Go Ahead and Cry, Little Boy

di Moonlight_Tsukiko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy

Capitolo 1







 
Eren

Venerdì sera, molto dopo il mio coprifuoco.

“Niente manette?” Chiedo guardando i sedili anteriori, leggermente irritato per il modo in cui vengo trattatato.

I suoi occhi incontrano i miei attraverso lo specchietto retrovisore.

“Non sei in arresto.”

“Peccato. Sarebbe stata una bella storia da raccontare.”

Jean schiocca la lingua e si gira, un brivido di terrore mi avvolge la bocca dello stomaco. Si ferma all’inizio del mio vialetto e toglie con uno strattone la chiave dal cruscotto prima di uscire dall’auto e appoggiarsi sul mio lato del finestrino. Osservo le occhiaie e le borse sotto i suoi occhi.

“Andiamo,” comanda ed esco reclutante dall’auto.

In notti come queste, tendo a dimenticare che lui è mio cognato. O il mio ex cognato? Non lo so. La faccenda è un po’ complicata. Sta di fatto che ormai sono più abituato a pensare a lui come un semplice poliziotto, piuttosto che un parente acquisito. 

Ogni passo verso la porta di casa sembra pesante; pensavo che Jean mi avrebbe solamente aperto la portiera dell’auto per poi andarsene. Invece, rimane con me e si appoggia contro la ringhiera del portico con le braccia incrociate al petto. Guardo l’auto-volante della polizia e poi lui, ma non sembra interpretare il mio silenzio come un invito a levare le tende.

“Grazie per il passaggio.” Gli sorrido, ma siccome mi fanno male guance, smetto subito. “Ci vediamo. Notte.”

Jean preme le labbra in una linea sottile e non dice nulla. Sospiro e sollevo la mano per suonare il campanello. Lo sento trillare dall’interno e il frenetico suono di passi raggiunge le mie orecchie. La porta si spalanca e miei genitori  mi fissano, i capelli in disordine e gli occhi esausti dalla spossatezza. Quasi trasalisco nel vederli così trasandati e devo sforzarmi per mantenere la mia compostezza.

“Ciao.” Faccio un cenno e indico con il dito dietro la mia spalla. “Guardate chi è venuto a trovarci.”

Jean si solleva dalla ringhiera e fa un cenno con la testa ai miei genitori. Mia madre si avvicina per prenergli il braccio, i suoi occhi pieni di un’emozione che non riesco a sopportare. Lui ricambia lo stesso sguardo, mette la mano sopra la sua e improvvisamente mi sento come se stessi violando la loro privacy in un momento personale, o qualcosa del genere. Alzo lo sguardo verso mio padre, ma anche lui è concentrato su Jean.  

Rimango in piedi a disagio fino a quando mia madre non invita Jean dentro casa. Lui le riferisce che attualmente è in servizio, ma che passerà a farci visita uno di questi giorni. Risale in auto con uno sguardo severo puntato verso di me. Aspetto fino a quando non vedo più la macchina della polizia prima di entrare in casa, ignorando gli sguardi penetranti dei miei genitori.

“Dove sei stato?” Chiede mia madre, la sua voce passa a un tono tagliente che usa solo con me.

“Prima sono andato al parco,” comincio con la voce piatta. “Ma poi ho deciso che volevo fare qualcosa di diverso, quindi ho rapinato una povera, indifesa signora e mi sono ubriacato nei sedili posteriori di una macchina abbandonata.”

So che non mi crede e so anche che mio padre non vuole più avere niente a che fare con le mie pagliacciate. Osservo come preme le dita contro gli occhi e non dice niente. Mia madre gli afferra il braccio, spostandolo in modo da non coprirgli gli occhi e quando si guardarono l’un l’altra, quell’odiosa sensazione di disagio e smarrimento torna ad avvolgermi.  

“Eren,” comincia mio padre, suonando stanco come sembra. “Penso che tu dovresti-“

“Vado a dormire,” affermo brutalmente, non preoccupandomi nemmeno di aspettare una loro risposta mentre salgo le scale. “Notte!”

Mi butto sul letto e premo le dita sulle mie gelide guance. La lampada emette un bagliore arancione che colora tutto ciò che c’è nella mia stanza dello stesso colore. Mi chino e accendo la radio. Crepita per alcuni secondi prima di intercettare chiaramente la frequenza di una stazione di musica rock alternativa. Mi lascio cadere di nuovo all’indietro e chiudo occhi, fingendo di conoscere la canzone. Non è difficile.

Sono bravo a fingere, dopotutto.

 
***
 
Lunedì, 08:17. Sto salendo le scale della mia scuola e nella mia testa sto fingendo di non essere una merda che cammina. È più facile essere qualcosa che non sei. Innumerevoli esperienze personali hanno provato questa mia teoria, facendola diventare un dato di fatto.

Nessuno mi saluta quando passo per i corridoi. Forse è perché non ho amici. Beh, non più, almeno. Non ne ho più avuti dopo quel giorno e immagino la colpa sia mia. Se allontani le persone troppo a lungo, alla fine recepiscono il messaggio.

E oggi questa teoria si evidenzia ancora. Passo accanto a Krista Lenz, la quale ora si fa chiamare Historia per una qualche strana ragione e lei non sembra nemmeno notarmi. Può darsi che sia perché è alta un metro e quarantacinque; o forse perché l’ultima volta che mi ha parlato ho imprecato contro di lei e le ho sputato davanti al piede.

In ogni caso, mi passa affianco senza nemmeno guardarmi. Se non avessi guardato proprio verso di lei, probabilmente non l’avrei nemmeno notata. Le persone crescono e vanno avanti, sperimentando cose nuove e migliori. Non è che le relazioni siano scolpite nella pietra. Alla fine a nessuno importa se vieni lasciato indietro; anzi, finiscono col compatirti.

Prendiamo Jean, per esempio. Scommetto che non pensava che la parte 'Finché morte non ci separi' sarebbe arrivata così presto, ma al grande uomo nei cieli non fregava un cazzo cosa pensasse lui. O cosa pensasse qualcun altro, per quanto importi. Forse è per questo che non credo più in Lui. O magari è perché ha smesso di fregarmene qualcosa.

La campanella suona, emettendo una melodia stonata e assordante, ma non mi preoccupo nemmeno di accelerare il passo. Ci sono alcuni ragazzi che sembrano fare lo stesso e per alcuni secondi mi sembra quasi come se ci fosse un legame che ci accomuna. Forse neanche a loro importa qualcosa. Può anche darsi che non abbiano sentito la campanella (il che sarebbe davvero difficile, ma non si sa mai).

Noto addirittura che qualcuno sta cercado di sgattaiolare da qualche altra parte per saltare qualsiasi lezione abbiano; mi verrebbe da fare lo stesso.

Arrivo alla mia classe d'inglese con niente più che i vestiti. Quando apro la porta tutti mi fissano e poi guardano altrove, come se non fossi abbastanza interessante da guardare. Forse non lo sono. La sola cosa interessante di me sono i jeans e questo solo perché questo fine settimana ho preso delle forbici e ci ho fatto quanti più buchi ho potuto.

“Grazie per essersi unito a noi, signor Jaeger,” dice con voce gioviale il professor Smith e una parte di me vorebbe quasi odiarlo. È un uomo simpatico, ma se lo fai innervosire diventa il classico stronzo passivo-aggressivo.

Mi abbasso in un inchino esagerato, guadagnando qualche risatina da alcuni dei miei compagni di classe. Un sorriso si forma sul mio viso mentre raggiungo il mio posto. Io vivo per questo. Mi libero di tutte le occhiate, gli occhi irritati, i sussurri. Diamine, dubito che mi stancherò mai di tutto ciò. È troppo divertente.

Mi giro leggermente per vedere Levi Ackerman che solleva un sopracciglio verso di me. È seduto sulla sedia dietro la mia, praticamente curvo e abbassa lo sguardo senza guardarmi di nuovo.

Levi Ackerman è il tipico ragazzo a cui tutti sbavano dietro. È piuttosto basso, ma ha davvero degli occhi stupendi e dei bicipiti che potrebbero far desiderare a tutti quanti di scoparlo o farsi scopare. I suoi capelli all’inizio erano del corvino più scuro e lucente, ma dopo una scommessa con i suoi amici, ha dovuto tingerli di biondo. Non molti ragazzi stanno bene biondi. O forse sono a me che non piacciono. Ragazzi corvini? Porca miseria, ci sono, iscrivetemi. Ragazzi biondi? Nah, passo.

A meno che il ragazzo coi capelli biondi non sia Levi Ackerman, capitano dei Titans, la nostra famosa e vittoriosa squadra di football. Levi ha quel tipo di nome da persona famosa. Già solo pronunciarlo ti fa sentire come se fossi un contadino che sta mancando di rispetto al proprio re, il che è praticamente ciò che è Levi in questa scuola. Non perché comanda le persone o cose del genere. Anche se sono sicuro che se per caso dovesse chiedere qualcosa a qualcuno, tutti cercherebbero il modo migliore per soddisfare il suo desiderio. È più che altro per il profondo rispetto che le persone nutrono nei suoi confronti. È un ragazzo a posto, credo. Non saprei.

Chiamarlo Ackerman mi fa sentire come se fossi uno dei suoi compagni di squadra e forse non è poi una cosa così brutta. Sai, quella cosa di fingere di essere qualcuno che non si è. Il dimostrarsi di essere utile mentre si cerca di superare l’Inferno conosciuto con il nome di ‘scuole superiori’.

Ma non sono uno degli amici di Levi e posso solo fingere fintanto che resterò in questa scuola. Quindi lo chiamo Levi Ackerman ogni volta che posso. E per ogni volta che posso, intendo dire nella mia testa. Non ho mai osato cominciare una conversazione e le sole parole che lui mi abbia mai riferito sono stati piccoli commenti maligni qua e là. La cosa non mi impensierisce, però. Non sto cercando di farmi degli amici.

Una volta che tutti sono passati oltre il fatto di essermi presentato di nuovo in ritardo, il signor Smith comincia la lezione. I suoi capelli scintillano sotto la luce del Sole che entra dalla finestra, ma non è poi così impressionante. Ci ho pensato la settimana scorsa, quando Levi aveva letto un poema sulle onde che si infrangono contro le scogliere e la mia faccia era diventata rossa e calda. Anche i suoi capelli scintillavano come l’oro e quasi rimpiango di aver prestato più attenzione a questo dettaglio piuttosto che alla sua voce piatta e annoiata.

Percepii degli occhi osservarmi e i capelli nella nuca si rizzarono all’erta. Mi chiesi se Levi Ackerman sapesse quanto penso a quel dettaglio.

 
***

Martedì, 10:13. Sto marinando la scuola, piegato sotto le coperte di pile con il telefono in mano. Leggo i messaggi ancora e ancora cercando di ignorare il fatto che ormai sono nel mio cellulare da più di due anni. Leggo del piano di organizzare la festa a sorpresa di mio padre e di fare una piccola vacanza a New York e quando nascondo il telefono sotto il cuscino fingo che sia sparito, dimenticandomi che in realtà è solo a pochi centimetri da me. A volte mi piace torturarmi con i ricordi, ma è sempre troppo da gestire. Tutto è sempre fottutamente troppo da gestire.

Il mio telefono vibra, tornando così in vita. Infilo la mano sotto il cuscino e vedo che Jean sta cercando di contattarmi. Tengo il cellulare in mano, fissando lo schermo. Il telefono smette di squillare fino a quando non appare la notifica di un messaggio. Decido di aprirlo solo dopo alcuni minuti di riflessione.

Tua madre ha detto di portare il culo a scuola. Sto venendo a prenderti.
– Jean


Metto giù il telefono e registro il suono della porta della mia camera che si spalanca. Se Mikasa fosse qui, si sarebbe messa a ridere e-

Mi blocco e impallidisco di colpo quando il mio sangue decide che le guance non sono poi una tappa obbligatoria. Il suo nome mi lascia un gusto amaro in bocca. Mi siedo lentamente sul letto. Il suono dei passi di Jean si fa più pesante, tanto da rimbombarmi nelle orecchie e lui raggiunge la soglia della porta prima che possa eliminare le immagini di mia sorella in una parte oscura e recessa della mia mente dove non ho più intenzione di tornare.

“Ti sei mai chiesto cosa potrebbe accadere se le persone non si odiassero a vicenda?” Chiedo, guardando il soffitto bianco e monotono. “Perché io sì e penso che tu non avresti più un lavoro.”

Non risponde e strattona le coperte all’indietro. Si siede sul bordo del mio letto, la sua camicia crea delle increspature e le mani gli supportano la testa. Non indossa la sua uniforme da poliziotto e vederlo con dei semplici jeans risulta quasi strano. Non sono abituato a vederlo in abiti civili.

“Notte lunga?” Chiedo.

“Notte lunga,” risponde e rimaniamo seduti sul letto in questo modo fino a quando mia madre non torna a casa alle tre.

 
***

Mercoledì, nel bel mezzo della lezione d’inglese. Levi è seduto davanti, questa volta con Isabel Magnolia e Farlan Church. Isabel sta parlando nella sua alta, spumeggiante voce. Scommetto che potrebbe fare la cheerleader, ma sono sicuro che odia qualsiasi cosa abbia a che fare con lo sport. La sola ragione per cui lo so è perché siamo stati nella stessa classe di ginnastica il primo anno di superiori, insieme a Sasha Blouse. Le due si divertivano animatamente a prendere in giro i giocatori di calcio. Farlan sta tamburellando le dita sulla propria coscia in un ritmo che non riesco a seguire e Levi sta fissando uno dei banchi mentre tiene sollevato un poster colorato.

Non ricordo che compito dovevamo fare, anche se penso di non doverne esserne sorpreso. Non ricordo nemmeno l’ultima volta in cui mi è fregato qualcosa dei compiti scolastici. Levi mi guarda per una frazione di secondo prima che i suoi occhi si spostassero da qualche altra parte nella stanza. L’angolo della sua bocca si alza in un piccolo sorriso e do una veloce occhiata per vedere Reiner Braun fare delle facce stupide a qualsiasi cosa stia dicendo Isabel. Reiner è uno dei giocatori di football; se fosse almeno venti centimetri più basso e con i capelli scuri potrei anche farci un pensierino.

Levi, Isabel e Farlan presentano il loro progetto e, una volta terminata la presentazione, chiedono se abbiamo delle domande al riguardo. Volevo dire qualcosa, ma ho presto deciso che forse non era una buona idea, intrecciando le mani sotto il banco. Levi fa un cenno con la testa, come se fosse soddisfatto e realizzo che non deve piacergli molto dover parlare di fronte a tutta la classe. Prende un respiro profondo e torna al suo posto con il passo più veloce che abbia mai visto.

Probabilmente sono l’unico che lo guarda così attentamente da notare una cosa del genere e un senso di orgoglio mi avvolge completamente. Era come se avessi involontariamente scoperto uno dei suoi segreti più profondi. Non avrei mai immaginato che il capitano della squadra di football odiasse parlare in pubblico, ma Levi è forse la prova che non ho ben compreso come gira il mondo.

A volte ho dei periodi durante i quali mi avventuro in varie fasi. Alcuni giorni sono più intraprendente e faccio cose che normalmente non farei mai. Oggi è uno di quei giorni. Mi riferisco a Levi come fosse solo Levi e non guardo altrove quando mi becca a fissarlo. Una volta che è seduto al suo posto e il professor Smith ha chiamato il prossimo gruppo, mi giro e indosso uno dei miei finti sorrisi.

“Cosa c’è?” Sbotta e realizzo solo ora quanto grigi siano i suoi occhi. Mi ricordano una tempesta, un metallo liquido o l’adorabile gattino che Mikasa-

Confino immediatamente il pensiero nei meandri della mia mente. Levi mi riserva uno strano sguardo mentre guardo improvvisamente il pavimento.

“Bel progetto,” dico finalmente. “Non pensavo ti piacessero i glitter.”

Mi giro di nuovo, la mia fase intraprendente è ufficialmente conclusa. Levi non risponde e ne sono contento. Non ho nient’altro da dirgli. Confessargli di pensare che lui sia la cosa migliore da incrociare per i corridoi di questa scuola suona noioso e stupido e per una volta vorrei fingere di non esserlo. Non è vero, comunque. Non sono preso così tanto da lui.

Dopo scuola, ho preso la mia chitarra e un pacchetto di sigarette e sono andato al parco. Sono seduto su una delle panchine cercando di sembrare un tipo studioso, mordicchiando la fine della sigaretta e appoggiando le dita sulle corde della chitarra. Premendo le corde, quest’ultime sprofondano nella pelle creando quella strana sensazione sulla punta delle dita. È come se la pelle si stesse lentamente tagliando e mi ritrovo a pensare a quale sensazione proverei se invece fosse il collo a tagliarsi.

Sollevo una mano per premerla contro la gola. Quando percepisco il cuore battere ritmicamente contro le dita, getto la chitarra a terra e mi curvo mentre barcollo, cadendo quasi a terra. La sigaretta mi lascia uno strano sapore in bocca e, nonostante non sia nemmeno accesa, mi sento come se mi stesse già ostruendo i polmoni con tutte le schifezze che ci mettono dentro.

Non ho mai fumato in vita mia, ma quando chiudo gli occhi mi appare l’immagine di una finestra aperta e il fumo di sigaretta elevarsi verso il cielo.

Penso a sogni sussurrati e promesse non mantenute e una sensazione di bruciore si accende nel mio stomaco. Permetto alla mia mente di correre libera, lasciando che il mio cervello continui a mostrarmi la piscina dove andavamo a nuotare in estate o alle case di pan di zenzero a Natale. Penso a lunghi capelli neri e calmi occhi scuri; penso a una sciarpa rossa e un accenno di sorriso su quella sua bocca sottile.

Penso a mia sorella senza pronunciare il suo nome, ma in qualche modo fa ancora più male di quanto vorrei.

 
***

Sabato sera, fottutamente troppo tardi. Fisso il soffitto con le cuffie alle orecchie, mentre uno strano gruppo indie canticchia una loro canzone. Non mi è mai piaciuto l’indie. Ma eccomi qui, piedi contro il muro e testa premuta contro il materasso, a tamburellare le dita sullo stomaco.

Ho un’altra sigaretta spenta tra le labbra, il pacchetto quasi pieno giace tranquillamente in uno dei cestini della spazzatura del bagno della scuola. La mia chitarra è distrutta, niente più che un mucchio di fili e legno. I miei genitori si arrabbierebbero se lo venissero a sapere, ma ignoro tutti i pensieri che riguardano la famiglia fino a quando la sola cosa a cui sto pensando è quanto i miei gusti musicali facciano schifo.

Mi tolgo le cuffiette e afferro la giacca. Non è nemmeno freddo fuori, ma questo si aggiunge alla mia reputazione di ragazzo ansioso. Mentre cammino fuori casa, mi domando se ai miei genitori importa ancora se sgattaiolo di notte. Si può definire ancora sgattaiolare se lo si fa dalla porta principale? O si chiama semplicemente uscire di casa quando si vuole?

Rifletto sul trovare delle risposte a queste domande mentre cammino sul marciapiede, i miei passi e il mio respiro sono la sola cosa che sento. L’aria calda rende la mia pelle appiccicosa e facilmente irritabile, ma ignoro la sensazione mentre chiudo gli occhi. Una macchina mi passa affianco e immagino cosa potrebbe accadere se decidessi di saltare in mezzo alla strada mentre l’auto passa a tutta velocità. I muscoli delle gambe fremono, come se non vedessero l’ora di farlo.

Prima che potessi muovermi, la macchina mi ha già superato. La luce di uno dei lampioni sopra di me continua a lampeggiare minacciosamente e mi chiedo come sarebbe il mondo se fosse sempre buio. È così che ci sente a essere morti? Sarebbe solo una lunga ed eterna distesa di oscurità? Esiste almeno il Paradiso? Cazzo, l’Inferno esiste?

Sono domande che potrei fare a mia sorella. Lei avrebbe roteato gli occhi e mi avrebbe rimproverato, dicendo di non mettere in dubbio le stupidaggini che ti insegnano in chiesa e rimettendomi sulla retta via. Se Jean fosse a casa, probabilmente farebbe delle stupide facce divertenti dietro di me fino a quando lei non lo avrebbe colpito sul naso.

Il pensiero mi fa fermare sul posto. Mi sento come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco e appoggio la mano su quest’ultimo giusto per esserne sicuro. Il mio battito cardiaco inizia ad accelerare e prima che me ne accorga, sto correndo. Il sangue scorre nelle vene, il vento sferza duramente contro il viso e fischia nelle orecchie. I piedi si abbassano sul marciapiede e gli occhi sono offuscati dalle lacrime. Continuo a correre, saltando giù dal bordo del marciapiede e correndo tra le macchine. Nessuno è sveglio in questo momento. Nessuno può vedere come mi sento.

Sono così travolto dalle mie emozioni che non noto nemmeno la persona davanti a me prima che sia troppo tardi. Ci scontriamo sul marciapiede, la testa pulsa abbastanza forte da farmi vedere delle luci lampeggiare. I palmi delle mani scivolano contro l’asfalto e il mio mento sbatte abbastanza ferocemente da far collidere i miei denti gli uni contro gli altri. Porto le sanguinanti mani contro il petto e mi inginocchio. Il corpo trema violentemente, ma la mia visione ora è chiara.

“Cosa cazzo hai che non va?!”

Mi ci vogliono alcuni secondi per riconoscere quella voce e, quando ci riesco, alzo lo sguardo per vedere Levi fissare le ferite ai lati della mia testa. Fa scorrere le dita tra i capelli, sistemando le ciocche bionde per liberare la fronte. Si alza in piedi, le mani finiscono nelle tasche della giacca da football che hanno tutti i giocatori. Il suo nome e il numero di squadra sono stampati sul petto.

“Scusa,” sussurro, cercando di calmare il respiro. Sento la faccia sporca e il mento mi fa male da morire.

“Porca di quella puttana!” Levi si accovaccia di fronte a me e mi prende di scatto il volto tra le mani per guardarmi. “Stai bene?”

“Non dovrei essere io a chiedertelo?” Dico, piuttosto confuso, ma poi mi ricordo che lui viene spinto ogni giorno dopo scuola dalla sua squadra di football. “Lascia stare, non importa. Mi dispiace.”

Mi alzo in piedi e il mondo gira, offuscandomi la vista. Levi mi afferra il braccio per mantenermi stabile, i suoi occhi grigi si assottigliano così tanto da domandarmi se effettivamente riesce a vedermi.

“Cosa cazzo ci fai in giro a quest’ora?” Chiede, e quasi collasso a terra. Levi Ackerman sta parlando con me. Levi Ackerman è preoccupato per il mio benessere. Probabilmente anche per la mia sanità mentale, ma per il momento cerchiamo di ignorare questo dettaglio.

“Sto contemplando il significato della vita,” scherzo. “E mi chiedo perché l’essere umano si è dato così tanto da fare per inventare il tempo. Perché il coprifuoco è una cosa importante? Perché alle persone interessa se sprechi il tuo tempo o no?”

Non ho idea di cosa io stia parlando. Non poi così sorprendentemente, neanche Levi. Scorre di nuovo le dita tra i capelli e butta indietro la testa. Sussulto quando noto un succhiotto sulla sua gola e una strana sensazione mi attanaglia la bocca dello stomaco.

“Scusa ancora,” ripeto, carcando di rimettermi in piedi e non cadere di nuovo a terra.

“Come vuoi,” risponde impassibile e i nostri occhi si incrociarono di nuovo. “Tu sei Eren, giusto?”

Probabilmente sarebbe dovuta essere una domanda, ma il modo in cui lo ha detto mi fa capire che sa esattamente chi io sia. Annuisco lentamente, leccandomi le labbra screpolate.

“Eren Jaeger, perdente residente al suo servizio. Attento, un ragazzo come te non può essere visto con uno scherzo della natura come me.”

Non sono sicuro del perché glielo sto dicendo. A volte la mia bocca riesce ad avere la meglio sul cervello e dice tutte queste cose che non vorrei lasciassero la mia mente. Di solito le persone lo ignorano. In realtà, le persone ignorano me in generale.

“Sei proprio strano,” afferma, e la sua dannata mano è di nuovo tra i suoi capelli. Schiocca la lingua e rimette la mano in tasca. “Hai un aspetto orribile.”

Indosso dei jeans scoloriti e una maglietta con la stampa di un gruppo che non ascolto nemmeno. I miei capelli probabilmente sono uno schifo e riesco a percepire il sangue scorrere verso il collo dal mento. Forzo un sorriso sul volto e apro la bocca per parlare.

“Quando sei un perdente non ti interessa molto del tuo aspetto.”

Levi mi riserva uno sguardo strano, come se stessi parlando una lingua straniera e schiocca di nuovo la lingua.

“Non sei un perdente,” mormora. “Strano? Sì. Perdente? Nah. So che tipi sono i perdenti e non è ciò che sei.”

Il commento mi coglie di sorpresa. Mi sta facendo un complimento? Non so come interpretare ciò che ha appena detto. Mi schiarisco leggermente la gola e mi focalizzo sul catrame del marciapiede.

“Paragonato a te, sono un perdente. Tutti sanno chi sei. Le persone ti amano, capitano di football o no.” Di nuovo, la mia bocca sta vomitando un sacco di parole senza che il cervello faccesse nulla per fermarla.

Levi ha un’espressione illeggibile in volto. Deglutisco duramente e strofino il sangue dal collo.

“Non hai risposto alla mia domanda,” dichiara.

“Quale domanda?”

“Che ci fai qui fuori?”

“Ti ho già risposto,” affermo con testardaggine.

“Non seriamente,” ribatte, roteando gli occhi. Sembra quasi spazientito dalla mia riposta. “Non chiedermi perché m’importa, perché non è vero. Voglio solo sapere se hai intenzione di far cadere a terra un’altra persona.”

“No,” rispondo e mi lecco di nuovo le labbra. Ho bisogno di un burrocacao. Scrivo una nota mentale di comprarne uno più tardi. “Volevo solo fare una passeggiata.”

“È mezzanotte passata.”

“Beh, e tu perché sei fuori?” Sbotto. Levi solleva le sopracciglia dalla sorpresa prima di scrollare le spalle.

“Volevo solo fare una passeggiata,” copia e si allontana prima che io possa aggiungere altro.

Penso di afferrargli il braccio, di parlare con lui ancora per un po’. Ma penso di essermi messo abbastanza in imbarazzo per oggi. Arriccio le dita e ignoro l’ustionante dolore che sento nei palmi. Tiro fuori il telefono dalla tasca e chiamo Jean.

 
***
 
“Perché continui a comportarti così?” Chiede Jean non appena si avvicina al marciapiede con l’auto. “Cosa diavolo è successo alla tua faccia?”

“Stavo combattendo contro un’orda di ammiratrici,” mento, agitando casualmente una mano. “Non crederai mai a quanto ostinate siano.”

Jean non se ne va dal marciapiede. È seduto sul sedile del guidatore, studiandomi il volto. In questo momento mi ricorda il dottor Trook, il terapista che mi ha seguito dopo la morte di Mikasa. Era un vecchio con più rughe di quanto un uomo dovrebbe avere, ma era paziente e gentile. Mi trattava come se avessi cinque anni, ma non mi interessava. Venire trattato come un adulto avrebbe significato prendermi le responsabilità per le mie azioni.

Non ero pronto per questo all’epoca. E dubito lo sarò mai.

“Ho qualcosa in faccia?” Sbotto e Jean scuote la testa. Fa scorrere le dita tra i capelli e il gesto mi ricorda Levi.

“Non puoi continuare così,” sostiene Jean, con quel suo tono da padre incazzato per le bravate del figlio. Scusa, Jean. Quel posto è già occupato. “So che è dura per te, Eren. Hai perso tua sorella e io ho perso mia moglie. Ma penso che provare ad andare avanti sia importante.”

Mi sento come se stessi deglutendo una palla di neve.

“Vuoi che la dimentichi?” Lo accuso, mentre contraggo le mani trasformandole in pugni. Le unghie mi graffiano il palmo e pungono così tanto che praticamente le sento bruciare. “Non è così facile!”

So di star alzando la voce. È una tattica che mio padre usa regolarmente. Se alzi la voce, puoi sovrastare qualsiasi cosa l’altra persona stia dicendo. Se urlo abbastanza forte, posso fingere che Jean non stia dicendo qualcosa che ho bisogno di sentire.

“Lo so, Eren,” mi riferisce. Mi chiedo perché non urli anche lui. Mi chiedo perché non mi sta cacciando dalla sua auto e dirmi di camminare fino a casa. Voglio scusarmi, ma le parole non passano oltre le labbra. Mi appoggio allo schienale e non dico nulla.

Jean sospira prima di accendere la macchina e partire.



Angolo autrice:
Ciao a tutti quanti! 
Ci tengo a specificare che la storia NON è mia. Questa è semplicemente una traduzione che sto portando avanti e che ho deciso di pubblicare sul fandom italiano (per la quale ho il completo consenso dell
autrice). La storia originale in lingua inglese appartiene a Soulofme, su Ao3. 
Inoltre, i capitoli avranno pov alternati tra Eren e Levi. Mi farebbe molto piacere avere una vostra opinione!
Grazie mille, alla prossima!

Mooney

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Go Ahead and Cry, Little boy

Capitolo 2






 
Levi

Mentre sono in piedi fuori dalla casa di Reiner, non faccio altro che pensare ai milioni di modi in cui questa serata può trasformarsi in una catastrofe. Quando si combina una squadra di football e alcool gratis, le cose tendono a diventare piuttosto... beh, caotiche.

Prendiamo un paio di giorni fa, per esempio. Un gioco innocente come 'Obbligo o verità' si è trasformato in Marco Bodt che mi fa un succhiotto sul collo. Non abbiamo alcun sentimento l’uno per l’altro, ma un obbligo è un obbligo e Marco tende a lasciarsi andare una volta aver consumato un paio di drink. Ovviamente ora riusciamo a malapena a guardarci in faccia, ma sono sicuro che tra alcune settimane le cose torneranno come prima. Si sai, il tempo guarisce ogni ferita o qualcosa del genere.

Prendo un respiro profondo e accumulo tutto il mio coraggio. Non è molto, ma è abbastanza da impedire alle mie mani di tremare come foglie. Salgo le scale della casa di Reiner e giro il pomello della porta, aprendola. Non chiude mai la porta a chiave perché è un fottuto idiota, ma oggi sono grato per questo suo vizio. Posso entrare, parlare un pochino e uscire da qui prima che la cosa degeneri.

Non appena entro, le persone cominciano subito a venirmi incontro. Alcuni li conosco, altri non credo di averli mai visti in vita mia. Li saluto allo stesso modo, il sorriso che tira le mie labbra è così finto da sorprendermi che nessuno se ne renda conto.

Incrocio lo sguardo Reiner non appena mi addentro in salotto e sento il cuore bloccarsi nel petto. Mi obbligo di prendere dei respiri profondi; cerco di calmarmi non appena vedo che Reiner sta per raggiungermi, facendosi largo tra la folla. Si ferma di fronte a me e sorride ampiamente, agganciando al mano libera sulla mia spalla. Sussulto alla sua presa ferrea.

“Capitano!” Si ferma per bere un sorso dalla sua bottiglia. Birra economica, probabilmente, a meno che Thomas in qualche modo non sia riuscito di nuovo a sgraffignare una bottiglia di Jack dalla scorta di liquori dei suoi genitori. “Ce l’hai fatta.”

“Non volevo sentire le tue lagne,” dico. È vero, più o meno, e Reiner ride rumorosamente per un qualche motivo. Mi sposto a disagio chiedendomi quale scusa avrei potuto usare questa volta per andarmene prima. “Non perdi davvero mai tempo, vero? La festa è appena iniziata!”

Reiner mi lancia un sorriso, beve un altro sorso della birra e mi passa accanto per salutare qualcun altro.

Lascio che un respiro di sollievo mi passi lentamente dalle labbra prima di prendere la mia solita posizione contro il muro. La musica è fin troppo alta, la stanza è calda da morire e voglio solo andare a casa. Beh, magari non a casa. Ma uscire da qui mi sembra un buon piano.

“Ehi, sconosciuto.”

Sollevo lo sguardo dal pavimento per vedere Isabel avanzare verso di me. Non sembra essere il suo posto, questo. Le sue cuffie arancione brillante le pendolo dal collo e si mette a posto il suo enorme maglione nero.

“Cosa ci fai qui?” Chiedo, sorpreso. A Isabel non sono mai piaciute le feste e neanche a Farlan. Prima che mi unissi alla squadra di football, noi tre passavamo i venerdì sera a guardare serie tv su Netflix mangiando popcorn.

“Sono venuta con Petra.” Indica una ragazza con dei capelli biondo fragola. Il suo nome mi è familiare, ma non riesco a ricordarla. “È del giornalino della scuola. Sai, per la rubrica del gossip.”

“Oh.” Non sapevo nemmeno che la scuola avesse un giornale. Mi sento strano. Isabel e io siamo amici da molti anni, ma per qualche motivo mi ritrovo a desiderare che questa conversazione finisca in fretta. “Questo non sembra il tipo di posto che frequenteresti.”

“Già, beh.” Alza le spalle. “Potrei dire lo stesso di te, ma sembra tu ti senta a tuo agio.”

Sbatto le palpebre lentamente. Non ricordo l’ultima volta in cui le ho parlato se non per un progetto scolastico. Una volta eravamo inseparabili. Ma ora mi sembra quasi di non ricordare nemmeno chi sia.

“Immagino,” rispondo con tono piatto. Mi schiarisco la gola cercando di non far rumore. “Ascolta, Isabel... noi siamo...?”

 Mi interrompo. Cosa stavo cercando di dire?

Per fortuna, Isabel sembra averlo intuito meglio di me.

“A posto?” Infila le mani nelle tasche dei jeans. “Non lo so, tu che dici? Sembra che parli con me e Farlan solo quando vuoi ottenere dei buoni voti.”

Le sue parole sono affilate abbastanza da tagliarmi l’anima e per alcuni secondi mi domando se lo hanno fatto davvero. Apro la bocca per giustificarmi, per spiegare che non posso essere il Levi che ero una volta, che le cose vanno bene in modo diverso, ma tutto suona come una scusa.

Isabel ha sempre odiato le scuse.

“Non è giusto,” riesco a dire. Le sopracciglia di Isabel si contraggono dalla rabbia, ma poi il suo viso si rilassa.

“Immagino di no,” ride, “Voglio dire, sei Levi Ackerman, capitano della squadra di football. Tutti ti sbavano dietro. Anche se perdessi un paio di amici, nei hai decine con cui rimpiazzarli.”

“Isabel!” Non so perché mi sto arrabbiando. Non ha ragione? Non sta avendo dei buoni motivi per dire una cosa del genere?

“Cosa?” Sbotta e poi scuote la testa. “Senti, Levi,” pronuncia il mio nome come fosse la cosa più disgustosa del mondo. “Non so cosa vuoi che ti dica.”

Dimmi che siamo a posto. Dimmi che non andrai da nessuna parte. Dimmi che nulla cambierà.

Non mi azzardo a parlare. Isabel mi guarda per alcuni secondi, i suoi occhi analizzano la mia espressione. Ma poi sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, scuotendo la testa per la delusione e si allontana. Osservo il suo corpo mescolarsi a quello di tutti gli altri. Distolgo lo sguardo solo quando non riesco più a vedere la sua testa.

Sono qui solo da pochi minuti, ma sento il bisogno di andarmene. Mi allontano dal muro sul quale ero appoggiato e passo in rassegna tutte le possibili scuse che potrei usare in caso Reiner mi vedesse. Fortunatamente, però, lui è da qualche altra parte della casa.

Raggiungo in velocità la veranda e premo le dita contro gli occhi. Posso ancora sentire la musica che mi scuote le ossa. Scendo dalla veranda e cammino verso il marciapiede, la ghiaia del vialetto di Reiner scricchiola sotto i miei piedi.

Giuro che riesco a sentire degli occhi puntati su di me, ma sono troppo codardo per guardare. La possibilità che a qualcuno interessi dove sono, interessi davvero, sono molto poche. Isabel e Farlan sono gli unici di quel tipo di amici. Tutto ciò che ho ora sono i ragazzi della squadra di football. Ma considerando che non abbiamo nulla in comune al di fuori del campo da gioco, non è molto.

Schiocco la lingua e infilo le mani nelle tasche. Le ginocchia mi fanno male da quella volta in cui Jaeger mi è corso addosso, ma non ho la macchina in questo momento. Non che avrebbe avuto importanza, in ogni caso. Non guido. Non ora, almeno.

Rabbrividisco al pensiero che Kenny potrebbe essere tornato a casa per quest’ora. È difficile ragionare con lui quando è ubriaco e stanco e dubito che questa sera sarà diversa. Se sono fortunato, si sarà addormentato guardando le repliche di Law & Order.

Raggiungo casa mia e mi fermo davanti alla porta. Potrei scappare e non guardarmi mai più indietro. Ma questo non farebbe di me un codardo? Non sarei meglio di Kenny... o di mio padre.

Giro la maniglia, il mio cuore sprofonda quando vedo che la porta non è chiusa a chiave.

Kenny è sveglio.

“Sono a casa,” annuncio, rimanendo in piedi sulla soglia della porta.

“Sono in soggiorno,” risponde Kenny.

Le mani cominciano a tremare mentre mi dirigo verso il salotto.

 
***
 
Salgo le scale, le gambe tremano così violentemente che non riesco nemmeno a camminare dritto. Finalmente raggiungo il bagno e mi appoggio al lavandino. Il mio stomaco è in subbuglio e all’ultimo secondo cado sulle ginocchia e mi curvo sulla tavoletta. Il mio pranzo ha deciso improvvisamente di rifarsi vivo e, una volta che ho finito di rimettere anche l’anima, mi obbligo a sollevarmi e tirare lo sciacquone.

La gola brucia, premo le dita sulla zona dolorante e appoggio la testa contro il muro. Le mattonelle sono gelate sotto i miei piedi. Il mio intero corpo mi fa male. Sono tentato di distendermi qui e dormire, ma poi ricordo quanto deve essere sudicio il pavimento.

Riesco a rimettermi in piedi. Il mondo gira un po’, smettendo solo dopo alcuni interminabili minuti e, quando succede, mi guardo allo specchio. Il viso non mostra alcun tipo di ematoma, come sempre. Sollevo la maglietta per fissare tutti i lividi scuri dispersi per tutto l’addome. Kenny non è un idiota, questo è certo. Non mi colpisce mai in volto e forse dovrei essergliene grato.

Premo le dita contro un ematoma e un sibilo mi scappa dai denti.

Già, vaffanculo. Non sono grato per questa merda.

Kenny è la ragione per la quale non faccio la doccia negli spogliatoi dopo gli allenamenti e perché mi cambio nella cabina del bagno. Quando lo facevo le prime volte, alcuni dei ragazzi mi guardavano male. Quando sei in prima media, i ragazzi di solito fanno piccole zuffe tra di loro nelle cabine del bagno. Quando sei in quarta superiore, i ragazzi pensano di avere problemi di autostima e cose del genere.

Ma, come per qualsiasi altra cosa nella mia vita, nessuno chiede nulla. Non fai domande al capitano della tua squadra. Fai semplicemente qualsiasi cosa che fa anche lui.

Prendo un respiro profondo e apro il rubinetto. Mi lavo i denti meticolosamente e sciacquo il viso con dell’acqua fredda, tirando indietro i capelli che si sono attaccati alla fronte a causa del sudore. I miei tentativi di difendermi dai pugni di Kenny non vanno mai a segno, eppure continuo a provarci. Credo sia un metodo assurdo e inutile per autoconvincermi di non essere così debole come sostiene lui.

Mi passo le dita tra i capelli e noto che la ricrescita comincia a farsi vedere. Non mi importa. Farmi biondo non è stata una mia idea, ma mi sto abituando a vedermi così. Tornare corvino non sarebbe così male, però.

Ci sono dei movimenti al piano di sotto e poi sento la porta del piano interrato chiudersi. Kenny ha tutto il piano di sotto per sé e io ho il piano di sopra. Il piano terra è l’unico posto dove lo vedo. Se non insistesse nel continuare a picchiarmi ogni volta che è irritato, non penso mi ricorderei nemmeno che vive con me.

Osservo il mio riflesso nello specchio. L’acqua sta gocciolando dal mio viso e strofino la mano su esso per asciugarmi. Le borse sotto gli occhi sono più pronunciate del solito. Sembro esausto e non dovrei esserne sorpreso. Mi sento esausto.

Premo le dita contro gli occhi. Quando li riapro di nuovo, tutto appare distorto. Afferro il bordo del lavandino e mi curvo in avanti, pregando che questa notte finisca. 

 
***
 
“Quindi, quanti di voi sono andati avanti con la lettura?”

La voce del signor Smith mi strappa dalla mia confusione. Stavo fissando un punto imprecisato, ma ora ricordo di essere in classe. Mi prendo un paio di secondi per ricompormi e sollevare lo sguardo. Soffoco uno sbadiglio e giro lo sguardo verso Isabel e Farlan, che stanno ridendo per qualcosa, cercando però di non farsi richiamare dal professore.

È un doloroso promemoria del fatto che stiamo viaggiando in due percorsi completamente differenti. Deglutisco il gusto amaro che mi è rimasto in bocca e focalizzo lo sguardo sul professor Smith. È seduto sul bordo della cattedra mentre tiene un libro in mano. Probabilmente è il libro che abbiamo cominciato un paio di giorni fa, ma al momento non mi viene in mente il titolo.

“Per coloro che hanno letto, come descrivereste il personaggio principale?” Chiede. Una ragazza alza la mano e il professore le concede la parola. Non mi sono mai preoccupato di imparare il suo nome.

“Sembra aver paura di tantissime cose,” spiega. “I suoi amici escono spesso, ma lui sembra troppo spaventato per unirsi a loro. Come se pensasse che qualcosa di brutto possa accadere da un momento all’altro.”

“Esatto.” Il signor Smith sembra essere soddisfatto della risposta. Alzo gli occhi al cielo e mi concentro sul quaderno rilegato sul mio banco. “La paura può essere una cosa piuttosto destabilizzante per alcune persone. Come potete vedere, le paure del protagonista rappresentano una seria minaccia nell’impedirgli di godere la vita.”

Si ferma e i suoi occhi scannerizzano la stanza.

“Quindi, la mia domanda è: da cosa siete spaventati voi? Cosa credete che vi trattenga dal godervi la vita?” Alzo velocemente la testa alla domanda. Vuole che condividiamo le nostre paure? A quale scopo?

Mi guardo attorno. Nessuno sembra preoccupato a parte me. Il mio stomaco si sta attorcigliando, formando dei nodi che nemmeno degli scout riuscirebbero a sciogliere.

Nessuno si azzarda ad alzare la mano e li mando mentalmente tutti all’Inferno. Quando nessuno partecipa, gli insegnanti insistono ancora di più. Odio fottutamente questa cosa, ma immagino sia un qualche tipo di requisito che devono avere come educatori. Forse il mistero degli studenti funge da carburante per loro. Chi cazzo lo sa.

“E tu, Eren?”

Sospiro di sollievo, crollando sulla sedia. Il mio cuore torna a battere in un ritmo normale e improvvisamente mi sento come se potessi respirare di nuovo. La testa di Eren si solleva di scatto, come se prima di essere stato chiamato stesse dormendo. Mi concentro sul banco invece che sul retro della sua testa. Fissarlo in quel modo mi fa sentire un fottuto stalker. Che non sono, per la cronaca.

“Io?” Eren mormora pensieroso. “Questa è una domanda interessante, professor Smith. La paura non è semplicemente qualcosa che crea la nostra mente? Voglio dire, le persone di solito non hanno paura di ciò di cui dovrebbero aver realmente paura.”

Il signor Smith solleva un sopracciglio e si allontana dalla cattedra.

“Cosa intende dire con questo?”

“Beh.” Eren si schiarisce la gola e non capisco se stia cercando di sembrare filosofico o qualche altra merdata del genere. Mi agito e guardo dall’altra parte della stanza Isabel e Farlan, che sembrano ansiosi di sentire cosa ha da dire Eren.

Mi costringo a tornare a guardare il banco.

“Ci sono persone che sono spaventate da cose tipo, non lo so, le tarme,” dice. “Le tarme non possono fare molto se non rovinarti i vestiti. Penso le persone dovrebbero avere paura di cose ben più pericolose. Per esempio... le auto.”

“Auto?” Ripeto prima di riuscire a fermarmi. Nella mia gola si è formato un nodo che non riesco a mandar giù. “Chi diavolo ha paura delle auto?”

“Non sto dicendo che io ho paura delle auto,” Eren si gira sulla sedia per guardarmi. “Sto solo dicendo che le persone dovrebbero averne più paura. Tutti ascoltiamo nei telegiornali notizie di incidenti stradali e auto distrutte, tuttavia sono piuttosto sicuro che la maggior parte di noi sia arrivato a scuola in macchina. Confidiamo nel fatto che arriveremo sani e salvi. Il che mi porta al prossimo punto: dovremmo avere paura di fidarci. Non ti fidi delle persone che non ti piacciono, giusto? E per la maggior parte, queste persone ti lasciano in pace. Ma le persone di cui ti fidi? Finiranno sempre per sputtan- voglio dire, fregarti.”

Sbatto le palpebre un paio di volte prima di socchiudere gli occhi.

“Che c’è, hai dei problemi di fiducia?” Chiedo, il mio tono leggermente derisorio ed Eren alza un sopracciglio, pieno di sarcasmo.

“Nah,” risponde con tono piatto. “E tu?”

“No,” sbotto velocemente. Eren sogghigna e scrolla le spalle.

Il professor Smith si schiarisce la gola per avvertirci di smetterla. Eren e io rompiamo il contatto visivo e lo guardiamo.

“Questa è una riflessione davvero profonda, Eren.” Il signor Smith sembra non sapere come rispondere. Non posso biasimarlo. “Ma non penso tu abbia risposto alla mia domanda originale.”

“Ah, giusto.” Eren annuisce un paio di volte. “Ho paura del conformismo.”

“Del conformismo?” Ripete il professor Smith. “Non penso di aver mai sentito una paura del genere.”

“È una paura legittima,” espone. “Ci pensi. Quando sei un bambino, non ti importa di adattarti a un ambiente, non ancora. Sei una persona che fa le sue cose. Ma una volta che cresci, cominci a cercare infiniti modi per essere qualcun altro. Forse è un problema di autostima. Chi lo sa? Ma nonostante tutto, si è sempre in cerca di un modo per adattarsi, di conformarsi. Il pensiero di essere come chiunque altro mi fa star male.”

Rido sotto i baffi, scuotendo la testa. Eren si gira per guardarmi ancora.

“Scusa,” sbuffo. “Ma non penso tu ti debba preoccupare del conformismo.”

“Beh, le paure non sono sempre razionali,” dice il signor Smith e capisco che sta cercando di attenuare la situazione. È piuttosto inutile, però. L’aria sembra carica di elettricità e posso affermare che io ed Eren stiamo oltrepassando il punto di non ritorno.

“Forse no,” mi concede Eren con un crescente ghigno e io digrigno i denti. “Con tutto il dovuto rispetto, però, penso tu lo faccia.”

“Io?” Lo guardo con sguardo arrabbiato. “Cosa stai insinuando?”

“Scusa!” Eren mi sorride dolcemente. “Non volevo offenderti.”

La campanella suona improvvisamente e non posso fare a meno di guardarlo a bocca aperta mentre si alza. Si dirige alla porta senza dire una parola e percepisco la rabbia accumularsi. Prendo alcuni respiri profondi per calmarmi, il mio viso è rosso dall’imbarazzo.

Guardo il signor Smith, che sembra scioccato quanto il resto della classe. Costringo i miei piedi a farmi alzare, afferrando i libri da sopra il banco. Reiner mi aspetta alla soglia della porta e quando gli passo affianco si schiarisce leggermente la gola.

“Gli permetti davvero di parlarti in questo modo?” Chiede, parendo confuso. Alzo gli occhi al cielo.

“Che posso farci?” Chiedo, anche se in realtà non cerco davvero una risposta. “Non vale il mio tempo.”

“Giusto,” dice lentamente Reiner. “Sembri molto irritato, però.”

“Mi ha fottutamente umiliato davanti a tutta la classe,” sbotto, raggiungendo finalmente il mio armadietto. Giro il quadrante con cattiveria e premo i quaderni rilegati contro il fianco. “Penso la mia rabbia sia giustificata.”

Reiner solleva entrambe le mani in segno di resa.

“Ehi amico, sono dalla tua parte,” dice. “Non lasciare che quello lì ti condizioni. Jaeger è solo un perdente.”

Quando sei un perdente non ti interessa molto del tuo aspetto.
Non sei un perdente. Strano? Sì. Perdente? Nah. So che tipi sono i perdenti, e non è ciò che sei.

Il ricordo mi blocca dal mettere via i libri. Una strana sensazione mi attanaglia lo stomaco. Reiner mi guarda strano per alcuni secondi. Annuisco, percependo finalmente il sangue scomparire dalle guance.

“Già,” dico freddamente. “Niente più che un fottuto perdente.” 

 
***
 
Al raggiungimento della nona ora, sono abbastanza calmo. Siamo in palestra per giocare a Flag Football[1]. Il che, come mi piace definire, è solo una versione rivisitata del football. Non mi è mai importato dell’attrezzatura, quindi sono grato per le cinture attorno alle nostre vite. Dio solo sa quanto io venga già spintonato in giro.

Avevo quasi dimenticato la discussione avvenuta nell’ora di inglese fino a quando i miei occhi non si posano su Eren. È in piedi sulle linee di bordo campo, le mani al sicuro dentro le tasche dei pantaloni. Sembra un ragazzo piuttosto inusuale. I suoi occhi vagano per la palestra fino a quando non incontrano i miei.

Lui non sorride e non sorrido nemmeno io.

In qualche modo, un bagliore si ravviva dentro di me. Cerco di levarmi di dosso questa sensazione e comincio a correre con la mia squadra. Eren si muove dal suo posto nel retro della squadra e il gioco comincia. Va avanti senza incidenti e, prima di rendermene conto, siamo già tornati agli spogliatoi.

Prendo i miei vestiti per cambiarmi nelle cabine del bagno, ma poi noto che Eren mi sta fissando. Ripenso a questa mattina e la rabbia che provavo prima torna a tutta birra.

Improvvisamente, tutto ciò che vedo è rosso. Cammino verso di lui. Mi riserva uno sguardo prudente prima di sbatterlo contro il pavimento senza nemmeno pensarci. Rantola, come se avessi tagliato l’aria e lo spingo violentemente. La sua testa fa un suono sordo contro l’armadietto e i suoi occhi si spalancano per alcuni secondi.

Non so perché lo sto facendo.

Accanto a me, posso sentire Reiner e un paio di altri ragazzi ridere. Mi alzo lentamente. Il professor Zacharias non entra mai negli spogliatoi, quindi non c’è una figura autoritaria a fermarmi. L’adrenalina scorre calda e pesante nelle mie vene.

“Alzati, cagna!” Urla uno dei ragazzi dietro di me.

“Già,” aggiungo. “A meno che tu sia così debole da non riuscire nemmeno a sopportare una piccola spintarella.”

Non ho mai bullizzato una singola persona in tutta la mia vita. Non volevo essere il classico stereotipo del ragazzo atletico e stronzo.

Ma eccomi qui, tutto ciò che mi ero promesso di non diventare.

Eren rimane steso a terra, un’espressione illeggibile in volto. Per un secondo penso sia deluso per qualcosa, ma poi sogghigna.

“Lo sai,” comincia lentamente. “Cagna non è esattamente un insulto. L’ultima volta che ho controllato, non sono una femmina di cane. Ma ehi, non posso biasimarti. Il football deve averti rincretinito il cervello. Non che prima ce ne fosse molto, in realtà.”

“Stai diventando intelligente?” Commento. Lui alza gli occhi al cielo.

“Smettila di farti vedere,” sbotta e poi si alza brutalmente. Non mi guarda nemmeno mentre se va infuriato.

“Aw, qualcuno va a piangere adesso?” Reiner afferra rudemente il braccio di Eren. “Non abbiamo ancora finito con te, cagna.”

All’improvviso, Eren attorciglia il braccio di Reiner dietro la sua schiena. Franz, che aveva distrattamente osservato la scena in silenzio, sussulta. Ascoltiamo tutti mentre un pop disgustoso fende l’aria. Reiner si accascia a terra cadendo sulle ginocchia, urlando in agonia.

“Ehi, ma che cazzo?!” Mi faccio strada verso Reiner e rimango in piedi davanti a lui protettivamente. Eren guarda Reiner, che si sta contorcendo dal dolore.

“Chi è la cagna adesso?” Mormora, quasi troppo basso da sentire, e lascia lo spogliatoio. La porta sbatte, chiudendosi rumorosamente dietro di lui.

Sussulto al suono stridente.

“Vado a chiamare Zacharias!” Annuncia Franz, chiaramente in panico, e corre fuori.

“Porca miseria.” Mi inginocchio accanto a Reiner.

“Fa male, cazzo!” Sibila, delle lacrime si collezionano ai lati dei suoi occhi. Deglutisco.

“Cazzo!” Mi passo le dita tra i capelli e stringo le mani nervosamente. “Cosa cazzo dovremmo fare adesso?”

“Voi ragazzi siete degli idioti.” Marco scuote la testa, i suoi occhi si assottigliano. “Qual è il tuo problema, Levi?”

“Il mio problema?” Rispondo incredulo. “Non sono io quello che rompe le braccia alle persone!”

“Forse no, ma lo hai provocato!” Marco preme il dito contro il mio petto. “Lo hai aggredito senza motivo! Penso avesse il diritto di difendersi.”

“Ma tu da che parte stai?” Gli chiedo.

“Non dalla tua, questo è certo.” Marco sembra disgustato mentre scuote di nuovo la testa. Prende la sua roba e se ne va dallo spogliatoio. “Vado a scusarmi con Eren.”

Sparisce dalla nostra vista proprio quando il professor Zacharias entra nella stanza.

“Cos’è successo qui?” Chiede. Il professor Zacharias non parla molto, ma non è difficile capire che è irritato.

Tutti mi guardano. Deglutisco e cerco di uscirmene con una qualche bugia.

“Stavamo scherzando,” dico e prego che Franz non dica nulla per quanto riguarda Eren. “Immagino che ci siamo lasciati un pochino trasportare.”

Zacharias non sembra credermi. Mi impegno a mantenere il contatto visivo fino a quando non sospira e annuisce.

“D’accordo” dice. “Andiamo in infermeria.”

Aiuta Reiner ad alzarsi e uscire dalla stanza. I ragazzi rimanenti si sbrigano nel vestirsi mentre io rimango impiantato sul mi posto. Franz mi stringe la spalla per attirare la mia attenzione. Thomas mi sta guardando con la fronte aggrottata.

“Perché hai mentito?” Domanda. Franz si agita nervosamente accanto a me.

A essere onesti, non ne sono sicuro. Avrei dovuto dire la verità. Ma per una qualche ragione, non volevo che Eren passasse dei guai per causa mia. Non ha alcun senso, considerando di essere stato io ad attaccarlo. O forse ho solo paura di finire nei guai.

“Ci sarebbero stati troppi problemi se non l’avessi fatto,” replico con un’alzata di spalle. “Saremmo stati chiamati nell’ufficio del preside per tutto questo.”

Thomas e Franz si scambiano degli sguardi dubbiosi. Fingo di non notarlo.

“Come preferisci, Capitano,” dice in fine Franz e questa è l’ultima volta che ne parliamo.

 

[1] Flag Football: variante del football americano dove si utilizza la stessa palla. La differenza sta nell’assenza di contatto fisico in quanto non viene contemplato il placcaggio.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Go Ahead and Cry, Little boy 

Capitolo 3






 
Eren

15:17, camera mia. Sono raggomitolato in posizione fetale, metà della mia faccia premuta contro il cuscino. Un brivido mi attraversa il corpo, e mi avvolgo ancora di più con le coperte. Il mio piccolo bozzolo è un po’ soffocante, quindi tiro fuori la testa per respirare lentamente.

Posso sentire mia madre parlare con qualcuno al piano di sotto, nonostante non riesca bene a capire a chi appartenga la voce. Presumo sia la signora Rogers, la nostra vicina, e non ascolto più. È una delle infermiere che lavora con mio padre, e mi faceva da babysitter quando ero bambino. Mi tratta come se fossi un fragile pezzo di vetro, cercando sempre di scegliere le parole con cautela. Non parla mai di Mikasa con me, ma in fin dei conti nessuno lo fa. Non più, almeno.

Mi giro sulla schiena e stiro il corpo. Sento la pelle rigida per una qualche ragione, come se potesse spezzarsi se dovessi esagerare. Cerco di raggiungere la fine del letto con il piede sinistro, solo per vedere, ma prima che possa stiracchiarmi completamente sento un rapido suono appena fuori dalla porta. Qualcuno sta bussando.

Mi metto seduto. Nessuno bussa alla mia porta a meno che non sia un visitatore regolare.

Porto le gambe in una parte del letto e cammino verso la porta. Ho ancora indosso i vestiti che avevo oggi a scuola: jeans, felpa e i capelli sono un selvaggio disordine.

Giro la maniglia e sbatto le palpebre dalla sorpresa. Marco Bott sembra estremamente fuori luogo in casa mia. Le persone scherzano sul fatto che lui sia la reincarnazione di Gesù per via della sua purezza immacolata. Dovrebbe essere illegale essere una così tanto brava persona, ma Marco non sembra essere a conoscenza di quanto buono sia.

“Whoa.” Sogghigno e mi appoggio allo stipite della porta. “Sei venuto qui per farmi confessare i miei peccati?”

Marco non sembra trovare divertente lo scherzo, e ora che ci penso, neanche io. Il ghigno sparisce dal mio viso e mi alzo dritto.

“Scusa,” dico. “Forza dell’abitudine. Sai, colpa della tua reputazione di Gesù con le lentiggini.”

“Giusto...” Marco scuote la testa. “Eren, mi dispiace molto per ciò che ha fatto Levi prima.”

Il retro della mia testa pulsa. Affondo le dita nel palmo e sbuffo.

“Non sapevo tu fossi il suo cagnolino,” dissi sgarbatamente. Mi dirigo verso la mia scrivania, organizzando distrattamente qualsiasi cosa ci sia sopra. “Che cos’è lui, un codardo?”

Marco si schiarisce la gola.

“Non è così,” dice. “Non mi sto scusando per lui. Mi sto scusando per me stesso.”

“Per te?” Mi fermo, e sbatto il libro che stavo tenendo in mano un pochino troppo forte contro la scrivania. Marco salta al suono. “Tu non hai fatto nulla.”

“Esatto.” Mi giro per guardarlo. Arriccia le dita nervosamente, come se avesse paura che io lo picchi in faccia.

Non lo farei, per la cronaca. Dare un pugno alla reincarnazione di Gesù mi darebbe una via sicura verso l’Inferno. Se esiste davvero, intendo.

“Non ti sto seguendo,” dico sinceramente.

“Avrei dovuto fermarlo,” spiega Marco. “La cosa ci è scappata di mano.”

“Già,” mi appoggio contro la scrivania. “Ora suppongo sia arrivato il momento dove dici che voi ragazzi stavate solo scherzando e che non è poi una gran cosa. E scommetto che stai per chiedere di dire così al preside quando verrò chiamato nel suo ufficio, presupponendo che avete detto al professor Zacharias esattamente cosa sia successo. Ma lo trovo difficile da credere. Siete tutti dei codardi, nel profondo della vostra anima.”

Una parte di me si sente in colpa per il fatto di stare sfogando tutta la frustrazione sul povero, dolce Marco, ma un ragazzo che non ha le palle di affrontare le cose mi irrita altamente. Il fatto che si stia scusando dovrebbe rendermi entusiasta, ma tutto ciò che provo è rabbia.

Marco ha un’espressione illeggibile in volto. Le labbra sono arricciate e non dice nulla.

“Quindi è così,” aggiungo, perché non posso resistere nell’avere l’ultima parola. “Io dovrei essere dispiaciuto per voi. Mi dispiace che nessuno di voi abbia una mente tutta sua, mi dispiace che voi ragazzi pensiate che io sia un bersaglio facile, e più di tutto mi dispiace per pensare che abbiate una certa abilità nel non essere dei completi e totali stronzi.”

Le parole mi sono uscite così velocemente da non essere nemmeno riuscito a comprenderle del tutto. È un’altra di quelle cose dove la mia bocca si muove più velocemente di quanto il mio cervello può assimilare, ma per una volta non voglio zittirmi mettendomi il piede in gola. Mi ci vuole qualche secondo per realizzare di non star esattamente parlando della squadra di football.

Sto parlando di Levi e Marco lo sa. Quell’espressione illeggibile che ha avuto fino a ora si scioglie e improvvisamente sembra mi guardi con compassione. Il petto sembra ristringersi, come se il mio cuore stesse per esplodere, e premo le unghie contro la carne morbida dei palmi. Il dolore mi aiuta a capire, a punirmi, e lo faccio sempre di più fino a quando non riesco nemmeno più a sentire il cuore battere.

“Eren...” comincia, ma non voglio che finisca.

“Faresti meglio ad andare,” dico, combattendo per mantenere stabile il tono della voce. Mi sento vulnerabile, orribilmente nudo davanti allo sguardo indagatore di Marco. Le sue mani si contraggono per un attimo ai fianchi, come avesse intenzione di provare a trattenermi, e un sapore spregevole mi riempie la bocca.

“D’accordo.” Marco annuisce fermamente. “Ma davvero... Eren, sono serio. Mi dispiace.”

Percepisco le sue parole come se mi stessi grattando la pelle con della carta vetrata. Quasi sussulto, ma annuisco cercando di sembrare composto. Posso percepire le stringhe che mi trattengono dallo sbottare rompersi. Non voglio altro se non cercare di far rimanere attaccati i pezzi rotti di me. Ma non posso farlo con lui qui.

“Per favore,” dico, e Marco si muove verso la porta.

Le mie mani sanguinano. Posso sentire le unghie pizzicare la carne, e il dolore mi colpisce come una tonnellata di mattoni. Mi forzo di aprire le mani e guardarle. Il sangue scorre formando sottili gocce color cremisi e profonde mezzelune causate dalle unghie sono impresse nei miei palmi.

“Cazzo,” mormoro. La vista del sangue mi ha sempre fatto un po’ impressione, il che è esilarante considerando quanto spesso sanguino. Sono sempre stato piuttosto sconsiderato. Ho passato la maggior parte della mia infanzia a farmi male con cose anche solo potenzialmente considerabili pericolose.

Cammino lentamente verso il bagno e apro il rubinetto, sciacquandomi le mani. L’acqua si colora subito di carminio, diffondendosi sul lavandino. Mi sento un po’ meno stordito quando l’acqua torna a scorrere cristallina. Prendo della garza e della pomata dall’armadietto e copro le ferite. Della garza potrebbe sembrare troppa per dei piccoli tagli, ma so che se dovessi arrabbiarmi tornerei a far sprofondare le unghie sul palmo. L’ultima cosa che voglio è far sembrare le mie mani ancora peggiori.

Sbatto la portiera dell’armadietto più forte di quanto volessi e osservo il mio riflesso nello specchio poco distante. Riesco difficilmente a riconoscermi, e mi sforzo di ricordare l’ultima volta che sono riuscito a farlo.

“Chi sei tu, Jaeger?” Chiedo, e fisso la mia bocca formulare le parole.

Non ho una risposta e non ce l’ha nemmeno il ragazzo nello specchio. Mi guarda con dei grandi occhi verdi vuoti. Sobbalza quando lo faccio anch’io e guardarlo mi fa contorcere lo stomaco. Faccio cadere il mento sul petto e prendo un lento, profondo respiro.

Devo uscire di qui.

Mi dirigo verso la mia stanza e afferro il cellulare. Tiro giù le maniche della felpa per coprire le mani e corro al piano di sotto. Posso sentire mia madre trafficare in cucina. Le possibilità che mi abbia sentito scendere le scale sono poche. Anche se mi avesse sentito, dubito che le importi qualcosa di dove vado, ormai.

Esco di casa senza guardarmi indietro. Mentre cammino, digito il numero familiare e alzo il cellulare all’orecchio.

“Sei libero?” chiedo una volta che l’altra linea è stata presa, e sento un sottile suono affermativo sull’altra linea.

 
***
 
Armin guarda gli arredi del fast food dove siamo seduti, e le sue sopracciglia si aggrottano leggermente. Sembriamo due perfetti opposti. Io ho ancora i miei jeans e la felpa sbiadita, mentre lui indossa un completo a tre pezzi che lo fanno sembrare dieci anni più vecchio di quanto sia in realtà.

È snervante. Bevo alcuni sorsi della mia cola e cerco di intercettare il suo sguardo, ma lui è troppo occupato ad accigliarsi per la macchia di mostarda sul tavolo accanto al nostro.

“Allora,” comincia, i suoi occhi finalmente incontrano i miei. “Perché mi hai chiamato?”

“Ho occupato troppo il tempo di Jean,” dico, picchiettando le dita sul tavolo. “Inoltre, è troppo difficile parlare con lui. Ultimamente si comporta come un fottuto padre. Mi fa sempre la predica.”

“Capisco.” Armin allaccia le dita assieme e le appoggia al tavolo. “Forse ne hai bisogno, però.”

“Ho già dei genitori,” dico lentamente. “Non ho bisogno di un secondo padre o qualsiasi altra cosa sta cercando di essere.”

“È  preoccupato per te,” afferma Armin, la fronte si aggrotta ancora. Cerco di ricordare se l’ho mai visto corrucciare la fronte così tanto. “Mi ha chiamato l’altro giorno.”

Le mie sopracciglia slittano in alto dalla sorpresa.

“Vi sentite ancora?” Chiedo. “Pensavo non ti importasse più di tanto di lui.”

“Quello eri tu.” Armin quasi ride ma poi si riprende. Deglutisco a fatica e blocco la cannuccia tra i denti. “Certo, avevo i miei dubbi su di lui all’inizio. Ma poi ci ho parlato e ho visto che non era così male come pensavo.”

“Sembra avere questo effetto sulle persone,” dico. Non lo ammetterò mai, ma anche Jean è cresciuto con me.

Armin annuisce. “Quindi, come stavo dicendo, mi ha chiamato. Mi ha raccontato della tua trovata dell’altro giorno.”

“Quale?” chiedo distrattamente, guardando il mio mezzo panino. Ci hanno messo il ketchup. Odio il ketchup. “Ne ho combinate parecchie.”

“Eren,” mi chiama sommessamente Armin. “Io non penso Mikasa-”

“D’accordo,” dico a voce fin troppo alta, interrompendolo. “Lo so, okay?”

“Allora perché lo stai facendo?”

“Mi aiuta a resistere, a reagire,” spiego. “Non sto facendo del male a nessuno. Non faccio neanche più risse ultimamente.”

Penso all’incidente dello spogliatoio e resisto all’urgenza di trasalire.

“Ci sono modi migliori,” afferma Armin. “Puoi prenderti un hobby oppure-“

“Pensavo tu fossi un avvocato, non un dottore.” Sono uno stronzo. Dovrei essere molto più carino con Armin, ma è dura quando sta dicendo tutte le cose che ho bisogno di sentire, ma di cui non voglio parlare.

“Qual è il vero motivo per cui mi hai chiamato?” Chiede gentilmente. “Non era perché eri affamato.”

“Non lo so,” rispondo onestamente. “Ecco... Volevo solo avere qualcuno vicino, okay?”

Gli occhi di Armin si addolciscono. Guardo il tavolo e mi rifiuto di incontrare il suo sguardo.

“Mi dispiace,” dice.

“Me l’hanno ripetuto in tanti, ultimamente,” mormoro. Armin preme le labbra in una linea sottile e annuisce.

“Dovrei tornare a casa,” sussurra. “Annie probabilmente ha bisogno di aiuto per la cena.”

“Ah, giusto.” Tamburello le dita contro il tavolo. “Quanto è?”

“Sei mesi,” risponde raggiante, “Riesco a malapena a crederci.”

“Già,” dico. “Sei emozionato? Voglio dire, è tipo la terza volta, giusto?”

“Emozionatissimo. Potrebbe essere la ventesima volta e ne amerei comunque ogni secondo.” Sorride per la prima volta da quando ci siamo seduti e si allunga sul tavolo per scompigliarmi i capelli. “Chiamami se hai bisogno di qualcosa, o fermati se vuoi avere spazio o qualcos’altro. La nostra porta è sempre aperta.”

Ci penso per un secondo. Non posso farlo. Sta andando verso i trent’anni, sposato con due figli e il terzo in arrivo. È un avvocato e Annie insegna boxe in palestra. Hanno un lavoro, dei figli e le bollette da pagare. Non hanno tempo per me e tutti i miei piccoli problemi adolescenziali. Sono degli adulti con dei problemi da adulti... veri problemi.

Non mi sento parte dell’equazione, non importa quanto Armin cerchi di far sembrare che sia così. Non può aiutarmi perché non è mio amico. Era un amico di Mikasa, e tutto ciò che sta cercando di fare è aiutare il povero fratellino che è stato lasciato indietro.

Ho la nausea. Spingo il vassoio di cibo e ignoro lo sguardo preoccupato di Armin.

“Certo,” rispondo sordamente, e il mio sorriso pratico si fa strada tra le mie labbra con facilità. Ed eccomi qui, fingendo di non star cadendo a pezzi. “Lo terrò a mente.”

 
***
 
13:58, sotto le tribune. Sento il viso intorpidito per essere stato premuto contro le ginocchia, ma non faccio caso alla sensazione e mi chiudo ancora di più in me stesso. Sento la partita di calcio a cui dovrei partecipare anch’io andare avanti, ma la ignoro. Chiudo gli occhi e ascolto i miei compagni di classe continuare a calciare la palla, non notando nemmeno che sono sotto di un giocatore.

Ma siamo onesti, a chi interessa che solitamente io non ci sia? Non so nemmeno giocare a calcio. Staranno probabilmente celebrando la mancanza di un peso morto nella loro squadra.

Mi fermo e medito sulla frase per un secondo. Peso morto? Già, sono io. Mi acciglio e premo ancora di più il viso contro la fessura della braccia. È uno di quei giorni. Li odio più di qualsiasi altra cosa. Ma sono come scure e profonde cicatrici che non se ne andranno mai. Ho avuto dei giorni bui. Diavolo, tutti li hanno. Ma i miei sono giorni bui moltiplicati per mille.

Non piangerò, perché non piango da molto tempo, ma a volte sono brutti abbastanza da farmi venir voglia di farlo. Giorni come oggi sono giorni in cui mi domando perché sto ancora respirando. Penso a tutti i modi in cui potrei morire, e realizzo che a nessuno fregherebbe qualcosa. Apparentemente, stando ai volantini degli uffici di assistenza, sono depresso. E con istinti suicidi, ma non andiamo troppo nel dettaglio.

Odio le etichette. Da sempre e per sempre. Qual è il loro scopo, in ogni caso? È un metodo per smistare più facilmente le persone? Dovrebbero essere crudeli? Dovrebbero aiutare?

Chi cazzo lo sa.

I miei pensieri vengono brutalmente interrotti quando sento dei passi avvicinarsi a me. Potrebbe essere il signor Zacharias. Non dirà nulla, come al solito, ma il suo sguardo cupo sarà abbastanza da farmi alzare.

Stavo già per mettermi in piedi, ma poi i miei occhi ne incontrarono un paio color tempesta.

Il signor Zacharias non ha gli occhi grigi. Conosco una sola persona che li ha, e non riesco a immaginare cosa lui voglia da me adesso.

“Cosa cazzo vuoi?” sono in modalità difensiva, con ogni diritto di esserlo, e oltremodo irritato al modo innocente con cui solleva le braccia in segno di resa.

“Rilassati, Eren.” Levi abbassa lo sguardo per guardarmi. “Cos’hai infilato su per il culo? Voglio solo parlare.”

“Oh, cielo,” dico. “Scusa, stavo solo aspettando che tu mi colpissi di nuovo. Sembri essere affezionato ad attacchi non provocati su innocenti e ignari compagni di classe.”

“Basta con questa merda.” Gli occhi di Levi si assottigliano così tanto da darmi la sensazione di potermi tagliare. “Non sei innocente.”

“Non ti ho fatto nulla,” dico, ma poi mi fermo a pensarci. Quasi voglio ridere. “Oh santo cielo. Hai le mutande attorcigliate per quello che ho detto ieri a inglese?”

Levi ruota gli occhi e distoglie lo sguardo.

Bingo.

“Ascolta, Eren.” Lo sguardo tagliente di Levi torna su di me. “Ero irritato e tu eri lì. Ho agito senza pensare. Scusa.”

Mi appoggio all’indietro facendomi sorreggere dalle braccia.

“Marco ti ha parlato. ”

“E allora, cosa cazzo c’entra?” Sputa. Si avvicina ancora minacciosamente, ma lo guardo freddamente. “Non sono un fottuto codardo.”

“Giusto.”

“Non lo sono,” sottolinea. I miei occhi si spalancano un po’.

“D’accordo, porca puttana.” Ruoto gli occhi. “Non sei un codardo, sei solo patetico. Contento?”

È su di me in un secondo, afferrandomi brutalmente il davanti della maglietta tra i pugni. Ignoro quanto sono vicine le nostre facce e sogghigno.

“Ho fatto centro?” Cchiedo allegramente.

“Stai zitto,” ringhia. “Ero davvero venuto per scusarmi, ma se hai intenzione di fare lo stronzo allora vaffanculo al buono proposito.”

“Levati,” dico lentamente.

Levi mi guarda dritto negli occhi senza battere ciglio prima di lasciarmi andare. Mi rifiuto di fargli sapere che il mio cuore rimbomba all’impazzata nelle mie orecchie. Mi appoggio alle tribune e lo guardo.

“Come sapevi dove mi trovavo?” Chiedo.

“Ti ho visto venire qui,” risponde, sembrando meno arrabbiato.

“Ooh. Mi stavi stalkerando?”

“Sarebbe stalking se ti seguissi fino a casa. Ma non vale la pena perdere così tanto tempo.” Sputa velenoso.

Wow, è difficile credere che sia lo stesso ragazzo che aveva cercato di convincermi di non essere un perdente.

“Beh, scusa allora,” dico, perché non so cos’altro potrei dire. “Ora siamo pari. Ora, per favore, sparisci.”

“Vaffanculo.” Guarda il terreno per alcuni secondi prima di sedersi con cautela. “Perché cazzo finisci sempre qui, comunque?”

“Ha importanza?” Strascico le parole. “Non comportarti come se te ne fregasse qualcosa. Non dovresti cazzeggiare insieme ai tuoi amici?”

“Possono farcela anche senza di me.” Solleva le spalle.

“Non sembra, credimi,” dico. “Sei sempre così?”

“Non so. Dimmelo tu.”

“Questo non ha fottutamente senso.”

Tu non hai senso,” mormora. Apro la bocca per controbattere ma poi decido di non farlo. Levi si acciglia verso il suolo come se gli avesse fatto qualcosa che lo aveva personalmente offeso.

Stringo le labbra assieme e guardo altrove.

“Okay, lo stai facendo per farmi arrabbiare.”

“Può darsi.”

“Beh, missione compiuta, congratulazioni.” Esalo lentamente. “Seriamente, vattene lontano da me.”

“Rilassati, Eren.” Ruota il collo e le spalle per scrocchiarle. “Voglio solo sedermi qui, okay?”

Provo a dirgli che esistono un milione di altri posti dove si può sedere, preferibilmente lontano da me, ma la bocca non si muove.

“Levi-”

“Posso essere onesto?” Chiede Levi. Sbatto le palpebre prima di annuire scettico.

“Non avevo realizzato che avremmo confessato i nostri rimpianti. Non sono abbastanza ubriaco per queste cose.”

“Oh porca- puoi chiudere quella fottuta bocca per dieci fottuti secondi?” Sembra irritato. Sollevo le sopracciglia.

“Ma tu baci tua madre con quella bocca?”

“Mia madre è morta.”

“Bella merda,” dico. “Questa cosa è diventata depressa in un batter d’occhio.”

“Colpa tua,” replica, la sua voce rasenta il malefico.

Chiudo la bocca.

“Giusto. Scusa. Va avanti.”

“Grazie,” dice scontrosamente. Fa scorrere le dita tra i capelli e si appoggia all’indietro, assumendo la mia stessa posizione. “Marco mi ha riferito cosa hai detto.”

 “L’avevo immaginato,” affermo. “Non riesco capire perché tu sia ancora qui. Abbiamo già parlato, no?”

“Lo so,” Levi sospira. “Solo... cazzo. Hai centrato il fottuto punto, okay? Sei contento?”

“Contento?” Ripeto. “Non sono uno stronzo. Una cosa del genere non mi renderebbe felice.”

“Già, certo che no,” risponde con una risata derisoria. “Già, siamo tutti codardi. So di aver detto che non lo sono ma... senti, le persone fanno cazzate, okay? E io non sono un’eccezione; penso nessuno lo sia. So che c’è tutta quella diceria di Marco sull’essere Gesù o chi altri, ma persino lui a volte non sa cosa sta facendo. Le persone non possono essere sempre eroi. Qualcuno deve anche fare il cattivo.”

Lo fisso per alcuni secondi prima di guardare da un’altra parte. Tutto ciò che vedo oltre a me è perfetto, un terreo intoccato.

“A non tutti piace,” commento. “Sì, le persone non sono perfette. Ma avere delle imperfezioni non fa di te uno stronzo. Non penso ci sia un collegamento tra le due cose.”

“Come vuoi.” Solleva le spalle. “Credi in quello che vuoi ma-“

Si interrompe da solo. Lo guardo curiosamente, ma lui si alza immediatamente.

“Cosa-”

 “Fischietto,” dice e nemmeno un secondo dopo il signor Zacharias fischia. Si tira indietro i capelli dalla fronte e ghigna. “Bella chiacchierata, Jaeger. Ci vediamo.”

Quasi lo chiamo indietro, ma mi mordo la lingua per fermarmi dal farlo. Mi siedo dietro le tribune fino a quando Levi non diventa un minuscolo pallino in mezzo alla folla. Mi sforzo di mettermi in piedi, le gambe lamentano il movimento.

Cammino verso lo spogliatoio con la mente leggermente annebbiata. Sono uno degli ultimi ragazzi a entrare e, a giudicare dalla stanza praticamente vuota, tutti gli altri sono andati a casa. Mi vesto velocemente e mi dirigo verso il corridoio. Mi muovo a zig zag tra la folla, sentendomi quasi come se non fossi nel mio corpo.

Cammino verso casa con la musica sparata nelle orecchie. Mi fanno male, ma nonostante questo alzo ancora il volume fino a bloccare il dolore. Forse se lo faccio abbastanza a lungo, non sentirò più nulla.

Forse... forse diventerò insensibile.

È una possibilità allettante. Non essere in grado di sentire i suoni come in un sogno. Sono così concentrato sul non provare o non sentire che non realizzo nemmeno di essere giunto a casa fino a quando non mi fermo davanti al vialetto. Come al solito, i miei genitori non sono a casa. Ma c’è una macchina nera e le mie sopracciglia si uniscono fermamente.

Cammino molto lentamente verso casa e provo a bussare. La porta è aperta, quindi entro e mi tolgo le scarpe.

La testa di Jean spunta dalla cucina.

“Ehi,” saluta.

“Ehi,” strascico le parole. Non ho voglia di parlare. “Perché sei qui?”

Si gratta il retro del collo, un’espressione stanca in volto.

“Il mio capo ha detto di riposare per un po',” risponde.

“Ti ha licenziato?” Chiedo e Jean sussulta.

“No,” insiste aspramente. “È per un po’ di tempo, okay? Sto cercando di sistemare un paio di cose.”

Mi butto con ben poca nonchalant sul divano. “Mi sembra una cazzata, ma come preferisci.”

“Attento,” mi avverte minacciosamente Jean, ma è difficile prenderlo seriamente quando sta brandendo una spatola come fosse una spada. “Tua madre ha chiamato e le ho raccontato tutto. Mi ha detto di stare qui fino a quando non mi rimetto in piedi.”

Non so perché, ma improvvisamente sono arrabbiato. Non ho nulla contro Jean. È un po’ troppo impiccione per il suo stesso bene e qualche volta mi fa davvero arrabbiare, ma siamo in, per la maggior parte, buoni rapporti. Ma lui è l’unico promemoria di mia sorella dopo che i miei genitori hanno spogliato la casa della sua esistenza e di tutto quello che aveva a che fare con lei. Questa cosa mi ha sempre fatto arrabbiare, ma non l’ho mai detto a nessuno. Non sono così tanto uno stronzo.

“Dove dormirai?” Chiedo, anche se non so il motivo di questa domanda. Sappiamo entrambi dove dormirà; delle nuvole scure e minacciose sembrano magicamente apparire sopra le nostre testa. “Non importa. Dimentica ciò che ho detto.”

Sento un sibilo arrivare dalla cucina, come se dell’olio si fosse spanto sul piano cottura e Jean impreca sotto i denti. Si sente l’eco delle pentole e poi l’acqua che scorre. È tranquillo per u po', poi emerge dalla cucina con aria agitata.

“Stai bene, Eren?”

“Certo,” rispondo. Non è vero. Non lo sono mai, e lui lo sa. “Tu?”

“Sì,” deglutisce con fatica.

Non sono l’unico bugiardo, allora.

 
***
 
18:39, a cena. I miei genitori stanno parlando con Jean di politica, o sul tempo, o su qualcosa. Ho smesso di ascoltare quando i fagioli verdi hanno finito di cuocere. È una conversazione adulta, il tipo con cui i bambini devono sintonizzarsi e ignorare. O forse non lo è, ma nessuno vuole che partecipi nel predire se avremo una tempesta di neve o qualcosa del genere.

Non mi importa in ogni caso. Gioco con i fagioli verdi, osservando come l’olio si espande per tutto il piatto. Mio padre ha provato a cucinare dopo il tentativo fallito di Jean. Tende ad avere la mano pesante per quanto riguarda condimenti, oli e cose del genere, da qui il casino bruciato e unto presente nel piatto.

Guardo Jean mangiare, deglutire e bere casualmente tre sorsi d’acqua per nascondere il cipiglio sul volto. Mi mordo il labbro per nascondere il ghigno e torno a dividere i fagiolini sulla forchetta, sollevandoli lentamente verso la bocca. Li fisso per alcuni secondi prima di decidere di abbandonare il presupposto e mettere giù la forchetta.

Mia madre alza lo sguardo e mi fissa, tagliando delicatamente la sua tilapia[1] al forno.

“Eren?” Chiede, attenta alle sue prossime parole.

Mi alzo dal tavolo.

“Vado a letto prima,” dico. Lei, mio padre e Jean mi riservano degli sguardi scettici e realizzo che si stanno domandando se sto programmando di sgattaiolare via di casa anche questa notte. “Seriamente. È stata una giornata di merda.”

Mio padre sospira all’imprecazione e mi mordo l’interno della guancia.

“Va.” Agita la mano in modo sprezzante senza guardarmi.

Annuisco, ripetendo la parola sprezzante più di quanto vorrei nella mia testa.

Va.

È una parola semplice. Due innocenti piccole lettere messe insieme per formare un comando, o un suggerimento, o solo un’altra parola che le persone dicono senza pensarci. Darei tutto per poter semplicemente andare. Mikasa e io dovevamo semplicemente andare, quando i miei genitori erano a dieci secondi dal firmare le carte per il divorzio, ma le cose sono cambiate.

Penso a cosa succede quando le persone se ne vanno. Le cose cambiano e tutti coloro che sono rimasti indietro devono prendere in mano i pezzi rimasti e rimetterli insieme. O le persone lasciano indietro dei pezzi dove sono e fingere che tutto vada bene.

Ma non è così, per la cronaca, ma non so cosa fare. Non so mai cosa fare, specialmente ora che l’unica persona che aveva capito come andare avanti se n’era andata a causa di qualche bastardo che ha deciso che era il momento per lei di andare.

...

Cazzo.

 

[1] Tilapia: tipo di pesce.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy

Capitolo 4






 
Levi

Parcheggio la macchina nell’apposito posto e tolgo le chiave dal cruscotto. L’auto è troppo calda e il mio intero corpo sembra andare in fiamme. Appoggio la testa al sedile e chiudo gli occhi, prendendo alcuni respiri profondi. Le mani stanno sudando, quindi le strofino con poca grazia contro i jeans.

“Cazzo.” Tirò giù la visiera con lo specchio sopra il volante e osservo il mio riflesso. Sembro più pallido del solito e ci sono delle borse sotto gli occhi reduci da un’altra notte in bianco.

Chiudo la visiera e urlo quanto più forte posso. La gola brucia e sbatto le mani contro il voltante. La mia voce comincia a calare e lascio che la testa cada in basso, restando contro le dita chiuse a pugno. Le nocche sprofondano nella mia fronte, e mi giro per guardare fuori dal finestrino.

Fuori sta diluviando. Infinite distese di pioggia colpiscono il suolo e riesco a sentire distintamente le gocce colpire il tetto dell’auto. Ho tre minuti prima di essere in ritardo per la prima lezione, ma non riesco nemmeno a muovermi.

Vedo qualcuno camminare verso l’entrata principale e sono fuori dall’auto prima di processare cosa sto facendo.

“Eren!” Sento la gola infiammata e mi pento quasi subito di avergli urlato dietro.

Si ferma e si gira verso di me. Ha addosso solo una leggera maglietta che diventa sempre più bagnata ogni secondo che passa. I miei capelli sono umidi, ma non mi preoccupo di tirare su il cappuccio della felpa mentre scendo dall’auto per dirigermi verso di lui.

“Cosa vuoi?” Il tono riflette ogni suo sospetto nei miei confronti, ma suppongo di non poterlo biasimare.

“Cosa?” Chiedo. Ora Eren sembra irritato.

“Mi hai chiamato. Cosa vuoi?”

Mi passo le dita tra i capelli e lo guardo. Le sopracciglia sono aggrottate e continua a spostare il peso da un piede all’altro. Lo osservo ancora qualche secondo prima di schiarirmi leggermente la gola.

“Io… ti ammalerai così,” dico.

“Sì, sai com’è. Mi stai trattenendo.” Incrocia le braccia al petto e mi guarda con sguardo assassino. “Se hai finito di farmi perdere tempo, dovrei andare-"

Gli afferro il braccio.

“Non ancora,” demando con voce roca.

“Che cosa vuoi da me?”

Vorrei saperlo anch’io. Non so perché gli afferro il braccio in questo modo come se potesse scomparire da un momento all’altro, come se mi restassero solo pochi secondi prima che scompaia del tutto. Non dovrei nemmeno parlargli, ma non riesco a staccarmi da lui.

“Non lo so,” rispondo onestamente.

Scioglie le braccia, ma non mollo la presa, anzi, senza volerlo la intensifico. Raggiunge le mie dita e se le toglie di dosso. Le sue mani sono calde al tatto, un contrasto tagliente con l’aria fredda che ci circonda.

Comincia a camminare verso la mia auto. Lo seguo silenziosamente. Ci sediamo; il riscaldamento ha continuato ad andare, e ora la macchina è piacevolmente tiepida. Lui rabbrividisce e io prendo la giacca dai sedili posteriori, gettandogliela addosso. Non si muove per indossarla.

“È strano,” dice.

“Non hai mai saltato la scuola?” Chiedo, allibito.

“Sì. Solo che non sono mai stato fermo nel parcheggio.”

Il silenzio scende su di noi un’altra volta. Sposto la testa e percepisco alcune gocce di pioggia scendere verso il collo. Afferro il voltante con le mani.

“Non guido da quattro mesi,” dico. Non so neanche perché glielo sto dicendo. “Non ci riuscivo.”

“Io non guido proprio,” sussurra Eren. Lo guardo.

“Mai?”

“Mai,” risponde. Non mi guarda mentre calcia i piedi sul cruscotto e incrocia le mani sullo stomaco.

Se fosse chiunque altro a farlo, gli avrei spaccato le gambe e lo avrei insultato. Invece, resto seduto tranquillamente e mi mordo l’interno della guancia.

“Bella merda. Perché?”

Eren appoggia la testa contro il finestrino. Rimane zitto per alcuni secondi, poi si schiarisce la gola.

“Macchine.” Sbuffa, come se fosse qualcosa per cui dover ridere, ma immagino di non aver capito lo scherzo.

“Uh…” non sono sicuro di come rispondere. Eren emette un mormorio.

“È una lunga storia. Te la racconterei, ma dovresti piacermi per farlo.”

“Non sono sicuro se dovrei sentirmi offeso o no,” mormoro. “Che cos’hai?”

“Cosa, per il mio comportamento?” Eren sbuffa ancora. “Scusa. Strategia di adattamento. Non è esattamente salutare, ma vabbè.”

Deglutisco a fatica.

“Quindi… Hai paura delle macchine?”

“Porca puttana.” Si gira verso di me, i suoi occhi sono incollati ai miei. Se gli sguardi potessero uccidere, allora ora sarei due metri sotto terra. “Perché stiamo ancora parlando di questo?”

“Beh, perché non rispondi alla domanda?” Chiedo. Eren porta gli occhi al cielo.

“Sei così fottutamente irritante-”

“Ascolta stronzo-”

“Non ho paura,” Eren mi interrompe rapidamente e incrocia le braccia al petto. Non so nemmeno perché stiamo parlando di una cosa del genere. Premo le labbra in una linea sottile e cerco di calmarmi.

“Scusa,” dico.

Eren tamburella le dita contro il braccio. “Già, d’accordo.”

Passo le dita tra i capelli e cerco di trovare un modo per salvarci da qualsiasi cosa sia questa situazione. Ma non mi viene in mente nulla e ascolto Eren mentre si agita sul sedile.

“Ascolta, Eren,” inizio e immagino che se cominciassi a vomitare parole, le cose forse potrebbero migliorare.

“Che c’è?”

“So di aver fatto un casino. Dammi una possibilità per farmi perdonare.”

Eren mi guarda per alcuni secondi prima di esalare leggermente.

“Farti perdonare...” ripete. “Ti ha detto Marco di fare così?”

“No,” dico impazientemente. Eren mi deride.

“L’ha fatto prima, non è vero?” Accusa.

“Beh sì.” Ruoto gli occhi. “Ma questa proposta è mia.”

“Uh-huh, okay.”

“Sono serio!”

“D’accordo, cavolo. Calmati."

Il silenzio cade di nuovo su di noi. Accendo il motore dell’auto ed esco dal parcheggio.

“Whoa, cazzo!” Eren afferra improvvisamente il lato del sedile. “Cosa stai facendo?”

“Usciamo.”

“Dove?”

“Mi sto facendo perdonare,” mormoro.

“Ti prego no.”

“Viviamo un’avventura.” Mi fermo al semaforo rosso e lo guardo. “Hai per caso paura?”

“No.” Eren esala e si allaccia la cintura. “Allaccia quella cazzo di cintura.”

“Calmati.” Ruoto gli occhi e faccio come ha detto.

“Non voglio vivere un’avventura con te... Sono piuttosto sicuro che questo conti come sequestro di persona.”

“E io non voglio che tocchi il mio cruscotto con i tuoi sudici piedi di merda, ma non credo di starmi lamentando. E chi diavolo vorrebbe mai rapire te?”

Eren si guarda i piedi e poi me.

“Sei volgare.” Si ferma. “Maniaco del pulito?”

“No,” mormoro, improvvisamente a disagio; Eren ride. Gli lancio un’occhiata veloce.

Non l’ho mai sentito ridere. Non è nulla di speciale. Non sono quel tipo di ragazzo che trova uniche le piccole gesta delle altre persone. Ma per qualche motivo, la risata di Eren sembra qualcosa che non dimenticherò mai. È una strana sensazione, ma faccio morire il pensiero prima che possa trasformarsi in qualcosa di ancora più confuso. Accendo la radio per distrarmi e mi concentro sulla strada.

Eren mi fissa per qualche secondo, inclinando leggermente la testa di lato. Deglutisco a fatica e intensifico ancora la presa sul volante. Lo sentivo quasi come fosse un qualcosa di straniero sotto le mie mani, come se in realtà non dovrebbe essere lì, ma non ho intenzione di lasciarlo.

Eren si sta ancora aggrappando con forza al lato del sedile.

“Rilassati,” suggerisco. “Andrà tutto bene.”

“Mhm,” risponde con voce sottile e sono quasi grato che parte della sua irriverenza si sia placata. “Se facciamo un incidente, ti denuncio.”

“Okay, certo.” Sbuffo e alzo il volume della musica. “Ti terrò io.”

Siamo finiti a mangiare in un piccolo ristorante cinese. È piuttosto economico e il cibo è migliore del McDonald’s, quindi è la mia prima scelta per quando ho bisogno di un pasto veloce. La signora dietro il bancone sorride quando mi vede entrare. Vengo qui abbastanza spesso da dover almeno sapere il suo nome, ma non mi è mai passato per la mente di chiederglielo.

Ordiniamo il nostro cibo e ci sediamo in un tavolo isolato. Eren non tocca subito il suo piatto. Io lo addento subito, alzando lo sguardo solo quando noto che Eren è praticamente congelato sul posto.

“Cosa c’è che non va?” Chiedo con un boccone di riso in bocca.

“Disgustoso,” mormora e comincia lentamente a mangiare.

Ruoto gli occhi e prendo un altro morso. Bevo alcuni sorsi della mia bibita e sospiro sommessamente.

“Va bene, seriamente. Cos’hai infilato su per il culo per comportarti così?”

Eren alza gli occhi al cielo e all’inizio non dice nulla. Lo fisso fino a quando non tira su con il naso e guarda in basso.

"Mi uccideranno quando tornerò a casa,” dice.

“Per aver saltato la scuola?”

“Già, ho più o meno promesso che avrei smesso di fare cazzate avventate.” Tamburella le dita contro il tavolo. “In qualche modo i miei genitori finiscono sempre per scoprirlo.”

“Dev’essere bello,” dico prima di potermi fermare.

“Huh?” Chiede Eren. Scrollo le spalle.

“Avere delle persone che si preoccupano di dove sei e cosa fai.” Mangio un altro boccone. “Dev’essere bello.”

Eren sbuffa.

“Sono sicuro che le persone si preoccupano per te,” dice. “La nostra scuola cadrebbe a pezzi senza la nostra piccola star del football.”

“Dici sempre cazzate quando parli?”

“Te l’ho detto, è una strategia di adattamento.”

“Giusto,” rispondo lentamente.

Eren posa il mento sulle mani e si allunga col busto, fissandomi. Lo guardo anch’io prima di spostare lo sguardo altrove, sentendomi leggermente a disagio. È come se stesse esaminando ogni centimetro del mio corpo e della mia anima.  

“Grazie,” dice all’improvviso. Lo fisso.

“Uh… per cosa?” Scuoto la testa. “Ti ho praticamente obbligato.”

“Sì, vero, e più tardi me la pagherai per questo.” Ghigna malignamente prima di schiarirsi la gola. “Ecco, è stato… carino. Non facevo una cosa del genere da tanto tempo. Di solito affogo nei liquori dei miei genitori e spreco le mie notti in giro.”

“Non ti avrei mai definito un alcolizzato,” mormoro lentamente. Sollevo le spalle. “Nessun problema. Immagino sia stato piuttosto carino anche per me.”

È spaventoso quanto io sia onesto, ma ormai non posso rimangiarmi le parole. Le sopracciglia di Eren si sollevano per una frazione di secondo prima che la sua espressione tornasse rilassata.

“Nessuna aspettativa, giusto?” Mormora.

“Nessuna aspettativa,” Ripeto.

 
***
 
Sono gli ultimi cinque minuti di inglese. I miei raccoglitori sono allineati perfettamente sopra il banco e sto aspettando impazientemente il suono della campanella. Reiner è seduto accanto a me, parlando di qualcosa da fare con questa ragazza della sua classe di matematica. Sono troppo disinteressato per preoccuparmi di dargli una risposta verbale, quindi mi limito ad accenni e sorrisetti forzati per illuderlo che me ne freghi qualcosa.

Quando al campanella suona, Reiner è già fuori dalla classe. Penso stia andando a trovare quella ragazza, ma anche se mi fosse effettivamente interessato di ascoltarlo, non penso che avrei detto qualcosa. Raccolgo con calma le mie cose e guardo Eren ancora stravaccato sul banco, beatamente ignaro del fatto che è ora di cambiare classe.

Chiudo la mano a pugno e lo colpisco dietro la testa. Si solleva immediatamente strofinandosi gli occhi.

“La lezione è finita,” comunico e lui solleva un sopracciglio.

“Mi hai svegliato?”

“Qualcuno probabilmente si siederà su questa sedia per la prossima ora,” dico. “Sto cercando di salvarti dal farti cacciare fuori a calci.”

Eren sbuffa e si alza in piedi, stirandosi le braccia così ampiamente da quasi colpirmi. Mi sposto di scatto e alzo gli occhi al cielo.

“Pensavo di aver chiarito di saper badare a me stesso.” Mi sorride mostrando i denti. “A proposito, come sta il braccio di Reiner?”

“Bene, credo.” Sollevo le spalle. “Sta usando la carta della compassione per fare colpo.”

Eren sbuffa di nuovo e si tira via i capelli dalla fronte. “Wow. Ma che carino.”

Sollevo ancora le spalle. Una piccola, distante parte della mia mente mi sta gridando di allontanarmi da lui immediatamente. Non siamo amici sotto nessun punto di vista, ma in qualche modo è bello parlare con qualcuno che non si aspetta di parlare di cose stupide e irrilevanti.

Diavolo, ho finalmente trovato qualcuno che non si aspetta una conversazione.

Camminiamo in un confortevole silenzio fino a quando Eren non si ferma di fronte a una classe. Realizzo che è la sua. Sono pronto a continuare a camminare come nulla fosse, ma poi lui mi dedica quello sguardo illeggibile e non riesco ad andarmene. La sua bocca è leggermente aperta, come se stesse per dire qualcosa, ma non lo fa.

