Scary Love

di Luana89
(/viewuser.php?uid=456594)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Forgive me, Father, for I have sinned. ***
Capitolo 2: *** Quo Vadis ***
Capitolo 3: *** Nightmare. ***
Capitolo 4: *** Chemistry ***
Capitolo 5: *** Sunflowers ***
Capitolo 6: *** Little confession. ***
Capitolo 7: *** Camping ***
Capitolo 8: *** Distance ***
Capitolo 9: *** Do you want to be mine? ***
Capitolo 10: *** Caesar code ***
Capitolo 11: *** Written in stars. ***
Capitolo 12: *** And you will feel love as you've never felt it before ***
Capitolo 13: *** Christmas ***
Capitolo 14: *** Ottawa ***
Capitolo 15: *** Ask yourself, who are you? ***
Capitolo 16: *** Life without you.. just isn't life. ***
Capitolo 17: *** Mother ***
Capitolo 18: *** What reality are you living in? ***
Capitolo 19: *** Non addio, ma arrivederci. ***
Capitolo 20: *** One Day, Three Autumns ***
Capitolo 21: *** Unbreakable bond. ***
Capitolo 22: *** soulmate ***
Capitolo 23: *** Equilibrio ***
Capitolo 24: *** Koi no Yokan ***



Capitolo 1
*** Forgive me, Father, for I have sinned. ***


I.


 Il coma mi ha portato in un mondo dove il tempo e lo spazio sembravano svanire; era un'esistenza onirica in cui persone, luoghi e situazioni si muovevano con la stessa rapidità dei pensieri. Avevo una profonda sensazione di essere a un bivio, un punto di svolta, a metà tra la morte e la vita. Sono stato nel posto in cui scorre il fiume del tempo, dove vanno gli ologrammi quando spariscono nell'aria, non ero né completamente sognante né completamente sveglio.
Adesso invece una sensazione simile a un risucchio, quando delle mani ti trattengono sott'acqua e improvvisamente ti lasciano andare, il tuo corpo non se l'aspetta e sbalzato verso la superficie spalanca occhi e bocca alla ricerca del fiato.
«Chiamate subito il medico, PRESTO.» Voci confuse, ticchettii contro il pavimento.
«Che succede?»
«Dottore, il paziente della camera 1290..» una voce esitante, cristallizzata.
«Ha deciso finalmente di lasciarci?»
«No, si è svegliato.»
 
*
 
«Guarda cosa ti ho portato?» Shou Lee si stagliò nel suo metro e ottantacinque agitando una busta di carta, l’odore di muffin appena sfornati impregnò le mie narici. Era coreano di origine, ma si era trasferito in America ormai dieci anni prima, raccontava di essere stato l’amante di una donna facoltosa e che per sfuggire alla morte per mano del marito era fuggito. Tutte cazzate a mio parere, ma era divertente quando lo raccontava.
«Grazie.» chinai il capo massaggiandomi nervosamente le gambe, il formicolio persistente non sembrava volermi dare tregua. Il medico diceva che era un buon segno, che avrei ripreso a camminare presto. Ma presto quando? Mi ero risvegliato ormai tre mesi prima, dopo un anno di incoscienza..
«Terra chiama Joshua, pronto?» Scossi il capo rovesciando la busta a terra, i muffin si sparsero sulle piastrelle.
«Vattene via.»
«Ehi, ragazzino..» la sua voce familiare mi aveva sempre calmato nel bene o nel male, ma non stavolta. Scoppiai a piangere disperatamente, mi sentivo come una barchetta sbalzata tra le onde pronta a colare a picco.
«Sono passati tre mesi, e ancora vivo bloccato su questa maledetta sedia. E’ giustizia questa?» Nello stesso istante in cui lo dissi un nodo prepotente si formò dentro la mia gola, attorcigliava le mie corde vocali come a volermi dire ‘’si, è la giustizia degli assassini’’.
«Il medico ha detto che tornerai a camminare, la riabilitazione sta funzionando..»
«Vai via.»  
«Joshua..»
«VAI VIA HO DETTO.» Osservai le sue spalle ingobbite allontanarsi, avevo conosciuto Lee Shou ormai tre anni prima, quando mi ero presentato sotto il suo studio in una giornata piovosa. Fradicio come un pulcino agonizzante affidai a lui la mia vita, gli chiesi di trovare i miei genitori biologici e lui accettò. Mi diede un lavoro, affetto, tutte cose che non ero sicuro di essere riuscito a ripagare. Mi salvò poco prima dello schianto, io nomade senza casa. Un ragazzo che continuava a fuggire dai suoi mostri. Continuai a piangere tutte le mie lacrime.
 
La riabilitazione durò più di sei mesi, riacquistai completamente l’uso delle gambe, ma mi rifiutai di continuare la terapia psicologica. Era difficile fissare il dottor. Moore e mentire, continuavo a costruire la mia esistenza su castelli di bugie. Era come un effetto domino difficile da fermare, le persone che avevo amato mi erano state infedeli, e a mia volta io continuavo a essere infedele a me stesso. Raschiai il fondo del piatto con la forchetta, col cibo non si giocava era questa la prima regola che mi diede il Signor Padre quando arrivai nella sua casa, odorosa di cera d’api e crostata alle mele, avevo solo due anni e quel posto mi parve il paradiso. Mi resi conto col tempo che vivevo in una bugia. Un’altra, si. In quella casa eravamo cinque: io, Thomas Junior il mio fratellastro chiamato TJ da tutti, Ruth la minore, il Signor Padre Thomas reverendo del paese e sua moglie Mary. Una famiglia rispettata da tutta la comunità, considerata un modello di rettitudine e fede. Quale incubo fu per me scoprire che quel paradiso altri non era che una porta per l’inferno. Iniziai a capirlo a tredici anni, quando il signor padre mi annunciò che presto sarei stato convocato nel suo ‘’studio’’. Sapevo cosa succedeva lì, prima di me vi era stato TJ, avevo sentito le sue urla nascosto sotto le scale, nonostante mi coprissi forte le orecchie. In quel paese tutto era alterato, ovattato, migliaia di occhi sembravano spiarti sempre e comunque. Se andavi bene a scuola ti fissavano, se andavi male il demonio ti stava distraendo, se sembravi felice ti fissavano sospettosamente, se eri triste il demonio ci metteva lo zampino. Dovevi sorridere, si ma non troppo. Non piangere. Non puoi avere l’ansia, non puoi leggere quel libro, né vedere quel cartone. E’ tutta roba del demonio per traviare la tua giovane anima. Pensieri, pensieri, PENSIERI.
«Ma quel tizio non è..?» la voce di Shou mi riscosse, fissai il televisore riconoscendo il viso di Mattew. Sembrava ieri quando c’eravamo fissati e ‘’tornerò presto, devo risolvere alcune questioni a Seattle’’, la giornalista annunciava il suo matrimonio imminente con la fidanzata storica, e ricca ereditiera. Il simile in fondo cerca sempre il simile no? Conficcai la forchetta nel purè continuando a guardare la televisione, cos’è che provavo esattamente? Nulla. Un abisso nero di aridità. Avevo di fronte la persona con cui ero stato per mesi, una relazione che sembrava averci divorato, fatta di bugie e cose non dette. Il senso di malinconia mi rendeva difficile respirare, era così crudele risvegliarsi e rendersi conto che tutti erano andati avanti.. nessuno escluso. Tutti avevano camminato, percorso miglia e miglia e io ero rimasto fermo nel medesimo punto, a domandarmi come un povero coglione dove fossero tutti quanti. Non ero nemmeno stato in grado di amarlo, avendo vissuto per sedici anni in una gabbia, pensavo che anche una relazione lo fosse; e quindi scappavo in tondo, inseguito da lui. Poi cambiava il giro, ed ero io a inseguire, così fino allo sfinimento. Conobbi Mattew quasi due anni prima, tramite conoscenze comuni. Come me anche lui sembrava avvolto in una nube di misteri, come un puzzle che composi quasi fino alla fine, ma l’ultimo tassello mi sfuggì drammaticamente. Un ragazzo con una sete di vendetta mai vista prima, a Las Vegas per cercare l’uomo che aveva distrutto la sua famiglia e preso possesso dell’azienda milionaria che sarebbe spettata a lui, in questa baraonda di marciume ci incontrammo legandoci. Inizialmente andava bene, era la ventata d’aria fresca che mi serviva, la sua gelosia e possessività mi faceva sorridere ma lentamente andò a opprimermi sempre di più. Il modo in cui mi vestivo, i miei pensieri, le mie azioni, lui voleva il controllo di tutto. Teneva sott’acqua la mia testa, impedendomi di respirare, e io tenevo in mano il suo cuore stringendolo finché non lo sentivo contorcersi per il dolore. Non c’era alcun futuro per noi, lo sapevo io e lo sapeva lui, ma ci rifiutammo di ammetterlo; accettai la sua menzogna guardandolo partire consapevole di non rivederlo mai più.
«Spegni la televisione.»
«Ti fa male il cuoricino?» Non sapeva seriamente quando tacere quello stronzo, lo fulminai con un’occhiata.
«Vuoi che a te faccia male l’occhio a breve?» Sorrisi candidamente, le fossette sbucarono prepotenti come sempre conferendomi quell’aria angelica che in un certo senso era stata la mia rovina. Aveva attirato TJ, e Mattew dopo di lui. Tossici in maniera diversa. E adesso? Chi avrebbero attirato adesso?
 
