità di eccitare il ragazzo che si era umettato, in un gesto istintivo, le labbra “e perché non me l’hai detto subito?”
“Perché mi piace quando credi di avermi preso per il culo. Però noi sappiamo bene che avviene di rado”  
Justin aveva scosso la testa, con divertita rassegnazione. Fosse mai che Brian perdesse un’occasione per un doppio senso.
“Chiedi il conto, perché mi sa che è una di quelle volte” e con breve cenno l’aveva portato a seguire con lo sguardo la mano che, al riparo del tovagliolo, si indirizzava all’inguine gonfio di desiderio.
“Pago io? - aveva scherzato, richiamando con un gesto del capo l’attenzione del cameriere - ma non mi hai invitato a cena tu?”
“Fai veloce - si era alzato - vado a chiamare un taxi” e l’aveva lasciato a estrarre dal portafoglio la carta di credito. Aveva aggiunto una generosa mancia e aveva raggiunto il suo dispettoso biondino sul marciapiede nel preciso istante in cui il taxi stava accostando. Gli aveva tirato una pacca sul sedere, mentre apriva la portiera.
“Taccagno e arrapante” aveva commentato sul sorriso di Justin che si accomodava accanto a lui.  Gli aveva posato la mano sulla coscia e Justin l’aveva coperta con la sua mentre dava l’indirizzo al conducente.
La mano era più piccola e non riusciva a coprire completamente la sua, lo sguardo di Brian era caduto sul brillio all’anulare sinistro che la luce dei lampioni, attraverso i finestrini, accentuava. Aveva fatto fatica ad abituarsi a quel cerchietto d’oro, per più di un anno lo aveva tormentato, girato, sfilato e rimesso in continuazione.
In ufficio ci giocava facendolo roteare come una trottola sul piano di cristallo della scrivania, mentre rifletteva o parlava al telefono, ma quando per un esame di controllo, uno dei tanti che non gli permettevano di dimenticare che aveva avuto il cancro, gli era stato chiesto di toglierlo e l’aveva depositato nella vaschetta azzurra che l’infermiera gli porgeva, beh si era accorto improvvisamente di sentirsi nudo e non perché sotto il camice ospedaliero, effettivamente, non portasse niente.
All’uscita dal policlinico aveva indossato la fede con una velocità che l’aveva stupito. Da quel giorno non l’aveva più tolta di sua iniziativa e vederla al dito di Justin continuava a dargli un piacere leggero. Non era certo, però, che l’avrebbe mai ammesso. Con la mano libera aveva sfilato il cellulare dalla tasca del cappotto.
“Ciao Brian” aveva risposto la voce ancora giovanile della suocera “dimmi?”
“Ciao, tutto ok con i ragazzi?” Incredibile, stava facendo una patetica telefonata di verifica come un qualunque dannato padre eterosessuale. “Il padre di Paul è appena passato a prenderlo, adesso io e Gus ci facciamo una tisana e ci vediamo un film. State tranquilli e passate una buona serata. Mi fai parlare un secondo con Justin?”
Senza rispondere aveva staccato l’apparecchio dall’orecchio e l’aveva porto al marito. “Eih Ma”
“Ciao tesoro, Gus mi sembra stare bene, anche se forse ha voglia di sfogarsi un po’ e le nonne ci sono per questo. Se mi dirà qualcosa di importante lo farò sapere subito a Brian, digli di stare sereno. È tutto a posto. Passate a prendere Gus domani mattina o se ne torna in treno?”
“Non ne abbiamo ancora parlato. Vi sappiamo dire qualcosa in mattinata, ok?" E dopo averla salutata aveva chiuso la comunicazione e restituito il cellulare al legittimo proprietario.
“Dice che devi stare tranquillo”
“Sono tranquillissimo”
Gli aveva passato le dita all’attaccatura dei capelli dietro la nuca e tamburellato piano. “Certo, come no.” Brian aveva scrollato le spalle e guardato fuori dal finestrino le immagini dei palazzi che scorrevano via veloci.
“Mi sembra un po’ troppo tranquillo dopo la bomba che ha sganciato. Mi pare la calma prima della tempesta”
“Certo non è finita qui, ma non ci resta che aspettare ed essere pronti a sostenerlo. Vedrai che gli farà bene stare un po’ con mia madre, hanno sempre parlato un sacco quei due” Era seguito qualche minuto di silenzio. “Non pensavo che ti avrei mai sentito fare una telefonata come questa. Non lo facevi neppure quando Gus era piccolino. Sei carino in versione apprensiva”
Si era voltato di scatto, molto sdegnato e Justin sapeva cosa gli stava passando per la testa - Un peluche è carino, un cucciolo è carino… Io non sono carino.-
“Sei sempre un gran bel papà” lo aveva stoppato, tirandolo verso di sé per un bacio tutt’altro che carino.  

Jus aveva lanciato qualche banconota, sicuramente sufficiente a pagare la corsa, sul sedile vuoto a fianco al tassista, avevano salutato al volo ed erano corsi, come due ragazzini, verso il portone di casa.
Non avevano aspettato il montacarichi e avevano salito le scale, due scalini per volta.
Era Justin a trascinare Brian tenendolo per mano e non gli aveva dato requie mentre tentava di infilare la chiave nella toppa. Aveva trascinato la porta dietro di loro e brusco aveva strattonato Brian contro la spallina in muratura della cucina.
“Cristo, Jus” aveva esclamato e si era divincolato, cercando di farsi spazio e togliersi il cappotto “Aspetta un attimo”
Il ragazzo non era dello stesso avviso, gli si era fatto addosso, petto contro petto e lo aveva spinto costringendolo a camminare all’indietro verso il divano, nel chiaro scuro delle luci che dalla strada entravano dalle grandi vetrate.  
“Spogliati” gli aveva scandito sulle labbra. “SPO-GLIA-TI” aveva ripetuto con voce stentorea e profonda, inchiodando il compagno fra il suo corpo e la spalliera del sofà.
Brian non aveva fiatato e aveva obbedito all’ordine con lentezza esasperante, fino a quando Justin gli aveva staccato le mani dai bottoni della camicia per fare lui.
Gli aveva slacciato con poca grazia la cinta e fatto scendere i pantaloni, lo aveva indotto a girarsi e con due dita gli aveva abbassato i boxer. Si era liberato dei suoi indumenti quel tanto che bastava per afferrare la sua erezione e indirizzarla verso il culo esposto del marito.
“Justin” era uscito dalle labbra di Brian e lui aveva capito.
“Lo so, tesoro, lo so” lo aveva baciato sulla schiena, allungato un braccio e dalla piccola mensola lì a fianco aveva afferrato il lubrificante.

“Wow” aveva ansimato, mentre Justin si sfilava e si appoggiava al divano vicino a lui. Si era voltato, incespicando leggermente nei pantaloni ammucchiati alle caviglie. Li aveva scalciati via e aveva circondato le spalle di Justin, tirandolo a sé e dandogli un bacio sulla guancia e poi sulle palpebre socchiuse. Justin aveva ancora il fiato corto e si era accomodato nell’abbraccio. “Ci diamo una sciacquata?” Justin aveva annuito e ridacchiando aveva aggiunto, indicando il sofà: “Credo che ne avrà bisogno anche lui” L’orgasmo di Brian non aveva risparmiato la fodera. L’acqua calda della doccia aveva sciolto i muscoli e si erano coricati soddisfatti sotto il piumone. Brian passava indolente le dita fra i capelli un poco umidi di Justin.
“Sei dannatamente eccitante quando ti fai fare”
“Vale a dire tutte le volte che ne hai voglia” aveva risposto Brian tirandogli leggermente una ciocca e sollevando il sopracciglio.
“Più o meno, in effetti” e nel dirlo aveva mordicchiato la gola dell’uomo. Amava leccarla, succhiare piano il pomo d’adamo, mordicchiargli la pelle e vedere come Brian gli lasciava spazio. Esporre la gola è un atto di resa nel mondo animale e Brian gli aveva sempre offerto la sua, fin da quando non voleva ancora ammettere di essere legato a lui. Forse è per questo che aveva sempre trovato irresistibile quella parte del suo corpo.
“Passi a prendere Gus da tua madre?”
“Non ti serve la macchina?”
“Tienila tu. Mi faccio venire a prendere dall’auto della Kinnetic, Tom sarà sotto casa domani mattina alle otto e trenta e mi riaccompagnerà a Britin domani sera.”
“Ogni tanto dimentico che mio marito è un importante uomo d’affari” aveva scherzato Justin. A Brian piaceva guidare e utilizzava di rado l’autista, ciò non toglie che ne avesse uno.
“Hai appuntamento dal preside, domani, giusto?”
“Sì, alle quattrodici”
“Mi chiami quando hai finito?”
“Certo, Sunshine” e con un bacio a fior di labbra gli aveva dato la buonanotte.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** TEMPESTA ***


Un piccolo aggiornamento in attesa della Befana e per prepararci al rientro alla normalità dopo le feste. Ciao a tutti. Sempre grazie a Nuel e Cristina che non mancano mai di commentare. 

Quando tutto sembrava essere andato nel verso giusto, la tempesta che Brian aspettava e temeva era scoppiata.
Era andato tutto bene, le ragazze erano arrivate in tarda mattinata da Toronto e Gus ne era stato contento. I
l pranzo con gli altri era trascorso in allegria e, come previsto da Justin, poco dopo aver deglutito l’ultimo boccone i ragazzi avevano salutato e si erano dileguati. Loro avevano potuto parlare con calma.
Michael si era agitato e c’era voluta l’esperienza ultradecennale di Ben per riportarlo alla calma. Linz e Mel si erano dette d’accordo sul cambio di scuola per Gus e l’indomani ne avrebbero parlato insieme al ragazzo. L’incontro con il preside di qualche giorno prima era stato convincente e Brian era ragionevolmente convito che potesse essere un buon passo avanti nel far ritrovare l’equilibrio e la serenità a Gus. Non sarebbe stato il solo a scuola con genitori omosessuali.
Poi c’erano stati i saluti.
Senza riflettere, in un gesto di conforto, aveva baciato brevemente Michael sulle labbra prima che salisse in macchina.
Era un atto così privo di finalità erotica che i rispettivi compagni l’avevano accettato da tempo, ma Gus era impazzito.
“Non puoi fare così, non potete fare così!” aveva urlato con tono esasperato e a un passo dalle lacrime.
Justin e Brian si erano voltati dalla soglia di casa e Michael era rimasto pietrificato con la mano sulla portiera dell’auto. Sua sorella osservava, incredula, la scena dal finestrino, quella sera aveva deciso di andare a dormire a casa del papà ed era già in macchina con Ben. 
Era stato Hunter a sbloccare la situazione, prendendo Gus per un braccio e chiedendogli che diamine gli fosse preso. Linz e Mel si erano affacciate alla balaustra del secondo piano, attirate fuori camera dalle urla.
L’intervento di Hunter aveva risvegliato Brian che in due passi si era avvicinato al figlio “Non fare queste scene davanti a tua sorella, non incasiniamo anche lei”. Il palmo che aveva appoggiato sulla spalla era stato scostato con fastidio. “Non sono io. Siete voi, sarete voi e il vostro cazzo di modo di fare a incasinarle la vita. Non ha scampo, neppure lei.”
Il volto gli si era contratto in una smorfia, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, si era stropicciato gli occhi e aveva chiesto sfinito: “Cosa ho fatto ‘sta volta?”

Gus aveva scosso la testa sconsolato, aveva smesso di urlare. “Niente, non capisci …” e si era girato per allontanarsi. Il padre l’aveva seguito in salotto.  
“Andate, portate a casa Jenny – aveva detto Justin – vi chiamo più tardi. Adesso è meglio se li lasciamo a vedersela fra loro”
Gus aveva sentito la porta chiudersi, ma non si era voltato. Era impalato, davanti alla finestra che dava sul giardino, le mani sui fianchi. Brian si era seduto su una poltrona e gli fissava la schiena.
“Non capisco, è vero, ma vorrei farlo. Te lo giuro”
Il figlio aveva scrollato le spalle “Lascia stare …” e sembrava davvero che volesse chiuderla lì.
“Preferirei di no. Preferirei che tu mi spiegassi”
“Papà, lascia perdere. Non è che non vuoi capire, io credo proprio che tu non possa” e nel dirlo si era passato le dita fra i capelli con un gesto nervoso e meccanico. 
“E io credo che tu mi stia sottovalutando”
Gus non aveva risposto, si era limitato a scrollare le spalle, così Brian aveva continuato.
“Ti ha dato fastidio che abbia baciato Mic -  non era una domanda, gli erano bastati i pochi passi verso il salotto per realizzarlo - quello che non capisco è perché?”
Lo sguardo di Gus, quando si era voltato, non aveva niente della solita dolcezza.
“Come immaginavo. Non capisci, non puoi capire” si era zittito per qualche istante, ma poi aveva continuato avvertendo di dovere qualcosa al padre.
“Baci Justin? Lo baci anche in pubblico? Nessun problema, è tuo marito e non sarò certo io a dirti chi devi amare. Ma perché cazzo baci Michael?”
Brian si era portato il palmo sulla fronte, stava facendo fatica. Tanta.
“È solo un gesto affettuoso. Lo facciamo da quando avevamo la tua età. Non c’è dietro niente di quello che puoi pensare” Aveva provato a spiegare.
“Ah, ma non c’entra niente quello che penso io. Non è normale baciare sulla bocca gli amici, punto. -  Aveva ribattuto con l’intransigenza dei quindici anni - ed è così che lo vede il resto del mondo, fidati. E poi tu non baci mica solo Michael, tu baci sulla bocca anche la mamma, a volte. Che poi visto dal di fuori è forse una delle poche cose normali che fai, peccato che neppure questa lo sia, perché mamma è sposata con Mel”
“Maledizione Gus, da quando tieni statistiche su chi bacio e come? È vero capita che lo faccia con tua madre e Mic, che sono due delle persone più importanti della mia vita, ma a sentir te sembra che vada in giro a baciare la gente sulla bocca. Non è così, puoi giurarci.”
“Conosci altri che lo facciano con le persone importanti della loro vita? Io no” aveva concluso irritato il figlio.
“Non è usuale, hai ragione, ma …” era stato interrotto “MA TU TE NE FREGHI, tu fai come cazzo ti pare, tu sei ingestibile. Prova a immaginare se ti vede qualcuno dei miei amici mentre baci l’amico davanti al marito … No, papà – aveva stretto gli occhi in una smorfia – mi sotterrerei dall’imbarazzo”
Brian si era alzato, gli si era parato innanzi e gli aveva messo le mani sulle spalle, tendendo le braccia stese. Con le dita stringeva forte, non da fare male, ma tanto da farsi sentire.  
“Ok Gus, adesso respiri e ti calmi. Ho capito, ma ora lascia che parli io.” Poi gli aveva fatto scivolare i palmi lungo le braccia e aveva cercato le parole giuste.
“Ho capito la tua paura, però, escludendo il fatto, per il qual nessuno può farci nulla, che hai entrambi i genitori omosessuali, quante volte è capitato che io ti mettessi in imbarazzo in giro?”
Gus si era stupito nel trovarsi a rispondere: mai.
“Bene e sai perché?”
Il ragazzo aveva scosso la testa.
“Perché, anche se ti pare impossibile, ci so stare al mondo. Credi che in ufficio io sia come a casa? Non ho mai nascosto chi sono, ma non lo sbatto in faccia a nessuno. Vivo e lavoro in una realtà principalmente etero, a volte omofoba, credi che sarei dove sono se non sapessi come evitare di mettere in difficoltà le persone?
Non è esattamente il Brian al quale sei abituato, effettivamente ho un doppio registro: uno per l’esterno e uno per il mio mondo, la mia famiglia, per quella parte di vita che posso vivere senza pensare troppo e dove essere veramente libero. Tu mi conosci quasi esclusivamente nel secondo ambiente dove i gesti che reputi anormali sono compresi, ma non lo farei mai, ad esempio, quando ti vengo a prendere a scuola. Puoi fidarti di me, Gus. Non sono pericoloso come temi”
Il ragazzo era rimasto silenzioso e poi aveva sputato “Ok”
Brian gli aveva puntato l’indice sotto il mento, costringendolo a guardarlo “Ma …”
Gus aveva preso un respiro profondo prima di confessare. “Forse sono come tutti quei dannati etero e quel cazzo di mondo che ti impedisce di essere spontaneo, ma a me dà fastidio che baci Michael”
Brian aveva annuito secco. “Ricevuto, niente baci sulla bocca a Mic davanti a te. Sarà fatto.”
Gus l’aveva osservato un po’ intimorito, non riusciva a capire il tono della risposta del padre che per fortuna aveva chiarito da lì a un attimo.
“Non vedo perché mi debba preoccupare di rispettare la sensibilità di estranei e non quella di mio figlio.”
“Papà, sei … non lo so neppure io come sei …” era incespicato nella parole, ma sorrideva mentre le inseguiva.
“Sono quello che ti passa il convento” gli era venuto in aiuto il padre.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** VALDO SCHOOL ***


Il massimo che erano riusciti a cavargli di bocca, quando chiedevano della giornata, era stato: ”Normale
Non un commento, non un’impressione. Muto. Per due settimane.
La mattina era puntuale, saltava sulla macchina del padre e andava a scuola.
Brian non sapeva bene cosa dire a Linz e Mel quando gli chiedevano come procedeva.
Non aveva più avuto attacchi di rabbia o di pianto, la notte pareva dormire, anche se gli era capitato di sentirlo lamentarsi nel sonno. L’ostinato silenzio di Gus sulla scuola lo preoccupava, e aveva preso l’abitudine di passare dalla camera del figlio prima di ritirarsi per la notte.
Gus di solito dormiva già e lui si fermava qualche momento a guardarlo, cercando di immaginare cosa si agitasse nell’animo del ragazzino.
Aveva deciso di seguire il consiglio di Justin e si sforzava di non essere insistente, di lascialo ai suoi spazi e ai suoi tempi, fidandosi del fatto che per il resto sembrava allegro e aveva comportamenti normali.
Da qualche giorno Gus aveva preso l’abitudine di accompagnarlo quando, tornato dal lavoro, andava a correre prima di cena. Si allenavano per una quarantina di minuti, correvano fianco a fianco e si aiutavano con gli esercizi di stretching a fine sgambata. Magari Gus avrebbe anche fatto conversazione, ma per lui ormai era troppo tenere un buon ritmo e contemporaneamente scambiare più di qualche breve frase, ma trovarlo pronto, già in tenuta da corsa, quando rientrava, stava rapidamente diventando una piacevole abitudine. Justin negava, ma non poteva essere un caso che ultimamente trovasse sempre un buon motivo per allenarsi durante in giorno, così la corsa serale era diventato un momento esclusivo fra lui e Gus.
Diavolo di un marito e della sua delicatezza, sperava solo che tutto il tormento di Gus e l’improvviso cambiamento della loro routine non pesasse troppo su Justin.   
Con la gamba tesa, appoggiata sulla staccionata di casa, dopo 17 giorni esatti dal momento in cui l’aveva accompagnato dal preside il primo giorno nella nuova scuola, gli aveva chiesto di poter andare da solo, la mattina, in treno.
Evidentemente non era stato bravo a nascondere il dubbio che gli era affiorato nella mente, perché Gus si era preoccupato di chiarire: ”Tranquillo Pa’, non voglio marinare, giuro. Due miei compagni salgono alla stazione dopo la nostra, vorrei andare con loro.”
Un sospiro e un leggero sorriso, si era asciugato il sudore con la maglietta. “Ah ma allora hai dei compagni, iniziavo a sospettare che fossi l’unico studente e che quelli che vedevo dal cancello fossero delle comparse”
Gus aveva stretto le labbra in un sorrisino che virava alla smorfia. L’ironia del padre ci stava tutta.
“Non è male la Valdo School” aveva ammesso “e la gente mi pare ok”
Aveva registrato la notizia con sollievo e invece di gettarsi in un interrogatorio si era limitato a chiedere: “Come si chiamano i due del treno?”
“Philip e Samuel -  poi aveva aggiunto come se fosse la conclusione normale -  dopodomani ho il provino per la squadra di soccer, spero di essere riuscito a rifarmi un po’ di fiato”
“Un figlio con gusti europei mi sono fatto. La cattiva influenza di Justin e tua madre. Dove sono finiti i sani sport nazionali?” aveva scherzato intimamente felice. Se Gus cercava di entrare nella squadra di calcio a scuola stava andando bene, molto bene. Aveva cambiato gamba e allungato i muscoli anche di quella destra “quindi sei venuto a correre con me per rifarti il fiato, eh? E io che pensavo a un attacco di amore filiale” lo aveva provocato.
Gus gli aveva tirato una spallata leggera, sufficiente a farlo sbilanciare e a costringerlo a mettere il piede per terra. “Non sei male, Pa’” e l’aveva lasciato a raccogliere l’asciugamano dal prato mentre entrava in casa incrociandosi con Justin che stava uscendo.
“Dal profumo che si sente credo che Naty vi abbia preparato burritos di carne, mi spiace quasi uscire”
“Da come ti sei vestito non direi” aveva commentato ancora accucciato per terra guardando il marito che si gingillava con le chiavi dell’auto davanti a lui.
Justin aveva accennato una piroetta: “sto bene eh?”
“Stai bene. Andate a ballare dopo lo spettacolo?”
“Non ne ho idea, nel caso ci raggiungi?”
“No, ho da lavorare. Divertiti” gli aveva lasciato un bacio leggero sulle labbra senza avvicinarsi troppo dal momento che era parecchio sudato e Justin si era incamminato verso l’auto ferma nel vialetto.
“Jus, ogni tanto potresti anche metterla in garage”
Il marito aveva alzato le spalle, ridacchiato e fatto ciao ciao con la mano, mentre saliva in macchina.
Justin era inciampato e aveva picchiato lo stinco contro il comodino, gli era sfuggita una imprecazione che aveva svegliato Brian. Lo sguardo era caduto sulla radiosveglia: 2.54.
Si era tirato leggermente su, mentre il marito si infilava sotto le coperte e si andava ad appoggiare a lui.
“Mi spiace di averti svegliato -  Justin odorava di tabacco e aveva l’alito leggermente aromatizzato al whiskey – siamo andati a ballare al Mako, c’era un DJ da urlo. Dobbiamo tornarci insieme.” “Immagino che ti sia divertito visto che sei rientrato sul filo del rasoio.”  
Lì per lì Justin non aveva capito la risposta, poi aveva seguito lo sguardo di Brian che indicava l’orologio che nel frattempo segnava le 2.57 e a aveva sorriso.
“Urca che rischio - aveva commentato poco serio - non me ne ero neppure accorto”
Brian gli aveva strofinato le nocche sulla testa “Scemo” aveva stabilito e lo aveva stretto meglio con il braccio per non farlo scappare.
“Ancora non mi capacito di essermi fatto dettare regole da un ragazzetto petulante” gli aveva lasciato un bacio fra capelli e si era fermato un momento di troppo a respirare l’odore del marito.
“Vieni a vivere con me, ma ricordati che non siamo sposati, non siamo lesbiche, non siamo qui, non siamo là. Quello petulante secondo me eri tu”
Brian aveva soffocato le risa sulla bocca di Justin “Non sei più un ragazzetto, ma sei rimasto petulante, mi pare evidente”
Justin si era girato e lo aveva baciato con più decisione, poi si era staccato e si era messo comodo. “Un po’” aveva ammesso, in fine, poi si era fatto più serio. “Lo sai vero che mi dispiace di averle puntualmente disattese tutte le regole che ci eravamo dati”
“Tranne quella delle 3” aveva risposto Brian per alleggerire la tristezza che sentiva nella voce di Justin.
“E’ vero, quella l’ho rispettata ed è l’unica che hai infranto tu, ma non per colpa tua”
“Oh Jus, ma la puoi smettere di incupirti quando capita che ricordiamo la faccenda delle regole? Ho guardato l’ora per ridere”
“Lo so che era per ridere, ma quando penso che te le ho fatte tutte: ho baciato sulla bocca, ho rivisto la scopata e mi sono pure invaghito … ogni volta mi sento in colpa per come ti ho trattato in quel periodo”
“Beh è l’ora che la pianti. Sei stato un po’ stronzo, è vero, ma non è che io brillassi in quei momenti. Tu eri piccolo e io non li ho usati bene i 12 anni in più che avevo, ho preteso che tu avessi reazioni da adulto, ma non lo eri, ti ho lasciato solo a vedertela con uno stile di vita che non avevi scelto, ma accettato per stare con me, ti ho lasciato solo a combattere con la mia paura di dare un nome ai sentimenti e quando ho visto che stavi scivolando via invece di dirti: che cazzo fai? Non ci provare, sai! Ti ho lasciato tutto il peso della decisione senza dire una parola.
Jus, ce ne è per tutti e due e io credo che dopo tredici anni possiamo perdonarci, ma perdonarci sul serio. Ti amo, testolina bionda e ci ho messo cinque anni e una bomba per imparare a dirtelo”
“E io ti amo, ti amavo e ti amerò sempre. Sempre, hai capito Brian?”

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** MANIE ***


​Un micro pezzettino per augurarvi buona domenica. Grazie a Nuel, Criestina qaf, Acos e benvenuta a Ratalyyz

Durante la notte era caduto qualche centimetro di neve, l’ultima di stagione, che e il sole mattutino di marzo stava già sciogliendo. Brian si era perso a seguire il ticchettio delle gocce che scivolavano dal tetto e cadevano nella gronda. Aveva socchiuso la finestra mentre si faceva la barba e guadava Justin raccogliere il giornale dallo zerbino davanti all’entrata, aveva i capelli sparati, l’aria un po’ stralunata ed era già in tenuta da lavoro.
La sua terza personale a NY era alle porte, mancavano poche settimane  e come sempre in questi casi suo marito entrava in orbita e si sconnetteva dal resto del mondo. Non invidiava i suoi studenti in questi momenti.
Menomale che il peggio con Gus sembrava veramente passato. Era a Pittsburgh da poco più di tre mesi e sembrava aver ritrovato la serenità, per quanto il concetto sia associabile a un adolescente.
Stava di fatto che la casa risuonava di musica che non capiva, si stava abituando a irruzioni di ragazzetti assortiti e il campo da tennis aveva di nuovo motivo di esistere, lì sotto il pallone che gli costava una fortuna tenere in funzione durante l’inverno. C’erano più briciole, più scarpe lasciate in giro, più urla, ma anche più rumorosa allegria per casa.
In quel momento, quasi a conferma, aveva sentito sbattere la porta dell’ingresso e visto Gus schizzare come una saetta nel vialetto, con lo zaino su una spalla e la camicia mezza fuori dai pantaloni.
Aveva aperto di più la finestra: “Gus, cazzo!”
Il ragazzo aveva alzato il viso, senza smettere di camminare veloce: “Scusa Pa’, mi è scappata”
“Infilati la giacca e cerca di non andare in giro come un profugo” aveva concluso prima di chiudere la finestra e passarsi l’asciugamano sul viso per togliere i rimasugli di schiuma.
Era indifferente alla moda, ai vestiti di marca, usciva sempre mezzo scalcagnato: jeans, sneakers ai piedi e felpa con il cappuccio il suo standard quando non era costretto nella divisa scolastica.
In questo sembrava più figlio di Justin che suo.
Justin – pensò - scendendo le scale, diretto in cucina per buttare giù almeno un caffè prima di uscire. Justin che non aveva figli. Aveva – sperava - quasi tutto ciò che desiderava, che aveva sempre desiderato: un marito (e che marito, si disse, schioccando la lingua), una bella casa, il suo fottuto steccato bianco e un lavoro che amava, ma non aveva figli.
Un figlio no, non era stato capace di darglielo.
In compenso gli aveva offerto, con prodigalità, le rogne e le preoccupazioni che il suo di figlio, procurava.
Se Justin avesse immaginato cosa stava pensando, sicuramente l’avrebbe mandato a fanculo perché amava Gus e ne era ricambiato, questo era certo, ma aveva sempre sostenuto che Gus un padre ce l’aveva e secondo questa massima aveva impostato il suo rapporto con lui.

Aveva sorriso a Naty che gli porgeva un caffè fumante e gli proponeva, con materna sollecitudine, un muffin per non farlo uscire a stomaco vuoto. “Lo mangi Signor Brian, dia retta a me. E’ buono, l’ho appena sfornato”
Justin era entrato in cucina subito dopo di lui “Naty, ne versi un po’ anche a me?” aveva chiesto e nel dirlo aveva allungato la tazza.
“Certo Justin, dai qua”
Da qualche anno Naty avevano accettato di dare del tu a Jus e di riceverlo in cambio, ma con Brian niente da fare. Era decisamente affettuosa, sempre molto solerte e attenta, ma gli dava rigorosamente del Lei, chiamandolo però per nome. Così lui era ondivago, passava dal lei al tu, rivolgendosi alla donna a seconda del momento e del livello di sbadataggine.
Un po’ gli spiaceva, le era affezionato quanto Justin.
“La metti in soggezione, Brian. E’ una tua dote naturale, eh! Non è che lo fai apposta.” Lo prendeva in giro il marito, quando si lamentava della faccenda.
“Jus, NOOO. Fermo!” aveva urlato, rischiando di strozzarsi con il caffè.
Troppo tardi. Justin si era seduto su una delle splendide, costosissime, firmatissime poltroncine che da poco avevano comprato per rinnovare la zona relax dell’ampia cucina. E l’aveva fatto con i pantaloni della tuta imbrattati di vernice. 
In piena fase artista svaporato non si era accorto di nulla e stava guardando Brian come si fissa un marziano.
“Ti odio” gli disse indicandogli con disgusto la macchia sulla morbida pelle della seduta.
Al che Justin aveva capito, gli aveva sorriso nel modo che solo lui sapeva e soave aveva risposto: ”Non è vero, mi ami” e si era accomodato meglio, soffiandogli un bacio dalla mano.
“Fidati, in questo momento un po’ ti odio - aveva replicato Brian, arrivandogli vicino. - Alzati, che magari si riesce ancora a smacchiare” aveva intimato.
“Sono lavabili” gli aveva risposto, tirandosi su contro voglia. In tanti anni di convivenza ancora mal tollerava la fissazione di Brian verso l’arredamento di design, o meglio a lui stava bene circondarsi di cose belle, visto che potevano permetterselo, ma cazzo erano oggetti.
“Te la ricompro, non rompermi le palle” e su quelle parole si era allontanato con un certo scazzo. “E certo perché le poltrone sono mie” l’eco della replica di Brian lo aveva inseguito mentre usciva dalla stanza con la tazza in mano.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** IBIZA ***


“Vado” gli aveva detto affacciandosi alla soglia dello studio, mentre si infilava l’elegante cappotto cammello.
Justin si era girato a malapena, lanciandogli un’occhiata veloce, per tornare a concentrarsi sul grande dipinto che tre imponenti cavalletti sostenevano a stento. Altri avrebbero potuto pensare che fosse arrabbiato per lo screzio di poco prima, non Brian.
Lo conosceva bene. Justin lo stava guardando, ma non lo stava vedendo.
Con due ampie falcate gli si era avvicinato, gli aveva lasciato una carezza fra i capelli e tirato un affettuoso, leggero, scappellotto prima ricordagli di mangiare qualcosa in tutto il giorno. In questa fase poteva arrivare a ignorare per ore il vassoio che -  era certo - Naty gli avrebbe portato all’ora di pranzo.
Justin aveva annuito brevemente, ma sembrava tanto un riflesso pavloviano, più che una risposta. Brian aveva sollevato le spalle e sorriso, poi aveva afferrato la ventiquattrore appoggiata sul pavimento ed era uscito dalla porta.
“Ci penso io, Signor Brian” aveva commentato Naty con un’espressione complice. Brian aveva replicato con un occhiolino e aveva risposto al cellulare che trillava nella tasca. Tom lo aspettava fuori con l’auto già in moto per portarlo all’aeroporto. Toccata e fuga, in giornata, a Filadelfia.

Mentre in attesa del decollo si allacciava la cintura e nelle orecchie arrivava, come un suono irrisolto, la voce dell’hostess che spiegava la solita procedura di sicurezza, si era trovato a pensare a quante cazzo di volte era salito su un aereo durante gli anni che Justin era stato via.
Fra il marito a NY e il figlio a Toronto aveva accumulato più miglia di un pilota di tratte intercontinentali. Buona parte di quei punti li avevano spesi che non erano neanche un anno, un attimo prima che scadessero.
Se ne erano andati in giro per il vecchio continente per cinque settimane e Justin aveva preteso qualche giorno a Ibiza, rinfacciandogli che erano almeno dieci anni che glielo prometteva. In realtà era sembrato a entrambi il momento giusto per esorcizzare tutte le paure che il nome di quell’isola portava con sé.
In quell’occasione aveva scoperto che il marito parlava spagnolo meglio di lui e ne era rimasto sorpreso, che lui sapesse Justin aveva studiato francese, così aveva scoperto che il suo ragazzino aveva avuto una tata messicana ed era, di fatto, bilingue.
“Chissà le sghignazzate che ti sei fatto quando sfoggiavo il mio spagnolo, stronzetto” aveva commentato mentre stupito lo sentiva parlare con il tassista che dall’aeroporto li stava portando all’albergo in centro a Barcellona.
“Un po’”
aveva risposto il piccolo bastardello, tirandogli un’amichevole pacca sulla coscia.
Non era stata quella però la vera rivelazione del viaggio.

Durante una cena a base di pesce, dopo una bottiglia di fresco vino bianco e mentre una piacevole brezza marina scompigliava i capelli biondi Justin, una pallina rimbalzina, di gomma colorata, era scivolata sotto il loro tavolo, subito seguita da un piccoletto di forse tre anni che, in un lampo, era sfuggito al controllo paterno ed era sgusciato a rincorrerla. Justin aveva sollevato la tovaglia per rendere la ricerca più facile al giovane recuperatore mentre Brian rassicurava che non c’era problema, non li stava disturbando.
Due sorrisi, un saluto in quella lingua universale che è l’inglese e per lui sarebbe finita lì, invece Justin aveva iniziato a giocare con il bambino ed erano finiti a offrire un bicchiere di vino a Kimi, il padre, mentre attendeva la moglie e che si liberasse un tavolo.
Quella notte Justin aveva iniziato a parlare di figli.
Quello che lo aveva lasciato senza fiato era il senso di ineluttabilità che aveva avvertito nelle sue parole.
“Questa volta vorrei essere io il padre biologico … ”
Si era limitato ad ascoltare e infine a tappargli la bocca nel modo che gli riusciva meglio.  

Non aveva quasi chiuso occhio e si era sentito anche un po’ un coglione. Come cazzo aveva fatto a farsi prendere alla sprovvista in questo modo? Justin non aveva mai fatto mistero di questo desiderio e solo la sua incredibile capacità di rimuovere aveva potuto portarlo a credere che il silenzio di quegli ultimi anni fosse una rinuncia. E pensare che subito dopo il matrimonio era stato lui a immaginarsi di nuovo padre.
Padre insieme a Justin.
Justin che era poco più di un ragazzino, con la vita da vivere, una carriera da inventare e poi lanciare. Justin che viveva a NY, Justin che non aveva più accennato minimamente all’idea di diventare genitori e lui … beh lui non aveva aperto bocca.
L’aveva già portato a crescere più velocemente del tempo e non l’avrebbe messo in crisi.
Cristo, si era detto, Justin ha solo ventitré anni.

Adesso, a trentadue, quel ragazzino, diventato uomo, dava per scontato che avrebbero avuto un figlio.
Lui a quasi quarantacinque si sentiva, sul serio, troppo vecchio per una scelta simile.
Erano due uomini, la paternità una conquista complicata e lunga. No, non aveva più giorni da spendere in una battaglia che, se vinta, l’avrebbe visto ormai più vicino ai cinquanta anni che ai quaranta. Era davvero troppo tardi per lui.
Si maledisse ancora una volta, in silenzio, guardando il viso di Justin che con la bocca leggermente aperta gli dormiva a fianco, per non aver parlato quando avevano ancora tempo. Quando lui aveva ancora tempo.
Doveva trovare il coraggio di dirlo a Justin e doveva trovarlo in fretta. Aveva passato leggero le dita fra i capelli del marito che aveva sospirato, si era voltato un poco, ma aveva continuato a dormire.
Con un dito gli aveva disegnato la mascella, ruvida per la barba della notte e si era alzato per andare in bagno. Il brivido che aveva sentito, sollevando il lenzuolo, non era per l’aria fresca della prima mattina, ma per il timore.
Il timore della reazione di Justin.    


Grazie a Nuel, ACost, Cristina qaf e tutti quelli che recensiscono, a quelli che leggono e non recensiscono a tutti quelli che passano da questa storia. 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** CONOSCERE O IMMAGINARE? ***


Come sempre grazie a Nuel, Cristinaqaf e Acost per i loro puntuali commenti. Questa volta sono riuscita ad aggiornare in tempi brevi, spero vi piaccia. A presto.

Aveva giurato che non lo avrebbe mai più rivisto quello sguardo. Non per colpa sua almeno, invece eccolo lì, negli occhi di Justin.
Come un milione di anni fa quando aveva scelto Ethan perché si era sentito tradito e abbandonato.
Brian aveva avuto una fottuta paura. Una fottuta paura che aumentava via via che passavano i secondi sulla sua ultima frase e Justin lo fissava, in quel dannato modo, senza dire una parola. La voce, alla fine, era arrivata da un posto molto lontano, irraggiungibile, si era trovato a temere Brian.
“Non vuoi un figlio con me”
Il tono così imperscrutabile che non era riuscito a capire se fosse una domanda, una costatazione o una condanna.
Poi si era girato, gli aveva dato le spalle e si era incamminato lungo la battigia. Lui era rimasto impalato, non sapendo decidere se seguirlo o lasciarlo in pace. Lo aveva visto diventare sempre più piccolo, camminare come fosse solo sulla spiaggia, scansando senza accorgersene persone, schizzi d’acqua e qualche pallonata.

“Questo schifo di isola, porta una sfiga di merda” aveva masticato fra i denti e si era messo a correre. Quel “dove cazzo vai?” che non aveva detto dieci anni prima, gli era uscito prepotente dalla bocca, mentre un po’ in affanno lo afferrava per un polso prendendolo da dietro. Justin aveva scrollato il braccio, ma non era un gesto secco, sembrava rassegnato.
“Lasciami”
“No”

Aveva sospirato alzando gli occhi e il viso al cielo.
“Brian, ti ho detto di mollarmi” aveva ripetuto con voce piatta.
“E io ti ho detto di no. Non ti mollo, Jus”
“Per piacere, lasciami in pace. Voglio stare da solo”
“NO” aveva ripetuto, come un fottuto ordine, a quel punto Justin si era incazzato e l’aveva strattonato con forza.
“Ti ho detto di lasciami, brutto figlio di puttana”
Brian, a costo di fargli male, non aveva mollato, anzi aveva rafforzato la presa e aveva sentito la pelle di Justin cercare di sfuggire, sudata, dalle sue dita. Era stato il suo turno di strattonare. Justin aveva perso l’equilibrio per un istante, il tempo sufficiente perché Brian lo agguantasse con il braccio libero e lo stringesse a sé, senza mollare il polso del marito.
Con la bocca all’altezza dell’orecchio aveva detto con il respiro spezzato: “Sei incazzato. Hai ragione. Hai tutte le ragioni. Non lo so come ne usciremo, se ne usciremo - aveva aggiunto stringendo gli occhi e la mascella - ma non facciamolo da soli. Lo sappiamo, l’abbiamo già provato. In questi momenti, se stiamo soli facciamo delle gran cazzate. Per favore Jus, non da solo.”

C’era voluto quasi un minuto perché la rigidità di Justin cedesse e il corpo tornasse materia viva fra le sue braccia.

“Ok, ma lasciami il polso, mi stai facendo male e io con le mani ci lavoro”
Aveva accennato un breve massaggio sulla pelle arrossata prima di staccare la presa, ma Justin era sembrato quasi infastidito e allora aveva mollato, sperando che non se ne andasse. Non era sicuro di avere le forze e il coraggio per inseguirlo di nuovo. Justin però era rimasto, si erano guardati rapidi negli occhi e si erano incamminati, con passo pesante, fianco a fianco, abbastanza vicini da sentirsi, ma senza sfiorarsi.
Brian sapeva che toccava a lui, che aveva poco tempo e nessuna rete di sicurezza per le parole che stava per pronunciare.
“Ti sbagli se pensi che non voglia un figlio con te. Ti sbagli, ma devi fare un atto di fede, me ne rendo conto, per credermi. Sei la mia famiglia e il mio amore questo invece lo sai. Parti da questo per ascoltarmi, decidere se puoi perdonarmi e provare a capire quel che sto per dirti.”
Justin lo ascoltava imperturbabile, non lo avrebbe aiutato questa volta.
Si era passato le mani sul viso, prima di continuare “siamo due uomini, io non posso mettere incinto te e tu non puoi farlo con me e non possiamo decidere di provarci immediatamente, stanotte, adesso – si sentiva un po’ idiota a sottolineare l’ovvio, ma voleva disperatamente che il suo pensiero arrivasse deciso, netto e onesto a Justin – avremmo davanti due strade: maternità surrogata o adozione. Entrambe, posto che per me siano entrambe accettabili e non lo sono, richiedono tempi significativi anche se la prima meno rispetto alla seconda e io sono vecchio Justin. Fra pochi mesi avrò quarantacinque anni, se anche decidessimo adesso e tutto filasse liscio come l’olio, occorrerebbero, nel migliore dei casi, più di due anni, realisticamente almeno tre o quattro per l’adozione e quando questa creatura arriverebbe avrei quasi cinquant’anni. Troppi, Justin, non me la sento. Non credo sia senza problemi essere figli di due omossessuali e sto bambino… a vent’anni pure un padre di settanta si ritroverebbe. No – aveva scosso la testa – non ce la faccio”
“Con la surrogata si può fare veloce, molto veloce. Non saresti così vecchio”

Brian aveva appena registrato con sollievo che con questa affermazione Justin quanto meno sembrava accettare che il suo non era un rifiuto ad avere un figlio con lui, che il giovane aveva aggiunto “e poi sarei io il donatore”
“Se non stiamo parlando di un eventuale nostro figlio, ma di tuo figlio, allora non ti servo né io e né il mio consenso” lo aveva freddato “e poi lo sai come la penso sulla maternità surrogata”
E qui Justin aveva sbroccato: “NO, NON LO SO COME LA PENSI. NON SO MAI UN CAZZO DI QUELLO CHE PENSI, ANCHE QUANDO CREDO, QUANDO MI ILLUDO – aveva chiosato amaro - CHE NON SIA COSI’”
“MA CHE CAZZO DICI!” aveva urlato pure Brian “Cosa non sai? Sai tutto, tutto quanto di me. TUTTO Justin, tutto. Mi conosci meglio di me stesso, ma che cosa cazzo dici!?”
“No, NO porca puttana, NO! Io ti intuisco, io ti sento, ma tu NON PARLI. IO NON LO SO cosa pensi della surrogata, io CREDO di saperlo.”

“E cosa credi di sapere?” aveva risposto un po’ troppo sarcastico.
“Che non sei d’accordo” aveva ribattuto Justin, fissandolo con sfida.
“Vedi che lo sai…”
“In questo momento l’unica cosa che so è che non mi capacito di non averti ancora mandato a fanculo. Rimedio subito: VAFFANCULO, Brian, vaffanculo!”
e con entrambe le braccia l’aveva spintonato, allontanandolo da lui.
“Perché? Perché diavolo non me l’hai detto che iniziavi a sentirti troppo vecchio per l’adozione? Perché maledettissimo stronzo, perché? Lo sapevi che per me andava bene, forse anche meglio. Un bambino che già c’è ed è solo: poteva avere noi, Brian, poteva avere noi! Ma perché mi hai fatto una cosa simile?” le prime parole erano ancora cariche di rabbia, le ultime umide di lacrime trattenute e di sconforto.
“Perché prima eri troppo giovane, poi non hai più nemmeno accennato alla cosa e ho pensato che avessi cambiato idea. Perché non volevo forzarti, l’avevo già fatto troppo e troppo a lungo. Perché volevo che facessi la tua vita benché ti sia sposato quando gli altri giocano ancora.”
“Eh ma allora tu non sei solo stronzo, tu sei un coglione!” gli aveva esploso in faccia Justin, a due centimetri dal naso e iniziato a riempirlo di pugni ai quali Brian non replicava, si limitava a schivare o parare quelli che riusciva.
“Hai detto che ho ragione a essere incazzato, ma io non sono incazzato, Brian – anche se la furia con la quale cercava di colpire il marito lo smentiva - sono ferito, ferito a morte e per colpa tua. Tu. L’unico dal quale non ho mai pensato di dovermi difendere”

Come improvvisi erano partiti, così i colpi si erano arrestati. I pugni erano rimasti inerti sul petto del compagno che aveva fatto qualcosa che mai, mai in vita sua Justin aveva pensato di vedere. Lacrime silenziose gli stavano rigando il volto. Brian Kinney, il suo Brian, piangeva fissandolo con lo sguardo vuoto. Ferito come era ferito lui. Gli aveva aperto i palmi e portato le mani sulle guance, ormai bagnate e le aveva coperte con le sue, premendole forti su di sé. Il fiato era corto, sembrava perfino aver smesso di respirare. E Justin non era riuscito ad allontanarsi. Non era riuscito a scrollarsi via, era rimasto con le mani fra quelle del marito incollate al suo viso umido.
“Dio Justin, dio mio cosa ho fatto” e poi silenzio, solo respiro affannato e lacrime.
E Justin in quel momento aveva capito, quasi contro la sua stessa volontà, che sarebbe rimasto, che avrebbe cercato di comprendere e sperato di saper accettare quella rinuncia ormai definitiva.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** PERSONALE ***


Solo due righe per augurarvi buon San Valentino

La personale era andata piuttosto bene, lui era rientrato a casa il pomeriggio successivo con Gus che aveva già perso due giorni di scuola per essere presente e, considerato l’anno turbolento che andava chiudendosi, a Brian erano sembrati più che sufficienti. Justin, invece, si era trattenuto qualche giorno ancora per discutere con il gallerista, prendere accordi con il suo manager e partecipare a qualche evento mondano nella Grande Mela, nonché farsi qualche riga di fatti suoi.
Da quando era rientrato definitivamente a Pittsburgh aveva preso l’abitudine di tornare, con regolarità, a NY per qualche settimana. Non solo per la cura che la sua carriera richiedeva, ma perché in quel modo era riuscito a mantenere i contatti con la sua vita newyorkese, quella che si era costruito nei tre anni che aveva trascorso lì.
Non avevano affittato l’appartamento che Justin aveva occupato in quel periodo, era chiaro che a New York si sentiva a casa ed era lì che soggiornava quando vi tornava. Fortunatamente all’epoca non gli aveva dato retta quando voleva accontentarsi di un piccolo bilocale e avevano comprato un appartamento piuttosto arioso con tre camere da letto e uno studio per dipingere, cucina, sala e due bagni e ciò che l’artista amava di più, un piccolo, ma abitabile terrazzo così, adesso che Gus aveva chiesto di rimanere a vivere con papà, anche la casa newyorkese era in grado di accoglierli tutti.
In un primo momento Linz e Mel avevano accusato il colpo, non aspettavano altro che, terminato l’anno scolastico, il loro ragazzo, nuovamente sereno, tornasse. Non si erano, però, opposte al fatto che Gus rimanesse a Pittsburgh.
Brian era il padre ed aveva dimostrato di essere la guida e il punto di riferimento che il figlio adolescente cercava.
Quella che aveva sofferto maggiormente della decisione era stata JR che per compensare passava più tempo possibile a Britin quando scendeva da papà. Durante quei mesi Brian, Justin e Gus erano diventati proprio un bel terzetto e la scelta della scuola valdese si era rivelata fondamentale e vincente.
Mister Kinney si era scoperto inaspettatamente felice quando Gus gli aveva chiesto se poteva rimanere a finire il liceo a Pittsburgh. Il fatto che il figlio avesse dato per scontata la risposta l’aveva fatto sentire bene.
Si era abituato ad averlo per casa e avrebbe fatto fatica a vederlo partire per ricominciare con la routine di un we ogni due e delle settimane di vacanza. Invece era bello godere dei momenti in cui andava a Toronto dalle mamme per ricominciare a fare vita di coppia, sapendo però che sarebbe tornato a casa da lui.
Avevano cambiato l’ordine dei fattori, il risultato era cambiato e a Brian piaceva di più.
Sorrideva con una punta di disagio nel ricordare quanto aveva schernito Michael quando insieme a Ben avevano accolto e poi adottato Hunter, solo adesso capiva ciò che il suo amico aveva realizzato in quel momento.
Faceva fatica a dimostrare a Justin quanto gli fosse grato di essere com’era. Di quanto lo amasse per il modo in cui aveva accettato di rivoluzionarsi nuovamente la vita per andare incontro alle esigenze di Gus e quindi alle sue. Solo lui sapeva quanto amore ci volesse, perché solo lui sapeva della scelta che, dolorosamente, un anno e mezzo prima avevano fatto di non avere figli loro. Solo lui sapeva quanto questo fosse costato al marito. Eppure era lì ad essere felice con lui e per lui di avere Gus a Britin.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** FLORIDA ***


Aveva organizzato in modo che Jennifer si fermasse da loro per dare un occhio nonnesco al nipote, che non pensasse di poter fare quel che voleva e far impazzire Naty e Nando. Quanto a lui aveva intenzione, venerdì sera di rapire Justin, di ritorno da NY, di non fargli lasciare l’aeroporto, ma semplicemente di cambiare aereo.
“WOW che onore – gli aveva detto dandogli una pacca sulla spalla e appioppandogli il borsone, prima di piegarsi ad allacciarsi la scarpa – le quattro del pomeriggio e il Signor Kinney non è a produrre fatturato, ma a prendere il marito all’aeroporto. Deduco di esserti mancato” aveva concluso sorridendo. “Tu lo hai fatto” e gli aveva schioccato un bacio sulle labbra che Brian stava stendendo in una risatina.
“Mmmh, un pochino, forse” aveva risposto, passandogli un braccio sulle spalle “hai volato bene? Sei stanco?”
“Eih, Brian, dove vai? L’uscita è dall’altra parte” lo aveva interrotto, accorgendosi che si stavano dirigendo verso gli imbarchi.
“Non andiamo a casa, andiamo al mare” lo aveva sorpreso il compagno.
“Al mare?  aveva risposto incredulo - Arrivo da NY, te lo ricordi? Non ho nulla di appropriato in valigia. E Gus? E poi io settimana prossima ho lezione. E …”
“E piantala! - aveva bloccato sul nascere le obiezioni - tutto sistemato: Gus con tua madre da noi e io sono in grado di preparare i bagagli per entrambi, cosa credi? Già imbarcati. L’Università è avvisata, hai tanti di quei giorni arretrati di ferie che all’amministrazione non sembrava vero. Quindi zitto e muoviti che rischiamo di non riuscire a fare il check-in.”
A Justin si erano illuminati gli occhi. “In vacanza? Stiamo andando in vacanza noi due?”
“Puoi giurarci ragazzino – gli piaceva chiamarlo ancora così, a volte, probabilmente lo avrebbe fatto fino alla fine dei loro giorni – una settimana tutta per noi. Ho prenotato solo la prima notte a Miami, poi andiamo dove vuoi, dove ci viene voglia, che ne dici?”
“Hai preparato una valigia?”
“E cosa se no?” aveva risposto guardandolo un po’ stupito.
“Allora dobbiamo comprare uno zaino, ho appena deciso cosa faremo nei prossimi giorni e non puoi dirmi di no”
“Non posso?” e aveva inarcato le sopracciglia con fare dubbioso.
“No” aveva ribadito lapidario Justin “hai detto che potevo fare come volevo…”
Brian aveva alzato il dito e negato platealmente “non ho detto esattamente così” ma sapeva bene che si trattava di obiezione d’ufficio. “Quindi a che ci serve uno zaino?”
“A metterci la roba, ovvio. I prossimi giorni affittiamo una moto e ce ne andiamo on the road a fare gli easy rider, dove ci ispira ci fermiamo a dormire. Figata, no?”
“Una figata spaziale” aveva risposto ironico.  Così impari a sposarti il ragazzino, si era preso in giro da solo: vai Kinney, on the road!
“Una o due?”
“Eh?” aveva risposto distratto Justin, mentre in bermuda a maglietta si stavano incamminando verso il Motor Rent più vicino, come da indicazioni del concierge dell’albergo.
“Una moto per uno o una sola?”
Justin l’aveva squadrato quasi scandalizzato. “Una, cavolo! Grande, comoda e attrezzata con borsoni et similia. Voglio starti spiaccicato addosso tutto il tempo”
“Questa idea mi piace già di più” aveva convenuto, divertito, il marito.
Stupefacente, in qualunque parte degli States si trovassero, in qualunque periodo, per qualunque motivo, Brian incontrava sempre qualcuno che conosceva. Justin aveva impostato il sorriso coniugale standard e stringeva la mano al distinto signore che li aveva fermati mentre stavano rientrando verso le sdraio dopo aver mangiato un boccone al bar sulla spiaggia, in attesa di capire se si trattasse di cliente, di potenziale cliente o di ex amante. Vero era che il marito era fuori piazza da qualche anno ormai, ma si era scopato qualunque cosa si muovesse e fosse di suo gusto e questo Justin lo ricordava bene. In poche battute e dopo aver osservato brevemente il comportamento di Brian, aveva stabilito che rientrava nella categoria potenziale cliente. Il pomeriggio è bel e fottuto si era detto. Brian non avrebbe mollato l’osso che la sorte gli stava offrendo in costume da bagno in un pigro martedì. Era rimasto qualche minuto ancora, per educazione, poi aveva salutato e si era incamminato verso i loro lettini, mentre Brian invitava il tizio a bere un drink con lui. Si era voltato a guardalo fare strada verso il bar e lo aveva trovato terribilmente sexy. Incredibile quanto continuasse a piacergli quell’uomo, dopo quindici anni di vita insieme. Urgeva un tuffo per raffreddarsi i pensieri. Sperava solo che l’accerchiamento non prevedesse anche la cena. Avrebbe abbozzato, come al solito in questi casi, ormai era diventato bravissimo come spalla per improvvisati corteggiamenti lavorativi, ma gli sarebbero girati un po’ i coglioni.
La mano fresca sulle scapole e il leggero scricchiolio del lettino lo avevano svegliato. “Sei rosso come un gambero. Te la sei messa la protezione?” Si era tirato sui gomiti e girato il volto assonnato. “Ah Brian, sei tu. Mi sono appisolato. Sì, sì mi sono messo la crema. Me la sono fatta spalmare dal nostro vicino di ombrellone” con un mezzo sorriso aveva indicato un prestante giovanotto impegnato a giocare a beach volley poco distante.
“Hai sempre avuto buon gusto” Brian aveva risposto all’allusione e gli aveva mollato una pacca secca e improvvisa sulla chiappa.
“Non è vero, ho approfittato della furia incrematrice di quella mamma laggiù” aveva ammesso sorridendo.  Con una certa pigrizia si era messo seduto e fatto più spazio al marito.
“Comunque sei pazzo a stare al sole in questo modo, bianco come sei”
Justin si era passato le dita fra i capelli “Ho fatto un tuffo e mi ero messo fuori dall’ombra per asciugarmi, non mi sono accorto di essermi addormentato. Spostiamoci va, che in effetti mi brucia la schiena.”
“Bagno? Mi fai compagnia?” aveva proposto Brian, sfilandosi la maglietta dalla testa e lanciandola sul suo lettino vuoto e rimasto al fianco dell’ombrellone.
Avevano nuotato, senza fermarsi, fino alla piattaforma galleggiante ormeggiata a poco meno di mezzo miglio dalla riva, poi si erano distesi a pancia in su. Due ragazzi che già c’erano si erano tuffati poco dopo il loro arrivo e per qualche strana coincidenza erano rimasti soli. Brian si era messo comodo allargando braccia e gambe, Justin si era spostato su un fianco e sorreggeva la testa con la mano. “Allora? Stasera mi devo fare bello e preparare qualche brillante argomento di conversazione? Mi darai il braccio e mi sposterai la sedia per farmi accomodare?”
“Sei veramente un cazzone. Ci vedremo in ufficio la settimana prossima, stasera siamo liberi. Rinfodera la tua linguetta affilata”
“E’ andata bene, quindi”
“Mmmh, sì. Ci sono buoni presupposti” aveva annuito l’uomo che veloce si era girato e gli aveva stampato un bacio sulla bocca. “Grazie” gli aveva riconosciuto per la pazienza di averlo lasciato a fare public relation senza dire una parola anche se erano in vacanza.
“Prego, squalo”   
“Ah Jus, se ti vuoi fare bello lo stesso, io non mi lamento eh”

Si era appena alzato dall’ampio divano della suite in cui alloggiavano e con lo sguardo cercava di capire dove fossero volati i loro indumenti. Quando era uscito dalla camera Brian, che era stato più veloce a prepararsi, era al telefono e guardava fuori dalla finestra. Si era girato mentre chiudeva la comunicazione e decisamente aveva gradito il suo look.
“Fammi capire, mi metto in ghingheri e questo è il risultato?”
“Esatto” aveva risposto allegro poco prima di piantargli una mano sullo sterno e ributtarlo giù, sulla schiena. “Così impari a vestirti arrapante” e gli aveva rubato un bacio inequivocabile.
“Pensavo che prima andassimo a mangiar…” non era riuscito a concludere.
Qualche ora dopo era finita con una chiamata al servizio in camera, nella speranza che fosse ancora possibile ordinare la cena.
“Solo piatti freddi, ormai” gli aveva comunicato con la cornetta del fisso in mano, mentre lo vedeva sparire nel bagno.
“Fa lo stesso, meglio di niente. Sto morendo di fame”
I piedi sulla ringhiera, l’asciugamano in vita, un sandwich in mano e il calice di vino ai piedi della poltroncina, si godevano il venticello della sera. Il vociare della vita notturna iniziava a salire e andava piano piano a coprire lo sciabordio del mare. Brian aveva accettato la vacanza su due ruote, ma per quanto riguardava la sistemazione notturna aveva preteso di scegliere lui, quindi erano sempre alberghi della madonna, a un passo dal mare e con vista incantevole. Non che Justin avesse trovato di che lamentarsi. Dopo un sorso di vino si era lasciato andare a un sospiro soddisfatto. “Sono proprio felice” aveva commentato posando nuovamente il bicchiere per terra. Si era alzato e si era andato a sedere cavalcioni del marito, gli accarezzava le spalle magre ma ben tornite mentre gli parlava guardandolo negli occhi. “Abbronzato sei ancora più bello” e gli aveva lasciato un bacio sull’angolo della bocca “e non mi capacito di come sia possibile” e ancora un bacio, centrale questa volta, delicato, solo appoggiato alle labbra, senza forzare “sarai anche vecchio, come dici tu, ma sei il più figo che ci sia in circolazione da quel che ho visto oggi.”
“Justin, devi chiedermi qualcosa? Hai da farti perdonare?” lo aveva canzonato chiudendolo in un abbraccio dolce e stretto. Aveva ancora e sempre qualche difficoltà a gestire i complimenti e le romanticherie del marito. Justin aveva soffocato la risatina sul suo petto, aveva fatto scivolare le mani dietro la schiena e lo accarezzava indolente. Brian aveva nascosto il viso nei capelli biondi “Avevo bisogno di stare un po’ con te in questo modo” aveva sussurrato. Justin aveva alzato il viso, allungato il collo per invitarlo a essere baciato: “anche io”
Dopo qualche minuto di silenzio Justin aveva chiesto: “Usciamo? Due salti o un drink?”
“I salti li abbiamo già fatti, opterei per un drink” l’aveva fatto alzare, non prima di avergli dato l’ennesimo bacio. “Muoviamoci”
Sul lungo mare sembrava di essere in pieno centro la vigilia di Natale. Come d’abitudine camminavano affiancati con il braccio di Brian sulle spalle di Justin e la mano di quest’ultimo nella tasca dietro dei pantaloni del marito.
“Hai sentito tua mamma? Ho provato a chiamare Gus che come al solito non risponde, avrà il cel silenzioso, lo stordito!”
“Ho parlato con Gus oggi pomeriggio mentre concupivi il tuo prossimo milione di dollari. Mi ha chiamato lui” e sull’ultima comunicazione aveva accentuato la faccia sorpresa.
“Sta male?” aveva chiesto Brian stando al gioco. Era nota la ritrosia di Gus a telefonare.
Justin aveva riso basso “Voleva comunicare un sette e mezzo in matematica a usarlo come merce di scambio per poter rientrare dopo cena giovedì sera, anche se l’indomani c’è scuola.”
“Alla sera a Pittsburgh a fare cosa?”  
“Vorrebbe andare al cinema e poi mangiare una pizza con gli amici, prima di rientrare con il treno delle 21.40. Mi pare di aver capito che sia il compleanno di Philip. Gli ho detto di sì in linea di massima, ma che te ne avrei parlato”
“Da quando organizzano infrasettimanale? Mah… Gli hai detto di sì, quindi?”
“Gesù Brian, sì. Gli ho detto di sì, non essere pesante. Alle dieci e un quarto al massimo sarà a casa, siamo a fine anno scolastico e si è rimesso in riga come non ci saremmo mai aspettati. Allunga il guinzaglio”
Avevano adocchiato un piano bar e deciso di fermarsi.
“Sarà, … ma non me la state contando giusta tu e quell’altro” aveva ripreso il discorso, prendendo posto al tavolino.
Al che Justin aveva tirato fuori il cellulare dalla tasca, smanettato veloce e poi gli aveva fatto leggere un WhatsApp di Jennifer. “È arrivato poco fa, mentre eravamo in altre faccende affaccendati e l’ho letto solo dopo mentre ti stavi facendo la doccia.”
- Grandi novità con Gus. Grandi! Compra un cardiotonico per Brian quando tornate!J -
“Questo dovrebbe farmi sentire più tranquillo?”
“Certo che sì, sarà una pizza piuttosto intima, credo – e Justin aveva strizzato l’occhio -  Hai capito a cosa si riferisce mia madre, vero?”
“Mi toccherà sopportare baci etero sotto il mio tetto …”
“Sempre saputo che sei uomo perspicace. Ce la puoi fare, sono sicuro che ce la puoi fare” l’aveva preso in giro.  
“Compleanno di Phil, eh?” aveva alzato un sopracciglio alquanto dubbioso.
“Può essere come no, certo l’interesse della serata non è quello. Si chiama Giada e ha gli occhi a mandorla. A detta di mia madre è molto carina, puoi stare tranquillo sul buon gusto di tuo figlio. Non vuole ancora dirtelo, per cui fatti i cazzi tuoi. Intesi, Brian?”
“Per forza, se voglio che qualcuno continui ad occuparsi di cazzi in questa casa!”
“Dai che lo sapevi che a Gus piacciono le ragazze…”
“Basta che non sia una smorfiosetta, per il resto se piace a lui piacerà anche a noi, no?”
E Justin l’aveva amato per quel noi uscito con naturalezza dalla sua bocca.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** REGALI DI SAN VALENTINO ***


Brian aveva comprato Britin per Justin, ma fino al trasferimento di Gus le potenzialità della casa non erano mai state godute così a fondo. Campo da tennis, giardino, cavalli e piscina la rendevano il punto privilegiato d’incontro per Gus e compagni. 
Giada era entrata a Britin confusa nel gruppetto dei soliti amici e lui era stato bravo a far finta di non sapere e soprattutto di non sospettare nulla. Gli era piaciuto osservare il figlio con discrezione, lo aveva scoperto più di una volta a guardare la ragazzina come un tramonto incendiato solo per lui. La fiorava di nascosto, cercando di non farsi scoprire e le ronzava intorno con una dolcezza che Brian faceva fatica a trovare famigliare, per quanto Justin sostenesse invece che in quel modo discreto di avvolgere era più simile a lui di quanto sospettasse.
Semplicemente Gus, al contrario di suo padre, non aveva paura dei sentimenti. Era pudico e imbarazzato per un’emozione nuova e sconosciuta, ma non ne era spaventato, infatti erano bastate poche settimane dalla prima volta che Giada era entrata in casa perché fosse proprio Gus a parlagli di lei.
Se tanti anni prima un ragazzino biondo non gli avesse insegnato ad amare, non sarebbe stato capace, adesso, di ascoltare suo figlio e capirne il batticuore e la gioia fragile del primo amore. Aveva pensato con un brivido freddo alle stronzate ciniche con le quali avrebbe potuto ferirlo, mentre pensava di proteggerlo e farne un figo e aveva considerato quando la sua vita di adesso gli piacesse.