Non so cosa vuole che io dica. Sto cominciando a sentirmi un po’ a disagio. Nel mio petto si insidia quella sensazione di tensione e i miei polmoni sembrano non riuscire a immagazzinare abbastanza aria. I suoni del corridoio cominciano ad attutirsi e tutto ciò che posso sentire è questa pressione del silenzio attorno a me.

“Cerca di non picchiare nessuno,” dico ed Eren solleva un sopracciglio.

“Sì, okay. Cerca di non fare lo stronzo.” Improvvisamente sorride, ma quello strano sguardo si è insediato di nuovo nei suoi occhi. Lo fa spesso. Sorridere, intendo. Sorride anche quando è ovvio sia l’ultima cosa che vuole fare. Non posso dire di conoscerlo bene, eppure l’ho notato.

Annuisco brevemente e mi giro, dirigendomi verso la mia classe. Quando sono a metà strada, la realizzazione mi colpisce come acqua gelida. Anche io sorrido quando non voglio realmente farlo e mi sono sempre chiesto se le persone lo abbiano mai notato.

La campanella mi strappa dai miei pensieri, facendomi camminare per raggiungere la classe. È la lezione di scienze e la professoressa Zoe mi fa un’annotazione che è parte uno scherzo, parte delusione. Me la prendo con tutta calma, offrendole la mia personale risposta alla battuta e quando scivolo tra Marco e Franz mi sento come se potessi respirare di nuovo.

 
***
 
Sabato ricevo una chiamata da Reiner per informarmi che la prossima settimana la famiglia di Bertholdt sarà fuori città.

Bertholdt è questo smilzo, anormalmente alto e strano ragazzo della squadra. È uno scalda panchine e ha sostituito Marco una volta nei quattro anni che gioca a football. È abbastanza difficile avere una conversazione con lui, perché sembra sempre che stia escogitando un metodo per scappare non appena gli rivolgi la parola. I ragazzi e io lo prendiamo in giro per questo; si scherza, ovviamente, ma cerco di non farlo troppo spesso. Sono più o meno così anche io, dopotutto.

Il valore del fatto che la famiglia di Bertholdt sia fuori per il fine settimana è che è ricca come lo schifo. Potrebbe facilmente essere quel tipo di ragazzo viziato che va ad allenamenti di lacrosse e beve litri di birra da bicchieri fatti d’oro (il che potrebbe essere pacchiano, ma io non sono ricco sfondato quindi non saprei definire i gusti dei ricchi). Bertholdt è umile per un ragazzo che ha il suo autista personale, lo chef, una piscina interna e una esterna e chi sa cos’altro; forse i ragazzi della squadra approfittano della sua natura passiva.

Quindi, ovviamente, la prossima settimana ci sarà un enorme festa. Non capisco come le persone siano così affasciate dall’idea di andare a feste. Per me, non sono altro che una gigantesca perdita di tempo, specialmente quelli che la gente organizza solo per il gusto di farlo. Ma anche il compleanno di Bertholdt è la prossima settimana e sono piuttosto sicuro che Reiner lo stia usando come una scusa per farsi vedere ubriaco davanti a mezzo corpo studentesco. Probabilmente Bertholdt lo sta lasciando fare perché lui e Reiner sono attaccati l’uno al fianco dell’altro da quando erano dei lattanti. Non riesco a immaginare Bertholdt, che suda abbondantemente all’idea di qualcuno che si avvicina a lui, voler organizzare una festa esagerata.

Ma quello che io o Bertholdt pensiamo, non ha importanza. La festa si farà indipendentemente e, visto che l’intera squadra sarà presente, tutti si aspettano che ci sia anche io. Reiner si sta dilungando in alcuni vaghi dettagli di cui non mi importa. La sola cosa che sarà differente questa volta è l’addizione della torta di compleanno alla nostra solita combo di alcool, cibo spazzatura e musica assordante.

Reiner aggiunge velocemente che posso invitare chiunque voglia, basta che non frequenti la scuola superiore Trost, essendo una delle nostre più agguerrite rivali.

Non sono altro che una manciata di ragazzi spavaldi che pensano di essere la cosa migliore del mondo subito dopo il pancarré.

Gli dico che non lo farò e aggancio. Una volta avrei chiesto a Isabel e Farlan di venire. Ma considerando come sia andata la mia ultima conversazione con Isabel, e Farlan supporta le sue decisioni al centocinquanta percento, invitarli è come chiedere di farsi picchiare in faccia.

Penso a Eren e scarto subito l’idea prima che possa germogliare in qualcosa di totalmente insensato che non sarei in grado di fermare. Noi non siamo amici. Il mio curriculum non è dei migliori quando si tratta di lui. L’ho ignorato dal primo anno (nonostante avessimo molte classi in comune), gli ho spaccato la faccia contro l’armadietto e costretto a saltare la scuola in qualche contorto tentativo di farmi perdonare da lui per essere stato un totale stronzo.

Penso a quando Eren ha ruotato il braccio di Reiner dietro la schiena, facendolo gemere dal dolore. Non avrei voluto essere al suo posto. Mi mordo l’interno della guancia e mi accascio sul letto. Il mio computer trasmette della musica rock e i miei compiti incompleti sono sparsi su tutto il materasso. Dovrei finirli, ma non riesco nemmeno a pensare di muovermi.

Cerco di autoconvincermi di non dover nulla a Eren Jaeger, ma poi mi ricordo di come mi fissava quando era disteso sul pavimento, ascoltando i miei amici vomitare parole offensive sul suo conto solo per farlo sentire come se noi fossimo superiori a lui.

“Fanculo,” sussurro e premo le mani sul viso.

Non dovrei passare così tanto tempo a pensare a un ragazzo che a malapena conosco. Le cose erano più semplici quando non gli parlavo, quando eravamo solo due ragazzi che vivevano nello stesso periodo. Ora abbiamo… beh, abbiamo qualcosa. Non c’è esattamente un nome con cui identificarci. La sola cosa di cui sono sicuro è che del cibo cinese non può sistemare cazzate come questa.

Sono in piedi prima di rendermene conto. Kenny non è a casa e probabilmente sarà in giro con i suoi colleghi di lavoro. Mi aveva avvertito che sarebbe tornato più tardi del solito, ma non è che mi interessi qualcosa. Kenny fa quello che vuole e io faccio quello che voglio. Devo solo essere presente quando lui decide che starei meglio con un altro livido grande come il suo pugno.

Chiudo il computer portatile e la musica smette di suonare dopo alcuni minuti. Afferro la giacca e la indosso. Resto in piedi davanti al comodino, cercando di decidere se prendere le chiavi dell’auto oppure no. Stamattina è andata bene, ma ero comunque troppo distratto a pensare a quanto odio la vita per concentrarmi davvero sul fatto che stavo guidando.

Prendo le chiavi senza la minima intenzione di guidare e scendo le scale. Mi fa sentire come se stessi facendo dei progressi, però, quindi le metto al sicuro all’interno della tasca della giacca. Mi viene in mente di non avere la minima idea di dove abita Eren Jaeger, ma so dove vive Historia. Lei ed Eren erano amici e, anche se non li vedo più uscire insieme, sono sicuro che lei si ricorda il suo indirizzo.

Historia vive a tre isolati da me. Anche Reiner vive nei dintorni, il che è la sola ragione per la quale so dove sia casa sua. Il primo anno Reiner ha avuto una cotta gigantesca per lei, ma poi ha scoperto che stava già frequentando una ragazza di nome Ymir di Trost. E siccome Reiner odia la scuola superiore Trost, l’ha velocemente dimenticata.

Quasi sorrido al ricordo. Era esilarante guardare Reiner ridicolizzarsi mentre provava ad attirare l’attenzione della biondina. Era dolorosamente ovvio per tutti noi che lei non era interessata, ma Reiner era un bastardo molto insistente.

Quando raggiungo la casa di Historia, ho il viso rosso e non riesco a sentire le dita. Fa un po’ troppo freddo per indossare solo la giacca scolastica, ma non avevo proprio pensato alla temperatura esterna prima di uscire di casa.

Busso alla porta e aspetto che mi aprano. Mi aspetto sia uno dei suoi genitori ad aprire, quindi mi preparo per non fare la figura dell’idiota. Fortunatamente per me, Historia in persona appare davanti a me. Sembra sorpresa e non posso dire di biasimarla. Non le ho mai rivolto più di due parole.

“Levi?” Chiede, guarda la strada oltre le mie spalle e poi il suo sguardo torna su di me. “Uhm… cosa ci fai qui?”

 “Una volta eri amica di Eren, giusto?” Mi guarda basita e mi passo le dita tra i capelli. “Eren Jaeger? Sai, capelli castani, occhi verdi-”

“So chi è,” Historia mi interrompe con un sorriso forzato. “Perché mi stai chiedendo di lui?”

“Ho bisogno di sapere dove abita,” dico e quando Historia mi rivolge uno strano sguardo realizzo quanto inquietante suoni la frase detta in questo modo. “Devo chiedergli una cosa.”

Historia arriccia le labbra.

“Ho sentito parlare dell’incidente nello spogliatoio,” dice, fissandomi sospettosamente. “Non hai intenzione di fargli del male, vero?”

A essere onesti, mi sento leggermente offeso dal fatto che lei possa pensare che voglia fargli del male. Resisto all’urgenza di alzare gli occhi al cielo e mi mordo l’interno della guancia per trattenere qualsiasi risposta avrebbe potuto farmi sbattere la porta in faccia.

“Devo solo parlargli,” dico, cercando di sembrare il più gentile possibile. “Giuro che non ho intenzione di picchiarlo o cose del genere.”

Annuisce.

“Vive a circa cinque isolati da qui. Quando arrivi alla fine della strada, gira a sinistra e continua dritto. È una grande casa con una recinzione e un’altalena. Non puoi sbagliare.”

“Grazie,” rispondo, rivolgendole un sorriso. “Buona serat-”

“Levi…” mi interrompe di nuovo, però questa volta il viso rappresenta la tristezza più pura e la sua voce è così bassa che devo sforzarmi per sentirla.

“Sì?”

“Digli che mi dispiace,” dice. “Probabilmente non gli importerà, ma io…”

Si interrompe. Aspetto che finisca la frase, ma non lo fa.

“D’accordo,” rispondo. “Glielo dirò.”

Mi sorride riconoscente e mi augura la buonanotte. Sento la porta chiudersi a chiave e rimango fermo immobile davanti al portico per alcuni secondi prima di scuotere la testa e mettere le mani in tasca.

Cammino fino alla fine della strada e svolto a sinistra. Mi concentro sul suono della macchine che passano e tengo la testa bassa fino a quando non mi ricordo che dovrei cercare la casa di Eren. Mi obbligo a camminare con la testa sollevata.

Dopo circa dieci minuti, vedo finalmente la casa. È bianca, in netto contrasto con la casa verde e rossa in cui è incastrata. C’è un’altalena appesa a un ramo di un enorme albero e una macchina nera parcheggiata nel vialetto. Vedo che le luci sono accese, quindi spero sia in casa.

Salgo gli scalini lentamente, sentendo ogni passo come se avessi dei blocchi di cemento legati ai piedi. Le mie mani mezze congelate sembrano senza ossa mentre busso con le nocche sulla porta di legno. Sento debolmente i mormorii della televisione in sottofondo e poi la porta viene aperta e un uomo mi fissa.

Non penso sia il padre di Eren solo perché sembra troppo giovane per avere un figlio di diciassette anni, anche se alla fin fine non ho mai incontrato suo padre. Mi schiarisco la gola e guardo in faccia l’uomo davanti a me.

“Ciao,” dice, sorridendo debolmente. “Sei un amico di Eren?”

La mia mente si blocca. Cerco di pensare a una risposta, ma proprio mentre sto per dire qualcosa la porta si spalanca ancora di più.

Eren è in piedi accanto all’uomo, vestito con pantaloni della tuta e quella che sembra essere una maglia leggera. Le sue sopracciglia sono leggermente alzate.

“Vi lascio soli,” dice tranquillamente l’uomo, spostando gli occhi tra me ed Eren. Stringe brevemente la spalla di Eren prima di sparire dalla nostra vista.

Eren si gira per guardarlo prima di fare un passo avanti, uscendo di casa e chiudendo la porta dietro di lui. Sbuffo sommessamente, ghignando.

“Non mi inviti ad entrare?”

“Non con quel ficcanaso in giro, no,” dice.

“Spero che tuo padre non ti abbia sentito,” rispondo. Eren se la ride sotto i baffi.

“Oh per favore. Non è mio padre.” Ruota gli occhi. “È mio cognato.”

“Ah.”

“Se non ti conoscessi meglio, direi che stai cominciando a diventare un po’ troppo ossessionato da me.” Eren sorride. “Mi stai cercando molto nelle ultime settimane. Mi vuoi confessare i tuoi sentimenti?”

“Vaffanculo,” dico in modo seccato. “Ho qualcosa da chiederti.”

“Okay…” Eren sembra genuinamente curioso mentre appoggia la schiena contro la porta. “Non hai intenzione di comportarti come un profondo e sentimentale filosofo, vero?”

“Cielo no,” rispondo sbuffando. “Senti, uno dei ragazzi della squadra sta organizzando una festa la prossima settimana. Ho avuto il permesso di invitare chi voglio, quindi…”

“Beh, cielo.” Le sopracciglia di Eren slittano di nuovo per la sorpresa. “Mi stai invitando a una festa?”

“Più o meno,” dico sollevando le spalle. “Non m’importa se vieni o no. Ho solo pensato di doverti un favore dopo averti tirato tutta quella merda addosso.”

“Pensavo avessimo già risolto la questione,” continua Eren. “Siamo pari.”

“Sì, lo so,” rispondo. “Ma… ecco, è come hai detto. Tu non hai aspettative su di me. Non mi vedi come un giocatore di football. Vedi solo me. È rinfrescante, onestamente.”

“Non riesci nemmeno a sopportarmi.”

“Non direi così,” rispondo. “Se ti odiassi, ti starei insultando. Posso tollerarti.”

Eren sbuffa.

“Non riesco a credere che le persone pensino tu sia attraente,” commenta. “A essere sinceri, mi sarebbe piaciuto scoparti. Poi ti ho conosciuto.”

La mia mascella si spalanca leggermente alla sua casuale confessione prima di sorridere.

“Oh, ma guarda un po’. Apparentemente, tu sei quello che ha una cotta per me.”

“Non montarti la testa, biondino. È solo perché mezza scuola idolatra il tuo mediocre fondoschiena.”

Resisto all’urgenza di sussultare perché wow, brutto colpo per il mio ego.

“Ooh, spaventato perché conosco il tuo segreto?”

“Vaffanculo, stronzo.” Eren mi spinge mentre continuo a ridere allo sguardo irritato sul suo viso.

“Allora, cosa ne dici?” Chiedo quando finalmente mi ricompongo. “Vieni?”

Eren mi osserva, la sua espressione raffigurava tutti i pensieri che stava formulando; le braccia incrociate al petto.

“Non sei preoccupato per un potenziale suicidio di massa?” Chiede. Sbuffo.

“Per niente. Mi faccio gli affari miei in ogni caso.”

Eren sorride. “Niente conformismo per te, vero?”

So che sta parlando del discorso fatto durante inglese.

“Per l’amor del cielo, smettila Jaeger.”

“D’accordo, come vuoi,” dice mentre un sorrisino si impossessa delle sue labbra; afferra la maniglia della porta e la apre lentamente. “Ci sarò.”

“Okay,” dico. “Ti vengo a prendere.”

“Bene,” risponde Eren e la sua fronte si aggrotta. “Oh, giusto per sapere, come hai saputo dove abito?”

Penso alle parole di Historia. Qualsiasi cosa sia successa tra loro deve essere stata piuttosto orribile per farli smettere di parlare. Sono sempre sembrati quasi del tutto inseparabili. Non ho idea di quello che potrebbe succedere se tirassi fuori l’argomento ora. Decido di non menzionarla e sorriso.

“Sono un ragazzo pieno di risorse,” dico ed Eren sbuffa di nuovo.

“Wow, pieno di risorse e insistente. Più passa il tempo, meno mi piaci.”

“Perfetto.” Sorrido e mi giro, scendendo gli scalini. “Fatti bello per la prossima settimana, Jaeger. Se devo essere il responsabile di un suicidio di massa, devi valerne la pena.”

“Sì, come vuoi,” dice mentre ruota gli occhi.

Non posso vedere la sua faccia, ma qualcosa mi dice che sta sorridendo.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 5
Eren

21:17, camera mia. La scuola è stata piuttosto priva di eventi, ma nei corridoi non si fa che parlare della stessa cosa.

E questa cosa sembra essere la festa di Bertholdt Hoover.

In dì per sé Bertholdt non è così impressionante. Fidatevi, non ho nulla contro quel ragazzo. È solo che è uno scaldapanchine e la sola ragione per la quale le persone si ricordano di lui è perché sembra che stia per avere un attacco di panico ogni volta che qualcuno gli rivolge la parola. Il ragazzo ha seri problemi di ansia sociale, ma oltre a questo credo sia a posto. Il suo migliore amico è Reiner, però, quindi non so quanto gentile possa essere.

La sola cosa impressionante di Bertholdt è che vive in una casa fottutamente enorme senza vicini intorno. I suoi genitori viaggiano spesso per lavoro e lui resta solo con le domestiche, maggiordomi e qualsiasi altro tipo di persona che assumono le persone ricche.

Quindi, visto che è ricco sfondato e ha una casa enorme, le persone non vedono l’ora di partecipare a qualsiasi sua festa. Sinceramente, chiunque con un minimo di sale in zucca sa che è Reiner a organizzare tutte quelle che lui chiama feste. Ma l’alcool è gratis, si farà sesso sfrenato e forse anche ci sarà anche della droga. Alle persone non può fregar di meno di chi sia l’idea. E se ne fregano altamente anche di chi compie diciotto anni, ma non mi aspetto di certo che gli invitati si presentino con biglietti di auguri e regali per il nuovo passo verso l’età adulta.

Ci sono state parecchie feste a casa di Bertholdt sin dagli inizi del primo anno. Non ci sono mai andato, però, più che altro perché il gruppo con cui uscivo al tempo non era intenzionato a ubriacarsi e scoparsi dei perfetti sconosciuti. In tutta onestà, preferisco bere da solo così da non venire giudicato quando mi dispiace per la mia stessa esistenza. Ma a volte si ha bisogno di lasciarsi andare e insultare persone che odi, ma che sono troppo ubriache per capire chi tu sia.

Quindi sì, quando Levi mi ha invitato il mio primo pensiero è stato ‘Oh cazzo no. È impossibile che lui se ne vada da quella festa con la reputazione intatta. Ma poi ci ho pensato sopra e ho realizzato che se le feste di Bertholdt sono così selvagge come si sente in giro, c’è il novanta percento di probabilità che non ci incroceremo fino a quando non sarà ora di andare. Essenzialmente, la promessa di alcool gratis e flirt innocui con chiunque sia interessato a una botta e via.

…Okay, forse non ci era voluto poi molto per convincermi. Giudicatemi.

Cammino verso il negozio all’angolo della strada, quello aperto 24h con quell’orribile insegna al neon. Le finestre sono sudice ed è ovvio che al proprietario non importi più dell’aspetto esteriore del locale da moltissimo tempo, ma è sempre meglio che guidare un chilometro per prendere solo un cartone di latte.

Do un’occhiata agli scomparti prima di trovare quello che sto cercando. Lo prendo in mano e cammino verso il bancone, dove la cassiera sembra preferire essere a casa a dormire piuttosto che lavorare. Non posso biasimarla. Pago velocemente e mi dirigo verso casa.

Sono sorpreso di vedere Levi in piedi davanti al mio vialetto con le braccia incrociate. La sua giacca sportiva gli fascia perfettamente le braccia toniche e guardo altrove prima che qualche perversione poco lusinghiera mi occupi la mente. Quel ragazzo ha davvero dei bei bicipiti, ma non lo ammetterò mai.

“Cosa stai facendo?” 

“Oh.” Solleva la testa e realizzo che i suoi occhi erano chiusi. “Non sapevo se avrei dovuto suonare il campanello.”

Sbuffo.

“Che c’è, non sei mai passato a prendere qualcuno prima d’ora?” Chiedo, sollevando le sopracciglia. “Difficile credere che un bel bocconcino come te non sia mai andato a un appuntamento.”

“Perché devi essere sempre così fottutamente condiscendente?” Ruota gli occhi. “Ho avuto degli appuntamenti prima d’ora, stronzo.”

“Okay, ma sono andati bene?”

“Oh, vaffanculo.” Mi raggiunge e mi spinge. Rido sotto i baffi e metto le mani in tasca.

“Argomento spinoso?”

“Fottiti.”

“Non pensavo fosse quella la tua sponda.” Gli faccio l’occhiolino. “Non preoccuparti, non discrimino-”

“Per l’amor del cielo!” Alza le braccia in alto come per enfatizzare il concetto. Non riesco a non ridere ancora di più. È troppo divertente vederlo in difficoltà.

“Allora… andiamo?” Chiedo. Levi annuisce.

“Reiner mi ha inviato un messaggio. Prima ci fermiamo a casa sua e poi andiamo verso quella di Bertholdt.”

“Yay,” dico con sarcasmo. Levi ruota gli occhi ancora.

“Oh, smettila. Finché non fai a botte con lui, andrà tutto bene.”

“Io?” Sbuffo. “L’ultima volta che ho controllato, tu sei quello che ha cominciato a fare a botte.”

“D’accordo, porca miseria.” Levi si passa le dita tra i capelli. “Tieni le mani a posto e cerca di non sembrare uno stronzo presuntuoso, okay?”

“Sissignore,” dico facendo persino il saluto militare. Guardo casa mia. “Dovremmo andare prima che ci scoprano.”

“Sì, okay.” Mi sorpassa e comincia a camminare.

Lo seguo, la borsa attorno al mio polso sbatte leggermente contro la gamba. Levi guarda curiosamente verso la borsa di plastica prima di alzare lo sguardo su di me.

“Cosa c’è nella busta?” 

“Preservativi,” rispondo immediatamente.

Sbuffa e scuote la testa. “Cerchi di accumulare punti?”

“Oh, so che li farò.”

“D’accordo, fenomeno.” Levi sorride e mi colpisce con il braccio. “Cerca di non fare nulla di stupido, okay?”

“Certo che no.”

La casa di Reiner sembra diversa rispetto alle altre due che ha attorno. Passo affianco alla macchina in corsa e cerco di ignorarla mentre salgo gli scalini dopo Levi. Lui gira la maniglia e realizzo che deve essere stato qui molte volte.

Non che sia sorpreso, ovviamente.

Entriamo e vedo alcuni ragazzi della squadra seduti sul divano. Marco, Franz e Thomas si alzano per salutare Levi. Marco mi guarda, le sopracciglia si alzano in sorpresa. Appoggio la spalla contro il muro con le mani ancora in tasca, ma non dico nulla.

“Oh, ciao Eren.” Cammina verso di me. “Non sapevo venissi anche tu.”

“Diciamo che qualcuno è stato particolarmente insistente.” Rispondo. Levi sbuffa.

“Oh, ma per favore. Tu volevi venire.”

Ruoto gli occhi e non dico nulla. Marco mi rivolge un’esitante sorriso prima di camminare verso Thomas. Levi mette le mani a tubo davanti la bocca e urla verso il piano di sopra.

“Ehi Reiner! Andiamo!”

“D’accordo, porca miseria!” Poi Reiner spunta dalle scale. Anche se siamo a due metri di distanza, posso sentire l’economica acqua di colonia che si è spruzzato addosso.

“Cazzo, amico, nessuno ti ha mai detto che poco è meglio di troppo?” Dico prima di pensare.

Reiner sposta velocemente lo sguardo verso di me, un’espressione perplessa in volto.

“Ma che caz- cosa ci fa lui qui?”

“Guarda che ti sento.” Ruoto gli occhi.

“L’ho invitato io,” dice Levi, scrollando le spalle. “Hai detto che potevo portare chiunque volessi.”

“Sì, ma non pensavo che avresti portato quello stronzo di Jaeger!”

“Ancora, sono letteralmente accanto a te,” dico. “Ascolta, non voglio avere problemi stasera. Quindi facciamo una tregua. Tu sta alla larga da me e io farò lo stesso. D’accordo?”

Allungo la mano per far sì che la stringa. Le sue labbra si arricciano in un ringhio e poi si affretta a uscire di casa, sbattendo violentemente la porta dietro di lui.

Bene allora.

La mano torna al mio fianco. Levi scuote la testa e mormora qualcosa prima di andare anche lui verso la porta.

“Andiamo,” dice.

Camminiamo verso la macchina di Reiner, ma esito prima di entrarci. Finisco schiacciato nei sedili posteriori con Levi, Marco e Thomas, mentre Franz è sul sedile davanti accanto a Reiner.

Premo la testa contro il finestrino e chiudo gli occhi, sperando di auto-convincermi che non succederà nulla.

Il viaggio in auto è silenzioso tranne che per la canzone odiosamente rumorosa che risuona dalle casse di Reiner. Arriviamo a casa di Bertholdt circa mezz’ora dopo e non riesco nemmeno a fingere di non esserne meravigliato. È decisamente una casa degna di un film.

Usciamo tutti quanti dalla macchina. Reiner e Franz entrano in casa, Marco e Thomas vanno nel retro. Levi e io rimaniamo in piedi sul vialetto. Guardo il suo viso, notando che la sua mascella è tesa.

“Ehi,” dico, attirando la sua attenzione. “Stai bene?”

“Sì,” mormora. “Coraggio, andiamo.”

Mi afferra il polso e mi guida verso la casa. Voglio protestare e dire che so camminare da solo, ma poi realizzo che non ho idea di dove stia andando. Quando entriamo, posso percepire le persone fissarmi. Alcune di loro sembrano confuse e posso immaginare il motivo. Levi Ackerman, capitano della squadra di football che trascina lo stronzo della scuola.

Che panorama.

Finiamo in cucina, dove Levi prende immediatamente della birra dal frigo. Non perde tempo nell’aprirla e bere alcuni grandi sorsi. Lo guardo sorpreso e prendo un altro barattolo, cominciando a bere lentamente.

Levi sembra essersi calmato. La presa sulla lattina di birra si allenta e si appoggia contro il bancone con la testa abbassata. La musica attorno a noi è assordante, ma la ignoro e mi concentro su di lui.

“Seriamente,” dico, aggrottando la fronte. “Tutto bene?”

“Alla grande.” Finisce la sua birra e mette giù la lattina. La testa si gira verso la busta attorno al mio polso. “Non accettare drink da nessuno e tutte le solite raccomandazioni.”

“Uh-”

“Vado in bagno. Non fare nulla di stupido.”

Mi sorpassa senza dire altro. Lo guardo per alcuni secondi prima di scuotere la testa e guardare la busta. Sospiro e comincio a cercare Bertholdt per tutta la casa. Non è al piano terra e mi ritrovo a salire le scale per il primo piano. Un gruppo di ragazzi stanno fumando una canna alla fine del corridoio e, contro ogni mio pregiudizio, mi avvicino a loro.

“Ehi,” li chiamo. Uno di loro mi guarda, dell’ombretto nero le contorna gli occhi. “Dov’è Bertholdt?”

“E come faccio a saperlo?” Sbotta. Uno dei suoi amici ride e fa un altro tiro della canna.

Li guardo male e ricomincio a cercare. Le mie gambe fanno già male per aver camminato così tanto. Mi viene in mente che sono fottutamente fuori forma, ma la mia inesistente routine di esercizi muscolari è l’ultimo dei miei pensieri al momento. Devo trovare Bertholdt. Sbircio nelle porte socchiuse ed evito quelle chiuse giusto per evitare di vedere cose che preferirei non vedere.

Quando finalmente raggiungo la fine del corridoio, scorgo Bertholdt in piedi nel balcone. Attraverso l’enorme stanza da letto, sentendomi leggermente in colpa per sporcare con le mie scarpe quell’immacolato tappeto bianco.

“Bertholdt?” Lo chiamo, facendo un passo verso di lui. Si gira per guardarmi di soprassalto.

“Oh.” Sbatte le palpebre un paio di volte. “Uhm… Eren, giusto?”

“Esatto,” dico. Gli tiro la busta. “Buon compleanno, amico.”

Gli occhi di Bertholdt si moltiplicano in grandezza. Prende in mano la busta e tira fuori il biglietto e la barretta che ho comprato prima al supermercato. Metto la mano in tasca e gli allungo venti dollari con un sorriso.

“Scusa se non è molto,” dico. “Non sapevo davvero cosa prenderti.”

“Io…” si interrompe. “Perché?”

“È il tuo compleanno,” dico scrollando le spalle. “Ho pensato che tutti sarebbero stati troppo occupati a scopare tra loro per ricordarselo.”

“Grazie, Eren,” dice tranquillamente, rimettendo nella borsa il biglietto e i soldi. Mi porge la barretta di cioccolato. “Ne vuoi metà?”

Volevo rifiutare, considerando che è un regalo, ma lo sguardo sul suo viso mi fa annuire. Ci appoggiamo contro la ringhiera e guardo le persone farsi il bagno in piscina nonostante il tempo gelido.

“Allora,” dico, deglutendo una delle caramelle, “C’è un motivo per il quale sei qui da solo?”

“Non mi piacciono le feste,” borbotta Bertholdt, dando un’occhiata alla piscina mentre mordicchia con calma la barretta di cioccolato.

“Troppo rumore?” Indovino. Annuisce. “Allora perché non lo dici a Reiner?”

Bertholdt mi guarda velocemente.

“Come fai a…?”

“Oh, ti prego,” sbuffo. “Sembri nervoso ogni volta che qualcuno ti parla. Ho pensato che Reiner avesse architettato tutto quanto.”

Bertholdt abbassa lo sguardo.

“È sempre stato più socievole di me,” dice. “A lui piacciono questo tipo di cose.”

“Quindi ti stai obbligando a fartele piacere?” Aggrotto la fronte. “Amico, non devi fare cose che non vuoi fare.”

Bertholdt si agita e penso di aver parlato troppo.

“Lui è il mio unico amico,” replica lentamente. “Voglio dire, conosco altre persone, ovviamente. Ma non è la stessa cosa. Ci conosciamo da quando eravamo bambini. Voglio…voglio solo che lui sia felice.”

Seguo il suo sguardo verso la piscina, dove Reiner sta parlando con qualche ragazza. Sembrano felici, ma quando torno a guardare Bertholdt capisco che lui non lo è.

“Non puoi sacrificarti per rendere felice qualcun altro,” commento. “Devi essere tu il primo a essere felice. Altrimenti la vita farà solo più schifo.”

A queste parole Bertholdt mi guarda con espressione illeggibile.

“E tu sai come renderti felice?” Domanda. Mi ha preso alla sprovvista con questa domanda. Deglutisco a fatica e fisso di nuovo la piscina.

“Non so più come si fa,” ammetto.

“Nemmeno io,” mormora Bertholdt.

“Sai,” comincio. “Non sei così male. Non sapevo cosa pensare di te perché Reiner è uno stronzo madornale, ma tu sei a posto.”

“Io ti ammiro,” borbotta in risposta.

“Io?” Chiedo con occhi spalancati. “Non sono esattamente un grande esempio.”

“Beh, forse no,” concorda. “Ma sai difenderti da solo.”

Non so cosa rispondere. Gli tocco il braccio per attirare la sua attenzione.

“Puoi riuscirci anche tu,” dico. “A volte devi solamente fingere di non avere paura, sai? Se ti convinci di non aver paura, puoi fare più o meno qualsiasi cosa.”

Bertholdt sorride ampiamente. Mi viene in mente di non averlo mai visto sorridere prima d’ora e mi scrivo una nota mentale di prendere a calci il culo di Reiner uno di questi giorni.

Resto con Bertholdt fino a quando non comincia a sbadigliare.

“Ehi, va a dormire,” dico. “So che potrebbe essere un’impresa difficile considerando la musica assordante e tutto il resto, ma puoi sempre provare.”

“Grazie,” dice ancora. “Scusa per averti fatto stare con me.”

“Non essere dispiaciuto,” sbuffo. “Sono venuto perché volevo. Ancora auguri.”

Bertholdt mi sorride ancora e annuisce. Gli do una pacca sulla spalla ed esco dalla camera da letto. Chiudo delicatamente la porta dietro di me e scendo le scale. Mi faccio strada verso la cucina e prendo un’altra birra visto che non ricordo dove ho messo quella di prima.

Mentre sono in cucina, realizzo di non aver alcun desiderio di rimanere qui. Vedere tutti quanti divertirsi mentre il festeggiato è da solo il giorno del suo compleanno mi fa contorcere lo stomaco. Non riesco a credere a quanto egoisti siano, ma più che altro sono deluso dai suoi cosìdetti amici.

Finisco la birra e vado alla ricerca di Reiner. Ci sta ancora provando con quella ragazza, ma non potrebbe fregarmene di meno.

“Ehi, asino!” Lo afferro per il braccio ferito e sento un’onda di soddisfazione invadermi quando geme dal dolore.

“Ma che cazzo?” Guarda in basso verso di me e realizzo che le persone stanno cominciando a notarci. Li ignoro e fisso l’armadio a due ante davanti a me.

“Faresti meglio ad avere una buona spiegazione del perché il tuo amico è da solo il giorno del suo compleanno,” sibilo.

Reiner assottiglia gli occhi e mi spinge via.

“Smettila di ficcare il naso,” sbotta.

“Sei almeno cosciente di quanto egoista tu sia?” Domando. “È il suo fottuto compleanno e tu hai organizzato una festa che non è nemmeno per lui, a casa sua. Capisci quanto tutto questo sia una stronzata?”

“Non sono cazzi tuoi, okay?!”

Col senno di poi, forse avrei dovuto vedere il pugno arrivare. Ma ero troppo motivato per prestare attenzione a futili dettagli e il pugno di Reiner mi ha fatto barcollare all’indietro di alcuni passi. Alzo la mano per fermare il sangue che sta uscendo dal naso mentre delle palline nere danzano offuscandomi la vista. La ragazza dietro Reiner si aggrappa al suo braccio buono e gli dice qualcosa che non riesco a sentire.

La mia mente mi sta urlando di non reagire, di andarmene e non fare nulla di avventato, ma al mio corpo non frega un cazzo di essere razionale. Faccio oscillare il braccio in avanti con tutta la forza che possiedo e il mio pugno che entra saldamente in collisione con la mascella di Reiner. La sua testa oscilla all’indietro e io lo faccio cadere a terra.

Nel mio corpo scorre pura adrenalina e non sento neanche più il dolore in faccia. Il sangue mi gocciola dalla bocca e respiro così velocemente che il mio petto sta cominciando a farmi male.

Reiner mi calcia lontano da lui e mi picchia così forte che giuro di aver visto nero per alcuni secondi. Sento qualcuno che urla e poi Reiner viene trascinato via da Marco e Franz. Marco gli sta urlando in faccia mentre qualcuno mi afferra per le braccia con poca delicatezza e comincia a scuotermi.

La vista mi si offusca per alcuni momenti. Quando vedo di nuovo chiaramente, distinguo il viso di Levi di fronte a me e il suo viso si contorce con rabbia mentre urla.

“- Cazzo hai che non va, huh? Non ti avevo detto di non fare nulla di stupido?”

Mi allontano da lui e sputo del sangue dalla bocca. Mi strofino la dolorante mascella e mi tiro via i capelli sudati dal viso. Levi si passa le dita tra i capelli e si preme il ponte del naso.

“Andiamo. Ti porto a casa.”

Mi avvolgo lo stomaco con il braccio e lo seguo.

“Chiavi,” Levi dice a Reiner, porgendogli la mano. Reiner mi guarda e inizia a protestare.

“Io non-”

“Dammi quelle fottute chiavi!”

Reiner rimane in silenzio e gli consegna le chiavi. Levi mi guarda e comincia a camminare. Ci facciamo strada attraverso la casa, ignorando i sussurri sommessi attorno a noi. Mentre passo affianco alle enormi scalinate, guardo in alto per vedere Bertholdt appoggiato al balcone. La sua mascella è leggermente aperta in shock e sembra preoccupato.

Gli dedico un mezzo sorriso e seguo Levi all’esterno. Entriamo nella macchina di Reiner senza un’altra parola. Mette le chiavi nel cruscotto e restiamo seduti per un momento. La musica in sottofondo si è attutita e a malapena udibile.

“Perché?” Chiede semplicemente.

“Cosa?”

“Non fare lo stupido. Sai di cosa sto parlando.”

Tengo le braccia in grembo e appoggio la testa contro il poggiatesta.

“È il compleanno di Bertholdt e a lui non sembra nemmeno importare,” rispondo finalmente.

“E a te?” Domanda. Ruoto gli occhi.

“Non avevo comprato preservativi. Gli ho comprato un biglietto e una barretta. È molto più di quanto gli altri gli abbiano portato.”

Levi mi osserva velocemente. Apre la bocca, ma non dice niente. Accende il motore e fa retromarcia dal vialetto, facendo scorrere ancora le dita tra i capelli.

“Perché l’hai fatto?” mormora. “Picchiare Reiner, intendo.”

“Ero arrabbiato,” replico. “Volevo solo…”

“Non conosci nemmeno Bertholdt.”

“Già, ma sono l’unico a cui è importato qualcosa di lui,” sbotto. Levi sussulta leggermente e rimane in silenzio.

“…Scusa.”

“Non sono io quello con cui dovresti scusarti.”

Levi sospira.

“Intendevo per l’averti portato qui,” dice, indicando la mia faccia. Scrollo le spalle.

“Non è il mio primo pugno,” dico.

“Giusto,” borbotta. “Porca miseria, Eren. Cosa stavi pensando?”

“Non stavo pensando,” rispondo onestamente. “E neanche questa è una novità.”

Levi stringe ancora di più il volante e scuote la testa.

“Ne è valsa la pena?”

“Considerando che Reiner domani avrà un livido stupendo, sì.”

Sbuffa e non dice nient’altro. Il resto della corsa lo passiamo in silenzio. Si ferma davanti a casa mia e spegne il motore in modo da essere circondati da nient’altro che il suono del vento che ulula contro le finestre chiuse.

Osservo il sangue secco sotto le unghie e cerco di pensare a qualcosa da dire. Tutto sembrava stupido e poco convincente, quindi tengo le labbra serrate e ignoro il sapore di ferro che sento in bocca.

“Grazie per il passaggio,” dico, ma non mi muovo per aprire la porta. Levi siede completamente immobile nel sedile del guidatore, guardando fuori dal finestrino con la sua espressione illeggibile. “…Levi?”

“Sei un idiota,” dice. Sbatto le palpebre lentamente.

“Ma che cazzo?”

“Cosa? È vero.”

Beh, non posso discutere su questo. Incrocio le braccia al petto e lo fisso.

“Non vuol dire che tu possa sottolinearlo.”

“Oh, beh.” Scrolla le spalle. “In ogni caso, la mia reputazione è ancora intatta.”

Sospiro drammaticamente. “La mia invece è appena andata in malora.”

“Giusto, perché eri così preoccupato per la tua reputazione.” Solleva gli occhi al cielo. “Ascolta, quello che hai fatto è stato spettacolare. Non l’aver dato un pugno a Reiner, ma l’esserti battuto per Bertholdt.”

“Beh, qualcuno doveva pur farlo,” dico, scrollando le spalle. “Notte.”

Afferro la maniglia della portiera ed esco dall’auto. Cammino verso casa mia con le mani sanguinanti dentro le tasche. Le luci del salotto sono ancora accese, il che vuol dire che dovrò spiegare dove sono stato e perché puzzo di sudore, birra e tracce di erba.

Esito sulla soglia, titubante se entrare oppure girarmi. Guardo oltre la spalla per scoprire che Levi mi sta ancora guardando, il finestrino del sedile del passeggero abbassato. Mi dedica un sorriso storto prima di ripartire.

Sospiro e apro la porta, pronto a scatenarmi per l’Inferno.
 
***
 
00:17, tavolo della cucina. La casa puzza di caffè e spray antisettico. Jean preme le dita contro il naso con più forza del necessario e strofina del sangue crostato dal mio viso.

“I tuoi genitori ci sono andati leggeri con te, lo sai,” dice. “Se tu fossi mio figlio, sarebbe stato molto, molto peggio.”

“Ti comporti già come se fossi tuo figlio,” dico, roteando gli occhi. “E in ogni caso, non è andata poi così male.”

“Puzzi di erba e birra e la tua faccia è piena di lividi. Già, non è così male.”

Giro la testa e guardo per terra. Le mani sono serrate a pugno sulle ginocchia e prendo alcuni respiri profondi, continuando finché il mio corpo non si rilassa.

Jean si muove per posare la bottiglia di alcool piena di coloranti sul tavolo e allunga la mano per prendere la sua tazza di caffè. Beve alcuni sorsi prima di voltarsi e sedersi di fronte a me.

“Allora cos’è successo?” Chiede. Mi mordo l’interno della guancia.

“Un ragazzo mi ha fatto arrabbiare e gli ho dato un pugno senza pensarci. Ecco tutto.”

Jean si appoggia allo schienale della sedia.

“Chi ti ha riportato a casa?”

Lo guardo con un cipiglio confuso.

“Non sei al lavoro. Smettila di interrogarmi.”

“Non lo sto facendo,” replica, scuotendo la testa.

Le mie mani si serrano di nuovo a pugno. Mi chino in avanti in modo che la testa penda giù, solo per non doverlo guardare e stringo gli occhi.

“Sono uscito con Armin la settimana scorsa,” dico, la voce spezzata. “Ero arrabbiato, mi sentivo solo e volevo far finta che tutto andasse bene. Mi ha detto che lo hai chiamato.”

Sento Jean respirare bruscamente. Noto come la sua gamba rimbalzi freneticamente sotto il tavolo.

“Sono preoccupato.”

“Non esserlo.”

“Hai solo diciassette anni, Eren!” Ora sta gridando, alzandosi in piedi così improvvisamente che la sedia cade a terra. Lo guardo in fretta. “L’ho chiamato perché hai diciassette anni e ho paura che tu possa fare qualcosa di cui ti possa pentire.”

“Non succederà!” Sto urlando così forte che la mia voce esce spezzata. “Smettila di preoccuparti per me! Perché ti interessa?!”

“Mi interessa perché ho promesso a tua sorella che mi sarei preso cura di te!”

“Non dire altro! Non ti azzardare a parlarne!”

“Perché fai sempre così?” Sibila. “Perché le feste, perché l’alcool, perché te ne vai sempre di nascosto? Odi davvero così tanto restare qui?”

Al questo punto mi alzo dalla tavola e me ne vado, mordendomi l’interno della guancia così forte da sentire il sapore del sangue. Cammino furiosamente sull’ingresso della cucina, con le dita intrecciate nei capelli. Sento il petto pesante, la vista offuscata dalle lacrime, ma mi rifiuto di versarle. Non piango per cose del genere.

“Eren-”

Basta.”

Lui tace. Cammino verso la porta e appoggio la testa contro il muro, premendomi le mani per sostenermi.

“Per favore, basta,” sussurro.

“Eren, dobbiamo-”

Lo ignoro mi dirigo verso il piano di sopra. Sbatto la porta, facendola addirittura tremare e la chiudo a chiave, buttandomi di schiena e scivolando verso il pavimento. Seppellisco il viso nella fessura delle ginocchia e urlo così forte che la gola mi brucia. I miei occhi sono serrati e il corpo trema mentre cerco di trattenere le lacrime.

“Ti prego,” dico; lo ripeto ancora e ancora fino a quando la mia voce non si appiattisce e gli occhi fanno fatica a rimanere aperti.

Mi viene in mente proprio prima di addormentarmi che non so che cosa sto chiedendo.
 
***
 
Lunedì mattina, lezione di inglese. Il professor Smith continua a spostare lo sguardo tra Reiner e me e so che è riuscito a fare due più due. Di sicuro ha sentito la voce passare per i corridoi considerando quanto velocemente viaggiano le notizie. La sedia di Levi è vuota, ma cerco di non pensarci troppo mentre mi concentro sulla spiegazione del professor Smith di una delle scene della novella.

La classe va avanti senza intoppi e prima di rendermene conto la campanella suona. I miei compagni di classe mi lanciano sguardi di disgusto o interesse mentre cammino. Mi alzo dalla sedia lentamente e aspetto fino a quando Reiner non se n’è andato solo perché non voglio avere a che fare con nessuno oggi.

“Eren, hai un minuto?” La voce del signor Smith mi ferma. Sprofondo le unghie nei palmi delle mani ma non mi giro.

“Devo andare in classe, signor Smith,” replico.

“Non ci vorrà molto, te lo assicuro. Ho bisogno di parlarti di una cosa.”

Sospiro in rassegnazione e mi giro per guardarlo in volto.

“Cosa c’è?”

“Va tutto bene?” Chiede. Mi sta guardando negli occhi, ma so che il suo sguardo sta in realtà vagando verso i lividi presenti sul mio viso.

“Sto bene,” dico. “Solo un piccolo litigio. Non è niente di inusu-”

“Non è quello che intendevo.” Mi interrompe. Deglutisco e aspetto che continui. “So che hai vissuto delle circostanze estenuanti che hanno causato un calo dei tuoi voti.”

Circostanze estenuanti? Porca di quella miseria.

“Va tutto bene,” dico. Il signor Smith fa il giro della cattedra e si appoggia contro di essa, sostenendosi con le mani.

“Eren,” mi chiama con voce seria. “Stai fallendo in questa classe. Ho parlato anche con i tuoi altri professori e sembra che tu non stia andando bene neanche nelle altre materie.”

“Perché mi sta dicendo questo?” Mormoro.

“Ora come ora, è molto difficile che tu riesca a diplomarti entro quest’anno.”

Me l’aspettavo. Sapevo di poter fallire per così tanto tempo prima che finalmente raggiungessi il fondo. Ma ora che è qui, ora che so che il mio futuro non è così brillante come mi ingannavo nel pensare, non riesco a respirare.

“Va bene,” mi obbligo a dire, quasi strozzando le parole.

“Davvero?” Il signor Smith mi guarda con una preoccupazione che mi fa venire voglia di vomitare. O gridare, non riesco a decidermi. “Capisco che la perdita di tua sorella ha influito sulla tua capacità di ottenere risultati costanti, ma non puoi lasciare che questo ti fermi dal diplomarti.”

“Forse non voglio,” sbotto prima di potermi fermare. “Nessuno ha mai pensato che forse la ragione per cui sono così è perché non mi interessa niente?”

Il signor Smith non sembra stordito dal mio sfogo, ma non sembra essere il tipo che si agita per qualcosa in generale.

“Non devi fingere che non ti importi niente, Eren,” dice. “Ma se davvero non vuoi, allora suppongo questa conversazione sia inutile per te.”

Annuisco.

“Grazie per l’avvertimento, ma sto bene,” dico.

“Come vuoi.” Il professor Smith si alza lentamente. “Non posso costringerti a fare nulla, ma tengo un corso di recupero ogni giovedì dopo la fine delle lezioni. Puoi venire per rimetterti in pari con i compiti.”

“Se mi interessa,” dico. Il signor Smith incontra i miei occhi.

“Se ti interessa,” concorda. “Pensaci. Se non ti vedo giovedì, allora saprò che non sei interessato.”

Rivolge la sua attenzione alla pila di saggi sulla sua scrivania. Resto davanti a lui qualche minuto, tastando goffamente l’orlo della mia felpa con cappuccio, prima che la porta si apra e gli studenti inizino a entrare.

Deglutisco a fatica ed esco dalla stanza. Le mani non smettono di tremare per una qualche ragione e le infilo nelle tasche per nasconderle. Qualcuno mi afferra il braccio e mi ferma e per un secondo penso sia Reiner. Ma la mano non è così grande e quando la guardo noto che la pelle è troppo pallida per essere sua.

La fronte di Levi è aggrottata quando lo guardo e non riesco a decidere se essere felice di vederlo oppure esserne irritato. Senza rivolgermi una sola parola, mi trascina verso le scale fino a raggiungere il tetto. La porta è chiusa a chiave, ma osservo come utilizza una forcina per forzare la serratura per poi farmi uscire.

Cammino dietro di lui come un bambino compiaciuto. Voglio chiedergli cosa sta facendo, ma la mia bocca non si decide a formare le parole.

“Parla,” comanda.

Lo guardo in modo strano.

“Riguardo a cosa?”

“È successo qualcosa,” dice. “L’ho capito.”

“Mi stai stalkerando?” Chiedo con una risata forzata. Lui alza gli occhi al cielo e si appoggia contro la ringhiera. Il vento scompiglia i suoi una volta immacolati capelli in tutte le direzioni.

“Stavo per andare a prendermi qualcosa da bere quando ho visto che eri giù di morale,” dice. “La curiosità a volte uccide, insieme ai gatti e al jazz.”

“Giusto,” sospiro leggermente. “Perché non eri a lezione oggi?”

“Ho dormito troppo,” risponde semplicemente. “Non mi hai risposto. Cos’è successo?”

Mi mordo l’interno della guancia e non rispondo.

“Non ti lascerò da solo.”

“Lo so.”

“Dovresti cominciare a parlare.”

“Lo so.”

Non dico nulla per un po’ di tempo mentre cerco di trovare le parole.

“A volte mi isolo così tanto che non riesco nemmeno a capire come sia la realtà,” comincio con calma. “Mi illudo pensando che vada tutto bene e che il mondo non sia una merda totale. Ma poi ci ricado e realizzo quanto tutto faccia schifo. Diciamo solo che sto affogando nella realtà.”

Mi aspetto che mi dica che è un ragionamento da lunatico. Lo guardo; mi osserva anche lui, pensieroso.

“Penso di aver capito,” dice. “Tu dipingi un quadro perfetto della tua vita tanto da pensare di starci vivendo dentro, fino a quando qualcuno non spunta fuori e ti ricorda che ciò che hai non è nemmeno lontanamente vicino a quello che pensi di avere.”

Sono così scioccato che la mia mente si blocca per un secondo. Penso che mi stia toccando la gamba, ma sembra completamente serio mentre mi guarda.

“Anche tu la vedi così?” Chiedo finalmente. Lui sbuffa.

“La vedo così proprio adesso,” dice, scivolando in basso fino a quando non è seduto contro la ringhiera. Esito prima di sedermi accanto a lui.

“Ne vuoi parlare?” Chiedo.

“Tu?”

“Non proprio."

“Beh, ecco la risposta.”

Tira la testa indietro e chiude gli occhi. Lo guardo prima di mordermi il labbro e abbasso gli occhi verso le mie mani, facendo scorrere con tocco leggero le dita sulle nocche livide.

“Perché eri arrabbiato?” 

“Huh?”

“Alla festa di Bertholdt,” dico. “Quando eravamo in cucina. Sembravi irritato.”

“Reiner,” dice con stizza.

“Oh.”

“Stava facendo l’asino.”

“Anche io.”

“Sì, ma tu non sei sempre così.” Ruota gli occhi. “Almeno tu avevi un motivo. Reiner è solo un pezzo di merda perché può esserlo.”

Rimaniamo di nuovo in silenzio.

“Non riuscirò a diplomarmi in tempo,” lo informo. “Il professor Smith me l’ha detto dopo la lezione.”

Levi si gira per guardarmi.

“Davvero?”

“Davvero.”

“Quindi… cosa farai?”

“Non lo so, cazzo.” Grugnisco e faccio cadere la testa in avanti.

“Beh, tu vuoi diplomarti?” 

Porto le gambe al petto.

“Mi ucciderebbero se non dovessi riuscirci,” dico. “Ma non ne sono comunque sicuro. Penso che i miei genitori abbiano rinunciato con me. Mio cognato continua a insistere che devo cambiare, ma non ci riesco. Non è che voglia fare schifo. Ma agire così è l’unico modo che conosco per mantenere intatta la mia sanità mentale.”

“Penso che tu voglia diplomarti,” dice. “Voglio dire, non so quale sia il tuo problema, ma tutti vogliono diplomarsi. Tutti non fanno altro che parlarne ed è il primo passo per diventare indipendente. È la prova che sei pronto ad affrontare la vita.”

“E se io non volessi?” Borbotto. “E se io volessi essere indipendente, ma gestire la vita da solo mi spaventa terribilmente?”

“Non saresti da solo,” dice. “Nessuno è solo.”

“Sembri piuttosto diverso dal ragazzo che ha provato a dirmi che tutte le persone sono malvage.”

“Non ho detto che tutte le persone sono malvage.” Solleva gli occhi al cielo. “Ho detto che qualcuno deve esserlo.”

“Oh sì, certo,” rispondo. “Non è tutto rose e fiori, giusto?”

“Giusto.” Annuisce. “Visto, stai capendo.”

“Dovremmo tornare indietro,” dico, schiarendomi la gola.

“Probabilmente sì,” dice con un ghigno. “Non dire a nessuno di tutto questo.”

“Certo che no,” sbuffo.

“Riesco a tollerarti, ma non siamo amici,” dice.

“Giusto. Fai questo per tutti quelli che riesci a tollerare?”

“Solo per quelli speciali,” ride sotto i baffi. “Sorridi. Sei un’eccezione.”

“Che onore. Non avrei mai pensato che Levi Ackerman potesse fare un’eccezione per uno come me.”

Scrolla le spalle e si alza, tendendomi la mano. Esito prima di stringergliela, facendomi sollevare da terra.

“Mi sento generoso,” risponde.

“Wow, a quante persone hai dimostrato cotanta generosità?”

“Solo a te. Nessun altro deve saperlo.”

Roteo gli occhi e lo seguo giù per le scale. Ci soffermiamo alla porta per alcuni minuti prima che io lo guardi.

“Ti ringrazio, Levi.” Lui annuisce.

“Certo. Ma la prossima volta, assicurati che io sia ubriaco prima di diventare un filosofo in vena di sentimentalismi.”

Ripenso a quando eravamo seduti sotto le gradinate. Avevo detto una cosa simile, no? Il pensiero di Levi che mi cita indirettamente mi fa sogghignare.

“Lo terrò a mente,” dico, facendo l’occhiolino prima di sorpassarlo. “Ci vediamo!”

“Sì, sì.” Rotea ancora gli occhi, nonostante ci sia l’ombra di un sorriso sul suo viso.

Una sensazione di calore mi turbina nello stomaco. Mi sforzo di ignorarlo mentre cammino verso la lezione di fisica, sentendomi leggermente più ottimista di quanto non sia da un po'.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy 
Capitolo 6

 
Levi

Lo spogliatoio è mortalmente silenzioso quando entro.

Capisco immediatamente che c’è qualcosa che non va. Se lasci da soli una manciata di ragazzi in un’unica stanza, è impossibile che restino tranquilli. È così che funziona. È così che ha sempre funzionato.

“Costa succede?” Chiedo. Gli occhi di tutti sono istantaneamente su di me. Marco sembra sorpreso, come se non si aspettasse di trovarmi qui; questo è ancora più sospetto.

Assottiglio gli occhi e metto a posto la mia borsa. Sembrava pesasse centinaia di chili tutto d’un tratto.

Cosa-”

“Uhm…” Marco mi interrompe. Si passa le dita tra i capelli e guarda il resto della squadra.

Tutti girano la testa in direzioni diverse. Marco si gratta una guancia e sposta il peso da un piede all’altro. Lo guardo finché non decido che la mia soglia di irritazione massima sta per superare il limite.

 “Porca miseria, Marco. Non puoi semplicemente dirmi-”

“Si tratta di Bertholdt,” dice. La sua voce è ovattata. Riesco a malapena a sentirlo ora che il sangue mi affluisce alle orecchie.

“Di cosa si tratta?” Chiedo. Penso a venerdì e aggrotto la fronte. “Per caso Reiner ha-”

“No, no.” Marco agita le mani e mi interrompe ancora. “È solo che… non lo so, okay? Era diventato piuttosto criptico e io non lo so.”

“Non ha senso,” dico impazientemente.

Marco mi guarda per alcuni secondi prima di annuire un paio di volte. Si gratta di nuovo il viso e deglutisce.

“Devi parlare con lui,” dice. “Non direbbe niente a nessun altro. Reiner ci sta provando, ma senza risultati. Ha saltato l’allenamento. Penso sia andato a casa.”

“Non posso farci niente adesso.”

“Per favore, Levi. Sono serio, qualcosa non va.”

“Dobbiamo allenarci,” dico freddamente. “Non posso fermare tutto per chissà cosa.”

“Levi, devi andare.” Marco sembra davvero nel panico. “Non so cosa sia, ma stiamo tutti impazzendo.”

“Non sta mica morendo. Non è una cosa così seria. State facendo i melodrammatici.”

Apparentemente, questa non era la cosa giusta da dire. La faccia di Marco si contorce prima di scuotere la testa dal disgusto.

“Puoi almeno fingere che ti importi qualcosa?”

“Mi stai prendendo per il culo?” Ringhio. “Lo vedrò dopo gli allenamenti, okay? Non so quale cazzo sia il problema, ma-”

“Vuole lasciare la squadra, stronzo!” Urla Marco.

La mia bocca è aperta in modo imbarazzante mentre realizzo il significato di ciò che ha detto. Stringo le labbra e ripeto le sue parole più e più volte nella mia testa.

“Lui cosa?”

“Vuole lasciare la squadra,” ripete Marco, più calmo, e si siede sulla panchina. “Non ha detto il motivo. Ha detto che voleva andarsene e che voleva parlare con te. Questo è tutto quello che sono riuscito a fargli dire prima che se ne andasse.”

Non so quello che sto provando. Non so se sono ferito, arrabbiato o qualsiasi altra cosa. Mi sento piuttosto insensibile. Fisso di nuovo Marco. Mi guarda silenziosamente anche lui prima che io mi giri per uscire dallo spogliatoio senza un’altra parola.
 
***
 
La corriera non mi porta direttamente a casa di Bertholdt. Devo camminare per circa cinque isolati per raggiungerla. La fontana nel giardino spruzza acqua ovunque. Osservo le bolle formatesi e il delicato arco dell’acqua prima di scuotere la testa e camminare verso i gradini.

Busso alla porta impazientemente. Quando nessuno apre, giro la maniglia ed entro da solo. Sono un po’ sorpreso che la porta non sia chiusa a chiave, ma decido di non chiedermi il perché.

Esploro la casa prima di ritrovarmi nel retro. L’immagine di Eren che urla contro Reiner mi torna alla memoria. Cerco di non pensarci e apro la porta finestra.

Bertholdt è seduto davanti alla piscina con le gambe incrociate. La sua uniforme sportiva è ordinatamente piegata accanto alla sua figura. Lo raggiungo e mi siedo vicino a lui senza dire una parola.

“Scusami per averti fatto venire fino a qui,” dice. Fisso la piscina.

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Sai cosa,” sbotto. Non sono dell’umore di sentire stronzate. Del dolore germoglia dietro il mio occhio e so che mancano dieci secondi dallo scoppiarmi un mal di testa. “Cosa cazzo vuol dire tutto questo?”

“Marco ti ha parlato?” Bertholdt guarda la piscina con la fronte aggrottata. “Ho pensato un po’.”

“Già, ovviamente.” Guardo la sua uniforme e scuote la testa. “È per quello che è successo venerdì?”

“Perché dovrebbe avere a che fare con quello che è successo venerdì?” Chiede con cautela.

“Lo sai,” comincio. “Tutta la storia di Reiner. Questo ha-”

“Perché dovrebbe trattarsi di questo?” Dice Bertholdt. La sua voce è calma. La sua espressione, tuttavia, sembra che muoia dalla voglia di gettarmi in piscina.

“Hai parlato con Eren, non è ve-”

“Anche se fosse?” Bertholdt finalmente mi guarda. “Anche se avessi parlato con Eren, che cosa c’entra con tutto questo?”

“Niente, immagino,” dico. “Ma sei impostato sulla difensiva-”

 “Già, forse è vero.” Bertholdt scuote la testa e guarda di nuovo la piscina. “Sono solo… sono stanco, Levi.”

“Di cosa?”

“Tutto.” Chiude gli occhi per alcuni secondi. “Ecco… non riesco più a fingere.”

“Quindi…”

“Quindi me ne vado,” afferma ancora Bertholdt. “Lascio la squadra perché il football non è qualcosa di cui ho bisogno.”

“Oh, quindi per te la squadra è una cosa usa e getta?” Sbotto. Non so perché ora sono io quello sulla difensiva tutt’un tratto. “Pensi di poterla scartare solo perché-”

“Smettila!”

“Perché?!”

“Perché tu non hai idea di quello che stai dicendo!” Esclama Bertholdt con le lacrime agli occhi, lacrime che posso davvero vedere e ora mi sento una merda. “Non sai quello di cui stai parlando.”

Digrigno i denti.

“Spiegamelo, allora.”

“Io non sono importante.”

“Tu sei importante.”

“Non abbastanza. Io… a me non frega niente del football. L’ho fatto solo perché lo voleva Reiner.”

Sbuffo. “Questa è una ragione di merda per prendersi un impegno.”

“Già, ma l’ho capito solo adesso.” Bertholdt passa le dita tra i capelli. “A volte le persone fanno cose per altre persone e non per sé stesse.”

"Perché dovresti farlo per qualcun altro?" Chiedo. Forse è perché sono capitano, ma non posso immaginare di unirmi a una squadra di football solo perché qualcun altro voleva che lo facessi.

“Non capisci proprio,” afferma Bertholdt. Punge un po’ da sentire, ma poi realizzo che forse ha ragione. “Anche se provassi a spiegartelo, non capiresti.”

“Cosa vuoi dire?”

 Bertholdt si porta le gambe al petto e le avvolge con le braccia.

“Hai mai amato qualcuno?” Chiede. È una strana domanda e percepisco le sopracciglia aggrottarsi.

“Sì,” dico lentamente. Lui si gira per guardarmi.

“No, amato davvero qualcuno,” chiarisce. La sua voce è calma, timida, e riesco a malapena a sentirlo. “Hai mai amato qualcuno così tanto da fare qualsiasi cosa per loro?”

Penso a mia madre prima di potermi fermare. Penso alle sue pallide, delicate dita e il suo ampio sorriso. Penso alle borse sotto i suoi occhi e a tutte le volte in cui ha pianto non appena vedeva la mia faccia. Penso a come Kenny abbia dovuto tapparmi la bocca con le mani quando lei non stava più respirando.

Un nodo si forma nella mia gola. Non riuscire a rispondere nemmeno se ci provassi.

Mi sforzo ad annuire.

“Oh.” Bertholdt sbatte le palpebre tre volte. Le ho contate perché mi aiutava a calmarmi. Picchietto le dita contro il bordo della piscina sette volte perché mi distrae dalla costrittiva sensazione che provo nel petto.

“Forse puoi capire, in fin dei conti.”

Una forte brezza soffia su di noi. Il vento mi arruffa i capelli e faccio scivolare le mani nelle tasche della mia giacca.

 “Va bene,” dico. “Va bene se vuoi andartene.”

Bertolt mi guarda come se non mi credesse. Gli sorrido anche se il mio viso sembra non volersi muovere.

“Dici sul serio?”

“Dico sul serio,” confermo. Sento la bocca secca, come se avessi passato tre giorni nel deserto, e mi sforzo di deglutire la saliva che ho in bocca.

“Mi dispiace,” sussurra.

Non sono sicuro del perché, ma le scuse sembrano non essere per me. Annuisco e mi alzo. Bertholdt rimane seduto, le gambe incrociate, i capelli arruffati dal vento. Allunga il braccio e mi consegna l’uniforme mentre sto per allontanarmi. 

Afferro la sua maglia così forte che le mie nocche diventano bianche.

Non torno a scuola e non vado a casa. Mi siedo sull’autobus e guardo la gente salire e scendere. Provo a cercare caratteristiche familiari. Se vedo lentiggini penso a Marco. Se vedo capelli biondi penso a Reiner o a me stesso dopo averli tinti. Dopo un po’ mi stanco quindi rimango seduto e basta.

Non so che ore siano. Il mio telefono è nella borsa che ho lasciato a scuola e non so quando tempo sono stato a casa di Bertholdt. Ma il Sole sta cominciando a tramontare e il cielo sta diventando grigio. Scenderò alla prossima fermata. L’aria fredda si infila nello spazio tra le tasche e le maniche della giacca. Tengo la testa bassa e cammino senza meta.

Penso a Bertholdt. Penso alle lacrime nei suoi occhi, a quanto disperato sembrasse. Penso a lui che parla con Eren. Penso a quello che Eren gli ha possibilmente detto per causare tutto questo.

Penso alla sua uniforme, abbandonata sull’autobus e mi domando se a qualcuno interessa.
 
***
 
Non vedo Eren fino a venerdì. È passata una settimana dall’incidente con Reiner e lui sembra stare perfettamente bene. Il livido sul suo viso non si nota poi così tanto. O forse sono talmente abituato a vederlo che ormai non mi fa neanche più effetto.

“Ohi!” Eren mi afferra per il gomito quando lo sorpasso.

Fisso la sua mano attorno al mio braccio. Non so perché, ma non riesco a distogliere lo sguardo. Mi sono sentito fuori di testa da quando ho parlato con Bertholdt. Sembra che tutto abbia un qualche messaggio nascosto o un significato e io non so il motivo.

Forse è per questo che sto fissando la mano di Eren. Forse dovrei prenderla come una specie di epifania. Dovrei notare che Eren ha delle belle dita, o forse che la sua mano sul mio braccio è un simbolo del bisogno di contatto umano.

Non lo faccio, però. Mi irrito e me lo scrollo di dosso. Lui mi guarda, gli occhi grandi e spalancati; gli afferro la spalla. Le mie nocche sono bianche e posso sentire l’intero corpo tremare.

“Ma che cazzo?” Eren sposta lo sguardo dalla sua spalla alla mia mano per poi giungere alla mia faccia. “Levi, ma che-”

“Non ho voglia di parlare,” dico. La mia voce è così bassa che mi sorprendo di sentire ciò che sto dicendo.

La fronte di Eren si aggrotta. E questo mi fa solo arrabbiare di più. Perché non può lasciarmi in pace? Non si vede che non ho voglia di parlare?

“Levi?” Eren scioglie le dita dalla sua spalla. Distende le pieghe sulla sua maglietta e mi guarda preoccupato.

“Cosa c’è?”

“Cosa c’è che non va?”

“Non c’è nulla che non va.”

“Bugiardo.”

“Un soprannome? Carino.”

“Amico, seriamente, chi ha cagato nei tuoi cereali?” 

“Nessuno. È il mio carattere. Sai, una strategia di adattamento?” Lo prendo in giro. Eren l’ha capito, se lo sguardo cupo sul suo viso è un qualche tipo di segno. Tuttavia, non dice nulla.

“Questa è una scusa che uso per comportarmi come uno stronzo senza alcuna ragione. Ecco ciò che sono le strategie di adattamento. Sono solo un’enorme stronzata.

Eren mi afferra il polso e mi trascina dietro di lui. Lo seguo alla cieca, ridendo mentre continuo a camminare verso Dio solo sa cosa. La mia bocca ha il pilota automatico impostato e al mio cervello non importa abbastanza da fermarla.

“Voglio dire, a chi è saltata in mente questa merda? Chi ha deciso di dare a tutto delle etichette? Questo non rende più facile per le persone combinare stronzate? Non è quello-”

"Chiudi quella fottuta bocca.”

Chiudo quella fottuta bocca.

Mi mordo l’interno della guancia fino a tastare del sangue. Eren apre la porta del bagno dei maschi e mi spinge dentro. Inciampo prima di tornare in equilibrio. Lui appoggia la schiena contro la porta e mi guarda mentre cammino avanti e indietro, scorrendo le dita tra i capelli.

Non so cosa non vada in me. Non so perché mi sto comportando così. Non so perché non riesco a fermarmi.

Mi fermo di fronte al lavandino e ne afferro saldamente i lati. Mi rifiuto di guardarmi allo specchio. So di essere una merda.

“Cosa c’è che non va?” Chiede ancora. Suona paziente e lo odio con tutto me stesso.

“Niente.”

“Stai impazzendo. È ovviamente successo qualcosa.” Eren si piega un po’ contro la porta. “Stai… stai bene?”

“No. Sì. Non lo so.”

Ingoio il gusto amaro e mi metto dritto in piedi. Continuo a torcermi le mani per nascondere il fatto che non smettono di tremare.

“Beh, che è successo?” 

Lo osservo per alcuni minuti.

“Bertholdt ha lasciato la squadra,” dico. Eren ha questo sguardo saccente che cerco di ignorare. “Ha lasciato la squadra e… cazzo, è una merda.”

“Cosa è una merda?”

“Sentirlo dire che ha chiuso con noi,” dico. “Lui sapeva di aver chiuso con noi. Sapeva che non gliene fregava più nulla. È una merda sapere che lui si sentiva una merda.”

So di stare balbettando, quindi mi mordo la lingua. Eren mi guarda silenziosamente dal suo posto contro la porta.

“Non ne ho idea,” dico, la mia voce è terribilmente flebile. Sembro vulnerabile e non mi sono sentito vulnerabile da un bel po’ di tempo. “Sono il capitano, dovrei sapere come si sente la mia squadra. Ma non ne avevo idea.”

“Lo ha nascosto molto bene,” replica Eren. Deglutisco a fatica e annuisco.

“A te l’ha detto, però.”

Eren aggrotta le sopracciglia. “Si è fidato di me.”

“E perché non si è fidati di me?” Mormoro. “Lo conosco da anni. Anni. Ti ha parlato per cinque minuti e ti ha detto più di quanto abbia mai fatto con me.”

“Cosa vuoi che ti dica?” Eren ora sembra stufo. “Che mi dispiace che si è aperto con me? Non dovresti esserne felice?”

“Perché dovrei esserne felice?”

“Sta facendo qualcosa perché vuole farlo,” dice Eren. “Si sta difendendo. Questo non ti rende felice?”

Non so come mi sento. Non riesco a non sentirmi infantile mentre resto immobile nel bel centro del bagno.

“Non lo so,” rispondo onestamente. “Io non lo so, okay?”

“Non stava cercando di ferirti-”

“Non sono ferito, dannazione. È solo che… cazzo.”

Passo le dita tra i capelli e cerco di rilassarmi. Eren si stacca dalla porta e mi afferra per le spalle in modo da essere obbligato a guardarlo.

“Ehi,” sussurra, “Va tutto bene, lo sai.”

“Non sembra andare tutto bene.”

“Va bene, te lo prometto. Non è per qualcosa che hai fatto tu. Aveva solo bisogno di farlo per sé stesso.”

“Giusto,” dico. Mi lecco le labbra screpolate e decido che questo è un buon momento per essere onesti. “Mi ha fatto riflettere.”

Le mani di Eren rafforzano la presa sulle mie spalle e ora sembra confuso.

“Che cosa ti ha fatto riflettere?”

“Bertholdt. Il fatto che se ne sia andato, intendo. Mi ha fatto pensare. Forse è per questo che sono così. Non pensavo così tanto alle cose da molto tempo.”

“A cosa hai pensato?”

“Ho lasciato la sua uniforme sull’autobus,” dico. “Ero salito per tornare a scuola, ma non volevo tornarci. Ma non volevo nemmeno andare a casa. Sono rimasto seduto per un po’. Quando ho deciso di scendere, ho dimenticato la sua uniforme. Quando l’ho realizzato, mi sono chiesto se a qualcuno sarebbe importato.”

“Beh,” comincia lentamente Eren. “A te importa, non è vero?”

“Io non basto,” dico con voce piatta. “Non posso essere l’unico a cui importa.”

“Non lo sei,” sussurra. “Credimi, non lo sei.”

All’improvviso mi viene in mente che non stiamo nemmeno parlando dell’uniforme. Non era mai stato per l’uniforme. Alla fine era solo una maglietta bianca e dei pantaloni. L’uniforme era facilmente sostituibile. Se avessi trovato trenta dollari, avrei potuto crearne un’altra identica.

Ma non puoi fare la stessa cosa con le persone. Trenta dollari non possono rimpiazzare un compagno di squadra.

“Cosa gli hai detto quella sera?” Chiedo. Ora mi sento meno frenetico, meno fuori controllo.

“Gli ho detto non di fare determinate cose solo perché lo vuole qualcun altro,” risponde. “Gli ho detto che deve rendere felice sé stesso prima di provare a rendere felici gli altri. Altrimenti la vita sarà solo una merda. Poi mi ha chiesto se io sapevo come rendermi felice.”

“Ci riesci?” Chiedo. “Come renderti felice, intendo.”

“In un modo superficiale, sì,” risponde.

“E genuinamente? Sai come renderti genuinamente felice?”

“Nomina una persona che ci riesce davvero,” mormora. Quando non rispondo, lui annuisce lentamente. “Ecco la tua risposta.”

“Ricordi quello che ti ho detto?” chiedo.

“Cosa? Mi hai detto tante cose.”

“Dopo che il professor Smith ti ha parlato. Sul tetto.”

“Cosa?” Chiede, finalmente mollando la presa sulle mie spalle.

“Ti ho detto che le persone dipingono un quadro perfetto della loro vita,” dico. “E che a un certo punto qualcuno ti ricorda che in realtà non stai vivendo il tuo quadro.”

“Sì, mi ricordo.” Eren tormenta il bordo della sua maglietta con le mani. “Dove vuoi arrivare?”

Scrollo le spalle.

“Hai mostrato a Bertholdt qual è il vero quadro,” dico. Eren mi guarda per alcuni secondi fino a quando non sposta lo sguardo altrove.

“E tu?” Chiede. “Qualcuno ti ha mostrato com’è il vero quadro?”

“Forse,” dico. “Non lo so ancora.”

Eren mi osserva per un po’ prima di sorridere e afferrarmi il polso.

“Andiamo,” dico. “Pensavo tu avessi detto che dovevamo essere ubriachi la prossima volta che parlavamo di queste cose.”

“Beh, sì,” rispondo, titubante. “Ma non ho voglia di bere ora.”

“Non c’è problema,” replica. “Puoi guardare.”

Decido di non chiedere informazioni su dove stiamo andando. Mi lascio trascinare verso la fermata dell’autobus. Rimaniamo seduti sulla panchina per circa dieci minuti fino a quando non arriva. Saliamo in silenzio dopo aver pagato i biglietti e prendiamo posto nel retro. Il bus è praticamente vuoto, dato che non è ora di pranzo e tutti sono al lavoro oppure a scuola.

Non ricordo di aver chiuso gli occhi, ma quando li riapro Eren si è improvvisamente alzato. Lo seguo mentre scendiamo e comincia a camminare lungo la strada. Non so dove stiamo andando, ma mi rendo conto che non siamo più a Shiganshina. I miei occhi guizzano dai condomini fino a una piccola lavanderia dove alla fine della strada c’è un chiosco che vende hot dog.

Guardo indietro al cartello della fermata dell’autobus. Alcune lettere sono sbiadite, ma le parole sono chiare come il Sole.

“Trost,” mormoro. Penso all’intenso odio di Reiner per questo posto e quasi rido.

Eren evita persone come un professionista. Credo che il quantitativo di persone in questa città non sia molto diverso da quello dei corridoi della nostra scuola. La sola volta in cui sono venuto in questa città è stato per una visita medica. Vivevo in un condominio con mia madre prima-

Interrompo il filo dei miei pensieri prima che potesse andare oltre. Eren gira all’improvviso in un vicolo e lo guardo mentre mi conduce alla scala antincendio di uno dei condomini.

“Aspetta, cosa stai facendo?” gli chiedo.

Mi sorride ampiamente e mi aiuta a salire. Tolgo i capelli dal viso e osservo come si arrampica abilmente. Ovviamente è stato qui molte volte. Si ferma a circa metà del lato dell’edificio e dà un violento colpo alla finestra.

Non realizzo di star trattenendo il fiato fino a quando la finestra non si apre. Il respiro fuoriesce in un sibilo e tossisco un paio di volte e socchiudo gli occhi per focalizzarli sulla persona che vedo dall’altra parte della finestra. Non riesco a vedere molto dato che la testa di Eren mi blocca la visuale, ma deve avere dei disordinati capelli neri.

“… e lui è Levi.” Sono finalmente sul pianerottolo accanto a Eren. Il ragazzo mi guarda per alcuni secondi prima di stringere gli occhi.

“Levi,” ripete.

“Uh, sì,” dico flebilmente. “Levi.”

Il ragazzo alza un sopracciglio e si allontana dalla finestra.

“Immagino di dover ospitare due delinquenti stasera,” dice con voce annoiata e uniforme.

“Sei il migliore, lo sai,” dice Eren, sorridendo ampiamente ed entra in casa dalla finestra. Esito prima di seguirlo dentro. “Lui è Nick, comunque.”

“Nickolas,[1]” lo corregge il ragazzo.

“Piacere,” dico, schiarendomi leggermente la gola. E Nickolas sia.

Eren si addentra nel salotto e si lascia cadere sul divano; sembra stranamente a suo agio, come se fosse stato qui innumerevoli volte prima d’ora.

Il pensiero causa una strana sensazione alla bocca dello stomaco. La caccio via e mi siedo con cautela accanto a lui. L’appartamento è scarsamente arredato, praticamente ha solo gli arredamenti base. Il tavolino accanto al mio ginocchio sembra un po’ malandato. Non ci sono altre decorazioni oltre a un vaso pieno di gigli appassiti e una mensola piena di foto incorniciate. Corrugo le sopracciglia quando riconosco Eren e Nicholas in una di esse. C’è una ragazza con i capelli neri corti e gli occhi scuri. Sia lei che Nicholas hanno entrambe espressioni vuote, ma Eren sorride ampiamente.

Mi obbligo a guardare altrove.

“Nick!” Eren inclina la testa all’indietro per guardarlo. “Hai una birra?”

“Mi vuoi solo per l’alcool, ci scommetto,” mormora Nicholas.

“Non sono maggiorenne, lo sai,” risponde Eren. “E poi, ti voglio per altre cose oltre per l’alcool.”

Corrugo ancora le sopracciglia alle sue parole. Nicholas si irrigidisce prima di schiarirsi rumorosamente la gola e dirigersi verso la cucina.

“Chi è?” Sussurro a Eren una volta che è l’altro ragazzo non è più a portata d’orecchio. Sembra troppo vecchio per frequentare le superiori; non riesco a non chiedermi come faccia Eren a conoscerlo.

Eren solleva un sopracciglio.

“Ha importanza?”

“Più o meno, sì,” dico. Eren non mi risponde, quindi gli tiro il braccio. “Seriamente, chi è-”

“Ecco.” Nicholas lancia una lattina di birra a Eren. Ne tiene un’altra in mano per alcuni secondi prima di guardarmi. “Birra?”

“Non bevo, in realtà.”

Nicholas sbuffa e apre la lattina prima di sorseggiarla. Si siede sulla poltrona accanto al divano Eren e io ci sediamo. Mi sposto a disagio e i miei occhi si spostano di nuovo verso la foto sullo scaffale.

“Non ci vediamo da parecchio tempo,” commenta Nicholas con disinvoltura; Eren tuttavia sembra irritato dal suo commento.

“Immagino di no,” risponde. “Sono stato molto occupato. Jean si è persino trasferito da noi.”

“Jean?” Nicholas solleva un sopracciglio. “Vuoi dire…?”

“Già,” sbuffa Eren. “Sai com’è fatto.”

“Immagino che alcune cose non cambino mai,” mormora Nicholas. Beve un altro sorso di birra e mi fissa.

“Cosa c’è?”

Sembra sorpreso prima di sogghignare.

“Niente,” risponde in modo innocente.

Eren si siede improvvisamente accanto a me. Dedica a Nicholas uno strano sguardo che non riesco a decifrare. Alterno gli occhi tra di loro per alcuni secondi prima di concentrarmi sul tappeto sotto il tavolino. Non so cosa stia succedendo tra di loro.

“Dovrei andare,” dico, schiarendomi la gola. “Mio zio si arrabbierà se non torno a casa in tempo.”

Non è totalmente una bugia. Kenny ha cercato di evitarmi ultimamente, ma sono sicuro che tornerò ad avere il suo fiato sul collo se scopre che ho saltato la scuola per andare all’appartamento di uno sconosciuto assieme a un compagno di classe. Probabilmente si arrabbierebbe molto di più se scoprisse la presenza della birra.

Mi alzo lentamente e aspetto che Eren faccia lo stesso. Quando non lo fa, sento la fronte aggrottarsi.

“Eren…?”

“Siamo appena arrivati,” si difende Eren, rotando la lattina di birra.

“Già, ma dovremmo andare,” insisto. “Cosa direbbero i tuoi genitori?”

“Non penseranno nulla,” risponde, le sopracciglia si uniscono al centro della fronte. “Non lo fanno mai.”

“Eren!” Okay, ora mi sto arrabbiando. Lui alza la testa verso di me, senza una reale espressione.

“Puoi andare, se vuoi,” dice prima di appoggiare di nuovo la schiena sul divano. “Io resto qui.”

Nicholas si alza in piedi e mette sul tavolino la sua lattina di birra.

“Vado in bagno,” annuncia, e poi sparisce dal corridoio.

“Eren, ma che cazzo?”

“Cosa?”

“Dobbiamo andare,” ripeto. “Non puoi stare qui.”

“Non è la prima volta,” dice.

“Già, ho notato!” Scuoto la testa. “Santo cielo, Eren. Quanti anni ha?”

“Cosa diavolo dovrebbe importare?”

“Perché è assurdo!” Sbotto. “È assurdo e non voglio che tu stia qui.”

A queste parole Eren mi guarda di nuovo, la bocca semiaperta. Deglutisco a fatica mentre mi rendo conto di ciò che ho detto, ma ormai è troppo tardi per rimangiarmi le parole.

“Non si tratta di cosa vuoi tu,” mormora Eren.

“Eren, andiamo.” Gli afferro il braccio e cerco di farlo alzare. “Vieni con me, okay?”

Non so perché voglio così tanto che venga via con me. Qualcosa di Nicholas non mi convince, ma non riesco a capire cosa.

“Sto bene, d’accordo?” Eren mi prende il polso e mi allontana da lui. “Nick si prenderà cura di me. Lo fa sempre. Finisco spesso a casa sua. Va tutto bene.”

Voglio dirgli che no, non va tutto bene. Mi mordo l’interno della guancia e mi obbligo ad annuire.

“Sì, okay.” Mi passo le dita tra i capelli. “Resta. Fa quello che vuoi. Non mi importa.”

Nicholas torna indietro, i suoi passi ovviamente pesanti nell’improvvisamente tranquillo appartamento.

“Oh,” dice, fingendo di essere sorpreso. “Sei ancora qui?”

“Stavo giusto per andare,” dico, facendomi strada verso la porta. Mi soffermo sull’atrio per un paio di minuti, solo per vedere se Eren mi avrebbe guardato, ma non lo fa. Resta seduto sul divano con la lattina di birra tra le mani.

Nicholas mi osserva in attesa. Deglutisco il gusto salato che sento in bocca e apro la porta, sbattendola dietro di me.

La mia testa è un miscuglio di pensieri quando prendo l’autobus per tornare a casa. Ho partecipato a molte partite a Trost, quindi ormai so bene come tornare a casa. Non importa quello che faccio, non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di Eren sul divano di Nicholas. Quando chiudo gli occhi, tutto quello che vedo è come si è seduto lì e ha fissato il terreno. Non so perché sono sorpreso che non sia tornato a casa con me. Sembrava piuttosto irremovibile, ma una piccola parte di me pensava davvero che sarebbe venuto.

Premo la mano contro il petto in un tentativo di alleviare l’improvviso dolore che provo al cuore e chiudo gli occhi per fare un breve pisolino fino a quando non torno a casa.
 
 

[1] Nicholas Colton: personaggio delle OAV. Non si sa niente su di lui, solo che ha occhi chiarissimi e capelli neri. Lo si vede per un paio di secondi ne “Il diario di Ilse”.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 7

Eren

02:17, macchina di Nick. Mi sta portando a casa, il finestrino del guidatore è completamente abbassato. L’aria fredda si insinua tra le fessure della mia felpa diffondendosi su tutto il corpo, facendomi rabbrividire. Nick non sembra notarlo e non ho davvero voglia di dire nulla al riguardo. La macchina è silenziosa, fatta eccezione per il basso volume della radio. È troppo bassa per me per capire che canzone sia. Appoggio la testa contro il finestrino del passeggero ed espiro sommessamente.

Nick finalmente si gira per guardarmi. Fingo di non notarlo fino a che non comincia a darmi fastidio.

“Cosa c’è?”

“Cosa vuoi dire con ‘cosa c’è’? Ti sto solo guardando.”

Schiocco la lingua e mi giro per guardarlo. Le luci dei lampioni causano delle ombre scure su tutto il suo viso, facendolo sembrare più vecchio di quanto non sia e la vista causa una strana sensazione di girare nella cavità del mio stomaco.

“Sei fottutamente inquietante,” dico e Nick sbuffa una risata.

“Già, come vuoi,” dice spensieratamente. Si sistema sulla sedia e canticchia con tranquillità. “Allora…”

Cosa?”

“Gesù, Eren, perché ti comporti così?” Solleva un sopracciglio.  “Sei peggio del solito.”

“Sono esausto, okay? Cosa vuoi che ti dica?”

“Uno 'scusa' sarebbe un inizio.”

“Non sono dispiaciuto.” Ruoto gli occhi e incrocio le braccia. “Fattene una ragione.”

“Gesù.” 

Quasi rido. Nick si definisce un devoto Cristiano, ma usa sempre il nome di Dio invano. Non so esattamente come funzioni la religione, ma sono piuttosto sicuro sia una brutta cosa. Però non ho mai detto nulla al riguardo; è divertente, in un certo senso.

“…Scusa.”

Nick sorride ampiamente. Gli do uno schiaffo sulla coscia e faccio una smorfia quando lui ridacchia rumorosamente.

“Idiota,” mormoro, senza alcuna stizza e Nick continua a ridere sotto i baffi. Passa la mano sulla mia coscia e la stringe. Sussulto e lui allontana immediatamente la mano. Mi sforzo di guardare di nuovo fuori dalla finestra.

Gira l’angolo per arrivare a casa e improvvisamente mi sento come se mi avessero dato un calcio nello stomaco. Prendo alcuni respiri profondi e cerco di fingere di non percepire le mani umide di sudore. Nick mi rivolge uno sguardo preoccupato, ma lo ignoro e asciugo le mani sui jeans.

“Sto bene.”

“Sembra che tu stia per vomitare,” dice Nick quando accosta sul marciapiede. Si avvicina fino a quando la sua faccia è la sola cosa che riesco a vedere. “Santo cielo Eren, sei fottutamente-”

“Lo so, dannazione,” dico, allontanandomi da lui. Non so nemmeno cosa stesse per dire. Semplicemente, non voglio sentirlo. “Mi uccideranno, ci scommetto.”

“Bella merda,” mormora Nick, guardando la porta di casa mia e poi me. “Non sapevo avessi paura dei tuoi genitori.”

“Non ho paura, dannazione,” sbotto. “Non sono loro il problema.”

Nick aggrotta la fronte prima di premere le labbra in una linea sottile e annuire.

“Jean, mi sbaglio?” Chiede semplicemente.

Un respiro tremante si fa largo nelle mie labbra e annuisco, premendo la testa contro il poggiatesta.

“Fa troppe domande,” dico. “Non so nemmeno che scusa inventarmi. Non ho nessuna storia programmata.”

“Cazzo.” Nick sbuffa e scuote la testa. “Non lo sa?”

“Nessuno lo sa,” dico.

Nick rotea gli occhi.

“Eccetto per il tuo amico, giusto?”

“Amico?” Mormoro. Mi ci vogliono alcuni secondi prima di realizzare che intendesse dire Levi. “Aspetta, noi non siamo amici.”

“Uh-huh. Certo.”

“Perché lo stai dicendo in questo modo?” Chiedo. Nick sbuffa.

“Oh, andiamo,” grugnisce. “Stai scherzando, vero? Quel ragazzo mi odia con tutto sé stesso.”

“Sei un pezzo di merda. Persino io ti odio con tutto me stesso.”

“Davvero?” Chiede, arcuando un sopracciglio.

Premo le labbra assieme e decido di non rispondere. Nick torna al suo posto, sembrando soddisfatto.

“Non sa nulla,” dico, solo per avere l’ultima parola.

Nick annuisce e non risponde. Mi lecco l’angolo delle labbra secche e afferro la maniglia della portiera. Nick mi guarda in attesa fino a quando non prendo un respiro profondo e apro la porta. Tiro giù le maniche della felpa per coprire le dita fredde e mi giro per guardare Nick.

“Starai bene?”

“Sto bene,” rispondo. Vorrei sorridere, ma sento la faccia congelata. Mi limito ad annuire. “Seriamente, non preoccuparti.”

“Okay,” replica dubbioso Nick. Deglutisco a fatica.

“Grazie.”

“Già. Certo. Buona fortuna, Eren.”

Sbatto con forza la portiera dell’auto e raggiungo lentamente la porta di casa. Le tende del salotto sono leggermente aperte e posso vedere che le luci sono accese. Mi lecco ancora le labbra e prendo le chiavi dalla tasca dei pantaloni. Una volta aver girato al chiave nella serratura, rimango in piedi e fisso le mie scarpe. La maniglia è fredda abbastanza da farmi rabbrividire. Mi mordo il labbro inferiore e giro la manovella. La porta cigola mentre la apro. Faccio un passo all’interno dell’atrio e chiudo la porta dietro di me. Scalcio le scarpe per toglierle e faccio cadere le chiavi nella ciotola sul tavolo.

Mi faccio strada verso il salotto e mi fermo dietro il divano. Jean mi guarda con occhi vuoti dalla poltrona, una coperta gli circonda le spalle. Sembra più pallido di quanto sia mai stato e ha delle borse scure sotto gli occhi.

Non dice nulla e non lo faccio neanche io. Ci fissiamo fino a quando Jean non cambia posizione sulla poltrona, le molle scricchiolano sotto il suo peso. Il suono è ovviamente amplificato a causa dell’appartamento silente.

“Sei sveglio.” Lo guardo e aspetto una sua risposta. Apre la bocca e la richiude rapidamente.

“Hai idea di che ore siano?” Chiede finalmente.

“Sì.”

Si appoggia allo schienale della poltrona con un’espressione esausta in volto. Le mani finiscono dentro le tasche dei miei pantaloni e mi siedo sul divano.

“Dovrei chiederti dove sei stato?”

“Puoi. Ma non te lo dirò.”

La tensione nella stanza è palpabile. Deglutisco e osservo il tappetto sotto il tavolino. L’ho sempre odiato. Non è che abbia qualcosa di brutto in particolare, però. È semplice e piuttosto soffice. Ma qualcosa di quel tappetto me l’ha sempre fatto odiare. Non so esattamente perché.

“Anche i miei genitori sono svegli?”

“No.”

“Sapevano che non ero a casa?”

“Lo sappiamo tutti a questo punto, Eren. Lo sappiamo sempre.”

Incrocio le braccia al petto e lo sfido con lo sguardo.

“Cosa vuoi che ti dica?”

“Una spiegazione sarebbe più che gradita. Ma è chiederti troppo, giusto? Fai semplicemente qualsiasi cosa ti passa per la testa.”

“Beh, se lo dici in questo modo mi fai sembrare una testa di cazzo.”

“Bene. Perché lo sei. Sei un egoista.” Jean scuote la testa ancora e si passa le dita tra i capelli. “Un giorno potresti essere ucciso e nessuno lo verrebbe mai a sapere.”

Decido di non dirgli che ci ho pensato anche io parecchie volte. Non menziono nemmeno quanto io trovi allettante l’idea. Invece, sollevo un sopracciglio e mi appoggio ai cuscini del divano.

“Sei ridicolo,” dico. “Uscire ogni sera non mi farà uccidere. Nessuno mi aspetta in un vicolo per picchiarmi a morte. Non verrò di certo corteggiat-”

Mi fermo prima di finire la frase. La mascella di Jean si spalanca, come se fosse sorpreso dalla mia intraprendenza, ma poi sospira sommessamente.

 “Porca puttana, Eren.”

“Scusa. Non avevo intenzione di…” mi interrompo. Mi schiarisco al gola e provo ancora. “Mi dispiace.”

Jean serra gli occhi e si avvicina, la testa tra le mani. Lo osservo, indeciso se dovrei continuare a parlare o no. Ogni volta che cerco di parlare, tendo inasprire la situazione, quindi alla fine decido di tenere la bocca chiusa.

“Dov’eri?”

“Pensavo che non avresti chiesto.”

“Non l’ho mai detto.”

Mi mordo l’interno della guancia e medito sul fatto di dirglielo o meno.

“Con un amico.”

“Questo amico ha un nome?”

“Ovvio.”

“Hai intenzione di condividerlo?”

“No, non proprio. Che cosa importa? Cosa hai intenzione di fare, urlare contro anche a lui?”

“Non sto urlando.”

“Non ancora.”

Jean serra fermamente le labbra in una linea sottile e mi guarda. Mi sento a disagio, quindi giro lo sguardo verso le tende. Abbiamo le stesse da quando ci siamo trasferiti in questa casa. Mia madre non le mai cambiate. Non penso nemmeno di possederne altre. Probabilmente sarebbe una buona idea comprarne di nuove. Ma non sono poi così preoccupato per le tende. Sono carine, immagino-

“Eren.”

“Hm?” Guardo Jean.

“Ho parlato con i tuoi genitori,” dice. “Abbiamo deciso che dovresti tornare in terapia.”

“Terapia,” ripeto lentamente; quasi rido. “Sì, okay.”

“Sono serio.”

“Uh-huh.”

“Eren, smettila.” La sua voce è tagliente. Deglutisco e faccio un cenno di assenso con la testa.

“Okay. Quindi mi rimanderete in terapia.”

“Questo è il piano, sì.”

“Buona fortuna. Mio padre aveva smesso di pagare, ecco perché non ci sono più andato.”

“Non è un problema. Ho già detto che ci avrei pensato io.”

“Mi stai prendendo per il culo, vero?” Chiedo, alzandomi di scatto dal divano.

“No,” constata semplicemente Jean. Scuoto la testa.

“Questo è un fottuto scherzo,” provo ancora.

“No,” ripete, più pazientemente questa volta. “Penso tu abbia bisogno di aiuto, Eren.”

“Sto bene,” dico. Ma Jean mi guarda con un’espressione stanca.

So che lui sa non essere vero. Sono piuttosto sicuro che chiunque abbia degli occhi ci riesca. Ma non voglio tornare indietro. Non che io abbia qualcosa contro la terapia. So che aiuta molte persone ed è veramente un’ottima cosa e tutto il resto. Semplicemente, non è qualcosa adatto a me. Andare in terapia significa essere onesti. Funziona solo se sei sincero con te stesso e con il tuo terapista, ma onestamente l’essere onesti non è un mio grande punto di forza.

“Okay,” dice e mi sento esausto tutt’un tratto.

Aspetto che mi dica di essere in punizione o qualcosa del genere. Aspetto che mi dia un coprifuoco o dirmi di tornare dritto a casa da scuola. Non lo fa, però. Mi guarda e basta e mi ci vogliono alcuni secondi per realizzare che la tristezza nei suoi occhi è probabilmente a causa mia.

Mi siedo di nuovo sul divano perché mi sento come se mi avessero appena dato un pugno sullo stomaco. Deglutisco a fatica il nodo alla gola e il mio stomaco si contorce a disagio. Mi sento a corto di fiato e non so nemmeno il motivo.

“Okay,” dico e la mia voce si spezza nel bel mezzo della parola. “Okay, come vuoi. Non m’importa.”

Jean aggrotta la fronte, ma non dice nient’altro. Si alza in silenzio, raccogliendo la coperta. Si ferma quando raggiunge il divano e penso stia per dire qualcosa. Non lo fa, però, ed è solo quando la porta della sua stanza si chiude che riesco di nuovo a respirare.
 
***
 
Lunedì, 09:18. Sono nella classe di inglese, scarabocchiando pigramente il mio quaderno. Non sono un così bravo artista. A essere onesti, non so disegnare proprio niente. Ma fingere di essere interessato agli scarabocchi è un’alternativa migliore rispetto al guardare il professor Smith fino a che non mi comincia la lezione.

La porta si apre e altri studenti varcano la soglia, ma io resto concentrato sui miei disegni. Sento alcune paia di scarpe sgocciolare sul pavimento, ma le ignoro; piove da quando mi sono svegliato e so che oggi sarà orribile camminare tra i corridoi.

Un’ombra appare sul mio banco. Non alzo lo sguardo perché so già di chi si tratta. Aspetto che dica qualcosa, anche solo un semplice saluto, ma non dice nulla. Lo sento sedersi sulla sedia e comincia a sfogliare il suo quaderno. La mina della matita si spezza. La guardo con stupore e realizzo quanto forte la stavo stringendo. La lascio cadere sul banco e lancio la punta spezzata per terra. Premo la parte superiore in modo che esca il piombo e sospiro tranquillamente.

La campanella suona e deglutisco il gusto aspro che sento in bocca. La lezione del professor Smith sembra non passare mai. Non so se è perché l’argomento mi annoia terribilmente o per via degli occhi che sento puntati su di me, ma mi ritrovo a guardare l’orologio più spesso del solito. Voglio solo che la lezione finisca.

Quando finalmente accade, metto il quaderno nello zaino e mi alzo in piedi. Levi mi intercetta velocemente e si ferma di fronte a me in modo da impedirmi di raggirarlo. Sollevo un sopracciglio e aspetto che parli.

“Dobbiamo parlare,” comanda.

“Perché dici?” Chiedo. È più facile per me fare il finto tonto. Fingere permette alle persone di evitare un confronto. Sono un grande fan di questa tecnica, anche se irrita terribilmente chiunque.

“Parliamo,” risponde con calma Levi.

“Okay,” dico, sorpassandolo. Lo sento seguirmi dietro di me. “Parliamo.”
 
