Guerra

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: fascisti e partigiani ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: Ombre dal passato ***
Capitolo 3: *** Capitolo III: la resa dei conti ***



Capitolo 1
*** Capitolo I: fascisti e partigiani ***


Guerra, capitolo I
Fascisti e partigiani



 


15 marzo 1945, mattina.                                        
Arturo Ghidini, colonnello della Guarda Nazionale Repubblicana di Brescia, varcava in quel momento il portone della caserma. Aveva la divisa in perfetto ordine e le medaglie appuntate sul petto, come se fosse stato un giorno qualunque, ma dentro di sé l’uomo sapeva che il fascismo stava ormai contando i suoi ultimi respiri.
L’aria era plumbea e minacciava pioggia, ma alcuni coraggiosi raggi di sole primaverile facevano la loro comparsa tra i cirri violacei.
Il soldato attraversò a passo svelto il cortile e si fermò di fronte al suo superiore, facendo il saluto romano.

“Colonnello Ghidini ai suoi ordini, signore” annunciò.

Il superiore rispose al saluto, poi volse lo sguardo ai militi radunati di fronte.

“Vi ho mandati a chiamare per assegnarvi una missione che reputo solo voi possiate portare a termine. Vi ho osservato, in questi anni, e vi ritengo adatto a gestire un’operazione del genere in un momento delicato come questo. Siete fedele e diligente nei confronti del Fascismo, e so che lotterete fino alla morte piuttosto che arrendervi agli Alleati o ai comunisti.”

Mentre Cantoni parlava Arturo sentiva un moto di orgoglio scaldargli il petto: era stato un soldato fedele al Duce, aveva combattuto tutte le battaglie che gli erano state richieste, e ne andava fiero. Mai avrebbe pensato di rifiutare un incarico, nemmeno se si fosse trattata di una missione suicida, poiché credeva in quello per cui combatteva.

“Voglio che conduciate questi uomini sulle montagne. Stanate i ribelli, fateli prigionieri, giustiziateli: il governo è stato chiaro in merito; occorre indebolire il più possibile il movimento partigiano. Estirparlo, se possibile. Sono consapevole della delicata situazione interna al nostro paese, Ghidini, ma io scelgo di essere fedele al Fascismo fino alla fine. Ora vi chiedo, accettate la missione?”

Prima di rispondere, il soldato volse lo sguardo al manipolo di militari che lo avrebbero accompagnato sulle montagne. Erano appena una decina, con solo un accenno di barba sul collo. Il più giovane poteva avere sedici anni, il più anziano probabilmente non arrivava a venti. Erano militi dell’ultima ora, arruolati con un estremo, ultimo slancio patriottico, probabilmente terrorizzati dai giudizi della gente se avessero lasciato l’Italia in mano agli Alleati senza combatterli. La maggior parte di loro probabilmente non era nemmeno allenata alla guerra.
Arturo sperò soltanto che non sarebbero fuggiti al primo accenno di sparatoria. Si rifletteva nei loro occhi bassi e vedeva se stesso alla loro età, diviso tra la fedeltà al fascismo, la figura di un padre che oscurava tutto il resto e le amicizie per le quali non era riuscito a combattere. Si era aggrappato alla prima per sfuggire alla altre, buttandosi a capofitto nella preparazione militare ed uscendone cambiato, più forte, più consapevole, più uomo.

“Accetto l’incarico, signore.”

 
*** 


Seduto sul retro del furgone, il colonnello sentiva ogni buca nel terreno. La strada era particolarmente sconnessa: probabilmente erano stati gli stessi partigiani a danneggiarla per rendere più difficile l’avanzata di eventuali squadre fasciste. Gli alberi parevano muoversi ai lati del sentiero, nascondendo nemici con il fazzoletto rosso al collo. Arturo era consapevole che quella si trattava di una missione suicida: le bande partigiane della zona erano ben organizzate ed erano state capaci di dimostrarlo in altre occasioni. La popolazione li appoggiava portando loro cibo, medicamenti, messaggi. Tutto ciò che permetteva a loro, soldati del Duce, di continuare a combattere era l’ardore patriottico che vedeva brillare negli occhi di quei giovani inesperti che lo accompagnavano. O la Patria o la Morte, parevano gridare.
Ghidini alzò una mano e l’autista recepì il messaggio. Il furgone militare si fermò con uno sbuffo silenzioso. Di fronte a loro, il sentiero si biforcava; Ghidini, che da ragazzo era stato assiduo frequentatore di quelle montagne, sapeva che oltre a quelli soltanto una strada, ben più battuta da fascisti e tedeschi, portava al paese: i partigiani non l’avrebbero mai usata. Bloccando quei due passaggi, non avrebbero avuto alcuna via di scampo.

“Voi quattro, controllate il sentiero di destra. Voi altri, con me, quello di sinistra. Gli altri restino nei pressi del furgone e pattuglino la strada da cui siamo venuti. Nessuno deve passare non visto. Intesi?”

I soldati annuirono e si posizionarono secondo gli ordini, con i fucili spianati di fronte a loro. Erano tesi come ragazzini al primo appuntamento, Ghidini lo sapeva. Sentiva l’odore della loro paura, la loro smania di sparare, i nervi nelle loro gambe fremere. Sospirò, perché era consapevole che in battaglia l’eccitazione era nemica, ma puntò anch’egli il fucile, con il dito indice sul grilletto.
 
 ***
 

“Bloccano i sentieri.”

Un ragazzo dai capelli scuri si precipitò nella baita e si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato.

“I fascisti bloccano i sentieri”.

Sebastiano si passò le mani dietro al collo, poggiando la testa contro al muro cui era appoggiato. Non dormiva da giorni, se non brevi sonnellini quando gli altri membri della banda lo obbligavano a prendersi una pausa, e si sentiva esausto. L’ansia gli attanagliava le viscere e l’incertezza non faceva altro che peggiorare la situazione.  Era a capo di quella formazione partigiana solo da pochi mesi, dopo che il comandante precedente era stato catturato. Di lui non si sapeva nulla, né se era morto, né se aveva parlato. Sebastiano sapeva che era forte, ma i metodi fascisti erano capaci di far crollare la volontà di chiunque. Ogni giorno che passava il giovane si aspettava di sentire la Guardia Nazionale bussare alla porta della baita per prenderli e portarli in carcere. Quasi gli pareva, certe sere, di sentirsi già la corda intorno ai polsi.
Il capo volse gli occhi verso la fotografia sfuocata della Madonna che qualcuno aveva appesa sul muro e un sorriso amaro gli scappò dalle labbra: lui non era cattolico, non credeva a quelle cose. Ma per alcuni suoi compagni era rincuorante avere quell’icona appesa, e lui li lasciava fare. Il ragazzo castano era uno di quelli, partigiano dopo che il colonnello fascista gli aveva ucciso il fratello perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sebastiano gli fece un cenno.

“Grazie, Spartaco. Venite dentro”.

Di nuovo il suo sguardo arrivò alla foto della Madonna. Maria, come la staffetta partigiana che era entrata a far parte a pieno regime della banda dopo che i fascisti l’avevano scoperta e interrogata. Era corsa da loro con i capelli tagliati e il visto segnato dalle percosse, libera per intercessione di suo zio, sindaco del paese. Era stata fortunata: erano pochi quelli che riuscivano a sfuggire alla Guardia Repubblicana.
La ragazza stava entrando in quel momento insieme agli altri.

Montagna, Chiara e Falco, con me. Spartaco e gli altri, aggirateli dalla parte opposta. Cercate di non sparare finché non sarà strettamente necessario, abbiamo poche munizioni.”
 
***


Così, nel giro di un’ora, la montagna risuonò dell’eco degli spari. Li sentirono in paese, in caserma, tra le bande partigiane vicine.
Arturo Ghidini, non appena comprese che i partigiani erano riusciti ad accerchiarli nonostante i sentieri bloccati, sentì un moto di rabbia invadergli il petto. Su di lui gravava il peso di quella missione. Non poteva fallire, per rispetto di Cantoni, del Fascismo, dell’Italia, della sua famiglia.

“Sparate, soldati, sparate!” incitò i militi che lo accompagnavano.

Ma era già troppo tardi: un giovane fascista cadde colpito, e i partigiani approfittarono degli istanti di sgomento che seguirono per uscire con i fucili spianati.
Ghidini si rese conto che, pur essendo in numero superiore, non potevano sperare di uscirne vivi: i suoi soldati avevano paura. L’eccitazione, di fronte al pugno in pancia che era la morte di un compagno, era scomparsa. Non avrebbero sparato agli uomini che li tenevano sotto tiro, non sapendo che in cambio avrebbero ricevuto senza dubbio una pallottola in testa. Non vedendo altra via di fuga Arturo alzò le mani in segno di resa, imitato dagli altri.