“Mi ha scritto Daphne, torna negli USA giusto il tempo per organizzare una nuova missione. Forse fanno un salto a Pittsburgh, le ho detto che possono fare base qui, nel caso. Non ti dà fastidio, vero?”
Brian l’aveva guardato dall’alto al basso perplesso. “Fastidio? – aveva ripetuto – Perché mai? La piccoletta come sta? Sarà cresciuta”
Justin gli aveva mostrato una foto sul suo smartphone. “Ha compiuto tre anni il mese scorso, guarda qua”
Si vedeva una ricciolina, color caramello, davanti a una torta e tre candeline, alle spalle le tende dell’accampamento in Sira, l’ultima postazione di Medici senza frontiere nella quale aveva esercitato Daphne. Dopo la specializzazione in medicina d’urgenza e il tirocinio al policlinico di San Diego, aveva deciso per un’esperienza di qualche mese con l’organizzazione umanitaria. I pochi mesi erano diventati qualche anno e poi si era rassegnata all’idea che la sua vita fosse quella. Fino a quando i suoi erano stati vivi rientrava due volte all’anno a Pittsburgh, per qualche settimana, ma dopo la loro scomparsa aveva venduto casa e capitava di rado, giusto qualche volta per rivedere gli amici di sempre e stare un po’ con Justin, il suo fratello putativo. 
I suoi non avevano fatto in tempo a conoscere Susy. Avevano pagato con una vecchiaia un po’ solitaria l’aver cresciuto una figlia determinata, libera e indipendente, ma le era sempre stato chiara la stima che avevano nei suoi confronti, per la scelta professionale e di vita che aveva fatto. Sapeva che sarebbero stati felici di essere nonni, ma così almeno era stato loro risparmiato di sapere il perché e il come era venuta al mondo.  
Lo sapevano Justin e pochi altri, per il resto Daphne, semplicemente, non amava parlare del padre di sua figlia. Susy era sua e solo sua, questo era chiaro a tutti.

“Ma no! Chiama una delle tue madri, pietà di me”
“Dai Pa’, per favore, Jus non può ha lezione serale e non stacca oggi pomeriggio. Un consiglio, solo un consiglio”
“Le nonne?” aveva rilanciato
“Un regalo di San Valentino consigliato da Debbie? Mica la voglio far scappare Giada”
“Maleducato! Nonna Jennifer?” e gli aveva mollato uno scappellotto, anche se conveniva con il figlio che i gusti di Debbie erano decisamente eccentrici.
“Nonna Jennifer è troppo carina e di buon gusto. Abbiamo 16 anni, cavolo. Mi ci vuole un parere più giovane” il bastardo le aveva scelte bene le ultime parole.
Justin, appena entrato in cucina, aveva fatto in tempo ad ascoltare il finale del discorso e divertito aveva battuto il cinque a Gus. Poi si era servito il caffè dalla brocca lasciata sulla tavola da Naty e aveva addentato un panino al burro.  
Gli occhi gli ridevano spudoratamente mentre osservava Brian impantanato in questa conversazione, si era appoggiato al mobiletto e si godeva la scena.
Gus aveva lanciato uno sguardo verso il biondo di casa e aveva esclamato al padre: “andiamo insieme così compri anche tu il regalo a Jus, o hai già fatto?”
Il caffè era schizzato, a raggiera, fuori dalla bocca, la risata impossibile da trattenere, non sapeva se più per l’idea di Brian che comprava un regalo di San Valentino o per la faccia che quest’ultimo stava facendo.
Aveva posato la tazza sul ripiano, si era asciugato la bocca con un tovagliolo e posato una pacca sulla spalla del marito.
“Gus cerca di non uccidermi il coniuge, me lo vorrei tenere ancora qualche anno” e così dicendo era uscito lanciando a Brian un occhiolino irriverente.
“Jus!” aveva esclamato.
“Faccio tardi. Divertitevi con lo shopping” e si era amabilmente, ma irrimediabilmente, diretto verso la porta.
“Allora ti passo a prendere alla Kinnetic alle cinque?” stava incalzando Gus a un tono di voce tale da mitigare, ma non da coprire, la risata di Justin che si allontanava.
Aveva sospirato prima di capitolare, non riusciva a credere neppure lui a quel che stava dicendo: “Non prima delle sei Gus…”
“Quindi mi accompagni? Evvai. Grande Pa” gli aveva sorriso, finito l’ultimo cucchiaio di cereali e aveva acchiappato la cartella appoggiata sulla poltroncina, pronto a volare fuori veloce come il vento.
“I denti, Gus. I denti”
“Giusto. Vado” aveva risposto abbandonando la cartella in mezzo al corridoio in un modo che a Brian dava tutte le volte sui nervi e infilandosi nel bagno a piano terra.  
Un lampo e l’avevano lasciato solo in cucina, quei due! Tutto sommato non era poi così male un po’ di silenzio. Aveva sorseggiato con calma il suo caffè e aveva dato un’occhiata al giornale sfogliandolo sul bancone. Aveva sentito l’auto di Justin mettersi in moto e l’urlo di Gus “Eih Jus aspetta, mi dai un passaggio in stazione?”
Aveva appena messo piede in ufficio, Cynthia gli stava ricordando gli appuntamenti della giornata e il pc non aveva ancora finito di caricare il sistema operativo che il suo cellulare aveva vibrato, spostandosi leggermente sulla lucida superficie della scrivania.
Aveva gettato un occhio e letto l’anteprima del messaggio – compramelo bello il regalo, eh! –
Quel cretino di Justin stava infierendo senza pietà.
Te lo faccio vedere io il regalo aveva pensato e l’aveva pensato così forte, con un mezzo sorriso stampato in faccia, che Cynthia aveva smesso di parlare e lo fissava interrogativo. “Regalo? Dovevo comprare un presente per qualche cliente?” aveva domandato un po’ ansiosa. Non era da lei dimenticarsi.
“No, no. Cosa mi stavi dicendo?” l’aveva tranquillizzata, si era obbligato a non rispondere al marito per non dargli soddisfazione e aveva impostato la modalità lavorativa.
Non appena rimasto solo aveva alzato il telefono e composto il numero interno dell’area marketing: “Cameron, abbiamo uno studio sulle preferenze dei regali di San Valentino per un target di ragazzine fra i 13 e i 16 anni?”
Non si sarebbe fatto trovare impreparato.
Era finita con tre pacchettini, uno dal contenuto più zuccheroso dell’altro, ma Gus era contento e stando allo studio di Cameron, era probabile che lo sarebbe stata pure Giada. Si era fatto tardi e avevano deciso di magiare un boccone in città prima di rientrare.
Osservava suo figlio, sedici anni fra due settimane, intento a sbranare un’orata con patate e non riusciva a smettere di pensare a quanto dannatamente piccolo fosse Justin quando era entrato nella sua vita.
A vedere Gus innamorato e un tantino sdolcinato, si era reso conto, con circa quindici anni di ritardo e una sottilissima vena di rammarico, di quanto fosse stato duro a non concedere al suo ragazzino le smancerie che si cercano a quell’età.
Non duro, stronzo, si corresse.
Aveva chiamato il cameriere e aveva rivolto una richiesta un po’ particolare. Sperava che non avrebbe detto di no a un cliente abituale e parecchio generoso con le mance.  
Era stato così che, quella sera, Justin andando a letto aveva trovato sul guanciale una rosa.
L’aveva presa in mano come se si trattasse di una bomba inesplosa, tanta era la sorpresa. Brian, che stava fumando alla finestra e gli dava le spalle, si era accorto che era entrato in camera e si era voltato. Era imbarazzato e sperava che gli risparmiasse svenevolezze e troppe parole.
L’aveva alzata verso di lui brandendola per il gambo come una spada e nel mentre aveva fatto il suo tipico cenno con il mento, come dire: “E questo che significa?”
Brian aveva scrollato le spalle e gli si era avvicinato, gli aveva sfilato il fiore dalla mano, l’aveva appoggiato sul comò e poi l’aveva baciato con trasporto e tenerezza.
Un momento prima di dormire gli aveva sussurrato: “Eri veramente un ragazzino eccezionale”
Justin gli aveva accarezzato l’avambraccio con un dito intuendo vagamente che quella strana riflessione doveva avere a che fare con la rosa. Si era messo comodo, Brian aveva stretto delicatamente l’abbraccio e si erano addormentati.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** EDUCAZIONE SESSUALE ***


Prima di tutto grazie a ACost, Nuel e Cristinaqaf che commentano sempre e non avete idea del piacere che provo quando mi arriva la notifica, ma grazie anche a tutti coloro che leggono e non commentano: la storia è stata visualizzata, ad oggi, 6520 volte e per essere in un fandom di tf terminato oltre dieci anni fa, non mi pare male! ;-)PS: Le ultime righe rimangono con un carattere più piccolo e non riesco a capire come mai, chiedo scusa 
​Ecco un nuovo capitolo, per auguravi buon fine settimana.

“Me l’hai chiesto tu cosa volevo per il compleanno” si stava lamentando con aria lagnosa.
“Vero, ma la moto non te la compro e sono d’accordo con le mamme, quindi non tentare manovre di accerchiamento”
“Ma perché, porca vacca!?”
“E’ pericoloso e tu sei ancora un coglioncello.  Oltre tutto Giada sulla moto non ce la potresti portare ancora per due anni, ci hai pensato?” aveva tentato di sviare il discorso, temendo di rimanere incastrato in una delle discussioni di principio che da qualche mese a questa parte parevano essere le preferite da Gus. Niente da fare, il ragazzo aveva ignorato il riferimento alla fidanzatina e aveva continuato martellante.
“Però non hai detto un cazzo quando Justin si è comprato un bolide l’anno scorso”
“Ma sei scemo? – aveva esclamato il padre – Justin ha trentaquattro anni e se vuole la moto se la compra. Tu sei mio figlio, ne hai a mala pena sedici e se io non voglio, la moto te la sogni. Banale, persino. Quindi che regalo vuoi? Deciditi, che fra tre giorni partiamo per Toronto. Non oso nemmeno immaginare i festeggiamenti che avranno messo su quelle due.”
Gus, che era ragazzo intelligente, aveva accettato la sconfitta. L’atteggiamento del padre non lasciava spazio a possibili ripensamenti. “E va bene l’auto, allora” aveva strascicato.

“Oh povero Gus, si accontenta. Mi verrebbe voglia di non comprarti neppure quella” l’aveva redarguito scherzoso, ma lanciandogli un chiaro messaggio. Poi gli aveva lanciato uno sguardo complice prima di aggiungere “non mi vorrai dire che la macchina non è più comoda per certe cose” Era quasi un anno che Giada e Gus facevano coppia fissa e lui non era riuscito a capire se avessero già avuto un rapporto completo. Trovava incredibile che lui, proprio lui, che aveva fatto del sesso la sua bandiera, che aveva fatto del parlare senza filtri il suo manifesto adesso non riuscisse ad affrontare in maniera diretta l’argomento con il figlio.
“Papà!” aveva esclamato leggermente scandalizzato.
“Papà cosa? -  aveva risposto serafico per nascondere il leggero batticuore che gli era salito nel preciso momento in cui aveva deciso che il discorso non era più procrastinabile, doveva parlare con Gus  - avete sedici anni, non credo vi guardiate solo negli occhi no?” 
Gus era arrossito e decisamente voleva cambiare argomento. “Eddai papà …”
“Dai papà, cosa? Il sesso è bello, a me piace da matti, a te no?” Bene, aveva rotto il ghiaccio e sembrava di nuovo quasi lui, si era dato una metaforica pacca di incoraggiamento. Aveva deciso di parlare di lui sperando che Gus si aprisse.
“Ho fatto il mio primo pompino a 14 anni, era il mio allenatore e avevo una paura boia.”

“Ma poi non ti sei più fermato …” era intervenuto Gus, pensando al Brian che gli era sempre stato raccontato, anche se a dire il vero la vita libertina e promiscua del padre per lui era un mito, più che un ricordo.  Da che aveva memoria, quindi dai sette/otto anni, era solo e semplicemente il simpatico, sfacciato, sboccato, politicamente scorretto marito di Justin e nient’altro.

“E poi non mi sono più fermato - Brian aveva fa un sorrisino compiaciuto prima di continuare - Non ho mai avuto problemi a trovare con chi scopare. – Aveva squadrato il figlio – Credo che anche tu non dovresti averne, sei un bel ragazzo. Giada gira in casa da quasi un anno …” aveva lasciato la frase in sospeso.
Gus aveva assunto una faccina furba e il viso si era disteso in un sorriso ironico che ricordava terribilmente quello di suo padre.

“Capito! – aveva esclamato – Vuoi sapere se ho fatto l’amore con Giada. No, non ancora. Bastava chiederlo!” aveva infierito. “E comunque quando lo faremo sarà amore, non scopata” aveva ribattuto con orgoglio. Un figlio sentimentale gli era capitato in sorte.

“Sei un piccolo stronzetto” l’aveva battezzato Brian “non intendevo mancare di rispetto ai tuoi sentimenti o a quelli di Giada. Comunque sesso o amore che sia va fatto con la testa sul collo, sempre”
Gus aveva sbuffato, adesso era tutto chiaro. “Pre-ser-va-ti-vo sempre! – aveva scandito trascinando le vocali – lo so. Lo so. Le mamme mi hanno fatto una testa così, non ti ci mettere anche tu”
“Ah io non ho alcuna intenzione di farti un discorso io ho intenzione di farti vedere come si mette”

Gus era rimasto senza parole, suo padre era veramente imprevedibile. Tempo due secondi nella mano di Brian era comparsa una bustina argentata. “Vuoi sul serio farmi vedere come si mette? Qui?”
“Cos’ha qui che non va?”
“E’ il tuo studio” aveva risposto realmente interdetto
“Eh quindi? Non ti viene duro nel mio studio?”
“Madonna mia papà, ma come fai?”
“Penso a Justin” aveva risposto fraintendendo volutamente. Si stava anche divertendo un casino, avrebbe dovuto ammetterlo.    

Una risata uscita irriverente dalla bocca di Gus li aveva salvati dall’imbarazzo nel quale stava precipitando il ragazzino, così ridendo e scherzando la dimostrazione pratica aveva, incredibilmente, avuto luogo.

Quando la sera Brian l’aveva raccontato a Justin questo aveva scosso la testa “E io che pensavo avessi riservato a me tutte le tue pazzie. Povero Gus”
“Ci siamo divertiti e ora sono tranquillo, se lo sa mettere”
E per qualche tempo in casa Kinney non si era più parlato della sessualità di Gus.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** DAPHNE ***


Daphne e Susan erano arrivate. Le avevano sistemate nelle camere comunicanti che occupavano occasionalmente Mel Linz e JR quando si fermavano a Britin.
Justin sembrava tornato un ragazzino come ogni volta che Daph rientrava a Pittsburgh. Susan era incredibilmente cambiata dall’ultima volta che l’avevano vista, circa nove mesi prima. Adesso parlava abbastanza bene, stava tirando fuori un caratterino degno di sua madre e rideva come lei, a bocca piena, lanciando la testa all’indietro. Justin la trovava irresistibile e anche Brian non era immune al fascino della piccola ricciolina. Gus si era dimostrato insospettabilmente abile a gestirla. Quando si era accorto dello stupore con il quale lo guardavano maneggiarla, giocarci e darle retta si era voltato un po’ scocciato: “Ho fatto pratica con JR, ero grande quando è arrivata a rompere!” Aveva detto con malcelato affetto. “Certo grandissimo, ben cinque anni” l’aveva preso un po’ in giro Brian. La realtà era che a Gus i bambini piacevano proprio.
“Via, fuori dalla palle” li aveva praticamente cacciati di casa. Era sabato. A Susan ci avrebbe pensato lui, che Justin e Daphne si prendessero una giornata e una serata per loro. Avevano qualche mese di chiacchiere e affetto da recuperare. La bambina era abituata a essere lasciata alle cure di altri che non fossero la madre e già da tempo aveva stabilito, con l’istinto incontrollabile  dei bambini, che quel lungo uomo dai capelli scuri aveva un buon odore e le andava a genio.
Non appena erano rimasti soli si era chiesto se rimanere in casa e farla giocare in giardino o uscire. Alla fine se l’era presa comoda, si era bevuto ancora un caffè seduto fuori mentre la piccola giocava davanti a lui nel prato ben curato e poi aveva deciso di prepararla. “Coraggio Susy, le aveva detto, ci facciamo un giretto a Pittsburgh, passiamo a salutare degli amici, poi facciamo una sorpresa a Gus, andiamo a prenderlo a scuola e magari vi porto a mangiare fuori.”
Dopo pranzo Gus era rimasto a Pittsburgh con Giada e amici, sarebbe rientrato nel pomeriggio con il treno, mentre lui e Susan erano tornati a Britin, la piccola era ancora abituata a dormire il pomeriggio e più o meno al dolce aveva iniziato a stropicciarsi gli occhi. Si era addormentata di schianto appena messa nel seggiolino in auto, fortunatamente non si era svegliata quando l’aveva presa in braccio arrivati a casa. Guidando aveva avuto un momento di terrore quando si era accorto che si era addormentata. Gli era tornato alla mente, dalla notte dei tempi, quanto Gus si incazzasse e rimanesse intrattabile, se veniva svegliato mentre dormiva. Non se li ricordava più tanto bene, sempre che li avesse mai interiorizzati all’epoca, i ritmi di una treenne. Forse sarebbe stato meglio farla mangiare a casa. Grazie a dio la fortuna aiuta gli audaci e gli smemorati: Susy non aveva battuto ciglio nel trasbordo da auto a lettino.
Justin e Daphne erano rientrati abbastanza presto e l’avevano trovato ancora sveglio a leggere stravaccato sul divano.
“Ha mangiato e dorme – l’aveva tranquillizzata appena l’aveva vista entrare in sala - è stata bravissima. Voi? Andata bene la giornata?” aveva chiesto tirandosi seduto, per fare posto a Justin che si era avvicinato.
“Benissimo, non hai idea del regalo che mi hai fatto, non sta con me solo quando lavoro, per il resto sono anni che non mi ricordo neppure più come si fa ad andare in bagno da sola” aveva risposto con un sorriso a trentadue denti la giovane donna.
“E lunedì te ne vai al centro estetico, dal parrucchiere e a fare tutte le vostre diavolerie da donne. Ci penso io a Susan” l’aveva interrotta Justin che si era accomodato sul divano e aveva passato un braccio attorno alle spalle del marito, tirandolo leggermente verso di sé.
Daphne aveva tentato una blanda protesta, non le sembrava il caso di sconvolgere in questo modo i ritmi di casa loro, ma Justin non aveva voluto sentire ragioni: “Lo sai che io adoro Susy, sarai mica così carogna da non lasciarmela almeno un po’?”
“Per una volta che torni alla civiltà e hai qualcuno che può darti una mano, approfittane, no?” era intervenuto Brian pragmatico e in supporto del marito.
“Siete dei tesori. Va bene, ma torno presto” si era aggiustata, in automatico, l’elastico che stringeva i capelli nella coda e che si era allentato durante la giornata e improvvisamente si era resa conto di essere stanca. Li aveva salutati e si era ritirata, anche per lasciarli un po’ soli. Era fine settimana anche per loro e aveva sequestrato il marito a Brian per tutto il giorno.  
“Un goccetto?” aveva chiesto a Brian indicando il carrello dei liquori. Il marito aveva annuito, Justin si era alzato e aveva versato un dito di liquido ambrato in due bicchieri, gliene aveva porto uno, poi si era sfilato le scarpe, si era sdraiato con la testa appoggiata sul bracciolo del divano, aveva incrociato le gambe e messo i piedi in grembo a Brian. 

“Allora Kinney come è andata la giornata da baby sitter?” gli aveva domandato allegro.
“Bene. Più cresce più è simpatica la piccoletta e poi è stata grandiosa nel pomeriggio si è tirata una schienata di tre ore. Non ci potevo credere, da questo punto di vista sembra finta. C’è da dire, però, che quando è sveglia è sveglia. Non sta ferma un attimo” aveva pigramente iniziato a massaggiargli un piede mentre continuava a raccontare. “Alle quattro stava ancora dormendo e Gus è entrato in casa facendo un casino della madonna come suo solito. Non si è svegliata manco così”
“Cosa le hai fatto fare stamattina per stecchirla in questo modo? – aveva chiesto scherzoso, ma senza aspettare risposta aveva continuato – Gus?”
“In camera a giocare a Call of duty. Gli ho intimato di non sbraitare che se la sveglia lo suono. Per ora resiste” Aveva abbandonato il primo piede e adesso si stava dedicando al secondo. Justin aveva finito il suo liquore e per niente intenzionato a muoversi aveva appoggiato il bicchiere per terra. Brian aveva sfilato la calza e il tocco pelle su pelle era ancora più piacevole.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** SALUTI ***


Grazie a Nuel e Cristina per i commenti. Lascio solo due righe per augurare buona domenica a tutti quelli che passano da questa storia. 

Aveva aspettato di veder decollare l’aereo prima di allontanarsi dalla grande vetrata affacciata sulle piste e solo quando era diventato un puntino quasi irriconoscibile aveva girato i tacchi e recuperato l’auto con la quale aveva accompagnato Daphne e Susy all’aeroporto. Uno sguardo all’orologio al polso, uno sciccosissimo Vacheron-costantin che gli aveva regalato Brian qualche anno prima, senza che ci fosse nessuna ricorrenza, gli era bastato per decidere che non aveva tempo per fare altro che andare direttamente in Accademia. La chiave era già nel quadro di accensione quando gli era venuto in mente che forse Brian non si ricordava che nel pomeriggio iniziava la sessione estiva d’esame, probabilmente avrebbe fatto tardi e il marito trovando la segreteria telefonica si sarebbe indispettito - cazzo ce l’hai a fare un cellulare se non rispondi mai?- così aveva mandato un WathsApp al volo: Non mi aspettate per cena, inizio gli esami. Torno cenato. Baci.
La risposta era arrivata veloce, prima ancora che uscisse dall’aerea degli imbarchi: “Bocciane un casino, così iniziano a capire come va il mondo. Buon lavoro Prof ;-)”   
Le voci dei ragazzi fuori dalla classe erano un brusio di crescente intensità, stava finendo di compilare il registro e poi avrebbe detto all’assistente di far accomodare il primo. Il cellulare appoggiato sul tavolo era già in modalità silenziosa, ma si era illuminato appena in tempo prima di finire nella tasca della giacca. Se i ragazzi non dovevano averlo in giro non vedeva perché lui durante gli esami non fosse tenuto a fare lo stesso. Era un messaggio di Brian, avrebbe fatto tardi pure lui: chiamami quando hai finito, che se sono ancora in città mangiamo un boccone insieme prima di rientrare.
I parcheggi riservati alla Kinnetic erano praticamente tutti vuoti, la corvette di Brian svettava solitaria e qualche posto più avanti si vedeva la Ford di Ted. Probabilmente in ufficio erano rimasti solo loro. Gli aveva risposto con la voce particolarmente roca, doveva essere stata una giornata pesante, non solo lunga, accompagnata da un pericoloso numero di sigarette.
“Sono sotto. Come sei messo? Salgo o ti aspetto qui?”
“Sali. Ce la fai ad aspettarmi ancora una ventina di minuti?”
“Sì. Mi butto sul tuo divano, se sei solo. Non ho tanta fame, in compenso sono sconvolto. I ragazzi mi hanno succhiato l’anima” poi la comunicazione si era interrotta appena aveva messo piede nell’ascensore. 
Non aveva fatto in tempo a capire se era solo o no, così prima di entrare aveva bussato. La scrivania di Brian era ingombra di fogli e Ted stava digitando velocemente qualcosa sul suo portatile. “Ciao Jus” aveva detto Brian sorridendo al suo ingresso, l’altro aveva alzato la mano in segno di saluto, senza staccare lo sguardo dal monitor. “Un quarto d’ora e andiamo”
Gli aveva tirato una pacca sulla spalla “tranquillo, mi rilasso un po’. Fate con calma” e si era diretto verso il divano dandogli rapidamente la schiena. “Eih” era stato richiamato dal marito. Aveva voltato il viso e il dito di Brian lo stava convocando scherzoso, ma un tantino imperioso, così per non perdere l’abitudine. Era tornato sui suoi passi, aveva sfiorato la schiena di Ted, passandogli dietro e avvicinato il marito gli aveva sfiorato le labbra con le sue. “Sei un rompipalle” e in tutta risposta Brian gli aveva forzato la bocca con la lingua “rompipalle e svergognato”, poi gli aveva lasciato un affettuoso coppino sulla nuca, mentre il marito riportava la sua attenzione su Ted.  
La guardia giurata li aveva salutati affabile, non era insolito incontrare il Signor Kinney durante il giro serale. Ted aveva declinato l’invito a unirsi a loro per la cena, preferiva tornare a casa. “Proprio una brava mogliettina” aveva commentato Brian, mentre si separavano al parcheggio.
Justin si era appeso al suo braccio “Devi dirla sempre la tua stronzata eh?!”
“Non vorrei mai che non mi riconoscesse più. Pensavo che Mic e Ben fossero il massimo del diabetico, fino a quando non si è sposato Ted. Bacia la terra sulla quale passa Blacke, inquietante dopo anni”
Justin l’aveva guardato come si fa con un ragazzino caparbio, aveva stretto le labbra a bocca di gallina e aveva annuito compiaciuto “In effetti anche noi siamo sempre così distaccati dopo appena quindici anni. Hai proprio ragione”
Avevano incrociato Giada nel corridoio del secondo piano, stava chiaramente uscendo da camera di Gus. “Buonasera” li aveva salutati. “Ciao Giada, sei ancora qui?”
La ragazzina era arrossita. “Sì” aveva sussurrato imbarazzata “Gus non vi ha detto che mi ha invitata a cena?” “No, non ce l’ha detto, ma non era necessario, sei sempre la benvenuta. Ti viene a prendere qualcuno?”
Giada aveva annuito “Sì, mio fratello” In quel momento era giunto, come un richiamo, il suono di un clacson dal vialetto e Gus era spuntato con la camicia fuori dai pantaloni e l’aria colpevole. “Ah siete rientrati”
“Eh, se non ti dispiace …”
“Accompagnala giù, che deve essere arrivato il fratello” si era intromesso Justin. Gli sguardi fra i due Kinney erano tutti un programma.
Giada aveva salutato nuovamente ed era scappata giù dalle scale seguita a ruota dal ragazzo. Li avevano chiaramente sentiti borbottare: che figura di merda.
Brian e Justin si erano guardati negli occhi ed erano scoppiati a ridere. “Abbiamo decisamente interrotto qualcosa”
Quando aveva sentito i passi veloci del figlio risalire le scale l’aveva raggiunto in camera. Si era limitato a guardarlo con un mezzo sorriso sul viso, rimanendo appoggiato allo stipite della porta.
“Papà, piantala!” lo aveva anticipato il figlio con un tono che era una via di mezzo fra l’esasperato e il divertito.
“La prossima volta avvisa che ce ne diamo al cinema” aveva infierito, prima di essere tirato da Justin che era arrivato in soccorso di Gus. “Non esagerare Brian, vieni a letto” e con una mano aveva fatto il gesto di dacci un taglio.
“Lo devi lasciare in pace, sei insopportabile” lo aveva redarguito fra il serio e il faceto trascinandolo verso la loro camera da letto.
“Madonna che puritani, fra te e lui, sono circondato”
“Chiudo o lascio aperto?” aveva domandato Justin avvicinandosi alla finestra.
“Accosta, ma non chiudere, che è tiepido” per dimostrare quanto avesse caldo si era sfilato la T-shirt bianca che usava per dormire e gli aveva lanciato un’occhiata allusiva. Justin aveva assicurato il vetro in posizione vasistas e si era sfilato, a sua volta, la maglia appropinquandosi al letto. Appena era arrivato a tiro, Brian l’aveva allacciato alla vita facendolo rovinare sul materasso. “Cos’è che ti hanno succhiato i ragazzi oggi?” “L’anima” aveva risposto iniziando già a ridere. “Io preferirei il cazzo”. Justin aveva sollevato un sopracciglio, infilato un dito nell’elastico dei suoi boxer e fissandolo lo aveva invitato: “accomodati”        

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** ORRORE ***


“BRIAN” un urlo spezzato, la voce quasi irriconoscibile.
Era entrato come una furia, lasciando dietro di sé la porta spalancata e una Chintya in affanno. Si era lanciato verso di lui, andandogli incontro con il corpo nonostante la scrivania. Aveva appena fatto in tempo a interrompere la telefonata e a prenderlo al volo, prima che tirasse una musata sul piano di cristallo. Con una spintarella lo aveva costretto a stare in piedi quei pochi secondo che gli ci erano voluti per fare il giro del tavolo e prenderlo fra le braccia. Solo allora si era accorto che era bianco come un cencio.
Dopo aver urlato il suo nome non aveva più detto una parola, però lo sentiva chiaramente tremare. Brian aveva fatto un cenno all’assistente, che rapida si era allontanata chiudendosi la porta alle spalle. Dalla vetrata era riuscito a vedere il volto preoccupato di Ted che, insospettito dalla confusione, era uscito dal suo ufficio e adesso stava chiedendo a Chintya cosa fosse successo, gli era sembrato di sentire la voce di Justin.

“Cristo Justin, cosa succede? Cos’hai?” ma il ragazzo non riusciva a rispondere, anzi era entrato in iperventilazione e ansimava vistosamente.
Lo aveva scosso con dolcezza e scostato da sé quel tanto che bastava per guardalo in viso, senza smettere di sorreggerlo, aveva la sensazione che stesse per svenire.
“Basta, faccio chiamare un’ambulanza” aveva detto a voce alta, forse neppure rivolto a Justin che improvvisamente aveva smesso di ansimare e si era messo a piangere. Un pianto irrefrenabile e carico di singulti.
Qualcosa cercava di dire, ma Brian non capiva nulla di quelle sillabe interrotte e bagnate. L’aveva afferrato per un braccio e portato a sedere sul divano davanti al tavolino basso in quella zona che separava la scrivania e il tavolo da riunione del suo ampio spazio di lavoro.
“OH!!” aveva urlato così forte che finalmente era riuscito a scuoterlo, a riprenderlo dal posto in cui era precipitato, qualunque esso fosse, e a riportarlo da lui.  
“Jus, calmati, respira e fammi capire che non comprendo una parola di quello che dici” gli teneva una mano e con quella libera aveva versato un dito d’acqua in un bicchiere. “Tieni, bevi”
Il colorito del marito era passato dal grigio bianco a un rosso accesso che tradiva una agitazione incontrollata. Justin aveva buttato giù due sorsi di acqua fredda e la cosa sembrava averlo calmato quel tanto da rendere comprensibile le parole.
“E’ morta, Brian. Daphne è morta” poi le lacrime avevano di nuovo preso il sopravvento. Il bicchiere gli era caduto dalle mani, infrangendosi in mille pezzi ai loro piedi. Il cuore di Brian aveva perso un battito, non aveva saputo far altro che tirare il marito a sé e cullarsi in un dondolio disperato, mentre le lacrime iniziavano a bagnare anche il suo volto.
Solo qualche minuto dopo era riuscito a chiedere: “Ma come morta? Come? Quando? E Susan?”
“Un kamikaze sull’ospedale da campo. Susan non era lì, questo è certo, ma nel casino post attentato non si sa dove sia finita. Il consolato mi terrà aggiornato” aveva risposto senza prendere fiato fra una parola e l’altra, poi solo un lamento: “Oohh Brian, Brian. E’ morta. E’ morta Daph. La mia Daph non c’è più. Non riesco a crederci, non riesco a respirare. Maledetti.”
Si era messo seduto dritto e si era sciugato le lacrime con la manica del maglione. Brian si era lasciato andare a corpo morto contro il divano, le braccia aperte sulla spalliera e la testa all’indietro. Svuotato. Non sentiva più nulla. Anestetizzato. Guardava la rabbia dolente di Justin come in uno schermo distante. Le orecchie ovattate.  Avrebbe voluto riuscire a urlare come stava facendo suo marito.
Solo a quel punto e con una certa circospezione, Ted aveva osato bussare e il dramma aveva colpito anche lui.
Nel silenzio irreale dell’ufficio era stato Brian ad alzarsi, infilarsi il cappotto e tirare su di peso Justin da quel divano: “Andiamo a casa”
Il marito aveva annuito ed era sparito nel bagno privato a sciacquarsi il viso. Il viaggio verso Britin era stato muto. Le dita intrecciate, Brian si staccava solo per cambiare marcia e mai come quel giorno si era dato dello stronzo per aver preso la Corvette e non la Mercedes che con il suo cambio automatico non l’avrebbe costretto a lasciare al freddo la mano di Justin.
Anche la casa era silenziosa, Gus a Toronto per qualche giorno, Naty e Nando si erano già ritirati nel loro appartamento. “Siamo soli, menomale” aveva commentato lanciando il cappotto sull’appendiabiti e girandosi verso Justin che sembrava imbambolato. Lì, fermo, nell’entrata con ancora il giaccone addosso.
“Vieni qui” gli aveva detto e gli aveva tirato giù la zip, facendogli scivolare l’indumento dalle spalle. “Vai a cambiarti, vado a vedere se Naty ci ha lasciato qualcosa per cena”
“Non ho fame” aveva risposto senza inflessione Justin.
“Neppure io, ma ho intenzione di bere e non ho più l’età per farlo a stomaco vuoto - l’aveva fissato prima di aggiungere - neanche tu”
Naty aveva lasciato una zuppa di cereali da scaldare, arrosto e insalata, ma lui aveva riposto tutto in frigo.
Aveva apparecchiato in cucina, sulla penisola e aveva tirato fuori qualche affettato, due pezzi di formaggio e del pane, qualcosa che si potesse mangiucchiare anche senza fame. Poi si era versato due abbondanti dita di whiskey e aveva iniziato a bere piccoli sorsi che gli avevano bruciato la gola come non ricordava, mentre stappava una bottiglia di barbera italiano. Non era il caso di pasteggiare a superalcolici, ma una certa dose di alcool stasera gli pareva vitale. 
Si era fumato una sigaretta aspettando che Justin scendesse, ma del marito non c’era traccia e non sentiva neppure rumori provenire da camera loro che pure era di poco scentrata rispetto al tinello, così si era deciso a salire. Justin era seduto sul letto, ancora perfettamente vestito, con i gomiti puntati sulle cosce e i palmi aperti a sorreggere il capo. Brian si era seduto accanto, senza parlare, doveva rispettare il dolore che stava svuotando il suo compagno, ma voleva che Justin sentisse che era lì e ci sarebbe rimasto. In silenzio per un’eternità se fosse stato necessario. Era saltato in piedi all’improvviso.
“Dove cazzo è il mio cellulare?” aveva sbraitato mentre frugava nelle tasche dei jeans. “Là, sul comò, Jus” aveva risposto d’urgenza Brian, preso alla sprovvista dallo scatto del marito. Justin si era avventato sul telefono e cercava in memoria un numero. “Chi devi chiamare?” aveva provato a domandare Brian che iniziava a preoccuparsi: Justin aveva un che di allucinato nelle parole e nei gesti. Non l’aveva neppure considerato, ma qualcuno doveva aver risposto alla sua chiamata: “Buonasera, mi serve una combinazione per Kabul, partenza il prima possibile. Da Pittsburgh, sì.”
A quelle parole era stato Brian a saltare dal letto sul quale era rimasto seduto ad osservare l’agire sincopato del marito e senza riflettere gli aveva strappato l’apparecchio di mano, interrompendo la comunicazione.
Justin l’aveva fissato con odio. “Che cazzo fai?” aveva urlato “Ridammi immediatamente il telefono”, ma Brian non ci aveva neppure pensato e aveva alzato il braccio sfruttando l’altezza che li divideva e rendendo impossibile al marito arrivare al cellulare.
Justin si era scagliato contro di lui come una furia, ma almeno questo Brian sapeva gestirlo. Quando il dolore arrivava insopportabile a cuore e cervello Justin picchiava, urlava e tirava pugni.
In quindici anni aveva dovuto vederlo così sconvolto già due volte, aveva sperato di non dover affrontare mai una terza, invece erano lì. Una gragnuola di colpi lo stavano investendo, con quella forza disperata che si impadroniva di lui in quei casi. Lo stava colpendo con violenza tanto da fargli contrarre il viso per il dolore, ma non era quello l’importante, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che dopo questi attacchi ritornava in sé, doveva impedirgli di farsi male e costringerlo a fermarsi. Aveva lanciato il cellulare sul letto e aveva afferrato i polsi di Justin.  
“Vado a riprenderla – urlava – la riporto a casa io. Dovessi cercare a uno a uno i suoi pezzi che quel maledetto ha fatto saltare in aria. E TU, TU NON MI FERMERAI”
Incurante del dolore che doveva aver sentito, aveva strattonato così forte da essere riuscito a liberare un polso e stava cercando di sciogliere anche l’altro dalla presa di Brian che, però, non aveva mollato e con uno schiaffo gli aveva allontanato la mano, per poi acchiapparla al volo.
Con un gesto brusco aveva bloccato i due polsi, che erano esili e riusciva a fermare con un solo palmo, poi con il braccio libero lo aveva circondato al petto.
Justin scrollava, aveva cercato di divincolarsi e l’aveva anche morso, ma alla fine si era arreso.  Era scivolato per terra, come un sacco vuoto e se non era sbattuto con forza sul pavimento era stato solo perché Brian ne aveva accompagnato la discesa. Gli si era accucciato davanti e lo aveva avvolto in un abbraccio forte e delicato assieme, aveva poggiato il mento sulla testa e aveva cercato di ritrovare un respiro normale.
“Non ci puoi andare a Kabul” gli aveva detto con la voce ancora un po’affannata “e anche se potessi non ti lascerei andare io a rischiare di farti saltare in aria, piuttosto ti sequestro in casa. Non puoi Jus, non ha senso” aveva aggiunto dolcemente. Justin aveva scosso la testa e ripetuto con un filo di fiato: “Non ha senso …”
“No, amore mio, non ha senso”
Il volto del ragazzo si era contratto dal dolore, un conato l’aveva scosso ed era corso in bagno a vomitare. Brian era rimasto seduto per terra, sentiva freddo, ma non era certo per la temperatura della stanza. Aveva richiamato le ginocchia al petto e le aveva strette con le braccia. Le pareti gli giravano intorno e il mondo sembrava aver perso il suo equilibrio.
Le onde d’urto di quella bomba erano arrivate fino a Pittsburgh, in camera loro, nei loro cuori e a devastare la vita di suo marito.
“Eih” aveva detto Justin, guardandolo, mentre usciva dal bagno, in mano ancora la salvietta con la quale si stava asciugando il viso. “Come stai?” gli aveva chiesto di rimando, abbandonando la posizione rannicchiata e tirandosi a sedere, appoggiando la schiena ai piedi del letto.  “Di merda, ma almeno ho di nuovo coscienza di dove sono. Scusami, non avrei voluto perdere la testa in quel modo.”
Brian aveva scosso brevemente il capo e con il palmo aveva battuto secco sul pavimento vicino a lui. Aveva capito l’invito ed era andato a sedersi. Una piccola spallata: “Non ti devi scusare. Spero di non averti fatto troppo male ai polsi”
“Solo un po’, ma certo meno di quanto te ne ho fatto io” gli aveva appoggiato il palmo sullo zigomo che era leggermente caldo e arrosato dove era stato colpito da un pugno.
“Menomale che non ti ho preso sul naso” aveva aggiunto sorridendo triste, il profilo era una delle cose di cui, da sempre, Brian andava più fiero; gli aveva lasciato un bacio leggero sulla punta, poi aveva incuneato la testa fra il collo e la scapola del marito e non aveva più parlato.
Brian l’aveva stretto a sé e gli aveva accarezzato la schiena per un tempo che non avrebbe saputo quantificare. In un qualche momento della notte si erano alzati ed erano scivolati a letto, lasciando i vestiti alla rinfusa sul pavimento e dimenticando che sotto c’era una tavola apparecchiata e la luce accesa in cucina.


​Grazie a Nuel e Cristina che non mancano mai di lasciare un segno del loro passaggio e buona domenica a tutti. Spero mi perdonerete questo passaggio doloroso. 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** DECISIONI ***


La sveglia diceva 9.30 del mattino e Brian era a letto, a fianco a lui, era sveglio e leggeva. Si era voltato su un fianco, lui aveva appoggiato il libro sul comodino e si era sfilato gli occhiali. “Non sei andato al lavoro?” “Mmmhh, no” gli aveva risposto. Justin aveva avuto una specie di brivido “Non devi rimanere a casa per me. Me la cavo.”
“Lo so che non devo. Voglio” gli aveva detto in quel modo spiccio che usava da sempre con lui.
Justin aveva annuito e gli si era fatto prossimo “Grazie”
Li aveva interrotti un discreto bussare alla porta.
“Sì?”
“Signor Brian, scusate il disturbo, ma Justin è sveglio? C’è un giornalista al telefono che insiste per parlargli, dice che si tratta della signorina Daphne.” Il verso rabbioso che era uscito dalla gola di Justin non sembrava potergli appartenere e la voce di Naty al di là della porta si era ammutolita. Brian aveva allungato un braccio e tirato il marito contro il suo torace sul quale Justin aveva affondato il viso, mentre rispondeva con voce gelida: “Dica di non chiamare mai e dico MAI più se non vuole vedersela con il nostro avvocato” “Sì, sì” aveva replicato spaventata Naty che ignara degli avvenimenti del giorno prima, non aveva compreso nulla di quanto stava avvenendo.
“Cristo, questo è un incubo. Alzati che ce ne andiamo a NY per qualche tempo, in questo buco di culo di città ci conoscono tutti e ti daranno il tormento sti pennivendoli di provincia.”
Justin aveva alzato il volto e lo aveva fissato serio. “Io non vado da nessuna parte, che ci provino sti sciacalli, li denuncerò a uno a uno se non stanno attenti a quello che scrivono. Qualcuno deve pure difendere la dignità di Daphne adesso che lei non può più.”
Brian si era alzato. “Scendiamo a mangiare qualcosa. Sì, anche tu – aveva aggiunto dopo aver scorto lo sguardo poco convinto del marito – che da ieri a pranzo non butti giù niente e spieghiamo qualcosa anche a Naty. Ci avrà preso tutti per pazzi. Coraggio Jus” aveva allungato la mano e l’aveva aiutato a tirarsi su dal letto.  
Naty dopo aver saputo si muoveva per casa come volando, le pareva che qualsiasi rumore fosse improprio verso lo strazio che traspariva sul volto di Justin e la preoccupazione dolente che vedeva in Brian.
Li aveva lasciati soli in cucina, dopo aver imbandito in meno di due minuti una ricca colazione che, visto l’umore, non avrebbe ricevuto l’onore dovuto. Justin sminuzzava, più che mangiare, una fetta di torta ai mirtilli e sorseggiava con più convinzione una tazza di caffè.
Brian si sforzava di mangiare uno yogurt bianco con qualche cereale e anche lui beveva caffè. “Ho chiamato Linz e Mel, si terranno Gus a Toronto qualche giorno di più del previsto. Ti fanno le condoglianze.”
Justin aveva annuito e aveva scrutato con ansia lo schermo del telefonino. Molti messaggi, tante chiamate non risposte, ma non quella che aspettava.
“Nessuna notizia dal consolato, non posso pensare che sia successo qualcosa anche a Susan” aveva sussurrato, stremato.
Il marito era uscito dalla cucina per rientrare poco dopo con il cordless in mano. “Sono Kinney, mi passi il Governatore Farly, per favore. Sì, sa chi sono, me lo passi” aveva coperto il microfono con la mano e detto piano rivolto a Justin -  gli ho curato la campagna elettorale, l’ho pure finanziato, che mi serva a qualcosa, per dio! -   
E a qualcosa era servito, nel primo pomeriggio avevano avuto la certezza che la bambina stava bene e sarebbe stata rimpatriata insieme alla salma della madre quattro giorni dopo.  

Brian in quei giorni aveva seriamente temuto che a Justin scoppiasse il cuore, ne aveva avuto la quasi certezza davanti all’esecutore testamentario, quando aveva comunicato che Daphne avrebbe desiderato che Susan rimanesse con loro se a lei fosse successo qualcosa. Era figlia unica, i genitori erano morti qualche anno prima, le rimanevano solo alcuni lontani cugini di sua madre, originari del Minnesota, che vista l’età avanzata non avrebbero certo potuto farsi carico della piccola. Justin era quanto di più vicino a un fratello avesse mai avuto, sapeva che voleva bene a sua figlia ed era certa che lui e Brian avrebbero saputo avere cura di lei.   
La notizia li aveva spiazzati, mai avrebbero ipotizzato di trovarsi davanti a una richiesta simile.
La voce di Justin l’aveva colto alla sprovvista, era chiara e fredda mentre chiedeva al curatore cosa dovevano fare per rinunciare e limitare al minimo i tempi per rendere Susan adottabile.
“E’ piccola, non ci dovrebbero essere difficoltà a trovarle una famiglia, giusto?” aveva concluso come se parlasse di altri. Brian aveva deglutito rumorosamente e si era voltato verso di lui per dirgli di fermarsi un attimo, che non dovevano decidere su due piedi, ma Justin l’aveva bloccato con un gesto della mano.
Lo sguardo era duro e serio, gli aveva parlato come se fossero soli nella stanza: “Brian questo non cambia nulla rispetto alla nostra scelta” poi era tornato a rivolgere la sua attenzione al curatore testamentario.
“Creerò un fondo fiduciario che le garantisca adeguata assicurazione sanitaria e copra le spese per la sua istruzione, ma voglio rimanere anonimo.” Il funzionario si era trovato impreparato davanti a tanta repentina risolutezza.
“Non posso aiutarla Signor Tylor, dovrà parlare con il giudice dei minori e l’assistente sociale.”
“Bene, può fissarci un appuntamento il prima possibile?”
“Certo” aveva chiamato la segretaria con l’interfono “Brigitte, fissi un appuntamento ai Signori con il giudice Spark nei prossimi giorni, grazie”
Poi si era alzato, aveva circumnavigato la scrivania “Se non posso fare altro …” e a aveva porto la mano prima a Justin e poi a Brian “Vi farò sapere quanto prima, rimango a disposizione per qualunque cosa.”

Tom li aspettava con la macchina davanti al portone, ma con un cenno Brian aveva fatto capire che avrebbero camminato un po’. L’autista era risalito in auto e aveva iniziato a girare per l’isolato tenendosi nei dintorni in attesa di essere richiamato.
“Non c’è niente da dire Brian” lo aveva anticipato.
“Beh insomma, qualcosina magari …”
“No. Niente e non voglio parlarne. Non ci metteremo nella posizione di dire dei Si o dei No che potrebbero distruggerci. Non immaginavo che Daph pensasse una cosa simile, ma questo non cambia di una virgola la nostra situazione. Noi siamo gli stessi, la nostra età è la stessa, anzi siamo un po’ più vecchi, di quando abbiamo deciso che la questione figli per noi è chiusa. Per fortuna Susan è così piccola che le troveranno in fretta una famiglia e io ho bisogno di te, non di mettere tutto in discussione. Accompagnami dal giudice, aiutami ad agire per il meglio per Susy, ma non parliamo più del resto. Ti prego.”

Nuel, Cristina non è quel che vi aspettavate ... ma è andata così ;-)

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** NERVOSISMO ***


Un  micro aggiornamento ravvicinato per augurarvi Buona Pasqua. Grazie e Nuel, Cristina e Miky per il commento. Mi spiace che Justin vi faccia soffrire, ma così me la stanno raccontando...

Una cerimonio intima, poche persone che l’avevano amata veramente. Susan non c’era per scelta dell’assistente sociale.
Justin non aveva versato una lacrima. A dire il vero non aveva più pianto dal giorno della notizia, dopo l’attacco di nervi in camera da letto, nessun commento, nessuna lacrima, nemmeno un ricordo consolatorio da raccontarsi per cercare un po’ di calore. Solo un viso dai muscoli contratti lasciava capire a chi lo conosceva bene la lotta dolorosa che lo stava consumando.  
“Io andrei. Solo un momento a capire come sta. Facciamole vedere dei visi che conosce”
“No. Abbiamo firmato la rinuncia, intestato il fondo. Adesso toccherà alla sua nuova famiglia”
“Ascolta”
Non l’aveva lasciato andare avanti e interrotto con un nuovo, brusco: No.
“Sei un po’ troppo imperativo ultimamente, Jus. Sembri Hitler, cazzo”
“Tocca a te, adesso, Brian. È il tuo turno.”
“Va bene” aveva risposto, cercando di convincersi che fosse la cosa giusta. Aveva tirato un sospiro profondo e gli aveva fatto scivolare il palmo sul retro della testa, aveva stretto, solo un attimo, le dita prima di allontanarsi.
In quelle prime settimane capitava spesso che gli amici, Brian e perfino Gus, si trovassero a ricordare un momento, una battuta, un pensiero condiviso con Daphne. Una consolazione che serviva ad accogliere il dolore, a farsene attraversare. Scambio di sorrisi tristi, che rivelavano inaspettatamente qualcosa di cui sorridere sul serio. Erano lacrime leggere che non raccontavano disperazione, non solo almeno, ma consolazione. 
Justin ascoltava, non partecipava veramente. La cosa era preoccupante e notata da tutti, ma Justin si rifiutava caparbiamente di affrontare l’argomento. Stava bene, era tutto apposto, che non gli stessero addosso.
Brian aveva provato a prenderlo di petto o al contrario con tenerezza, il risultato era sempre il medesimo: un uomo che si chiudeva in se stesso e lo guardava cattivo intimandogli silenzioso: non mi tradire.
Tutto quello che le parole non sapevano dire usciva violento e concitato nei dipinti. Era urgenza e dolore quello che il marito metteva sulla tela, lavorando a lungo, fino a notte fonda, per poi crollare sul letto senza cambiarsi. Dimagriva nei pantaloni morbidi da lavoro che scivolavano - ogni giorno di più - sui fianchi che si facevano sottili. In qualche modo, però, la quotidianità stava vincendo.
Brian si adeguava senza pretendere risposte. Tutto il senso che cercava era nella decisione di esserci incondizionatamente.
Era convinto che Justin stesse rimuovendo e lui sapeva bene quanto questa tentazione potesse essere coinvolgente e pericolosa, ma non era il suo terapista, non era il suo giudice, era suo marito. 

Un pennello fra i denti, una spatola in una mano e lo strofinaccio nell’altra.
Dove diavolo era finita l’acqua ragia? Il barattolo era caduto, rotolando sotto il cavalletto, dal beccuccio semi aperto usciva quel poco liquido che rimaneva. “Cazzo!”
Era l’ultimo e il corriere con la nuova fornitura sarebbe arrivato la settimana successiva. Non aveva alcuna voglia di mollare il dipinto e andare in città a comprare due confezioni d’emergenza, l’idea di lasciare rovinare i suoi amati pennelli però non era tollerabile. In casa non c’era nessuno. Fanculo, si disse. Si era pulito brevemente le mani nello straccio e aveva preso il telefonino.
“Ciao, me lo fai un favore prima di tornare a casa?”
“Dimmi, ma…”
Uno sbuffo infastidito si era abbattuto su quel ma seguito da: “Va bene, fa niente. Ci penso io”
“Mi fai parlare? Piantala di fare l’isterico eh! Hai rotto il cazzo”
Si aspettava una replica invece c’era stato solo silenzio. Era il modo di fare un po’ bastardo di Justin quando lo voleva fare “litigare da solo”.
Aveva alzato gli occhi al cielo e deciso in un nano secondo di non raccogliere la provocazione.
“Dimmi cosa ti serve, ma se ne hai bisogno prima di cena te la faccio portare da Tom, perché farò tardi”
“Fai tardi?” il tono era deluso, in aperta contraddizione con l’atteggiamento.
Buon dio, come era incasinato suo marito.
“Cena di lavoro Jus, te l’ho ricordato anche stamattina” aveva risposto paziente.  
Avrebbe voluto essere a casa, prenderlo fra le braccia dirgli che era insopportabile, pretenzioso e prepotente e poi schienarlo sul parquet, sotto il quadro che stava ultimando e provargli quanto l’amava.
“Ah, già”
“Cosa ti serve, quindi?”
“Ho finito l’acqua ragia, le ultime due dita le ho appena rovesciate e non vorrei interrompermi, per uscire a prenderla”
Anni di vita con un pittore avevano reso anche Brian sensibile al problema che poteva rappresentare rimanere senza il solvente.
“Te la faccio portare da Tom. Mandami una foto della marca che vuoi, che non me la ricordo.”
“Grazie” “Prego. Jus?” “Eh?” “Cerco di liberami in fretta” La risposta era stata uno schiocco di bacio lasciato al microfono del telefono.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** CONSAPEVOLEZZA ***


L’etichetta del barattolo era consumata e non si vedeva bene quindi aveva scartato l’idea di scattare una foto, ma doveva averne una leggibile memorizzata nella galleria del cellulare. Scorrimento veloce e uno schiaffo in pieno volto.
Dannati schermi troppo sensibili, uno sfiorare per caso e Daphne viva, allegra e sorridente lo guardava da un video. Gli occhi ridenti e la bocca spalancata nella tipica, contagiosa, risata erano stata l’ultima cosa che aveva visto. Il cellulare si era disintegrato in mille pezzi all’impatto con il muro e lui gli era andato dietro, con il braccio teso si reggeva alla parete, il corpo si spezzava sotto i singhiozzi.

Brian al rientro aveva trovato una casa silenziosa e buia. Strano che dorma già, si era detto, mentre con gesto automatico agganciava la leggera giacca estiva all’appendiabiti in entrata. Non era così tardi, aveva cercato veramente di liberarsi in fretta. Va bene che non c’è Gus, ma questo silenzio è inquietante, si era trovato a pensare. Era passato in cucina per bere e la penisola apparecchiata per uno era intonsa. Aveva abbandonato il bicchiere nel lavello e si era grattato perplesso fra i capelli. Aveva affrontato la scala per il piano di sopra con una certa fretta, con ampie falcate utili a superare gli scalini due per due, aveva rallentato solo prima di entrare in camera, non voleva fare casino nel caso Justin stesse veramente dormendo. Il copriletto era teso e liscio su un letto immacolato. Non c’erano fogli con bozzetti e schizzi sul pavimento dalla sua parte, la porta del bagno chiusa. Justin non la chiudeva mai, mai. Dove cazzo era?
Il telefonino squillava a vuoto e poi scattava la segreteria.
“Justin!” aveva chiamato nel corridoio, mentre scendeva al piano terra. Aveva spalancato l’armadio in entrata, il giubbottino era lì, Jus era un abitudinario, sempre quello metteva nelle serate estive. Le chiavi della moto e dell’auto dondolavano al loro posto, dopo che aveva scontrato il supporto.
“Justin” aveva ripetuto a voce più alta. In sala non c’era, in studio neppure, nei bagni aveva già guardato. Nel salottino non c’era traccia di suo marito, così come nella veranda. Aveva acceso le luci del parco, quelle di cortesia non bastavano, era buio e ormai decisamente agitato si era diretto in giardino.
“Jus, Justin. Rispondimi!” Il passo si era fatto quasi corsa. Un giro veloce non aveva dato risultati, appoggiato al tronco di un albero si era passato, sconfortato, una mano sul viso e in quel momento con la coda dell’occhio aveva notato che il pesante portone in legno delle scuderie non era chiuso, solo accostato e neppure troppo bene.
Il respiro pesante dei due cavalli arabi, la passione di Justin, si sentiva distintamente nel silenzio caldo e appiccicoso. Non voleva chiamare a voce alta per non svegliare gli animali, aveva acceso l’accendino e alla fioca luce tremula, aveva controllato. C’era voluta un po’ di fortuna nel riconoscere Justin accovacciato, le braccia a stringere le ginocchia, in mezzo a un mucchio di fieno, abbandonato nell’angolo di una stalla.
“Cristo Justin. Cos’hai? Cos’è successo?” Gli aveva scrollato via qualche filo d’erba secca dalla t-shirt e dai capelli. “Amore mio, cosa sta succedendo?” Si era avvicinato al suo naso, perché per quanto illogico voleva controllare che respirasse ancora. Le braccia erano arrivate veloci al suo collo, e si era sentito tirare in basso, contro il viso del marito. “Sono qui Jus, sono qui”
“Non ce la faccio Brian, non ce la faccio, non credo di riuscire a vivere la morte di Daphne”
La morte dell’amica aveva finalmente raggiunto anche Justin. Si era sentito quasi in colpa, perché una parte di lui era sollevata.
Quel dolore doveva arrivare, lo avrebbero affrontato e forse suo marito sarebbe tornato.

Erano arrivate giornate dagli occhi rossi, di lacrime e di sorrisi carichi di ricordi.
Erano arrivate nottate insonni, cullato da Brian.
Era tornato il sesso e l’amore. Aveva avuto ragione, piano piano Justin stava tornando a se stesso e a lui.
Era tornata la vita sociale, le serate davanti alla tv o a parlare a letto e a fare l’amore.
Era tornata la linguetta affilata che non gliene faceva passare una, ridendo di lui e con lui.
Era tornato l’artista svaporato, era tornato il marito affettuoso e rude allo stesso tempo.
Era tornato Justin che faceva da spalla a Gus e lo metteva in mezzo.
Quel che aveva stupito Brian è il fatto non si fosse trattato di un processo lento, ma costante. Quasi da un giorno all’altro la normalità era tornata nella loro vita. Justin aveva ancora momenti di malinconia e tristezza, gli era capitato di coglierlo a fissare la foto di lui e Daphne poco più che adolescenti, al bordo della piscina, che da sempre faceva bella mostra di sé in sala. Quella foto che era sparita nei giorni più bui, era ricomparsa insieme alle lacrime di un dolore che questa volta voleva uscire. La voce si incrinava quando ricordava l’amica, ma doveva essere successo qualcosa, all’improvviso, nel cuore di suo marito, perché era tornato a lui e riusciva perfino a parlare di Susan senza che gli occhi gli diventassero di ghiaccio e la mascella si contraesse. Non la voleva vedere, quello no, ma si era informato su come procedeva l’iter per l’adozione, di come stesse e gliene aveva parlato, piuttosto serenamente. All’improvviso anche la bambina non era più stato un argomento tabù. Non aveva idea di quale fosse stato l’elemento scatenante, ma qualunque fosse Brian gli era grato, visto l’effetto che aveva avuto su Justin.

“Dove è che vai sta volta? San Diego?”
“Sì, perché?”
“Nulla, pare che tu sia l’unico dotato di abilità oratoria all’Accademia di belle arti di Pittsburgh. Prima mai un cazzo, adesso sei di lungo a congressi e a tenere conferenze in giro per il paese”
“Sono solo tre giorni. Hai un marito piuttosto conosciuto. Porto lustro all’Università. Dovresti essere orgoglioso invece fai i capricci. Piantala che è meglio.”
“Ti accompagno all’aeroporto domani”
“No, grazie. Prima passo in facoltà”
“Chiama Tom”
“Non è necessario, esistono i taxi.”
“Fai come vuoi” l’aveva liquidato.
Si sentiva un po’ pirla, ma tant’è non era riuscito a trattenersi.