***
 
Io e Levi ci incontriamo durante educazione fisica. Vedo Marco e alcuni altri ragazzi dedicarci strani sguardi quando ce ne andiamo insieme, ma li ignoro e guido Levi verso il retro del campo.

Finiamo attaccati dietro le tribune. Fa troppo freddo per restare all’esterno, ma non abbiamo altra scelta. Non ci sono posti dove un diciassettenne può restare da solo. Se non ci sono i genitori, allora ci sono insegnanti e amici e dio solo sa chi altro.

Appoggio la testa contro le tribune e sento l’improvviso bisogno di fumare una sigaretta. Non ho mai fumato in vita mia, in parte perché odio l’odore e in parte perché tutti romanticizzano il fumo fino a farlo risultare ridicolo. Non è proprio l’azione di fumare in sé che voglio, ma più che altro l’avere qualcosa in bocca. Non posso dire nulla di stupido se fumo. Mi dà qualcos’altro da fare piuttosto che dare via libera alla mia bocca. A volte dico delle cose davvero stupide. Sarebbe carino smettere, immagino.

Levi interrompe il filo del mio discorso schiarendosi rumorosamente la gola. Alzo lo sguardo verso di lui e noto che la ricrescita non si nota più così tanto.

“Ti sei tinto i capelli,” dico. Mi dedica uno sguardo perplesso e indico la sua testa. “Non si vede più la ricrescita.”

Levi sbatte le palpebre lentamente prima di sbuffare.

“Sei letteralmente l’unica persona che puntualizzerebbe una cosa del genere.” Scuote la testa; io sollevo le spalle.

“Stai bene. I capelli biondi ti donano.”

“Sono biondo da un po’ ormai, sai.”

“Vero, ma mi piace ancora.” Scrollo le spalle e allungo le gambe.

Levi mi guarda per un po’ di tempo prima di girare la testa altrove. Le mani sono intrecciate sulle ginocchia e, quando lo osservo più da vicino, noto quanto forte le sta stringendo. Non so perché, ma mi ritrovo ad allungare la mano per toccarle. Le sue dita sono fredde come il ghiaccio, anche se sono sicuro che le mie non sono molto meglio al momento. Sciolgo le dita tra loro fino a quando le sue mani non allentano la presa sulle ginocchia.

Non dico niente e nemmeno lui.

“Mi dispiace.”

Mi giro con sguardo confuso.

“Per cosa?”

“Per venerdì. Per come mi sono comportato, voglio dire.” Si gratta il collo. “Non so spiegare perché mi sono comportato in quel modo. Mi dispiace tanto.”

“Non devi scusarti. Ma va bene, accetto le tue scuse.”

Preme le labbra in una linea sottile e non risponde subito. Le sue sopracciglia sono solcate e lo guardo alzare una mano per passarsela sui capelli. Lo fa molto spesso. Immagino sia un’abitudine o qualcosa del genere.

“È stato molto infantile da parte mia,” continua e ho la distinta impressione che voglia dire qualcos’altro, ma non sa come potrei reagire.

“Vuoi chiedermi qualcosa.”

“Beh, sì, voglio chiederti molte cose,” risponde. “Ma non sembra tu voglia rispondere neanche a una domanda.”

“Risponderò.”

“Non ti credo.”

“Lo giuro,” dico, avvicinandomi in modo da poterlo guardare senza farmi venire il torcicollo. “Lo giuro su dio.”

“Questo non significa niente.”

“Va bene, lo giuro sulla mia vita,” dico. Gli allungo persino la mano affinché la stringa. “Ti lascerò chiedermi quello che vuoi e io ti risponderò in modo soddisfacente.”

“Allora va bene.” Afferra la mia mano per stringerla in modo svelto. “Qualunque cosa, giusto?”

“Questo è ciò che ho detto, sì.”

“Bene.” Annuisce e si lecca una volta le labbra. “Quanti anni ha?”

“Nick?” Quasi rido, ma poi decido che non sarebbe andata a finire bene se lo avessi fatto. “Ti piace molto questa domanda.”

“Porca puttana Eren-”

“Che c’è? Ora rispondo.” Ruoto gli occhi e ignoro lo sguardo irritato che ha sul volto. “Ventiquattro.”

“Ventiquattro?” Esclama Levi. “Mi stai prendendo per il culo, vero?”

“No. Ho detto che ti avrei risposto onestamente,” dico come nulla fosse .

“Porca miseria.” Levi scuote la testa. Ora mi ricorda Nick, ma decido di tenermi il pensiero per me stesso. “D’accordo. Prossima domanda.”

“Spara.”

“Come l’hai conosciuto?”

“Era un amico di mia sorella,” rispondo. Non è una bugia.

Levi assottiglia gli occhi.

“Non sapevo avessi una sorella.”

“È morta.”

“Merda, scusa.”

“Non preoccuparti. Anch’io ho detto così di tua madre. Siamo pari ora.”

“Non me lo ricordo.”

“Non importa, allora. Prossima.”

“Hai mai… voglio dire, voi due…” Levi ora è arrossito e questo rende la situazione piuttosto esilarante. È raro vederlo arrossire. È calmo e composto per la maggior parte del tempo. Mi scrivo una nota mentale di imbarazzarlo di più d’ora in poi.    

“Se abbiamo scopato?”

“Non era quello che volevo chiedere,” dice, sembrando irritato.

“Okay. Se stiamo insieme?” Provo ancora. Levi preme le labbra in una linea sottile e rimane in silenzio. “No, non lo siamo.”

Sembra rilassarsi ora. Lo fisso per un paio di minuti prima di sbuffare.

“Ti dà fastidio?”

“Cosa? Che state insieme?”

“Non stiamo insieme,” ripeto. “E no, intendevo dire se il mio leccare cazzi fosse un problema.”

“Hai praticamente detto che saresti venuto a letto con me. Pensavo di aver già chiarito il fatto che ti piaccia il cazzo.”

“Ehi, ho detto che avrei voluto portarti a letto finché non ti ho conosciuto. Questo vuol dire che l’offerta ormai è scaduta. Non dimenticartene,” gli ricordo, sorridendo. Levi rotea gli occhi.

“Santo cielo, sei pazzo.”

“Ci provo,” dico. Mi distendo sulla schiena e osservo il cielo. È grigio e nuvoloso; mi chiedo se pioverà di nuovo. L’erba è bagnata e posso sentire l’umidità impregnarmi i vestiti. Chiudo gli occhi e lascio che l’aria fredda mi solletichi il viso.

“Okay. Questo era tutto quello che volevo sapere.”

Spalanco gli occhi per guardarlo. Sta fissando qualcosa in lontananza.

“Sei sicuro?”

“Sì.”

“Okay,” dico. “Non aspettarti che una cosa del genere succederà di nuovo. Accade solo una volta all’anno.”

“Come preferisci,” risponde e c’è una strana nota nella sua voce che mi fa sollevare la testa per vederlo meglio. “Cosa c’è?”

“Nulla. Quindi, qual è la tua storia?”

“Di che cosa stai parlando?”

Sollevo le spalle e torno a distendermi.

“Sto solo dicendo che non è giusto che sia solo tu a fare delle domande.”

“Questa cosa non riguardava me.”

“Ma potrebbe,” dico, alzando un sopracciglio. “A meno che tu non sia così insipido da non avere nemmeno una storia succosa da raccontare.”

“Non tutti bevono birra con un ventiquattrenne e sgattaiola di casa ogni sera.”

“Ooh, abbassa la cresta, amico.”

“Non chiedo scusa.”

Sorrido e mi siedo, spingendo il suo piede con il mio. Quando alza un sopracciglio verso di me, mi protendo in avanti.

“Non preoccuparti. So mantenere un segreto.”

“Ne sono sicuro,” annuisce, appoggiando indietro la testa e chiudendo gli occhi. Sembra sereno, totalmente in pace con il mondo.

Lo osservo per un po’ di tempo fino a quando non apre lentamente gli occhi.

“Tre domande. È tutto ciò che ti concedo.”

“Tre? Sei serio?”

“Due ora.”

“Non fare lo stronzo, questa non conta.” Dico, spingendolo. Lui ridacchia e gira lo sguardo verso di me.

“Ti ho fatto tre domande e quindi tu puoi chiedermene tre. Sbrigati prima che cambi idea.”

Tre domande, d’accordo. Mi appoggio ancora all’indietro e ci penso seriamente per un momento. Cosa esattamente voglio sapere? Non lo conosco bene abbastanza da chiedergli qualcosa. Non abbiamo mai parlato delle nostre vite personali o cose del genere. Finalmente mi viene in mente qualcosa.

“Ti ricordi quando ti sono venuto addosso in strada?” Chiedo. Levi corruga le sopracciglia prima di annuire lentamente.

“Quando ti sei grattato il mento e stavi sanguinando ovunque?”

“Esatto,” rispondo, ruotando gli occhi.

“Oh, allora sì,” replica. “Cosa c’è?”

“Chi ti ha fatto il succhiotto?” chiedo.

“Succhiotto?”

“Già, avevi un succhiotto,” sostengo. “L’ho notato, ma non ho detto niente.”

“Seriamente? È questo quello che vuoi sapere? Pensavo fosse un’offerta scaduta.”

“Non sono geloso, amico. Voglio solo saperlo.”

“Marco,” risponde finalmente. I miei occhi si spalancano.

“Whoa, davvero? Marco è l’ultima persona sessuale che conosco.”

“Non siamo andati a letto insieme!” Chiarisce Levi velocemente. Si schiarisce la gola e abbassa la voce. “Era un obbligo di Reiner. Eravamo ubriachi.”

Annuisco, soddisfatto.

“Okay, domanda numero due.”

“Sono pronto.”

“Cos’è successo a tua madre?”

Levi mi guarda velocemente. Lo guardo anch’io, aspettando una sua risposta. Stringe la mascella e abbassa la testa verso l’erba.

“Cos’è successo a tua sorella?”

“Te l’ho chiesto prima io.”

“Non voglio rispondere.”

“Okay,” dico, decidendo che fosse meglio non insistere. Mi sento una merda per aver rispolverato l’argomento. È un argomento molto personale, ma non ci avevo pensato chiaramente. Vorrei prendermi a pugni in faccia, ma forse non è una buona idea. “Penso di aver finito.”

Levi sembra sollevato dall’affermazione. Mi mordo il labbro e scuoto la testa.

“Mi dispiace. Non volevo.”

“Tranquillo,” risponde, ma la sua voce è ancora dura. Si alza in piedi e si pulisce i jeans con la mano. “Coraggio, andiamo. Sono sicuro di avere le palle congelate.”

Mi alzo lentamente e strofino le mani per generare un po’ di calore. Levi prende lo zaino e lo mette sulla schiena. Seguo il suo esempio e cammino dietro di lui, cercando di capire come si sente. Sembra a posto, ma so meglio di chiunque altro che le persone cercano sempre nascondere i loro veri sentimenti.

Mi costringo a distogliere lo sguardo e infilo le mani nelle tasche, sentendomi sempre più uno schifo a ogni passo.
 
***
 
Martedì, 14:23.

Sono davanti al mio armadietto in procinto di mettere via la roba quando vedo Bertholdt nel corridoio con la coda dell’occhio. Sembra diverso, ma non so dire esattamente il perché. Fisicamente è lo stesso di sempre. È sempre alto e sembra che possa svenire da un momento all’altro. Ma nonostante questi segnali di apparente normalità, c’è definitivamente un’aria differente attorno a lui e mi chiedo se ha qualcosa a che fare con il suo ritiro dalla squadra di football.

Mi muovo prima di potermi fermare.

“Ehi,” dico casualmente.

Bertholdt sembra sorpreso di vedermi. Si guarda attorno prima che i suoi occhi si fermino su di me.

“Ciao, Eren,” mi saluta lentamente. Infila nello zaino il suo libro e continua a guardarmi incredulo. “Che succede?”

“Non molto,” rispondo onestamente. “Ti ho visto e ho pensato di salutarti.”

Bertholdt chiude il suo armadietto gentilmente e alza lo sguardo verso il mio.

“Levi te l’ha detto, giusto?”

“L’ha fatto,” rispondo.

“…È arrabbiato?”

“Non con te,” dico velocemente, notando quanto siano tese le spalle di Bertholdt. “È solo arrabbiato perché non se n’è accorto prima.”

“Nessuno ci sarebbe riuscito,” risponde Bertholdt e mi accorgo della nota amara che ha assunto la sua voce. “L’ho nascosto bene.”

“Va tutto bene, sai,” dico, allungando il braccio per stringergli fermamente la spalla. “Sono fiero di te.”

Bertholdt abbassa gli occhi verso di me con un’espressione che non riesco a decifrare prima di ridere sommessamente. “Diciamo che mi hai ispirato.”

“Lo vedo. Sono contento che tu abbia seguito il mio consiglio,” dico. “Ehi, ti va di andare da qualche parte?”

“Andare da qualche parte?” Ripete Bertholdt, spalancando gli occhi. “Intendi dire adesso?”

“Già. A meno che tu non abbia altri piani.”

“Non ne ho,” risponde. Dà un colpetto alla tasca dei suoi pantaloni. “Non ho la macchina, però.”

“Nessun problema. Mi piace camminare,” dico. Decido di non menzionare che qualche volta non sopporto andare in macchina.

Bertholdt annuisce ancora e si sistema lo zaino. Usciamo dell’edificio e verso la strada. Oggi non piove e l’aria è leggermente più calda. Noto che le foglie stanno cambiando colore e mi ritrovo a osservarle mentre camminiamo.

“Sai perché mi sono unito alla squadra?” Chiede a bassa voce. Riesco a malapena a sentire quello che sta dicendo.

“L’hai fatto per Reiner, giusto?” Chiedo.

Bertholdt annuisce.

“È stato il mio unico vero amico. Non sono bravo con le personee le nostre madri si conoscono da anni. Ci siamo conosciuti così. Fa abbastanza schifo, però.”

“Perché?” Chiedo curiosamente. Bertholdt solleva le spalle.

“Non l’ho conosciuto da solo. Era come se dovessimo essere amici perché lo erano anche le nostre madri.”

“Non penso sia così,” dico. Bertholdt scuote la testa.

“A volte sembra di sì. Sono sicuro che l’hai notato anche tu, Eren. Reiner non mi parla poi così tanto. Se non fosse stato per la squadra di football, credo che si sarebbe dimenticato della mia esistenza.”

Percepii il cuore dolere alle sue parole. Mi sentivo male per Bertholdt. Fa schifo pensare che a Reiner sarebbe importato di lui solamente se fosse stato in piedi davanti a lui tutto il tempo.

“È una testa di cazzo.”

“Non ti piace.”

“Non molto, no,” ammetto. “È un falso di merda, sai? Sembra che provi disperatamente a comportarsi in una certa maniera per potersi sentire accettato. Cazzate come questa mi irritano. Non sopporto quando le persone non riescono a comportarsi come sono davvero.”

Bertholdt riflette per qualche minuto.

“Immagino,” risponde finalmente. “Ma hai visto solo una parte di lui, Eren. Lui non è così. A volte riesce anche a essere gentile.”

“Già, quando ha voglia di scopare,” sbuffo. “So che l’hai visto giocare le sue carte su qualche povera e innocente ragazza.”

Bertholdt sussulta e resto zitto per un secondo. E per questo secondo, penso che Bertholdt sia arrabbiato perché sto praticamente tirando merda addosso a Reiner, ma poi realizzo che non è così.

“Voi due siete andati a letto insieme o è successo altro?” Mentre pronunciavo la domanda, volevo subito rimangiarmela.

Bertholdt annuisce una volta.

“Lui era ubriaco,” dice. “Lo eravamo entrambi. Eravamo a una festa a casa sua. Avevamo vinto una partita contro Trost e tutti erano entusiasti. E… beh, non lo so. È piuttosto difficile ricordare com’è cominciato. Il giorno dopo mi sono svegliato nudo e con un gran mal di testa; ho capito piuttosto in fretta cos’era successo.

“Hai una cotta per lui,” sussurro. “Vero?”

“Più o meno. Una volta era peggiore. Eravamo al secondo anno. Da allora è andato tutto meglio, penso.”

“Lui si ricorda?”

“Non lo so. Non gliel’ho mai chiesto.” Bertholdt deglutisce a fatica. “Già non ci parliamo molto. Avevo paura che se avessi detto qualcosa si sarebbe arrabbiato. Non volevo perderlo.”

Di solito sono bravo a riempire il silenzio, ma onestamente questa volta non so cosa dire.

“Una volta ero amico di Historia,” mi ritrovo a dire. “Eravamo davvero affiatati. Ci siamo conosciuti alle scuole medie e dal quel momento siamo stati inseparabili.”

“Cos’è successo?” Chiede Bertholdt.

“Avevo cominciato a bere e andare a letto con sconosciuti,” dico. “A Historia tutto questo non piaceva. Voleva che smettessi perché aveva paura che avrei fatto qualcosa di cui mi sarei pentito, specialmente perché… beh, diciamo che le cose non mi stavano andando così bene, in quel periodo. Ha continuato a provare ad aiutarmi e io ho continuato a respingerla. Immagino si sia stancata. A volte la vedo per i corridoi e mi ricordo come eravamo appena qualche anno fa. Ma ormai è troppo tardi.”

Non so perché gli sto raccontando tutto questo. Forse voglio che lui capisca che non è da solo e che lui ha qualcuno accanto.

“Hai provato a parlare con lei?” Scuoto la testa.

“Nah. Ho semplicemente pensato di lasciar perdere. Non voglio ferirla più di quanto ho già fatto.”

“Penso che le farebbe piacere se ci provassi,” sussurra. “A volte devi prendere tu l’iniziativa.”

Mi obbligo a non sbuffare alle sue parole.

“Cominci a sembrare me.”

Lui solleva le spalle.

“Mi hai aiutato davvero l’altra sera,” dice. “È stato davvero difficile, sai? Pensavo di amarlo. Sembra io sia pazzo perché avevamo solo quindici anni quando è successo e ho passato due anni a ripetermelo. Nessuno sa cosa sia l’amore a quell’età. Sei solo uno stupido moccioso.”

“Forse,” mormoro. “Penso che tu ti possa innamorare quando vuoi, però. Sono sentimenti tuoi, no? Se scegli di etichettare i sentimenti come amore, allora buon per te; se invece non lo fai, va bene lo stesso.”

“Non l’ho mai pensata in questo modo,” ammette. “A quell’età tutti cercano sempre di sminuire quello che provi. Penso di aver fatto la stessa cosa con me stesso. Quando ho visto tutte quelle persone ho capito che nessuno era venuto lì per me, ma erano presenti solo per Reiner, mi ha fatto stare male. Penso sia stato allora che ho smesso di ripetermi che lo amavo. Voglio dire, mi importa ancora di lui. Saremo sempre amici. Ma ho smesso di vederlo in modo romantico. Non penso sarei riuscito ad andarmene senza il tuo aiuto. Quindi grazie. Davvero.”

Sono un po’ sorpreso. Lo fisso per qualche istante prima di sorridere.

“Ovviamente. Ti aiuterò ogni volta che ne avrai bisogno. Sul serio.”

Bertholdt sembra sorpreso prima di sorridere.

“E io farò lo stesso con te.”

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 8

 
Levi

Domenica, mio padre chiama.

Ha cominciato a chiamare quattro mesi fa. Per il mio stesso bene, fingo che le sue telefonate non abbiano nulla a che fare con la morte di mia madre. È solo una coincidenza che casualmente ha avuto inizio nello stesso periodo.

Il pensiero, però, mi conforta e non riesco a non sentirmi un po’ triste. Di mio padre so solo che si chiama Michael, è sposato e ha un figlio di dieci anni di nome Samuel. Sua moglie mi odia e il ragazzino si avvinghia sempre a me quando mi vede. Mi sento sempre spossato dopo averlo visto.

Michael dice che mi vuole vedere e ignoro le grida emozionate di Samuel in sottofondo. Sento la voce della moglie, liscia come il miele, e digrigno i denti.

Le mani tremano durante tutto il tragitto fino a casa sua. Accosto a metà strada per riprendermi. Premo la testa contro il sedile dell’auto e prendo dei respiri profondi per calmarmi. Quando credo che l’imminente attacco di panico sia svanito, grido.

Quando arrivo, la moglie di Michael apre la porta. L’ho vista solo tre volte, quindi non mi preoccupo del fatto di non ricordarmi il suo nome.

“Ciao,” dico bruscamente e sbircio da sopra la sua spalla verso la casa. “C’è Michael?” Non l’ho mai chiamato papà. Per quanto mi riguarda, io non ho un padre.

“È nel suo ufficio,” risponde, anche lei brusca.

Annuisco ed entro in casa. Non mi tolgo le scarpe. Sono fottutamente ricchi, dopotutto. Non importa se sporco i loro immacolati tappeti bianchi.

“Levi!”

Prima di potermi muovere, un paio di braccia mi circondano strette la vita. Mi irrigidisco alla presa, fissando un ammasso di capelli scuri contro il mio stomaco. Mi muovo a disagio, ma Samuel non sembra afferrare il concetto.

“Ehi, ragazzino,” mi sforzo di dire. Mi accovaccio un po' in modo che le nostre facce siano allo stesso livello. Gli arruffo i capelli e gli dedico un sorriso sforzato. “Come stai?”

“Bene-”

“Sammy? Perché non lasci che tuo fratello si accomodi? Dopo potrai parlargli quanto vuoi,” la moglie di Michael afferra protettivamente di piccole spalle di Samuel e lo allontana da me.

Resisto al bisogno di correggerla. Samuel è il mio fratellastro. Ma so che Samuel ci rimarrebbe male se dovessi specificarlo, quindi assottiglio le labbra e mi rialzo.

“Ci vediamo dopo, okay?” Dico, sorridendogli. “Te lo prometto.”

Il broncio di Samuel non sparisce. Mi sforzo di guardare altrove e mi dirigo verso le scale silenziosamente. Entro in molte stanze differenti visto che non ho mai visto l’ufficio di Michael prima d’ora. Dopo un altro paio di tentativi, lo trovo alla fine del corridoio.

“Ehi,” stacca gli occhi dal computer per dedicarmi un distratto sorriso. “Sei venuto.”

Sollevo le spalle e resto fermo sulla soglia della porta, i miei occhi si soffermano sulle fotografie incorniciate di lui e la sua… famiglia. Un sapore amaro mi riempie la bocca.

“Me l’hai chiesto tu,” mormoro. Michael si agita sulla sedia. Questa scricchiola e lo guardo.

“Oh, giusto,” annuisce, indicando una delle sedie di fronte alla sua scrivania. “Siediti.”

Mi siedo rigidamente e scivolo all’indietro, le gambe distese di fronte a me.

“Samuel è ancora piuttosto piccolo,” dico tanto per fare conversazione. “Tua moglie mi odia ancora. Immagino il mondo vada avanti alla perfezione, dopotutto.”

“Di cosa stai parlando?”

“Andiamo,” mi avvicino con il busto, assottigliando gli occhi. “Non mi hai chiesto di venire perché volevi vedermi. Mi hai chiamato perché mia madre è morta e stai fingendo che te ne importi qualcosa.”

Michael mi lancia un’occhiataccia.

“Mi è sempre importato.”

“Cazzate,” sbotto, appoggiando la schiena sulla poltrona. È comoda, ma per qualche motivo è scomoda. “Una cazzata enorme.”

“Sembri Kenny,” dice Michael. Il suono dei tasti della tastiera riempiono la stanza. Mi fa infuriare, ma mi mordo l’interno della guancia.

“Fottiti. Non sono per niente come lui.”

“Perché sei così arrabbiato, Levi?” Michael finalmente chiude il computer, intreccia le dita e ci appoggia sopra il mento, guardandomi. “Perché ti comporti così?”

Mi si forma un nodo in gola. Cerco di deglutirlo e fingere che le mie emozioni non abbiano preso il sopravvento. Anche se è troppo tardi. Michael ha già visto abbastanza.

“Nessun motivo,” dico con tono piatto, spostando l’attenzione sulle mie scarpe. “Sono a posto.”

“Okay,” risponde, schiarendosi poco dopo la gola. “Come stai gestendo la situazione?”

“Bene.”

“Vai in terapia?”

“No.”

“Il dottore ha detto che ti farebbe bene.”

“Dottore?” Alzo lo sguardo su di lui a questa frase. “Come cazzo hai-”

“Kenny mi ha contattato.”

“E per quale cazzo di motivo? Non abbiamo soldi per cose del genere,” mormoro. “Perché avrebbe dovuto chiamarti? Non ti è neanche mai importato. Sei salpato su una nave prima ancora che io nascessi. Perché diavolo dovrebbe coinvolgerti?”

Michael si agita sulla sedia.

“Sono comunque tuo padre,” dice a voce bassa. “Non ero pronto al tempo, Levi. Non potevo-”

“Non volevi fare da padre al figlio di una puttana,” sputo, scuotendo la testa. “Perché non lo ammetti e basta, invece di rifilarmi le stesse futili scuse?”

Se fossi stato in uno stato mentale migliore, non avrei imprecato così tanto. Ma non lo sono, ed è molto più facile così rendere chiaro il mio comportamento, facendo capire che non voglio essere qui e fingere che tutto vada a meraviglia.

“Non è una scusa, Levi,” Michael sembra stanco, ma non mi importa minimamente. “Questo è ciò che ho provato allora. Avevo solo vent’anni. Frequentavo ancora l’università. Riuscivo a malapena a mantenermi e pagare l’affitto ogni mese.”

“Nemmeno mia madre ci riusciva,” ribatto. “Riuscivamo a malapena a sopravvivere. Ha perso molto clienti visto che sembrava così malata e nessuno vuole scoparsi qualcuno pelle e ossa.”

Mi fermai, cercando di ricordarmi come respirare. Non ne ho mai parlato con nessuno, nemmeno con Kenny, visto che non abbiamo quel tipo di legame dove ti apri ed esponi le tue insicurezze ed emozioni.

“Tu lo sapevi, però… vero? Voglio dire, quanto può essere benestante una prostituta?”

“Volevo aiutare,” dice Michael, il suo tono sembra spezzarsi sempre di più e il retrogusto del trionfo mi invade il palato. “Tua madre era orgogliosa, però. Non volle accettare il mio aiuto. Ci ho provato per tanto tempo. Dopo un po’ ha bloccato il mio numero e non l’ho più sentita.”

Alzo le spalle.

“È facile ora starci male,” dico. “Ti fa sentire meno schifoso, vero? Scommetto che riesci a trovare sempre una nuova scusa che giustifichi il tuo abbandono. Mia madre avrebbe potuto fare lo stesso, sai. Avrebbe potuto dire che era troppo giovane e lasciarmi morire sul ciglio della strada. Ma non l’ha fatto. Si è presa le sue responsabilità. Immagino fosse troppo chiederti di farlo anche tu.” A questo punto mi alzo in piedi. Non c’è altro da dire. Non ho alcun motivo per stare qui un minuto di più. “Non richiamare,” aggiungo. “Non ho alcun interesse nel rivederti. Stammi lontano, hai capito? Tanto sappiamo entrambi che ti riesce a meraviglia.”

Non resto per vedere la sua espressione. Cerco di ignorare le mani tremanti e mi dirigo al piano di sotto. Samuel è seduto sul primo scalino. Sta giocando con una piccola palla tra le mani; solleva lo sguardo quando mi sente avvicinarmi.

“Hai finito?” urla contento, gli occhi spalancati e luminosi. “Vuoi giocare con me ora? Ho un nuovo videogioco e-”

“Non posso,” sussurro. Parte di me vorrebbe odiare Samuel, considerando che la sua vita è piena di affetto e ogni possibile comodità con un padre che non lo ha mai abbandonato, ma non ci riesco. È solo un bambino. Non c’entra nulla in tutto questo. Mio padre è il problema, non lui.

“Levi,” la moglie di Michael parla con voce atona. “Puoi restare un’ora. Dopo puoi andare.”

“Non so se sia una buona idea,” dico. Sento le scale scricchiolare e capisco che mio padre è dietro di me.

“Solo per questa volta,” interviene Michael. Non mi giro per guardarlo.

“Okay,” borbotto. Samuel sta praticamente vibrando dalla contentezza.

“Davvero? Grandioso!” Grida. Si lancia verso di me correndo su per le scale. “Possiamo andare in camera mia!”

Lo seguo seccamente. Samuel apre la porta della sua stanza e salta sul suo grande e comodo letto.

“Che tipo di giochi ti piacciono?” Chiede. Scuoto la testa.

“Non gioco molto ai videogiochi,” ammetto. Samuel sbatte gli occhi, curioso.

“Perché no?”

“È difficile con scuola, impegni e tutto il resto,” mento. Non posso dirgli che non ho mai avuto i soldi per comprare dei giochi.

“Oh,” risponde Samuel. “Che classe fai?”

“Sono all'ultimo anno,” rispondo. “Il prossimo autunno cominciò l’università.”

“Wow,” Samuel sembra esserne colpito. Non resisto alla tentazione di allungare la mano e scompigliargli i capelli. Ridacchia e riesce a schivare l’imminente arruffata. “Quindi sei quasi un adulto, giusto?”

“Presto,” rispondo, annuendo.

Samuel si concentra sul gioco poco dopo. Cerca di farmi prendere in mano il controller e giocare un paio di volte, ma scuoto la testa. Non ho il desiderio di perdere contro un ragazzino di dieci anni.

“Levi?” Chiede dopo che siamo stati seduti in silenzio per un po’. Lo guardo.

“Mhm?”

“Perché non piaci alla mia mamma?” Chiede. Abbandona il gioco così da potermi guardare dritto in viso. Deglutisco con fatica.

“Cosa vuoi dire?” evito la domanda. “Alla tua mamma piaccio.”

“Non penso sia vero,” dice Samuel, sedendosi sulle ginocchia. “Quando te ne vai, lei e papà urlano. Lo fanno spesso.”

“Urlare?” Samuel annuisce.

“È spaventoso. L’ho detto a una mia amica e lei ha detto che quando i suoi genitori urlavano spesso, poi hanno divorziato. Ha dovuto trasferirsi per vivere con sua mamma.”

“I tuoi genitori non divorzieranno,” rispondo, cercando di rassicurarlo. “Magari possono arrabbiarsi ogni tanto, ma si amano.”

Fa male dire queste parole, ma devo respingere qualsiasi emozione per il bene di Samuel. Dopo un po’, sembra essersi calmato.

“Okay,” sussurra, guardandosi le mani.

“Samuel?” lo chiamo, ma non risponde. “Ehi, Sammy. Guardami.”

Alza lo sguardo.

“Cosa c’è?”

“Non preoccuparti, va bene?” Dico. “Non ha nulla a che fare con te. È qualcosa che devono risolvere loro due. La cosa migliore che puoi fare è mantenere la testa alta e non lasciare che tutto questo ti travolga.”

“Va bene,” risponde. Afferra un filo scucito della coperta. “Levi?”

“Dimmi.”

“Perché non vivi con noi? Sei mio fratello, no?”

“Sì,” confermo. “Ma ho una famiglia mia. Devo stare con loro così non si sentono soli.”

“Davvero?” Annuisco.

“Già. Ma se potessi scegliere, mi piacerebbe vivere con te,” dico, sorridendogli.

“Potremmo giocare insieme ai videogiochi!” risponde, emozionato all’idea.

“Puoi scommetterci,” affermo. “Sarebbe divertente.”

Il mio sorriso comincia a scomparire. Samuel mi guarda negli occhi e si acciglia.

“Levi,” comincia a parlare lentamente. “Io non ti rivedrò più, vero?”

“Huh?” chiedo. Lui si chiude su sé stesso.

“Scusa,” dice d’un fiato. “Ci stavi mettendo tanto in ufficio e volevo sapere perché. Quindi sono venuto a chiamarti e ti ho sentito litigare con papà.”

“Oh, Sammy,” borbotto con voce soffocata. Lacrime invadono i suoi occhi e improvvisamente mi sento uno stronzo. “Sammy, mi dispiace che tu abbia dovuto sentirlo.”

“Il mio papà è una cattiva persona?” Chiede velocemente.

“No, piccolo,” rispondo, deglutendo. “Ha solo fatto un errore, ecco tutto. Non è una cattiva persona.”

“Le persone cattive fanno cose cattive, però,” sostiene.

“Anche le persone buone,” continuo. “Anche se questo non vuol dire nulla.”

Asciugo delicatamente le lacrime con il pollice e lui accompagna la testa al tocco della mia mano, il suo corpo trema quando singhiozza.

“Ascoltami, okay?” insisto. “Come hai sentito, non verrò più qui. Ma non è a causa tua, di tuo padre o di chiunque altro, hai capito? È qualcosa che devo fare per me stesso.”

“Non voglio che te ne vada,” dice cercando di soffocare i singhiozzi. “I miei genitori non vogliono un altro figlio. Papà dice che uno è sufficiente, ma mi sento sempre così solo.”

Un figlio, huh? In realtà ne ha due, ma scuoto la testa in rassegnazione.

“Ma hai degli amici, giusto?”

“Non è la stessa cosa,” risponde lui. “Quando torno a casa loro non possono venire con me. Sono da solo. Papà è sempre impegnato e mamma non vuole mai passare del tempo con me. Non ho nessuno.”

Si avvicina e nasconde il viso contro il mio petto. Mi blocco, poi avvolgo la sua piccola e tremante figura con le braccia. Percepisco le sue lacrime bagnarmi la camicia e mi sento un incapace.

“Sammy?” Lo chiamo. “Mi ascolti?”

“S-sì.”

“Tornerò per te,” comincio. “Un giorno, tornerò per te e andremo a prendere un gelato o qualcos’altro, ti va? Passeremo un’intera giornata solo io e te.”

“Prometti?” Samuel si ritira dal mio abbraccio, stringendomi le maniche, non ancora pronto a lasciarmi andare completamente.

“Sì,” rispondo onestamente.

“Giurin-giurello?” Allunga il suo piccolo mignolo da bambino verso di me.

“Giurin-giurello,” confermo, stringendo il dito al suo.

“Ora non puoi rimangiarti la promessa,” dice, tirando su col naso. “Devi tornare.”

“Lo farò,” rispondo. “Hai la mia parola, okay?”

“Okay,” sussurra. Sorrido e gli asciugo il viso con la manica della felpa che ho tolto prima.

“Niente più lacrime,” mormoro. “Va tutto bene.”

Annuisce rapidamente.

“Mi dispiace,” dice ancora. Scuoto la testa.

“Non hai fatto nulla di male,” lo rassicuro. Mi metto in piedi, il letto scricchiola al movimento. “Ora devo andare.”

Non dice nulla e mi segue fuori dalla sua stanza. Al piano di sotto, Michael e sua moglie stanno guardando la televisione. Gli occhi di entrambi sono su di me quando raggiungo la fine delle scale.

“Devo andare,” dico, grattandomi il retro del collo. “Devo fare delle cose.”

“D’accordo,” Michael si alza dal divano. “Ti accompagno all’entrata.”

“Non ce n’è bisogno,” sostengo, scuotendo la testa. Cammino verso la porta con Samuel dietro di me. Mi inginocchio alla sua altezza. “Ricorda quello che ho detto, va bene?”

“Contaci,” risponde e avvolge di nuovo le sottili braccia attorno la mia vita. Gli accarezzo la testa prima di allontanarmi.

“Ciao,” dico e mai nella mia vita questa parola mi era sembrata così irrevocabile.

Non guardo Michael o sua moglie quando esco. Rimangono in piedi dietro la porta come una perfetta foto di famiglia da incorniciare. Se montassero una staccionata bianca attorno al perimetro della casa, sembrerebbe uscita da un film.

Samuel mi saluta ampiamente col braccio mentre entro in auto. Evito di guardare indietro a ogni costo e faccio partire la macchina, allontanandomi dal vialetto. La mia mente viaggia un chilometro al minuto. Accosto a un certo punto della strada e appoggio la testa contro il volante.

Penso a Isabel e Farlan e non cerco nemmeno di fermarmi. Più di qualsiasi altra cosa, vorrei fossero qui con me ora. Mi avrebbero aiutato. Isabel se ne sarebbe uscita con uno dei suoi elaborati e pazzi piani per rapire mio padre mentre Farlan le avrebbe ricordato che passare il resto dei nostri giorni in prigione non era un opzione da prendere in considerazione. Poi, probabilmente, saremmo andati a vedere un film al cinema oppure avremmo semplicemente parlato di tutto e niente per ore.

È facile fare finta di essere rimasto intoccato dalla fine della nostra amicizia. Ma in realtà, non è così. Mi avevano visto faticare a stare in piedi perché non mangiavo da tre giorni, ma non mi hanno mai giudicato. A loro non interessava cosa faceva mia madre per vivere. A loro non è mai importato se non avevo l’ultimo videogioco uscito o vestiti firmati. A loro importava solo di me.

“Fanculo,” sussurro, anche se sembrava l’avessi detto a voce più alta nel silenzio della macchina.

Improvvisamente, realizzai qualcosa. Strinsi il volante e mi concentrai abbastanza per portarmi alla mia destinazione tutto intero. Salgo gli scalini sotto il portico e suono il campanello, spostando il peso da un piede all’altro.

La porta si apre e vedo lo stesso ragazzo dell’altra volta. Jean, o qualcosa di simile, credo. Indosso il mio miglior sorriso, quello affascinante che tutti amano, e provo a fingere di non star cadendo a pezzi.

“Eren è in casa?”

“Dovrebbe,” risponde e riesco a sentire un lieve tono amaro nella sua voce. Decido di non chiedermi il motivo. “Entra.”

Faccio un passo avanti e pulisco le scarpe sullo zerbino. Jean va al piano di sopra e posso sentire la camuffata conversazione che stava avendo luogo. Poi Eren scende le scale seguito da Jean.

“Ehi,” saluta Eren, sembrando sorpreso.

“Ehi,” saluto anch’io. Sposto lo sguardo su Jean. “Abbiamo un progetto di fisica da completare. Avevo detto a Eren di incontrarci, ma immagino se ne sia dimenticato.”

Rimango sorpreso da quanto facilmente la bugia mi esce dalle labbra. Jean assottiglia gli occhi e lancia un’occhiata a Eren, che mi sta guardando con stupore.

“Già,” scuote la testa velocemente, sembrando dispiaciuto. “Scusa, amico.”

“Tranquillo,” dico. Poi guardo di nuovo Jean. “Se per lei va bene, preferirei andare in biblioteca. Ci sono alcuni libri che vorrei consultare. E ho pensato che avremmo lavorato meglio lì.”

“Certo, credo,” mormora Jean. I suoi occhi si fermano di nuovo su Eren. “Torna a casa per cena, ci siamo capiti?”

“Sì, papà,” Eren borbotta seccato.

“Sono serio.”

Va bene,” brontola Eren. “Cavolo.”

Jean sospira e annuisce una volta.

“Grazie,” gli sorrido. “Mi assicurerò di farlo tornare per all’ora.”

“Okay,” replica Jean. “Sta attento.”

“Lo sono sempre,” cinguetta di rimando Eren.

Usciamo di casa e faccio per aprire l’auto quando noto che Eren si è fermato sul marciapiede con le mani in tasca.

“Ho voglia di camminare,” spiega. Assottiglio gli occhi.

“Fa un freddo cane e tu vuoi camminare?”

Non sta nevicando,” insiste, come se il suo ragionamento avesse senso. “Camminare fa bene.”

“Porca miseria,” borbotto, ma metto in tasca le chiavi e lo accontento, cominciando a seguirlo.

“Non stiamo andando in biblioteca, vero?” Chiede Eren, le sue labbra si piegano in un ghigno. “Devo darti credito, eri parecchio convincente là dentro. Chi avrebbe mai immaginato potessi essere così bravo?”

“Oh, ma per favore,” mormoro. “Non era nulla di speciale.”

“Era qualcosa,” continuò Eren. “Devi insegnarmi i tuoi segreti.”

Sbuffo.

“D’accordo,” dico, solo per farla finita.

“Quindi dove stiamo andando?” Chiede Eren. Mi dà una gomitata sul braccio quando non rispondo. “Andiamo, dimmelo.”

“Hai fame?” Chiedo, ignorandolo.

“Uh, sì. Non ho ancora pranzato,” risponde. “Grazie comunque. Mia madre stava per fare le fettuccine con il pollo.”

“Ops,” rispondo di rimando, ridacchiando. “Ti piace il cibo cinese, vero?”
 
 ***
 
Finiamo allo stesso ristorante dell’altra volta. Eren ha ordinato gli gnocchi di maiale, mentre io ho scelto il pollo in agrodolce. Ci sediamo al mio solito tavolo e aspetto che Eren cominci a mangiare per farlo anch’io.

“Allora,” inizia, masticando lentamente. Beve un sorso dalla sua bevanda gasata e mi guarda. “Cos’è successo?”

“Perché credi sia successo qualcosa?” Chiedo di rimando, fingendo di essere interessato nel mettere del riso in bocca.

“Sei venuto a casa mia senza invito e ora stiamo mangiando cibo cinese,” dice, sollevando un sopracciglio. “È piuttosto strano.”

“Questo cibo è buono,” sostengo, incontrando i suoi occhi. “E poi, pensavo ti piacesse la mia compagnia.”

“Sicuro,” alza le spalle. A questo, mi acciglio.

“Cosa vuoi dire con sicuro?”

“Nulla,” mi dedica uno strano sguardo. “Qualcuno è permaloso, huh?”

“Scusa,” borbotto. Mi sento di cattivo umore tutto d’un tratto. Gioco con il cibo sul mio piatto per evitare il suo sguardo.

“Così male?”

“Huh?”

“Qualsiasi cosa sia successa, intendo,” spiega Eren. “Era così male?”

“No,” scuoto la testa. “È solo che… non lo so. Non volevo stare da solo.”

Gli occhi di Eren si spalancano. Mi accascio sulla sedia, osservando la sua reazione. Scuote la testa e ricomincia a mangiare.

“Quindi sei venuto da me.”

“Sì.”

“Anche se non siamo amici?” Sta ghignando di nuovo. Aggrotto la fronte e gli do un calcio sotto il tavolo.

“Esatto.”

“Mh,” annuisce, pensieroso. “Perché?”

“Non lo so,” dico velocemente. “Ma sto cominciando a pentirmene.”

Eren ride di cuore alla battuta. Un sorriso si fa strada sul mio viso e per una volta non è forzato.

“Penso di piacerti più di quanto tu voglia ammettere,” dice, fiducioso delle sue parole. “Per quale altro motivo cercheresti la mia compagnia?”

“Dammi tregua,” borbotto secco, ruotando gli occhi per enfatizzare il concetto.

“Allora,” striscia la parola Eren. “Hai intenzione di dirmi esattamente cos’è andato storto o no?”

“Ho rivisto mio padre,” dico. “Non lo vedevo da parecchio. Immagino abbia fatto riaffiorare sensazioni che non provavo da tempo.”

Non entro nei dettagli. Eren non insiste per averne altri.

“I padri hanno questo effetto sulle persone,” risponde.

“Dici?” Chiedo, sollevando un sopracciglio.

“Sì,” annuisce. “Il mio cerca di rimanere il meno coinvolto possibile. Si interessa solo quando va bene a lui.”

“Huh,” dico, sbuffando. “Mi suona familiare.”

Eren ghigna e solleva la sua lattina di Pepsi.

“Ai padri orribili,” dice.

“Ai padri orribili,” ripeto e faccio scontrare la mia lattina con la sua. Ne bevo un sorso e mi appoggio di nuovo allo schienale della sedia. “Ho un fratello.”

“Fratello?” Solleva un sopracciglio. “Non lo sapevo.”

“È il mio fratellastro, in realtà,” specifico. “È il figlio di mio padre e la sua nuova moglie.”

“Ah,” annuisce Eren. “E lui non ti piace?”

“Non vorrei,” rispondo onestamente. “Ma è solo un bambino. Non ha fatto nulla di male. Ho detto a mio padre che non volevo vederlo mai più e lui mi ha sentito. È rimasto parecchio sconvolto.”

“E cosa hai fatto?”

“Gli ho detto che sarei tornato per lui,” dico. “Non la smetteva di piangere e mi sono sentito una merda.”

“Eri serio quando gliel’hai detto?” 

“Penso di sì,” rispondo. Faccio scorrere le dita tra i capelli. “Mi ha detto che si sentiva solo, Eren. Mi ha detto che i suoi genitori non gli dedicavano abbastanza attenzioni e io… cazzo, mi sono rivisto in lui.”

“Cavolo,” replica Eren. “È difficile.”

“Ho odiato la sua confessione,” continuo. “Mi ha fatto arrabbiare. Ha dieci anni, per l’amor del cielo. Non dovrebbe sentirsi così.”

“Ti sei sentito come se fosse tuo dovere aiutarlo, giusto?” Chiede Eren. “Anche se vorresti odiarlo, non volevi che sentisse una cosa del genere.”

“Esatto,” dico, faticando a deglutire. “So com’è sentirsi in quel modo. Prima delle superiori, non ero nessuno. Avevo solo Isabel e Farlan. E loro mi facevano sentire importante.”

“Ma ora loro non ci sono più,” interviene, capendomi alla perfezione. “E per questo, ti senti come ti sentivi prima di cominciare la scuola.”

“Già,” rispondo, scuotendo la testa. “E sinceramente? Fa fottutamente schifo. Ma è tutta colpa mia. Quindi che ragioni ho per sentirmi così male?”

“Ti sbagli, sai,” dice Eren. Io assottiglio gli occhi.

“Cosa vuoi dire che mi sbaglio?” Lui solleva le spalle, indifferente.

“Non sei solo,” dice. “Sei circondato da persone tutto il tempo. Diavolo, ti basta guardare la tua squadra. Quei ragazzi non funzionano senza di te.”

“Beh, hai ragione. Ma non è quello che voglio dire. Nel senso… prendi noi due, per esempio. Avrei potuto chiamare chiunque della squadra e dire che volevo uscire o cazzate del genere. E per quanto strano, loro avrebbero comunque acconsentito.”

“Quindi, di nuovo,” Eren si avvicina un po’, poggiando i gomiti sul tavolo. “Perché io?”

“Sei l’unico a cui interessa,” gli rispondo. “Se dicessi di aver avuto una giornata di merda, saresti l’unico che me ne farebbe parlare per farmi stare meglio. Noi siamo amici, Eren.”

“Lo so,” dice, autocompiacendosi. Mi alzo dalla sedia, mettendo le mani sul tavolo e avvicinandomi a lui.

“Cosa vuoi dire?” 

“Lo sapevo già,” sbuffa Eren. “Volevo solo sentirtelo dire.”

“Sei un fottuto idiota,” ringhio. Lui annuisce serenamente.

“Lo so. Ma puoi biasimarmi? Ho bisogno di alimentare il mio ego.”

“Cavolo, quanto ti odio,” dico. “Mi fai dire un sacco di cazzate solo perché tu possa sentirti appagato.”

“Ops,” dice Eren. “Ma sul serio, grazie. Non è che le persone facciano a botte per fare amicizia con me. È un cambiamento gradito.”

“Bene,” rispondo, tirando la testa indietro per osservare il soffitto. Mi sento esausto tutto d’un tratto. “Non puoi lasciarmi.”

“Huh?”

“Non puoi lasciarmi,” ripeto, guardandolo negli occhi. Non specifico nulla, ma so che Eren è in grado di capire ciò che intendo.

“Non lo farò,” mi assicura. “Chi altro mi offrirebbe il pranzo, sennò?”

“Devi prometterlo.”

“Te lo prometto,” sospira Eren, scuotendo la testa. “Sono disposto anche a fare giurin-giurello.”

“Ti conviene.” Allungo il dito verso di lui e, dopo aver roteato gli occhi credendomi infantile, aggancia il mignolo al mio.

“Ecco. Meglio?”

“Sì,” rispondo. “Possiamo smetterla con questa conversazione sdolcinata ora?”

“Ti prego, sì,” mormora Eren, ridendo. “Per un momento mi sono preoccupato. Non sembravi nemmeno tu.”

“Ha!” Quasi urlo e poi torno a mangiare.

Mentre metto del cibo nello stomaco, penso alle parole di Eren. Un calore improvviso che non riesco a descrivere mi avvolge. Le promesse sono qualcosa di molto fragile. Possono essere spezzate facilmente e senza pensarci due volte. Diavolo, sono sicuro di aver infranto delle promesse persino io.

Ma una piccola ed egoista parte di me spera che questa sia una promessa che non verrà mai infranta.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 9
 
Eren

05:45 di mattina, 17 novembre.

Sono seduto nello scantinato, gambe incrociate e mani posate mollemente sul grembo. Fa freddo qui sotto, più che altro perché il riscaldamento non è acceso, ma non ho abbastanza energie per alzarmi e accenderlo. Quindi me ne resto seduto in pigiama, fissando senza guardare davvero le tele davanti a me.

Sono bianche, tranne una con un occhio dipinto al centro; la tempera è spessa, facendo capire di essere stato usato troppo colore nero. C’è persino un barattolo pieno di pennelli accanto al quadro. Sono duri e ancora ricoperti di colore, le setole attaccate tra loro in strane posizioni. I barattoli di tempera sono chiusi, ordinatamente disposti sulla mensola.

C’è odore di polvere qua sotto. Immagino sia perché nessuno si è mai preso la briga di pulire ormai da un paio d’anni. Non ce n’era alcun bisogno. Tanto qui non viene mai anima viva. Una delle lampadine non funziona come dovrebbe e per questo motivo la stanza è molto più soffusa. Ma non ho intenzione di andarne a comprare una nuova.

Sposto lo sguardo dalla lampada per posarlo in un punto indefinito davanti a me. La mia chitarra rotta è nascosta da qualche parte dietro i dipinti di Mikasa accatastati sulla parete. L’ho messa lì perché sapevo che i miei genitori non l’avrebbero mai trovata. Prima o poi la butterò via. Riesco a vedere una delle corde rotte spuntare da dietro una tela. Chiudo gli occhi e li apro per guardare il tavolo. C’è un pacchetto vuoto di sigarette al mentolo e il posacenere è ancora pieno di rimasugli di sigaretta. Forse sarebbe una buona idea buttare via anche quelli.

Cerco di non guardali, però, perché farlo mi causa un profondo e tagliente dolore che mi attraversa il corpo.

Ogni volta che sbatto le palpebre c’è un nuovo pizzicorio all’angolo dei miei occhi. Ma non importa quanto ci provi, non riesco a piangere. Non so dire se i miei occhi umidi sono dovuti alla polvere o al fatto che mia sorella non tornerà mai più e non prenderà mai più in mano un pennello. Mi convinco sia colpa della polvere perché il pensiero di piangere per Mikasa fa fisicamente male.

Questa stanza è l’unica sicurezza e prova che Mikasa sia davvero esistita. Le sue foto da piccola sono state messe via da mia madre in un impeto di rabbia disperata, i suoi vestiti e oggetti personali sono stati venduti ai vicini o a vari negozi dell’usato. Penso abbia senso, però. Mikasa non si è cucita da sola vestiti, collane, coperte e qualsiasi altra cosa possedesse. Qualcun altro li ha fatti e lei li ha comprati. Ma questi dipinti sono qualcosa che ha fatto lei, qualcosa che nessuno potrà mai sostituire.

“… Eren?”

Alzo subito la testa al suono di una voce così sottile. Mi giro per vedere Jean a pochi passi da me. Resta immobile ai piedi delle scale per un po’. I suoi occhi si spalancano quando il suo cervello registra i miei denti che sbattono per il freddo. Li stringo insieme per farli smettere, ma è troppo tardi. Lui si allenta la calda vestaglia da casa e cammina velocemente verso di me.

“Porca miseria, si gela qui sotto,” dice per poi avvolgermi le spalle con la vestaglia. “Cosa stai facendo?”

“Oggi è il 17 novembre,” rispondo e Jean si irrigidisce accanto a me.

“Eren…”

“Questo è tutto ciò che è rimasto di lei,” continuo; mi metto sulle ginocchia per poi dirigermi verso la tela più vicina, riuscendo a respirare il sottile odore di tempera. “Questo è tutto quello che mi è rimasto. Qualche stupido, fottuto dipinto.”

Non penso per niente che i dipinti siano stupidi. Crescendo, ho sempre ammirato le abilità artistiche di mia sorella. Arte e creatività non sono mai state il mio forte, ma Mikasa è sempre stata brava in questo tipo di cose. Ecco perché ha scelto di studiare arte all’università.

“Ehi,” chiama Jean. “Andiamo, Eren. Vieni.”

Non oppongo resistenza quando mi afferra delicatamente il braccio per farmi alzare. Lascio che mi diriga verso le scale, il mio intero corpo sembra troppo pesante. È come se mi stessi facendo trascinare da una forza invisibile e parte di me si sente in colpa che Jean deve sostenere anche il mio peso.

“Va’ a vestirti,” dice quando raggiungiamo la mia camera. “Poi possiamo andare.”

“I miei genitori...?” 

“Stanno ancora dormendo,” risponde, guardando la porta chiusa della loro camera da letto. “Sono sicuro andranno dopo.”

Mi sforzo di annuire ed entro in bagno. Dopo aver fatto una doccia, torno in camera per indossare una camicia nera abbinata a pantaloni dello stesso colore per poi mettere su la giacca. È un blazer che mia madre ha comprato per il ballo di Sadie Hawkins[1] il primo anno di superiori. È leggermente stretto sulle spalle, ma non ho altra scelta.

Incontro Jean al piano terra. È vestito in un modo molto simile al mio. Mi sorride, ma io non riesco a fare lo stesso. Anche il suo sorriso sparisce lentamente e io distolgo lo sguardo.

“Pronto?”

“Per quanto potrò mai esserlo,” mormoro. Lo seguo entrando nella sua auto e allaccio la cintura in un gesto meccanizzato. Jean lo nota e si ferma, osservandomi.

“Come stai?” Chiede preoccupato.

“Bene,” rispondo. Se me lo avesse chiesto due anni fa, probabilmente sarei scoppiato a piangere. “Andiamo.”

Jean annuisce lentamente, accende il motore per poi uscire dal vialetto. Faccio finta di non notare le nocche bianche sul volante. Di solito non guida in questo modo; così rigidamente, intendo. Ma immagino oggi sia un’eccezione.

Osservo le case che passiamo fuori dal finestrino. Dopo un po’, le case diventano più sporadiche, venendo sostituite da piccoli negozi e uffici. Mi salta all’occhio un fioraio e dico a Jean di accostare. Fa come dico, anche se sembra un po’ confuso. Lo ignoro ed esco dall’auto e tiro fuori il portafoglio dalla tasca.

Spingo la porta del negozio, il campanello suona annunciando il mio arrivo. La donna dietro il bancone sembra sorpresa di vedermi. Continua a spostare lo sguardo da me alla porta d’entrata fino a quando non sono proprio davanti a lei.

“Siamo ancora chiusi,” dice lentamente, guardandomi cautamente. Realizzo di dover essere un vero schifo in questo momento. Annuisco, passandomi una mano tra i capelli.

“Lo so,” dico. “Avrei solo bisogno di tre dalie nere. La prego.”

La donna solleva un sopracciglio e gli angoli della sua bocca si curvano in un leggero sorriso. So già cosa sta per dire; ormai ho sentito questa correzione tantissime volte.

“In realtà non sono nere, ma-”

“Sono burgundi,” finisco, ignorando la sua espressione sorpresa. La mia voce suona flebile e lontana. Scuoto la testa e mi schiarisco la gola. “Io… uh, lo so.”

“Okay,” risponde semplicemente la donna. Apre la teca di vetro dietro di lei e tira fuori tre dalie. La osservo avvolgere i fiori nella carta decorativa e poi applicarci un fiocco nero attorno. Una volta finito, le appoggia sul bancone, allungandomele con un sorriso triste. “Condoglianze.”

Il mio intero corpo duole quando sento le sue parole.

“Cosa?” Dico, la mia voce è spezzata. “Come fa a…” mi interrompo. Lei indica il mio abbigliamento.

Ah, giusto.

 Annuisco a tratti, afferrando le dalie. Stringo gli steli in una mano e con l’altra apro il portafoglio.

“Quant’è?” Chiedo. Quando non risponde, alzo lo sguardo. La donna mi sta guardando con espressione pensierosa. “Signorina? Quanto le devo per-”

“Niente,” risponde. “Non siamo aperti, ricordi? Questo non è un affare. Consideralo un regalo.”

Deglutisco il nodo in gola e cerco di sorridere al meglio che posso.

“La ringrazio,” dico sinceramente.

Lei annuisce, sorride, e torna a leggere il giornale che stava scorrendo quando sono entrato. Mi giro ed esco dal negozio, tenendo in mano i fiori come fossero la cosa più preziosa che possiedo.

Salgo in macchina e allaccio la cintura. Gli occhi di Jean si posano sulle dalie, ma non dice nulla.

“Pronto?”

Faccio un cenno con la testa e lui rimette in moto il veicolo. La prossima volta che ci fermiamo siamo arrivati alla nostra destinazione. Osservo il cancello di ferro e una sensazione nauseabonda mi attanaglia lo stomaco. Sento di stare per vomitare, ma cerco di trattenermi.

Esco dall’auto, ma Jean resta dentro ancora qualche secondo, osservando qualcosa in distanza. Dopo un po’ esce anche lui. Camminiamo in silenzio, l’unico suono che ci circonda sono la ghiaia calpestata dalle nostre scarpe e lo scricchiolio delle foglie secche.

“Siamo arrivati,” dico, anche se so che non ce n’era bisogno.

“Già,” la voce di Jean si spezza. Si mette in ginocchio, le sue dita scorrono tremanti sulle incisioni della lapide. “Siamo qui.”

È la prima volta che vedo la tomba di mia sorella dal suo funerale. Jean, mia madre e mio padre sono venuti parecchie volte, ma io ho sempre rifiutato i loro inviti. Non volevo vedere la lapide di mia sorella. Sarebbe solo un’altra conferma che lei è morta e io… no.

Mi piego per poggiare le dalie ai piedi della tomba. Jean passa le dita tra i petali, il labbro inferiore trema per cercare di non piangere. Mi siedo accanto a lui, le nostre spalle si toccano e guardiamo con sguardo assente la lapide.

“Va bene piangere,” dico. Dovrebbe essere confortante, ma faccio davvero schifo a confortare le persone. Fortunatamente, non sembra far più male a Jean di quanto già non faccia l’essere qui.

“Lo so,” risponde tremante Jean. Sospira e abbassa la testa, le mani chiuse in uno stretto pugno.

Guardo altrove e i miei occhi trovano di nuovo la lapide. La luce mattutina è abbastanza per farmi guardare il riflesso dei nostri corpi nel marmo. Deglutisco il nervosismo e allungo la mano per toccare la pietra di mia sorella. Non ci riesco, però. Le punte delle dita si fermano giusto poco prima di toccarla. Prendo alcuni respiri profondi e ritiro la mano.

L’intero corpo di Jean sobbalza mentre piange silenziosamente. Io sto seduto, insensibile, riuscendo a malapena a non cadere a pezzi.

“Le dalie erano i suoi fiori preferiti,” dico, giusto perché sento il bisogno di distrarmi dai miei stessi pensieri, ma non aiuta molto. Se non altro, rimpiango le parole non appena escono dalla mia bocca.

Jean solleva lentamente la testa. Le spalle sono incurvate e le braccia sono immobili sui suoi fianchi. Osserva distrattamente le dalie.

“Lo so,” dice con voce vuota. “Le avevamo al nostro matrimonio. Nere, sono piuttosto sicuro-”

“Non sono nere,” dico, la voce spezzata. “Sono burgundi.”

“Giusto,” sussurra Jean. “Dalie burgundi siano.”

“Proprio come queste, no?” Borbotto.

“Proprio come queste,” conferma.
 
***
 
14:52, appartamento di Nick. Poco dopo che Jean mi ha portato a scuola, ho capito che non sarei stato in grado di sopportare le lezioni. Quindi non sono entrato a scuola e sono andato in libreria per un po’. Quando mi sono stancato, ho preso un autobus per arrivare da Nick. Mi ha lasciato entrare senza commenti irriverenti su come io scrocchi sempre il cibo da lui. Sa che giorno sia oggi.

Nick è seduto sulla poltrona a guardarmi e fingo di non essermene accorto. Il mio blazer è abbandonato sullo schienale del divano e le maniche della camicia sono arrotolate fino al gomito.

L’appartamento di Nick è freddo, ma in questo momento non riesco a rendermi conto della temperatura. Sono… beh, insensibile.

“Eren.”

Alzo la testa. È la prima parola che mi rivolge da quando sono arrivato.

“Sì?” Chiedo, la voce roca. Mi schiarisco la voce e gioco con le dita.

“Dovresti essere a scuola,” dice fermamente Nick. Lo fa spesso ultimamente. Cercare di essere risoluto, intendo. Di solito ha un atteggiamento passivo, ma all’improvviso vuole essere autoritario.

“Hai ragione,” dico, ma invece sprofondo ancora di più nel divano. Ho una terribile emicrania e sento il corpo pesante. “Lo so.”

“Allora perché sei-”

“Non ci riuscivo,” rispondo. “Di solito sono bravo a fingere di stare bene. Di solito sono bravo a fingere che non me ne freghi nulla. Ma oggi non ci riesco. Era troppo difficile.”

Nick spalanca la mascella. La chiude e preme le labbra in una linea sottile.

“Eren, mi dispiace.”

“Non hai fatto nulla,” borbotto.

“Avrei potuto...” insiste Nick. Si sente in colpa e lo odio. “Avrei potuto-”

“Se vuoi giocare a scarica barile, allora credo che alla fine vincerei io,” dico, interrompendolo. “È tutta colpa mia.”

Gli occhi si Nick si spalancano.

“Eren, no, tu non hai-”

“Sarebbe dovuto toccare a me,” dico con voce bassa. Non ho mai dato voce a questi pensieri a qualcuno prima d’ora. Ma ci ho pensato molte volte. “Sarei dovuto morire io quella notte, Nick. Io dovrei essere morto e Mikasa invece-”

Nick improvvisamente è in piedi davanti a me. Al mio cevello ci vogliono alcuni secondi per capire che il pulsare che provo alla guancia è dovuto allo schiaffo che mi ha appena dato Nick. Giro lentamente la testa per guardarlo: gli occhi sono pieni di lacrime, il viso accartocciato come se stesse per piangere.

“Non dirlo mai più,” sussurra.

“Okay, Nick.”

“Sono serio!” Mi afferra per le spalle e cade in ginocchio davanti a me. “Non… non dirlo.”

“Okay,” ripeto. Sollevo una mano per asciugargli le lacrime. “Non lo farò.”

“Bene,” annuisce Nick. Appoggio le mani sul suo viso e lui si piega per nascondere la testa nel mio petto. “Okay, bene.”

“Nick?” Ora mi sento in colpa. Deglutisco a fatica. “Nick, stai bene?”

“Sì.” Solleva la testa e mi guarda dritto negli occhi. Mi distendo sul divano portandolo sopra di me, facendo in modo che il mio corpo sia agiato tra le sue ginocchia. “Sto bene, davvero.”

Annuisco perché non so cos’altro dire. Faccio cadere la testa fino a quando non arrivo ad appoggiarla sulla sua spalla, le mani stringono il tessuto della sua maglietta. Mi stringe i fianchi con le mani e si avvicina a me, il suo respiro tremante mi solletica i capelli.

“Non posso perderti,” mormora Nick. Posso praticamente sentire l’aggiunta ‘anche te’ nell’aria.

“Non mi perderai,” dico. Non lo spingo indietro per guardarlo. Ho paura che se lo faccio, capirà che non sono sicuro di poter mantenere ciò che ho appena detto. Non mi piace fare promesse che non posso mantenere. Ma se sono costretto, mi piace non far capire a nessuno di star mentendo. “Non vado da nessuna parte.”

“Bene,” la sua voce è abbattuta e realizzo che mi ha capito. È sempre stato bravo in questo. Non sono molte le cose che riesco a tenergli segrete.

Restiamo così, stretti l’un l’altro, fino a quando Nick non mi lascia andare. Lo guardo interrogativo.

“Sembri stanco,” dice. Scuoto la testa.

“Sto bene,” rispondo e lui solleva un sopracciglio. “Smettila. Sono serio.”

“Andiamo,” dice, colpendomi il fianco. Si alza in piedi e mi offre la mano per aiutarmi a fare lo stesso. L’afferro reclutante e mi metto in piedi.

“Non sono stanco,” provo ancora, ma Nick mi ignora e appoggia una mano sulla parte bassa della mia schiena e mi conduce nella sua stanza.

“Puoi dormire qui,” dice e io mi fermo sul ciglio della porta, guardandolo.

“E tu?” 

“Io non sono stanco,” risponde, sembrando un po’ finto e mi offre un timido sorriso. “Sto bene, tranquillo. Non preoccuparti, va bene?”

“Jean… lui, uh, non sa che non sono andato a scuola,” dico. “Lui è a casa ora. Se non sa dove sono, andrà nel panico.”

Normalmente, non mi importerebbe se Jean, o qualcun altro, sa dove sono. Ma oggi è un’eccezione. Se non faccio presente a Jean dove mi trovo, sono sicuro che si preoccuperebbe più del solito. Non voglio che oggi si preoccupi per me.

“Lo chiamerò io,” si offre Nick, interrompendo i miei pensieri.

Il mio intero corpo si irrigidisce.

“Non penso sia una buona idea.”

“Tranquillo, Eren. Non preoccuparti di questo.”

“Come posso non farlo?” Protesto, “Sai com’è lui e-”

“Smettila di preoccuparti.”

Premo le labbra in una linea sottile e rimango in silenzio. Una volta che Nick si mette un’idea in testa, è difficile fargliela cambiare. Sono capace di capire quando perdo una battaglia. Annuisco ed entro in camera sua.

“Come preferisci,” dico, camminando verso il letto e sedendomi a peso morto. “Fa quello che vuoi.”

Nick fa un cenno con la testa e mi guarda.

“Hai bisogno di qualcos’altro?” 

“Io…” mi sento infantile tutto d’un colpo. “Resta con me.”

Nick non sembra sorpreso dalla mia richiesta. Chiude la porta e mi raggiunge sul letto, sedendosi di fronte a me.

“Sei sicuro?”

“Sì,” dico, la voce sicura. “Ho… ho bisogno di te.”

“Va bene,” sussurra. Si distende lentamente e mi guarda per un momento. Faccio lo stesso, poggiando la schiena sul morbido materasso. Mi avvicino piano fino a quando non appoggio la testa sul suo petto e lui avvolge le braccia intorno a me.

Chiudo gli occhi e permetto al mio corpo di rilassarsi. Per la prima volta da stamattina, sento la tensione nel mio corpo dissiparsi. Poco prima di perdere conoscenza, sento Nick sussurrare qualcosa al mio orecchio, ma è troppo basso per riuscire a capire cosa sta dicendo, ma qualsiasi cosa sia, diffonde un’onda di calore nel petto.

Finalmente, mi addormento.
 
***
 
Quando mi sveglio, sono nel mio letto. Sbatto le palpebre guardando il soffitto prima di girare la testa e guardare la figura rannicchiata ai piedi del mio letto. Jean ha il respiro regolare, una delle mie coperte gli avvolge le spalle. Gli do un leggero scossone per svegliarlo. La stanza è parzialmente illuminata dalla lampada sul mio comodino; è luminosa abbastanza da farmi vedere Jean aprire gli occhi. Deglutisco.

“Ehi,” dico, la voce roca per il disuso.

“Ciao,” mi saluta Jean. Si mette seduto e guarda l’orologio. “È tardi. Dovresti riposare. Domani hai scuola e-”

“Jean?”

Si ferma e mi guarda. “Cosa c’è?”

“Come ci sono finito qui?” Lui si siede completamente, la coperta cade a coprirgli la vita.

“… È stato Nick,” risponde. “Ti ha riportato qui mentre dormivi. Ha avuto una piccola crisi perché, forse, ho cominciato a urlargli contro.”

“Oh,” dico. Si forma una strana sensazione alla bocca del mio stomaco che cerco di ignorare.

“Perché eri con lui, Eren?” Chiede Jean e io assottiglio gli occhi. So che piega prenderà questa conversazione.

“Avevo bisogno di fuggire,” dico con tono piatto. “Ero travolto dalle mie emozioni e avevo bisogno di un po’ di spazio.”

“Avresti potuto chiamarmi,” continua Jean. Sta alzando la voce e mi sta provocando un mal di testa. Non penso sia questo il momento giusto per dirglielo, però, quindi tengo la bocca chiusa. “Ti sarei venuto a prendere a scuola.”

“Ho pensato fossi impegnato.”

“Non potevi saperlo!” Eccolo, sta finalmente urlando. Lo guardo assente e aspetto che aggiunga qualsiasi altra cosa voglia. “Se me lo avessi chiesto, sarei venuto e-”

“Fai così solo perché si tratta di lui, vero?” Lo interrompo. “Se fosse stato chiunque altro, non te ne sarebbe fregato nulla.”

“Esatto, Eren, è perché si tratta di lui,” risponde stancamente per poi scuotere la testa. “Perché? Perché lui tra tutte le persone?”

“C’è sempre stato per me,” rispondo, la voce piatta e bassa. Deglutisco e fisso le mani sulle mie ginocchia. “Nick si prende sempre cura di me-”

“Oh, come si è preso cura di Mikasa?” Sbotta. “Fa davvero un ottimo lavoro nel prendersi cura delle persone, Eren. È colpa sua se Mikasa è morta!”

“Vaffanculo!” Sbotto anch’io, spingendolo più forte che posso per allontanarlo da me; non è molto, ma è abbastanza da soddisfarmi. “Non è stata colpa di Nick, ma mia.”

“Non eri tu quello che guidava, porca miseria!” Jean sta urlando. “Smettila di coprirlo ogni fottuta volta. Non sei tu dalla parte del torto, Eren. Lui sì. Quanto tempo ti ci vorrà ancora per finalmente capirlo?”

Rimasi in silenzio, il petto si muoveva a ritmo del mio respiro, le mani tremanti dalla rabbia.

“… Vattene.”

“Perché? Perchè ho-”

“Vattene via da qui!” Afferro la prima cosa che trovo sul comodino e gliela lancio addosso. “Va via!”

Continuo a ripeterglielo mentre gli lancio tutto ciò che trovo. Jean riesce a fermare quello che gli lancio e cammina verso la porta. La apre e la richiude sbattendola, forte abbastanza da far tremare gli stipiti in legno e riesco a sentirlo scendere le scale. La voce di mia madre mi salta all’orecchio, acuta dal panico e sento Jean rassicurarla, dicendo che va tutto bene.

Qualcosa cade sul mio braccio. Sbatto curiosamente le palpebre e un’altra goccia si forma sulla mia mano. Spalanco gli occhi e faccio scorrere le dita sulle guance. Sicuramente, nonostante cerchi di asciugarmi gli occhi, tornano lucidi non appena allontano la mano. Altre gocce mi arrivano alle labbra e riesco ad assaporarne il sapore salato.

Sono le prime lacrime che verso dopo due anni. 
 
 

[1] Ballo di fine anno dove sono le ragazze ad invitare i ragazzi a ballare, contrariamente alle tradizioni di galanteria.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 10

 
 
Levi

Manca un quarto d’ora a mezzanotte e io non riesco a dormire.

Domani ho scuola, quindi non posso restare sveglio fino a quando il mio corpo non riesce fisicamente più a restare in piedi. Ho un mal di testa micidiale e la mente mi sta gridando di vestirmi e uscire da questa casa. Mi alzo perché sono un fottuto idiota che non presta abbastanza importanza al sonno.

Fanculo la vita.

Mi infilo un paio di jeans e una felpa sopra la maglietta. A Kenny non interessa cosa faccio nella vita finché non mi intrometto nella sua. Immagino sia per questo che posso sgattaiolare così tanto. Ma lo faccio raramente, visto che c’è poco che un diciasettenne può fare a mezzanotte, oltre andare in qualche scandente fast food e farsi un giro (che, per la cronaca, fa schifo). Tutti glorificano sempre lo stare alzati fino a tardi, ma non c’è nulla di figo al riguardo. È noioso perché ti ricorda quanto solo in realtà tu sia.

Mi assicuro di avere le chiavi di casa e scendo le scale. So che sarebbe saggio indossare una giacca, ma averla effettivamente indosso potrebbe incoraggiarmi a stare fuori per più tempo di quanto sia necessario. Spero che l’aria fredda faccia realizzare al mio cervello che è un’idea stupida uscire a quest’ora e farmi capire che sarebbe meglio rientrare.

Ho percorso questa strada un milione di volte, ma non mi fa mai stare meglio. I pensieri che mi tengono sveglio infestano la mia mente sempre di più. Se mia madre fosse ancora viva, probabilmente mi avrebbe fatto una tazza di uno dei tè alle erbe che le piacevano tanto. Non ne ho più ora. A Kenny piace solo il caffè.

Mi acciglio e infilo le mani nelle tasche. L’aria fredda mi colpisce le guance e sento già il naso diventare un ghiacciolo. Lo ignoro e continuo a camminare, i miei occhi sono incollati sul marciapiede davanti a me. Ci sono alcune macchine che passano, ma oltre a questo è tutto molto silenzioso.

La mia mente rievoca ricordi di mia madre prima di poterla fermare. Deglutisco e cerco di distrarmi. Non aiuta, però, e non so nemmeno perché continuo a provare. Le distrazioni non funzionano mai perché non voglio essere distratto. Cercare di ignorare i ricordi di mia madre mi fa sentire come la stessi cancellando dalla mia memoria.

Kenny non parla più di lei. Credo di poterlo capire. Voglio dire, era sua sorella. Non ho mai avuto fratelli, ma immagino che anche io ci rimarrei male se Sammy dovesse morire. Diavolo, so che ci rimarrei male, anche se ho cercato di odiarlo da quando ho saputo della sua esistenza.

Mi irrita quando le persone non vogliono parlare di niente. Non parlare di determinate cose non fa altro che peggiorarle. Tutte queste emozioni si deteriorano dentro una persona fino a quando questa non ce la fa più. E la gente non capisce mai perché succede. Dicono che è stato qualcosa di improvviso, ma non è mai vero. È perché ci si è tenuti per sé emozioni nocive per chissà quanto tempo.

Mi chiedo quando questo succederà anche a me. Non parlo mai di quello che mi riguarda e credo sia ipocrita da parte mia condannare le persone che evitano di discutere delle cose che le riguardano. Ma onestamente, penso di avere una buona scusa. Non voglio annoiare le persone con i miei problemi. Tutti hanno una loro storia strappalacrime. Nessuno ha bisogno anche di sentire la mia.

“Levi?”

Alzo la testa al suono del mio nome. Historia è in piedi accanto a me e si sta avvicinando. Deglutisco e cerco di far finta di stare bene.

“Ciao,” la saluto. “Cosa ci fai qui?”

Lei solleva un sopracciglio come se stesse per chiedermi la stessa cosa.

“Va tutto bene?” Chiede. Anche io alzo un sopracciglio.

“Perché lo chiedi?”

“Sei qui fuori indossando praticamente nulla,” spiega, tenendo alzato un dito. “Sembri spaesato e sono sicura tu non sia il tipo di ragazzo che sgattaiola in giro.”

“Non riesco a dormire,” rispondo e la risposta sembra stupida una volta pronunciata. A Historia però non sembra importare.

“Nemmeno io,” risponde. Mi dedica un sorriso gentile e improvvisamente sento la voce di Reiner risuonarmi in testa riguardo a quanto lei sia una fottuta dea. “Cammini con me?”

“Certo,” replico, anche se sinceramente avrei voluto avere la mia piccola festa personale della pietà.

“Grandioso,” Historia comincia a camminare e noto che sta tenendo in mano una bottiglia avvolta in un sacchetto di carta. Non faccio domande e la guardo mentre beve un sorso. “Ne vuoi un po’?”

“Non sono solito bere,” dico. Historia sbuffa.

“Nemmeno io,” ammette. “Ma a volte faccio delle eccezioni.”

“Non lo facciamo tutti?” Osservo e lei ridacchia. È un suono piacevole e dal nulla la comparo alla risata di Eren. Scaccio lo strano pensiero e sprofondo ancora di più le mani nelle tasche.

“Ti dispiace se andiamo al parco?” Chiede lei, guardandomi. “Vorrei andare nelle altalene.”

“Fa freddo,” discuto, ma mi ritrovo a seguirla lo stesso.

Historia scrolla le spalle e sorride di nuovo.

“Non importa,” dice con calma.

Camminiamo in silenzio fino al parco. Historia si siede su una delle due altalene, respirando rumorosamente. L’altalena scricchiola in protesta al suo peso e io esito nel sedermi in quella accanto a lei, afferrando le catene con le mani. Non ho mai trovato nulla di affascinante nelle altalene.

“Allora,” comincia a parlare lei, toccando giocosamente il mio piede col suo. “Cosa tiene sveglio Levi Ackerman?”

“Beh, sai,” dico sorridendo e dandole corda. “La solita ansia adolescenziale.”

“Ah,” dice Historia, gettando indietro la testa in una spropositata risata. “Le battaglie della gioventù, ho ragione?”

“Assolutamente,” rispondo. “E tu? Non riesco a immaginare la dea della scuola non riuscire a dormire.”

“Tutti abbiamo le nostre debolezze, Lev,” spiega, facendomi storcere il naso al soprannome. “Nessuno è perfetto in questo mondo crudele. Le persone sono esseri egoisti e imperfetti. È nella nostra natura.”

Aggrotto la fronte alle parole di Historia. Mentre ciò che ha detto è indubbiamente vero, non riesco a immaginare perché qualcuno dovrebbe pensare cose del genere prima di andare a dormire. Che le sia successo qualcosa?

La osservo. Sta guardando il resto del parco con un’espressione illeggibile in volto. Vorrei chiederle cosa sia successo, ma decido che non sono affari miei. Mi schiarisco la gola, attirando la sua attenzione.

“D’accordo, Socrate,” riesco finalmente a dire. “Teniamo questa conversazione filosofica per quando saremo ubriachi, okay?”

“Va bene, ma sul serio,” continua Historia, girandosi nell’altalena per guardarmi in viso. “Non ti bevi davvero le cazzate che dicono su di me, vero? Sai che non sono perfetta, no?”

“E tu ti bevi la cazzata che io sono perfetto?” Ritorco. Historia aggrotta le sopracciglia.

“D’accordo, valida osservazione,” mi dà ragione, per poi dare un calcio alla ghiaia sotto di noi. “Perché credi le persone lo facciano?”

“Facciano cosa?”

“Dire cosa del genere,” spiega. “Nel senso, io non guardo a caso una persona e penso ‘Ehi, è perfetta!’. Le persone non sono programmate per essere perfette.”

“Historia,” dico risoluto, le sopracciglia si aggrottano. “È successo qualcosa?”

“Cosa te lo fa pensare?” Chiede innocentemente. Sbuffo.

“Sei seria? Potrei stilare una lista di motivi.”

“Ho fatto un casino,” dice. I suoi occhi si inumidiscono e prende dei respiri tremanti. Comincio immediatamente a provare del panico. “Qualcuno aveva davvero bisogno di me. Questa persona mi stava praticamente implorando di aiutarla. Ma sono stata egoista. Mi sono detta che non era una mia responsabilità sistemare le cose. Mi sono convinta che le servisse solo un po’ di tempo fino a quando non sarebbe tornato tutto a posto. Ma non è andata così.”

Deglutisco.

“Stai parlando di Eren, vero?” Historia mi guarda assente.

“Così ovvio, eh?”

“Beh, sì,” dico. “Ricordo che eravate attaccati uno al fianco dell’altra. Ma un giorno, improvvisamente, non è più stato così.”

“Eravamo al secondo anno,” sospira. “Nessuno avrebbe dovuto fidarsi dell’Historia del tempo. Era solo una stronza egoista.”

“Ehi,” intervengo. “Non lo eri.”

“Non sai neanche cos’è successo,” dice, socchiudendo gli occhi. Improvvisamente, raddrizza la schiena. “Oppure sì?”

“Non siamo ancora al punto della nostra amicizia dove mettiamo in mostra gli scheletri nel nostro armadio,” ammetto. “Scusa per la delusione.”

Historia stringe le labbra e solleva la bottiglia per bere. Me la allunga di nuovo e questa volta accetto l’offerta. Il vino è uno di quelli secchi che mi fanno venire voglia di vomitare, ma è meglio di niente. Mando giù il liquido e lei prende la bottiglia. Historia la infila tra le sue cosce e avvolge le mani attorno alle catene.

“Ho paura di parlargli,” ammette HIstoria. “Non so nemmeno cosa potrei dire. Come ci si scusa in questi casi?”

“Forse dovresti farlo e basta,” offro e lei fa un cenno con la testa.

“Forse dovresti farlo anche tu,” dice, io sollevo un sopracciglio.

“Cosa? Sono sicuro di parlare con Eren ogni giorno. Ma grazie per il consiglio-”

“Non intendevo Eren,” mi interrompe lei, divertita. “Eri molto attaccato a Farlan e…”

“Isabel,” continuo, poi scrollo le spalle. “Le cose hanno smesso di andare bene.”

“Gli hai lasciati indietro,” mi corregge; assottiglio gli occhi alle sue parole.

“Non è vero.”

“Sì, invece,” insiste. Beve un altro sorso dalla bottiglia. “Lo so. Se ti fa sentire meglio, l’ho fatto anch’io. Voglio dire, guarda Eren. Sta facendo tutto quel cazzo che vuole senza di me.”

“Io…” brontolo. “Stanno bene senza di me.”

“Ma tu stai bene senza di loro?” Chiede; quando non rispondo, lei sorride trionfante. “Siamo molto più simili di quanto pensassi, sai.”

“Immagino tu abbia ragione,” mormoro e Historia sospira.

“Coraggio, Levi,” continua, scuotendo la testa. “Togli la maschera del ragazzo insensibile. Tu non sei felice, sbaglio?”

“La vita va avan-”

“Ma tu non vuoi perché-”

“Sto bene!”

Gli occhi di Historia si spalancano. Deglutisco l’amarezza e mi passo le dita tra i capelli per poggiare i gomiti sulle cosce, chinandomi in avanti.

“Scusa.”

“Tranquillo,” rassicura con voce pacata e io mi sento un fottuto stronzo.

“Le cose non possono tornare come erano prima,” dico, fissando le mie scarpe. “Non importa se risolvo le cose con loro oppure no. Rimarrà comunque il ricordo di quello che è successo. Questo non posso cambiarlo.”

“Le cose non devono per forza tornare esattamente come prima,” comincia Historia, scrutandomi con i suoi grandi occhi azzurri. “Devono solo migliorare.”

“E come dovrei fare per migliorarle?” Chiedo. “Sempre che ci sia ancora qualcosa da salvare.”

“C’è sempre qualcosa da salvare,” risponde Historia, anche se non sembra troppo convinta. Forse sta ancora pensando alla sua amicizia con Eren. “Le relazioni non hanno sempre una rottura netta. A qualcuno mancherà sempre l’altra persona. E finchè sarà così, ci sarà sempre un’occasione per cambiare le cose.”

Rimugino sulle sue parole, oscillando leggermente nell’altalena. Pianto i piedi nel terreno e poi alzo la testa per guardarla. Historia sta osservando qualcosa in lontananza e non si azzarda a incrociare il mio sguardo. Sorrido.

“Grazie,” dico.

Historia non dice nulla, ma gli angoli della sua bocca si sono leggermente alzati.
 
***
 
Il giorno dopo a scuola mi sento letteralmente una merda. La testa pulsa e sono sicuro che i miei occhi siano rossi. Non sono dell’umore di parlare con nessuno, ma alcune persone non recepiscono il messaggio. Per esempio, Eren fottuto Jaeger.

“Diavolo amico,” ghigna Eren e si allunga vicino al mio viso. “Stai una merda.”

“Grazie per farmelo notare,” rispondo. “Lo spazio personale è un concetto insesistente per te?”

“Non so,” dice Eren, avvicinandosi ancora e spalancando gli occhi. “Tu che ne dici?”

“Hai l’alito che sa di caffè,” dico e alzo la mano per spingere la sua faccia lontano da me. Eren si lamenta e si siede al suo posto.

“Allora,” comincia, allungando la parola. “Notte brava?”

“Difficile,” rispondo, sollevando un sopracciglio. “E tu invece? Sei stranamente allegro stamattina.”

“Ho capito che oggi è una splendida giornata,” dice. “Davvero, Levi, potresti beneficiare dell’apprezzamento delle piccole cose della vita.”

“Tu dici?” Dico giusto per intrattenerlo e il sorriso di Eren è radioso.

“Certo,” conferma. “Non sono un dottore, ma sono un lettore dipendente di WebMD[1]. Ho capito che apprezzare lo splendido colore del Sole può migliorare significativamente la tua giornata.”

“Grazie per la dritta, Doc,” rispondo. “Mi assicurerò di incorporare un’ora di apprezzamento solare nella mia morning routine.”

“Perfetto,” risponde Eren, sorridendo così ampiamente che gli angoli della bocca gli fanno chiudere leggermente gli occhi. Mi ritrovo a fissarlo, incapace di distogliere lo sguardo. “Ora non dire che non ti aiuto mai.”

“Certo che no,” momoro, distratto. Il sorriso di Eren piano piano svanisce dal suo viso.

“Uh…” sbatte le palpebre alcune volte. “Ho qualcosa in faccia?”

“Dolore,” dico con tono neutro e spingo via i suoi gomiti dal mio banco. Questi colpiscono il retro della sua sedia e mi lancia un’occhiataccia mentre si strofina il braccio.

“Mi hai fatto male, stronzo.”

“Era questo l’obiettivo,” replico. “Ora, sul serio, perché cazzo hai dei raggi solari che ti escono dal culo? Normalmente mi avresti già preso in giro almeno dieci volte.”

“Ah, ecco la parola chiave: normalmente,” spiega. “Chiaramente, visto che stai dimostrando un dubbio interesse e preoccupazione nei miei confronti, avrai capito che non sono normale.”

“Chiaramente,” faccio un cenno di assenso con la testa. “Quindi…?”

“Questa è una storia che dovrà aspettare.” Assottiglio gli occhi e lui sospira. “Questa è un’altra sfaccettatura delle mie strategie di adattamento. O sono così ottimista da risultare disgustoso, oppure sono così pessimista da rasentare la depressione. Non ci sono mezze misure.”

“Non riesco a decidere quale delle due preferisco,” mormoro, scaturendo una risata da Eren.

“Il lato pessimista si fa vedere di più,” dice. “Non abituarti a quest’altro lato.”

“Che peccato,” borbotto. “E io che speravo nella possibilità che stessi zitto.”

“Impossibile,” risponde Eren immediatamente, come per dare prova delle sue parole, e poi sbuffa. “Le persone parlano e io rispondo. Non vedo nulla di sbagliato in questo.”

“Giusto,” dico ruotando gli occhi. “Quindi ne parliamo dopo?”

“Oh, assolutamente,” risponde lui, dandomi le spalle quando il professor Smith entra in classe e comincia la lezione.
 
***
 
Dopo scuola, io ed Eren ci troviamo da Starbucks. Lui sorseggia un caffè ghiacciato troppo costoso e troppo dolce, mentre io gioco con il portatovaglioli e guardo attorno a noi. La maggior parte della gente presente è qui con amici o scrocca il wi-fi gratis. Mi pento di non aver ricaricato il telefono stanotte; ora sarà da qualche parte nella mia cartella. Probabilmente si sarà anche spento.

Eren appoggia sul tavolo il suo caffè. Ora sembra molto meno allegro ed entusiasta di prima. Gioca con il cartone che avvolge il bicchiere di plastica e poi alza lo sguardo su di me.

“Sai cosa mi dà fastidio?”

“No,” dico cercando di stuzzicarlo, solo perché sono disperato di far scaturire un sorriso a Eren. “Un sacco di cose sembrano darti fastidio.”

Le mie parole non ottengono l’effetto desiderato e il cipiglio sul suo viso non fa che diventare più profondo. Mi rimprovero mentalmente e mi schiarisco la gola per riprovare.

“Va bene,” comincio, appoggiando la schiena sulla sedia. “Racconta.”

“Odio quando due persone fanno scarica barile,” spiega Eren. “È costatato che A ha fatto un casino, eppure B si sente responsabile, quando in realtà non è colpa sua. Non è già un casino questo?”

“Assolutamente,” dico, cercando di capire come questo abbia a che fare con Eren. “Sei stato incolpato di qualcosa?”

“No,” replica Eren. “Io sono A.”

“E B è…?”

“Informazione riservata,” ghigna e io ruoto gli occhi.

“Ovviamente,” dico, schiarendomi la gola. “Non ti ho visto in palestra ieri. Hai bruciato o cosa?”

“Bruciato,” risponde; le sue spalle sono improvvisamente tese e sembra molto interessato nel finire la sua bevanda. “Non avevo voglia.”

Assottiglio gli occhi, facendo fatica a credergli.

“Okay,” dico semplicemente, ma solo perché non voglio forzarlo.

“Okay?” 

“Già, okay,” ripeto. “A meno che tu non voglia che io insista, facendo sentire entrambi estremamente a disagio.”

Eren fa una smorfia.

“Hai ragione, non farlo,” scuote la testa e sprofonda nella sedia, guardandomi.

“In ogni caso,” comincio schiarendomi la gola. “Se A ha fatto un casino madornale e si incolpa, B non dovrebbe arrabbiarsi per questo?”

“No,” risponde. “Perché B pensa di aver sbagliato.”

“E chi ha davvero sbagliato?” Chiedo delicatamente.

Gli occhi di Eren incontrano brevemente i miei prima di guardare altrove. Borbotta qualcosa che non riesco a capire e scuote la testa.

“Nessuno,” dice. “Se devo essere completamente onesto, il che non è un mio punto forte, nessuno ha colpe.”

“E perché continui ad incolparti?” 

Eren deglutisce a fatica e scuote la testa.

“Perché è più facile,” argomenta. “E sinceramente, credo sia colpa mia.”

“Non è possibile,” controbatto. “Se vi state entrambi incolpando, allora deve essere stata una situazione fuori dal vostro controllo.”

Eren assottiglia gli occhi.

“Come lo sai?” Chiede e io scrollo le spalle.

“Intuizione,” rispondo, anche se in realtà parlo per esperienza personale.

“Intuizione,” ripete con tono sottile e poi sbuffa. “D’accordo.”

Scrollo ancora le spalle e mi passo le dita tra i capelli. Eren segue il movimento con gli occhi e mi ritrovo a fissarlo. Lui sorride e si avvicina a me.

“E tu che mi dici?” Chiede. “Fatto festa ieri sera?”

“No,” rispondo roteando gli occhi. “Non riuscivo a dormire.”

“Wow,” dice Eren. “Credevo fosse qualcosa di molto più scandaloso.”

“Immagino,” rispondo, scuotendo la testa. “Solo la solita merda. Niente di nuovo.”

“Del tipo?” Chiede; stringo gli occhi e lui borbotta. “Andiamo, amico. Non ho intenzione di essere solo io a confessare.”

Ruoto gli occhi e sbuffo. Perché deve sempre fare così?

“Ti odio con tutto il cuore.”

“Ne sono consapevole.”

Prendo un altro tovagliolo e comincio a giocarci. Eren sorseggia lentamente la sua bevanda e io sbuffo di nuovo, questa volta molto più rumorosamente.

“Ecco… a volte semplicemente odio la mia vita,” comincio. Aggrotto la fronte e concentro l’attenzione sul tovagliolo che ho tra le mani. “La vita ti tira addosso un sacco di merda. E quando pensi che non possa andare peggio, tutto peggiora ancora.”

Mi fermo brutalmente. Era molto più di quanto avevo intenzione di dirgli. Gli occhi di Eren sono incollati fermamente nei miei, sebbene la sua bocca sia molle sulla sua cannuccia. Sposta il bicchiere e chiude la bocca.

“Ti capisco,” dice. Mordicchia la cannuccia e faccio una smorfia al suono che produce. “Alla vita piace fare la stronza.”

“Vorrei che alcune cose non fossero mai successe,” mormoro. “Ma è tutto qui: un desiderio inutile. Non importa quello che faccio, non posso cambiare il passato.”

Eren si irrigidisce e ho paura di aver detto qualcosa di sbagliato.

“Eren?” Lo chiamo. Non mi risponde subito e mi allungo per afferrargli il braccio. 

Eren sobbalza così all'improvviso che la sua sedia gratta rumorosamente contro il pavimento. Attira l’attenzione del gruppo di amici seduti accanto a noi, ma tornano rapidamente alla loro conversazione. Aggrotto le sopracciglia e rimango a bocca aperta quando Eren mi spinge via con forza. La mia mano rimane goffamente nell’aria prima di tornare al mio lato del tavolo.

“Scusa,” dice, la voce sembra forzata. Si alza velocemente. “Levi, devo and-”

“Huh?” Mi alzo anch’io. “Eren? Cosa c’è che non va?”

“Nulla!” Risponde velocemente. “Io…”

Non finisce la frase e corre via. Lo guardo scioccato, il sangue mi affluisce alle orecchie. Il mio sguardo torna sul sua bevanda ancora mezza piena. Una goccia d’acqua scorre fuori dal bicchiere e viene subito assorbita dal tovagliolo.

Mi risiedo al tavolo, confuso.

“Cosa… è successo?”
 
***
 
Quando Eren si presenta a inglese, è come se si fosse completamente dimenticato quello che è successo ieri. Sono esterrefatto, ma allo stesso tempo dubito che riprendere in mano gli eventi gli gioverà. Ma non posso fingere che non sia successo nulla. Inoltre, Eren insiste sempre per avere delle risposte. Non posso fare lo stesso?

“Eren?”

“Mmh?” Mi guarda e io mi mordo l’intero della guancia.

“Cos’è successo ieri?” Chiedo e quando la bocca di Eren si spalanca, assottiglio gli occhi. “Non ti azzardare a dire che non era niente.”

“Ho solo dato di matto,” risponde.

“È per qualcosa che ho detto, vero?” Continuo. “Perché non hai-”

“Ascolta,” mi interrompe fermamente lui. “Lascia perdere, va bene? Ora sto bene.”

“E se non volessi lasciar perdere?”

“Di cosa stai parlando?” Chiede lui in risposta. Ci fissiamo per alcuni secondi prima di scuotere la testa.

“Niente. Dimentica tutto.”

Eren non si gira subito.

“Va bene.”

Non riesco a non pensare di non avere appena peggiorato le cose. Sospiro e cerco di concentrarmi su qualsiasi cosa stia dicendo il professore Smith in questo momento. È un compito difficile, considerando che la fonte della mia frustrazione è seduta di fronte a me, ma in qualche modo ci riesco.

Quando la campanella suona, raccolgo le mie robe e faccio per uscire quando Eren mi blocca la strada.

“Non era per te,” dice solo, e il modo in cui evita di guardarmi negli occhi fa sparire qualsiasi commento sarcastico che avevo sulla punta della lingua. “Scusa per essermene andato così.”

“Non preoccuparti,” rispondo.

Eren finalmente alza la testa per guardarmi.

“Ne sei sicuro?” 

“Perché non dovrei?”

Eren arriccia le labbra. Poi, ghigna improvvisamente.

“Sei troppo buono con me,” sussurra. “Non mi sorprendo di aver avuto una cotta per te.”

“Porca di quella miseria,” mi lamento. “Credevo volessi soltanto scoparmi.”

Eren scrolla le spalle e comincia a camminare.

“Non è colpa mia se sei scopabile,” dice facendomi l’occhiolino. Ruoto gli occhi.

“Sei disgustoso.”

“Eppure non sei ancora scappato.”

“Ci sto provando,” ribatto. “Ma tu sei come una sanguisuga… una pervertita e sgarbata sanguisuga.”

“Preferisco la definizione ‘frizzante compagno con tendenze a gravitare verso comportamenti discutibili’.”

Eren sorride, quel sorriso che gli fa assottigliare leggermente gli occhi e quella strana sensazione mi invade completamente di nuovo. Smette di camminare e io mi fermo bruscamente, le sue sopracciglia si alzano.

“Levi?”                                                       

“Sto bene,” scuoto la testa e mi sforzo a camminare. “Muoviti, mi farai arrivare in ritardo.”

Eren sbuffa e comincia di nuovo a camminare.
 

[1] WebMD: società americana che si dedica alla pubblicazione di articoli e informazioni online.
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 11


 
Eren

16:30, nel mio salotto.

I miei genitori sono al lavoro e Jean è fuori per fare una spesa dell’ultimo minuto. C’è una donna in salotto. Non riesco a vedere molto da dove sono, ma ha capelli scuri e pelle candida. Alza lo sguardo quando sente le scale scricchiolare e si alza velocemente dal divano, un sorriso brillante le modella le labbra.

“Oh, tu sei Eren, giusto?” Chiede, camminando verso di me per porgermi la mano. “Sono Mina, un’amica di Jean.”

Sbatto gli occhi e le osservo il viso. Immagino sia una bella donna.

“Ciao,” rispondo lapidario. Lancio un’occhiata al salotto e poi torno a guardarla. “Non aveva detto di aspettare qualcuno.”

Fingo di sistemare alcuni oggetti sul tavolo mentre Mina mi osserva, schiarendosi la gola un paio di volte, ma decido di ignorarla.

 “Allora, sei la sua ragazza?” Chiedo, guardandola con la coda dell’occhio. Questa strana emozione mi attanaglia il petto e cerco di sopprimerla. E anche se fosse? Jean ha il diritto di andare avanti dopotutto. Sono passati due anni. Non è che-

“No, non è così,” risponde Mina, le gote rosse dall’imbarazzo. “In realtà sono qui per te.”

“Per me?” Chiedo sollevando un sopracciglio. Incrocio le braccia al petto. “Per cosa?”

“Sono una consulente,” spiega, “Jean mi ha parlato di te.”

Annuisco e combatto l’esigenza di dire qualcosa di poco appropriato. Mina è solo una povera e innocente anima che è stata trascinata in mezzo a qualcosa che non la riguarda. Sarei un idiota a prendermela con lei.