“Armi a terra” intimò un partigiano.

Arturo gettò a terra il fucile imprecando. Non erano durati nemmeno un’ora, si erano fatti incastrare come topi di fogna. Sentì la rabbia e il disgusto ribollirgli in petto e un odio che non provava da anni che si faceva strada in lui. Gli parve di vedere la scena da fuori: dieci fascisti armati di tutto punto accerchiati da otto partigiani con le braghe rotte e gli occhi cerchiati dal sonno.
Patetici gli venne da pensare. Un istante dopo si chiese però se quel patetici fosse rivolto ai partigiani o a loro stessi.
Arturo cercò di pensare a una via d’uscita, non volendosi arrendersi all’idea della sconfitta. D’un tratto, sollevò lo sguardo e ciò che vide gli fece rivoltare lo stomaco. Il partigiano che pareva guidare la banda aveva occhi azzurri e capelli biondi che gli incorniciavano il viso spigoloso. Così ariano, avrebbe detto un tedesco, così diverso da lui, con gli occhi e i capelli neri come la camicia che aveva indossato quando pattugliava le strade con il manganello. Ma non era quello che lo sconvolgeva e lo disgustava: quel viso pareva riemergere come un fantasma dai sui ricordi d’infanzia.
 

“Seba! Seba!”
Appena la porta della scuola si chiuse dietro di loro, un bambinetto dai capelli scuri corse ad abbracciare l’amichetto biondo. Si erano conosciuti l’anno prima, quando il piccolo Arturo aveva cambiato quartiere. I due bambini si erano ritrovati compagni di banco ed erano diventati inseparabili. Arturo percepiva che l’amico a suo padre non piaceva, ma non riusciva a capire il perché. Lui gli voleva bene, giocavano insieme a pallone, a guardie e ladri e a nascondino.

“Ciao!”

Il bel viso di Sebastiano, incorniciato da lunghi ciuffi biondi, si aprì in un sorriso enorme quando vide l’amico. Subito aprì la cartella di cuoio e tirò fuori una scatola che conteneva i suoi trofei estivi. C’erano una pigna, un fazzoletto rosso e un piccolo ingranaggio storto.
Gli occhi di Arturo si illuminarono: Sebastiano sapeva raccontare delle magnifiche storie partendo dagli oggetti che raccoglieva per casa, e l’amico era certo che quell’estate aveva vissuto avventure incredibili.
Il biondino prese per prima la pigna.

“Questa l’ho raccolta sulle montagne, mi ci ha portato il mio papà. Ci sono un sacco di sentieri e un sacco di baite e di cascine, il mio papà mi ha raccontato la differenza, però non me la ricordo. E poi siamo arrivati in cima e si vedeva tutta la valle, giù fino a Brescia! Però la storia dell’ingranaggio è ancora più bella.”

Il bambino afferrò l’altro oggetto.

“Mio fratello ha cominciato a lavorare in fabbrica, perché ha detto che di studiare non ha voglia e che in fabbrica girano degli ideali, ha detto proprio così, degli ideali. E allora lui va lì al lavoro e a volte ci resta anche dopo, a parlare con i suoi colleghi operai. Tutte le volte torna contento, tipo acceso, sembra brillare. Un giorno mi ha portato questo, dicendo che si era rotto e che era un pezzo difettoso, che però essere difettosi non è necessariamente brutto. Tipo questo pezzo qui doveva andare in un fucile ma visto che è rotto si farà un fucile in meno e quindi una persona buona in meno verrà uccisa.”

Arturo lo interruppe.

“Ma il mio papà dice che con i fucili ci si uccidono le persone cattive mica quelle buone. Dice anche che il rosso è un brutto colore, che è il colore dei conumisti! È conumista anche quel fazzoletto lì?”

Sebastiano afferrò il fazzoletto e fece spallucce.

“Non lo so cosa sono i conumisti, Artu. Me lo ha dato papà anche questo, mi ha detto che era bello, che si intonava con i miei capelli biondi. Però si intona bene anche con i tuoi neri, se vuoi te lo regalo a te.”

L’altro ragazzino annuì contento. Fece per prendere il fazzoletto, ma in quel momento entrò la maestra. I due bambini ridacchiarono e corsero al loro posto. All’improvviso, Sebastiano parve ricordarsi di una cosa importantissima. Dalla tasca del pantalone che indossava tirò fuori una biglia lucida.

“Scherzavo, ti regalo questa!” sussurrò, facendo attenzione a non farsi sentire dalla maestra.
“L’ho trovata in piazza un giorno, però so che a te piacciono un sacco e allora ho deciso di portartela!”

Arturo sorrise entusiasta e strinse la mano dell’amico.

“Grazie Seba. Sei un grande!”

Il bambino sorrise, poi si voltò verso la lavagna e cominciò a scrivere sul quaderno.
1 settembre 1924.
 

“Sebastiano Franzoni” non poté trattenersi dal dire il colonnello.

Si sforzò di non far tremar la voce, di velare le parole di disprezzo, ma dallo sguardo che soldati e partigiani si scambiarono non fu certo di esserci riuscito.
Gli occhi del partigiano, fino a quel momento ben fissi sulle armi che alcuni soldati ancora avevano in mano, saettarono verso di lui. Un lampo di sorpresa li illuminò, e il colonnello non seppe cosa aspettarsi.

“Arturo Ghidini” rispose il ragazzo biondo.

a sua voce era ghiacciata, senza l’ombra di quelle emozioni che si erano invece, mal nascoste, insinuate in quelle del soldato.
Ghidini sentì tutto quello che lo aveva portato a combattere fino a quel momento sgretolarsi davanti a quella voce, che pure suonava così fredda, così diversa da quella che ricordava. Non seppe cosa dire, cosa fare. Si sentì impotente come un bambino.
Il partigiano nel frattempo si votò verso i compagni.

Falco. Portali via. Sai cosa fare”

Il ragazzo lo guardò, per un attimo smarrito. Di solito, era il capo che si prendeva la briga di legare i prigionieri e di scegliere dove portarli per interrogarli. Ma vedeva i polsi di Sebastiano tremare, e si rese conto che quel nome che aveva pronunciato con tanta freddezza in realtà significava qualcosa per lui. Si avvicinò dunque ai soldati tenendoli sotto tiro con l’intenzione di legargli le mani. Uno di loro provò a fuggire, ma Falco lo fermò prontamente con il calcio del fucile. Per ultimo, il ragazzo si avvicinò ad Arturo.

“No, lui no” gli intimò Sebastiano.

Arturo non seppe come reagire. La mente, solitamente lucida e reattiva, parve non rispondergli, divisa fra l’odio e un affetto che pensava di non poter più provare. Tutto ciò che riuscì a fare fu avvicinarsi al ragazzo e sputargli ai piedi. Sputargli parole che avrebbe voluto dirgli, sputargli domande che non trovavano voce. Non vedeva Sebastiano da anni, ma non poteva dimenticare la loro infanzia insieme, compagni di banco, compagni di partite di pallone, amici inseparabili, metà di un intero. Alleati, soci, anime affini eppure così diversi. Il fascismo e la guerra li avevano presi ragazzini e trasformati in uomini su schieramenti opposti. Li avevano separati e plasmati in modo che quelle due metà tanto simili non potessero più ricongiungersi, e lui non poteva che provare rabbia per quello. Rabbia e impotenza.
Arturo sentì all’improvviso le mani di Sebastiano stringergli un braccio con forza. Sentì le sue unghie premere contro il tessuto della giacca e stringere fino a lasciare un marchio violaceo.

“Tu vieni con me” ringhiò l’uomo, e Arturo non poté che sentirsi un po’ più vuoto.

Ma era stato abituato a non mostrare debolezza, quindi sollevò la testa in un moto di orgoglio e lo guardò dritto negli occhi, sentendosi accecare dalla luce che emanavano.

“Non abbandono i miei soldati. Sono fedele ai miei compagni, non come voi zecche rosse”.