Grazie Nuel e Cristina, che non mancano mai di lasciare un commento e grazie a tutti voi che leggete.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** CENA CON DELITTO (mancato! ;) ) ***


Era rientrato la domenica sera, mentre Justin avvertendolo, per altro all’ultimo momento, quando aveva già fatto il check-in si era fermato a NY fino al martedì successivo. La telefonata non era stata delle più simpatiche.
“Potevi aspettare ancora un po’ a dirmelo, praticamente sono sull’aereo. A sapere che non rientravi mi sarei fermato un giorno in più. Grazie eh, Justin!”
Il marito aveva emesso un piccolo suono strozzato: “Hai ragione, scusami. Mi è scappato il tempo, è da dopo pranzo che penso di chiamarti, poi però mi sono svanito. Non riesci a cambiare programma?” “Figurati – aveva commentato con scazzo evidente – stanno chiamando il volo in questo momento. Se decidi di fermarti fino al 4 Luglio, avvertimi, che mi organizzo” aveva concluso ironico. “Dai Brian …” “Mi devo imbarcare, ciao” brusco aveva terminato la conversazione.
“Ciao Naty, ci pensi tu a disfare il bagaglio?” La donna aveva fatto il gesto di prendere il borsone dalla spalla del ragazzo, ma era stata bloccata: “No, aspetta, lo porto io in lavanderia. Pesa”
Nel tragitto aveva notato la tavola apparecchiata per almeno otto persone. Una roba informale, se no Brian avrebbe fatto preparare sotto il gazebo e non lì in veranda.
“Abbiamo ospiti?” aveva chiesto alla donna che gli trotterellava dietro.
“I ragazzi, doppia coppia. Ted e Blacke, Emmett e consorte. Forse, ma non sono sicuri, anche Michael e Ben.”  
“Brian?” aveva domandato in fine.
“In giardino.”
Era seduto al tavolo di ferro battuto, sorseggiava annoiato un pomodoro condito e stava leggendo qualcosa sul tablet.
Lo aveva sorpreso da dietro, gli aveva sfilato il bicchiere di mano e rubato un sorso.
“Ah c’è anche la vodka, mi pareva strano” aveva commentando appoggiando il bicchiere al tavolo, avvolgendogli il collo e appoggiandosi alla sua schiena con il petto. Brian aveva sorriso e bloccato per un momento le mani del marito con i suoi palmi. “Sei arrivato. Ci sono i ragazzi a cena. Non sei troppo stanco, vero?”
“No, mi fa piacere è un casino che non li vedo”
“Già” aveva commentato Brian, ma Justin non aveva colto il sarcasmo.
“Faccio in tempo a farmi una doccia?”
“Sì, dovrebbero essere qui fra una mezz’oretta”
Il chiacchiericcio che aveva sentito scendendo le scale gli aveva fatto capire che qualcuno era già arrivato.
Si era messo informale, braghe corte con i tasconi e polo fuori dai pantaloni, era caldo, ma non quel caldo afoso che faceva preferire l’innaturale frescura del condizionamento alla cena all’aperto.
Bisognava ammetterlo Britin d’estate era una figata, e dopo parecchi anni, non si era ancora abituato del tutto. La luce radente a pelo d’acqua illuminava la piscina, si era fermato un attimo a guardare la scena, prima di farsi notare.
Brian gli era andato incontro, avvolgendogli le spalle: “Naty dice che ci vuole ancora un quarto d’ora prima di sedersi. Vuoi un aperitivo?” Emmett dietro al carrello dei liquori shakerava come se non ci fosse un domani.
Justin si era avvicinato: “Mi fido di te” gli aveva detto, difficilmente ci si pentiva di qualcosa preparato dall’amico. Infatti, come previsto, l’intruglio, dal nome impronunciabile, era buono. Da sempre Emmett utilizzava gli amici come cavie per provare nuove ricette, prima di inserirle nell’offerta della sua attività di catering e organizzazione eventi.
Naty aveva preparato una cena messicana, innaffiata da caraffe di Margarita ghiacciato.
Scendeva giù che era una meraviglia, il vociare e le risate salivano insieme al tasso alcolico della compagnia. Non erano mai stati morigerati anche se adesso dovevano, gioco forza, contenersi un poco. Solo Justin era ampiamente sotto i quaranta. 
“Allora Jus, come va? – aveva chiesto Ted – È parecchio che non capiti più in Kinnetic”
“Sono stato impegnato per lavoro, non ho un minuto libero. Mi sembra di essere tornato agli anni di NY. Non ci avevo più fatto caso, ma Pittsburgh, a volte, va un po’ stretta a un artista”
Era stato un bene che Justin, su quest’ultima affermazione, non avesse incrociato lo sguardo del marito, perché probabilmente avrebbe avuto paura. Non se ne era accorto lui e neppure gli altri, ad eccezione di Michael che si era chiesto cosa cazzo stesse succedendo fra quei due.
“Non lo vogliamo fare un brindisi all’artista? - aveva interrotto la conversazione Brian alzando il bicchiere - A Justin e ai suoi spazi” aveva concluso e la nota acida questa volta l’avevano colta tutti. Justin compreso.
Nei giorni seguenti si era chiesto se Justin si fosse reso conto di aver detto una gran bella stronzata a cena perché era affettuoso, niente di straordinario, ma più della media degli ultimi tempi e come al solito, in lui era prevalsa la tenerezza rispetto allo scazzo. Lo sapeva da sempre, rimanere arrabbiato con Justin non era una delle cose che gli riusciva meglio.
I WhatsApp che illuminavano il display del suo cellulare - improvvisi e più frequenti - per sapere della sua giornata e dei suoi programmi, gli facevano piacere, non poteva negarlo. Continuava a lavorare come un pazzo, ma in qualche modo gli faceva capire di esserci. Neanche a farlo apposta, mentre rifletteva, era arrivata la notifica di un messaggio da Justin:
- Vai in palestra stasera, quando esci dall’ufficio? ;-)
- Pensavo di sì, mi raggiungi?
- Ci provo, ma non ci contare. In ogni caso ti aspetto per cenare. Baci

Era Ted, quello che lo aiutava con i pesi, ormai manco lo chiedeva più. Si metteva dietro e si assicurava che il Capo non si disintegrasse, esagerato com’era in ogni cosa, nel mentre lo rintronava di chiacchiere.
Era stato così che aveva scoperto che Ethan era a Pittsburgh, l’aveva incrociato per strada con Justin due giorni prima. Nulla di strano e in effetti Ted l’aveva raccontato in totale serenità, se non fosse che mentre l’amico continuava a parlare, all’improvviso nella sua testa era riaffiorata proprio quella cena di due sere prima in cui il marito era stato particolarmente chiacchierino e dove non era stato fatto neanche un minimo accenno ad Ethan e al suo arrivo in città. Una semplice dimenticanza nulla di più che però gli aveva dato fastidio, gli era montato il nervoso, improvvisamente si era accorto di avercela un po’ con Justin, sempre più distante, sempre oberato, sempre con la testa da un’altra parte.
Non era un vero e proprio sospetto, era più che altro scazzo, ma uno scazzo strisciante che sembrava scomparire come un fiume carsico e che riemergeva, troppo di frequente ormai, ogni volta che Justin gli sembrava su un altro pianeta.
Linz senza dubbio gli avrebbe detto di piantarla, che forse era il caso di accettare che per una volta poteva non essere il primo pensiero del marito, che era un viziato e che Justin l’aveva abituato troppo bene.

Justin aveva preparato fuori, sotto il gazebo fiorito. La cena non era nulla di elaborato, ma c’era qualcosa di intimo, quella sera, in quella tavola apparecchiata per due. Sembrava fuori luogo, ma non era riuscito a tenere la lingua in bocca. Le parole di Ted gli avevano lasciato un sapore amaro e voleva toglierselo.
“Ted dice che vi siete incrociati”
“Si, qualche giorno fa in Liberty Avenue”
“Non me l’avevi detto”
Justin aveva alzato le spalle: “Me ne sarò scordato …”
L’indifferenza di Justin lo faceva ribollire. Mi prende per il culo!
“Pare non fossi solo” e queste parole le aveva scandite fissandolo dritto negli occhi.
Il marito sembrava sorpreso, ma non dall’affermazione, piuttosto dall’espressione truce sul suo volto. Era rimasto un attimo interdetto, come se cercasse di mettere in ordine le idee, poi aveva annuito. “E’ vero. Ted l’ho incrociato all’uscita dalla libreria, non prima. Ero con Ethan, ci siamo incontrati fra gli scaffali e poi ci siamo fatti una birretta. Non mi ricordavo neppure che mi aveva detto sarebbe stato in città.”
“Ma quante cose ti dimentichi ultimamente”
“Brian?”
“Justin” aveva ribattuto con voce da schiaffi.
“Mi stai facendo incazzare” aveva sibilato, stringendo gli occhi a fessura, il ragazzo.
Brian aveva annuito compiaciuto. “Ah tu ti stai incazzando”
“Puoi ben dirlo. Questa non è una cena è un interrogatorio e dal momento che non ho piacere a cenare con Torquemada, ti saluto” Senza un’ulteriore parola stava guadagnando la porta finestra per rientrare a casa.
Brian si era alzato facendo cadere la sedia, il tonfo aveva fatto girare Justin che si era bloccato sui suoi passi, permettendo a marito di raggiungerlo.
“E no, caro mio, non te ne vai. Me l’hai già piantato in culo una volta con sto violinista del  cazzo”
“Sei offensivo Brian. Vaffanculo”
“Fantastico. Io sono offensivo, non tu che mi racconti cazzate da settimane”
Justin aveva scrollato la testa, contraendo il volto in una smorfia.
“Datti una calmata perché straparli”
“Straparlo?” aveva ribattuto sarcastico e aggressivo.
“Decisamente” aveva ribadito lapidario il marito che non accennava ad abbassare lo sguardo con il quale lo stava incenerendo.
“Vai, vai aveva urlato esasperato – Fai il cazzo che ti pare, come hai sempre fatto, del resto”
Quelle parole ingenerose avrebbe dovuto farlo incazzare ulteriormente e invece …
Era stato il tono, forse. Più probabilmente la postura, le spalle avevano ceduto, schiacciate da un peso difficile da sostenere e il passo si era fatto leggermente strascicato che erano i tipici segni di Brian quando soffriva. E lui non voleva farlo soffrire, certo non per un tradimento che esisteva solo nelle sue paure. Fanculo se si sentiva ferito e offeso dal solo fatto che l’avesse pensato. L’aveva colto alla sprovvista, allacciandolo alla vita, da dietro, con una foga che aveva rischiato di farli finire a terra.
“Brian – gli aveva detto piano, alzandosi sulle punte per avvicinarsi all’orecchio. Non c’è nessuno, nessun altro oltre te. Non devi neppure pensarlo, io ti amo e non da ieri.  Posso essere stronzo e anche egoista a volte, ma non sono un traditore.” L’aveva indotto a voltarsi, si era appeso al collo, mentre Brian rimaneva immobile, le braccia lungo il corpo. “Ethan è mio amico e basta, non c’è nulla fra di noi e non c’è nulla con nessun altro. Hai capito, Brian? Guardami! Hai capito? Mi dispiace tanto se ti ho portato a pensarlo. Sto lavorando come un pazzo, ma è tutto qui. Mi dispiace Brian, non sai quanto.”
Aveva fatto scivolare una carezza sulle braccia inerti del marito fino ad arrivare a incrociare le dita delle loro mani. “Perché non me ne hai parlato?” la voce era stanca. “Non lo so, mi è scappato di mente, non è che fosse una notizia fondamentale, almeno per me. Sono stanco morto e sono ancora più sbadato del solito, ma ti giuro non c’era nessuna malizia. Sono un po’ rincoglionito, ma questo dovresti saperlo. Mi manchi anche tu, cosa credi.”
Poi un lampo stupito e un po’ divertito aveva attraversato gli occhi di Brian, le spalle nuovamente dritte: “Ho fatto una scenata di gelosia.” Non ci poteva credere neppure lui.
Justin gli aveva stretto il mento tra le dita e gli aveva cercato la bocca: “Sei arrapante quando sei geloso” Con un gesto brusco Brian l’aveva stretto a sé, petto contro petto, aveva piegato le gambe, per abbassarsi quel tanto da portare le loro erezioni a toccarsi. “Arrapante” aveva ripetuto sulla bocca di Justin. “Geloso” aveva rilanciato il marito, un attimo prima di far entrare la lingua di Brian. Si erano staccati quando l’ipossia era più di un’ipotesi, erano rimasti con i volti vicini, gli occhi negli occhi ed erano scoppiati in una risata liberatoria, interrotta prosaicamente da Brian: “Sarebbe un grosso problema se puntualizzassimo la precedenza da dare gli aggettivi dopo che ti ho scopato?”
“No, direi di no” gli era saltato in braccio circondandogli la vita con le gambe e iniziando a leccargli il collo. “Sei buono, hai sempre un buon sapore …”
“Così non ci arriviamo in camera”
“Salottino, piano terra, ce la puoi fare Kinney, muoviti”

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** LAVORO MATTO E DISPERATISSIMO ***


Come sempre grazie a Nuel e Cristina. Buona domenica a tutti. 

“Sono stanco morto” aveva detto a Gus lasciando il piccolo trolley alle cure di Naty.
“Dov’è tuo padre? Non è ancora rientrato?”
“Ha chiamato poco fa, casino in ufficio. Forse si ferma a dormire al loft” Justin non aveva fatto alcun tentativo di nascondere il suo stupore. “Non mi ha detto nulla, quando ci siamo sentiti prima che mi imbarcassi”
“Il casino sarà scoppiato dopo”
“Può essere. Allora siamo soli io e te, maratona di Game of Thrones? - aveva proposto al ragazzino – Carica la prima puntata, mi cambio e faccio una telefonata.  Cinque minuti e arrivo”
“Puoi dire a papà se si ricorda di farmi la ricarica al cellulare?”
“Non chiamo Brian. E’ una telefonata di lavoro, sono oberato ultimamente”
Aveva avuto conferma degli orari di lezione della settimana seguente poi si era lavato le mani, messo gli abiti da casa e prima di raggiungere Gus aveva mandato un messaggio a Brian.
Alla fine dormi al loft? Vai direttamente in ufficio domani mattina? Perché io esco presto e ne avrò fino a tardi. Baci
Rientro a Britin.
Era stata la laconica risposta, arrivata meno di mezzo secondo dopo.  
“Papà torna a dormire a casa – aveva comunicato a Gus – Ci facciamo due pop corn?”
Era arrivato che stavano ancora guardando la TV, si era allentato la cravatta, appeso la giacca alla spalliera di una sedia e si era lasciato cadere sul divano vicino a Justin.
“Non è un po’ tardi per te?” aveva domandato al figlio.
“Sono gli ultimi giorni non si fa più niente a scuola”
Sembrava un tantino tarantolato e non era rimasto sul divano che pochi minuti. Justin gli aveva messo una mano sulla coscia e gli aveva fatto cenno di stare zitto che il momento era topico.
“Mi prendo una birra, la vuoi?” aveva detto alzandosi. Il marito si era limitato a fare no con la testa. L’aveva bevuta rimanendo in piedi, con la mano appoggiata alla spalliera della poltrona su cui sedeva Gus. I due sembravano ipnotizzati e la stanchezza della giornata gli era improvvisamente rovinata addosso. “Vado a letto”
“Dieci minuti e arrivo” aveva risposto Justin.
Si era fatto una doccia veloce prima di infilarsi sotto le lenzuola. Le narici di Brian erano solleticate dal profumo di sapone e dentifricio, la pelle di Justin era fresca e ancora leggermente umida. Gli aveva messo il naso nell’incavo della spalla. “Andato bene il convegno?” “Mmmh tutto ok. Interessante e stimolante. Il mio intervento è stato apprezzato”
“Bene, allora ne leggeremo sul prossimo numero di Art and Image
Se il commento lo aveva preso alla sprovvista, Justin non lo aveva dato a vedere.
“Può essere, ma anche no, a Boston c’era un altro meeting importante, magari parlano di quello.”
“Se è così, Signor Taylor sei meno famoso di quanto millanti”
Justin lo aveva, dolcemente, fatto spostare per poterlo guardare in viso: “Mi sei mancato” 
“Pure tu, artistuccolo. Se riuscissi a stare a casa per due settimane di fila te ne sarei grato. E’ quasi peggio di quando eri a NY, almeno il we ci vedevamo.”
“Fino a sabato sera sarò tutto tuo”
“Sabato sera?” aveva ripetuto con un certo scazzo allontanandolo con una mano sul petto.
“Mi ha chiamato la galleria di NY, devo fare un salto. Parto domenica mattina, ma martedì sera sarò già di ritorno. Non fare il fanatico e fammi vedere che è vero che ti sono mancato” L’aveva afferrato per la nuca e l’aveva sorpreso con un bacio esigente. La mano era scesa, sfiorandogli il torace e lo stomaco, fino all’inguine. “Sì, ti sono mancato” aveva ridacchiato afferrando l’erezione dura del marito e iniziando a menargliela. Brian aveva gettato la testa all’indietro e aveva smesso di pensare.
Gus aveva terminato l’anno alla grande, pareva impossibile che fosse arrivato a Pittsburgh incazzato, con note comportamentali e una lista di seghe a scuola da primato. La pagella che aveva mostrato con orgoglio al padre era di tutto rispetto e quel che Brian aveva apprezzato maggiormente era l’espressione soddisfatta del figlio. “Bravo figliolo” gli aveva detto, dandogli una pacca sulla spalla. “Hai già chiamato le mamme?”
“Mandata scansione” aveva risposto velocissimo Gus facendogli l’occhiolino.
“Prepari il terreno per un ritorno estivo grandioso, eh?” 
Gus aveva riso di gola “La pubblicità è tutto nella vita, vero papà?”
Aveva deciso di accompagnarlo Toronto dove si sarebbe fermato tre settimane, poi con mamme e sorella sarebbe andato in montagna, il mare l’avrebbe fatto con lui e Justin verso fine estate dal momento che il lancio di una campagna importante richiedeva la sua presenza e sicuramente non si sarebbe potuto allontanare da Pittsburgh prima di metà Agosto. Normalmente Justin, finita la sessione estiva, era piuttosto libero, non così quest’anno, anzi era un continuo andare e venire da NY e come se non bastasse accettava inviti per tenere conferenze come mai prima. Ultimamente stava vendendo parecchio, qualche quadro era ospitato in via permanente nelle principali gallerie del paese e in alcuni musei, anche se non di primissimo piano. Probabilmente aveva ragione, era il momento di spingere a tavoletta sulla sua carriera. Aveva sperato che li accompagnasse, potevano attaccare il venerdì e il lunedì, salutare le ragazze e Gus e poi concedersi due giorni nella zona dei laghi, la stagione era quella giusta, invece nisba. Loro partivano per il Canada e Justin, tanto per cambiare, per NY.
A volte era difficile da concedere, ma doveva ammettere che cercava di non trascurare nè lui, nè la famiglia. Ogni volta che stava per sbottare Justin era stato in grado di sorprenderlo e farlo sentire anche un po’ coglione per i suoi pensieri ingiusti. Qualche settimana prima, dopo il modo di merda con cui l’aveva salutato la domenica mattina in partenza per NY, il fatto che avesse anticipato il rientro il lunedì sera per presentarsi alla Kinnetic e rapirlo per una serata ad alto contenuto erotico al loft, l’aveva fatto sentire non solo coglione, anche un po’ stronzo. Non era stato bello rendersene conto: credeva di non esserlo più nei confronti del marito, da parecchio tempo.  Diciamo che le intenzioni di Justin erano buone e doveva farsele bastare, anche se i risultati lo erano un po’ meno. Latitava e parecchio. Brian si dava fastidio da solo quando veniva colto da irritazione per le continue assenze, per gli impegni improvvisi e improrogabili di Justin. Sto diventando una casalinga disperata, si diceva, scrollava le spalle, tirava dritto e cercava di non far notare quanto il nuovo ritmo lavorativo del marito gli pesasse. D’altra parte l’aveva fatto anche lui, in passato di buttarsi nel lavoro, quando non voleva pensare, è una reazione piuttosto comune. Forse Justin aveva bisogno di essere costantemente impegnato per gestire il dolore che lo tallonava. Aveva sempre reagito ai traumi cercando rifugio nella sua arte. L’aveva fatto dopo l’aggressione e dopo la bomba, lo stava facendo per superare il lutto. Eccolo lì l’artista, aveva pensato con tenerezza mettendo il naso dentro lo studio e cogliendolo intento a contemplare, al di là del vetro, qualcosa che vedeva solo lui.
“Stiamo andando Jus. Ci sentiamo stasera” Tom li aspettava con il motore acceso per portare lui e Gus all’aeroporto.  Si era voltato e gli aveva sorriso nel modo che gli aveva fatto guadagnare il soprannome. Aveva mollato il pennello che teneva in mano sul cavalletto e stando attento a non sporcarlo aveva sporto il viso in avanti per baciarlo. “Fate buon viaggio”    


 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** LA VITA VA AVANTI ***


Il giorno dopo la litigata aveva sentito Justin disdire, davanti a lui, un viaggio programmato e nei quindici giorni successivi qualche volta sembrava essersi ricordato di avere un marito e non un coinquilino. Probabilmente aveva ragione Linz, era un po’ viziato, ma quella era la loro vita, tornare a casa ed esserci, non incrociarsi per caso transitando nel corridoio.
A parole sembrava che la routine precedente allo tsunami lavorativo che lo aveva investito mancasse tanto a Justin quanto a lui, ma nei fatti il marito gli sembrava sempre scalpitare, come se non si sentisse mai nel posto giusto. Era con lui e pensava al lavoro, era al lavoro e probabilmente, a questo ci credeva, pensava a lui, però la sensazione che non riusciva a scrollarsi di dosso è che gli costasse comunque di più scegliere loro.

La moto di Justin era parcheggiata nel vialetto ed erano solo le sette di sera, mentre faceva manovra per infilare la mercedes nel garage aveva sorriso. Salendo le scale si era sfilato la giacca e allentato la cravatta, non vedeva l’ora di buttarsi sotto la doccia e sciacquarsi via quella giornata faticosa, ma il fatto che Jus fosse già a casa e la prospettiva di non doverlo aspettare fino a un’ora immonda per cenare già stava migliorando il suo stato d’animo.
Nell’entrare in camera aveva sentito scrosciare l’acqua in bagno, evidentemente era rientrato da poco anche Justin e l’idea di aiutarlo a lavarsi gli aveva raddrizzato definitivamente l’umore. Era entrato di soppiatto nel box doccia, appoggiandogli le mani sulle spalle e lasciando un bacio dietro l’orecchio.
“Cosa ci fa il mio smoking sul letto?” gli aveva domandato mentre il marito si voltava verso di lui.
“Te lo devi mettere, così poi posso togliertelo…”
“Questa fantasia è nuova Mr Taylor, ma per lei questo ed altro”
Sì, decisamente la serata sarebbe stata piacevole.
Justin gli aveva dato una scherzosa manatina, che scivolosa per il sapone era sembrata più una carezza sul petto liscio e bagnato di Brian. “Scemo, usciamo. Te lo tolgo quando rientriamo”
“Usciamo? E dove andiamo?” l’espressione non sembrava troppo entusiasta, certo distante dalla reazione che aveva immaginato Justin “Sono stanco” aveva sospirato. Il marito non si era lasciato demotivare e tutto contento aveva continuato “Sorpresa! Bolero di Ravel a teatro dell’Opera. E’ la Prima, ho fatto una fatica boia a procurarmi i biglietti”
“Balletto classico? Jus …”  la voce era praticamente un gemito.
“Ci sono dei fighi inimmaginabili mezzi nudi” aveva scherzato Justin sull’espressione sconfortata di Brian “l’interprete principale è Roberto Bolle, dovrebbe essere patrimonio tutelato dall’Unesco, fidati ti piacerà”
Brian continuava a non sembrare molto convinto mentre si asciugava e rassegnato iniziava a infilarsi i pantaloni dello smoking. “Dai che ci divertiremo, è una vita che non usciamo io e te”
“Già e chissà come mai …”
Justin si era avvicinato, gli aveva raddrizzato il farfallino, si era tirato sulle punte e lo aveva baciato delicato. “Sei bellissimo, perfino più di quando hai fatto di me un uomo onesto”
“Eri più devoto, all’epoca. Credo di averti dato troppa confidenza negli anni” aveva scherzato Brian.
“Devoto” aveva ripetuto ridendo Justin “muoviti che facciamo tardi” e nel dirlo l’aveva preso per mano.
Nonostante la stanchezza, l’entusiasmo di Justin -  che nel tragitto in auto non aveva smesso un secondo di parlare - la musica, l’atmosfera e le coreografie lo avevano catturato velocemente.
Si era messo comodo sul confortevole divanetto del palchetto riservato il luogo magico che permette intimità, ma ti concede di godere e partecipare delle emozioni del pubblico in sala.
La prima volta che aveva messo piede a uno spettacolo di danza era stato perché sotto minaccia di astinenza sessuale a tempo indeterminato da parte di quel demonietto del marito che amava tanto il balletto classico quanto la danza moderna. Non si era mai veramente appassionato, ma negli anni aveva imparato ad apprezzare questa forma d’arte e non gli dispiaceva affatto, di tanto in tanto, accompagnare Justin, anche se per lui andare a teatro continuava a significare commedie brillanti o drammi shakespeariani.
Non aveva mai visto Bolle esibirsi dal vivo, ma gli erano bastati pochi istanti per comprendere l’eccitazione che aveva visto in Justin alla sola idea. Tutti gli occhi calamitati su quella statua greca in movimento e il pacco gli era diventato di marmo a tempo record, in meno di mezzo secondo dita conosciute gli stavano facendo scorrere giù la zip. Due occhi azzurri, luccicanti di allegria e lussuria lo avevano fissato nella penombra:
“Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto … Cerca di non fare casino, mugola piano” e lui si era limitato a un sospiro profondo e a lasciare cadere la testa all’indietro aspettando l’orgasmo che la mano di Justin e la musica stavano per regalargli.  
I loro smoking erano una montagnola indistinta ai piedi del letto, anzi con buona probabilità il farfallino di Justin era rimasto da qualche parte in garage, Brian seguiva con un dito la spina dorsale del marito e ogni tanto gli lasciava un bacio sulla spalla.
Dio quanto gli piaceva la sua pelle, i suoi capelli e l’odore, quel profumo tipico di Justin che gli aveva rubato i sensi dalla prima volta che l’aveva avuto sotto di sé. L’aveva cercato in altri, molti anni prima e non era mai riuscito a ritrovarlo. Gli bastava entrare in una stanza per sapere all’istante se Justin era stato lì.
Come un gatto pigro il marito si era girato rilassato, ma era già la seconda volta, da che erano rientrati a casa, che aveva l’impressione volesse dirgli qualcosa e poi le frasi gli rimanessero in gola.  Si era accomodato con il viso sul suo stomaco e si aspettava che le lunga dita del marito gli sfiorassero i capelli. Erano i loro gesti e a Brian faceva sempre una certa impressione accorgersi di quanto fossero diventati naturali e istintivi. Era una bella sensazione, quasi quanto sentire i capelli di Justin fra i suoi polpastrelli. Gli aveva abbandonato un bacio all’altezza dell’ombelico e in quel gesto e in quel comodo avvallamento del suo corpo aveva lasciato uscire le parole, il fiato gli aveva accarezzato la pelle: “Hanno trovato una famiglia, forse …”
“Susan?” aveva chiesto, anche se era evidente che il soggetto fosse quello.
“Mmhh sì - aveva annuito, senza alzare il viso e picchiettando la fronte sulla sua pancia - non è ancora certo perché è una coppia di un altro Stato, ma sembra che -  a parte questo - abbiano tutti i requisiti”
“E tu come ti senti? ”
“Non te lo so dire Brian, proprio non lo so. Quando l’assistente sociale me l’ha detto il cuore ha perso un battito, ma non posso che essere contento se Susy ha trovato una famiglia. In un altro Stato, però… Non ne sapremo più niente. Più niente per davvero.”
“Non ne sapremmo più nulla anche se la adottassero a 20 miglia da qua Jus, lo sai, sono le regole”
Un piccolo sbuffo dal naso: “Lo so, solo che così fa più impressione. Siamo parte del passato, come Daphne. Nessuno le potrà raccontare che donna fosse sua madre.”
La voce si era incrinata, ma giusto un attimo.
Si era passato l’avambraccio sul naso a pulire un moccico inesistente: “E’ giusto così, dobbiamo andare avanti. Tutti, soprattutto lei. Daph sarebbe contenta di non saperla più in casa famiglia.”
Brian aveva allargato il palmo sulla schiena di Justin che vibrava piano insieme alla parole che il marito soffiava via.
Ora o mai più - si era detto - prima di commentare: “Lei aveva scelto noi …” Justin doveva sapere che lui era disposto quanto meno a parlane, adesso che il tempo era agli sgoccioli, voleva che suo marito fosse sicuro di quel che stavano facendo. Non poteva accettare ulteriormente la muta testardaggine di Justin. Dopo lo choc iniziale lui era piuttosto sereno sulla decisione presa, non era altrettanto convinto per Justin. Suo marito doveva trovare il coraggio di affrontare la cosa, prima di chiudere definitivamente la questione. Adesso mi morde, aveva pensato, invece come sempre Justin era stato in grado di sorprenderlo.
“Daph non sapeva quel che ci era successo, non sapeva dei miei silenzi e delle tue omissioni. Non sapeva un accidente di quei giorni a Ibiza, della paura e della fatica che abbiamo fatto per non finire in mille pezzi. Non lo sapeva perché io non gliene ho mai parlato, ma se lo avessi fatto sono certo che avrebbe rispettato la nostra decisione, la nostra famiglia, che siamo io, te e Gus. Daphne rispettava gli altri. Non ce lo avrebbe chiesto se avesse saputo.”
“Tirati su. Guardami in faccia, Jus” l’aveva aiutato sollevandolo sotto le ascelle e Justin non aveva opposto resistenza, si era messo seduto davanti a lui, a gambe incrociate. Era carino, scapigliato dopo l’amore, nudo e compito. A Brian era tornato in mente il ragazzino di mille anni prima che gli chiedeva consiglio professionale per sponsorizzare il gruppo studentesco gay-etero, ma non c’era nulla di quel ragazzino nello sguardo dell’uomo che aveva davanti. L’azzurro degli occhi era un blu profondo, quella notte. “Sto bene Brian, sono triste, ma sto bene” 
E a Brian non era rimasto che abbracciarlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** ALTI E BASSI ***


La tregua di quella sera non era durata molto, ci aveva messo poco Justin a farsi nuovamente travolgere, l’intimità che sembravano aver ritrovato era svanita fra telefonate chilometriche, meeting, serate chiuso nello studio all’Università e improrogabili impegni newyorkesi e così, per non cedere al nervoso, era finito pure lui a lavorare più ore dell’orologio, almeno non si sentiva un idiota ad aspettarlo, quando al massimo quel che arrivava era un messaggio per dire che tardava o non rientrava proprio.
Cercava di convincersi che fosse solo l’ennesima fuga in avanti per sopportare quella che il marito chiamava “tristezza da consapevolezza” e che dovevano resistere fino a quando l’adozione di Susan si fosse conclusa e Justin fosse riuscito a ritrovare l’equilibrio. Sempre che fosse effettivamente ed esclusivamente quello che lo rendeva così sfuggente.
Alle ennesime parole d’amore che servivano solo ad addolcire la comunicazione di altre serate solitarie era sbottato:
“Ma lo fai apposta a prendermi per il culo? Ti amo, mi manchi e poi sparisci. Quanto è durato il tuo slancio amorevole, dieci giorni? No, dai siamo generosi, a due settimane ci sei arrivato. Fai come ti pare, ma non mi dire stronzate, che mi fai incazzare ancora di più.”
“Dai Brian …”
“Non dovevi andare? E allora vai” e per una volta era stato lui a uscire dalla stanza lasciando Justin impalato e senza parole.
L’aveva seguito nel suo studio, dove si era rintanato furente.
Appena messo il naso dentro era stato accolto da un: “Cazzo ci fai ancora qui?” che era tutto un programma. Justin aveva sbattuto con violenza la rivista patinata sulla scrivania, facendo volare per terra alcuni fogli.
“Vai a fare casino da un’altra parte” e si era chinato a raccoglierli.
“Pagina tre. Leggi” e nel dirlo aveva aperto la rivista.  
Brian aveva letto veloce, d’altra parte che fosse uno sperticato elogio del lavoro di Justin era chiaro già dal titolo e dalla riproduzione di uno dei suoi ultimi lavori a doppia pagina. La pubblicazione era una delle più autorevoli del settore, come minimo le tele del marito, dopo quell’uscita, valevano il venti percento in più. Non che questo importasse poi tanto a quello svaporato biondo che gli schiaffava i suoi risultati in faccia per farlo sentire un po’ stronzo.
“Se non altro tutto sto sbattimento porta a qualcosa” aveva risposto allo sguardo provocatorio di Justin porgendogli indietro la rivista.  
“Ma se stai già facendo i conti di quanto siamo più ricchi …”
“Tu, magari. Io me la cavavo bene anche prima”
“Piantala di fare lo stronzo. È lavoro e sta dando i suoi frutti, che non lo capisca proprio tu ha dell’incredibile”
Brian si era limitato ad alzare le spalle.
“Va beh, io vado che faccio tardi. Fatti passare il nervoso, va”
C’era voluto un po’ perché sbollisse, la mattina dopo non l’aveva neppure aspettato per fare colazione. Gli aveva lasciato detto, per giunta tramite Naty, che era di fretta e che forse avrebbe fatto tardi per cena. Mentre mangiava uno yogurt gli aveva mandato un WathsApp: 
- Ritorsione?
- Lavoro!
- Fanculo.
- Buona giornata anche a te.

Parecchi anni prima, anche su una stronzata, Brian avrebbe mantenuto il punto per un periodo irragionevole, per fortuna il tempo era passato anche per lui e la tattica di Justin di lasciar correre, non replicare era ormai collaudata. Se gli si lasciava una via d’uscita onorevole dal cul de sac in cui la sua cocciutaggine ed egocentrismo a volte lo infilavano, Brian la imboccava senza troppi discorsi o patemi. Così era successo anche quella volta e la sera a casa si erano trovati sorridenti ed entrambi pronti per cenare insieme.

“Tuffo prima che parta la digestione?” aveva proposto Brian portando l’ultimo piatto in cucina. Si stava bene in giardino e la piscina era invitante. 
“Buona idea, vado a mettermi il costume”   
“Costume?”
Justin aveva fatto cenno con la testa verso casa, per quanto Brian non se ne facesse una ragione Naty si imbarazzava a vederli girare nudi.
“Andati! Hanno salutato mentre eri al telefono. Sguscia fuori da quei pantaloni Taylor”
“Dobbiamo farlo più spesso il sesso acquatico, mi sei piaciuto”
“Lieto di essere stato di suo gradimento” gli aveva detto porgendogli la mano e aiutandolo a issarsi sul bordo della piscina.
“Vado a prendere due teli, tu versa qualcosa da bere” e si era allontanato gocciolante, con lo sguardo del marito fisso sul culo, verso le cabine spogliatoio abilmente mimetizzate fra gli alberi.
Era tornato con un asciugamano avvolto in vita, quello per Brian piegato sul braccio e aveva rischiato di cadere perché non guardava dove metteva i piedi tutto intento a spippolare sul cellulare. Mentre gli sfilava il telo per asciugarsi, che la brezza serale si faceva sentire, gli aveva chiesto: “Lavoro?”
“No, in realtà è Ethan”
“Vi sentite spesso ultimamente”
“In effetti sì, sta capitando a Pittsburgh di frequente”
“E noi non vogliamo lasciarlo solo, vero?”
Justin lo aveva guardato sorridente e tranquillo: “Dai rompi – lo aveva apostrofato con fare affettuoso -  e comunque sì stavolta lo lasciamo solo: dovrei essere a NY quando arriverà a Pittsburgh”
“La cosa dovrebbe rallegrarmi se non fosse che lo prendo di nuovo nel culo io. Stavolta quanto starai fuori?
“Essù Brian” con una punta di esasperazione nel tono.
“Lo so, lo so … è lavoro” gli aveva fatto e si era fatto il verso da solo, rassegnato.
Justin si era accomodato su uno dei lettini a bordo vasca, la schiena appoggiata allo schienale inclinato e le gambe divaricate, un chiaro invito che Brian aveva colto immediatamente, andandosi a sedere in mezzo e appoggiando la testa sullo sterno del marito.
“Quando li tenevi lunghetti erano più facili da attorcigliare” aveva commentando inseguendo una ciocca che gli sfuggiva.
“Allora quando parti e soprattutto quando torni?” era tornato sull’argomento.
“Dopodomani, mi ci vorranno tre, quattro giorni al massimo, ma spero tre. Inizio a non poterne più nemmeno io di essere sempre in giro.
Lo so che ti sto sfracassando le palle, lo so e ti ringrazio di mandarmi a fanculo solo a giorni alterni” gli aveva girato il viso con una mano e l’aveva baciato piano, ma a lungo.
“In due giorni Ted non riuscirà a far fallire tutto, magari approfitto della tua ennesima partenza e vado a trovare Gus. Rientrano domani dalla montagna. Oggi al telefono mi è sembrato in gran forma”
“Buona idea, così non stai a cronometrarmi i minuti di assenza”
“Idiota” e la carezza sulla coscia si era tramutata in una veloce sberla.
“Ahi!” si era lamentato Justin
“Zitto, almeno devi stare zitto. Capito?” gli aveva ribattuto tenero il marito e Justin aveva annuito chinandosi sull’orecchio sinistro, mordicchiando il lobo e dicendo con voce da Padrino “muto sono” “Ecco, bravo.”

Grazie a Nuel e Cristina, sempre puntualissime nel lasciare un commento. Alla prossima. 

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** FERIE ***


Non so per quale motivo il pezzo che avevo postato era incompleto - iniziava da metà. Chiedo scusa e ci riprovo. Grazie a Nuel, Cristina e Acost che commentano. Buon 25 Aprile. 

Una settimana dopo era di ritorno a Pittsburgh con Gus, che non resisteva più senza Giada e voleva incrociarla prima che partisse anche lei per le vacanze e con JR che aveva convinto le mamme e farla scendere prima con il fratello.
“Se a Brian non dispiace…”
“Figurati se mi dispiace e così risparmiamo un viaggio a Mic e Ben. Vai a fare i bagagli piccola peste!”
“Grande Bri, grazie”
“GUUUSSS – aveva urlato per la casa – scendo con voi!”
“Non credevo avrei mai visto il giorno che saresti venuto a portarci via due figli su due” aveva ironizzato Mel, tirandogli una pacca sulla spalla.
“Ma che bel paparino” l’aveva preso in giro Linz stringendogli il viso fra le dita e lasciandogli un bacio sulla guancia.
“Non fateci l’abitudine …” era stata la replica d’ufficio.
“Jus?” aveva chiesto Gus mollando il borsone in entrata e venendo fulminato dal padre.
“New York” era stata la laconica risposta.
“Quando torna?”
“Chi può dirlo …” aveva risposto, fatalista. Infatti puntuale come un acquazzone di fine estate poche ore dopo Justin aveva chiamato per dire che si sarebbe trattenuto nella grande mela ancora due giorni. 
Brian aveva deciso di rimanere zen e di non incazzarsi, si era limitato a chiedere un po’ polemico se si ricordasse che di lì a una settimana dovevano partire per le ferie: “Siamo ancora in tempo per disdire il tuo biglietto, eh?”
“Ma non dire scemenze, certo che partiamo”
“Gus ed io di sicuro, quanto a te ci crederò quando ti vedrò seduto sull’aereo. Quello che parte per la Hawaii e non per NY”  
“Piantala che non vedo l’ora”
“E speriamo non ti si sia rotto l’orologio …” aveva commentato Brian e … niente, si erano messi a ridere. “Ti chiamo più tardi, prima di dormire. Dai un bacio a Gus e a JR”
“Ciao Stakanov, a dopo”


Contrariamente alle funeste previsioni di Brian sull’aereo per le Hawaii c’erano saliti tutti e tre, avevano scelto un villaggio vacanze piuttosto esclusivo e dotato di ogni tipo di intrattenimento adatto a un ragazzino dell’età di Gus. Una vacanza senza Giada, senza un amico, solo con papà e Justin non era più compatibile con le sue esigenze, fortunatamente suo figlio era un tipo socievole e facile agli incontri, nel giro di mezza giornata aveva trovato un gruppetto di coetanei e lo incrociavano a stento ai pasti.
Justin sembrava aver preso sul serio le ferie, quel malefico biondo rischiava di far passare lui per il malato di lavoro quando una volta ogni due giorni chiamava in ufficio, robe da matti! Avevano incontrato qualche personaggio interessato e una coppia di Washington, lei insegnante di Yoga e lui ingegnere, con due gemelle di sei anni con i quali avevano passato qualche piacevole serata, mentre Gus impazzava con i suoi nuovi amici in giro per il villaggio.
“Coprifuoco all’una, chiaro?”
“Dai Pa, c’è la festa Vampir alla disco sulla spiaggia non mi puoi fare andare a letto come i poppanti”
“Oh fringuello devi ancora compiere diciassette anni, SEI un poppante! All’una rientri.”
“Cazzo, sei peggio delle mamme”
“Gus ti conviene stare muto -  gli aveva fatto segno con il dito sulle labbra Justin – che la prima ipotesi era mezzanotte”
“Ah e questi orari solo perché siamo qui – aveva puntualizzato il padre – a casa te lo scordi”
“Ma …”
“Quando andrai al college farai il cazzo che ti pare, sempre che tu dia gli esami se no la retta te la paghi tu, ma per ora sei al liceo e non esageri. Fine della discussione”
“Va beh, ciao. Vado”
“Ecco bravo, vai – piccola pausa – e divertiti cazzone!”
“Strano che non mi abbia rinfacciato te – aveva commentato prendendo Justin per mano. - È un periodo che ogni volta che gli pongo dei limiti inizia con la solfa che tu alla sua età, certo che se Linds e Mel avessero tenuto un po’ di più la bocca chiusa sarebbe stato meglio, invece sta mania sentimentale delle lesbiche di raccontare il passato ai figli, ma che cazzo! Andiamo a fare un giro sulla spiaggia? Magari evitando la parte infestata dai Vampiri…”
“Ancora per qualche mese, puoi dirgli che alla sua età manco mi conoscevi” l’aveva consolato prendendolo soavemente in giro il marito.
Era ancora presto e passando avevano visto lo staff degli animatori finire di sistemare l’allestimento per la festa.
“Ci vorresti fare un salto?” aveva chiesto a Justin, guardando verso la postazione del DJ, che grondava sangue, grazie agli effetti di luce che il tecnico stava provando.
“Naaa e poi se ci facciamo vedere Gus ci uccide”
“Hai ragione, ti morderò io, ma in altra sede” e l’aveva assalito al collo facendo scoppiare il marito in una sonora risata.
La serata era incantevole, il suono delicato dello sciabordio, l’aria tiepida e il fruscio delle palme smosse da un venticello gentile era proprio quello di cui avevano bisogno dopo i mesi di tensione. Justin aveva inspirato profondamente, con piacere, l’aria salmastra e espirato liberandosi completamente i polmoni. A qualche giorno dall’arrivo stava finalmente, sul serio, iniziando a decomprimere anche lui. Dio solo sa quanto ne avesse bisogno.
“È qui che volevi trasferiti a vivere quando dovevo diventare ricco con Rage?”
“No, era San Diego, ma se mi mantieni va bene anche qui. C’è anche una bella fauna”
Dove cazzo stava guardando? Justin aveva seguito lo sguardo malizioso del marito, che negli anni non aveva perso il colpo d’occhio e infatti stava radiografando un tizio a torso nudo, decisamente notevole.
“Vero!” poi aveva fatto finta di riflettere qualche secondo “però no, non va bene … Troppo in culo in mezzo all’oceano. Quando il giovane Kinney ti renderà nonno qui non ci resisti” e gli aveva dato una spallatina.
“Nonno? Ma sei pazzo?”
“Certo! - aveva infierito divertendosi un mondo - ma non ci pensare, ancora qualche anno ce l’hai”
Brian invece di tirargli un coppino di quelli secchi, come si aspettava, aveva stretto meglio la presa sulle sue spalle: “Ti amo, ma proprio tanto, anche o forse perché sei un dannato coglione”
“Pure io, futuro nonno” e a quel punto il coppino era partito e a interrompere il momento era arrivato irruento Gus “Dio che sdolcinati che state diventando invecchiando”
“Shhh – aveva detto Justin – che c’ho messo più di dieci anni a riprogrammarlo”
“Tu pensa a Giada e al tuo di tasso glicemico” l’aveva rintuzzato il padre, quello che non si aspettava era vedere le orecchie di Gus farsi fuoco e gli occhi saettare a destra e sinistra un po’ nel panico. “Va beh, ciao ciao” aveva tagliato corto il figlio e Brian aveva capito, aveva preso per mano Justin e trascinato in direzione opposta a quella del ragazzino e i suoi amici, mollandolo a vedersela con una ragazzetta dai capelli rossi che gli stava domandano qualcosa con aria bellicosa.
“Mi sa che si è scordato di parlare di Giada”
“Eh già! - aveva ridacchiato Justin – Non capisco se la cosa ti renda fiero o no”
“Cristo Jus, ha solo sedici anni”
“Ok, sei fiero” aveva concluso ridanciano.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** LE FERIE SONO FINITE ***


Auguro buon 1° maggio a tutti. Ringrazio le commentatrici abituali, Nuel, Cristina e Acost e la new entry Milka17, spero che anche questo pezzo sia di vostro gradimento. 
 

L’emblema della giornata di merda: di fare tardi l’aveva messo in conto, di essere sulla superstrada alle dieci di sera un po’ meno, di farsi rompere i coglioni dall’avvocato della Nike Instruments proprio no e invece era lì con il vivavoce che spandeva nell’abitacolo le parole gracchianti di quell’azzecca garbugli che non voleva convincersi che lui non si occupava degli aspetti amministrativi dei contratti, che avrebbe dovuto parlare con l’ufficio legale della Kinnetic e con Theodor. 
“Certo che l’ultima parola è la mia, ma … “ inutile cercare di contrastare il fiume di parole che gli stava facendo aumentare il mal di testa, si era appoggiato meglio al sedile, allungato il collo sul poggia testa e si era limitato a qualche assenso vocale, per non far credere che fosse caduta la linea. L’indomani avrebbe intimato a Ted di avere la meglio dell’avvocato Semion, con qualunque mezzo; l’avrebbe ritenuto personalmente responsabile di ulteriori rompimenti di coglioni ai suoi danni.  Una volta arrivato, gli era toccato rimanere fermo in garage per dieci minuti, l’avvocato non smetteva di parlare e lui non voleva correre il rischio, uscendo dall’auto, che cadesse la linea, l’uomo, anche se molesto, rappresentava pur sempre un cliente da due milioni e ottocentomila dollari.  Accidenti a lui, però.

La luce in camera di Gus era accesa, nel silenzio arrivava il leggero ronzio della ventola della Xbox che lavorava a pieno regime. Era seduto alla scrivania, le immancabili cuffie alle orecchie, il joypad impugnato come un’arma di distruzione, stava combattendo chissà quale battaglia. La missione doveva essere terminata, perché si era accorto di lui, aveva appoggiato il controller sul piano di lavoro, tolto la cassa dall’orecchio sinistro spostandola in dietro sulla testa e l’aveva saluto.
“Ciao Pa”
“Ciao Gus”
“Avete fatto tardi tutti e due stasera, Justin è arrivato da dieci minuti. Ho studiato con Patrick oggi pome poi si è fermato a cena – sì, tranquillo avevo avvertito Naty, non le ho fatto la sorpresa come al solito – è andato via da un’oretta.” Qualche amico on line doveva averlo richiamato all’ordine perché mentre ancora parlava lo sguardo sfuggiva verso il monitor. Brian, che adesso gli era alle spalle, gli aveva fatto una rapida carezza sui capelli. “Non fare tardi, che domani c’è scuola”
Il ragazzino aveva annuito, calzando in modo corretto la cuffia e mettendosi in posizione da combattimento. “ ‘Notte” aveva detto il padre, ma probabilmente Gus non lo sentiva già più.
Dieci minuti fa - aveva ripetuto fra sé e sé – bel colpo per uno che doveva essere a casa presto. Il mal di testa gli era aumentato.
“Oh Brian, sei arrivato” si era girato di trequarti finendo di infilare la seconda gamba nei pantaloni della tuta. Lui gli aveva fatto un cenno con il capo, appoggiando la ventiquattrore vicino al comò, si era dimenticato di lasciarla nel suo studio.
“Ti cambi adesso? Non dovevi rientrare nel pomeriggio?”

“Sì, ma quando mi hai mandato il messaggio ho pensato che potevo rimanere di più all'università per finire il lavoro, poi mi sono mangiato un hamburger prima di rientrare”

“E non potevi finirlo a casa?”

“Sì, ma ero lì non mi andava di interrompere.”
“Ovvio” aveva commentato a mezza bocca, strattonando il nodo della cravatta, sfilandola dal collo con un gesto nervoso e lanciandola sul letto.  Si era incamminato verso la cabina armadio che Justin uscendo gli aveva lasciato aperta. La giacca in mano alla ricerca della gruccia, qualcosa di più forte di lui gli impediva di appallottolare una Zegna della collezione speciale. Gli aveva appoggiato le mani sulle spalle: “Sei stanco?”
“Parecchio - si era scostato, lasciando il marito con le mani in mano - mi faccio una doccia” aveva finito di spogliarsi e nudo aveva attraversato la camera infilandosi in bagno e subito nell’ampio box doccia. Justin si era appoggiato allo stipite e lo osservava: “Tutto ok?” gli aveva chiesto cercando di superare con la voce il clangore dell’acqua. La risposta era stata un mugolio, seguito da un boffonchiato: “ Potevi avvertirmi … ”
Justin si era avvicinato al cristallo della parete della doccia, aveva bussato con le nocche. Brian aveva alzato la testa dal getto d’acqua e pulito con una mano il vapore.
“Dai lo sai che sono stralunato. Scusa, la prossima volta prometto di ricordarmi” poi si era tolto i pantaloni e mentre sfilava la t-shirt aveva aperto: “Mi fai entrare …?”
“Sono stanco Jus” aveva ripetuto, in effetti lo era e aveva pure un fastidioso cerchio alla testa, ma se non gli fossero girati così i coglioni né l’una né l’altra cosa sarebbero stati un impedimento definitivo, però i coglioni gli giravano. Gli aveva dato un bacio veloce, finito di sciacquarsi e l’aveva lasciato solo e altamente interdetto. “La prossima volta, se ti fai un po’ meno i cazzi tuoi, magari scopi …”

Si era lavato alla velocità della luce e ancora mezzo gocciolante l’aveva raggiunto in camera, Brian stava fumando a letto, un po’ di cenere era caduta sulle lenzuola e la stava scrollando via con la mano. Si era sdraiato dalla sua parte del letto e messo su un fianco rivolto al marito, aveva allungato le dita e gli sfiorava i pettorali: “L’ultima volta che mi hai rifiutato avevi un tumore ai testicoli, mi vuoi far morire d’angoscia?”
“Mi girano solo i coglioni, quello sano e pure quello finto” gli aveva dato la schiena, tirato su il lenzuolo a coprirsi fino alle spalle e spento con un gesto fulmineo la lampada sul comodino.

Gli occhi li aveva aperti su un pompino superlativo, una buona abitudine che aveva dato a Justin molti anni prima. Aveva sorriso e goduto, quella mattina. Il sesso orale gli era sempre piaciuto più che altro riceverlo, invece si era scoperto molto eccitato nel succhiare, leccare e tormentare quel cazzo giovane e sfacciato che gli premeva irriverente sulla coscia al risveglio, non ci aveva messo molto ad adattarsi nell’avere Justin addormentato addosso e questo non era cambiato. Lo aveva ringraziato con un bacio profondo, ma non aveva ricambiato come si doveva. Il risveglio con risucchio era stata una buona mossa, doveva ammetterlo, ma era ancora indispettito dalla sera prima e che cazzo!

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** LITIGARELLI, ASSAI ***


Era di fretta quella mattina e si era vestito prima di fare colazione, così si era buttato la cravatta all’indietro, a mo’ di sciarpa, per non rischiare di macchiarla. Justin era sceso in pigiama, la faccia da sonno e i capelli sparati. Sembrava più giovane dei suoi 35 anni e lo attizzava da matti, anche quando litigavano, anche quando lo faceva incazzare come in quel periodo, non smetteva un secondo di desiderarlo, ma non c’era tempo neppure per una sveltina. Justin doveva aver inteso cosa gli stava passando per la testa, perché aveva sorriso e si era passato la lingua sulle labbra fissandolo. “Scemo!” aveva detto e gli aveva tirato un coppino. “No? Niente? Kinney stai proprio invecchiando”
La risposta era stata un altro coppino. “E’ tardi, devo scappare”
“Ci rifaremo stasera” aveva concesso avvicinandosi al mobile per prendere una tazza.
“Non credo Jus, parto direttamente dall’ufficio, devo andare due giorni a Washington”
“Mh – aveva bofonchiato mentre cercava un cucchiaino – non sei riuscito a sganciarti alla fine”

“Eh no” aveva risposto il marito con fastidio, chiaramente non era entusiasta di quella trasferta.
Justin si era seduto sullo sgabello, i gomiti appoggiati al piano della penisola, stava rompeva con metodo il guscio dell’uovo alla coche che aveva davanti.
“Allora ne approfitto per andare a NY” aveva commentato sovrappensiero. Non aveva fatto in tempo a riconoscere il sorrisetto sarcastico di Brian che il tono di voce l’aveva fatto sussultare. “Non limitarti ad approfittarne, ringraziami!”
Si era voltato con l’aria di uno al quale hanno pestato un callo. Che diamine gli stava prendendo? La domanda era rimasta senza risposta nel suo cervello, perché Brian aveva continuato sempre più provocatorio: “Beh? Ti sto lasciando campo libero non c'è neanche bisogno che mi mandi uno di quei messaggi del cazzo per sapere dove sono, cosa faccio e se torno.”

“Sei matto? - gli era uscito dal cuore – Che cazzo stai dicendo?”
“Dico, sig. Taylor, che non sembra più solo Pittsburgh a starti stretta.”
“Tu sei andato fuori di testa” Lo fissava sgomento, chi cazzo si era impossessato di suo marito?
“Mai stato così in me, ma devo ammetterlo da ragazzo eri più ingenuo, tu e quel tuo ridicolo amore per quel violinista del cazzo l'ho scoperto subito, invece ora c’ho messo un po’ …”
Justin aveva aperto la bocca, ma la voce non gli usciva, le parole erano incastrate in gola. Poi finalmente era sbottato esasperato: “E basta con Ethan, hai rotto le palle!”
Brian si era fatto vicino, aveva piantato i palmi aperti sul bancone e lo sovrastava, inchiodandolo fra lo spazio occupato dal suo corpo e lo sgabello su cui sedeva.
“Se non è Ethan, da chi ti stai facendo scopare?” gli aveva sputato addosso.
Justin gli aveva tirato una manata: “Da lui, dal fratello, dal cugino. Da tutti e tre insieme, mi piace da sempre il sesso promiscuo. Mi sembra superfluo dirlo al maestro.” 

“Zitto! Smettila, cazzo!” e c’era una vena disperata in quella richiesta.   

“Di fare cosa? - aveva urlato più forte ancora Justin – Di dire quel che vuoi sentirti dire?”
“Piantala di riempirmi di stronzate! Un po’ di onestà, per dio!”
“Onestà?” aveva ripetuto schifato

“Andrebbe bene anche la verità, se l’onestà ti disturba.”
“La verità è che amo te, voglio te. Dannazione ho sempre scelto te e se non lo capisci, se non ci credi neppure dopo diciassette anni, beh sai che ti dico? È un fottutissimo problema tuo.”
“Oh stronzetto!” gli aveva bloccato il viso, stringendogli le guance fra le dita. Justin gli aveva tirato uno schiaffo sul dorso.
“Mollami che devo uscire a farmi scopare! Che poi a pensarci bene con tutti quelli che ti sei sbattuto tu sarei sempre in credito” Si era alzato dallo sgabello e si era fatto largo spintonandolo.
“Benissimo, allora rimettiti in pari”
“Perché no?” e senza aggiungere altro l’aveva lasciato in cucina, tirandosi con violenza la porta alle spalle.

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** CARO AFFITTI ... ***


Brian aveva sgommato così forte che i sassolini di ghiaia del vialetto erano rimbalzati fino al portone d’ingresso, come una sventagliata di mitra.
“Ciocca forte, eh?”
Alla domanda retorica di Justin, Naty non aveva risposto. Era abituata alle loro liti furiose e pirotecniche, ma non li aveva mai visti così irritabili, scostanti e pronti alla rissa per mesi. Justin aveva gli occhi lucidi e non si capiva se per il magone o l’incazzatura.
“Mi cambio. Vado a correre - aveva comunicato alla donna, risalendo veloce le scale - tanto non riuscirei a lavorare. Lascio il cellulare a casa.”
“Buona idea. – aveva convenuto – Parti prima di cena per NY?” si era informata. Il ragazzo si era appoggiato al passamano: “Sì, Naty. Passo in Uni nel primo pomeriggio e poi prendo il volo delle 17.30. Scusa, stavo dimenticando di avvertirti che non ci sarò neppure io per cena.”
Dieci minuti dopo era sceso in tenuta da jogging, aveva incrociato Naty pronta ad andare a sistemare la loro camera da letto.
L’incazzatura fornisce risorse insperate e ne era risultato un allenamento estremamente efficace. Non poteva dire di essere calmo, ma la tensione fisica si era allentata. Si stava scolando un litro d’acqua direttamente dalla bottiglia, era appoggiato alla penisola della cucina e guardava verso il giardino, quando Naty era entrata per controllare se la lavastoviglie avesse terminato.
“Ah Justin, prima che mi dimentichi. Quando ho rifatto la camera ho scoperto due cravatte nascoste sotto il copriletto, temo che Brian se le sia scordate facendo il bagaglio. Visto che prima di partire vai Pittsburgh, gliele porti? Se no si deve tenere la stessa anche a Washington per due giorni. Le ho preparate in una bustina, la trovi sulla poltroncina dal suo lato.”
“Per quanto mi riguarda con le cravatte ci si può strozzare. Sopravvivrà con la stessa, o se ne comprerà una.” Aveva tirato l’ultima sorsata, accartocciato la bottiglia e gettata nel contenitore per la plastica.
Naty aveva fatto una faccia che era tutta un programma. “Ok, capito. Chiamo Cynthia …”
China, scura come il suo umore. Il pennino grattava la carta ruvida, pronta ad assorbire il tratto, la mano sembrava animata di vita propria e disegnava linee veloci. Improvvisi, dai chiaroscuri, sullo sfondo avorio, erano comparsi gli occhi di Brian. Lo fissavano, dolci, un po’ malinconici. Era lo sguardo con il quale Brian lo accompagnava da mesi, da quando era morta Daphne, era lo sguardo di un uomo che meritava più riguardo.
“Naty? Dove hai messo le cravatte?”
“Nell’armadio, Cynthia dice che ne ha un paio d’emergenza in ufficio”
“Quali aveva scelto?”
In Kinnetic non si erano ancora del tutto riavuti dall’esordio mattutino del capo. Nel breve tratto fra la reception e il suo ufficio era riuscito a minacciare due dipendenti alla macchinetta del caffè, mentre, inseguito da Cynthia, non smetteva di camminare con falcate lunghe e nervose. E dire che spesso era lui che lo offriva a chi era in coda per il primo caffè lavorativo della giornata.
“Fai filtro – aveva ruggito – perché oggi chi entra qui e poi mi sottopone una stronzata lo licenzio. Chiaro?”
“Cristallino! Ma si può sapere che diamine hai?”
“Semplicemente non ho tempo da perdere. Ted è già arrivato?”
“No. Ha un appuntamento alla Deutsche Bank, arriverà per le 10.30”
Aveva appeso la giacca, preso posto dietro la scrivania, alzato il monitor del portatile e tirato una ditata all’accensione.
“Giusto, è vero. Digli di venire, appena arriva. Chiama Jason De Marchi e passamelo. Ora fuori dalle palle anche tu.”
“Hai fatto colazione con il fiele?”
“No, con Justin.”
“Non ti ha fatto il pompino del buongiorno, che sembri Terminator?” invece di seguire l’invito ad uscire, si era  seduta su una delle due poltroncine per gli ospiti, proprio davanti a Brian, la cartella con gli appunti sulle ginocchia.
“Non ti mettere comoda, che non ho intenzione di parlarne” con un gesto meccanico aveva preso la tazza di caffè macchiato che la sua assistente gli faceva trovare pronta, ogni mattina, a fianco del telefono. Non aveva fatto in tempo a portarlo alla bocca che gli era stata strappata di mano.
“Te lo rifaccio: decaffeinato! E se vuoi, sai che ci sono …” senza aggiungere una parola era sparita. Aveva annuito alle spalle della donna che si stava tirando la porta dietro.
Il decaffeinato non era poi così male, aveva appena ricevuto una email con una buona notizia, si era appoggiato allo schienale della poltrona inclinandolo e allungato le gambe sotto il tavolo. Aveva chiuso gli occhi, provato a sgomberare la mente e a concentrare il pensiero sul terzo occhio (chissà cosa si era fumato il primo che ci aveva pensato?) cercando di farsi cullare dal respiro. Una decina di minuti dopo stava riflettendo che forse le fottute tecniche di rilassamento che gli aveva insegnato Ben a qualcosa servivano: adesso era in grado di lavorare.
Era trascorsa un’ora e mezza produttiva, quando la voce di Cynthia dall’interfono l’aveva distolto dal documento che stava scrivendo.
“Theodor ha finito in banca, mezz’ora e ed è qui”
“Grazie, puoi venire un attimo?”
Appena entrata gli aveva porto un sacchetto.
“È passato Justin, ha lasciato questo per te. Non ha voluto assolutamente che ti avvertissi. Dice che ti serve per Washington”
L’aveva preso e messo da parte, in un cassetto. Poi avevano discusso del documento, la struttura era pronta, le idee definite, a terminarlo ci avrebbe pensato Cynthia e pure a correggere gli errori di battitura che a lui scappavano sempre.
Rimasto solo aveva aperto il sacchetto, dentro c’era una busta di plastica trasparente per indumenti con le due cravatte che era convinto di aver messo in valigia. Appoggiato sopra un biglietto con l’elegante calligrafia di Justin.
Te le sei scordate a casa. Non credo sopravvivresti con la stessa cravatta addirittura tre giorni di fila!! Mi dispiace per stamattina, non dovevo reagire così. Hai ragione a essere scazzato, non ne hai affatto a essere geloso perché ti amo. Fai buon viaggio. Mi faccio trovare a casa quando torni, giuro! Baci Jus.
Si era sfilato la cravatta che aveva al collo, l’aveva arrotolata con cura e sostituita nel sacchetto al posto di una delle due che gli aveva portato Justin. Aveva controllato il nodo allo specchio del bagno e lisciato, in una carezza, la seta di Ferragamo. Si sentiva meglio. In quel momento Ted aveva bussato alla porta.
“Arrivo. Entra”   
Era andato incontro all’amico che stava entrando con l’ultrabook incastrato sotto l’ascella, una cartellina in mano e due fogli fra i denti.
“Contabile e giocoliere. Vuoi doppio stipendio? Come cazzo hai fatto a bussare?”
“Con la fronte” 
“Tutto pronto per la riunione di budget?”
“Mi mancano due dati dal commerciale, ma quando torni sarà tutto a posto. Volevo discutere con te di alcune cose. Tu di cosa volevi parlarmi?”
In un vorticare di fogli excel, collegamenti al gestionale, conti, quadrature, previsioni e consuntivi, insomma tutte galattiche rotture di coglioni che piacevano tanto a Ted e annoiavano lui, erano arrivati a un punto. Nessuno gli aveva interrotti, Cynthia non gli aveva passato chiamate, come richiesto e il dente se l’era tolto relativamente in fretta. Ted stava raccogliendo le sue cose e lui si era già spostato mentalmente su un altro argomento, quando si era trovato sotto il naso una cartellina gialla di quelle che usava l’amministrativo, unico in azienda, con scritto nell’intestazione: Justin.
“Ho inserito i dati dell’affitto della casa nella dichiarazione dei redditi, però mi serve una firma di tuo marito. Ti puoi mettere questo documento nella ventiquattrore e quando torni da Washington lo fai firmare a Justin? Mi eviti un viaggio fino a Britin e abbiamo tempo ancora dieci giorni per mandare tutto all’agenzia dell’entrate.”
“Dammi qua” gliel’aveva strappato di mano.
“Se è un problema, lascia stare. Faccio un salto io uno di questi giorni” e aveva fatto il gesto di riprendere la cartellina, spaventato dall’espressione e dallo scatto di Brian.
“Molla sto cazzo di documento. Ci penso io. Non hai da lavorare?” l’aveva liquidato.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** MIRABILE DICTU ***


Il tonfo della lampada da tavolo scagliata contro il pavimento si era sentito per tutto il piano e anche l’imprecazione fottuto bastardo.
Si sarebbe accorto di indossare la giacca solo diverse ore dopo, chissà quando l’aveva infilata, prima di precipitarsi lungo il corridoio, verso l’ascensore che portava al garage.
Si era strappato la cravatta dal collo, un dannato cappio che gli toglieva il respiro e l’aveva lanciata per terra. Che si fottesse anche Ferragamo. Come un film dell’orrore le pupille non inquadravano la realtà, ma gli sparavano nella mente solo la dannata immagine del biglietto di Justin. Se gli dei rendono pazzi coloro che vogliono perdere, non si sarebbe perso da solo. 

Aveva guidato furente, a scatti e anche leggermente oltre i limiti di velocità, il caso non gli aveva fatto incrociare una pattuglia. Non ci poteva credere, aveva svoltato ed eccola lì, Jefferson street, a meno di sei isolati dal loft. Stava guardano nervosamente i numeri civici, per capire quale fosse la casa intestata a Justin che dal vialetto davanti a lui era sfrecciata fuori quella gran testa di cazzo di Ethan, portava il caschetto ma avrebbe riconosciuto quel viso ovunque. Per un momento l’ira gli aveva offuscato la vista e la mano destra gli faceva male per il pugno che aveva sferrato rabbioso sul cruscotto che ancora tremava.
Stronzo ipocrita! Manipolatore di merda!
Gli aveva mentito, peggio gli aveva sussurrato le parole che voleva sentire e solo per tenerlo buono, mentre costruiva una casa, una dannata altra casa con quel musicista di merda. Justin aveva un’altra casa, un altro uomo, ecco dove andava. Il cuore gli aveva fatto così male che aveva temuto un infarto.