“Allora era serio,” mormoro, in parte a me stesso. “Senti…”

“Mina,” ripete.

“Sì, lo so,” scuoto la testa. “Sto bene, okay? Davvero. Jean esagera. Sei una sua amica, no? Sai com’è fatto.”

Mina si agita sul posto e assottiglia leggermente gli occhi. Poi la sua espressione si fa più mite. Allunga una mano per toccarmi il braccio e sussulto al contatto. Il suo viso si trasforma in puro shock e io torno a mettere a posto il contenitore dove tutti tengono le loro chiavi in modo da non guardarla.

“Già,” replica lentamente Mina. “Ma penso che questa volta abbia ragione.”

“Non mi conosci nemmeno,” sbotto. “Come faresti a saperlo? Sai solo ciò che ti ha raccontato lui. Non ne valgo la pena.” 

“Hai ragione,” risponde Mina e sta davvero cominciando a darmi su i nervi. Quanto sia calma, intendo. Forse sono invidioso che lei riesca a mantenersi composta quando io sto andando fuori dai gangheri.

“Okay,” rispondo ed è un po’ strano che lei sia d’accordo con me.

“Ma capisco che tu sia ferito,” continua. “Non ci vuole un genio per capirlo. Voglio aiutarti. Penso che se riuscissi a estirpare anche solo in minima parte il tuo dolore, Jean si rilasserà.”

“Jean non sa nemmeno come rilassarsi. Fa il poliziotto da sette anni. Deve affrontare i problemi della gente ogni giorno. Non c’è niente di rilassante in questo.”

Mina ride e io aggrotto la fronte. Lei, in risposta, mi sorride.

“Pensaci, va bene?” Insiste. Mette la mano in tasca e ne tira fuori un pezzo di carta sottile. “Chiamami se cambi idea. Possiamo metterci d’accordo.”

Afferro il biglietto da visita, anche se non ho alcuna intenzione di chiamarla.

“Grazie,” dico sinceramente. “Ora devo andare.”

“Oh?” Mina solleva le sopracciglia. “Esci con un amico?”

“Qualcosa del genere,” borbotto. Infilo il biglietto della tasca dei jeans. “Grazie, però. Davvero.”

“Di nulla.”

Mi guarda mentre indosso le scarpe e afferro la giacca. Mi assicuro di avere il telefono in tasca e faccio a Mina un cenno di saluto prima di uscire di casa. Metto il cappuccio in testa e comincio a camminare.
 
***
 
17:01, appartamento di Nick.

Non c’è nulla di gentile nel modo in cui mi scopa, e ne sono grato. Gentile vuol dire intimo, e intimo significa qualche tipo di relazione con cui non voglio avere a che fare. Sprofondo le unghie sulla sua schiena e ignoro il gemito di dolore che emette. Ci porta all’apice e poi esce velocemente, tenendomi contro il muro. Le sue mani afferrano con forza le mie cosce fino a quando non me lo tolgo di dosso.

Nick mi lascia andare e mi guarda indossare i pantaloni. La mia frangia è sudata e alcuni piccoli ciuffi sono incollati alla fronte. Li tiro all’indietro con la mano e tolgo la felpa: fa troppo caldo per tenerla su. Nick va in cucina e prende una bottiglia d’acqua per me.

La prendo e butto giù metà contenuto prima che Nick parli.

“Cos’è successo?” Chiede con voce sottile.

“Nulla,” mento. Non sono dell’umore di parlare. “Grazie per la scopata.”

Nick sussulta, ma lo ignoro. Mi dirigo verso lo specchio nel corridoio e mi guardo il viso. Sono sudato, ovviamente, ma c’è anche dell’altro. Guardo altrove prima di poter vedere effettivamente cosa ci sia di stonato e mi appoggio al muro.

Nick mi osserva e incrocia le braccia. Aspetto che dica che dovremmo smetterla, che questo non è giusto, che ci sono altri modi per affrontare le cose. Ma non lo fa. Non lo fa mai perché è egoista esattamente come me. A chi importa se ci facciamo solo del male? A chi importa se questo non è salutare? È una soluzione temporanea ed è proprio ciò di cui ho bisogno.

Nick si siede sul divano e continua a guardarmi. Si sta comportando come se stesse per esplodere da un momento all’altro e immagino di capirne il motivo. Noto qualcosa sul pavimento e mi accorgo essere il biglietto di Mina. Lo nota anche Nick. Mi piego per rimetterlo in tasca.

“Oh,” dice Nick all’improvviso, i suoi occhi ampi e io scuoto la testa.

“No.”

“No, cosa?” Chiede, insospettito, e mi giro per guardarlo. Mormora qualcosa tra i denti che non riesco a capire.

“Vuoi parlarne di nuovo?” Sogghigno e Nick rotea gli occhi.

“Non ora,” risponde.

“Ormai ci siamo già dentro. Tanto vale andare fino in fondo!”

“Oh, per l’amor del cielo,” ringhia Nick, portando la testa all’indietro. “Forse dovresti prendere davvero in considerazione quella consulente.”

Sbatto gli occhi.

“Stai scherzando.”

“Ti sembra stia scherzando?” Chiede. Deglutisco e aggrotto le sopracciglia.

Voglio dirgli che mi sta tradendo in questo momento, che dovrebbe essere dalla mia parte, ma invece non gli rispondo. Nick sospira.

“A Jean importa molto di te,” sostiene Nick. “Lo sai questo, vero? Se non fosse così, pensi che lui si darebbe tanto da fare per te?”

“Gli dispiace solo per me,” lo correggo, la gola si secca e stringo la bottiglia d’acqua. “È quello che le persone fanno. Gli fai pietà e loro cercano di aiutarti, ma non perché gli importa. È solo perché vogliono sembrare delle brave persone.”

“Anche a me dispiace per te,” mormora Nick. “Ma mi importa di te e lo sai. Non sto cercando di sembrare una brava persona. Per quello ormai è tardi.”

Evito di guardarlo negli occhi. Non mi piace dove sta andando questa conversazione. È troppo… intima.

“No,” dico fermamente, serrando gli occhi. “Non farlo.”

“Perchè?” Chiede, alzandosi in piedi. Scuoto la testa quando sento i suoi passi avvicinarsi.

“Nick, te lo ripeto,” apro gli occhi e gli lancio lo sguardo più severo del mio arsenale. “Non farlo."

Nick ha l’aria sconfitta quando mi guarda. Mi confina contro il muro, ma poi fa un passo indietro.

“Scusa,” mormora e sembra così triste che il mio cuore fa fisicamente male.

“Come vuoi,” scrollo le spalle e prendo la felpa. “Devo anda-”

“Ehi, Eren?”

“Che c’è?” Mi fermo, la mano nascosta dalla manica mentre osservo l’espressione illeggibile sul suo viso.

“Puoi rispondere a una domanda?”

Lo guardo per alcuni secondi prima di annuire lentamente.

“Ossia?”

"Perché non permetti alle persone di avvicinarsi a te?” Chiede, aggrottando la fronte. “Perché allontani chiunque tenga a te?”

Deglutisco.

“Perché sto cercando di proteggerle,” digrigno i denti e infilo anche l’altro braccio nella manica della felpa. Chiudo la cerniera e afferro la giacca. “Altro?”

Nick mi fissa. Sbuffo e bevo il resto della bottiglia d’acqua prima di buttarla nel cestino lì vicino.

“Ciao, Nick,” dico, ma lui non risponde.
 
***
 
19: 45, cucina di Bertholdt.

Non ricordo come io e Bertholdt siamo arrivati a distenderci sul pavimento con un paio di bottiglie di birra, ma così è come mi ritrovo. Ricordo di aver lasciato l’appartamento di Nick incazzato come non mai e di aver mandato un messaggio a Bertholdt. Come siamo arrivati a bere è un mistero, ma se qualcuno mi offre una birra, non sono così scortese da rifiutare.

“Mhm?” Bertholdt sembra mezzo interessato, troppo impegnato a cercare di staccare l’etichetta dalla bottiglia. Le fredde mattonelle sono un sollievo contro la mia pelle accaldata e il lieve rimbombo della musica che esce dal salotto mi rende meno nervoso di quanto non fossi prima.

“Mia sorella non piaceva la birra,” dico. La parte ancora integra del mio cervello mi urla di chiudere il becco, ma la ignoro. “In realtà, odiava l’alcool in generale. Però fumava come un camino. Non l’ho mai capito, ma lo diceva sempre prima di…”

“Prima di…?”

“Niente,” mento, sentendo la lingua improvvisamente troppo gonfia per pronunciare una frase. Mi alzo velocemente camminando dappertutto. “L’ho dimenticato. È passato molto tempo.”

Bertholdt sembra parecchio sobrio quando lo guardo.

“Sei sicuro?” Chiede titubante.

Lo sono davvero? Non lo so. Scrollo le spalle e prendo la bottiglia. Sento la gola secca e quella bevanda dorata è così amara che mi devo sforzare di pensare di star bevendo qualcosa di buono per mandare giù il sorso. Bertholdt mi guarda con rapita attenzione mentre finisco la bottiglia e l’appoggio al terreno.

“Certo,” dico. È una risposta così scontata e ripetitiva che ormai non devo più pensare a un’altra risposta. Stai bene? Certo. Ne sei sicuro? Certo. Quindi non c’è nulla che non vada, giusto? Certo che no.

Bertholdt però non crede alle mie cazzate. Solleva le sopracciglia in un modo che mi fa venir voglia di cedere e confessare, ma sono bravo in questo. Tenermi le cose dentro, intendo. È bello quando tutti attorno a te sono convinti tu sia una specie di caso di carità.

“Non sei nemmeno bravo a mentire,” dice Bertholdt.

“Non puoi saperlo.”

“Invece sì,” insiste.

Grugnisco e mi gratto il retro della testa. So di puzzare di sudore, ma ora posso aggiungere anche l’odore di birra al misto disgustoso.

“Eren?”

“Non puoi giudicarmi,” dico, increspando le labbra. Bertholdt sembra sorpreso che gli stia rispondendo davvero.

“Okay,” risponde lentamente, come se non fosse sicuro su cosa stia accettando. Non posso biasimarlo. “Non ti giudicherò.”

“Non sono solito avere relazioni,” comincio. “Mi piacciono le ‘botta e via’. Non c’è alcun male nel farlo. Te li scopi e poi vai via. Nessun impegno. Nessun obbligo. Non ho problemi nell’impegnarmi in di per sè, solo…”

“Hai paura?”

“Non ho paura,” rispondo con fermezza, ma non appena le parole lasciano le mie labbra comincio a chiedermi se in realtà non ho paura di qualcosa.

Bertholdt scuote la testa e si alza, poggiando il mento sulle ginocchia.

“Hai come delle mura erette attorno a te,” comincia e riesco quasi a rimembrare le parole di Nick dire qualcosa di simile. “Ecco perché sei un lupo solitario, giusto? Non ti piace affezionarti alle persone.”

Sbuffo e distolgo le sguardo, desiderando di non aver finito la birra così velocemente.

“D’accordo, Dr. Phil,” sbotto. “E tu? Qual è il tuo problema?”

“Bassa autostima,” risponde con voce un po’ troppo acuta e mi domando se la birra stia cominciando a scorrergli nelle vene. Non ha l’aspetto di un bevitore accanito.

“Per cosa?” Chiedo, scuotendo la testa. “La gente aspira a baciare il terreno su cui cammini.”

“In realtà no,” dice, storcendo il naso. “Lo fanno solo quando vogliono usare casa mia per fare festa. A nessuno importa niente di me. Perché credi che fossi rimasto così sorpreso quando mi hai fatto gli auguri?”

Mi acciglio al pensiero di quella orribile festa. Ricordo con soddisfazione il mio pugno che entra in contatto con il viso di Reiner.

“Fanculo a quelle persone,” sbotto irritato. “Sono cazzate. Nessuno ha il diritto di sfruttarti per i loro comodi. È fottutamente-”

“Eren,” mi interrompe con dolcezza. Ruoto gli occhi e resto in silenzio finché non parla lui. “Ci sono abituato. Non mi interessa neanche più. Davvero.”

Scuoto la testa, stringendo la stoffa dei miei pantaloni con presa ferrea.

“Fottuti bastardi,” impreco, solo perché non riesco a trattenermi; Bertholdt sbuffa.

“Non è così male,” dice, portandosi le gambe al petto. “Nel senso, questo vuol dire che le persone mi prestano attenzione, no?”

Sbatto lentamente le palpebre, non capendo perché gli vada bene che le persone lo usino quando e quanto cazzo vogliono, ma poi mi viene in mente. Ai suoi genitori non frega nulla di lui. Deve essere questo il motivo per cui sono sempre in giro a fare solo dio sa cosa, mentre lui è a casa da solo con del personale che hanno assunto. Tuttavia, quest’ultimi non possono fungere da sostituti e Bertholdt sta soffrendo proprio per questo.

Mi sale la nausea al pensiero e mi stendo sul pavimento. Le fredde mattonelle rinfrescano la pelle coperta da una sottile maglietta, tuttavia non alleviano la voglia di vomitare.

“Cavolo, amico,” dico fissando il soffitto. “Ne hai passate tante, huh?”

“Anche tu, giusto?” Chiede Bertholdt. Con la coda dell’occhio, capisco che mi sta guardando, ma io continuo a guardare in alto. La luce mi brucia sempre un po’ di più gli occhi più passo il tempo a fissarla.

“Già,” rispondo con voce quieta, “Anche io.”
 
***
 
13:25, ora di ginnastica.

È venerdì, quindi il professor Zacharias ci lascia fare quel cazzo che vogliamo fin tanto che non restiamo seduti. Decido di passeggiare attorno il perimetro della palestra piuttosto di giocare a basket o qualcos’altro. Non sono dell’umore.

Noto qualcuno e rimango sorpreso nel vedere Levi camminare accanto a me. Mi dedica un piccolo e storto sorriso quando i nostri occhi si incrociano, facendomi arcuare un sopracciglio.                   
                                                                                                                        
“Stanno giocando a football nell’altra palestra, sai,” dico e Levi annuisce semplicemente.

“Gioco a football ogni giorno dopo la scuola,” dice sbuffando. “Pensi davvero io voglia giocare con degli incompetenti che non sanno nemmeno le regole? Inoltre, è quello schifo di flag football.”

“Ah, giusto,” faccio un cenno con la testa. “È una cosa da sfigati comparato a quello che fai tu, no?”

“Esatto,” ride sotto i baffi. Affonda le mani nelle tasche dei suoi pantaloni della tuta. “Tra poco finirà anche la stagione. Abbiamo un’importante partita contro Trost oggi. L’ultima della stagione, in realtà.”

“Ooh,” strascico il verso, colpendolo con la spalla. “Sei emozionato? Voglio dire, è la tua ultima partita delle superiori.”

“Immagino di sì,” solleva le spalle Levi. “Sarà la mia ultima partita in assoluto.”

“Eh?” Sbatto gli occhi, ripensando alle sue parole. “Non vuoi giocare a football all’università?”

Levi scuote la testa.

“Non ho mai voluto farne una carriera,” ammette. “Onestamente, mi ero iscritto solo per avere qualcosa da mettere nel curriculum vitae.”

“Cavolo,” fischio scuotendo la testa. “Ma sei bravo, giusto?”

“Le persone sembrano pensarlo,” risponde Levi con un’altra scrollata di spalle. “Sono decente. Alle persone importa solo perché sono il capitano.”

“Già,” dico. “Sai già chi sarà il tuo sostituto?”

“Non ancora,” risponde. “Ho alcune persone in mente, ma la decisione spetta al coach Dok. Sono sicuro farà la scelta giusta.”

“Ovviamente,” mormoro. “Ma in ogni caso, wow, buona fortuna per oggi.”

Levi sembra pensieroso.

“Dovresti venire,” propone. Lo guardo male per alcuni secondi.

“Vuoi che io venga a vederti?” Ripeto, giusto per assicurarmi di aver sentito bene, e Levi annuisce.

“Esatto,” continua. “I ragazzi vogliono organizzare un festa dopo la partita, ma non ho voglia di andarci. Possiamo uscire o fare altro… a meno che tu non abbia altri impegni.”

“Nah, sono libero,” rispondo. Non riesco bene a respirare e non so bene perché. “Va bene, verrò.”

“Davvero?” Sembra sorpreso prima di sorridere. Non lo fa spesso e me ne chiedo il motivo. Ma non ho intenzione di chiederglielo. “Rimarrò dopo la scuola, così possiamo incontrarci dopo la partita.”

“Certo,” scrollo le spalle. “È fatta.”

“Certo,” replico, ridendo.
 
***
 
20.03, campo da football.

Realizzo circa a metà partita che non me ne può fregar di meno del football. Considero di andarmene, visto che non mi sento più le palle e non ha senso rimanere. Ma poi mi ricordo di Levi e mi ritrovo a tormentare le mani all’interno delle tasche della giacca, premendo le gambe assieme per cercare di riscaldarmi.

Non ricordo molto della partita, considerando che ho speso la maggior parte del tempo a escogitare piani per andarmene, ma credo che la nostra squadra abbia giocato bene. È facile capire perché Levi sia una tale star, anche se lui nega sempre la sua bravura. Shiganshina batte Trost per parecchi punti, anche se non mi preoccupo di prestare attenzione a quanto ammontino effettiviamente.

Sono nel mezzo di battere i piedi per generare calore quando sento qualcuno chiamare il mio nome. Sollevando lo sguardo, trovo Levi venirmi incontro. I suoi capelli sono umidi (spero di acqua e non sudore) e si sistema la borsa sulla spalla quando mi raggiunge.

“Pronto?” Chiede.

“Certo,” rispondo.

“Bene,” accenna alla porta d’uscita bloccata da un’orda di persone. “La mia auto è nel parcheggio di fronte.”

Annuisco e ignoro il cuore aumentare i suoi battiti alla menzione di quella parola. Levi mi guida verso il parcheggio e lo seguo a passo lento. Percepisco il respiro accelerare e comincio a imprecare a bassa voce. Levi si ferma accanto alla sua auto e si gira per guardarmi con la fronte aggrottata.

“Stai bene?” Chiede con cautela. Vorrei annuire, ma il mio corpo decide di non cooperare. Rimango fermo in piedi a fissarlo. Lui sposta lo sguardo da me alla macchina prima di fare un cenno con la testa. “Ehi, possiamo camminare.”

“Tranquillo,” dico scuotendo la testa. Levi non sembra convinto e penso a qualcos’altro da dirgli. “Voglio dire, è solo un’auto. Nulla di cui avere paura.”

“Non ho intenzione di fare domande al riguardo,” continua Levi, aprendo il bagagliaio per gettarci la borsa. Lo chiude e spegne la macchina, facendomi sollevare un sopracciglio. “Va bene. Camminiamo. Non fa così freddo, dopotutto.”

Stringo le mani a pugno.

“No, non camminiamo.”

“Eren, davvero. Va bene. Non mi interessa.”

Mi supera e mette le mani nelle tasche. Si ferma quando è ormai a metà del marciapiede, girandosi verso di me.

“Muoviti,” dice.

Rilasso le mani e lo seguo.
 
***
 
Finiamo a prendere dello yogurt congelato e a vagabondare per le strade. È una serata calma per essere venerdì. Non ci sono molte persone in giro. Non che avrebbe avuto importanza in ogni caso. È… diverso.

Di solito ho un motivo per uscire, quindi è piuttosto strano camminare semplicemente in giro senza un obbiettivo. Non sto cercando di scappare da qualcosa e non sto cercando di andare verso qualcosa. Sono solo qui. È bello e bizzarro, immagino.

Levi mangia il suo yogurt in silenzio mentre io invece gioco con la coppetta. Guarda verso di me sollevando un sopracciglio.

“Non ti piace,” constata, non provando nemmeno a farla sembrare una domanda e io sbuffo.

“Non capisco come tu possa illuderti così da solo,” comincio, spostando lo yogurt con il cucchiaio. “Voglio dire, è ovvio che questo sia solo normale yogurt. Avremmo potuto prendere un gelato.”

“Non avevo mai assaggiato dello yogurt congelato,” sostiene scuotendo la testa. “Volevo vivere quest’esperienza.”

“Beh, ora l’hai vissuta,” sbuffo ancora. “Segna un tick sulla sua lista delle cose da fare. Santo cielo, perché mi sono fidato di te? D’ora in poi deciderò sempre io cosa prendere.”

“Buona idea,” acconsente Levi. “Così non dovrò assistere ai tuoi sguardi passivi-aggressivi.”

“Hah. Divertente.”

Scrolla le spalle e butta la coppetta vuota nel bidone della spazzatura lì accanto. Finisco in fretta la mia porzione per buttarla via anch’io, il gusto dello yogurt rimane ancora pungente. Passo la lingua sui denti per liberarmene e guardo Levi. Lui distoglie subito gli occhi e rimette le mani nelle tasche della giacca.

“Quindi cosa ne pensi?” Chiede e io sbatto le palpebre.

“Dello yogurt? Credevo di aver già reso chiaro il mio pensiero. Ho tradito il divino gelato nostro salvatore solo perché tu volevi provare una povera imitazione.”

“No,” sbuffa ruotando gli occhi. “Intendevo dire cosa ne pensi della partita.”

“Ah,” annuisco. “Onestamente, sono stato distratto quasi tutto il tempo. Ma ho visto che avete vinto. Sono certo Reiner sarà su di giri e lo dirà a tutti coloro che lo ascolteranno lunedì.”

Sbuffa di nuovo.

“Ne sono certo,” concorda.

“E tu cosa pensi?” Chiedo. Lui solleva un sopracciglio.

“Tutti hanno fatto la loro parte. Non posso lamentarmi,” scrolla le spalle. “È stato strano visto che era l’ultima partita, ma…”

Smette di parlare e io non insisto.

“Avrei voluto ci fosse anche Bertholdt,” ammette a bassa voce. Deglutisco rumorosamente e mi mordo l’interno della guancia.

“Doveva lasciare la squadra.”

“Lo so, Eren,” scuote la testa. “È solo che… fa schifo. Avrebbe dovuto essere lì con noi a festeggiare la vittoria. Ma per colpa di Reiner-”

“Ehi,” dico, interrompendolo. “Non c’è nulla che avresti potuto fare. Bertholdt doveva pensare a sé stesso e prendere una decisione da solo. Dovresti essere fiero di lui.”

“Lo sono,” risponde Levi. “Vorrei solo che le cose fossero diverse.”

“Diverse...” ripeto e mi domando se dovrei dirgli che desidero anch’io che le cose fossero diverse, lo desidero tutto il tempo. “Non sarebbe bello?”

Levi mi dedica uno strano sguardo prima di guardarsi i piedi, sospirando lentamente.

“Ehi,” dico attirando la sua attenzione. “Ricordi quando hai detto che vorresti cambiare il passato, ma non c’è modo per farlo?”

Annuisce.

“È stato quello che mi ha spaventato,” dico. “Diciamo che non ci avevo mai pensato. Sono così bloccato in un passato che non riesco a superare che non ho mai pensato al fatto che non posso cambiarlo.”

La fronte di Levi si aggrottò per alcuni secondi prima di scuotere la testa.

“È dura,” mormora. “Ogni giorno, desidero di aver potuto fare qualcosa.”

“Ma non c’è nulla da fare, no?” Chiedo conferma. “Perché tutto è passato e ora devi andare avanti con tutta la merda che la vita decide di tirarti addosso.”

“Già,” dice. “Esatto.”

Ci fissiamo prima di distogliere lo sguardo.

“… Ho ancora fame,” mormoro. Levi sbuffa.

“Coraggio, andiamo a mangiare.”

Indica con la testa la fine della strada. Riesco a intravedere una sorta di bar-ristorante, ma non riesco a dar voce alla mia opinione visto che Levi mi afferra il polso e mi trascina in quella direzione. Fisso la sua mano attorno al mio polso prima di sorridere stupidamente.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 12

Levi

Kenny ha metà bottiglia di birra vuota quando torno a casa. Non la sta bevendo. È seduto sulla poltrona del salotto, fissando un punto imprecisato. Afferro le stringhe dello zaino e rimango fermo sulla soglia della porta.

La testa di Kenny crolla in avanti e il suo mento colpisce il petto. Attraverso la stanza, completamente consapevole di star camminando in territorio insidioso; lui allenta la presa sulla bottiglia per poi poggiarla sul tavolino.

“Bentornato,” gracchia, alzando a fatica la testa. Trattengo uno sbuffo e lo fisso dall’alto.

“Non cominciare con queste stronzate,” borbotto facendo scorrere le dita tra i miei capelli.

“Ho visto la tua partita oggi,” mormora trascinando le parole con fatica, ed aggrotto la fronte.

“Impossibile.”

“Sì, invece,” dice, parlando ancora pigramente e raggiungendo di nuovo la bottiglia di birra. Non cerco di fermarlo. “Non ti avevo mai visto giocare.”

“Lo so,” rispondo incrociando le braccia al petto. “Perché-”

“Hai giocato bene,” mi interrompe bevendo un sorso dalla bottiglia. Assottiglio di occhi.

“Mi stai prendendo per il culo?”

“No,” risponde pensieroso.

“Come sei venuto a sapere della partita? Non ricordo di averti detto nulla.”

“Alcuni giocatori sono figli dei miei colleghi,” risponde.

Deglutisco e guardo altrove.

“Ehi, ragazzino.”

Lo guardo reclutante.

“Tua madre sarebbe stata fiera,” constata. Non riesco a capire se mi sta prendendo in giro oppure no.

“Che importanza ha?” Chiedo, girandomi. “È morta.”

“Levi.”

“Cosa c’è ora?” Lo guardo di nuovo, facendo aumentare l’opprimente sensazione che sento al petto. Non riesco a ignorarlo nonostante gli sforzi e più rimango qui, più questa sensazione fa male.

“Mi dispiace.”

Lo scruto attentamente. I suoi occhi sono rossi con due bottiglie di birra vuote ai piedi. Sembra sia a cinque secondi dall’addormentarsi. Sembra… patetico.

Non mi azzardo a dirglielo, però. Non ho tendenze suicide. Stavolta non è il classico alcolista ostile e di certo non lo voglio provocare. Se vuole fare il depresso, certamente io non lo fermo.

“Okay,” dico semplicemente. Kenny non dice altro. Mi fissa con quegli occhi penetranti. “Bene.”

Lo lascio così, ubriaco e mezzo addormentato e io non provo alcuna emozione.
 
***
 
Come predetto da Eren, Reiner è intenzionato a far sapere a tutti quanti, comprese le nonne di chiunque, della vittoria della nostra squadra. Cerco di calmarlo, ma è difficile quando è davanti a me di tre banchi, con voce talmente alta da sembrare un megafono.

“Davvero lo sta facendo anche ora?” Sussurra Marco accanto a me. Sbuffo e scuoto la testa.

“Sai com’è fatto.”

“Già,” scrolla le spalle Marco e si piega sul banco, picchiettando la punta della matita. “Ehi, cosa ti è successo venerdì? Sei scomparso finita la partita o cosa?”

Deglutisco a fatica e sollevo le spalle, evitando di guardarlo negli occhi a ogni costo.

“O cosa,” mormoro, basso abbastanza da non permettergli di sentirmi. Alzo la voce. “Perché, vi sono mancato o cosa?”

“O cosa,” mi imita, sorridendo quando gli dedico uno sguardo sorpreso.

“Non ne avevo voglia,” ammetto. “Feste e roba varia non sono la mia definizione di divertimento. Lo sai.”

“Sì, lo so,” risponde Marco, annuendo solennemente. “Specialmente dopo l’ultima festa…”

“Ah, già,” annuisco lentamente. “Diciamo che Eren è un tipo selvaggio.”

“È un modo carino di dirlo,” sorride Marco. “Ehi, gli hai più parlato dopo quella volta? So che l’hai invitato, ma ho pensato che ti sentissi solo in colpa nei suoi confronti per l’incidente negli spogliatoi.”

“Uh, sì, hai ragione,” alzo le spalle. “Ehi, non ti è mancato Bertholdt alla partita?”

Gli occhi di Marco si assottigliano impercettibilmente, ma non dice nulla riguardo il cambio drastico di argomento. Trattengo un sospiro di sollievo.

“Sì, sembrava mancasse qualcosa,” scuote la testa. “Nessuno l’ha mai nemmeno nominato. Neanche Reiner.”

“Beh, ne sei sorpreso?” Osservo, sollevando un sopracciglio. “È… Reiner.”

“Giusto,” risponde lentamente Marco.

L’insegnate di matematica fa il suo ingresso in aula, quindi giro la testa per guardare la lavagna. Percepisco Marco osservarmi ed è irritante. Ma, per mia fortuna, non insiste. Non lo fa mai, e non ne sono mai stato così grato.

Quando la campanella suona la fine della lezione, afferro i libri uscendo immediatamente dall’aula.
 
***
 
“Ah, cazzo!”

Sto per prendere il pranzo quando uno stronzo inciampa e mi versa qualcosa di disgustoso sulla maglia. Stringo la presa sul vassoio e mi giro, pronto per imprecare contro il malcapitato, ma le parole mi muoiono in gola quando incrocio lo sguardo di Farlan.

“Merda,” mormora a voce talmente bassa che fatico a sentirlo. “Ehi, scusami. Credo di essermi distratto.”

“Lo credo anch’io,” borbotto. Non gli parlo da chissà quanto tempo. Ho parlato solamente con Isabel, ma da quando aveva deciso che non le importava più un cazzo di me alla festa di Reiner, non ho più parlato nemmeno con lei. E siccome Isabel non mi parla, non lo fa nemmeno Farlan.

“Vengo con te. A prendere un cambio di vestiti, intendo.”

“Sei sicuro? Isabel non ti spaccherà la testa quando lo verrà a sapere?” Chiedo, solo perché a volte sono fatto così. Rancoroso. Ma non è questo il punto.

Farlan trattiene un sorriso che riesco comunque a individuare, ma che non appartiene al suo viso. Capisco che mi sembra così perché quel sorriso è diretto a me. Di solito, sia lui che Isabel mi guardano come se volessero uccidermi. È… strano vederlo così amichevole. Sento il cuore stringersi dolorosamente e cerco di concentrarmi su qualcos’altro.

“Sopravvivrà. Andiamo. ”

Scrollo le spalle e mi dirigo verso il mio tavolo per poggiare il vassoio. Thomas è l’unico seduto, ma sta facendo un pisolino e non si rende conto della mia presenza. Vedo Farlan buttare via il suo pranzo e sollevo un sopracciglio.

“Non hai fame?”

“Non molta,” risponde scrollando le spalle. “Quei nachos sembrano avvelenati. A essere sinceri, mi hai fatto un favore.”

“Sei stato tu venirmi contro.”

“Ah, dettagli,” agita una mano sprezzante.

Sbuffo e controllo lo stato del resto dei miei vestiti. La maglia è sola cosa che si è bagnata, per fortuna. Scarpe e pantaloni sono asciutti e immagino di dover ringraziare il cielo per questo.

“Non è latte, vero?” Chiedo speranzoso. Non ne ha l’odore, ma non voglio avere un falso senso di sicurezza. L’ultima cosa di cui ho bisogno è puzzare di latte scaduto.

“Nah, è succo d’arancia. Profumerai dell’aroma piacevole dei cedri per il resto della giornata.”

“Wow, ti ringrazio.”

“Non c’è di che.”

Ridiamo e riscopro questa familiarità. Sono abituato a minuti di prolungato silenzio o battutine di Isabel ogni qualvolta dobbiamo lavorare insieme a un progetto di inglese.

“Ehi,” dico per attirare la sua attenzione. “Mi dispiace. Sai, per la questione di inglese. Credo sia imbarazzante per noi lavorare insieme. Ma per fortuna Isabel ha chiarito piuttosto sgarbatamente che non c’è più bisogno di lavorare insieme. Perciò-”

“Non voleva dire nulla di tutto quello che hai sentito,” mi interrompe Farlan e io sollevo un sopracciglio.

“Non eri nemmeno lì. Sono piuttosto sicuro che volesse dire tutto ciò che ha detto.”

“Assolutamente no,” scuote la testa. “Voglio dire, è Isabel. Tutto fumo e niente arrosto. L’ha detto solo per il gusto di dirlo.”

Arriccio le labbra e non dico nulla. Raggiungiamo l’infermeria e spiego la situazione. L’infermiera ride, ma mi allunga una maglietta a tinta unita con cui cambiarmi. La ringrazio cambiandomi nel bagno, tenendo in mano la maglia bagnata. La signorina mi passa un sacchetto di plastica e la ringrazio infilandoci dentro la maglia, per poi congedarci con un sorriso e un gesto della mano.

“Levi?”

Mi giro per guardarlo. Farlan sospira e si gratta il retro del collo.

“Che c’è?”

“Io… non importa,” Farlan scuote la testa. “Scusa ancora per la maglia.”

“Tranquillo,” rispondo infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. “Ci vediamo. Credo.”

“Già, ci vediamo,” dice Farlan.

Mi volto e non guardo indietro.
 
***
 
Quando entro in spogliatoio, Eren e io incrociamo gli sguardi. Non so se dovrei salutarlo o meno. Ci facciamo solo un cenno con la testa? Non so come funziona. Non ho mai dovuto pensare a cose del genere prima d’ora. Venivano naturalmente, ma non so davvero cosa fare quando si tratta di Eren.

Per mia fortuna, però, Eren mi dedica un sorriso. Sorrido di rimando, ma sembra forzato e sono sicuro sembri più che altro un ghigno. Mi dirigo verso il mio armadietto e tiro fuori i vestiti prima di dirigermi verso la mia solita cabina.

I miei occhi finiscono involontariamente su Eren quando finisco di cambiarmi. Si sta mettendo un paio di pantaloni da tuta quando noto dei lividi scuri sulle sue cosce. La mia mente si svuota completamente e mi ritrovo bloccato nel mezzo dello spogliatoio.

“Yo, Ackerman! Togliti la testa da culo e spostati. Devo andare in bagno.”

Reagisco a malapena quando Reiner mi spinge. Franz ridacchia e Thomas mormora qualcosa che non riesco a sentire. Marco urla di tacere. Eren ormai si è infilato i pantaloni e si è girato per assistere alla scena.

Tengo la testa bassa e torno al mio armadietto, lanciando dentro i vestiti senza preoccuparmi di piegarli. Chiudo col lucchetto e appoggio le mani sul freddo metallo per alcuni secondi. La sensazione fredda mi distrae un po’. Quando il signor Zacharias ci dice di uscire, sento di riuscire a respirare.

“Ehi, che succede?”

Eren mi afferra il braccio e mi giro per guardarlo. Scuoto la testa ed evito il contatto diretto con gli occhi.

“Oh, quello? Reiner fa il solito idiota. Nulla di nuovo.”

“Ah,” ride Eren. “Avrei dovuto aspettarmelo, no?”

“Forse sì,” dico. La mia testa sta gridando di chiedere a Eren di quei lividi, ma non sono affari miei. Forse non si è fatto male. Forse…

Il pensiero, nonostante incompleto, mi gela sul posto. Eren smette di camminare e si gira per guardarmi, sollevando un sopracciglio.

“Uh… Terra chiama Levi? Dobbiamo andare.”

“Sì, lo so,” scuoto la testa velocemente e mi sforzo di muovere il corpo.

Eren sbuffa e mi guarda strano.

“Cos’hai che non va?”

“Nulla, sono solo stanco,” scrollo le spalle. “È stata una notte lunga.”

“Davvero?” Solleva un sopracciglio. “Sono offeso che tu pensi che io non riesca a capire quando stai raccontando cazzate. Non sei nemmeno un bugiardo convincente.”

“Fottiti,” dico nonostante manchi di qualsiasi cattiveria. Eren ruota gli occhi e mi colpisce rudemente con la spalla.

Premo le labbra in una linea sottile e fingo di non provare nulla. Ci rinuncia dopo alcuni secondi, sbuffando sonoramente e mettendosi le mani in tasca.

Ci riscaldiamo e facciamo stretching prima che il professor Zacharias ci divida in squadre per giocare a basket. Giochiamo fino a quando non rimangono dieci minuti alla fine dell’ora. Il professore ci spedisce in spogliatoio per rivestirci in fretta. La campanella suona e i ragazzi gioiscono. Ruoto gli occhi e metto via la mia roba con calma. Non tutti hanno il lusso di poter guidare fino a scuola e quindi di non avere autobus da prendere, ma per fortuna io questo lusso ce l’ho.

Stavo per uscire quando passo affianco a Eren. I lividi sulle sue cosce sono un contrasto non indifferente sulla sua pelle e non riesco a distogliere lo sguardo. Rimango fermo come una statua, pietrificato, fino a quando lui non alza la testa. Sta per infilarsi i jeans, ma si ferma con un sopracciglio alzato.

Evito il suo sguardo e deglutisco rumorosamente. Eren sposta lo sguardo sulle sue gambe e poi torna a guardare me.

“Così evidenti, huh?” Non suona per niente sconvolto. Gli dedico uno sguardo confuso.

“Sembra facciano male,” mormoro, ma lui solleva le spalle.

“Nah. Ti ci abitui dopo un po’.”

Sento lo stomaco torcersi alle sue parole. Non mi sono mai abituato a vedere botte e lividi sulla mia pelle. Sono un costante promemoria della mia inabilità di combattere, di una debolezza che fingo di non possedere, e lo odio.

“Non dovresti,” dico. “Esserci abituato, intendo. Non… non è normale, sai?”

Eren si infila i pantaloni e comincia a ridere. Spalanco la mascella e lo fisso intontito, troppo scioccato per capire cosa sta succedendo.

“Nessuno mi sta facendo del male,” dice scuotendo la testa. “Davvero, dico sul serio.”

“Tu dici? Perchè sembra qualcuno te le abbia suonate,” incrocio le braccia al petto e sollevo in sopracciglio, per niente divertito.

“Mi sono procurato questi lividi mentre facevo sesso,” spiega, ghignando lupescamente. Percepisco le orecchie incendiarsi. Deglutisco e mi concentro sulla fila di armadietti accanto a me così da non dover guardare Eren in viso. Mi sento male di nuovo e non ne conosco il motivo. “Non mi ha picchiato nessuno, se è quello che stai pensando.”

“Va… bene,” mi sforzo a dire, sentendomi uno stupido.

Non dice nulla e ne sono grato. Quando credo di avere meno voglia di buttarmi giù da un ponte, sollevo gli occhi. Lui sospira lentamente e chiude l’armadietto con il lucchetto.

“Grazie per esserti preoccupato, però,” continua. “Ti prometto che ne parlerò con qualcuno se succede qualcosa.”

“Okay,” rispondo sentendomi un fottuto ipocrita. Dovrei dire qualcosa, giusto? Dovrei dire a qualcuno che mio zio mi picchia quando è irritato, il che accade più spesso di quanto dovrebbe.

Ma forse non voglio affrontare tutta la roba legale che ne comporterebbe. Era stato difficile abbandonare la vita che avevo con mia madre e vivere con Kenny. Micheal è il mio unico altro parente, ma preferirei stare con Kenny piuttosto che vivere con il promemoria che mio padre, l’uomo che mi ha creato, non vuole avere nulla a che fare con me.

“…Levi?”

Eren sembra a disagio e realizzo di aver continuato a fissarlo per tutto il tempo che la mia mente aveva vagato. Mi schiarisco la gola e scuoto la testa.

“Scusa, tutto a posto,” dico. “Sono contento tu stia bene.”

“Già,” Eren scrolla le spalle e infila le mani nelle tasche. “Devo andare. Ci metterò un bel po’ a tornare a casa a piedi.”

Quasi gli offro un passaggio, ma ci ripenso.

“Ti accompagno,” dico ed Eren corruga la fronte.

“Non hai un’auto?”

“Beh, sì,” rispondo, percependo il petto stringersi. “Ma non è la prima volta che la lascio qui. Posso tornare a prenderla, in caso.”

“Non voglio causarti tanto disturbo.”

“Senti-”

“Starò bene,” dice infine Eren sorridendo, ma non riesco a fare lo stesso. “Te lo posso giurare. L’ho fatto un miliardo di volte.”

“D’accordo,” dico. “Allora ci vediamo domani.”

“Sì,” risponde Eren. “A domani.”

Mi supera e riesco a respirare solo quando sento la porta degli spogliatoi chiudersi.
 
***

Il professor Smith è seduto sul bordo della cattedra con le braccia incrociate, aspettando che la campanella suoni. Eren entra in aula e subito dopo solleva un sopracciglio. Lo sostituisce con un sorriso di scherno e si siede davanti a me, sistemando sul banco un quaderno e una matita.

Le mie orecchie diventano rosse al pensiero della conversazione che abbiamo avuto ieri. Mi mordo l’interno della guancia fino a quando un sapore metallico non mi invade il palato.

“Come tutti voi sapete, siete tenuti a scrivere un testo argomentativo di dieci pagine come requisito per il diploma,” il professor Smith spiega quando siamo tutti in silenzio e seduti ai nostri posti. “E considerando che sarà un progetto che porterà via molto tempo, ho pensato di fornirvi qualche spunto per degli argomenti che-”

“Argomenti?” Domanda Isabel, la mano sollevata per attirare l’attenzione dell’insegnante. Posso praticamente vedere le rotelle azionarsi nella sua testa e quasi mi viene voglia di sorridere. Ha sempre amato scrivere, quindi ha senso che sia così entusiasta per questo progetto. “Intende qualsiasi argomento?”

Incrocio lo sguardo di Farlan, il quale mi dedica un sorriso esitante. Sorrido di rimando e mi giro nuovamente verso la lavagna.

“Esatto,” il professore ride sommessamente. “Tutti gli insegnanti di inglese assegnano degli argomenti specifici, ma io invece ho pensato che sarebbe stato meglio lasciare scegliere a voi di cosa trattare. È il vostro tema, dopotutto. Se dovete scrivere dieci pagine di qualcosa, tanto vale sia qualcosa che vi piace.”

“Non siamo nemmeno a dicembre, però,” interviene Eren, appoggiandosi allo schienale della sedia così tanto che questa ha scricchiolato. “Non le sembra di correre troppo?”

“Può darsi,” risponde il professore. “Ma più tempo avete meglio è, no? Specialmente per coloro che tendono a procrastinare.”

Eren sbuffa scocciato e mi mordo il labbro per trattenere una risatina. Sarà un vero miracolo se Eren lo comincerà, considerando che non fa mai nulla, ma non è un mio problema.

“Vorrei mi consegnaste le prime idee per venerdì. Può essere qualsiasi argomento, come ho detto, ma assicuratevi sia appropriato.”

Si eleva un coro di borbottii. Dopo di che, il signor Smith inizia la lezione sedendosi sulla sedia. Scribacchio alcuni appunti, ma per la maggior parte del tempo lascio vagare la mente. Di cosa diavolo dovrei parlare? Inglese non è la materia in cui vado meglio, infatti la trovo una perdita di tempo. Come cazzo dovrei riuscire a scrivere la bellezza di dieci pagine?

La campanella interrompe i miei pensieri. Trattengo un respiro di sollievo e raccolgo le mie cose.

“Con quanta generosità ci diletta il professor Smith, eh?” Chiede Eren, facendomi sollevare lo sguardo. “Per lasciarci scegliere, intendo.”

“Immagino di sì,” rispondo con una scrollata di spalle. “Però mi piacerebbe avere qualche indicazione in più. Non ho idea di cosa potrei scrivere.”

“Dieci pagine sono troppe,” Eren stringe gli occhi. “Chi ha tempo per cose del genere?”

Alzo le spalle e fingo interesse verso il poster sul muro. Eren rigira la matita tra le mani e si schiarisce la gola.

“Ehi, siamo a posto, vero?” Domanda.

“Uh, certo,” rispondo anche se mi sento in imbarazzo senza saperne il motivo. “Perché non dovremmo?”

“Sai, per quello che è successo ieri,” Eren scrolla le spalle e scuote la testa. “È che sembravi piuttosto sconvolto. Come se dovessi vomitare o qualcosa del genere.”

“Ero solo sorpreso,” rispondo grattandomi il retro del collo e decido non dirgli che vomitare era esattamente quello che stavo per fare ieri.

“Giusto,” annuisce lui e scrolla di nuovo le spalle. “Voglio dire, non è poi una cosa così grave.”

Mi viene una mezza idea di fargli capire che a chiunque ragazzo lasci quel tipo di lividi su di lui dovrebbe venirgli amputato il cazzo, ma poi realizzo che se dovessi dirlo, sarebbe la prova definitiva che non siamo per niente a posto. E lo siamo, ovviamente, considerando che non sono affari miei chi decide di scoparsi.

“Sì, non me l’aspettavo, ecco tutto. Ma ehi, congratulazioni. Per aver scopato, intendo.”

Mi maledico mentalmente quando la frase lascia le mie labbra. È una frase idiota, ma la mia bocca sembra fregarsene e io non riesco a fermarla. Eren ghigna e fa sbattere le nostre spalle, girandosi per cominciare a camminare. Lo seguo, ricordandomi improvvisamente di avere una lezione a cui presenziare.

“Grazie, credo,” dice lentamente.

Resisto all’urgenza di annuire o aprire la bocca. Mi sento ancora più in imbarazzo di prima. Ci fissiamo e mi ritrovo a deglutire.

“Dovrei andare,” dico, indicando col pollice la porta dietro di me. “Ho scienze.”

“Già, dovresti,” continua Eren, ma nessuno dei due fa un passo.

La campanella suona e impreco. Non avevo realizzato che fossero già passati cinque minuti. Eren sembra indifferente alla cosa mentre osserva le persone cominciare a entrare.

“Cazzo,” sibilo, girandomi.

“Ehi, Levi!”

Mi fermo e mi giro per guardare di nuovo Eren. “Cosa c’è?”

“Non era…” si interrompe e scuote la testa. “Nulla. Scusami. Vai.”

Cerco di non pensare a quanto sprezzanti fossero le sue parole mentre mi giro e mi dirigo in classe. La professoressa Zoe non è ancora arrivata, quindi mi siedo al mio posto cercando di controllare il respiro. Marco si gira per dedicarmi uno sguardo sorpreso.

“Stai bene, amico?” Chiede, continuando a muovere la testa come se lo aiutasse a vedermi meglio in faccia. “Sembri un po’ spaesato.”

“Spaesato?” Ripeto e ripenso a pochi instanti fa. Cosa diavolo stava per dire Eren? Perché non l’ha semplicemente detto? “Nah, sto bene.”

“Va bene,” dice lentamente Marco, come se non mi credesse, ma non mi interessa minimamente. “Come vuoi, amico.”

Annuisco e guardo la porta aprirsi quando la professoressa Zoe entra in aula. Mette il film che avevamo cominciato venerdì scorso e concentro l’attenzione sulle immagini, ignorando sia lo sguardo preoccupato di Marco sia il tentativo della mia mente di tirare fuori Eren ancora e ancora.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 13

Eren

Ore 09:27, sabato. Mi sdraio a letto e fisso il soffitto finché l’odore di bacon non mi fa emettere un forte brontolio allo stomaco. Gemo sommessamente e lo accarezzo nell’inutile tentativo di farlo tacere.

Facendo ruotare le gambe oltre la sponda del letto, mi passo le dita tra i capelli e mi allungo sul comodino finché le mie dita non raggiungono il telefono. L’unica notifica che ho è un messaggio di Nick. Lo cancello senza preoccuparmi di leggerlo e faccio scivolare il telefono dov’era prima.

Mi cambio e faccio una doccia veloce prima di scendere al piano di sotto. L’odore di bacon si concentra sempre di più man mano che mi avvicino alla cucina. Infilo la testa dallo stipite della porta e sbircio nella stanza. Jean ha uno dei grembiuli della mamma legato intorno alla vita. Fischietta felice mentre gira un altro pancake.

“Sei il perfetto casalingo.”

Jean sussulta e si gira.

“Non ti ho sentito arrivare.”

Faccio spallucce e scivolo su una delle sedie della cucina. Guardo fuori dalla finestra e osservo il cielo.

“Pensi che nevicherà” Chiedo. “Voglio dire, è quasi dicembre.”

“Forse,” dice Jean, facendo scivolare un pancake fresco sulla pila già alta. “Ehi, mi aiuti con questo?”

Mi alzo e gli prendo il piatto di frittelle. Lui mette sul tavolo la bottiglia di sciroppo d’acero e il piatto di bacon.

“Vuoi uova?” Chiede. Scuoto la testa.

“Non mi piacciono le uova,” spiego. Comincio a servirmi e alzo un sopracciglio. “Oh, a proposito, come mai tutto questo? Pensavo avessi detto che odiavi cucinare.”

“Non c’è molto altro da fare,” borbotta.

Mi mordicchio l’interno della guancia.

“Il tuo capo non ti lascia ancora tornare al lavoro?”

“Ha detto che mi avrebbe chiamato,” borbotta Jean. Mastico lentamente un pezzo di pancake.

“Hai mai capito le cose che volevi fare?”

“Eh?” Jean chiede, confuso, e io faccio spallucce.

“Avevi detto che stavi da noi perché avevi bisogno di capire alcune cose.”

“Oh,” Jean fissa il suo piatto per un po’ prima di ricominciare a mangiare. Non dice altro e io torno al mio pancake. “Eren?”

“Che c’è?”

“Mi dispiace.”

“Per cosa?”

“Per quello che ho detto su Nick,” dice Jean. Sembra che stia soffrendo fisicamente, ma apprezzo il sentimento. “So che è tuo amico.”

“Lo era,” dico con amarezza e Jean inarca un sopracciglio. “È complicato.”

“In che senso?”

Decido sia meglio non dire a Jean che io e Nick scopiamo ogni volta che decido di dimenticare qualsiasi cosa di merda mi proponga la vita. Invece, faccio spallucce ed evito di rispondere alla sua domanda.

“Niente. Lascia perdere.”

Jean lascia perdere e gliene sono grato. Di solito non lo fa. Lasciare perdere, intendo. Dio solo sa se gli piace insistere.

Mi sgrido al pensiero e mi infilo in bocca un’altra fetta di pancake. Sono buoni. Ho mangiato la cucina di Jean solo una manciata di volte, ma è sempre stata migliore di quanto pensassi. Di solito, però, non critico il cibo. Il cibo è cibo, e finché sono sazio, non me ne può fregare di meno del suo sapore.

“Eren.”

“Cosa?”

“Puoi dirmelo,” si china leggermente sul tavolo e fingo di interessarmi alla tovaglia per non doverlo guardare. “Che cosa è successo tra te e Nick?”

“Niente,” dico con fermezza e spingo via il mio cibo mezzo mangiato. “Non ho fame. Vado a fare una passeggiata.”

Mi allontano dal tavolo e ignoro il sospiro stanco di Jean.

“Eren? Eren!”

Afferro la giacca e le chiavi di casa e sbatto la porta d’ingresso alle mie spalle. Sono irritato e vorrei solo prendere a pugni un muro. Non mi piace prendere a pugni le cose, soprattutto perché non fa altro che farmi male, ma a volte c’è qualcosa di appagante nel dolore. Sembra una cosa malata, ma non so come spiegarla.

Scuoto la testa e infilo le mani in tasca; la ghiaia del vialetto scricchiola sotto i miei piedi a ogni passo. Qualcosa di ruvido mi scava nelle dita e mi ci vuole qualche istante per capire che è il biglietto da visita di Mina. Credo di non averlo mai tirato fuori dalla tasca. Cerco di non pensarci e di concentrarmi su ciò che mi circonda. Fuori fa un po’ freddo, ma c’è il sole e la mia pelle è calda. Espiro dolcemente, solo per vedere il mio respiro annebbiarsi davanti a me.

Non ho in mente una meta precisa. Continuo a camminare e camminare finché non sento un dolore sordo ai polpacci e il respiro diventa un po’ difficile. Mi guardo intorno e mi accorgo di essere di fronte alla biblioteca.

Non è il mio posto preferito. Leggere mi annoia a morte, ma è tranquillo e credo di aver bisogno di sedermi e pensare a qualcosa. Salgo i gradini e spalanco la porta. Una ventata di aria calda mi colpisce in pieno viso.

Mi slaccio la giacca e sorrido alla bibliotecaria. Lei sorride a sua volta prima di tornare al suo libro. La ignoro e torno verso i computer. Scelgo una sedia a caso e mi ci siedo, inclinando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi.

“Ehi, amico. Sei al mio posto.”

Gli occhi rimangono chiusi mentre rispondo.

“Oh, davvero? Immagino che dovrai scegliere un altro posto.”

“Io credo che tu debba spostarti".

I miei occhi si aprono di scatto. Ho già pronte alcune parole per chiunque abbia deciso di rovinare la mia pace e la mia tranquillità, quando i miei occhi incontrano quelli di Isabel Magnolia. Sembra incazzata, il che è piuttosto divertente se penso al motivo per cui è incazzata, e non posso fare a meno di pensare a quanto cazzo sia piccola questa città.

“Isabel, giusto?” Chiedo, alzandomi a sedere. Lei non risponde. “Ti chiami Isabel, giusto?”

“Sì. Mi aspettavo che lo conoscessi, visto che siamo in classe dalla terza elementare.”

Fischio a bassa voce.

“Accidenti, chi ha pisciato nei tuoi cereali?”

“Cosa?” Fa una smorfia e sospira. “Senti, ti vuoi muovere o no?”

“No.”

“Oddio, come vuoi,” tira indietro la sedia accanto e si siede pesantemente. La sento borbottare qualcosa sottovoce. Mi accorgo che ha un pacchetto spesso accanto a sé. Mi chino per guardarlo meglio.

“Porca puttana,” dico, afferrando il plico. “È il tuo saggio dell’ultimo anno?”

“Ehi, ridammelo!” Isabel si avvicina e me lo strappa di mano prima ancora che io possa leggere la prima riga.

“Scusa, accidenti,” scuoto la testa. “Devi essere davvero brava a dire stronzate.”

“Cosa?”

“Voglio dire, sono dieci fottute pagine,” scuoto la testa. “Chi, sano di mente, vorrebbe continuare a parlare della stessa cosa per dieci pagine?”

Isabel inarca un sopracciglio.

“I libri parlano della stessa cosa per circa trecento pagine.”

“È proprio per questo che non leggo,” dico con un brivido. Isabel inizia a ridere, ma poi si interrompe e trasforma la sua espressione in uno sguardo vuoto. Sorrido e le do una gomitata con il braccio. “Oh, andiamo. È stato divertente.”

Isabel apre un documento Word vuoto e comincia a scrivere. “Non sono brava a dire cazzate. Mi piace solo scrivere.”

“Buon per te,” dico. “Allora sei brava con le parole, vero?”

“Credo di sì.”

“Accidenti,” scuoto la testa. “Tutta quella roba mi sembra una schifezza. Riesco a malapena a scrivere un paragrafo senza volermi cavare gli occhi. E poi tutte quelle regole grammaticali? No grazie.”

“Non è poi così male,” dice Isabel, che sembra un po’ offesa; faccio spallucce.

“Per qualcuno a cui piace, certo. Ma per me è una tortura.”

Isabel alza le spalle.

“Allora cosa ci fai in una biblioteca?”

“Oh, è semplice,” faccio di nuovo spallucce. “È tranquillo. Mi sembra di poter pensare davvero.”

Isabel canticchia dolcemente, continuando a scrivere.

“Posso capirlo,” dice. “È bello.”

“Certo,” dico io, riportando la mia attenzione al soffitto. “Ehi, non credi che sia un po’ presto per lavorare al tuo saggio?”

“Forse. So solo cosa voglio scrivere. E al signor Smith è piaciuto il mio argomento, così ho avuto il via libera per scrivere una bozza.”

Canticchio senza dire nulla, tamburellando con le dita sullo stomaco. Isabel fa una pausa nella digitazione e io alzo la testa per guardarla.

“Che c’è?”

“Tu non lo fai?” Chiede.

“Pensavo di aver chiarito che non mi piace scrivere.”

“Ma è un requisito per il diploma.”

“Meno male che non mi diplomo, allora,” dico, e non posso fare a meno di trasalire quando sento quanto sembro amareggiato. “Merda. Mi dispiace.”

“No, va bene,” Isabel alza un sopracciglio. “Sei sicuro di non volerlo fare?”

“A che scopo?”

“Non lo so,” dice Isabel. “Ma forse facendolo... non lo so. Lascia perdere.”

“Perché ti interessa?”

“Non mi interessa,” Isabel aggrotta le sopracciglia e si volta di nuovo verso il computer. “Sto solo facendo conversazione.”

“Giusto,” dico. Mi spingo indietro dalla scrivania. “Grazie, credo. Ci penserò.”

Isabel mi rivolge un’espressione illeggibile. Mi alzo e sto per andarmene quando lei allunga la mano e mi afferra il braccio.

“Ehi,” dice, con voce sommessa, e io alzo un sopracciglio. “Buona fortuna.”

Sbatto le palpebre per qualche secondo prima di sorridere.

“Grazie. Davvero.”

Isabel sgrana gli occhi, ma sul suo volto c’è il fantasma di un sorriso.

Cammino lentamente verso l’uscita, le mani che scivolano naturalmente nelle tasche. Stringo forte il biglietto di Mina prima di tirarlo fuori. Ho una mezza idea di strapparlo e dimenticare di averlo avuto, ma non ci riesco.

Fisso il suo indirizzo per qualche secondo. Una strana sensazione mi attanaglia la bocca dello stomaco. Deglutisco a fatica e rimetto il biglietto in tasca prima di riprendere a camminare.
 
***

Ore 11:28, casa di Mina.

È piccola e carina, credo. Tutto è bianco, grigio o di un azzurro chiarissimo. È ordinata e non c’è nulla di personale in giro. Niente foto di famiglia o cose del genere. Le pareti sono spoglie, a parte qualche stronzata astratta che qualche stronzo pretenzioso ha deciso di etichettare come arte.

“Oh, ehi,” Mina appoggia una mano allo stipite della porta. “Eren, giusto? Entra, entra.”

Annuisco e passo il pollice sul suo biglietto da visita per quella che sembra la millesima volta.

“Non sapevo che questa fosse casa tua,” dico. Lei alza un sopracciglio e io sollevo il biglietto. “Mi aspettavo un vero ufficio o qualcosa del genere.”

“Essere in una casa piuttosto che in un ufficio fa sentire le persone più a loro agio,” spiega sorridendo. “Vuoi qualcosa da bere o da mangiare?”

“No.”

“Okay,” sorride ancora mentre mi guarda. “Allora, cosa ti porta qui?”

“Voglio restituire il tuo biglietto da visita,” dico, e solo dopo che le parole sono uscite dalle mie labbra mi rendo conto di quanto suoni assolutamente stupido. “Voglio dire, non ho intenzione di usufruire del tuo servizio. E poi, se qualcuno avesse davvero bisogno di aiuto e tu finissi i biglietti o qualcosa del genere? Sarebbe uno spreco lasciare questo a me e…”

Mi interrompo, rendendomi conto di sembrare sempre più stupido con il passare del tempo. Mastico l’interno della guancia finché un sapore metallico non mi inonda la bocca. Mina canticchia dolcemente e scuote la testa.

“Va bene, Eren,” dice. “Non c’è niente di male ad accettare un aiuto, sai. Non ti rende debole. Anzi, direi che ti rende incredibilmente forte.”

“Certo che lo pensi,” dico prima di riuscire a fermarmi. “Hai una laurea che ti permette di dire continuamente stronzate alla gente per soldi. Il tuo lavoro è far credere alle persone qualsiasi cosa tu dica loro.”

“Forse è così,” dice Mina a bassa voce. “Ma il mio lavoro è anche quello di aiutare le persone anche se pensano di non averne bisogno.”

“Non ho davvero bisogno del tuo aiuto,” dico, facendo qualche passo indietro. “È solo che... non lo so, okay? Non so perché sono qui. Mi dispiace di averle fatto perdere tempo o altro. Vado...”

“Eren.”

“Cosa?”

“Mi dispiace,” dice Mina e per un attimo quasi ci credo. “Non riesco nemmeno a immaginare il dolore che stai vivendo. Ma non puoi ignorarlo. Non guarirai se lo farai.”

Arrotolo le mani in pugni stretti. Mi fanno male le dita, ma è l’unica cosa che mi tiene unito.

“Va bene,” dico. “Sto bene.”

“Va bene,” dice Mina. Posa il biglietto sul tavolino. “Come vuoi tu, Eren.”

Non mi piace il modo in cui lo dice, ma non c’è nient’altro che voglia dire. La mia mente si svuota e inciampo all’indietro, sentendo tutto il corpo freddo. Mi sento rigido mentre esco dalla casa di Mina.

Ci vuole lo sbattere della porta d’ingresso per distogliermi dai miei pensieri. Mi fermo a metà dei gradini e cerco di ricordare come respirare normalmente. Una volta che mi sento in qualche modo normale, continuo a camminare.

Arrivo solo a metà dell’isolato prima di sentirmi male sul serio. Mi costringo a sedermi sul marciapiede e a poggiare la testa tra le mani. Mi fa male tutto e cerco di decidere se è più il mal di testa o il mal di cuore a farmi incazzare.

Il mio cervello mi fornisce un’immagine di Mikasa e decido che è il mio mal di cuore. Mi sento improvvisamente arrabbiato e mi ritrovo a sollevare la testa. Mia sorella è morta. È morta e non tornerà mai più. È morta e mi ha lasciato indietro.

Non sono pensieri confortanti, neanche lontanamente, e ancora una volta mi viene il pensiero fugace di desiderare di essere morto. Logicamente, so che la morte non è una soluzione. Certo, non sentirei nulla. Certo, tutta la merda che la vita decide di tirarmi addosso cesserebbe improvvisamente di avere importanza. Ma poi i miei genitori non avrebbero figli e Jean starebbe probabilmente peggio di adesso.

Ma io sono egoista e il mio cervello vuole ignorare tutto ciò che è logico solo per il mio bene. E se gli mancassi? Sarei morto. I morti non possono sentirsi in colpa. Non è che tutto questo abbia importanza.

Sento come se la gola fosse ostruita e la schiarisco un paio di volte per liberarmi della sensazione.

Per un attimo mi ritrovo a desiderare di parlare con Nick. Ma posso andare da lui. Non sono dell’umore giusto per fare sesso, e poi c’è tutta la storia dei suoi sentimenti per me.

Fletto le dita un paio di volte. Fa abbastanza freddo da renderle insensibili. Vorrei che rimanessero così a volte, ma non mi sento umano quando succede. Non mi sento me stesso. Mi fa paura, più di quanto vorrei ammettere, ma c’è un certo fascino che ne deriva.

Allora mi alzo, in parte perché mi fa male il sedere a forza di stare seduto sul marciapiede e in parte perché sono stufo di pensare. Pensare non mi ha mai portato a nulla di buono.

Infilo le mani in tasca e inizio a camminare verso casa, facendo del mio meglio per non pensare a nulla. Non funziona, però, e quando arrivo in camera mia la mia mente ha il pilota automatico. Nick, morte, Mikasa. Nick, morte, Mikasa. Ancora e ancora e ancora.

Mi tolgo la giacca e butto le scarpe in un angolo della stanza. Sto congelando anche se il termostato è alzato e sono completamente vestito. Sprofondo nel letto e mi lascio andare. Cerco di ripensare all’ultima volta che sono riuscito a fingere di stare bene. Erano i giorni migliori. Allora non provavo nulla perché ero troppo concentrato a essere Eren Jaeger, il ragazzo a cui non importava nulla.

Ma ora sono Eren Jaeger, il ragazzo che a cui importa troppo, e lo odio.

Mi raggomitolo e mi tiro le coperte sulla testa. Sento un movimento fuori dalla porta, probabilmente dei miei genitori. Mi viene quasi voglia di chiamare mia madre. Mi abbracciava sempre quando ero triste. Quando ero piccolo, intendo. Sarebbe strano se glielo chiedessi adesso, però. Non perché ho diciassette anni o altro, ma perché per metà del tempo mi comporto come se odiassi tutti.

Ma non è così. Non potrei nemmeno se volessi, ma è più facile arrabbiarsi che ammettere di aver fatto una cazzata. Ammettere che c’è qualcosa che non va in me significa doverne parlare, e parlarne significa che non posso continuare a fingere di non esserne influenzato.

I passi scendono al piano di sotto e io rilascio un respiro che non sapevo di aver trattenuto. Stringo gli occhi e mi costringo a dormire. Dormire è anche uno dei miei meccanismi di difesa. Non riesco mai a sentire nulla quando dormo.

Non sento niente.
 
***
 
Ore 20:49, una casa a caso.

Avevo sentito dire che un ragazzo della mia classe avrebbe dato una festa stasera. Prima degli eventi di oggi, non avevo intenzione di andarci. Di solito ci vado solo se conosco il padrone di casa o se ho almeno un’idea generale di chi ci sarà, ma mi presento a questa festa senza avere la minima idea di cosa aspettarmi.

Qualcosa nelle parole di Mina mi dà sui nervi, ma cerco di ignorarlo. Il modo in cui parlava faceva sembrare che si sentisse davvero in colpa o qualcosa del genere, ma non è possibile. Lei sente parlare di morte in continuazione. Non puoi sentirti in colpa per ogni singolo cliente che hai, giusto?

L’idea che mi compatisca mi fa star male. Ingoio il sapore amaro che ho in bocca ed entro in casa. La musica è così alta che la stanza sembra vibrare. Non c’è molta gente. Sembra piuttosto tranquillo. O forse non c’è nessuno perché Reiner non ha organizzato la festa.

Mi acciglio al pensiero e mi dirigo immediatamente verso la cucina, ignorando tutti quelli che mi circondano. Non importa se vedo un volto familiare o meno. Non è che vogliano parlarmi o altro. Nessuno lo fa mai. A meno che non si tratti di Levi, ma questo perché è fottutamente strano e siamo quasi amici. O qualcosa del genere.

Scuoto la testa e scruto la cucina. C’è solo una fila di bottiglie di birra.

“Poca roba, eh,” mormoro tra me e me, ma mi ritrovo ad afferrare una bottiglia.

Mi viene in mente che probabilmente il mio fegato sarà fottuto prima ancora di raggiungere i vent’anni, ma non riesco a trovare il coraggio di preoccuparmi davvero. L’alcol mi fa sentire insensibile. E a volte è l’unica cosa che voglio.

Tolgo il tappo e bevo un lento sorso. Ha un sapore di merda. Odio l’alcol, che ci crediate o meno. Ma come ho detto, dopo un po’ non mi fa sentire nulla. È l’unica cosa positiva. Bevo un altro sorso e mi appoggio al bancone, chiudendo gli occhi e soffocando la musica del salotto.

Non so quanto tempo passi, ma all’improvviso mi ritrovo seduto a terra. Non bevo più perché il mio corpo si sente tutto fiacco. Penso di essere ubriaco. Non era questa l’intenzione della serata. Non avevo nemmeno ballato, il che è strano, perché è un mio obiettivo personale strusciarmi contro almeno una persona.

Cerco di alzarmi, ma la testa mi gira violentemente e finisco di nuovo a terra. Mi accontento di rimanere seduta per un po’, ma poi qualcosa mi si rovescia in testa. Alzo la testa il più velocemente possibile e socchiudo gli occhi sulla figura che incombe su di me.

“Oh cavolo, scusa... aspetta, Eren?”

Sbatto le palpebre un paio di volte.

“Ciao.”

“Uh, ciao,” Marco posa la sua bottiglia d’acqua e mi scruta. “Stai bene?”

“Forse,” dico, e poi annuso. Da quando mi cola il naso? Non lo so.

“Hai un aspetto di merda.”

“È normale, ma grazie per avermelo fatto notare,” scherzo. Cerco di alzarmi di nuovo e ci riesco. “Comunque, cosa mi hai rovesciato addosso?”

Marco guarda la sua bottiglia d’acqua, poi la mia testa e poi di nuovo la bottiglia.

“Non è acqua, vero?”

“Ti ho già chiesto scusa!”

“Come vuoi,” scuoto la testa. “Comunque dovrei andare a casa...”

Cerco di fare un altro passo avanti, ma poi la testa mi gira di nuovo e finisco per inciampare. Riesco ad aggrapparmi al bordo del bancone per tenermi fermo. Le mani di Marco volano alla mia vita e io mi dimeno nella sua presa.

“Lasciami. Ce la faccio.”

“Riesci a malapena a camminare,” si acciglia Marco. “Lascia che ti aiuti. Non puoi tornare a casa con la vodka addosso. Almeno vai di sopra a lavarti.”

“Oh, ottima idea. Mi cambierò con i vestiti di ricambio che ho su per il culo!”

Marco si acciglia e mi dà un violento pizzicotto sul fianco.

“Ah! Per che cos’era?”

“Niente,” alza gli occhi al cielo. “Dai, Eren. Non intralciarmi con me, okay? Siamo amici, no? Gli amici si fidano l’uno dell’altro. Quindi ho bisogno che tu ti fidi di me e faccia quello che ti dico, va bene?”

“Noi non siamo amici,” dico. Cerco di essere deciso, ma le mie parole si confondono e si strascicano. Quasi trasalisco al suono della mia voce. Merda, quanto ho bevuto? “Io non ho amici. Non più. È perché sono uno stronzo. Ma... Levi non sembra farci caso. A volte è uno stronzo. Forse è per questo.”

Gli occhi di Marco si allargano un po’.

“Levi?” Ripete. “Tu e Levi siete amici?”

“È quello che ha detto,” dico. “Gliel’ho fatto dire io, ma...”

Mi interrompo e mi chino sul bancone, appoggiandovi le braccia. Marco mi lascia andare quando è sicuro che non sto per cadere.

“Resta qui, okay? Torno subito.”

“Ah-ah,” dico, soprattutto perché mi costa troppo sforzo dire qualcos’altro. Abbasso la testa e chiudo gli occhi, il mio corpo ondeggia leggermente. Il bancone è freddo contro le mie braccia e mi rendo conto che devo essermi tolto la giacca. Dio solo sa dove l’ho messa. Ma almeno le chiavi sono nella tasca dei pantaloni.

Marco non torna per un po’. Decido di tenere gli occhi chiusi finché non torna, e sono quasi pronto ad addormentarmi quando qualcuno mi afferra il braccio.

“Ehi, Eren. Alzati.”

“Marco?”

“No.”

A forza di aprire gli occhi, alzo lo sguardo. Levi ha le sopracciglia aggrottate.

“Dio, quanto puzzi.”

“Grazie,” dico. Mi alzo lentamente e sono sollevato quando la stanza non decide di girare su sé stessa. “Aspetta, perché sei qui?”

“Mi ha chiamato Marco,” dice. “A quanto pare stai facendo il difficile.”

“Non è vero,” brontolo. “Non sono nemmeno ubriaco.”

Levi scuote la testa e mi fa passare un braccio intorno alle spalle. “Andiamo.”

“Dove stiamo andando?”

“Di sopra.”

“Oh, wow,” dico io, allargando gli occhi. “Non mi porti neanche a cena prima?”

“Eh? Cosa stai... oh cazzo no,” Levi scuote velocemente la testa. “Non pensare a queste cose, Jaeger. Devi darti una ripulita e una regolata.”

“Oh,” dico e lascio che i miei piedi trascinino volutamente sul pavimento. “Così non è divertente.”

Levi non dice nulla e continua a salire le scale, il che è una vera avventura, ma in qualche modo finiamo in un bagno vuoto.

“Va bene, spogliati,” borbotta Levi.

“Eh?” Lo guardo, socchiudendo gli occhi. “Accidenti, vai dritto al sodo.”

“No, tu...” Levi si interrompe e si pizzica il ponte del naso. “Cazzo, mi devi un favore enorme per questo.”

Si allunga in avanti e mi spinge delicatamente a sedermi sul water chiuso.

“Alza le braccia.”

Faccio come dice, come un bambino compiacente, e lui mi toglie la maglia.

“Oh,” dico. Allungo la mano e cerco di sbottonare i jeans, ma le dita continuano a scivolare. “Un aiutino?”

Levi deglutisce pesantemente, guarda in basso e poi distoglie lo sguardo.

“Credo che tu ce l’abbia fatta.”

"Le mie mani continuano a sciupare. Cioè, scivolano. È troppo difficile,” lamento. Anche tenere gli occhi aperti è una vera fatica, e sono sicuro che questo non aiuta.

“Gesù Cristo,” mormora Levi, chiudendo gli occhi per qualche secondo. Quando li riapre, guarda i miei pantaloni, li sbottona e li apre rapidamente. Mi aiuta a toglierli. Quando mi avvicino per togliermi i boxer, mi schiaffeggia la mano. “No! Lasciali addosso.”

“Va bene,” dico, perché sono troppo stanco per dire altro.

“Resta lì,” dice Levi e si sposta verso la vasca per aprirla. Lascia la mano sotto l’acqua corrente per qualche istante, finché non la ritiene abbastanza calda. “Entra.”

“Adesso?”

“Sì, adesso.”

Ignoro il suo tono irritato e mi costringo ad alzarmi. Sbadiglio e infilo i piedi nella vasca. È piacevolmente calda e Levi mi aiuta a far passare l’altra gamba sul bordo. Mi siedo pesantemente e trasalisco per il dolore che mi sboccia nel sedere.

“Ahia.”

“Sì, ahia,” Levi scuote la testa. Si china a guardare alcune bottiglie sul davanzale prima di prenderne una e spremere una generosa quantità sulle sue mani. “Chiudi gli occhi.”

Chiudo gli occhi. Pochi secondi dopo, sento le dita che sfregano il mio cuoio capelluto. Arriccio il naso per la sensazione, ma non dico nulla. Sento l’acqua scorrere e poi stringo ancora di più gli occhi quando sento la schiuma del sapone scorrere sul mio viso.

Levi mi sciacqua i capelli e li pettina con le dita.

“Posso farlo da solo,” dico.

“Lasciami in pace. Sono abbastanza sicuro che in questo momento non sai distinguere la testa dal culo.”

“Levi?”

“Cosa?”

“Davvero non scopiamo?” Chiedo, aprendo gli occhi. Le mani di Levi restano ferme sulla mia testa.

“Perché sei così fissato con questa cosa?” Chiede con l’aria di chi sta soffrendo fisicamente.

“Mi piace il sesso,” dico. “Che c’è di male?”

“Niente,” Levi sgrana gli occhi e tira le dita in un nodo dei capelli.

“Ahia! Figlio di puttana.”

“Sei così fottutamente ubriaco,” Levi scuote la testa.

“Già,” dico, perché sono al punto in cui mi rendo conto che non c’è modo di negarlo. “E se non fossi ubriaco?”

“Di cosa stai parlando?” Chiede Levi, allungando la mano per prendere il balsamo.

“Voglio dire, scoperemmo se non fossi ubriaco?” Chiedo. “Onestamente, però, non dovrebbe essere importante. Essere ubriachi, intendo. Ho già fatto sesso da ubriaco.”

Le mani di Levi si fermano di nuovo.

“Cosa vuoi dire?” Chiede, con una voce che ha una strana sfumatura. Lo guardo.

“Ho già fatto sesso da ubriaco,” ripeto più lentamente, perché per qualche motivo mi sembra che non mi abbia sentito o qualcosa del genere.

Levi deglutisce bruscamente e aggrotta le sopracciglia. Si allontana da me, con le mani ancora coperte di balsamo, e si siede sui talloni. “È... che la gente si approfitta di te se fa così.”

“Non m’importa,” dico sinceramente. “Anch’io uso spesso le persone. Il sesso da ubriaco mi piace di più di quello da sobrio.”

Le orecchie di Levi diventano rosse.

“P-perché?”

Mi ci vuole qualche istante per capire che ha balbettato, ma per il momento lo ignoro. Speriamo che Eren sobrio se ne ricordi domattina. Mi piacerebbe prenderlo in giro.

“A volte mi viene da piangere,” dico. “Fa molto male, sai.”

“Il sesso?”

“Eh? No, quello no,” scuoto la testa. Allungo la mano e la appoggio sul petto, proprio sopra il cuore. “Fa molto male qui. Per questo faccio sesso. Così fa male anche in altri posti.”

“Perché... perché ti fa venire voglia di piangere?”

“Sono triste,” ammetto, la mia voce ora è morbida. “Sono sempre triste. E se piango da ubriaco, non importa a nessuno. La gente ubriaca piange sempre.”

“Eren...” C’è una strana qualità nella sua voce. Non ho mai sentito Levi pronunciare il mio nome in questo modo. Non riesco a capire, ma il cuore mi si stringe dolorosamente nel petto.

“Non hai mai risposto alla mia domanda,” gli ricordo.

Levi si mette nell’acqua per lavarsi via il balsamo dalle mani. Le mette a coppa, riempie lo spazio con l’acqua e poi la fa cadere sulla mia testa. Ripete l’operazione fino a quando il balsamo non è stato risciacquato del tutto.

“Quale domanda?”

“Scoperemmo se non fossi ubriaco?” Glielo chiedo di nuovo. Lui rimane in silenzio e inclino la testa di lato. “Voglio dire, non ti piaccio?”

Levi si alza e si passa le dita tra i capelli. Sembra a disagio e all’improvviso mi sento in colpa.

“Io... non mi approfitterò mai di te, Eren.”

“Lo so,” dico. “Sei una brava persona. Vorrei esserlo anch’io.”

“Lo sei,” dice Levi lentamente. Scuoto la testa.

“Non proprio,” dico. “Ehi, io ti piaccio, vero?”

“Certo,” dice Levi con voce roca. “Mi piaci, Eren.”

“Spero di non piacerti troppo,” dico. All’improvviso mi sento di nuovo assonnato. “Non mi piace quando le persone mi apprezzano troppo.”

Gli occhi di Levi si allargano.

“Okay, Eren,” dice semplicemente. Si alza in piedi. “Vado a cercare una maglietta.”

“Va bene,” dico, appoggiandomi alla vasca.

Levi torna dopo pochi istanti con una maglietta. Non so dove l’abbia presa e non mi interessa nemmeno. Mi aiuta a uscire dalla vasca e mi asciuga con cura.

“Non... non dovresti indossarli,” indica i boxer. “Ti bagneranno i pantaloni.”

“Non ho altra biancheria intima,” dico, fissando i boxer. “Mi stai dicendo di andare in mutande?”

“Ti porto a casa,” dice Levi. “È solo per un po’.”

“Va bene,” dico, e aggancio il pollice alla cintura.

Levi si gira dopo avermi dato la maglia. La indosso. È un po’ grande, ma niente di grave. Mi tolgo i boxer bagnati e prendo i pantaloni. In qualche modo riesco a infilarli, ma lotto di nuovo con il bottone.

“Il bottone,” dico.

Levi si gira di nuovo.

“Non puoi... oh, non importa,” scuote la testa e abbottona i pantaloni. Si allunga per prendere la maglietta sporca e ci fa cadere dentro la mia biancheria intima. Arrotola tutto in una palla e me la tira addosso.

Lo guardo mentre svuota la vasca e incrocio le braccia sul petto. All’improvviso ho freddo, ma almeno non mi sento così stanco. Faccio qualche passo sperimentale e scopro di essere in grado di camminare. Dovrò andarci piano, ma è meglio che cadere di nuovo a terra.

“Levi?"

“Cosa?” Levi mi guarda e mi rendo conto che sembra stanco. Sembra esausto e io mi sento di nuovo in colpa.

“Non lo so,” dico, e sinceramente non è una bugia.

Levi stringe forte le labbra e apre la porta del bagno. Lo seguo, ma mi accorgo che il mio calzino si bagna quando passo in una pozzanghera. Levi mi prende le scarpe e mi aiuta a rimetterle, allacciandole bene.

Scendiamo le scale in silenzio. Lo aspetto vicino alla porta mentre va a dire a Marco che se ne va.

“Non voglio guidare,” dico. “Non mi piace.”

“Lo so,” dice Levi. “Andiamo a piedi. Non preoccuparti.”

Annuisco e lo seguo lentamente. Tiene una mano intorno al mio braccio, stringendo leggermente la presa ogni volta che inciampo un po’. Si rilassa solo quando sono di nuovo in piedi.

Non so per quanto tempo abbiamo camminato, ma dopo un po’ vedo casa mia. Più ci avviciniamo e più mi lamento.

“Non voglio tornare a casa.”

“Cosa?” Levi sospira. “Eren, devi andare a casa. È tardi.”

“Non può essere così tardi.”

“È quasi mezzanotte.”

“La notte è giovane.”

“La notte non è giovane,” sbotta Levi. “Dai, sul serio.”

“No.”

Affondo i piedi nel marciapiede. Levi sospira.

“Eren, sul serio, mi stai facendo incazzare e io...”

“Mi dispiace,” dico.

“...Cosa?”

“Mi dispiace,” ripeto. “Non... non dovevi aiutarmi.”

“Volevo farlo,” dice Levi.

“Okay,” dico io, perché non so davvero cos’altro dire.

Levi mi fissa per qualche secondo prima di tirarmi delicatamente il braccio. Cammino senza lamentarmi e lascio che mi conduca su per i gradini del portico.

“Eccoci qui,” mormora Levi. “Casa dolce casa.”

Mi appoggio alla porta e lo guardo mentre mi lascia andare per infilarsi le mani nelle tasche della giacca.

“Vorrei poterlo ricordare,” dico.

“Cosa, di essere ubriaco?” Levi sbuffa. “Sono abbastanza sicuro che lo rifarai ogni volta che ne avrai voglia...”

“No,” scuoto la testa. “Tu.”

La bocca di Levi si apre un po’ mentre mi fissa. La chiude di scatto, si schiarisce la gola e non mi guarda.

“Io... dovrei andare, Eren,” dice.

“Non farlo.”

“Devo,” deglutisce bruscamente e si allontana da me. “Ci vediamo lunedì, okay? Non fare niente di stupido.”

“Non lo farò,” dico. “Buonanotte.”

Levi si ferma a metà del vialetto. È un po’ difficile vederlo perché il lampione di casa mia, per qualche motivo, non funziona. Ma poi lo vedo muovere i piedi e ricominciare a camminare.

“Buonanotte, Eren,” dice, quasi troppo piano perché io possa sentirlo, e una sensazione di calore mi investe mentre mi volto per entrare in casa mia.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 14


Levi

Mi sveglio con il torcicollo. Mi siedo e scrollo le spalle, sbadigliando mentre mi guardo attorno. I raggi del Sole si infiltrano all’interno della stanza dagli spiragli delle persiane, finendomi direttamente negli occhi. Mi alzo dal letto per chiuderle, bloccando così la luce, e mi ributto subito nel letto.

Ieri sera non ho bevuto, eppure mi sento leggermente brillo. Mi domando se Eren mi abbia contagiato con uno strano potere magico e rido divertito al pensiero. Smetto non appena mi tornano in mente tutte le cose che ha detto ieri sera.

Mi passo le dita tra i capelli e grugnisco, sollevando gli occhi verso il soffitto. Fa troppo freddo qui dentro, ma non ho voglia di mettermi sotto le coperte. È tardi. Dovrei alzarmi.

Non lo faccio, però. Resto disteso per ancora qualche minuto a pensare alla strana sensazione che provo al momento; è come se non mi sentissi dentro il mio corpo. Un pensiero tira l’altro e mi ritrovo a pensare nuovamente a Eren. Sta bene, nonostante gli eventi di ieri? Non ha fatto nulla di stupido, vero?

Onestamente è ridicolo. Quanto mi preoccupo per lui, intendo. Ma mi ritrovo ad alzarmi. Voglio assicurarmi che stia bene. Probabilmente dovrà smaltire la peggior sbornia di sempre, ma vederlo allevierebbe la strana sensazione alla bocca del mio stomaco... forse. Faccio una doccia veloce e mi vesto. Kenny sta guardando qualcosa alla televisione, ma non gli presto la minima attenzione mentre afferro le chiavi di casa e raggiungo l’uscita.

“Dove vai?” Mi urla dietro.

“Via,” rispondo e sbatto la porta dietro di me.
 
 
***

Eren è appoggiato contro la porta, gli occhi socchiusi. Sbadiglia rumorosamente, non preoccupandosi nemmeno di coprirsi la bocca con la mano, e si scompiglia i capelli.

“’Giorno,” mi saluta con voce gracchiante e faccio una smorfia al suono.

“Buongiorno,” dico di rimando. I miei occhi scannerizzano il suo corpo senza che riesca a fermarli e, prima di renderlo troppo ovvio, distolgo lo sguardo. “Come stai?”

“Una merda,” risponde, aprendo ulteriormente la porta con il fianco. “Entra.”

Entro in casa e sbircio in cerca di qualcuno.

“I miei genitori non sono a casa,” mi informa e per qualche strana ragione questa informazione mi fa sentire caldo. Deglutisco nervosamente, ingoiando il groppo in gola.

“Uh… okay.”

“Vuoi qualcosa da mangiare?”

“Nah,” rifiuto, ma poi sento lo stomaco brontolare rumorosamente. “Ah, cazzo.”

“Ti preparo qualcosa,” ride Eren e sparisce in cucina. Tolgo le scarpe prima di seguirlo.

Mi siedo su uno sgabello del bancone e lo guardo allacciarsi un grembiule attorno alla vita.

“Ti vanno bene bacon e pancake?” Chiede. Sollevo le spalle.

“Sai cucinare?”

“Lo stretto necessario,” risponde, spaccando un uovo su una terrina. Mi mordo l’interno della guancia, sentendomi in colpa.

“Sei sicuro di stare bene? Nel senso, non hai un’emicrania micidiale?”

“Sto bene. Ti prometto che non vomiterò sulla padella. Ora sta zitto.”

Resto zitto.

Lo osservo cucinare pancake mentre appoggio i gomiti sul bancone. Dopo alcuni minuti, li mette su un piatto. Dopodiché cucina il bacon insieme alle uova, mettendoli in un altro piatto prima di prendere una bottiglia d’acqua e un bicchiere, posizionandoli davanti a me. Si toglie il grembiule e apre il frigo.

“Vuoi dello sciroppo?” Chiede, dedicandomi uno sguardo veloce.

Annuisco e mi allunga la bottiglia. Ne spalmo una generosa quantità sui pancake prima di assaggiarli. Guardo Eren e realizzo che non sta mangiando nulla.

“Non mangi?” Chiedo, ingoiando la boccata di pancake. Eren solleva un sopracciglio.

“Brutta idea.”

Ruoto gli occhi e taglio un pezzo di pancake, infilandoci con la forchetta per poi allungarla verso lui.

“Apri.”

“No.”

“È peggio a stomaco vuoto,” lo informo, ignorando lo sguardo dubbioso che mi dedica. “Fidati. Ora muoviti.”

Eren apre la bocca e la chiude attorno alla forchetta. La mia mano resta in aria e lui corruga la fronte mentre mastica.

Deglutisco e torno a mangiare.

“Grazie.”

Faccio un cenno con la testa e finisco il cibo sul piatto. Eren si stira le braccia, allungandole sul bancone per poi posarci la testa, osservandomi.

“Cosa c’è?” Domando quando non riesco più a sopportare la sensazione di sentirmi osservato e lui solleva le spalle in moto di indifferenza.

“Nulla. Sto solo cercando di ricordare cos’è successo ieri sera.”

Penso a lui nella vasca da bagno e quasi mi strozzo con un pezzo di bacon.

“Cosa ricordi?”

“Ricordo vagamente te che mi lavi i capelli.”

“Tutto qua?” Chiedo sorpreso; lui annuisce.

“Credo di essermi ubriacato alla grande,” spiega, alzandosi e piegando la testa. “Non ho detto nulla di strano, vero?”

“Definisci strano,” mormoro prima di riuscire a fermarmi. Eren sembra sorpreso e io scuoto la testa, forzando una risata. “Tranquillo. Tutti i tuoi profondi e sporchi segreti sono al sicuro.”

“Grazie al cielo,” ride Eren. “Altrimenti avrei dovuto far terminare la nostra amicizia.”

“Oh, davvero?” Chiedo sollevando un sopracciglio. “Dopo tutto l’impegno che ci abbiamo messo?”

Scrolla le spalle e si allunga sullo schienale della sedia, incrociando le braccia.

“Le cose brutte accadono, amico,” sostiene. Rimane in silenzio per un po’ prima di parlare di nuovo. “Perché sei venuto qui?”

Mastico lentamente l’ultimo pezzo di pancake, evitando il suo sguardo.

“Volevo solo darti fastidio,” mento. Eren sbuffa.

“Ovviamente,” risponde. “Non ricordo se l’ho detto ieri, ma grazie. Per esserti preso cura di me, intendo.”

“Non preoccuparti,” annuisco e decido di non dire che lo rifarei altre cento volte se necessario. “Non ti avevo mai visto ubriaco prima d’ora.”

“Davvero? Non farci l’abitudine,” Eren fa una smorfia e io rido di gusto. “Non lo farò più per un bel po’ di tempo.”

“Bene,” scrollo le spalle e prendo il piatto. “Grazie per il cibo.”

“Te ne vai?” Chiede Eren, sollevando le sopracciglia.

“Uh, sì. Volevo soltanto infastidirti un po’.”

“Resta.”

“Io…” la mia mente si blocca. “Non sei stanco?”

“Eh? No,” agita una mano e si alza. “Coraggio, possiamo andare in camera mia.”

“C-Camera tua?”

“Sì,” Eren mi ruba il piatto dalle mani e lo appoggia nel lavandino della cucina. “Non preoccuparti, mica ti salto addosso.”

Mi strozzo con un sorso d’acqua e stringo gli occhi osservandolo da dietro.

“Lo sai che non sei poi così bello, vero?” Dico, sollevando un sopracciglio. “Cosa ti fa pensare che ti lascerei saltarmi addosso?”

“Mi stai prendendo in giro?” Domanda, portando la testa indietro e ridendo di gusto. “Amico, sono io sono un figo. Cavolo, sono sexy! Sono un bel bocconcino. Saresti pazzo a non lasciarmi saltarti addosso.”

“D’accordo, come vuoi,” dico, sperando di non sembrare d’accordo con lui. Sarebbe strano.

Eren ghigna e si pulisce le mani con uno straccio.

“Andiamo,” continua, andando di sopra.                           

Lo seguo col cuore che batte a mille. Non so perché sono così nervoso. Stiamo soltanto facendo qualcosa insieme. Non è una gran cosa. Continuo a ripetermelo fino a quando non mi sento svenire.

Sembra sia passato un uragano nella stanza di Eren da quanto disordinata è. Sarebbe carina, credo, se non ci fossero montagne di vestiti sul pavimento. La scrivania è pulita, però, e mi sento sollevato quando noto che libri e quaderni sono impilati in modo ordinato.

Sollevo le sopracciglia quando noto un libro in particolare. Cammino verso la scrivania e lo prendo senza pensarci.

“Suoni la chitarra?”

Eren si irrigidisce e mi domando se ho detto qualcosa di sbagliato.

“No,” dice. “Non più.”

“Oh,” rispondo e rimetto apposto il libro.

Lo guardo prendere dei vestiti sporchi e lanciarli nel cestino della lavanderia. Ora sembra più ordinata e infilo le mani nelle tasche per abitudine.

“Allora…”

“Vuoi guardare un film?” Chiede Eren. Annuisco. “Bene.”

Accende la televisione e apre Netflix. Resto in piedi a disagio fino a quando non decidiamo entrambi di guardare ‘Il Padrino’. Io non l’ho mai visto e Eren giura che è bellissimo.

Mi siedo sulla sedia della scrivania. È dura e per niente confortevole. Eren è disteso a pancia in giù con un cuscino tra le braccia e aggrotta la fronte.

“Puoi sederti qui, sai. Quella sedia è scomodissima.”

“Okay,” dico lentamente. Il mio cuore continua a palpitare e cerco di sembrare indifferente mentre mi siedo sul letto di Eren.

È comodo e mi ritrovo a rilassarmi. Eren mi afferra il braccio e mi fa distendere.

“Ma che cazzo?”

“Rilassati, amico,” si giustifica Eren, sembrando divertito e percepisco la punta delle orecchie diventare rosse. “Sembra tu stia per svenire.”

Decido di non dirgli di sentirmi esattamente così. Mi metto comodo distendendomi sullo stomaco. Eren mi spiega brevemente la trama, ma non presto molta attenzione al film. Sono più interessato a come Eren sembra animarsi quando sta per arrivare la sua scena preferita.

Non so se ha capito che lo sto fissando oppure no, ma non ho intenzione di ammetterlo in ogni caso. Non so nemmeno cosa sto facendo, a essere sincero.

“Eren,” lo chiamo dopo un’ora di film.

“Mhm?” Risponde, girandosi verso di me.

“Ho mentito.”

“Mentito?” Ripete mettendosi seduto. “Su cosa?”

“Mi hai detto qualcosa di strano.”

“Oh,” sbatte le palpebre. “Scusa, allora.”

“Lo pensi davvero?”

“Non mi ricordo, Levi,” risponde Eren. “Ero ubriaco.”

Deglutisco a fatica.

“Credo che tu lo pensi davvero.”

Eren assottiglia gli occhi e mette in pausa il film.

“Cos’ho detto?”

“Hai parlato molto di sesso,” comincio.

“Parlo sempre di sesso. Ricordi quando ho detto che vorrei portarti a-”

“Non in quel senso!”

“Okay,” risponde Eren e suona molto più calmo di quanto pensassi. “Quindi?”

“Hai detto che fai sesso perché ti distrae. Beh, qualcosa del genere, se non altro,” spiego. Un sussurro nel retro della mia testa mi domanda perché ho portato a galla questo argomento.

Voglio sapere perché. Voglio sapere perché sta soffrendo così tanto. Voglio sapere cosa gli è successo. Voglio aiutarlo.

Voglio poter fare qualcosa.

Forse non farò qualcosa per me stesso. Forse permetterò a Kenny di ammazzarmi di botte. Ma forse se aiuto Eren, mi sentirò come se stessi facendo qualcosa di giusto. Forse non mi sentirei così debole. È un pensiero idiota, eppure voglio vedere cosa succederebbe.

“Davvero te l’ho detto?” Chiede Eren e poi sospira al mio cenno affermativo. “Gesù santo.”

“Allora?” Continuo. “È così? Fai sesso per questo motivo?”

“Esatto,” risponde e l’aria nei miei polmoni sparisce immediatamente.

“Ecco… significa qualcosa per te?” Chiedo e sento quest’intenso e pulsante dolore al petto. Mi sento a corto di fiato e non ne so il motivo.

“No,” dice, riservandomi uno strano sguardo. “Mai.”

Mi giro di schiena così da poter guardare il soffitto e non il suo viso.

“Allora… è una strategia di difesa?”

Eren ride amaramente.

“Già, qualcosa del genere,” replica. “Perché lo chiedi, Levi?”

“Non mi sarei mai aspettato che dicessi una cosa così,” giustifico il mio rammarico. “Ecco… non so, pensavo solamente ti piacesse fare sesso e basta. Non avrei mai pensato che-”

“Va bene.”

“Davvero?”

“Sì,” scrolla le spalle. “Non è una gran cosa, no?”

“Lo è, invece,” dico senza menzionare che è una gran cosa per me. “Voglio dire… merda, amico, ho visto quei lividi. È…”

Mi interrompo, insicuro su come proseguire. Eren mi guarda.

“Voglio che mi facciano male.”

“Perché?”

“Mi fa provare qualcosa,” mormora. “È stupido, ma funziona. È una soluzione temporanea, ma è qualcosa.”

“Lo stesso,” insisto, mettendomi seduto anch’io. “Tutto questo non ha senso. Permetti loro di farti del male e-”

“Ripeto,” mi interrompe Eren, parlando in un tono così calmo da essere irritante. Mi mordo il labbro fino a gustare il sapore ferroso del sangue. “Voglio che faccia male. Mi piace vedere quei lividi. Mi fa realizzare di aver provato qualcosa.”

Scuoto la testa, ma non dico nient’altro. Non subito, almeno. Cerco di processare quello che mi sta dicendo, ma è troppo. È fottutamente troppo.

“Okay,” dico infine, perché la testa mi sta scoppiando e non riesco a pensare a qualcosa da dire.

“Lo fanno solo perché io glielo permetto,” mi assicura ancora Eren fermamente e incontro i suoi occhi. “Non glielo lascerei mai fare se non volessi. Lo capisci…vero?”

“Sì,” rispondo, nonostante non lo capisca per niente. “Sì, ho capito.”

“Bene,” dice lentamente. “Altro da aggiungere?”

Penso con cautela le mie prossime parole, cercando di capire esattamente cosa voglio dirgli. Sono arrivato fino a qui. A questo punto tanto vale dirgli tutto.

“Uhm… hai detto che non mi devi piacere troppo.”

“Questo vuol dire esattamente ciò che pensi.”

“Lo so, è che… non è un problema. Nel senso, non credo.”

Eren appoggia la testa sulla mano.

“Ti piaccio troppo?”

“No,” dico, ma la parola mi suona estranea. Ignoro la strana sensazione che mi attanaglia la punta dello stomaco. “Certo che no.”

“Bene,” risponde lui. “Ottimo.”

Silenzio.

“Nick invece sì.”

“Nick?” ripeto e penso al suo amico. Non so perché, ma non mi ha fatto una buona impressione. Non so se sia perché ha ventiquattro anni o cosa, ma non riesco a sopportarlo. È ridicolo, considerando che l’ho visto una sola volta, ma non posso farci nulla.

“Già. L’hai incontrato, ricordi?”

Mi acciglio.

“Vagamente,” dico.

“Gli piaccio troppo,” continua Eren a voce bassa e il mio stomaco si attorciglia violentemente. Mi ritrovo a digrignare i denti. “Non gli parlo da allora.”

“Lo stai evitando?” Chiedo. “Sembravate piuttosto affiatati, però.”

“Immagino di sì,” replica, giocando con l’orlo del suo maglione. “Voglio dire… è imbarazzante.”

“Che tu gli piaccia?”

“Più o meno,” si gratta il naso. Carino. “Non sono il tipo da stare insieme a qualcuno.”

“L’avevo notato,” rispondo ed Eren scrolla le spalle.

“Gli passerà prima o poi. È solo che… non voglio avere questo con lui.”

“È una cosa così sbagliata, però?” Mormoro. “Che piaci a qualcuno, intendo.”