Sentì le dita del giovane partigiano stringergli ancora di più il braccio e la guancia bruciargli per uno schiaffo che non appena nemmeno visto arrivare. Sentì il sapore del sangue esplodergli in gola e di nuovo sputò ai piedi del biondo. Ma non fu un gesto di scherno, anche se quello avrebbe voluto far intendere. Quel sangue gli bruciava in bocca del sapore del rimorso.
Sebastiano lo spinse verso Falco senza proferire parola. Il colonnello non se ne accorse, ma i suoi occhi tradivano l’inquietudine e la sorpresa, e anche quel gesto così poco razionale lo faceva: non era da Sebastiano un comportamento simile; infatti, se Arturo fosse stato sufficientemente pronto, sarebbe potuto fuggire. Di nuovo, anche Falco se ne rese conto e afferrò il colonnello, impedendogli le mani dietro la schiena e stringendogliele strette. Era preoccupato per il capo: non dormiva da giorni e non aveva bisogno di nuove preoccupazioni. Tanto meno, di fantasmi dolorosi del passato. Ma aveva detto di voler vedersela di persona con quel colonnello, e lui lo avrebbe lasciato fare.
Falco gli prese le spalle e lo costrinse a camminare verso Sebastiano. Ad Arturo sfuggì un gemito di dolore, che soffocò fra le labbra serrate. Ogni passo verso il suo vecchio amico gli costava una fatica immane, ed era sempre più difficile mantenere la maschera dell’indifferenza.

“Il capo ha detto che andrai con lui, e così farai, fascista” affermò, velando l’ultima parola di disprezzo.
 








Ciao a tutti! Questa storia è stata un parto, passo e chiudo. L’ennesima sui partigiani e sulla Resistenza che troverete sul mio profilo, ma questa volta ci ho provato ad essere originale (giuro!). Innanzitutto, ho cambiato punto di vista! Ho lasciato che, per la maggior parte della storia, a parlare fosse un fascista. Un fascista con una storia molto particolare, come già spero abbiate intuito qui, ma come avrete largamente modo di capire nei prossimi due capitoli (che arriveranno a brevissimo!). E poi ho volutamente inserito crudezza e violenza (anche qui, avrete modo di notarlo forse meglio nei prossimi capitoli, ma comunque anche qui l’intenzione è stata quella). Insomma, ho cercato di dipingere la guerra fascista/partigiana in maniera realistica, con un focus netto sui personaggi.
Non dirò altro (non è vero, mi sono già venuti in mente due NB da aggiungere), se non che ci terrei davvero a sapere cosa pensate della storia perché sono molto molto incerta sulle originali che pubblico e credo che nulla più del commento dei lettori aiuti a migliorarsi. Dunque, recensite, miei prodi Arturo o Sebastiano!
Grazie di cuore per aver letto, davvero! Spero di vedervi a breve nei due capitoli che seguiranno e concluderanno la mini long. Un bacio, 99!

NB1: nel flashback in cui Artu e Seba sono bambini, parole, sintassi etc dei loro dialoghi è volutamente fanciullesca/non del tutto italiana/pure un po’ dialettale. Espressioni come tipo/ te lo regalo a te/conumisti etc mi servivano per dovere di realisticità infantile!

NB2: la storia trae ispirazione dalla storia pubblicata su EFP in data 0/01/2015  da Regen Libertà e dovere. Purtroppo è rimasta incompiuta, ma comunque vi invito ad andare a spulciarla!

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Capitolo 2
*** Capitolo II: Ombre dal passato ***


Guerra, capitolo II

Ombre dal passato



 


Fascista.
Quella parola rimbombò per un po’ nelle orecchie di Arturo. Sì, era un fascista. Era un fascista, e si era fatto fottere da quei partigiani come un bambino. Era lì, legato e umiliato: chi era diventato?

“Dove li portate?” chiese, accennando ai suoi soldati, rivolto al capo partigiano.

Sebastiano non rispose: lo fece Falco al posto suo.

“Non è affar tuo.”

“Sono il loro comandante, non posso abbandonarli.”

Ecco, pensò l’uomo, sono tornato in me. Ora combatterò per loro, almeno per aver salva la loro vita. Se mi ammazzeranno, almeno ci saranno loro a portare avanti gli ideali del fascismo.

“Il fascismo sta morendo, Ghidini. Non frega più nulla a nessuno delle vostre gerarchie” intervenne Sebastiano, sempre freddo.

Arturo sentì di nuovo rabbia e smarrimento di fronte a quella figura. Erano tredici anni che non si vedevano: l’aveva lasciato ragazzo e ritrovato uomo. L’aveva lasciato distrutto e in lacrime e ritrovato con costruita intorno una corazza inespugnabile. O almeno, questo voleva far credere. Lui scelse di giocare la stessa carta.

 “Allora lasciateli andare. Se il fascismo sta morendo non sarà di certo la loro morte che farà la differenza.”

La sua voce non tremava, quella volta. A quell’affermazione seguì qualche secondo di silenzio. Arturo si sentì addosso gli occhi di soldati e partigiani e strinse i denti per farsi vedere forte, per evitare di lasciare che alcuna emozione trasparisse. Lo stava facendo per quei ragazzi, certo, gettatisi in una missione più grande di loro, ma in fondo anche per se stesso, per dimostrare a Sebastiano che era diverso da quel fascista che suo padre lo aveva fatto diventare. Aveva sempre combattuto per la giustizia, Sebastiano, fin da quando erano bambini inseparabili, a differenza sua. Lui non ne era mai stato capace, aveva sempre seguito quello che i superiori gli dicevano. Suo padre. I generali nell’esercito. Mussolini. Hitler. Ripensò a pochi istanti prima, a quando aveva chiamato il giovane biondo zecca rossa. Il disgusto di nuovo gli riempì la bocca dello stomaco.

 
“Passa la palla, Arturo, avanti!”

Un gruppetto di bambini correva sul ciglio della strada, lanciandosi un vecchio pallone. Arturo era tra quelli, i riccioli neri sudati che gli ricadevano sulla fronte. Calciò la palla in direzione del ragazzino che l’aveva interpellato, biondissimo, con gli occhi azzurri e di poco più alto di lui.

“In porta Seba, tira in porta!” lo incitarono alcuni degli altri.

Il biondino sorrise e calciò tra due pali che delimitavano la porta. Il portiere, piccolo e cicciottello ma con un gran sorriso sul viso, non poté fermare quel missile.

“Gol Seba! Gol!” urlò Arturo, correndo ad abbracciare l’amico.

“Siamo la squadra più forte del quartiere, Artu!” esultò l’altro, ricambiando l’abbraccio.

Presto, anche gli altri ragazzini gli si fecero intorno festanti.
Ma il loro momento gioioso durò poco; un uomo alto e ben piazzato si avvicinò al gruppetto con aria minacciosa. Facendosi largo tra i bambini a spintoni arrivò fino ad Arturo e lo trascinò via rudemente dagli altri. Senza fiatare, gli tirò un ceffone in pieno visto che fece barcollare il bambino.

“Quante volte ti ho detto di stare lontane da queste schifose zecche rosse?” gli domandò sprezzante.

Il ragazzino non rispose, ma chinò la testa con fare mortificato. L’uomo rimase a guardarlo, in evidente attesa di una risposta.

“Sono miei amici, papà. Perché non posso giocare con loro?”

Non capiva, Arturo, come mai suo padre odiasse tanto quei ragazzini. Un secondo ceffone raggiunse la sua guancia, facendolo cadere a terra. Singhiozzando, il ragazzino si coprì la testa con le mani aspettando che suo padre si sfilasse la cinghia e lo picchiasse come era solito fare a casa. Sebastiano però, rapido, si intromise tra i due.
L’occhiataccia che il signor Ghidini gli lanciò fu più eloquente di mille parola, ma il bambino non arretrò di un passo.

“La prego” disse con voce decisa.

“Non gli faccia del male. Stavamo solo giocando.”

“Levati di mezzo, moccioso. È mio figlio.”

Il biondino scosse la testa.

“Non vi lascerò picchiarlo ancora” affermò stringendo i pugni.

Arturo lo guardò spaventato. Nessuno aveva mai osato contraddire suo padre e lui sapeva per certo che Sebastiano non l’avrebbe passata liscia. Avrebbe voluto fare qualcosa, alzarsi, scagliarsi contro suo padre e fargli provare tutto quello che lui provava quando veniva picchiato. Avrebbe voluto farsi grande grande e proteggere il suo amico. Avrebbe voluto tante cose, ma non riuscì: rimase a terra, con le lacrime che gli scivolavano sul viso.

“Seba…” sussurrò, quasi ad avvisare il bambino, ma non fu sufficientemente veloce: il ceffone di suo padre era già partito, ben più violento di quelli che dedicava a lui. Il
viso di Sebastiano si girò di lato e un rivolo di sangue gli scivolò dal labbro spaccato.


“Cocciuto e ribelle, come quei rifiuti sociali dei tuoi genitori. Vi ci dovrebbero rinchiudere, in quelle fabbriche in cui vi spaccate la schiena” sputò l’uomo con disprezzo.