Era rimasto qualche minuto aggrappato al volante, poi era sceso. Se fosse stata l’aria sul viso o il respiro profondo che aveva dato non avrebbe saputo dirlo, ma quando si era rivolto al marito la cui testa spuntava, bionda, dalla staccionata del giardino, la voce era uscita ferma, dal tono alto, ma dal timbro profondo: “La prima volta avevi avuto almeno le palle di ammetterlo.”
“Brian?!” aveva esclamato sorpreso, guardandolo con lo sguardo sfuggente di chi nasconde qualcosa.
“Justin” gli aveva risposto un po’ cantilenante, imitando il tono che si usa quando si incrocia un conoscente per strada e se ne pronuncia il nome in forma di saluto. 
“Entra” aveva detto Justin andando verso il cancelletto, per aprirlo.
“Non credo di voler mettere piede in casa tua. Vostra? Come devo chiamarla?”
“Hai visto Ethan” aveva considerato a voce alta.
“Già. Ho visto Ethan” aveva ripetuto duro, torturandosi il labbro.
“Immagino cosa stai pensando” aveva provato, cercandone gli occhi che gli sfuggivano. 
“Ah davvero? Lo immagini? Sei sempre stato acuto.” Era sprezzante.
Justin aveva stretto forte le palpebre e scrollato la testa, come a voler cancellare un brutto sogno.
“Non è come pensi”
Era stato freddato dalla risata affilata del marito. “Battutaccia da film di quart’ordine Justin, puoi fare di meglio.”
Aveva alzato gli occhi al cielo e sospirato forte, cercando di mantenere la calma e la razionalità. In verità gli scappava da piangere, ma Brian non avrebbe sopportato lacrime, non le sue e non adesso.
“Ho affittato questa casa -  è vero - ma non è casa mia e di certo non è casa di Ethan. Casa mia è Britin” ci aveva provato, ma non era riuscito a impedire che la voce tremasse un po’.
Brian lo guardava con aria feroce, ma distante, la lingua puntellava la guancia.
“Stronzate. Abbi rispetto almeno della mia intelligenza”
Justin si era passato la mano sulla fronte, il cuore gli martellava così forte che lo sentiva nelle tempie e nelle orecchie ovattate. Gli girava la testa. Si era appoggiato alla staccionata, solo quella li divideva.
“Entra dentro, per favore” il tono assomigliava tanto a una preghiera. 
Brian aveva allungato il collo, per sputargli in faccia una risposta velenosa a un millimetro dal volto e così facendo aveva guardato oltre lo steccato.
“Susan?!”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** SUSAN ***


Grazie a chi commenta e a chi legge. Capitolo un po' più lunghetto del solito per farmi perdonare l'attesa. 

Si era allontanato quasi avesse subito un rinculo, poi aveva inseguito gli occhi di Justin. Cercava una risposta.
“Entra” aveva ripetuto e aveva fatto scattare la serratura del cancelletto.
Aveva tentennato ancora un secondo prima di mettere un passo davanti all’altro e calpestare l’erba del prato.
Justin aveva preso in braccio la bambina, se l’era appoggiata sul fianco e con la mano libera stava aprendo la porta di casa. “Vieni” aveva detto rivolto a Brian, che passandogli a fianco aveva lasciato una carezza sulla testa di Susan che gli aveva sorriso, riconoscendolo.
“Non è come pensi, Brian. Se mi concedi un po’ di tempo provo a spiegarti, ma cerchiamo di rimanere calmi che non vorrei spaventare Susy”
L’aveva messa per terra e la bimba era trotterellata veloce verso la cesta di giochi che troneggiava in un angolo della sala, fra il tavolo da pranzo e una poltrona, rovesciandola con gusto e iniziando a razzolare nei giochi sparsi sul pavimento.
“Non è mia abitudine andare in giro a terrorizzare bambini - gli aveva risposto secco. - Hai messo su famiglia, Justin?” lo aveva provocato, accomodandosi con fare teatrale sul divano.
Justin aveva sbuffato, si era morso la nocca piegata del dito indice e aveva deciso di ribattere sullo stesso tono. “Sì, con te, parecchi anni fa”
“Falla finita con le cazzate.”  Con aria annoiata aveva scacciato via dai pantaloni un pelucco inesistente.
“Mi hai seguito!” aveva rilevato stupefatto, rincorrendo un suo pensiero, come se se ne fosse reso conto solo in quel momento.
Brian era rimasto impassibile, aveva inarcato solo le sopracciglia. “Puoi giurarci che ti ho seguito, per vedere dove e con chi cazzo andavi, dopo tutte le stronzate che mi hai servito”
“Hai continuato a pensare che io …” La frase era rimasta in sospeso.
“Ho pensato l'unica cosa che si poteva pensare davanti alla sequela di cazzate che mi rifilavi, a cadenza regolare, ogni volta che andavi via. Ma questo … - si era interrotto un attimo, poi con il braccio aveva disegnato un semicerchio ad abbracciare la casa e Justin e Susan – questo è veramente oltre ogni immaginazione”
“Capisco che le apparenze siano contro di me, ma hai pensato delle puttanate” aveva reagito Justin con un moto d’orgoglio.
Brian si era limitato a schioccare la lingua, non sembrava disposto a credere neanche a una parola, ma si era messo comodo e strafottente.
“Fai solo finta di ascoltare? Hai già deciso tutto, capito tutto? - lo aveva aggredito Justin che con un solo sguardo aveva inteso cosa passava nella mente del marito – Allora non perdiamo tempo, alzati e vattene, brutto stronzo”
“Ouh! -  aveva esclamato Brian alzandosi e trattenendosi a stento dal gridare per non spaventare Susy che, intuito che qualcosa stava succedendo, si era bloccata e li guardava – Ti trovo con Susan, in una casa dalla quale esce Ethan quando, per quel che ne so io, dovresti essere a NY e sei tu quello che si incazza?! Stai facendo sul serio? Non ti ho ancora cioccato un pugno sul tuo bel musetto, ma potrei cambiare idea. Stai attento.”
“E tiramelo sto cazzo di pugno, se ti serve, ma poi mi ascolti!”
Brian aveva scosso la testa, fatto una smorfia disgustata, si era girato e un passo dietro l’altro, stava uscendo dalla sala. Si era fermato giusto un secondo:
“No, non ti meno. Non davanti alla bambina, ma non ti permetto di raccontarmi altre balle. Mi sono costretto a berne troppe e questo è il risultato. Torno a casa nostra. Nostra, Justin, se significa ancora qualcosa per te.”
“Balle, dici? Sì, ti ho raccontato balle - si era intromesso veloce Justin fissandolo da qualche metro di distanza - riguardo a Susan e su dove fossi quando la tenevo con me, ma non ho un altro uomo, non ti ho tradito e non ti ho mai mentito quando dicevo che ti amavo, che ti amo.”
“Ma vaffanculo, Justin!” e aveva ripreso la direzione della porta, ma in un balzo Justin gli era vicino e lo stava trattenendo per la manica della giacca.
“Certo che è casa nostra, tua e mia. L’unica casa che ho è dove sei tu. Ti prego Brian, fermati un attimo, ho fatto un gran casino, ti ho mentito – hai ragione - e adesso mi rendo conto di che cazzata sia stata, ma non è come pensi, non lo è mai stato. Mi devi perdonare, ma non per quel che credi. Ho chiesto l’affido temporaneo e parziale di Susan. È questo il segreto, è per questo che mentivo sui viaggi. Ero qui con lei.” Ecco l’aveva detto.  
Aveva aperto la porta e poi richiusa violentemente, senza uscire. L’urto aveva fatto sussultare sia Justin che la bambina e fatto vacillare il quadro alla parete. Si era girato come una furia: “Ed Ethan lo hai assunto come babysitter? Con me non hai voluto neppure andare a trovarla e poi ci vivi insieme con Ethan? È SOLO questo il tuo piccolo segreto Justin? SOLO QUESTO?” non era riuscito a trattenersi oltre, aveva urlato e infatti Susan era scoppiata a piangere.
“Fantastico!” era sbottato, muovendosi veloce verso la bambina per prenderla in braccio.
“Ehi Susy, tranquilla. Non è successo niente” l’aveva stretta e le asciugava le lacrime con due dita, ma la piccina continuava a singhiozzare. “Vuoi andare da Justin?” le aveva chiesto, indicando il ragazzo che si stava avvicinando circospetto.
Aveva allungato le braccina verso il biondo, ma all’ultimo momento le aveva ritirate, rimanendo un po’ rigida fra le  braccia di Brian. Sembrava interdetta, tirava sul col naso, non piangeva più, ma il respiro era ancora accelerato. Justin le si era rivolto con voce calma “Non stiamo litigando Susan, è tutto ok. Brian non è arrabbiato” e su quest’ultima affermazione l’aveva guardato speranzoso.
Il marito aveva sorriso in modo marcato e sussurrato perché lo sentisse solo lui: ”Sono incazzato nero” Justin aveva annuito e continuato: “Vieni qui che ti pulisco il nasino e ci asciughiamo gli occhi, poi ti rimetti a giocare mentre noi parliamo un po’ tranquilli. Vero Brian?”
“Dammi il fazzoletto che ci pensiamo noi, eh Susy?” si era rivolto alla bambina strizzandole l’occhio, con delicatezza le aveva pulito il viso e soffiato il naso, le aveva depositato un bacino sulla guancia e quando gli era sembrata tranquilla l’aveva messa giù. Susan era corsa ad abbracciare le gambe di Justin e poi rapida si era diretta, poco distante, verso i suoi giochi. Justin aveva fatto cenno verso il divano e Brian lo aveva seguito. “Ti stai approfittando biecamente della bambina”
“Ci osserva anche se sembra di no. Sorridi e ascoltami” aveva ammesso il marito.
“Vigliacco” aveva ribattuto con un bel sorriso impostato sul viso e gli occhi che volevano fulminarlo. “Può essere …  - gli aveva concesso Justin, prima di continuare – Ethan, così ci togliamo subito il dente che fa più male - a quel nome Brian era diventato livido per lo sforzo di rimanere calmo, mentre Justin proseguiva - non vive qui, non è il mio amante, non c’entra nulla con Susan. Semplicemente è a Pittsburgh per qualche settimana, sono più i giorni che questa casa è vuota rispetto a quelli in cui ci stiamo Susan ed io, l’ho ospitato dal momento che detesta stare in albergo più di una notte o due. Dorme nella camera degli ospiti e praticamente non c’è mai, visto che sono gli ultimi giorni di prove prima del concerto. Se vuoi puoi salire a controllare e vedrai che nella camera dove dormo io c’è solo roba mia o della bambina, nessuna traccia di convivenza. Ognuno ha il suo bagno, verifica pure in quale si trovano il suo rasoio e il suo spazzolino. NON E’ IL MIO AMANTE – aveva scandito – è un mio amico, come sai da anni.”
“Ottimo, grandioso! Il tuo amico – fanculo a te e a lui – ha il diritto di sapere di Susan, io di essere riempito di cazzate. Non so se ti conviene continuare a parlare.”
“Cristo Brian, ho fatto una cazzata enorme, non posso dire nulla di difendibile, ma ti sto dicendo la verità”
“Verità. Fammi il piacere” era stata la sprezzante risposta.
“Brian – aveva pronunciato il nome del marito in un lamento – Brian, per favore, ascoltami, credimi. Sono io, sono Justin, ho fatto una cazzata, ma questa è la verità - aveva allungato la mano verso quella del compagno che però l’aveva ritirata, lasciando le sue dita a stringere l’aria - ti ho tradito, proprio per non tradirti, sono un coglione, ma tu non puoi non capirlo. Brian, non puoi … ti prego” 
“Fai i giochi parole?”
Justin aveva la voce rotta, a un passo dal pianto, le parole uscivano senza controllo, perché dovevano, il busto proteso verso Brian che sedeva senza dare mostra di muovere un solo muscolo. “Cazzo, cazzo, cazzo. La morte di Daphne non sono riuscito ad affrontarla subito e nemmeno quel che mi aveva chiesto. Mi è crollato tutto addosso insieme e a quel punto non ce l’ho fatta a salutarla senza accompagnare sua figlia alla sua nuova vita, questo almeno glielo dovevo, ma prima di tutto dovevo lealtà a te, a noi due e a quel che abbiamo deciso di essere. Non ti potevo coinvolgere in tutto questo, non senza pensare che ti stavo mettendo in difficoltà, che volessi indurti a cambiare idea. Non è stata la tua decisione Brian, è stata la nostra e questo io non potevo tollerare che tu lo mettessi in dubbio. Non volevo e non te lo meritavi e invece ho fatto un casino, un casino terribile. Non ho voluto tradire né te né Daphne e l’ho fatto con entrambi” le lacrime scendevano silenziose, ma i singhiozzi erano trattenuti per non turbare Susan, non riusciva a dimenticarsi che era in quella stanza, a pochi metri da loro. Si era asciugato il viso con la manica, si era alzato: “Non possiamo continuare adesso, non ce la faccio a trattenere le lacrime e non voglio scenate davanti a lei. Giuro che vengo a casa, domani quando la riporto alla casa famiglia, ma ora vai. Anzi, me la guardi un attimo?” Senza aspettare risposta si era indirizzato verso quello che Brian presumeva essere un bagno e in effetti mezzo minuto dopo era di ritorno con il viso rinfrescato dal quale aveva cercato, con un qualche successo, di cancellare le tracce del suo turbamento. Si era accucciato davanti a Susan, per parlarle alla sua altezza: “Susy, adesso salutiamo Brian, ci andiamo a lavare le mani e facciamo la pappa”
“No ho fame”
“Intanto andiamo in cucina e mi aiuti a preparare, che io invece ho fame e poi vediamo se viene appetito anche a te, ok?” Susan non sembrava tanto convinta, poi si era messa a rovistare fra le sue cose e aveva estratto una padella di plastica rossa che aveva un uovo fritto disegnato sul fondo. Fiera aveva guardato Justin: “Io cuoco quetto”
“Ottimo, quando è pronto me lo fai assaggiare?”
“Sì, peò poco”
“Poco, pochissimo” aveva risposto il ragazzo al quale era spuntato un sorriso non forzato. Si era alzato e aveva acchiappato al volo lei e la padellina. Non aveva più rivolto la sua attenzione a Brian e non aveva potuto accorgersi che li stava osservando e che un pensiero improvviso gli aveva disteso l’espressione e spianato la fronte corrucciata fino a un momento prima.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** DA TRE A QUATTRO ***


Era stato un lampo che Justin e Susan si erano trovati stretti in un abbraccio bloccante, Brian parlava piano, ma la voce vibrava di un’emozione nuova mentre raccontava al marito quel che aveva visto e cercava, adesso, di far vedere a lui: “È lei Justin, non la riconosci? È lei la bambina che già c'è e può avere noi. Ha già te e adesso ha anche me. Basta cazzate, basta cazzate tue e anche mie. Prendi Susan e adiamocene a casa. A casa nostra, quella vera.”
Justin non aveva neppure fatto cenno di provare a girarsi, gli era solo uscita una domanda, dritta dal cuore: "Cosa stai dicendo? Sei impazzito?"
"Sto solo prendendo atto della realtà. Susan è tua figlia, la stai difendendo anche dal tuo dolore come io farei con Gus, come farò con lei quando servirà e se è tua figlia non può che essere anche la mia. Sei un coglione, hai fatto un casino da non credere, ma ti amo e vi voglio tutti e due. Andiamocene a casa" aveva ripetuto infine, baciando i capelli di Justin. Al che il ragazzo aveva messo giù la bambina dal momento che aveva iniziato leggermente a tremare e temeva di farla cadere, si era voltato verso il marito e aveva ripetuto incredulo: “Figlia?”
“Sì Jus, figlia.”
“Ma noi … “
Brian aveva annuito, sapeva perfettamente cosa stava pensando: “Avevamo stabilito di non avere figli, ma la vita ha scelto diversamente, non è la prima volta, del resto. Io non voglio rovinare l’esistenza a me, a te e a lei, per mantenere fede a una decisione che non ci appartiene più. Tu?”   
“Non so cosa dire”
“Non dire niente, mollami Susan e vai fare una borsa con le sue cose che ce ne andiamo. Questa casa mi sta profondamente sul cazzo”
Justin sembrava in tranche, aveva fatto qualche passo verso la camera da letto di Susan, ma si era bloccato dopo qualche metro e girandosi aveva avuto modo di vedere quel gigante di suo marito seduto a gambe incrociate che cercava di capire come tenere in mano una bambolina dalle lunghe trecce rosse senza mostrare un ghigno vagamente disgustato. In realtà sembrava che la parte più divertente per Susy fosse proprio l’espressione di Brian. Era tornato indietro, aveva posato una mano sul capo della piccina.
“Che c’è Jus?”
“Forse è meglio se io e lei rimaniamo qui, ancora questo giro. Ha tutte le sue cose, domani sera la riporto all’istituto e poi noi parliamo di tutto. Temo che questa sia una pazzia.”
Si era puntellato con un braccio sul pavimento e si era tirato in piedi, aveva preso delicatamente Justin per mano e l’aveva fatto allontanare di qualche passo, verso la finestra. Gli aveva incorniciato il viso con i palmi e lasciato un piccolo bacio sulle labbra.
“Improvviso, imprevisto Jus, ma non folle”
“Un’ora fa sei arrivato furioso, volevi spaccarmi la faccia, hai pensato che ti stessi tradendo, con premeditazione, da settimane, forse mesi, hai scoperto di Susan, che in fondo ti mentivo sul serio, e adesso vuoi tornare a casa con me, con lei.” Aveva scosso la testa, la faccenda non stava in piedi. “Appena ti sarai ripreso dallo shock vorrai di nuovo -  giustamente - prendermi a schiaffi. Queste sono emozioni Brian, non sono decisioni e Susan non si merita altri scombussolamenti.”
“Certo non te la cavi senza spiegazioni e qualche bel vaffanculo, stai pur tranquillo, ma non c’entra niente con il fatto che Britin sia casa tua, che sei la mia famiglia, che ti amo e che Susan viene con noi. Non è una pazzia, Justin, è quel che vuoi tu e voglio anche io e che voleva Daphne. Non ti sei fidato granché di me, in questi ultimi tempi, è l’ora che ricominci. Fidati Justin e vai a fare sta dannata borsa” Lo aveva indotto a girarsi e gli aveva dato una pacca di incoraggiamento sul sedere “Vai … “ 
Due passi avanti, poi uno scatto improvviso e un abbraccio irruento. Brian aveva appena fatto in tempo ad allargare le braccia. “Ti amo anche io” gli stava dicendo il marito, incuneando il viso nel suo petto. “Lo so, è per quello che hai ancora tutti i connotati a posto - e l’aveva stretto un po’ più forte - però adesso datti una mossa, che la detesto sul serio sta casa.”
“Capisco. Faccio veloce” era ritornato due minuti dopo con in mano una borsa di tela rosa, vuota.
“Beh?”
“Mettete qua un po’ di giochi che a Britin siamo sprovvisti. Io ho quasi finito” Brian aveva acchiappato al volo la borsa che Justin aveva tirato dal limitare della sala per rientrare in camera a finire di fare il piccolo bagaglio. Al ragazzo si era chiusa la bocca dello stomaco nel sentire il marito chiedere a Susan: “Che giochi ci portiamo a casa?”
Era uscito dalla stanza qualche minuto dopo, con una borsa da viaggio a tracolla e un pupazzetto in mano. “Infilo la giacchetta a Susan, tu intanto vai che noi ti raggiungiamo” aveva detto rivolto al marito. Brian aveva sollevato le sopracciglia molto perplesso. “Il seggiolino Brian. Il seggiolino è montato sulla mia macchina, sulla nostra non c’è.”
“Tua macchina?”
“Ma sì, ne ho affittato una per questi giorni: la Fiesta qui fuori”
“Quel catorcio? Sei proprio un taccagno – non si era riuscito a esimere dal prenderlo in giro – non c’è dubbio. Spostiamo il seggiolino e lascia qui l’auto.”
“Mica dovevamo fare un viaggio – aveva borbottato Justin – e il seggiolino è in dotazione alla vettura, devo riportare entrambi all’autonoleggio.”
“Poi mandiamo Tom indietro con seggiolino e a riconsegnare l’auto. Dammi le chiavi che faccio lo spostamento”
“Ma perché dobbiamo rompere le palle a mezzo mondo, ti seguiamo”
“Perché vorrei che a casa - la prima volta -  ci arrivassimo insieme” era stata la serena, decisa, definitiva risposta di Brian alla quale Justin aveva sorriso e replicato estraendo le chiavi dalla tasca dei jeans per lanciargliele con delicatezza.  
Prima di esclamare: “Caz… “poi si era censurato per non farsi sentire dalla bambina.
“Che c’è adesso?” aveva chiesto Brian quasi sulla porta dell’ingresso.
“Niente, mi stavo scordando il biberon e sarebbe stato un bel pasticcio.”
E’ proprio piccola ancora, aveva considerato Brian con tenerezza uscendo e facendo scattare l’apertura centralizzata della Fiesta.
Era squillato il cellulare di Brian, quattro volte almeno nelle ultime due ore, ma preso dalla concitazione di quei momenti non l’aveva neppure sentito, solo adesso mentre Justin stava fissando le cinghie di sicurezza intorno a Susan finalmente si era accorto del trillo e della vibrazione nella tasca. “Capo – era Cynthia  - pensi di farti rivedere oggi? Ted millanta, ma è preoccupato, io non so se devo disdire gli impegni del pomeriggio. Tutto bene?”
In effetti qualche ora prima era uscito come una furia senza neppure salutare e dare indicazioni alla sua assistente e Ted probabilmente non si era bevuto il suo tentativo di sembrare normale quando era spuntata fuori la “casa di Justin”.
“Ciao Cynthia, si tutto bene, però oggi non rientro sicuramente, sposta tutto alla settimana prossima. Avverti anche a Washington che non riesco ad andare e annulla il volo. Guarda la mia agenda e riprogramma l’incontro. Ti faccio sapere più tardi se domani sarò in ufficio. Dì a Ted che lo chiamo”
“Problemi?” aveva chiesto Justin, girando intorno all’auto per sedersi al posto del passeggero.
Brian aveva scosso la testa. “Sono uscito senza dire se sarei tornato …”
Il ragazzo aveva stretto le labbra in un sorriso tirato, quella mattina non doveva essere stato bello avere a che fare con Brian in ufficio, era certamente arrivato alla Kinnetic incazzato nero, avevano litigato duramente a colazione e solo qualche ora dopo se l’era visto sbucare davanti furibondo.
“Non ho mica capito come hai fatto a trovare questa casa …” aveva lanciato una mezza frase, un po’ timoroso.
“Forse quando trami alla mie spalle non dovresti farti compilare la dichiarazione dei redditi da Theodor.”
A Justin non era sfuggito l’utilizzo del verbo tramare, Brian con le parole ci lavorava, non le usava mai a vanvera. La sofferenza del marito, quella che aveva patito negli ultimi tempi, gli era saltata agli occhi inequivocabile, si era mosso con un certo imbarazzo sul sedile, il viso era stato attraversato da una vampata di vergogna ed erano rimasti in silenzio per un po’. Justin si girava qualche volta a controllare Susan, Brian sembrava concentrato sulla guida e ogni tanto lanciava un’occhiata alla bambina dallo specchietto retrovisore, vedendola parlottare fra sé e sé e guardare fuori con la manina appoggiata al vetro. Neppure dieci minuti e il finestrino della sua - sempre lindissima - auto era tutto un’impronta umidiccia e un tantino appiccicosa di palmo microscopico. Le ultime tracce di quel tipo le aveva lasciate Gus, qualche macchina fa, almeno una decina di anni prima. Non gli avevano dato fastidio allora, non gliene davano adesso. Approfittando di un semaforo rosso si era voltato e le aveva fatto la linguaccia, poi si era rivolto al marito.
“A che ora pranza di solito?”
“Alle 12.30 e quando è con me cerco di mantenere gli stessi ritmi” si sentiva a disagio nel rispondere, non riusciva a credere di aver tenuto Brian al di fuori di un pezzo così importante della sua vita.  “Arrivare a Britin rischiamo di fare tardi, che ne dici se ci fermiamo a Station Square, mangiamo qualcosa e compriamo un seggiolino per auto, per il resto ci penseremo, ma questo ci serve visto che quello su cui è seduta dobbiamo riconsegnarlo.”
Justin si era grattato la fronte, era travolto da Brian, dagli eventi e dalle emozioni. Gli sembrava irreale quel che stava avvenendo, era contento, ma incredulo e temeva che non potesse andare finire così in modo naturale come la stava facendo sembrare Brian.
“L’hanno già accoppiata a una famiglia, Brian. Non illudiamoci e non corriamo troppo” la voce era uscita incerta.
“Lo so, almeno questo me l’avevi detto. È ancora in casa famiglia, non c’è niente di formalizzato, noi eravamo la scelta della madre e Gregor Sander mi deve un favore. Un grosso favore”
“Gesù Brian, non metterti nei guai”
L’aveva scrutato con una certa apprensione, ma il marito si era limitato a scrollare le spalle.
“Oggi Gus ha lezione anche pomeriggio, vero?”
“Sì, il lunedì mangia in mensa e poi ha allenamento”
“Meglio” e aveva richiamato il numero del figlio sul sistema telefonico dell’automobile, al segnale della segreteria, l’apparecchio era giustamente spento, aveva lasciato un messaggio.
Sono papà. Puoi tornare a casa veloce dopo l’allenamento? Tutto ok, non ti preoccupare, ma vorrei che arrivassi presto stasera.
Aveva chiuso la comunicazione con il comando al volante.
“Dobbiamo parlare anche a lui” era stato il commento a beneficio di Justin.
“Non c’è dubbio. Si chiederà cosa ci faccia Susan a casa. Cosa pensi di dirgli di preciso?”
“Penso? Dirgli? Justin ricomincia a sintonizzarti eh! Cosa gli diciamo noi, potrebbe essere la domanda giusta. Per altro che ne pensi della verità?”
“Vuoi far sapere anche a lui quanto sono stronzo …”
Aveva accostato appena aveva potuto, qualche mezzo minuto dopo. Si era voltato verso il marito e gli aveva girato il viso con una certa rudezza. “Tu ti sei fumato il cervello. Il puttanaio che hai fatto sono cazzi nostri (Justin l’aveva fulminato alla parola cazzo, ma lui se ne era infischiato. Susan un po’ di turpiloquio l’avrebbe imparato, inutile illudersi) e ce la vedremo noi due, te la vedrai con me, certo non con Gus.” Justin aveva sospirato e chiuso gli occhi. “Giusto” e aveva scostato la mano di Brian dal suo viso. “Quindi cosa gli diciamo?”
“Che siamo stati indecisi, ma che abbiamo capito che vogliamo tenerla con noi, perché è la figlia di Daphne, perché le vogliamo bene, perché non riusciamo a immaginare di non sapere più niente di lei, perché un bambino nostro è quello che abbiamo desiderato da anni e il destino ci ha mandato Susan”
“Vuoi dirgli sul serio così?” I pensieri di Brian! Sentirglielo dire in questo modo: calmo, pronto a ripeterlo a suo figlio gli aveva trasmesso un calore improvviso in tutto il corpo, un vago senso di ebrezza.
“Non è la verità, Jus?”
“Beh sì …” aveva concesso aprendosi finalmente a un sorriso.
“Bene, deciso” aveva concluso Brian mollandogli un bacio a stampo, ingranando la marcia e mettendo la freccia per reimmettersi sulla corsia.  
“Se a Gus non sta bene?” aveva chiesto Justin, riemergendo dai suoi pensieri, mentre l’auto stava imboccando la rampa del parcheggio sotterraneo del centro commerciale.
“Non è mica che gli chiediamo il permesso. Gli spieghiamo cosa sta succedendo.” Limpido e cristallino, deciso come la presa con la quale stava tenendo il volante a Justin era parso bello abbandonarsi, dopo tanto tempo, alla sicurezza che Brian riusciva a infondergli. Sì, sarebbe andato tutto bene.  Gli aveva stretto leggero le dita sulla coscia e regalato un sorriso degno del suo soprannome. A Susan era caduto il giochino di mano e stava cercando, inutilmente, di gettarsi a capo fitto sul pavimento dell’auto per recuperarlo. Infastidita dalle bretelle di contenzione si stava mettendo a piangere. Si era chinato e l’aveva raccolto per porgerglielo “Tieni e non piangere. Fra tre secondi siamo arrivati e sgambetti un po’”
“A dire grazie non glielo insegniamo?” era stato l’intervento di Brian, mentre spegneva il motore.
Povera Susan, aveva pensato Justin ridacchiando, parolacce a parte, su alcuni aspetti Brian era un vero scassa palle.
“Come si dice Susy?” le aveva chiesto, più per andare dietro al marito che altro.
“Acce” aveva risposto la bambina mentre già stava giocando.

Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** DI LETTINI E ALTRE FACCENDE ***


“Per essere una che non aveva fame, mangia come un grande” aveva commentato Brian vedendo la piccolina portarsi alla bocca, con una forchetta più grande di lei, l’ennesimo bocconcino d’arrosto e nel mentre afferrare con l’altra manina un pezzetto di patata.
Justin aveva sorriso “È una buona forchetta, mangia di tutto e non vuole essere aiutata, non ti azzardare che si arrabbia!”
Poco prima avevano comprato il seggiolino per l’auto alla velocità della luce, con Brian in questi frangenti non è che ci si perdesse molto in chiacchiere.
“Qual è il migliore?” Aveva chiesto al commesso, mentre Justin vagava, con Susan per mano, nell’enorme spazio espositivo stracolmo di seggiolini, passeggini, tris, sdraiette, lettini e oggetti dall’utilità ignota.
Il consulente alla vendita, che a detta del cartellino si chiamava Steve, aveva mostrato, senza esitazione il modello di punta della Baby Confort. “Ottimo, lo prendiamo. Se le lascio le chiavi riesce anche mandare qualcuno a montarmelo in auto, mentre noi pranziamo?”
“Certo Signore.”
“Bene, è una Mercedes GLE nera, posto G22 secondo piano del garage custodito. Faccia lasciare le chiavi al gabbiotto delle casse, grazie.” Aveva pagato e riconosciuto una buona mancia a Steve del quale aveva apprezzato l’acume di aver colto subito che lui era un cliente che non voleva chiacchiere, poi aveva cercato con lo sguardo gli altri due e ci aveva messo un po’ a indentificarli dal momento che si erano spostati nella zona di esposizione dei giochi da esterno e stavano provando con un certo piacere, a giudicare dai gridolini di Susan, un’altalena.   
“Questa in macchina non ci sta” aveva commentato arrivando.
“Allora? Hai trovato qualcosa che vada bene? Devo venire a vedere anche io?”
“Comprato. In questo momento ce lo stanno montando. Andiamo a mangiare che si fa tardi”
“Oh Kinney in versione decisionista. Riposante. Un po’ fastidioso a volte, ma mediamente riposante e sexy.”
Come previsto Susan si era addormentata di schianto cinque minuto dopo essere usciti dal centro commerciale. “Il nuovo seggiolino dev’essere di suo gradimento” aveva commentato Justin appoggiando la testa alla spalla del marito che guidava. “Ho un po’ paura” aveva confessato.
“Perché? Di notte non dorme?” aveva scherzato Brian.
Gli aveva tirato una piccola testata “Dai smettila di fare lo scemo, sto parlando sul serio”
Aveva staccato la mano dal volante e affondata nei capelli biondi che dopo tante settimane gli sembrava di nuovo veramente suoi sotto le dita. “Lo so che non scherzi.” aveva detto poi, serio.
“Tu no? Niente? Mi pare da incoscienti e tu non lo sei”
“Sinceramente no, non ho paura e credo non dovresti averne neppure tu. Mi sento stranito e un po’ ubriaco d’emozione, questo sì, ma sono contento. – Aveva alzato le spalle e fatto un sorriso vagamente imbarazzato – Stamattina ero incazzato nero e quando Ted mi ha detto della casa, quando ho visto uscire quel cazzone di Ethan da lì, beh non puoi capire …, porca puttana Justin!”
Gli era scappato un gemito: “Oh Brian, scusami. Scusami” il respiro si era fatto pesante e faticoso. Come cazzo aveva potuto farlo soffrire in questo modo? Come?
Ma Brian aveva continuato con parole che gli avevano fatto tornare l’aria nei polmoni.
“… e adesso, siamo qui. Ho di nuovo te e anche lei e stiamo andando a casa. No, non ho paura, ne ho avuto prima, non adesso.”
“Non mi avevi perso, non mi hai mai perso Brian”
“Oh sì, invece. Quando tuo marito fa quello che hai fatto tu, lo stai decisamente perdendo e non perché scopa altri, quello l’abbiamo fatto per anni – aveva scosso di nuovo le spalle e la testa – ma perché non si fida, non pensa più che tu possa capire e ci sia per lui.”
“Gesù Cristo, che casino che ho fatto” aveva stretto gli occhi, fino a quel momento non si era veramente reso conto del danno che aveva inflitto al suo matrimonio. “Ti amo Brian. Ci credi ancora, vero?”
“Sì, ci credo, ma non so dove cazzo sei andato a finire a un certo punto e non so perché. Qualcosa devo aver toppato e pure alla grande, ma non capire cosa, ecco e questo sì, mi fa un po’ paura.”
“Non hai sbagliato un cazzo tu. Ho fatto tutto da solo, è esclusivamente colpa mia e non ti chiederò mai scusa abbastanza”
“Sinceramente Jus, delle tue scuse non me ne faccio un cazzo. Vorrei capire come diavolo siamo finiti con te che vivi una vita parallela”
Justin l’aveva fissato, scrutando il profilo del marito che era tornato a guardare la strada. “Sincero per sincero, non ne ho la più pallida idea. Probabilmente ero impazzito, ma quando l’ho partorita, sta minchia di idea mi pareva pure buona. Adesso mi darei fuoco.”
“Qualcosa è successo a tutti e due, è evidente, ma ne parliamo in un altro momento, Jus? Che ne dici? Godiamoci il fatto che stiamo andando a casa insieme e …”
“… e più tardi arriva anche Gus - aveva concluso per lui la frase e per una volta a Brian non aveva dato fastidio. - Sì, ne parliamo dopo. Ora vorrei solo riempirti di baci, sai?”
“Mi pare un buon proposito per iniziare a espiare i tuoi peccati Taylor”
Susan non si era svegliata neppure quando presa in braccio da Justin, una volta arrivati.
“Vedo che non ha perso le buone abitudini” era stato il commento di Brian mentre apriva la porta di casa.
“Di solito dorme come un sasso, anche la notte” era stata la confortante conferma del marito. Naty, avvertita del loro arrivo, aveva preparato la camera vicina a quella matrimoniale e li osservava stupefatta entrare in casa con la piccolina. Aveva la faccia a punto interrogativo, ma la presenza di Brian la scoraggiava dal fare domande. Si sarebbe scatenata con Justin, non appena l’avesse beccato da solo.
“Jus sto letto mi sembra alto, se cade? Il lettino che ha usato quando è stata qui l’ultima volta con Daphne dov’è finito?”
“Era uno da campeggio, me l’ero fatto prestare da Michael. Non credevo ci sarebbe servito oggi, sai com’è …” si era aperto in un sorriso pieno d’amore, che Brian non fraintendesse le sue parole.
“Potevamo pensarci quando abbiamo comprato il seggiolino. Che minchioni!”
“Tanto mica te lo vendono montato, adesso non ci avrebbe risolto nulla. Fai così, vai a prendere i cuscini del divano grande che li mettiamo per terra, se cade atterra sul morbido.”
Le braccia cariche dei grandi cuscini della seduta e un’espressione soddisfatta, si era messo a sistemarli a fianco al letto sul quale beata e ignara del trambusto Susan stava dormendo.
“Mic ci porta il lettino fra poco, così per stanotte dormiamo tranquilli”
“Urca – aveva esclamato a bassa voce Justin uscendo dalla camera e accostando appena la porta – gli sarà sembrata una richiesta ben strana? Cosa gli hai detto?”
“Che era diventato di nuovo zio e mi serviva il lettino per qualche giorno. Per inciso, menomale che Novotny – Bruckner conservano tutto, compreso un lettino anche se JR ha 12 anni ormai.”
“E lui?”
“Che cazzo stai combinando Brian?”
“Gli verrà un colpo!”
“Mi vado a fare un caffè, tu ne vuoi?”
“No, per carità, sono carico come una sveglia -  era stata la replica di Justin -  Mi butto sul letto, vorrei rimanere nelle vicinanze che quando si sveglia sarà disorientata.”
“Bisognerà comprare anche quelle radioline del cazzo, aggiungo alla lista.”
“Stai facendo una lista?”
“Certo! Se aspettiamo la tua organizzazione finiamo di comprare l’occorrente per una infante quando va al college”
Justin se l’era abbracciato stretto “Sei sempre il migliore. Come ho potuto dimenticarmi di te, proprio non so, però Brian non corriamo troppo, ti prego. Rischiamo di rimanere delusi, tanto.”
“Ehi! Domani sera sarà l’ultima volta che la riportiamo là, quando tornerà a Britin sarà per rimanerci. Non fare il melodrammatico o il porta sfiga. Faremo le pressioni che occorrono, se occorreranno.”
“Brian abbiamo firmato una dannata rinuncia!” era chiaro il panico in Justin, il terrore di aver compiuto un atto irrimediabile e di aver coinvolto Brian in una delusione dolorosissima di lì a poco.
“E adesso abbiamo cambiato idea! Ora la pianti, ti butti a letto e ti rilassi, ti raggiungo fra poco, che mi devo rilassare anche io. Sei impegnativo Sig. Taylor”

Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** PRESENTAZIONI ***


Capitolo breve, ma spero gradito. A presto. 

Susan aveva rispettato le abitudini e aveva dormito quasi tre ore, aveva concesso requie ai loro cuori esausti, si erano appisolati con il viso sullo stesso guanciale, mentre parlavano.  
Justin si era svegliato per primo, richiamato da chissà quale istinto era andato a controllare mettendo piede nella stanza nell’istante nel quale la bambina stava aprendo gli occhi e vagava un po’ disorientata con lo sguardo. Aveva allungato le braccia verso di lei, che si era messa in piedi barcollando pericolosamente su quel letto da grandi senza sponde. L’aveva presa al volo e si era lasciato cadere sul materasso. “Ben svegliata piccolina – le aveva detto, scostandole i capelli da viso – siamo a Britin, casa mia e di Brian, te la ricordi?”
Susan aveva allungato il collo, tirato una manata a palmo aperto sul naso di Justin per darsi la spinta necessaria a mettersi seduta, si era guardata intorno e non pareva convinta.
“Scendiamo a vedere se il giardino te lo ricordi? Facciamo merenda?”
Sull’ipotesi merenda le si era allargato sul viso un sorriso pieno di aspettativa, si era girata, messa a pancia in giù ed era scivolata dal letto, con una certa agilità, quindi lo aveva guardato come dire: “Andiamo?”
La discesa delle scale che dal piano notte portava al terreno era stata piuttosto impegnativa e aveva richiesto più di qualche minuto, Susan non aveva voluto sapere di scendere in braccio a Justin e aveva voluto affrontare l’impresa da sola accettando, di mala voglia, solo l’imposizione di dare la mano al ragazzo.
Cercando di essere silenziosi erano arrivati in cucina. Durante il pomeriggio faceva ancora abbastanza caldo e la grande vetrata aveva le finestre spalancate sul prato all’inglese, la tenda da sole era abbassata a metà e offriva una debole ombra, un po’ in lontananza si vedeva la piscina.
“Acqua, nuotale!” aveva esclamato lanciandosi in giardino, inseguita a passo svelto da Justin.
Sì, la piscina se la ricordava. Mentre si domandava se fosse ancora sufficientemente caldo per farle fare il bagno, aveva dovuto fare uno scatto e acchiapparla per il retro della maglietta un momento prima che fugasse ogni dubbio tuffandosi vestita.
“Sei matta?” l’aveva sgridata, spaventato. “Non ti devi mai, dico mai, avvicinare da sola alla piscina. Mai, Susan hai capito? È pericoloso. Adesso vediamo se è il caso di fare il bagno, ma dobbiamo esserci sempre Brian o io, o un grande, capito?” L’aveva fissata e si era accucciato alla sua altezza: “Hai capito?” le aveva ripetuto fino a quando la bimba non aveva annuito, anche se non troppo convinta. Poi aveva allungato una mano per testare la temperatura dell’acqua, era tiepida. Si poteva fare.  “Ok, piccola, rimandiamo la merenda e facciamo il bagno veloce, prima che il sole non scaldi più abbastanza e fuori faccia freschino.” L’aveva presa in braccio, fra le proteste della bambina, ma non avevano mezz’ora di prezioso sole da perdere per raggiungere la cabina e recuperare il suo costume. Brian era sceso da basso mentre la stava spogliando, lei poteva fare il bagno nuda, nessun assistente sociale avrebbe trovato nulla da ridire, mentre era stato quel pensiero che l’aveva indotto a indossare il suo.  
“Ti sei svegliato”
“Per forza avete fatto un casino mondiale. Mi sa che ce n’è toccata una silenziosa come Gus”
“Ti metti il costume?”
“Vi guardo” si era seduto sulla sdraio vicino a quella sulla quale Justin stava sistemando il vestiti tolti a Susan, poi era sceso dalla parte digradante della piscina con la bambina in braccio.
“Dobbiamo comprare i braccioli” aveva detto all’indirizzo del marito che, estratto il cellulare, stava scattando una foto a tradimento. 
“Susan, guarda Brian” l’aveva invitata Justin.
Gliel’aveva passata e Brian l’aveva avvolta in un morbido telo di spugna, la frizionava delicatamente, provocandole un leggero solletico e le risate facevano da colonna sonora alle bracciate di Justin che si faceva qualche vasca, dopo aver giocato con la bambina.
Il musetto caramello e i ricciolini neri risaltavano dal telo bianco ed era con questo piccolo bozzolo bianco e nero in braccio che era andato ad aprire la porta, dicendo a Naty che ci pensava lui. Immaginava fosse Michael e tanto valeva comunicare subito la novità.
“È Susan quella che hai in braccio? Il lettino è per lei?”
“E’ lei, serve a lei. Sei di nuovo zio. Chiudi la bocca, che ingoi una mosca e vieni con me, la devo vestire”
Seguito da un Michael sconcertato era salito al piano di sopra, aveva appoggiato la bimba sul letto matrimoniale e lei ne aveva approfittato subito per liberarsi dell’asciugamano e cercare di scendere. “Ferma lì, signorina!”. Aveva ordinatamente tirato fuori dalla sacca preparata da Justin un telo impermeabile, un pannolino pulito e una pasta protettiva. “Vediamo un po’ se mi ricordo come si fa” l’aveva acchiappata per un piedino e trascinata dolcemente verso il centro del letto.
“Brian, ma che cazzo sta succedendo?”
“Non dire cazzo, che Justin censura -  aveva scherzato, finendo di fissare il pannolino e mettendo in piedi la bimba - mi prendi una maglietta e un pantaloncino? Dovrebbero essere nella tasca laterale”
Quando erano scesi, Justin stava uscendo dall’acqua e Naty aveva preparato la merenda. La donna non aveva affatto chiaro cosa stesse succedendo, ma era evidente qualcosa di grosso bolliva in pentola. Brian a casa in un giorno feriale, la mattina era uscito piuttosto arrabbiato, era rientrato insieme al marito con la figlia di Daphne e Michael era arrivato portando con sé un lettino da campo per bambini.
A torso nudo, con solo i bermuda addosso e asciugandosi i capelli, Justin li aveva raggiunti in cucina. 
Michael faceva passare lo sguardo da uno all’altro, senza dire una parola. Gli sembrava di essere finito in una puntata di “ai confini della realtà”.
“Salgo con Mickey a montare il lettino”
“Buona idea - aveva convenuto Justin. Michael aveva diritto a una spiegazione e Naty, pure – ci penso io alla merenda di Susy”
Era stato Justin ad accompagnare Michael alla porta, quando aveva salutato per andare ad aprire il negozio. Gli aveva tirato una pacca sulla spalla “Andrà tutto bene, avete fatto la scelta giusta”
Susan aveva giocato due orette in giardino, sparpagliando qua e là i giochi che Brian aveva messo nel borsone. Era rimasto Justin con lei, mentre Brian si era ritirato in studio a fare qualche telefonata di lavoro. In casa c’era un’atmosfera strana, non erano sicuri di dove stare, di cosa fare, di quale fosse il loro ruolo nella nuova commedia. In compenso Susan sembrava tranquilla. Era così che li aveva trovati Gus, rientrato presto come da indicazioni paterne.

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** SIEDITI, GUS ... ***


“Ehi pa’ sono arrivato, che succede?” Era entrato nello studio senza bussare, buttando la testa dentro per vedere se fosse lì. Brian aveva sollevato il viso dal monitor e si era alzato andandogli incontro. “Ciao Gus, abbiamo ospiti, anche se detta così non è troppo esatta.”
Alla faccia stupita del figlio si era limitato ad aggiungere: “Siediti, chiamo Justin. Ti dobbiamo parlare” e senza dargli tempo di replicare era uscito, lasciandogli un buffetto sulla nuca.
Gus si era seduto sulla poltrona, senza appoggiarsi allo schienale, in punta sul cuscino, in stato d’allerta. Il buffetto era stato affettuoso, ma la convocazione strana e di solito ti dobbiamo parlare, non preludeva nulla di buono, d’altra parte però cazzate grosse non gli sembrava di averne fatte. 
Justin era entrato tormentandosi una ciocca di capelli che arrotolava con forza su un dito, suo padre era dietro e lo spingeva delicatamente con una mano sulla schiena. Ma che cavolo avevano sti due stasera? Brian aveva iniziato a parlare prima ancora di sedersi, Justin invece sembrava essersi lasciato cadere, sembrava stanco.
“Di là in giardino, con Naty, c’è Susan, stanotte dorme qui”
“Susy? La nostra Susy? Ce la fanno salutare? E io che avevo capito che non potessimo neppure incontrarla”
A quelle parole Justin si era mosso nervosamente, come se il cuscino del divano si fosse improvvisamente surriscaldato sotto il suo culo, si era alzato e poi riseduto, rincuorato dallo sguardo del marito.
“Non solo ce la fanno salutare Gus, rimarrà con noi. Ci abbiamo pensato parecchio, siamo anche andati un po’ in crisi – è sempre meglio dire la verità pensava Brian, soprattutto quando si decide si ometterne una parte – ma Justin ed io abbiamo deciso di adottarla. Non ti abbiamo detto nulla, perché non eravamo sicuri che fosse la scelta giusta per Susan, ma Daphne, nel testamento, ci aveva indicato come scelta per la sua bambina e dopo un percorso non facile siamo arrivati alla conclusione che avesse ragione. Tu sei mio figlio, tu e Justin vi amate, però l’abbiamo sempre desiderato un bambino nostro, di tutti e due, eppure pareva che la vita avesse deciso diversamente. Dalla tragedia di Daphne è rimasta Susan ci abbiamo messo un pochino, prima di avere il coraggio di capire che è lei la figlia che il destino aveva in serbo per noi. Io credo che tu possa comprenderlo e accettarlo e ti chiedo scusa se questa decisione ti piomba addosso all’improvviso e ineluttabile, è il dannato modo del cazzo che ha il tuo vecchio di fare le cose. Ce la fai Gus, a graziarmi anche a questo giro?”
“Gus, tesoro, quello che dice papà è vero e giusto: noi la vogliamo, ma ci siamo decisi un po’ tardi, a Susan avevano trovato un’altra famiglia, una coppia etero, giovane, perfetta. Non è sicuro che ce la lascino, non è sicuro niente, tranne che ho fatto un cas …”
Gus aveva aperto la bocca, stupefatto e un tantino sconcertato dall’atteggiamento così diverso fra suo padre e Justin, quest’ultimo sembrava sull’orlo delle lacrime, papà invece era serio, ma sereno.
Brian aveva interrotto il marito e bloccato il figlio prima che proferisse verbo.
“Burocrazia, soldi da regalare ad avvocati e la menata di doverla ancora riportare in casa famiglia domani sera, ma è solo questione di tempo, Jus è pessimista per scaramanzia” Aveva stretto la spalla del marito per confortarlo e spingerlo a non parlare oltre, era fermamente convinto che quel che era successo fra loro non riguardasse Gus, che non lo dovesse riguardare e che Justin non dovesse in alcun modo sentirsi in difficoltà con il ragazzo.
Justin era riuscito a rimangiarsi la parola casino, appena in tempo, doveva fidarsi di Brian, voleva fidarsi di Brian. Aveva guardato prima il compagno e poi Gus, annuendo.
Gus aveva chiuso la bocca, si era finalmente appoggiato allo schienale e aveva lasciato cadere di slancio le braccia lungo i fianchi, i polsi avevano toccato i braccioli e il piccolo tonfo aveva fatto eco a un “WOW” convinto. “Certo che con voi non ci si annoia mai! Stamattina sono uscito che eravamo in tre, torno alla sera e siamo in quattro. Stra-wow! Strani siete strani, ma mi pare una bella figata, bravi ragazzi. Ma dove l’avete messa la puffetta? E’ una vita che non la vedo …” con un colpo di reni era balzato in piedi e si era diretto alla porta “mi vado a ripresentare come fratello, che porti rispetto all’anzianità da subito” aveva scherzato, sulla soglia si era fermato, aveva squadrato i due uomini che non avevano ancora metabolizzato la reazione, aveva cercato sfacciato gli occhi del padre “ e pa’ -  sia chiaro -  io posso pure fare il baby sitter quando vuoi due deciderete di fare gli sposini, ma vedete di avvertire con anticipo, che ho una vita io!”
Aveva schivato per un pelo il libro che suo padre, ridendo, gli aveva scagliato contro ed era sparito alla vista. Justin ripeteva incredulo “Strano, ma figo. Voi Kinney non siete normali, andrebbe studiato il vostro DNA. Pazzi uguali”
Brian aveva appoggiato la fronte su quella del marito, due dita a sfiorargli la guancia e a scendere fino al collo “ma a quanto pare a volte te lo dimentichi …” poi si era alzato dal divano per andare a spiare l’incontro tra fratello e sorella.
Adesso che Justin non doveva più inventare stronzate, riuscivano ad andarla a prendere tutte le settimane: dal venerdì al lunedì stava a Britin. Il più insofferente nel riportala alla casa famiglia era Brian, che mordeva il freno e avrebbe pagato oro per sveltire quel che lui chiamava la fottuta burocrazia. L’intervento irrituale, ma non illecito, di Gregor Sander, il procuratore distrettuale aveva bloccato il processo di adozione verso la coppia del Nebrasca e al momento era Justin che continuava a godeva dell’affidamento temporaneo alcuni giorni alla settimana. L’avvocato Patterson stava lavorando per fare in modo che la bambina fosse affidata a entrambi senza obbligo di rientro in struttura, mentre l’iter di adozione, per quanto fosse fastidioso, richiedeva più tempo.  In poche settimane la casa si era trasformata, per quanto enorme era diventata improvvisamente molto più piccola, invasa da giochi, attrezzature, passeggini e ammennicoli vari. Ne avevano scoperto insidie inaspettate, che richiedevano modifiche anche di un certo rilievo e nella loro attesa, li impegnavano in una attività di controllo continua e anche un po’ ossessiva. “Eravamo così rompicoglioni anche con Gus o ci siamo rintronati con gli anni?” si era trovato a domandare Brian, mentre osservava Justin camminare a un metro di distanza dalla bambina che scorrazzava per il prato, raccogliendo foglie, che iniziavano a cadere e inseguendo “pio” come chiamava gli uccelli. “Quando Gus aveva la sua età non vivevamo in una casa con piscina e veramente troppe scale” aveva ribadito Justin.
“Fra una settimana la svuotiamo e per la primavera prossima sarà  pronta quell’orribile recinzione che ci hanno proposto”
“Farò tante foto dell’orrenda istallazione, così Susan, un giorno, capirà quanto l’hai amata da subito, accettando, anzi dandoti da fare per deturpare il tuo bel giardino pensato dal migliore architetto d’esterni dello Stato” gli aveva lanciato un occhiolino da lontano.
Brian aveva glissato sull’ironia “che almeno quel coglionazzo di Gus e i suoi amici, si ricordino di tenere chiuso il cancelletto”
 

Ritorna all'indice


Capitolo 44
*** PROVE DI QUOTIDIANITA' ***


Scusate la latitanza, ma sono spesso fuori casa, con connessioni ballerine e poca possibilità di scrivere. Vi lascio due righe e mi auguro di poter aggiornare a breve. Buone vacanze a tutti. 

“Sono geloso. A lei signorina, bambolina, topolina e a me coglionazzo!”
“E’ arrivato il COGLIONAZZO - aveva ridacchiato Brian. - Non dovevi essere a cena da Michael, visto che c’è giù JR?”
“Esatto, ma sono passato a cambiarmi, perché dopo cena esco. Dormo dagli zii, te lo ricordi?”
“Non fare tardi e non fare casino quando rientri”
“Sì, capo. Susy, mi tieni compagnia mentre mi cambio? Mi dai consigli sul look? - si era avvicinato alla sorellina e l’aveva presa in braccio - La rapisco. Fai ciao ciao a questi due”
Susan gli aveva messo le braccina al collo e ripeteva liuuk.
“Non liuuk Susan, look”
“Non mi ricordavo che Gus fosse da Michael e Ben, usciamo presto e ce ne andiamo a mangiare un boccone fuori anche noi tre? Prenoto da Dino’s?”
Mentre Justin telefonava per prenotare, Brian era salito al piano delle stanze dal letto, il vociare cristallino di Susan impegnata in una accorata conversazione, per quanto comprensibile solo a tratti, faceva da contro altare al vocione adolescenziale del ragazzo. La bimba gli stava porgendo una camicia, presa fra le tre ammucchiate sul letto. Evidentemente Gus era indeciso.
“Quella che suggerisce Susan non è male – era intervenuto senza essere invitato – ma secondo me quella blu ti definisce meglio”
Si erano girati entrambi, Susan aveva lasciato cadere l’indumento per terra e gli si era avvicinato, mentre Gus, aveva preso in mano la camicia blu e la osservava perplesso: “Dici?”
“Dico, sottolinea il tuo torace, ti sta venendo proprio un bel fisico” con una mano accarezzava i capelli della bambina che gli trotterellava avanti e indietro in mezzo alle gambe e aspettava che il figlio dicesse qualcosa. Infatti: “Tanto mica devo cuccare, c’è anche Giada”
“Perché quando non c’è ti dai da fare?” aveva chiesto malizioso e con lo sguardo acceso da una luce divertita. “No, ma lei mi dà un po’ il tormento ultimamente. Non so cosa le sia preso”
“Forse una tipetta carina con i capelli rossi …” aveva lanciato lì, con noncuranza.
“Ma figurati, non lo sa e poi è stata solo quella volta al mare … non lo sa nessuno. Va beh, che c’è? Hai bisogno di me?”
Brian aveva scosso la testa, fermato Susan dal suo girotondo improvvisato. “No. Cambio Susan, usciamo a cena, visto che ci molli qui come dei mammalucchi”
Padre e figlio si erano guardati sorridendo, poi aveva sollevato la bimba in un lampo, facendo finta di farla cadere cosa che la divertiva sempre un mondo ed erano usciti dalla stanza.
Quando erano scesi, cambiati e profumati, Justin stava trafficando con il passeggino. “Vuoi portarlo? Tanto vuole sempre camminare …”
“Pensavo di sì, che se si addormenta dopo aver mangiato, magari possiamo prendercela un po’ più con calma. Ho chiesto il tavolo nella saletta piccola, dovrebbe essere tranquillo, abbiamo buone speranze” aveva spiegato fiducioso.
“Susan occhio che Justin ti mette il sonnifero nella papa”
“Brian!!” l’aveva sgridato e si era augurato che Susan avesse preso lo spirito della madre.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 45
*** CENA E ... ***


Anche questa volta solo poche righe, ma ho pensato meglio poco che niente. Grazie a tutti quelli che leggono e commentanto, da Settembre sepro di riuscire ad aggiornare con più contenuto e maggiore regolarità.

Il passeggino era parcheggiato nella zona meno illuminata, in una sala dalla luce soffusa, solo un altro tavolo oltre al loro e parecchio distante, il cameriere si muoveva silenzioso, un po’ per abitudine professionale un po’ per non disturbare la bambina che dormiva con il ciuccio mezzo fuori dalle labbra. I signori Kinney erano clienti abituali, ma era la prima volta che li vedeva con la bambina, dubitava fosse loro, dal momento che era chiaramente mulatta, i due d’altro canto non gli erano mai sembrati tipi da fare i baby sitter e Gus era troppo giovane per averli già resi nonni. Se era curioso non l’aveva dato a vedere, mentre serviva un vino da meditazione ai due uomini che chiacchieravano rilassati, lanciando ogni tanto un’occhiata alla piccina.
Justin ci aveva visto giusto e dal modo in cui aveva vestito la bambina, una morbida tuta a righine rosa e bianche, mise strana come scelta per portarla fuori, Brian ci aveva creduto e in effetti la cena era stata divertente con la piccola che ogni giorno cercava di parlare di più e il dopo cena piacevole e rilassato con Susan che si era addormentata alla solita ora nonostante fossero al ristorante. I bicchieri erano diventati due poi erano tornati a casa spingendo lentamente il passeggino e godendosi la frizzantina aria autunnale e il cielo terso. Justin aveva sfilato una copertina leggera dalla borsa e l’aveva adagiata su Susan e Brian si era potuto finalmente concedere una sigaretta. 
“Fai piano, non la svegliare”
“Ma dai? Pensavo di scrollarla e urlarle nell’orecchio” aveva risposto Brian prendendo la bambina in braccio, mentre Justin apriva la porta. Il passeggino lo lasciavano nell’anticamera fra il portoncino e la porta d’ingresso vera e propria.
Il marito si era fatto vicino e gli aveva mordicchiato il lobo.
“Io fossi in te starei molto attento … ti conviene” aveva sussurrato e con una mano aveva aperto.
L’aveva adagiata nel lettino con una delicatezza che stupiva in un uomo così grande, le aveva seguito il profilo con un dito e lasciato un bacino sui capelli. Aveva chiuso la finestra che uscendo si erano dimenticata accostata e si era diretto verso la loro camera da letto. Fermo nel corridoio, appoggiato al muro davanti alla cameretta di Susan c’era Justin.
“Che fai?”
“Ti guardo”
Brian aveva sollevato un sopracciglio con fare interrogativo.
“Starei ore a guardarti quando fai il papà”
Con un passo gli era stato davanti, le mani sui fianchi del marito.
“Non faccio il papà, sono il papà”
“E con questo non solo ti guarderei, ma non posso proprio resisterti. Cristo quanto ti amo”
“Piano Sig. Taylor, qui c’è una bambina che dorme” gli aveva cinto la vita e condotto con sé lungo il corridoio. Non aveva mollato la presa sui suoi fianchi anche quando si era indirizzato verso le scale che portavano da basso.
“La cena mi ha messo sete, scendo a bere. Vieni o vai in camera?”
“Ti aspetto su, fai presto” Nel voltarsi gli aveva lasciato un bacio sulla stoffa della camicia all’altezza della spalla e una pacca sul sedere. Che Brian facesse veloce sul serio!
Aveva acceso solo la luce dietro la tenda che lasciava la stanza in una penombra ambrata, quella che il marito preferiva per il sesso. Si era spogliato in fretta, lavato i denti e rinfrescato. Un po’ di amore era quel che sperava per concludere una serata bella, come da tempo non ricordava. Indossando solo i boxer, a Brian piaceva sfilarli, si era disteso dalla sua parte e il cuscino di piume gli faceva da cornice al viso, rilasciando una leggera traccia del profumo del marito. Aveva aspirato a fondo e aveva chiuso gli occhi. La mano era scesa sull’inguine.
“Inizi senza di me?”
La presa di Brian si era sostituita con decisione. Non aveva aperto gli occhi e si era goduto la piccola tortura delle carezze mediate dalla sottile barriera di cotone. Si muoveva silenzioso su di lui, con mani, labbra, pelle e saliva. Se provava ad alzare, anche di poco, bacino o spalle veniva respinto con dolcezza giù. Brian stasera voleva farlo morire.   

 

Ritorna all'indice


Capitolo 46
*** COMBATTERE O ARRENDERSI? ***


Vi avevo promesso un aggiornamento settembrino più corposo, spero sia di vostro gradimento. 

Gli aveva appena tolto i dannati boxer, l’orecchio aveva rifiutato il suono, ascolto selettivo, ma al secondo richiamo non avevano potuto ignorarlo.
“Giutin? Bian? Sono vegliata”
“Shhh” aveva suggerito Brian senza alzarsi dal corpo di Justin “magari si riaddormenta”
“Giutiiin! Cancuno c’è? Biaaaaannnn” al terzo appello più accorato era seguita una tregua di qualche secondo. Loro avevano trattenuto il fiato, speranzosi, ma il silenzio era stato rotto da un singhiozzo. Justin si era infilato velocemente le mutande, scivolando da sotto il marito che si era alzato sul fianco per farlo muovere. “Vado a vedere io, forse ha sete e non trova il biberon. Tu resta qui” e gli aveva fatto l’occhiolino.
Dopo qualche minuto il calpestio dei passi dal corridoio aveva anticipato la voce.
“Vispa come un grillo, renditi presentabile”
Susan aveva gattonato verso Brian che si era messo seduto, il cuscino dietro la schiena, aveva allargato le braccia. “Che ci fai tu sveglia? E’ tardi, bisogna fare la nanna.” e così dicendo se l’era tirata sul petto. Susan aveva piantato un piedino sull’inguine e usato quel che restava della sua erezione, nascosta dai boxer, come scalino. Il padre aveva trattenuto a stento una smorfia e gli era scappato da ridere. Justin aveva tirato la catena senza timore, tanto non c’era il pericolo di svegliare nessuno, si era lavato le mani e li aveva raggiunti a letto. I due erano impegnati in una accesa discussione e Susan muoveva le manine a sostenere la sua tesi, che poteva riassumersi in: non ho sonno, quindi giochiamo.
“Di notte si dorme, non si gioca” le stava ripetendo calmo e suadente, Justin riconosceva la voce che usa per ammaliarlo, con buon successo, da quasi due decenni. “Adesso ti metti giù, spegniamo la luce, ti faccio le carezze, ti calmi un attimo e poi torniamo nel lettino a fare la nanna. Domani giochiamo”
Justin aveva smorzato la luce, Brian aveva spostato la bimba e l’aveva distesa fra di loro, facendo shhh con la voce e mettendo l’indice sulle labbra. “Sssshhh Susan, ssshhh …” Il marito le stava già accarezzando leggerissimo la gambina e lui le disegnava l’arcata degli occhi con il dito e poi passava leggero il palmo sulle palpebre. Fosse stato per Justin avrebbero potuto dormire così, ma Brian non sentiva ragioni: ognuno dorme nel suo letto, quindi quando la bimba si era rilassata e quasi appisolata l’aveva presa in braccio per riportarla in camera sua. Ovviamente Susan non aveva gradito lo spostamento ed era rimasto qualche minuto in silenzio ad accarezzarla nel lettino, cercando di farle prendere sonno, quando l’aveva vista cercare il ciuccio con la manina e a occhi chiusi infilarselo in bocca aveva sorriso, le aveva passato un’ultima volta la mano sui capelli ed era scivolato fuori dalla stanza. Non era ancora completamente sotto le coperte che una vocina lamentosa ripeteva “Giutin … Giutin”
Brian l’aveva bloccato: “Resta qui, questa è voce da sonno. Non devi dargliela vinta, vedrai che adesso dorme.”
Poi con voce dolce, ma decisa aveva detto piano, nel silenzio della casa: “dormi topolina, fai la nanna.” Justin scherzando sosteneva che l’autore del libro “Fate la nanna” fosse Brian sotto pseudonimo.
Dopo qualche protesta della bimba e qualche contorcimento nel letto di Justin che in linea di principio condivideva l’impostazione di Brian, ma dal lato pratico soffriva a metterla in pratica, finalmente era sceso il silenzio.
“Speriamo non si svegli più” era stato l’augurio sussurrato da Justin, mentre si appoggiava alla schiena del marito “Vedrai che dorme e quand’anche fosse non la tirare su, parlale, falle due carezze, ma non la tirare sul dal letto, lo sai che se no la paghiamo per più notti” aveva risposto con un mugolio non del tutto convinto e aveva iniziato a far scivolare la mano sul petto di Brian, che si era girato e gli aveva dato un bacio a fior di labbra. “Buonanotte Jus” stroncando sul nascere sia la discesa della sua mano che qualunque idea gli fosse tornata alla mente dopo l’interruzione e così Justin era rimasto l’unico sveglio e con l’uccello in tiro. Ah le gioie della paternità.