“Probabilmente no,” ammette a bassa voce. “È solo che mi spaventa a morte.”

“Perché?” Chiedo, girando la testa per guardarlo meglio. Eren solleva ancora le spalle e guarda il pavimento.

“Non so. È così e basta.”

Lo prendo come spunto per farmi da parte.

“Okay,” dico semplicemente.

“Ecco perché l’ho detto a te,” continua Eren, guardandomi. “Non voglio che succeda la stessa cosa a noi.”

“Tranquillo,” dico. “Non mi piaci per niente.”

Eren ride, ma sembra forzata.

“Grazie,” risponde.

“Mhm.” Perché improvvisamente mi fa male tutto il corpo e parlare richiede uno sforzo troppo grande. “Come vuoi.”

Eren afferra nuovamente il telecomando.

“Vuoi finire il film?”

“Certo, Eren,” rispondo ed Eren preme play.
 
 
***

Eren non parla né di sabato né di domenica, e non lo faccio neanche io.

Ne abbiamo già parlato, quindi non c’è motivo di rispolverare l’argomento.

Il mio cervello non sembra capirlo, però.

Non capisco perché m’importa così tanto. Eren può fare sesso con chi vuole e quando vuole, per qualsiasi ragione voglia. Ma l’idea di lui con qualcun altro mi fa stare fisicamente male. E fa ancora più male quando mi viene in mente che Nick ha confessato di avere una cotta per lui. Che abbiano mai…?

No. Eren ha detto di no. Non mentirebbe su questo. Non avrebbe alcun motivo per farlo. Non mi importa se lo hanno fatto. Non sono affari miei. La sola cosa che mi mette a disagio è che Nick ha ventiquattro anni. Ma non sono affari miei.

È facile dirlo. Che non dovrebbe importarmi, intendo. Ma in realtà mi importa tantissimo. Più di quanto dovrei e realizzarlo è terrificante. Non sono abituato a tutto questo. Di solito lascio che le persone facciano ciò che vogliono finché non mi riguardi. Non potrebbe importarmene di meno.

Ma per qualche ragione, credo che in qualche modo tutto questo mi riguardi. Non dovrebbe importarmi di ciò che fa Eren. Non siamo amici da così tanto tempo da farmene importare, ma non riesco a fermarmi. Non ho mai pensato che stesse così male prima di quella sera. Pensavo che il suo sarcasmo e tutte le sue strategie di adattamento fossero una cazzata detta semplicemente per dirla. Neanche in un migliaio di anni avrei potuto immaginare che fosse tutto uno stratagemma. Una stupida, insensata maschera.

Credo abbia senso, però. Di solito le persone non vogliono che gli altri le vedano vulnerabili. È semplicemente la nostra natura di essere umani. È una brutta parola. La debolezza, intendo. Ecco perché le persone si sentono minacciate da esse e cominciano ad attaccare. Ed ecco perché si cerca di tenerle nascoste. Eren non ha nulla di diverso, sotto questo aspetto. Probabilmente non voleva che nemmeno io sapessi queste cose, ma le so. Non mi rende felice sapere che si fida di me, però.

Mi spaventa.

Mi spaventa perché non mi sono mai preoccupato così tanto prima d’ora. Eppure, ho già visto persone soffrire, ovviamente. Bertholdt, per esempio. Mi interessava ciò che stava passando, ovviamente, ma non ne ero ossessionato. Gli ho parlato ed era finita lì.

Le cose non sono così semplici con Eren. Mi ritrovo ad analizzare qualsiasi sciocchezza dica, quando si apre con me o quando parla per dare aria alla bocca. Mi terrorizza, perché è un’emozione nuova: non ho hai provato una cosa simile per nessuno.

Mi viene in mente, allora, che forse sono nella categoria ‘piacere troppo.’ Questo pensiero è il più terrificante di tutti. Non voglio che Eren mi piaccia troppo. Non voglio superare quel confine. Ma non penso che alla mia testa, o al mio cuore, importi.

Penso improvvisamente a mia madre. Anche a lei piaceva troppo mio padre, giusto? E questo non l’ha portata da nessuna parte, se non sei metri sotto terra. Mio padre è andato avanti, si è costruito una nuova famiglia, mentre mia madre si struggeva ancora per lui fino al suo ultimo respiro.

So che le relazioni non sono tutte come quella dei miei genitori. So che le persone sono capaci di amarsi reciprocamente e non succede nulla di brutto. Lo vedo ogni volta. Ma è difficile ignorare cose del genere, specialmente quando hai visto il mondo distruggersi attorno a te.

Improvvisamente, capisco. Capisco perché spaventa Eren. Capisco perché non vuole che le persone si affezionino a lui. Perché non vuole che le persone lo amino. Perché ha paura che io faccia la stessa cosa.

Le persone dicono di amarsi quando sono felici, quando va tutto bene e la vita non tira loro brutti e sporchi scherzi. Mia madre diceva di amarmi ogni giorno. Ma una volta non lo fece e fu l’ultima volta che la vidi. Non hai la certezza che la persona che dice di amarti ti starà accanto. Non c’è un accordo scritto quando ami qualcuno. Lo fai sperando per il meglio.

È un rischio che non ho intenzione di correre. Forse è per questo che Eren ha paura. Forse lui non vuole rischiare tutto. Forse ha amato una volta e non ha comportato a nulla di buono.

Decido in quel preciso istante che, se mai superassi il confine di ‘piacere troppo’, non farò nulla al riguardo. Non voglio spaventare Eren. Adoro la sua compagnia più di quanto voglia ammettere. Se gli causo più dolore di quanto già non stia sopportando, non me lo perdonerei mai. Le cose per ora vanno bene. Non voglio rovinare tutto.

Inoltre, è meglio averlo come amico che non averlo affatto, giusto?

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 15
 
Eren

06.15, casa mia.

“Dobbiamo parlare.”

Arriccio le labbra e guardo Nick freddamente. I suoi occhi sono sottili, la mascella bloccata e le labbra girate in un’espressione delusa. È quasi bello, in un certo senso, e mi ritrovo a incrociare le braccia e appoggiarmi contro lo stipite della porta.

“Adesso? Devo andare a scuola. Sai, quell’istituzione meravigliosa popolata da centinaia di insoddisfatti adulti di mezz’età che-”

“Eren.”

Il modo in cui dice il mio nome mi fa premere le labbra insieme. Mi ritraggo dalla porta e decido che la scuola non è importante in questo momento. Forse dopo, quando Nick avrà finito di parlarmi di solo Dio sa cosa.

“Okay,” dico semplicemente e le sopracciglia di Nick slittarono in sorpresa. Di solito deve insistere parecchio con me, ma oggi mi sento particolarmente generoso.

Mi faccio da parte per farlo entrare. I miei genitori sono al lavoro e Jean sta dormendo. Da quando è stato sollevato dall’incarico, il suo obiettivo personale è non svegliarsi prima delle nove. Non che me ne stia lamentando. Sarebbe un disastro se dovesse scendere in questo momento.

Entra in casa e si dirige immediatamente verso il salotto. Mi ero dimenticato che era già venuto a casa mia prima d’ora, che era stato qui per qualcuno che non ero io, e un sapore acre mi invade la gola. Nick non sembra accorgersi della mia rivelazione, ma credo sia solo perché mi rivolge le spalle e non è in grado di leggere nel pensiero.

Ci sediamo uno di fronte all’altro e improvvisamente questa posizione mi ricorda Jean. Mi sento come se mi stessero interrogando e l’idea mi scatena un dolore tagliente alla bocca dello stomaco. Mi lecco le labbra secche e intreccio le mani davanti a me. Cerco di apparire ricettivo per ciò che mi sta per dire Nick, ma la verità è che non lo sono per niente. Forse è perché l’ho ignorato per tre settimane, o forse per la ragione per la quale l’ho ignorato.

“Volevi parlare, giusto?” Comincio; questo silenzio mi sta uccidendo e Nick non la smette di fissarmi. Sbatte gli occhi rapidamente e raddrizza la schiena.

“Oh, già,” risponde, schiarendosi la gola. “Esatto.”

“Va bene,” dico ancora, più impaziente e i suoi occhi si assottigliano ancora.

“Ascolta, Eren,” comincia e mi ritrovo ad appoggiarmi contro la sedia. “Mi dispiace, okay? Per quello che ho detto l’altra volta. È solo che… cazzo, mi è sfuggito.”

“Roba come quella non sfugge,” ribatto, mordicchiandomi l’interno guancia. Un sapore metallico mi invade all’istante la bocca. “La si tiene dentro fino a quando non si scoppia.”

Nick ha un’espressione illeggibile in volto, il che fa aumentare il dolore nel mio stomaco.

“Hai ragione,” dice alla fine. “Ma giuro che non lo sapevo. Se l’avessi saputo avrei…”

“Avresti cosa?” Lo interrompo con voce tagliente e gli occhi di Nick si spalancano per poi accigliarsi.

“Avrei fermato tutto.”

“Già,” dico, sbuffando. “Avresti fermato tutto.”

“Perché ti stai arrabbiando con me?” Chiede, la sua voce ora accusatoria. “Tu non volevi nemmeno tutto questo, no?”

Incrocio le braccia al petto e lo fisso.

“Questo,” dico, indicando me e lui: “È illegale. E, in caso te ne sia dimenticato, mio cognato è un fottuto poliziotto.”

Nick arriccia le labbra.

“Non si tratta di questo,” dice. “Questo non ha nulla a che fare con Jean. Ma solo con te.”

Inspiro bruscamente. Nick è sempre stato bravo in questo. Capire la situazione, intendo. Se fossimo in altre circostanze, forse avrei apprezzato la sua brutale onestà.

Ma ora voglio soltanto che se ne vada.

“Cosa vuoi che ti dica, Nick?” Chiedo annoiato. “Consideriamo solo per un momento che io voglia avere una relazione con te. Pensi davvero che dureremmo?”

Nick assottiglia gli occhi.

“Perché lo chiedi?”

“Sai perché,” rispondo e so perfettamente di star rischiando parecchio. “Per… per Mikasa.”

Si acciglia di nuovo.

“Santo cielo, Eren.”

“Beh, mi sbaglio?” Chiedo, la voce spessa e Nick ne sembra sorpreso. “Dimmi che mi sbaglio.”

Non lo fa.

Resta seduto e mi guarda confuso. Vorrei dirgli che non è una cosa così difficile da comprendere, ma non lo faccio. So essere crudele, certo, ma non così tanto.

“Non è così,” dice Nick. “Non lo è mai stato. Dio, Eren, perché dovresti pensare che-”

“Non lo so,” lo interrompo. Non voglio che lo dica. “Non importa. Dimentica ciò che ho detto.”

“No, non posso semplicemente dimenticarmene quando-”

“Smettila,” continuo, la voce fredda come il ghiaccio. “Okay? Basta.”

Nick rimane in silenzio. Tamburello le dita contro il tavolo per nascondere le mani tremanti.

“Nick.”

“Che c’è?”

Deglutisco.

“Pensi davvero di amarmi?” Chiedo e lui sospira rumorosamente.

“Perché me lo stai chiedendo?” Risponde alla mia domanda con un’altra domanda; mi fa imbestialire quando fa così.

“Voglio saperlo.”

“Non cambierebbe nulla.”

“Lo so,” dico chiudendo gli occhi e abbassando la testa per non doverlo guardare in viso. “Voglio solo saperlo.”

“Okay,” dice, incerto. “Non lo so, Eren. Ed è la verità, prima che tu chieda altro.”

“Allora perché?” Chiedo, aprendo gli occhi. “Perché dirlo se non sei sicuro?”

“Ho paura,” ammette. “Ho paura che un giorno tu…”

Non finisce, ma so esattamente dove vuole andare a parare. Torno a tamburellare le dita sul tavolo.

“È solo sesso,” continuo. Fa una smorfia, ma non sto cercando di essere cattivo. Solo… onesto. “È sempre stato solo sesso. Perché hai pensato che…?”

“Le persone commettono errori,” risponde lentamente. “Errori molto stupidi. E questo era il mio.”

Deglutisco il groppo che mi si è formato in gola. Non voglio essere qui. Non voglio affrontare questa conversazione, ma non c’è un posto dove possa scappare. Non ho un posto dove poter fingere che non stia accadendo nulla di tutto questo. Sono bloccato qui, in trappola, e non posso farci nulla.

“Io non ti amo, Nick. Non nel modo che tu vorresti. Non ho mai amato nessuno in quel modo. Non penso lo farò mai.”

Nick si accascia sulla sedia. Sembra sconfitto ed esausto; il forte dolore di prima torna a pieno vigore.

“Anche tu hai il diritto di essere felice,” continua. “Non punirti per quello che è successo.”

“E tu, piuttosto?” Ribatto prima di potermi fermare. “Non pensi di meritare anche tu questa felicità?”

Sembra considerare le mie parole. Dopo un po’ di tempo passato in silenzio, scrolla le spalle e mi ritrovo a domandarmi che tipo di pensieri gli stiano vorticando in testa.

“Forse,” ammette, alzandosi dalla sedia. Fa il giro del tavolo e mi guarda. Incontro con esitazione i suoi occhi e lui si avvicina per posare le sue labbra contro la mia tempia. “Grazie.”

Non voglio chiedergli per cosa mi sta ringraziando. Annuisco e non lo guardo mentre cammina lontano da me.
***
 
11:58, mensa scolastica.

Rimpiango di aver dato ascolto alla piccola parte del mio cervello che insisteva di andare a scuola. Preferirei di gran lunga essere a casa, anche se Jean mi avrebbe sgridato per essere ancora a letto. Lascerebbe correre, però. Lo fa spesso quando faccio qualcosa.

Sospiro e comincio ad accoltellare un pezzo di pollo. Non ho particolarmente fame e credo sia una diretta conseguenza della conversazione che ho avuto con Nick. O forse sono solo stanco. Non so.

Improvvisamente, la sedia di fronte alla mia viene tirata indietro. Sollevo un sopracciglio quando Levi si siede e comincia a mangiare il suo panino. È scombussolante quanto appaia naturale nello stare in mia compagnia. È come se fosse stato seduto davanti a me per tutto l’anno, nonostante non sia vero. 

I miei occhi guardano il suo solito tavolo. È uno di quelli accanto alla portafinestra, lungo abbastanza da ospitare un’intera squadra di football. Che è ciò che fa, ma immagino non sia importante. Da qui, vedo Marco dedicarmi uno strano sguardo che diventa un sorriso quando incrociamo gli occhi, ma non trovo la forza di ricambiare. Mi acciglio per un attimo e osservo il resto del tavolo. Nessuno sembra confuso della presenza del Capitano Ackerman seduto con me come Marco.

“Cosa cazzo stai facendo?” Chiedo a Levi. Smette di mangiare il tempo necessario per guardarmi, un sopracciglio alzato in una muta richiesta di spiegazioni.

“Mangiando,” risponde pulendosi la bocca con un tovagliolo. “Cosa che dovresti fare anche tu. Sai, per quella campagna mondiale di non sprecare cibo.”

“Non quello che intendevo, ma okay,” dico ruotando gli occhi. “Cosa ci fai qui?”

Levi sembra considerare la risposta.

“Eri solo.”

“Lo sono sempre. Sai, lupo solitario e jazz. La solitudine è piuttosto sexy.”

“Non per te,” mi deride.

“La squadra sente la tua mancanza.”

“La stagione è conclusa. Non sono la mia squadra. Se la caveranno. Sono grandi e vaccinati.”

Digrigno i denti e incrocio le braccia. Levi continua a mangiare, ignaro dei buchi che cerco di provocargli sul teschio con la sola forza dei miei occhi.

“Mi stai evitando,” dice finalmente Levi, sollevando di nuovo un sopracciglio. “Pensavo fossimo a posto.”

“Lo siamo.” dico.

“Tu dici?”

Decido di non dirgli che è lui la ragione per la quale, apparentemente, non siamo apposto. Anche se a lui non ne ho parlato, la conversazione che abbiamo avuto in camera mia mi tormenta da giorni. Non mi sento a disagio con lui o niente del genere. È solo… imbarazzante. Ha detto che è tutto platonico, ma ho i miei dubbi.

“Sì,” insisto, credendo sia una buona idea tenere i miei pensieri… beh, pensieri. “È solo un brutto periodo.”

“Ah,” dice e rimango sorpreso quando non cerca di ottenere più informazioni. “Ascolta, volevo solo chiarire un po’ di cose.”

“Abbiamo già chiarito.”

“Lo so, è solo…” Levi sbatte ritmicamente le dita sul tavolo.

“Cosa?” Sollecito, sollevando le sopracciglia. Lui scuote la testa.

“Non importa.”

Premo le labbra in una linea sottile per trattenermi dal chiedere altro. Levi smette di mangiare e restiamo fermi a guardarci. Non sopporto questo silenzio.

“Ho parlato con Nick.”

Levi fischia basso.

“Quanto ci avete messo?”

“Tre settimane,” deglutisco e fingo di leggere l’etichetta sul cartone di latte. “Questa mattina, a essere precisi.”

Annuisce.

“È per questo che non eri presente a inglese?”

“Forse,” dico, facendomi scivolare sulla sedia.

“Allora? Com’è andata?” Chiede, ma c’è qualcosa di strano nel suo tono di voce. Lo guardo, ma la sua espressione è illeggibile. Non riesco a capire cosa sta pensando.

Non riesco mai a capire cosa sta pensando.

“Bene,” rispondo brevemente. “Va tutto bene, ora.”

“Fantastico,” dice con tono piatto e sorride leggermente quando mi scopre a fissarlo. “Voi due sembrate-”

“Affiatati,” finisco per lui, interrompendolo senza davvero volerlo. “Lo siamo. Immagino sia questo il motivo per cui ci siamo chiariti.”

Non so perché glielo sto dicendo. Non so cosa mi aspetto di sentirgli dire. Ho evitato Nick senza neanche pensarci. Ci riuscivo senza problemi. La sola cosa di cui sentivo la mancanza era il sesso, ma oltre a questo andava tutto bene. Non mi disturbava per niente, ma ora mi ritrovo a parlarne.

“Esatto,” continua Levi. “Credo.”

Mi sento a disagio e Levi mi dedica uno strano sguardo che non riesco a decifrare.

“Levi,” comincio, perché tutto questo mi sta facendo diventare pazzo. “A te sta bene?”

Assottiglia gli occhi.

“C’è un motivo per cui non dovrebbe?”

“No. Hai ragione, non importa.”

“Sì che importa. Devi solo dirlo.”

Espiro profondamente e mi mordo il labbro. Mi guarda in silenzio con la fronte aggrottata e rilascio un grugnito esasperato.

“Cosa ti aspetti di ricavarne?” Chiedo invece. Lui scuote la testa.

“Non capisco cosa mi stai chiedendo, Eren.”

“Hai mentito quella volta, giusto? Quando hai detto che non ti piacevo. Ma… ti piaccio, vero? Ti piaccio e hai paura di quello che potrebbe succedere.”

Levi spalanca la bocca. Deglutisco il groppo in gola, aspettando che dica qualcosa.

“Ho ragione, vero?” Chiedo senza respiro e Levi fa una smorfia al suono della mia voce.

“Non dobbiamo parlarne.”

“Mi stai prendendo per il culo? Dobbiamo farlo!”

“Per cosa?” ritorse Levi, la voce fredda. “Non ne abbiamo alcun motivo. So come ti senti al riguardo. Abbiamo già detto tutto quello che c’era da dire. Quindi lascia perdere.”

“Quindi dovrei semplicemente lasciar correre? Scusa se scoppio la tua bolla, ma non funziona in questo modo.”

“Non deve cambiare nulla,” continua Levi, avvicinandosi un po’ sul tavolo. “Tu non provi lo stesso e lo rispetto. Possiamo… fare le stesse cose esattamente come prima.”

“Non possiamo,” ribatto. “Non sarà mai come prima.”

Levi sospira.

“Quindi cosa vuoi che faccia? Che me la faccia passare?”

“Se puoi, sì,” dico. Lui assottiglia ancora gli occhi. “Non me ne frega un cazzo se provi qualcosa per me o no. Non ho tempo per cose del genere. Quindi o te la fai passare o…” mi interrompo, ma non c’è bisogno di finire la frase.

Non so perché sono più tagliente con lui di quanto lo sia stato con Nick, ma non mi fermo a pensarci. Levi mi guarda per un po’ come se fosse sorpreso da ciò che ho detto. A essere onesti, lo sono anch’io.

“Sei uno stronzo, Eren,” dice con calma, prima di prendere il suo vassoio e abbandonare la tavola, grattando le gambe della sedia sul pavimento.

Non replico. So di esserlo. Non ha detto nulla di nuovo. Mi hanno definito uno stronzo per tante cose. Per come mi sono comportato dopo la morte di mia sorella, per il fatto di andare a letto con chiunque per poi abbandonarli, del poco rispetto e attenzione che provavo per chiunque coltivasse sentimenti verso di me.

Ma sentire Levi dirlo fa male. Mi sento come se mi avessero tirato un pugno nello stomaco. Il mio intero corpo si tende quando lo vedo uscire dalla mensa. La campanella suona e gli altri studenti si alzano in piedi, ma io sono incollato alla sedia. Riesco a muovermi solamente quando un addetto alla mensa mi guarda male.

Sono a metà strada verso il mio armadietto quando decido di saltare le lezioni. Non avevo voglia di andarci in ogni caso e ora ho una scusa per evitare educazione fisica a ogni costo. Prendo lo zaino dall’armadietto e aspetto di avere strada libera per sgattaiolare via.

O almeno, ci provo.

Qualcuno mi afferra il braccio e mi riporta indietro prima che possa aprire la porta del cortile. Mi si spalancano gli occhi e inciampo all’indietro. Non mi hanno mai beccato finora. Marino la scuola dal primo anno e l’idea di essere stato beccato adesso èridicola.

“Eren?”

“Signor Smith,” dico, mettendomi subito il cappuccio in testa. Lui è probabilmente l’unico insegnante che rispetto e lo sguardo deluso che mi dedica quasi mi fa venire voglia di implorare perdono un milione di volte.

“Cosa stai facendo?” Chiede. Non sembra troppo arrabbiato e so che non c’è motivo di mentire.

“Marinando. O cercavo di farlo, almeno. Lei?”

Indica il corridoio con la testa. “Stavo andando a fare delle fotocopie.”

“Divertente,” dico lentamente, sbattendo frenetico il piede a terra. “Quindi cosa mi aspetta? Detenzione? Sospensione?”

Il signor Smith preme le labbra insieme e mi guarda per un po’. Mi agito sotto il suo sguardo.

“Nessuna delle due,” dice con voce rassicurante. Incrocia le braccia e mi dedica uno sguardo preoccupato. “È tutto apposto?”

Deglutisco.

“Certo. Va tutto bene.”

Il mio insegnante non dice nulla all’inizio. Probabilmente sa che sto mentendo, ma non voglio parlarne. Non con lui specialmente, e con nessun altro.

“La mia offerta è ancora valida per il giovedì di recupero,” dice. Aggrotto la fronte.

“Pensavo avesse detto che avrebbe lasciato perdere se non mi fossi presentato,” dico e lui annuisce.

“Forse non sono ancora pronto ad arrendermi con te,” controbatte e mi ritrovo ad assottigliare le palpebre.

“Penso lei stia sprecando il suo tempo.”

“Allora è una buona cosa averne a sufficienza, no?” Continua, esponendo un sorriso sincero.

Non riesco a ricambiare il sorriso. Non so perché gli importi. Credo sia parte del suo lavoro. Educare dei giovani ignoranti. Ma non sembra solo questo. Gli altri miei insegnanti hanno smesso di insistere molto tempo fa. Ero solo una perdita di tempo per loro, un altro ragazzo problematico che non concluderà nulla nella vita.

Ma il professor Smith non ha mai smesso di provare. Infatti, la sua offerta risale a un mese fa ormai. E ora eccolo qui, a riportare a galla l’argomento come se pensasse che mi sarei presentato, un giorno… come se pensasse che mi importasse. Forse mi importa, nel profondo. Ma non ci ho mai pensato. Non da quel giorno, almeno.

“Immagino,” rispondo, perché realizzo che non cederà fino a quando non mi presenterò in aula. E forse lo farò. Non che debba renderlo un impegno irrinunciabile.

“Ci vediamo domani, Eren,” dice allontanandosi da me.

Resto immobile nel corridoio, guardandolo andare via. Poi mi ricordo che gli inservienti torneranno preso, quindi mi giro per aprire la porta.
 
 
***

Jean è semi-svenuto sul divano quando torno a casa. Resto fermo a guardarlo, prima di togliere le scarpe e andare in camera mia. Mi sento irrequieto, ma non me la sento di andare a camminare. I miei occhi cadono sui libri di chitarra intoccati sulla mia scrivania.

“Non avrei dovuto romperla,” mormoro tra me e me, e ripenso al momento in cui l’ho fatto.

Immagino fossi arrabbiato. Lo sono sempre, in realtà. Non ricordo molto di quello che è successo. Solo che ero irritato e volevo far fuoriuscire la mia frustrazione o qualcosa del genere. Quella povera chitarra non se lo meritava; nemmeno quel muro. Almeno potevo nascondere la chitarra.

Mi lascio cadere sul letto e tolgo il cappuccio. Me ne resto così a fissare il soffitto, il mio intero corpo sembra più pesante del normale. La mia mente si diverte a rievocare gli eventi di questa mattina e non riesco a scacciarli via. Con Nick non è andata così male. Preferirei riavere quella conversazione mille volte, se volesse dire di evitare quella con Levi.

Volevo dire quelle cose, però. Volevo che si lasciasse alle spalle qualsiasi cosa provi per me. Non gli ho chiesto di cosa si trattasse perché… beh, non voglio saperlo. Forse non è giusto nei suoi confronti, ma non ho mai affermato di essere qualcuno che tiene conto dei sentimenti degli altri.

Non voglio perdere Levi. Non per qualcosa del genere. Ma credo sia inevitabile. Questa è la parte stronza ed egoista di me che allontana le persone che fanno l’errore di affezionarsi a me.

Credo di farlo perché so che alcune persone non se ne andranno. Come Nick e Jean, per esempio. Ho usato Nick per il sesso e respinto qualsiasi aiuto Jean cercasse di offrirmi. Ma non riesco a pentirmene. Non importa cosa succeda, so che non si stancheranno di me. Al punto da abbandonarmi, almeno.

Poi mi ricordo di Historia. Lei si è stancata di me piuttosto in fretta. All’inizio non le importava che io fossi uno stronzo. Nel senso, prima che mia sorella morisse. Stavo interpretando quel ruolo perché cercavo di capire quale versione di Eren Jaeger volevo portare avanti alle superiori. Se ricordo correttamente, era una lotta tra Eren Jaeger, il bravo ragazzo della porta accanto, oppure Eren Jaeger, l’animale da festa stronzo quanto basta.

Ma poi Mikasa mi abbandonò e sesso e alcool erano solo una scusa per distrarmi e dimenticare il pensiero di voler andarmene anche io. Non ricordo neanche la metà delle cose che le ho detto… oltre quel giorno.

Mi rifiuto di pensarci. Per quanto mi riguarda, il 17 novembre è il giorno peggiore dell’anno, secondo solo al suo compleanno. Forse non dovrei pensarla così. Forse dovrei abbracciare il giorno del compleanno di Mikasa invece di pensare che avrà ventotto anni per sempre. Ma non ci riesco, perché è un fatto troppo disturbante. È qualcosa con cui dovrò vivere per il resto della vita.

 Mi giro su un fianco. Non so se Levi si stancherà mai di me. Nonostante il tempo che abbiamo passato insieme, non posso dire di conoscerlo davvero. Tutto ciò che so su di lui è superficiale, cose che avrei potuto scoprire anche se non ci avessi mai parlato. Ma tutto questo è… diverso. Non so cosa ne pensa lui delle relazioni romantiche. Non so cosa si aspetta.

Non so cosa voglia da me.

Immagino sia la cosa più terrificante delle altre persone. Non importa se le conosci da una vita o solo da alcuni mesi. Non importa cosa passate insieme, non le conosci mai davvero. Faranno sempre cose che non capirai. Non puoi sapere cosa passa loro per la testa. Anche se dovessero spiegartelo, sarai sempre confuso.

Non so se sia questo di cui ho paura. Il non sapere nulla, intendo. Non ci ho pensato perché non ne ho mai avuto ragione. Di solito accetto cosa succede e non ci penso mai troppo. Anche se non ha mai funzionato. E… non so come comportarmi con Levi. Non voglio rovinare tutto. Voglio tenerlo come amico, ma a questo punto non so se lui vuole lo stesso.

Decido in questo preciso istante che non importa in ogni caso. Se riesce a farsela passare, bene. Sarebbe fantastico. Incredibile, persino. Ma se non dovesse riuscirci, che è l’opzione più plausibile al momento, allora andrà bene lo stesso. Deve andare bene.

Non mi lascerò ferire di nuovo.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 16
 
Levi

L’aria è fredda e mi brucia immediatamente le mie mani scoperte. Ignoro il pizzicare del vento contro le guance e fortifico la presa delle dita attorno alla ringhiera. Fisso il paesaggio sotto di me, i miei occhi seguono i percorsi delle auto. Sembrano piccole da quassù, quasi come delle formiche sul prato, e questo mi fa spezzare il fiato, per quanto strano possa sembrare.

Chiudo gli occhi ed espiro lentamente. Le orecchie cominciano a far male, ma le ignoro in favore di concentrarmi sui suoni attorno a me. Il vento pare un leggero respiro contro l’orecchio; rivolgo l’attenzione al lieve suono delle macchine sotto di me.

Ripenso a Eren senza neanche provarci. Tengo gli occhi chiusi e intensifico ancora la presa sulla ringhiera. La mia mente rievoca quel pranzo ancora e ancora; non riesco a smettere, non importa quanto ci stia provando. È come fossi intrappolato in un loop temporale che mi tortura giorno e notte.

Mi sento perso.

Non ho mai affrontato una situazione simile prima d’ora. Eren è qualcosa di nuovo e, per quanto ci provi, ho paura che non riuscirò mai a comprenderlo davvero. La maggior parte delle mie amicizie erano facili. Non dovevo sforzarmi. Semplicemente, funzionavano.

Ma Eren è diverso. Devo cercare di farla funzionare. Non posso starmene seduto e aspettare che le cose si sistemino da sole. È come se Eren stesse correndo e fosse in vantaggio, mentre io fatico a stargli dietro. Cavolo, forse non voglio stargli dietro. E va bene. Davvero.

Voglio solo stargli accanto.

Questo pensiero mi fa battere forte il cuore. Non ho mai desiderato qualcuno finora. Le relazioni per me non significavano nulla. Sono uscito per un breve periodo con una cheerleader alla fine del secondo anno, ma mi aveva lasciato perché non passavo mai tempo con lei. Ripensandoci adesso, so che mi comportavo così perché avevo paura. Uscire in quel senso era una cosa nuova. Doversi preoccupare di qualcun altro mi era nuovo.

L’ultima persona di cui mi importava davvero era mia madre. So che anche lei mi voleva bene, nonostante non fossi stato nei suoi piani. Avrebbe sempre voluto trasferirsi in California. Abitava lì, prima che i suoi genitori la diseredassero. Mi ha sempre detto che era il suo sogno. Diceva che era quello il motivo per cui vendeva il suo corpo a chiunque lo volesse. Voleva risparmiare soldi per tornare in California.

Ma poi morì.

Quando la seppellirono in quella bara nera, il mio interesse nel preoccuparmi di qualcuno è stato seppellito con lei.

Ma poi era arrivato Eren.

Non mi importava di lui quando mi è venuto addosso sbucciandosi il mento quella sera a mezzanotte. Non mi importava di lui quando l’avevo atterrato sul pavimento e avevo permesso ai miei amici di prenderlo in giro. Non mi importava di lui quando ha rotto il braccio di Reiner alla festa di Bertholdt.

Ha cominciato a importarmi quando mi ha lasciato trascinarlo fino al ristorante perché non volevo pensare a quanto fosse felice mio padre con la sua nuova famiglia. Ha cominciato a importarmi quando ho realizzato quanto vulnerabile in realtà fosse e che tutte quelle parole vuote di quanto se ne fregasse di tutto fossero solo bugie. Ha cominciato a importarmi quando ho capito quanto si sentisse solo e spaventato, cercando di superare un momento difficile della sua vita.

Ha cominciato a importarmi quando ho capito che eravamo uguali.

Non mi ero reso conto di questa realizzazione. Pensavo di vederlo in modo diverso perché eravamo amici. Pensavo che la mia preoccupazione per lui fosse perché eravamo amici e volevo assicurarmi che stesse bene. Non volevo sviluppare un sentimento diverso. Non volevo accadesse.

Ma… è successo. È più di questo. E anche se non sono sicuro di quanto profondi siano i miei sentimenti per lui, so che mi preoccupo per lui, più di quanto mi sia mai preoccupato per qualcuno da un bel po’ di tempo. Voglio aiutarlo, nonostante non possa fare molto. Voglio fare la differenza.

Voglio dimostrargli che ci sono, che non è solo e che non deve avere paura.

Ma so che non vuole la stessa cosa. E lo capisco, credo. Anche io sono abituato a stare da solo. Ecco perché la mia amicizia con Eren era sempre così confusa. Non sapevo cosa fare perché non avevo mai considerato qualcuno un amico dopo Isabel e Farlan.

Certo, avevo i ragazzi della squadra. Ma una volta finita la stagione sportiva, nessuno aveva bisogno di me. Ognuno di loro aveva un altro circolo di amici. Non ero più rilevante perché non ero più il loro capitano. La sola eccezione erano Marco e Bertholdt; ma non parlo con quest’ultimo da quando ha lasciato la squadra e anche Marco ha altri amici.

Non mi ha mai infastidito questo pensiero, però. Non mi era mai importato che ognuno avesse altre cose da fare. Non ho mai avuto bisogno di qualcuno intorno.

Ma non riesco a sopportare l’idea di Eren fare la stessa cosa con me. Non voglio che lui mi abbandoni. Non voglio che lui sia qualcuno di importante per me solo per alcuni mesi.

Io voglio solo… lui.
 
 
***

Eren non si fa vedere a scuola per tutta la settimana dopo quel pranzo passato assieme. All’inizio pensavo stesse solo saltando inglese. Ma poi mi sono accorto che non lo incrociavo per i corridoi e che non era presente nemmeno a educazione fisica.

Mi ritrovo a preoccuparmi nuovamente per lui. Il mio cervello cerca di seguire la situazione logicamente. Forse sta male. Potrebbe essere in vacanza. O si sta prendendo una settimana libera solamente perché vuole farlo. Ma non importa che scusa cerco, non riesco a smettere di preoccuparmi.

Quando la campanella suona la fine della lezione di ginnastica, mi ritrovo a cercare Bertholdt per il corridoio. So che a volte esce con Eren. Forse sa che fine ha fatto.

Solo quando sono a due passi da lui realizzo quanto imbarazzante sarà questa conversazione. Non gli ho più rivolto la parola da quando mi ha restituito l’uniforme. Ma non sono arrabbiato con lui. So perché l’ha fatto.

È solo… strano.

Scuoto la testa e mi schiarisco la gola.

“Ehi,” dico casualmente.

Bertholdt si ferma e mi guarda. Sembra scioccato, come se non credesse che gli abbia appena parlato. Ma immagino di non poterne essere sorpreso. Mi scrivo una nota mentale di parlagli più spesso; è un ragazzo a posto.

“Ciao, Levi,” risponde lentamente corrucciando la fronte. “Uhm… come va?”

“Sei amico di Eren, giusto?” Chiedo, appoggiando la schiena contro gli armadietti. Lui annuisce e comincia a chiudere la cerniera dello zaino.

“Sì, perché?” Mi guarda confuso. “Gli è successo qualcosa?”

Mi irrigidisco al pensiero.

“Volevo chiedertelo io.”

Bertholdt scuote la testa.

“Non lo vedo da tutta la settimana,” ammette. “Tu?”

“Neanch’io,” dico, scorrendo le dita tra i capelli. “Ti ha detto qualcosa?”

“Del tipo?”

“Non lo so,” continuo, mordicchiandomi la guancia. “Forse che avrebbe saltato la scuola o qualcosa del genere.”

Scuote ancora la testa.

“Non mi ha detto nulla,” risponde, arricciando le braccia. “Pensi che stia bene?”

“Sì,” lo rassicuro, nonostante la sensazione di freddezza che sento allo stomaco. “Sono certo che sta bene.”
 
 
***

Eren sta assolutamente bene, se il falso sorriso che mi dedica alla porta significa qualcosa.

“Mi stavo chiedendo quando ti saresti fatto vedere,” dice, appoggiandosi contro la porta. “Stavo cominciando a sentirmi offeso per non essermi venuto a cercare prima.”

Assottiglio gli occhi e mi prendo un momento per guardarlo. Sembra normale, onestamente. Incrocio le braccia e sollevo un sopracciglio.

“Perché non sei venuto a scuola?”

 “Sono un ragazzo dell’ultimo anno che salta la scuola,” risponde subito.

“Non è una scusa,” continuo. Eren sbuffa.

“Invece sì. Sono all’ultimo anno. Lo saprei.”

Decido di non classificarla come risposta. Mi mordo la guancia e lo guardo. Il sorriso sul suo viso sfuma mentre mi guarda.

“Cosa?” Chiede, la voce sottile.

“Eren…” prendo un respiro profondo. “Eren, mi dispiace.”

Lui fa una smorfia.

“Tranquillo.”

“Non intendevo dire… lo sai.”

“Sì, lo so.”

“Okay,” dico, annuendo a me stesso e facendo un passo indietro. “Beh, sono contento tu stia bene. Vieni a scuola lunedì, vero?”

“Sì-”

“Bene. Ci vediamo, allora.”

“Levi,” comincia, ma gli do le spalle immediatamente. Sento dei passi dietro di me e poi mi afferra il polso, ma non mi giro. “Levi.”

“Che c’è?” Chiedo con voce spezzata. Eren prende un tremolante respiro dietro di me.

“Non farlo.”

“Non fare cosa?”

“Andartene,” sussurra. “Non andare.”

Penso alla sera in cui si è ubriacato. Anche allora mi aveva chiesto di restare. Ma non l’avevo fatto. Non volevo rimanere perché avevo paura. Avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere, qualcosa che non sapevo se sarei stato in grado di fermare.

Ma quel qualcosa era già successo. Quel qualcosa che aveva cambiato irrimediabilmente la nostra amicizia.

Immagino sia per questo che ora non ho paura.

“Va bene,” rispondo a bassa voce, girandomi verso di lui.

Eren annuisce e mi lascia il polso. Non c’è traccia della sua solita ironia, della sua testardaggine. Non ora, almeno. Sembra vulnerabile. Sembra sia a tanto così dal crollare.

Il mio cuore fa male fisicamente alla vista. Mi lascio condurre fino alla sua stanza. Penso a quando abbiamo visto un film qui. Lascio che mi trascini sul letto in modo da sdraiarci uno accanto all’altro. Siamo abbastanza vicini che le nostre spalle sono premute insieme sul suo piccolo materasso.

Guardo il soffitto. Delle strisce di luce dividono la stanza da una parte all’altra, partendo dalla finestra. Noto che le lampadine sono a forma di conchiglia. Ne seguo la lunghezza fino a quando la mia testa non si gira nella direzione di Eren.

Anche lui sta guardando il soffitto, in completo silenzio e calma.

“Eren?”

“Mi dispiace,” dice. “Non avrei dovuto dirti quelle cose a pranzo. Non volevo dirle. Stavo solo sparando cazzate perché… perché ho-”

“Paura?”

Eren aggrotta le sopracciglia e mi guarda.

“Non ho paura.”

“Io sì,” ammetto. Sposto i capelli dalla fronte e rido amaramente. “Sono terrorizzato, in realtà.”

Eren si morde il labbro inferiore prima di scuotere la testa.

“Conosci qualcuno?” Chiede. Non capendo, aggrotto le sopracciglia.

“In che senso?”

“Conosci davvero qualcuno? Capisci davvero una persona, fino in fondo?”

“No,” rispondo, ed è la verità. Non ho mai capito nessuno. “E tu?”

“No,” conferma Eren. Si prende un attimo per riflettere, pensieroso. “Specialmente te.”

“Non mi capisci?” Dico, cercando di stuzzicarlo. È un tentativo fallito per allietare l’atmosfera. “Cavolo.”

“Neanche tu mi capisci, vero?” Continua. “Ecco perché siamo… così. Confusi, intendo.”

“Esatto, Eren.” Rispondo. “Io non ti capisco.”

“Voglio che tu lo faccia,” dice. “E voglio capirti anch’io. Ma è così… terrificante.”

“Lo so,” lo rassicuro. “Nel senso, devi essere vulnerabile. Devi raccontare tutto. Dare tutto te stesso a un’altra persona.”

“Già, esatto,” mormora Eren. Sospira e scuote la testa. “Voglio che torniamo a essere come prima.”

“Possiamo esserlo. Lo siamo già.”

“Non è vero,” dice, arricciando le labbra. “Ora è tutto un casino.”

Deglutisco.

“Pensi che possiamo sistemare le cose.”

“Tu?”

“Non so se possiamo, ma voglio farlo,” dico. Prendo un altro respiro profondo. “Senti, Eren. Mi va bene essere solo amici. Non mi aspetto nulla da te.”

Eren non risponde per un po’. Lo fisso mentre attendo una sua replica.

“Perché me?” Chiede, ridendo amaramente. “Hai un sacco di opzioni. Tipo, una tonnellata. Posso garantirti che avresti meno problemi con qualcun altro.”

“Mi piacciono le sfide,” scherzo. “Mi fanno rimanere con i piedi per terra.”

Eren ride, ma non dice nient’altro. Incrocia le braccia dietro la testa e fissa il soffitto. Deglutisco e faccio lo stesso.

“Voglio solo stare con te, Eren,” dico. “Non mi interessa sotto quale luce.”

“Sei sicuro?” Chiede con voce calma e controllata. “Non sono la miglior compagnia del mondo.”

“Non m’importa,” rispondo, guardandolo. “Sei… sei tutto ciò che voglio.”

“Voglio provarci,” continua Eren, proprio quando pensavo che non avrebbe più detto nulla. “Voglio che ci proviamo.”

“Okay,” dico tranquillamente. “Proviamoci, Eren.”

Eren annuisce e si gira per guardarmi. Lo guardo anche io, il cuore aumenta il suo battito nel mio petto.

“Siamo apposto adesso, giusto?”

“Sì,” rispondo. “Siamo apposto, Eren.”
 
 
***

Eren e io restiamo seduti a parlare di cose senza un vero significato fino a quando lui non si solleva improvvisamente.

“Usciamo,” dice.

Tiro fuori il telefono dalla tasca e controllo l’ora. Fischio quando vedo che sono quasi le sette. Non avevo realizzato di essere rimasto qui così a lungo.

“Adesso?”

“La notte-”

“È giovane. Lo so.”

Eren sorride.

“Coraggio. Se andiamo adesso non dovremmo dare spiegazioni a nessuno.”

Rido. Ci alziamo e scendiamo le scale. Noto che non ci sono macchine nel vialetto.

“I miei genitori sono al lavoro.”

Annuisco e distolgo lo sguardo dal vialetto. Eren si sta chiudendo la giacca.

“Ti fanno problemi per uscire?”

“Nah,” scrolla le spalle Eren. “Ormai a loro non interessa più. È più che altro Jean che rompe.”

“Tuo fratello?”

“Cognato, in realtà,” mi corregge Eren. “Stessa cosa però, no?”

“Sì, credo.”

“Sgattaiolo via troppo spesso per i suoi gusti,” continua Eren. Indossa le scarpe e mi guarda. “È l’unico a cui importa ancora di me.”

Deglutisco amaramente.

“Mi dispiace.”

“Non essere dispiaciuto,” mormora Eren. “Io non lo sono.”

Non so cosa dire. Rimango in silenzio mordendomi la guancia.

Usciamo e mi pento immediatamente di non indossare una giacca appropriata al tempo esterno. Tiro su il cappuccio della felpa e infilo le mani nelle tasche.

“Dove andiamo?” Chiedo.

“È una sorpresa,” dice Eren con un sorriso.

Scuoto la testa e non dico nient’altro.

Camminiamo per la strada in silenzio. Guardo bene tutti gli edifici che ci circondano. Il quartiere di Eren non è diverso dal mio. Ha lo stesso tipo di atmosfera suburbana, ma c’è qualcosa di innegabilmente diverso. Immagino sia perché è nuovo. È nuovo e sconosciuto, privo di ricordi dolorosi. Mia madre e Kenny non sono qui.

C’è solo Eren.

Finiamo in un piccolo bar. È così piccolo che quasi non lo avevo notato passandoci accanto. Eren apre facilmente la porta, come se ci fosse entrato un centinaio di volte.

Lo seguo e osservo la stanza. Le pareti erano tinte di svariati colori, una miriade di verdi, arancioni e gialli. Normalmente, tutti insieme risulterebbero esagerati. Ma qui sembravano trovare la loro armonia.

Mi avvicino a un muro, dove a quanto pare le persone ci scrivono di tutto. Alcune scritte dovrebbero essere poesie filosofiche mirate all’ispirazione e al ragionamento. Altre sono lunghi paragrafi che non hanno senso. Beh, per me almeno.

“A mia sorella piaceva questo posto.”

Mi giro per guardare Eren.

“È particolare,” dico. Eren ridacchia. “Non in senso brutto, però. È piuttosto figo.”

“Lei era così. Particolare, intendo. A lei… piaceva molto l’arte. Diceva che era la sua scappatoia.”

Allungo la mano per appoggiarla contro il muro. È solido contro il palmo.

“E per te?” Chiedo, girandomi verso di lui.

I suoi occhi si spalancano.

“Non vengo qui da quando…” si fermò.

Decido di non spingermi oltre.

“Hai fame?” Chiedo, girando la testa verso il bancone.

Eren annuisce e io gli sorrido. Raggiungo il bancone per prenderci dei muffin al cioccolato. Ci sediamo a un tavolo vuoto e mi ritrovo a guardare ancora il muro.

“Le persone non sempre sanno qual è il loro sbocco,” continua Eren. “A volte non riescono a trovarne uno che gli piaccia davvero. Ma di solito scrivere aiuta tutti.”

“Hai mai scritto qualcosa?”

Eren scuote lentamente la testa. “Mai voluto” spiega. “Mia sorella l’ha fatto, però. Un sacco di volte, in realtà.”

Mi alzo, abbandonando il muffin. Eren solleva le sopracciglia, ma non dice nulla quando cammino verso la parete.

Afferro un pennarello da un astuccio attaccato alla parete. Lo fisso per alcuni secondi fino a quando non vedo un punto vuoto. Togliendo il tappo al pennarello, comincio a scrivere.

Quando finisco, rimetto a posto il pennarello. Eren si avvicina e osserva il muro, per poi guardami curiosamente.

“Vivi impavido?”

“È un gran bel motto, non trovi?” 

“Pensi sia possibile?” Domanda Eren.

Lo guardo e sorrido.

“Penso che possiamo provare.”

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 17
 
Eren
 
21:59, bagno di Bertholdt.
 
Fuori posso sentire la musica pulsare dalle pareti. È pesante e profonda; non ciò che ascolto di solito, ma non riesco a concentrarmi troppo a lungo. Bertholdt grugnisce e affonda ancora di più il viso nella tavoletta del water. Faccio una smorfia quando rigetta rumorosamente, il suo intero corpo trema dallo sforzo di tenerlo in piedi.
 
Mi trascino in ginocchio e ignoro l’odore acido che mi arriccia le narici. Afferro il collo della maglietta di Bertholdt per tenerlo in posizione e piego il braccio attorno alla sua vita. Il suo corpo si irrigidisce e si rilassa, i muscoli lavorano duramente e io lo tiro indietro un po’ per lasciarlo riposare contro di me.
 
Lui si accascia tra le mie braccia e io lo guardo con esitazione. Continua a sbattere gli occhi, ma è sveglio. Rilascio un respiro sollevato e mi rilasso anch’io. Sta ancora tremando, quindi stringo il braccio attorno a lui e cerco di trasferire in qualche modo il calore del mio corpo su di lui.
 
Premo il viso sui suoi capelli. Odora di alcool. Storce il naso e mi tiro indietro.
 
“Bertholdt?” Lo chiamo a bassa voce. Non si muove. “Ehi, non addormentarti su di me.”
 
Bertholdt apre lentamente gli occhi, mi guarda prima di cominciare a tossire. Lo faccio sedere come meglio posso. Ha un rigetto, ma non vomita. Si appoggia a me abbastanza da far sbattere la mia schiena contro la parete del bagno. Grugnisco al leggero dolore e cerco di aggiustare la mia posizione. Il mio sedere è insensibile, realizzo, ma la comodità di Bertholdt è più importante della mia al momento.
 
“…Bertholdt?”
 
“…Sì?” Risponde. Il tono della sua voce è solitamente basso, ma stavolta devo sforzarmi per sentirlo.
 
“Stai bene?” È una domanda stupida, ma voglio farlo parlare. Non voglio che svenga su di me.
 
“Sì,” dice ancora, sembrando esausto.
 
“Coraggio,” continuo, prendendolo per le ascelle e facendolo alzare. È molto più alto di me e anche piuttosto pesante, ma in qualche modo riesco nel mio intento. “Devi darti una ripulita.”
 
Ci dirigiamo verso il lavandino e gli dico di lavarsi i denti, poi di appoggiarsi contro mentre io tiro lo sciacquone. Torno al suo fianco e rimango in piedi. Si strofina i denti svogliatamente e ora posso finalmente guardarlo bene.
 
I suoi capelli sono arruffati e gli occhi rossi; il viso incavato e stanco; quando solleva il braccio per sistemare lo spazzolino, noto qualcosa sotto la manica della sua maglia.
 
“Cos’è quello?” Mormoro, quasi a me stesso e gli tiro su la manica.
 
Bertholdt mi spinge via come se fosse rimasto scottato dal mio tocco. Osservo, sconcertato, lui che si allontana sempre di più da me. Sta tremando di nuovo, e mi ritrovo a corrugare la fronte al suo strano comportamento.
 
“Bertholdt?” Dico, con voce calma. “Mi stai spaventando.”
 
Sembra agitarsi ancora di più. Deglutisco e faccio un passo lento e incerto verso di lui. Si preme ancora di più contro il muro, come se stesse cercando di fondersi con esso e qualcosa di freddo mi stringe attorno al cuore.
 
“Non ti farò del male,” dico, tendendo le mani alzate. “Voglio solo sapere cosa è successo. Puoi dirmelo?”
 
Bertholdt non risponde subito. Mi ritrovo a trattenere involontariamente il respiro mentre provo a valutare cosa farà dopo. Scivola contro il muro e mi precipito per prenderlo prima che si schianti sul pavimento.
 
“Bertholdt?” Ripeto, la voce spessa. “Devi dirmi cosa è successo, amico. Non posso aiutarti se non lo so.”
 
Bertholdt scuote la testa.
 
“Non posso,” gracchia. “Non posso… dirtelo…”
 
“Dire cosa?”
 
“Nulla,” dice, chiudendo fermamente gli occhi. “Non ho detto niente.”
 
Espiro pesantemente e mi passo le dita tra i capelli. Bertholdt mi aveva telefonato in lacrime. Mi sono preoccupato immediatamente e sono venuto qui il più velocemente possibile. Quando sono arrivato stava vomitando e, guardando la casa, mi sono accorto che non c’era nessuno oltre a lui.
 
Da allora siamo rimasti in bagno. Non so che ore siano, ma immagino non sia troppo tardi. Nondimeno, invio un breve messaggio a Jean dicendogli che resterò a casa di un amico. Non lascerò da solo Bertholdt quando ha chiaramente bisogno di me. 
 
“Va bene,” dico, rendendomi conto che non stiamo andando da nessuna parte con questa conversazione. Non mi parlerà. “Allora puoi dirmelo dopo.”
 
Non dice niente. Lo faccio andare nella sua stanza. È passato un po’ di tempo da quando ci sono stato, ma ricordo dove si trova. Apro le porte che conducono al suo balcone e gli dico di sedersi per aiutare con la nausea.

Mentre l’aria gelida raffredda rapidamente la stanza, mi lascio cadere sulla sedia di fronte alla sua scrivania. Bertholdt appoggia la fronte contro il vetro delle porte. Le tende si gonfiano, non permettendomi di vederlo.
 
Si appoggia all’indietro fino a quando non è disteso sulla schiena sul morbido tappeto bianco.
 
“Stanco?” Chiedo.
 
“No,” mormora, “Ho freddo, però.”
 
Chiudo le porte e guardo le tende tornare a posto. Bertholdt non sembra si voglia spostare, quindi mi lascio cadere a terra accanto a lui. Le nostre spalle si sfiorano e mi ritrovo a fissare uno dei costosi dipinti sul muro.
 
“Mi sono fatto male,” dice infine Bertholdt dopo che un lungo minuto di silenzio. Mi ritrovo a girarmi a guardarlo all’istante.
 
“Dove?”
 
“Qui,” mormora, sollevando la manica della maglia.
 
I miei occhi si fissano sul suo braccio, avvolto da alcuni pezzi di garza. Si toglie le bende e lo straccio leggermente sporco di sangue cade a terra. Mi siedo rapidamente una volta che i miei occhi si fissano sullo squarcio che corre per tutta la lunghezza del braccio.
 
“Che cazzo?” Dico prima di potermi fermare. Bertholdt sussulta e si tira giù la manica. “Com’è successo?”
 
“È stato un incidente,” mormora. “Con un vetro rotto.”
 
“Vetro rotto?” Ripeto, aggrottando la fronte. “Che diavolo stavi facendo con dei vetri rotti?”
 
“Niente,” risponde Bertholdt.
 
Apro la bocca per fare un’altra domanda, ma Bertholdt ha le braccia sul viso.
 
“Non voglio parlarne,” dice, la sua voce calma e quasi impossibile da sentire. Deglutisco.
 
“Okay,” dico e mi chiedo quante volte ho detto quella parola stasera. “Non sei obbligato.”
 
“Okay,” risponde.
 
“Dai,” dico, massaggiandomi la nuca. “Dormi un po’.”
 
Le sue braccia volano via dal suo viso e mi guarda impaurito. Cerco di sorridere in modo rassicurante, ma sono sicuro che sembra più una smorfia che altro.
 
“Non preoccuparti, non ti lascerò solo.”

Annuisce e lo aiuto di nuovo. Lo porto sul letto e mi assicuro che sia comodo prima di dirigermi verso la porta e spegnere la luce. Giro la maniglia della porta, in procinto di partire per trovare una stanza per gli ospiti o qualcosa del genere, quando Bertholdt piagnucola piano.
 
Il mio cuore fa male fisicamente al suono. Mi giro e tolgo le scarpe.
 
“Spostati,” mormoro.
 
È troppo buio per vederlo, ma sento frusciare le lenzuola. Mi assicuro sia dall’altra parte del materasso prima di buttarmici sopra. È molto più comodo del mio merdoso letto a casa, ma sono troppo preoccupato per apprezzarlo davvero. La mia mente corre mentre scivolo giù fino a quando la mia testa è appoggiata sul cuscino.
 
“Eren?”
 
“Sì,” giro la testa verso la direzione della sua voce.
 
“Mi dispiace.”
 
“Non preoccuparti,” dico subito, ma Bertholdt non risponde. Aspetto che dica qualcos’altro, ma poi mi accorgo del suo respiro regolare e tranquillo.
 
Sta dormendo.
 
Sospiro e mi forzo a chiudere gli occhi.
 
 
***

Bertholdt non era accanto a me quando mi sono svegliato. Tiro fuori il telefono dalla tasca e controllo l’ora. Sono appena le sette del mattino. Sbadiglio e porto le gambe sul lato del letto. Afferro le mie scarpe da ginnastica, le infilo e poi apro la porta per cercare Bertholdt.
 
Lo trovo in cucina a testa bassa sul tavolo. C’è una tazza di caffè intatta accanto a lui, così come una bottiglia piena di pillole. Aggrotto le sopracciglia, ma mi rilasso quando vedo che è solo Advil[1].
 
“Ehi,” dico, colpendogli la spalla in segno di saluto.
 
Solleva lentamente la testa e mi guarda. Le occhiaie sotto i suoi occhi sono troppo scioccanti per distogliere lo sguardo.
 
“Ehi,” risponde, con voce roca dal disuso.
 
Mi siedo dall’altra parte del bancone. Bertholdt evita i miei occhi e si fissa le mani. Lo guardo giocherellare con le dita prima di rendermi conto di non farcela più.
 
“Cos’è successo?”
 
“Che vuoi dire?” Chiede stupidamente e assottiglio gli occhi.
 
“Ieri sera,” continuo, cercando il suo viso. “Eri fuori di testa, si vedeva chiaramente ci fosse qualcosa che non andava. E puzzavi di alcool.”
 
Sussulta e serra la mascella.
 
“Niente,” dice.
 
“Stronzate,” sbotto e Bertholdt solleva velocemente lo sguardo verso di me. “Non cercare di rifilarmi delle bugie che non stanno in piedi. Guardati il braccio, santo cielo!”
 
Bertholdt scuote la testa e fissa un punto del pavimento. Sospiro rassegnato e faccio scorrere le dita tra i capelli. Non sono abbastanza ubriaco per avere a che fare con situazioni come questa, qualsiasi situazione sia, e non riesco a non sentirmi un po’ frustato. Bertholdt e io siamo amici, no? Perché non può semplicemente parlarmi?
 
“Bertholdt,” dico, cercando di sembrare calmo. “Non sono arrabbiato, okay? Di qualsiasi cosa si tratti, puoi dirmelo. Non mi arrabbierò, va bene? Sto solo cercando di aiutare.”
 
“Smetti di provare,” risponde testardo Bertholdt e non riesco a fermare la risata che mi scappa dalla gola.
 
“Scordatelo,” dico.
 
Bertholdt solleva la schiena in modo da sedersi composto sulla sedia. Si morde il labbro inferiore prima di guardarmi negli occhi.
 
“Non puoi dirlo a nessuno,” comincia. Deglutisce a fatica e torna a guardare il pavimento. “Dico sul serio, Eren.”
 
“Okay,” rispondo. “Non dirò niente a nessuno.”
 
Bertholdt mi dedica uno sguardo dubbioso prima di grattarsi nervosamente la nuca. “E non puoi nemmeno fare niente.”
 
“D’accordo,” dico, nonostante trovi la richiesta alquanto strana. “Non farò nulla. Parola di scout.”
 
Bertholdt stringe gli occhi.
 
“Eri uno scout?”
 
“No, ma è bello dirlo,” continuo, sorridendo. Lui mi guarda ancora più dubbioso.
 
Il sorriso sparisce dal mio volto e mi schiarisco la gola.
 
“Va bene,” dico infine. “Parla.”

Bertholdt si agita sulla sedia. Lo guardo attentamente. Sembra quasi sia in procinto di vomitare e prego qualsiasi divinità che non lo faccia. Quando l’espressione scomoda sul suo viso passa, resisto all’impulso di sospirare di sollievo. Ho trattenuto e visto abbastanza vomito per durarmi una vita la scorsa notte.
 
“Ricordi quello che ti ho detto?” Comincia lui, mordendosi forte il labbro. “Di io e Reiner che siamo andati a letto insieme quando avevamo quindici anni?”
 
Ho una brutta sensazione di malessere, ma decido di ignorarla. Mi dico che ciò che Bertholdt sta per dirmi potrebbe non essere così male, ma so che non sarà così.
 
Il pensiero mi terrorizza fino in fondo, ma mi rifiuto di lasciare che lo veda anche lui. Devo essere forte. “Sì.”
 
“Ci ho pensato ieri sera,” dice Bertholdt. “Diciamo che… mi ha fatto impazzire ripensarci. Voglio dire… pensavo di averlo superato. Ma non è così. Volevo solo dimenticarlo.”
 
I miei occhi si spalancano.
 
“Il taglio sul tuo braccio,” dico con voce bassa e calma. “Te lo sei procurato da solo, vero?”
 
Non dice niente. Annuisce una sola volta.
 
“Non l’avevo mai fatto prima,” espone. “Tagliarmi, dico. Ma ero davvero sconvolto e volevo solo… una distrazione. È successo, ma quando ho visto il sangue sono andato nel panico.”
 
“E quindi mi hai chiamato per questo,” continuo. “Perché eri spaventato.”
 
Si morde ancora il labbro.
 
“Io…” comincia, ma si interrompe subito. “Devo dirti qualcosa. Della notte in cui io e Reiner siamo andati a letto insieme.”
 
“Cosa c’è?” Chiedo e il mio cuore martella ritmicamente nel petto. Bertholdt deglutisce e poi si passa le mani sulle cosce.
 
“Potrei… aver mentito,” comincia. Aggrotto le sopracciglia, ma non dico ancora nulla. “Ho detto che eravamo entrambi ubriachi, ma la verità è che solo lui lo era.”
 
Quella sensazione di malessere ritorna mille volte più intensa. Afferro il bordo del bancone e deglutisco.
 
“Bertholdt …”
 
“Abbiamo davvero fatto sesso,” dice, facendo una smorfia e provo a deglutire il nodo in gola.
 
“Era molto felice per aver vinto la partita e l’alcool ha peggiorato tutto. Lui e Franz avevano litigato per una cavolata. Franz lo colpì in faccia prima che se ne andasse. Reiner... Reiner non si calmò. Ho dovuto convincere la gente ad andarsene perché era fuori controllo.”
 
“Che cosa è successo dopo che tutti se ne sono andati?” Chiedo attentamente.
 
“Reiner continuava ad andare in giro per la casa,” continua Bertholdt. “L’ho afferrato per fermarlo. Ho provato a dire alcune cose per calmarlo e per un po’ aveva anche funzionato. Poi però ha ricominciato a dare di matto, quindi… l’ho baciato per zittirlo.”
 
“E poi?”
 
Bertholdt stringe gli occhi ed espira piano.
 
“Ha continuato a baciarmi,” sussurra. “Non provavo niente per lui. Non so perché l’ho baciato. Io... non mi aspettavo si spingesse così oltre. Non ho ricordi precisi, so solo che ci siamo trovati nello stesso letto a fare sesso. Non ho fatto nulla per fermarlo. L’ho solo... accettato.”
 
Si ferma e mi guarda.
 
“... Eren?”
 
“Non hai mai detto di sì,” dico e osservo Bertholdt sussultare. “Non hai mai detto di sì, vero?”
 
“Ma non ho nemmeno detto di no,” mormora Bertholdt.
 
Mi mordo l’interno della guancia con così tanta forza da sentire il sapore del sangue. Il mio sangue stava praticamente bollendo e mi sforzo di tornare in cucina in tentativo di calmarmi.
 
“Lui non… non penso mi abbia costretto. L’ho lasciato fare.”
 
Mi si stringe la gola.
 
“Lo volevi fare?” 
 
“Non lo so,” ammette Bertholdt. “Ho pensato lo volesse lui, quindi…”
 
Mi lascio cadere a peso morto sulla sedia. Mi sento improvvisamente esausto. Il mio intero corpo pizzica e peggiora ogni qualvolta cerco di elaborare l’informazione su ciò che è accaduto quella notte.
 
“Si chiama stupro, Bertholdt.”
 
Alza di scatto la testa alla parola.
 
“Lui non… Reiner… non avrebbe mai-”
 
“Ma l’ha fatto,” lo interrompo, gli occhi bruciavano per la rabbia. “È… È esattamente ciò che ha fatto.”
 
Bertholdt si ammutolisce. Evita di incontrare i miei occhi e io mi passo una mano tra i capelli.”
 
“È per questo che eri sconvolto ieri sera, vero?” Chiedo. “Perché lo stavi ricordando.”
 
Bertholdt scrolla le spalle.
 
“Penso di sì,” mormora. Sprofondo le dita nella mia coscia per fermarmi dal tirare pugni al muro.
 
“Cosa vuoi fare al riguardo?” Chiedo nuovamente. Lui scuote la testa.
 
“Nulla,” risponde e io spalanco gli occhi.
 
“Nulla?” Ripeto. “Non puoi lasciare che quel bastardo-”
 
“Eren.”
 
Mi fermo.
 
“Non voglio denunciarlo,” si spiega a voce bassa. “Voglio solo…”
 
“Cosa?”
 
“Dimenticare,” finisce. Deglutisco a fatica. “Ecco perché vorrei che lo facessi anche tu.”
 
“Non puoi portarti tutto il peso sulle spalle,” gli dico, scuotendo la testa. “Hai bisogno di aiuto.”
 
Bertholdt mi morde il labbro inferiore. Poi, mi viene un’idea.
 
“Vestiti,” dico, alzandomi in piedi.
 
“Eh?”
 
“Vestiti,” ripeto, indossando le scarpe. “Conosco qualcuno che può aiutarti.”
 
“Aiutarmi?”
 
Mi giro per guardarlo. Prima di pensarci, faccio il giro del bancone per stringerlo in un forte abbraccio.
 
“Andrà tutto bene,” lo rassicuro. “Lo giuro, starai bene.”
 
Bertholdt ricambia l’abbraccio senza dire nulla.
 
 
***

08:29, l’ultimo posto in cui avrei mai pensato di andare.
 
Bertholdt armeggia con l’orlo del maglione.
 
“Non sei costretto a entrare,” dico, stringendogli la mano. “Ho solo pensato che ti sarebbe stato utile. So che me ne hai appena parlato, ma-”
 
“Tranquillo,” mi interrompe. “Lo farò.”
 
“Sei sicuro?”
 
Annuisce. Gli stringo ancora la mano e lo accompagno per le scale.
 
“Non c’è nulla di male nell’accettare aiuto,” gli dico, ripetendo le parole che Mina ha detto a me. “Non ti rende debole.”
 
“Lo so,” dice Bertholdt, mordendosi il labbro. “Sono… sono passati due anni. Ha importanza?”
 
“Ma certo che sì,” dico. “Non importa quanto tempo sia passato. Se ti fa stare ancora male, meriti aiuto. Non avresti dovuto forzarti nel tenerti tutto dentro.”
 
Bertholdt annuisce. Gli sorrido e lo faccio salire. Alzo la mano libera per premere il campanello. Mi ritrovo a trattenere involontariamente il respiro mentre aspetto che la porta si apra. Bertholdt mi stringe la mano abbastanza forte da farmi male e, con il pollice, gli accarezzo le nocche.
 
La porta si apre e faccio un respiro profondo.
 
“Io… anzi, noi abbiamo bisogno del tuo aiuto,” deglutisco. “Possiamo entrare?”

La persona davanti a noi sembra sorpresa, ma dopo un attimo apre ancora di più la porta.
 
“Certo,” dice con uno smagliante sorriso.
 
Annuisco ed entriamo a casa di Mina.
 
 

[1] Advil: ibuprofene, farmaco antinfiammatorio.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 18

Levi

Luci nere danzano nella mia visione. C’è qualcosa di quasi grazioso in loro e, se ignoro il dolore incandescente che scorre attraverso il mio corpo, penso di poterle ammirare di più. Mi ricordano un balletto che mia madre mi ha portato a vedere. Avevo solo cinque anni e già dormivo prima della metà dello spettacolo, ma ricordo per che cosa ero stato sveglio. I delicati giri delle ballerine e i piedi perfettamente appuntiti mi avevano affascinato. Ho ammirato la loro grazia, anche se ero annoiato, ed è stato un ricordo che mi ha accompagnato nel corso degli anni.

È strano che ci stia pensando in questo momento, ma il dolore che Kenny mi infligge sembra scatenarlo. Combattere è un po’ come ballare, immagino. Ogni mossa viene calcolata con cura, ogni colpo viene spinto da una certa forza. L’intero corpo lavora in perfetta sincronia con la speranza di infliggere il maggior danno.

Alzo lentamente gli occhi per guardare Kenny. Ringhia, mi afferra per il colletto della camicia e mi sbatte la schiena contro il muro. L’impatto mi fa sussultare, ma usa la sua forza per tenermi bloccato.

“Che cazzo mi hai detto?!” Ringhia.

Oh, giusto.

Tutto è iniziato perché oggi mi sentivo coraggioso. Come a Kenny piaceva dirlo, alla fine ho fatto crescere le palle. Non sono sicuro del perché sia successo, ma stavo dando a Kenny del codardo prima che potessi fermarmi. E ora eccoci qui, sudando come maiali mentre l’adrenalina scorre nelle nostre vene.

“Ho detto che sei un fottuto codardo,” ribollo e Kenny mi dà un pugno abbastanza forte da bloccarmi il respiro in un sussulto soffocato.

C’è qualcosa di quasi divertente nella sua espressione. Il fatto che una parola così semplice lo abbia scatenato è ridicolo, ma diventa tutt’altro che divertente quando mi viene in mente che la stessa parola mi aveva fatto scoppiare allo stesso modo. Mi ero trasformato in uno stronzo quando Eren aveva detto qualcosa di simile a me, no?

Il ricordo mi riempie di vergogna. 

“Sei un fottuto ingrato,” dice Kenny, afferrandomi la camicia come se volesse strapparla. “Le avevo detto di sbarazzarsi di te, ma lei ti ha tenuto. Non sei stato altro che un parassita per tutta la tua vita.”

Le parole mi fanno sussultare. Kenny sorride vittorioso e anche la mia gola inizia a sentirsi un po’ stretta ora.

“Ti sbagli,” dico con voce sottile.

“Pensi che riuscirai in qualcosa?” Dice. “Pensi che sarai qualcuno nella vita?”

Stringo le labbra e non rispondo. Kenny mi calcia un ginocchio nell’intestino.

“Rispondimi quando ti parlo, idiota!”

“No!” Urlo e Kenny si interrompe bruscamente. “Hai ragione, cazzo! È questo quello che vuoi che dica? Eh?!”

Kenny mi lascia andare all’improvviso. Sembra molto più calmo, ma mi rifiuto di abbassare la guardia. Cammina avanti e indietro davanti a me.

Mi abbasso di nuovo contro il muro. Le mie ginocchia sembrano fatte di gelatina, incapaci di sostenere il mio peso.

“Mi dispiace, okay?” Dico con voce rauca. Kenny gira la testa e mi guarda. “Mi dispiace che mia madre sia morta. Mi dispiace di essere un peso.”

Si ferma, le braccia incrociate e le sopracciglia aggrottate.

“Dovresti esserlo.”

“Lo so,” mormoro. “Lo sono.”

Kenny sembra soddisfatto e si gira per andare in corridoio. Deglutisco e aspetto che torni. Quando lo sento aprire la porta della cantina, prendo la giacca ed esco.

Non so se dovrei davvero guidare ora o no, ma non ho intenzione di fermarmi e valutare le opzioni. Voglio solo andarmene da qui.

Guido verso la mia destinazione senza pensarci due volte. Il mio stomaco si agita, ma lo ignoro. Non voglio ascoltare la parte egoista della mia testa in questo momento.

La casa sembra uguale al solito. È difficile credere che sia passato almeno un mese o giù di lì da quando sono qui. Ma forse oggi...

No.

No. Le cose non sarebbero cambiate. Questo... non significa niente.

Esco dall’auto, ma la lascio accesa. Quando salgo i gradini del portico, i miei piedi emettono rumori forti e martellanti che suonano quasi odiosi nel silenzio della notte. Alzo la mano e suono tremante il campanello.

Ci vogliono alcuni minuti perché la porta si apra. Trascorro il tempo dondolandomi sui talloni. Il mio stomaco fa male come l’Inferno e so che probabilmente ci saranno anche dei lividi sulla schiena. Trovare una posizione comoda per dormire stanotte sarà un’impresa.

“...Levi?” Lo sguardo che mi lancia è incerto. Si vede che è sorpresa. L’ultima volta che sono stato qui, ho detto con convinzione che non avevo intenzione di tornare.

“Ciao, Olivia,” dico. Il suo nome ha un sapore amaro sulla mia lingua, ma immagino sia arrivato il momento di mostrarle un po’ di rispetto. Olivia afferra la porta e si acciglia leggermente.

“Michael non è a casa,” dice in tono piatto. “È in viaggio d’affari.”

“Oh,” dico io. Alzo le spalle. “Non sono venuto per lui, in realtà.”

Aggrotta ancora di più le sopracciglia. Mi sta guardando in faccia e sono sicuro di avere un aspetto orribile. Probabilmente sembra sia appena tornato da una rissa, anche se Kenny si assicura sempre di non colpirmi in punti visibili. Per salvare le apparenze.

“Sammy deve andare a letto presto,” dice lei. “Puoi tornare al mattino.”

“Voglio solo vedere mio fratello, okay?” Insisto, stanco. Sono consapevole sia la prima volta che lo riconosco apertamente come mio fratello senza la parte dispregiativa. “Per favore…”

Devo sembrare davvero patetico, perché Olivia si gira e urla il nome di Sammy. Lo sento precipitarsi giù per le scale e, prima di accorgermene, si lancia su di me.

Ho a malapena il tempo di reagire prima che si scontri solidamente al mio corpo. Emetto un gemito addolorato quando la sua testa sbatte contro il mio stomaco. Olivia mi dedico uno sguardo preoccupato, ma non mi concentro su di lei.

“Levi!” Grida, le braccia strette intorno alla mia vita, “Sei tornato!”

“Te l’avevo promesso, no?” Dico, chinandomi. “Ehi, vuoi prendere un gelato?”

“Possiamo?” Chiede Sammy, con gli occhi spalancati, e si volta verso Olivia. “Mamma, posso andare? Per favore?”

“Io...” lei si allontana.

“Per favore?” Mi aggiungo e il viso di Olivia si ammorbidisce.

“Ti voglio a casa prima delle dieci,” dice, aggrottando le sopracciglia ancora una volta, ma la considero una vittoria. “Domani ha scuola.”

“Sissignora,” la rassicuro, ma lo strillo emozionato di Sammy domina la mia voce. “Sarà fatto.”

Sammy torna di sopra per cambiarsi. Olivia scuote la testa e si gira per andarsene.

“Ehi,” chiamo, attirando la sua attenzione e lei si gira verso di me. “Mi dispiace di essere un tale stronzo. Non sei… male.”

Olivia incrocia le braccia.

“Linguaggio,” mi sgrida e se ne va prima di poter rispondere.

Sammy torna giù, impacchettato in un cappotto invernale e una grande sciarpa; mi viene in mente che sto congelando qui fuori. Sorrido e gli arruffo i capelli quando mi raggiunge.

“Non pensavo saresti tornato,” dice Sammy onestamente; aggrotto le sopracciglia.

“Seriamente?” Chiedo, guardandolo e Sammy scrolla le spalle. “Te l’avevo promesso, no?"

“Immagino,” mormora, quasi troppo basso perché io lo senta. “Le persone non mantengono quasi mai le promesse.”

È una dichiarazione incredibilmente matura e guardo Sammy, spalancando la mascella. Avevo passato così tanto tempo a lamentarmi del fatto che eravamo totalmente diversi, che Sammy era più privilegiato di me... ma non lo è. Siamo più simili di quanto vorrei ammettere. Entrambi siamo stati costretti a vedere la dura realtà della vita prima di essere pronti, ma neanche una volta mi sono mai sentito male per me stesso. Sammy, d’altra parte, era una storia diversa.

Ripenso alla mia ultima visita qui, a quando era scoppiato in lacrime davanti a me, e deglutisco.

“Perché dici così?” Dico con una risatina, allungando la mano per arruffargli di nuovo i capelli.

“Nessun motivo in particolare,” replica in modo ambiguo e, prima di poter rispondere, sorride ampiamente. “Che gelato prendiamo?”

“Quello che vuoi, ragazzino,” dico, aprendo la portiera dell’auto. “Vuoi salire davanti?”

Sammy annuisce rapidamente e salta quasi sul sedile. Rido piano delle sue azioni e mi assicuro abbia allacciato la cintura prima di uscire dal parcheggio.

“Perché sei venuto?” Chiede Sammy, armeggiando con la radio.

“Ti ho detto che l’avrei fatto.”

“Lo so,” dice, appoggiandosi allo schienale. “Ma non pensavo sarebbe stato così presto.”

“Non volevi che tornassi?” Chiedo, confuso, e Sammy scuote la testa con veemenza.

“Non è quello che intendevo dire!” Grida, immediatamente sulla difensiva, e spalanco gli occhi. “Solo…”

“Cosa?” Chiedo gentilmente, cercando di convincerlo a rispondere, ma Sammy rifiuta di farlo.

“Niente,” dice, tirando un po’ la cintura di sicurezza dal collo. “Sono contento che tu l’abbia fatto.”

Decido di non commentare il suo strano comportamento. Il silenzio in macchina è improvvisamente soffocante. Tutte le mie interazioni con Sammy erano complicate. Era quasi impossibile far tacere quel bambino. Anche se all’inizio l’avevo trovato fastidioso, mi sono subito abituato. In effetti, in qualche modo, avevo iniziato a pensare che fosse un po’ accattivante.

Quindi ora è incredibilmente strano vederlo così silenzioso. Non ho mai visto Sammy zitto in nessun momento. La sua bocca viagga a centinaia di chilometri all’ora ed è difficile per me stare al passo con lui. Non so cosa sia successo, ma immagino me lo dirà quando sarà pronto. Non voglio costringerlo.

Mi fermo davanti a una gelateria e mi assicuro che Sammy mi segua prima di entrare. Sono circa le sette e sono grato che il negozio non chiuda fino alle nove. L’avevo visto quando ho deciso di uscire di casa. Ogni volta che esco, tendo ad andare a mangiare lì. Immagino sia una specie di consolazione.

“Scegli quello che vuoi,” dico a Sammy, scavando nella tasca posteriore per il mio portafoglio. “Non ti preoccupare.”

Sammy annuisce e si avvicina al bancone per guardare l’elenco dei gusti. Prendo il portafoglio e aspetto che mi dica cosa vuole.

“Cioccolato,” dice con determinazione. Alzo le sopracciglia.

“Solo cioccolato?” Chiedo, sorpreso e quasi rido. “Hai così tante opzioni tra cui scegliere.”

“Il cioccolato è buono,” risponde Sammy, sulla difensiva e gli pizzico la guancia.

“Va bene, piccolo. Cioccolato sia.”

Quando Sammy ebbe il suo cono con due palline di gelato al cioccolato, ci sediamo a un tavolo piuttosto isolato. Mi dedica uno sguardo curioso mentre lecca il suo cono.

“Tu non prendi niente?” Chiede. Scuoto la testa in negazione.

Sammy scrolla le spalle e si tuffa di nuovo nel suo gelato. Si sporca gli angoli della bocca e spalanca gli occhi quando rido. Mi fa la linguaccia e continua a mangiare.

Il mio sorriso svanisce quando penso agli eventi di stasera. Sammy sembra accorgersene, smettendo di leccare il gelato per inclinare leggermente la testa di lato.

“Cosa c’è che non va?” 

“Non dovrei chiedertelo io?” Domando invece, allungando la mano sul tavolo per colpire scherzosamente il suo braccio. “Oggi sei piuttosto tranquillo, ragazzino. È successo qualcosa?”

“No,” risponde Sammy e torna a mangiare distrattamente il suo gelato. “Beh, non proprio.”

“Che significa?” Domando ancora, leggermente preoccupato, e lui scrolla le spalle.

“Niente. Solo…” fa una pausa prima di sospirare piano. “Papà ha detto che non saresti tornato.”

Mi acciglio e guardo il tavolo.

“Papà è un bugiardo. E un bastardo,” sputo, borbottando l’insulto in modo che Sammy non lo sentisse.

Mi sente, però, e tende la mano.

“Hai detto una parolaccia,” accusa. “Sono cinque centesimi.”

Alzo gli occhi al cielo e gli do venticinque centesimi nel palmo della mano.

“Per sicurezza, te ne do di più. Probabilmente ne dirò altre,” dico burbero, e Sammy sorride.

“Gli ho creduto, sai,” borbotta Sammy. “Non volevo credergli. Ma non sapevo cos’altro fare.” 

“Va tutto bene, Sammy,” lo rassicuro onestamente. “Non sono arrabbiato.”

Sammy sembra meno interessato al suo gelato adesso. “Lui e la mamma dicevano molte cose cattive su di te. E ci credevo, perché non sapevo nulla di te. Non potevo fare un paragone.”

“Non preocc-”

“No,” mi interrompe Sammy, e mi ritrovo di nuovo stupito dalla sua maturità. “Mi dispiace, Levi.”

“Perché ti stai scusando?” Chiedo, scuotendo la testa per lo stupore. “Non è colpa tua.”

Sammy tace.

“La mamma ha detto una bugia.”

“Eh?” Chiedo, confuso. “Riguardo a cosa?”

“Papà,” dice Sammy lentamente, alzando gli occhi per guardarmi. “Papà non è in viaggio d’affari. Ci ha lasciato.”

“Cosa?” Quasi urlo, la mia voce rauca e sento il cuore precipitare verso il pavimento. “In che senso?”

Sammy chiude gli occhi per alcuni secondi.

“Se n’è andato,” sussurra. “Sono tornato a casa da scuola e la mamma piangeva a dirotto. Quando le ho chiesto perché piangesse, mi ha detto che saremmo stati solo io e lei adesso.”

“Figlio di puttana,” sussurro, e gli occhi di Sammy si spalancano. “Merda, scusa.”

“Quindici centesimi,” mormora Sammy, lanciando i venticinque centesimi in aria. “Puoi dire ancora due parolacce, poi devi pagare di nuovo.”

“Sei bravo in matematica,” mi congratulo, cercando di farlo sorridere, ma non funziona. “Non ci sarei arrivato.”

“Questa è roba di seconda elementare,” dice Sammy, ma le sue guance sembrano po’ rosse.

Annuisco e incrocio le braccia.

“Quando se n’è andato?” Chiedo piano. Sammy deglutisce a fatica.

“Mercoledì scorso,” risponde e fa una pausa. “Era il mio compleanno.”

“Pure?” Ribollisco di rabbia, sedendomi dritto. Sammy salta allo sfogo, ma non riesco a fermarmi. “Lui-”

“Non hai chiamato,” continua Sammy, deluso e dolce, e il mio cuore fa male fisicamente. “Papà l’aveva detto che non avresti chiamato… e non l’hai fatto.”

Deglutisco.

“Non lo sapevo,” è meglio essere onesti. “Nessuno… nessuno mi ha mai detto quando compi gli anni.”

Sammy annuisce.

“Lo so,” dice. Si stringe nelle spalle e gioca con il tovagliolo avvolto attorno al cono. “La mamma mi ha raccontato tutto quanto.”

“Tutto quanto, eh?” Chiedo. Probabilmente Olivia era al corrente solo delle menzogne che le rifilava il marito, credendoci. Ma almeno Sammy ora sa di non essere l’unico figlio di Micheal a essere stato abbandonato.

“Ha detto che tua madre è morta,” comincia Sammy attentamente, e mi guarda per valutare la mia reazione. “È vero?”

Fisso il tavolo.

“Sì,” rispondo, la mia voce è ruvida e mi schiarisco la gola. “È morta quest’estate.”

Sammy si irrigidisce.

“Mi dispiace.”

“Non è colpa tua.” Mi mordo l’interno della guancia. “Come... come stai?”

“Non lo so,” risponde Sammy. “Non ci ho pensato.”

“È un evento ancora troppo fresco,” dico. “Immagino tu non lo abbia ancora completamente accettato.”

Sammy finisce il suo gelato. Si pulisce la bocca con un tovagliolo ed evita di guardarmi.

“Pensi che tornerà?” Domanda Sammy. Guardo fuori dalla finestra, cercando di trovare le parole giuste. “Sii onesto, Levi.”

“...No,” dico finalmente, le spalle cedono e sento che tutto il peso del mondo è su di me. “Non credo.”

“Mhm,” dice Sammy in modo uniforme; è difficile credere che abbia solo undici anni.

“Sammy,” comincio, ma le mie parole finiscono qui.

Non so cosa dire. Nessuno mi aveva confortato quando la mia famiglia ha iniziato a crollare. Nessuno si è preso la briga di spiegarmi come stavano le cose quando chiedevo perché non avessi un padre come tutti i miei compagni. A nessuno è importato nulla della morte di mia madre e nemmeno di quando sono finito sotto la custodia di Kenny come una specie di cucciolo smarrito.  

Non so cosa dire a Sammy. Immagino non ci sia niente da dire in ogni caso. Non posso cambiare la decisione di Micheal. Non posso costringerlo a tornare dalla moglie e da Sammy, nella loro perfetta e grande casa. Non posso cambiare cos’è successo.

Beh, forse non voglio farlo. Forse una parte malata di me è felice che Sammy veda suo padre, nostro padre, per quello che è veramente. Forse sono contento che l’immagine idilliaca e da supereroe che i ragazzi dipingono dei loro padri si sia rivelata ancora una volta una bugia idiota. Forse sono felice che ci sia qualcuno con cui condividere la mia amarezza. Forse sono felice che ci sia qualcuno che crescerà odiando mio padre tanto quanto me. Forse sono felice che io e Sammy non siamo più poi così diversi.

Poco dopo, riporto Sammy a casa. Olivia indugia sulla soglia e la guardo con le sopracciglia sollevate.

“Cosa c’è?”

“Probabilmente te l’ha detto,” inizia lei, piano, e io scrollo le spalle.

“Forse.”

Incrocia le braccia sul petto.

“Pensavo di essere diversa,” dice. “Non... non pensavo che lo avrebbe fatto anche con me.”

“Immagino ti sia sbagliata,” mormoro. Faccio scivolare le mani nelle tasche. Olivia si morde il labbro inferiore.

“Devi esserne felice,” dice con una risata amara. Scuoto la testa.

“Non sono contento,” mormoro, lanciando un’occhiata a Sammy, che si sta togliendo il cappotto e la sciarpa. “Sono solo incazzato. Sammy non deve passare quello che ho passato io.”

Olivia sembra sorpresa.

“Lui ha me.”

“Ne sei sicura?” Chiedo, e lei tace.

“Lui non è te,” dice dopo qualche istante e non posso fare a meno di riconoscere l’accusa delle sue parole. Alzo di nuovo le spalle.

“Hai ragione. Non lo è,” dico, e do un calcio leggero allo stupido zerbino sotto il portico. “E sai perché?”

“Illuminami.”

“Perché ti assicurerai che stia bene,” dico, la mia voce morbida, ma determinata; Olivia stringe gli occhi “Ti assicurerai che non finirà come me. Merita di meglio.”

Olivia stringe le labbra. Faccio un passo indietro dalla porta.

“Buonanotte,” concludo, ma non sono sicuro di voler dire davvero le parole o no.

“Sì,” dice distrattamente, e sorriso internamente. “Anche a te.” 
 
***
Non torno a casa dopo aver lasciato Sammy. Vado in giro senza meta e cerco di tenere la mente occupata con cose che non riguardano oggi, ma è difficile. La mia mente salta da Kenny a Michael e viceversa, ancora e ancora, fino a quando non mi devo fermare perché mi fa male la testa.

La mia benzina si sta esaurendo e sono abbastanza lontano da casa. Spengo la macchina e mi appoggio al sedile. Tutto il mio corpo è intorpidito e troppo sensibile allo stesso tempo. È una strana sensazione; quando chiudo le palpebre il mal di testa si intensifica.

Guardo l’orologio. Sono solo le 19:30 circa. Sembra molto più tardi, però. Sono completamente esausto. Il sonno è l’unica cosa a cui riesco a pensare ora, ma mi rifiuto di andare a casa.

No, quel posto non è casa. È solo un posto dove vivo. Non è mai stata una casa. Non sarà mai casa.

Prendo il telefono dalla tasca e ci gioco, controllando poi Facebook. Non lo uso quasi mai. L’unica ragione per cui al tempo avevo fatto un account era perché Isabel aveva insistito. Ironico, considerando che mi ha bloccato proprio quando ho cominciato a comportarmi differentemente. Non posso biasimarla, però.

Quando mi stanco dei post insensati su scuola e amici, guardo i contatti in rubrica. Il pollice è sospeso sul nome di Eren. Ci siamo scambiati i numeri dopo essere andati in quel bar. Ha insistito che sarebbe stato molto più facile rimanere in contatto. L’ho considerato un progresso, anche se non sono sicuro dove porterà questo progresso.

Premo il suo nome prima di poter cambiare idea. Suona per alcuni istanti prima che risponda. Sento che il respiro mi si blocca in gola per qualche strana ragione.

“Levi?” Risponde, sembrando stanco, e qualcosa fruscia dall’altra parte della linea. “Che succede?”

“Niente,” rispondo e scivolo sul sedile. L’auto è fredda all’improvviso e non sono sicuro del perché. Prima la temperatura era normale. “Che fai?”

“Uhm... niente,” dice. Sembra confuso. “Perché hai chiamato?”

Volevo sentire la tua voce.

“Nessun motivo,” mento, perché non voglio mettermi in imbarazzo. Eren tace. 

“È successo qualcosa?”

Sì.

“No.”

“Sei sicuro?”

No.

“Sì.”

“...So che stai mentendo,” dice Eren. Sembra stanco. Il senso di colpa mi trafigge come una verga calda direttamente nel cuore. “Pensavo avessimo deciso di essere onesti l’uno con l’altro.”

“Non abbiamo mai fatto un accordo del genere,” borbotto.

“Lo abbiamo sicuramente fatto,” dice Eren indignato e forse avrei riso se avessi avuto l’energia per farlo. “Era più un affare non detto, ma l’abbiamo fatto.”

“Ti credo,” rispondo cercando di dargli fastidio, perché posso praticamente vederlo con le guance rosse dalla frustrazione. “Hai ragione. Abbiamo fatto quell’accordo.”

“Giusto,” dice Eren, sembrando più calmo. “Allora... vuoi parlarne?”

“No,” dico, e c’è questo forte dolore che attraversa il mio corpo. Stringo i denti. “Ehi.”

“Che c’è?”

“Raccontami la tua giornata,” dico io ed Eren ride.

“Cosa siamo, una vecchia coppia sposata?”

“Siamo qualunque cosa tu voglia,” dico, facendo un piccolo sorriso anche se non riesce a vedermi.

“Va bene, sei strano,” continua Eren. Canticchia piano. “La mia giornata è stata ... sì.”

“Orribile?”

“Più o meno.”

“Cos’è successo?” Domando. Eren non dice nulla per un po’. Mi chiedo se abbia riattaccato, ma poi sospira.

“Uhm, parliamo di qualcos’altro,” cambia argomento. “Com’è stata la tua giornata?”

“Che cosa è successo?” Chiedo di nuovo, più insistentemente, ed Eren sospira.

“Niente. Solo... non lo so, è stata solo una brutta giornata. Che altro vuoi che dica?”

“Stai nascondendo qualcosa.”

“Anche tu.”

Deglutisco. “Touché.”

“Mi dispiace,” cede alla fine Eren, sembrando genuino. “Diciamo che... non riguarda me. Sai, riservatezza e cazzate varie. Non voglio fare gossip.”

“Sì,” dico. “Sì, ho capito.”

“E tu?”

Mi mordo il labbro e stringo il telefono tra le mani.

“Vigliacco,” dico, e la mia voce si incrina mentre lo dico. Rido, amaro, e mi passo la mano libera tra i capelli. “Avevi ragione, lo sai. Sono un codardo.”

“Non è vero,” smentisce Eren all’istante. Mi chiedo che tipo di faccia stia facendo in questo momento. Mi rendo conto sia difficile parlare al telefono. Non puoi vedere l’espressione dell”altra persona. Non puoi vedere come le tue parole le influenzano.

“Si…”

“È successo qualcosa, vero?” Chiede Eren. Annuisco, il che è stupido poiché non riesce a vedermi, ma non mi interessa davvero.

“Sono successe molte cose,” dico. “E, onestamente, fa schifo tutto.”

“Mi dispiace.”

“La vita fa schifo.”

“Lo so.”

“Sono…”

“Sei...?” Persuade. Guardo il cielo dal parabrezza. È una specie di inchiostro nero, schizzato di tutte queste piccole stelle d’argento, e faccio del mio meglio per rimanere concentrato su di esso.

“Stanco,” mormoro. “Sono davvero stanco.”

“Anche io sono stanco,” dice Eren gentilmente. “Sono stanco da un bel po’.”

“È davvero drenante.”

“Lo so,” mi dà ragione, e tutto il mio corpo inizia a tremare. Non so cosa sta succedendo.

“Eren.”

“Dimmi.”

“Perché pensi che la gente se ne vada?” Domando. “Pensi che sia perché sono stanchi?”

“A volte,” ammette Eren. “Altre volte, penso se ne vadano perché la loro attuale vita fa troppo schifo.”

“Pensi mai che qualcuno ti possa abbandonare?” Chiedo a denti stretti. Eren sospira rumorosamente.

“Di cosa stai parlando, Levi?”

“Non lo so,” ammetto, chinandomi in avanti e premendo la fronte contro il volante. “Cavolo, lo vorrei sapere.”

“Ehi,” dice, con voce sommessa, e faccio un suono con la bocca per fargli sapere che sto ascoltando. “Ricordi quando ti ho detto che non me ne sarei andato?”

“Sì,” rispondo. “Mi ricordo.”

“Perfetto.” dice Eren. “Perché vale ancora ciò che ho detto. Non vado da nessuna parte.”

“Giusto,” sbuffo e mi gratto la fronte. “Chi altri ti offrirà il pranzo, sennò? Questa è una citazione diretta, comunque.”

“No,” dice Eren con fermezza. “Non vado da nessuna parte perché... perché ho bisogno di te.”

Inspiro acutamente, la mia mente corre mentre prendo le sue parole.

“Hai bisogno di me?” 

“Sì,” risponde Eren, la voce sottile. “E anche tu hai bisogno di me, vero?”

Probabilmente dovrebbe sembrare una domanda, ma sembrava più che altro un’affermazione.

“Sì, Eren,” confermo e chiudo gli occhi mentre ascolto il suo respiro dall’altra parte della linea. “Anche io ho bisogno di te.”

“Quindi... abbiamo bisogno l’uno dell’altro,” continua. “Questo è… il motivo per cui nessuno di noi abbandonerà l’altro.”

“Già,” dico, e mi faccio un po’ schifo per non riuscire a pensare a nient’altro da dire. “Noi… resteremo insieme.”

“Sì,” sussurra Eren. “Esattamente.”

“Cielo,” respiro. “Sei semplicemente perfetto, lo sai, vero?”

“Ci provo,” dice con uno sbuffo; ridacchio. “Ti senti meglio?”

“Più o meno,” rispondo, mettendomi seduto. “Grazie.”

“Nessun problema. Faresti lo stesso per me.”

“Sì,” lo rassicuro. “Sì, lo farei.” Lancio un’occhiata all’orologio. “Merda. Probabilmente dovrei andare. Scommetto che sei stanco.”

“Nah,” nega Eren. “Ma... stai bene?”

“Sì, sto bene. Tu?”

“Sto bene,” mormora. “Nessun problema.”

“Okay,” dico, e mi mordo l’interno della guancia. “Uhm... ci vediamo.”

“Dio, sei così imbarazzante,” dice Eren con uno sbuffo. “Non hai mai parlato al telefono prima o qualcosa del genere?”

“Certo che sì!” Ringhio, sulla difensiva, ed Eren ride ad alta voce.

“Adoro prenderti in giro, lo sai. È divertente.”

“La pagherai un giorno di questi,” scherzo ed Eren ridacchia.

“Oh, mi punirai?” Dice con voce civettuola, e sento le guance scaldarsi.

“Taci,” continuo, e la sua risata risuona nel mio orecchio.

“Chissà quanti insulti devo recuperare.”

“Non tutti insultano le persone per vivere,” sbotto irritato, ed Eren continua a ridere.

“Non insulto tutti. Solo le persone speciali.”

“Mi sento onorato,” dico seccamente, e posso praticamente immaginarlo ghignare.

“Dovresti,” dice. “Ora vado a dormire.”

“Okay,” continuo e resisto all’impulso di augurargli sogni d’oro o qualcosa di altrettanto disgustosamente romantico. “Notte.”

“Buonanotte,” risponde; quando riaggancio mi sento sollevato da un peso.

Mi appoggio allo schienale del sedile, tenendo ancora il telefono tra le mani e fisso il soffitto dell’auto. Tutto il mio corpo fa ancora male, ma almeno ora posso finalmente respirare. Mi sento più calmo e mi chiedo se Eren sia davvero riuscito ad avere un tale effetto su di me.

È terrificante pensare che una persona possa influenzarmi così tanto, ma, stranamente, non mi sento minacciato. Se non avessi parlato con lui, probabilmente sarei andato in giro come un maniaco. Non mi ero sfogato sulla mia orribile giornata, ma non mi importava.

Averlo accanto è abbastanza per farmi dimenticare tutto questo. Sembra davvero stupido, ma è la verità.

Io… ho bisogno di lui.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 19

 
Eren

11:38, nel mio salotto.

Rimango in piedi vicino al divano con le mani chiuse a pugno. Non devo difendermi da qualcosa o qualcuno. È solo confortante, per quanto sia strano dirlo. Jean mi dedica un sorriso che mi fa rizzare i peli sulla nuca. Non mi sorride da chissà quanto tempo. È strano come quella piccola piega nell’angolo della sua bocca riesca a farmi sentire a disagio.

Sembra… rilassato.

Non sono sicuro del motivo per cui ciò mi mette a disagio. È così, però, e prima di poter protestare, mi attira verso di sé per stringermi in una specie di abbraccio fracassa-ossa che mi spezza il respiro.

“Mina mi ha chiamato,” mormora contro il mio orecchio.

Mi irrigidisco e mi stringe di più. Seppellisce la faccia contro il lato del mio collo ed espira pesantemente contro la mia pelle. Mi stringeva come se avesse paura che possa scappare da un momento all’altro.

E diavolo, è così. Lo sento crescere nelle mie ossa, una specie di contrazione ai polpacci, l’improvviso bisogno di lasciar perdere tutto e correre. Voglio arrendermi, voglio lasciarmi andare, ma non lo faccio. Sono stufo di questo. Scappare sempre, intendo. Ma non c’è molto che possa fare. È una delle mie preziose strategie di adattamento.