 
La chiesa era silenziosa, odorava di incenso e pace. Fissai la croce sopra l’altare, così immensa e terrificante nella sua maestosità. Strinsi i denti sedendomi nel confessionale, la finestrella si aprì pochi istanti dopo e una voce bassa mi invitò a parlare.
«Mi perdoni padre perché ho peccato.» tremai.
«Qual è la tua colpa, figliolo?»
«Ho ucciso un uomo..» il silenzio si frappose tra noi, insinuandosi attraverso quei piccoli fori luminosi.
«Vedi, tutti noi uccidiamo ogni giorno.. con le parole, le opere.»
«No, padre. Ho ucciso un uomo, l’ho ucciso sparandogli un colpo dritto nel petto.» Piansi silenziosamente scuotendo il capo. Chi poteva salvarmi da questa disperazione? «Andrò all’inferno..»
«Dio è misericordioso figliolo, se il tuo cuore è pentito lui lo saprà..» quella voce non perse la dolcezza.
«E se il mio cuore non fosse pentito? Se volessi uccidere ..ancora?» non riuscivo a parlare sopra il sussurro, temevo di frantumarmi lì.
«Perché dovresti? Affida la tua croce a Dio e lui saprà ricompensarti.» L’avrebbe fatto davvero? Quando uscii dalla chiesa il sole in cielo non riuscì a riscaldare nemmeno un lembo della mia pelle scoperta. Il cellulare squillò, fissai il numero sospirando.
«Shou?»
«Ehilà ragazzino, vieni nel mio studio.» Sbuffai premurandomi di farglielo sentire.
«Senti detective da strapazzo, sbaglio o ti ho detto che oggi non avrei lavorato?»
«Non devi infatti, sei licenziato.» Mi bloccai nel bel mezzo della strada, un clacson mi fece sobbalzare mentre pensavo a tutti i debiti che non sarei riuscito a sanare.
«Mi prendi in giro?»
«Per niente, devi fare le valigie New Haven ti aspetta. Ti piace il Connecticut?»
«Hai ripreso a bere di mattina? Guarda che hai trent’anni, il tuo fegato non reggerà a questi ritmi.»
«Yale ha stanziato una borsa di studio per il corso di ‘’arte e fotografia’’, porta il tuo culo da femminuccia qui e adesso. Devi mandargli i tuoi lavori.»
«Shou—»la chiamata venne interrotta senza possibilità di replica.
 
«Mi spieghi che diavolo ti passa per il cervello?» Gettai lo zaino sulla sua scrivania mettendo le mani sui fianchi, fogli bianchi volarono per aria sparpagliandosi a terra.
«Vuoi continuare a lavorare per me tutta la vita? Fotografando mariti fedifraghi che si scopano segretarie e travestiti raccattati nelle vie a luci rosse di Las Vegas?» Inarcò un sopracciglio quasi a volermi sfidare.
«Yale? E’ troppo costosa.. e poi ..»
«E poi cosa? Senti Joshua, nella mia vita non vi è mai stata una singola cosa degna di nota, non ho mai fatto un cazzo di buono. Per una sola volta vorrei poter fare qualcosa di utile, ho visto i tuoi lavori.. cazzo le tue foto sono opere d’arte, e io di fotografia non ci capisco un cazzo ci credi?» Oh si che ci credevo, restai però in silenzio. «Non posso relegarti nel mio ufficio, pensando che hai vent’anni e una marea di possibilità che non coglierai mai.» Il silenzio piombò tra noi, ci fissammo per la prima volta senza il consueto sarcasmo che contraddistingueva il nostro rapporto.
«Non sai nemmeno se mi prenderanno…»
«Proviamoci almeno, e se non andrà non dirò più nulla.» Alzò le mani in segno di finta resa, ma sapevo che in quella diatriba il perdente ero io. In fondo Shou era stato un padre per me, o comunque un fratello maggiore, maniaco e stronzo si ma comunque affettuoso. Chinai il capo scacciando l’aria con la mano e la sua risata mi fece prudere le mani.
 
 
Il mio cuore sembrava destinato a dividersi in tanti piccoli frammenti, ne avevo lasciato un pezzo nel villaggio a Mississipi quando ancora credevo che TJ mi amasse, adesso un pezzo a Las Vegas dove avevo lasciato Shou con la promessa di rivederci. Fissai la camera del mio dormitorio ancora spoglia di me, di ciò che amavo. Sentivo le mani appiccicose, le sfregai sui jeans guardandomi attorno, fino a pochi mesi fa per me il Campus era un’utopia – non pensavo sarei mai andato all’università, che avrei ‘’svoltato’’ in qualche modo. Adesso ero lì, con una borsa di studio che mi permetteva di frequentare una delle università più prestigiose del Paese, e senza impiccarmi per i debiti (okay magari per quelli mi sarei impiccato un’altra volta).
 
Ricorderò quel giorno per sempre, il vento soffiava particolarmente forte e caldo e io sedevo fissando il via vai di studenti attorno a me. Quello era il mio campo da gioco preferito, invisibile in mezzo a una folla di gente pronto a catturare i loro visi e le loro emozioni, come il peggiore dei guardoni, questo era ciò che da sempre amavo. Non i paesaggi, ma le emozioni vere e forti. Lo vidi in quel momento, stava attraversando il viale completamente solo, la mano strinse la macchina fotografica sul mio grembo come richiamata da un suono udibile solo a me. I capelli corvini e spettinati col sole mandavano strani bagliori blu, una diversa sfumatura di quella contenuta nei suoi occhi il cui colore dubitavo fosse presente in alcuna tavolozza. Aveva alcuni piercing alle orecchie, e anche al labbro, il colorito pallido di chi è abituato a rintanarsi in camera piuttosto che uscire alla luce del sole. Alle dita portava strani tatuaggi, simboli che allora non riuscivo a capire. Le spalle larghe, il fisico snello ma forte, lo capivo dal modo in cui la camicia tirava sulle braccia. Non fu la sua bellezza a colpirmi: bensì l’assenza d’espressione sul suo viso. Il mio occhio fissava attraverso l’obiettivo, poco prima di scattare la prima foto del mio anno scolastico. Lo sconosciuto sembrò quasi sentire il lavorio dei miei pensieri, sollevò di scatto il capo guardando tra la folla, e i suoi occhi si poggiarono su di me per una manciata di secondi che valsero un’intera vita. C’era qualcosa in lui, qualcosa di assolutamente inspiegabile. Lo capii poco prima che sparisse all’interno della struttura: le persone attorno a quel ragazzo sembravano scostarsi al suo passaggio, come se quel singolo essere umano fosse in grado di domare la forza di gravità e il baricentro spostandoli a suo piacimento.
Mi persi per un istante.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Quo Vadis ***


II.



Rigirai il mio tesserino tra le dita, non riuscivo ancora a realizzare di essere uno studente universitario, di essere parte di ‘’qualcosa’’ per la prima volta nella mia vita. Volevo fare bene, volevo riuscire, i miei buoni propositi sembravano martellare dentro il mio cervello. Potevo lasciarmi tutto alle spalle? Fingere che non fosse mai successo nulla, fingere di non avere un passato magari. Il cellulare non interruppe semplicemente i miei pensieri, li distrusse come una bolla di sapone arrogante.
 
— Detective, che piacere..
— Mi dispiace disturbarla così, ma pensavo fosse interessato alle novità sul /suo/ caso.
— Certo, mi dica pure.
— Thomas è stato visto a Las Vegas una settimana fa.
— ….
— Nei pressi della sua abitazione. Probabilmente cercava lei, non sa del trasferimento.
— Capisco..
— Non abbia timori, lo prenderemo.
— Lo so, mi fido di lei.
 