----------------------------------------------------oo-----------------------------------------------------------------------------------------------------------

Quando si erano presentati davanti al giudice dei minori e alla dottoressa Koinè, l’assistente sociale che aveva in carico Susan, il primo impatto non era stato né morbido, né troppo possibilista. Avevano ricordato loro, come da timori di Justin, che avevano firmato la rinuncia.
“Inoltre il Sig. Taylor, solo qualche settimana fa, è stato avvertito che la bambina è stata accoppiata …”
Justin si era passato i palmi sudati sui pantaloni, il consueto pallore si era accesso di un rossore diffuso, per fortuna erano stati previdenti e al posto suo era intervenuto l’avvocato Patterson dal quale si erano fatti accompagnare.

Fuori dallo studio del giudice, mentre attraversavano i corridoi tirati a lucido del palazzo di giustizia, Justin sembrava diventato più piccolo di dieci centimetri e a ogni parola dell’avvocato il processo continuava inesorabile, forse prima di varcare la soglia del portone d’uscita sarebbe scomparso.

Non solo non avevano Susan, il giudice aveva anche disposto la sospensione del suo affido temporaneo, in attesa di giungere a una decisione definitiva sul futuro della bambina.

Le dita di Brian intrecciate alle sue avevano momentaneamente fermato l’evanescenza, ma temeva fosse un appiglio temporaneo e insufficiente.
Perfino Patterson si era accorto di qualcosa perché, improvvisamente, sembrava rivolgersi esclusivamente a Justin.

“Non si disperi Sig. Taylor, si tratta di un provvedimento dovuto a tutela della minore, sapevamo sarebbe successo. Non significa nulla rispetto all’esito definitivo, la volontà della madre gioca sempre un ruolo determinante e in questo caso è chiara e inequivocabile a vostro favore. Il vostro temporaneo tentennamento è giustificabile dal trauma subito con la morte di una amica fraterna, sarà considerato non invalidante. Si fidi di me. Conosco il giudice Russel e per come si è mosso e ha parlato, non ha pregiudiziali nei vostri confronti e la giurisprudenza è a nostro favore. Adesso ci vogliono nervi saldi e fiducia. Il fatto che il Sig. Kinney si sia occupato attivamente, sia emotivamente che materialmente del figlio naturale, pur avendone ceduto la potestà alla madre adottiva, e che l’accudimento sia avvenuto, negli anni, con il suo aiuto e nel seno della vostra unione testimonia la capacità genitoriale e la certezza che siate un nucleo in grado di integrare un figlio senza ripercussioni sulla stabilità della coppia tali da mettere in pericolo la serenità della bambina. Sul serio, stia tranquillo, state tranquilli.”

Justin aveva annuito e non aveva neppure salutato quando si erano separati, loro per raggiungere l’auto e l’avvocato la Cancelleria del Tribunale. Senza preavviso Brian aveva scartato a destra, afferrato Justin per l’avambraccio e mosso a passo di carica verso la caffetteria sotto il colonnato. Apparentatemene senza volontà propria Justin si era trovato seduto a un tavolino isolato con il marito che ordinava un caffè nero per entrambi, appoggiava la giacca allo schienale della sedia e si arrotolava le maniche della camicia.

Non era stato gentile. Era il momento di tirare fuori gli attributi, non di lasciarsi trasportare da sensi di colpa del cazzo.
“Fuori le palle e fuori la voce. Cristo Justin sei sempre stato tu quello con i coglioni, quello che guarda in faccia la realtà e se non gli piace la cambia, ci prova con tutte le sue forze e adesso, adesso che ne va di nostra figlia, guardi per terra, non parli e sembri senza idee e speranze? Io ti prendo a calci nel culo, eh! Altro che Ethan, case, menzogne e stronzate varie, se ci fai una cosa simile questa la paghi.”
Le parole erano scese come una sferzata, anche il corpo aveva risposto, Justin si era raddrizzato, la tazza che aveva in mano aveva ondeggiato e qualche goccia di caffè era caduta sul tavolino, l’aveva appoggiata con forza facendone strabordare ancora.

“È tutta colpa mia, Brian. Non lo capisci?”

“Sì, è colpa tua e quindi? Mandiamo tutto a fanculo così puoi commiserarti ancora meglio? Guardami perché mi stai facendo incazzare” gli aveva dato uno schiaffetto sotto il mento e senza troppo riguardo “adesso è il momento di lottare e di crederci, se arriverà quello della disperazione ci dispereremo, ma io so che non arriverà e devi sentirlo anche tu. Il giudice, quella stronza della Koinè e tutta la dannata truppa di assistenti, medici, psicologi e cazzoni vari, devono vederci sicuri, saldi, in attesa di portarcela a casa, perché noi siamo la sua famiglia. Non devono vedere altre alternative perché -  cazzo -  non ce ne sono! Ma sta volta da solo non mi ci lasci, ho bisogno del mio Justin e tu, porca di quella puttana, devi tornare qui, immediatamente e con quella tua fottuta testa che non conosce no come risposta”

I sopraccigli alzati e l’aria uscita rumorosa dalle narici avevano chiarito quanto Justin non credesse affatto che Brian potesse aver bisogno di lui. Era un disastro, chi può avere bisogno di un disastro? Gli occhi azzurri, troppo acquosi quel giorno, vagavano lungo la strada, sui volti dei passanti, si soffermavano su dettagli insignificanti, come la formica indaffarata fra le gambe della sedia impegnata a trasportare una briciola enorme.  E invece non era solo il marito ad aver bisogno di lui e Brian glielo stava ricordando in quel momento. 
“… anche Susan ha bisogno di te e tu sei un bravo papà e un bravo marito, smettila di fare il coglione” poi aveva allungato il braccio e gli aveva sfiorato il dorso della mano.

“Vieni qui deficiente…” una piccola strattonata aveva accompagnato le parole e Justin aveva seguito la strada che l’istinto gli aveva indicato fin dal primo giorno in cui aveva incrociato quegli occhi, si era alzato ed era andato a farsi stringere.  

“Sono un disastro” aveva boffonchiato imbarazzato.

“Sì, ma un disastro bellissimo” la stretta si era fatta più salda e si era conclusa con una spiritosa pacca sulla chiappa.

Ritorna all'indice


Capitolo 47
*** POTEVANO ESSERE NOTIZIE MIGLIORI ***


“Andiamo a comprare il lettino, così ridiamo alla famiglia felice quella specie di zanzariera al contrario”
“E’ un lettino da campo”
“… che sembra una zanzariera al contrario.”
“Chiaro … - Justin aveva sorriso sulla caparbietà del marito, poi si era grattato la nuca. - Non voglio sembrare disfattista, non mi cazziare, ma non credi sia un pelino inopportuno comprare già il lettino? E se porta sfortuna?”
“Non fare il frocio superstizioso che non sei neppure di origine italiana. A fare il campeggio ci andrà con le giovani marmotte, ma a casa Susan dorme in un cazzo di letto come si deve. Fin dalla prossima volta, che sarà presto.”
Justin aveva scosso la testa guardandolo con tenerezza.
“Giusto, fanculo alla zanzariera, andiamo – l’aveva preso per mano, trascinandolo verso la macchina, Brian aveva appena fatto in tempo ad acchiappare al volo la giacca dalla sedia - però il lettino lo scelgo io, ne ho adocchiato uno della Montessori”
“Quelli che sembrano la cuccia del cane? Da zanzariera a cuccia, andiamo bene”
Justin aveva avuto pietà dei 188 cm del marito quando l’aveva visto piegarsi, praticamente rasoterra, sul lettino in esposizione e così Montessori non l’aveva avuta vinta. La scelta era caduta su un più tradizionale lettino con le sbarre per quanto ergonomico, ecocompatibile, colorato con vernici ad acqua, orientabile verso il sole, sensibile ai cambiamenti d’umore dell’infante e tutti i frizzi e lazzi che si inventano i pubblicitari del cazzo come me, aveva commentato Brian mentre Justin strisciava la carta di credito e dava l’indirizzo di consegna.
Cercavano di orientarsi nella nebbia dell’attesa ognuno a modo suo, Brian occupandosi di preparativi pratici, togliendo ipotetici pericoli alla casa e montando cancelletti sulle scale, Justin rifugiandosi in quella che sarebbe dovuta diventare la camera di Susan. Aveva chiesto a tutti di non entrarci fino a quando non avesse dato il via libera. Da fuori lo si sentiva ridere o sospirare, poteva uscirne ombroso o allegro, come se non fosse solo lì dentro.
Aspettare. Produrre documenti, aspettare. Scrivere memorie da rivedere con l’avvocato, aspettare. Nel mentre continuare a lavorare, insegnare, dipingere. Stare dietro a Gus e alle sue esigenze da adolescente, combattere con lui il dolore del primo amore finito. Aspettare senza far scontare ad altri l’attesa. Non era facile, ma ci stavano provando. Insieme o almeno quasi sempre.
Gus aveva bussato alla porta, rispettando la consegna di non entrare: “Jus, papà dice se lo raggiungi in studio, c’è Patterson al telefono”
La velocità con la quale si era materializzato a fianco di Brian, davanti al monitor per la video chiamata, faceva sospettare che avesse inventato il teletrasporto. Aveva rifiutato il muto invito di sedersi accanto al marito, era rimasto in piedi, spostando nervosamente il peso da una gamba all’altra, Brian aveva inclinato la telecamera del portatile per inquadrarlo. L’avvocato Patterson l’aveva visto comparire sullo schermo e l’aveva salutato. “Il giudice che aveva in capo il procedimento di Susan ha avuto un incidente e il vostro caso è stato riaffidato al giudice Mills, decisamente più conservatore rispetto alla sua collega. Non voglio allarmarvi, ma non posso nascondere che il vostro precedente rifiuto sta creando un po’ di ostacoli e Mills vede con un certo favore che dall’altra parte ci sia una coppia etero”
Justin aveva appoggiato i palmi sulla scrivania con una mossa secca e aveva praticamente infilato la testa dentro il video. “E’ colpa, mia dica al giudice che è colpa mia; se non vogliono affidarla a noi almeno a mio marito” Brian l’aveva spostato leggermente per riacquistare visibilità e cercare di sedare il compagno che sembrava sull’orlo di una crisi di nervi. Justin si era rialzato dalla scrivania con fastidio e si mordeva il labbro inferiore, chissà se stava ascoltando le parole di Patterson, c’era da dubitarne perché mormorava a denti stretti sono un coglione, un fottuto coglione. Maledetto me. 
“Signor Taylor si calmi. Io non credo affatto che la cosa migliore sia puntare per l'affidamento ad uno solo di voi, dobbiamo far capire al giudice che siete una famiglia, tutto qui. La smetta di porsi come se la bambina rappresenti un problema solo suo, diversamente sarà veramente difficile far cambiare idea al giudice”
Il tarantolato non sembrava in grado di intervenire così l’aveva fatto Brian: “Avvocato non ci faccia caso, da qualche tempo mio marito tende a dimenticare la mia presenza, ma le assicuro che per la prossima udienza saremo impeccabili come, anzi meglio, di quella fantastica coppia etero con la loro bella casetta e il loro fottutissimo steccato bianco!" poi si era rivolto al ragazzo “che ne dici Justin, pensi di riuscire a tirare fuori le palle quel tanto che basta per evitare quel triste destino a nostra figlia? Non si allarmi Patterson, qui ci penso io, lei si preoccupi di convincere il giudice. La saluto.” E aveva interrotto la comunicazione.
“Non mi sono dimenticato di te”
“Eccome e la devi veramente smettere”
“Suggerivo solo una soluzione, visto che il problema sono io”
“No caro, tu stavi fuggendo. Non ci sono soluzioni che prevedano un me e un te, l’unica soluzione siamo noi, ascoltare Patterson, lottare e crederci.”
“Sarà durissima …”
“Non mi pare una novità, ne eravamo consapevoli, quindi piantiamola con le cazzate e concentriamoci sull’unico pensiero che conta: Susan Taylor Kinney”
Era andato dietro la poltrona e aveva poggiato le mani sulle spalle di Brian, toccarlo gli ridava consistenza, combatteva l’evanescenza che si impadroniva di lui. Da settimane, da quando era stata revocata la custodia, combatteva per non sparire, senza Brian - era sicuro - si sarebbe già dissolto.
“Susan Taylor Kinney? Entrambi i cognomi? Prima il mio?”
“Sì, papà.”
“Brian …”
“Basta pensieri negativi, Jus. Se ce ne uscissimo per farci una birretta?”
“Stasera Gus non è in fase mi taglio le vene, si può fare. Mi cambio che puzzo, un minuto e sono pronto”
Nessuno dei due aveva voglia di andare fino a Pittsburgh, per una birra andava bene anche il pub del posto, un vecchio locale, fumoso, tutto ricoperto di legno, dove la radio passava musica country ininterrottamente. L’estate stava decisamente finendo e l’acquazzone del pomeriggio aveva rinfrescato l’aria, ma la serata era ancora sufficiente mite per invogliare a una passeggiata.
Si erano incamminati, con le dita intrecciate e il passo svelto di Justin che doveva andare veloce il doppio per stare dietro alla lunga falcata di Brian, una vita che teneva quel ritmo, neppure se ne rendeva più conto.  Lungo il percorso avevano incontrato Jack che portava a spasso il cane, Rosie che ritirava i panni stesi e la strada verso le birre si era fatta lunga tanto quanto le chiacchiere che si erano attardati a fare, non era Pittsburgh, certamente non era Liberty Avenue, ma quel villaggio in West Virgina era casa loro da più di dieci anni, all’inizio erano stati accolti da curiosità e un po’ timore, se le ricordavano ancora le occhiate sfuggenti che li avevano accompagnati al loro arrivo. La comunità non si aspettava proprio che i nuovi proprietari della villa fossero due facoltosi froci, manifesti e allegri, per di più il biondo era molto più giovane e ogni tot settimane compariva anche un bambino. Robe da far perdere la testa alle beghine di paese e ai moralisti in servizio attivo e permanente. Qualcuno ancora storceva il naso o cambiava strada, commentando a mezza bocca quando li incontrava, ma nel complesso si erano inseriti più che bene, Susan non avrebbe avuto problemi, ne erano sicuri.

Ritorna all'indice


Capitolo 48
*** TENSIONE ***


Grazie a chi legge e commenta, grazie a chi legge e basta, so di non essere costante nell'aggiornamento, ma faccio quel che riesco. Eccovi un pezzo sufficientemente lungo, per farmi perdonare. 

Justin non riusciva a essere completamente felice Brian, invece, dal canto suo non aveva smesso di fischiettare da quando avevano ricevuto la telefonata, la sera prima. Il giudice, sentito il parere degli educatori, dell’assistente sociale e della psicologa, aveva nuovamente approvato l’affido parziale, in attesa di giungere alla decisione definitiva. Quella sera, finito il lavoro, sarebbero finalmente andati a prendersela e se la sarebbero tenuta per tre giorni di fila, fine settimana compreso.
“Ti passo a prendere all’Università, credi di riuscire a farti trovare dall’ingresso così non perdo tempo a cercare parcheggio?”
Aveva annuito.
“Pensavo di raggiungerti io in ufficio, con la metro in 20 minuti arrivo. Finisco alle 16.30, un po’ prestino per te, ce la farai?”
Brian aveva smesso di fischiettare.
Cosa cazzo ho detto sta volta, si stava chiedendo Justin quando era stato freddato con tre lapidarie parole.
“Per Susan, sì”
“Per Susan, giusto …”
Lo sapeva che stava usando il suo lavoro come una punizione, la sua assenza come un monito.
“E’ lavoro Justin, non balle. Sempre che ti sia chiara la differenza”
“Non erano tutte balle e lo sai …”
Brian aveva scrollato le spalle.
“Ti passo a prendere alle 16.30” si era sciacquato la faccia dopo la rasatura, passato le dita umide fra i capelli per aggiustare un ciuffo ribelle, prima di dirigersi verso la cabina armadio. Mentre si controllava il nodo alla cravatta aveva ricominciato a fischiettare, il nodo che aveva Justin in gola, invece, faceva fatica a scendere giù. Concentrati su Susan, fai come Brian, pensa a lei.
Aveva aperto la portiera, mentre Brian non aveva ancora del tutto fermato l’auto al margine del marciapiede. L’aveva vista alla finestra, in braccio a Luise. Doveva aver riconosciuto la macchina perché si sporgeva e faceva freneticamente “ciao ciao” con la manina. “Vai, ti raggiungo” l’aveva liberato da quel minimo di pudore che gli impediva di mollarlo come un baccalà e correre dentro. La porta si era aperta, Susan tendeva le braccia e Justin l’aveva presa al volo dall’operatrice. “La mia bambina. Quanto mi sei mancata, topolina” l’aveva stretta forte e riempito il viso di bacini. Lei rideva e ripeteva “Jutin venuto, oa”
“Vieni un po’ anche da me Signorina?” le aveva domandato Brian, che li aveva raggiunti sulla soglia, sfilandola dalle braccia del marito. “Sei pronta? Andiamo a casa?” le stava chiedendo, mentre seguiva gli altri all’interno. Si era fermato a fare due chiacchiere con la ragazza, Susan giocherellava con il ciuffo ribelle della mattina, che la giornata non aveva domato e Justin era andato a prendere la piccola borsina in camera della bambina. Si trattava di un bagaglio davvero ridotto, dal momento che a Britin ormai avevano quasi tutto, compreso alcuni cambi.
La camera dove avevano sistemato Susan però era provvisoria, quella definitiva era il regno incontrastato di Justin, interdetto a tutti gli altri. Brian immaginava cosa stesse facendo, ma non ne era sicuro. Chiudersi lì dentro era un modo per il marito di affrontare il difficile percorso verso l’adozione, lavorare in quella camera gli dava la sensazione di “fare qualcosa” e non rimanere semplicemente ad aspettare e sperare. Gli dispiaceva che non lo rendesse partecipe di quel che avveniva nella stanza, ma comprendeva la necessità di intimità. Il loro futuro e quello di Susan era in mano a estranei che avrebbero avuto l’ultima parola, il momento era doloroso per entrambi, ma Justin doveva fare i conti anche con il senso di colpa che a lui era risparmiato.
I giorni con Susan mandavano la vita in stand by, lei si prendeva tutto il tempo, tutti i pensieri, tutti i discorsi da fare che non riuscivano a iniziare sparivano dietro ai suoi sorrisi, alle risate a bocca aperta e la testa reclinata all’indietro, identiche a quelle di sua madre, i malumori si nascondevano. Il cuore batteva normale, al suono dei bacini umidi di Susy.
Era come se Susan si facesse canale per fare uscire l’amore di questi due uomini senza filtri o paure che invece pagavano quando erano da soli a scontare un tradimento subito e consumato, che rendeva le parole di Brian improvvisamente affilate e la voce di Justin senza forza. Perfino Gus si era accorto che quando c’era Susan Britin risuonava della musica di un tempo e che quando la riportavano alla casa famiglia, le note, a tradimento stonavano. Era ormai abbastanza grande da capire che qualcosa era successo fra suo padre e Justin, avrebbe voluto aiutarli, ma suo padre non parlava, anzi forse per la prima volta in vita sua, simulava con lui una serenità che non provava.
Era cambiato tanto anche il loro modo di toccarsi, era sempre stato suo padre ad avere le mani addosso al marito, il braccio sulle spalle, un bacio al volo, una carezza fra i capelli, un coppino scherzoso, adesso era Justin a cercarlo spesso, accarezzarlo sulle spalle se gli passava dietro mentre era seduto, a intrecciare le dita quando camminavano, ad appendersi al collo per cercare un bacio che arrivava subito. Quando era il padre sembrava si aggrappasse, durava un attimo e poi mollava, iniziava a parlare, si passava una mano fra i capelli, usciva dalla stanza.
Fra i due chi prendeva peggio i rientri di Susan era Brian o quanto meno e quello che ne dava più mostra. Justin cercava di rimanere calmo, teneva botta, voleva trasmettere serenità alla piccola ed equilibrio a Brian. Il piano era buono, il risultato a tratti insoddisfacente. Da quando il casino che aveva fatto era venuto a galla, avevano perso i ruoli che da sempre abitavano fra di loro, se li invertivano, scappavano loro di mano lasciandoli disorientati a cercarsi, a toccarsi senza riuscire ad afferrarsi in modo definitivo.
Il passo che teneva era sostenuto, incazzato e Justin era costretto praticamente a corrergli a fianco. Da qualche settimana a questa parte, il lunedì mattina non era mai un buon momento.
“Poi un giorno qualcuno mi spiegherà in cosa cazzo consiste l'interesse primario del minore nel riportare Susan in sto posto di merda quando sta così bene a Britin per quattro giorni alla settimana.”
“Non è un posto di merda … -  aveva provato ad argomentare poco convinto Justin -  Britin è un posto magnifico e noi la adoriamo, ma in senso assoluto che ci vadano piano a lasciare andare una bambina, ci sta … Dai, ci sta.”
“Sì, per qualche settimana, non per due fottuti mesi e mezzo, grazie a burocrati che se la stanno a menare. E a noi tocca portarla qua invece di tenerla a casa sua, penserà che siamo scemi.  E la facciamo piangere senza un cazzo di vero motivo. Porca puttana quando mi fa infuriare sta cosa.”
“Te l'ho detto che è meglio se la riporto io”
“Non c'entra un cazzo”
“C'entra invece. Che ti arrabbi o no, qua ce la dobbiamo riportare. Lei lo sente che ti sembra di abbandonarla. È peggio. Per lei e pure per te.”
“Chiaro, sei bravissimo a fare le cose da solo. Che ti vengano meglio lo dici tu, però.”
“Io dicevo solo che tu stai male e lei pure, se vi salutate a casa potrebbe essere meglio, tutto qui. Non c’entra una beneamata mazza chi fa cosa e quanto bene. Comunque è un’idea del belino, mi pare evidente, quindi continuiamo a portala insieme e tu continua pure a incazzarti.”
“Si vede che non sono bravo come te a considerarla un pacco postale.”
“Eh?”
“Non sono stato certo io che l’ho rifiutata per poi volerla riprendere.”
Justin aveva annuito in modo marcato, respirato forte, ingoiato il magone e aveva allungato il passo verso l’auto, poi aveva cambiato idea. Era bravo ad incassare, la vita con Brian aveva sviluppato questa caratteristica, ma le bordate che gli riservava a tradimento su Susan erano difficili da parare, facevano un male boia. Si era voltato verso il marito, rimasto qualche metro indietro.
“Vai pure direttamente in ufficio, io prendo il tram”
“Stronzate”
“Brian, io le faccio, tu le dici” e senza salutarlo si era diretto a ritmo deciso verso l’incrocio, al di là dell’attraversamento un tram si stava avvicinando alla fermata. Se avesse allungato il passo sarebbe riuscito a prenderlo al volo.
“Aspetta”
Aveva fatto finta di non sentire, era credibile, con il rumore del traffico cittadino di prima mattina.
“Sunshine, asp…”
Si era voltato di scatto.
“Sunshine anche se abbandono figlie per capriccio?”
Il tram intanto era arrivato e ripartito. Erano rimasti soli alla fermata.
“Lo sei e io ho detto delle cazzate”
“Mi hai fatto perdere il tram”
“Fortunatamente abbiamo l’auto a due isolati, andiamo.”
“Nel culo, la lingua te la devi infilare nel culo”
“Preferisco infilarla nel tuo”
“Muoviti va, idiota”    

 

Ritorna all'indice


Capitolo 49
*** Tapì Uan! ***


I momenti di euforia si alternavano a giorni di pensieri cupi, il fatto che Gus vivesse con loro era stata una fortuna, rendeva impossibile farsi travolgere completamente da umore nero, un po’ per la vitalità che i suoi 17 anni portavano con sé e molto, semplicemente, perché c’era, esisteva, era il loro ragazzo e gli dovevano attenzione e amore. Non era e non sarebbe mai diventato il loro cestino emotivo, se su qualcosa erano rimasti d’accordo era questo.

I periodi insieme, dopo l’allontanamento momentaneo deciso dal giudice, avevano rinforzato ulteriormente il legame fra Justin e la bambina, l’amore viscerale che il ragazzo sentiva per quella piccolina lo terrorizzava e allo stesso tempo gli dava la forza di non mollare, davanti a giorni che passavano e la decisione non arrivava. Brian cercava di entrare in quella coppia con delicatezza infinita verso Susan e un po’ di rancore malcelato e non voluto verso Justin.

“Ne parliamo una buona volta?”

“Di cosa?”

“Ad esempio, di tutti i vaffanculo che vorresti dirmi e non dici. Dell’acidità con la quale mi gratifichi ogni volta che parlo di Susan e per caso, non per scelta, tu non sei coinvolto? Hai tutte le ragioni del mondo, non smetterò mai di chiederti scusa, se è questo che vuoi, ma bisogna che andiamo avanti. Tu devi andare avanti, così ci impantaniamo”

“Giusto, volevi che il problema non fossi io? E’ il mio ruolo da sempre, no?”
Aveva sospirato forte, si era passato le dita fra i capelli, scompigliandoli come il suo stato d’animo.

“No, sono io, l’ho creato io, ma non affrontarlo non aiuta. Di certo non aiuta me a ricomporre ciò che ho rotto e non serve a te. Non so neppure più parlarti, scusami.” Si era avvicinato e gli aveva appoggiato una mano sulla spalla, una carezza veloce. Brian gli aveva bloccato il palmo e gli aveva impedito di abbandonare il contatto, poi senza voltarsi per guardarlo in faccia gli aveva detto:
“Si può sapere che cazzo vuoi da me?”
Aveva sorriso amaro. “Vorrei che mi parlassi, finalmente. Sono mesi che non lo facciamo più”
“Parliamo continuamente…”
“Di altro, di altri, di Susan, ma di cosa sta succedendo fra te e me, mai”
Si era limitato a un “Mmmmh” molto poco accogliente.
Justin gli aveva girato il volto con due dita “Ehi…”
“Hai fatto una cazzata enorme, mi hai mentito, ti ho beccato, dici che ti dispiace e che non volevi. Va bene, ci credo. Voglio stare con te, oggi come ieri, se è questo che ti preoccupa. Dobbiamo lottare per Susan e rimanere in bolla per Gus. Non mi pare ci sia altro da dire”

“Non è questo che mi preoccupa, non solo almeno …” ma non aveva avuto il tempo di terminare il pensiero.

“Bene, allora non mi pare ci sia altro da dire”

Justin l’aveva strattonato per un braccio, costretto a fissarlo “anche io voglio stare con te, oggi come ieri, perché ti amo, oggi come ieri” gli aveva scandito in faccia e quel coglione del marito non aveva trovato di meglio che stringerlo a sé, zitto, prima di scansarlo e uscire dalla stanza.

Justin aveva appena messo giù il telefono, Susan giocava con i duplo sul pavimento della cucina e Brian stava versando la sua minestra nel piatto.
“A lavarsi le mani Susy, è pronta la papa” La piccina aveva alzato il viso, guardato prima l’uomo e poi il pezzo che aveva in mano e si era rimessa giocare, fino a quando non era stata presa di peso in braccio. La porta d’ingresso era sbattuta, dando l’annuncio dell’arrivo di Gus.
“Prima o poi viene giù tutto, insieme all’infisso” aveva detto rivolto a Justin “e me lo ripaga a sberle” poi era sparito per andare a lavare le manine alla bambina. “Chi era prima al telefono?” gli aveva chiesto, assicurando Susan al rialzo della sedia e avvicinandola al tavolo. Veloce la piccina aveva afferrato il cucchiaio e iniziato a ingurgitare cucchiaiate di minestra a ritmo sostenuto, senza farne cadere neppure una goccia, mentre ancora le stava allacciando il bavaglino.

“Era la dott.ssa White, hanno finalmente fissato l'appuntamento per il richiamo del meningococco. Le diciassette e quarantacinque al Medical Centre, dopo domani. Ero rimasto d’accordo con l’assistente sociale che ci avremmo pensato noi”

“Che orario di merda” era stato il commento di Brian, che si era guadagnato la rituale occhiataccia per la parolaccia davanti a Susan.

“Tranquillo la porto io” il lavoro di Justin era più flessibile e si prestava meglio, ora che non doveva coprire null’altro, a gestire gli imprevisti.

“Mi libero”

“Ma non occorre, Brian”

“Hai imparato con quel ridicolo musicista a fare discussioni inutili?”

Justin aveva contratto il viso in un sorriso forzato, non aveva sbuffato solo perché c’era Susan davanti a lui e aveva risposto cercando di non cedere alla provocazione.

“Non ho mai discusso con Ethan di Susan o di cose che la riguardassero. Se vieni fa sicuramente piacere a lei e anche a me, ma non è comunque il caso che ti scombini l’agenda”

“Vengo”

“Ottimo. Chiami Gus? Fra due minuti è pronto anche per noi”

Non era servito, perché già cambiato in tuta da casa, il ragazzino stava entrando in cucina rigorosamente a piedi nudi, un’abitudine che condivideva con il padre. “Che si mangia? Ciao Susy” la sorella l’aveva guardato estasiata come sempre, per una frazione di secondo era rimasta con la bocca aperta e salutato con un gran sorriso, mentre un po’ di minestra le colava fuori dalle labbra. Gus l’aveva pulita con un angolo del bavaglino e lei aveva ripreso il controllo professionale del suo cucchiaio.
“Minestra anche noi?” aveva domandato guardando con sospetto la pentola in cui Justin stava rimestando. “Sì, caro ti tocca, però poi pollo alla cacciatora”

Susan si era spazzolata anche un pezzetto di pollo e aveva sgranocchiato un mezzo grissino mentre loro iniziavano a mangiare.
“Bisogna che le spostiamo l’orario di cena, che mangi con noi, se no finisce che ne fa due di cene, ‘sta porcellina”

“Pocellina” aveva ripetuto, allungando la manina per afferrare ancora un pezzetto di pane.

“Ferma lì, Susan. Adesso ti do un po’ di mela. Gus, tu piantala di allungarle pane e sughetto. Diventa una pallina, se non la conteniamo”

“Mio dio papà, non ha neppure tre anni, e mollala sulla linea”

Justin era scoppiato a ridere, più che altro per lo sguardo che si erano scambiati i due Kinney.

“Ha ragione Brian, ce l’ha detto la pediatra di stare attenti, è una golosona e va tenuta un po’ sotto controllo. Non ne vogliamo fare una piccola Miss da concorso, tranquillo”

Susan li aveva guardati tutti, poi si era concentrata su Brian e aveva esclamato: “Tapì uan”
Lui e Justin non potevano credere alle loro orecchie, Gus era scoppiato a ridere a crepapelle e fra le risate soffocate aveva bofonchiato “Cazzo papà, ti conosce già bene”

Ritorna all'indice


Capitolo 50
*** VACCINAZIONI ***


Aggiorno in modo incostante, faccio quel che posso, ma la storia la finirò, giuro! 

A lavarle dentini e metterle il pigiama ci aveva pensato Gus: era molto affettuoso e accudente, per quanto, giustamente, solo quando ne aveva voglia. Susan si era dimostrata velocemente a suo agio con questo ragazzino alto e magro e dalla voce con timbro mutevole.
“Qui siamo pronti, chi viene a metterla a letto?” aveva urlato direttamente da camera della piccola.
“E niente, se non fa casino non è contento” aveva sorriso Justin, rispondendo, mentre già saliva le scale e senza la necessità di sgolarsi come aveva fatto lui “Arrivo” e mettendo piede in camera lo aveva preso in giro “Urli così tanto per creare quel clima adatto alla calma e a una nanna serena?” gli aveva dato un coppino “dai la buonanotte a Gus e un bacino, forza e poi sotto le coperte” aveva concluso rivolto a Susan. “Stoia? E Bian?”
“Mettiti giù che prendo il libro. Brian è in bagno, poi passa a darti un bacino” Si era seduto sul bordo del letto, smorzato l’intensità della luce su comodino, aveva aperto il libro, con una mano le accarezzava la testa e con l’altra girava le pagine mentre leggeva con voce morbida. Qualche minuto dopo Brian si era affacciato alla porta e aveva mimato con le labbra “Dorme?”
Justin aveva risposto facendo segno di quasi con la mano, il marito si era avvicinato così silenzioso da sembrare un ladro, si era chinato piano e le aveva lasciato un bacio sulla fronte. “Dormi bene, piccolina” quindi era stato il turno di Justin, che aveva chiuso e il libro e spento la luce. Con un movimento delicato aveva tirato su la sponda del lettino, le aveva lasciato un’ultima carezza sul viso, accorgendosi che il respiro era già di una bambina addormentata.
Era convinto che Brian fosse andato in camera, ma non ce ne era traccia quando era entrato per andare in bagno a lavarsi i denti, così una volta finito era sceso, i casi erano due: studio o sala davanti alla tv, un po’ troppo freddino, ormai, per avventurarsi a fumare in giardino.
Era in sala, seduto sulla sua poltrona, quella rivolta alla finestra con vista sulla grande quercia del parco. Stava fumando, o meglio la sigaretta si stava consumando nel posacenere, una lunga boccata ogni tanto. Quando Justin aveva messo il viso nella stanza la mano stava scendendo lenta, verso l’inguine, una carezza decisa sopra la stoffa e il pollice stava per far saltare il primo bottone dei pantaloni. Quella ricerca di piacere, fatto così, in penombra e in solitudine, mentre lui era al piano di sopra, era stato un pugno allo stomaco. Era rimasto silenzioso e immobile inchiodato sul limitare della sala, indeciso se farsi sentire o guardare suo marito arrivare in fondo, ma lo scricchiolare del parquet antico l’aveva tradito. Brian si era voltato e non aveva smesso di sbottonare la patta: “Ti godi lo spettacolo?”
“Vedo che non hai bisogno di me neppure per cercare piacere, ti lascio”
“Chi ha detto che non puoi partecipare? Ma evidentemente il tuo spirito di iniziativa si manifesta solo nel fare cazzate” Non sapeva neppure lui perché stava dicendo questa sequela di cattiverie, perché sentiva il bisogno di ferirlo, eppure la mano era scesa proprio pensando a lui, lo eccitava vederlo così accudente e tenero con la loro bambina. Il suo uomo, adesso anche papà.
Justin si era voltato, ma non abbastanza velocemente da nascondere gli occhi lucidi.
Ma che cazzo stava facendo? Si era alzato di scatto, tirandosi su i pantaloni alla bene e meglio, lo aveva inchiodato alla porta e assalito con un bacio violento, la mano nervosa a cercare di aprire i suoi di pantaloni, questa volta. Il corpo schiacciato su di lui e il cazzo di Justin che già rispondeva all’assalto. Solo il tempo di riaversi e gli aveva fermato la mano.
“Pensavo a te, Jus. Sei il papà più eccitante che conosca” gli aveva detto all’orecchio, poi aveva alzato le braccia dagli stipiti e l’aveva liberato, senza lasciargli, però spazio di manovra per infilare la porta. “Cristo Brian…” e si era indirizzato verso il mobiletto bar. Gli camminava solo qualche passo dietro e quando il ragazzo, di spalle, versandosi del whiskey gli aveva chiesto “Vuoi anche tu?”. Gli aveva sfilato il bicchiere di mano “da quando usiamo due bicchieri?” poi gliel’aveva avvicinato alle labbra. Justin aveva preso un sorso leggero e menomale, perché era stato strattonato verso la poltrona ed era finito esattamente dove Brian voleva che fosse, in braccio a lui. Una golata al liquore e il bicchiere era finto appoggiato sul tavolino. Invece di scappare Justin si era accomodato meglio, non che la presa di Brian gli lasciasse molte altre scelte. Il capo appoggiato sul petto del marito e il viso nascosto nella sua maglietta, la nuca e il collo scoperti e proprio lì, a tradimento, si era appoggiato un bacio leggero. “Mio dio Brian …, mi manchi” e nel dirlo aveva cercato le mani del marito e intrecciato le dita. “Siamo qua,  Jus …”  Gli accarezzava le spalle, la nuca e al: “non smettere”, aveva lasciato un altro bacio gentile. 
Si stava infilando il cappotto, Susan stava trafficando dalla porta d’ingresso cercando, invano, di aprirla. “Non andiamo a piedi, prendiamo la macchina, passiamo dal garage” le aveva detto distogliendola e prendendola per mano. Il telefono era squillato, si era tastato a destra e sinistra prima di trovarlo. Brian, la voce era di corsa. “Ispezione fiscale, non riesco a venire.” “Preoccupante?” “No, controllo a campione, ma non è il caso che vada via” “Tranquillo, ci pensiamo noi. Ce la caveremo” Justin un po’ temeva la risposta di Brian che invece era stata “Lo so. Mi chiami quando avete finito?” “Certo e in bocca al lupo con i colletti bianchi”
“Lei è il padre?” Aveva messo a sedere Susan sul lettino e le stava slacciando le scarpine.
“Genitore affidatario – e manco a tempo pieno, aveva pensato dolorosamente. Dalla tasca aveva estratto un busta – ecco le autorizzazioni”
“Bene, le tolga i pantaloni e si sieda di fianco a lei, le tenga ferma la gamba” poi si era rivolta sorridendo a Susan, chiedendole il nome e facendole qualche smorfietta per metterla a suo agio, le aveva anticipato che le avrebbe fatto una piccola punturina “come un pizzicotino che ti da papà quando giocate. Te li da vero?” Susan non aveva capito la domanda, chi diavolo era sto papà che dava pizzicotti? Lei giocava con Jutin e Bian, quindi aveva risposto seria: “No”
“Ah no?” era intervenuto Justin “non te li do io, quando mi fai i dispetti o quando ci facciamo il solletico?” Susan si era illuminata e aveva annuito convinta “Sì, sì Jutin sì!”
Il ragazzo aveva sussurrato alla dottoressa: “Non mi chiama papà”. Lei aveva annuito “Esatto Susy, come Justin. Non fa male veramente, ecco qui è lo stesso, pizzica un attimo e poi passa. E lo vedi quel vaso pieno di leccalecca, quando abbiamo finito te ne scegli uno” A Susan era sembrata un buon piano, per quanto la osservasse con prudenza mentre apriva la siringa pre-dosata. Justin le teneva le gambe ferme bloccandola dai piedini, la dottoressa si era voltata e oltre alla siringa aveva sul viso un naso da pagliaccio che si era illuminato, attirando l’interesse della bambina, nell’istante stesso in cui le faceva l’iniezione. Susan era rimasta a bocca aperta, poi sentendo un po’ di bruciore si era messa a piangere, ma si era fatta consolare subito da Justin che le diceva quanto fosse stata brava e coraggiosa.
Era uscita fiera con il suo leccalecca a forma di orsacchiotto giallo in bocca, era tardi, ma se l’era guadagnato.
Non li aveva sentiti entrare, da quando Chyntia indispettita dallo stridio, aveva fatto registrare i cardino della porta smerigliata del suo ufficio, era silenziosa come non mai. Un po’ gli mancavano i cigolii che lo avvisavano dell’intrusione quando era troppo concentrato per accorgersene. D’altra parte era un problema da poco, solo alcuni fidati potevano entrare senza passare dal filtro e dall’annuncio della bionda. Era una regola imposta da lei, diversamente perdeva il filo di tutti i casini, incontri, impegni che il suo vulcanico capo andava accumulando in giornata. E siccome si sa, la segretaria, su alcune cose ha l’ultima parola, così era stato e la sua porta, un tempo sempre aperta, si era chiusa.
“Possiamo? Chyntia dice di sì” lo aveva salutato Justin, finendo di aprire la porta e facendo scivolare dentro Susan.
“Cosa ci fate voi due qui?” si era alzato sorridente, aveva fatto il giro della scrivania e si era accucciato allargando le braccia “vieni da pap…, da Brian”. Da qualche settimana tendeva a scappargli di apostrofarsi in questo modo, ma in accordo con la psicologa che li seguiva aveva deciso di non farlo, prima di avere la certezza che sarebbe rimasta con loro.
Susan aveva mollato il leccalecca a Justin, passandoglielo dal lato caramelloso, e si era lanciata nell’abbraccio, aspettandosi di “volare”, cosa puntualmente avvenuta.
“E’ stata bravissima, una vera donnina coraggiosa e visto che oramai sono le 18.30 abbiamo pensato di passare a prenderti e offrirti la cena. Abbiamo fatto male?” 
“Brava Susan, sono molto fiero di te. Avete fatto più che bene. Salvo quel che stavo facendo e usciamo”
“Ho panto, ma poco” aveva puntualizzato. Brian le aveva scompigliato i capelli e dato un gran bacio. “Questo è l’importante - poi si era seduto con la bimba in braccio - mi aiuti a finire di lavorare?” Lei aveva annuito convinta e iniziato a muovere il mouse freneticamente.
“Mi lavo le mani, sono tutte appiccicose” e aveva riposto il leccalecca in una scatoletta, certo che Susan appena si fosse ricordata l’avrebbe reclamato.
Erano usciti con Susan in braccio a Brian e Justin che camminava a fianco, appena arrivati sul marciapiede la piccola era voluta scendere e lui aveva passato un braccio sulle spalle del marito.
“Sul serio non ho fatto male a passare?”
“Male, anzi malissimo, lo sai che mi state sulle palle voi due - aveva scherzato - sono contento di vederla prima di riportarla, grazie” aveva concluso più serio e stringendo le dita sulla sua spalla.
Il viso di Justin si era illuminato “Non la riportiamo!”
“Hai deciso di darmi retta e la rapiamo?”
“Scemo! Non ci speravo più, ma mi ha chiamato Patterson, il giudice ha dato il permesso a tenerla tutta la settimana, così se ha reazione al vaccino è a casa. La riportiamo lunedì prossimo. Dice che è un ottimo segno, ma io a questo non ci voglio pensare” Si era guadagnato un bel bacio e come da copione Susan si era materializzata fra di loro, chiedendo la mano ad entrambi e separandoli.
Si erano incamminati verso il locale facendole fare l’altalena.
Quando il cameriere aveva chiesto se per Susan doveva far preparare una mezza porzione, si erano guardati condividendo una breve risata. “Non abbondante, ma normale, grazie” aveva risposto Justin, mentre Brian le sottraeva il secondo grissino dalle mani.
“Inutile, ogni volta non mi capacito di quanto mangi, microba com’è”
“Dici che converrà solo vestirla?”
Brian aveva ghignato: “Oh, sarà molto divertente…”
“Frena Kinney, che ci penserà già lei crescendo, non istigarla”
“Eh no, tu sei come sei, Gus lasciamo perdere, almeno Susan me la deve dare soddisfazione sulla moda”
Justin aveva riso convinto, prima di spegnere il sorriso “Sempre che ce la lascino …”
“Ce la lasceranno … e … Jus, so cos’ho detto l’altro giorno, ma…”
Justin gli aveva lasciato una carezza sulla guancia. “So anche io quello che hai detto e hai ragione, ma penso di aver capito cosa vuoi da me” “Ah si?” e non c’era ironia nella voce. Justin aveva annuito “che la smetta di piangermi addosso e inizia ad affrontare questa cosa insieme a te. Ci sto provando Brian, sul serio”
“Lo so, anche io”
Si erano stretti la mano lungo il tavolo. “Che ne dici ce lo dividiamo un secondo?” aveva chiesto Brian riprendendo il menù.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 51
*** COLAZIONI ***


“Se poi dividi con me anche il dessert” aveva risposto Justin lanciandogli uno sguardo birichino e allungandosi sul tavolo per dargli un bacio.
Susan aveva immediatamente abbandonato il suo tentativo di accaparrarsi un pezzetto di pane, che Brian aveva incautamente lasciato sbocconcellato al bordo del piatto, per tirare una raffica di manatine a palmo aperto sulla schiena di Justin. “Bata, Jutin. Bata bacini. Butti bacini” Si erano voltati entrambi, Justin con un’espressione meravigliata e Brian che già stava ridendo. “Hai capito la fringuellina! -  Il marito aveva aggrottato le sopracciglia, mentre l’altro continuava – Quindi i baci sono brutti?” e nel dirlo l’aveva acchiappata, tirata a sedere sulle ginocchia e l’aveva riempita di bacini. Susan si era messa a ridacchiare e aveva girato il viso per farseli dare meglio. “Quetti beli”
Si era interrotto, aveva annuito platealmente e con aria seria aveva commentato guardandola negli occhi: “Aahh questi belli, quindi sono brutti solo quelli di Justin. Allora mi raccomando Justin, mai più bacini a Susan eh?”
La bimba si era tirata in piedi sulle sue cosce e con enfasi aveva chiarito il concetto “No! Beli bacini Jutin a Susan”
Brian l’aveva rimessa a sedere: “Va là che sei un bel tipetto!”
“Conosce cento parole in tutto, ma è precisa, sta furbacchiona. - Beli bacini di Justin A SUSAN.-  Capito mi hai?” aveva sottolineato Justin guardando il marito e facendogli un occhiolino complice. “Stiamo freschi con sta qui”
“Comunque Kinney, alla tua età hai ancora il fascino del proibito. Non male!”
“Big stronzetto, mi stai dando del vecchio?” e nel mentre sfilettava il branzino al forno che dovevano dividersi. Ovviamente un pezzetto era finito anche nel piatto di Susan che l’aveva sublimato, prima ancora che loro portassero il primo boccone alla bocca.
“No, bello, ti sto dando del terribilmente sexy ed arrapante e se stasera fai addormentare la termite in tempo record, magari te lo dimostro”
“Se le faccio bere un po’ di vino, dici che aiuta?” aveva risposto lo scimunito di marito, facendo finta di versarle un goccio nel bicchiere di plastica e assicurandosi, in questo modo, il coppino di prammatica.
“Big stronzetto?” Di tutti i milioni di soprannomi con cui Brian lo chiamava quello era nuovo.
“Certo! Big stronzetto e Little stronzetta, mi pare ovvio” aveva spiegato indicando lui e Susan con un gesto della mano.
Little stronzetta quella sera si era addormentata ancor prima del solito, quasi avesse sentito che c’era bisogno di lasciarli soli, questi due “papà” o forse, più prosaicamente, era stanca per effetto del vaccino. Al rientro avevano trovato Gus stravaccato in salotto davanti alla TV, aveva approfittato della loro assenza per cenare lì davanti al video, cosa che disturbava molto Brian e per nulla Justin.
Quella volta però il padre non aveva voglia di riprenderlo, gli aveva brevemente ricordato di portare piatto e bicchiere in cucina e poi gli aveva chiesto cosa stesse guardando, sedendosi qualche minuto vicino a lui, mentre Justin saliva a cambiare Susan. “Potevi raggiungerci al ristorante. Ti sei perso un’ottima cena e una scena mitica di Susan: mena Justin se prova a baciarmi.” Gus aveva riso anche con gli occhi “Grande piccoletta! Papà hai trovato la tua vera rivale” “Non ha capito con chi ha a che fare … “ aveva risposto con fare minaccioso e scherzoso.
“Anche io ero geloso?” Brian aveva scosso la testa, per poi chiarire. “No, non è vero, un pochino sì in alcuni momenti: ti mettevi seduto in mezzo sul divano o a tavola, ma è durato poco. In ogni caso non ci hai mai menato. La piccoletta invece suona, figlia violenta ci è toccata” aveva finito sorridendo. Il cellulare appoggiato sul tavolino, fra il piatto e la bottiglia aperta di coca cola, aveva trillato per l’arrivo di un messaggio.
“La termite dorme e io sono profumato, nudo e SOLO…”
Aveva sorriso, spegnendo il piccolo display “Salgo in camera, non fare tardi”
“Ok, notte pa’”  
Il pianto nervosetto di Susan li aveva destati una ventina di minuti prima della sveglia. “Vado io, tanto fra un quarto d’ora mi sarei dovuto alzare lo stesso, dormi ancora un po’ che oggi non hai lezione” gli aveva lasciato un bacio dietro l’orecchio e tirato su il piumino che un Justin non ancora veramente sveglio aveva sollevato intenzionato a strisciare in camera di Susan. “Vestiti” aveva bofonchiato, tuffando nuovamente la testa nel cuscino. Brian si era infilato al volo la tuta e a piedi rigorosamente nudi si era diretto verso la cameretta, strofinandosi gli occhi per svegliarsi definitivamente. Susan era in piedi nel lettino, senza il sorriso con il quale, normalmente li accoglieva al risveglio, le labbra già piegate verso la prossima smorfia e le lacrime che le facevano brillare gli occhietti nella penombra. L’aveva presa in braccio, godendo per un attimo, del tepore di quel corpicino contro il suo. “Che c’è topolina? Hai fatto un brutto sogno?” Susan aveva ricacciato indietro il pianto che aveva pronto in canna e si era accoccolata nell’abbraccio incuneando la testa sulla spalla dell’uomo.  Quando erano quasi al corridoio aveva tirato su la testa e con voce lamentosa aveva detto: “Tobi”. Brian si era voltato, lanciato uno sguardo veloce dentro il lettino e identificato immediatamente l’oggetto del desiderio. Il coniglietto rosa e bianco che per Susan era l’equivalente della copertina di Linus, guai a dimenticarselo, viaggiava con lei da Britin alla casa famiglia, indefessamente. “Sì, direi che stamattina non possiamo farne a meno”, in due passi era tornato indietro e aveva acchiappato il coniglietto porgendolo alla bambina che se l’era stretto fra sé e il petto di Brian che già che c’era aveva preso le calzine con i gommini. Arrivato in cucina era stata una breve battaglia fargliele indossare, anche lei, come lui, amava i piedi scalzi e di solito la lasciavano fare, visto che c’era il parquet ovunque, ma quella mattina gli sembrava un po’ tanto freschetto. Il tempo di prendere il latte in frigo, i plasmon, preparare il biberon e metterlo nel microonde per scaldarlo che i piedini erano di nuovo nudi. “Susan, non ti togliere i calzini, ti raffreddi” “Tu no hai calsini” gli aveva risposto energica. Aveva annuito, alzando gli occhi al cielo, non si poteva dire che alla piccola difettassero logica e dialettica “No, io no – aveva concesso, gli ci mancava la controllora - ma adesso mi vesto e vado in ufficio, quindi mi metto le scarpe.” Le aveva preso le calze di mano e gliele aveva infilate fra le proteste. Il suono del timer del forno aveva interrotto la piccola lotta. “Ti metti sulla poltrona a bere il latte mentre faccio colazione anche io?”  
Si era diretta verso la poltrona, si era sdraiata con il capo su un bracciolo e le gambe sull’altro, comoda come fosse un’amaca; Brian aveva scosso il biberon, tolto il tappo e gliel’aveva messo fra le manine. Una carezza fra i capelli e si era diretto alla penisola, apparecchiata la sera prima da Naty e si era versato una tazza di caffè appena fatto. Stranamente aveva finito prima di Susan che quella mattina succhiava piano, si distraeva, frignettava. Si toglieva la tettarella di bocca, parlottava e si attorcigliava i capelli su un ditino. Tutti segni che qualcosa non andava.
“Finisci di bere il biberon nel lettone? Andiamo a svegliare Justin?” L’aveva presa di nuovo in braccio, strano anche che non volesse camminare ed erano saliti in camera. Nel corridoio avevano incontrato Gus che, mezzo addormentato, stava scendendo da basso. “’Giorno” li aveva salutati con voce da sonno. “Buondì figliolo, il caffè è appena fatto” Il ragazzo aveva annuito e trascinando i piedi li aveva superati. “… e mangia anche qualcosa!” gli aveva ricordato il padre, conoscendo l’abitudine di Gus di bere solo caffè latte, se non gli stavi un po’ appresso. Aveva deposto Susan sul lettone, dalla sua parte, poi aveva circumnavigato il letto e si era chinato a dare un bacio a Justin che si stava stiracchiando. “Finisce il latte qui. Io mi preparo” Justin aveva definitivamente aperto gli occhi, accolto sotto il braccio Susan che gli si era rannicchiata contro e aveva guardato il marito perplesso “Non l’ha bevuto in tre succhiate?” Brian aveva scosso la testa. “Non mi pare calda, solo un po’ noiosetta” “Sarà il vaccino” aveva riflettuto il ragazzo. “Probabile” era stata la risposta del marito, mentre spariva in bagno.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 52
*** IMPREVISTI ***


Susan ciucciava pigramente e giochicchiava con i capelli di Justin invece che con i suoi, arrotolava una ciocca sul ditino e poi mollava, per ricominciare. Lo faceva spesso, anche prima di dormire.
Quando mancavano due dita alla fine del biberon l’aveva porto al ragazzo con fare perentorio “Bata” e lui, visto che il problema di Susan non era certo l’inappetenza, non aveva insistito. L’aveva poggiato sul comodino, senza curarsi se fosse pulito o no, sul fondo, probabilmente avrebbe lasciato l’alone per il fastidio di Brian. Mentre la bimba era impegnata a scalarlo cercando di arrivare all’interruttore della abatjour, a voce sufficientemente alta per farsi sentire aveva chiesto: “L’hai già cambiata?” e lei, che pareva in altre faccende affaccendata, aveva bruciato il marito sulla risposta: “Panolino pocco. Pipì”
Dal bagno, leggermente soffocato dallo scorrere dell’acqua, Brian aveva confermato. “Non l’ho ancora cambiata, non le piace appena sveglia ed era già un po’ inversa. Sicuramente adesso va fatto, dammi un minuto.”
“Finisci tranquillo, ci penso io” e poi Brian aveva solo sentito risate e gridolini. Sicuramente quei due si stavano facendo il solletico sul lettone. Li aveva raggiunti una decina di minuti dopo in cameretta, Justin stava passando la salvietta umidificata sul culetto. Era già pronto, in giacca e cravatta, aveva appoggiato la ventiquattrore vicino al fasciatoio. “Io vado” poi si era chinato e aveva dato un bacino alla pancina liscia della piccola. “Ci vediamo stasera, fate i bravi tutti e due” e l’ultimo bacio a fior di labbra era stato per Justin. Poi era passato a chiamare Gus, tempo due minuti si era sentito il rumore dell’auto che lasciava il vialetto. Justin aveva messo in piedi Susan “Siamo soli, che facciamo?” le aveva chiesto complice.  
“Giadinetti!” aveva risposto allegra, il cattivo umore le era passato. “Sì, è una bella giornata, più tardi andiamo ai giardinetti, ma adesso è troppo presto. Mi tieni compagnia mentre faccio colazione e poi disegniamo?”
Naty gli aveva portato il cordless, solo pochi lo cercavano ancora sul telefono di casa prima di disturbarlo sul cellulare, fra questi il suo agente.
Quando aveva messo giù non sapeva come sentirsi: euforico? Sì. Preoccupato? Sì, ma soprattutto si sentiva in colpa.
“Vieni Susan, ci vestiamo e andiamo a parco a piedi, che Justin ha bisogno di prendere un po’ d’aria”
Susan aveva, come al solito, provato tutti i giochi, rovesciato la cesta che tenevano nella zona cucina tinello e poi si era risolta a baloccarsi con le noci, le spostava da un contenitore all’altro ridendo del rumore. Come da copione aveva fatto finta di non sentire e aveva continuato a giocare imperterrita fino a quanto il ragazzo l’aveva sollevata di peso e portata al piano di sopra fra le proteste, che a dire il vero si erano placate velocemente.
“Naty, Susan ed io usciamo. Abbiamo lasciato un casino mondiale in cucina, ci puoi pensare tu per favore?” La donna aveva annuito e aveva aperto loro la porta salutandoli. Erano usciti senza passeggino, ma oggi il passo lento e i continui andirivieni di Susan affascinata da ogni particolare che incontravano, fosse una grata che risuonava a saltarci sopra, una foglia calpestata, una moto dai colori accessi parcheggiata lungo il marciapiede, beh oggi quel ritmo, che di solito gli piaceva, non era compatibile con la sua agitazione. In un lampo l’aveva sollevata e messa a cavalcioni sulle spalle, le teneva le manine con le sue. Di solito la portava così quando, usciti senza passeggino, la piccola, per quanto ottima camminatrice, era ormai stanca. A lei piaceva e in questo modo lui poteva camminare al suo ritmo cercando di ritrovare un po’ di lucidità. Doveva parlarne con Brian, questo era sicuro, ma come? Come l’avrebbe presa? E lui, Justin, cosa voleva fare?
“Giadinetti, Jutin. Giadinetti. Andamo” Susan si stava slanciando verso l’entrata del parco con il corpo, per fortuna non le aveva mollato le manine. “Ehi pazzerlla, non ti tuffare che non siamo mica in piscina. Andiamo, andiamo” In pochi minuti erano arrivato alla zona dei giochi, l’aveva messa a terra e lei era sparita in un turbino di bambini più o meno grandi, dentro una costruzione a forma di galera dei pirati. Justin si era seduto su una panchina dalla quale aveva una buona visuale e senza perderla d’occhio si era deciso. Un respiro e il dito sulla chiamata rapida.
“Ehi, Sunshine, tutto bene?” Brian gli aveva risposto in un lampo, quindi probabilmente era solo. Meglio.  “Hai due minuti o ti disturbo?”
“Non mi disturbi, ma cos’hai? Hai una voce …” Justin aveva scosso la testa, neanche Brian potesse vederlo.
“Niente, siamo al parco, Susan sta giocando …” era stato interrotto bruscamente.
“Justin che cazzo devi dirmi?”
Justin si era irrigidito e stava quasi per mettere giù, non dirgli niente. Rinunciare e stop. Non aveva interrotto la comunicazione, ma era rimasto zitto. “Ouh! Ci sei? Cosa sta succedendo? Mi devo preoccupare o incazzare?”
Uno sbuffo da parte di Justin. “Te lo dico, tanto ti incazzi comunque …”
“Justin, ma ti sei fumato qualcosa? Mi chiami poi non parli, tartagli, vaneggi, mi incazzo sì. Se non stai bene chiama qualcuno, che sei con Susan. Non mi fare preoccupare, cazzo"
“Sto benissimo e pure Susan, stai calmo. Volevo parlarti di una cosa ma non mi pare che siamo dell’umore, fa niente. Vado che sta cercando di salire sullo scivolo al contrario” E così aveva messo giù senza avergli detto nulla, anzi, si erano anche scazzati. Che modo di merda di parlare che avevano da un po’.

Ritorna all'indice


Capitolo 53
*** SOLI! ***


Il cellulare era squillato qualche minuto dopo, ovviamente era Brian. Aveva fatto scendere Susan dall’altalena: “Vai a giocare nella sabbiera, che devo rispondere al cellulare, ok?” La piccina aveva annuito ed era andata, caracollando. Aveva accettato la chiamata, ma non aveva fatto in tempo a dire una sillaba. “Scusa per prima, sono stato eccessivo. Cosa ti è successo, Jus? Che volevi dirmi?”

Quel “Jus” era corso lungo l’etere come una carezza, la voce accogliente adesso. Coraggio Justin, diglielo e falla finita.   

“Mi ha chiamato Dan”

“Il tuo agente?”

“Sì, pare che vogliano …”

“Cosa?”

“E’ stato contattato dalla European Art Council , stanno organizzando una mostra itinerante nei principali musei di arte moderna in Europa e vogliono anche me”

“WOW! Grande, era l’ora che se ne accorgessero anche i parrucconi d’oltre oceano che sei un genio”
Justin aveva tossicchiato imbarazzato, se c’era una cosa che non era stata scalfita era l’incondizionata fiducia nelle sue doti artistiche.

“Bhe? Non sei felice? Te lo meriti questo riconoscimento, Jus!”

“E’ che dovrei andare a NY” aveva continuato con voce incerta.

“Mi pare ovvio, cazzo. Hai improvvisamente paura di volare? – l’aveva preso in giro – Quando?”

“È questo il punto. Mi vorrebbero vedere domani per pranzo”

“Ottimo, hai tutto il tempo”

“Brian …”

“Eh? …”

“Ma come facciamo? E Susan? Proprio adesso che ce l’hanno lasciata tutta la settimana, non possiamo certo mollarla a una babysitter, alle nonne o a Naty. Il giudice lo vedrebbe molto male in questa fase. No, non posso andare, provo a vedere se possono aspettare la settimana prossima. E se non possono? Va beh, pazienza, arriverà un’altra occasione. Dan mi uccide, no … no capirà, Susan è troppo importante” era seguito un fiume di parole, più o meno coerente.

“Ehi Warhol, frena e respira! - l’aveva interrotto il marito. - Ci sono anche io, ricordi?”

“Ma tu lavori” aveva esclamato quasi scandalizzato.
“Eh beh, tu invece imbratti tele che viaggiano per il mondo, vero. Che sfigato che sei! Ma la smetti? Piantala di agitarti, vai a casa, preparati e portamela qui mentre vai in aeroporto, così recupero ancora qualche ora in ufficio e poi ci penso io, mi organizzo per uno o due giorni. Pensi ti basteranno?”

“Sì, sì, ma sei sicuro?”

“Certo. Jus, è solo la prima volta, succederà ancora e sarà normale organizzarsi, toccherà a me e toccherà a te. Io e Gus saremo bravissimi, tu vai e spacca. Basta che non mi racconti cazzate”

Avevano incontrato Gus all’entrata della Kinnetik, Brian gli aveva detto di raggiungerlo che sarebbero tornati a casa insieme.

“Oh, voi due, cosa ci fate qui?” aveva chiesto tenendo la mano sulla foto cellula e dando loro il tempo di entrare nell’ascensore che portava al piano dirigenziale. Poi aveva notato la sacca da viaggio sulla spalla di Justin.
“Devo andare con urgenza a NY, ho l’aereo fra tre ore, lascio Susan a papà e scappo.”

Quando si erano aperte le porte, Gus non li aveva seguiti.
“Faccio un salto da zio Ted, lo dici tu a papà?”
“Ciao Picasso, avete fatto presto! Fra poco arriva anche Gus. A che ora hai l’aereo?”

“Ciao Bian, guaddo cattoni” e si era diretta sul divano, davanti al quale troneggiava una tv ultimo modello che di solito Brian usava per visionare gli spot, ma che per Susan era nata esclusivamente per fra vedere i cartoni animati a lei quando andava alla Kinnetik. Si era inerpicata sul cuscino e aveva acceso lo schermo con il telecomando. “Non funciona”

“Fra tre ore. Gus è arrivato con noi, adesso è da Ted. E tu aspetta, impiastro, che te li cerco io i cartoni” Aveva risposto Justin a marito e figlia in un colpo solo.

“Riesci a stare a casa domani e dopo?”

“Sì, tranquillo. L’indispensabile lo faccio da Britin e per il resto mi godo questa signorina. Sei contenta Susan che rimaniamo, finalmente, un po’ soli io e te? Anzi io, te e quel rumoroso di Gus”

Una leggera smorfia aveva percorso il volto di Justin, era giusto. Un po’ di tempo in esclusiva con lei, come quello di cui aveva goduto lui, sottraendolo, in qualche modo, al marito e alla famiglia.
“Che hai? Non ti fidi? Staremo benissimo, noi tre!”

“Ne sono sicuro. – gli aveva sorriso – ed è bene che recuperiate un po’ di tempo insieme, tu e lei.”