“Ah sì?” Domando retoricamente, la mia voce uniforme e morbida, e lui mi libera. “Che cosa ha detto?”

“Mi ha detto che eri con un amico,” dice, corrugando le sopracciglia, e io annuisco per confermare la validità della sua dichiarazione. “Lo sapevo che prima o poi saresti andato. Era tardi quando mi ha chiamato.”

Deglutisco.

C’è qualcosa bloccato nella mia gola, qualcosa di grosso e ostruttivo, ma i miei tentativi di rimuoverlo sono inutili. Tutto il mio corpo è pesante ed esausto quando penso al giorno precedente. Abbiamo passato un sacco di tempo nel minuscolo ufficio di Mina. Bertholdt le ha raccontato tutto quanto, liberandosi del peso dal petto. Quando Mina ha chiesto al mio amico di approfondire le cose, sono stato bandito in soggiorno. Non l’avevo più visto da quando eravamo tornati a casa.

Non mi ha detto una sola parola.

“Siamo stati lì tutto il giorno,” gli assicuro. Non voglio che lui pensi di essere sparito nella notte come faccio di solito. Annuisce, si rilassa e fa un passo indietro. Sento di poter respirare di nuovo.

“Che cosa è successo?” Chiede con cautela. Alzo le spalle.

“Il mio amico aveva bisogno di aiuto.” Jean annuisce.

“Tu le hai…?”

“Parlato?” Finisco per lui la frase. Jean annuisce di nuovo. “Non ne ho sentito il bisogno. Lui aveva più bisogno di lei.”

Jean sprofonda lentamente nel divano. Lo guardo, infilando le mani nelle tasche e aspetto che dica qualcos’altro. Sembra pensare alle mie parole. Mi chiedo cosa voglia dire, cosa dirà, e prima che possa chiederglielo, apre la bocca.

“Mi ha raccontato dell’incidente con il biglietto da visita,” mormora, e lo guardo attentamente.

Incidente.

La parola ha una connotazione così negativa.

L’incidente mi fa pensare a tutte queste situazioni sgradevoli. L’incidente con Nick, quando ha deciso che voleva più di quanto io volessi dare. L’incidente con Levi, quando ha deciso di mettersi in mostra davanti ai suoi amici. L’incidente con Historia, quando ha deciso che era stanca che la trattassi da schifo. L’incidente di Mikasa, quando ha deciso che voleva abbandonarmi.

Ma l’incidente del biglietto da visita non è stato davvero un incidente. Avevo semplicemente fatto ciò che faccio sempre: rifiutare ogni singola offerta di aiuto. Nulla di nuovo.

Deglutisco di nuovo il nodo in gola e scrollo le spalle, tentando di apparire disinvolto. Mi sento tutt’altro che disinvolto. Tuttavia, non ho intenzione di dirlo a Jean.

“Non è un grosso problema,” dico. Provo a valutare la sua reazione. È difficile, però. Non so mai come reagirà fino a quando non lo farà.

“Vuole ancora aiutarti,” dice Jean lentamente. “Era seria a riguardo, lo sai. So che le cose non sono andate così bene l’ultima volta, ma Mina è diversa. Lo giuro.”

“Lo so,” rispondo. Mi chiedo se penso di saperlo davvero. “Capisco. Ma non mi piace molto l’idea di essere diventato un premio per una gara di carità.”

Jean restringe gli occhi. “Non sei un premio in una gara di carità. Lei vuole solo aiutarti.”

“Solo perché gliel’hai chiesto tu,” rispondo con uno sbuffo derisorio. Jean sospira.

“Non è vero.”

“Come vuoi,” dico, perché non ho nient’altro da dire. Lo guardo. “Mi dispiace di aver marinato la scuola oggi, comunque. Ieri non è stata una bella giornata.”

“Non sono arrabbiato,” mormora Jean, e mi ritrovo ad alzare le sopracciglia. Si stringe nelle spalle e si gratta la nuca. “Mi ha detto che eravate davvero scossi.”

Annuisco lentamente e mi mordo l’interno della guancia. All’improvviso, mi viene in mente un pensiero.

“Ehi, Jean?”

“Cosa c’è?”

“Tu... hai mai avuto a che fare con casi di stupro?” Domando. Gli occhi di Jean si spalancano.

“Ti è successo qualcosa?”

“Non a me,” mormoro. “A qualcun altro.”

All’improvviso, Jean mi lancia uno sguardo consapevole.

“Di solito ho a che fare con lamentele di disturbo della quiete pubblica e piccoli crimini,” ammette Jean. “La mia unità non ha che a fare con casi del genere. C’è un’unità speciale per casi di stupro.”

Annuisco, sentendomi un po’ scoraggiato. Mi sento abbastanza a mio agio nel parlare con Jean. E se Bertholdt volesse perseguire legalmente le cose, preferirei che il caso fosse seguito da Jean. Non so se Bertholdt vuole denunciare ciò che gli è successo, e non so se Mina sia costretta al segreto in questo tipo di casi. Non voglio forzare Bertholdt, ma voglio offrirgli una strada da percorrere in caso scegliesse di fare qualcosa.

“Conosci qualcuno di quelle unità?” Chiedo. Jean annuisce.

“Alcuni. Lavoriamo tutti nello stesso ufficio,” risponde. Increspa le labbra. “Posso contattare qualcuno di loro, se vuoi.”

Sollevo le spalle.

“Puoi procurarmi un biglietto da visita o qualcosa del genere? Non sono sicuro di quanto voglia andare fino in fondo.”

“Certo, posso farlo,” continua Jean per poi aggrottare le sopracciglia. “Ehi, stai bene?”

Annuisco. “Sto bene.”

Ormai ha capito che questo è il mio modo di mandarlo via, ma questa volta non cede. Non so cosa dovrei fare in questa situazione. Voglio essere un buon amico per Bertholdt, ma non sono sicuro di quanto lui mi voglia coinvolgere in tutto questo. Immagino che starò in stand-by finché non avrà bisogno di me.

“Va bene,” dice Jean. “Se lo dici tu.”

Annuisco, sorridendo con uno dei miei sorrisi finti, e Jean sospira piano.
 
 
***

13:46, ginnastica. 

La palestra mi dà davvero sui nervi. Non so sia perché credo di dover provare a fare qualcosa o perché non devo vedere Reiner. Credo sia per quest’ultimo motivo. Ogni volta che ci passo accanto, la voglia di colpirlo in faccia diventa sempre più forte. La mia mente è ancora fortemente fissata su ciò che Bertholdt mi ha raccontato. E anche se gran parte vuole prenderlo a pugni fino a sfigurarlo, so che non risolverebbe nulla.

“Jaeger!”

Smetto di progettare modi per uccidere silenziosamente Reiner e alzo lo sguardo per il signor Zacharias dirigersi verso di me con uno sguardo severo, e mi chiedo cosa ho fatto di sbagliato.  

“Sì?” Dico, asciugandomi il sudore dalla fronte. La palla da basket mi rimbalza accanto e non faccio nulla per afferrarla. Mi dirigo verso il bordo del campo dove mi aspetta il signor Zacharias.

“Vai a controllare Levi,” dice.

“Levi?” Ripeto, e mi giro per fare una rapida scansione della stanza.

Abbastanza sicuramente, Levi non è da nessuna parte. Prima c’era. Abbiamo parlato in spogliatoio e poi siamo stati messi nella stessa squadra. Uno dei palloni da basket l’ha colpito allo stomaco e la sua faccia si era contorta in una smorfia di dolore. Ma prima che potessi chiedergli come stesse, era andato dal professor Zachiaras. A giudicare dalla conversazione che stavo avendo, evidentemente non era tornato. 

“Dov’è?”

“In corridoio,” risponde. “Ha detto che aveva bisogno di bere qualcosa.”

Aggrotto la fronte.

“Vado a cercarlo,” assicuro. Il professore annuisce e io mi dirigo all’uscita della palestra. 

Mentre apro le pesanti porte, guardo il corridoio che dà verso la fontana. Levi non si trova da nessuna parte e mi ritrovo a rosicchiarmi l’interno della guancia.

“Dove diavolo ti sei cacciato?” Mormoro tra me e me.

Mi avvicino allo spogliatoio e spingo lentamente la porta. Non sono nemmeno sicuro che sia lì. Sento il suono dell’acqua corrente. Speriamo sia lui. Altrimenti, sarebbe davvero imbarazzante.

Torno verso il bagno, con un ghigno in faccia. Quel bastardo pensa di potermi sfuggire, eh? ‘Ho bisogno di bere qualcosa’. Seh, certo. Probabilmente voleva solo saltare la partita di basket. Non posso biasimarlo, comunque.

“Stai provando a saltare la lezione, Ackerman?” Comincio, ma la mia voce vacilla immediatamente non appena dico il suo nome.

Levi alza lo sguardo in completo shock. La mia bocca si asciuga appena poso lo sguardo sul suo torso nudo. Il suo addome è coperto di grandi lividi scuri. Un sussulto lascia le mie labbra e inciampo all’indietro, gli occhi fissi sulla sua pelle nuda. Levi impreca e si lava via il resto dell’unguento.

“L-Levi?” Balbetto. Lui stringe la mascella.

“Esci, Eren,” sussurra. Non sembra arrabbiato, ma qualcosa mi dice che cambierà quanto più mi dilungherò.

Non posso muovermi, però. Sono congelato, e all’improvviso mi viene in mente quando ha visto i lividi che Nick mi ha lasciato quella volta. Gli avevo risposto che nessuno mi aveva picchiato, vero?

Santo cielo.

Come ho fatto a essere così cieco?

“No,” dico, costringendomi a ritrovare la calma, e mi avvicino con esitazione. “Che diavolo ti è successo?”

“Niente,” mormora. Si gira di nuovo nel lavandino e indossa la maglia. Chiude il tubetto di unguento e lo infila nella tasca dei pantaloni. “Senti, vuoi andartene o no?”

“No,” dico con voce calma e lui mi guarda.

“Sto bene,” dice. Scuoto la testa con decisione.

“Non ti fa male?” Sussurro. Si appoggia all’indietro contro il lavandino ed espira rumorosamente.

“Sono abituato,” mormora. Mi avvolgo le braccia intorno come una forma di conforto.

Non aiuta affatto, per la cronaca.

“Pensavo avessi detto che era non bisogna abituarsi al dolore...” La mia mente corre con tutti questi diversi scenari. Non so cosa pensare. Non sono nemmeno sicuro che il mio cervello funzioni perfettamente a questo punto. Abbasso lo sguardo e mi mordo di nuovo il labbro.

“Dovremmo tornare in classe,” dice Levi seccamente, allontanandosi dal lavandino. “Andiamo-”

“Come pensi possa tornare in classe dopo questo?” Sibilo. Levi restringe gli occhi. “Che cazzo ti è successo?”

Rimane in silenzio per un po’. Mi passo le dita tra i capelli e inizio a camminare avanti e indietro.

“Che cosa... sul serio, che diavolo...?” 

“Ne parliamo più tardi,” dice Levi in ​​tono acuto. Mi fermo e lo guardo. “Va bene, Eren? Spiegherò tutto più tardi. Ma ora andiamo, va bene?”

Deglutisco forte.

“Prometti?”

Sembra sorpreso. Ma alla fine annuisce.

“Promesso,” dice. “Adesso andiamo.”

Mi passa accanto per andarsene. Rimango fermo sulla soglia del bagno, le braccia ancora avvolte attorno allo stomaco. All’improvviso fa davvero freddo. Il corpo è metà intorpidito e metà troppo sensibile. Sbatto le palpebre alcune volte per eliminare la sensazione di calore che si accumula dietro le palpebre.

Guardo incerto lo specchio. I miei occhi sono cerchiati di rosso e lacrime, ma almeno non ho iniziato a piangere. La mia mente torna immediatamente all’immagine dello stomaco di Levi.

“Merda, amico,” mormoro, e la mia voce suona in modo odioso nella stanza silenziosa.

Rabbrividendo, giro i talloni e lascio lo spogliatoio.
 
 
***

15:13, la mia camera da letto.

Sono seduto sul mio letto mentre Levi sta in piedi, le braccia incrociate saldamente sul petto. Non riesco a guardarlo in faccia. Non so cosa farò se lo faccio. Piangerei, probabilmente, che è l'ultima cosa che voglio.

“Fammi vedere,” sussurro.

Le mani di Levi cadono ai suoi fianchi, per poi sollevare l’orlo della maglietta. Quando la toglie completamente, continua a stringerla tra le mani. Osservo il suo addome. È piuttosto scolpito e immagino sia dovuto ai duri allentamenti di football, ma al momento non potrebbe fregamene di meno.

La mia unica attenzione è sui lividi sul suo stomaco. Sono per lo più concentrati verso la parte centrale, carnosa, il che è quasi un sollievo. Non ci sono lividi sulle costole, quindi almeno non sono rotte. 

Allungo esitante la mano verso di lui. Mi guarda impassibile prima di avvicinarsi a me.

È nauseante.

I miei occhi pizzicano di nuovo. Non riesco a respirare. Sono grato che non ci sia nessuno tranne noi. Non so come lo spiegherei ai miei genitori, figuriamoci Jean.

“Girati,” ordino. Tiro via la mano quando si gira lentamente.

I lividi sulla schiena sono dello stesso rosso scuro di quelli sullo stomaco. Immagino sia stato spinto contro qualcosa, ma ho troppa paura di chiedere. Non voglio che confermi nessuno dei miei pensieri, soprattutto perché mi stanno venendo in mente fin troppi scenari. 

Premo leggermente contro uno dei lividi. Sibila di dolore e mi scuso immediatamente.

“Quando... quando è successo?”

Si gira di nuovo.

“Durante il fine settimana,” borbotta. Abbassa lo sguardo sulla maglia ancora tra le sue mani. “La notte che ti ho chiamato, in realtà.”

“Santo cielo,” mormoro, passandomi la mano tra i capelli. “E non hai pensato di dire qualcosa?”

“Di solito non lo faccio,” dice. Sento il corpo irrigidirsi.

“Merda,” mormoro, fissandolo scioccato. “Non è la prima volta che succede?”

Levi mi guarda in silenzio prima di annuire. Sto per vomitare. Mi chino e afferro i capelli tra le mani.

“Oh mio Dio,” sussurro, sentendomi incredibilmente stremato, e il letto sprofonda accanto a me.

“Rilassati,” mormora Levi, spingendomi le spalle all’indietro.

“Come ti aspetti che mi rilassi?” Giro la testa per guardarlo.

Non risponde immediatamente. Continua a spingere finché non mi arrendo e mi lascio appoggiare sul letto. Si distende su un fianco e mi guarda. È ancora a petto nudo e mi ritrovo a fissare nuovamente il suo stomaco.

“Da dove vuoi che inizi?” Chiede piano. Mi giro dalla sua parte e lo guardo.

“Dall’inizio,” sussurro, la mia voce si spezza e Levi sospira piano.

“Certo,” dice, e mi tira per la manica fino a quando il mio corpo non viene incollato al suo. Non mi rendo conto di stare tremando fino a quando non fa scorrere ripetutamente la mano su e giù lungo il mio braccio.

Il calore dietro le palpebre si dissipa e sento le lacrime scivolare sulle guance. Mi mordo forte la lingua. Un sapore metallico mi inonda la bocca. Faccio un respiro profondo e cerco di costringermi a calmarmi. Non posso, però, e Levi mi avvolge con un braccio.

“Per favore, calmati,” prega, la sua voce disperata, e io scuoto la testa.

“Non posso,” sussurro, sul punto di piangere a dirotto, e qualcosa mi sfiora la fronte.

Mi ci vuole un po’ di tempo per capire che sono le sue labbra. Continua a premere piccoli baci contro le mie guance e la punta del mio naso, prima di tornare alla mia fronte.

È patetico sia lui a confortarmi. Non dovrebbe essere il contrario? Non dovrei provare ad aiutarlo io?

“Stai bene?”

Mi accartoccio le gambe verso lo stomaco e non rispondo. Mi costringo ad annuire e lui si allontana da me. Mi ritrovo a piangere per la perdita di calore corporeo, ma non riesco a vedere la sua faccia quando siamo così vicini.

“Sto bene,” mormoro e incontro i suoi occhi.

Lui annuisce, ma tiene la mano sulla schiena. Mi fa venire i brividi.

“Quest’estate è stata l’inizio della fine,” inizia a voce bassa e devo quasi sforzarmi di sentirlo. “Beh, è andato tutto a puttane. Sono stato mandato a vivere da mio zio. Mi ha odiato non appena ho varcato la soglia di casa sua.”

Mi mordo il labbro inferiore.

“È lui che ...?” Inizio, incapace di finire, e annuisce una volta sola.

“È spesso ubriaco,” dice espirando pesantemente, e sento le sue dita piegarsi in un pugno intorno alla mia maglia. Allungo la mano e stringo la sua, intrecciando le dita abbastanza strette da far male. È scomodo avere il braccio attorcigliato in quel modo, ma dà a entrambi qualcosa a cui aggrapparci. “È il classico ubriaco violento e arrabbiato. Non c’è molto altro da dire a parte questo.”

“Quanto spesso lo fa?” Chiedo, anche se non voglio davvero conoscere la risposta.

“Abbastanza spesso da doverlo sempre nascondere,” dice Levi in ​​modo uniforme. Rimango in silenzio e la sua espressione si ammorbidisce. “Hai paura.”

“Per te,” dico lentamente e lui solca le sopracciglia.

“So badare a me stesso.”

“Non si tratta di questo,” mormoro, guardando il suo stomaco. “Tu stai sopportando questa oscenità.”

Levi si acciglia.

“Non posso fare nulla, Eren,” dice con fermezza. “È tutto quello che ho.”

“No, non lo è,” sussurro. “Hai così tante persone che ti supportano, che si prendono cura di te! Non devi sopportarlo. Tu... puoi dirlo a qualcuno.”

“L’ho detto a te, no?”

“Sai cosa intendo,” dico, stringendogli più forte la sua mano. “Solo... mi dispiace così tanto.”

“Non sei tu quello che mi ha picchiato,” cerca di scherzare, ma io non rido. Sospira piano. “Cosa stai pensando?”

“Sto pensando che avrei dovuto notarlo prima.”

“Non era possibile. Non è che ne fossi ovvio al riguardo.”

“Lo so. Ma…”

“Ehi,” dice piano, ma io non lo guardo.

“Ecco perché ti sei agitato quella volta, vero?” Mormoro. “Quando hai visto i miei lividi quel giorno. Pensavi che qualcuno mi avesse fatto la stessa cosa.”

Lui annuisce e mi stringe le dita alcune volte.

“Ero così preoccupato,” ammette, facendo scorrere il pollice sulle mie nocche. “Volevo... volevo proteggerti da chiunque ti avesse fatto una cosa del genere. Mi hai spaventato a morte.”

Deglutisco e mi siedo, fissandolo. Non mi lascia andare la mano e non voglio che lo faccia. È l’unica cosa che mi tiene insieme.

“Non voglio ti faccia del male,” sussurro. Levi rotola sulla schiena con una smorfia.

“Aspetto di compiere diciotto anni,” inizia. “Appena succede, me ne vado da lì.”

“E adesso?” chiedo. “Cosa farai adesso?”

“Stringo i denti e vado avanti,” dice Levi, usando la mano libera per passarsi le dita tra i capelli. Si nasconde dietro la testa e mi guarda. “È tutto ciò che posso fare.”

Le mie spalle si abbassano. Mi avvicina e appoggio la fronte contro il suo petto, assicurandomi di non premere su nessuno dei lividi. Mi lascia la mano per passarla sulla mia schiena in modo rassicurante e ne approfitto per respirare il suo profumo.

“Starai bene,” dico contro la sua pelle. Le mie labbra iniziano a tremare e le premo contro il suo petto. Rido amaramente e scuoto la testa. “Dio, dovrei essere io quello a confortarti. Non il contrario.”

“Non mi dispiace,” dice timidamente. “Mi stai distraendo.”

“In senso buono?” Domando, sollevando la testa; annuisce.

“In senso buono,” dice.

Ci fissiamo, senza dire nulla. Mi siedo lentamente e lui mi segue. Si sporge in avanti verso di me e trattengo il respiro, tenendo gli occhi aperti mentre si avvicina. Preme le nostre fronti insieme. Un respiro tremante mi esce dalla bocca e allungo la mano per accarezzargli i capelli. Lui avvolge le braccia al mio busto e stringe.

“Avevi ragione, sai?” Dice piano. Mi mordo l’interno della guancia.

“Riguardo a cosa?”

“Noi abbiamo bisogno l’uno dell’altro,” spiega. “Io... ho davvero bisogno di te, Eren.”

“Sono qui,” lo rassicuro, la mia voce assume un tono disperato e affonda le dita nella schiena come se stesse cercando di sciogliermi. “Sarò sempre qui.”

“Lo so,” sussurra con voce così spezzata che mi si blocca il respiro in gola.

Non riesco a pensare a una risposta. I miei occhi si chiudono e muovo le mani in modo da afferrargli il viso. Segue il movimento della mia mano e gli permetto di premermi contro il letto. Si mette sopra di me, con le mani a ogni lato della mia testa. Lo guardo, aspettando che dica qualcosa.

“Grazie,” dice infine, e tutto il mio corpo si irrigidisce.

Posso solo annuire in risposta.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 20

Levi

Eren non mi guarda negli occhi da almeno un’ora.

Mi mordo l’interno della guancia e gioco con un filo dei miei jeans strappati. Indosso di nuovo la maglia, per fortuna. Non credevo di poter sopportare gli occhi di Eren sui miei lividi ancora per molto. Ha uno sguardo spento che non sono riuscito a decifrare all’inizio, ma ora so di cosa si tratta.

Rabbia.

L’ho visto arrabbiato prima d’ora, certo, ma mai così tanto. È terrificante e mi trovo a sperare che non dovrò mai più vedere qualcosa di simile.

“Ehi,” lo chiamo con voce un po’ rauca dal disuso; finalmente mi guarda. Resisto all’impulso di sospirare di sollievo e forzo un sorriso. “Devo tornare a casa.”

Eren si acciglia. “Ti farà di nuovo del male.”

Scuoto la testa.

“Nah. Sono a posto per la settimana.”

Eren mi lancia un’occhiataccia e il mio sorriso sparisce immediatamente. Mi passo le dita tra i capelli e sospiro. 

“Dimenticati tutto, Eren.”

“Mi stai prendendo in giro?” Chiede sollevando un sopracciglio e improvvisamente mi sento stupido. “Vuoi che dimentichi tutto. Va bene. Sicuro. Lasciami dimenticare che... che...” si allontana e si appoggia al muro. “Porca di quella miseria, Levi.”

“Starò bene.”

“Non è vero, e lo sai,” controbatte. Rido leggermente.

“Non puoi saperlo.”

“Ti sei guardato allo specchio ultimamente, Levi?”

Deglutisco e scrollo le spalle, cercando di apparire disinvolto, ma la verità è che sono tutt’altro che rilassato al momento. Mi sento teso, come un elastico che sta per rompersi e non sono sicuro di come liberarmi dal prurito che mi striscia sotto la pelle.

“E se non si fermasse?” Continua Eren, parlando con quel tono morbido, e mi chiedo dove sia andata tutta la sua solita irriverenza. “E se non si limitasse a picchiarti?”

Non so come rispondere. Stringo le labbra e spalle. Eren ride amaramente.

“Non ci hai mai pensato, vero?”

Probabilmente doveva essere una domanda, ma sembra conosca già la risposta.

“No, non l’ho fatto,” dico dopo alcuni attimi di silenzio. So che mi sta rimproverando, ma decido di non dire nulla. In fondo, non sta dicendo nulla di sbagliato. Avrei dovuto pensarci. Dovrei cominciare a preoccuparmi che le cose potrebbero degenerare in qualcosa che non lascerà solo un livido.

Ma non l’ho fatto. Non ci penso molto, tranne quando succede. Non penso al suo pugno fino a quando non mi tira un pugno. Non penso all’odore del whisky finché non mi urla in faccia. Non penso di essere debole finché non mi dice che lo sono. Non penso di essere morto finché non mi farà desiderare di esserlo.

“Perché-”

“Qual è il punto, Eren?” Chiedo stancamente. Tace, gli occhi socchiusi, ma mi lascia parlare. Ne sono grato. “Perché dovrei? Cosa diavolo farò se dovesse esagerare? Hai visto i fottuti lividi. Sono sicuro che puoi capire cosa faccio quando mi colpisce.”

Eren guarda il letto. Rilascio un respiro traballante. Riesco a sentire il battito del mio cuore martellarmi nelle orecchie. Provo a soffocare il suono e sbatto la testa contro il muro. Stringo la mascella e mi aggrappo al tessuto dei miei jeans abbastanza forte da far diventare bianche le nocche.

“Vuoi sapere perché non reagisco, vero?” Chiedo lentamente. “Vuoi sapere perché resto fermo e mi faccio colpire, giusto?”

“No, Levi,” dice Eren. Non sembra pronto per sentire la risposta, ma non mi interessa.

Voglio che lo sappia. Voglio che sappia perché. Ma non perché possa capirmi meglio. È perché sono stufo di pensare senza avere la possibilità di dire cosa mi passa per la testa. Voglio che qualcuno lo sappia.

“È mio zio,” dico. “Non solo. Il fratello di mia madre. L’ultima fottuta cosa che ho di lei è qualcuno che mi odia nel profondo.”

“Santo cielo,” sospira Eren e io rido in modo condiscendente.

“Lo so. Un pensiero stupido, no? Qualcuno lassù vuole rovinare tutta la mia vita.” Deglutisco e scuoto la testa. “Ho rovinato la vita di mia madre. Aveva dei sogni. Voleva fare molte cose. Ma poi sono arrivato io e ha dovuto mettere da parte tutto quanto per uno stupido moccioso non voluto.”

“È quello che fanno i genitori,” dice Eren, con voce dura e io sbuffo. “Dedicano tutto ai figli. Non le hai rovinato la vita, cavolo, stava solo…”

“Mio padre non l’ha fatto. Non ha messo tutto da parte per me. È salito sul primo aereo disponibile per tornare a casa non appena ha saputo che da lì a nove mesi qualcuno lo avrebbe chiamato papà.”

“Levi-”

“Ecco perché,” dico rauco. “Ecco perché non dirò nulla. È tutto ciò che mi rimane, Eren. È così sbagliato voler restare? È così sbagliato per me voler aggrapparmi all’ultima parte di mia madre?”
 
“Meriti di meglio,” dice Eren, fissando intensamente qualcosa sul letto e trovo che devo distogliere lo sguardo dall’espressione intensa sul suo viso.
 
“Tu dici?” Mormoro. “Non sono molto diverso da lui. Ricordi cosa ti ho fatto quel giorno nello spogliatoio? Non stavi dicendo niente che non fosse vero. Ma mi ha fatto incazzare il fatto che avessi ragione. Mi ha fatto incazzare il fatto che potessi darmi del codardo nonostante tutti i miei sforzi per nasconderlo. Ecco perché mi sono scagliato su di te. Mi sono spaventato. Ma non mi hai mai fatto niente. Non te lo sei mai meritato. È stato più facile ferirti che ascoltarti.”
 
“Tu non sei lui, Levi,” risponde Eren. C’è un certo tono nella sua voce che non riesco proprio a capire. “Non sei per niente come lui. Lo sai, vero?”
 
“Forse,” dico. Mi sento esausto all’improvviso. “Nelle nostre vene scorre lo stesso sangue.”
 
“Questo non significa nulla,” sussurra Eren. “A volte non siamo le persone che pensiamo di essere. A volte siamo così diversi da far paura perfino a noi stessi, ma non c’è niente di sbagliato in questo. Non devi sempre adattarti a qualcosa.”
 
Sospiro. Eren ha la capacità di trasformare i miei pensieri in un pasticcio confuso in poche frasi o meno, e mi trovo a lottare per pensare a una risposta. Lo guardo per vedere che tipo di espressione ha sulla sua faccia. Mi guarda senza batter ciglio.
 
“Ti sei mai ascoltato?” Chiedo. “Hai mai seguito il tuo stesso consiglio?”
 
“Dovrei?” Domanda sorridendo; scrollo le spalle.
 
“Non lo so, dovresti?”
 
“No,” dice Eren. Lui scuote la testa. “Non ho bisogno di aiuto.”
 
Lo guardo attentamente. Supponendo che in realtà non sia tutto ammaccato come me, sta bene fisicamente. Ma c’è sempre stata un’aria strana intorno a Eren. È sempre puzza di dolore, qualcosa che ho imparato prima di parlare con lui, ma a scuola non gliene frega niente a nessuno. Non vedono dolore in qualcuno, perché non guardano nessuno in faccia. Vedono solo uno stronzo che cerca di rendere tutti gli altri infelici. Vedono una bella scopata quando sono ubriachi e disposti a divertirsi con chiunque abbia un bel viso. Vedono un ragazzo che non gliene frega niente della scuola perché sta cercando di essere figo, ma la verità è che la vita è stata molto più dura con lui rispetto ad altri.
 
O forse sto sottovalutando le capacità di osservazione dei miei compagni. Forse sanno che sta soffrendo. Forse è così ovvio che dovremmo essere tutti pazzi per ignorarlo. So che qualcun altro oltre a me può vederlo. Per forza. Ma questo non significa che a loro importa, giusto? Le persone guardano dall’altra parte quando vedono cose che non gli piacciono. È più facile, no? È più facile fingere che affrontare la verità.
 
Dovrei saperlo. Lo sto facendo da chissà quanto tempo.
 
“Giusto,” dico invece.
 
Non do voce ai miei pensieri perché non sono Eren. Non sono disposto a essere onesto, a dire cosa intendo senza preoccuparmi delle conseguenze. E forse lo invidio per questo. Non ha trascorso mesi a cercare di capire quali parole gli avrebbero impedito di essere picchiato. Non ha trascorso mesi a interiorizzare tutta questa merda perché ha paura di sconvolgere il precario senso di equilibrio che è finalmente riuscito a raggiungere.
 
Eren è la persona più vicina alla libertà che conosca e lo odio più di qualunque cosa abbia odiato prima. Odio la mia paura. Odio il fatto di non sapere come ottenere la mia libertà. Comprendere un pensiero e trasformarlo in vere e proprie parole, per me è difficile. Lui ha fatto molti più progressi di me; è su un altro livello. Un livello che non potrò mai raggiungere.
 
E diavolo, forse non dovrei.
 
Forse sono destinato a rimanere bloccato mentre lui va avanti. E Dio, perché diavolo dovrebbe stare con me? Potrebbe essere amico di chiunque desideri, stare con chiunque desideri, eppure... eccoci qui.
 
Eccomi, a vedere un Eren che nessuno a scuola avrà mai il piacere di osservare. Eccomi, a imparare cose su di lui che nessun altro saprà mai. Eccomi, a vagare ancora per comprendere la sua mente e imparare sempre qualcosa di nuovo. C’è un mare infinito di Eren: ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà e ciò che devo ancora vedere. È terrificante come sia diventato una parte di me, ha piantato radici così in profondità da non poterle estirpare. E cavolo, non voglio. Voglio essere egoista, farlo mio, ma… è impossibile.
 
È troppo per me.
 
Ecco perché sto pensando a tutto questo ora, no? Perché so che Eren è troppo dannatamente perfetto per essere mio. Sa di essere sexy, di essere attraente e cavolo, sono d’accordo. Ma ho finto di non saperlo. Perché si merita qualcuno migliore di me. Forse sono ridicolo o ci sto pensando troppo, ma quando mi aveva avvertito di non affezionarmi troppo a lui, mi ero già invaghito. Non è amore, probabilmente non ci vado nemmeno vicino, ma è qualcosa che mi avvolge il cuore, lo afferra fino a quando non fa male fisicamente, e io... cazzo, lo voglio.
 
Ma perché mi dovrebbe volermi lui? Io piaccio a molte persone a scuola, ma non mi conoscono. Mi vedono come il capitano della squadra di football. Questo è tutto ciò che sono per loro. Questo è tutto ciò che sarò mai per loro. E, onestamente, sono qualcos’altro oltre a quello? Quali altri talenti possiedo? A che serve essere il capitano di una squadra, se è tutto quello che sarai? Cosa diventi quando la squadra non è nei paraggi?
 
“Levi?”
 
Guardo Eren.
 
“Eren.”
 
Solca le sopracciglia prima di rilassarsi, la sua espressione si ammorbidisce e mi chiedo quanto devo essere patetico in questo momento.
 
“Resta.”
 
Questa è la terza volta che me lo dice, giusto? Questa è la terza volta che mi ha chiesto di restare. Perché vuole che io rimanga? Non è stufo di me? Non è stanco di sforzarsi così tanto di abbattere i miei muri? Qualcuno si è stufato in passato. Al primo anno di liceo, intendo.
 
Una ragazza di nome Hannah aveva una cotta per me. Non ero interessato e dopo un po’ non lo fu più nemmeno lei. Reiner ha detto che non voleva impegnarsi. Voleva una facile relazione liceale e sapeva di non poterla ottenere da me. Chissà con chi è uscita al posto mio, ma mi sorride ancora quando ci incrociamo per i corridoi. Ho sempre pensato fosse un po’ triste, come se le facessi pena o qualcosa del genere, o forse me lo sto inventando.
 
Non so perché Eren continui a provare. Non so perché non si arrende come ha fatto Hannah. Può avere chiunque voglia. I ragazzi a scuola possono dire ciò che vogliono sulla sua presunta personalità, ma non si può negare che Eren sia attraente. Tutti possono vederlo e ce ne sono così tanti che lo apprezzano.
 
“Perché?” Mi ritrovo a chiedere prima di pensarci. Eren non sembra sorpreso. In effetti, sembra che io abbia detto esattamente quello che si aspettava da me.
 
“Non voglio che…” comincia. La sua voce ha di nuovo quella qualità soffice e traspirante, e mi chiedo se ora è un buon momento per dirgli quanto mi faccia schifo. “Non voglio tu vada a casa.”
 
“Che mi dici dei tuoi genitori? E tuo fratello?”
 
“Cognato,” corregge e scuote la testa. “A loro non importa. Dirò che i tuoi genitori sono via e tu non hai la chiave. O che sono in viaggio d’affari.”
 
Deglutisco. Se non stessi cercando di non cadere a pezzi, forse avrei riso.
 
“Quale studente delle superiori non ha una chiave?”
 
“Non si sa mai,” risponde vagamente Eren. Si morde il labbro inferiore. “Voglio dire... a meno che tu non voglia tornare indietro.”
 
Penso a Kenny, buttato giù dalla poltrona con una bottiglia di Jack cullata sotto il braccio e provo a reprimere il brivido che si fa strada costantemente lungo la mia schiena.
 
“Non voglio,” ammetto con calma. Eren annuisce.
 
“Allora resta. Ti prego, Levi. Io…” Lo guardo mentre cerca di accumulare abbastanza coraggio per finire la frase, il sangue mi scorre veloce nelle vene. “Voglio che tu rimanga qui con me.”
 
Sospiro. Mi guarda speranzoso e tutto ciò che posso concentrarmi sono sui suoi occhi.
 
Verde.
 
Sono verdi e l’ho sempre saputo, ma non ci avevo mai prestato attenzione prima. Non sto prestando molta attenzione nemmeno a loro, ma non mi sono mai reso conto di quanto velocemente sono in grado di calmarmi solo guardandoli.
 
“Va bene, rimango,” mormoro, la mia voce si spezza mentre parlo ed Eren annuisce.

Si solleva da letto e, mentre lo fa, la sua maglietta di alza leggermente. Cerco di focalizzare l’attenzione su qualcos’altro.
 
“Puoi dormire sul letto,” dice, camminando verso l’armadio. Tira fuori una specie di materassino e lo lancia a terra. “Io dormo sul pavimento. Mi basta un cuscino.”
 
Lo fisso. Eren alza un sopracciglio.
 
“O no-”
 
“Condividiamo il letto,” sbotto prima di potermi fermare. La mascella di Eren si abbassa leggermente e quando vedo la sua espressione scioccata, sento che le mie orecchie iniziano lentamente a bruciare.
 
“Anche questa è… un’opzione,” dice Eren, massaggiandosi la nuca. “Voglio dire... Va bene. Sì.”
 
Annuisco rigidamente. Si gira di nuovo verso l’armadio e mi lancia un paio di felpe e una maglia.
 
“Puoi metterteli. Stasera laverò i tuoi vestiti. Puoi indossarli domani e ti darò una felpa con cappuccio o qualcosa per coprire la maglia. Così non sembra che tu abbia indossato la stessa cosa due volte, okay?”
 
“Va bene. Uh... grazie.”
 
“Di nulla,” dice Eren, e mi dedica il primo vero sorriso che gli ho mai visto fare.
 
Qualcosa dentro di me sembra esplodere, ma provo a non pensarci mentre mi alzo dal letto e prendo i vestiti.
 
“Il bagno è la prima porta a sinistra se preferisci cambiarti lì,” mi informa Eren, che ha già cominciato a togliersi i jeans e sento la gola seccarsi. Mi dà le spalle, e per questo gliene sono grato.
 
Non so come potrebbe reagire se dovesse scoprirmi a osservarlo. Probabilmente farebbe una battuta su come mi fa perdere il controllo. Alla fine si toglie i jeans e lo guardo calciarli in un angolo della sua stanza. I miei occhi sono incollati alle sue cosce, alla ricerca di qualsiasi tipo di segno scuro, ma non vedo nulla. La sua pelle bronzea è impeccabile, senza macchia alcuna, e mi ritrovo a emettere un forte sospiro.
 
Eren si volta, e stringo i vestiti che mi ha dato. Si guarda in basso prima di guardarmi di nuovo.
 
“Sono guariti.” Annuisco.
 
“Bene,” dico, sorridendo. “Avrei dovuto prenderlo a calci in culo se li avessi visti di nuovo.”

Mi aspetto una sua risata, che alzi gli occhi al cielo o qualcosa del genere, ma non succede nulla. Mi guarda, la testa inclinata di lato, e so che mi sta studiando attentamente.
 
“Cosa c’è?” Chiedo, imbarazzato; scrolla le spalle.
 
“Niente. Vattene da qui, spione.”
 
Ah, eccolo. Il buon vecchio Eren Jaeger appare finalmente. Alzo gli occhi al cielo e cammino verso la porta.
 
“Per favore. Non c’è niente che valga la pena guardare.”
 
“Scusa se non siamo tutti muscolosi,” dice dolcemente e ho l’improvviso bisogno di lanciargli qualcosa.
 
“Mi stai facendo mettere in discussione la nostra amicizia. Ancora.”
 
“Come sei scortese,” dice e in un’esibizione di pura immaturità, gli faccio la linguaccia. Tutto quello che riesco a sentire mentre chiudo la porta alle mie spalle è la sua risata.
 
Non ho mai sentito un suono migliore in vita mia.
 
 
***

“Levi? Levi, svegliati.”
 
Apro gli occhi. La prima cosa che vedo è il soffitto. Mi ci vogliono alcuni secondi per capire dove sono. Penso agli eventi precedenti della giornata e gemo piano. Guardo Eren, che è appoggiato sul gomito accanto a me. La lampada è accesa e diffonde un bagliore morbido e caldo.
 
“Che succede?” Chiedo con voce rauca e si morde il labbro inferiore.
 
“Stai bene?”
 
“Perché non dovrei?” Mormoro, allontanando i capelli dalla fronte. Eren si acciglia.
 
“Ti stavi agitando nel sonno,” spiega. “Pensavo stessi avendo un incubo.”
 
Un incubo, eh?
 
Non ne ho più avuti da quando è morta mia madre, ma immagino sia un buon momento come qualunque altro per averne uno. Mi strofino gli occhi e tengo le dita premute sulle palpebre per alcuni secondi. La pressione mi distoglie dai battiti del mio cuore. Mi sento un po’ umido e mi rendo conto di essere madido di sudore.
 
“Fai spesso incubi?” Domanda. Scuoto la testa.
 
“Non ne ho da un bel po’ di tempo, in realtà,” rispondo.
 
“Vuoi che ti porti dell’acqua?”
 
“No,” dico, scuotendo la testa. Ho un po’ di sete, ma non voglio disturbare Eren. Sta già perdendo ore sonno a causa mia.
 
“Sei sicuro?”
 
“Sto bene, Eren,” sottolineo. Annuisce lentamente e si allunga per spegnere la lampada. La stanza è di nuovo immersa nell’oscurità.
 
Appoggio le braccia dietro la testa e fisso il soffitto. Non riesco a vedere nulla, ovviamente, ma non voglio continuare a guardare Eren. Sarebbe inquietante, anche se l’oscurità lo nascondesse.
 
“Ehi,” mi chiama, e mi domando se lui è una di quelle persone che non riescono a dormire dopo essersi svegliate. Probabilmente è così, considerando come sembri completamente sveglio. 
 
“Mhm?”
 
“Sei ancora sveglio?”
 
“Sfortunatamente.”
 
“Merda, scusa. Sto zitto.”
 
“Che c’è, Eren?”
 
“Grazie,” dice. “Per essere rimasto, intendo. Sono contento che tu sia qui.”
 
Penso al suo calore accanto a me. Penso ai suoi respiri morbidi, al modo in cui le nostre spalle si toccano perché il materasso è troppo piccolo per consentire qualsiasi tipo di spazio personale. Penso al modo in cui ci siamo abbracciati l’un l’altro quando gli ho parlato di Kenny, al modo in cui ha pianto e mi ha permesso di consolarlo. 
 
“Anche io sono contento,” ammetto. Non è la cosa più sconvolgente che ho detto stanotte, ma riesco a sentire il respiro di Eren bloccarsi. “Sono contento che tu abbia voluto che rimanessi.”
 
“Chi altri vorrei qui?” Domanda retoricamente.
 
Non rispondo e mi giro dalla sua parte per guardarlo. Deve avermi sentito girarmi, perché fa lo stesso. Stiamo respirando la stessa aria adesso, essendo abbastanza vicini da poter sentire ogni suo respiro, e mi chiedo se possa sentire anche il battito frenetico del mio cuore. 
 
Non sono sicuro di chi di noi si muova per primo, ma all’improvviso ci stiamo baciando. Non so come abbiamo fatto a non mancarci, ma non ci rifletto troppo e chiudo gli occhi, avvolgendo le sue labbra con le mie. Lui ansima contro la mia bocca quando gli afferro la maglia per avvicinarlo. Lui porta la mano tra i miei capelli tirandoli un po’, per poi allontanarsi per respirare.
 
“Ti ho mai detto che ho un debole per i biondi?” Chiede. “Beh, no, in realtà, ma le cose sono cambiate.”
 
“No,” rispondo e mi avvicino per baciarlo di nuovo a stampo. “Ma grazie per l’informazione.” 
 
Ci siamo calmati ora, i nostri tocchi sono meno disperati, meno affrettati. Gli accarezzo lentamente il braccio, notando la pelle d’oca dove lo tocco. Abbiamo abbandonato i baci a favore di tenere i nostri volti vicini, abbastanza vicini che giuro di poterlo sentire sbattere le palpebre.
 
“Sai,” comincia. “Non immaginavo così il mio primo bacio.”
 
“Primo bacio?” Ripeto.
 
“Non ho mai baciato nessuno,” dice, e mi chiedo che tipo di espressione stia facendo in questo momento. “I baci sono... molto intimi. Non esattamente il tipo di emozioni che voglio dare a qualcuno che scopo per divertimento.”
 
Deglutisco. Non mi dà fastidio che Eren abbia fatto sesso con delle persone. Non nel senso che ne sono disgustato. Può fare tutto ciò che vuole con il suo corpo. È suo. Non ho il diritto, così come nessun altro, di giudicarlo.
 
Ma sono solo... sorpreso. Non pensavo facesse una distinzione del genere, ma immagino sia perché non gliel’ho mai chiesto. Non mi piaceva quando parlava di sesso. Non che sia inesperto, ma… non l’ho mai pensata in questo modo. Qualcosa di cui poter parlare liberamente, intendo. L’unica volta che ho fatto sesso era con una cheerleader di un’altra scuola e il pensiero di fare qualcosa di così intimo con qualcuno di cui non mi fregava nulla, mi faceva venire il mal di stomaco. Per fortuna lei ha capito, ma è una decisione di cui mi pento ancora oggi.
 
“Wow,” dico, cercando di elaborare ciò che mi ha detto, e lui ride.
 
“Scommetto davi per scontato che avessi già baciato qualcuno, ormai.”
 
“Forse,” rispondo, e quando si irrigidisce nella mia presa, faccio scivolare la mia mano sulla sua vita e lo stringo. “Ehi, non ti sto giudicando.”
 
“La gente lo faceva il primo anno di superiori,” spiega lentamente. “Non l’ho mai detto a nessuno. Historia era la mia migliore amica e non l’ha mai saputo…”
 
“Non ha mai saputo cosa?” Chiedo, anche se ho paura della risposta.
 
“Che ero facile. Mi divertivo un sacco con le persone e all’improvviso non ero niente più che facile. Poi più persone hanno iniziato a fare festa e cose simili, ed ero diventato proprio come tutti gli altri. Solo un altro ragazzino arrapato e ubriaco. A nessuno importava se mi volevano. Solo quando non li volevo io, hanno cominciato a insultarmi.”
 
“Che si fottano,” dico all’istante. “A chi importa cosa pensano? Sono solo degli stronzi.”
 
“Lo so,” dice Eren, intrecciando le gambe alle mie. “Non so perché te l’ho detto.”
 
“Sono contento che tu l’abbia fatto. Probabilmente avevi bisogno di togliertelo dal petto.”
 
“Forse,” sussurra Eren. Non dice nulla per un po’ e mi chiedo se si stia addormentando. Si schiarisce la voce e si sposta leggermente. “È una strategia di difesa. Mi distrae. Non sono disperato o qualcosa del genere. È che… non voglio sentire niente. Voglio scappare da tutto.”
 
“Va tutto bene, Eren,” dico, e intendo le parole più di ogni altra cosa. “Non userò quest’informazione contro di te.”
 
“Non va bene,” insiste. “È tutto vuoto. Non significa niente. Ma continuo a provare. Come se improvvisamente le cose cambieranno e starò bene. Ma non succederà. Rimango bloccato nei miei stessi sentimenti, e sono stanco di tutto questo.”
 
“Tuttavia, puoi provare,” dico. “Puoi provare qualcosa per renderti felice. E se non funziona, puoi continuare a provare finché non trovi qualcosa che funzioni. Meriti di essere felice.”
 
Rimane in silenzio. Mi sento stranamente a mio agio, più di quanto non sia mai stato, e mi chiedo quanto di quella sensazione sia legata a Eren.
 
“Tu sei diverso dagli altri, lo sai, vero?” Chiede divertito e io scrollo le spalle.
 
“Ci provo.”
 
“Grazie comunque. Per averlo detto, intendo.”
 
“Lo penso davvero,” dico fermamente. “Ogni parola. Ci credo davvero in tutto questo, Eren.”
 
Tace di nuovo. E poi, prima di poter aggiungere qualcos’altro, mi bacia dolcemente. È più un bacio a stampo che altro, ma mi fa battere il cuore più veloce di prima.
 
“Buonanotte, Levi.”
 
Mi mordo il labbro per impedirmi di sorridere, grato che la stanza sia attualmente avvolta nell’oscurità.
 
“Buonanotte, Eren.”

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 21

Eren

La mia stanza è completamente buia quando apro gli occhi. Rotolo su un fianco e guardo l’orologio.

05:28.

Grande. Due miserabili minuti al suono della sveglia.

Metto un braccio sotto la testa e mi giro su un fianco. Levi sta ancora dormendo. Il suo viso è disteso, libero da ogni preoccupazione. Deglutisco mentre mi vengono in mente i ricordi della scorsa notte. È difficile rendersi pienamente conto che tutto è realmente accaduto. Non era stato frutto della mia immaginazione, anche se sembra.

La sveglia suona e impreco. Spengo la sveglia alla cieca premendo il pulsante. Sento Levi spostarsi accanto a me. Mi giro per guardarlo.

“Buongiorno,” sussurro, non volendo frantumare il confortante silenzio attorno a noi. Si lamenta e sprofonda il viso contro il cuscino.

“Buongiorno,” mormora. “Che ore sono?”

“Cinque e mezza,” rispondo. “A che ora ti alzi di solito?”

“Alle sei,” risponde. Si siede e si passa le dita tra i capelli. “Va bene, però.”

“Okay,” dico con un cenno del capo. “A proposito, ti ho lavato i vestiti. La doccia è libera se vuoi usarla. Ci sono degli spazzolini nuovi sotto il lavandino. Io vado a preparare la colazione.”

Levi annuisce e si alza per afferrare i suoi vestiti e l’asciugamano pulito che gli ho preparato prima di andare in bagno. Preparo i vestiti di ricambio da indossare dopo la doccia e scendo le scale per andare in cucina. Una rapida scansione del frigorifero e della dispensa mi dice che dovrò andare sul semplice, quindi decido di fare un toast alla francese.

Sono nel bel mezzo di finire l’ultima fetta quando sento dei passi. Levi sorride quando gli passo uno dei piatti prima di tornare di sopra a farmi una doccia veloce. Quando mi vesto e i capelli sono abbastanza asciutti, mi unisco al lui per mangiare.

“Dovremmo marinare scuola.”

“Marinare?” Ripeto, sollevando un sopracciglio. “Sei serio?”

“Perché no?” Dice scrollando le spalle, “Abbiamo dormito a malapena. Non saremmo al massimo delle nostre potenzialità.”

“Che ragazzaccio,” dico con un sorrisetto. “Va bene. Bruciamo.”

“Non è stato difficile convincerti,” afferma lentamente. “Stavi forse pensando la stessa cosa?”

“Stai zitto,” dico all’istante, alzando gli occhi al cielo.

Levi sorride di nuovo e continua a mangiare. La vista mi fa sentire un po’ strano. Sembra davvero felice. L’ho già visto sorridere e ridere, ma c’è qualcosa di diverso questa volta. Non sono sicuro di cosa sia, ma è uno spettacolo che vorrei vedere più spesso.

Quando finiamo di mangiare, laviamo i piatti e indossiamo le giacche. Levi guarda il suo telefono per alcuni secondi e io dondolo avanti e indietro goffamente.

“Tuo zio?”

“Sì,” mormora, corrugando le sopracciglia. Scuote la testa e si infila il telefono in tasca. “Dimenticalo. Andiamo fuori.”

“Dove andiamo alle sei del mattino?”

“Uhm... da qualche parte?” Offre esitante. Si passa le dita tra i capelli ancora umidi. “Non ci ho pensato, in realtà.”

Vedo alcune gocce d’acqua rotolare lungo il lato del suo viso.

“Ti ammalerai.”

“Eh?”

Prendo uno dei canovacci puliti che mia madre tiene in uno dei cassetti della cucina e lo uso per asciugargli i capelli. I suoi occhi si spalancano, ma mi concentro sul movimento delle mie mani. Quando sono soddisfatto, piego lo straccio bagnato e sorrido.

“Che c’è, non ti sei mai asciugato i capelli prima d’ora?”

“Mi asciugo i capelli tutto il tempo.”

“Allora dovresti essere bravo a farlo, no?”

“Vaffanculo,” ribatte, ma ride mentre lo dice.

“Dai, andiamo prima che qualcuno si svegli.”

Probabilmente ha capito che intendo Jean, a giudicare dall’espressione consapevole sul suo volto. Usciamo dopo aver indossato le scarpe. L’aria amara di dicembre mi colpisce dritto in faccia. Mi pento di aver lasciato a casa la sciarpa, ma non voglio tornare indietro e prenderla. Ormai siamo fuori. 

“Ehi, Eren.”

“Sì?”

“Grazie. Per avermi permesso di restare, intendo. Avevi ragione. Non volevo tornare indietro.”

“Non devi ringraziarmi,” dico. “Io-”

“Volevo che restassi. Lo so. Ma lo stesso. Grazie.”

Alzo le spalle, sentendomi un po’ imbarazzato e tiro un calcio contro il marciapiede.

“Allora, uhm,” mi fermo, schiarendomi la gola, e lui mi guarda incuriosito. “La notte scorsa. Quello era... sì.”

“Sì,” concorda piano. “Mi dispiace. Probabilmente non avrei dovuto.”

Deglutisco. “Mi è piaciuto.”

Levi fa un respiro udibile. Lo guardo esitante prima di scrollare le spalle.

“Voglio dire, ho letteralmente una cotta per te dal primo anno.”

Levi sbuffa piano. “Pensavo stessi scherzando. Non avevi detto che ero cambiato o qualcosa del genere?”

“Potrei aver mentito.”

“Giusto,” dice Levi, annuendo lentamente. “Ma veramente? Dal primo anno?”

Alzo le spalle.

“Eri fuori dalla mia portata. Ma mi sono sempre piaciute le sfide.”

“Non sono mai stato fuori dalla tua portata,” insiste Levi. Rido, resistendo all’impulso di alzare gli occhi al cielo.

“Mi stai prendendo in giro? Sei Levi Ackerman. Capitano della squadra di football, popolare da morire, il sogno erotico di ogni persona che cammina? Nessuno può toccarti.”

“Stai blaterando cazzate, Eren,” dice Levi. Sollevo ancora le spalle.

“Come vuoi. Tutti ti hanno voluto almeno una volta nella vita.”

“Beh, e tu?” Dice, alzando le sopracciglia verso di me. “E se dicessi che sei fuori dalla mia portata?”

“Mi stai prendendo per il culo, vero?”

“Secondo te?”

Non rispondo. Non subito, almeno.

“Non dire stupidaggini,” borbotto. “Come potrei essere fuori dalla tua portata?”

“Sarò onesto. Non provavo niente per te fino a quando non siamo diventati amici. Sono sicuro che hai sentito quello che la gente dice di te. Sì, sono tutti coglioni. Ma non lo sono abbastanza da negare quanto tu sia fottutamente affascinante, Eren.”

Inspiro e cerco di fingere che le parole non abbiano alcun effetto su di me.

“Cosa ne pensi, allora?” Chiedo prima di potermi fermare. Levi scrolla le spalle e si gratta la nuca.

“Hanno ragione.”

Deglutisco l’improvviso nodo alla gola. Prima che io possa rispondere, Levi mi afferra il polso e inizia a correre. Inciampo prima di ritrovare l’equilibrio.

“Ehi, che diavolo...?”

“Fidati di me!” Grida, girando la testa per guardarmi. C'è un enorme sorriso sul suo viso che onestamente mi fa sentire debole alle ginocchia. Gli sorrido di nuovo e mi faccio trascinare.

Corriamo fino a quando gli edifici iniziano a fondersi tra alberi e cespugli. Mi ritrovo ad aggrottare le sopracciglia quando Levi finalmente rallenta il ritmo. Mi lascia il polso e mi infilo le mani in tasca.

“Dove stiamo andando?” Chiedo, ma non mi risponde.

Mi conduce a una recinzione ricoperta di edera. Tira qualche volta la serratura. È arrugginita al punto che quasi si sbriciola nelle sue mani. Spalanca il cancello e inizia a camminare. Indugio goffamente fino a quando non riesco più a sentire il rumore della ghiaia sotto i suoi piedi.  

Corro fino a quando non lo raggiungo di nuovo. Andiamo avanti fino a quando non troviamo un sentiero. Fisso la struttura di ferro sotto i miei piedi, poi assottiglio gli occhi e gli strattono il bordo della giacca per fermarlo.

“Binari del treno?” Domando, confuso.

Lui annuisce. “È fuori uso da circa vent’anni.”

Alzo le sopracciglia.

“Veramente? Perché?”

Lui scrolla le spalle. “Non lo so. Questo è solo quello che ho sentito.”

Levi ricomincia a camminare. Lo seguo alla cieca, i miei occhi sono ancora concentrati sui binari sotto i miei piedi. Si ferma davanti a uno dei vagoni di un treno abbandonato e apre la porta. Sferraglia rumorosamente contro l’altro lato prima di arrampicarsi. Levi offre la sua mano per aiutarmi e io l’afferro saldamente.

Levi armeggia con qualcosa. Improvvisamente, c’è una calda luce arancione tra le sue dita. Allunga la mano per accendere la lanterna appesa al muro prima di lavarsi le mani.

“Non male per un’uscita alle sei del mattino, vero?” chiede retorico, sembrando senza fiato.

Cammino verso la parete di fronte a noi. I passi pesanti dei miei anfibi fanno eco nel metallo del vagone del treno, ma lo ignoro finché non sono esattamente dove voglio essere. È un po’ difficile capire cosa sto guardando ma, prima di rendermene conto, prendo una cornice, tirando a lucido il vetro e la guardo intensamente.

Il ragazzo è senza dubbio Levi. Ha gli stessi occhi grigi, lo stesso sorriso spensierato che vorrei poter vedere più spesso e la stessa aura calma. La donna sembra quasi una sua copia. Anche lei sorride. È impossibile ignorare la sua bellezza. C’è qualcosa di fragile in lei, qualcosa che mi fa desiderare di proteggerla nonostante non la conosca nemmeno. È il tipo di bellezza che descrivono tutti quei vecchi libri che dobbiamo leggere a scuola, e sinceramente mi lascia un po’ senza fiato. È difficile credere che esista qualcuno del genere, ma eccola lì.

“È bellissima,” dico dolcemente, facendo scorrere il pollice sulla superficie liscia della foto.

“È mia madre,” sussurra Levi. Deglutisco amaramente. “Quella... è l’ultima volta che l’ho vista viva.”

“Merda...”

Lui scuote la testa. “Tranquillo. Non ti avrei portato qui se non volessi,” dice.

“Come hai trovato questo posto?” Chiedo, premendo il sottile pezzo di nastro adesivo attaccato all’immagine contro il muro.

Levi scrolla le spalle e si lascia cadere a terra con forza.

“Non l’ho fatto,” risponde lentamente. “Il posto ha trovato me.”

Sento le sopracciglia stringersi mentre mi siedo accanto a lui. I nostri piedi penzolano fuori dal vagone del treno. L’aria gelida sta lentamente rendendo le mie orecchie e tutte e dieci le mie dita insensibili come l’Inferno, ma non voglio rovinare tutto. C’è qualcosa di stranamente meraviglioso nell’essere qui, spalla a spalla con Levi, in un posto che significa chiaramente molto per lui. Che io sia dannato se dovessi rovinare il momento. Per una volta, per una sola volta nella mia vita, voglio che le cose funzionino come dovrebbero.

“Che cosa vuoi dire?” Chiedo, premendo le ginocchia sul petto e unendo le braccia attorno alle gambe. Si stringe nelle spalle e raccoglie una foglia da terra. Ruota lo stelo tra le dita prima di lasciarlo fluttuare verso la ghiaia sotto di noi.

“Come ho detto, tutto ha cominciato ad andare a puttane quando sono stato mandato a vivere con mio zio. È stato letteralmente subito dopo la morte di mia madre. Giuro, ho battuto le palpebre ed è stato come se tutta la mia vita fosse cambiata dal nulla.”

Aspetto che continui, non volendo costringerlo, e dopo un po’ continua.

“Una notte sono scappato,” dice con voce strana. “Non sono riuscito a trattare con lui, quindi me ne sono andato. Non è una cosa insolita. Scappare, intendo. È molto più facile che restare per vedere cos’altro vuole farmi mio zio. E ho continuato a correre. Non avevo una destinazione in mente. Non so come sono finito qui, ma ho rotto la serratura e mi sono intrufolato. Non mi ero nemmeno reso conto fosse una ferrovia finché non ho visto il vagone del treno. Ci sono entrato e ho pensato che mia madre l’avrebbe amato. Adorava i luoghi sconosciuti. Le piaceva andare dove nessun altro voleva.”

“E quindi è per questo che continui a venire qui?” Chiedo incuriosito. “Perché pensi a tua madre?”

Lui scuote la testa.

“Nah. All'inizio mi spaventava. Continuavo a pensare: ‘Cazzo, a mia mamma sarebbe piaciuto moltissimo’.”

“Che cosa è cambiato?”

“È diventato confortante,” risponde piano Levi. “Era il mio rifugio. Non stavo ferendo nessun altro. Non mi stavo facendo male. Era la strategia di adattamento più sicura che potessi desiderare.”

Sbuffo in modo spudorato, spingendolo a guardarmi confuso.

“Non eri tu quello che diceva che le strategie di difesa erano una cazzata?”

“Stavo solo facendo lo stronzo,” risponde Levi, infilandosi le mani nelle tasche della giacca. “Non intendevo offenderti, davvero.”

“Grazie per avermi mostrato questo posto, Levi.”

Mi fissa per qualche istante prima di schiarirsi la voce.

“C’è un posto importante per ogni persona importante, giusto?” Dice. Fischio piano.

“Dannazione. Ti piace flirtare a caso?”

Si gratta timidamente la parte posteriore del collo. “Ah, la pensi così? Vattene allora.”

“Cristo. Come cazzo è possibile che fossi ancora single?”

Lui scrolla le spalle.

“Sai, aspettavo la persona speciale e tutta quella roba cliché. Scommetto che pensi siano cazzate.”

“No,” dico onestamente. “Penso sia bello. Ormai tutti quanti non vedono l’ora di uscire con chiunque gli capiti. Questo tipo di cose non funzionano mai. Causano solo dolore inutile.”

Levi annuisce. “Parli per esperienza?”

“Qualcosa del genere,” rispondo vagamente. “E quindi? Hai trovato la tua persona speciale?”

Ridacchia piano prima di distendersi a terra, con le braccia appoggiate dietro la testa. Mi guarda con questa espressione dolce che mi lascia confuso, ma non lo ammetterò mai.

“Non lo so, Eren. Dimmelo tu."

Alzo le spalle. “Devi decidere tu.”

“Bene,” inizia lentamente. Il cuore mi batteva forte nelle orecchie come un dannato tamburo. “Non lo so, amico. Forse l’ho trovata.”

Lo guardo, cercando di rilevare qualsiasi segno che mi stia prendendo in giro, ma mi guarda onesto come sempre. Le nuvole sono ancora un po’ grigie, ma le aree intorno al sole sono macchiate di un misto di arancio chiaro, rosa e un leggero color lavanda. Mi mordo l’interno della guancia.

“Santo cielo,” riesco a dire. Porto le braccia indietro in modo che mi sostengano. “Sarai la mia fine.”

Levi ridacchia piano. “Ottimo.”

Non posso fare a meno di chinarmi e premere le nostre labbra insieme.
 
 
***
 
09:55, dopo la lezione di inglese.

“Che lezione hai dopo?” Chiede Levi.

“Educazione civica. Tu?”

“Scienze,” replica. Si gratta la nuca. “Uhm… per raggiungere la tua classe si passa per la mia, giusto?”

Comincio a ridere, ignorando lo sguardo irritato che mi lancia.

“Porca miseria. Diventeremo davvero quelle disgustose coppie che si tengono per mano giusto per farsi vedere? Sai, quelle che si accompagnano alle rispettive lezioni e si baciano come se non si vedessero da secoli?”

“Okay, prima di tutto, ti prego no. E secondo, chi cavolo vuole tenerti per mano?”

“Oh, qualcuno oggi è suscettibile.”

“Uhm, ahia.”

“Disse quello che mi ha appena insultato,” replico con un ghigno, e Levi sorride con sfacciataggine.

Prima di poter dire altro, i miei occhi si posano su una figura familiare in fondo al corridoio. Il mio corpo si blocca mentre guardo Reiner e Bertholdt parlare tra loro. Bertholdt continua a guardare il pavimento, ma Reiner sembra stranamente disperato.

“Ci vediamo in palestra, okay?” Dico, cercando di sembrare il più normale possibile quando guardo Levi.

“Uh, okay?” Risponde, apparentemente confuso, ma non rimango abbastanza a lungo da permettergli di chiedermi qualcos’altro.

Sono al fianco di Bertholdt in pochi secondi. Reiner si interrompe all’istante non appena i suoi occhi si posano su di me. L’aspetto disperato della sua faccia si trasforma in qualcosa di molto più acido, ma Bertholdt è la mia principale preoccupazione in questo momento.

“Ehi, pensavo andassimo a lezione insieme oggi,” chiedo, spingendo Bertholdt scherzosamente con le braccia. Sembra confuso prima di annuire lentamente, e rilascio un respiro di sollievo quando mi rendo conto che mi sta reggendo il gioco.

“Scusa, me n’ero dimenticato.”

“Aspetta, cosa?” Chiede Reiner, afferrando il braccio di Bertholdt. “Mi stai prendendo in giro, Bertholdt? Sei amico di quell’idiota di Jaeger?”

“Quell’idiota di Jaeger è proprio qui,” sibilo. “E ti suggerisco di andartene. Ti ho già battuto due volte, vuoi vedere chi vince la terza?”

Reiner serra la mascella.

“Non so cosa tu voglia, perdente, ma ti suggerisco di sparire.”

“Oppure? Che cosa farai, Reiner? Sappiamo entrambi che ti batterò, qualunque cosa tu provi a fare. Non rovinarti ancora la reputazione,” rispondo, avvicinandomi. È più alto di me, quindi non gli raggiungo la faccia, ma è più che abbastanza per intimidirlo. Beh, almeno spero. “Non ho paura di te.”

“Eren,” dice Bertholdt piano, stringendomi forte il braccio. Mi tira indietro con forza, il che non è difficile, considerando che ha sia forza che altezza dalla sua. “Basta così.”

“Forse dovresti ascoltarlo, Jaeger,” dice Reiner. “E poi, nessuno ti ha interpellato.”

“Lascialo perdere,” dice Bertholdt, tenendomi ancora stretto sul braccio. “Smettila… hai fatto abbastanza… okay?”

“Di cosa stai parlando?” Chiede Reiner, socchiudendo gli occhi, ma Bertholdt mi sta già trascinando via. “Ehi, Bertholdt, che diavolo…”

Bertholdt continua a trascinarmi lungo il corridoio. Ignora completamente la campana che suona e mi spinge senza tante cerimonie nel bagno dei ragazzi. Chiude a chiave la porta e si gira verso di me.

“Che cosa stavi pensando di fare?” Mi strofino il braccio dolorante e scrollo le spalle.

“Ho pensato che Reiner dovesse allontanarsi da te.”

“So badare a me stesso, Eren.”

“Va bene, va bene.”

“Sono serio,” risponde Bertholdt, aggrottando le sopracciglia e mi appoggio a uno dei lavandini.

“Va bene, scusa,” mormoro. Incrocio le braccia e Bertholdt sospira piano.

“Grazie, Eren. Apprezzo quello che stavi cercando di fare. Ma sai com’è Reiner. Hai... hai visto di cosa è capace.”

Deglutisco e affondo le dita nelle costole abbastanza forte da farmi male. La pressione mi distrae dal mal di testa palpitante che avverto, però, quindi premo verso il basso fino a quando sono sicuro che le mie unghie lasceranno dei lividi.

“Lo so,” mormoro. Mi mordo leggermente il labbro inferiore. “Di cosa stavate parlando?”

Bertholdt fa spallucce. “Stavamo parlando della squadra di football, che tu ci creda o no. Continua a chiedere perché ho smesso.”

“Come se non lo sapesse,” rispondo. Bertholdt mi dedica uno sguardo aspro che mi fa tacere all’istante. “Scusa.”

“Ai suoi occhi non ha fatto nulla di male,” dice Bertholdt. Scuoto la testa.

“Certo che no. Questo è ciò che vuole credere. Ma questa non è la verità. Lo capisci, vero?”

Bertholdt tace.

“Non ti ho mai ringraziato,” dice lentamente. “Per avermi portato da Mina, intendo.”

“Non è necessario. L’ho fatto perché sapevo fosse quello di cui avevi bisogno. Non c’è bisogno di ringraziarmi.”

Si stringe nelle spalle e si appoggia alla porta.

“Lo so. Però mi sento un po’ uno schifo,” fa una pausa e mi ritrovo a guardarlo con curiosità. “Non volevo coinvolgerti in tutto questo. Avrei dovuto gestirlo da solo.”

“Sono contento che tu l’abbia fatto,” dico onestamente. “Chissà cosa sarebbe successo se l’avessi tenuto per te. Ricordi cosa ti ho detto? Devi renderti felice, Bertholdt. Non puoi farlo se non chiedi mai aiuto, lo sai.”

Bertholdt mi guarda in silenzio prima di sorridere leggermente.

“Grazie.”

“A cosa servono gli amici?” Chiedo, ricambiando il sorriso.

“Scusa. Per il tuo braccio, intendo.”

“Eh? Oh, non è niente. Ho passato di peggio. Ricordi il tuo compleanno?”

“Come potrei dimenticare?” Dice Bertholdt con uno sbuffo.

Alzo le spalle e mi spingo dal lavandino.

“Andiamo, forza. Probabilmente dovremmo andare in classe. Ieri ho già saltato.”

“Cazzo, hai ragione,” dice Bertholdt, in preda al panico. “Non stavo nemmeno pensando.”

“Nessun problema. Educazione civica fa schifo comunque. Mi stai facendo un favore.”

Bertholdt alza gli occhi al cielo.

“Come vuoi. Ora taci e cammina.”

Rido e lo seguo fuori dal bagno.
 
 
***

18:23, casa mia.

“Allora dove stai andando, esattamente?” Chiedo, raccogliendo una delle cornici allineate sul bancone sul nostro camino. Non l’abbiamo mai usato. È più una cosa estetica che altro. Non ne ho mai capito il fascino, ma a quanto pare Mikasa pensava fosse stupendo. Tutto era sempre fottutamente bello per lei.

“Che cosa sei, mio padre?” Chiede Jean, arruffandomi i capelli con la mano. “Sto solo uscendo.”

“Esci?” Ripeto, posando la foto.

Sette anni fa. Avevo dieci anni e Mikasa aveva appena compiuto ventitré anni. La foto è della sua festa di compleanno. Non voleva nemmeno farla, ma la mamma era così emozionata che ne ha organizzata una senza pensarci. Non ricordo molto, a parte il fatto che mia zia Natalie si era presentata e da lì la situazione era degenerata. Secondo la leggenda, aveva bevuto troppi bicchieri di vino economico che aveva imbucato alla festa clandestinamente, nonostante la raccomandazione di mia madre di non portare alcool. Questo è quello che mi aveva detto Mikasa, comunque. 

“Perché lo dici così?” Chiede Jean, stringendo gli occhi. Alzo le spalle e faccio un passo indietro dal camino per buttarmi sul divano.

“Perché,” comincio, trascinando la parola, “Non esci mai. Non sei uscito nemmeno una volta da quando ti sei trasferito.”

“Sono uscito.”

“Andare a fare la spesa non conta. Ho pensato che tu non avessi amici.”

“Okay, wow. Ho amici.”

“Sembra una cazzata, ma va bene.”

Jean alza gli occhi e si aggiusta la cravatta.

“Sai, sei vestito troppo bene. Ti sei spruzzato mezza boccetta di acqua di colonia.”

“Hai finito?” Chiede, sembrando stanco, e io scrollo le spalle.

“Non lo so. Dimmelo tu,” dico, mettendomi seduto. “Se non ti conoscessi, direi che stai andando a un appuntamento.”

Jean diventa sospettosamente silenzioso. Il sorriso provocatorio sulla mia faccia sparisce.

“Oh mio Dio,” sussurro e Jean si gira verso di me.

“Eren? Eren, ascoltami.”

“Stai andando a un appuntamento?”

“Non è così!”

“Invece sì! Ti sembro stupido?”

“No!” Jean si passa una mano tra i capelli e si inginocchia di fronte a me. “Ehi. Guardami.”

Fisso testardamente il terreno. Sospira e mi afferra il mento per costringermi a guardarlo negli occhi. Mi libero dalla sua presa e, senza rendermene conto, appoggio il piede al suo petto spingendolo per allontanarlo il più possibile. 

“Eren? Possiamo parlarne?”

“Di cosa c’è da parlare?" Sputo, la voce priva di emozioni. “Divertiti al tuo fottuto appuntamento, Jean.”

“Santo cielo, Eren! Non puoi ascoltarmi e basta?” Chiede, afferrandomi il polso. Scuoto la testa e lo spingo più forte che posso.

“Non toccarmi, cazzo!” Sibilo.

Non mi preoccupo di afferrare la giacca mentre mi precipito fuori di casa. L’aria fredda attacca istantaneamente ogni centimetro di pelle nuda che può raggiungere, ma sono troppo arrabbiato per notare davvero come sarò a pochi secondi dal congelamento. La porta non si riapre una volta quando chiudo, e mi chiedo se quella sensazione di delusione sia dovuta perché pensavo che Jean sarebbe venuto a cercarmi.
 
 
***

19:01, casa di Armin.

“Perché sei qui, Eren?” Chiede stancamente, appoggiandosi allo stipite della porta.

In realtà non lo so. Levi e Bertholdt hanno già abbastanza a cui pensare, non voglio aggiungere loro anche i miei problemi. Nick e Jean si odiano a vicenda, quindi Nick non sarebbe in grado di darmi consigli utili che mi aiuteranno a rimettere insieme i frammenti della mia relazione con Jean.

Sono andato da Armin perché è l’unica persona rimasta che conosce davvero Jean. L’ultima persona che conosceva davvero Jean era Mikasa, ma non posso chiederle nulla perché in questo momento mi sento turbato. In fondo, forse Jean sta cercando di andare avanti e attuare un processo di guarigione. Un processo che dovrei iniziare anche io, ma non ho il coraggio di farlo.

“Jean,” riesco a dire. È estremamente infantile incolpare il mio povero cognato per la mia instabilità emotiva, ma non sono mai stato bravo a assumermi la responsabilità di qualcosa nella mia vita. Non ho mai dovuto essere ritenuto responsabile per nulla, perché mi sono assicurato che nessuno sarebbe mai stato in grado di rendermi responsabile.

Gli occhi di Armin si spalancano. “Sta bene?”

Rido amaramente.

“Lui sta bene.”

Armin increspa le labbra prima di aprire la porta.

“Entra. Perché sei uscito senza un cappotto?”

Lo ignoro e mi tolgo le scarpe. Armin mi porta in cucina e inizia a prepararci il tè. Fisso i disegni colorati appuntati sul frigorifero, senza dubbio il lavoro dei suoi figli.

“Come sta Annie?” Chiedo, distratto, e Armin fa una pausa mentre fa bollire l’acqua.

“Tutto bene,” dice. “Ha partorito.”

“Maschio o femmina?” 

“Maschio,” dice, ridendo piano. “Ancora.”

Rido in silenzio. Armin ha sempre desiderato una femmina, ma tutti e tre i suoi figli sono maschi.

“Oh bene,” dico, scrollando le spalle e mi sistemo sulla sedia della cucina. Armin si siede nel sedile di fronte a me.

“Non ci sentiamo da parecchio,” continua Armin. Scuote la testa con una risata. “Che cosa è successo al ragazzo che non si zittiva ogni volta che mi vedeva?”

Deglutisco bruscamente e fisso la tovaglietta giallo brillante sotto le mie mani.

“È cresciuto,” rispondo debole. Il sorriso sul viso di Armin scivola via.

“Eren?”

“Sto bene,” dico, ma la mia voce si incrina e sento gli occhi in fiamme.

“Che cosa è successo?” Domanda a bassa voce. Alzo le spalle e gioco con il bordo della tovaglietta, scuotendo la testa.

“Niente. Sono solo uno stronzo. Nulla di nuovo.”

Armin apre la bocca per rispondere, ma il bollitore inizia a fischiare acutamente. Impreca e si alza per afferrarlo. Lo guardo versare l’acqua bollente nelle tazze già adornate con una specie di tisana. È sempre stato un grande bevitore di tè. È un’abitudine che Mikasa aveva ereditato da lui. Quando restava bloccata su un dipinto, scendevo nello scantinato e la vedevo seduta lì con le tazze vuote che la circondavano. Forse non avrei dovuto esserne sorpreso. Erano amici praticamente da tutta la vita.

Armin mi passa la tazza sul tavolo.

“Grazie,” mormoro, ma non faccio alcuna mossa per toccarlo. Si mette di nuovo a sedere e soffia con cura sulla parte superiore della sua tazza prima di prendere un sorso lento.

“Non posso aiutarti se non mi dici cosa sta succedendo.”

“Chi dice che ho bisogno di aiuto?”

“Beh, perché saresti qui altrimenti?”

Stringo i denti abbastanza forte da farmi male la mascella. Armin mi osserva in silenzio. So che mi sta analizzando. Lui e Mikasa erano bravi in ​​questo. Hanno sempre saputo leggere le persone. Spesso lo facevano per far impazzire Jean. E con me, funziona a meraviglia.

“Jean…” mi interrompo. Dire ciò che è successo me lo farà realizzare. Quanto sono idiota, intendo. Il senso di colpa mi trafigge come una verga calda fino all’intestino. È questo di cui Jean si occupa continuamente? Tutte le mie strategie di adattamento e sbalzi d’umore? Tutta la mia immaturità e riluttanza a lasciar andare il passato?

“Jean cosa?” Armin persuade. Deglutisco il nodo in gola e comincio a toccare la tazza bollente. Il dolore mi rilassa.

“È andato avanti,” dico, la mia voce terribilmente calma e vulnerabile e il mio stomaco in realtà vacilla mentre dico le parole. “Ha superato Mikasa, intendo.”

“Oh, Eren,” dice Armin, la sua voce disgustosamente comprensiva e il mio labbro inferiore si deforma leggermente.

Mi mordo abbastanza forte da far uscire sangue e distolgo lo sguardo da lui. Non riesco a guardarlo. So che guardarlo abbatterà le dighe nei miei occhi ed è l’ultima cosa di cui ho bisogno.

“Però, alla fine, può fare tutto ciò che vuole, no?” Mormoro. “Non deve restare solo per il resto della vita. E… Mikasa ormai non c’è più.”

“Eren.”

Alzo lo sguardo con riluttanza.

“È normale. Essere ferito, intendo. Ne hai diritto.”

“È da egoisti.”

“Stai soffrendo. Il dolore è egoista.”

“Il dolore è egoista...” ripeto a me stesso. Mi passo la mano tra i capelli. “Solo... non avrei mai pensato che avrebbe fatto così male.”

Armin fa un respiro lento e posa il tè con cura.

“Va bene. Qualunque cosa tu prova, è valida. Lo sai, vero?”

Alzo le spalle. “Sicuro.”

Armin increspa leggermente le labbra.

“Cosa ti fa così arrabbiare, Eren?”

Mi affondo sulla sedia.

“I miei genitori si sono sbarazzati di ogni sua traccia non appena ne hanno avuto la possibilità,” sussurro. Il mio stomaco si agita di nuovo, ma lo ignoro in favore di cercare di mantenere la mia voce il più possibile stabile. “Temo che farà lo stesso.”

“Jean non è tua madre o tuo padre,” dice Armin all’istante. “Non sto dicendo che i tuoi genitori sono persone orribili o altro, ma non sono più gli stessi da quando Mikasa ci ha lasciati.”

“Fidati,” mormoro cupamente. “Lo so.”

“Ricordi cosa ha detto Jean? La notte che abbiamo ricevuto la chiamata?”

Deglutisco.

“Più o meno,” dico onestamente. “Non ricordo molto di quella notte.”

Non è una bugia. Il terapeuta che consultavo allora, il dottor Trook, li chiamava ‘ricordi repressi’. Ha detto che a volte la nostra mente ci nasconde delle cose fino a quando non siamo pronti per affrontarle. Quando gli ho detto che non riuscivo a ricordare molto della notte in cui mia sorella è morta, ha detto che era per questo. Ha detto che la mia mente stava cercando di proteggermi. Ho sempre pensato fosse una cazzata, ma una parte di me si è sempre chiesta quanto di ciò fosse vero.

“Ha detto che il suo unico compito era proteggere Mikasa,” dice Armin, e qualcosa sulle parole sembra vagamente familiare. “E di non esserci riuscito.”

“Non ha...”

“Ti ha mai raccontato cosa mi ha detto dopo?” Chiede Armin. Scuoto la testa.

“Noi... noi non abbiamo mai davvero parlato di quella notte.”

Armin annuisce.

“Mi ha detto che il suo compito ora era proteggere te. Non a causa di Mikasa, però. Ha detto che doveva farlo perché i tuoi genitori avevano rinunciato alla responsabilità di genitori non appena il medico ha detto loro che loro figlia era morta. Perché pensi che lui ci tenga così tanto a sapere tutte le cose spericolate che fai? Pensi davvero che lui voglia solo rovinarti la vita o chissà quale altra strana idea ti sei fatto?”

Deglutisco. Questo è il tipo di cosa fastidiosa di Armin. Ha sempre ragione. Anche quando non è così, ha un modo per farti credere che qualunque cosa stia dicendo è corretta. Non ho mai capito come sia in grado di farlo, ma non voglio ragionarci adesso. Soprattutto quando so che ha ragione su ogni singola fottuta cosa che mi sta dicendo.

“Che cosa vuoi che dica, Armin?” Chiedo, sentendomi improvvisamente esausto. “Grazie per avermi illuminato? Grazie per avermi fatto sentire una testa di cazzo?”

“No,” dice Armin. “Voglio che realizzi che il mondo non sarà sempre lì ad aiutarti. So che sembra così metà delle volte, ma ti assicuro che non è vero.”

Si sporge in avanti, la sedia scricchiola leggermente, e fisso il vapore che fuoriesce dal mio tè in modo da non doverlo guardare in faccia.

“Jean ti vuole bene. Non dimenticarlo. E ama ancora Mikasa. E questo sentimento non cambierà mai.”

Annuisco senza davvero elaborare le sue parole.

“Grazie, Armin,” riesco finalmente a dire. Lui annuisce lentamente.

“Prego, Eren.”

Mi allontano dal tavolo.

“Scusa per essere venuto qui senza preavviso. Ora devo andare a casa.”

Armin increspa di nuovo le labbra.

“Ehi, Eren?”

“Sì?”

“Restiamo in contatto,” dice sinceramente. “Anche se è solo una chiamata o qualche messaggio. Mi interessa sapere come stai.”

Lo guardo per un po’ di tempo. Non è diverso dall’Armin con cui ricordo di essere cresciuto, ma c’è qualcosa di strano in questo Armin, comparato a quello del passato. Non so se abbia a che fare con la mia sorella defunta, ma preferisco non pensarci.

“Lo farò,” dico, e mentre me ne vado mi chiedo se lo farò davvero.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 22
 
Levi

L’auto di Kenny è nel vialetto.

Il mio corpo si congela quando me ne rendo conto. Mi fermo, proprio lì in mezzo alla strada, e mi chiedo se può vedermi da qui. Probabilmente no, dal momento che sono per lo più nascosto dietro gli alberi sempreverdi vicino al bordo della nostra proprietà, ma non lascio che il pensiero mi consoli.

Non riesco a immaginare perché sia ​​a casa a quest’ora. Anche se mi aveva mandato un messaggio mentre ero a casa di Eren, non era tornato a casa quando finalmente avevo raccolto il coraggio di tornare. In effetti, sono passati alcuni giorni e non lo vedo da allora. Quindi è uno shock enorme vedere la sua macchina parcheggiata dietro la mia.

Provo a pensarci razionalmente. Forse ha perso il lavoro. Forse ha chiesto mezza giornata libera. Forse è rimasto a casa per bere l’ultima bottiglia di Jack. Non sarebbe la prima volta. Non so come riesca a farlo, ma immagino che al suo capo non importi. Kenny lavora in una fabbrica, quindi non si fanno problemi se manca un operaio, dato che può essere sostituito da altri cento.

Mi giro e mi allontano da casa prima di pensarci. Il battito del mio cuore mi ruggisce nelle orecchie e riesco a sentirmi sudare freddo. So che dovrei essere ragionevole, che dovrei parlare con Kenny invece di scappare come un codardo, ma non ho mai affermato di essere maturo.

Non capisco dove sto andando fino a quando non vedo le altalene e gli scivoli. Espirando bruscamente, mi dirigo verso una delle altalene e spazzolo via la neve. Mi siedo pesantemente, ascoltando lo scricchiolio del dondolo mentre si adatta al mio peso e afferro le catene abbastanza forte da far male.

Il cuore mi batte ancora forte. Non intensamente come prima, ma abbastanza per farmi domandare se è possibile avere un infarto. Sarebbe un bel modo per andarsene. Morire in un parco giochi ispirato a Barney and Friends.[1] Sono sicuro che i genitori lo adorerebbero. Ovviamente i genitori che porteranno i figli a giocare in questo parco non avranno alcun tipo di trauma, vedendo un ragazzo morto sulle loro amate altalene.

Mi lecco le labbra secche e stringo più forte le catene. L’aria fredda attacca brutalmente qualsiasi pezzo di pelle esposta che ho. Le orecchie, le dita e il naso sono intorpiditi al punto che mi chiedo se siano ancora lì. Stamattina c’era stato un avviso di vento gelido, ma l’avevo ignorato. Il freddo non mi ha mai dato molto fastidio, ma immagino che il congelamento sia un problema di cui dovrei preoccuparmi.

Mi lascio oscillare leggermente nell’altalena. Mi sento miserabile. È una sensazione che non mi è nuova. Faccio del mio meglio per ignorarla, ma è un po’ come quel brufolo che continua a spuntarmi sul naso. Proprio quando penso che sia sparito, riappare. Il più delle volte, è peggio di prima.

Non mi piace pensare a come sono finito in questa situazione. Non oggi, ma la convivenza con Kenny. Non è qualcosa che potrei facilmente dimenticare, ma non avrei mai immaginato che sarebbe potuto succedere. Mia madre era sempre stata forte. Ho pensato che avrebbe superato qualsiasi cosa. Sono cresciuto ammirandola, prima di sapere come pagava le bollette.

Voglio dire, non fraintendetemi, l’ho sempre rispettata. È stato piuttosto strano scoprire che mia madre andava a letto con uomini differenti per poter mangiare. E anche allora, non ha fatto molto. I ricchi non andavano da lei. Gli unici che andavano a cercare mia madre erano i bastardi: gli uomini che tradivano le loro mogli, gli uomini che volevano sottrarsi a qualunque tipo di responsabilità stessero cercando di evitare. Mia madre non ha mai avuto un brav’uomo.

Diceva che Micheal era un brav’uomo. Mi chiedo se avrebbe continuato a dirlo anche se sapesse di Sammy e Olivia.

Mi chiedo molte cose. Molti sono il tipo di ‘e se’ che mi tengono sveglio la notte. E se mia madre non fosse morta? E se non fossi mai stato mandato a vivere con Kenny? E se Michael non se ne fosse mai andato? E se, e se, e se?

Non mi piace nemmeno pensare a quel tipo di domande, ma alla mia mente piace fornirle ogni tanto solo per ricordarmi quanto sono infelice. In un certo senso è un casino, ma immagino che la vita sia solo un casino.

Non sto dicendo che la vita fa schifo, però. Beh, sì, a volte, ma non è come se avessi questa nuvola scura sulla testa che non se ne va mai. La gente dice sempre che le cose migliorano e credo sia vero. Sto ancora aspettando quel momento, il momento in cui mi rendo conto che tutte queste cose sono probabilmente un qualche tipo di Paradiso che cerca di rendermi una persona migliore. Questo è quello che diceva mia madre. Che qualcuno lassù renda la vita una merda in modo che le persone possano imparare da essa, intendo.

Sembrava una stronzata. Le piaceva trovare scuse per giustificare le condizioni in cui vivevamo. Gli uomini non erano troppo duri con lei; erano solo presi dal momento. Michael non era una brutta persona; era solo sopraffatto. Non era infelice; non era felice come si meritava. Sapevo che lei cercava di darmi una vita come chiunque altro, senza preoccupazioni e circondato da arcobaleni e chissà cos’altro, ma io sapevo qual era la verità.

Qualcosa di umido mi tocca la mano e mi rendo conto che sta nevicando. Mia madre odiava la neve. Non ha mai veramente detto perché, ma lo sapevo. A volte non potevamo permetterci di pagare la bolletta della luce. Avrebbero spento la corrente e saremmo rimasti bloccati senza riscaldamento fino a quando non sarebbe riuscita a ottenere i soldi necessari. Il freddo ha sempre avuto un bel modo di ricordarle che le cose non erano così belle come lei cercava di farle sembrare.

Le cose probabilmente sono andate male nel periodo in cui ho iniziato il liceo. Ha cercato di guadagnare più soldi. Ha detto che stava risparmiando per il college, che ne avrei avuto bisogno più di lei, e che ero una testa di cavolo quando le ho detto che nemmeno ci pensavo al college. Ero solo al primo anno, mi sembrava presto per preoccuparmene.

È stato strano quando le cose hanno cominciato ad andare a rotoli. Non sembrava malata, aveva solo l’aspetto di una classica persona con difficoltà economiche. Aveva perso all’istante tutti i clienti. Aveva cercato un vero lavoro, ma non aveva nemmeno il diploma di scuola superiore. Nessuno voleva assumerla.

Non so come Kenny sia finito nelle nostre vite. Probabilmente verso la fine del primo anno di liceo. Cominciavo a vederlo in giro per casa, mia madre mi disse che era mio zio, sangue del mio sangue e che si sarebbe preso cura di me se dovesse esserle successo qualcosa. All’inizio non capivo, non fino a quando non è stata sotterrata. 

Il ricordo di tutto ciò mi fa irrigidire all’istante. Mi sento male allo stomaco e per alcuni istanti penso che potrei davvero vomitare. Ma la sensazione passa rapidamente così comm’era arrivata e mi ritrovo a lasciar andare le catene.

Le mie mani sono rosse, coperte dai rientri lasciati dalla catena e arriccio le dita sperimentalmente. Si muovono rigidamente, lentamente, e mi rendo conto che dovrei entrare prima di ammalarmi.

Regolo le cinghie dello zaino e sospiro pesantemente. Il mio respiro appare come una nuvola grigia di fronte a me prima che si dissolva. Gli anfibi scricchiolano sul ghiaccio e sulla neve mentre cammino verso casa, con tutto il corpo pesante. È come se trascinassi un mucchio di mattoni invisibili a ogni passo, e mi chiedo cosa accadrà se decidessi di sdraiarmi proprio dove sto e chiudere gli occhi.

Continuo a muovermi, però, perché forse c’è una possibilità che Kenny se ne sia andato. Forse i suoi collaboratori sono riusciti a convincerlo a uscire. C’erano riusciti in passato. Ci sono stati momenti in cui è uscito tutta la notte e non avrei dovuto preoccuparmi di lui fino a quando non inciampava in casa alle sei del mattino del giorno successivo.

Supero gli alberi sempreverdi e sospiro lentamente. La sua macchina è ancora parcheggiata innocentemente dietro la mia sul vialetto. Questa volta non penso di scappare. Ho evitato questo momento abbastanza a lungo.

Salgo i gradini e mi fermo davanti alla porta. Non sento altro che il sibilo del vento nelle orecchie. Sembra un avvertimento, come se qualcuno là fuori stesse cercando di dirmi di non entrare. Forse non è niente del genere. Forse sono proprio come mia madre in questo momento, costringendomi a trovare qualcosa di spettacolare in qualcosa che non lo è.

Scuoto il pensiero e afferro forte la maniglia della porta, aprendola lentamente. Spolvero gli anfibi innevati sullo zerbino. I miei piedi coperti da calzini non fanno quasi rumore mentre cammino nel soggiorno.

È seduto nella vecchia poltrona del salotto. Si siede così in profondità che a volte rimane la forma del suo sedere. Era piuttosto magro quando l’ho visto per la prima volta, ma ha guadagnato molto peso dopo la morte di mia madre. Immagino sia colpa della birra e del cibo cinese.

I suoi occhi sono chiusi, ma l’esperienza mi dice che non sta dormendo. L’ha già fatto prima, dopo tutto. Fingeva di dormire per poi saltarmi addosso come un leone fa con la preda. Quei giorni sono i peggiori perché vuol dire che è proprio arrabbiato. Non so ancora le cause che scatenano questa reazione, ma non sono neanche sicuro di volerlo scoprire.

“Ehi.”

Apre lentamente gli occhi e fisso la televisione. È muta, ma sta trasmettendo le notizie del telegiornale della sera. Deglutisco. Sono stato fuori per così tanto tempo?

“Sei tornato tardi.”

“Gruppo di studio,” mento. È quasi spaventoso quanto poco ci abbia pensato. “Tu… uhm… sei a casa.”

Solleva un sopracciglio. “Perché, ti manco?”

“Nah,” dico, stringendo forte le mie cinghie dello zaino. “Sono solo contento che tu non sia ubriaco e non ti stia vomitando addosso.”

Si appoggia allo schienale, un braccio appoggiato sul bracciolo e mi guarda in modo equilibrato. Mi sento sbiancare sotto il suo sguardo. Le mie spalle si abbassano involontariamente e improvvisamente sembra che il mio zaino pesi cento chili.

“Dovevo occuparmi di una cosa.”

“Te ne sei solo andato,” mormoro, la mia voce tremendamente sottile, e mi sconvolge fino al midollo. Non pensavo che lasciarmi così mi avrebbe influenzato così tanto. Al massimo, semmai, pensavo che avrei saltato dalla gioia. Invece, ho sentito questo intenso, paralizzante terrore che in qualche modo riesce a prendere il controllo di ognuna delle mie sensazioni.

Kenny mi guarda impassibile. “La prossima volta lascerò un biglietto.”

Stringo i denti abbastanza forte da farmi male. Mi fa male la mascella per la forza, ma continuo a farlo. Qualcosa si sta costruendo dentro di me, qualcosa che non posso fermare, ma sto facendo del mio meglio per contenere.

“Cosa c’è, moccioso? Hai qualcosa da dire?”

“Te ne andrai, vero?”

Non so perché glielo sto chiedendo. Non è quello che voglio? Allontanarmi da lui, intendo. Non ho detto a Eren che sarei uscito appena compiuti diciotto anni? Allora perché il pensiero di Kenny che se ne va mi disturba?

“Cosa?” Chiede, sembrando confuso, e mi sento un fottuto idiota.

“Niente... non è niente. Lascia perdere.”

Mi giro per andarmene, intento a far finta che tutta questa conversazione non sia mai avvenuta, ma lui mi richiama. Rimango sulla soglia, le mani strette a pugno. Le mie unghie lasciano delle rientranze nel mio palmo che sembrano piccole mezzelune e le guardo in modo da non dover guardare Kenny negli occhi.

“Cosa stai blaterando?” Chiede. Si alza dal divano e si avvicina a me.

Le assi del pavimento scricchiolano minacciosamente sotto i suoi piedi. Il cuore mi batte forte nelle orecchie e mi chiedo quante volte ho intenzione di farmi prendere dal panico in una sola giornata. Si ferma di fronte a me, abbastanza lontano da permettermi di scappare se decidesse di diventare violento. Non ce lo farei, ma è bello pensare di avere questa opzione.

“Niente,” ripeto, e mi costringo a guardarlo. Somiglia molto a mia madre. Non sono sicuro del motivo per cui mi sorprende, considerando che sono fratelli, ma è così.

Mi guarda per qualche istante prima di schernirmi e tornare al suo posto. Si siede e riattiva l’audio della televisione. Sbuffo all’improvviso flusso di suoni nel minuscolo soggiorno.

“Scusa,” riesco a dire e vado via da lì prima di poter fare qualsiasi altra cosa.

I miei passi suonano fastidiosamente rumorosi mentre salgo le scale. Quasi inciampo sui miei stessi piedi mentre raggiungo l’ultimo gradino. Raggiunta camera mia, premo la fronte su uno dei muri. Mi costringo a fare respiri profondi, ma l’aria sembra essere estremamente difficile da mantenere nei miei polmoni.

Scendo a terra, il muro freddo e solido dietro la schiena, e lascio che le notizie serali affoghino i miei pensieri.
 
 
*** 

“Ehi Ackerman!”

Reiner mi stringe la spalla. Lo guardo e mi costringo a sorridere.

“Ciao,” saluto. “Come va?”

“Non dovrei chiedertelo io?” Chiede Reiner, appoggiando una spalla contro l’armadietto accanto al mio. “Cavolo, amico. Ultimamente sei stato un fantasma. Ti sei dimenticato di noi solo perché non ci comandi più?” 

“Non vi ho mai comandati,” dico, alzando gli occhi al cielo. “Non senza una buona ragione, almeno.”

“Ci stai evitando.”

“Non è vero,” dico, difendendomi. È come se ci fosse una crepa nella mia armatura, come se la facciata che ho così accuratamente realizzato si sta rompendo in punti che non riesco a vedere. Sto diventando troppo vulnerabile, mi rendo conto. Sto mostrando il mio vero me stesso, e non va bene.

La mia mente mi fornisce immediatamente l’immagine di Eren. Deglutisco mentre metto nell’armadietto il libro di inglese per prendere quello di scienze. È lui che mi ha reso così, no? È quello che mi fatto venire voglia di essere vulnerabile. E, a mio merito, lo sono stato. Era stato incredibilmente difficile parlargli, figuriamoci mostrargli pezzi di me che non avevo mostrato a nessun altro, ma l’avevo fatto. Sono progressi, ne sono sicuro, ma non sono esattamente sicuro di ciò verso cui sto progredendo.

“Va bene, come vuoi,” dice Reiner scrollando le spalle. Mi mordo forte l’interno della guancia. “Andiamo in giro dopo la scuola. Sai, tutti i ragazzi.”

“Giusto,” dico distrattamente. “Io-”

“Verrai?” Domanda, quasi speranzoso. “Voglio dire, ci hai abbandonato dopo l’ultima partita. Tutti si chiedevano dove diavolo eri finito.”

Ah giusto. Eren e io eravamo usciti. È stato bello, stare con qualcuno che non aveva aspettative, che non voleva che io recitassi in un certo modo, e mi ritrovo a chiedermi come dovrei fare per tornare ad essere quel ragazzo. Sono stato solo Levi da chissà quanto tempo. Con Eren sono semplicemente Levi. Non c’è nient’altro a esso collegato, non mi sento di dover essere nient’altro. Sono pronto per essere di nuovo Levi Ackerman? Sono pronto a essere il capitano della squadra di football e tutto ciò che ciò comporta, dopo tanto tempo che sono solo io?