Mi fidavo di lui, e lui si fidava di me. La maggior parte dei rapporti iniziano così, con quella parvenza di fiducia che costruisci su basi non certe. Cercava Thomas per il mio rapimento, per il mio tentato omicidio e per l’omicidio di quell’uomo.. un omicidio che TJ non aveva mai commesso però. Improvvisamente le pareti della caffetteria sembrarono stringersi attorno a me, respirai profondamente afferrando il bicchiere di latte macchiato al cacao. Mi scottai sobbalzando.
«Sei distratto.» Una voce femminile catturò la mia attenzione, sollevai lo sguardo osservando una ragazza non molto alta, ma che sembrava parecchio consapevole di avere ogni forma al posto giusto. Scostò i lunghi capelli castani dalla spalla sedendosi di fronte a me.
«Non sono ancora iniziate le lezioni e sono già distratto.. fantastico.» racimolai un sorrisino blando che non convinse nemmeno me.
«Sono Sophia, piacere.» Ricambiò il mio con un sorriso ben più raggiante.
«Oh.. mi chiamo Joshua, scusami. Sei anche tu del primo anno?»
«Si, facoltà di management, tu?» Reclinò appena il capo come se mi stesse squadrando con attenzione.
«Arte e fotografia, sono entrato tramite la borsa di studio..» non ero ben sicuro del perché dovessi ogni volta far sapere al mondo quanto la mia soglia di povertà facesse a gara con quella dei barboni agli angoli delle strade. Scoprii che Sophia era la figlia adottiva di un uomo molto facoltoso, e che lavorava come aiuto manager in un pub.
«Vorresti lavorare lì? Il manager ha una palese cotta per me.. c’è qualcosa che sai fare?» Il suo tono ironico piuttosto che indispettirmi mi divertì, le concessi la prima vera risatina della giornata e sembrò compiaciuta.
«Ho lavorato come barman a Las Vegas, se può servire.. Perché vuoi aiutarmi? Non mi conosci nemmeno.»
«Mi stai simpatico, e inoltre ho un debole per quelli in difficoltà. Un’ultima domanda..» restammo sospesi e in silenzio pochi istanti. «Sei gay?»
«Cosa te lo ha fatto intuire..?» Disse il ragazzo palesemente gay.
«Maledizione, lo sapevo. Tutti i più belli sono gay, dovrò lasciar perdere.» Sbuffò in maniera capricciosa, e in quel momento seppi di aver trovato la mia prima amica in quel posto pieno di sconosciuti, una persona con la quale sembravo avere più di una cosa in comune.. partendo dall’essere due ragazzi adottati e finendo con la spiccata sensibilità.
 
 
Lasciai Sophia con la promessa di rivederla in serata, mi avrebbe portato al pub per un breve colloquio. Non dovevo aspettarmi molto dalla paga, ma con le mance a detta sua avrei comunque arrotondato bene nei fine settimana, e in questo modo avrei ripagato i miei debiti con Shou e Joel.. Joel il mio gemello. Identici fisicamente, con un solo neo a differenziarci e distinguerci e qualche centimetro d’altezza in meno da parte sua. Se io mi facevo vanto del mio metro e settantanove, lui si lagnava del suo metro e settantaquattro. Scoprii di avere un gemello grazie alle ricerche di Shou, la mia famiglia biologica era andata al creatore soltanto due anni prima della mia venuta a Las Vegas, ma giusto in tempo per disfarsi anche del loro secondo figlio che ritrovammo in Francia a studiare teatro e godersi la bella vita. Joel era diverso da me, più sicuro di se, diceva più parolacce, meno amante dello shopping compulsivo, meno (per niente) gay e meno buono. O almeno questo è ciò che diceva. Perché in tutta franchezza io di buono sentivo di non avere più nulla, ogni notte lo stesso sogno sembrava perseguitarmi.. mi sentivo in trappola. Immerso in quei pensieri non vidi il muro di fronte a me, andandoci a sbattere di forza.
«Cavolo..» mi massaggiai la fronte cercando di non frignare come mio solito. Perché si, alla lista dei miei pregi potevamo aggiungere la lacrima facile. Mi guardai attorno fissando poi la cartina tra le mie mani, quella non era di certo l’ala di arte e fotografia.
«Mi ostruisci il passaggio.» Una voce bassa e fredda mi fece sobbalzare, mi voltai e per poco la cartina non mi cadde dalle mani. Fissai quelle pozze blu riconoscendole immediatamente, sentendo la lingua seccarsi dentro la mia bocca.
«Oh io.. mi dispiace.. mi sono.. cioè no non mi dispiace, intendevo dire che—» cosa intendevo dire? Lo avevo francamente scordato.
«Intendevi dire che ti sei perso come un bambino di tre anni?» Inarcai un sopracciglio a quelle parole lievemente sprezzanti. Okay, il tipo bello e figo che avevo fotografato soltanto il giorno prima era anche uno stronzo.
«Non mi sono perso.»
«Ah no? Quindi frequenti la facoltà di farmacia?» Mi fissò attentamente.
«No.. volevo solo vederla, problemi?» Sorrisi sarcasticamente e mi sembrò come se fosse stato distratto da qualcosa sul mio viso. Alla fine sorrise e io dimenticai nuovamente dove mi trovavo.
«Peccato che questa sia la facoltà di CHIMICA..» Si poggiò al muro incrociando le braccia al petto, mi aveva appena fregato? «Secondariamente tu hai più la faccia da facoltà di ..lettere.»
«Ti sbagli, mago merlino.» Finalmente aveva sbagliato qualcosa. Il suo viso sembrò schiarirsi improvvisamente, schioccò le dita come se fosse arrivato alla conclusione sul senso della vita e io mi distrassi nuovamente fissando quegli strani tatuaggi.
«Rettifico, sei della facoltà di arte e fotografia.» La mascella per poco non mi cadde, mossi qualche passo indietro inciampando sui miei stessi piedi e se la sua mano non mi avesse afferrato prontamente sarei caduto come un imbecille col sedere a terra. Mi lasciò andare subito, la sua espressione tornò fredda e quasi distante come se fosse arrabbiato con se stesso per non avermi fatto morire di trauma cranico pochi secondi prima.
«Beh..» non mi diede il tempo di rispondere, scrollò le spalle con indolenza superandomi senza più darmi corda. Mi voltai pronto a lanciargli la mia scarpa e urlare ‘’ehi parlo con te, stronzo’’ ma una voce alle mie spalle mi bloccò.
«ENOCH.» Mi voltai osservando una ragazza slanciata e a mio parere slavata accodarsi allo sconosciuto. Vicina, troppo vicina. Quindi il suo nome era ‘’Enoch’’? Fissai le sue spalle larghe finché non svoltò il corridoio restando nuovamente solo coi miei pensieri. Lo avrei rivisto ancora? Ma soprattutto mi importava rivederlo? La risposta che mi diedi mi piacque molto poco.
 
 
L’insegna al neon del pub si accendeva di un rosso vivo a intermittenza, lessi il nome con attenzione: Quo Vadis. Decisamente appropriato per il momento che stavo vivendo, non so se sarei stato in grado però di rispondere a quella domanda.
Sophia mi trascinò dentro, l’ambiente era illuminato come se il 50% delle lampadine si fossero fulminate, e quando lo feci notare mi arrivò una gomitata sul costato.
«Si dice ‘’luci soffuse’’.» Ah certo, ma questo non cambiava il fatto che le zone d’ombra mi mettessero ansia e stress. Dopo essermi risvegliato dal coma avevo sviluppato questa sorta di ‘’fobia’’ particolare per le ombre, non era il buio a spaventarmi bensì la luce parziale. Quelle forme mostruose che si allungavano nei muri e per terra con la penombra mi rendevano impossibile respirare normalmente.
Al bancone una ragazza bionda e dai lineamenti severi stava pulendo dei bicchieri con svogliatezza.
«Lei è Anastasia, ma tu puoi chiamarla Nastya.» Le tesi la mano con un sorriso e ricevetti un’occhiata scettica.
«Se può chiamarmi così dovrei essere io a deciderlo.» Okay, Nastya sembrava poco amichevole e anche russa a giudicare dall’accento.
«Io sono Joshua, ma tu puoi chiamarmi Joshua.» La mia espressione imperturbabile confuse Sophia ma stranamente fece ridere la russa che posò il bicchiere ormai asciutto stringendomi la mano.
«Puoi chiamarmi Nastya simpaticone, Sophia mi ha parlato di te. Il manager non ha tempo per i colloqui, vieni dietro al bancone sarò io a esaminarti.» La tensione che sentivo allo stomaco sembrò sciogliersi improvvisamente. Conoscevo tutti gli alcolici presenti, lavorare a Las Vegas per una volta mi aveva salvato le chiappe e forse non sarei morto di fame nell’attesa di un lavoro. Preparai un analcolico per Sophia (scoprii che non reggeva l’alcool per niente) che annuì soddisfatta alla prima sorsata.
«Nastya, non è adorabile Joshua?» Arrossii schiarendomi la voce, perché parlava di me come se non ci fossi? La bionda mi circondò le spalle con un braccio stringendo la presa.
«Molto, è come un bambino, hai visto che lineamenti perfetti?» Mi prendevano in giro? «E ha un culo da donna, e di culi ne ho visti parecchi io.»
«Okay, ora piantatela..» mi scostai fulminandole con un’occhiataccia ricavandoci solo delle risate divertite.
«Sei davvero bello Joshua, non scherzo.. quando ti ho visto al bar volevo rimorchiarti.» Sophia mise un broncio adorabile, immaginavo avesse parecchio successo con gli uomini, era un misto tra una bambina infantile e una sensazionale seduttrice.
«Sophia, tu vuoi rimorchiare ogni fottuto palo che incontri.» La voce più rude di Nastya si intromise facendomi ridere, la fissai meglio. Aveva dei lineamenti severi ma belli, non era vistosa come la capricciosetta seduta di fronte a noi, ma supponevo avesse il suo perché. Lo supponevo perché appunto le donne non mi facevano granché effetto.
«Scusatemi se interrompo..» la mia voce esitante le distrasse abbastanza dal piccolo battibecco. «Ma quindi sono assunto o no?» La mia faccia per qualche motivo fece scoppiare a ridere entrambe. Lo presi come un si.
 