Brian aveva capito, ma non era stata quella la sua intenzione, anzi voleva tranquillizzare il marito che sembrava una mamma ansiosa che torna al lavoro dopo il periodo di maternità.

“Guarda che non intendevo quello”

Justin aveva fatto un rapido cenno con la mano “Non importa, e comunque mi mancherete un sacco in questi giorni, quindi pensatemi ogni tanto e non datevi troppo alla pazza gioia. Mi fai chiamare un taxi? Devo proprio andare”

Brian aveva chiesto a Chyntia di provvedere e poi si era rivolto alla bambina “Susan, lascia un momento perdere i cartoni e vieni a salutare pap… Justin che va via”

Justin, che gli era vicino, gli aveva dato un’affettuosa testatina sul petto e sorridendo l’aveva poi guardato con infinita tenerezza “ti scappa proprio eh?”

La mano di Brian era corsa fra i suoi capelli “cerco di trattenermi, ma lo faccio solo per non confonderla”

“Non siamo i suoi genitori”

Aveva scrollato le spalle “Devi dare meno peso alla burocrazia, Jus. Il dannato pezzo di carta arriverà, ma non cambierà di una virgola il fatto che sia nostra figlia, così come il certificato di matrimonio non ha cambiato un cazzo del fatto che mi avessi fottuto anni prima” e per concludere gli aveva piantano un bacio di quelli alla Kinney. “Sempre così romantico” era stato il commento divertito del biondo. Come sempre, quando si lasciavano andare a effusioni, era comparsa fra le gambe la frugoletta. “Guarda un po’ chi c’è qui?” Justin si era chinato e l’aveva presa in braccio. “Sai che assomigli sempre di più a Brian con sta gelosia? - le aveva detto, facendo sorgere un sorrisetto ironico sul volto del marito. - Fai la brava eh? Ti chiamo stasera per darti la buonanotte” e le aveva ricoperto le gote di bacini leggeri. Trovava sempre inebriante la morbidezza di quelle guanciotte. Poi l’aveva messa giù e aveva guardato Brian dal basso “Fai il bravo anche tu” gli aveva detto “e grazie” prima di lasciargli un bacio a fior di labbra.

Brian l’aveva abbracciato “Fai buon viaggio e lasciali senza parole, domani”

Avevano consegnato qualche minuto Susan alle cure di Cynthia mentre Brian accompagnava Justin al taxi. Il ragazzo gli aveva dato un foglietto “Qui ci sono il numero del pediatra, della psicologa, della casa famiglia. Il mio, beh lo sai a memoria…” “Quello della guardia nazionale, no?”

“Esagerato?” “Parecchio, ma sei molto bello in versione mamma ansiosa. Starà bene, staremo bene, tu pensa solo a dare il meglio e a non fare idiozie.” Una pacca sul culo e gli aveva chiuso la portiera dell’auto. Aveva aspettato di vedere la macchina uscire dalla rampa, prima di voltarsi e tornare su.

Nel rientrare era passato da Ted a recuperare Gus. “Ciao, Gus non era qua con te?”

“Andato via in quest’istante, sarà nel tuo ufficio”
In effetti lo aveva incrociato quasi davanti alla postazione della sua segretaria. Si sentiva il chiacchiericcio di Susan e il brusio di alcune colleghe attirate dalla presenza della bambina.

“Pa’, Susan è una star” “E mi distrae il personale” aveva borbottato facendo in modo che lo sentissero. Mica era irritato sul serio, era semplicemente la sua indole dispettosetta. Qualcuna si era irrigidita, una era arrossita, le più giovani, assunte da relativamente poco. Cynthia e la collega più anziana, non si erano smosse di un millimetro. Brian aveva sogghignato e con due falcate si era avvicinato alla scrivania della bionda sulla quale Susan si era mezza sdraiata per cercare di prendere in mano il correttore a forma di topolino. “Disturbatrice, cosa stai combinando? Vieni qui che Chyntia ha da fare e pure gli altri. Noi ce ne andiamo a casa. Justin dovrebbe tornare mercoledì, ci rivediamo giovedì. Per le emergenze mi trovi sul cellulare.” Aveva acchiappato la bambina ed era entrato nel suo ufficio a prendere il cappotto e la ventiquattrore. Uscendo si erano imbattuti in Ted che si prendeva un caffè alla macchinetta. “A quest’ora Theodor? E se poi non dormi?” “Zitto Brian che ci farò notte qui dentro… Blake ringrazia” Gli aveva tirato una pacca sulla spalle e tornato serio aveva detto: ”Grazie Ted e ringrazia anche tuo marito per la comprensione.”
L’amico aveva risposto alla pacca e gli aveva stretto l’occhio “Non c’è di che capo, ti chiamo domani dopo l’incontro con la Boston Steel. Ciao Susan, ciao Gus” Aveva buttato il bicchierino nel cestino e si era incamminato lungo il corridoio non prima di sentire Brian che con il suo solito garbo stava chiedendo al figlio: “Allora che cazzo è sta storia della tesina? Cosa ti devo aiutare a fare?” era seguita una breve risposta del ragazzo e una veloce replica: “Uhhm, interessante - poi aveva girato il viso verso la piccina che teneva in braccio - quando arriviamo a casa, tu ti guardi un po’ di cartoni e stai con Naty, senza fare i capricci intesi? Devo dare una mano a tuo fratello”

Poi aveva sussurrato “Cristo come mi sono ridotto” e sorridendo aveva posato il braccio libero sulle spalle di Gus.

Ritorna all'indice


Capitolo 54
*** VIDEOCHIAMATE ***


“Io cucino co Naty, ciao” l’aveva liquidato la piccola ingrata quando l’aveva cercata dopo aver finito con Gus. Era in piedi sullo sgabellino a fianco di Naty e cercava, con poco successo, ma molto impegno di grattugiare del formaggio su una piccola grattugia, nata senza dubbio per altri scopi e sicuramente non pericolosa. “Naty, vedo che ha un’aiutante” “Può giuraci, e di prim’ordine!” “Posso lasciarla qui?” “Certo, fra poco prepariamo gli gnocchi. Sei pronta Susan a impastare?” “sssììììì. Impatare. Ciao Bian, ciao” aveva ripetuto enfatizzando il concetto con la manina. Non aveva capito che doveva togliersi dai piedi che loro avevano da fare? L’uomo aveva riso a piena gola, le aveva dato una pacca sul sederino ancora rigonfio del pannolino, aveva augurato loro buon lavoro e se ne era andato in studio. Avrebbe approfittato per leggere le 200 email che sicuramente si erano affastellate nella sua casella.

Facebook si attivava automaticamente quando accendeva il portatile e Justin l’aveva visto collegato facendo partire la video chiamata.

-          Ehi, come va?

-          Tutto a posto in casa? E’ un po’ che nessuno ci metteva più piede. Qui tutto bene a parte il fatto che mi troverai con la pancetta e una calvizie incipiente.

Era seguita una risata di Justin

-          Ma che cazzo dici?

-          Dico, dico. Ti vorrei descrivere la mia serata. Sono a casa, con due figli e una nipote; ho pure collaborato a una fottuta tesina.

-          Nipote? C’è anche JR?

-          Certo, poteva mancare? È giù, stasera Ben e Michael vanno dalla zia ultranovantenne di Ben. Lei ne ha per le palle e ha chiesto aiuto a Gus.

-          La passano a prendere dopo cena?

-          Figurati! Rimane a dormire.

-          Kinney, sei …

Brian aveva alzato il dito, mettendolo in piena luce alla telecamera: - Zitto! Non lo dire, non ci provare …

-          Adorabile. Sei adorabile.

-          E tu sei fottuto, preparati a un mese di seghe, stronzo!

-          Ah che caratteraccio, neppure un complimento ti si può fare

-          2 mesi!

Erano scoppiati a ridere, quel maledetto di Justin con le lacrime agli occhi.

-          Domani mattina ti si prospetta una colazione impegnativa.

-          Col cazzo, se io sono impegnato con Susan Gus si arrangia e pensa pure a sua sorella, ha 17 anni!

-          Certo, certo …Massiccio e incazzato, Kinney.  A che ora arriva Naty?

Il marito aveva ridacchiato, come sempre Justin lo aveva sgamato.

-          Un po’ prima, mi viene a dare una mano.

-          Ecco così mi pare già meglio. Brian?

-          Sì?

-          Hanno culo quei due ad avere un papà figo come te.

Brian aveva sorriso e non aveva risposto, ma aveva chiesto: - Dove te ne vai stasera, tu che fai il l'uomo libero e bello?"

Non c'era traccia di ironia o preoccupazione nella sua voce e infatti Justin non si era agitato e non aveva frainteso.

“Mi sto preparando, esco a cena con Mark e Sophia. Ci siamo incontrati alla fila per i taxi, pensa il caso. Erano appena rientrati da Menphis, così ci siamo messi d’accordo per passare la serata insieme. Ti salutano tanto”

Justin non aveva potuto non notare il guizzo sulla guancia di Brian.

“Ci sono solo loro - aveva puntualizzato dal momento che erano amici in comune con Ethan - non so neppure se Ethan sia a NY in questo periodo”

“E chi ha parlato del coglione?”

“Nessuno”

“Appunto. Dove andate?”

“Le Bernardin “

“Cazzo, il mio preferito. La prossima volta ci torniamo insieme”

“E senza figli! Buon cibo e marito, il mio ideale di serata. A proposito di marmocchi, mentre noi chiacchieriamo la piccola peste dov’è?”

“È appena entrata e sta cercando di scalarmi le gambe da sotto la scrivania. Vuole attenzioni adesso, la Little stronzetta, ma poco fa mi ha mandato a stendere, aveva da “impatare” con Naty, lei!” quindi Brian era scomparso dallo schermo, sicuramente si era piegato verso la bambina. “Vieni su! Guarda un po’ chi ti vuole salutare” infatti davanti al video erano ricomparsi insieme. “Ciao Susy” “Dove sei?” aveva chiesto allungando la manina verso il monitor “Sono a NY, ti ricordi che ti ho detto che dovevo andare via per lavoro?” “Tonni?” “Sì, domani sera torno. Ti stai divertendo con Brian?” “Sì, ciao” ed era scesa dalle gambe di Brian, lasciandolo con un palmo di naso. Il marito aveva ridacchiato “Non credo farà la diplomatica, da grande” Si era sentito tirare i pantaloni “Che c’è?” “Pendi baccio” aveva ordinato ed era tornata sulle gambe dalle quali era appena scesa; di slancio si era buttata sul pc, riempendo di bacini il monitor dal quale si stagliava il viso di Justin. “Tanto bene a Jutin” aveva commentato senza accorgersi di quanto il ragazzo preso alla sprovvista si fosse emozionato. Le aveva mandato tanti baci pure lui “anche io ti voglio tanto bene, Susan. Tantissimo” “Tanto così?” aveva chiesto lei, aprendo le braccina. “Di più, molto di più” e poi era scesa per andare a giocare, questa volta senza ripensamenti.

“Le smancerie fra te e tua figlia mi hanno smerdato il pc …” aveva commentato Brian, emozionato perfino più del marito “e comunque la prossima volta parto io se il risultato è questo”

Ritorna all'indice


Capitolo 55
*** TUONI ***


Quella notte, la prima che Brian e Susan avevano trascorso senza Justin, era scoppiato un temporale strepitoso, uno di quelli con pioggia a catinelle, caratterizzato soprattutto da una tempesta di fulmini e tuoni fragorosi. La reazione di Susan ai boati era stata sconvolgente. Brian era stato svegliato da un urlo terrorizzato, si era catapultato in cameretta e l’aveva trovata in lacrime, tremante con gli occhi sbarrati, il respiro affannato. Quando aveva allungato le braccia per prenderla, la piccina si era rintanata in un angolo del lettino, rinchiusa su se stessa, tremando come una foglia e sussultando vistosamente a ogni nuovo tuono. Il pianto esagerato di Susan aveva portato anche Gus in camera della sorella e aveva trovato il padre, con la piccola in braccio che cercava invano di calmarla. “Gus, cercami il ciuccio, per favore”
“Ma cos’ha?” aveva chiesto, cercando fra le coperte del lettino.
“Si è spaventata per il temporale.”
“Non è mica la prima volta che piove”
“No, ma sono i tuoni così forti. La terrorizzano”
“Susy, tesoro, va tutto bene. C’è Brian qui, sono solo tuoni, non fanno male” le diceva con una voce così dolce che a Gus si era mosso qualcosa dentro, anche a lui era stata riservata quand’era piccolo e se ne era reso conto solo in quel momento. Poi aveva preso il ciuccio dalle mani del figlio e dopo qualche tentativo Susan l’aveva accettato senza smettere del tutto di piangere, però il tremore si era un po’ attenuato. Un tuono assordante, esploso mentre la cullava, l’aveva fatta saltare fra le sue braccia, aveva urlato e Brian aveva avvertito il cuore impazzito della bambina battere contro il suo petto, poi fra i singhiozzi aveva sentito qualcosa che Susan non aveva mai detto in quei mesi: “Mamma” piangeva e chiamava mamma e a Brian si erano inumiditi gli occhi. L’aveva stretta più forte “Va tutto bene Susan, va tutto bene. C’è papà qui con te. C’è papà” e fanculo alla psicologia, mentre scientemente aveva usato quella parola. Si era messo a camminare avanti e indietro per la stanza, facendola quasi scomparire nel suo abbraccio, cullandola e sussurrandole parole tenere e rasserenanti nell’orecchio, pregando che il temporale smettesse. Susan si era appesa con le manine alla sua maglietta e la stringeva con forza a ogni nuovo tuono, il battito impazzito del cuoricino gli rimbombava nelle orecchie, non aveva mai visto un tale sconvolgimento in un piccolino. Piano piano la tormenta era passata e con il silenzio anche lei si era lentamente rilassata, il cuore normalizzato e il respiro meno sincopato. Ogni tanto un lamento umido usciva soffocato fra il petto e viso di Susan schiacciato contro di lui, un mamma sempre più fievole. Era sudata, si era chiesto se fosse il caso di cambiarla, ma aveva deciso di no, non voleva lasciare il contatto neppure un minuto adesso che la stava sentendo rilasciare la tensione. Quella era la notte delle eccezioni e se l’era portata nel lettone, tenendola stretta fino a quando non si era addormentata sulla sua pancia.
Quando, la sera successiva, l’aveva raccontato a Justin, da poco rientrato, l’aveva visto impallidire così forte che si era rallegrato del fatto che il marito non fosse stato presente. Lui si era quasi spaventato e vedere Susan in quello stato l’aveva fatto stare male, ma dalla reazione alle sue parole, temeva che Justin si sarebbe fatto prendere dal panico.
“Sappiamo dove cazzo era Susan quando è scoppiata la bomba?”
“Non ne ho idea Brian, non lo so. Ho sempre pensato da un’altra parte, perché non aveva neppure un graffio”
“Vorrei saperlo. Non è normale come ha reagito ai tuoni, anche se erano particolarmente fragorosi”
“Possiamo provare a chiedere, ma non sarà facile avere una risposta. Chiamava mamma?”
“Sì, fra i singhiozzi” aveva risposto, stringendo gli occhi a fessura. Quelle invocazioni facevano male solo al pensiero.
“Dio santo … e io che credevo non se la ricordasse neppure più”
“Anche io, e invece ce l’ha dentro e quanto è terrorizzata la cerca. Mi sono sentito morire, Jus …” aveva confessato. A Justin non era venuto in mente altro che alzarsi andare ad abbracciarlo forte da dietro, il marito aveva girato le braccia e gli aveva stretto le gambe, oltre lo schienale della sedia. “Dobbiamo parlarne alla psicologa, dobbiamo farci aiutare ad aiutarla” 

Ritorna all'indice


Capitolo 56
*** LAVORO DI SQUADRA ***


Vi lascio questo pezzo appena scritto, senza neppure rileggerlo, spero non ci siano castronerie e vi piaccia. Ciao

Justin si era attardato qualche minuto più del solito in cameretta di Susan. Le aveva risistemato il piumino, accarezzato i capelli e poi si era fermato a guardala. Brian l’aveva trovato così, in piedi davanti al lettino. “Sta bene Jus e starà meglio. Ora vieni a letto.” L’aveva portato via, prendendolo per mano, una volta sdraiati se l’era stretto a sé, il marito aveva apprezzato e si era messo comodo, stupito solo per un attimo quando aveva sentito le labbra accarezzargli il collo e il fiato spettinargli i capelli sulla nuca. Un’esitazione che Brian aveva colto “Sei stanco?” “Mai per te!” si era girato fra le sue braccia e gli aveva sfilato con foga la maglietta scollata a Vu che Brian usava per dormire. “Mi sei mancato” “Pure tu, Wharol”
La mattina seguente Susan si era svegliata di ottimo umore e perfino a un’ora decente, così erano riusciti a fare colazione insieme, prima che Brian andasse in ufficio e desse un passaggio a scuola a Gus. Gus che come al solito era in ritardo ed era arrivato in cucina, dopo numerosi richiami, vestito alla bene e meglio, la divisa che addosso a lui sembrava un casino, la cravatta mezza storta e la camicia ancora fuori dai pantaloni. “Santi numi Gus e impara a sembrare una persona civile una buona volta!” Si era alzato e gli aveva aggiustato il nodo della cravatta, poi con un gesto fra una carezza e uno spintone leggero l’aveva indotto a sedere sullo sgabello. “Mangia in fretta, che siamo in ritardo!”
“Susan, adesso è tutto coccole e moine, poi diventa così … io ti ho avvisato” aveva replicato scherzoso verso la sorella che finito il biberon si era fatta prendere in braccio da Justin e sbocconcellava una pera che il ragazzo le tagliuzzava in un piattino.
Aveva ingurgitato due biscotti e trangugiato la tazza di latte alla velocità della luce, Brian che era nell’altra stanza doveva avere i super poteri, perché senza vederlo aveva intimato: “Denti!” Gus nel balzare giù dallo sgabello aveva fatto cadere il contenitore di terracotta decorato da Justin che conteneva i biscotti. L’impatto era stato secco e rumoroso, poi il vaso si era disintegrato in mille pezzi, con schegge che si erano irradiate sul pavimento.
“Cristo Gus! E stai attento! Cosa cavolo hai cacciato per terra stavolta?” l’aveva sgridato il padre dando per scontato che fosse lui il responsabile del tonfo. Non aveva fatto in tempo a sentire la classica scusa di risposta, che il silenzio era stato rotto dall’urlo di Susan e dal suo pianto isterico. Era tornato in cucina in pochi passi: cocci, biscotti, briciole e Justin in piedi con Susan che si dimenava in lacrime.
“Cazzo papà, è colpa mia. E’ come l’altra sera”
Brian aveva tirato una pacca sulla spalla al figlio “Sei un cazzone e fai un casino indemoniato, ma questa – indicando con la testa la bambina e la sua reazione – non è colpa tua… magari lo fosse, sarebbe più facile. Vai a finire di preparati” e gli aveva accarezzato il viso, poi si era avvicinato al marito che con voce calma e tenera allo stesso tempo stava riportando a ragione Susan. Si erano scambiati uno sguardo “Tutto bene Brian, ci siamo solo un po’ spaventate, ma stiamo bene. Tu vai pure a prepararti, noi andiamo a prendere una boccata d’aria in giardino” Brian aveva annuito e li aveva seguiti con lo sguardo mentre Justin apriva con una mano la porta finestra e uscivano nell’aria frizzante del mattino. Come sempre una sorpresa, Justin non era affatto entrato nel panico, era rimasto calmo, concentrato e attento ed era riuscito a tranquillizzarla molto prima di quanto fosse riuscito a fare lui due notti prima. Era salito a in camera e si era ripromesso di parlare a Gus dei loro dubbi riguardo alle reazioni di Susan ai colpi forti e improvvisi, approfittando del tragitto verso la scuola.  Quando erano scesi, pronti per andare, Susan era di nuovo sorridente e gli era corsa in contro, lui l’aveva acchiappata per farla volare, come ormai era di routine prima di andare in ufficio. “Ciao amore, passa una bella giornata e fai la brava con Justin, ci vediamo stasera” “Sì, ciao Bian. Fai bavo anche tu” “Farò del mio meglio” e si era goduto un bacio umido sulla guancia, poi l’aveva rimessa a terra. Aveva allungato il collo per cercare le labbra del marito “Sei stato grande” Justin aveva sorriso, aveva ricambiato il bacio “Chiamo Danielle, sarà meglio affrontare la questione con lei. Tu quando potresti vederla?” “Quando può lei, il prima possibile. Io mi libero”
“Ok … e fai il bravo Brian” lo aveva salutato al modo di Susan.
La psicologa si era data disponibile per il pomeriggio successivo, avevano lasciato Susan da Jeniffer il tempo della seduta.
“Grazie Danielle di averci ricevuto subito”
“Figurarsi”
Si erano accomodati e le avevano raccontato nel dettaglio i due recenti episodi.
“Domani mattina riuscite a portarmi Susan?”
Justin aveva annuito immediatamente.
“La ferita invisibile di Susan ha iniziato a sanguinare. Me lo aspettavo, non sapevo come, ma ero certa che il trauma e lo stress patiti dovessero uscire allo scoperto, prima o poi. È un bene che sia successo quando era a casa con voi, nell’ambiente che sente più accogliente e suo e con le persone di riferimento per lei. Non dovete spaventarvi, avete affrontato bene l’emergenza e avete fatto, non bene, benissimo a chiamarmi subito. Riusciremo ad aiutarla, state tranquilli. Non stupitevi se nei prossimi tempi la bambina dovesse avere atteggiamenti ed episodi aggressivi anche nei vostri confronti o di Gus, è normale. Accoglieteli e conteneteli, senza farvi vedere turbati, passeranno prima.”
Avevano respirato forte, aspirando profondamente l’aria e si erano stretti la mano.
“Adesso parliamo de il “problema mamma” – si era interrotta un attimo e aveva portato l’attenzione su Justin. - Come ti senti? Come ti sei sentito dopo che Brian ti ha raccontato?”
“Sai che non lo so? Più che altro sono stupefatto. Ero convinto, anzi ero sicuro, che non ricordasse neppure più Daphne e invece … - la voce si era incrinata”
“E invece la ricorda. Non devi, non dovete pensare, a un ricordo come i nostri, come quelli degli adulti, è un ricordo inconscio, una sensazione. Dovremo lavoraci perché mamma è il luogo di protezione, cura e sicurezza, adesso per Susan è invece una miscela di sentimenti contrastanti, fra i quali anche il terrore e la rabbia. Un’esplosione e la mamma non l’ha mai più vista. Sparita. L’ha abbandonata. Il trauma peggiore per un bambino, peggio della bomba. È arrivato il momento di parlarle di Daphne e del perché se ne è andata, ovviamente con le parole giuste, con gli strumenti adeguati per la sua età. Vorrei che lo faceste con me, se ve la sentite. Non sarà facile e non sarà immediato, ma è un momento cruciale per la serenità e l’equilibrio futuro di Susan”
“Ce la sentiamo” avevano risposto in coro. “Sì, me la sento anche io” aveva confermato a se stesso, al marito e alla terapista Justin. 
“Justin, vorrei che pensassi anche a cosa significa per TE che Susan chiami mamma. Vorrei parlarne al prossimo incontro e vorrei vederti da solo”
“Ok” era stata la laconica risposta, quindi Danielle si era alzata per salutarli quando Brian aveva sparato senza preavviso. “Le ho detto che sono papà, che c’era papà con lei e non doveva avere paura. Spero di non aver fatto un casino” Questo particolare non l’aveva raccontato neppure a Justin e gli pesava sull’anima da tre giorni.
Danielle era tornata a sedere e li aveva invitati a fare altrettanto. “Il paziente dopo aspetterà qualche minuto …”
Erano usciti Brian con l’animo un po’ più sgombro - non aveva combinato il danno che temeva - Justin con un magone trattenuto a stento e le immagini di Daphne che gli rincorrevano il cuore, ma decisi come non mai a venirne fuori insieme alla loro bambina.
Quel che non erano stati capaci di fare gli urli e le sgridate di Brian era riuscito in un lampo a Susan e alla sua paura: Gus stava finalmente attento a non fare sbattere le porte, a non produrre rumori forti improvvisi. Brian lo guardava accompagnare la porta, appoggiare per terra con calma la cartella che pesava 200 kg invece di lanciarla come un discobolo e provava un orgoglio profondo, un amore grato e adulto per quel figlio che era capace di gesti e di cambiamenti repentini per aiutare una sorella capitata, inaspettata, nella sua vita.
Il tran tran era ricominciato con l’alternanza Britin e casa famiglia, era sempre difficile riportarla là, ma le giornate senza la bimba li aiutavano a fare ordine nei loro pensieri e a fare spazio definitivo alla nuova vita. Danielle li stava aiutando molto, a volte le sedute erano insieme, a volte separate e Justin stava elaborando fino in fondo il lutto e il suo senso di colpa nell’essere felice di avere Susan anche se questo significa aver perso Daphne. Non c’era correlazione fra i due sentimenti, il dolore per l’amica e la gioia per questa figlia donata, il cervello lo sapeva da tempo, il cuore ci stava facendo i conti adesso, grazie a una bambina che non aveva dimenticato l’odore della sua mamma. Non avevano più parlato dell’infausta decisione di Justin di tenere Susan lasciando all’oscuro Brian, non avevano più affrontato il tradimento che aveva patito. Questo era ciò su cui stava lavorando Brian, toccava a lui, non poteva aspettarsi che lo facesse Justin e Danielle lo stava mettendo davanti al suo rimosso.
E così una sera che erano soli, ma soli veramente Gus era a Toronto dalle mamme, gli era uscita una domanda fuori contesto e senza preamboli:
“Lo erano proprio tutte?”
Justin, che stava trafficando con le regolazioni del forno, non si era girato alle parole, ma al tono.
“Che cosa Brian?”
“Erano tutte menzogne, solamente menzogne quelle che mi raccontavi quando partivi?”
Si era slacciato il grembiule che era unto, l’aveva lasciato in bilico sul sgabello ed era andato davanti al marito che lo fissava appoggiato allo stipite dell’arco che separa la cucina dal tinello. Per una volta erano state le labbra di Justin a baciare i capelli di Brian, mentre lo stingeva a sé e gli incorniciava il viso fra le mani.
“No, amore mio, no. C’era anche lavoro, non sempre e non solo, ma c’era. Più che altro allungavo le trasferte e i giorni in più li passavo con Susan. È così Brian, non ti sto nascondendo nulla, non più. La follia è che allora non mi sembrava neppure di mentirti, ma di proteggerti. Non volevo ingannarti, non ho mai voluto ingannarti nella nostra vita.”
Brian aveva scrollato le spalle, gli aveva spostato un palmo dal viso e aveva intrecciato le dita a quelle del marito, poi aveva piegato la testa e si era appoggiato alla spalla, più bassa, del compagno. Con la mano libera Justin gli aveva accarezzato la nuca ed erano rimasti in silenzio.  
Danielle diceva che doveva tirare fuori la rabbia, ma lui non la trovava, quando ci pensava trovava solo tristezza e freddo e senso di vuoto, che neppure la presenza di Justin riusciva a riempire.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 57
*** FUMETTI ***


“Passo io a recuperare Susan, stasera. Devo ricordarmi di prendere qualcosa oltre al dannato pupazzetto?”
“No, ha tutto qui. Prendi lei e il dannato pupazzetto” aveva risposto ridacchiando.
Era venerdì e fino a mercoledì mattina avrebbero avuto la loro bambina a casa. Forse Danielle aveva ragione, qualcosa si stava muovendo, i giorni in cui stava a Britin erano sempre di più, non poteva essere un caso, ma non voleva pensarci. Era senza dubbio un bene, i consigli e gli atteggiamenti studiati con la psicologa stavano dando i loro frutti: Susan era più tranquilla, non sobbalzava più a ogni rumore forte, da almeno due settimane non aveva più avuto attacchi di terrore e pianto irrefrenabile. Avevano iniziato a parlarle di Daphne grazie a un fumetto che Justin aveva disegnato apposta per lei, erano tutti rappresentati come bambini senza età allegri e paffutelli: c’erano loro, Gus, le nonne gli zii, c’era lei e c’era Daphne, la sua mamma, che a un certo punto era partita. Le erano spuntate le ali ed era volata sopra una nuvoletta pannosa e morbida, osservava tutto dall’alto, le mandava bacini, la guardava sorridendo e parlava in una lingua strana, che però Brian e Justin capivano benissimo, di lei. Loro le raccontavano della sua bambina, le chiedevano consiglio. Susan si era convinta che da grande avrebbe imparato anche lei quella lingua. Il ragazzo le aveva risposto che già la conosceva, un giorno l’avrebbe capita.
Molte delle storie che Justin disegnava e le leggeva insieme a Brian erano studiate insieme a Danielle e piano piano, questa mamma scomparsa era rientrata un po’ più scientemente nella vita della piccola. Le aveva chiesto scusa, le aveva detto che la capiva se era un po’ arrabbiata, che non era stata colpa sua, che purtroppo era dovuta andare, ma le voleva bene, le avrebbe sempre voluto bene. La prima volta che Brian aveva visto i disegni si era commosso. Adesso una copia, plastificata, era in camera di Susan, in una libreria alla sua altezza, la piccina la prendeva anche da sola, la sfogliava e si “raccontava” a modo suo, con parole incerte, la storia di mamma e Susy.
Il freddo acuto era passato, l’enorme giardino di casa si stava risvegliando e Justin era impegnato a decidere dove nascondere le uova per la tradizionale caccia pasquale. Erano anni che a Britin non si faceva più, da quando Gus era diventato troppo grande per appassionarsi ancora, ma adesso c’era Susan e sarebbe stata a casa per tutte le vacanze, ben dieci giorni di fila. “Lì è troppo a fanculo” “Dici?” Brian aveva annuito, Justin si era guardato intorno per concludere: “Si, va beh, se do retta a te, le nascondiamo le uova fra i fiori nell’aiuola davanti alla finestra della cucina.”
“Eh – aveva assentito, muovendo il capo – perché no? È piccola e noi non ci sbattiamo troppo, tanto crescerà e dovremo essere più meticolosi, ne avrai di tempo per fare il nasconditore professionista”
Lo stava prendendo per il culo, ma un fondo di verità c’era. “Ok, ok – si era arreso -  circoscrivo l’area, fino al barbecue al massimo. Che ne dici?”
L’aveva abbracciato. “Benissimo e tranquillo hai un parco dove sbizzarrirti negli anni a venire” “Ma la pianti di fare il fenomeno come se a te non interessasse? Che poi sarai il primo a divertirti come un pazzo con Susy durante la ricerca, me le ricordo sai le risate quando toccava a Gus?”
“Sì, povero – aveva sorriso anche lui al ricordo – che sfigato: le prime ricerche gli sono toccate al loft. E prima - che palle -  nascondere, quelli sì a prova di bambino, i nostri di giochi …” A quella postilla così tipica di Brian si era girato, ridendo rumorosamente. “Sei sempre un adorabile coglione”
Quella notte, avvolto dalla solita magia si era trovato a riconoscere il suo corpo sotto le mani di Brian, leccato, succhiato e baciato, ma in lampo era lui, di nuovo, a gambe aperte. Il gesto semplice e fluido con il quale l’aveva girato e si era sottratto alle cure e a una posizione che poteva implicare altro, non lasciava dubbi alla naturalezza del modo in cui il marito lo stava amando. Lo amava anche lui, adesso più che mai, ma gli era scappato un silenzioso - già - mentre assecondava il movimento, si sistemava e alzava le ginocchia divaricando le cosce. 
Baci umidi, dita esperte e labbra su labbra, non avevano impedito a Brian di intuire qualcosa. “Tutto ok, Jus?” gli aveva respirato in bocca.
Le dita nei capelli, una leggera strattonata: “Tutto bene, non ti fermare, per dio” ed era vero. Erano insieme, si amavano, nelle stanze a fianco dormivano i loro figli. Schiacciato da un peso conosciuto e adorato, si era mosso appena, quel tanto che gli serviva per guardare il viso del marito stravolto dall’orgasmo. L’ebrezza di quel volto sfigurato dal piacere e poi esausto per causa sua era ancora la cosa più bella che gli capitasse di ammirare. Gli aveva scostato una ciocca umida di sudore e aveva sorriso.
“Non pensare di abbagliarmi, Sunshine. Non mi sono fermato, ma ora sputi il rospo”
Justin aveva scrollato piano la testa, socchiuso gli occhi. Stava bene, la mente era vuota, di una libera assenza che faceva volare il cuore. “Ssshhh” aveva risposto, aveva tirato Brian ad aderire meglio sul suo petto e aveva infilato il viso nella morbida curva del collo.
“Niente più silenzi e omissioni, ricordi?”
La realtà che Brian cercava di imporre gli sembrava una violenza, non voleva parlare, non voleva pensare e soprattutto voleva godersi la pelle che si raffreddava, il solletico del fiato sulla nuca che accarezzava i capelli. Non voleva costringere Brian a una presa di coscienza che l’avrebbe ferito, ma che nessuno poteva modificare, neppure lui stesso. Potevano sperare solo nel tempo e nella ritrovata intima fiducia.
“Justin, per favore”
Non era consapevole, ma era preoccupato e a questo Justin non poteva sottrarsi. Per quanto nelle sue possibilità, in ansia per colpa sua, non lo sarebbe stato più.
“Non è niente. Sul serio, solo un pensiero stupido”
“Che ti fa fare una smorfia mentre facciamo l’amore?”
“Non ho fatto nessuna smorfia, non fare il fanatico. O forse vuoi sentirti dire quanto sei stato fantastico?” aveva cercato di metterla sullo scherzo, ma Brian non aveva riso e lo fissava[F1] .
E va bene, sto cavolo di commento gli era scappato, ma erano settimane, per non dire mesi che il pensiero lo attraversava senza prendere voce ogni volta che Brian senza nemmeno provare a capire cosa desiderasse lui, dava per scontato che volesse stare sotto. Forse era il caso di parlarne, aveva annuito e preso un respiro. “Come al solito mi hai scopato tu” Brian si era tirato su sulle braccia, i palmi aperti al lato del viso di Justin che era rimasto sdraiato sulla schiena, la testa sbieca sul cuscino. “Eh?” aveva detto stringendo gli occhi come faceva quando non capiva oppure quel che sentiva gli pareva una stronzata. “Il tuo culo è di nuovo inviolabile, te ne sei reso conto o no? No, come immaginavo”
Era stato il turno di Brian di fare una smorfia. Si era lasciato andare sul petto del marito. “No – aveva confessato – non me ne ero reso conto. Mesi di sesso di merda, quindi”
Justin aveva iniziato a passargli le mani sulla schiena, lo accarezzava e scendeva indolente fino alle natiche. “Non dire idiozie. Adoro da sempre fare l’amore con te, adoro il tuo cazzo dentro di me e non saprei fare a meno della tua pelle, delle tue mani e della tua bocca. Invece so fare a meno del tuo culo, non è mica la prima volta che me lo fai, sai?”
“Perché non me l’hai detto? Non volevo farti stare male e non voglio che ti reprimi. Non so perché ho fatto così”
“Ma io non sono stato male, sono stato sempre bene e no, il culo non te lo chiedo, perché quando sei sereno me lo dai tu. E’ per quello che ho fatto la smorfia, perché non sei in pace, ma non credo possiamo farci niente, né tu né io, se non aspettare”
“Di cosa diavolo parli? Che cazzo dobbiamo aspettare?”
“Che ti fidi di nuovo, veramente, di me e del mio amore” era stata la lapidaria, onesta e cruda risposta.
“Mi fido di te”
“Con la testa, non con il cuore e quindi non con il culo. Ci hai messo sei mesi dopo Ethan e anche all’ora non te ne sei reso conto, ma io sì. Quando ti ho conosciuto manco ipotizzavo che un giorno avrei potuto possederti e invece sei stato tu a invitarmi, a un certo punto. Me lo ricordo bene, mi è esploso il cuore nel petto, quella notte. Brian Kinney era mio, voleva essere mio. Tornerai a fidarti, lo so e faremo l’amore anche in quel modo, ma ora spostati un po’ che non riesco a respirare”
Si era scostato ma aveva lasciato il braccio abbandonato sul torace del marito, il viso sul materasso rivolto verso di lui. “Guarda che ti amo …” “Lo so, anche io. Solo che ti ho ferito e le ferite ci mettono un po’ a guarire.”

Ritorna all'indice


Capitolo 58
*** UOVI ***


La caccia al tesoro era stata mitica, Susan aveva riso così tanto che aveva contagiato tutti, compresi JR, le nonne e gli zii che erano stati invitati per il pranzo pasquale.
Come previsto Brian aveva giocato come un pazzo, facendo opera di depistaggio per renderle la vita più difficile e la ricerca più lunga, quando stava per trovare un uovo la distraeva e la dirottava e quando poi lei tornava sui suoi passi per scoprire che c’era andata molto vicina anche in precedenza, lo guardava storto e scoppiava a ridere. “Sei una pinola!” le diceva il padre e ricominciavano ognuno impegnato nel suo ruolo, lei della cercatrice e lui del disturbatore. Justin era il tesoriere, teneva un cestino dove venivano depositate le uova trovate, piccole, grandi, di cioccolata, di zucchero, alle mandorle. Gus e JR facevano finta di rubarle, ma Justin le difendeva eroicamente guadagnandosi gli sguardi fieri di Susan.
“Quando pensano di dare una risposta definitiva sti giudici del cazzo?” Debbie si era avvicinata ed era entrata in argomento senza giri di parole. Osservava Justin che osservava marito, Gus e JR che facevano i matti nel giardino. Il resto della truppa era sparpagliato qua e là, chi spiluccava, chi beveva qualcosa. Guardavano la caccia al tesoro e chiacchieravano, Justin no, era ipnotizzato dai ricciolini marroni e dalla risata squillante di Susan, che sembrava sprizzare gioia da ogni poro.
“Non lo so Debbie, non lo so, Patterson dice abbastanza presto e pensa che andrà bene. Io sono terrorizzato. Brian sostiene che non devo neppure pensare che non lascino a noi e quanto mi becca mi cazzia. Io so solo che non credo che ce la faremo se ce la portano via”
La donna aveva appoggiato il capo sulla sua spalla “Non succederà Sunshine, lo sanno tutti che Brian ha sempre ragione, no?!”
Durante il pranzo Susan era praticamente crollata addormentata con la faccia nel piatto. Brian aveva estratto il cellulare, veloce come un lampo e aveva immortalato la scena. Il capino appoggiato sul tavolo, le braccia lungo il piatto e un’espressione serena e soddisfatta sul viso rilassato. Justin si era alzato e l’aveva presa delicatamente in braccio “la porto sopra a letto, torno subito” e nell’allontanarsi aveva mandato un bacio al volo al marito. Quando faceva queste cose, come fotografare la bambina per avere ricordi di momenti teneri, buffi, comunque loro, sentiva di amarlo, non di più, era impossibile, ma in modo nuovo.
Nel pomeriggio aveva dormito meno delle due ore che solitamente si sparava, era troppo eccitata, dalla confusione in casa, dalle uova, dai giochi che aveva trovato dentro, infatti le prime parole che aveva detto a Justin quando era andato a tirarla su al risveglio erano state: ”Volo uovi”
E uovi erano stati, senza ritegno, per una volta sia Justin che Brian erano d’accordo a non frenarla, aveva mangiato tanti di quei dolciumi e cioccolata che sarebbero bastati per un mese. Era felice, sporca e appiccicosa, saltava, rideva e parlava a raffica con tutti, anche da sola mentre si baloccava con qualche nuovo gioco.  Il braccio di Brian sulla spalla era leggero, la mano di Justin nella tasca retro dei jeans a strizzargli un po’ la chiappa sapeva di casa e di amore. “Come fate a essere sempre più belli?” era stata l’esclamazione di Emm mentre li immortalava, in un lampo di flash. “Più belli? Impossibile, siamo sempre stati inarrivabili”
“È la vita da padre di famiglia, Brian” l’aveva schernito Linds
“Se non stai attento vincerai il premio per il padre dell’anno” aveva riso soffocandosi con un sorso di limonata, Ted.
“Te lo ricordi l’aumento che hai chiesto? Scordatelo”
Verso le diciotto Gus aveva salutato l’allegra compagnia per andare al cinema, JR aveva piantato un po’ il muso quando non l’aveva portata con sé, ma il film non era adatto alla sua età.
“Gus è grande, Jr, esce con i suoi amici e non può portarti sempre dietro, su, non fare la rompi” cercava di rabbonirla Mel.
“Sempre? Mai vorrai dire, doveva tornare a Toronto dopo un anno ed è ancora qua, quando scendo a Pittsburgh potrebbe considerarmi un po’ di più - aveva piagnucolato. - Adesso poi c’è Susan, figurati non mi cagherà più per niente”
“C’è aria di gelosia… Good luck” era stato il commento stronzetto che Brian aveva ridacchiato alla volta di Linds, mentre Justin stava intervenendo in soccorso di Mel.
Di lì a poco, alla spicciolata erano andati via tutti e Justin aveva preso Susan per lavarla. “Ehi Topolina che ne dici di un bel tuffo nella vasca?”
“Faccimo bolle?”
“Certo facciamo le bolle”
“Jus, ma secondo te stasera cena, con tutte le schifezze che ha mangiato?”
“Io le farei un biberon di latte e a nanna presto, è stravolta”
“Buona idea, tu disinfestala che io lo preparo. Noi ci chiamiamo una pizza?”
Susan si era addormentata sulla poltrona appena deglutito l’ultimo sorso di biberon, se ne erano accorti perché le era caduto dalle manine, rimbalzando sul pavimento. Justin l’aveva messa già in pigiama dopo il bagno, per cui non c’era stato altro da fare che portarla nel lettino. Due bottiglie di birra da bere a canna e una sola pizza da dividersi, non avevano molta fame neppure loro e presto le maglie erano volate via. Mentre raccoglieva gli indumenti, risalendo in camera, Brian aveva convenuto che avevano culo, Susan era piccola, ma molto regolare e quindi non invadeva ogni spazio di intimità. “Anche perché se voglio molestarti devo aspettare che dorma, se no mi mena” aveva concluso ridendo e spingendo il marito sul letto.
“Che fai?”
“Niente, dormi”
Si era alzato e gli aveva sfilato la sigaretta dalle dita, dando un tiro.
“È in ritardo”
Solo a quel punto si era voltato a guardare l’ora sulla sveglia del comodino: mezzanotte passata.
“Starà per arrivare”
“Non è per questo, non sono preoccupato: mi fa incazzare. Se diciamo entro mezzanotte a casa, così deve essere”
“Magari ha avuto un contrattempo, dai non è incosciente, né disubbidiente di solito”
“Se hai un contrattempo avverti, no?” neppure il tempo di dirlo che il cellulare, silenzioso, si era illuminato “Sono in stazione, ho perso il treno, il prossimo parte fra mezz’ora. Non l’ho fatto apposta, non ti incazzare”
“Sei solo?”
“Sì …”
“Chiama un taxi, coglione”  
“Ha perso il treno, torna in taxi, scendo che quanto arriva devo pagare la corsa e portarlo dentro. Aveva la voce di uno che ha bevuto. Deficiente!”
“Urca! Bevuto tanto?”
“Voce impastata, ma ancora abbastanza lucido da dirmi di non incazzarmi …”
“E tu? Sei incazzato?”
“Un po’, ma non so se posso permettermelo, con tutte le sbronze che mi sono preso io …”
“Vado a preparare del caffè, io adesso non mi metterei a discutere, aspetta domani, se mai”
Aveva acceso la luce e si era infilato le braghe mentre Brian entrava in bagno, lo aveva seguito e da dietro, mentre il marito pisciava gli aveva detto: “Puoi permettertelo, secondo me puoi permettertelo eccome. Non avrebbero neppure dovuto venderglieli gli alcolici ”
Nel giro di venti minuti il rumore di pneumatici sulla ghiaia del viale aveva rotto il silenzio. Brian era uscito, aveva pagato, ringraziato il taxista e tirato fuori dall’abitacolo il figlio abbandonato in un sonno etilico.  “Gus, sveglia! Coraggio figliolo, andiamo dentro.”
Gus si era tirato in piedi, stropicciato gli occhi e lo guardava con occhi leggermente liquidi.
“Ho bevuto…” aveva confessato senza pudore. L’aveva accompagnato dentro, sorreggendone i passi incerti. “Vedi di non vomitarmi addosso e vieni in cucina a bere un caffè, idiota!”  Poi gli aveva sostenuto il capo mentre rimetteva anche la prima comunione e infine gli aveva sfilato le scarpe, tolto il jeans e messo sotto le coperte.
“Lascia stare, ci penso io” ma Justin stava già pulendo. “Do solo una botta, domani finisce Naty. Come sta?” “Dorme”
“La prima sbronza, è un po’ un rito di passaggio” aveva cercato di alleggerire la tensione sul viso di Brian.
“Sbronzo, da solo in una stazione, ti rendi conto sto coglione? E se fosse inciampato e caduto sui binari? Se l’avessero aggredito? Io non lo faccio più uscire la sera, sto cretino!”
“Però ha chiamato te, non si è accasciato su una panca, non ha fatto il deficiente era in difficoltà e ha chiamato suo padre, anche se sapeva che l’avrebbe scontata. Un coglioncello di quasi diciotto anni, che si fida di te, più di quanto noi ci siamo mai fidati di nostro padre. Sgridalo, mettilo in punizione, ma non esagerare”

Ritorna all'indice


Capitolo 59
*** POST SBORNIA ***


Gus aveva tirato una lunga ronfata, la sbornia era lenta da smaltire, soprattutto per uno non abituato. Brian cazzeggiava facendo finta di leggere il giornale, navigando su internet e borbottando fra sè e sé. Susan doveva aver intuito che non era aria, perché non gli girava in torno come un piccolo satellite, cosa che faceva sempre quando Brian era a casa. Si era voluta far cambiare da lui, ma una volta vestita si era dedicata ai suoi giochi e “iutava Jutin” a dipingere. L’aveva portata con sé nel suo ampio studio, le aveva spiegato sul pavimento due enormi fogli di carta e le aveva aperto i barattoli di colori per mani, così lei lo iutava mentre lui si dedicava a un suo lavoro. Avevano sentito appena i passi strascicati di Gus scendere le scale in direzione cucina, la bimba si era catapultata verso la porta, attirata come una calamita. “Gus non sta bene, lasciamolo svegliare con calma… poi scendiamo” L’aveva presa in braccio prima di chiederle “Cosa hai disegnato qui? Fammi un po’ vedere” Susan si era lanciata in una lunga, precisa e non del tutto comprensibile descrizione del suo disegno, che visto con i suoi occhi cessava di essere una macchia informe colorata e diventava l’auto di Jutin e Bian. “Guadda qui, c’è sigiolino Susy” tutta contenta aveva indicato un puntino rosso e Justin non aveva resistito a strizzarla fra le braccia e darle una raffica di bacini che poi erano scesi sul collo a farle il solletico, facendola inarcare, gettare la testa all’indietro e ridere a bocca spalancata, mentre ripeteva “Ancoa!”   E quindi ancora bacini e soffi sul collo per scendere sul pancino e farla ridere ancora più forte.
Nel mentre Brian aveva raggiunto il figlio, gli si era seduto davanti e si era versato anche lui una tazza di caffè. “Bevilo nero, anche se non ti piace, è meglio” poi si era grattato la testa e aveva sorseggiato dalla tazza. “Mi fa male la testa – aveva mugolato il ragazzo – e mi sento lo stomaco nel cervello”
“Sempre che tu ce l’abbia un cervello”
Gus aveva stretto gli occhi a fessura, incassato e apprezzato il fatto che il padre usasse un tono basso e tranquillo che non feriva ulteriormente timpani e testa, pronta a scoppiare.
“Prendile” con un gesto del capo aveva indicato due pillole che aveva lasciato vicino al posto apparecchiato per il figlio.
Gus le aveva buttate giù veloce con un sorso di caffè senza andare oltre.
“Coraggio, anche se ti fa schifo bevilo e cerca anche di mangiare qualcosa. Meglio se salato, la cosa che per me funzionava meglio era il Parmigiano. Ho iniziato a comprarlo per il dopo sbronza, adesso se non c’è in frigo qui in casa diamo di matto, tanto ci piace. Fidati, però, un tocca sana contro lo sconvolgimento post alcool”
Gus si era sforzato e aveva sbocconcellato un pezzetto di formaggio italiano “Mamma dice che lo usava per le nausee in gravidanza” Brian aveva sorriso “Vero, gliel’avevo fatto arrivare apposta da Modena, lei provava con il Parmesan che oltre a non funzionare avevo paura intossicasse lei e pure te”
Gus aveva buttato giù ancora due sorsi di liquido nero, trattenendo una smorfia di disgusto.
“E’ sempre così orribile, dopo?”
“Bene non si sta … Lo sai che sei nella merda, vero?”
Il figlio aveva annuito rassegnato.
“Xbox spenta per un mese e mi ridai immediatamente le chiavi dell’auto. Menomale che ieri non l’avevi presa”
“Per quanto sono appiedato?”
“Non lo so ancora, per ora ridammele”
Si era alzato a fatica ed era andato in entrata dove lasciavano le chiavi dei mezzi, gli aveva depositato il mazzo sul palmo aperto senza una protesta, cosa che il padre aveva apprezzato.
“Comunque non mi sarei messo al volante …”
“Lo voglio sperare! Bene, adesso che abbiamo risolto questa faccenda, ti va di dirmi che cazzo avevi in testa ieri sera? E soprattutto come cazzo ti sei procurato da bere?”
Gus si era massaggiato il collo prima di rispondere “Kevin”
“E chi cazzo è sto Kevin? Mai sentito”
“Il fratello di Phil, ha 21 anni, a lui vendono quel che gli pare”
“Bene, abbiamo capito chi è lo spacciatore, però Gus non avrei creduto che tu cercassi chi ti dava alcool. No, proprio no”
“Non cercavo alcool papà, ma non ho potuto dire di no, avrei fatto la figura del bambinetto e lei mi piace un casino, me la sogno tutte le notti”
A quel punto Brian aveva sgranato gli occhi e una ruga aveva diviso la fronte: “Quindi, fammi capire, ti sei sbronzato perché hai voglia di figa?”
“Cristo papà …”
“Ho capito male?”
Gus era rimasto in silenzio.
“Ho capito male?” aveva ripetuto.
“No - aveva ammesso scrollando sconsolato la testa – solo che Pinny piace anche a quel coglione del fratello di Phil e fa sempre di tutto per farmi sembrare un poppante, quando c’è anche lei”
“Pinny, Gesù Gus, sembra il nome di un barboncino. E pensi che sta ragazzetta te la dia se ti ubriachi?”
Ecco, bravo papà, hai colto il punto, aveva pensato.
“Non è una ragazzetta, ha 22 anni, va all’Università e secondo me un po’ le piaccio così quel coglione mi ha sfidato a una gara di shottini, lo capisci che non potevo tirarmi indietro?”
“E come non capirti. Hai dimostrato di essere un figo, chi non cadrebbe ai piedi di una personalità così forte e non manipolabile? Continua così Gus che la conquisti sicuro.”
“Non mi prendere per il culo, per favore…”
“Io capisco che hai fatto la figura del deficiente e non credo ti abbia avvicinato di più alle sue mutande. Certo hai fatto cascare i coglioni a me.”
Gus si era ribellato “Mi ha messo con le spalle al muro, lo capisci, cazzo!?”
“Ma non dire stronzate, al muro ti ci sei messo da solo perché non hai avuto abbastanza palle da essere te stesso. Ti sei messo a rischio e hai fatto qualcosa che sapevi non dover fare per una scopata. Spero non te l’abbia data: non te la meriti.”
Gus aveva grugnito “No, non me l’ha data, contento?”
“Abbastanza anche perché dubito ti sarebbe venuto duro, con tutto l’alcool che avevi in corpo”
“Vado a farmi una doccia, se permetti” aveva cercato di svicolare Gus, piuttosto offeso.
“Vai e dopo ributtati a letto, dormi ancora qualche ora, poi starai meglio sul serio. Di sta cazzata, comunque, ne riparliamo a mente fredda”  
“E basta papà, non ho mica ammazzato nessuno”
“No, per fortuna nemmeno te stesso … Taci e fila su”

Ritorna all'indice


Capitolo 60
*** TESTA O CUORE? ***


Buon Natale a tutti!!! 

In quel mentre era entrato Justin che aveva salutato Gus a voce forzatamente alta, provocando una smorfia di dolore al ragazzo.
“Brutto eh?”
“Cavolo Justin, non urlare”
“Mi pare che tuo padre sia stato fin troppo gentile, voce bassa, accudente, ma il resto del mondo se ne fotte del tuo mal di testa, credi che il prof a lezione parli piano perché tu la sera prima ti sei sbronzato?  E fidati, se lo rifai un’altra volta, magari quando il giorno dopo c’è scuola, tu ci vai a calci nel culo, altro che vai ancora a dormire qualche ora!”
Brian se l’era ghignata sotto i baffi, Justin quando voleva sapeva essere più carogna di lui.
“Dov’è la piccola peste? Sono così spaventoso che mi sta alla larga?”
“Nel mio studio, sta dipingendo, è sporca da fare schifo, prima di uscire dobbiamo fare un giro nella vasca. Spaventoso no, incazzato sì e nel dubbio la furbacchiona ti evita. Ha già capito come gira il fumo in questa casa” 
“Il verdetto? Così mi allineo”
“Niente Xbox per un mese e mi sono fatto ridare chiavi auto”
“Anche la macchina per un mese?”
“Non lo so, non gli ho ancora detto niente, che ne dici di un anno? Se si mette alla guida ubriaco, perché pensa che scoperà più facilmente …”
“Non dire cazzate e decidi per quanto, lasciarlo appeso non mi pare giusto”
“Vado a spaventare la piccola” si era voltato ridendo ed era uscito dalla cucina.
“Lavala!” gli aveva urlato dietro il marito.
Si era affacciato alla camera del figlio con Susan in braccio, appena uscita dalla vasca e avvolta in un asciugamano gigante, come piaceva a lei. Gus era sveglio, disteso a letto con un braccio sotto la testa. “Come va?” “Meglio” “Sono contento. Un mese, un mese anche l’auto. Justin dice che non si lasciano i condannati in attesa di sentenza, ringrazialo. A me non sarebbe dispiaciuto torturarti un pochino”
Gus aveva riso, di rimando al sorriso paterno.   
“Noi usciamo, tu rimani a casa?”
“Sì, fra un po’ mi alzo, ma sono ancora scombussolato. Mi guarderò un film”
 
Per una volta aveva accettato di buon grado che fosse solo lui a riportare Susan. Non gli era andato incontro sentendolo tornare, era rimasto in sala davanti alla TV. Lo aveva raggiunto e lui aveva abbassato il volume, senza spegnere lo schermo.
“È andata meglio di quanto sperassi, dopo tutti questi giorni insieme ero seriamente preoccupato che si sarebbe disperata, invece ha solo mugugnato e poi è filata a giocare nel salone, con gli altri bambini. Forse si sta abituando a questo tran tran”
“Proprio vero che l’essere umano si abitua a qualunque merda”
“Non tu, però”
Brian aveva scrollato le spalle e alzato nuovamente il volume. 
Decisamente era di cattivo umore e non aveva voglia di parlare, così l’aveva lasciato solo e se ne era andato a correggere l’ultimo capitolo della tesi che uno studente gli aveva mandato quella mattina via email.
Era stato Brian il primo a salire in camera, dopo cena, lui aveva lavorato ancora un po’. La luce era spenta quando si era infilato in bagno, cercando di non fare rumore, pensando che dormisse già, invece era stato catturato in un abbraccio appena steso sul materasso e poi il marito si era dedicato a un pompino pieno di fantasia e di passione, era da un po’ che non glielo prendeva in bocca con questa foga.  Che l’umore nero fosse passato? Si era rilassato e se l’era goduto, fino in fondo, così come in fondo e fino all’ultima goccia se l’era preso Brian. Poi l’aveva freddato, a tradimento.
"Va bene così? Ti aggrada? Sono abbastanza disponibile e fiducioso?"
“Cristo Brian, smettila” lo aveva spintonato via e aveva fatto per alzarsi dal letto, ma non ci era riuscito perché Brian l’aveva tirato giù strattonandolo. “No, non la smetto. Danielle dice sempre che devo parlare, manifestarmi e allora adesso, porca puttana, parliamo visto che non sappiamo neppure più scopare in modo soddisfacente”
Un ringhio.
“Questo non è parlare, questa è una rissa.”
“Eh caro mio, so parlare così, non riesco a farne a meno, come tu non hai potuto fare a meno di piantarmelo nel culo a tradimento. Sarà per questo che adesso non ne ho più voglia?”
“Certo che è per quello, solo che non ci posso fare niente. Ti ho chiesto scusa, lo farò ogni volta che sarà necessario, ma non sono disponibile per un massacro. Ti calmi e parliamo, se no io vado a dormire nell’altra stanza e quando saremo capaci affronteremo la questione, che non è certo quella di non saper più scopare.”
“Ah no? Non sei tu quello insoddisfatto a letto? O forse hai già trovato qualcuno che te lo dà il culo?”
Lo spintone carico di rabbia l’aveva fatto cadere di schiena sul materasso, il cuscino piegato invece di attutire la caduta, gli aveva colpito duro i reni, soffocandogli il respiro. La voce non era mancata, invece, a Justin: “VAFFANCULO Brian, vaffanculo. Stronzate, questa è una stronzata e la stai usando per ferirmi e ferirti. Il sesso fra noi è fantastico e tu lo sai. La testa è in merda, ma fa più paura parlare di questo. Solo che è quello di cui dobbiamo parlare, non scannarci su cose inesistenti.”
Si era alzato e stava infilandosi i pantaloni del pigiama, quando se l’era trovato nudo, incazzato come un puma davanti. Lo aveva strattonato per le braccia e gli aveva urlato in faccia:
“Io vorrei capire cosa cazzo ho fatto! In cosa ho mancato sta volta? Cosa non ti ho dato, a questo giro, per meritarmi il tuo silenzio e le tue menzogne?”
Gli aveva lasciato le braccia, dopo averlo sollevato di qualche centimetro e fatto ricadere di peso. Justin si era massaggiato gli avambracci dove c’erano i segni della presa di Brian e si era seduto sulla sponda del letto. “Sì, di questo dobbiamo parlare”
“Solo che adesso mi è passata la voglia. Vaffanculo, vado io a dormire nell’altra stanza”
“No, no. Non ci pensare neppure” l’aveva inseguito nel corridoio. “Brian fermati e girati. Non fare il bambino, cazzo!”
“Perché? Te ne prendi cura così bene da solo dei bambini. Sei nel tuo no?”
“SMETTILA DI FARE LO STRONZO!”
Justin aveva urlato così forte da svegliare Gus, che era comparso sulla porta di camera sua trovandosi davanti uno spettacolo tragicomico. Suo padre nudo in mezzo al corridoio che guardava furente un Justin altrettanto incazzato e coperto solo dalle braghe del pigiama. Aveva fatto una faccia come dire “sticazzi” ed era prudentemente rientrato in camera, borbottando “ha ragione mamma Mel: checche isteriche” e se ne era tornato a letto.
“Lo stronzo questa volta sei tu, caro biondino, senza ombra di dubbio, quindi ripeto: vaffanculo”
“Bene, vado a fanculo, ma questo non ti aiuterà se non sputi fuori una buona volta quel che ti rode.”
“Te l’ho appena detto quel che vorrei sapere, stronzo!”
“Eh sì, però poi non hai il coraggio di ascoltare le risposte”
“Non vedo cosa potresti dire, sei stato una merda e un traditore”
Justin aveva annuito con un movimento ampio e con il broncio sulle labbra. “Vero, ma hai paura che sia stata anche responsabilità tua, eh Kinney e questo non vuoi rischiare di sentirtelo dire”  
“MIA? COLPA MIA? Mi hai mentito, mi hai preso per il culo, mi hai tolto una figlia - e speriamo solo di essere riusciti a rimediare - ed è COLPA MIA? Io ti spacco la faccia”
“Mi hai accettato troppo, mi hai rispettato troppo, mi hai concesso troppo. La tua colpa, l’unica che hai avuto, è stata di avermi amato troppo quando sono impazzito dopo la morte di Daphne. E io sono stato folle, cattivo, ingiusto, egoista e ho tradito la tua fiducia”
Ecco questa non se l’aspettava. 
Brian si era appoggiato alla parete e lui lo aveva preso per mano “Torniamo in camera, che facciamo ridere il cazzo e tu ti prendi una broncopolmonite” Ma Brian non si muoveva, non si staccava di un millimetro e allora gli si era buttato addosso, per scaldarlo con il suo corpo, con il suo amore e con le sue profonde scuse per essere la causa di quella sofferenza.
“Non è colpa tua, perdonami, appena riesci.”
Lo aveva afferrato per le natiche e lui istintivamente gli si era aggrappato con le gambe alla vita e così, con Justin in braccio e il viso annegato nel suo collo, si era finalmente deciso a tornare in camera.
“Non ti amo soltanto Brian, ti voglio anche tanto di quel bene, ma non so cosa posso fare per rimediare” gli aveva sussurrato all’orecchio, sdraiato su di lui.
“Forse solo aspettare che mi passi tutta questa incazzatura, a volte mi prende una rabbia Justin che non so neppure da dove mi esca fuori. Normalmente non mi pare di essere così furibondo con te e invece lo sono, evidentemente …”
“Danielle cosa ti dice?”
“Che devo tirarla fuori, ma io di solito non la sento, poi esce così all’improvviso e violenta”
“Allora stasera abbiamo fatto un passo avanti e io sono qui per te -  e se l’era abbracciato forte. – Dici che serve se provo a farti capire, non giustificarmi, bada bene, solo farti capire che cosa mi è successo e perché ho fatto quel che ho fatto”
“Vale a dire un casino?”
Justin aveva ridacchiato sommessamente, si vergognava ed era imbarazzato: “un casino, una stronzata, una carognata, chiamala come vuoi. Quella”
“Proviamo”
“Con la morte di Daphne mi si era annebbiato il cervello, non capivo più un cazzo ed è come se mi si fossero fottuti i ricettori che permettono di avere relazioni con altri esseri umani. Ti sentivo Brian, sentivo che c’eri, ma non riuscivo a entrare veramente in contatto e non riuscivo a parlarti. La cosa mi sconvolgeva ancora di più. Il sole poteva smettere di sorgere, ma io che non sapevo più parlare con te? Questo era troppo anche solo immaginarlo, pensa viverlo. E tu c’eri, fin troppo, hai sopportato silenzi, furie, solitudini e decisioni prese con cattiveria che erano solo dolore e paura, come quella di rinunciare a Susan e non volerla neppure vedere. Non riesco a perdonarmi come ti ho trattato su questo, come ti ho impedito di parlare, di avere voce in capitolo, come se fosse un problema mio e le tue parole, quando cercavi di fare i conti con la nuova realtà, un tradimento di me e di noi. Ero sconvolto e pazzo e mi sentivo solo anche se non lo ero, mi ero cacciato dentro a una solitudine dolorosa e inscalfibile.”
“Gesù Justin, credevo saresti impazzito in quelle settimane, sembravi allucinato. Freddo di una freddezza malata, mentre noi piangevamo e imprecavamo e ricordavamo, tu sembravi altrove. Ed eri cattivo, sì, con me eri cattivo”
L’abbraccio nel quale si stringevano si era fatto più forte da parte di Justin “Non permettere mai più, per nessuna ragione, che io sia così con te, con noi. Scrollami, insultami, ma non amarmi più così tanto da farmi diventare un aguzzino”
“Pensavo che dovevo esserci, comunque, a prescindere dai tuoi comportamenti, che sarebbe passato, insieme al dolore. Volevo essere la tua certezza, come sei stato tu tante volte per me, quando soffrivo”
“Oh Brian …” Aveva smesso di parlare e si era impossessato delle labbra del marito, baciandolo, in silenzio, per qualche minuto. Piano, delicato, balsamico. Sulle labbra, sul viso, sulle palpebre e gli accarezzava il viso.
“Non sono capace ad amarti di meno. Sei tu che devi scegliere di non farmi a pezzi”
“Mai più Brian, mai più. Te lo giuro”
“Ma perché non mi hai detto che avevi cambiato idea, perché non mi hai detto di Susan?”
“Perché non avevo cambiato idea, non so neppure se avessi delle idee, ero in trans. So solo che un giorno, non so neppure come e perchè, ho deciso di seguire le tue parole e sono andato a trovarla, poi non sono più riuscito a fermarmi. Ogni volta che la vedevo, che l’avevo con me, ritornavo a respirare, ma più la vedevo e meno sapevo come dirtelo, come osare mettere tutto in discussione, la decisione presa anni fa e la mia furia nel rifiutare l’affidamento qualche settimana prima e da lì mi sono incartato sempre di più”
“E quel coglione di musicista in tutto questo?”
“Un caso, una coincidenza ... era in città e io avevo una casa quasi sempre libera. Tutto qui, per altro ci siamo incrociati pochissimo: orari diversi e momenti diversi”
“Una coincidenza, certo”
“E’ così Brian”


 

Ritorna all'indice


Capitolo 61
*** INTERROGATORI ***


BUON ANNO!!