“Avevo solo delle cose da fare,” dico velocemente, costringendomi a smettere di pensare e Reiner alza un sopracciglio. “Seriamente, amico.”

“Va bene, ma vieni stasera. Niente ma, okay? Siamo all’ultimo anno. Chissà che fine faremo il prossimo autunno.”

Restringo gli occhi.

“Stai pensando al futuro?” Chiedo, incapace di impedirmi di sorridere. “Pensavo che vivessi il momento.”

Lui scrolla le spalle. “Le cose cambiano, no?”

“Certo,” rispondo scettico, ancora un po’ confuso, ma ignoro il pensiero. Non sono poi così amico di Reiner. Non devo cercare di capirlo. “Immagino ci vedremo più tardi, allora.”

Reiner annuisce e si allontana dall’armadietto. “Ci incontriamo nel parcheggio e poi andiamo a casa di Franz.”

“Fantastico,” rispondo, ma per qualche motivo c’è una sensazione di disagio che mi attanaglia lo stomaco. Esco con questi ragazzi da anni. Non c’è motivo per cui mi senta così a disagio.

Passo il resto della giornata meccanicamente. Se Eren nota il mio umore di merda, non lo menziona. Gli dico che lo chiamerò più tardi e annuisce lentamente, come se non mi credesse davvero. Mi stringe la mano prima di andarsene, e mi chiedo se dovrei andare con lui.

Non lo faccio, però. I miei piedi mi portano nel parcheggio finché non riesco a individuare la testa di Reiner tra la folla di studenti. Lui, Franz, Thomas e Marco sono tutt’intorno alla macchina di Franz. Mi avvicino a loro con riluttanza, quasi trascinando i piedi, ma tutti sorridono quando mi vedono.

“Ma guardate chi c’è!” Escalama Franz con un sorrisetto. “Levi Ackerman in carne e ossa.”

“Vaffanculo,” dico, spingendolo via quando cerca di lanciarmi un braccio attorno alle spalle e Thomas ride ridicolmente forte accanto a me. “Andiamo?”

"Sì, sì, andiamo,” dice Reiner, dirigendosi verso il volante. “Vado con Franz e Thomas. Ti va bene andare con Marco?”

Annuisco. “Sicuro.”

Marco sorride di nuovo e lo porto lontano dagli altri alla mia macchina. Entriamo in silenzio e accendo la radio solo per non sentirmi costretto a dire qualcosa.

“Reiner ti ha costretto, eh?”

“Cosa te lo fa pensare?” Chiedo, uscendo dal parcheggio. Marco scrolla le spalle.

“Non lo so. Sembra tu abbia la testa tra le nuvole. E non sembravi troppo entusiasta quando ci hai raggiunti.”

“Scusa.”

“Per cosa ti stai scusando?”

“Non lo so. Non importa. Scusa.”

Marco alza un sopracciglio, ma si zittisce.

Il resto del tragitto passa in silenzio. Prima che me ne renda conto, siamo a casa di Franz. Ci sono altre auto nel vialetto, oltre a quella di Reiner. A giudicare dal modo in cui riesco a sentire l’alto volume della musica, non siamo solo noi a aver deciso di incontrarci.

“Suppongo che abbiamo compagnia,” dice Marco.

Scrollo le spalle e decido di non rispondere. Usciamo dalla macchina e camminiamo verso la porta. È già aperta, quindi entriamo e ci asciughiamo le scarpe bagnate. Vedo Thomas parlare con una ragazza, ma Reiner e Franz non si vedono da nessuna parte.

Molti ragazzi provengono da altre scuole. Riconosco che alcuni appartengono a squadre contro cui abbiamo giocato, ma sono per lo più estranei. Mi muovo goffamente e rimango radicato nel mio posto mentre Marco inizia ad andare avanti.

“Vieni?”

“Tra un minuto,” riesco a dire.

Si stringe nelle spalle e scompare in cucina. Mi appoggio al muro e faccio un respiro profondo. Che cazzo ci faccio qui? Odio le feste. Sono venuto solo perché i miei amici hanno insistito, ma non mi sono mai trovato molto bene con loro. Tutto ciò che fanno è causare problemi.

Ma non ho voglia di stare in piedi contro il muro per tutta la sera, quindi mi costringo a socializzare. Alcuni dei ragazzi contro cui abbiamo giocato, mi salutano.

“Ciao, sei Levi, giusto?” Chiede uno. Schultz o qualcosa del genere. Ricordo di averlo visto sulla sua maglia.

“Sì, sono io,” dico. “Sei Schultz, vero?”

“Mi chiamo Gunther,” dice. “Sono di Krolva. Tu di Shiganshina, vero? Amico, ci hai davvero preso a calci in culo quel giorno.”

“Sì, mi ricordo,” dico. “Non abbiamo mai dovuto faticato così tanto per vincere. Nemmeno contro Trost.”

Gunther sorride con orgoglio. “Non sono i vostri più grandi rivali?”

Alzo le spalle, sorridendo. “Qualcosa del genere.”

Gunther ride.

“Beh, è ​​stato bello vederti. Ehi, forse dovremmo uscire qualche volta. Fare qualcosa che non sia competere per la vittoria sul campo da football.”

“Sì, forse,” dico. Non sono sicuro se lo intendo davvero. “Ci vediamo.”

“Ci vediamo!”

Mi spingo oltre le persone affollate sulla soglia della cucina. Prendo una bottiglia d’acqua dal frigorifero e guardo mentre la gente si ubriaca di fronte a me. Gira voce ci sia dell’erba nel seminterrato e un paio di ragazzi vanno a controllare. Sento qualcuno ridere dal piano di sotto, una risata che sembra proprio quella di Reiner.

Mi alzo contro il bancone e bevo lentamente un sorso d’acqua. La musica mi sta dando il mal di testa e mi domando quanto brutto sarebbe se decidessi di andarmene e basta. Ma prima di poterlo fare, Marco mi raggiunge.

“Ehi,” dice, senza fiato; decido di non voler saperne il motivo. “Hai visto Franz?”

“Non da quando abbiamo lasciato la scuola,” mormoro. Marco fa spallucce e beve ancora. Deglutisco forte e distolgo lo sguardo.

“Vuoi una birra?”

“Ho preso dell’acqua,” rispondo, scuotendo la bottiglia per enfatizzare. “Sono a posto.”

Marco alza un sopracciglio e non dice nulla. Improvvisamente mi rendo conto di essere stufo di questo. Non solo la festa, ma tutte le persone che la accompagnano. Non è il luogo in cui vorrei essere. Perché devo torturarmi in questo modo? 

“Oh, ciao Reiner!”

Sussulto quando Marco mi urla nell’orecchio. Reiner sorride e ci raggiunge. Mi sento in trappola e l’idea ridicola che lo stanno facendo apposta mi si pianta nella testa.

“Sai, sono contento che tu sia venuto,” Reiner mi getta un braccio attorno il collo. “Ci hai lasciato senza dire nulla. Che fine avevi fatto?”

“Si è fatto altri amici,” risponde Marco al posto mio, sorridendo, e il mio cuore sprofonda all’istante. “Ormai passa un bel po’ di tempo con Eren.”

Mi chiedo come diavolo lo sappia, ma poi ricordo di quando ho dovuto trascinare a casa il culo ubriaco di Eren. Marco mi aveva chiamato dicendomi che Eren mi aveva definito un suo amico. Pensò che sarei stata l’unica persona che Eren avrebbe ascoltato. E anche se non aveva torto, credecvo che ormai se ne fosse dimenticato.

“Eren,” ripete Reiner, improvvisamente rigido, e sono più che consapevole di essere incazzato all’istante. “Jaeger?”

“E allora?” Chiedo, cercando di attenuare la situazione, ma sembra solo farlo incazzare di più.

“È un fottuto stronzo!”

“Non parlare di lui in quel modo,” ringhio. “Che diavolo ne sai di lui?”

“Perché t’importa? Non ho bisogno di conoscerlo per sapere che non è altro che un fottuto perdente!”

“Fottiti, Reiner,” ringhio. “Pensi che lo odierò solo perché lo odi tu? Dammi tregua.”

“Non si tratta di questo,” sibila Reiner. “Si tratta di lealtà!”

“Lealtà?” Sbuffo e continuo prima di potermi fermare. “Dove cazzo era la tua cosiddetta ‘lealtà’ quando Bertholdt aveva bisogno di te?”

Ho a malapena il tempo di reagire prima che Reiner mi colpisca. Marco riesce ad afferrarmi per un braccio e mi trascina via prima che il pugno di Reiner possa connettersi con la mia faccia. Lo guardo sconvolto, l’adrenalina mi scorre nelle vene e inciampo all’indietro. Avevo lasciato cadere la mia bottiglia d’acqua a terra, bagnando l’intero pavimento.

“Santo cielo,” impreca Marco dietro di me. Deglutisco e cerco di smettere di tremare dalla rabbia.

“Ma che cazzo?”

“Stai zitto, okay?” Ringhia Reiner, ancora chiaramente incazzato, e sbatte la birra sul bancone. “Non... non nominarlo, cazzo.”

“Perché?” Insisto. “Perché ho ragione?”

“Basta,” interviene Marco, stringendomi il braccio. “Lascia perdere, Levi.”

Non dico niente e lascio che Marco mi riconduca davanti alla casa. Siamo vicini alla porta e guardo mentre cammina avanti e indietro davanti a me.

“Sai che Bertholdt è un argomento delicato.”

“Quindi?” Chiedo, incrociando le braccia. “È solo colpa sua. Non è un mio problema.”

“Hai ragione, non lo è,” dice Marco attentamente. “Solo... non lo so, non credo che dovresti parlarne. Si sente peggio di tutti noi.”

“Ha un modo orribile di dimostrarlo,” mormoro. Marco sospira e si appoggia alla parete.

“Levi.”

“Sai cosa?” Dico, alzandomi dritto. “Fanculo. Non me ne frega più niente di tutto questo.”

“Cosa?”

“Sono stufo,” sibilo. “Sono stufo delle feste, sono stufo di Reiner che si comporta come un fottuto stronzo e, soprattutto, sono stanco di fingere.”

“Lo so, ma-”

“Eren è mio amico. L’hai detto tu stesso, vero? Non starò lì ad ascoltarlo parlare di lui in quel modo. Non è giusto.”

“Sicuro che sia solo questo?” Mormora Marco. “Eren è solo tuo amico?”

Deglutisco.

“Non sono affari tuoi.”

Marco restringe gli occhi.

“Levi-”

Non aspetto che finisca.

A disagio e incredibilmente seccato, mi giro e afferro la maniglia della porta. La porta si richiude rumorosamente alle mie spalle e ci appoggio la schiena. Passando una mano traballante tra i capelli, prendo il telefono dalla tasca e lo tengo stretto tra le mani. Il mio dito esita sul pulsante Home. Alla fine, però, non lo sblocco e lo metto di nuovo in tasca. Vorrei poter tornare a casa, ma Marco non ha un passaggio per tornare indietro. Non sono così tanto stronzo da lasciarlo qui.

Scendo le scale e vado nel retro della casa. Ci sono alcuni ragazzi, ma li ignoro e cammino verso il patio. Dopo aver rimosso la neve da uno dei gradini, mi siedo pesantemente e incrocio le braccia.

Mi lascio cadere sulla schiena. I miei occhi rimangono incollati sul cielo. È un’altra notte buia, il tipo di oscurità in cui tutto sembra buio pesto, ma sembrano esserci un milione di stelle nel cielo. Non ho mai visto niente del genere.

Beh, non proprio. Probabilmente ho visto qualcosa di simile molte, molte volte prima. Ma oggi è probabilmente il primo giorno in cui ho davvero voglia di ammirarlo. Appoggio le mani sullo stomaco e continuo a fissare il cielo.
 
All’improvviso, non riesco più a sentire gli stupidi ragazzi nel cortile o la musica ad alto volume dall’interno. Anche il vento è silenzioso ora. Ci siamo solo io e il vasto mare di stelle.
 
 

[1] Barney and Friends: programma televisivo per bambini andato in onda negli Stati Uniti dal 1992 al 2010.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Go Ahead and Cry, Little boy 
Capitolo 23
 
Eren

22:23, camera mia.

Sono seduto alla mia scrivania a fare i compiti. Beh, non proprio. Sto solo dando l’impressione di farlo. In realtà, fisso i fogli bianchi davanti a me e mi chiedo quanto tempo impiegheranno a scomparire.

Mia madre poco fa è entrata dicendo che lei e papà uscivano a cena. Mi avevano invitato ad andare con loro, ma ho rifiutato. Non ero dell’umore di fingere di essere una famiglia felice.

Bussano alla porta e mi muovo per prendere la matita. Fingo di leggere il libro di matematica mentre la porta si apre.

“Non ho fame, mamma.”

“Sono io, Eren.”

Mi irrigidisco e tengo la matita abbastanza stretta da farmi male alla mano. Non faccio attenzione ai segni di morso nel palmo mentre mi giro e guardo Jean.

“Pensavo fossi uscito con i miei genitori,” dico, deglutendo a fatica e fissando il terreno solo per non essere costretto a guardarlo in faccia.

“No,” dice Jean, sospirando. “Ho rifiutato.”

“Perché?”

“Volevo parlare.”

“Parlare?”

“Sì,” dice Jean, appoggiando la spalla contro lo stipite della porta. Rido e mi giro di nuovo.

“Sono occupato. Devo fare i compiti.”

“È venerdì. Hai tutto il fine settimana.”

“Sì, beh, voglio finirli adesso...”

“Non mi escludere, Eren.”

“Non ti sto escludendo. Sono occupato.”

Comincio a scarabocchiare furiosamente un mucchio di numeri senza senso sul foglio. La mia mano trema come una fottuta foglia e sento che la gola inizia a stringersi. Ignoro questa sensazione mentre scavo la punta della matita abbastanza forte da provocare piccoli buchi nella carta.

“Mi dispiace, Eren.”

“Va bene.”

“È per l’appuntamento, giusto?” Domanda Jean, entrando effettivamente in stanza, ma sono ancora concentrato sul far finta che non mancasse tanto così dal cadere a pezzi. “Pensavi che mi stessi dimenticando di Mikasa, vero?”

“Non dirmi cosa ho pensato.”

“Ma ho ragione, no?”

“Non fare il coglione.”

“Sto solo cercando di capirti.”

“Capirmi,” ripeto. “Perché diavolo dovresti farlo?”

“Perché ti voglio bene e ho paura.”

“Giusto,” rispondo con uno sbuffo, appoggiandomi alla sedia. Scricchiola e rabbrividisco al suono. “Perché ho diciassette anni e potrei fare qualcosa di cui mi pentirò.”

“Oh,” dice Jean, sembrando stupito, e rido amaramente. “Allora mi ascolti.”

“Non sono sordo. Semplicemente non mi interessa.”

“Sì, invece.”

“Vuoi giocare al terapeuta?” Sbotto, girandomi in modo da guardarlo. È in piedi dietro di me, le braccia incrociate sul petto, ma l’espressione sul suo volto non è arrabbiata. Il mio stomaco si attorciglia in abbastanza nodi da farmi male e stringo le mani in pugni.

Jean scuote lentamente la testa. “Non sto dicendo che lo sono. Sto solo dicendo che la tua maschera da duro non funziona con me.”

“Senti, se sei venuto qui solo per farmi la ramanzina, allora è meglio se-”

“Non era un appuntamento.”

“Non mi interessa-”

“Stavo andando a bere qualcosa con Mina. Stavamo per uscire. Ma non ci sono andato. Non sono andato perché ti ho visto sconvolto; volevo essere sicuro che non avresti fatto qualcosa di irrazionale e ti fossi fatto del male.”

Prende un respiro traballante e si passa una mano tra i capelli.

“Ho visto molte cose facendo il poliziotto, Eren. Magari pensi che me ne vada in giro a dare multe o interrompere feste, ma ho visto parecchie situazioni tragiche. Ho visto ragazzini della tua età finire in centri di recupero solo perché credevano di dover dimostrare qualcosa.”  

Si avvicina a me e si accovaccia in modo da guardarmi dritto negli occhi.

“Ricordi il mio collega? Luke?”

Alzo le spalle. Certo che lo ricordo. Dato che c’era un enorme divario di età tra Mikasa e me, ero giovane quando l’ho incontrato. Mikasa e Jean avevano ventitré anni e io ne avevo solo dieci. Luke mi aveva portato a fare un giro nella volante della polizia e mi aveva lasciato indossare il suo cappello. L’aveva fatto anche Jean prima di allora, quando aveva appena iniziato a lavorare alla stazione, ma andarci con Luke era stato più divertente. Forse perché Mikasa e Jean avevano appena iniziato a frequentarsi e non lo approvavo completamente. Luke era diverso solo perché non era Jean.

“Sì.”

Jean annuisce e si siede a terra.

“Aveva un fratello della tua stessa età. Quel ragazzino era una peste.”

“Davvero?” Chiedo, cercando di sembrare disinteressato. Non lo sono, però. Voglio solo vedere dove vuole andare a parare.

“Oh sì,” dice Jean, scuotendo la testa. “Luke aveva sempre delle storie da raccontare su di lui. Giù alla stazione, non vedevamo l’ora che arrivasse il lunedì perché sapevamo che Luke sarebbe arrivato con una storia divertente che ci avrebbe rallegrato la settimana.”

“E allora? Ha cominciato a fare uso di droghe? Ha iniziato ad andare a letto con chiunque?”

“No,” dice Jean, facendo una pausa. “È stato ucciso.”

“Cosa?” Sento la gola stretta. “Cos’è successo?”

“È entrato nella compagnia sbagliata,” dice Jean. “So che probabilmente sei stufo delle persone che ti raccomandano di prestare attenzione a chi sono i tuoi amici, ma è vero. Stavano scherzando con una pistola che aveva un suo amico. Uno dei ragazzi non pensava fosse carica e la puntò al fratello di Luke. Gli sparò in testa. Morì all’istante.”

Jean mi guarda di nuovo e questa volta non distolgo lo sguardo.

“Sai perché era amico di quei ragazzi? Perché voleva apparire figo. Pensava che sarebbe stato figo se avesse fumato erba e scopato alcune ragazze. Ma ascoltami bene, Eren. Quello schifo non vale niente. Non importa niente di quella merda. Non vale la pena ucciderti solo perché...”

“Non sto cercando di sembrare figo,” dico, interrompendolo.

“Perché sgattaioli fuori e vai a feste, allora? Cosa stai cercando di fare?”

“Per passare il tempo,” rispondo prima di pensarci. Probabilmente non ero così onesto con Jean da un bel po’ di tempo, ma la verità è che mi sto stancando di sentirmi sempre come se la vita non fosse altro che tristezza e sventura. “Sto solo cercando di stare bene con me stesso.”

“Stare bene,” risponde Jean. Stringe gli occhi e sospira. “Santo cielo, Eren.”

“Cosa?”

“Sei troppo giovane,” dice. “Sei troppo giovane per essere così ferito.”

Alzo le spalle. “La vita fa schifo.”

“Solo perché glielo permetti.”

Stringo gli occhi.

“In che senso?”

“L’unica cosa che si frappone tra te e la felicità sei tu, Eren,” dice Jean. Le parole mi fanno sussultare, ma non ne capisco appieno il motivo. Forse dovrei davvero ascoltarlo, non solo perché me lo sta dicendo lui. “Perché ti tieni tutto dentro?”

Abbasso lo sguardo e fisso il terreno. Non so come rispondergli. Non so cosa dovrei dire, cosa vuole che dica o cosa voglio dire. Vorrei che questa conversazione finisse, ma Jean sembra terribilmente a suo agio a stare qui finché non realizzo i miei errori.

“Non lo faccio.”

“Mentire a te stesso non cambierà nulla,” continua. La sua voce sta diventando più soda, più forte, più intensa e mi chiedo da dove diavolo provenga questa determinazione. “Puoi vivere nella negazione se vuoi, ma resta il fatto che la vita ti fa schifo perché credi che faccia schifo.”

“Bene,” dico, incrociando le braccia sul petto. Ormai mi sono messo sulla difensiva, ma non me ne frega nulla se Jean lo ha capito. “Quindi sono il mio peggior nemico. Come pensi possa rendermi felice?”

Jean esita per un momento prima di sospirare.

“Cresci.”

“Cresci?”

“Sì, cresci,” la voce di Jean diventa tesa e io digrigno i denti abbastanza forte da farmi male alla mascella. “Cresci, Eren!”

Sussulto, non mi aspettavo avrebbe alzato la voce. All’improvviso ricordo di quando mi aveva riportato a casa la sera in cui mi ero imbattuto in Levi. In quel momento, avrei voluto mi urlasse contro. Avrei voluto mi dicesse che ero infantile. Volevo mi dicesse di smetterla di essere sempre triste e fare qualcosa. Volevo mi dicesse che dovevo cambiare, altrimenti a nessuno sarebbe più importato di me.

Volevo mi dicesse ciò che non volevo sentire. Volevo mi dicesse cose che già sapevo, ma mi rifiutavo di comprendere a pieno. E forse lo aveva fatto, in un certo senso, ma avrei voluto insistesse. Volevo insistesse fino a quando non mi sarei deciso a cambiare. Volevo mi facesse così tanto incazzare che avrei fatto qualunque cosa per toglierlo di mezzo.

Volevo mi facesse cambiare. Ma non ci era riuscito. Nulla fu sufficiente per farmi cambiare. Poteva sedersi lì e maledirmi in ogni modo, ma lo avrei guardato negli occhi e riso. Avrebbe potuto strapparsi i capelli e non me ne sarebbe importato. E, a dire il vero, l’ha fatto. È più sotto stress rispetto ai miei genitori per quanto riguarda me. I miei genitori si sono arresi, ma lui non l’ha fatto.

E lo odio. Voglio che torni alla sua stessa vita. Voglio che smetta di preoccuparsi per me perché sto bene, mia sorella è morta ma sto bene, e tutto è fottutamente meraviglioso. Ma non lo è, e non sono abbastanza stupido da pensare che lo sia. E se c’è qualcosa di vero in ciò che Armin mi aveva detto quando sono andato a casa sua, è che Jean non ha intenzione di andare da nessuna parte.

Una parte di me vuole che si arrenda. Vuole che getti la spugna. I miei genitori l’hanno fatto. Historia l’ha fatto. E loro erano le persone di cui più mi fidavo. I miei genitori erano, beh, i miei genitori. E Historia? Era praticamente mia sorella. Mikasa e io avevamo un bel rapporto, ma la differenza d’età è sempre stata una specie di barriera tra noi. Tredici anni sono tanti. Non importava in quale ambito, sarebbe sempre stata dieci passi avanti a me. Non potevo rivolgermi a lei e lei non poteva rivolgersi a me. Ma Historia?

Cavolo, eravamo in sincronia.

Ma il mio egoismo l’ha mandata via. E mentre Armin può dire quante volte vuole che il dolore sia egoista, in realtà io sto solo facendo lo stronzo con tutti. So che è solo una questione di tempo prima che Jean lo realizzi… prima che Levi lo realizzi, e sono pronto ad affrontare la cosa. Sono pronto ad affrontare il giorno in cui tutti si arrenderanno.

Questa è la ragione per cui probabilmente evito anche il professor Smith. Non riesco a sopportare l’idea che qualcuno mi voglia aiutare con tutto il proprio cuore. Sono così concentrato a trovare la parte negativa della vita che non potrebbe fregarmene di meno della parte positiva. Ma non so come fermarmi. Non so come andare avanti, come crescere, come essere felice.

E mi sta uccidendo.

“Eren?” La voce di Jean è soffusa ora, come se stesse cercando di capire cosa mi sta passando per la testa, ma non voglio che lo faccia. Voglio tenermi questa strana sensazione che mi stringe il petto. Voglio continuare a sentirmi come se stessi per affogare in un oceano infinito. Voglio continuare a credere di potermene andare in un posto dove nessuno può trovarmi.

Perché, a essere onesto, il dolore è la sola cosa che mi fa andare avanti. Il dolore mi ricorda di essere vivo, anche quando mia sorella non lo è. Il dolore mi ricorda di sentirmi una merda quando mando via chiunque cerca di aiutarmi. Il dolore mi ricorda di essere umano.

“Non posso,” sussurro.

Mi alzo con gambe tremanti e raggiungo la porta. Jean mi segue.

“Eren!” Dice afferrandomi il braccio. “Non andare, okay? Non scappare di nuovo. Parliamone, va bene? Possiamo parlare per una volta?”

Mi libero della sua presa e corro fuori casa. Non mi preoccupo nemmeno di mettere le scarpe. Il vento colpisce ogni parte di pelle esposta, ma non mi fermo. Non mi importa nemmeno di essere in pantaloni della tuta e maglietta mentre continuo a correre e correre e correre.

Non sento nulla, se non il tonfo dei piedi contro l’asfalto e il fischio del vento nelle mie orecchie. Non sento altro che dolore e percepisco il mio corpo urlare in protesta, ma non mi fermo.

Perché in questo momento, sento qualcosa.
 
 
***

Non è qualcosa di cui mi interesso abitualmente. Quando sono steso nel letto guardo le stelle tutto il tempo, ma non perché mi importi. Solo perché fissare quattro mura di cemento mi fanno sentire come se mi stessero soffocando. Non c’è nulla di soffocante nel cielo, però. Probabilmente è per questo che le persone ne parlano. Che il cielo è infinito e cavolate varie. Nessuno sa dove comincia e dove finisce e immagino che alle persone piaccia. Come le frasi motivazionali sulle possibilità illimitate, o qualcosa del genere.

Mi distendo sul pavimento del treno e appoggio le mani sullo stomaco. Non riesco nemmeno a sentire il freddo, ormai. Il mio corpo è diventato insensibile e probabilmente mi prenderò un raffreddore. Non mi interessa, però. Non mi importa di nulla ormai.

Non penso a Jean perché altrimenti mi sentirei in colpa. Preferisco stare qui e fare finta di non aver fatto nulla di male. Lo faccio sempre. Mentire a me stesso, intendo. Tutto lo sanno. Diavolo, non avevo detto una cosa simile a Jean prima?

Il mio corpo si irrigidisce quando sento la ghiaia scricchiolare. Il suono si intensifica, ma lo ignoro in favore di continuare a guardare il cielo. Sento un rumore metallico e poi un corpo caldo accanto al mio.

“Ti ha chiamato Jean, vero?”

“È una persona dalle mille risorse.”

Sbuffo. “È un poliziotto.”

“Ah, giusto.”

Giro la testa verso di lui. Levi mi guarda con espressione illeggibile.

“Sei un idiota.”

Ruoto gli occhi. “Ne sono consapevole, grazie.”

Sospira e alza anche lui il viso verso il cielo. Faccio lo stesso e ignoro come si tolga la giacca per mettermela sulle spalle. La indosso senza dire una parola e mi distendo.

“Sono le due del mattino.”

“Così tardi, eh?” Mormoro a me stesso. “Scusa. Jean ti ha probabilmente svegliato.”

“Ha detto che te n’eri andato.”

“E ti ha chiesto di venirmi a cercare?”

“No, mi sono offerto volontario.”

Lo guardo velocemente.

“Perché?”

“Ero preoccupato,” risponde Levi. Deglutisco.

“Non esserlo. Non è nulla di nuovo. È una strategia di difesa. Scappare, intendo.”

“Jean non la pensa allo stesso modo.”

“Già, beh, Jean pensa…” mi interrompo, non riuscendo a continuare.

“È spaventato a morte. Non l’hai sentito quando mi ha chiamato, Eren. Aveva davvero paura che avresti finito per farti del male.”

“Non mi sono mai fatto male prima.”

“Non è vero,” dice dolcemente Levi e capisco immediatamente stia parlando di Nick. Ovviamente non sa che è stato Nick a causarmi quei lividi, ma non gli serve saperlo. Li ha visti e sa che ho lasciato che qualcuno me li facesse.

“Te l’ho già spiegato,” dico stancamente, mettendo le mani dietro la testa. “Quello lo controllo io. Non è che un ragazzo ha voglia di fare il duro e io subisco come una puttana.”

Fa una smorfia alla mia scelta di parole, ma non potrebbe importarmene di meno.

“Questo lo so, cavolo,” risponde Levi, sembrando frustrato, e mi mordo l’interno della guancia.

“Come sapevi che ero qui?”

“Non lo sapevo. Ero nei paraggi quando Jean mi ha chiamato. Sono venuto qua d’istinto.”

“Hai chiamato Jean?”

“L’ho informato di averti trovato.”

“Sta per arrivare?”

“Gli ho detto di non farlo.”

“Perché no?”

“Perché sapevo che non avresti voluto vederlo,” dice Levi, fermandosi per guardarmi. “Sapevo avresti avuto bisogno di spazio.”

“Quanto tempo fa?”

“Non lo so. Ti ho ammirato per un po’ prima di raggiungerti.”

Fischio. “Cavolo, inquietante.”

Scrolla le spalle e si gira di lato.

“Cos’è successo?”

Mi irrigidisco e mi rifiuto di incontrare i suoi occhi.

“Non devi dirmelo. Non voglio obbligarti.”

“Lo so,” dico, strofinandomi le mani per generare calore. “Ma ti devo una spiegazione, immagino. Per averti svegliato così presto. O tardi. Dipende dai punti di vista.”

“Non mi devi nulla, Eren.”

Lo ignoro e mi giro anche io su un fianco per guardarlo in viso. I nostri occhi si incrociano e nessuno dei due dice nulla per un po’.

“Sono scappato. Il giorno che abbiamo marinato, intendo.”

“Perché?”

“Pensavo Jean avesse un appuntamento,” rispondo, e solo quando le parole escono dalla mia bocca capisco quanto infantile io sia stato. Levi non commenta, però, e gliene sono grato. “Quindi me ne sono semplicemente andato.”

“Per via di tua sorella, vero?” Chiede in tono tranquillo. Annuisco, non fidandomi di poter dire ‘sì’.

“I miei genitori si sono sbarazzati di tutto ciò che possedeva,” mormoro. “È stata molto dura per loro, ma mi ha sempre infastidito; come se volessero cancellare ogni traccia della sua esistenza.”

“E hai pensato che Jean stesse facendo lo stesso.”

“Sembra stupido adesso, ma sì,” rispondo, leccandomi le labbra secche. “Io, uh, sono andato a casa di un amico. Beh, non un amico. Lui e mia sorella erano amici.”

“Cos’è successo lì?”

“Mi ha detto che Jean stava solo cercando di proteggermi,” lo informo, giocherellando con una stringa della giacca di Levi. “Che Jean la vedeva come una sua responsabilità, dato che i miei genitori ci avevano rinunciato. Ha sempre provato ad aiutarmi ad andare avanti, ma…”

“Non vuoi andare avanti?” Indovina Levi. Annuisco di nuovo.

“Qualcosa del genere. Mi sento in colpa da allora. Ma Jean oggi voleva che ne parlassimo. Ho detto un sacco di cazzate e lui mi ha detto fosse ora io crescessi.”

Levi non dice nulla e continuo a parlare.

“Ha detto che io permetto alla mia vita di fare schifo e che sto ostacolando la mia stessa felicità.”

“Pensi abbia ragione?”

“Certo che ha ragione,” sbotto. “Ma non voglio ammetterlo.”

Mi metto seduto e mi passo le dita tra i capelli. Porto le ginocchia al petto e ci appoggio una guancia.

“Mi piace il dolore. Mi dà qualcosa a cui aggrapparmi. Senza dolore, mi sento un fottuto zombie. Ma a volte diventa troppo ed è allora che scappo, bevo e scopo.”

“Ricordi quello che ti ho detto? Riguardo il dipinto perfetto della nostra vita e del perché è una menzogna?”

“Certo,” rispondo. “Come potrei dimenticare? È stato uno dei tuoi momenti più filosofici.”

Levi sbuffa e si mette seduto accanto a me, le gambe dondolano dal bordo del treno.

“Jean ha fatto proprio questo. Ti ha mostrato che il dipinto non era perfetto.”

“Già,” sussurro. “L’ha fatto, e fa schifo.”

“Quindi cosa vuoi fare?”

“Non lo so,” mormoro. “Cosa dovrei fare?”

Levi resta in silenzio per un po’. Fissa il pavimento, agitando le gambe, e non mi guarda. Poi, quando penso che ormai non mi risponderà, parla.

“Renditi felice.”

“Io sono felice.”

“No, sei solo un bravo bugiardo.”

“Beh, e tu?” 

“Non stiamo parlando di me,” risponde Levi, socchiudendo gli occhi. “Stiamo parlando di te. Smettila di riflettere la situazione.”

“Non sto riflettendo la situazione. Non capisco perché mi stai facendo la paternale quando nemmeno tu sei felice.”

Levi brontola e si passa la mano tra i capelli. Tira indietro la testa e io osservo il suo profilo, cercando di capire cosa sta per dire.

“Non è così facile,” mormora.

“Lo so,” dico. “So che non è facile. Ma io… non lo so, va bene? Non so perché non voglio provare. Forse perché ho paura.”

“Tua sorella vorrebbe tu fossi felice,” continua, corrugando la fronte. “So che è un cliché, ma è probabilmente quello che vorrebbe per te. Tutti quelli che ti conoscono vorrebbero che tu avessi la miglior vita possibile.”

“Lo pensi davvero?”

Levi solleva le spalle. “Certo. Non è quello che Jean sta facendo per te?”

“E tu, invece?” Chiedo. “Chi vuole che tu sia felice?”

Levi non dice nulla e capisco sia questa la sua risposta. Gli afferro la mano e intreccio le nostre dita insieme.

“Ci proverò,” dico, il petto fa male mentre lo dico, e Levi mi stringe ancora la mano. “A essere felice, intendo. Ci voglio davvero provare.”

“Sono contento.”

“Ma dovrai farlo anche tu.”

“Eren…”

“Voglio che tu sia felice,” sussurro. “Pensi che nessuno vorrebbe vederti felice, giusto? Beh, ti sbagli. Io sì.”

Corruga ancora le sopracciglia e poi sospira lentamente.

“Cavolo,” mormora. Gli sorrido e lui mi attira a sé.

“Vivi impavido,” gli ricordo. Lui sbuffa sonoramente.

“Solo se farai lo stesso,” replica.

Annuisco.

“Certo.”

“Prometti?”

Appoggio la fronte contro la sua e ignoro come lui stringa le dita al mio corpo da sotto la giacca.

“Promesso.”
 
 
***

09:29, quella fottuta casa.

Esito davanti alla porta e sto recitando nella mia mente quello che potrei dire. Tutto suona insulso, ma prima che io possa avere un’idea chiara, la porta si apre e mi ritrovo faccia a faccia con Mina.

Mi sorride e una parte di me si chiede come ne sia capace. Mi sono sempre comportato da stronzo con lei. Se fossi stata lei, avrei sbattuto la porta. Ma immagino sia la differenza tra Mina e me. È una brava persona e io davvero non lo sono.

“Buongiorno, Eren,” dice. “Che tempo pazzo stiamo avendo, eh?”

Alzo lo sguardo sui fiocchi di neve che cadono. Si appoggiano ai capelli, al giubbotto e al portico di Mina.

“Penso che dobbiamo parlare,” dico in risposta.

Mina non sembra sorpresa. Mi lascia entrare e mi toglie il cappotto per poterlo appendere nell’attaccapanni. Indugio goffamente sulla soglia prima che Mina mi faccia segno di entrare in soggiorno.

“Posso portarti qualcosa da bere? Caffè? Thè?”

“No, grazie,” dico.

Mina annuisce e appoggia la sua tazza di caffè sul tavolo. Mi siedo rigidamente sul divano e guardo a terra, mordicchiandomi il labbro. Mina si siede di fronte a me e mi guarda.

“Cosa ti porta qui oggi, Eren?”

“Volevo scusarmi,” dico, sollevando gli occhi per incontrare i suoi. “Sono stato uno stronzo con te dalla prima volta che ci siamo incontrati. E non ti ho mai nemmeno ringraziato per aver parlato con Bertholdt.”

Mina agita la mano in modo sprezzante.

“Non ti preoccupare. So che Jean ti ha preso in contropiede quel giorno. Semmai, sono io a dovermi scusare per essere stata così invadente. Non era mia intenzione metterti a disagio. Ed è un piacere per me aiutare Bertholdt. Sei davvero un buon amico, Eren.”

“Grazie. In realtà,” comincio, grattandomi la nuca. “Questa non è l’unica ragione per cui sono qui.”

Mina mi guarda. “Bene, allora perché?”

“Jean ha detto che volevi ancora aiutarmi,” dico. “E mi chiedevo se quell’offerta è ancora valida.”

“Certo che sì, Eren,” risponde Mina, la sua espressione si addolcisce. “Ma, se posso chiedere, cosa è cambiato?”

Mi agito sul sedile, a disagio, e gli occhi di Mina si spalancano leggermente.

“Oh, mi dispiace!” Dice in fretta. “Non intendevo in senso negativo! Io-”

“Sono stufo,” sussurro. “Sono stufo di scappare. Sono stufo di mentire. Sono stufo di essere spaventato.”

Mina prende la sua tazza.

“Perché non andiamo di sopra?” 

Annuisco e la seguo nel suo ufficio. Non è molto diverso dalla configurazione del suo salotto, tranne per il fatto che c’è una scrivania con un computer. Mi ricorda la prima volta che ho visitato il dottor Trook. Ero riluttante ad andare, ma volevo le cose cambiassero. Certo, era prima che le cose andassero ancora peggio, ma avevo provato a fare quel passo avanti. Avevo il desiderio di migliorare, di smettere di aggrapparmi a cose che non potevo controllare, impedendomi di essere felice.

Mina si siede sulla sedia di fronte alla mia e incrocia le gambe. Non ci sono quaderni, penne e scarabocchi rapidi. Alzo un sopracciglio.

“Non prendi appunti?”

“Non ti sto analizzando, Eren,” spiega. “Immagina che siamo due amici che conversano.”

Premo la schiena contro il divano.

“Jean non sa che sono qui.”

“Non ha bisogno di saperlo.”

Mi acciglio. “Non ho portato soldi. Non posso pagarti.”

Mina scuote la testa.

“Non ti sto aiutando perché è il mio lavoro. Ti sto aiutando perché tengo a te.”

“Non mi conosci nemmeno.”

“Hai ragione,” conferma Mina. “Non ti conosco. Ma Jean è un mio caro amico. Lo è sempre stato. E mi importa di chiunque si preoccupi lui. Se vuole aiutarti, allora voglio aiutarti anche io.”

Deglutisco.

“Sai come ho incontrato Jean?” Chiede Mina. Scuoto la testa.

“No. Non me l’ha mai detto.”

Mina annuisce.

“Immaginavo non l’avrebbe fatto,” ammette, bevendo un sorso lento del suo caffè. “Eravamo in terapia di gruppo insieme. Tutti nel gruppo avevano perso il coniuge.”

Il mio stomaco si stringe e all’improvviso mi sento di merda.

“Non lo sapevo,” dico rapidamente. “Merda, non ne avevo idea.”

“Tranquillo,” dice Mina, sorridendo, ma è più tesa di prima. “Non è qualcosa che si sbandiera ai quattro venti. Sapevo cosa stava passando. Ho amato mio marito proprio come Jean ha amato tua sorella. Ci siamo uniti a causa dell’amore che provavamo per i nostri sposi, proprio come hanno fatto tutti gli altri membri del gruppo. Nessuno nella mia famiglia ha capito. I miei fratelli non erano sposati e i miei genitori non hanno mai parlato dopo il divorzio. Ma Jean sapeva esattamente cosa intendevo quando ho detto che era il tipo di perdita che qualcuno non avrebbe mai potuto superare.”

“Mi dispiace,” dico all’istante. Mina agita di nuovo una mano sprezzante.

“In realtà sono una consulente matrimoniale,” dice Mina. “Ma quando eravamo in terapia, Jean ti ha menzionato. Ha detto che eri quello che se la stava passando peggio. Ha detto che eri in terapia, ma che i tuoi genitori stavano pensando di non mandartici più. Ha detto che tra poco non ti sarebbe più importato di nulla. Gli ho detto di chiamarmi se mai avessi avuto bisogno di qualcuno con cui parlare. Ho aspettato due anni per quella chiamata.”

Annuisco lentamente. “Mio padre pensava che stesse sprecando soldi, quindi ha smesso di pagare. Tanto avevo già cominciato a saltare gli incontri.”

Mina sorride dolcemente.

“So che è difficile,” dice. “Mio marito è morto cinque anni fa. Mi ci sono voluti tre anni per rendermi conto che avevo bisogno di aiuto. Ecco perché non volevo insistere. Sapevo che nessuno poteva costringerti a chiedere aiuto. Dovevi volerlo.”

Deglutisco.

“Sapevo di averne bisogno,” dico. “Ma ero così abituato a farmi del male che pensavo non sarei più stato lo stesso se non avessi sofferto.”
 
Mina scuote la testa tristemente.
 
“Non è un modo salutare di vivere, Eren,” dice. “Il dolore è una parte naturale della vita, sì, ma non dovrebbe controllarla.”
 
“Non volevo essere così incasinato,” dico. “Ma improvvisamente tutto ciò che contava per me era la birra e il sesso. Mi offrono una distrazione.”
 
“È comprensibile,” dice Mina. “Non sto dicendo che sono sani, ma sono strategie di difesa.”
 
“Strategie di difesa...” ripeto con uno sbuffo. “La uso come scusa, sai. La difesa, intendo. Faccio tutte queste cose solo per fingere di essere vivo.”
 
“Questo non ti rende una brutta persona,” dice. “Ti rende solo una persona. Sei qualcuno che sta soffrendo e stai facendo tutto ciò che sai fare. Nessuno può biasimarti per questo.”
 
Strattono una delle corde della mia felpa.
 
“Avevo un’amica,” mormoro. “Historia. Eravamo molto uniti. Lei... uhm, non le piaceva come andavano le cose. Ho iniziato a bere e fare sesso prima che mia sorella morisse. All’inizio non era una strategia di difesa. Stavo solo cercando di adattarmi e sentirmi parte di qualcosa. Ero al primo anno di superiori. Stavo ancora cercando di capire chi volessi essere al liceo. Lei non era esattamente d’accordo con le mie scelte.”
 
“Cos’è successo?” Chiede Mina e io respiro lentamente. Non l’ho mai detto a nessuno. Non nel dettaglio, almeno.
 
“È stato davvero brutto,” dico, tirando più forte la corda della mia felpa. “Un ragazzo della nostra scuola ci ha invitato a questa festa. Tutti erano ubriachi, compreso me, ma Historia non aveva bevuto. Diceva di avere una brutta sensazione. Continuavo a dirle di alleggerirsi, ma lei non ne voleva sapere. Mi ha dato dell’idiota.”
 
Mi fermo, facendo un respiro traballante, ma Mina non dice nulla. Rido amaramente e scuoto la testa.
 
“Ha detto di smettere di comportarmi come un cazzone perché volevo sembrare figo. Continuava a parlare di quanto fosse patetico il fatto che stavo cercando di essere qualcosa che non ero. Lei... è sempre stata in case affidatarie che cambiava troppo spesso. Alla fine, venne adottata dalla sua attuale famiglia. E ho usato questa parte della sua vita contro di lei. Le ho detto che non me ne fregava niente di lei. I suoi genitori biologici cambiarono il suo nome prima di essere messa nel sistema, ma una volta adottata riprese il suo nome di nascita. Le ho detto che tornare a chiamarsi Historia non avrebbe cancellato Krista, che nessuno la voleva e che è stata solo fortunata. Mi sono sentito una merda subito dopo, ma a quel punto non aveva importanza. Il danno era già stato fatto. Lei non ha detto una parola. Se n’è andata senza nemmeno guardarmi.”
 
“E come hai reagito?”
 
“Volevo andarmene anche io,” sussurro. “Ho chiamato mia sorella per venire a prendermi. Quella... quella era la notte in cui Mikasa...”
 
“Oh, Eren,” dice Mina dolcemente. Mi sfrego le mani.
 
“Mi dispiace. Possiamo fermarci?” Sussurro. Il mio petto si sente stretto, ma è il tipo insopportabile di tensione che mi fa sentire come se fossi a pochi secondi dallo svenimento. Mina annuisce rapidamente.
 
“Sei stato davvero bravo,” dice Mina onestamente. “Non sforzarti.”
 
“Okay,” rispondo, la mia voce suona ruvida e ci vogliono alcuni secondi per rendermi conto che i miei occhi sono lucidi di lacrime. Alcune mi rigavano già le guance. “Merda, scusa…”
 
“Non scusarti,” dice Mina. “Non scusarti mai per essere stato ferito.”
 
Deglutisco amaramente.
 
“Grazie,” dico, e Mina sorride dolcemente.
 
“No, Eren,” sussurra. “Grazie a te.”

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Go Ahead and Cry Little Boy
 
Capitolo 24





 
Levi

Mentre dondolo sui talloni, mi prendo un momento per pensare a come riesco sempre a cacciarmi in situazioni che preferirei evitare. Una voce maligna in fondo alla testa mi ricorda che l’unico motivo per cui sono qui è che non sono riuscito a tenere la bocca chiusa.

Inspirando profondamente, lascio che i miei occhi si fissino su quelli di Marco Bodt. Ha lo stesso aspetto di sempre. L’unica differenza evidente è la quantità di felicità nei suoi occhi. Costringo gli occhi a terra, incapace di continuare a guardarlo. La sua espressione mi ricorda chiaramente che sì, ho fatto una gran cazzata.

“Ehi,” dico, e non appena la parola lascia le mie labbra, vorrei aver pensato a qualcosa di meno stupido.

“Ciao,” dice Marco in modo brusco. Si stropiccia le sopracciglia. “Vuoi sapere del progetto di scienze? L’ho finito e mandato via e-mail alla signora Zoe, quindi...”

“Sai perché sono qui, Marco,” dico, abbastanza piano che persino io faccio fatica a sentirlo, e guardo come la dura facciata di Marco si sgretola.

“Non ho nulla da dirti.”

Non è un tipo vendicativo. Marco non lo sarebbe mai. È un bravo ragazzo, il migliore dei migliori, il sogno di una madre e l’incubo di un figlio ribelle. Nessuno ha mai parlato male di lui. Marco si assicura di fare la cosa giusta, di seguire un percorso che lo porti al successo, a un’immagine pubblica positiva e tutte le altre cose che non mi prendo la briga di pensare. In breve, è quanto di più vicino all’impeccabilità di una persona della nostra età possa esistere.

Credo sia per questo che mi sento una merda. Avevo intenzione di fargliela pagare alla festa di Franz? No, certo che no. Ma c’era stato qualcosa di incredibilmente liberatorio. Forse mi sono comportato da grande idiota, ma dire la verità dopo tanto tempo mi aveva liberato da alcune pesanti catene che mi opprimevano.

“Marco,” lo chiamo. La mia voce ha un tono disperato che ignoro. Il groppo in gola minaccia di soffocarmi. Le mani iniziano a tremare e le infilo nelle tasche, sperando che Marco non veda che sono a pochi secondi dal crollare. “Per favore.”

La sua espressione si addolcisce. Mi conficco le unghie nel palmo della mano, così forte da farmi male, e aspetto che dica qualcosa.

“Non qui,” mormora infine.

I miei occhi si spostano da lui al soggiorno. Il suo fratellino, con i capelli arruffati dal pisolino e l’orsacchiotto infilato sotto il braccio paffuto, mi fissa con curiosità. Sorride, anche se con le gengive, e io mi costringo a ricambiare il sorriso.

“Okay,” dico, contento di star facendo progressi, e faccio un passo indietro. “Andiamo.”

Il bar è rumoroso.

La gente entra ed esce in continuazione, la fila serpeggia intorno ai tavoli ed esce dalla porta, e tutto ciò che riesco a sentire sono ordini urlati di cappuccini e ciambelle glassate. Per un attimo mi chiedo se Marco abbia scelto questo posto solo per non dovermi ascoltare. Decido immediatamente che me lo merito, se è così.

“Allora?”

“Mi dispiace,” dico all’istante. Marco mi fissa in modo uniforme e io lo prendo come spunto per continuare a parlare. “Non volevo che venisse fuori in quel modo. So cosa sembrava, ma...”

“Ma non volevi dire sul serio?” Chiede. Scuoto la testa.

“Non proprio,” ammetto. “In parte sì, ma non... non volevo dire che ti odiavo o qualcosa del genere.”

“Non credo che dovresti scusarti con me.”

Lecco le labbra secche e concentro la mia attenzione su un cumulo di neve sul marciapiede.

“Non volevo...”

“So che Eren è tuo amico,” dice Marco lentamente. “Nessuno sta dicendo che non puoi essere suo amico o altro. Ma non lo è anche Reiner?”

“Non si tratta di Reiner,” ammetto. “Non molto, comunque. Penso che sia un idiota, ma l’ho sopportato abbastanza da non preoccuparmi più di tanto.”

“Allora perché ti sei comportato così?”

Eccolo qui. Il momento che temevo mi sta guardando dritto in faccia. Afferro una cosa a caso sul tavolo. I portatovaglioli, il saliere e il pepiere, le bustine di dolcificante e tutto ciò che posso toccare viene sistemato e spostato senza pensare. Tengo gli occhi bassi e cerco di ripetere le parole come mi sono esercitato.

“È troppo faticoso,” sussurro. Marco stringe le labbra.

“Il football?” Tenta. Faccio spallucce e incrocio titubante il suo sguardo.

“Non in senso fisico,” dico, e le sue sopracciglia si aggrottano.
“In che senso, allora?”

“A livello emotivo. Mentale. Cose del genere,” rispondo. Scivolo un po’ sulla poltrona e mi schiaccio contro la sedia. “Sembra un po’ stupido se lo dico così.”

Marco non dice nulla. Mi passo le dita tra i capelli, tremando.

“Ci sono molte aspettative intorno a me, sai?” Inizio lentamente. Marco si mette a sedere dritto e seguo il movimento con gli occhi. “Sono sempre Levi Ackerman, il capitano dei Titans.”

“La gente ti ammira.”

“Ma non sono qualcosa di più?” Chiedo. La mia voce ha di nuovo quell’orribile vulnerabilità. “A cosa serve se è solo questo che mi definisce?” Mi sporgo in avanti. “Levi Ackerman...”

“Levi Ackerman è molto più che il capitano della squadra di football,” dice Marco con fermezza. Mi sorprende che ora stia rispondendo. “Dio, Levi, perché dovresti pensare diversamente?”

“È frustrante,” continuo. “Mantenere una facciata. Fingere di essere qualcosa che non sono.”

“Di che cosa stai parlando?”

“La gente dice che Levi Ackerman è perfetto,” dico con voce spenta, e Marco alza un sopracciglio. “È un ragazzo fantastico che tutti ammirano perché sta facendo tante cose belle.” Faccio una pausa, raccogliendo le forze, e lo guardo dritto negli occhi. “Non sono io, Marco. Non sono Levi Ackerman. Levi Ackerman è solo una bugia.”

“Di cosa stai parlando?” Marco chiede gentilmente. “Tu sei lui.”

“Non mi sembra,” dico, digrignando i denti. “Vivo due vite diverse, Marco. A scuola è facile essere lui. Devo mantenere un’apparenza. I capitani sono il collante che unisce la squadra. I capitani dovrebbero tenere insieme la squadra quando tutto il resto crolla.”

“E Levi, allora? Che cosa fa?”

“Scappa. Si nasconde. Mente. Finge che tutto vada bene perché ha paura che il suo teatrino crolli.”

“Le persone fanno cose diverse per proteggersi, sai.”

“Sì, lo so,” mormoro, pensando a Eren e a tutti i suoi meccanismi di difesa. “Non voglio essere Levi Ackerman. Ma... a essere sincero, ho troppa paura di essere semplicemente Levi.”

“Va bene, però,” sussurra Marco. “Essere solo Levi, intendo. Nessuno... nessuno ti odierebbe per questo.”

Non rispondo; non subito, perché la mia mente è confusa. Rilascio un sospiro sommesso e mi metto a sedere dritto, tamburellando con le dita contro la superficie fredda del tavolo.

“Non ti ho mai raccontato cosa mi ha detto Bertholdt, vero?” Comincio. “Il giorno in cui sono andato a parlargli. Subito dopo che ha lasciato la squadra.”

“No,” dice Marco, tirando un po’ per le lunghe la parola. “Hai solo detto che se ne andava.”

“Mi ha detto che il football non era una cosa di cui aveva bisogno,” dico, sentendo la voce di Bertholdt nella mia testa mentre parlo, e qualcosa di gelido e freddo mi stringe il cuore. “Disse che stava smettendo perché non lo faceva nemmeno per sé stesso. Giocava perché Reiner lo voleva, e ha finito per odiarlo perché era una cosa di cui non gli fregava un cazzo.”

“E tu cosa gli hai risposto?”

“All’inizio mi sono incazzato,” dico. “Gli ho detto che la squadra non era usa e getta. Una stronzata del genere. Volevo che mi dicesse che non avrebbe mollato. Mi sono detto che non capivo perché lo facesse per qualcun altro. Mi sono detto che mi ero unito alla squadra perché sapevo fosse il posto a cui appartenevo.”

“Allora qual è la verità?” Chiede Marco. Io rido amaramente.

“La verità è che il fatto che Bertholdt abbia mollato, mi ha ricordato che non avevo le palle per fare lo stesso. Non volevo buttare via l’unica cosa che sembrava soffocarmi solo perché mi dava qualcosa dietro cui nascondermi. Bertholdt... ha molto più coraggio di quanto ne avrò mai io. Ma non gliel’ho mai detto. Cazzo, non gli ho nemmeno parlato da allora. Mi ricorda solo chi dovrei essere, ma non ci riesco perché... perché ho paura.”

Le mie parole rimangono sospese nell’aria. Il cuore mi batte forte, i palmi delle mani umidi di sudore e, con riluttanza, incontro lo sguardo penetrante di Marco. La sua bocca è aperta per lo shock, i suoi occhi si spalancano e mi chiedo se dovrei dire qualcosa.

Parlare con Marco non è come parlare con Eren. Eren non si aspetta nulla. Non mi ha mai conosciuto come Levi Ackerman. Forse all’inizio sì, ma ho cercato di mostrargli solo Levi. E forse all’inizio lo conoscevo solo come Eren Jaeger. Era il ragazzo a cui nessuno prestava attenzione, a meno che non fosse mezzanotte e fossero ubriachi fradici. Era il tipo di ragazzo che nessuno considerava perché la gente non voleva essere vista con lui. Ma poi è diventato Eren per me. È diventato qualcuno con cui potevo relazionarmi perché capivo il suo dolore. Provavo lo stesso dolore, cercavo di evitarlo e a volte vivevo in quel dolore.

Marco, invece… Non ha mai visto Levi. Gli ho mostrato Levi Ackerman perché è quello che ho fatto credere di essere. Sono sicuro di me, sono forte e nessuno penserebbe mai il contrario. Non ho mai dato loro motivo di farlo. Ma ora? Ora è tutto diverso. La precaria linea di demarcazione che ho tracciato tra i due lati di me si è offuscata. Ora non so come distinguere tra i due lati. Non so quale dovrei essere e quale sono in realtà.

“Mi dispiace,” dice finalmente Marco, ma il modo in cui lo dice mi fa chiedere se le scuse siano più mie. “Cristo, Levi. Mi dispiace.”

Ho un sapore amaro in bocca e improvvisamente mi vergogno. Sento le orecchie che si scaldano, le mani che si stringono in pugni stretti che fanno male più di ogni altra cosa. Marco mi osserva come se stesse guardando un uccello con un’ala spezzata, e mi viene quasi da ridere.

È questo che sono diventato, non è vero? Ho ceduto alle mie emozioni, ho lasciato che mi travolgessero fino a quando ho iniziato ad affogarci. Cerco di individuare il momento esatto, quello in cui ho perso il controllo e ho lasciato che tutto si accumulasse su di me, ma non ci riesco.

“Non dispiacerti per me,” dico, e Marco mi guarda colpevolmente.

Mi strofino la nuca e trasalisco alla sensazione di freddo delle mie mani. È come una scossa elettrica alla spina dorsale. All’improvviso mi sento come se fossi un estraneo che occupa il corpo di un’altra persona, come se non fossi me stesso. Come se vedessi il mondo attraverso gli occhi di un altro e non posso fare a meno di pensare che questa persona non può essere normale. Mi sento incasinato, imbarazzato ed esausto.

“Non l’ho mai saputo,” dice Marco. “Ti ho sempre ammirato, in realtà.” Le parole mi fanno trasalire, ma Marco continua a parlare. Mi sembra una tortura lenta, e chiudo gli occhi come se questo potesse in qualche modo bloccare tutto. “Ho sempre pensato che fossi forte. Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto essere come te. Molti ragazzi della squadra la pensano così. Anche Reiner, sai. Eri come un fratello per noi. Una specie di eroe o qualcosa del genere.”

“Marco...”

“Se l’avessi saputo,” continua, interrompendomi, “Ti avrei aiutato. Mi sarei accollato un po’ di quel peso.”

“Non sei obbligato a farlo.”

“Sei mio amico,” dice Marco, quasi con severità, e io mi sento vagamente come un bambino che viene rimproverato dal genitore. “Se posso fare qualcosa per aiutarti, lo farò. Non mi interessa se pensi di essere debole. Essere vulnerabili non è sempre una cosa negativa. A volte abbiamo bisogno di essere vulnerabili. Se cerchiamo sempre di essere forti, è solo questione di tempo prima di crollare.”

Sbuffo dolcemente.

“Grazie, Socrate,” dico dolcemente, cercando di scherzare sulla situazione, ma la verità è che Marco sta solo dicendo cose che ho bisogno di sentire. La pesantezza che prima si era posata su di me in modo così forte sembra che si stia sollevando. È solo a piccoli passi, naturalmente, ma è un inizio.

Marco sorride.

“Non ringraziarmi,” dice, e mi chiedo come ho fatto a essere così idiota con lui. “Considera conclusa la prima tappa del tuo tour di scuse.”

“Eh?” Chiedo, confuso, e Marco sorride tristemente.

“Parla con Bertholdt,” dice a bassa voce. “Ha chiesto di te dopo aver deciso di smettere. Non ha voluto parlare nemmeno con Reiner. Si fida molto di te.”

Annuisco e abbasso lo sguardo sulle mie mani. Era da un po’ che volevo scusarmi con Bertholdt, ma mi ero sempre detto che dovevo trovare il momento giusto per farlo. Non è che volessi procrastinare la cosa. È solo che non volevo dire nulla finché non lo avessi capito.

E ora lo capisco.

“Lo farò,” dico, e il sorriso sul volto di Marco si allarga e si trasforma in qualcosa che mi avvolge di calore.

 
***

Con gli occhi puntati sulla porta e le mani nelle tasche del cappotto, penso a tutti i possibili esiti di questa conversazione. Fisso l’elaborato pomello di bronzo della porta, la fontana spenta per l’inverno e ascolto il minaccioso starnazzare dei corvi che volteggiano sopra di me.

Tiro fuori una mano dalla tasca e busso con forza contro la porta. Aspetto appena un minuto prima che una donna dai capelli castani perfettamente arricciati e dai teneri occhi verdi la apra. La riconosco quasi subito come la madre di Bertholdt. Il mio corpo si irrigidisce alla vista.

“Oh,” dice lei, chiaramente sorpresa, e le sue labbra rosse si schiudono in un sorriso geniale. “Sei uno degli amici di Bertholdt?”

“Sì, signora,” rispondo. Mi chiedo se ho il privilegio di definirmi così.

“È nella sua stanza,” m’informa. Solo allora mi accorgo della pila di buste che ha in mano. Spalanca la porta, invitandomi a entrare, e io mi attardo goffamente accanto alla porta.

La signora Hoover prende il cappotto dalla rastrelliera dietro la porta e continua a sorridermi. Guardo ovunque tranne che sul suo viso perché non so cos’altro fare.

“Beh, spero che vi divertiate. Vorrei restare a chiacchierare, ma ho degli affari da sbrigare. Se hai bisogno di qualcosa, non esitare a dirlo a Bertholdt. Una delle cameriere sarà in grado di procurarvelo.”

Una delle cameriere.

Ripeto la frase nella mia mente più volte. Qualunque cosa faccia, non mi toglie la stranezza della frase. Scuotendo la testa per schiarirla, rivolgo alla signora Hoover un sorriso teso e forzato.

“Certo, grazie,” mormoro, avviandomi già verso le scale.

“Buona serata!” Dice la signora Hoover. Mi aggiro per il corridoio, facendo capolino di tanto in tanto, ed è per pura fortuna che mi imbatto nella stanza di Bertholdt. Le porte che danno sul suo balcone sono spalancate. Osservo le sottili tende che lo coprono agitate dalla brezza. Bertholdt è fuori, appoggiato alla ringhiera, e io mi ritrovo a mordicchiare l’interno della guancia.

I miei passi sono silenziosi quando mi avvicino a Bertholdt. Mi soffermo sull’uscio, cercando di pensare a qualcosa da dire, ma è come se tutta la mia pratica davanti allo specchio fosse stata inutile. Non so cosa dire. Tutto sembra stupido e per una volta vorrei fingere che le conversazioni naturali mi vengano facili.

“Non hai freddo?”

Bertholdt si gira verso di me. Ha un aspetto... diverso. C’è un’aria solenne che lo circonda. È sempre stato silenzioso, ma ora sembra avere qualcosa di diverso. È il tipo di quiete che deriva dal fatto che qualcosa ti schiaccia da tutte le parti, il tipo di quiete che è il risultato del tentativo di cavarsela senza che nessuno dica nulla, e il pensiero che lui abbia vissuto questa esperienza mi fa rimanere senza fiato nel modo peggiore.

“Levi?”

“Ehm... ehi,” dico, goffamente, e le mie dita si ritrovano sull’orlo del cappotto. Strattono un filo allentato e cerco di pensare a qualcos’altro per riempire il silenzio che si estende tra noi.

“Cosa ci fai qui?” Chiede Bertholdt. Sembra confuso, e non posso biasimarlo.

“Dobbiamo parlare,” rispondo. Bertholdt si alza completamente e mi guarda con curiosità. Ignoro le domande che nuotano nei suoi occhi e mi mordo il labbro. “So che è un po’ improvviso, ma...”

Sperando che Bertholdt capisca, annuisce.

“In realtà volevo parlarti,” dice. Fa un respiro profondo e lo rilascia lentamente. “Ti devo una spiegazione.”

“Una spiegazione?” Gli faccio eco; posso solo chiedermi di cosa possa trattarsi.

Bertholdt sorride con forza e mi passa davanti per tornare nella sua stanza. Lo seguo, chiudendomi la porta del balcone alle spalle, e lascio che mi conduca in cucina. Gli guardo le spalle mentre si prepara una tazza di caffè. Strofinandomi goffamente le braccia, mi sistemo in uno degli sgabelli del bar e aspetto che finisca.

“Vuoi qualcosa da bere? Da mangiare?”

“No,” dico. “Sono a posto così.”

Bertholdt alza un po’ le spalle e si sistema davanti a me. Lo guardo, chiedendomi se devo dire qualcosa prima, e lui sembra pensare la stessa cosa.

“Mi dispiace,” dico subito. “Non te l’ho mai detto quando mi hai detto di smettere. Ho lasciato che tu ti scusassi con me, ma avrebbe dovuto essere il contrario. Mi dispiace di essere stato un tale stronzo. Mi dispiace di essermi comportato come se non riuscissi a capire. Mi dispiace di non averti più parlato da allora.”

“Anch’io mi sarei arrabbiato,” dice Bertholdt, tracciando con il dito il manico della sua tazza. “Avrei dovuto sopportare la situazione. Un anno in più non mi avrebbe ucciso.”

“La tua felicità è più importante di una stupida squadra,” dico. “Non lasciare che nessuno ti faccia pensare diversamente.”

Bertholdt mi guarda scioccato. Deglutisco con forza. Le sue scarpe battono rumorosamente sul pavimento. Ascolto lo sbattere della porta prima di aggrapparmi con esitazione alla ringhiera della scala.

“Ti tieni in contatto con qualcuno della squadra?” Chiedo.

Bertholdt si schermisce dolcemente.

“No,” dice scuotendo la testa. “Non ero davvero uno di voi. Ho pensato che sarebbe stato meglio non farlo. Nessuno mi ha contattato, quindi credo che il sentimento fosse reciproco.”

“Avrei voluto,” dico, e Bertholdt mi lancia un’occhiata che grida che non l’hai fatto. “Giuro su Dio, non ho mai avuto intenzione di lasciarti da solo in quel modo.”

Bertholdt si sposta goffamente e fissa la sua tazza. Mi passo le dita tra i capelli e appoggio i gomiti sul bancone.

“Non c’è problema. È tutto passato.”

“Non è vero!” Dico, alzando involontariamente la voce, e Bertholdt mi guarda velocemente. “Senti, Bertholdt. Io... ho capito quello che dicevi quel giorno. Sul fatto che non hai bisogno della squadra e tutto il resto. Ma non volevo ammetterlo. Sei riuscito a fare qualcosa per renderti felice. Io potevo solo sognare di farlo. Mi hai ricordato di star mentendo a me stesso e a tutti quelli che mi circondavano.”


Bertholdt mi guarda con interesse. Deglutisco a fatica e continuo a parlare.
“Ho risposto male a Marco a una festa,” dico. “Reiner si è comportato da Reiner e io gli ho praticamente detto di andare a fanculo. Ma... non si tratta di Reiner. Non lo è mai stato. È solo che non riuscivo a sopportare lo stress di dover mettere in piedi un teatrino.”

Bertholdt sembra rimpicciolirsi su sé stesso.

“Nemmeno io ci riuscivo,” borbotta. “Per questo ho mollato.”

“Lo so,” dico con dolcezza. “E lo capisco. Credo che quello che sto cercando di dire è che non siamo così diversi. Per me era così facile fingere di fare football perché lo volevo. Ma in realtà volevo solo qualcosa dietro cui nascondermi.”

Bertholdt rimane in silenzio per un po’. Deglutisco bruscamente e, quando si schiarisce la gola, lo guardo.

“Sono andato a letto con Reiner,” dice Bertholdt, così velocemente che quasi mi sfugge, e soffoco nella mia stessa saliva.

“È...” Faccio fatica a trovare le parole giuste. “È per questo che hai smesso?”

“Lui era ubriaco e io no,” dice Bertholdt, fissando qualcosa sul bancone, e il mio stomaco si contorce in nodi così stretti da farmi male fisicamente. “Al secondo anno, dopo la partita contro Trost.”

Ricordo quella partita. Erano tutti così emozionati, così carichi di adrenalina. C’era stata una festa dopo la partita a casa di Reiner, ma io l’avevo saltata perché sapevo che Kenny avrebbe dato di matto se non fossi tornato a casa in tempo.

“È stata una bella partita,” dico a bassa voce. Bertholdt scuote la testa.

“Non saprei,” dice, sorridendo seccamente. “Ero uno scaldapanchina, ricordi?”

“Cosa è successo quella sera?” Chiedo. Il sorriso di Bertholdt si spegne.

“Reiner e Franz avevano litigato. Franz gli aveva dato un pugno e se ne andò infuriato. Reiner... era molto agitato. Ho dovuto far andare via la gente perché ha iniziato a essere violento.”

“Bertholdt...”

“L’ho baciato per farlo tacere.” Bertholdt espira tremante e abbassa la testa. Mi sento incredibilmente nauseato. Il rumore bianco mi riempie le orecchie e sento il mio corpo appesantirsi. “Ho semplicemente... accettato. Non ho mai detto di no e non ho mai detto di sì.”

Con passi pesanti, salgo le scale. Non so bene dove sto andando. Ogni volta che Bertholdt dava una festa, io rimanevo al piano di sotto. La gente saliva solo per scopare, e non è mai stata una cosa che volessi fare davvero. Gli incontri casuali non mi hanno mai intrigato.

“Cazzo,” sussurro, la testa mi gira e la bile mi sale in gola. Il sapore acido mi inonda la bocca e mi inarco sulla sedia. “Cazzo.”

Non so cosa dire. Non sono nemmeno sicuro di riuscire a elaborare quello che mi sta dicendo. Le parole mi fluttuano in testa, ancora e ancora, come una canzone in un loop infinito.

“Non riuscivo a stargli vicino,” continua Bertholdt con dolcezza. “Me ne stavo lì, facendo finta che andasse tutto bene. Mi ero convinto che fosse solo un errore da ubriachi, niente di più. Ma più a lungo lo nascondevo, più cresceva il mio risentimento. Ho smesso prima di esplodere.”

“Mi dispiace,” dico, e lo ripeto un paio di volte. Gli occhi mi bruciano e tutto il mio corpo si sente come se fosse stato investito da un camion.

“Pensavo di amarlo, ma in realtà non l’ho mai fatto. Cercavo solo di convincere me stesso che andava tutto bene.”

“Avrei dovuto saperlo,” dico, con la voce che si incrina. “Avrei dovuto cercare di aiutarti. Avrei dovuto... avrei dovuto fare qualcosa!”

“Non stavo cercando di renderlo ovvio,” risponde Bertholdt con dolcezza. “Levi... non darti la colpa. Io l’ho fatto per un po’ e fa schifo. Incolpa la persona responsabile.”

Penso a Reiner. La mia mente non si riempie di feroci minacce di morte e promesse di fargli male come lui ha fatto a Bertholdt. Vedo il suo volto negli occhi della mia mente e sono pervaso da un’opprimente sensazione di intorpidimento.

“Eren è stata la prima persona a cui l’ho detto,” dice Bertholdt, con voce flebile, e io deglutisco a fatica. “Sono crollato e gli ho raccontato tutto. Mi ha aiutato. Ora lo sto affrontando.”

Bertholdt si strofina la nuca.

“Non te lo dico perché voglio che tu stia male per me o cose del genere. Te lo dico perché ti rispetto e penso che tu meriti di sapere la verità.”

Il mio corpo è ricoperto di pelle d’oca. Mi sembra di non riuscire a respirare. La pesantezza che pensavo fosse stata sollevata torna a schiantarsi con una forza tale da farmi chiedere se sarò schiacciata sotto di essa.

“Non mi dovevi niente,” sussurro. “Avrei dovuto essere un amico migliore. Avrei dovuto...”

Bertholdt scuote la testa.

“Sto bene. Le cose... stanno migliorando. Non ci sono ancora riuscito del tutto. Ma sto facendo progressi.”

“Bertholdt,” dico, con voce sottile, e lui mi guarda dritto negli occhi. “Grazie.”

All’inizio sembra un po’ confuso, ma poi annuisce lentamente.

“Non c'è di che,” dice lentamente, e mi chiedo se ora sto facendo un buon lavoro di finzione.

 
***

“Stai bene?”

Guardo Eren. Sono seduto sul suo letto, con la schiena appoggiata al muro, e mi guardo le ginocchia. Eren sta facendo qualcosa alla sua scrivania, ma io sono troppo distratto per prestare davvero attenzione. Il torpore di prima è tornato prepotente. Ripercorro più volte la conversazione con Bertholdt.

Reiner ha violentato Bertholdt.

Reiner ha violentato Bertholdt.

Mi sento di nuovo male. Il mio stomaco si agita quasi all’infinito. Ascolto Eren che si allontana dalla scrivania e viene a sedersi sul letto di fronte a me.

“Levi?”

“Bertholdt me lo ha detto,” sussurro. “Di Reiner.”

Gli occhi di Eren si allargano.

“Quando?”

“Oggi,” dico. “Prima di venir qui.”

“È per questo che sei venuto?”

Annuisco rigidamente.

“Non lo sapevo.” La mia voce si spezza sull’ultima parola. “Non ne avevo idea. Non ho mai percepito nulla. Pensavo che fosse tutto a posto e io...”

Mi interrompo, un singhiozzo mi si conficca a metà gola. Non mi rendo conto che le lacrime mi stanno scorrendo sul viso finché Eren non si china su di me e le asciuga con le mani.

“Ehi,” dice dolcemente. “Levi?”

Sento la sua voce, ma non riesco a metterla a fuoco. Lui mi scavalca con una gamba e si sistema in grembo, prendendomi il viso tra le mani e costringendomi a guardarlo. Mi aggrappo alla sua vita per radicarmi e lui preme le nostre fronti insieme.

“Concentrati su di me,” sussurra. “Continua a guardarmi.”

Affondo le dita nella sua pelle come se cercassi di fondermi con lui. Il mio corpo trema per lo sforzo di trattenere i singhiozzi. Avvolgo le braccia intorno a lui e mi stringo, premendo il viso contro la base della sua gola.

Le sue mani si spostano dal mio viso ai miei capelli. Passa le dita tra le ciocche e preme il viso contro la mia testa. Lascio che le mie lacrime bagnino la sua camicia e ascolto mentre mi tranquillizza.

“Va tutto bene. Sfogati. Stai bene. Andrà tutto bene.”

“Non ho potuto aiutarlo,” dico, aprendo finalmente gli occhi, e tutto il mio corpo si sente pesante. “Ho avuto il coraggio di pensare di poter sostenere la mia squadra. Ma onestamente? Non ci sono mai riuscito.”

“Levi, dice Eren dolcemente, spostandosi per guardarmi. Si muove per staccarsi da me, ma io mi aggrappo a lui per farlo restare. “Ti prego, non darti la colpa. So che Reiner è uno stronzo, ma Bertholdt ora sta bene. Ci sta lavorando. Starà benissimo.”

“Ha dovuto mentire,” sussurro. “Si vergognava. L’ho costretto io a farlo. Avrebbe dovuto sentirsi come se potesse venire da me. Non che dovesse rimanere in un ambiente tossico per il bene della stupida squadra. Non riesco nemmeno a proteggere me stesso. Cosa mi ha fatto pensare di poterlo fare per qualcun altro?”

“Non devi essere un eroe,” mi dice Eren. “Non puoi salvare sempre tutti.”

“Era proprio davanti a me e io ero cieco al suo dolore,” mormoro. Stringo la presa su Eren e lo faccio scivolare ulteriormente sulle mie ginocchia. “Non ti farò questo. Giuro su Dio, Eren, che ci sarò quando avrai bisogno di me.”

Gli occhi di Eren si addolciscono.

“So badare a me stesso,” risponde con voce sommessa, e si attorciglia una ciocca di capelli intorno al dito.

“Non dovresti farlo,” gli dico. “Non dovresti affrontare nulla da solo.”

Ci fissiamo per un po’, ascoltando il suono dei nostri respiri combinati, e mi ritrovo a deglutire faticosamente per evitare il nodo che mi ostruisce la gola.

“Promettimi che me lo dirai,” borbotto. “Promettimi che mi dirai se qualcosa ti fa male. Non devi mentirmi su nulla. Io sarò sempre qui per te.”

“Lo so,” sussurra Eren, avvolgendomi le braccia intorno al collo. “Ti dirò tutto. Te lo prometto.”

“Va bene,” sussurro, premendo un bacio all’interno del suo braccio ed Eren mi fa un piccolo mezzo sorriso in risposta.



Note:
Ehilà, ma chi si ricorda questa storia? Probabilmente in pochi, ma sono determinata a portarla a termine e ho già tradotto tutti i capitoli. Per chi non la conosce, spero di far scoprire un
’altra storia meravigliosa. 
Gli aggiornamenti d’ora in poi arriveranno ogni settimana, di giovedì. Fatemi sapere cosa ne pensate!

Alla prossima settimana!
Mooney

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy
 
Capitolo 25






Eren

Ore 10:29, appartamento di Nick.

Sono piacevolmente sbronzo, con la testa appoggiata al divano e gli occhi puntati sul soffitto. Sono in uno dei miei stati d’animo, quello in cui voglio fingere di non esistere e di non dover affrontare qualsiasi cosa da cui sto costantemente scappando.

La birra ha un sapore più amaro del solito. Mi dà la nausea dopo ogni attento sorso che bevo. Tuttavia, ignoro il sapore e mi riempio la bocca fino a quando non minaccia di scoppiare attraverso la giuntura delle labbra. Lascio che si depositi sulla lingua, che mi scenda lentamente in gola e che scompaia nelle oscure profondità del mio intestino.

“Parlami di mia sorella.”

Mi volto a guardare Nick con la bottiglia di birra ancora stretta al collo, e lui mi guarda sorpreso. Ha i capelli in disordine, le unghie mangiate e masticate. Sembra piccolo, rannicchiato sulla poltrona vicino alla finestra. L’aria gelida di dicembre entra dalla piccola fessura. Sul tavolino c’è un pacchetto aperto di sigarette Marlboro, quelle al mentolo, e Nick ne tiene una precariamente stretta tra due dita.

Fumare è solo una delle qualità che non sopporto di lui, ma in fin dei conti è la sua vita. Se sceglie di fumare, non posso fare nulla per fermarlo. Non ho potuto fermare nemmeno Mikasa.

“Cosa vuoi che ti dica?” Nick chiede lentamente. Sembra esausto. Mi chiedo se abbia a che fare con la mia presenza qui, se abbia a che fare con il fatto che gli dico che non lo amo eppure insisto a tenerlo con me. Forse è perché non gli parlo da chissà quanto tempo. Forse perché è stufo di come continuo a usarlo.

Forse non ha niente a che fare con me.

“Qualcosa. Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa tu voglia.”

Nick rimane in silenzio. Arrotola la sigaretta tra le dita, ma non la porta alle labbra. Osservo come l’estremità continui a bruciare e a sfaldarsi in grandi ceneri grigie che lui allontana con un colpo di spugna. Infine, inspira profondamente e appoggia la testa all’indietro contro il vetro della finestra.

“Lo sai che avevo sedici anni quando l’ho conosciuta?” Mormora. Scuoto la testa e lui ride sommessamente tra sé e sé. “Sono sicuro che sai come vanno le cose. Qualcuno è gentile con te e te ne innamori all’istante. È facile fare cose stupide quando si è giovani e stupidi.”

Stringo i denti a quelle parole e guardo il tappeto sotto i miei piedi. Arriccio le dita dei piedi e penso a tutte le stronzate che ho fatto. Sedermi sul divano di un ragazzo di sette anni più grande di me e bere birra scadente che non fa altro che mandarmi il fegato a puttane, non mi sembra più così affascinante come prima. Forse è perché ora sono perfettamente consapevole di tutto ciò che sto facendo. Non posso fare le cose senza pensare alle conseguenze. Ora sento di dover rispondere alle persone.

Il pensiero è spaventoso. Mi fa sentire soffocato e responsabile, come un bambino e come un’adulto e tutte queste altre sensazioni contraddittorie. Odio questa sensazione, il modo in cui mi costringe a pensare per una volta, ma credo sia giunto il momento di smettere di comportarmi in modo così avventato. Ciò che sale deve scendere, e credo che ora sia il mio momento di cadere.

“Come l’hai conosciuta, quindi?”

“Frequentavamo lo stesso corso d’arte,” dice, scrollando le spalle. “I miei genitori volevano che smettessi di stare in casa tutto il giorno ed è così che sono finito lì. La ammiravo molto. Aveva un talento naturale.”

“L’arte è sempre stata il suo forte,” mormoro, strofinandomi il braccio. “Papà si arrabbiava sempre. Voleva che frequentasse la facoltà di legge o altro, ma Mikasa diceva che non sarebbe andata all’università se lui non le avesse lasciato fare quello che voleva. La mamma lo convinse che una figlia con una laurea era meglio di niente, così lui cedette e la lasciò fare. Non l’ha mai incoraggiata, ma non l’ha nemmeno mai fermata.”

“All’inizio mi sono seduto da solo,” dice lentamente. “Ma lei è venuta subito da me e si è presentata. Ha detto che le ricordavo suo fratello.”

A questo punto mi si spalanca la bocca. Nick mi guarda in modo contemplativo, con le labbra leggermente arcuate.

“Ha parlato molto di te. Molto più di quanto chiunque parli dei propri fratelli. Diceva che eri qualcosa di speciale.”

“Allora?” Chiedo, con la voce che si incrina. “Lo sono?”

“Sì, Eren,” sussurra. “Certo che lo sei. Non sei mai stato niente di meno che speciale.”

“Cos’altro ti ha detto?” Chiedo. Nick alza di nuovo le spalle, spegnendo la sigaretta e incrociando le braccia.

“Solo cose a caso, in realtà. Qualsiasi cosa mi venisse in mente, credo. Siamo diventati amici e poi il resto è stato storia.”

“Mi sembra che tu stia tralasciando qualcosa.”

Nick mi fa un sorriso ironico. “Non vuoi sapere queste cose.”

“Forse sì,” dico, scivolando sul mio sedile. “Non farà male, sai.”

“Certo che no,” mormora Nick, ridendo amaramente. “Niente fa mai male al grande Eren Jaeger. È fottutamente invincibile.”

“Giusto,” borbotto. “È proprio così.”

“Perché ti stai facendo questo?”

“Perché mi dà qualcosa da fare,” dico. “Non fa più male un cazzo di niente. Che male potrebbe mai fare?”

Nick emette un suono frustrato in fondo alla gola e distoglie lo sguardo. L’intera stanza puzza di sigarette. Sbatto la testa contro il divano e prendo una profonda boccata d’aria, lasciando che l’odore mi bruci le narici e si depositi nei polmoni. Mi chiedo se sia possibile annegarci dentro, lasciare che diventi una parte di me così profondamente infusa da non riuscire a staccarmene, per quanto ci provi.

“Amavo tua sorella,” dice Nick.

“Eri innamorato di mia sorella,” borbotto, metà a me stesso e metà a lui, e premo il bordo della bottiglia di birra contro il labbro. “Sei innamorato di lei. Non hai mai smesso perché non sai come farlo.”

“Perché tu...?”

“Non sono mai stato io a volere,” dico, e non so perché mi sembra di aver scoperto qualcosa.

Lo so da chissà quanto tempo. Sapevo di non essere mai stato colui a cui Nick aveva pensato, mai una volta, ma in qualche modo mi ero illuso di avere quel livello di importanza. Pensavo di essere un sostituto di Mikasa, ma la verità è che lui è stato confuso quanto me. E forse non sono l’unico a essere stato preso in giro. Forse gli importava solo perché ero tutto ciò che gli era rimasto di lei.

Nick mi fissa come se non sapesse cosa dire. A giudicare dal silenzio che sembra protrarsi per anni, credo che non lo sappia. Ricambio lo sguardo in modo uniforme, con un improvviso senso di nausea, e deglutisco con forza per evitare il groppo in gola.

“Non mi hai mai amato,” continuo. “Non si è mai trattato di me. Quando mi guardavi vedevi solo Mikasa.”

“Non è vero,” dice Nick, mettendosi sulla difensiva. “Non è... non è giusto, Eren.”

“La verità non è mai giusta,” mormoro. “L’amore non è mai giusto. Sono sicuro che lo sai meglio di chiunque altro.”

“E allora perché lo hai assecondato?” Mi chiede Nick. “Stai dicendo che lo sapevi da sempre, vero? Allora perché non restarne fuori? Perché ti sei fatto coinvolgere?”

“Non avresti mai potuto avere Mikasa,” mormoro. “Lei aveva Jean e tu lo sapevi. Ma io? Ero un gioco da ragazzi. Un frutto proibito. Il fratellino su cui affondare gli artigli. Non hai mai avuto una possibilità con lei, ma sapevi di poter avere me. Mi sentivo in colpa per te. Volevo rovinare la vita di qualcun altro oltre alla mia. E tu? Dio, eri così fottutamente disponibile.”

“Cristo santo,” mormora Nick, chinandosi in avanti e appoggiando la testa tra le mani.

“Non sto cercando di fare lo stronzo,” mormoro, sentendomi improvvisamente terribilmente sobrio. “Sono solo onesto.”

“Onesto?” Nick sibila, scattando in piedi. “Non sei onesto, Eren, sei...”

“Sono…?”

Nick stringe la mascella e non risponde.

“Sappiamo entrambi che non sei venuto qui solo per ammazzare il tempo.”

“Splendida osservazione,” dico battendo le mani con sarcasmo. “Davvero, amico, è oro colato.”

“Cosa vuoi che ti dica? Vuoi che ti dica tutto? Ti dirò ogni dannato dettaglio. Ti soddisferebbe?”

“Certo,” rispondo in modo uniforme, scrollando le spalle. “La verità di solito soddisfa tutti, non credi?”

Nick si rimette a sedere e annuisce lentamente.

“Sapevo che non eri tua sorella. Sapevo che non saresti mai stato quello che lei era per me. Ma ti ho cercato lo stesso perché sapevo di poterlo fare. Non so se mi sono mai innamorato di te. Non so nemmeno se sono in grado di dire di aver mai amato qualcuno.”

“Sai, non ricordo la notte in cui è morta,” mormoro. “Quando sono andato in terapia, mi hanno detto che è perché ha fatto così male che il mio corpo ha deciso di archiviarlo fino a quando non sarò pronto ad affrontarlo. Non è assurdo? Mi sembrava una stronzata.”

“Non sono stronzate, Eren, è solo quello che succede,” risponde Nick stancamente. Poso la birra e mi raggomitolo le ginocchia al petto.

“Dimmi cos’è successo quella notte,” sussurro. “Voglio saperlo.”

“Non lo farò.”

“Che ne è stato del dire la verità?”

“Sei ridicolo adesso...”

“Non può fare più male di quanto non faccia già,” gli dico. “Ho già toccato il fondo, Nick. Non c’è modo che io possa cadere ulteriormente.”

“Ho paura che lo farai,” mormora lui. “Forse non sei così giù come pensi. Forse c’è dell’altro e tu... e non vuoi ammetterlo.”

“Non c’è,” dico, conficcandomi le unghie nel braccio tanto da farmi male. Ma serve a mettermi in castigo, così lo faccio più forte finché non mi chiedo se inizierò a sanguinare. “Non c’è nessun altro posto dove andare dopo questo.”

Nick chiude gli occhi e riabbassa la testa. Mi chiedo se alla fine l’ho spinto troppo oltre, se l’ho portato in un posto da cui non possiamo tornare indietro, ma poi si solleva. Ascolto il morbido scalpiccio dei suoi passi e lo guardo mentre si sdraia accanto a me sul divano. L’odore di sigaretta è ora più intensamente concentrato e mi ricorda così tanto Mikasa che il petto mi fa fisicamente male. Penso a lei ingobbita nel seminterrato, con i pantaloni a olio spalmati su una tela e i capelli frettolosamente scostati dal viso, e la sua vista mi brucia la retina, la pelle e praticamente ogni fottuto centimetro di me.

“Eravamo usciti,” dice, piano e dolcemente, e io lascio che le parole affondino in me. “Niente di speciale, davvero. Abbiamo parlato di tutto e di niente ed è stato bello. Davvero bello, cazzo. Poi ha ricevuto una tua telefonata.”

“Ero a una festa,” dico. L’ho già detto a Mina nel suo ufficio, ma io e Nick non ne abbiamo mai parlato. Ora mi sembra un buon momento. “Historia era con me. Noi... noi... eravamo amici. Mi sono comportato da stronzo e lei ha abbandonato. Non potevo sopportare di essere lì quando se n’è andata.”

“Mikasa era preoccupata,” continua Nick, come se non avessi detto nulla. “Sembravi ubriaco e lei aveva paura. Pensava che avresti fatto qualcosa di avventato.”

“L’avevo già fatto,” mormoro. “È stato tutto in discesa nel momento in cui ho deciso di aprire bocca.”

“Mi sono offerto di accompagnarla,” dice Nick. “Aveva preso l’autobus e sapevo che sarebbe stato più veloce se l’avessi accompagnata io. Ero spaventato perché lei lo era. Non ti avevo nemmeno conosciuto. Per me eri un estraneo. Ma eri importante per lei e ho deciso che dovevi esserlo anche per me.”

“Non pensavo che sarebbe venuta,” ammetto. “Pensavo che l’avrebbe detto ai miei genitori e che sarebbero venuti a prendermi. A volte vorrei che lo avessero fatto.”

“È andata bene, sai,” borbotta Nick. “Non c’era traffico o cose del genere. Stavo solo guidando. Il semaforo era verde e sono andato senza pensarci. Ma questo tizio... è arrivato a tutta velocità da un lato. Non sono riuscito a reagire abbastanza velocemente. Era come se stesse accadendo al rallentatore. Prima che me ne accorgessi c’erano vetri ovunque e Mikasa urlava. E poi si è fatto silenzio. Davvero, davvero silenzioso. Non riuscivo a sentire nulla.”

Abbasso lo sguardo sulle mie mani, il mio corpo trema. Nick non mi tocca e ne sono felice.

“Jean invece è venuto a prendermi. Era di pattuglia quando l’ha saputo dalla radio. Ha detto che dovevamo andare all’ospedale e che non avevamo molto tempo.” Chiudo gli occhi e immagino il suo volto preoccupato.

“Era già morta quando l’ambulanza l’ha portata in ospedale. Io avevo il naso e una costola rotti, qualche livido qua e là e vetri in posti in cui non avrebbero dovuto esserci vetri. Ma io ero vivo e tua sorella no, e in quel momento ho capito che la colpa era mia. L’avevo uccisa.”

“Non sarebbe mai morta se non l’avessi chiamata,” dico. “Avrei potuto prendere un autobus per tornare a casa. Avrei potuto camminare. Avrei potuto sopportare e rimanere a quella dannata festa.”

“Non sarebbe morta se non fossimo mai saliti su quella macchina,” mi corregge Nick. Digrigno i denti e distolgo lo sguardo. “Non sarebbe morta se fossi stato più attento.”

Cade di nuovo il silenzio, quello in cui è ovvio che entrambe le parti vogliono dire qualcosa, ma non sanno cosa.
“Mi hai dato un pugno,” dice Nick, e io lo guardo velocemente.

“Non me lo ricordo,” dico a bassa voce, e lui alza le spalle.

“Me lo sono meritato. Sei entrato nella stanza in cui mi trovavo e mi hai dato la colpa di tutto. Non ti ho fermato perché sapevo che avevi ragione. Jean ha dovuto allontanarti.”

“Mi dispiace.”

“Perché dovrebbe dispiacerti? Eri arrabbiato e io ti avevo appena portato via tua sorella. Capisco perché l’hai fatto.”

“Non so cosa fare senza di lei,” dico. “Ci sono ricordi di lei ovunque io guardi, ma lei non è qui. È questo che mi uccide.”

“Ho approfittato di te quando ero triste,” dice Nick, con un’espressione illeggibile sul volto. “Non mi importava delle conseguenze. Mi interessava solo avere una parte di lei con me.”

“Anch’io mi sono approfittato di te,” mormoro. “All’inizio eri solo un’altra tacca sulla cintura, ma poi mi sono lasciato coinvolgere. Amavo troppo l’idea di te per lasciarti andare.”

“Ci siamo usati entrambi,” dice Nick. “È malsano. Questa cosa tra noi è malsana.”

“Dici sul serio questa volta?” Chiedo, deglutendo a fatica. “È davvero la fine per noi, adesso?”

“Lo spero,” risponde Nick con sincerità. “Non posso continuare a farlo. Mi sta facendo impazzire.”

“Pensi di essere l’unico?” Mi schernisco, scuotendo la testa, e Nick inclina la testa all’indietro per guardare il soffitto.

“Non hai più bisogno di me,” dice. “Puoi andare avanti adesso. Io starò bene.”

“E se non sarà così?”

“Allora me ne farò una ragione,” dice, sospirando. “Non sono più un tuo problema. È da un po’ che non sono più un tuo problema.”

Evito di guardarlo perché non so cosa succederebbe se lo facessi. Ascolto Nick che si sposta sul divano, con le molle che scricchiolano leggermente sotto di lui.

“Significa molto per te, vero?” Mormora. C’è una certa sfumatura nella sua voce che non riesco a cogliere.

“Chi, Jean?”

“No, il tuo amico. Levi.”

“Levi...” ripeto. Appoggio la guancia alle ginocchia e faccio spallucce. “Certo, significa molto per me.”

“Lo ami?"

Sbuffo. “Non so nemmeno cosa significa amare qualcuno.”

“Ah. Divertente,” dice Nick, ma non sembra minimamente divertito. “Penso che dovresti farlo.”

“E perché?”

“È la persona giusta per te.”

“L’hai incontrato una volta.”

“Sì, ma lo so e basta,” dice Nick. Si passa le dita tra i capelli. “Appena è entrato qui, l’ho capito. Ho visto il modo in cui ti guardava e ho capito di averti perso.”

“Non sono mai stato tuo, tanto per cominciare.”

“Forse no,” concorda Nick. “Però mi piaceva pensare che lo fossi. Mi ha fatto sentire come...”

“Lo so,” dico, senza bisogno che finisca. “Ho capito.”

“Sul serio, però,” continua. “Mi riferivo a quello che ho detto sul lasciarsi andare alla felicità. Se lui ti rende felice, non trattenerti. Non lasciarti sfuggire una cosa così bella.”

“Non sono destinato ad avere qualcosa di così bello,” sussurro. “Per ora è tutto bello, ma poi? È solo il liceo. Significa davvero qualcosa?”

“Non dirmi queste stronzate. Sappiamo entrambi che lui significa qualcosa per te.”

“Ma...”

“Non ci sono ma,” ribatte Nick, rimproverandomi dolcemente, e io chiudo gli occhi e accolgo le sue parole. “Ti sta cambiando, ma non è una cosa negativa. Significa solo che lo apprezzi.”

“Nick...”

“Tu meriti di essere amato. Se viene da lui, non opporti. Non mettere in discussione tutte le persone che ti trattano bene,” dice Nick, poi fa una pausa e stringe la mascella. “So di averti confuso. Ti ho incasinato la testa. Ti ho fatto credere che quello che stavamo facendo fosse giusto. Non potrò mai scusarmi abbastanza per questo. Ma un giorno, quando sarai più grande e starai bene, spero che tu possa perdonarmi. Spero che non mi odierai per quello che ti ho fatto.”

Mi sento mancare il fiato.

“Nick, non hai mai voluto farmi del male.”

“No, non volevo. Ma questo non cambia il fatto che l’ho fatto. Non basare le tue relazioni future su quello che è successo tra noi. Se la tua relazione con lui non è come la nostra, allora va bene.”

Ripasso le sue parole nella mia testa un paio di volte, cercando di fare del mio meglio per comprenderle. Mi lecco le labbra secche e distendo le gambe, lasciandole cadere flosce verso il suolo.

“Grazie,” dico, perché a questo punto non posso dire altro.

Nick si alza e lo faccio anch’io. Mi infilo le scarpe in uno stato di stordimento e lo guardo mentre rimane immobile davanti a me. Non sembra il Nick a cui sono abituato. Il Nick che conoscevo era sempre sicuro di sé. Aveva sempre la testa alta, non dava mai a nessuno motivo di pensare che non stesse bene. Ma questo Nick è distrutto. Questo Nick sembra un uomo che ha perso tutto.

Mi chiudo la giacca fino alla base del collo. Credo che abbia perso tutto.

“Non tornare qui,” dice, le sue mani si stringono intorno alle mie spalle. Le fa scorrere sulle mie braccia, mi abbraccia il viso, si aggrappa leggermente alla mia vita. “Non hai più bisogno di me, Eren.”

“Mi stai cacciando via?” Chiedo con un sorriso ironico. Nick sorride a sa volta.

“Qualcosa del genere,” dice. Aggrotta le sopracciglia prima di trascinarmi verso di lui e stringermi. Stringo il tessuto della sua camicia tra le mani e seppellisco il viso nel suo petto. Non voglio lasciarlo andare. Ma Nick fa parte del mio passato e Levi è ora il mio futuro, e non posso assolutamente tenerli entrambi.

Nick ha preso la sua decisione. È ora che io prenda la mia.

Mi stacco dall’abbraccio e lo fisso, cercando di memorizzare ogni dettaglio del suo viso.

“Abbi cura di te,” mi dice.

“Anche tu,” dico, e faccio del mio meglio per ignorare il fatto che la mia voce si incrina un po’. “Arrivederci, Nick.”

“Addio, Eren,” dice lui, e quando la porta si chiude dietro di me, sento che finalmente posso respirare di nuovo.

 
***

Ore 11:40, ufficio di Mina.

Si avvicina la fine del mio appuntamento. Abbiamo discusso un po’ di Mikasa, abbiamo accennato brevemente alla notte in cui è morta e in qualche modo siamo finiti a parlare di Historia. Sto fissando le gambe della poltrona di Mina, in preda a un’ansia, quando la sua voce mi riporta sulla terra.
“Hai pensato di contattarla?”

“Eh?”

"Historia,” chiarisce Mina, sorridendo leggermente alla mia espressione confusa. “Hai accennato al fatto che eravate affiatati prima del vostro litigio.”

“Beh, sì,” dico, strofinandomi la nuca. Mi sento ancora fuori di me dopo la conversazione con Nick, ma Mina mi ha fatto promettere di venire da lei regolarmente per un po’. Almeno fino a quando non avrò risolto i miei problemi. “Ma non abbiamo avuto un taglio netto.”

“Rimpiangi mai di non averlo fatto?”

“A volte,” ammetto. “Era una parte importante della mia vita. Siamo state amici per anni.”

“È raro trovare amici così nella vita,” dice Mina con dolcezza. “La maggior parte delle persone entra ed esce dalla nostra vita senza che ce ne rendiamo conto. Ma ce ne sono alcune che si soffermano e lasciano un segno su di noi.”

“Historia era così,” sussurro. Scuoto la testa e guardo per terra. “Mi manca ogni giorno. Mi pento continuamente delle cose che le ho fatto. Ma ora non posso farci niente. Il passato è passato e tutto il resto.”

“Ma lei fa davvero parte del tuo passato?” Chiede Mina. Sento i miei occhi spalancarsi alla domanda. Deglutisco con forza e ripeto le sue parole più volte.

“No,” dico, e la parola ha un sapore acido sulla mia lingua. “Non lo è. Ho solo paura.”

“È comprensibile.”