 
Presi un bel respiro stringendo i pugni delle mani, preparandomi a entrare nei corridoi del dormitorio adesso deserti e in penombra. Mancava poco allo sforare del coprifuoco e se non mi davo una mossa sarei rimasto lì a dormire con i cespugli e gli insetti, cosa che mi allettava tanto quanto i muri imbrattati dall’oscurità. Socchiusi gli occhi prendendo coraggio, salendo le scale con occhi attenti a captare ogni movimento. Misi piede nell’ultimo gradino provando a fare il minimo rumore possibile camminando in punta di piedi con la tensione che mi avvolgeva manco fosse un sudario di morte (così drammatico..).
«Ma che cazzo—» l’imprecazione servì solo a rompere quella fragile parvenza di coraggio strappandomi un urlo che soffocai con entrambe le mani schiantandomi contro il muro. Fissai con gli occhi fuori dalle orbite l’ambiente attorno a me, di chi era quella voce? C’erano i fantasmi lì? Una sagoma poco distante servì a non farmela fare sotto del tutto. Rilassai le spalle mandando giù il bolo di saliva.
«Ti sembra il modo di—» mi stoppai non appena riconobbi la figura alta, la postura rilassata di chi sembrava fregarsene di qualsiasi cosa gli accadesse intorno. «Enoch?» L’averlo chiamato per nome sembrò coglierlo di sorpresa, mi fissò con gli occhi socchiusi avvicinandosi.
«E tu saresti?» Questo tipo aveva la memoria a breve termine, per forza.
«Dimentichi così in fretta le persone?» Mi scoprii alquanto piccato dalla cosa.
«Solo quelle inutili.» Aprii la bocca per ribattere ma non uscì alcun suono. «Sei ‘’arte e fotografia’’
«Joshua.. mi chiamo Joshua.» Mi toccai nervosamente il ciuffo che copriva la mia fronte, quasi volessi allungarlo per magia fin dentro i miei occhi. Allora si ricordava di me. Dovevo darmi un contegno, che problemi avevo esattamente? Il coma mi aveva devastato la psiche ormonale?
«Non lo sai che il coprifuoco non può essere sforato?» Lo guardai stranito, notando solo in quel momento l’abbigliamento sportivo e il pallone da basket tra le sue mani. Misi una mano sul fianco dandomi un tono.
«Non mi sembra che tu sia da meno, stai tornando adesso.»
«In realtà no.» Sorrise tirando in alto la palla, riprendendola subito dopo.
«Mi prendi in giro?»
«No, non sto tornando adesso, sto andando adesso. Ed è diverso.» Okay mi prendeva per il culo. Lo indicai con una mano ma come al solito mi voltò le spalle mollandomi lì come uno stronzo. Ma era un vizio il suo?
«Ehi, tu! Stai sforando il coprifuoco lo sai??» Lo rimbeccai imitando in falsetto la sua voce, ne ricevetti una risata bassa che fece da eco tra le mura.
«Io posso tutto, Joshua. Tutto.»
Mi lasciò così, solo in quel corridoio spettrale, con due consapevolezze, la prima: di averlo come compagno di piano in quel dormitorio. La seconda: sembrava avvolto da un mare di segreti, anche lui.
 


( * per la fluidità del racconto alcune norme, regole e altro relativi al campus e al dormitorio verranno modificate. )

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Nightmare. ***


III.



Ormai dormire tediava le mie notti, quando i miei occhi si chiudevano e il respiro diveniva regolare la mia mente e i miei pensieri si frammentavano. Erano parti piccolissime e aguzze, le schiacciavo con i piedi ferendoli, sentendone lo scricchiolio ad ogni passo.
Siamo in auto, io e TJ, mi rendo conto di essere ferito perché sento la consistenza del sangue inzuppare la mia carne aperta. E' come un lento scivolare nell'oblio, le mie forze si perdono lentamente, i miei occhi si chiudono quasi a forza, vorrei parlare e dirgli tantissime cose:
                                    
— Perché mi hai tradito?
— Ricordi la corsa a perdifiato in campagna?
— E il bagno in quella cascata?
— Ricordi quando dicevi ch'ero fatto della stessa consistenza del peccato?

                                    
Provo con tutte le mie forze a resistere, ma lenta la deriva mi trascina, e io mi accascio sul suo grembo fissando quegli occhi verdi e quella cicatrice che io stesso gli ho procurato la notte al capannone. Mi fissa muto e stoico, le sue iridi luccicano di lacrime e quando iniziano a scendere macchiano la mia pelle, la corrodono e io muoio urlando nel dolore.
La scena cambia ancora, il capannone dove venni rinchiuso è più cupo di come lo ricordassi, sento il respiro affannato di mio fratello Joel, anche nel sogni lui non capisce perché sia lì. ‘’Perché pago io per i tuoi peccati?’’, non disse mai quella frase eppure nel mio sogno ricorre come una nenia che mi strugge. Mi avvizzisco dentro, vorrei dirgli che sbaglia che non è colpa mia, che come lui sono stato una vittima. ‘’Hai idea di quanto abbia sofferto dentro quella casa? Tu non lo sai..’’, ringhio quelle parole ma dalla mia bocca non esce nulla. Poi arrivano i passi, sembrano il rintocco di un orologio e allora lo vedo: ha le spalle ingobbite, come se queste non riuscissero a sorreggere il peso di così tanto male. Il suo volto è per metà sfregiato dalle fiamme, è orribile. La sua decadenza è iniziata quando fuggii quella notte, la mia iniziò proprio in quel luogo.
Mi sputa addosso, mi dice anche in sogno che è il momento d’essere purificato ed è in quell’istante che vedo apparire TJ, il mio mondo perde consistenza. La scena cambia, sono in ginocchio e il signor padre è morto, osservo le mie mani pregne di sangue e tremo. Assassino, assassino, ASSASSINO. Come lui.
Mi svegliai urlando, madido di sudore strisciai fuori dalle coperte cercando di non vomitare lì. Caddi rovinosamente sul pavimento annaspando, non riuscivo a respirare. Strisciai verso la finestra poco distante, aprendola affinché l’aria fresca della notte potesse entrare nei miei polmoni compressi; mi strappai quasi di dosso la maglia graffiando la gola con le unghie: respira Joshua, respira. Come sempre mi accasciai a terra, aspettando l’alba. O la redenzione. Non ero più sicuro di cosa aspettassi realmente.
 
 
 
Le prime volte hanno quel non so cosa di piacevole, la scoperta di qualcosa che sai già diverrà poi routine perdendo la magia. Così è stato per la mia prima lezione. Sedetti composto, la schiena dritta, la matita ben appuntita pronto a carpire ogni minima cosa detta dal professore; mi sentivo emozionato, era come se quello per me fosse un nuovo inizio, sfamava la mia indole curiosa sempre all’erta ma iper-eccitata quando si trattava di nuove avventure.
«Joshua!» Sophia mi spintonò divertita osservandomi attentamente. «Che occhiaie.. stai male?»
«Ho dormito poco, credo sia colpa dei cuscini..» mi massaggiai il collo enfatizzando la mia teoria e sembrò crederci.
«Stasera hai il turno al local—» non riuscì a finire la domanda, una sagoma si stagliò accanto a noi interrompendo il dibattito. Osservai il ragazzo sorridente, aveva dei capelli color cenere e gli occhi chiari (iniziavo a domandarmi se non fossi l’unico con gli occhi castani), scoprii che si chiamava Friedl e che Sophia non sembrava provare una così gran simpatia per lui, nonostante l’altro sorridesse sempre trattandola con familiarità.
Ero sempre stato parecchio bravo a carpire le personalità altrui, mi bastarono poche ore in compagnia di Friedl per dedurre quando fosse insicuro e furbo. Per motivi a me sconosciuti decise che io gli piacevo, mi seguì in camera gettandosi senza cura sul mio letto, sul mio piumino con gli unicorni, sfogliando la MIA rivista di fotografia. Respirai profondamente sistemando i vestiti in disordine sulla sedia.
«Vieni sul serio da Las Vegas? Cavolo.. ed è come la descrivono?»
«Dipende.. come la descrivono?» Il mio essere evasivo sembrò divertirlo, la realtà era che non volevo fare la figura dell’imbecille, non con lui. Quando arrivai a Las Vegas non sapevo nulla, non avevo idea delle perversioni presenti nel mondo, del gioco d’azzardo, dei rapporti a tre. Persino la parola ‘’orgia’’ per me fu scandalosa da scoprire, e mi fece rendere conto con profonda vergogna di quanto avessi passato sedici anni della mia vita chiuso in una gabbia. Chi me li avrebbe restituiti? Chi? Strinsi i vestiti tra le dita ma la voce del mio ospite mi riportò alla realtà.
«Io vengo dall’Austria.. qui è tutto così diverso, ma Yale era una possibilità che non sarebbe più ricapitata.» si rotolò tra le coperte fissando il soffitto. «Studio lettere e filosofia, tu?»
«Arte e fotografia..» restai affascinato dal suo indirizzo di studi, probabilmente sarebbe stata la mia seconda scelta se non avessi amato così tanto la fotografia.
«Conosci Enoch?» Quel nome mi spiazzò, restai con la bottiglietta di tè tra le mani, senza aprirla.
«L’ho intravisto…» respira Joshua, respira. E’ una domanda stupida, non essere nervoso.
«Siamo amici da un anno. Amici intimi.» Alla parola intimi il tè che avevo malauguratamente bevuto mi uscì dal naso. Tossii battendomi una mano sul petto e la sua risata mi infastidì.
«Intimi in che senso?»
«Sei diventato tutto rosso.. sei vergine?» Che domanda del cazzo era? Okay, non avevo molta esperienza, per non dire nulla, ma era legale rivolgersi così alla gente?
«Perché mi rispondi con un’altra domanda?»
«Non siamo ‘’intimi’’ in quel senso.. ma lo diventeremo. A lui piaccio, deve solo rendersene conto. La storia della sua eterosessualità non regge, io lo so.» Forse, e dico forse, ai suoi aggettivi avrei dovuto aggiungere ‘’ossessivo psicotico’’? «Vi ho visti parlare, l’altra notte in corridoio dico.» avrei voluto chiedergli perché non lo avesse detto subito.
«L’ho incontrato per caso..»
«Shua, posso chiamarti Shua?» No mi fa ampiamente cagare. La mia faccia parlò per me, avevo quello strano dono di non riuscire a contenere le mie espressioni mentre Friedl aveva quello strano dono di fottersene e farlo ugualmente. «Mi sei così simpatico.. Io e te adesso siamo amici, dovrai aiutarmi con Enoch, lo farai vero?» Perché avevo come l’impressione che mi avesse chiuso?
 