Sebastiano sentì a sua volta le lacrime pungergli gli occhi, ma alzò il viso verso l’uomo, che vi lesse rabbia e desiderio di giustizia. Aggirando il ragazzino, tirò in piedi in figlio e lo spinse verso la strada. Sebastiano rimase immobile, con i pugni stretti e il mento alto, mentre i due gli passarono accanto. Arturo si voltò verso di lui, fissandolo con riconoscenza, finché i due non scomparvero dietro l’angolo.
Era il 1925.
 
 

“Ha ragione.”

La voce di Sebastiano, che fino a quel momento era rimasto con lo sguardo fisso sulle cime delle montagne in preda a una lotta interiore, riscosse Arturo dai suoi pensieri. Quasi non si rese conto di quel che quell’affermazione significava.

“Ha ragione, questi uomini non hanno colpa. Hanno scelto male da che parte stare, ma la guerra sta finendo e non c’è alcun bisogno di spargere altro sangue. Lasciateli andare.”

Arturo sentì la riconoscenza invadergli il corpo. Avrebbe voluto gettarsi ai piedi di Sebastiano, ma il suo orgoglio, o forse soltanto la rigida educazione ricevuta nell’esercito, glielo impedì.

Rosso.

Falco si rivolse a Sebastiano utilizzando il suo nome di battaglia.

“Se li lasciamo andare questi torneranno con il doppio degli uomini e ci faranno fuori tutti.”

Sebastiano rifletté alcuni istanti: il suo compagno aveva ragione.

“Fategli passare la voglia di farlo, allora. Ma non ammazzateli, non voglio che vi sporchiate le mani con altro sangue.”

Falco annuì, si voltò e tirò un pugno in pieno viso a uno dei soldati. Gli altri partigiani fecero lo stesso, e Arturo non ebbe la forza di opporsi anche a quello. Da una parte, sapeva che non sarebbe servito a nulla. Dall’altra, temeva, da buon vigliacco, che lo stesso trattamento sarebbe toccato a lui, se si fosse opposto.
Sebastiano fu lesto a porsi dietro di lui e ad afferrargli le braccia legate insieme. Lo tenne lì, inchiodato a guardare i suoi sottoposti picchiati, a pensare al significato di pietà e paura, finché Falco non si voltò verso di loro.

Falco, assicuratevi di lasciarli in un luogo ben lontano da qui. Ditegli di tornare a casa, che la guerra sta finendo e non c’è alcun bisogno di farsi ammazzare negli ultimi mesi. Nessuno si curerà della loro assenza, al massimo penseranno che li abbiamo uccisi noi. Assicurati che lo capiscano. Io mi occupo di lui.”

Falco annuì, e sorrise. Fu un sorriso stanco, quello di una persona che non vedeva l’ora di decretare finita quella guerra e di tornare a casa come il capo voleva che facessero quei ragazzi.
Arturo fu certo che il ragazzo che Sebastiano chiamava Falco avesse capito le motivazioni del capo e ne fu sollevato: i suoi soldati sarebbero stati al sicuro. Pesti, sanguinanti, ma liberi e vivi. Non tutti gli antifascisti presi erano stati così fortunati, e la colpa spesso era stata sua.
 


Il signor Ghidini, padre di Arturo, camicia nera e manganello, era a capo di un folto gruppo di fascisti della prima ora. Trascinavano un uomo sulla quarantina con un occhio già pesto che si dibatteva per liberarsi. Lo spinsero contro il muro e cominciarono a picchiarlo selvaggiamente. L’uomo cercò di respingerli, riuscì anche ad assestare un paio di pungi, ma subito il gruppo gli fermò le braccia contro il muro, lasciandogli viso e corpo completamente esposto. Arturo, quindicenne, uscì dalla porta di casa attratto dalle urla. Non era la prima volta che vedeva la violenza squadrista in azione, ma quella volta in particolare l’evento lo sconvolse; infatti, sa in fondo alla strada arrivò un ragazzino biondo. Sebastiano.

“Basta! Basta!” urlava disperato. Arturo quasi poteva vedere le lacrime che gli rigavano il viso.

“Basta, è mio padre! Vi prego!”

Alcuni volti si affacciarono dalle finestre vicine, qualcuno tentò una flebile opposizione a quella scena, ma bastò che una camicia nera si voltasse verso di loro perché questi continuassero per la loro strada in silenzio. Sebastiano fece per scagliarsi contro il gruppo di fascisti, ma venne fermato dalle braccia forti di un operaio che era corso lì da una fabbrica poco distante.

“Seba! Seba, no!”

Il giovane operaio aveva gli stessi capelli biondi del ragazzino, ma la le fattezze da uomo dell’individuo picchiato contro il muro. Sebastiano si volto versò il fratello e cominciò a tirargli una serie di pugni sul petto.

“Lasciami andare!”

Il ragazzo lo lasciò fare, ma si assicurò di non farselo sfuggire.

“Lasciami andare, è papà!”

“Lo so, Seba. Lo so, ma ti ammazzeranno se vai là. Papà non vorrebbe.”

Il ragazzino affondò il viso nella tuta del più grande, evidentemente singhiozzando. Il fratello lo abbracciò forte, sussurrando qualcosa. Nessuna delle camicie nere parve fare attenzione alla scena che si stava svolgendo appena a qualche metro di distanza: la loro attenzione rimaneva concentrata sull’uomo, che nel frattempo si era accasciato a terra tossendo. Arturo non aveva mai visto l’amico tanto sconvolto. Avrebbe voluto avvicinarsi, ma aveva paura. Paura di suo padre, paura degli altri squadristi, paura della reazione di Sebastiano se l’avesse visto con la camicia nera che indossava. Era sceso perché sua padre aveva voluto che lui partecipasse a quella spedizione punitiva. Chissà se sapeva che l’uomo che stavano massacrando era il padre di quel suo amico biondo che tanto disprezzava.
In quell’istante, il signor Ghidini si accorse del figlio poco distante, e lo chiamò a sé con fare autoritario. Arturo, all’improvviso, si sentì addosso gli occhi di tutti gli squadristi, ma anche quelli penetranti del migliore amico. Per alcuni istanti restò fermo, indeciso e sconvolto. Poi suo padre lo chiamò, e lui non riuscì ad opporsi a quel richiamo. Si sentì morire ad ogni passo, ma continuò ad avanzare con gli occhi bassi. Non ebbe il coraggio di voltarsi verso Sebastiano quando arrivò di fronte all’uomo a terra. Questi lo guardò, con due occhi identici a quelli del figlio.

“Colpiscilo” intimò suo padre.

Arturo tremò.

“Arturo…” sussurrò Sebastiano con la voce rotta dal pianto.

Nessuna delle camicie nere parve udirlo, ma quell’implorazione scosse profondamente il ragazzino.
Suo padre gli strinse una spalla.

“Colpiscilo.”

Tremando, Arturo sollevò il piede. Sentì Sebastiano gemere e tentare di liberarsi dalla presa del fratello, che però non lo lasciò andare. Lo strinse a sé ancora più forte, rendendosi conto dello sgomento che il fratellino provava.
Il piede di Arturo colpì piano il braccio dell’uomo.

“Più forte, Arturo. In faccia.”