Appena finito di cenare Justin si era allontanato per rispondere al telefono e Brian si era diretto verso lo sportellino dove tengono i dolciumi, di solito un pezzettino piccolo di cioccolata, dopo mangiato glielo davano. Era stato fermato imperiosamente da Susan, che è golosa, ma rigorosa. “No ciccolata ha detto Jutin”
Brian l’aveva guardata stupefatto.
“Hai fatto i capricci oggi? Sei in castigo?”
“No, no capicci. Susan bava. Mangiato ciccolata a meenda e Jutin dice no ciccolata a seea”
“Ah, avete bevuto la cioccolata calda”
“Sììì, buona coo panna e Ian”
“Ian?”
“Sì, amico Jutin. Ha regalato Tobi, sai. Oggi no ‘egalo peò”
“Sei rimasta da sola con Ethan?”
“Ma noooo. Jutin mangiava ciccolata, anche. – Brian l’aveva sollevata e presa in braccio con fare possessivo. Le aveva lasciato qualche bacino sulla guancia, mentre la bambina continuava a raccontare -  Ian no, ma giocava con me e Tobi. Fa facce stane e linguacce e Jutin ride coo Susan. Io ride tanto pecchè Ian fa solletico” “E’ simpatico quindi Ian …” “Sì, ma no ‘egalo oggi” aveva ribadito il concetto.
“Domani te lo compra Brian un regalino”
Justin appena rientrato in stanza si era stupito, non erano soliti, per scelta, fare regalini ogni momento e senza un motivo, alla bambina.
“Regalino?”
“Sì, visto che il tuo amico non se ne è preoccupato”
“Parli di Ethan?” aveva risposto Justin che conosceva il suo pollo
“Pare che abbiate passato un bel pomeriggio in famiglia …”
Justin aveva sbuffato.
“Ma piantala, passava davanti al Dinner, ci ha visto ed è entrato a salutarci”
“Saluto lunghetto a quel che dice Susan”
Gli aveva sfilato la bambina dalle braccia “Andiamo a vedere cosa combina Gus.” Era rientrato poco dopo, da solo. Brian era impegnato a caricare la lavastoviglie.
“Di’ un po’ ti sei messo a fare gli interrogatori a Susan?”
La domanda lo aveva chiaramente innervosito, perché un bicchiere gli era scivolato di mano andando a cozzare contro una tazza già riposta nel vano superiore dell’elettrodomestico. L’aveva ripreso e sistemato.
“Perché, hai paura che le sfugga qualcosa? C’è qualcosa che non dovrebbe dirmi?”
“No, ho paura che si accorga che sei un coglione, mi piacerebbe vivesse nell’illusione ancora qualche anno”
Brian aveva fatto spallucce e in un primo momento non aveva replicato, poi si era preso un bicchiere pulito e aveva versato quanto rimaneva del vino. Beveva indolente. “Ce l’hai fatta, l’hai reso simpatico anche a lei. Complimenti!”
“Il fatto che a te stia sul cazzo non vuol dire che sia antipatico, perché non lo è e quindi sì, a Susan è simpatico, ma non è merito mio. E tu sei paranoico”
“Certo io sono paranoico, non è mica che ci risiamo, io a farmi il culo e tu a giocare alla famiglia felice con quello stronzo? No, no, figurati. Però il problema sono io che parlo con mia figlia. Cos’è stai insegnando anche a Susan a riempirmi di cazzate, ma non sei ancora sicuro che abbia imparato bene?”
L’aveva spinto giù con forza a sedere e una parte del vino era uscita dal bicchiere macchiandogli la maglia. “Cazzo”
“Oh, coglione, non ti permettere, sai?!”
Brian non lo degnava neppure di uno sguardo e si era alzato per andare a smacchiarsi “Stai qui, che della macchia e della tua fottuta maglia non me ne frega un accidente.” L’aveva ricacciato seduto, quando era incazzato gli si amplificava la forza e adesso era a livello Hulk. Gli aveva piantato le mani sulle spalle e lo inchiodava con lo sguardo a pochi centimetri dal suo viso. “Pensi che io sia capace di strumentalizzare Susan, di insegnarle a mentirti? Pensi questo? Lo pensi sul serio?”
Brian aveva scosso la testa, distogliendo lo sguardo. “No. Non lo penso”
“Le tue paure, le mie cazzate a lei non devono riguardare. Non provarci mai più a metterla in mezzo, non fare mai più una cosa del genere alla nostra Susan. Hai capito Brian? Hai capito? - aveva ripetuto a voce più alta – perché non te lo permetto”
“Non la volevo mettere in mezzo, lo sai che non sono così con i figli, cristo! Ha incominciato a raccontare, tutto qui e quando è spuntato quel coso, quel musicista dei miei stivali…”
“… Quando ha parlato di Ethan ti è andata la merda al cervello, ho visto bene. Capisco, ma ti devi dare una regolata”
“Tu, però, potresti evitare di farglielo frequentare, porca puttana, almeno questo!”
“Non glielo faccio frequentare, semplicemente ci siamo incontrati e non ho pensato di dovermi barricare nel Dinner e sequestrare Nathan per costringerlo a non farlo entrare”
Brian non era riuscito a nascondere un abbozzo di risatina, in effetti non è che Justin avesse tutti i torti, però le palle gli giravano lo stesso, capitolare sì, era giusto, ma con l’onore delle armi.
“E quel fottuto pupazzetto dal quale non si separa mai, un gentile omaggio del tuo amico, mica me l’avevi detto. Tobi poi che nome del cazzo, l’avrà scelto lui”
Justin gli aveva riso in faccia, quando Brian si mostrava così puerile non riusciva a trattenersi.
“In effetti è proprio stronzo, pensa tu che regala perfino peluche a una bambina di due anni. Che orrore”
“Comunque quel coniglietto fa schifo”
“Non c’è dubbio” Justin gli aveva dato una testata delicata e l’avevano finita lì.
Brian era stato di parola e il giorno dopo era tornato a casa con il regalo.
“Che fine orrenda hai fatto fare a Tobi?” gli aveva chiesto mentre Susan saltellava tutta contenta con un coniglietto azzurro e bianco, morbidissimo, strafigo che sapeva pure muovere le orecchie.
“Perché me lo chiedi?”
“Perché nella cesta non c’è, nel lettino neppure, se non sono coincidenze queste… - aveva ridacchiato - Speriamo che a Susan il sostituto vada bene”
“Certo che sì, non è mica scema mia figlia”
Aveva spento la luce, si era messo di fianco, un braccio sotto il cuscino in posizione da sonno.
“Ah comunque Tobi è caduto nel tritarifiuti”
Si erano addormentati sulla risata di Justin che gli ricordava quanto fosse coglione.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 62
*** BUONE NOTIZIE ***


Segni ce ne erano stati, solo il timore aveva imposto di ignorarli e così quando Naty gli aveva passato il telefono tutto si aspettava tranne quello che gli aveva detto Patterson: “Signor Taylor, menomale che sono riuscito a trovarla, suo marito non risponde e la segretaria fa filtro. Il giudice ha deciso.”
Le ginocchia si erano piegate, si era accasciato sul bracciolo della poltroncina vicino al tavolo da disegno ed era scoppiato in un pianto irrefrenabile.
Dopo una decina di minuti era riuscito a infilare la porta del bagno, sciacquarsi il viso, acchiappare la moto e andare alla Kinnetic.
“Ciao Justin – lo aveva salutato la bionda assistente -  il capo è in fase creativa e parecchio nevrastenica, se non è urgente io, fossi in te, lascerei perdere. Sai quanto può essere sgradevole tuo marito …” L’aveva ignorata, concedendole solo un breve saluto con il capo ed era entrato a passo di marcia nell’ufficio.
“Chi cazzo rompe i coglioni?” Aveva alzato il viso dal documento e aveva incrociato lo sguardo di Justin, impalato davanti alla scrivania, con il viso arrosato da una violenta emozione.
“Ha chiamato Petterson … Susan …”
“Susan, cosa? E’ successo qualcosa?”
“E’ stata affidata definitivamente a noi, Brian. Susan è nostra” e le lacrime avevano ricominciato a scendere. Cristo, si stava comportando proprio come una femminuccia.
Brian si era alzato di scatto e gli era corso incontro, sollevandolo come quando erano giovani, gli occhi che ridevano, esplodevano in mille emozioni di gioia e amore incredulo. Gli aveva asciugato le lacrime con il dorso della mano. “Nostra Sunshine, Susan è nostra – e l’aveva baciato, con dolcezza.- Quando? Quando andiamo a prendercela?”
“Non so se me l’ha detto, non ho capito, mi girava la testa”
“Chiamo subito l’avvocato”
“Brian…” lo aveva fissato dal basso all’alto come milioni di volte e poi l’aveva stretto. “Anche io” in risposta a un ti amo, passato dalle braccia, dagli occhi e dal tremore di quell’uomo tanto amato.
Poi aveva gettato la testa oltre la porta a vetro, verso la zona di Cynthia per chiedere di annullare tutti gli impegni della giornata.
Ted che passava nel corridoio era entrato incuriosito dal casino, mentre Brian si stava infilando la giacca.
“Dove vai? Ciao Justin”
“Ted ti affido il comando. Ah e tieniti libero, Susan è nostra e abbiamo intenzione di fare una festa. Ora se la pianti di abbracciare mio marito c'è una agenzia da portare avanti”
Poi aveva preso per mano Justin: “Io e te andiamo a festeggiare a modo nostro”
“Scusa Ted, ma devo andare a festeggiare” e ridendo si era lasciato trascinare fuori.
L’auto di Brian era rimasta nel parcheggio, una corsa in moto era sembrata più adatta per smaltire l’adrenalina che sentivano in corpo. “Guido io” poi Brian aveva aperto il bauletto e gli aveva passato il casco. “Perché?” “Così ho le mani impegnate, non so se riuscirei a tenerle a posto schiacciato contro di te e su di giri come sono” Il marito gli aveva dato una spallatina e si era infilato il caso.
“Allora veloce, portaci a casa che le tue mani le voglio su di me”
Si era stretto forte, le mani sotto il giubbotto di Brian, a cingergli la vita. Il telefono era squillato appena entrati in superstrada, per fortuna si erano ricordati di accendere il microfono nei caschi, così era riuscito a rispondere a Patterson. “Buongiorno Sig. Kinney, so che mi ha cercato, ha avuto la bella notizia? Sì, corretto. No, non abbiamo ancora il giorno preciso, c’è qualche formalità da sbrigare, ma massimo una settimana e potrete andare a prenderla in via definitiva. Vi avverto appena sappiamo la data. È stato un piacere, mi saluti suo marito”
Gli aveva dato un pizzicotto e Brian lo aveva guardato storto dallo specchietto retrovisore. La voce era arrivata un po’ metallica dall’interfono: “Mercoledì dovrebbe venire a casa, quegli accordi valgono ancora? Perché non gliel’hai chiesto?” “Perché dò per scontato che sia così, che cazzo. E piantala di farmi male” e si era guadagnato un altro pizzicotto.
La moto posteggiata sul cavalletto laterale perché si fa prima, i caschi erano finiti per terra. Le risa si udivano dalla cucina, infatti Naty li aveva sentiti ancora prima che entrassero in casa dal garage. “Siete a casa? A quest’ora?” Justin era sgattaiolato dall’abbraccio di Brian e l’aveva raggiunta. “Sì, abbiamo da festeggiare. Ce li prepari due stuzzichini, io prendo una bottiglia di bollicine, saliamo su e non ci siamo per nessuno”
La domestica aveva sorriso, li conosceva bene.
“Susan, Naty. Susan è nostra!” le aveva comunicato appoggiando sul tavolo la bottiglia appena presa dal frigo e abbracciandola forte.
“Era l’ora! Quando arriva la piccina?”
“Nei prossimi giorni, sono così felice Naty!” le aveva schiccato un bacio sulla guancia, aveva preso con una mano il piccolo vassoio e con l’altra il Franciacorta millesimato che preferivano allo Champagne ed era sparito inseguendo la voce di Brian che lo chiamava all’ordine dal piano di sopra. Il marito, che l’aspettava in cima alle scale, gli era andato incontro di qualche scalino, aveva preso la bottiglia e gli aveva avvolto le spalle con il braccio. “Buona idea Sunshine” poi si era chinato e l’aveva sorpreso con un bacio che di casto non aveva proprio nulla. Justin l’aveva spinto piano lungo il corridoio, con il vassoio tremolante in mano e la lingua di Brian in ogni dove, bocca, collo, mascella. “In camera, che c’è Naty in casa”
Tre ore dopo non ricordavano neppure più come i vestiti fossero volati per terra, lo spumante fosse finito e come diavolo avessero fatto a consumare tutto quel lubrificante. In realtà la smorfia di leggero dolore che Justin aveva provato mettendosi seduto a gambe incrociate un indizio avrebbe dovuto fornirlo, aveva pensato mentre ridacchiando cercava una posizione più comoda. Non era stato un pomeriggio romantico, ma decisamente erotico e intenso. Era un po’ che non tiravano fuori tutti quei giochini. Qualcuno era ancora sul letto, altri erano caduti, sparsi sul pavimento e lo sguardo di Brian si era posato su un corpetto di pelle nera, che concedeva molto spazio all’immaginazione, stava da dio sul corpo flessuoso di Justin e aveva lasciato lievi marchi rossastri sulla pelle bianca, lì dove i lacci stringevano più forte. “Non ricordavo quanto ti donasse il nero” e con un dito aveva disegnato i segni sul petto del marito. Aveva inclinato il busto e l’aveva baciato sulla bocca. “Quando vuoi” aveva risposto allusivo. Il suono della porta che si chiudeva alle spalle di Naty che usciva per tornare a casa sua aveva chiarito che da lì a poco Gus sarebbe rientrato e per loro era il momento di tornare alla realtà. “Mi faccio la doccia, mentre tu raccogli e metti via. Ho bisogno di una doccia calda, mi hai ucciso” “Una dolce agonia, spero” “Dolcissima, ma devo tornare in me, prima che arrivi Gus. Mi fa male il culo e ho la testa vuota e il corpo indolenzito. Sto da dio, insomma” gli aveva tirato una pacca sulla chiappa bella esposta nel piegarsi a raccattare gli ammennicoli sparsi in giro e si era infilato in bagno.   

Ritorna all'indice


Capitolo 63
*** MANCA POCO ***


Brian l’aveva abbracciato mentre si stava spalmando la crema idratante sul corpo, invece di scansare il disturbatore, aveva mollato il flacone e si era appoggiato al petto del marito. Aveva inclinato la testa, puntando il retro del capo e l’aveva guardato dal basso. “Dici che sarò capace?” “Sì” era stata la risposta senza tentennamenti. “Ma se non sai neppure di cosa sto parlando” “Certo che lo so. Sarai un papà fantastico, anzi già lo sei. Cosa credi di aver fatto in questi mesi?” Il biondo aveva sorriso “Non si torna più indietro eh?” “No. Fantastico vero?” “Spaventoso e meraviglioso. Mi sembra di aver partorito” si era girato, si era appeso al collo e gli aveva stampato un bacio sulla bocca. “Sei carina come puerpera, un po’ pelosa, ma carina” Si era guadagnato uno schiaffetto, poi l’aveva lasciato finire di prepararsi ed era sceso al piano terra giusto in tempo per vedere entrare Gus.
“Come mai sei già a casa?”
“Grazie eh?” e gli aveva tirato uno scappellotto.
“Beh è presto per i tuoi standard. C’è anche Jus? Ho visto la moto nel vialetto.”
“Sì, siamo venuti a casa insieme. Abbiamo una bella notizia. Justin muoviti a scendere, è arrivato Gus” Voleva dirgli di Susan insieme. Non si era fatto attendere, avvolto in una morbida tuta di felpa blu era trotterellato giù dalle scale, beccandoli ancora in entrata.
“Gliel’hai già detto?”
Gus li aveva fissati perplesso, che manfrine stavano facendo sti due.
Brian aveva scosso la testa, gli aveva preso la mano e l’aveva guardato con tenerezza, facendogli cenno di parlare lui. Ed era stato dalla voce emozionata di Justin che Gus aveva saputo di avere ufficialmente una sorella in più.
“Era l’ora, brava piccoletta. E magari voi vi date una calmata e tornate un po’ più stabili, che sono mesi che passate da amore, amore a vaffanculo in due secondi. Vado a cambiarmi. Mangiamo presto? Ho fame …”
“E quando mai non ha fame?” La domanda retorica era caduta nel vuoto. Justin si era incamminato verso la cucina e ne era uscito poco dopo. “Gus – aveva chiamato – hai culo, Naty ha lasciato arrosto e le patate sono solo da infornare”
“Evvai, grande Nat”
“E se invece ce ne andassimo a cena fuori per festeggiare?” era stata la proposta di Brian.
“Gus, che ne pensi?”
“mmmm si può fare, ma torniamo presto che domani ho scuola”
“Minchia, da quando è diventato così saggio?”
“Metto il cibo in frigo, tu prenota”
“Italiano, francese, indiano?”
“Sushiiiii” aveva urlato il ragazzino.
Brian aveva guardato Justin come dire: No, eh .. giapponese no! ma il marito aveva sorriso “Noi abbiamo già festeggiato … Ok Gus, giappo!”
Si erano fermati in silenzio davanti alla porta della cameretta di Susan, quella definitiva, quella che in quei mesi era stata il regno esclusivo di Justin. Il biondo l’aveva aperta e acceso la luce: sulle pareti c’erano loro e la loro stramba famiglia, disegnati come nel fumetto per Susan e c’era Daphne che spuntava qua e là dalle nuvolette e guardava tenera, lì dove avrebbe vissuto la figlia. Justin davanti, Brian dietro, avvolti l’uno nell’altro, il mento del più maturo sui capelli del compagno. “E’ bellissimo Jus” “Le piacerà?” “Lo adorerà adesso e adorerà ancora di più te, quando capirà, crescendo”
“Ti svegli tu a far colazione con Gus, domani mattina? Ho lezione sul tardi e se possibile dormirei volentieri un pochino”
“Mi alzo io, tranquillo. Godiamoci quest’ultimo periodo che poi si balla tutti i giorni”
Justin aveva incrociato la gamba su quella di Brian e si erano addormentati così. Stanchi d’emozione.  
“Gus ha detto che non va ad allenamento, così torna a casa presto per dare il benvenuto definitivo a Susan. È dolce sto ragazzino, da chi avrà mai preso?” sorride mentre pronuncia l’ultima frase. Non tanti userebbero quella parola per descrivere Brian, ma lui sì, lui ha conosciuto presto anche il lato dolce di quello che è stato l’amore della sua vita. Il marito aveva fatto finta di non cogliere e aveva preso le chiavi dell’auto. “Andiamo, non vorremo fare tardi” e lo aveva anticipato in garage. La mattina precedente avevano firmato le carte per l’adozione e il giorno dopo, vale a dire oggi, sarebbero andati a prenderla. Quella notte entrambi avevano fatto fatica a prendere sonno, così erano rimasti abbracciato a chiacchierare, fino a quando la stanchezza aveva vinto.

Ritorna all'indice


Capitolo 64
*** FINALMENTE SUSAN ***


Avevano lasciato l’auto nel parcheggio riservato davanti alla casa famiglia, per una volta c’era un posto libero e si erano diretti tenendosi per mano alla porta. Era stato Justin a suonare il campanello, come decine di volte in quei mesi, ma questa volta gli tremava il dito. Corinna li aveva accolti allegra. “Susan è pronta, vi aspetta, il borsone con le sue cose è in refettorio, vado a prenderlo. Lei è nella sala giochi, andate pure, tanto la strada la sapete”     
Si erano fermati qualche istante dalla porta, Susan stava giocando con pentolini, alimenti di plastica e qualche soldatino, il tutto in un’armonia che coglieva solo lei. Parlottava fra sé e sé e scoppiava in brevi risate. Non si era accorta di loro. Brian era stato il primo a rompere l’incanto, si era accucciato, come faceva spesso per mettersi all’altezza della bambina e l’aveva chiamata. “Susan, ehi Susan” la piccola si era girata e si era illuminata in un sorriso. Lui aveva allargato le braccia “Vieni da Brian, vieni da papà” La mano di Justin sulla spalla lo aveva aiutato a non piangere mentre la figlia gli volava in braccio. Sarebbe stato difficile spiegarle, a meno di tre anni, cosa sono le lacrime di gioia.
Sulla porta d’ingresso, salutando Corinna, Susan aveva detto “Ciao Coinna, poi tonno” come faceva tutte le volte che andavano a prenderla, dopo i primi pianti si era fatta una ragione di questa alternanza. Justin aveva sospirato rumorosamente e l’aveva accarezzata sul braccino. “Sai Susan adesso possiamo rimanere a Britin, non dobbiamo più tornare qui fra qualche giorno, sei contenta?” Susan si era immobilizzata interdetta fra le braccia. Da che avevano messo piede nella sala giochi non le avevano ancora fatto mettere piede per terra. “Pù? No tonno pù? E Coinna? E Tony?” era combattuta, chiaramente. Britin era casa sua, ma aveva affetti anche qui. Justin era impallidito, Brian aveva visto chiaramente nelle sue pupille il passaggio di fantasmi ed era intervenuto. “Certo che torniamo a trovare Corinna e Tony e tutti quanti, ogni volta che vuoi, però fai la nanna sempre a casa con noi e Gus, va bene no?” e le aveva fatto l’occhiolino. Susan si era raddrizzata e aveva sorriso, aveva convenuto convinta: ”Alloa andiamo” e aveva guardato contenta verso l’auto di Brian parcheggiata davanti al portone.
Susan aveva chiacchierato ininterrottamente fino a casa, la mano di Brian sulla sua era calda e ferma, sarebbe andato tutto bene. “Gus c’è?” aveva chiesto mentre Justin la slegava dal seggiolino. “No, ma arriva presto, presto” “Posso andae in giaddino?”
“Sì che puoi andare in giardino, un attimo però che entriamo e ci sistemiamo”
Erano entrati e lei come non avesse sentito una parola si era fiondata verso il grande vano vicino alla lavanderia. “Biaaan volo bici, pendi bici a Susan”
“Oh Signorina, come si dice?”
“Pe favoe pendi bici? Volo andare in giaddino coo bici” Aveva annuito “Così va meglio. Non vedo il caschetto, l’avrai lasciato in cameretta l’ultima volta, vai a cercarlo” e con una mano aveva sollevato la bicilettina, senza pedali che le avevano regalato qualche tempo prima e che Susan adorava. La piccina intanto era trotterellata fuori dalla stanza e stava salendo al piano di sopra. “Jus, sta salendo a cercare il caschetto” 
Le era andato incontro facendo ondeggiare il caschetto di Frozen. “Com’è che avevamo detto? Che aspettavi un attimo? Sei una birbante”
“Sì, cachetto. Acce Jutin, Bian ha peso bici”
Si era accucciato sui talloni. “Fai attenzione a scendere le scale” Susan a tradimento gli aveva schioccato un bacino sulla guancia.
Era schizzata fuori dalla porta finestra come una scheggia, inforcando le sue due ruote. “Rimani dove possiamo vederti, non andare verso le scuderie, intesi?”
“Che cazzo le hanno dato a colazione stamattina? E’ un terremoto più del solito”
“Sentirà la nostra eccitazione” aveva risposto Brian.
Justin si era avvicinato e aveva incrociato le mani dietro la sua nuca “Sei eccitato Signor Kinney?” Aveva annuito convinto “e per una volta non per merito tuo”. Aveva sciolto un attimo le mani, gli aveva tirato un coppino mentre ridacchiava. “Per sempre Brian, per sempre con noi. Non so se ho veramente ancora realizzato, ma sono tanto felice.” Brian gli aveva passato il braccio sulle spalle e si erano messi a guardarla. Aveva mollato la bici per terra e stava giocando con un legnetto. 
“Ci siete? Tutti e tre?”
“Ciao Gus, papà e a controllare che Susan non si uccida in bicicletta, sono in giardino. Io correggo una tesi, ma in cucina, così nel mentre preparo qualcosa per cena. Naty è influenzata.”
Era entrato in cucina con il suo solito passo pesante e si era messo in bocca un cubetto di formaggio che Justin aveva da poco tagliato.
“Mollo la cartella in camera, se no papà rompe e li raggiungo fuori”
“Mmm, ok. Falli rientrare che inizia a fare freschino e la peste va lavata”
“E’ spericolata tua figlia, fa di quei peli alla quercia.” Aveva commentato Brian dopo essere rientrato e aver lasciato Susan con Gus.
“Perché non sai cosa combina ai giardinetti. Porto pc e la tesi in studio, tu apparecchia e stappa una bottiglia che ho preparato un aperitivo.”
Era salito un attimo a controllare le operazioni di lavaggio e prima ancora di entrare aveva sentito le risate di quei due. Susan adorava farsi fare il bagno da Gus, era un’operazione lunga, molto giocosa e con un notevole spreco di acqua che in buona misura finiva per bagnare anche il pavimento, ma erano bellissimi insieme.
“Mettile già il pigiamino, quando avete finito di alluvionare la casa”
“Sì capo, certo capo!” aveva risposto il figlio e Susan tutta divertita aveva ripetuto come un papagallino “Sì capo, cetto capo”
Non li avevano sentiti scendere, nessun rumore sospetto dopo quello del phon e non erano stati in grado di resistere. In camera di Susan non c’era nessuno, in bagno neppure, non rimaneva che l’antro di Gus e infatti erano lì. Il ragazzo seduto sul letto, appoggiato al muro e con le gambe incrociate al cui interno stava beata la piccoletta. “Susan, non toccare lì … ecco ora non si vede più niente, sei una pasticciona, dai qui” e le aveva strappato il telecomando di mano. “Non toccare oppure non li guardiamo più i cartoni, capito?” “Capito, capito. Alsa volume, peò!” aveva ordinato con il suo solito piglio.
A Justin era scappato da ridere e si erano fatti sgamare a spiarli, Gus aveva sorriso, Susan non li aveva calcolati di pezza, tutta intenta a commentare le avventure di George la scimmietta. “Fra cinque minuti scendete, ok?” Il ragazzo aveva annuito e aveva riposizionato meglio la sorella fra le gambe.

Ritorna all'indice


Capitolo 65
*** UNI E MATERNA ***


“O Gus impara a tenerla a bada o crescendo lo schiavizza” era stato il commento di Brian, mentre riscendevano da basso.
“Fortunatamente, per lui, andrà all’Università, saranno tutti fatti nostri”
“A proposito di Uni, ma tu hai capito che cazzo vuol fare?”
“Mmm non ti ha detto nulla?”
“No, niente” aveva risposto mangiucchiando rapido un pezzetto di formaggio, esattamente come aveva fatto il figlio un’ora prima “anzi, se chiedo, cambia discorso”
“Credo che stia pensando seriamente ad Economia aziendale”
“Uh! Come Ted? Azz, non ce lo vedo tanto, ma se è convinto lui. Chissà perché non me lo vuol dire. Dove ha fatto domanda? Finisce che ci va lui alla Dartmounth, ha un’ottima media e ai test è andato fortissimo”
“Lo vorresti in una Ivy?”
Brian l’aveva fissato incredulo. “Chi non lo vorrebbe? Posso pure pagargliela”
“Beh certo, ma a volte nelle scelte entrano altri fattori.”
“Cosa sai che io ignoro? Vorrà mica lasciare gli studi!”
“Ma smettila. Prediti qualche ora per stare da solo con Gus, ci siamo concentrati un po’ troppo solo su Susan, e lui deve affrontare scelte importanti in questo momento”
“Ho capito, merda in arrivo. Messaggio ricevuto, comunque.”
Justin aveva sorriso della sintesi di Brian.
“Ricordati che lui non è te”
“Perfetto, sta per fare un casino. Grazie per la suspance, eh Justin!”
“Parla con tuo figlio, anzi ascolta e ora chiama i due che è pronto” gli aveva risposto senza dargli corda.
Dopo cena Susan si era messa a giocare dalla poltrona, la usava come pista per le macchinine, le lanciava giù dal sedile e urlava: “pittaaa!”
Loro tre erano rimasti a tavola a chiacchierare, da qualche tempo Gus non scappava subito in camera a giocare ai videogiochi, ma si fermava. Stava decisamente crescendo.
“Il fine settimana prossima JR scende, pensavo di dire agli zii che vado da loro anche io per il we, così stiamo un po’ insieme. Mamma sostiene che è un tantino in crisi, pensa che non mi ricordo di lei, visto che mi sono sistemato qui e ho pure un’altra sorella. Che ne dite?”
“Mi pare un’ottima idea. Visto che sei in fase accudente con la famiglia, che ne dici di un po’ di tempo con il tuo vecchio? Nei prossimi giorni ce andiamo a cena io e te e lasciamo a casa Justin e la peste?”
“Ok. Domani no, che esco con gli amici, mercoledì dopo la partitella di allenamento, che ne dici? Così mi guardi anche giocare è un po’ che non vieni.”
“Andata. Forse non faccio in tempo per il calcio d’inizio, ma ci provo.”
“Susan, che fai?” si era avvicinata alla porta finestra e saltava in direzione della maniglia.
“Apo potta, vado in bici”
“Non si va in bici a quest’ora, è buio, fa freddo e sei già in pigiama”
“Io vado in bici” aveva replicato caparbia, saltando più forte. Con uno scatto imprevisto era riuscita a tirare una manata alla maniglia, evidentemente non fissata bene, e aveva aperto uscendo veloce fuori.
Justin si era alzato di scatto e raggiunta l’aveva presa in braccio brusco. “Ehi, se ti dico no è no, chiaro?”
Aveva scalciato e gli aveva tirato pugnetti sulla spalla “Volo andare in bici”
“E invece non ci vai” a quel punto Susan aveva cercato di dargli un morso. Né lui né la bambina si erano accorti che Brian era arrivato alle spalle, gliel’aveva tolta di braccio, l’aveva sollevata per la vita e tendendo le braccia aveva portato il loro visi alla medesima altezza “Mordi un’altra volta papi e la bici sparisce. Scene isteriche non sono previste in questa casa. Noi non ti trattiamo mai così e tu non ti devi permettere, hai capito? Ora fili a letto e muta”
Aveva chiuso le imposte, rincalzato il piumino e le aveva lasciato un bacino sulla fronte.
“Buonanotte Susy” mentre si allontanava la vocina incerta l’aveva fermato. “Bian? Facciamo pace?” Era tornato sui suoi passi e le aveva sorriso, poi si era seduto sulla sponda del letto. “Non ho bisogno di fare pace con te, perché non abbiamo litigato. Tu hai fatto una cosa brutta e papà ti ha sgridato, ma ti voglio bene sempre.”
Susan aveva annuito e aveva allungato le braccia per prendersi un abbraccio. “Jutin non vene?” aveva chiesto comunque un po’ preoccupata. Era forse la prima volta che la sgridavano così forte. Le aveva accarezzato i capelli, scompigliandoli un po’ “Arriva, viene anche papi a darti la buonanotte” in quel momento l’uomo era entrato. Brian si era alzato dal letto, gli aveva sfiorato il dorso della mano, incrociandolo ed era uscito.
“’Notte topolina, dormi bene” 
“Sei arrabiato Jutin? Scusa”  
“Ci sono rimasto male, ma adesso che mi hai chiesto scusa mi è passato tutto. Non lo fare più, però. Con nessuno, non si morde e non si picchia, anche quando non si fa quel che vorresti, ok? Ti voglio bene piccola mia, adesso dormi”
L’aveva raggiunto in sala, era mezzo stravaccato sul divano e faceva zapping. “Dorme già, era bollita, forse è per quello che ha reagito così”
“O forse perché è una testina di cazzo…”
“Anche” aveva riso il marito. “travolti dagli eventi non abbiamo pensato dove iscriverla alla materna”
Brian si era tirato leggermente su e Justin si era seduto vicino appoggiandosi a lui. “In una sera parliamo di Università e di asilo, cristo in che casino ci siamo infilati” aveva commentato ridanciano.
“A parte tutto per Susan non vedo cosa ci sia da discutere, la iscriviamo dai Valdesi, no? Così evitiamo dall’origine problemi per la composizione della sua famiglia. La porto io andando in ufficio”
L’espressione poco convinta di Justin l’aveva lasciato perplesso. “Sbaglio?”
“È piccola Brian, all’asilo fino a Pittsburgh? Vuol dire svegliarla all’alba e farla tornare a casa tardi, peggio che se lavorasse. Poi io lavoro spesso da casa, potrei andarla a prendere presto, se non posso io c’è Naty. Ho visto un bel asilo qui vicino, con tanto verde, animali, fanno attività di giardinaggio.”
“Vedo che non ci siamo interessati all’asilo” era stata l’ironica risposta. Justin aveva scrollato le spalle. “Mi è capitato di passarci davanti e ho chiesto.”
“Circa quindici anni fa mi hai spinto a fingermi etero e sposato con Linds per assicurare a Gus l’accesso a un asilo di qualità, perché -  e ti cito -  è dall’inizio che si fondano le basi per un’educazione di eccellenza. Che facciamo ora? Susan la mandiamo in una materna di provincia?”

Ritorna all'indice


Capitolo 66
*** PAPI E PAPA' ***


Justin aveva sbuffato, quando serviva Brian sfoderava una memoria da pachiderma.

“L’asilo in questione era a 5 isolati da casa delle mamme, ricordi anche questo? Ovvio che non voglio privare Susan di alcuna possibilità, ma diamine è così piccina, non la vorrei neppure costringere a ritmi da lavoratrice e poi non le farebbe male un po’ di quotidianità a casa, dobbiamo abituarci noi, ma pure lei”

“Pensavi di farlo vedere anche a me questo fantastico, bucolico, asilo? O hai già fatto l’iscrizione?” aveva domandato Brian, metà stizzito, metà già convinto. Non c’era dubbio che gli dessero ancora fastidio iniziative di Justin che non fossero condivise, almeno nei propositi.

“Certo che lo devi vedere anche tu e no, non ho fatto nessuna iscrizione. Te ne sto appunto parlando, per decidere insieme.”

“Ma dai? Sul serio?”

“Hai finito?”

Aveva scosso la testa e un ciuffo brizzolato gli aveva, per un momento, coperto lo sguardo. Justin gli aveva liberato la fronte, mandando in dietro i capelli. “Devi andare dal barbiere”

“Già” aveva convenuto, accarezzando la mano del marito che si allontanava “quindi quando mi porti a vederlo?”

“Se la preside può, martedì presto prima che tu vada in ufficio?”

Aveva mimato “sì” con il capo, ma dalla bocca era uscito “Oh, sia chiaro se non mi convince non se ne fa niente” e per la terza volta, quella sera, si era sentito rispondere: “Sì, capo. Certo capo”

La sera successiva Justin aveva confermato l’appuntamento con la preside, ma aveva aggiunto che forse sarebbe stato meglio che Brian andasse da solo, che si facesse la sua opinione in totale autonomia e serenità. Non si era stupito più di tanto quando il suo telefono era suonato alle nove del mattino e sul display era comparso il viso del marito.

Dal vivavoce si sentiva il leggero fruscio delle auto in corsa. “Sei già verso Pittsburgh … buon segno? Cattivo segno?” aveva scherzato.
“Mi piace – aveva sentenziato – va bene, ma solo fino ai cinque anni, l’ultimo anno prima della scuola vorrei che lo facesse comunque alla Valdo school”

Non ci aveva fatto caso subito, ma dopo qualche giorno era chiaro che non fosse un caso. Suo padre quando parlava a Susan di Justin lo chiamava sempre papi, un po’ troppo lezioso e quindi strano. “Perché insegni a Susy a chiamarlo così?”

“Suggerimento di Dani, per non confonderla. Io sono papà perché è già abituata a sentirmi chiamare così da te e quindi a Justin è toccato papi”

“Non sembra funzioni molto, continua a chiamarvi per nome”

“Non ha importanza, arriverà anche quel momento, soprattutto se Justin iniziasse a usare papi” aveva colto l’attimo per tirare una leggera frecciatina al marito che sembrava avere pudore a identificarsi con quel nome, tanto quanto lui aveva invece accolto come una liberazione potersi chiamare papà anche con Susan. “Ci aiuteresti se usassi papi anche tu quando parli di Jus con lei” Il ragazzo aveva annuito convinto e poi aveva chiesto se anche lui lo avesse chiamato per nome per un certo periodo.

“No, Gus, per te sono sempre stato papà. Dal primo momento tutti ti parlavano di me come papà e io con loro. Le mamme sono sempre state molto attente e rispettose in questo. Per Susan è diverso, mi ha conosciuto come Brian a fino a che non siamo stati certi dell’adozione non era il caso di rischiare di confonderla e ferirla, se fosse andata male”

Nonostante l’ansia di Justin le cose stavano andando bene, Susan si era abituata alla nuova quotidianità con una naturalezza commovente, sembravano loro quelli un po’ più sbalestrati dal ruolo di genitori a tempo pieno di una bimba piccolina, non lo erano mai stati, neppure per Gus, che all’età che aveva Susan adesso viveva con le mamme e andava dal papà solo qualche giorno al mese. La nuova mancanza di libertà permanente la vivevano come un regalo della sorte. Justin aveva scelto di lavorare il più possibile da casa, fino a quando Susan non era andata a tempo pieno all’asilo e adesso si era organizzato per riuscire ad andare a prenderla alle 16.30 quanto usciva. Brian che era sempre stato piuttosto mattiniero in ufficio adesso arrivava poco dopo le nove, perché aveva deciso che toccava a lui portarla alla materna. Erano solo dieci minuti a piedi, ma erano diventati presto i preferiti della giornata, mentre stringeva la manina paffutella e ascoltava le chiacchiere della sua bambina.

Ritorna all'indice


Capitolo 67
*** COSI' ALL'IMPROVVISO ***


La primavera aveva lasciato il passo ai primi giorni di caldo estivo, erano due mesi che Susan portava i loro cognomi e non avevano trovato il tempo di organizzare la festa che quel giorno in ufficio Brian aveva anticipato a Ted, erano in ritardo anche con la messa in funzione della piscina, ma quel sabato finalmente avevano provveduto e per l’occasione avevano invitato gli amici di sempre e le nonne. Era stata l’occasione per presentare ufficialmente Susan alla loro strana, amorevole, allargata famiglia.
Faceva caldo, ma non così tanto da risultare fastidioso, la brezza appena accennata rendeva il pomeriggio piacevole, Gus e amici avevano improvvisato un torneo di tennis, Justin stava aiutando Naty di acconciare le due tavolate sotto il portico per il buffet e lui giocava con la piccola in piscina. Justin le aveva fatto due codini alti, stretti da un fiocchetto bianco ed era carina da matti, tenuta a galla dai braccioli, mentre rideva perché lui si tuffava sott’acqua e le spuntava da dietro spruzzandole la schiena. “Biann, Biaaan, dove sei?” urlettava eccitata ogni volta che lui spariva sotto.   
Si stavano divertendo un sacco quando quel rompi di papi era arrivato a dare ordini. “Hey voi due…”, così loro avevano fatto finta di non sentirlo e gli ridacchiavano in faccia. “Hey – aveva ripetuto – Aquaman e Sirenetta, è l’ora di uscire e prepararsi che fra meno di un’ora arrivano gli ospiti”
“Va beeeneee” aveva risposto Brian imitando il tono di voce di Susan e l’aveva acchiappata, risalendo con lei in braccio gli scalini digradanti che portavano fuori dalla piscina. “Le do una lavata, tu preparami i vestitini sul letto” aveva aggiunto e si era indirizzato verso le docce all’aperto vicino alle due cabine nascoste nel verde.
“Comunque Jus, mi mancano un po' di muscoli per essere come Aquaman"
"Beh in effetti non sei esattamente il sosia di Momoa"
Brian gli aveva dato una spintarella, cazzo pensava a Momoa, sto biondino!
"Tu sei sempre il più bello amore mio" lo aveva rassicurato con la solita vena di presa per il culo Justin
"Sì, sì certo, e poi fai sogni bagnati su Momoa"
"Perché, tu no?"
Erano scoppiati a ridere, ma erano stati freddati dalla domanda di Susan. "Chi è Momoa? Amico di Jutin?" dopo un attimo di esitazione la risata era esplosa più fragorosa di prima. “Magari” avevano risposto in coro. Brian gli aveva mollato uno sculaccione ed era andato a lavare la piccola.
“Jus, Jus” l’aveva chiamato dalle scale con Susan avvolta in un ampio asciugamano “non ho trovato l’olio per il corpo di Susy, fa lo stesso se per una volta non la imburro?”   
“Sì, fa lo stesso. Tanto dopo la festa dovremmo di sicuro lavarla di nuovo per bene prima di metterla a letto” si era girato sentendoli entrare in camera. Lui era davanti all’armadio e in mano teneva un paio di pantaloni. Brian aveva deposto la bimba sul letto e le stava infilando le mutandine che aveva preso dalla cassettiera.
“Che ne dici di questi jeansettini, con gli inserti colorati e la polo con il colletto stondato?”
Si era guadagnato un’occhiata disgustata. “Cristo no! Non iniziare anche con lei, eh Justin”
“Ma così gioca comoda” si era difeso.
“Gioca comodissima anche con questo vestitino di maglina” Aveva tirato fuori dall’armadio un vestitino giallo tenue, con i bordini bianchi sulle maniche corte, sull’orlo in fondo e qualche fiorellino ricamato all’altezza della vita.
Justin non aveva nascosto la sua perplessità “per una festa in giardino con la famiglia?”
“Facciamo scegliere a lei. Susan tesoro, cosa vuoi metterti per la festa? Questi  - a le aveva mostrato jeans e maglietta -  come dice papi o questo bel vestitino giallo?”
“Il vettitino, il vettitino” aveva risposto tutta contenta saltellando in mutande in mezzo alla stanza, poi si era lanciata verso la sua piccola scarpiera.
“Vedi?” l’aveva sfottuto Brian “lei sì che ha buon gusto!”
“Jutin – gli aveva tirato la manica – posso mettee quette capette qui?” in mano aveva un sandalino con i brillantini al quale, quando saltava, si accendevano due lucette nella suola, le sue scarpe preferite. Non ci stavano proprio benissimo, ma papi, aveva risposto subito sì, prima che il magister elegantorum potesse intervenire.
“Le avete regalato un pony?! Un cavallino vero?!” eppure Michael Avrebbe dovuto essere abituato alla megalomania di Brian.
“LE HA regalato un pony, intendi dire” aveva risposto il coautore di Rage, il papi di Susan, il marito del megalomane.
“Cazzo, esagerato pure per lui”
In quel momento si era avvicinato Brian che non era sfuggito allo stupore dell’amico.  
“Le hai regalato un cavallo! Vivo!!”
“Morto avrebbe puzzato dopo un po’ e non sarebbe stato divertente per giocare, non credi Mickey?”
“Sei folle. Justin, tienilo d’occhio perché sto qui te la tira su rincoglionita dai vizi”
Justin aveva mollato una pacca gentile all’amico “Tranquillo Michael, ci penso io”
“Eh ma che cazzo, non potevamo mica organizzare questa festicciola come una fottuttissima coppia etero e poi è un pony, mica uno stallone” era stata la brillante chiosa di Brian.
“Certo, per lo stallone ci sarà tempo tempo” era intervenuto Emmett, il sorrisetto però si era spento in fretta, incenerito dallo sguardo assassino di Brian.
“Beh che ho detto?” aveva chiesto un po’ sgomento a Ted.
“Niente, niente Emm, vieni con me che vorrei assaggiare quei tramezzini laggiù” e così facendo lo aveva tratto in salvo dalle ire paterne.
Justin e Michael avevano le lacrime agli occhi dal ridere, meno Brian che trovava la cosa molto poco divertente. Justin l’aveva abbracciato
“Coraggio Brian che ci vogliono ancora anni prima che incontri uno stallone come suo padre”
“Justin, non fa ridere”
“A me parecchio”  
Linds si era avvicinata all’amico di una vita con due bicchieri in mano.
“Bevi e non ci pensare” lo aveva invitato porgendogli il calice di spumante.
“Non ti ci mettere anche tu eh, Wendy!”  però aveva sorriso e aveva usato il nomignolo.
“Non è un amore? -  gli aveva chiesto indicando Susan scatenata e fiera con il diadema di Elsa di Frozen sbirluccicante in testa, che giocava con due amichette dell’asilo invitate apposta per lei.  - Mel non era convinta, ma io ero sicura che avrebbe apprezzato”
“Adora tutto ciò che luccica: glitter, lucine, brillantini. Almeno sappiamo che non sarà lesbica, troppo femminile”
“Il solito coglione” era intervenuta con una risata Mel
“Perché Mel, non è forse vero che da bambina giocavi con i soldatini e i carburatori?”  
“Un vero coglione, si: un coglione, ma unico”
“Fortunatamente” aveva concluso Linds lasciandogli un bacio sulla guancia. 
Ted aveva lasciato Emmett con Drew, che nel frattempo li aveva raggiunti, ed era tornato al tavolo degli stuzzichini salati. Naty, questa volta, si era superata e lui non riusciva a staccarsi dai piccoli sformati al formaggio.
“Occhio Schmidt, pensa a tutti i soldi spesi con la chirurgia estetica e poi con il cazzo ti lascio sparire per venti giorni per una nuova sessione di taglia e cuci!”
“Ted è bello sempre” se l’era abbracciato Blake, mettendogli in bocca un pezzetto di sformatino.
“Dio che sdolcinati, ma non vi siete ancora stancati dopo anni?” li aveva guardati un po’ schifato, guadagnandosi una risata sincera da parte di entrambi.  
“Bian” lo chiamava Susan alla quale si era staccata la coroncina e non riusciva a rimetterla in testa.
“Bian, Bian” aveva ripetuto, ma il padre impegnato a scherzare con gli amici e troppo vicino alla cassa che diffondeva la musica di sotto fondo, non la sentiva.
“Bian, mi iuti?” aveva detto ancora una volta, stringendo la coroncina in mano, poi l’aveva deposta con cura sul prato, si era avvicinata e si era appesa ai pantaloni urlando “Papaaaaàà!!”  
Brian aveva appoggiato, senza neppure guardare, il bicchiere sul tavolo, mancandolo, e il vetro era rimbalzato, senza rompersi sul prato, ma lui non importava. Si era accucciato, il respiro si era bloccato mentre fissava Susan e cercava di trovare le parole. “Dimmi amore mio” “Papà, mi iuti con cooncina? No sta su testa” aveva chiesto lei, inconsapevole di avergli fatto perdere più di un battito. “Certo” le aveva rimesso il diadema e poi l’aveva riempita di baci “sei la principessa più bella della festa.” Justin aveva osservato la scena da poco lontano, aveva sentito e adesso li guardava con gli occhi umidi, solo loro due avevano colto quel che era successo. Susan non aveva mai, prima di allora, chiamato nessuno dei due se non con il nome proprio e adesso, improvvisamente, Brian era papà. Era corso verso il marito e l’aveva abbracciato forte, senza parlare, mentre insieme la guardavano tornare a giocare, con la sua bella coroncina sul capo. 

Ritorna all'indice


Capitolo 68
*** MONTAGNE USSE ***


Scusate tantissimo il ritardo nell'aggiornamento, ma sono nelle pesti!!

Si era praticamente addormentata mentre faceva la doccia con Justin, le piaceva lavarsi con loro sotto il getto d’acqua e adorava pasticciare le manine nei capelli, scivolosi di shampoo, dei suoi papà. L’aveva passata a Brian perché l’asciugasse e lui aveva finito di sciacquarsi. Quando era uscito dalla doccia, il marito le stava chiudendo il pannolino, di notte lo portava ancora. Aveva già la parte superiore del pigiama infilato e il corpicino, disteso sul letto, aveva un abbandono inusuale. Brian aveva sorriso e fatto cenno di non fare rumore. “Praticamente sta già dormendo” gli aveva spiegato infilandole anche i pantaloni, poi l’aveva delicatamente presa in braccio. “La porto nel lettino e poi mi butto sotto la doccia anche io”

Justin aveva finito di asciugarsi, si era infilato t-shirt pulita e un paio di calzoncini corti di panno, che usava come mise casalinga nella bella stagione e si era buttato sul letto, le caviglie intrecciate, il cuscino a sostenere la schiena, le braccia incrociate dietro la nuca e aveva acceso la tv appesa alla parete. Lanciava qualche occhiata distratta alle immagini che scorrevano sul video, ma si era goduto la vista del marito uscito dal bagno ancora umido e con qualche goccia che cadeva dai capelli e scivolava sul petto glabro.

Brian si era frizionato vigorosamente i capelli, aveva lasciato cadere l’asciugamano che gli cingeva la vita e si era infilato i boxer neri, inducendo Justin a storcere le labbra. Si era lanciato sul materasso, facendo sobbalzare il marito. Si era girato sul fianco e con il palmo sorreggeva la testa. “Che guardi?” “Niente di che, faccio zapping” Si era girato di trequarti e aveva appoggiato il capo sul petto di Justin che aveva iniziato subito a far scivolare le dita fra i suoi capelli. “Papà” aveva iniziato il biondo, con tono profondo. “Ancora un po’ mi viene un colpo, quando l’ho sentita. Adesso aspettiamo papi”

Justin aveva attorcigliato una ciocca al dito, ma i capelli era scivolati via alla prima voluta, ormai Brian li teneva troppo corti. Si era fermato un attimo, aveva sospirato così piano da non farsi quasi sentire “quando sarà il momento e comunque per me va bene anche Justin. È la cosa più bella che potesse capitarci, mi andrebbe bene anche se mi chiamasse con un fischio” Brian si era girato e gli aveva lasciato un bacio sull’addome, all’altezza dell’ombelico e il tocco delle labbra e l’alito filtrato dalla leggera stoffa della maglietta gli avevano provocato un piccolo brivido. “Certo che se tu parlassi di te come papi la aiuteresti” aveva commentato sulla sua pancia. La mano di Justin era risalita leggera la nuca e gli aveva solleticato la base della testa, scorrendo contro pelo sulla sfumatura dei capelli. “Lo ammetto, faccio fatica a chiamarmi papi. Sono Justin e la amo da matti, è la mia bambina. Tu sei papà per Gus da tanti di quegli anni che mi sembra normale che anche lei ti chiami così, ma io …” Non aveva finito la frase, aveva continuato ad accarezzare il marito, che quasi faceva le fusa. “Ti amo sai, papà?” gli aveva detto dopo qualche minuto. Come risposta Brian gli aveva stretto le braccia intorno alla vita e gli aveva sollevato la maglietta per sfiorargli la pelle con le labbra e poi inizia a succhiare il punto sensibile intorno all’ombelico. Justin aveva lasciato cadere la testa all’indietro, si era aggrappato ai capelli del marito e con una spinta delicata, ma decisa, gli aveva chiesto attenzioni verso il basso. Brian aveva alzato un attimo il viso, gli aveva sorriso e si era spinto contro di lui, per sentire meglio il gonfiore dell’erezione del marito, poi si era scivolato giù e con le mani gli aveva sfilato i boxer. “Ai tuoi ordini, papi” aveva detto prima di iniziare a leccargli la punta, che svettava impertinente fra le gambe del ragazzo.

A Justin aveva preso quasi un colpo, la mattina successiva quando, aperti gli occhi, avevano visto l’ora: 9.45! Susan mai e poi mai aveva tirato oltre le 7.45, quando andava bene. Invece nulla, neppure un soffio, o un sospiro, perché sicuramente uno dei due l’avrebbe sentito, mica si erano narcotizzati la sera prima.
“Cazzo Brian, starà male” Justin era balzato ansioso giù dal letto e si era fiondato verso la camera della bambina, trovandola vuota. Brian l’aveva seguito stropicciandosi gli occhi, come sempre un po’ meno ansioso del marito. Justin si era voltato interdetto, le sponde del lettino erano alzate e Susan non era ancora capace a scavalcarle, o almeno non lo era fino al giorno prima. Dove diavolo era allora?

Nel silenzio della casa e della domenica mattina, si era sentito un gridolino di felicità: “Ancoaaa Gus, ancoaaa!”

In due rapide falcate Brian aveva anticipato Justin in camera del figlio e aveva aperto la porta con brio, impreparato alla visione che lo attendeva.

“Cosa ci fa la mia bambina nella cesta della biancheria?”

“Montagne usse con Gus, no vedi papà?”

Sullo schermo della tv alla parete correvano le immagini delle montagne russe e Gus con la sorella rannicchiata dentro la cesta la muoveva al ritmo delle curve e sali-scendi.

“Ti ha spiegato tutto Susan, pa”

Justin era arrivato dietro e non aveva trattenuto un’esclamazione.

“Gus, sei un genio!”

Al che il ragazzo non aveva perso l’occasione per stuzzicare il padre, senza per altro perdere il ritmo del gioco per Susan. “Vedi papà, Justin sì che ha occhio per le menti brillanti”

Si era accucciato vicino ai figli, aveva scompigliato i capelli del ragazzo “in effetti questo è un colpo da maestro” poi si era allungato per dare un bacino alla scavezzacollo.

“Avete fatto colazione?” aveva chiesto Justin

“Sì. Susy si è sparata il solito biberon”

Brian e Justin si era fissati e avevano annuito compiaciuti. Gus era proprio un ragazzino come si deve e aveva un modo commoventemente dolce di trattare la sorellina. Certo, come sacrosanto, solo quando ne aveva voglia, in ogni caso insolito per un poco più che adolescente.

“Susy, ancora un giro e poi basta, non mi sento più le braccia”

“Ancora dueeee”

“E va bene, due, ma poi non rompi, eh?”

“No ompo. Pomesso”

Li avevano lasciati alle loro contrattazioni ed erano scesi in cucina. C’era bisogno di caffè.

Ritorna all'indice


Capitolo 69
*** RESA DEI CONTI ***


Forse pensavate (speravate) che non andassi avanti, invece eccomi qui con un nuovo capitolo. Non mi mancano le idee, ma il tempo. Alla prossima.