 
 
 Nonostante il Quo vadis fosse un piccolo pub vicino l’università, l’affluenza era spaventosa in alcuni giorni settimanali. Avevo scoperto comunque che se sorridevi al cliente giusto la mancia aumentava esponenzialmente, ed era proprio ciò che mi stavo accingendo a fare quando un gruppetto di studenti attirò la mia attenzione. Anzi, solo uno: Enoch. Ero sicuro mi avesse visto ma non mi degnò di uno sguardo sedendosi a uno dei tavoli, accanto a lui c’era Friedl. Uno studente che non avevo mai visto venne al bancone ordinando per tutti, in mezzo a tutti i superalcolici richiesti vi era una birra media.
«Si può sapere che diavolo guardi?» La voce di Nastya mi spaventò, la fissai scioccato per qualche secondo.
«Niente.. alcuni miei colleghi di università.» avevo scoperto quanto alla russa piacesse trattenersi dopo l’orario di lavoro, bevendo. E bevendo. E bevendo. Non avevo il coraggio di chiederle perché bevesse così tanto, non pensavo fossimo ancora così in confidenza. Sophia apparve subito dopo sedendosi elegantemente accanto all’amica.
«Hai visto? C’è Enoch, e senza guardare posso dire con certezza che ci sta anche il parassita.» Le preparai un analcolico sorridendo divertito per il tono da piccola dotta.
«Sono molto amici…» la buttai lì casualmente.
«Amici? Friedl è lo stalker personale di Enoch, tu non sai ciò che dici.» Guardai il gruppetto e vidi Enoch fissare nella nostra direzione qualche secondo per poi tornare con gli occhi fissi sulla propria birra.
«Mi sembra un po’ eccessivo dai.. insomma, okay ha una cotta palese però—» non mi diede l’agio di finire.
«Ascoltami, io sono le orecchie di questo campus e so tutto.» Un’altra? Poteva stringere la mano di Enoch, lei sapeva tutto e lui poteva tutto.
«Sophia. ‘’Arte e fotografia’’.» La voce di colui che stavamo ampiamente sparlando si palesò facendoci venire un colpo, Enoch ci fissò in maniera strana mentre poggiava il boccale ormai vuoto, come se sapesse d’essere l’oggetto delle nostre ciarle.
«Enoch Weizsäcker tra noi comuni mortali.» Cercai di memorizzare quel cognome, ma sembrava uno scioglilingua, era .. tedesco? O magari no. Non ero molto ferrato in materia di nomi e cognomi.
«A volte capita anche a me.» Il suo tono asciutto indispettì Sophia nonostante lo fissasse con simpatia.
«Questo è il motivo per il quale ciò che hai sotto i pantaloni non mi è mai interessato.» Tossii fingendomi presissimo a preparare qualcosa, mentre Nastya si godeva lo spettacolo.
«Ah è per questo? Pensavo fosse perché non ho cinquant’anni e una badante al seguito che mi cambi il catetere.» Colpita e affondata. A quanto pare il vizietto di Sophia per i famosi ‘’daddy’’ era cosa risaputa.
«Super simpatico come sempre, che vuoi?»
«Domani sera ci riuniremo—» Friedl sbucò dal nulla mettendosi accanto a lui.
«Shua!» Cercai di frenare il tic nervoso al suono di quel nome, mentre Enoch come se non avesse sentito o visto nulla continuò a parlare.
«Ci riuniremo, dicevo, nella stanza di William al secondo piano, verrete?» Sophia non sembrò colpita da quell’invito, io invece si. Aveva pensato a noi?
«Ho proposto io a Enoch la cosa!» Come non detto, la voce di quel maledetto parassita distrusse le mie patetiche speranze. Vidi Enoch voltarsi e fissarlo, non era uno sguardo normale, avevo come l’impressione che tra loro stesse passando una tacita conversazione e per nulla piacevole.
«Verremo.» La risposta arrivò così veloce che per un secondo pensai di essere stato io a darla.
«Perfetto.» Enoch si voltò senza nemmeno salutare tornando ai suoi affari con Friedl al seguito.
«Interessante..» Nastya bevve d’un fiato la vodka. «Quindi ricapitoliamo, a questo Friedl piace Enoch, a Enoch non piace nessuno .. quindi la domanda è: a chi tra voi due piace Enoch?»
«A NESSUNO.» Risposi con troppa enfasi beccandomi quattro occhi intenti a scrutarmi, Sophia finì il suo cocktail.
«Al piccolo Joshua probabilmente.»
«Non dire sciocchezze, potrebbe mai piacermi uno come lui?» Il mio atteggiamento sbruffone sperai fosse abbastanza convincente. A giudicare da come rise Nastya avrei detto di no.
 
 
 
William era inglese di nascita, trapiantato negli Stati Uniti ormai da anni. Provai immediata antipatia per lui, era la classica persona tracotante e con idee fintamente anticonvenzionali; secondo lui per conoscere bene una persona dovevi litigarci e a quanto pare voleva conoscere bene me.
In quella camera eravamo un decina, alcuni bevevano mentre altri (compreso me) stavano riuniti a terra inventando giochi e raccontando storie. Friedl rise a una battuta poggiando la mano sul ginocchio di Enoch, forse dovevo smettere di fissarli?
«Joshua, sei credente?» La domanda di William mi colse di sorpresa, annuii ugualmente senza indugi.
«Si, lo sono.» La sua risatina non mi piacque, si voltò verso Enoch indicandolo.
«E tu?»
«No. Dio è semplicemente la creazione degli uomini per avere speranza, una specie di baluardo orchestrato bene affinché tutti possano rintanarsi nelle loro convinzioni e sperare in qualcosa dopo la morte.» si mostrarono quasi tutti d’accordo, tranne io.
«Suppongo che nessuno di noi potrà mai avere la certezza, non in questa vita almeno.» Enoch mi fissò interessato, annuendo.
«Suppongo di no.. eppure tu ne sembri certo.»
«Anche tu.» Inarcai un sopracciglio quasi a volerlo sfidare ricavandone un sorrisino divertito da parte sua.
«Il segreto è avere rispetto, il mondo è abbastanza pieno di merda senza che ci si faccia la guerra anche per ciò in cui si crede. O non si crede in questo caso.» Attorno a noi si levarono all’unisono parecchie voci, tutti volevano dare la loro opinione ma Enoch non sembrava d’accordo. «Volete che vi racconti una storia?» Aveva usato il plurale ma fissava me, la cosa mi preoccupò. Nonostante ciò tutti diedero il loro assenso, mentre io cercavo di non fissare Friedl che a momenti gli si sarebbe seduto in braccio.
«Avete sentito parlare della studentessa morta e murata viva qui dentro? Hanno scoperto il suo cadavere qualche anno fa..» un brivido mi corse lungo la spina dorsale.
«Perché dobbiamo parlare—» non diede nemmeno segno di avermi sentito, continuava a fissarmi e raccontare con quella voce bassa e graffiante che se di solito mi affascinava adesso sembrava raggelarmi.
«Dicono l’abbia uccisa un’inserviente venticinquenne, ma non è questa la cosa più agghiacciante..» il silenzio che regnava era inumano. «Il suo fantasma dicono giri qui dentro, proprio in questi corridoi, al quarto piano soprattutto.» Le mie difficoltà respiratorie sembrarono aggravarsi a quella notizia, mi guardai intorno osservando i volti tranquilli di tutti, alcuni un po’ turbati ma non terrorizzati. «Dovreste fare attenzione la notte, quando tornate dopo il coprifuoco.. dicono si sia palesata a una ragazza intorno alle tre, e adesso quella ragazza indossa un pannolone perenne.»
«Basta Enoch.» Sophia interruppe quel momento, probabilmente seduta accanto a me aveva sentito il mio terrore spandersi come tentacoli viscidi. Eppure io sapevo che quella storia non era stata casuale, l’aveva raccontata per spaventare me di proposito. Quella consapevolezza mi ferì più di quanto volessi ammettere mentre lo fissavo alzarsi e andare verso la finestra. Fiedl lo seguì, fumavano e parlavano o meglio Enoch fingeva di ascoltare finché non vidi un cambio nella sua espressione. Fissò il ragazzo freddamente dando un’ultima aspirata alla sigaretta che gettò via contrariato. Mi alzai salutando tutti, dovevo uscire da lì o per la prima volta nella mia vita avrei fracassato una bottiglia in testa a qualcuno. Qualcuno con gli occhi blu intenso.
 