La voce di Ghidini non ammetteva repliche.
Il ragazzino si passò le mani sul viso, sentendosi un topo che scappa al primo accenno di pericolo, al primo fischio dell’aquila, ma di nuovo sollevò il piede, e con più forza colpì l’uomo in viso.
Sebastiano urlò qualcosa che alle orecchie dell’amico arrivò come un suono distorto dal dolore e dallo stravolgimento. Arturo fece un passo indietro, ma suo padre lo fece inginocchiare, gli prese un braccio e gli intimò di stringere la mano a pugno. Ripetutamente, guidò il suo braccio con devastante forza sul naso e sugli occhi della vittima, fino a che le nocche di Arturo iniziarono a bruciare, come gli bruciavano gli occhi di lacrime amare. Stava tradendo il suo migliore amico, l’unico che l’avesse mai difeso da quell’uomo che ora lo guidava. Lo stava tradendo e si sentiva una carogna. Nemmeno un topo era: no, era un verme. Un vile. Accanto a lui e a suo padre, anche gli altri squadristi ripresero a picchiare l’uomo. Quando finirono, quando suo padre lo sollevò congratulandosi con lui per l’uomo che era diventato, il volto dell’uomo era irriconoscibile, e il suo petto non si sollevava né abbassava più. Era morto. Aveva ucciso un uomo. Aveva ucciso il padre di Sebastiano. Barcollando, Arturo andò ad appoggiarsi al muro ci casa sua. Il ciglio di quella strada era diventato il teatro di un tradimento tanto grande che il ragazzino faticava a concepirlo. Aveva la nausea, gli pareva di non riuscire a respirare. Ghidini e gli altri squadristi salirono in casa, con le mani e le scarpe sporche di sangue, ma ridendo e parlando come se nulla fosse successo. Non appena il gruppo scomparve dietro la porta, il fratello di Sebastiano lasciò andare il ragazzino, che si precipitò sul corpo del padre. Lo scosse alcune volte prima di comprendere che non gli avrebbe risposto. Rimase immobile alcuni istanti, mentre anche il maggiore comprese che suo padre era morto. Alcune lacrime solcarono il suo viso da uomo mentre si accovacciava accanto al fratello e lo tirava a sé. Sebastiano si divincolò e, con il petto scosso da singhiozzi che fecero malissimo ad Arturo, si strinse al petto freddo del padre. Il fratello gli strinse la schiena, facendogli sentire quel calore che il padre non poteva più dargli. Piangeva anch’esso, ma sommessamente. I suoi occhi erano fissi su quel ragazzino con la camicia nera che aveva visto, in passato, bazzicare nei pressi di casa sua. Arturo ricambiò lo scambio, svuotato di qualsiasi forza. Presto, però, si rese conto che il ventenne lo guardava con un odio che non aveva mai visto in nessun altro. Prima che anche Sebastiano alzasse la testa e gli riservasse quello sguardo, spaventato dalla piega che la situazione e la sua vita avevano preso, Arturo barcollò via. Appena rientrato in casa, con la porta serrata alle spalle e nessuno che poteva vederlo, scoppiò in singhiozzi inarrestabili.
Da quel giorno, Sebastiano gli stette ben lontano. La loro amicizia svanì in un solo pomeriggio. Arturo, troppo spaventato da un’eventuale reazione dell’amico, non provò mai a riavvicinarsi, per quanto quella cosa lo facesse soffrire ogni singolo giorno. Sebastiano, da parte sua, continuò a guardarlo con odio e rancore. Non gli perdonò mai, se non dopo anni, vedendo cosa la guerra facesse fare alle persone, quei calci e quei pugni.
 
 

Perso nei ricordi, quasi non sentì le mani forti di Sebastiano che lo trascinavano via dal gruppo. I compagni avevano chiesto la sua morte, e Sebastiano aveva compreso che opporsi non sarebbe servito a nulla. Anzi, era giusto che Arturo morisse per il rischio che aveva fatto correre a tutti loro. Così, aveva scelto di occuparsene lui, come capo della banda e in virtù del legame che li aveva uniti prima della guerra, e ora lo stava conducendo nel folto del bosco. Come ammazzarlo ancora non l’aveva deciso, aveva scelto di tenere quel pensiero il più lontano dalla sua mente fino all’ultimo.

“Grazie” disse Ghidini inaspettatamente.

Il partigiano non rispose.

“Per aver risparmiato i miei compagni, intendo. Sarò un vile codardo, ma non sono un ingrato.”

Con l’episodio di tanti anni prima fresco nella sua mente, il colonnello riuscì finalmente ad ammettere che tutte le sue azioni erano state dettate dalla viltà e dalla codardia, non dall’amor di patria. Non aveva avuto rispetto per suo padre, per i suoi superiori, per Mussolini. No: li aveva temuti, tanto da lasciarsi guidare lontano da tutto ciò a cui teneva per loro. Lo aveva ammesso, finalmente, ma probabilmente lo aveva sempre saputo. Tuttavia, non riusciva a pentirsene: sapeva che, tornando indietro, avrebbe compiuto ancora le stesse scelte, perché ancor di più aveva paura del giudizio sociale. Ce l’aveva anche in quel momento, solo nei boschi non con Sebastiano, ma con un partigiano. Non riusciva a scrollarsi di dosso quell’etichetta, quella sensazione di nemico. Cosa avrebbe detto l’Italia se lo avesse visto?
Sebastiano continuò a non rispondere, ma Arturo vide i suoi polsi tremare mentre stringevano le sue braccia. Non riuscì a trattenersi dal ridere.

“Che c’è, partigiano, hai paura?” lo schernì, spinto da chissà quale impulso inconscio.

L’inconscio, su una persona incapace di opporsi alla vita, gioca un ruolo fondamentale. Lasciarsi spingere dall’inconscio vuol dire poter non scegliere mai.
Sebastiano si accese di rabbia. Strinse i denti, gli afferrò la camicia all’altezza del colletto e lo sbatté contro un albero. I suoi occhi mandavano scintille.

“Non fare tanto lo spiritoso. Ti ho perdonato anni fa per tutto quello che hai fatto, in nome della nostra amicizia, ma potrei sempre dimenticarmene e tirarti un paio di pugni come quelli che tirasti tu a mio padre, tredici anni fa.”

La sua voce suonava tesa come una corda di violino. Il rancore che si era tenuto dentro a lungo ora usciva come un fiume in piena, finalmente libero di essere espresso. Eppure, Arturo in quel momento provò sollievo: Sebastiano l’aveva perdonato. Giusto in tempo per ucciderlo, ma lo aveva fatto.

“Tredici anni, Sebastiano. Tredici anni.”

Non sapeva nemmeno lui cosa voleva dire con quella frase. Forse solo constatare per quanto tempo fossero stati separati. Senza Sebastiano, Arturo non era nessuno. Non riusciva a splendere: era come la Luna, priva di luce propria. Sebastiano era il sole, la vita, la gioia. Lui non era nulla. Perso Sebastiano, si era lasciato trascinare nel vortice dell’oscurità di suo padre, perché, non potendo brillare, aveva scelto di odiare e di farsi odiare. Chissà cosa c’era veramente dentro di lui.

“Penso che mio padre avrebbe vissuto volentieri altri tredici anni” gli rinfacciò il biondo.

“Per servire la Patria in guerra?”

Arturo non poteva evitare quel tono strafottente. Gli serviva per nascondere le emozioni che la vista di quegli occhi chiari gli provocava. Lo aveva perdonato. Gli aveva ucciso il padre di botte, ma lo aveva perdonato in nome della loro amicizia. Chissà quando era avvenuto, di preciso. Percepiva un certo sollievo anche nella voce del giovane, in realtà. Sfogare quelle emozione vecchie di anni gli aveva fatto bene. Evidentemente quei tredici anni non erano stati facili nemmeno per lui, anche se probabilmente non l’avrebbe mai ammesso.

“Per fare il partigiano, a differenza tua” gli sputò in faccia Sebastiano.

Poi lo tirò via dall’albero.


***

A spintoni, Sebastiano fece avanzare Arturo tra gli alberi. Le braccia, ancora legate dietro la schiena, iniziavano a fargli male, ma la vicinanza del vecchio amico lo facevano sentire quasi in pace. Era come aver ritrovato una parte di sé che era scomparsa tredici anni prima. Certo, da una parte era disgustato, perché quella sensazione andava contro tutto quello su cui aveva giurato. Ma ormai la confusione regnava sovrana nella sua testa: avrebbe voluto soltanto che quello stupido periodo non fosse mai iniziato, così da non costringerlo a compiere scelte di cui si era pentito. O meglio, a compiere scelte e basta. Si era lasciato trascinare dalla corrente, non era stato capace di scegliere ciò che desiderava veramente. Si disprezzava, per quella. Ma ancora di più si disprezzava perché aveva lasciato che un altro essere umano, che un ragazzo dagli occhi azzurri, facesse crollare le sue sicurezze e le penetrasse tanto facilmente da destabilizzarlo in quel modo. Fino a quel momento, non aveva vacillato. Ora, davanti all’azzurro degli occhi di Sebastiano, si chiedeva il perché di ogni azione compiuta nel nome di suo padre o del Duce.

“Ti devo ammazzare, lo sai, vero?”

Ancora una volta, le parole di Sebastiano interruppero il suo flusso di coscienza. Ma Arturo si stupì, perché tutta la freddezza di qualche momento prima era scomparsa. Al contrario, la voce di Sebastiano era quella di un uomo stanco, in preda alle emozioni, sopraffatto dagli eventi.
Non è tanto diverso da me, dunque pensò Arturo.
Solo più coraggioso.
Voltandosi per guardare il giovane partigiano, che avanzava dietro di lui e non gli aveva mai lasciato andare le braccia, Arturo vide che i suoi lineamenti erano cambiati, rispetto a poco prima, trasfigurati da quelle emozioni che la sua voce tradiva.
Per una volta, scelse per quello che desiderava veramente. Scelse di rendergli quel compito il più facile possibile.

“Fallo. Uccidimi. Meglio morire per mano di uno sporco partigiano rosso che non tornare sconfitto. Come ci sei tornato, tu, a casa, quel giorno di tredici anni fa? Come ci
sei tornato, consapevole che non avevi fatto niente?”