Con Susan erano tornati anche alcuni tratti del carattere di Brian che Justin aveva visto affievolirsi negli anni, a favore di una quotidianità più serena, senza le contraddizioni tipiche del marito. Non era solo Susan sulle montagne russe, a volte ci si sentiva anche lui, meno avvezzo di un tempo a gestire le virate di umore e comportamento di Brian. Non che non lo capisse, era stato travolto dalla sua scelta omertosa, i fantasmi sopiti, ma mai del tutto vinti, tornavano a fargli visita. A tratti Justin aveva paura. Una bomba li aveva riuniti tanti anni prima, adesso si sentiva come se una nuova esplosione fosse in agguato e lui non potesse fare altro che attenderla, sperando di essere fortunati, anche questa volta.
E la bomba era arrivata.   
Aveva lanciato il cappotto sul divano prima ancora che Brian avesse finito di tirare il portellone che faceva da porta al loft. Le dita erano corse veloci ad allentare il nodo della cravatta e utilizzando il tacco della destra si stava sfilando la prima scarpa: nera, stringata e scomodissima. Detestava la divisa da marito che gli toccava indossare quando accompagnava Brian a eventi ufficiali.
Fosse stato per lui con il giorno del matrimonio si sarebbe conclusa la sua storia con la cravatta e invece gli toccava, in alcuni periodi anche più volte al mese. I dolori del matrimonio, lo prendeva in giro Brian mentre lo vedeva stringersi il nodo neppure fosse quello scorsoio.
“Trenta secondi e sembra esplosa la bomba atomica…” aveva considerando Brian seguendo la scia di indumenti lasciata dal marito, ormai non se lo ricordava più il suo loft immacolato, intonso e ordinatissimo. Si trattava di ere geologiche prima che un ragazzino biondo gli invadesse la casa e la vita. Nel raggiungerlo aveva acchiappato le scarpe per portarle in camera, in entrata, una qua e una là, proprio no.
“Devo disdire il contratto di affitto e ricordami di dire a Ethan se vuole subentrare”
Non era chiaro se fosse arrivato prima il tonfo delle scarpe sul pavimento, il bruciore alla guancia o il baluginare all’occhio destro. Incredulo si era passato le dita sullo zigomo e strofinato l’occhio con il dorso della mano. Sul serio gli aveva tirato uno schiaffo?
“Non voglio mai più sentire quel cazzo di nome in casa mia. Ti è chiaro Justin? Mai più!”
Aveva sgranato gli occhi “Mi schiaffeggi, casa tua, dai ordini … sei impazzito?”
Brian manco lo considerava. “Lo odio. Odio il suo nome, odio la sua esistenza, odio quello che finisci per fare ogni volta che c’è fra i coglioni quel musicista di merda!”
“Che minchia c’entra Et …” il nome era rimasto incompiuto perché era stato ammutolito da uno sguardo feroce. Poi Brian aveva chiuso gli occhi e i muscoli del viso erano guizzati nervosi “Non mi provocare perché non so se riesco a trattenermi, ti meno. Pronuncia ancora una volta quel nome e ti meno”
“Ok, non lo dico, ma non c’entra un cazzo lo stesso”
“Anzi! Menomale che c’era lui in questi mesi, fra il lavoro e una bambina, chissà come avresti fatto. Adesso invece ti devi accontentare di me, che sfiga”
“Cristo santo Brian, ma cosa stai dicendo?”
“Io a casa a tenerti il letto caldo, a farmi trattare di merda e lui sapeva tutto. Lo hai fatto stare con nostra figlia e a me raccontavi cazzate. Sai le risate che si sarà fatto, per la seconda fottuta volta nella sua miserabile vita. Io sul serio non lo voglio mai più sentir nominare e non provare a fargli vedere ancora Susan”
“Ok. Non sentirai più quel nome e non lo vedrò più se questo ti fa stare meglio, ma …”
“Tu vedi chi cazzo vuoi, tanto lo faresti comunque, ma non ci provare con Susan” gli aveva ringhiato contro minaccioso.
“Tranquillo, mai più. Cambiamo strada se lo incrociamo”
“Non mi prendere per il culo”
“Non ci penso neppure, sono serio. Faccio tutto quello che vuoi, tutto quello che ti serve per trovare un po’ di pace. Brian. Ehi Brian? È tutta colpa mia, lo so benissimo. Tu odi lui, io odio me per farti stare così, per averti fatto questo, ma questo dolore passerà. Te lo prometto, Brian. Passerà, perché te lo farò passare.”
“Il nuovo mago della pioggia …”
“Vedrai”
“Ma che cazzo vuoi che veda?!” Si era slacciato l’orologio dal polso e l’aveva sbattuto senza rendersene conto contro lo spigolo del comodino. Il vetro del quadrante si era incrinato e aveva imprecato.
“Vedrò, come sempre, quel che mi vuoi far vedere. Quando si tratta di te, sono un perfetto coglione.”
Questo aveva fatto più male della sberla. Justin aveva mosso due passi all’indietro, come se cercasse di mantenere l’equilibrio.
“Ok” aveva detto tentando di articolare una frase, ma per l’ennesima volta era stato interrotto.
“E smettila di dire ok.”
Era in mezzo alla tempesta perfetta. Aspettare, non combattere le onde seguirle e sperare che la barca reggesse, poteva fare solo questo.
“ … me ne sono fatto una ragione anni fa, non ci so stare senza di te. Chi l’avrebbe mai detto che Brian Kinney sarebbe stato in balia di un biondino? – aveva schioccato la lingua - Però così è e io sono un tipo pratico, non combatto guerre che non posso vincere.”
Gli aveva preso la mano a tradimento e l’aveva strattonato verso di sé. Negli occhi un desiderio maligno.
“Vieni qui”
Il bacio era stato volgare. Justin aveva impiegato qualche secondo a reagire.
“No, così no” si era divincolato.
“Beh, adesso neanche più il sesso coniugale?”
“Io con te ci faccio l’amore e questa è cattiveria. Lasciami stare”
L’aveva di nuovo afferrato, questa volta per l’avambraccio. Justin non si era opposto, anzi gli si era fatto vicino. “È questo quello che vuoi? Farlo in questo modo per poi pentircene?”
“Di una buona scopata non mi sono mai pentito”
“Invece di menarmi preferisci questo? E allora accomodati, scopami, sfogati su di me, si tratta di questo” e aveva accennato ad abbassare i pantaloni.
Brian glieli aveva rialzati con sgarbo e si era riallacciato i bottoni della camicia “Ora decidi pure il livello minimo sindacale di tenerezza … Io me ne vado”
“È tardi, dove vai?”
“Non sono cazzi tuoi.”
  Si era lasciato cadere seduto sul materasso. Il silenzio adesso era soffocante. Solo, in quel loft, gli mancava il fiato. In parte se l’aspettava, non era credibile che una stronzata come quella che aveva fatto lui e un terremoto di quelle dimensioni passasse nelle loro vite senza grandi sussulti, ma Brian ridotto così non lo immaginava, non aveva capito. Gli faceva male il petto, risentiva le parole di Brian, non ricordava le espressioni crudeli, che forse, anzi di sicuro, si meritava, gli tornava l’eco della voce, dell’urlo o dei toni bassi carichi di un’ira trattenuta malamente che faceva tremare le sillabe come fossero pianto. E adesso chissà dov’era, nel cuore della notte, incazzato come una mina, poteva fare qualunque stronzata. Non voleva neppure pensare che non sarebbe tornato, ma la paura c’era e gli mordeva le chiappe. E se ci avesse provato, sul serio, come sa fare Brian, ma la delusione, il tradimento, fosse stato troppo grosso e adesso rimanesse solo per Susan? Lui, Justin, come avrebbe fatto?
Aveva smesso di fumare ai tempi di NY, però adesso aveva bisogno di una sigaretta, avrebbe preferito una canna, ma erano lontani gli anni nei quali avevano sempre una scorta di maria. Sapeva dove Brian teneva il pacchetto d’emergenza e anche se era un po’ che non venivano al loft, sperava che ci fosse. A fatica si era alzato dal letto e diretto nella zona giorno, verso la scrivania. Nel cassetto, ordinato, fra matita, stilografica, post it, un blocco e penna usb, c’era un pacchetto aperto con ancora sei o sette sigarette, infilato dentro l’accendino. La prima boccata gli aveva bruciato la gola, infiammato i polmoni, il colpo di tosse era arrivato puntuale come la prima volta che aveva fumato di nascosto nei bagni della scuola. Si era spostato davanti alla grande vetrata. I fari delle poche auto in giro a quell’ora invadevano di lampi attutiti e brevi il buio della stanza. Si era mosso per il loft senza accendere la luce, gli bastava la poca che filtrava dalla camera da letto. Conosceva quel posto come le sue tasche, era casa sua, tanto quanto di Brian e adesso era lì sperando di vederlo tornare. Una sigaretta, due, tre. Brian non era rientrato, probabilmente quella notte non l’avrebbe fatto. Aveva raccolto quel poco di coraggio che gli rimaneva, aveva spento l’ultima sigaretta e si era buttato a letto, solo che non riusciva a dormire, così dopo mezz’ora si era trovato seduto sul bordo, con le gambe fuori, i gomiti puntati sulle cosce e la testa fra le mani. Aveva un po’ freddo, ma non gli importava. 
Il brivido che l’aveva attraversato non era dovuto a quello, ma al fatto che gli era sembrato di sentire il fruscio della porta scorrevole. Nel dubbio si era cacciato sotto le coperte, non voleva farsi trovare ad aspettarlo, non voleva costringerlo a parlare. Aveva finto di dormire, sperava solo che il battito del cuore, che gli arrivava in gola, non si sentisse forte quanto a lui martellava nel petto. Steso su un fianco, gli dava la schiena. Non si sentiva un suono, solo i loro respiri, non lo vedeva, ma Brian sembrava immobile. Poi, anche se aveva cercato di non fare rumore, si era sentito il clac del cassetto. Semplicemente aveva dimenticato qualcosa e aveva aspettato di essere certo che lui dormisse, per rientrare a prenderla. Non si era mosso, ma gli scappava da piangere ed era rimasto in attesa di sentirgli riprendere la porta. Invece Brian si era soffiato il naso. Aveva preso un fottuto fazzoletto e a lui ancora un po’ veniva un infarto. Aveva avvertito chiaramente il suono della fibbia della cintura ticchettare sul parquet, si stava spogliando e doveva essere ancora turbato, se mollava tutto sul pavimento. L’aria fresca l’aveva investito, quando aveva sollevato le lenzuola dalla sua parte e poi il materasso aveva un po’ ceduto sotto il peso. Era lì, era tornato a casa, nel loro letto. Riusciva di nuovo a respirare, gli era sembrato di essere rimasto in apnea da quando era uscito.
“Ma dove cazzo vuoi che vada, stronzo?” aveva detto alla notte, dal momento che pensava lui stesse dormento, e delicatamente gli aveva passato un braccio intorno e accarezzato leggero come una piuma l’avambraccio, poi aveva sospirato.
Justin si era voltato a sorpresa.
“Ehi…”
“Ehi” aveva risposto a pochi centimetri dal naso.
“Come stai?”
Brian aveva sollevato le spalle.
“Menomale che sei tornato” aveva detto il marito, dando voce all’ansia.
“Mai pensato di non farlo”
“Ho temuto di sì, avresti delle buone ragioni. Mi dispiace così tanto Brian, ma così tanto” non si era più trattenuto, non era certo la prima volta che lo vedeva piangere e aveva stretto le braccia intorno al marito, le dita della mano erano affondate nella spalla.
Brian l’aveva sollevato un pochino sistemandoselo meglio addosso.
“Sentirti quel nome sulla bocca, accorgermi che avevi un pensiero per lui mi ha fatto impazzire. Non volevo colpirti, ma avrei potuto fare di peggio. Mi faccio paura”
“Ci stava.”
“Forse nel paleozoico. Ed è anche totalmente illogico - aveva scosso la testa. - Ma Cristo Justin, come hai potuto?”
“Volevo difenderti. E’ stata una grandissima idiozia, ma volevo solo proteggerti”
“Enorme”
“Smisurata”
“Non fare mai più una cosa simile”
“Mai più”
“Sarà meglio, perché come hai visto mi sono scoperto violento”
“Puoi contarci, non amo sfidare la sorte”
Mentre parlavano si erano avvicinati fino a sfiorarsi, Brian aveva strusciato il naso sulla guancia di Justin, dove si era appoggiato violento lo schiaffo. Era buio e non poteva vedere un’eventuale rossore.
“Ti fa male?”  
“Un po’” aveva risposto sorridendo, inclinando il viso. Il naso aveva lasciato il posto alle labbra. Un bacio delicato, a chiedere scusa. 
“Hai una buona tecnica”  
“Talento naturale”
E finalmente una risata aveva riempito la camera.
“Dove sei stato?”
“In giro, ho camminato su e giù per Liberty Avenue così tanto che uno mi ha chiesto quando prendo.”
“Idiota!”
“Giuro”
Era bello vederlo di nuovo cazzone.
“Non ho scopato”
“Non te l’ho chiesto”
“Allora?” gli occhi luccicavano divertiti.
“Allora cosa?”
“Quanto prendi?”
Brian era scoppiato a ridere.
“Servizio completo 500 dollari”
“Un po’ tanto”
“Ti ricordo che stai parlando di me …”
Justin gli aveva passato le dita fra i capelli e appoggiato un bacio leggero, poi un soffio sulle labbra: “Dopo ti stacco un assegno da 1000”
“Affare f…” la voce era stata risucchiata dalla bocca di Justin, la lingua era entrata senza convenevoli, lo succhiava, lo assaggiava, gli lucidava i denti e poi scappava senza farsi prendere.  Si era staccato solo un attimo, portandosi fra le labbra il suo inferiore.
“Hai un buon sapore”
“Whisky, ne ho bevuto due”
“Non è il liquore, sei tu”
Le mani erano volate sotto la maglietta bianca che Brian usava normalmente per dormire. Nel buio per sbaglio doveva aver preso una delle sue, era così attillata che sembrava una mise di Emmett. Le mani scivolavano a fatica, strette fra la pelle e il cotone, imponendo una carezza ruvida e Justin aveva incontrato capezzoli turgidi e sensibili quando era riuscito a risalire. Brian era sulla schiena, il capo abbandonato sul cuscino e gli occhi semichiusi, le mani scivolavano sulla schiena di Justin, poi rapide gli avevano sfilato la t-shirt, aveva agganciato il collo del marito, un piccolo colpo di reni e la lingua era entrata maliziosa e stuzzicante nell’orecchio, poi era scesa sul collo, umida e calda, aveva invertito le posizioni, adesso era Justin steso sulla schiena e lui scendeva verso lo sterno, giù fino all’ombelico, lo leccava e baciava, con la punta della lingua entrava ed usciva in quel piccolo pertugio che in Justin era incredibilmente sensibile. Adorava il ventre piatto e teso di Justin, adorava sentire i muscoli contrarsi sotto la sua lingua e le sue dita. La maglietta che ancora portava era diventata improvvisamente insopportabile, si era staccato un secondo per sfilarla alla velocità della luce. Justin aveva commentato con un soddisfatto: “Meglio” prima di appoggiare le mani calde sul petto del marito, poi aveva accennato a voltarsi e mettersi comodo per essere preso.
“Hai fretta Jus?”
“Un po’”
Decisamente Brian aveva invece tutta l’intenzione di prendersela comoda. La mano era arrivata veloce all’inguine, era bello, duro e un po’ storto verso sinistra, Justin tendeva al democratico anche nel cazzo. Anticonvenzionale, leggermente disordinato, caratteristico, amava sentirlo in bocca, un po’ di sbieco, adorava i piccoli scatti che tentavano di portarlo a una rettitudine che non gli apparteneva, occupandolo in posti che non si aspettava.
Farlo venire così, decidere quando, assaggiarlo. Avere il controllo e desiderare, inaspettatamente, di perderlo.
“Siamo a un livello abbastanza accettabile di tenerezza?”
Aveva riso e quegli amatissimi occhi azzurri brillavano allegri. La carezza era stata lieve mentre annuiva, la pacca sulla guancia secca, maschia, tipica di Justin. Il battito accelerato, forte che aveva sentito sotto il palmo, quando aveva piegato le gambe e aperto le cosce, l’aveva quasi spaventato.
“Brian …”
Era stato il suo turno di annuire e di tornare a casa.
Lo aveva preso piano, dolcemente, assicurandosi di avere tutto il tempo, lo aveva baciato, preparato e poi era scivolato in lui. Era stato dolce e si era reso conto irrimediabilmente di quanto gli fosse mancato l’abbandono di Brian in quelle settimane. Non si era sfilato, ma semplicemente appoggiato sul petto del marito, le braccia erano scivolate sotto la schiena e l’aveva abbracciato silenzioso fino a tornargli duro dentro. Brian aveva iniziato piano a farlo ondeggiare, poi non c’era più stato nulla di romantico e dolce, solo passione e caldo e sudore e parole ardite pronunciate nell’orecchio e rubate al respiro.
“Toccati Brian, fammi vedere come ti tocchi mentre ti faccio godere” e Brian si era toccato senza abbandonare un secondo i suoi occhi. Quanto era venuto con la bocca aperta e un rauco suono strozzato Justin aveva creduto di essere risucchiato e gli era esploso dentro in un orgasmo intenso e feroce.  
Dopo qualche minuto si era alzato, aveva fatto un salto in bagno e poi aveva preso una bottiglia d’acqua prima di tornare al letto dal quale Brian non si era mosso. Era rimasto sdraiato sulla schiena, le braccia incrociate dietro la nuca e gli aveva sorriso. “Buona idea, ho sete anche io” aveva allungato la mano verso la bottiglia aveva dato una lunga sorsata, per poi riconsegnarla a Justin che invece di appoggiarla aveva usato il liquido residuo per pulirgli l’addome. Solo che l’acqua era fredda di frigo e il marito aveva fatto un salto sul letto. “Mi vuoi far venire una sincope?” “Shhh zitto! Sei tutto appiccicoso, io voglio usarti come cuscino, ma mi pare evidente che sei troppo pigro per andare a pulirti” l’aveva ricacciato giù con una manata scherzosa e aveva terminato sommariamente l’opera e poi, come promesso, l’aveva usato come guanciale.
“Quando mi amavi usavi una salvietta umida e tiepida”
“Quando ti amavo, infatti, mica come adesso” gli aveva stretto le dita intorno alla coscia, Brian era suo e lui apparteneva a Brian.
Brian gli aveva preso la mano, intrecciato le dita con le sue poi aveva portato le nocche alla bocca, baciandole una a una.
“Comunque – aveva iniziato Justin inseguendo un suo pensiero – sono io che non so stare senza di te, tu ci riusciresti, io no, non credo proprio. Ho bisogno di te, non tu di me. Ho bisogno della tua intelligenza, della tua ironia, della tua stronzaggine, della tua pelle, dei tuoi occhi, del tuo profumo, di come mi guardi quando mi ami e ti sono infinitamente grato di essere ancora qua, in questo modo.”
“Ti amo, biondino, talmente tanto da ridurmi così, renditi conto della responsabilità che hai!” gli aveva scompigliato i capelli e poi con un dito sotto l’ascella gli aveva fatto il solletico e Justin si era dimenato come un’anguilla invocando pietà. Non l’aveva ottenuta subito.
Amore, sesso, gioco e risa, poi era arrivato un silenzio quieto, sdraiati a pancia in su, le dita intrecciate, lo sguardo a seguire i ghirigori delle ombre sul soffitto.
“Domani mattina hai appuntamenti?”
“No, perché?”
“Allora scrivi un messaggio a Cynthia che arrivi nel pomeriggio, io lo mando a Naty per dirle che fino a mezzogiorno Susy è ancora faccenda sua - Brian l’aveva guardato interrogativo e il marito aveva continuato – Fra uno schiaffo, una passeggiata adescatrice, la mia disperazione e il tuo ritorno, fra l’amore e il solletico si sono fatte le cinque del mattino. Io devo dormire qualche ora o non sopravvivrò a Susy e tu pure devi riposarti o chissà cosa mi combini”
“E pensare che un tempo facevi 1500 al test d’ingresso”
L’idea gli era sembrata buona perché aveva afferrato il cellulare dal comodino e già stava componendo il messaggio.
Stava quasi per addormentarsi quando l’aveva sentito alzarsi.
“Che hai? Dove vai?” gli aveva chiesto allungando il braccio sul materasso, per toccarlo.
“Mi continua a colare il culo e mi dà fastidio” era stata la prosaica risposta.
Justin aveva sghignazzato a bassa voce, il romanticismo di Brian non conosceva limiti. 
L’aveva destato l’aroma del caffè e un lontano rumoreggiare di stoviglie. Si era stiracchiato e poi aveva allungato la mano verso l’orologio poggiato sul comodino: undici e venti, non male! Brian doveva averlo sentito andare in bagno perché se lo era trovato sorridente sul primo dei tre gradini che portavano alla camera rialzata. Era già parzialmente vestito, pantaloni grigi dalla piega impeccabile, cintura nera di fine vitello coordinata alle scarpe inglesi stringate. La camicia bianca aveva le maniche sbottonate e non indossava ancora la cravatta.
“Hai fame? Io ho già iniziato, sono quasi in ritardo, ma non ho avuto il coraggio di svegliarti”
Si era passato la mano fra i capelli e stropicciato gli occhi.
“Hai cucinato?” Il tono era fra lo stupefatto e il preoccupato.
“Ti ringrazio per la fiducia, ma no. Ho solo preparato il caffè, il resto arriva dalla brasserie all’angolo. Se si vuole accomodare, Signor Taylor, il brunch è servito”
Era stato un bel risveglio quella mattina, mentre finiva con calma di consumare il pasto e Brian terminava di vestirsi, gli erano passate davanti le immagini di altri risvegli, di altre mattine e molte colazioni. Era lì, in quella casa allora sconosciuta che, ragazzino, una notte aveva seguito un figo sballato e si era compiuto il loro destino. Fra quelle mura c’era stato tutto: sesso, paura, amore, rabbia, risa e pianto, silenzio, allegria, solitudine, cattiveria e perdono e poi di nuovo amore in un rincorrersi inesausto che è la loro vita. Nelle piccole scalfitture sul piano di cottura, che prima della sua venuta era perfetto, intonso e mai utilizzato, nei segni sbiaditi del gancio della TV a parete che Brian cambiava a ogni nuovo apparecchio, nella scrivania più grande che avevano comprato per poterci lavorare entrambi e che turbava l’armonia stabilita dall’arredatore, ma che a loro era sembrata perfetta, nei segni sul parquet, nelle macchie di vino che non erano mai andate via del tutto, ma solo loro conoscevano nascoste dal tappeto, lì c’erano loro. Non era mai stato contento come in quel momento di aver convinto Brian a non vendere il loft.
“Che c’è?” gli aveva chiesto il marito passandogli a fianco, pronto ad uscire.
“Niente – gli aveva sorriso – pensavo a quanta vita c’è fra queste mura a quanta vita ho io con te, mi sembra di essere tuo da che ho memoria. Esistevo prima di te?”
“Esistevi, esistevi – gli aveva risposto, abbracciandolo alle spalle e appoggiando il mento su di lui – eri un dannatissimo ragazzino, intelligente, rompicoglioni, caparbio e incapace di accettare un no come risposta, allegro e pieno d’amore e di rispetto, capace di darlo e di pretenderlo. Esistevi, esisti ed esiterai sempre, mi hai dato contorni che non sapevo di avere, mi hai disegnato meglio di quel che ero perché sei un fottutissimo, faticoso e adorabile genio”

Ritorna all'indice


Capitolo 70
*** DEMOLIZIONI ***


“E’ domani che Susan deve andare al Centro Psiche?”
“Sì. La faccio uscire un po’ prima dall’asilo così anche se c’è traffico arriviamo in tempo”
Brian aveva annuito e aveva finito di sbucciare un pezzo di mela, era rientrato tardi quella sera. Susan già a letto, Gus al cinema, solo Justin a fargli compagnia nella frugale cena.
“Mi pare vada decisamente meglio, chi l’avrebbe detto”
“Giocare, colorare, disegnare, musicoterapia, motricità ti sembrava una sonora cazzata lo so, invece …”
Aveva appoggiato il coltello sul piatto, si era infilato la frutta in bocca e aveva annuito.
“Invece devo ammettere che sembra funzioni, non si terrorizza più se sente un rumore forte. Dobbiamo molto agli strizzacervelli nell’ultimo anno”
“Parcella salata eh?” aveva scherzato il biondo togliendo piatto e bicchiere dalla tavola, mentre Brian si stiracchiava sulla sedia e ridacchiava a voce bassa “anche quello, Cristo. Se sei povero è meglio che il cervello ti funzioni bene, se no sono cazzi tuoi, ma no, non intendevo questo…”
“Lo so. Com’è che dice Dani? Siete stati bravi a scegliere di farvi aiutare, quindi: Bravo papà! E paga” e aveva riso sommessamente pure lui.  
“Passate in Kinnetic quando avete finito?”
“Se non è troppo stanca, pensavo di sì”
“Bene” si era alzato aveva circondato la vita di Justin che era rimasto appoggiato con il fianco al top della cucina e lo aveva tirato a sé. “Sono stanchissimo, ti va un po’ di tv?”
“Yes, pensi di reggerlo un film?”  si erano incamminati verso il salottino, quando Brian aveva cambiato idea “film ok, ma meglio a letto, non garantisco sulla mia durata”
“Giuro che non lo dirò a nessuno” aveva sghignazzato Justin guadagnandosi un pizzicotto sulla chiappa.  
Susan era uscita dalla seduta ancora piuttosto vispa, era dotata di batterie al plutonio quella bimba e ora aspettavano Brian nella sala riunioni collegata al suo ufficio.
“Susan non saltare sul divano che papà si arrabbia. Cosa vuoi vedere? Pimpa o Tom e Jerry?” Le aveva chiesto armeggiando con il telecomando puntato sullo schermo a parete.
Non gli aveva risposto era scivolata giù dal sofà e stava trotterellando verso la porta.
“Ferma lì, dove vai?”
“Da papà”
“Papà sta lavorando e non gli devi dare fastidio, lo aspettiamo qua”
“Io no do fattidio a papà” e non aveva interrotto la marcia. “Però stai dando parecchio fastidio a me visto che non obbedisci.” L’aveva acchiappata per la collottola e la teneva sollevata da terra con i piedini che si agitavano per aria.
“Lasiami” scalciava “Jutin, lasiami …”
Si era trovata seduta sul divano in un amen con Justin che la fissava deciso.
“Zitta, ferma e muta, prima che mi incavoli sul serio. Cosa vuoi vedere?” le aveva chiesto nuovamente. “Tom e Jerry” aveva risposto come se niente fosse la bimba che evidentemente aveva imparato dal papà a non combattere battaglie perse.
C’era stata una frazione di secondo in cui il frastuono della città era quasi scomparso, i clacson sembravano ammutoliti, il rumore degli uffici silenziato o forse era l’inganno della mente al grandioso boato che ancora faceva vibrare la struttura di mattoni e vetri della Kinnetic.
L’esclamazione di spavento era rimasta strozzata nella gola di Justin mentre cercava di stringere Susan che, isterica, gli era balzata in braccio, tremante e in lacrime, con gli occhi sbarrati dal terrore, come sperava di non vederla più.
“Cristo che botta” aveva esclamato Brian al di là della porta a vetri che separava il suo ufficio. “Chyntia – gli avevano sentito dire all’interfono – ma non doveva essere domani sta fottuta demolizione? Meno male che Jus e Susan non sono ancora arrivati…”
“Capo, in realtà ti stanno aspettando in sala riunioni, eri al telefono quando sono arrivati” aveva riposto con la voce un po’ alterata dalla paura, il fragore aveva colto tutti alla sprovvista.
“Oh porca put …” aveva sentito nell’interfono prima che Brian, evidentemente, chiudesse la comunicazione.   
Li aveva raggiunti e aveva trovato Justin con la bambina in braccio soffocare sul petto quel che rimaneva del pianto di Susan. I loro occhi si erano incrociati.
“Susan ha avuto paura, ma ora sta passando … vero topolina?”
Aveva tirato su con il naso e rialzato la testa giusto in tempo per vedere papà che si avvicinava.
“Hai avuto di nuovo paura? Anche io sai? Era una botta forte”
“Sì, tanta paua. Tutta qua dento, ho pianto tanto. Andiamo bia, non mi piace più qua, butto rumoe” e aveva allungato le braccia verso Brian che l’aveva sfila dalle braccia del marito. Poi si era girata: “Papi, bieni bia anche tu” lo aveva chiamato con la manina. E il vero boato era esploso nel cuore di Justin a sentire quelle due sillabe dalle labbra di Susan. Si era appoggiato con la mano allo stipite della porta dalla quale stavano uscendo Brian e Susi, il respiro mozzato e gli occhi lucidi. Brian era brevemente tornato sui suoi passi “Vai in braccio a papi, che devo parlare un attimo a Chyntia” ed era sparito, lasciando al suo uomo due minuti di intimità per gestire quell’emozione con sua figlia.  

Ritorna all'indice


Capitolo 71
*** NUOVO INCARICO ***


“Sono a casa” aveva urlato dall’ingresso lanciando le chiavi dell’auto sulla mensola e sfilandosi le scarpe con i talloni, ma nessuno aveva risposto. Il tunz tunz che arrivava dal piano alto certificava che almeno Gus c’era e ascoltava quella sua musica di merda. Trap Pa, non musica di merda. E’ vero, una merda di musica, mi correggo.
“Oh Signor Brian è lei” lo aveva salutato Naty, uscendo dalla cucina e asciugandosi le mani nel grembiule, dietro era schizzata una piccoletta color caramello con i ricciolini sparati in testa e uno sbuffo di farina sulla guancia sinistra.
“Ciao Papà” lo aveva accolto con entusiasmo e gli era saltata in braccio “sto fando i bicotti”
Naty aveva sorriso “ho steso l’impasto per una torta salata e lei mi aiuta”
“Beata te Naty, con un’aiutante di questo calibro. Justin non c’è?”
“Sì, ma credo sia in studio, non l’ho più visto dopo che è andato a prendere Susy all’asilo”
“Cos’è calibro?” si domandava Susan che imparava vocaboli a un ritmo vertiginoso, storpiava ancora qualche pronuncia, ma parlava sempre meglio. A Brian quasi dispiaceva che presto quelle parole incerte sarebbero sparite dalla loro casa, probabilmente Jus aveva ragione a segnarsi su un quaderno le migliori uscite di Susan, sembrava impossibile dimenticarle, eppure ricordava solo qualche frase celebre di Gus, ma sentiva di aver perso nei recessi del tempo suoni e colori che avrebbe dovuto fissare su supporto più affidabile della memoria.
“Naty la torta è buona anche domani?” Aveva chiesto un po’ colpevole, detestava dare l’impressione di non dare valore al lavoro altrui.
“Domani sarà ottima, la lascio in forno”
“Stasera volevo portare la famiglia a cena per festeggiare, MA SICCOME NON MI CAGA NESSUNO a parte la piccoletta, mi sa che ci porto solo lei.”
Jus gli era arrivato dietro e con un braccio gli stava avvolgendo la vita.
“Alla buonora, se non ci fosse Susan potrei non tornare e nessuno se ne accorgerebbe”
“Ah Kinney, ti adoro quando fai la drama queen” gli aveva lasciato un bacio sulla nuca e aveva chiesto cosa dovevano festeggiare.
“Susy, vai a chiamare tuo fratello e digli di prepararsi che si esce”
Si era voltato verso il marito che stava intimando alla bambina di non correre su per le scale. Naty era rientrata in cucina e la si sentiva trafficare.
“Quindi?”
“Nuovo contratto!” aveva esclamato.
“Sei un po’ più milionario? Mi toccherà vendere qualche nuovo quadro per starti dietro?” lo incalzava scherzosamente.
“Buon compenso, ma non eccezionale”
“E allora?...”
“Politica Jus!”
Il biondo guardava perplesso questo entusiasmo altamente insolito.
“Non hai mai amato gli incarichi di questo genere…”
“Brad Hamilton, Jus. Quest’uomo mi piace, poche stronzate, idee chiare, poche romanticherie ideologiche ed è gay”
Mi piace ed è gay nella stessa frase, dalla bocca di Brian e a Justin stava già sul cazzo.  
“E poi è democratico, dovrebbe piacere anche a te questa volta” aveva scherzato, tirandolo per la mano verso di sé.
“Lo adoro già” e Brian non aveva colto l’ironia del tono.

Ritorna all'indice


Capitolo 72
*** Dr. HAMILTON ***


Aggiornamento corposo per farmi perdonare la latitanza. 

“Che palle però Brian, è la terza volta in meno di venti giorni e non è che possiamo rompere il cazzo sempre a Gus, speriamo che la baby sitter sia libera”
“Possiamo sempre chiedere a tua mamma o a Debbie” aveva suggerito per attenuare il cattivo umore del marito.
“Ma certo, tanto è un pacco, un po’ con un uno un po’ con l’altro, vanno bene tutti, l’importante è presenziare a ste cene del cazzo con il tuo nuovo amico. Che diciamolo, deve essere un politico di merda se non riesce a programmare bene neppure il calendario degli eventi. Due giorni prima, porca vacca, te lo dice?”
“Veramente sono io che mi sono scordato di dirtelo per tempo” aveva risposto un po’ in colpa, poi aveva riflettuto sulle parole precedenti di Justin e un lampo nervoso era transitato veloce nei suoi occhi. “Ah io tratto Susan come un pacco, dì un po’ sei scemo o solo stronzo? Pensavo di chiamare le nonne, non il postino eh? In ogni caso io ci devo andare, è lavoro, se accompagnarmi ti disturba a tal punto, poco male, vado da solo. Certo sarebbe meglio ci fossi anche tu”
“Ovvio, che se non faccio la brava moglie al tuo braccio poi iniziano a insinuare che ci sia crisi e la cosa appannerebbe di riflesso l’immagine del bel dottorino”
“No, coglione, sarebbe meglio per me, perché con te reggo meglio anche queste fottute serate di raccolta fondi. Non ho capito bene da quando hai iniziato a pensare che a me piaccia andarci.”
Non penso che ti piaccia andare alle raccolte fondi, penso che ti piaccia andate alle raccolte fondi del brillante dott. Hamilton, ecco cosa avrebbe voluto dirgli, invece di abbozzare e digitare veloce un wa al quale era seguita un’altrettanto veloce risposta. “Steffy può, quindi ti accompagno” aveva borbottato ruvido.
Erano stati i primi ad arrivare, Brian voleva discutere di alcuni dettagli del discorso con Brad, parlargli di alcune idee che gli erano venute all’ultimo momento, ma che pensava interessanti. Da tanto non lo vedeva così attento e impegnato personalmente per un cliente e pensare che Brian non era mai stato particolarmente attento alla politica e alle sorti dei vari politicanti, come li chiamava, per quanto questa non fosse la prima campagna che la Kinnetic portava avanti.  Si stava esponendo in prima persona e metteva in mostra anche lui, la loro unione, la prossima tappa sarebbero stati i figli, ne era certo. Una famiglia gay, come manifesto per il sostegno a questo brillante medico democratico, che incredibilmente aveva infiammato l’animo civico del marito.
Brad aveva tutto per piacere a Brian, era alto, moro, aveva da poco superato i quarant’anni, un fisico invidiabile e una dentatura perfetta, maniere eleganti, ma non leziose. Veniva da una ricca famiglia del sud con una lunga tradizione in politica, peccato che fosse una tradizione repubblicana e che lui, la pecora nera, fosse invece dichiaratamente gay e molto, molto democratico. Questo gli aveva assicurato la freddezza da parte del padre e il quasi ripudio dal resto della famiglia che contava, rendendolo però molto apprezzato e spendibile nel campo avverso. Era ambizioso e non faceva nulla per nasconderlo, sapeva parlare e scaldare gli animi. Giocava per sé, ma per arrivare riteneva che la via migliore fosse giocare anche per la comunità e scelta questa strada vi si era dedicato con passione e intelligenza. Brian trovava che fosse un ottimo politico, proprio perché non era spinto esclusivamente da ideali irrealizzabili, voleva il meglio per sé, dimostrare di essere un cavallo di razza e questo lo rendeva, ai suoi occhi, più affidabile di tanti sognatori. Non che avesse torto, il dott Hamilton era un gran figo, in tutti i sensi, peccato che lui proprio non riuscisse a farselo piacere. Forse il problema era semplicemente che piaceva troppo a Brian.
Stava ammirando i Turner che impreziosivano le pareti della grande sala da pranzo, ma con la coda dell’occhio osservava i due parlare. Uno di fronte all’altro, piuttosto prossimi. Belli da togliere il fiato, eleganti e sicuri, in confidenza. Quella dannata mano di Brad che si muoveva per aria a sottolineare un concetto e poi planava decisa sulla spalla di Brian, si fermava un attimo e stringeva, ecco lui quella fottuta mano l’avrebbe volentieri amputata, che poi ci sarebbe voluto altro che un chirurgo come Brad per riattaccarla.  
Si dava fastidio da solo, non poteva credere di essere diventato una checca gelosa. A questo gioco non sapeva giocare, fra di loro, quello possessivo era stato sempre e solamente Brian. Non conosceva le regole e gli sembrava di avere pessime carte in mano.  
L’occhiolino, pure l’occhiolino gli aveva fatto, dopo aver concluso il discorso. Cristo! Terminata la parte barbosa adesso toccava al momento divertente della serata con un piccolo spettacolo di cabaret e poi danze. Per quanto lo riguardava ne aveva avuto abbastanza, ma sapeva che sarebbe stato chiedere troppo sperare che potessero dileguarsi così presto. Brian infatti si era sistemato comodo sulla sedia, aveva sorriso a Brad, aveva allentato di poco, ma quanto bastava per respirare meglio, il farfallino e si apprestava a godersi lo spettacolo. Stava andando tutto secondo i piani, il discorso era stato di spessore ed emozionalmente forte, Brad era riuscito con maestria a inserire in modo coerente e fluido i suggerimenti dell’ultimo minuto, la platea aveva reagito come Brian si aspettava, le donazioni sarebbero state buone, ma quel che più gli importava era aver capito ancora meglio come indirizzare le prossime mosse del suo cliente.
Justin aveva sospirato e si era accasciato stanco, appoggiando con poca eleganza i gomiti sul tavolo, mentre le luci si abbassavano e gli artisti facevano il loro ingresso sul piccolo palco.
La mano di Brian si era impadronita leggera della sua e le aveva spostate entrambe in basso appoggiandole sulla sua coscia. Con il pollice gli accarezzava il dorso con movimenti circolari, era un gesto così usuale, anche mentre guardavano la tv a casa, che a Justin era sembrato che Brian neppure si stesse rendendo conto di farlo. Questo pensiero lo aveva portato a togliere improvviso la mano alla cura del marito, che aveva impiegato qualche secondo a reagire, impegnato com’era a ridere di una battuta. 
“Tutto ok, Jus?” gli aveva chiesto a bassa voce e gli aveva preso di nuovo la mano.
“Mmm sì, sono solo stanco” aveva troncato di nuovo il contatto e si era alzato, stando attento a non disturbare il vicino “vado in bagno”
Aveva pisciato e dopo essersi lavato le mani si era sciacquato il viso con l’acqua fresca, sperando che servisse anche a ristabilirgli l’umore. L’immagine che gli aveva rimandato lo specchio l’aveva fatto incazzare e questa volta non con Brian. Non era una femminuccia che piagnucolava in bagno aggiustandosi il trucco, porca di quella troia. Si era passato la mano fra i capelli, sistemandoli, aveva raddrizzato le spalle ed era rientrato in sala. Le luci si erano accese, lo spettacolo finito, sul palco stava prendendo posto l’orchestra e il pubblico si stava alzando dai tavoli, per sgranchirsi le gambe e andare a prendere qualcosa da bere all’open bar. Brad era dietro alla sedia di Brian, gli stava dicendo qualcosa e nel farlo gli aveva appoggiato entrambe le mani sulle spalle. Doveva essere qualcosa di divertente perché Brian era scoppiato a ridere e aveva buttato la testa all’indietro, sfiorando con i capelli la camicia di Brad che si era aperto la giacca. Justin doveva ammettere che risultava parecchio sexy in smoking, ma con l’aria sciolta, un po’ stropicciata. Gli era chiaro da chi avrebbe voluto farsi stropicciare per bene il nostro neurochirurgo di stocazzo.  E quel coglione di Brian rideva e buttava la testa all’indietro. Fanculo. Con due passi decisi si era avvicinato, aveva sorriso a 32 denti al padrone di casa, si era complimentato per il discorso e non aveva neppure degnato di uno sguardo Brian, fino a quando gli aveva afferrato la mano, tirato in piedi con un leggero strattone. “Tu – gli aveva detto – a ballare. Subito” e lo aveva rapito sulla pista.
“Hey Sunshine, che ti prende? passata la stanchezza?” aveva chiesto sorridente e tutto sommato contento di vederlo di nuovo vispo.
“Ho solo voglia di ballare e di far vedere a tutti quanto è sexy MIO marito. Problemi al riguardo?”
“Mai avuto problemi quando ti strusci così” l’aveva acchiappato meglio, cercando però di mettere fra di loro quel minimo di distanza che l’ambiente richiedeva “ma non siamo al Babylon e mi stanno per scoppiare le mutande.”
“In effetti non c’è una dark room, ho controllato – gli aveva sussurrato con voce bassa all’orecchio – però ci sono dei bagni bellissimi. Li vuoi vedere?”
“Hai capito il biondino …”
“Mr Kinney è ancora abbastanza sfrontato da seguirmi?” e l’aveva lasciato in mezzo alla pista. Si era diretto ai bagni con passo calmo, mani in tasca, ondeggiando impercettibilmente il culo, sapendo che gli occhi del marito erano incollati proprio lì. O forse sperandolo.
Brian aveva scosso la testa, incredulo, gli occhi piantati sulla schiena e poi sul culo che il malefico biondino metteva in mostra sollevando i lembi della giacca grazie alle mani in tasca. Prima di uscire dalla visuale, quel piccolo satana, si era girato un attimo, quasi per caso, aveva incrociato i suoi occhi e poi aveva tirato dritto. Brian aveva deglutito una volta di troppo, aveva controllato il bottone della giacca che non aveva alcun bisogno di essere controllato e finalmente aveva ritrovato la mobilità. Un passo dietro l’altro e si era trovato a girare la maniglia della toilette degli uomini, di Justin nessuna traccia, poi nel silenzio dell’ambiente, per fortuna in quel momento deserto, da dietro la porta di un separé aveva sentito fischiettare Sex Machine. Aveva aperto la porta ed era lì, appoggiato alla parete, i piedi incrociati e le mani ancora in tasca. Gli occhi che brillavano di desiderio e le labbra lucide, per la lingua che le accarezzava, mentre lo fissava. “Ah sei venuto?” Brian si era impossessato della sua bocca, mentre chiudeva con una mano la porta, poi aveva incorniciato il viso del marito con entrambi i palmi per baciarlo con violenza. Gli aveva mormorato sui denti “tu sei pazzo, girati”. Con le dita aveva attaccato la fibbia della cintura di Justin, che gli aveva inaspettatamente fermato la mano e non dava mostra di volersi voltare. Era stato lui ad aprirgli i pantaloni, con un gesto rapido aveva portato braghe e boxer ad afflosciarsi sulle caviglie del marito, quindi aveva alzato il mento, l’aveva guardato ridacchiando e senza dire una parola si era inginocchiato. Brian aveva dato un colpo secco alla paratia con la nuca quando Justin l’aveva preso in bocca tutto, in una botta sola. Lo accarezzava con la lingua, lo bagnava e poi risaliva, senza farlo uscire mai del tutto. Un suono strozzato dalla gola e le mani nei capelli biondi a tenere giù una testa che non aveva alcun desiderio di alzarsi. Lo aveva strattonato piano, per farlo spostare un poco, in modo da avere un’angolazione migliore e Justin si era prestato senza sforzo, poi aveva succhiato forte, una due, tre volte, per tutta la lunghezza. Stava per venire e lo aveva abbandonato. Il freddo dell’aria dove prima c’era quella bella bocca calda. Aveva abbassato lo sguardo un po’ annebbiato verso il marito che lo guardava con un’espressione lussuriosa che gli fece sobbalzare il cazzo alla sola vista.
“Chi è il padrone del tuo piacere?” 
“Tu, cristo, tu”
“Bene e allora vieni” appena riavuto in bocca era stato invaso dall’umore caldo, forte e conosciuto del marito.
“WOW” aveva commentato con il respiro affannato, mentre accarezzava con forza i capelli di Justin che indugiava ancora qualche momento in ginocchio davanti a lui. Si era alzato e si era poggiato al suo fianco. Aveva il volto arrossato e gli occhi lucidi. Brian lo trovava bellissimo e il cuore gli batteva forte non tanto per l’effetto dell’orgasmo che già scemava, quanto per lo stupore che questo giovane uomo riuscisse ancora, dopo tanti anni, a lasciarlo senza fiato sempre. Gli aveva tirato il capo ad appoggiarsi sulla spalla e gli aveva baciato la fronte.
“Bisogna che torni di là, ma mi devo ricomporre. Fammi tirare su i pantaloni e dare una sciacquata alla faccia”
Justin si era fatto da parte e lo aveva osservato infilare la camicia nei pantaloni, lisciare la piega, rimettere dritto il farfallino, lavarsi il viso e infine tentare di pettinarsi i capelli con la mano. A quel punto era uscito dal separè e lo aveva fermato. “Perché?” Brian gli aveva lanciato uno sguardo interrogativo attraverso l’immagine dello specchio.
“Perché ti pettini? Sei bellissimo così. Tutti dovrebbero vederti”
“Perché si capirebbe benissimo quello che abbiamo fatto qui dentro e non credo che Brad lo troverebbe conveniente e professionale” aveva risposto sorridendo e continuando a pettinarsi. Le labbra erano un rosso vivo e gli occhi ancora un po’ liquidi dal piacere.
“Trovo che non ci sia nulla di più bello da guadare che il tuo viso dopo l’orgasmo. Un piacere che ti ho regalato io, ma hai ragione questa visione non se la merita né Brad né nessun altro” e gli aveva messo apposto un ciuffo ribelle.   
“Sei strano stasera Sunshine … “ l’aveva baciato piano “e sei bellissimo pure tu: prima, dopo, durante l’orgasmo. Sempre” aveva fatto scivolare la mano lungo il braccio del marito e si era girato verso la porta. “Ritorno in sala. Ti dai una rinfrescata e mi raggiungi?”
Justin aveva annuito, ma era rimasto appoggiato al lavello.
Brian aveva la straordinaria capacità di rientrare in modalità operativa in meno di un secondo, e infatti era già il brillante professionista della comunicazione quello che aveva trovato qualche minuto dopo rientrando nel salone della festa. Stava intrattenendo alcuni ospiti, nella mano stringeva un whiskey e niente lasciava pensare alla passione che avevano condiviso poco prima. Justin, però, sapeva che adesso Brian odorava di lui, aveva il suo profumo sulla pelle, il suo sapore nella bocca e per quella sera il nodo allo stomaco stringeva meno forte.
Si era fatto versare due dita di liquore pure lui, ma era rimasto in disparte, di chiacchierare a vuoto non aveva alcuna voglia e non aveva che conoscenze superficiali con gli altri invitati. Dopo meno di un’oretta era stato abbracciato senza preavviso, il viso di Brian spuntava da dietro la spalla.
“Che ne dici se andiamo? Posso ragionevolmente dichiarare chiusa la serata e tu mi sembri un tantino annoiato”
“Non sarò certo io a trattenerti qui” e si era rivolto spedito verso il guardaroba che custodiva i loro soprabiti.
“Hey, calma straniero, almeno salutiamo Brad” lo aveva frenato. Così avevano perso ancora mezz’ora prima a cercare il dott. Hamilton sparito chissà dove e poi per le chiacchiere che si erano messi a fare quei due, si vede che la serata appena trascorsa non era sembrata loro sufficiente a esaurirle. A Justin era scoppiato il mal di testa e invece di ignorarlo si era lamentato vistosamente, inducendo il marito a un commiato più rapido di quanto aveva, evidentemente, in programma. 
Aveva ingurgitato un antidolorifico e si era buttato a letto, come un naufrago. Brian si era preparato per la notte con più calma, era passato a controllare Susan poi l’aveva raggiunto. Justin aveva l’avambraccio piegato sugli occhi e non sembrava granché in forma. Gli aveva spostato il braccio e aveva sentito la temperatura sulla fronte con le labbra. “Non mi sembri caldo”
“Non ho febbre, solo mal di testa, adesso dormo e mi passa. Susan?”
“Ronfa come un sassolino. Vieni qui” e così dicendo l’aveva accolto fra le braccia e gli aveva massaggiato le tempie e la fronte.
“Stasera sei stato una piaga, cosa hai?”
“Solo mal di testa …” e si era accoccolato meglio.
Si era concentrato sulle tempie con una leggera pressione delle dita, poi con l’indice aveva seguito il profilo delle sopracciglia. “Cerca di dormire adesso e grazie di avermi accompagnato”
“Marito piaga e cliente sexy, meraviglioso” aveva borbottato soffocato sul cuscino.
“Piaga sexy. Dormi” E una mano era scivolata leggera ad accarezzare il retro del collo.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 73
*** "ATISSA" ***


Malumore e dolore al capo erano scivolati via con la notte e si era svegliato in forma al primo rumore dalla camera di Susan. Si era alzato veloce e l’aveva raggiunta.
“Buongiorno Topolina – aveva messo un dito sulle labbra – facciamo piano che papà e Gus dormono ancora, non svegliamoli” Lei aveva allungato le braccia si era fatta prendere in braccio. Le aveva tolto il pannolino, lavato il culetto, infilato le mutandine ed erano scesi a fare colazione.
Una volta al piano di sotto il sonno degli altri due era al sicuro, il vantaggio di una casa grande e su due livelli. Susan aveva sublimato il biberon e poi si era messa giocare sul pavimento, mentre lui finiva la colazione. Aveva messo la tazza nel lavello. “Mi accompagni in bagno mentre mi lavo?” Non era il caso di lasciarla sola a scorrazzare per casa senza supervisione. Si era infilato al volo l’abbigliamento da lavoro e si erano rintanati nel suo studio. Aveva dispiegato gli enormi fogli di carta che si faceva mandare apposta per Susan, ricoprendo buona parte le pavimento, poi aveva tirato fuori, fra le grida di gioia della piccola, i barattoli di vernice da mani dall’armadio e li aveva deposti in fila, lungo il bordo del foglione. Susan non si era fatta pregare, aveva – a modo suo – rimboccato le maniche del pigiama e cercava di aprire il barattolo giallo.  “Iuti?”
Le aveva aperto tutti i colori principali “Vuoi anche i pennelli o fai solo con le mani?” “Pennelli, anche. Tu disegni con me?” “Certo che sì!” “Bavo papi” Aveva riso, mentre rispondeva compito “Grazie”
“Ah siete qua?” la mano ancora fra i capelli scompigliati, occhi da sonno, petto scoperto e piedi nudi.
“Ti abbiamo svegliato?”
La risposta era stata una leggera scossa della testa.
“Faccio magica coo i coloi con papi”
“Vieni qui magica e dammi un bacino”
“E’ zozzissima” l’aveva avvertito il marito, ma lui si era limitato a scrollare le spalle, accucciarsi e aspettare il bacino umido sulla guancia per poi chiedere “Papi, posso fare magica anche io?”
Justin aveva ridacchiato e annuito. A Brian piaceva utilizzare le parole storpiate e le frasi sgrammaticate di Susan e lui lo trovava di una tenerezza disarmante. C’era tutto Brian in quel modo di amare la loro bambina.
Si era alzato e aveva preso la porta. “Papà ba bia?” “Andrà in bagno Susy”
Invece era tornato qualche minuto dopo con due tazze di caffè fumanti, ne aveva allungata una al marito, poi si era seduto a gambe incrociate sul pavimento. “Quindi ‘ste magie?” Susan aveva iniziato a spiegare a modo suo come Justin riuscisse a creare colori nuovi. “Osa, Papà. Papi sa fare il osa o il vedde e guadda, non ci sono!” aveva concluso mostrandogli i barattoli con solo i colori primari “Fa magica!”
“Sempre pensato anche io che Papi sia magico”
“Si dice fa magia, non fa magica” l’aveva corretta, accarezzando con un sorriso l’ultimo commento di Brian.
“A me piace” aveva ribadito Brian. “Papi fa magica, hai ragione Susy” e le aveva strizzato l’occhio, prima di intingere il dito nel giallo, spruzzarla allegro e iniziare a colorare pure lui. 
“Cosa stai disegnando?”
“Il mae, no o vedi?”
“Ah scusa eh, Picasso in gonnella. Il mare però è azzurro”
“Il mio è viola” aveva risposto convinta.
“Non so se tua figlia abbia uno spirito artistico che io non comprendo o solo un cipiglio da generalessa” aveva domandato al marito che li aveva lasciati a dipingere e si era messo a fare ordine nell’armadietto dei pennelli.
“Io sono atissa come papi”  
“Atissa, ma lo sai che ci andiamo sul serio al mare? Partiamo fra dieci giorni”
Justin si era girato di trequarti, con un pennello a punta piatta aveva indicato Brian: “Trovato il volo per Gus?”
“Sì, tutto apposto. Un orario un po’ del cazzo, mi toccherà una levataccia per accompagnarlo all’aeroporto”
“Lo vanno a prendere o si arrangia per arrivare a casa?”
“Figurati se una delle due non si precipita ad accoglierlo. Credo vada Mel”
La gestione dell’estate sarebbe stata una prima assoluta, come molte cose da quando era arrivata Susan. Justin aveva rinunciato ai corsi estivi e da metà giugno era libero, così l’idea era stata quella di affittare una villetta a Crandon Park Beach, lui e Susan si sarebbero trasferiti fino a settembre. Era dall’altra parte degli States, ma i voli da Pittsburgh a Miami erano frequenti e Brian oltre alle tre settimane di ferie li avrebbe raggiunti per qualche we lungo. Secondo Michael erano folli, con tutti i posti più vicini, ma loro si erano innamorati di quella spiaggia bianca, delle palme e della accoglienza per i bambini e quindi Crandon Park Beach era stato. Avevano scelto una casa abbastanza grande da poter accogliere amici e Gus quando li avrebbe raggiunti a metà Agosto, con le mamme e JR in modo che facesse un po’ di mare anche lui, ma non sacrificasse il tempo da passare con le sue tre donne “canadesi”. Insomma l’idea era che Justin e Susan, da soli ci sarebbero stati ben poco, in quella casa in riva all’oceano.

Ritorna all'indice


Capitolo 74
*** PENDOLARI ***


“Susan i BRACCIOLI. Ho detto i BRAC-CIO- LI! Mi sono rotto il cazzo!”
“Eh?”
“L’anno prossimo altro che danza, yoga e cazzate varie, fila in piscina a fare un corso. Visto che si caccia sempre in acqua che almeno impari a nuotare. Mica ho studiato da bagnino io!”
Justin aveva sogghignato davanti all’ennesimo tentativo di Brian di nascondere con il sarcasmo l’ansia che provava per le spericolatezze della figlia.
“Buona idea, sig. Kinney, ce la accompagni tu?”
Con la consueta aria di superiorità aveva risposto che se fosse stato necessario si sarebbe organizzato, al che il marito non si era potuto trattenere da sghignazzargli in faccia.
“Cosa ridi?” aveva ribattuto sostenuto mentre infilava i braccioli alla bimba.
“Niente, niente …, ma povera Susan che porterà i braccioli fino al college”
“Sei un coglione, se ce la devo portate io, ce la porto!”
“Certo una volta su tre, per impegni improrogabili e considerando poi che per il governatore si vota fra 11 mesi, stiamo freschi proprio”
Brian aveva sbuffato, che Justin non ricominciasse con questa assurda antipatia verso il suo ultimo incarico.
La mattina successiva si erano alzati all’alba e approfittando del fatto che Susan dormisse ancora alla grande si erano concessi un tuffo fra le onde appena rischiarate dal sole nascente. Due bracciate al volo, con il cuore leggermente accelerato per il senso di colpa di averla lasciata incustodita per qualche minuto, per quanto dal mare riuscissero perfino a vedere la grande finestra della camera della bambina. Poi erano rientrati, Brian si era fatto la doccia velocemente mentre lui era salito a controllare Susan che dormiva beata, poi era sceso ad apparecchiare il tavolo in terrazza. Il sole era un po’ più alto e iniziava a scaldare le assi di legno del pavimento, così aveva lasciato le ciabatte in casa e si godeva l’odore del mare, il silenzio e la prima tazza di caffè della giornata. Brian era arrivato strofinandosi i capelli e nell’aria si era confuso salino e profumo del bagno schiuma, portava un paio di pantaloni di cotone leggero, morbidi sui fianchi e una maglietta chiara, anche lui a piedi nudi. Aveva afferrato e sbucciato una banana mentre si versava del caffè dalla caraffa, si era seduto e Justin aveva allungato le gambe, mettendogli i piedi in grembo. Gli aveva sorriso.
“Mancherete anche a me” aveva risposto a una muta affermazione.
Aveva annuito, Brian doveva rientrare a casa e le sue ferie erano lontane ancora tre settimane, quindi avevano davanti almeno due we da pendolare sui cieli d’America per lui e da papi single al mare per Justin. Si sentiva un po’ stupido, ma tutte le volte, il lunedì mattina, quando Brian finiva di prepararsi e lui chiamava il taxi che avrebbe portato il marito in aeroporto cadeva preda di una sottile malinconia. 
Non avevano sparecchiato ed erano rientrati in camera insieme. Justin si era lanciato sul letto e Brian aveva tirato fuori dall’armadio un completo, poi si era soffermato qualche secondo davanti alle quattro o cinque cravatte che aveva portato in Florida, si era girato con una di Ferragamo nella sinistra e una di Marinella nella destra: “Quale delle due?”
“Lui è il tuo tipo, lo so bene. A te piacciono sempre gli stessi”
Brian l’aveva fissato senza capire, poi aveva avuto l’illuminazione “Non dire cazzate e aiutami a scegliere la cravatta” poi siccome Justin non dava segni aveva continuato “eh sì, infatti ho scelto una testolina di cazzo bionda per marito. Allora? Ferragamo o Marinella?”
Justin aveva indicato quella più chiara con un gesto del capo, Brian aveva lanciato la cravatta perdente sul letto e si era voltato verso lo specchio per indossare l’altra, quando aveva sentito il tepore del petto del marito passare attraverso la leggera stoffa di lino della camicia e l’erezione spingere sul suo culo. Gli dava piccoli colpi muovendo a scatti le anche, che la sentisse bene. Il viso era nascosto dalle spalle di Brian e non si vedeva l’espressione riflessa nello specchio. Senza voltarsi gli aveva afferrato le mani e se le era spostate sul suo cazzo che stava spingendo contro la zip nascosta dalla patta dei pantaloni.
Justin aveva iniziato a mormorare umido sulla fine trama del lino: ”Sei bello, sexy, sensuale, sei sempre tu: Brian Kinney e io ti voglio”
“E’ così che mi vedi? Ancora?”  
“Non sono il solo, anche il tuo amico ti vede così e so perfettamente cosa vorrebbe che gli facessi”
Fissando la propria immagine nello specchio Brian aveva chiesto a voce bassa: ”Vuoi che ti faccia vedere cosa ho voglia di fare solo con te?”
Justin lo aveva stretto forte alla vita, gli aveva dato un morso sulla schiena, sotto la scapola, abbastanza forte da farlo sussultare e da lasciagli il segno attraverso la camicia.
“Sei felice Brian?”
Finalmente si era girato, agli aveva passato le mani lungo le braccia nude, sentendo sotto i palmi il solletico dei peli di Justin, lo aveva massaggiato per poi prendergli il viso fra le dita. “Sì, sono felice e vorrei lo fossi anche tu”
Justin aveva sussultato, come se si fosse risvegliato:” Lo sono e tu devi prendere un aereo” gli aveva sistemato la cravatta sotto il colletto e stretto il nodo. Si era alzato sulle punte, lo aveva baciato sulla bocca e si era allontanato per chiamare un taxi.
Brian aveva fatto un salto in camera di Susan per poi infilarsi le scarpe mentre la macchina si fermava davanti alla porta. Le dita di Brian a scendere con fatica fra i capelli biondi un po’ stopposi di salino e ancora umidi, un bacio con la mano già sulla maniglia della portiera e via.
“Ci sentiamo stasera” “Fai buon viaggio” 
Susan non si sarebbe svegliata che un’ora dopo, si era quindi diretto con calma verso la terrazza con l’intenzione di riassettare, ma il richiamo della caffeina era stato vincente, seduto con i piedi sulla balaustra sorseggiava la bevanda ancora calda, anche se non più bollente come piaceva a lui. Qualche salutista correva lungo la battigia e i gabbiani si rincorrevano, tuffandosi nell’orizzonte. Aveva sospirato e si era stiracchiato, non aveva ancora fatto la doccia dopo il bagno in mare e la pelle iniziava a tirargli, era un fastidio piacevole.
Gli era sembrato di sentire la porta di entrata aprirsi e chiudersi, ma aveva pensato di essersi sbagliato, la cosa era stata però sufficiente a distoglierlo dalla contemplazione dell’oceano e indurlo ad alzarsi. Con un le mug in una mano, tenute per i manici e un piatto nell’altra, appena messo piede in casa, aveva sbattuto contro Brian quel po’ di bevanda rimasta sul fondo era entrata in tumulto e una goccia era caduta dritta per terra atterrando sul suo alluce nudo.
“Brian?!”
“Tu la devi proprio smettere! Hai capito biondino?!” Gli aveva tolto il piatto di mano e l’aveva appoggiato alla ben e meglio sul cuscino del divano, poi lo aveva baciato con insistenza, c’era amore e cazziatone in quell’inseguire la sua lingua e il suo respiro. Quando si erano staccati, si era passato una mano fra i capelli e raddrizzato la cravatta.
“Non dovresti essere in strada per l’aeroporto?”
“Dovrei… e se il taxista vuole il centone in più e mi sbrigo forse ce la faccio ancora”
“Sei pazzo. Fila via” gli aveva dato con una pacca sul sedere e un sorriso a tutta bocca.  
“Vado e tu PIANTALA! Ci vediamo venerdì”
Justin l’aveva salutato con un bacio camminando verso il taxi e si sentiva anche un po’ un coglione, ma un coglione leggero.  

Ritorna all'indice


Capitolo 75
*** "MINCHIA JUSTIN!" ***


Erano bastate poche settimane perché Susan potesse fare a meno dei braccioli adesso era in grado di stare a galla, non beveva più e aveva imparato a nuotare a cagnolino. Quella era stata una sorpresa riservata all’arrivo di papà insieme a Gus, per l’ultima parte delle loro vacanze marittime. Si era allenata con Papi per poter lasciare senza parole i due Kinney che, sorpresi, non le avevano lesinato i complimenti.
“Papà - aveva detto tutta fiera - non mi sevvono più” quando Brian aveva cercato di metterle i braccioli prima che si tuffasse, come al solito super entusiasta, in acqua.
Brian si era voltato interdetto verso Justin che era comparso alle sue spalle per non perdersi la scena e sorrideva compiaciuto, gli aveva rivolto un cenno di assenso con il capo e aveva esclamato, all’unisono con la figlia: ”Sorpresa!!”
E così fra tuffi, grigliate, drink, risate, capricci e giochi erano volate via anche le ultime tre settimane ed erano tornati a casa, chi a Toronto e chi a Pittsburgh, dove Brian si era lanciato a capofitto negli ultimi mesi di campagna di Brad. Arrivava a casa stanco, piuttosto tardi, ma con un luccichio di soddisfazione negli occhi che Justin da tempo che non gli riconosceva. Sembrava perfino più giovane suo marito.
Sarebbe morto piuttosto che riconoscersi geloso, non lo era, non voleva esserlo, non aveva il diritto di esserlo dopo quel che aveva combinato con Susan. Il brillante medico non era fra le sue dieci persone preferite, ma certamente lo era per suo marito che non dava mostra di accorgersi del suo disappunto o aveva deliberatamente deciso di ignorarlo e gli imponeva una frequentazione che a Justin sembrava non del tutto motivata da esigenze professionali.
Aveva particolarmente caldo, la cravatta gli stringeva più del solito e trovava le chiacchiere dell’ennesimo cocktail elettorale incredibilmente tediose, ma si stava sforzando di sorridere e fare conversazione, si applicava per essere la spalla che Brian si aspettava e mascherava il disagio di essere lì ripetendosi che usciti dal Country club avevano davanti due giorni da soli, con i figli e soprattutto senza Brad fra i piedi. Da una frase casuale di Brian rivolta a Chyntia aveva capito che le sue erano pie illusioni e che avrebbe dovuto condividere il marito anche nel finesettimana e per giunta a casa loro, così nonostante i suoi buoni propositi era sbottato e scrollando la testa si era incamminato con passo marziale verso il parcheggio. Ne aveva definitivamente le palle piene di quella serata, di Brad e pure di Brian.  Aveva qualche passo di vantaggio, quando lo scricchiolino della ghiaia aveva anticipato la voce del marito: “Ehi aspettami”
Si era fermato, ma girato solo di poco, il tempo per rispondere che si era rotto le scatole e avrebbe preso un taxi per rientrare: “ti lascio la macchina, ci vediamo a casa”
“Ti avevo detto che arrivavo” aveva replicato Brian aumentando il passo e arrivandogli vicino.
“Sì, quarantacinque minuti fa. Non affettarti, rimani a determinare le sorti del mondo insieme al tuo amico, io vado.”
“E aspetta un attimo, per dio. Dammi il tempo di recuperare la giacca e rientriamo insieme, tanto con Brad finirò domani, gli ho detto di passare per un brunch, che abbiamo ancora dei dettagli da definire, ma ne ho per il cazzo di andare in ufficio anche il sabato e almeno così non ti mollo da solo con Susan”
“Oh, ma che carino … sarai così di compagnia e utile mentre confabuli con il Dott. Hamilton! Aspetta un attimo che ti ringrazio” e si era rimesso in movimento, tirando fuori il cellulare per chiamare il taxi.
“Ah perché era meglio se domani andavo in ufficio? Ma ti senti? Fermati cazzo e piantala con sta stronzata del taxi”
“No, sarebbe meglio, di gran lunga meglio, se tu e il dottore non rompeste le palle anche nel fine settimana. Comunque tranquillo è un’ottima idea, fallo venire pure a casa! Brad sempre Brad, non c’è minuto senza Brad, la sera, a cena, adesso a casa, a quando nel nostro letto?”
Justin era così alterato che non si era quasi accorto di essere arrivato alla macchina e per poco ci sbatteva dentro, mentre il solerte fattorino ne apriva la portiera. Justin si era seduto sul sedile del passeggero, chiudendo la comunicazione con la centrale taxi. Brian piuttosto frastornato dall’improvvisa scenata, era salito al posto di guida, ormai dimentico della giacca.
Aveva messo in moto senza rendersi conto e stava facendo manovra in modo automatico, la mente concentrata a cercare di capire cosa diavolo fosse successo negli ultimi minuti.
Justin si era limitato a guardarlo di sfuggita mentre allacciava la cintura e aveva scosso la testa, poi era rimasto zitto e aveva preso a tamburellare con le dita sul vetro del finestrino. Il silenzio l’aveva fatta da padrone fino all’imbocco della superstrada e solo dopo qualche minuto Brian aveva commentato: “ Tu stai scherzando, mi stai prendendo per il culo. Sì, per forza. Hai scommesso con quel coglione di Honeycut, per caso?”
“Una scommessa, sì certo!”
Brian sempre più esterrefatto non aveva trovato di meglio che guidare veloce fino a casa, appena fermata l’auto davanti alla porta del garage, però Justin non aveva aspettato l’apertura del portellone ed era uscito come una saetta dall’abitacolo, diretto alla porta di casa.
Del marito al piano terra non c’era traccia, immaginava di trovarlo da Susan e così era stato, stava dando un bacino alla piccina addormentata, poi aveva accostato le persiane ed era uscito dalla stanza.
“Steffy è appena andata via, non l’hai incontrata giù?”
Brian aveva scosso il capo: “Non sono entrato dalla porta, ma dal garage”
”Ah, giusto. Ti saluta. Susy è stata brava, pare che non abbia fatto storie per addormentarsi” aveva chiuso la porta dietro di sé, lasciando un piccolo spiraglio e aveva anticipato Brian nel corridoio.
”Ci facciamo un goccio?”
”No, vado a letto, sono stanco”
”Stanco o incazzato?”
”Stanco e parecchio infastidito”
”Perché domani mi tocca lavorare? Se non ti conoscessi direi quasi che sei geloso”
Justin aveva sbuffato vistosamente e aveva tirato dritto verso la loro camera da letto.
“Non mi stai facendo una scenata di gelosia, vero?”
“Dovrei?” gli aveva risposto senza neppure voltarsi.
“No e francamente non so cosa ti sia preso.”
A quel punto il biondo si era girato, aveva fatto qualche passo indietro e si era fermato a cinquanta centimetri dal marito.
“Non lo sopporto, non sopporto lui e quel suo modo di guardarti, tutte quelle scuse pur di poterti vedere e sentire e poi cazzo ti tocca sempre. Che cazzo ha da toccarti? Io indubbiamente ho fatto delle cazzate enormi negli ultimi tempi, ma se tu cedessi ora ne faresti una più grande! Perché adesso abbiamo Susan, siamo quello che volevamo essere e anni fa non abbiamo avuto il coraggio di essere, però ora c'è anche Brad che ha tutto quello che tu desideri: è sexy, è potente, è un gay di successo, perché proprio tu dovresti lasciarti scappare uno così?”
“Minchia, Justin!” poi aveva annullato in un passo la distanza fra loro e aveva preso il giovane fra le braccia, una stretta forte, bloccante, dalla quale Justin cercava di sciogliersi. “Ma chi cazzo ti ha messo ste idee nella testa?” poi sfruttando la sua maggiore altezza lo aveva sollevato un poco e portato a cadere sul loro letto, schiacciandolo con il suo corpo sul materasso. Lo aveva fissato dritto negli occhi, che gli fosse chiaro chi era lui, chi erano loro e chi diamine era che lo stava premendo su quel dannato letto, con infinita lentezza si era avvicinato alle labbra con le labbra e gli aveva soffiato: “Ti amo”, poi si era sollevato sulle braccia con le mani ai lati del viso del marito e senza smettere di guardarlo aveva ripetuto: “Ti amo” e poi lo aveva baciato forte.  “Hai capito?”
Justin aveva puntato le mani sul suo torace e cercava di scostarlo, ma Brian non aveva perso tempo a bloccargli i polsi delicati con una mano e a portargli entrambe le braccia dietro la testa, prima di baciarlo di nuovo e ripetendogli ancora e ancora “Ti amo”, quindi aveva ripreso a baciarlo, senza preoccuparsi che Justin si stesse contorcendo. “Ti amo, hai capito?” e finalmente Justin aveva smesso di combattere e si era arreso, annuendo con il capo.
“Hai capito?” aveva chiesto nuovamente. “Sì” “Mmm e cosa hai capito?” “Che mi ami…” aveva concesso Justin. “Così va meglio e ora girati” mentre con le mani già faceva scivolare sui fianchi, verso i piedi, i pantaloni eleganti del marito.
Era stato amore duro, che lasciava il segno. Justin era rimasto fra le braccia di Brian. Accaldati e un po’ turbati erano rimasti in silenzio a lungo, ascoltando i loro respiri farsi regolari, la pelle rinfrescarsi e i pensieri chiarirsi. Justin aveva sospirato, infine, come qualcuno a cui è stato tolto un peso dal cuore e solo a quel punto Brian aveva aperto bocca: “Quindi pensi anche tu che Brad sia sexy?” Justin si era girato come una serpe, lo aveva fulminato con un’occhiataccia, ma non era riuscito a soffocare una risata. Sto coglione di Brian riusciva a prenderlo per il culo e a farlo ridere contemporaneamente. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3709366