Sapevo che quella storia era una palla enorme, lo sapevo eppure mentre salivo le scale al buio ogni scricchiolio sembrava fatto per spaventarmi. Mi guardavo attorno rimproverandomi mentalmente per non aver colto l’invito di Sophia ad accompagnarmi, ma che uomo ero se mi facevo scortare da una donna? Mi avrebbero riso tutti dietro, come sempre. A Mississipi c’era Tj a difendermi, a Las Vegas Shou, ma qui ero solo e dovevo cavarmela come meglio potevo. Il corridoio era buio ma non abbastanza, avrei preferito la cecità assoluta ma non quelle ombre che si allargavano sui muri e sul pavimento lucido a causa della grande finestra in fondo. Camminai con cautela sentendo un respiro farsi sempre più pesante, e fu solo dopo qualche secondo che mi resi conto di essere io. Non riuscivo a respirare, mi allentai il colletto della maglia accucciandomi a terra con gli occhi chiusi, dovevo respirare e concentrarmi. Respirare e concentrarmi. Dio, avrei voluto un sacchettino lì a portata di mano, la mia stanza era solo a pochi metri, potevo farcela ma le mie gambe si rifiutavano di muoversi.
«Alzati, sembri un pezzo del mobilio..» la sua voce mi costrinse a sollevare il viso, lo fissai continuando a respirare affannosamente.
«Non ci riesco.» Mi guardò stranito, e riuscii a percepire l’esatto momento in cui probabilmente si pentì di quello scherzo ai miei danni.
«Qual è il numero della tua camera?»
«515..» mi allargai ancora il colletto della maglia e sentii la presa delle sue mani sulle mie braccia, mi sollevò in piedi come se non avessi peso addosso.
«Andiamo.» Mi stizzii per il suo tono freddo e sbrigativo, era colpa sua se stavo prossimo alla morte e si permetteva anche di mostrarsi scocciato? Avrei voluto dirglielo, litigarci ma non ne avevo la forza. Volevo solo arrivare alla mia camera, e dormire con tutte le luci accese.
«E’ questa..» mi bloccai afferrando le chiavi dalla tasca, ma al secondo tentativo fallito me le sfilò dalle mani per aprirla lui.
«Joshua..» mi bloccò proprio sulla soglia fissandomi col capo lievemente reclinato. «Sei proprio un fifone.» Rise di gusto mollandomi lì in piedi, pensavo si sarebbe scusato e invece rideva di me? Uscii fuori piazzandomi al centro del corridoio.
«E TU SEI UNO STRONZO.» Non gli diedi il tempo di rispondere, per una volta fui io a voltarmi e sbattere la porta della mia camera con un boato che supponevo avrebbe spaventato anche quel fottuto fantasma che viveva tra quelle mura di merda.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Chemistry ***


IV.



Tutto ciò che ho posseduto nella mia breve esistenza è stato sempre parecchio fittizio. Il nome, l'età, persino la mia primissima infanzia. Ricordo solo il momento in cui entrai in quella bella casa in legno, sapeva di dolce e cera d'api. Ricordo che il signor padre mi osservò con un sorriso severo e mesto al contempo, portando una delle sue grandi mani sul mio capo: «Benvenuto in famiglia, Joshua.» aveva deciso lui che Joshua fosse un nome adatto a me, senza chiedere il mio consenso come sempre del resto, avrei dovuto capire in quel momento che la gabbia si era chiusa su di me.
Il pastore Thomas era una specie di icona nel paesino di sole 700 anime nella quale vivevamo, tutti andavano a chiedere consiglio a lui, tutti anelavano ad istruire i loro figli proprio come lui. Vivevamo in una bolla artefatta, i dieci comandamenti erano i nostri precetti, le nostre guide, erano ciò alla quale dovevamo fare affidamento sempre e comunque. Vivevo in un costante stato d'ansia, perché tutto ciò che noi giovani facevamo veniva passato ai raggi X dallo sguardo severo del pastore, e di sua moglie Mary – la signora madre - , se andavi troppo bene a scuola loro ti scrutavano, se andavi male ti punivano, se un giorno eri troppo stanco venivi tenuto sotto controllo, controllavano persino il mio modo di respirare. Fino ai 14 anni vissi nell'ignoranza più assoluta, seguivo docilmente il signor padre in tutto ciò che ordinava, non era obbedienza la mia ma terrore puro; terrore puro per la paura delle punizioni corporali. Mio fratello Tj, le aveva assaggiate spesso. Quando questo succedeva mi rannicchiavo vicino la porta dello studio, sentivo la cinghia sibilare e abbattersi sulla sua pelle. Non capivo perché. Tj era un figlio modello, imparava versetti della bibbia a memoria, modulava sempre il suono della propria voce, aveva occhi caldi e gentili che però nascondevano un bagliore che all'epoca non coglievo.
Tutto cambiò quando una notte, dopo l'ennesima punizione, entrò nella mia camera intrufolandosi nel mio letto.
«Fammi dormire con te, ho troppo dolore.»
«Tj se il signor padre ti scopre qui ..» la mia voce terrorizzata supponevo potesse essere abbastanza convincente.
«Lo sai che va a dormire sempre alle 11, non succederà, fidati di me.» fiducia, l’avevo e fu questo il mio errore peggiore.
«Ti fa male..?»
«Molto.. e succederà anche a te.» mi sembrò come una sentenza, sentii persino le campane suonare.
«N-non è vero. Non dire così, sai che paura ho del dolore.»
«Non averne Joshua, ci sono io con te. Ora e sempre.» Capii solo mesi dopo cosa intendesse dire mio fratello con quelle parole minacciose. Il signor padre mi chiamò nel suo studio, disse di vedermi stanco, disse che i miei stessi sintomi li aveva avuti un bambino di un’altra città che alla fine era morto cieco tra atroci sofferenze e mostruosità fisiche.
Il signor padre pensava avessi provato le gioie della masturbazione.
Mi terrorizzò talmente tanto che non dormii quella notte, un po' a causa della storia e un po' per la punizione che mi aspettava il giorno seguente.
Tj tornò nel mio letto.
«Sei così bello Joshua, sembri quasi un angelo.» nelle nostre vene non scorreva nemmeno una goccia di sangue fraterno.
«Domani sarò un angelo distrutto.»
«Devi essere coraggioso, succede a tutti.» quel ‘’tutti’’ lì per lì non mi confortò, e non lo fece nemmeno dopo. «Piuttosto che essere puniti per qualcosa che non hai mai fatto, fai in modo che la tua punizione sia reale almeno, non credere alle sue storie.. nessun ragazzino è morto; ha raccontato anche a me questa stronzata. E tu sei troppo bello per sprecare così la tua vita.» Riflettei su quelle parole tutta la notte. Non sapevo nulla del sesso, né della corruzione in generale. Ma Tj era furbo, me ne resi conto solo in seguito, lui era come il diavolo tentatore che lento instillò in me il seme del dubbio.
Ricevetti la mia prima punizione corporale, fece male come fuoco vivo, piansi e urlai ma nessuno accorse in mio aiuto. Tranne Tj, lui era una costante nella mia vita, il nostro rapporto divenne quasi morboso un legame che trascendeva il semplice affetto fraterno. Il fatto di non essere fratelli  probabilmente fu la miccia scatenante che ci condusse a guardare il proibito. Fu lui la prima persona che pensai di amare, non era qualcosa di carnale non per me almeno, e fu sempre grazie a lui che trovai il coraggio di fuggire.
Lasciai quella casa una notte, ogni anno si celebrava la festa del grano, canti balli e risa tenevano la gente occupata e io approfittai di quel momento per nascondermi dentro il carro dei Brown. Sentii le voci disperate dei miei tutori e di mio fratello, lui sapeva sarei fuggito ma mi resse il gioco. Quando le catene si ruppero qualcosa dentro di me si frantumò liberando il mio vero io. Il mio io ribelle, affamato di vita, il mio io peccatore.
 