Quelle parole gli costarono una fatica immane, soprattutto perché sentì che Sebastiano era rimasto sconvolto. Tremava terribilmente e aveva per alcuni istanti serrato le palpebre. Arturo chiuse gli occhi, aspettandosi di sentire il metallo freddo della pistola sulla tempia. In fondo, se lo meritava. Ma la pallottola non arrivò. Giunsero piuttosto parole che, se possibile, facevano ancora più male. Dure come pietre, tanto vere da penetrare con violenza nel cuore di Arturo.

“Come ci sei tornato tu, invece, a casa tua? Accolto dal giubilo di quelle cazzo di camicie nere, immagino. Un assassino, proprio come loro.”

Sebastiano urlava, ora. Urlava parole che non aveva mai potuto dire.

“Non sai quanto mi hai fatto schifo. Quando mi hai fatto pena. Ti credevo diverso. E invece non eri altro che un fascista.”

Arturo si voltò, liberandosi dalla presa del partigiano. Scivolò via dalla sua presa come il verme che si sentiva, senza che l’altro opponesse resistenza. Lo guardò negli occhi e vi lesse tutto il dolore di una ferita che mai si era risanata. Vi lesse perdita, senso di tradimento, rabbia. Ed era stato lui a fargli quello.

“Non ho scelto io in che famiglia nascere, Sebastiano.”

La sua risposta fu di una pacatezza che stupì persino lui. L’istinto di urlare era forte, e non capì se a bloccarlo fu l’empatia verso Sebastiano o il timore di una sua reazione.
Nonostante il tono però Sebastiano arretrò come colpito da una scarica elettrica. Gli aveva fatto del male. Il giovane estrasse la pistola, puntandogliela contro. Il suo dito, poggiato sul grilletto, tremava.

“Tu non hai mai scelto nulla” sputò.

Sebastiano fu lapidario, ma Arturo era consapevole che aveva ragione.

“Uccidimi” disse nuovamente.

Vedere la morte in faccia non lo spaventava. Morire significava mettere fine a quell’esistenza di nulla degli ultimi anni.
Sebastiano mirò, e per un attimo Arturo fu convinto di essere già morto. All’improvviso, però, il giovane gettò la pistola a terra.

“Non posso farlo. Ti odio, ti vorrei vedere riverso a terra come è rimasto mio padre anni fa, ma non ci riesco. Sono stanco della guerra. Sono stanco di uccidere gente che ho conosciuto. Non voglio ammazzarti, e non lo farò.”

In quell’istante, grosse gocce di pioggia presero a scendere dal cielo. Una si incastrò tra le ciglia di Arturo, assomigliando a una lacrima. Sbatté di occhi, mentre i ciuffi di capelli già iniziavano ad attaccarsi alla fronte. La riconoscenza gli scaldò il cuore.

“Mi stai salvando la vita, partigiano?”

Non c’era disprezzo nelle sue parole.

Un accenno di sorriso fiorì sulle labbra di Sebastiano.

“Andiamocene da questa pioggia, o ci ucciderà entrambi una bella polmonite.”
 







Salve a tutti! Eccomi ad aggiornare questa mini long! In questo secondo capitolo entriamo nel vivo, non tanto della vicenda, quanto piuttosto delle psicologie dei personaggi. Conosciamo qualcosa in più di loro, delle loro vite, della loro relazione precedente al fascismo e anche dei loro modi di affrontare questo improvviso ricongiungimento. È un capitolo un po’ lungo ma concentrare il tutto i tre capitoli lo ha reso necessario: spero comunque vi sia piaciuto!
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno letto e recensito il primo capitolo, e tutti quelli che sono approdati qui ora… a presto!
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Capitolo 3
*** Capitolo III: la resa dei conti ***


Guerra, capitolo III
La resa dei conti






 


I due uomini camminarono a lungo in silenzio. La pioggia non accennava a smettere e i due erano completamente fradici. Avanzare stava diventando difficile: la terra bagnata risucchiava le suole di entrambi. Gli stivali di Arturo, solidi anfibi da soldato, mantennero asciutti i piedi del colonello, ma gli scarponi di Sebastiano iniziarono presto a risentire dell’azione collosa del fango.

“Cazzo!” imprecò ad un certo punto: parte della suola si era praticamente staccata.

“Cambio di programma” sussurrò tra sé e sé, cambiando all’improvviso direzione e facendo trasalire il soldato, che continuava ad avanzare come in trance, ancora sorpreso da quell’ammissione di perdono e da quell’improvvisa grazia.

Sebastiano non avrebbe voluto portare Arturo nel luogo verso cui stava camminando ora; infatti, era lì che i fascisti avevano catturato Olmo, il comandante precedente, costringendo la banda a cambiare base e Sebastiano a diventare capo.
Quasi subito, all’orizzonte iniziarono a profilarsi le rovine bruciate di una cascina. I fascisti avevano scelto di distruggerla completamente, dunque. Anche per Arturo non fu difficile immaginare cosa fosse successo, lì: lui stesso era stato a capo di azioni del genere. Iniziò ad agitarsi, quasi sentendo i suoni che dovevano aver animato quella battaglia. Ordini urlati ai sottoposti, suoni di botte e spari, e poi il crepitare del fuoco. Arturo percepì il corpo di Sebastiano irrigidirsi, in preda a chissà quali ricordi.

“Mi dispiace” sussurrò all’improvviso.

“Io non c’ero” disse il biondo con semplicità.

“Non ho potuto fare nulla per evitarlo.”

La sua voce era velata di rimpianto e di senso di colpa.

“Non è stata colpa tua, Seba.”

Seba.
Erano tredici anni che quel soprannome non usciva dalle sue labbra. Si aspetta anche solo un accenno di sorriso sulle labbra dell’amico, ma questi piuttosto le strinse in una riga sottile.

“Non chiamarmi così” intimò glaciale.

Arturo sbatté gli occhi, di nuovo perplesso.

“Ti prego…” continuò con la voce improvvisamente spezzata dall’emozione e da un accenno di pianto.

Arturo si rese conto che non lo aveva respinto, ma che, semplicemente, quel soprannome gli riportava alla mente troppi ricordi. Sapeva che anche suo fratello lo chiamava così. Chissà che fine aveva fatto, quell’operaio così pieno di ideali. Per quanto ne sapeva, poteva essere morto. E anche il padre, probabilmente, usava quel soprannome con lui. Certo, era stato stupido e insensibile ad usarlo: non ne aveva il diritto, non dopo tutto quello che gli aveva fatto passare.
Se non avesse avuto le mani legate, Arturo forse l’avrebbe abbracciato. Così, non poté far altro che ribadire il concetto, sperando che Sebastiano capisse che con quella frase si riferiva anche a qualunque cosa fosse successo a suo fratello e agli altri suoi cari.

“Non è stata colpa tua.”

La tristezza non fuggì dal viso di Sebastiano, rimase ad aleggiare fra loro e a echeggiare nel rumore della pioggia che continuava a cadere.
Sebastiano si voltò e si avviò per superare la baita, lasciando indietro Arturo. Questi si guardo alle spalle. Avrebbe potuto scappare: sapeva essere silenzioso e la pioggia avrebbe cancellato le sue impronte. Quasi gli scappò da ridere nell’istante in cui si rese conto che non l’avrebbe fatto.
Codardo fino in fondo si disse.
Nemmeno in quel momento era capace di prendere una decisione autonoma, di non farsi legare dalle persone che aveva intorno. Nemmeno in quel momento, riusciva a scrollarsi di dosso la paura del giudizio. Cosa avrebbero detto i soldati se fosse tornato in caserma legato e fuggito come un coniglio? Che cosa suo padre, che anche in quella caserma aveva il potere di dar lui ordini come suo superiore? Che cosa avrebbe detto Sebastiano se lo avesse fatto?
No, non aveva il coraggio di sopportare il peso di quella decisione.
A testa china, seguì il partigiano.
 

 
***


Appena dietro la baita, all’inizio della guerra i partigiani avevano costruito un capanno, sapientemente nascosto nel bosco. Arturo, stupito, si rese conto che, se non ci fosse stato Sebastiano a guidarlo, non l’avrebbe mai trovato.
Il partigiano aprì la porticina. L’aria all’interno della stanza era fredda, ma l’ambiente era asciutto e accogliente. Lo sguardo di Arturo fu subito catturato da una fotografia sfocata al muro. Strizzando gli occhi, l’uomo si rese conto con sgomento che si trattava della Madonna.

“Siete cristiani, voi partigiani?”

Sebastiano, che nel frattempo aveva aperto una cassapanca vicina, sollevò gli occhi verso l’icona. Soltanto quella mattina si era ritrovato a riflettere sulla presenza di quell’immagine nella loro attuale base, a poco più di un’ora di cammino da lì.