“Mi sembra che sia troppo tardi,” mormoro, strofinandomi il braccio. Mina ride dolcemente.

“Non è mai troppo tardi per fare qualcosa,” dice Mina. “Hai il potere di cambiare la tua vita. Puoi trasformarla in quello che vuoi. Puoi avere chi vuoi in essa. Non è mai troppo tardi per reinventarsi.”

“Ci credi davvero?” Chiedo scetticamente.

“Non te lo direi se non lo credessi,” dice. “Non sto dicendo che devi ricostruire qualcosa con lei in questo momento. Sta a te decidere come affrontare le cose con Historia. Ma se lei significa tanto per te, come hai detto, allora forse è meglio prima che dopo.”

“Giusto,” dico lentamente, e Mina chiude il coperchio del suo portatile.

“So che farai la cosa giusta, Eren,” dice, prendendo uno dei suoi biglietti da visita. “Forse ora non te ne rendi conto, ma sei una persona migliore di quanto tu stesso faccia credere.”

Deglutisco a fatica e decido di non rispondere. Mina mi consegna il biglietto e mi ricorda di andarci piano. Annuisco, lo intasco e esco di casa.

Nevica quando esco dal portico. Tiro su il cappuccio del cappotto e infilo le mani nelle tasche. La camminata verso casa sembra più lunga e mi chiedo se è perché ho così tanto freddo che sento letteralmente le gambe bloccarsi a ogni passo che faccio.

All’improvviso mi viene in mente che Historia vive da qualche parte qui vicino. Non so perché mi viene in mente. Lo attribuisco alla conversazione con Mina e continuo a camminare, con la testa bassa e le mani che si stringono a pugno. Vorrei avere le cuffie. Vorrei essere a casa. Vorrei non aver mai fatto una cazzata.

Mi fermo di nuovo, stringendo i denti. Il cuore mi rimbomba forte nelle orecchie e prima di rendermene conto sto attraversando la strada e camminando lungo quella strada familiare. Non è molto diversa dalla mia, ma credo che mi sia estranea perché sono passati quasi due anni dall'ultima volta che l'ho percorsa.

La casa di Historia non sembra diversa dal solito. Mi fermo goffamente all’imbocco del vialetto, cercando di capire cosa fare. Voglio tornare a casa a piedi. Voglio andare fino alla sua porta. Voglio fingere di non averci mai pensato. Voglio essere felice di averci pensato.

Mi ricordo di smettere di essere un codardo e vado avanti. Deglutisco con forza e mi abbasso il cappuccio sulla testa. Provo qualche saluto casuale, ma alla fine mi arrendo e batto con forza le nocche contro la porta.

Nessuno apre per qualche istante e questo mi basta per perdere il coraggio. Sono a un passo dall’allontanarmi quando si apre e Historia in persona si affaccia alla porta.

Sembra che stia per svenire quando mi guarda. Sorrido e faccio un cenno con il pollice verso il suo vialetto.

“Sembra che tu abbia bisogno di spalare il tuo vialetto,” le dico. “Non mi faccio pagare così tanto, lo giuro.”

“Brutto stronzo,” dice lei, con il fiatone, e mi tira giù nell’abbraccio forse più stretto a cui abbia mai preso parte. “Sei un vero stronzo.”

Chiudo gli occhi e la abbraccio a mia volta. I denti mi battono e tutto il mio corpo trema, ma non voglio lasciarla andare per nessun motivo. Historia si tira indietro, tanto da permettermi di guardarla in faccia, e scuote la testa.

“Giuro che sto sognando,” mormora.

“Potrei sempre darti un pizzicotto.”

“Passo,” dice. Mi lascia andare e si fa da parte. “Dai, fa freddo.”

Mi attardo goffamente sulla veranda, chiedendomi se sono davvero pronto a fare questo passo, ma poi Historia mi sorride dolcemente e mi afferra la mano. Lascio che mi conduca all’interno.

“Credo che abbiamo molte cose da raccontarci,” dice, abbassandosi le maniche del maglione sulle nocche, e io annuisco.

“Sì,” dico, espirando piano e sorridendo. “Penso di sì.”

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Go Ahead and Cry, Little Boy

Capitolo 26






 
Levi

Mi sveglio al suono di una risata.

È un suono strano. Non ho mai associato la risata, o qualsiasi forma di felicità, a questa casa. Le braccia mi fanno da cuscino e mi concentro sul suono. Mi riempie una strana sensazione che non riesco a definire con precisione. La mia bocca si asciuga, il mio corpo si intorpidisce e il mio cuore inizia a soffrire.

La risata non è una risata qualsiasi. Non è il personaggio di un film o uno dei colleghi di Kenny. È mia madre e mi getto via le coperte di dosso prima di riuscire a fermarmi. I miei piedi nudi sbattono rumorosamente contro il pavimento di legno mentre corro verso la porta e la spalanco.

Il suono è più forte nel corridoio. Inciampo al piano di sotto e per poco non mi butto a terra con la faccia. Sono senza fiato quando arrivo in soggiorno. I miei occhi sono incollati alla televisione. Guardo mia madre che sorride ampiamente alla telecamera, con gli occhi che si stropicciano agli angoli, e si mette in una posa elaborata. È giovane, probabilmente ha circa la mia età, ma è molto più vivace di quanto lo sarò mai io.

“Buon compleanno, Kuchel,” dice Kenny dalla cassetta. I miei occhi scivolano su di lui e guardo il Kenny in carne e ossa che pronuncia le parole tra sé e sé. “Quanti anni hai adesso?”

“Diciotto,” risponde mia madre, sorridendo e tenendo in mano con orgoglio due candele ricoperte a forma di uno e otto.

“Benvenuta nell’età adulta, sorellina. Cosa desideri?”

Mia madre ride di nuovo. Il suono è bellissimo. Addirittura ipnotico e cado in ginocchio. Il mio petto è insopportabilmente stretto e non riesco a respirare. Non so nemmeno se Kenny si sia già accorto di me o meno, ma non riesco a trovare il coraggio di preoccuparmi. L’unica cosa che riempie ogni singolo interstizio della mia mente è la mamma.

“Non posso dirtelo, sciocco,” dice la mamma, facendo una smorfia. “Altrimenti non si avvererà!”

Getta la testa all’indietro e ride. Kenny fa avanzare velocemente il nastro prima di premere di nuovo il tasto play. Io fisso lo schermo con aria assente, osservando un bambino che guarda accigliato un disegno piuttosto brutto di quello che credo debba essere un camion dei pompieri. Mi ci vuole qualche secondo per capire che sto fissando me stesso. Non ricordo affatto questo momento particolare e osservo con interesse lo svolgersi della scena. Non mi sembra che faccia parte della mia vita. Mi sembra di guardare un film di esperienze altrui e non mie, come se non fossi io la persona che appare sullo schermo.

“Oggi è il mio compleanno. Ma ora non so cosa desiderare,” dice la mamma, con aria solenne. “Quando ero più giovane, ho sempre desiderato di diventare famosa. Era il mio sogno, Levi.”

La telecamera zooma sul mio viso. Sembro confuso, il che ha senso considerando che non posso avere più di cinque anni. Inclino la testa di lato e guardo mia madre con calma. Deglutisco con forza quando vedo l’espressione sul mio viso.

“Ora vorrei solo essere una persona di cui non ti vergognerai da grande,” sussurra con aria distrutta. C’è il rumore di qualcosa che si muove e poi la mamma si accovaccia in modo che la telecamera sia all’altezza del mio viso. Ride dolcemente. “Soprattutto, ti auguro di realizzare i tuoi sogni. So che puoi farlo. So che diventerai qualcosa di grande, Levi.”

Il me sullo schermo la guarda prima di accigliarsi profondamente. “Ho fame, mamma.”

La mamma ridacchia di nuovo, ricca e genuina, e Kenny spegne bruscamente la televisione. La casa si riempie di silenzio. La risata di mia madre mi perseguita e io chiudo gli occhi e abbasso il mento sul petto.

“... Cosa stai facendo?” Finalmente chiedo, aprendo gli occhi. La mia voce è grezza e roca e mi schiarisco la gola dolcemente.

“L’avevi mai visto?” Mi chiede Kenny. La sua voce sembra casuale, come se stessimo discutendo di un film recente o di qualche altra stronzata del genere, e il mio stomaco si agita violentemente.

“No,” rispondo bruscamente. Kenny batte le dita sul bracciolo della sua dannata sedia preferita.

“L’ho trovato quando ti ho aiutato a traslocare,” dice a bassa voce. “Credo che l’abbia fatto tua madre per te.”

Il mio cuore si blocca dolorosamente. Il respiro mi sfugge come se mi avessero preso a pugni. Kenny mi guarda e mi chiedo vagamente quanto sia sobrio in questo momento.

“Stai mentendo.”

“L’ho guardato centinaia di volte,” continua Kenny. “Continuo a pensare che cambierà, che tornerà la sorella che ricordavo. Ma non lo fa mai. Anzi, mi sembra di vedere quella sorella morire anno dopo anno.”

Distolgo lo sguardo, digrignando i denti tanto da far male.

“Perché?” Chiedo, ma non sono nemmeno sicuro di quello che voglio che dica.

“Tua madre era una vittima delle circostanze,” dice Kenny, con voce roca, e io tengo gli occhi puntati sulla parete accanto a me. Non riesco a sopportare di guardarlo. “Aveva tutti questi grandi progetti nella vita, ma la verità è che non era destinata a essere meravigliosa come pensava di essere.”

Mi alzo in piedi all’improvviso, muovendomi così velocemente che la testa mi gira per il cambiamento improvviso, ma non mi importa. Mi precipito verso Kenny e stringo il colletto della sua camicia tra le mani. Non so cosa mi dia il coraggio di farlo, ma ignoro la parte della mia mente che mi urla di fermarmi. Il mio corpo trema forte e le mie dita si arricciano così tanto che mi chiedo se la camicia di Kenny si strapperà.

“Non è vero, stronzo,” dico, sopraffatto da un’emozione che non riesco a collocare, e Kenny si sdraia come una bambola di pezza floscia contro la sedia.

“È facile dare la colpa a te, sai,” mormora. A quel punto allento la presa e la tensione mi esce lentamente dal corpo.

“C-cosa?” Balbetto. Kenny sbatte lentamente le palpebre e io faccio un passo indietro, sentendo come se ci fosse una mano intorno alla mia gola che preme e stringe.

“Avrei potuto incolpare i nostri genitori per averla cacciata di casa. È questo che ha dato il via a tutto questo casino, no? È stata cacciata e ha dovuto trovare un modo per mantenersi. Non aveva un’istruzione universitaria o un diploma di scuola superiore. Per questo ha dovuto vendersi, no?”

Non rispondo. Kenny non aspetta che lo faccia.

“Dovrei incolpare le persone che si sono approfittate di lei. Dovrei incolpare il mondo per averla privata di tutto. Dovrei incolpare tuo padre per essere scappato. Ma invece ho dato la colpa a te. Le ho detto che non poteva averti. Le ho detto che saresti stato solo un peso per lei. Ma lei non riusciva a provare risentimento per te. Ti amava più di chiunque altro su questo maledetto pianeta perché eri suo. Sapeva che nessuno ti avrebbe portato via da lei. Eri la prima cosa che riteneva davvero importante.”

“E allora perché dare la colpa a me?” Chiedo lentamente, la mia voce così stabile e uniforme mi sconvolge.

“Perché sapevo che non ti saresti mai opposto,” sussurra. “Volevo una vittima su cui far ricadere il mio dolore e tu eri il candidato perfetto.”

Distolgo di nuovo lo sguardo, con il voltastomaco, e ascolto Kenny che prende un respiro tremante.

“Pensava che mi sarei preso cura di te. Che ti avrei trattato proprio come avrebbe fatto lei.”

Mi lecco le labbra secche e mi mordo l’interno della guancia tanto forte da sentire il sapore del sangue. I lividi che stanno scomparendo sul mio stomaco pulsano di dolore, come a dimostrare quanto sia ironica tutta questa situazione.

“Non sono mai stato destinato a prendermi cura di qualcuno,” mormora. “Tua madre è stata l’ultima persona per cui sono stato in grado di farlo.” Appoggia il viso sul pugno e mi fissa.

“Mi dispiace,” dico all’istante, ma poi Kenny sorride.

“Non è vero,” dice ridendo piano. “Sai che non è colpa tua. Stai solo cercando di tranquillizzarmi.”

Mi sposto goffamente, avvolgendomi un braccio intorno allo stomaco per istinto e lo guardo. “Beh... ti dispiace, allora?”

“Sì,” dice Kenny, con un’aria stranamente serena. La mia mente corre a fatica a comprendere le parole che lasciano le sue labbra. “Mi dispiace.”

Non so cosa dire. Diavolo, non so nemmeno se dovrei dire qualcosa. Tutto quello che posso fare è guardare Kenny che si alza ed espelle il nastro. Si avvicina a me e lo gira tra le dita, prima di porgermelo.

“Tieni. È tua.”

Afferro lentamente la cassetta. È piccola, tanto piccola da stare quasi perfettamente nel palmo delle mie mani. Mi sembra che stia cercando di fare un buco nella mia pelle e mi chiedo come una cosa così piccola e innocente possa provocare tanto dolore.

“Devo guardarlo?” Chiedo intorno al groppo alla gola.

Kenny sorride tristemente

“Questo lo devi decidere tu.”

Mi aggira e si dirige verso la cucina. Ascolto mentre si prepara un drink, concentrandomi sul suono dei cubetti di ghiaccio che tintinnano in uno dei suoi bicchieri da liquore. Arriccio le dita sul nastro e chiudo gli occhi con forza.

 
***

Non guardo il nastro.

Vado di sopra. Faccio una doccia così calda che quando esco la mia pelle è rosso vivo. Mi vesto lentamente e tiro su il cappuccio della felpa sui capelli ancora umidi. Infilo il nastro adesivo in tasca e stringo le chiavi della macchina tra le mani.

Quando scendo al piano di sotto, Kenny è sdraiato sul divano. Mi soffermo sulla porta, guardandolo, finché non alza lo sguardo e mi guarda. Alza un sopracciglio, ma io non dico nulla e vado verso l’armadio per mettermi le scarpe.

Espirando forte, afferro la maniglia e la strattono con forza. Vengo immediatamente investito da una folata di vento freddo. Sbatto via i piccoli fiocchi di neve dagli occhi e mi dirigo verso la macchina. Mi siedo sul sedile anteriore per un po’, con il riscaldamento acceso al massimo nel tentativo di asciugarmi i capelli, prima di stringere forte il volante e cambiare marcia.

Il cuore mi martella nel petto per tutto il viaggio. Ignoro il pulsare del sangue nelle orecchie e concentro tutta la mia attenzione sulla strada. Non c’è molta gente in giro, ma credo sia perché non sono ancora le sette del mattino. Il sole è praticamente appena sorto e immagino che la gente si stia lentamente alzando dal letto.

Mi passo le dita tra i capelli e continuo a guidare, andando molto più lentamente di quanto dovrei. Ma sono troppo distratto per rispettare il limite di velocità normale. Continuo a guidare, con i palmi delle mani sempre più sudati. Spengo il riscaldamento ed espiro tremando.

La mia mente mi urla di tornare indietro, di buttare questa assetta e di rannicchiarmi sul mio letto, ma non ci riesco. Parcheggio davanti all’edificio che mi è familiare e mi siedo lì per un po
, sentendomi a disagio, ansioso e con una marea di altre emozioni. Non so perché sono qui. Non so cosa mi aspetto da questa situazione, ma tutto ciò che voglio è una sorta di distrazione.

Finalmente scendo dall’auto. La neve scricchiola sotto i miei piedi, ma non ci faccio caso. Scavalco le porte ed entro lentamente, asciugandomi i piedi sul tappetino. Il bibliotecario mi sorride gentilmente, ma io lo ignoro e scruto la sezione computer.

Il cuore mi si stringe quando lo sguardo si posa su Isabel. Ha scambiato i suoi soliti codini con uno chignon disordinato. Ha un aspetto diverso, ma allo stesso tempo familiare e ringrazio la mia fortuna di conoscerla così bene. Se non ci fosse stata lei, avrei perso la testa.

Mi avvicino lentamente, torcendomi le mani. Non ho nemmeno bisogno di dire nulla, perché a metà del mio cammino verso di lei si volta a guardarmi. Lei si mette a sedere più dritta, con le spalle tese, e io deglutisco bruscamente.

Nessuno dei due dice nulla. Le sue mani sono ancora in bilico sulla tastiera e sono abbastanza vicino da vedere che le sue dita tremano.

Mi sposto in avanti prima di inginocchiarmi. Inclino la testa verso il basso e stringo le mani a pugno prima di mordermi forte l’interno della guancia. Sento che mi sta osservando e prendo un respiro tremolante, cercando di non perdere la volontà.

“Mi dispiace,” dico a voce bassa. “Mi dispiace tantissimo. So che non è abbastanza. So che ti ho allontanato senza motivo e che niente può rimediare. Ma... ma non posso più farlo. Non posso più sopportarlo. Mi dispiace, Iz. Ti prego... ti prego...” Non riesco a finire perché ho un groppo in gola e delle lacrime calde negli occhi.

Isabel spinge indietro la sedia e si alza. Il cuore mi crolla nella bocca dello stomaco e mi sembra di essere stato investito da un camion. Ma poi c’è una mano calda sul lato del mio viso e sento il pollice di Isabel premere brevemente sull’angolo dei miei occhi.

“Pensavo che avrei provato qualcosa di diverso, sai,” dice, con voce solenne, e io la guardo con esitazione. Sta piangendo apertamente, ma non riesco a muovermi. Forse voglio vedere che non sono l’unico a essere colpito da tutto questo. Forse voglio solo vedere la dura facciata di Isabel incrinarsi. "Pensavo di poter ridere e mandarti a quel paese. Ma non posso farlo perché... perché dispiace anche a me.”

Espiro tremando, sollevato, e Isabel sorride tra le lacrime.

“Perché ci hai messo tanto, eh?” Chiede, e io rido.

“Non lo so,” ammetto, annaspando e scrollando le spalle impotente. “Credo di aver avuto bisogno di stare da solo prima di capire che avevi ragione.”

“Giusto...?”

“Gli amici non sono sostituibili,” mormoro. “Buoni amici, intendo. Mi dispiace di essere cambiato così tanto.”

“Non dispiacerti per questo,” dice Isabel, scioccandomi. “Tutti cambiano. L’importante è quello che fai di questi cambiamenti.”

Inspiro profondamente e mi alzo, sentendo le gambe rigide. Isabel mi segue prima di asciugarsi il viso con le maniche del maglione.

“Andiamo,” dice, facendo un cenno con la testa verso l’uscita. “Credo che dovremmo parlare.”

Finiamo in un McDonald’s. Isabel ha sempre amato i loro frappé al moka, quindi non mi sorprende quando ne ordina uno e, dopo averne bevuto un sorso, si mette a strillare. Le rido in faccia e la seguo in una delle cabine sul retro. Sono troppo scosso da prima per mangiare, quindi mi siedo e la guardo mentre si gusta i suoi drink.

“Non prenderla male,” esordisce, facendo roteare la cannuccia nella tazza. “Ma cosa è cambiato?”

“Credo di aver toccato il fondo,” dico, strofinandomi la nuca. “Le cose andavano male e poi... sono andate a rotoli.”

Isabel mi guarda con tristezza. “Mi dispiace.”

Sorrido amaramente.

“Non dispiacerti. Non mi hai fatto del male.”

“Invece sì,” dice lei, stringendo le labbra. “Ti ho ignorato per tutto questo tempo. Ho fatto finta che non mi importasse, anche se in realtà mi importava, solo per dimostrare una cosa.”

“Beh, l’hai fatto?”

“No,” dice lei, ridacchiando. “Mi sono solo resa ridicola.”

Faccio spallucce senza impegno e mi mordo il labbro. “Comunque, cosa ci è successo?”

Isabel diventa di nuovo tesa e abbassa lo sguardo sul tavolo.

“Pensavo che ci avresti lasciati indietro,” ammette con dolcezza. “Sembra così stupido adesso, ma è quello che ho pensato in quel momento. Ero così preoccupata che ti dimenticassi di me e di Farlan. Ma onestamente, credo che fossi solo gelosa.”

“Gelosa?” Le faccio eco. Isabel sorride amaramente.

“È come se tu fossi un fiore o qualcosa del genere,” dice, con aria stupita, e io mi sposto goffamente sulla sedia. “Quando eri con noi, eri diverso. Tranquillo. Sobrio, credo. Ma quando sei entrato nella squadra di football, sei diventato un’altra persona. Sei sbocciato. Eri Levi Ackerman. Eri estroverso... vivace. Ero felice che tu fossi felice. Ma poi... ho iniziato a chiedermi perché fossi diverso. Se eri così, perché non eri mai così con me? Ho pensato che ti stavo trattenendo. Non sapevo come affrontarlo e ti ho allontanato.”

Abbasso lo sguardo sulle mie mani, vergognandomi.

“Quello non sono io, Iz,” dico a bassa voce. “Non sono quel tipo di persona. Stavo cercando di inserirmi in un ruolo. Cercavo di reinventarmi in qualcosa di nuovo. Pensavo che fosse l’unico modo per essere felice. Non mi piaceva chi ero. Non mi piaceva la vita che stavo vivendo. Volevo una via di fuga.”

Isabel allunga la mano dall’altra parte del tavolo e io la stringo intorno alla sua senza pensarci due volte. C’è qualcosa di confortante nel suo tocco, qualcosa che mi ricorda improvvisamente che va bene essere solo Levi, e provo una scossa di piacere al pensiero.

“Non devi essere nessuno,” dice incoraggiante. “Sii solo te stesso.”

“Ora lo so,” dico, storcendo le labbra di lato. “Vorrei solo averlo saputo allora. Forse le cose sarebbero potute andare diversamente.”

“Sono felice che le cose siano andate come sono andate,” ammette Isabel. “Io... credo che ne avessimo bisogno.”

Annuisco lentamente. Isabel lascia la mia mano e avvolge entrambe le sue intorno al suo drink.

“Come sapevi dove trovarmi?” Chiede curiosa. Faccio spallucce.

“Ho avuto una sensazione. Un’intuizione fortunata.”

“Eh,” dice lei, bevendo un breve sorso con la cannuccia. “Allora... che c’è di nuovo?”

A questo punto rido forte. Anche Isabel ride, con gli occhi che brillano, e non posso fare a meno di rimpiangere di essermi perso tutto questo. Lei però mi guarda con aspettativa, così le racconto una versione estremamente annacquata di ciò che è davvero importante. Che, onestamente, si riduce a poche cose:

Calcio, Sammy e... Eren.

Tralascio la maggior parte dei dettagli intimi, ma Isabel ha uno sguardo complice.

“Sono gentili con te,” dice. “I tuoi compagni di squadra, intendo.”

Faccio spallucce. “Sono brave persone. Lavorano sodo. Cose del genere.”

“Tutti loro?” Chiede inarcando un sopracciglio. Io sbuffo.

“La maggior parte.”

“Certo,” dice lei. “Dio non regala nulla con entrambe le mani, giusto?”

Non posso fare a meno di ridere di nuovo. Isabel scuote improvvisamente la testa.

“Inoltre, tuo padre è uno stronzo.”

“Sono anni che me lo dici,” ricordo, con le labbra che si arricciano agli angoli, e Isabel sgrana gli occhi.

“Come ha potuto lasciare tua madre? Kuchel Ackerman...” si interrompe di colpo, i suoi occhi si spalancano e io deglutisco a fatica. La cassetta che ho in tasca sembra pesare mille chili. “Cazzo. Mi dispiace.”

“Non scusarti,” dico insensibilmente.

C’è un silenzio imbarazzante intorno a noi. Guardo le piastrelle colorate sul muro prima che Isabel si schiarisca la voce, catturando di nuovo la mia attenzione.

“Allora... Eren Jaeger, eh?”

Sbuffo e mi appoggio alla sedia. “Perché lo dici così?”

“In che senso?” Chiede lei, ma sorride. “Senti, puoi sinceramente biasimarmi? Voglio dire, è Eren Jaeger. È come... non so, su un altro pianeta o qualcosa del genere.”

“Sì, è un modo di dire,” ammetto, grattandomi la nuca. Isabel alza un sopracciglio.

“Ti fidi di lui.”

“Certo,” rispondo senza esitazione.

“È un po’ inaspettato,” dice, con aria un po’ curiosa. “Non avrei mai immaginato che foste amici. Siete molto diversi, sai?”

“No,” dico, scuotendo la testa e trattenendo un sorriso. “Non siamo poi così diversi.”

“Eh…” dice Isabel, tornando improvvisamente a sorridere, e io inclino un po’ la testa di lato.

“Cosa?” Chiedo, le mie orecchie si scaldano, e Isabel canticchia dolcemente.

“Niente,” dice, alzandosi in piedi con un gesto di stizza. “Andiamo. Sono sicura che Farlan sarebbe felice di sapere che la banda è tornata insieme.”

Sogghigno, ma la seguo lo stesso.

 
***

Dopo aver trascorso la maggior parte della mattinata in compagnia di Isabel e Farlan, mi ritrovo di nuovo seduto in macchina. Mi passo le dita tra i capelli e mi appoggio al sedile, fissando il soffitto. Mi sento... diverso. Non so come descrivere la sensazione che mi attraversa, ma è qualcosa di simile al sentirsi di nuovo integri.

Ma poi mi ricordo della cassetta e quella sensazione di serenità crolla. Deglutisco bruscamente, con le dita che mi prudono per afferrarla e gettarla via, per far finta che non esista, ma non posso. È un pezzo di mia madre, un frammento di lei di cui non ho il coraggio di liberarmi.

Glielo devo. Dopo tutto quello che le ho fatto passare, le devo questo.

Metto la marcia e torno a casa. Mi sento senza forze, ma so che devo andare fino in fondo. Lo tengo ben presente mentre entro nel vialetto e scendo dall’auto. Stringo il nastro adesivo tanto forte da far male e faccio alcuni respiri lenti e tranquillizzanti

Salgo di corsa in camera mia. Accendo la televisione, inserisco la cassetta nel lettore e mi siedo ai piedi del letto.

Si apre con una scena della mamma, che probabilmente ha meno di un anno. Ha un sorriso gommoso e pochi ciuffi di capelli neri e setosi sulla testa. Rido dolcemente mentre lei striscia verso la telecamera e dà un bacio umido e bavoso all’obiettivo.

“Diciotto agosto,” dice qualcuno. Sembra una donna e presumo che sia mia nonna. Non ho mai conosciuto nessuno dei miei nonni, perché sono tutti morti prima che io nascessi. La donna sullo schermo ride sommessamente e il suono è quasi simile alla risata della mamma. “È nata una stella.”

Vedo mia madre crescere davanti ai miei occhi. Spettacoli, audizioni, immagini di lei e delle sue amiche che si divertono. Compleanni. Un breve filmato di lei e Kenny che cercano di posare per una foto di famiglia. Poi, c’è un vuoto tra i filmati. Il video successivo mostra mia madre più grande, probabilmente sui vent’anni, con un bambino in braccio.

Sembra fragile sul letto d’ospedale. Sorride, però, e credo che sia sempre stata così. La mamma ha sempre saputo dare spettacolo. È come se sentisse di dover sempre recitare, che qualcuno la guardasse o meno. Era brava, ma non abbastanza da farmi dimenticare che stavamo lottando.

“Il venticinque dicembre,” dice la mamma, con voce morbida e pacata. Mi mostra alla telecamera, che ingrandisce in modo che solo io sia visibile nella culla delle sue braccia. “È nata una stella.”

Inspiro bruscamente. Guardo con aria assente la mia vita che si svolge davanti a me. Più il video diventa recente, più la mano intorno al mio cuore sembra stringersi. Prima che me ne renda conto, sto guardando me stesso che sta per entrare al liceo.

Sono in piedi davanti al liceo Shiganshina, con la testa china. Evito di guardare la telecamera, ma la mamma non smette di cercare di farmi una bella foto.

“Dai, farò tardi,” dice il me stesso del passato, con una voce terribilmente arrabbiata, e la mamma sghignazza.
“Assecondami, tesoro. È il tuo primo giorno di scuola superiore. Come ti senti?”

La mia espressione si addolcisce e sembro vergognarmi di me stesso. Sorrido ironicamente alla telecamera e faccio spallucce.

“Mi sento bene.”

“Sì? Sei emozionato?”

“Certo, mamma. Sono emozionato.”

All’improvviso, il suono della campanella risuona nelle mie orecchie. Sullo schermo i miei occhi si spalancano e scatto verso l’ingresso della scuola. Mamma ride in modo quasi odioso.

“Eccoti di nuovo a scappare da me,” dice con affetto. “Non mi dispiace, sai. Ma non correre troppo lontano! Non posso permettere che tu mi lasci indietro.”

Le sue parole mi fanno venire le lacrime agli occhi. Le allontano e mi costringo a continuare il resto del nastro. Non so da quanto tempo lo sto guardando. Ma non importa. Io... voglio vedere perché ha lasciato questo per me.

All’improvviso, l’atmosfera cambia. Inizia il filmato successivo e so di averlo raggiunto.

Mia madre ha un’aria solenne mentre siede davanti alla telecamera. Fa un breve sorriso, ma non incontra i suoi occhi. Deglutisco oltre il nodo in gola e mi chiedo se riuscirò a superare questo momento.

“Ciao, amore mio,” dice la mamma, con voce sommessa. “Non so come fare, ma credo che dovrò provarci.”

Fa una pausa e guarda il suo grembo. Prende un respiro tremante e continua.

“La vita è stata ingiusta con te, Levi. Lo so. So che la colpa è mia.”

La mamma si morde il labbro. Mi chiedo perché mai pensi che io possa dimenticarla.

“Scommetto che ti sei chiesto perché abbiamo dovuto vivere come abbiamo fatto. Credo che la domanda più comune che la gente fa sia ‘perché’. Non importa cosa sia, la gente vuole sapere il significato delle cose. Crescendo, mi chiedevo sempre il perché. Sono sempre stata molto curiosa. Anche tu eri così quando eri piccolo.”

Sorridiamo entrambi allo stesso tempo, ma il mio si spegne quando vedo il dolore negli occhi di mia madre.

“Ho smesso di chiedere il perché quando i miei genitori mi hanno ripudiato. Non credevano nei miei sogni e non potevano sostenerli. Non ho chiesto il motivo perché per una volta non volevo una risposta. Sapevo che mi avrebbe ferito e per questo non ho fatto domande. Credo che a volte sia giusto non sapere. Se alla fine ti protegge, non c’è niente di male.”

La mamma fa un’altra pausa, premendosi una mano sulla fronte e scostando i capelli dagli occhi.

“Ma... dovresti prendere tu questa decisione. Devi essere tu a decidere di non sapere, non nessun altro. È per questo che lo sto facendo. Nessuno ti costringerà a guardarlo. Dipende tutto da te, tesoro. Puoi anche tornare indietro, se vuoi.”

Lei fissa la telecamera e io penso di spegnere il televisore. Le mie dita si muovono, desiderose di farlo, ma il resto del mio corpo è congelato. Non riesco a distogliere lo sguardo dallo schermo. Non posso fare altro che guardare.

“Se stai ancora guardando, sono orgogliosa di te. Anche se spegnessi e bruciassi questo nastro, sarei orgogliosa di te. Non c’è nulla che tu possa fare che mi faccia allontanare da te. Sei la mia piccola stella, Levi. Lo sarai sempre. Ma... devo dire che mi dispiace. So che non sei orgoglioso di me. Posso dire che quello che ho fatto è stato per te, e sarebbe la verità. Ma questo significherebbe anche trascurare il fatto che sei sempre stato un bambino intelligente. Sapevi cose di cui speravo solo che rimanessi all’oscuro. Credo che sia questa la cosa che mi fa più male di tutta questa storia. Non ho potuto darti l’infanzia normale che meritavi. Kenny... beh, zio Kenny per te...”

La mamma si ferma, prende fiato e continua. Inconsciamente mi ritrovo a fare lo stesso.

“Tuo zio Kenny non voleva che ti avessi. Ma come ho detto, sono egoista. Volevo il mio bambino. Volevo te. Non ho nemmeno pensato alle circostanze. Ho solo pensato che dovevo proteggerti con tutto quello che avevo. Ma non ti ho mai protetto, vero? Non sei mai cresciuto normalmente. Ti ho fatto del male senza nemmeno provarci. Mi... mi dispiace tanto, Levi. Mi credi quando ti dico questo?”

Mi ritrovo ad annuire anche se lei non può vedermi, ma poi la mamma sorride come se sapesse esattamente cosa sto facendo.

“Mi sono detta che non ti avrei mai lasciato. E sinceramente pensavo che non l’avrei mai fatto. Ma non avrei mai immaginato che sarei stata così ferita. Pensavo che le mie esperienze mi avrebbero reso più forte. Ma mi hanno solo reso più debole. Con il passare del tempo, sono diventata sempre più fragile. Man mano che il mio corpo si consumava, si consumava anche la mia mente.”

Rabbrividisco, pensando a come l’ho vista ridursi in nulla.

“Il mio scopo nel dirti questo non è quello di farti sentire dispiaciuto per me o per te stesso,” dice la mamma. “So che ora le cose sono difficili. So che mi odierai. So che quando ti diplomerai, probabilmente non vorrai più avere a che fare con me. Quindi credo che questo sia il mio modo di guarirti. Mi dispiace tanto che tu abbia dovuto vedere le cose che hai visto. Mi dispiace tanto di non essere una madre migliore.”

La mamma inizia a piangere e io osservo le lacrime che scendono silenziose sulle sue guance. Sniffa forte e le scaccia via, scuotendo la testa.

“Ma la cosa più importante che voglio dirti è che sono molto orgogliosa dell’uomo che sei diventato. Voglio che tu ricordi le tue lotte e che le lasci motivarti. Non lasciarti sopraffare da loro come hanno fatto con me. So che le cose sono difficili ora. Ma voglio prometterti che le cose miglioreranno. So che probabilmente ti stai chiedendo perché lo zio Kenny è in giro così tanto all’improvviso. Probabilmente pensi che non ci sia una ragione. Io... voglio solo assicurarmi che tutti noi abbiamo un legame stretto. La famiglia non è mai stata una cosa in cui credevo. Ma tu non meriti di condividere con me questo pensiero.”

Fa un sorriso acquoso alla telecamera.

“Credi nella tua famiglia, Levi...”

“Mamma?” Sono scioccato di sentire la mia voce. “Sono a casa!”

La mamma si asciuga rapidamente il viso prima di guardare di nuovo la telecamera.

“Mi farò perdonare, Levi. Solo... credi in me.”

Il video si interrompe prima di diventare nero e silenzioso. Fisso lo schermo in modo vacuo, tutto il mio corpo trema e non mi rendo nemmeno conto che sto piangendo finché non sento le lacrime scendere sulle mie mani.

Mi siedo e singhiozzo, senza curarmi di chi mi sente. Non riesco a smettere nemmeno quando cerco di fare dei respiri profondi o di distrarmi. Come posso non piangere, dopo tutto? Mia madre mi amava. Lo so.

Ma non mi amava abbastanza per continuare a vivere.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Go ahead and cry Little Boy

Capitolo 27






 
Eren

Ore 12:13, casa di Historia.

Sono ancora in piedi davanti alla sua porta, con le mani infilate il più possibile nelle tasche. Mastico l’interno della guancia tanto da sentire il sapore del sangue e alzo con riluttanza gli occhi per incontrare i suoi.

Historia mi guarda come se fossi un fantasma o qualcosa di altrettanto strano. Credo di non poterla biasimare. La fine della nostra amicizia era arrivata all’improvviso, senza alcun preavviso. Non c’era stato il tempo di fare nulla che si avvicinasse anche solo lontanamente alla chiusura.

Historia si strattona l’orlo del maglione. La osservo con aria assente mentre rigira il tessuto tra le dita un paio di volte, prima di rilasciare un respiro pesante che rimbomba nel silenzio che ci separa.

“Vuoi sederti?” Chiede. Poi fa una pausa, gonfiando leggermente le guance. “Dovresti sederti, Eren.”

“Va bene,” rispondo. Non importa se sto pensando a un miliardo di scuse per andarmene da questa situazione. Non importa che ora ho troppa paura di affrontare Historia.

Lei si allontana dalla porta ed entra in cucina. Mi tolgo gli anfibi, ma lascio il cappotto. Mi aiuta a sentirmi meno accolto. L’ultima cosa che voglio è sentirmi accolto. Non me lo merito. Non mi merito un bel niente.

Mi siedo rigidamente su uno degli sgabelli allineati davanti al bancone. Historia mi osserva contemplativamente prima di sbuffare, con un suono morbido e regolare. Alzo un sopracciglio e lascio che le mie mani si posino flosce sul bancone.

“Cosa?” Chiedo. Lei scuote la testa e si appoggia di fronte a me.

“Niente. Quando eravamo piccoli ti sedevi sempre lì,” borbotta, facendo un gesto verso di me. Mi siedo al centro e all’improvviso sento tutta la nostalgia.

Ripenso a quando probabilmente non riuscivamo nemmeno a vedere oltre questo bancone e rido. Lo ricordo come se fosse successo ieri. Ricordo i pigiama party, in cui ci rintanavamo nel nostro fortino di cuscini e parlavamo di alieni, mostri e qualsiasi altra cosa ci affascinasse. Ricordo di essere stata seduto nella stanza di Historia, ascoltando la sua merdosa collezione di bubblegum pop[1] e pensando che le cose non sarebbero mai cambiate.

È buffo che ora siamo qui, non è vero?

“Sì,” dico, abbassando lo sguardo. “Il centro è un buon posto dove stare.”

“Sì?” Historia mormora.

“Certo. Non sei alla fine. Non sei su nessun lato estremo dello spettro. Sei solo perfettamente equilibrato.”

Historia non dice nulla per un po’. La fisso, il piccolo cipiglio sulle sue labbra, i capelli biondi che le ricadono su una spalla. C’è qualcosa di così familiare in lei, qualcosa di così sicuro e caldo, che vorrei quasi fingere che questo sia un giorno qualunque. Voglio fingere che gli ultimi anni non siano accaduti.

Ma è impossibile. Anzi, è solo un’altra bugia, un altro dei miei tentativi di far finta che tutto vada bene. Forse sto solo peggiorando nel mentire. O forse la parte moralmenteonesta di me vuole davvero essere una persona migliore.

“Perché sei qui, Eren?” Dice Historia. Inspiro e faccio spallucce, con nonchalance.

“Ero nei paraggi. Ho pensato di passare a vedere come stavi.”

Historia mi guarda in modo critico. “Tutto qui?”

Alzo le sopracciglia. “Che c’è, non sono stata abbastanza convincente?”

“No,” risponde lei. “Neanche lontanamente.”

Si china in avanti e io sospiro, facendo di nuovo spallucce.

“Va bene, hai vinto. Volevo vederti.”

“Che cosa è cambiato?”

“Non lo so,” ammetto sinceramente. Mi strofino il braccio e guardo le foto incorniciate che tappezzano il caminetto del soggiorno. “Senti, Historia. So di aver fatto un casino. Le scuse non bastano nemmeno a coprire il tutto.”

Historia scuote la testa. “Non hai bisogno di scusarti con me.”

“Ehm... ti ricordi almeno tutte le cazzate che ti ho detto? Sono abbastanza sicuro che ti meriti delle scuse,” rispondo, confuso, e Historia si mordicchia il labbro inferiore.

“Ti ho già perdonato,” dice a bassa voce. “Non credo di essermi mai risentita per quello che hai detto, in realtà.”

“Avresti dovuto esserlo,” rispondo. “Sono stata decisamente fuori luogo.”

“Beh, sì,” dice Historia. “Ma stavi anche attraversando un periodo di merda.”

“Stai cercando scuse per me.”

“Non sto cercando scuse per te. Sto solo riconoscendo che stavano succedendo molte cose,” insiste Historia con fermezza. Fa un respiro profondo. “Dovrei essere io a scusarmi. Ti ho abbandonato.”

“Non dispiacerti,” dico insensibilmente. “Ci sono abituato.”

“Eren!”

“Merda, scusa,” mormoro. “Senti, non voglio scuse per te. So che le cose non possono tornare come prima. Sono solo grato che tu mi permetta di parlarti in questo momento.”

“Mi sei mancato... mi manchi,” dice Historia, con il respiro affannoso e morbido, e il mio cuore si stringe tanto da farmi male. Cerco di inghiottire il groppo che mi si forma alla base della gola e lascio che continui a parlare. “Vorrei poter tornare indietro. Davvero.”

“Anch’io vorrei poterlo fare,” dico, fissandomi le mani. “Ma non posso, e lo capisco. Ma voglio fare pace con te. Anche tu mi sei mancato, sai? Voglio dire, Dio, siamo stati amici per anni.”

“Lo so,” dice Historia. Si allunga sul bancone per prendere la mia mano e io l’afferro con forza. “Lo so. Mi dispiace.”

“Non credo che sarò mai in grado di spiegare perché ho agito in quel modo,” dico, e all’improvviso mi sento ridicolmente emotiva. “Non posso giustificarmi. Ma voglio che tu sappia che ci sto provando. È uno schifo e lo odio, ma voglio cambiare.”

“So che lo vuoi,” dice Historia, stringendo leggermente la mia mano. “Sarò con te in ogni momento del percorso. Non escludermi.”

“Non lo farò,” prometto. “Lo giuro, non lo farò.”

Le lacrime si raccolgono agli angoli degli occhi e scendono lentamente lungo le guance. Non dico altro perché so che Historia è una di quelle persone che vogliono solo piangere in pace. Così la lascio fare, strofinandole delicatamente il dorso della mano con il pollice. Lei sorride con gratitudine e singhiozza, alzando le mani per togliersi le lacrime dal viso.

“Merda, scusa,” dice ridendo. “Non so perché mi sia venuto in mente.”

Faccio spallucce. “Non fa niente. Io piango sempre.”

“Lo so,” dice Historia, sorridendo. “Dio, eri proprio un piagnone da piccolo.”

“Non lo ero,” mormoro, ma sento il calore che mi inonda le guance. “Ero solo sensibile.”

“Già,” concorda Historia. “È questo che ho sempre amato di te. La maggior parte delle persone pensa che tu faccia quello che ti pare, ma hai un cuore gigantesco. Tieni così tanto alle persone che ti circondano.”

La guardo, un po’ spaesato, e le sorrido dolcemente.

“Anche tu sei così, sai? Ho sempre pensato che fossi una specie di dea.”

“Oh Dio,” sbuffa Historia. “Odio quando la gente dice questo di me, sai? Non sono perfetta o altro.”

“Però ci sei dannatamente vicina,” dico, ignorando lo sguardo scettico che mi rivolge. “Hai sopportato il mio culo per anni, cazzo. Credimi, sei una santa.”

“Non ti stavo solo sopportando, Eren,” risponde Historia. “Volevo davvero starti vicino. Eri il mio migliore amico. Lo sei sempre stato.”

“Non mi hai sostituito?” Dico, un po’ commosso e un po’ dubbioso.

Historia sbuffa e si avvicina per pizzicarmi la guancia. “Dai, Eren. Sei insostituibile.”

“Anche tu lo sei,” dico sinceramente. “Mi sei mancato da morire, sai? Mi ha fatto un male cane, ma sapevo che avevamo bisogno di spazio.”

“Già,” mormora Historia. Si raddrizza e si schiarisce la gola. “Allora, come stai?”

Faccio spallucce. “Sempre uguale, credo.” Faccio una pausa e guardo di lato. “Ho... ricominciato ad andare in terapia.”

“Davvero?” Chiede Historia. “Quando?”

“Non molto tempo fa,” rispondo. “Jean si è trasferito qui e sta cercando di aiutarmi.”

"Come sta?”

“Non gliel’ho mai chiesto,” ammetto, e pronunciare quelle parole mi fa sentire una vera merda. “Un po’ egoista, eh?”

“No, non lo è,” insiste Historia. Abbasso di nuovo lo sguardo sulle mie mani.

“Ho paura,” dico allora, girando i pollici. “È... difficile per me essere onesto. Sembra stupido ora che lo dico, ma sono fottutamente terrorizzato. Voglio cambiare, non fraintendermi, ma mi sono talmente abituato a fare tutte queste stupide stronzate che non so se sarò in grado di funzionare senza.”

“So che puoi farlo,” dice Historia. “Riesci sempre a fare qualsiasi cosa tu ti metta in testa. Io credo in te.”

Il respiro mi abbandona con un’espirazione brusca quando capisco il significato delle sue parole. Deglutisco bruscamente e mi aggrappo al bordo del bancone.

“E tu?” Chiedo, perché sono stufa di parlare di me. “Come stai?”

“Bene,” dice Historia, scrollando le spalle impotente. “Sempre le solite cose, onestamente. Niente di interessante.”

Mi guarda con curiosità, facendomi alzare di nuovo le sopracciglia. “Cosa?”

“Niente. Sono solo... molto felice di vederti.”

“Lo so,” dico sorridendo. “Anch’io sono felice di vederti.”

Rimango nei paraggi per un po’, parlando di tutto e di niente con Historia, e quando me ne vado sono quasi le nove.

Mi fermo sul suo portico, con le mani infilate in tasca, e cerco di memorizzare ogni dettaglio del suo viso. Tutta questa situazione mi sembra un sogno, un intruglio che il mio cervello ha escogitato solo per torturarmi. Mi pizzico il polso, il leggero dolore mi ricorda che tutto questo è reale.

“Dovresti passare di nuovo", dice Historia, appoggiandosi allo stipite della porta. “Mamma e papà chiedono sempre di te. Sei come un figlio per loro.”

“Sì,” dico, sentendomi improvvisamente di nuovo una merda. “Dì loro che mi dispiace, okay?”

“Gesù, Eren. Smettila di scusarti,” dice lei ridendo, ma nei suoi occhi c’è qualcosa che non riesco a capire. Mi dà una gomitata scherzosa e sorride dolcemente. “Diglielo tu stesso.”

“Giusto,” dico sbuffando. “Grazie per avermi ascoltato. Avrei capito se mi avessi sbattuto la porta in faccia.”

“Non l’avrei mai fatto,” dice Historia. “Vorrei solo averti detto qualcosa prima.”

“Va bene,” insisto. “Mi farò perdonare, Historia. Te lo giuro.”

Sembra che voglia discutere, ma invece stringe le labbra e annuisce.

“Va bene,” mormora. “Ci conto.”

Annuisco e faccio un passo indietro. “Non sparirò di nuovo. Promesso.”

“Lo so, Eren,” dice. “Mi fido di te.”

 
***

Ore 14:47, il giorno prima dell’inizio ufficiale delle vacanze invernali.

Non so dove sia andato il tempo. Sembra che dicembre sia iniziato solo ieri, ma non ho intenzione di lamentarmi. Le vacanze invernali significano una pausa dalla scuola. Sarei pazzo a non apprezzarla.

Mi trovo fuori dalla stanza del signor Smith e penso alle cento scuse che ho preparato. Nessuna mi sembra valida e so che il signor Smith odia le stronzate. Non so se sia per via della terapia o per la riappacificazione con Historia, ma ora sto cercando di sistemare disperatamente tutte le cose che ho incasinato. Potrebbe essere solo una questione di tempo prima che combini un altro casino, ma mi rifiuto di pensarci. Sono disposto a provarci. È tutto ciò che posso fare a questo punto.

 Prima di riuscire a dissuadermi, mi aggrappo alla maniglia della porta e tiro.

Il signor Smith alza rapidamente lo sguardo. Lascio che la porta si chiuda alle mie spalle e rimango goffamente sulla soglia, incerto su cosa dire.

“Oh, Eren,” dice il signor Smith, alzandosi in piedi. “Hai dimenticato qualcosa?”

“È giovedì,” dico, con la voce che sembra lontana e mi schiarisco la gola.

Il signor Smith annuisce lentamente. “Ha ragione, è così. Ha bisogno di qualcosa?”

“Ho pensato di accettare la sua offerta,” dico, cercando di sembrare disinvolto. “Sono già spacciato dal punto di vista scolastico, no? Non è possibile che questo peggiori le cose.”

Mi aggrappo con forza alle cinghie della borsa dei libri e rivolgo al signor Smith un’occhiata di intesa. Sembra un po’ sorpreso, ma c’è qualcos’altro nella sua espressione che non riesco a individuare.

“Non pensavo che saresti venuto,” ammette, e io cerco di non trasalire. “Sono felice che tu sia qui, Eren.”

“Pensavo avesse rinunciato,” dico, guardando un poster con sopra un mucchio di cazzate grammaticali. “Mi sa che mi sbagliavo.”

“Credo di sì,” dice il signor Smith. Fa un gesto verso uno dei banchi vuoti. “Prego, accomodati.”

Mi avvicino al banco più vicino alla sua scrivania e cerco di non sentirmi come se stessi camminando sulla tavola o qualcosa di altrettanto schifoso. Mi lascio cadere pesantemente e tamburello le dita contro il piano della scrivania.

“Sono orgoglioso di te, Eren,” dice il signor Smith, sfogliando alcuni fogli sulla sua scrivania. Sbuffo.

“Mi mancano dieci secondi per essere bocciato al liceo. Sono pronto a scommettere che sono lo studente più merdoso che abbiate mai avuto. Non c’è niente di cui andare fieri.”

“Forse è vero,” dice il signor Smith. “Non la parte in cui dici di essere lo studente più merdoso che abbia mai avuto, però.”

Io rido, sorpreso di sentire questa parola uscire dalla sua bocca, e il signor Smith sorride.

“Ha imprecato per primo. Siamo equi.”

“Giusto, mi scusi. Forza dell’abitudine. Ci sto lavorando.”

Il signor Smith gira intorno alla scrivania e vi si appoggia con le mani che lo sorreggono.

“Che cosa è cambiato?” Chiede dopo che tra noi sono trascorsi alcuni battiti di silenzio. Deglutisco con forza.

“Sono stufo di deludere le persone,” ammetto, anche se le parole hanno un sapore acido quando le pronuncio. “È ora che mi dia una regolata.”

“Sono contento che tu sia qui, Eren, ma sei sicuro di stare bene?” Chiede il signor Smith, che sembra davvero preoccupato. “Sono sicuro che sei stanco di sentirtelo chiedere e non voglio pestare i piedi, ma... ero sinceramente preoccupato per te.”

“Perché?” Chiedo prima di potermi fermare. “Merda... cioè, scusi.”

“Va bene, capisco,” dice il signor Smith. “Hai del potenziale, Eren. Lo vedo. Dovrei essere cieco per non vederlo.”

“Credo di averlo perso,” dico, strofinandomi la nuca. “Avrebbe potuto concentrare la tua attenzione su qualcun altro. Isabel ci tiene davvero a questo corso, sa?”

“Lo so,” risponde, ridendo. “So che sei capace di fare grandi cose, Eren. Ma le circostanze non te lo hanno permesso.”

“Circostanze…” ripeto categoricamente. “Non le sembra una scusa?”

“No, non lo è,” dice il signor Smith. “Ognuno affronta certe cose in modo diverso. Non c’è niente di male nell’essere umani e nell’andare avanti.”

Deglutisco a fatica e abbasso lo sguardo sulle mie mani. “Però c’è gente che ha passato di peggio e ha fatto molto di più di me.”

“Sono sicuro che è vero. Ma non ha molta importanza, Eren. Tu sei tu, e stai facendo solo quello che pensi ti possa aiutare nel lungo periodo. C’è qualcosa di ammirevole in questo.”

Alzo lo sguardo, scioccato, e non riesco nemmeno a pensare a una risposta.

“Anch’io ero come te, un tempo,” continua Mr. Smith, e mi ritrovo a aggrottare le sopracciglia.

“Non è possibile,” dico, incapace anche solo di immaginarlo. Il signor Smith è probabilmente l’insegnante più diretto che abbia mai avuto. Un pungolo per le regole e tutto il resto. “Non riesco a immaginarlo.”

“Sono cambiato molto,” ammette. “Ho perso mio padre in giovane età. Non sapevo come affrontare la perdita e pensavo che non l’avrei fatto. Ho fatto qualsiasi cosa che mi facesse dimenticare che non c’era più.”

Mi tiro indietro, incapace di negare il parallelo tra le nostre situazioni.

“Non ha mai funzionato, vero?” Chiedo insensibilmente.

“No, non ha funzionato,” dice il signor Smith. “È stato un miracolo che mi sia diplomato con il resto dei miei coetanei. Non credo che un solo insegnante della mia scuola pensasse che ce l’avrei fatta. A dire il vero, nemmeno io ho mai pensato di riuscirci.”

“È per questo che sta cercando di aiutarmi?” Chiedo.

Il signor Smith annuisce. “Il dubbio è una cosa pericolosa, Eren. Quando gli altri iniziano a dubitare di te, è solo questione di tempo prima che tu lo faccia con te stesso. Le persone non crescono sotto il dubbio e l’intenso esame. Le persone hanno bisogno di spazio per fiorire e svilupparsi. Se questo significa che devono inciampare qualche volta per arrivarci, così sia.”

“Grazie,” dico, con la voce che si incrina. “Mi dispiace.”

“Non scusarti,” dice il signor Smith. “Farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarti. So che puoi farcela, Eren. Credo in te.”

Mi schiarisco la gola dolcemente e faccio un sorriso ironico. “Allora... da dove cominciamo?”

Il signor Smith sorride e prende una pila di fogli.

 
***

Ore 00:01, giorno di Natale.

Scendo di sotto incespicando, fermandomi a metà strada quando vedo che Jean è sveglio e sta guardando uno di quegli speciali natalizi di Hallmark[2]. Mi attardo goffamente, combattuto tra il tornare in camera mia o andare in cucina a prendere la tanto desiderata bottiglia d’acqua.

Decido per la seconda. I miei passi suonano fastidiosamente forti nel silenzio della casa. Mi fermo vicino al divano e i miei occhi scrutano il profilo di Jean. Non distoglie lo sguardo dallo schermo, ma so che si accorge che lo sto fissando.

“Buon Natale,” dico, con la voce roca per il sonno.

Jean si avvicina al tavolo e prende il telecomando. Spegne il televisore e si alza in piedi.

“Vieni con me,” dice dolcemente.

Alzo un sopracciglio, ma lo seguo. Sono sorpreso quando mi conduce in cantina, con il cuore che mi batte forte nelle orecchie. Mikasa ha sempre amato il Natale. Era praticamente l’unica festa di cui le importasse qualcosa.

Mi fermo in fondo alle scale e guardo Jean che si dirige verso il fondo della stanza, con il battito del cuore che aumenta quando mi ricordo che è lì che ho nascosto la mia chitarra.

Immaginando che mi stia per fare una ramanzina, mi preparo per il match di urla che sono sicuro stia per scatenarsi. Non sono pronto per la chitarra nuova di zecca che Jean tira fuori da dietro i quadri di Mikasa. Il respiro mi si blocca in gola quando la guardo. Il legno è di un colore scuro, quasi nero, che sembra brillare anche sotto la merdosa illuminazione del seminterrato. Lo fisso per un tempo inutilmente lungo prima di aprire bocca.

“Wow,” dico. “Sembra costosa.”

Jean lo gira in modo da poterlo guardare. “È tua, Eren.”

Rilascio un respiro tremante. “Non posso.”

Jean si avvicina a me e me lo porge. Mi pungono le dita per avvolgere la chitarra, ma invece stringo le mani a pugno.

“Andiamo.”

“Non posso,” ripeto, con il cuore che mi fa assolutamente male. “Tu... non avresti dovuto.”

“Te lo meriti,” dice Jean. “Ho trovato l’altra chitarra, sai.”

“Lo immaginavo,” dico, mordicchiandomi l’interno della guancia. “Ed è proprio per questo che non avresti dovuto farlo.”

“Volevo farlo,” dice Jean a bassa voce. “Mikasa... l’ha scelta lei. Quando hai iniziato a suonare, intendo. Il piano era di prenderla per te.”

All’improvviso mi viene la nausea. Raggiungo la chitarra prima di rendermene conto. Avvolgo le dita con forza intorno ad essa.

“Cazzo,” dico, perché non so cos’altro dire.

“Ho risparmiato,” ammette Jean, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni del pigiama. “Buon Natale, Eren.”

Stringo più forte la chitarra. “Perché?”

“Perché cosa?” Chiede Jean.

Mi allontano da lui e guardo per terra.

“Perché ti preoccupi di restare qui?” Mormoro, alzando gli occhi per guardarlo. Lui si limita a fissarmi in silenzio. “Tua moglie è morta. Non c’è più nulla che ti leghi a noi.”

“Ti sbagli,” dice Jean scuotendo la testa. “Sei mio fratello, Eren. So che Mikasa se n’è andata, ma questo non significa che io me ne vada così. Siamo ancora una famiglia”.

“Famiglia…” gli faccio eco, e non so bene perché sia questa la parola che mi spezza.

“Famiglia,” dice Jean con fermezza. “Non vado da nessuna parte, Eren. Su questo puoi contare.”

Inspiro profondamente e lo guardo di nuovo, con gli occhi un po’ umidi. Jean è una moltitudine di cose che non sopporto. È prepotente, severo e Dio solo sa cos’altro. Ma a volte mi sento come se fosse l’unica cosa che mi rimane. So che sta soffrendo quanto me. So che dovrei trattarlo molto meglio di come faccio.

“Mi dispiace,” dico, e non è una frase senza senso per togliermelo di dosso. Lo penso davvero, cazzo. “Mi dispiace tanto di essere un tale stronzo.”

“Non farlo,” dice Jean. “Mi dispiace di non aver cercato di capirti.”

Lo guardo, sentendo che finalmente ci capiamo. Forse sarebbe stato meglio se fosse successo prima, ma accetto tutto quello che posso ottenere.

“Non ti ho preso niente,” borbotto.

“Non preoccuparti,” dice Jean, alzando le spalle. “Fatti perdonare l’anno prossimo, okay?”

Sbuffo. “Certo. Grazie, davvero.”

Jean mi saluta. “Non preoccuparti. Sto andando a letto. Non stare sveglio fino a tardi.”

“Capito,” mormoro, guardando mentre si avvia.

Guardo la chitarra ancora per qualche istante prima di portarla in camera mia. Ben sveglio, prendo il telefono dal comodino e torno al piano di sotto. Mi lascio cadere sul divano e scorro senza pensieri Facebook, quando ricevo una notifica di un messaggio.

Sei sveglio?

Lo leggo e sorrido quando vedo il nome di Levi in cima allo schermo.

Purtroppo. Buon Natale

Rispondo e tamburello le dita sulla coscia mentre aspetto.

Allora... ti dispiace aprire la porta?

“Cosa?” Borbotto tra me e me, alzandomi in piedi. Mi avvicino alla porta e la apro con uno strattone, sorprendendomi di vedere Levi in piedi sul portico. Mi fissa, con gli occhi cerchiati di rosso. “Porca puttana, entra.”

Gli afferro il braccio e lo trascino dentro. Si infila le mani sotto le ascelle e non mi guarda.

“Perché non hai suonato il campanello, imbecille?” Chiedo, scuotendo la testa. “Cristo santo, Levi!”

“Ho diciotto anni,” dice, le parole gli escono di getto e io aggrotto le sopracciglia.

“Cosa?”

“Oggi compio diciotto anni,” ripete Levi, più lentamente, e io lo fisso.

‘Aspetto di compiere diciotto anni. Appena succede, me ne vado da lì.’

“Levi…” Non so cosa dire, ma lui scuote la testa.

“Vieni con me,” dice, con un tono un po’ disperato.

“Dove?” Chiedo, cercando di pensare a dove potremmo andare.

“Non lo so, da qualche parte,” dice, e noto il suo respiro pesante.

“Va bene,” acconsento prima ancora di pensarci. “Lasciami cambiare e scendo subito.”

Vado di sopra e mi infilo il primo paio di jeans puliti che trovo. Mi infilo una felpa sopra la camicia sottile e torno di corsa al piano di sotto, prendendo il cappotto e infilando i piedi negli stivali.

“Andiamo,” dico, cercando la mano di Levi. Trasalisco quando le sue dita gelide si allacciano alle mie.

Cammino senza pensieri, con la mente che corre, e prima di rendermene conto siamo davanti alla caffetteria che Mikasa adorava. Inspiro profondamente e ringrazio Dio che non chiuda prima delle due.

Tiro dentro Levi e lo conduco a uno dei tavoli, un separé vuoto in fondo, facendo un sorriso sforzato a una delle bariste.

Lo spingo dolcemente e lui si siede e si accascia, cullando la testa tra le mani. Lo guardo in silenzio, mordicchiandomi il labbro, e mi lascio cadere accanto a lui.

“Levi?” Lo chiamo lentamente.

“Mi dispiace,” dice lui, alzando lo sguardo, e cerco di pensare se l’ho mai visto così distrutto prima d’ora. “È Natale, giusto? Probabilmente vorrai stare con la tua famiglia.”

“Non mi hai mai detto quando è il tuo compleanno,” dico, inclinando la testa di lato. “Natale, eh?”

“Ne ho sentite di tutti i colori,” dice a bassa voce. “Cazzo, mi dispiace.”

“Va tutto bene, Levi,” dico dolcemente. “È... successo qualcosa?”

Lui deglutisce con forza e scuote la testa.

“Ho detto che me ne sarei andato, no?”

“L’hai fatto,” confermo. “Si tratta... di questo?”

“Non posso nemmeno fare niente,” sussurra. “Non posso andare da nessuna parte. Kenny è tutto quello che ho, cazzo.”

Mi siedo lì, aspettando che continui, e lui espira pesantemente.

“Mia madre si è uccisa,” dice, ed è l’ultima cosa che mi aspettavo dicesse.

“Levi...”

“Sapevo che non stava bene. Ma mi sono detto che non era mia responsabilità prendermi cura di lei. Pensavo che l’avrebbe capito da sola. Poi mi sono accorto che si era scolata mezzo flacone di pillole e non c’era modo di salvarla.”

“Gesù Cristo,” dico, sedendomi dritto.

“È successo durante l’estate, poco prima dell’ultimo anno,” continua, con voce sommessa. “Non riuscivo nemmeno a farmene una ragione prima di essere spedito a vivere con Kenny. Le prime due settimane è stato fantastico, poi in qualche modo ha deciso che si sarebbe sentito meglio se mi avesse picchiato a sangue.”

Mi viene la nausea e mi aggrappo al bordo del tavolo. “Levi, io...”

“Per un po’ ho pensato che non mi importasse, sai? Sarebbe stato facile andarsene. Avrei compiuto diciotto anni e me ne sarei andato da lì. Ma poi...”

“Poi cosa?”

“Poi mi ha dato questo nastro,” sussurra. “A mia madre è sempre piaciuto registrare roba. Credo che l’abbia lasciata per me o qualcosa del genere. E Kenny... ha detto che gli dispiaceva.”

La rabbia mi ribolle dentro.

“Cosa, pensa che le sue scuse del cazzo possano sistemare tutto?” Sibilo. “Ha abusato di te e tu dovresti perdonarlo?”

“È proprio questo il problema,” mormora Levi. “Io l’ho perdonato. Non capisco perché mi abbia fatto tutta quella merda. Non lo capirò mai. Ma... non siamo poi così diversi, no? Entrambi stiamo ancora soffrendo.”

“Levi?”

“Non sono stato l’unico ad essere abbandonato,” dice. “Mia madre ha lasciato anche Kenny.”

“Non puoi aiutarlo,” sussurro. “Non dovresti! Capisco che siate entrambi in lutto. Ma ti ha fatto del male, Levi. Ti meriti di meglio.”

Levi mi guarda. “Sai perché sono venuto?”

“Dimmelo,” dico, con il fiato che mi si blocca in gola, e Levi ride sommessamente tra sé e sé.

“Non ho una vera famiglia,” dice con dolcezza. “La mia famiglia non è brava a starmi vicino. Tu sei... tutto quello che ho.”

Mi si stringe il cuore e mi avvicino a lui prima ancora di pensarci, con le braccia strette intorno al suo collo. Lui si aggrappa al mio cappotto e preme il viso sulla mia spalla.

“Ti prego, non andare,” dice.

“Non vado da nessuna parte,” dico, tirandomi indietro per guardarlo negli occhi. “Te lo prometto.”

“Bene,” sussurra, appoggiando le nostre fronti.

Mi mordo il labbro.

“Mia sorella è morta in un incidente d’auto,” dico, la mia voce esce sforzata e gli occhi di Levi si allargano.

“Eren, non devi farlo,” dice, e io scuoto la testa.

“Voglio farlo,” insisto, e deglutisco a fatica. “Nick... ehm, Nick stava guidando. Ero a una festa e le ho chiesto di venirmi a prendere. Un tizio è passato con il rosso e li ha tamponati.”

Faccio una pausa, il respiro mi esce tremante, e Levi strofina il pollice in cerchi confortanti sul dorso della mia mano.

“È stato... così fottutamente difficile, sai? Non sapevo cosa fare. Sapevo che Nick aveva un debole per Mikasa. Pensavo che la mia vita fosse finita e così... siamo andati a letto insieme.”

Il pollice di Levi si ferma. Lo guardo, cercando di capire se è arrabbiato, ma lui mi guarda con calma.

“È successo più di una volta,” continuo con cautela, ma Levi è ancora in silenzio. Faccio spallucce impotente e mi appoggio allo schienale della cabina. “Non lo amavo o cose del genere. Volevo solo dimenticare.”

“I lividi... è stato lui?”

“L’ho voluto io,” ricordo a Levi, ma poi annuisco. “Ma sì, era lui.”

“Oh,” dice Levi con dolcezza. Non ha ancora lasciato la mia mano, il che mi sembra un buon segno.

“Il motivo per cui ti dico questo è che lo capisco,” dico, con la voce bassa. “Ero dipendente da Nick. Pensavo che non sarei stato in grado di sopravvivere se non ci fosse stato lui. Pensavo di aver bisogno di lui per continuare a vivere.”

“Era così?” Levi mi chiede dolcemente.

“No,” rispondo. “No, non ne ho mai avuto bisogno. Non facevo altro che farmi del male. Farsi del male... non ti porta da nessuna parte. Non risolve nulla. Crea solo altri problemi.”

Faccio una pausa, cercando di valutare la sua reazione. “A volte... devi lasciare andare le cose che ti fanno male. È difficile, soprattutto quando è l’ultima cosa che hai di qualcuno, ma non sarà mai quella persona. Tu non puoi riavere tua madre e io non posso riavere mia sorella. Nessuno può sostituirle. Nemmeno le persone che ce le ricordano.”

“Cazzo,” dice Levi, scuotendo la testa. “Sai sempre cosa dire, vero?”

Io sorrido, scrollando le spalle. “È un mio talento.”

Lui sbuffa e si appoggia allo schienale del separé, rispecchiando la mia posizione. Fisso le luci sopra di noi, sentendomi stranamente leggera, e deglutisco a fatica.

“Non sei arrabbiato, vero?” Mormoro.

“Per Nick?” Chiede, guardandomi. Annuisco.

“Voglio dire, ti sei arrabbiato parecchio per la differenza d’età.”

“Non sono arrabbiato con te,” dice. Mi alzo e lo guardo.

“Ma ti ho mentito,” dico, completamente confuso. “Sapevo che eri preoccupato e ti ho mentito spudoratamente.”

“Arrabbiarsi non cambierà quello che è successo,” dice Levi aggrottando le sopracciglia. “Capisco perché l’hai fatto. Lo capisco. Anche se non lo capissi, non mi devi alcuna spiegazione.”

Espiro pesantemente. “Beh, guarda chi è fottutamente perfetto adesso.”

Levi sogghigna e mi tira giù in modo da potermi dare un bacio all’angolo delle labbra.

“Grazie per essere rimasto,” dice, le sue dita giocano oziosamente con i capelli sulla mia nuca. Deglutisco a fatica e ricambio il bacio.

“Grazie per esserti fidato di me,” rispondo, e lui fa un sorriso così ampio che giuro che il mio cuore si ferma alla sua vista.

 

[1] Genere musicale nato negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni '60, sottogenere del garage rock che unisce pop e rock indirizzato ai teenager o ai bambini e destinato al consumo di massa.
[2] Hallmark: Hallmark Cards, Inc. è un’azienda americana privata a conduzione familiare con sede in Missouri. Fondata nel 1910 da Joyce Hall, Hallmark è il più antico e il più grande produttore di biglietti di auguri negli Stati Uniti. 

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Go ahead and Cry, Little Boy

Capitolo 28




 


Levi

Sono le due del mattino quando io ed Eren lasciamo finalmente il bar.

Mi sfrego con forza i talloni dei palmi delle mani sugli occhi, tanto da far esplodere piccole punte di luce sotto le palpebre chiuse. Espiro pesantemente, un misto di frustrazione e confusione mi si accartoccia dentro.

Quando le mie mani ricadono sui fianchi, Eren ne afferra una. Si morde il labbro e io lo guardo, cogliendo ogni dettaglio del suo volto. Mi fissa in modo uniforme, con gli occhi un po’ più larghi e molto più verdi di come li ricordavo. Il lampione di merda non gli rende giustizia, penso tra me e me.

“Che c’è?” Chiede, con il viso arrossato dal freddo. Sniffa e alza un sopracciglio, le labbra si incurvano in un mezzo sorriso.

Il calore si accumula nelle mie viscere e si fa strada verso il mio petto, avvolgendo saldamente il mio cuore. Fa male, ma non quel tipo di dolore che ti fa venire voglia di strapparti i capelli. È come una doccia che non è troppo calda, qualcosa di comodo e facile in cui posso perdermi.

“Fai una foto. Durerà più a lungo,” aggiunge rapidamente Eren, ridendo tra sé e sé, e io sorrido prima di riuscire a fermarmi.

“Non mi tentare.”

Lui sgrana gli occhi e mi dà una leggera spinta con la spalla. Allaccio le nostre dita più strette, accarezzando il dorso della sua mano con il pollice. Le parole mi si bloccano in gola e deglutisco a fatica.

“Grazie,” riesco finalmente a dire. Non mi preoccupo di approfondire.

“Non devi ringraziarmi,” dice Eren. Poi mi guarda con apprensione. “Torni a casa?”

“Sono le due di notte,” dico sbuffando. “Devo farlo.”

“Non voglio che tu lo faccia.”

“Lo so,” dico, avvicinandolo per dargli un bacio sulla guancia. Lui sorride ampiamente e io provo di nuovo quella sensazione di calore. “Voglio dire, abbiamo tutte le vacanze invernali per vederci.”

“Un giorno intero senza di te,” dice, sospirando forte. “Come farò a sopravvivere?”

“Sei così drammatico,” dico con un gemito. “Non ti stanchi?”

“No, non proprio.”

“Almeno sei sincero,” dico, guardandolo con affetto.

Camminiamo in silenzio. A metà strada verso la casa di Eren, lui inizia a dondolare le nostre mani. Io rido delle sue buffonate, mentre un po’ della mia precedente frustrazione sta finalmente svanendo. Lo guardo con la coda dell’occhio, senza volerlo perdere di vista.

“Non voglio che tu te ne vada,” piagnucola dolcemente Eren, e io alzo lo sguardo per vedere che casa sua è a pochi metri. “Potrei benissimo portarti in camera mia di nascosto.”

Sbuffo. “Non stasera.”

Eren alza un sopracciglio. “I miei genitori non sono in casa...”

“Bugiardo,” dico, baciandogli il naso e ridendo quando lo stropiccia.

Lui mi sorride storto, inclinando la testa di lato.

“Avresti detto di sì se fosse stato vero? Solo per possibili occorrenze future.”

“Prova a risponderti da solo,” dico, pizzicandogli il naso in modo giocoso.

Gli lascio la mano, il che sembra smorzarlo un po’. Si strofina la nuca.

“Starai bene?”

“Mi sento già meglio.”

“Intendo più tardi,” dice Eren, aggrottando le sopracciglia. “Kenny non...?”

“No,” dico, e in un certo senso ci credo. “Non farà nulla.”

Eren annuisce e incrocia le braccia.

“Chiamami quando arrivi a casa. O mandami un messaggio. Sembra che tu stia per svenire,” scherza. Alzo gli occhi.

“Non sono così stanco,” dico, ma appena lo faccio, sbadiglio. Maledico il mio corpo per avermi tradito e ignoro lo sguardo compiaciuto di Eren. “Ti mando un messaggio.”

“Lo immaginavo,” dice. Affonda i denti nel labbro inferiore e io sospiro, frustrata.

“Lo fai apposta.”

“... Forse.”

“Me ne vado,” dico, tirandolo in avanti e baciandolo sonoramente. Lui fa un rumore di protesta contro le mie labbra e io scuoto la testa. “Dai, non fare il bambino. Possiamo anche uscire domani, se questo ti rende felice.”

“Sono il tuo bambino,” dice sfacciatamente, ammiccando, e io cerco di fingere di non esserne influenzato. “E sì, questo mi renderebbe molto felice.”

“Fantastico,” dico. “Ci vediamo dopo, ok? Non stare sveglio fino a tardi.”

“Sì, mamma,” dice lui, salutandomi e alzando gli occhi al cielo. Sorride di nuovo e si avvia lungo il vialetto, voltandosi di tanto in tanto a guardarmi. “Torna a casa sano e salvo! Non dimenticare di mandarmi un messaggio!”

“Oh mio Dio, ho capito!” Dico, con le guance arrossate. “Vai a dormire, sfigato.”

Lui tira fuori la lingua in modo scherzoso, ma apre la porta. Aspetto che si chiuda dietro di lui prima di avviarmi verso casa, infilando le dita congelate in tasca. Chiudo la cerniera del cappotto fino in fondo e ci seppellisco la metà inferiore del viso, desiderando di avere una dannata sciarpa o qualcosa del genere.

Quando arrivo a casa, Kenny non si vede. Mi tolgo gli stivali dalla porta e appendo il cappotto nell’armadio prima di salire di corsa, cadendo all’indietro sul letto. Tiro fuori il telefono dalla tasca e mando un rapido messaggio a Eren.

Sono a casa, tesoro.

Sorrido tra me e me, sapendo che apprezzerà il mio tentativo di umorismo. La sua risposta arriva meno di un secondo dopo.

Tesoro? Ho appena vomitato. Non siamo più negli anni Cinquanta.

Alzo gli occhi alla sua risposta.

Faccia da culo.

Ti piace il mio culo ;)

Ehm... no? BUONANOTTE.

:O Bene!!! BUONANOTTE!

Rido tra me e me e faccio scivolare il telefono sul comodino. Sono stanco e troppo comodo per cambiarmi, quindi mi tolgo i jeans e passo la notte. Piego le braccia dietro la testa e guardo davanti a me, con la testa beatamente sgombra per una volta.

I miei occhi si posano sulla videocassetta della mamma. Inspiro bruscamente e mi giro su un fianco, chiudendo gli occhi e costringendoli a dormire.
 
***

“Buon compleanno! E buon Natale. Ma soprattutto, ora sei maggiorenne!”

“Oh mio Dio,” dico, con la voce roca per il sonno. Isabel non sembra preoccuparsene e mi supera letteralmente a gomitate nel corridoio.

“Questo è per te,” dice Isabel, porgendomi una scatola incartata. “È da parte mia e di Farlan, ma al momento è disperso. È stato chiamato al lavoro.”

“Deve lavorare a Natale?” chiedo. Isabel annuisce, sospirando con simpatia.

“Gli orrori di fare il commesso,” dice scuotendo la testa. Batte le mani. “Lo apri o no?”

“Gesù, aspetta un attimo,” dico, ma strappo la carta da regalo e scuoto sperimentalmente la scatola all’interno. “Che cos’è?”

“Non lo so, perché non provi ad aprirlo?” Dice Isabel, incrociando le braccia. Alzo gli occhi.

“Ci sto lavorando,” dico, muovendo il dito sotto la striscia di nastro adesivo.

Si strappa facilmente. Lo stacco completamente e capovolgo il coperchio della scatola. Ripiego la carta velina e scopro un portafoglio sottile ed elegante. La superficie nera lucida brilla sotto la luce del corridoio.

“Porca miseria,” dico, allungando la mano per afferrarlo. Il mio nome è inciso in basso. “Questo è... porca miseria.”

“Il tuo portafoglio ha visto giorni migliori,” dice Isabel, ridacchiando. Distolgo lo sguardo, imbarazzato. Uso lo stesso portafoglio dalla terza media. È logoro ai bordi e manca poco che cada a pezzi, ma è ancora funzionale.

“Grazie. È fantastico".

Lei sorride e si protende in un abbraccio che io ricambio facilmente.

“Non c’è problema. È un po’ difficile trovare qualcosa per il ragazzo che ha tutto, ma ci siamo riusciti,” dice scrollando le spalle. “Allora, hai qualche programma per oggi?”

“Non proprio,” ammetto. Deglutisco a fatica.

Il sorriso di Isabel vacilla appena.

“Tua madre sarebbe orgogliosa,” dice, e quasi odio il fatto che sia ancora in grado di capire cosa sto pensando. “Davvero.”

“Io…”

“Oh, ciao.”

Mi irrigidisco e non oso voltarmi. Isabel si alza un po’ in piedi, lanciando un’occhiata dietro le mie spalle. La guardo, cercando di valutare la sua reazione. Quando ci guardiamo negli occhi alza un sopracciglio, ma io scuoto la testa. Lei non sa nulla di Kenny, se non che è mio zio. È così che voglio che rimanga.

“È un piacere rivederla, signor Ackerman,” dice Isabel con semplicità. “Sono passata a trovare Levi. Spero che non le dispiaccia.”

“No, affatto,” dice Kenny, in modo troppo piacevole, e mi chiedo vagamente quanto abbia bevuto. “Levi non invita spesso i suoi amici. È bello rivederti.”

“Anche per me,” dice Isabel. “Scusate per il disturbo.”

“Non c’è problema,” assicura Kenny. Le sorride gentilmente. “Voi due divertitevi. Io devo fare alcune commissioni.”

“Per esempio?” Chiedo prima di potermi fermare. Mi schiarisco la gola e distolgo lo sguardo, con qualcosa di aspro che mi riempie la bocca.

“Torno per cena,” dice invece Kenny e passa davanti a me e a Isabel per uscire di casa.

Chiudo la porta dopo di lui e mi appoggio ad essa per qualche minuto. Isabel tossisce piano.

“Non farò domande.”

“Grazie,” dico, con convinzione. Mi lecco le labbra. “Io... in realtà dovevo vedere mio fratello oggi.”

“Sammy, giusto?” Mi chiede Isabel. Annuisco. “Ti lascio fare.”

“Dovresti conoscerlo,” dico. “È un bravo ragazzo. A volte mi ricorda te. È un po’ iperattivo.”

“Stai dicendo che sono iperattiva?” Isabel chiede, stringendo gli occhi. Io rido.

“No, certo che no. Vuoi venire?”

“Certo,” dice lei dolcemente. “È il tuo giorno.”

Annuisco e prendo le chiavi. Aggrotto le sopracciglia quando noto che l’auto di Isabel non è in vista.

“Hai fatto tutta quella strada a piedi?” Chiedo, girandomi di scatto per guardarla. Isabel annuisce lentamente.

“Sì...?”

“Avresti dovuto chiamare. Sarei venuto a prenderti.”

“E rovinarmi la sorpresa? Non c’era speranza,” si schernisce Isabel. Mi fa cenno con le dita. “Sono arrivata tutta intera, fratellone. Smettila di preoccuparti per la tua bella amichetta.”

Alzo gli occhi al cielo e sblocco la macchina. Io e Isabel ci sistemiamo e inserisco la chiave nel cruscotto. Espiro dolcemente e allaccio la cintura, aspettando che Isabel faccia lo stesso prima di uscire dal vialetto.

“Bella macchina,” dice Isabel sorridendo.

Mi mordo forte l’interno della guancia. “Mamma ha risparmiato per comprarmela.”

Gli occhi di Isabel si ammorbidiscono. Scuoto la testa.

“Non volevo guidare dopo la sua morte,” dico. “Era troppo doloroso, sai? Ma ero davvero stufo di chiedere sempre passaggi a Reiner.”

Il suo nome ha un sapore amaro sulla mia lingua. Mi ritrovo a pensare a Bertolt. Non gli ho più parlato da quel giorno a casa sua. Mi segno mentalmente di mandargli un messaggio più tardi o qualcosa del genere.

“Levi...”

“Sto bene,” dico scrollando le spalle. Se Isabel nota come le mie mani si stringono intorno al volante, non dice nulla.

Arriviamo a casa di Sammy. Parcheggio lungo il marciapiede e prendo il suo regalo sul sedile posteriore. Isabel sorride alla vista.

“Sei proprio un tenerone,” dice con affetto.

“Stai zitta,” rispondo senza alcun vero astio.

Ci avviciniamo alla porta d’ingresso e suono il campanello. Isabel si aggiusta il cappello e io fisso il vialetto non ancora spianato mentre aspettiamo. Olivia apre la porta dopo qualche minuto.

“Oh, Levi,” dice, prima di rivolgere un rapido sguardo a Isabel.

“Sammy è in casa?” Chiedo. Gli stringo il regalo per enfatizzarlo. “Ho preso qualcosa per lui.”

“Sì, è sveglio,” dice. Mi guarda con aria di sufficienza. “In realtà ci stavamo preparando per andare da mia madre.”

“Oh, non ci vorrà molto,” le dico.

Olivia annuisce e si allontana. Io e Isabel entriamo in casa e ci puliamo le scarpe sul tappeto.

“Questa è la mia amica Isabel,” dico, facendo un gesto verso Isabel. “Isabel, lei è Olivia.”

“Sono la sua matrigna,” dice Olivia.

“Era,” correggo io, con dolcezza, e Isabel si schiarisce la voce.

“Piacere di conoscerla,” dice Isabel.

Olivia le fa un sorriso stretto prima di sparire nel corridoio per andare a prendere Sammy.

“Stai bene?” Isabel chiede a bassa voce.

“Sto bene,” rispondo. Lei sembra dubbiosa e io scuoto la testa. “Sinceramente.”

“Va bene.”

Cadiamo in silenzio quando Sammy scende di corsa le scale. Mi accovaccio in modo da essere all’altezza e gli scompiglio i capelli.

“Ehi, ragazzino,” gli dico.

Mi getta le braccia al collo e io lo stringo forte, chiudendo gli occhi e premendo il viso contro la sua piccola spalla.

“Ehi, ti ho preso una cosa,” dico, tirandomi indietro e porgendogli il regalo. “Buon Natale, piccolo.”

“Wow, davvero?” Gli occhi di Sammy si spalancano. Afferra il regalo con impazienza e sorride. “Grazie, Levi!”

Guarda Isabel oltre le mie spalle.

“È la tua ragazza?” chiede senza mezzi termini.

Soffoco la mia stessa saliva. Isabel fa una faccia disgustata.

“Non mettermi in testa quell’immagine, ragazzino,” dice. Si china e gli dà un pizzicotto sulla guancia. “Sono solo un’amica. Mi chiamo Isabel. E tu?”

“Samuel,” dice lui. Lui sorride. “Puoi chiamarmi Sammy, però.”

“Sammy,” dice Isabel, come se non l’avesse mai sentito prima. Mi guarda sorniona. “Spero che non ti dispiaccia condividere Levi con me. È una specie di fratello anche per me.”

“Davvero?” Sammy dice e io alzo gli occhi al cielo.

“In senso figurato,” mormoro, alzandomi. “Dai, ragazzino. Lo apri o no?”

Sammy strappa la carta da regalo, lasciandosi dietro dei pezzetti di carta. I suoi occhi si spalancano quando guarda il gioco tra le mani.

“Wow!” Esclama, con gli occhi spalancati. “È appena uscito! Come hai fatto a procurartelo?”

“Soldi,” dico, ridacchiando mentre Sammy si lancia verso di me. “Ti piace?”

“Sì!”

“Sono contento,” dico, arruffandogli i capelli. Lancio un’occhiata a Olivia, che ci osserva in silenzio. “Ehi, perché non pulisci tu?”

“Ti aiuto io,” propone Isabel, prendendo un po’ di carta da regalo.

Sammy e Isabel si dirigono in cucina. Io infilo le mani in tasca.

“Non dovevi prendergli niente,” dice Olivia. Faccio spallucce.

“Forse no. Ma è mio fratello,” dico. "Ora devo prendermi cura di lui.”

Lei annuisce e stringe le labbra.

“Mi dispiace per quello che ho detto l’ultima volta che sei stato qui,” dice, e i miei occhi si allargano. “Non posso immaginare quanto debba essere stato difficile per te. Michael non è il miglior uomo in circolazione. L’ho capito adesso.”

Faccio di nuovo spallucce, con la bocca dolorosamente asciutta.

“Non devi scusarti,” dico sinceramente. “L’ho superata. Davvero.”

“Mi sento ancora malissimo,” dice. Sospira dolcemente. “Non posso dire di conoscere molto di te. Ma da quello che ho visto, sei un bravo ragazzo. A Sammy piace averti intorno.”

“Cercherò di essere più presente, allora,” dico. Mi strofino la nuca. “Grazie per avermi permesso di vederlo.”

Olivia annuisce. Sammy e Isabel tornano allora.

“Beh, dovremmo andare,” dico. “Sono sicuro che volete mettervi in viaggio.”

“Di già?” Sammy chiede, deluso, e io annuisco.

“Lo so, ragazzino. Tornerò presto. Promesso.”

Sammy annuisce, con l’aria ancora un po’ contrariata.

“È stato bello rivederti,” dico guardando Olivia. Lei annuisce lentamente.

“Anche per me, Levi,” dice.

Isabel mi dà una pacca sulla spalla mentre ce ne andiamo. La porta si chiude alle nostre spalle e io rilascio un respiro pesante.

“Sinceramente mi aspettavo la matrigna cattiva di Cenerentola,” sbuffa Isabel. Io rido.

“No, Olivia non è così,” dico. È vero. Non mi sono mai preoccupato di conoscerla, più per l’amarezza verso mio padre che per altro, ma lo so. È una brava persona.

“Ehi, Levi,” dice Isabel mentre torniamo alla macchina. Alzo un sopracciglio.

“Cosa?”

“Grazie,” dice. “Anche a me dispiace.”

Scuoto la testa.

“Non preoccuparti. Dai, andiamo a mangiare qualcosa.”

Isabel sorride ampiamente.
 
***

“Ehi, amico, buon compleanno!”

“Grazie,” dico, abbracciando Marco. “Che ci fai qui?”

“Sono venuto a portarti fuori,” dice, dandomi un leggero pugno sulla spalla. “Ho portato anche un amico speciale.”

“Un amico speciale?” Ripeto, stringendo gli occhi. Mi fermo quando noto Bertholdt che incombe dietro Marco, con un’aria imbarazzata. “Oh. Ehi, amico.”

“Ehi,” Bertolt annuisce. Sorride lentamente. “Come ci si sente a essere maggiorenni?”

“Non lo so,” rido. “Dimmelo tu.”

Marco fa una smorfia. “Non avrei mai pensato di essere circondato da vecchi il giorno di Natale. Davvero, non potevi scegliere un giorno migliore per nascere?”

“Zitto,” mormoro, ignorando la risata fragorosa di Marco. “Davvero, dove stiamo andando?”

“Fuori,” dice Marco. “In realtà ho invitato un altro ospite speciale. Ma è una sorpresa, temo.”

“Ah-ah,” dico, perché non voglio nemmeno iniziare a pensare a cosa potrebbe significare. “Andiamo, allora.”

Marco annuisce e mi spinge. Mentre lo facciamo, fisso il mio vialetto vuoto e mi chiedo se Kenny sarà a casa quando tornerò. Sono quasi le nove e non lo vedo. Decido di non pensare a lui e di concentrarmi sui miei amici. Marco mi spinge sul sedile posteriore della sua auto, mentre lui e Bertholdt siedono davanti.

“È bello vederti,” dice Marco a Bertholdt. “Ti sei nascosto, amico. Mi sembra di non vederti da anni.”

“Sì, beh, ho pensato che non ci fosse motivo di restare,” dice Bertholdt. L'implicazione dietro le sue parole mi fa venire la nausea, ma me la scrollo di dosso. Non stasera. Non ho intenzione di pensarci stasera.

Marco canticchia dolcemente e accende la radio. Appoggio il mento sul pugno e guardo fuori, senza mai soffermarmi troppo a lungo su un punto. Ogni casa che passiamo ha qualche tipo di decorazione natalizia. Mi fa ridere l’innumerevole quantità di Babbi Natale gonfiabili che incrociamo.

“Okay, domanda seria,” dice Marco lentamente. “Ricevi regali di Natale e regali di compleanno? O solo uno?”

“Ehm... non lo so,” dico, sbattendo lentamente le palpebre. Ripenso all’anno scorso, quando la mamma aveva messo un sacco di roba sotto l’albero. “Entrambi, credo.”

“Fortunato figlio di puttana,” dice Marco. “Io sono fortunato se ricevo una dannata carta regalo.”

Bertholdt sghignazza e io mi ritrovo a sorridere al suono. Il resto del viaggio è trascorso con Marco che fa battute natalizie terribilmente esilaranti. All’improvviso si ferma e batte le mani.

“Bene, capitano,” dice, incontrando i miei occhi nello specchietto retrovisore. “Preparati a essere stupito.”

Alzo gli occhi ma scendo dall’auto. Mi sfrego le mani e mi guardo intorno.

“La piazza della città?” 

“Vieni con me,” dice Marco, gettandomi un braccio intorno alla spalla e portandomi avanti.

Sospiro, ma lo seguo, Bertholdt a qualche passo di distanza. Ci troviamo davanti al gigantesco albero di Natale non illuminato. Ci sono poche altre persone. L’accensione dell’albero di Natale non è mai stata una cosa importante. Le uniche persone che vengono religiosamente sono coppie di anziani. Non che mi dispiaccia, naturalmente. È solo un po’ triste.

“Ehi,” dice qualcuno contro il mio orecchio, il suo respiro caldo contro la mia pelle gelata.

Mi volto e vedo il volto sorridente di Eren.

“Che ne è stato del fatto che ci vediamo domani?” Chiedo, inclinando la testa di lato.

Eren sogghigna e indica Bertholdt e Marco, che distolgono rapidamente lo sguardo.

“Va bene che tu sia qui?” Chiedo, alzando le sopracciglia. “Alla tua famiglia, intendo.”

“A loro sta bene,” dice lui, intrecciando furtivamente le nostre braccia. Guardo Marco e Bertholdt, che fanno del loro meglio per non guardarci. Sorrido dolcemente. “Ho detto che era il compleanno di un amico molto speciale.”

“Un amico molto speciale,” ripeto, ridacchiando. “Questo è un modo per dirlo.”

“Bene, lo spettacolo inizia,” annuncia Marco. Alzo un sopracciglio e guardo l’albero.

Un uomo è in piedi alla base, con un telecomando in mano. Le coppie di anziani iniziano un conto alla rovescia e io li guardo, sentendo il calore del respiro di Eren contro la mia guancia.

“Tre...”

“Due...”

“Uno...!”

L’albero esplode in una moltitudine di luci, uno spettacolo brillante di colori che mi lascia a dir poco senza fiato. Marco ed Eren esultano, mentre io e Bertholdt ci accontentiamo di manifestazioni di gioia più silenziose.

“Buon compleanno,” sussurra Eren.

Sorrido e lo tiro verso di me, baciandolo appassionatamente. Sento Marco e Bertholdt che dicono qualcosa dietro di noi, ma non mi importa. Il calore che avevo sentito all’inizio della giornata è tornato in tutta la sua forza.

“Dio, ti amo,” dico senza pensarci.

Gli occhi di Eren si spalancano e la punta delle sue orecchie diventa rossa. Appoggio le mani sulla sua vita, con il respiro che mi si blocca in gola.

“Dici davvero?” chiede, con voce sommessa. “Mi ami?”
 
“Certo, amore,” dico, baciandolo di nuovo. “Ti amo.”

Eren ride, dolcemente, e mi cinge il collo con le braccia.

“Anch’io ti amo,” dice.

Lo bacio di nuovo, solo perché posso, e quando ci stacchiamo Marco e Bertholdt guardano velocemente verso l’albero. Rido e tiro Marco verso di me.
“Grazie, amico,” dico, facendo un gesto verso l’albero. “Per avermi portato qui, intendo.”

“Abbiamo pensato che sarebbe stato difficile per te,” dice Bertholdt, e capisco subito che sta parlando della mamma. “Spero che questo ti abbia fatto sentire meglio.”

“Sto bene,” dico.

“Tra l’altro, è stata un’idea di Eren,” aggiunge Marco. “All’inizio non voleva, ma abbiamo insistito perché venisse.”

“Non volevo che vi stancassi di me,” dice Eren, sorridendo. “Sai, dato come ti ho visto stamattina.”

“Stufarmi di te?” Ripeto, alzando un sopracciglio e baciandolo a stampo. “Impossibile.”

Lui sgrana gli occhi e mi urta delicatamente con il fianco. Sono quasi le dieci, quindi ci dirigiamo verso una piccola tavola calda per mangiare qualcosa. Ci accalchiamo tutti in uno dei minuscoli tavoli e fissiamo i menu per un po’.

“Ehi,” dico, attirando l’attenzione di tutti. “Grazie. Davvero. Questo... è stato probabilmente il miglior compleanno di sempre.”

“Te lo meriti,” dice Eren.

“Sei stato uno dei migliori amici che potessimo desiderare,” interviene Marco. Bertholdt annuisce e io non posso fare a meno di sorridere. “Dovremmo essere noi a ringraziarti.”

Ordiniamo il nostro cibo e mangiamo in silenzio una volta ricevuto. Marco si schiarisce la gola e ci guarda.

“Ehi,” dice. “Siete felici?”

“Cosa?” Chiede Eren.

Marco lancia un rapido sguardo tra di noi.

Ah.

“Lo siamo,” dico, guardando Eren.

“È l’unica cosa che conta, allora,” dice Marco. “Avresti dovuto dirmelo, sai.”

“Non c'è molto da dire,” ammetto.

Eren ridacchia.

“Ha ragione, non c’è,” dice. “Ma sì, va tutto bene. Noi... ehm, stiamo bene insieme.”

“Sono contento di sentirlo,” dice Bertholdt con dolcezza, ed Eren sorride.

Finiamo di mangiare e paghiamo il conto.

“Ehi, noi andiamo alla macchina,” dice Bertholdt, facendo cenno con il pollice alle spalle.

Lui e Marco scompaiono, lasciando me ed Eren in piedi fuori dalla tavola calda.

“Il miglior compleanno di sempre, eh?”

“Certo,” rispondo io.

“Ho qualcosa per te,” dice Eren, mordendosi il labbro. “È...”

“Non osare dire stupidaggini,” dico.

Eren scuote la testa e si mette in tasca. Mi lascia cadere in mano qualcosa di leggermente freddo e io lo guardo, con le sopracciglia aggrottate. È una chiave di ottone lucido, attaccata a un sottile cordoncino di cuoio.

“Che cos’è?” Mormoro. Lui si umetta le labbra.
 
 
“Me l’ha data mia sorella,” dice. “Ha detto che era la chiave del suo cuore e che finché l’avessi avuta, il suo cuore sarebbe stato sempre mio e che mi avrebbe sempre amato.”

“Eren...” Sussurro. “Non posso accettarlo.”

Lui scuote di nuovo la testa. “Mi ha detto che un giorno avrei trovato qualcuno a cui darlo. Quindi... la sto dando a te. Ora hai la chiave del mio cuore. Il mio cuore è tuo.”

“Cristo santo,” dico, senza parole e sopraffatto dalle emozioni.

“Mi dispiace,” dice Eren velocemente, e io scuoto la testa.

“Non scusarti,” dico, allungando la mano e legandomela al collo. “È perfetto. Lo adoro. Ti amo.”

“Anch’io ti amo,” dice con calore, e ogni centimetro del mio corpo ne risente.

“Mi fai sentire una merda, lo sai,” mormoro, stringendolo a me. “Non ti ho preso niente.”

“Sei più che sufficiente per me,” dice. Deglutisco con forza.

“Aspetta, ho qualcosa.”

Eren mi guarda con curiosità.

“Che cos’è?”

Mi schiarisco la gola dolcemente. “Esci con me. Ti vengo a prendere, ti porto dei fiori, tutto quanto.”

“Davvero?” Chiede Eren, ridacchiando.

“Sì,” dico io, annuendo. “Rendiamo... rendiamo la cosa ufficiale.”

“Mi stai chiedendo di uscire?”

“Sì,” dico. “Hai intenzione di dire di sì?”

“Certo,” dice, baciandomi con decisione, e mi sembra di poter toccare il cielo. “Immagino che non ti preoccupi più della tua reputazione, eh?”

“Fanculo la mia reputazione,” dico. “Tu sei l’unica cosa che conta.”

Eren ridacchia dolcemente e io lo bacio di nuovo.

“Dovresti andare,” dice, facendo un gesto verso la macchina di Marco. “Probabilmente vogliono vederti.”

“Possono aspettare.”

“Levi.”

“Va bene, va bene,” dico, allontanandomi con riluttanza. La collana è un peso piacevole intorno al mio collo.

Eren ride e mi saluta. Mi volto prima di chiamarlo al di sopra della mia spalla.

“Ti amo, Eren Jaeger,” dico, fregandomene di chi mi sente.

“Anch’io ti amo, Levi Ackerman,” dice Eren, con gli occhi che brillano, ed è la cosa più bella che abbia visto in tutta la maledetta giornata.

Quando finalmente arrivo alla macchina di Marco, entrambi hanno dei sorrisi di merda sul viso.

“Che c’è?”

“Niente,” insiste Marco. “Sono solo molto onorato di aver assistito a una scena così tenera e affettuosa.”

“Oh, stai zitto,” dico, ma non riesco a trattenere il sorriso.

Marco ride e si allontana dal vialetto. Mentre passiamo, i miei occhi si posano sull’albero di Natale e tutto il mio corpo si riempie di calore.

“Il miglior compleanno di sempre.”

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