 
Riflettei la mia immagine allo specchio, un broncio si formò istantaneamente. Quella notte avevo sognato Tj, continuava a dirmi quanto fossi bello e perfetto; a causa di quelle parole avevo spesso desiderato sfregiare il mio viso, deturparlo e porre fine una volta per sempre a tutto quel caos. Fissai i miei capelli castani, erano talmente lisci che quando provavo ad acconciarli diversamente dopo poche ore tornavano esattamente come prima; gli occhi avevano uno strano taglio orientale di un castano simile al caramello fuso che tempo fa qualcuno aveva paragonato alla crème brulée. Avevo un’altezza che consideravo normale, il corpo flessuoso che non riusciva mai a prendere peso se non sui fianchi quando esageravo. Mi toccai le fossette scavandole e disegnandole col dito, non apparivano da giorni perché da giorni non avevo alcun motivo di sorridere. Non avevo più parlato a Enoch, probabilmente era questa la matrice della mia tristezza e del mio malumore; afferrai il mio zaino in pelle nera consunto dal tempo, dirigendomi spedito fuori dalla camera. Mi bloccai proprio sulla porta, perché il soggetto dei miei pensieri si era praticamente materializzato di fronte a me, aprii la bocca per parlare ma non uscì nulla. Dovetti reclinare indietro la testa per fissarlo negli occhi, arrivava al metro e novanta praticamente.
«Che ci fai qui?» Lo fissai con circospezione, mentre la sua mano rovistava dentro la tasca dei jeans.
«Tieni.» Mi allungò la mano, riuscii solo a fissare i tatuaggi sulle dita finché queste non si schiusero e apparve un lecca-lecca dalla forma strana. Sembrava un coniglietto. Lo guardai imbambolato sbattendo le palpebre, era per me? Come se mi avesse letto nel pensiero sospirò roteando gli occhi, muovendo eloquentemente la mano come a dirmi ‘’lo prendi o no?’’. Afferrai il dolce rigirandolo senza però aprirlo.
«Grazie..?»
«Prego?» Mi fece il verso strappandomi una risatina che sembrò stemperare la tensione, mi sentii autorizzato a scartare il lecca-lecca iniziando a gustarlo.
«Ti piacciono i dolci?» Annuì col capo poggiandosi al muro.
«Molto, mangerei solo quelli.. e tu?» Avrei potuto mentire, ma non ero molto bravo nelle menzogne e poi non mi andava.
«Mh, preferisco il salato..» mi stoppai un secondo per poi sobbalzare sollevando il dolce appena regalatomi. «Ma questo mi piace, lo giuro.» la mia irruenza sembrò divertirlo.
«Stavi andando a lezione?» stavo?
«Si, giusto adesso..» indicai le scale senza sapere bene che altro dire.
«Se salti una lezione non cade il mondo, vieni con me?» Soffiai fuori una risatina impertinente.
«Mio caro Enoch, per chi mi hai preso? Sono un ragazzo diligente io, hai presente?» Incrociò le braccia squadrandomi divertito. «Non salterò una lezione vitale per bighellonare in giro, né oggi né mai. Joshua ha una sola parola, ricordalo.»
 
 
«Dove andiamo?» Disse quell’imbecille di Joshua-ha-una-parola-sola. Mi piaceva parlare di me in terza persona, soprattutto quando la mia coscienza si dissociava dalla logica.
«Un po’ qui, un po’ lì..» le lezioni erano iniziate da nemmeno un mese e io già le saltavo, mi chiesi se il motivo non fosse seduto accanto a me in auto. Ovvio che lo era, non dovetti pensarci nemmeno un secondo di più, se chiunque altro al mondo mi avesse chiesto di saltare le lezioni gli avrei riso in faccia. Non è che mi stavo accollando un po’ troppo a lui? Partì una nuova puntata di: le seghe mentali di Joshua Walker. Mi piaceva Enoch? Non ne ero sicuro, mi piaceva la sua compagnia si, ne ero attirato perché lo vedevo diverso.. ma piacermi? Poteva piacermi sul serio qualcuno così? Era imprevedibile come un orologio impazzito, un giorno mi terrorizzava con una storia, l’altro mi regalava un lecca-lecca portandomi in giro. Pensai a Friedl e sentii i peli sulla nuca rizzarsi, mi aveva visto? Oddio, mi avrebbe ucciso.. mi voltai istintivamente a controllare che non ci stesse inseguendo correndo.
«Cerchi qualcuno?»
«Non proprio.. pensavo a Friedl.» La sua espressione scioccata mi fece capire che forse le mie parole erano risultate un poco ambigue, risi nervosamente masticando con forza il lecca-lecca.
«Siete amici intimi a quanto vedo.» Distrussi un pezzo di caramella tra i denti alla parola ‘’intimi’’.
«Non quanto te e lui.» Non ebbi bisogno di voltarmi per sentire quelle pietre blu scavarmi un buco nel cervello, temevo di aver detto una cosa sbagliata.
«Io e Friedl non siamo ‘’intimi’’, siamo due conoscenti.» quindi quel bugiardo mi aveva mentito, ottimo, e io gli avevo creduto senza colpo ferire.
«Oh, mi dispiace.. lui aveva detto che—» non mi lasciò nemmeno finire.
«Quello che dice Friedl ho smesso da un pezzo di ascoltarlo, il mio udito è sensibile alle stronzate quindi tendo a isolarle.» Cercai di non sorridere soddisfatto mordicchiando il bastoncino ormai vuoto, era stato il dolce più dolce della mia vita.
 
 
Girovagammo senza meta per ore ed ebbi modo di conoscerlo un po’ meglio, scoprii che frequentava la facoltà di Chimica e che era assistente del professore da inizio anno. Non lo disse apertamente ma avevo come l’impressione che fosse una sottospecie di genio, e per giunta nelle materie scientifiche che io odiavo come si odiano i broccoli da bambini. Scoprii anche che era un anno più grande di me, che stava al terzo anno e che mangiava quantitativi esponenziali di dolciumi; questo lo capii guardandolo mangiare un intero pacco di caramelle da solo.
«Sei tedesco? Me lo domando da quando Sophia ti ha chiamato usando il cognome..» sedevamo su un muretto a fissare i passanti, desideravo tirar fuori la mia macchina fotografica.
«Per metà, mio padre lo è mentre mia madre è americana..» notai un impercettibile cambio nel tono.  «E tu?»
«Io sono americano, i miei genitori biologici lo erano.» Mi scrutò con insistenza come a volermi scavare dentro la mente.
«La scorsa sera.. sei stato male per colpa mia?»
«Si.» Mi pentii subito di averlo detto, mi grattai la tempia in difficoltà. «Cioè non proprio, soffro di attacchi di panico.. ho sviluppato una strana fobia per le ombre, ne sono terrorizzato già di mio e la tua storia non mi ha aiutato, ecco tutto..»
«Mi dispiace.» Sgranai gli occhi sollevando di scatto il capo, ma l’unica cosa che riuscii a vedere fu il suo profilo severo stagliato in controluce. Si era sul serio scusato?
«Mi hai regalato il lecca-lecca per questo?» risi divertito e sembrò in difficoltà.
«Non so.. pensavo fosse una buona idea, tipo calumet della pace hai presente no?»
«Non pensavo fossi un tipo da ‘’pace’’.» virgolettai con le dita.
«In realtà lo sono, litigare con la gente è un dispendio di energia che non sono propenso a spendere; inoltre credo che ci voglia un investimento sentimentale per prendersela davvero con qualcuno, non sono propenso nemmeno a quello.» Scrollò le spalle con indolenza fissando freddamente un uomo sulla cinquantina passare.
«Quindi non hai una ragazza..» la buttai casualmente fingendomi presissimo a rovistare nel mio zaino.
«Figuriamoci.» Il suo tono scocciato mi fece ridere, ma a ripensarci era meglio piangere forse? Estrassi la mia macchina fotografica e ne sembrò interessato. «Che tipo di foto ti piace fare?»
«Questa sarebbe la mia location preferita, un posto gremito di gente alla quale rubare emozioni.» Fissai la folla attraverso l’obiettivo, ma nulla catturò la mia attenzione; ero più tentato nel rivolgerla contro la persona che mi stava accanto e farle una seconda foto.
«Ecco perché quel giorno stavi lì seduto a scattare foto.» mi bloccai.
«Mi hai visto davvero allora..» il mio tono lo divertì per un motivo a me sconosciuto.
«Sei un tipo da ‘’arte e fotografia’’.» Scimmiottò le sue stesse parole quel famoso giorno, e capii come aveva fatto a indovinare il mio indirizzo: barando, semplicemente. Si alzò facendomi cenno di seguirlo e mi resi conto di come fosse passato velocemente il tempo. «Ti chiederò ancora di marinare le lezioni.»
«Sembra una minaccia..» eppure non riuscivo a prenderla come tale.
«Magari lo è.» Ci fissammo così intensamente che dovetti distogliere lo sguardo per primo. «Mi stai simpatico, penso potremmo essere davvero amici noi due.» Non so perché provai quella sensazione dilagante di felicità, forse molti si sarebbero depressi a quelle parole in fondo mi aveva appena friendzonato senza pietà. Eppure in quel momento mi sentivo soddisfatto, ero riuscito a farmi notare dall’unica persona che sembrava non notare nessuno a Yale, l’unico dalla quale avrei voluto sul serio essere notato. Che male c’era a essere amici? Ero ancora in tempo per esserlo, potevo semplicemente lasciar perdere quella strana attrazione e godermi quel rapporto appena nato.
 