“Io no. Ma qualcuno sì, e avere una Madonna vicina li fa sentire al sicuro.”

Per la prima volta in quella giornata, osservò Arturo, la voce del giovane suonava serena, come se quelle quattro mura e quell’icona facessero, in fondo, sentire al sicuro anche lui.

“Che icona vorresti tu, appesa lì?”

Sebastiano fece spallucce e si chinò verso la cassapanca. La domanda restò sospesa in aria, ma, in fondo, Arturo conosceva la risposta. La Giustizia con la bilancia in mano, la Libertà che spezza le catene, o forse soltanto il viso di suo padre o le fattezze dell’ultima ragazza che aveva amato. Sentiva le emozioni con forza, a tutto tondo, Sebastiano. Si lasciava guidare da esse, dal suo avventato, pericoloso idealismo. Non come lui.
Il giovane biondo estrasse due maglioni dalla cassapanca: puzzavano di chiuso e di vecchio, ma erano asciutti e sembravano caldi. Dando la schiena ad Arturo, il partigiano si sfilò il fucile che aveva a tracolla, la giacca e la camicia. Il soldato notò che sulla spalla aveva una cicatrice circolare: probabilmente il segno di una pallottola. Con un gesto fluido si infilò il maglione, di un paio di taglie più grandi. Lasciando il fucile e gli abiti bagnati appoggiati alla cassapanca, il giovane si avvicinò ad Arturo, chinandosi verso i suoi polsi legati.

“Niente scherzi, fascista” affermò, ma non c’era cattiveria nella sua voce. Arturo lo ringraziò mentalmente per quel tono.

Con facilità, Sebastiano gli liberò le mani, scoprendo i polsi segnati da profondi segni rossi.

Falco aveva fatto un buon lavoro, con queste corde” constatò mentre il fascista si massaggiava i polsi e le braccia indolenzite.

“Togliti quella divisa e mettiti questo, Arturo. Ti terrà al caldo mentre decido cosa fare di te.”

Lo aveva chiamato per nome. Arturo stentava a crederci: gli pareva di vivere in un sogno. Ma i brividi di freddo che lo scuotevano gli assicuravano che invece era le realtà, e che si trovava anche in un bel casino. Sapeva che Sebastiano non l’avrebbe mai lasciato andare: ne andava di mezzo la sua reputazione come capo partigiano, e potenzialmente anche la sua vita. Lo vedeva, stringere convulsamente la medaglietta che portava al collo mentre cercava di prendere una decisione. Lui non aveva mai avuto di fronte a sé una strada tracciata: aveva dovuto costruirsela, scelta dopo scelta, con fatica, combattendo contro tutti. Quanto erano diversi sotto quel punto di vista Arturo lo comprese solo in quel momento. Il biondo sollevò proprio in quel momento gli occhi e sogghignò.

“Che c’è, ti fai problemi a toglierti la camicia nera?”

Arturo scosse la testa e ribatté.

“Idiota.”

Sebastiano, improvvisamente, scoppiò a ridere. Così, come un bambino, come aveva fatto tante volte in passato insieme a lui. Quella risata argentea e cristallina contagiò Arturo, che sorrise a sua volta. Sembravano di nuovo i due ragazzini che rincorrevano un pallone per i vicoli del paese, sognando di diventare un giorno grandi calciatori. Il partigiano gli lanciò il maglione, e quando lui lo prese finse di esultare.

“Arturo para la palla di Sebastiano! Niente gol per la squadra del biondo!”

Si rendeva conto, vedendosi da fuori, di apparire stupido. Un ventisettenne grande e grosso che giocava come un qualsiasi monello di strada. Eppure, erano anni che non si sentiva così sereno, così gioioso. Era forse quello il sapore della pace, così lontano del tempo che quasi lo aveva dimenticato? Quelle risate avevano il sapore di un passato lontano e fanciullesco, di una spensieratezza a bordo strada che era stata solo e soltanto loro. Era incredibile provare quelle sensazioni di nuovo, tanto forti da spazzar via tutto il nero che si annidava dentro Arturo.
Sebastiano fece per alzarsi e raggiungerlo, con un sorriso stampato in viso, quando un urto improvviso lo sbatté a terra. Arturo sentì le orecchie fischiare e vide l’ambiente riempirsi di fumo. Il mondo parve vorticargli intorno e serrò gli occhi senza capire per qualche istante. Quando li riaprì vide che, poco distante da lui, Sebastiano si teneva la pancia gemendo di dolore. Le sue mani erano già rosse di sangue. Il sorriso sul suo viso si era spento e ora lo sguardava con gli occhi velati di dolore e confusione.
Arturo aprì la bocca per chiamare l’amico, ma le parole gli morirono in gola quando vide la sagoma che gli si parava davanti. Fradicio di pioggia e con il viso ghignante di odio e di scherno, il signor Ghidini pareva schiacciare l’aria con la sua presenza.

“Allora aveva ragione il verme, c’era davvero una baracca partigiana rimasta in piedi dopo le nostre operazioni di incendio! Proprio un
bel posticino, adatto per dei topi di fogna come questo.”

Arturo lo guardo senza capire, sentendo una paura profonda che gli attanagliava le viscere. L’impotenza gli bloccò le membra, gli impedì di fare qualsiasi cosa, di pronunciare qualsiasi parola. Come in un déjà-vu vide il viso sconvolto di Sebastiano, i suoi occhi che gli urlavano di aiutarlo. Aveva capito, lui, quello che stava succedendo. Aveva compreso di trovarsi ferito e disarmato nel bel mezzo di un’imboscata fascista. Aveva capito di essere a un passo dalla morte e, come quando riverso a terra era suo padre, lo implorava di intervenire.
Ma, come allora, tutto l’affetto che provava nei confronti dell’amico era svanito, schiacciato dal timore reverenziale, da quella forma di terrore che Arturo provava verso suo padre. Come fossero i fotogrammi di un film che gli scorrevano davanti agli occhi, il colonello vide suo padre entrare nella stanza e dirigersi con poche falcate verso il biondo, che nel frattempo si era accovacciato in un disperato tentativo di tirarsi in piedi. Ghidini lo afferrò per la camicia e, nonostante i tentativi di Sebastiano di liberarsi, lo inchiodò al muro con il peso del suo corpo.
Sebastiano tossì, il viso trasformato in una maschera di dolore.
Come tredici anni prima lo guardò, con le lacrime che suo malgrado gli rigavano il viso. Vide le sue labbra muoversi, formare il suo nome mentre suo padre faceva cenno ai soldati che si trovavano fuori dalla porta di entrare e lui restava lì, troppo codardo per agire.

“Arturo…”

Arturo rimase lì, a guardarlo, perso come un bambino che non si rende conto di quello che sta accadendo, senza il coraggio di alzarsi, scrollare suo padre di dosso da quell’amico appena ritrovato e fuggire in qualche modo. Gli occhi di Sebastiano si velarono di incomprensione, di disgusto, di paura della morte. Quello sguardò quasi fece sollevare Arturo dal suo quadrato di terra, ma suo padre fu più veloce. Non appena i soldati lo raggiunsero, due con i fucili spiananti e due trascinando un uomo che a malapena si reggeva in piedi, ordinò con tono secco di tenere il partigiano appena catturato inchiodato al muro.

“Bloccate anche questo qui, ma non penso possa andare tanto lontano.”

Suo padre poi si voltò verso di lui e gli tese una mano.

“Figlio. A quanto pare sei stato più veloce di me. Complimenti, sono fiero di te.”

Arturo avrebbe voluto sputare su quella mano come poche ore prima aveva sputato su quella di Sebastiano. Ma fu più forte di lui: la afferrò e si fece trascinare in piedi, lasciandosi condurre di fronte a quegli occhi azzurri che lo guardavano traditi e accusatori.

“Tu…eri con loro. Lo sapevi” affermò il partigiano, subito tossendo.

Arturo avrebbe voluto scuotere la testa, ma qualcosa negli occhi di suo padre glielo impedì. Sebastiano era spacciato: vedeva il rosso del sangue tingere il maglione che si era appena cambiato. Se suo padre avesse compreso che non era lì per ammazzare Sebastiano, ma piuttosto come prigioniero, e che era vivo soltanto perché il partigiano l’aveva graziato, non avrebbe esitato a sbatterlo al muro insieme a lui.
Uno dei soldati tirò un ceffone a Sebastiano. Il suo viso si voltò di lato, sangue, sudore e pioggia che scivolavano sulla guancia colpita. Il giovane rimase immobile alcuni istanti, rendendosi conto, solo in quel momento, che c’era un altro uomo oltre a lui.
Capelli scuri appena brizzolati, labbra spaccate in più punti, occhi pesti e corpo contratto da un dolore che doveva durare da mesi, Sebastiano ci mise alcuni istanti a riconoscere il suo vecchio capo brigata.

Olmo…” sussurrò, guadagnandosi un’intimazione a stare in silenzio.

Rosso.”

L’uomo parlava a fatica, come se ogni respiro e ogni parola andassero oltre le sue forze.

Rosso, ho tradito.”

Il corpo dell’uomo era scosso da tremiti.
Sebastiano lo guardo con occhi pieni di comprensione.

“Non è colpa tua. Non potevi resist…”

Un altro ceffone lo colpì in pieno viso. Quella volta, veniva da suo padre.

“Silenzio, schifose zecche” intimò tra i denti.

Si voltò poi verso il figlio.

“Identifica questo partigiano.”

Arturo, ancora una volta, si sentì bruciare dallo sguardo di Sebastiano. Lo stava tradendo. Di nuovo.

“Sebastiano Franzoni” sussurrò, ogni sillaba che pareva bruciargli la bocca.

Suo padre voltò gli occhi verso il giovane con il ventre sanguinante, guardandolo per la prima volta. Mise a fuoco gli zigomi marcati, i capelli biondi, gli occhi azzurri. Quel viso si sovrappose a quella del bimbetto che giocava con suo figlio, che lo sfidava, che urlava mentre gli ammazzavano il padre.
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata.

“Ben fatto, figlio.”

“Arturo” lo chiamò di nuovo Sebastiano, sollevando a fatica la testa che cadeva ora a penzoloni. Le forze lo stavano abbandonando. In città, o tra i partigiani, qualcuno poteva essere ancora in grado di curarlo. Peccato che l’unico che avesse il potere di salvarlo lì dentro fosse lui, codardo fino al midollo.

“Silenzio!” gridò nuovamente il soldato che lo teneva per le spalle.

Il signor Ghidini estrasse la pistola dalla cintola e la mise in mano al figlio.

“Rusconi, spostati” intimò al soldato che aveva appena parlato.

Questi si spostò, facendo barcollare Sebastiano, che rovinò in avanti.

“Sollevalo, Rusconi. E tu, partigiano, vedi di restarci, in piedi, se non vuoi morire preso a pugni come tuo padre.”

Sebastiano grugnì di rabbia e dolore: un suono animalesco, colmo di sofferenza. Arturo si sentì morire nel sentirlo. Il partigiano si staccò dal muro, cercando di caricare l’uomo, ma Rusconi fu lesto a picchiargli in pancia il calcio del fucile, vicino alla ferita aperta. Il biondo si accasciò di nuovo gemendo e, spinto contro il muro, vi rimase, con il mento alto. Tutto in lui però tradiva la fatica che stava facendo per reggersi in piedi e per non scoppiare a piangere come un bambino.
Arturo si chiede che cosa potesse significare guardare in faccia la morte in quel modo, sconfitto, tradito, sanguinante. Era sgomento, fin troppo consapevole del metallo freddo della pistola che suo padre gli aveva cacciato in mano.

“Sparagli” ordinò.

Sebastiano, senza muovere un muscolo, lo fissò. Lo fissò come lo aveva fissato tredici anni prima di fronte al padre morente a terra. Lo fissò chiedendogli di compiere la prima scelta della sua vita, in nome della loro amicizia. Di risparmiarlo come lui aveva fatto solo poche ore prima. Lo fissò chiedendogli di essere un uomo, di essere ancora l’Arturo che aveva conosciuto da ragazzino. Ma anche l’Arturo ragazzino non era stato capace di opporsi al padre, di fronte alle sofferenze dell’amico. Aveva lasciato che lo picchiasse, sul ciglio della strada, quella volta della partita di calcio. Non era intervenuto per salvare suo padre, anzi, si era reso partecipe della sua morte. E tante altre volte aveva agito da vile. Quella volta lo avrebbe fatto di nuovo, realizzò Arturo all’improvviso. Sebastiano era già spacciato. Se si fosse rifiutato di sparare, lo sarebbe stato anche lui. E poi, pensò per alleggerirsi la coscienza, avevano scelto anni prima da che parte stare. Non era colpa sua se Sebastiano aveva scelto i partigiani. Il nemico. Aveva scelto la sua fine. Aggrappandosi a quel pensiero, con gli occhi fissi a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare l’amico negli occhi mentre lo ammazzava, Arturo sollevò il braccio. Una scelta la fece: non guardò in faccia l’amico mentre gli sparava. Una scelta da vile. Non vide, così, le sue labbra muoversi silenziose nella prima preghiera della sua vita, un’invocazione a quella Madonna sfocata che lo guardava da sopra la cassapanca. Non vide i suoi occhi colmi di nostalgia per quei due ragazzini che giocavano sul ciglio della strada e a Madonne e pistole preferivano sorrisi e corse. Non vide il suo viso pieno di pena verso Arturo. Non rabbia, non rancore, ma pena per uomo che non era mai stato di capace di scegliere. Per un codardo, vinto dalla paura sempre e comunque. Nella mente di Arturo, Sebastiano rimase il partigiano che rideva alla sua battuta appena dopo avergli lanciato un vecchio maglione. Scelse quella, come immagine da conservare, perché faceva meno male. Era più facile portarsi quella nel cuore piuttosto che i suoi occhi spenti, pieni di dolore e prossimi alla morte. Arturo si aggrappò a quell’immagine serena e premette il grilletto. Lo fece come in un sogno, come se davanti a lui ci fosse un ceppo di legno e non un corpo amico
Sebastiano rovinò a terra, il foro lasciato dal colpo poco lontano dal cuore. Morì all’istante. I suoi compagni lo ritrovarono così, steso in una pozza di sangue secco, con accanto il cadavere ancora caldo del vecchio capo brigata, lasciato lì a morire come un animale. I fascisti non diedero fuoco alla casa: la lasciarono lì, come monito che il movimento partigiano poteva essere sconfitto nel suo stesso
covo.

La Storia non diede loro ragione, però. Il fascismo morì, e Arturo vide sgretolarsi, a pochi mesi da quel suo finale atto di viltà, tutto quello dietro cui si era nascosto per difendersi dalle sue stesse atrocità. Il 27 aprile 1945 a Brescia entrarono gli alleati. I Ghidini si barricarono in casa, la stessa ai cui piedi era morto il padre di Sebastiano. Fu la squadra partigiana di Falco, che aveva preso il comando dopo la morte di Sebastiano, a trovarli. Il signor Ghidini si era appena sparato un colpo in testa, sentendo i passi dei partigiani salire le scale e le grida degli americani per strada. Il secondo colpo sarebbe stato per Arturo, ma questi non ebbe la forza di premere il grilletto. Aveva paura, di nuovo. Paura della morte. Falco lo riconobbe, ne fu certo. Falco sapeva quello che aveva fatto a Sebastiano. Glielo leggeva negli occhi mentre gli puntava il fucile contro. Lacrime calde rigarono il viso di Arturo. Lacrime che i partigiani lessero come di debolezza. Falco forse fu l’unico a capire che erano di rimorso mentre, con negli occhi la tristezza dell’uomo buono di nuovo costretto ad uccidere, sparò ad Arturo. Questi rovinò a terra con un nome sulle labbra. Non fu quello di Sebastiano, tuttavia, ma quello del soggetto di una fotografia sfocata che aveva visto un paio di mesi prima. Maria. Ma la Madonna non rispose, mentre Arturo moriva. Era un involucro vuoto, un mostro che aveva ucciso il suo migliore amico. Un verme che non meritava il perdono divino. Un verme i cui occhi vitrei fissavano, ora, il soffitto della sua casa signorile. Nessuno si prese la briga di chiuderglieli: restarono spalancati, neri come la pece, senza nemmeno poter vedere il cielo. Il cielo, azzurro come gli occhi di quell’amico che non aveva avuto il coraggio di salvare.


 






Ciao a tutti! Eccoci giunti alla conclusione di questa mini long. Dovete capire che è stato traumatico, io mi ero innamorata dei miei stessi personaggi ed è stato bruttissimo illuderli per poi portarli fino qui. Ma un racconto simile non poteva avere un finale idillico, sarebbe stato profondamente antistorico. Spero davvero che la storia vi sia piaciuta e che le psicologie, soprattutto quella di Arturo, si sia delineata per bene in questo ultimo capitolo. Ci terrei davvero a sapere cosa pensate di lui e di Seba, perché il mio sforzo per renderli umani, fragili, entrambi vinti (anche se in modo diversi) è stato grande. Vi ringrazio di cuore di aver letto,
A presto,
99

 

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