 
Enoch non mantenne la sua parola, non lo vidi più dopo quell’uscita. Non sapevo dove fosse, né cosa facesse, non si presentava più neppure alle piccole riunioni in camera di William. Smaniavo di sapere perché non avvertissi la sua presenza, stava male? Era impegnato? C’era solo un modo per scoprirlo.
«Friedl!» Mi accodai al ragazzo con un sorrisone che andava da un orecchio all’altro, dovevo sacrificarmi.
«Shua!» Ecco già mi stavo pentendo nel profondo.
«Come stai?» Dovevo essere subdolo, se lo conoscevo bene come pensavo avrebbe parlato lui senza che dovessi chiederlo io. Era avvilente pensare che potesse saperne più di me.
«Mah, così..» la sua voce un po’ abbattuta mi fece sentire in colpa. «Senti Shua.. per caso hai visto Enoch?»
«Io? Perché?» Forse avevo risposto troppo prevenuto? «Non vedo Enoch da una settimana, pensavo che tu..»
«Nemmeno io, a volte gli capita.» gli capita cosa? Perché non finiva le frasi?
«Capita cosa?»
«Di fare così. Non risponde e si isola, è chiuso in camera probabilmente a mangiare cibo spazzatura, vedere programmi e giocare ai videogiochi.» qualcosa non mi tornava.
«Oh capisco..»
«Ma se non ha cercato neanche te è tutto a posto allora.» Il suo tono allegro mi parve fuori luogo, era a posto secondo quale punto di vista? Lasciai perdere quella discussione inutile avviandomi a lezione.
 
 
Sophia faceva aerobica, o almeno così la chiamava, stesa sul mio letto mentre digitava compulsivamente al cellulare.
«Potresti concentrarti un secondo?» Schioccai le dita per attirare la sua attenzione.
«Enoch non si fa vedere, e tu sei preoccupato.. perché non vai da lui?» Mi fissò con quegli occhi da bambina cresciuta, e io non seppi trovare delle ottime ragioni per non seguire il suo consiglio.
«Non posso, e non insistere.. solo che insomma è strano. Quando ci siamo visti era non so, di buonumore ecco..»
«Enoch è come un robot, quello a cui ricarichi le pile hai presente? Un ‘’senza-sentimenti’’ tipo i mangiamorte.» la fissai allargando le narici e scuotendo il capo.
«Mi spieghi che cavolo di paragone sarebbe? Fai la seria, per favore.» Aprii un pacco di patatine mangiandole con stizza.
«Ma sono seria! William mi ha detto che durante una discussione è uscito l’argomento ‘’sessualità’’ ed Enoch si è professato ‘’asessuale’’. Mi fido di quella serpe, capirai stava con la bava alla bocca per quella notizia.» Mi bloccai a quelle parole, avevo sentito bene?
«Quindi non..?» non riuscii a finire la frase, mi sembrava un invasione della privacy disgustosa.
«Non scopa? Non proprio, a quanto so le sue avventure le ha avute, figuriamoci poi se mancano a lui.» Fece spallucce tornando a concentrarsi sui messaggi al cellulare lasciandomi più confuso di quando avevo iniziato quella conversazione.  Non sapevo bene da dove iniziare a mettere insieme i pezzi di quel puzzle, sembrava divenire complicato ogni giorno di più; Enoch un giorno era crudele, un giorno quasi dolce, poi spariva, poi era freddo. Lo squillo insistente del mio cellulare servì a distrarmi, fissai il numero aggrottando la fronte, conoscevo quel prefisso sin troppo bene..
 
— Pronto?
— Signor Walker?
— Si, sono io.
— Sono l’avvocato Suarez, si ricorda di me?
— Certo, l’avvocato della famiglia Walker, mi dica.
— Si tratta di sua madre.
— La mia tutrice? Cosa vuole?
— Si trova al centro d’igiene mentale in città, l’abbiamo dovuta ricoverare dopo un episodio increscioso..
— …
— Dovrebbe venire qui, è l’unico parente ancora in vita e Ruth è troppo piccola al momento per prendere le redini della situazione.
— Come sta Ruth?
— Al momento è ospite in casa di amici, ma non potrà starci molto.
— Verrò lì il prima possibile.
 

 
Fissai la porta chiusa con il pugno sospeso, feci un passo indietro con il chiaro intento di andarmene. Cosa che feci per ben quattro volte, alla fine stanco bussai una sola volta. Una soltanto, e se non avesse risposto sarei andato via. La porta si aprì pochi istanti dopo, vidi il suo viso teso, aveva le occhiaie pronunciate e la camera era totalmente in penombra. Non aveva la faccia di qualcuno che se la stava spassando coi giochi e il cibo spazzatura.
«Io..» non sapevo da dove iniziare, deglutii nervosamente e gli occhi corsero alla mia valigia. Enoch seguì la traiettoria.
«Parti?» La sua voce era ancora la stessa, graffiante pure se fiacca.
«Solo per poco.. due settimane al massimo, volevo dirtelo.» Mi sfregai le mani contro i jeans, sentivo i palmi appiccicosi ma sorrisi ugualmente.
«Dammi il tuo cellulare.» La richiesta mi colse di sorpresa ma obbedii, lo vidi trafficare per qualche minuto e ridarmelo. «Ti ho memorizzato il mio numero, quando torni avvisami e andremo di nuovo a bighellonare in giro.»
«Stai male?» non riuscii a trattenermi.
«No.» La risposta monocorde non mi tranquillizzò, annuii ugualmente afferrando la mia valigia. Non sapevo bene perché mi sentissi così triste nel lasciarlo, la mia mente era affollata da troppi pensieri. C’era Friedl e William, e la bionda slavata e un altro casino di persone tra me e lui. E poi c’ero io, insignificante davvero al momento.
«Riguardati mentre non ci sono, non mangiare solo dolci.» Lo ammonii con una risatina che però non ricambiò nonostante le iridi blu per un secondo sembrarono riempirsi di malinconia. Me ne andai così, non sapendo cosa avrei trovato a Mississipi, ma soprattutto cosa stavo esattamente lasciando. Una volta tornato, sarebbe rimasto tutto uguale? Per la prima volta nella mia vita mi scoprii davvero insicuro di me stesso, più di quanto non lo fossi mai stato prima.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Sunflowers ***


V.



Fissavo le pareti dell’albergo nella quale stavo chiuso ormai da quasi una settimana, le mie giornate erano scandite dalle chiamate del medico che aveva in cura la mia tutrice, dalle nostre dispute. Ero stato chiarissimo nei miei propositi, o mi permetteva di vederla e parlarle o non avrei risolto alcun problema legale andandomene via così com’ero arrivato.
Deviai la sesta chiamata di Shou nel giro di un’ora, avevamo litigato pesantemente al mio arrivo a Mississipi. Si era mostrato contrariato nel non essere stato avvisato, e nonostante TJ fosse stato avvistato a Las Vegas non riusciva a stare tranquillo; non potevo dargli torto, nemmeno io mi sentivo tranquillo in quel momento, ma non avevo scelta. L’occasione di vedere Mary non sarebbe ricapitata mai più.

 
 
*
 
Il vento sferzava gli alberi fuori sollevando le foglie mature cadute sui pavimenti di pietra dell’università. La voce monocorde del professore sembrava un brusio lontano, una cantilena che Enoch non riusciva a cogliere immerso com’era nello scrutare il nulla oltre la finestra e dentro se stesso. La mina scarabocchiò il foglio bianco, le linee tracciate formarono un coniglietto stilizzato, ripensò a Joshua, al loro ultimo saluto e la cosa lo infastidì.
Non sapeva bene il motivo, sapeva solo di sentirsi a disagio in quel preciso momento, come ogni volta in cui non riusciva a cogliere le sfumature di se stesso e delle proprie emozioni. Gioia? Dolore? Rabbia? Erano troppo semplici da definire, ma c’era altro molto altro che ancora non sapeva nominare né capire. La punta della matita si spezzò distruggendo quel momento di pace, fissò stranito i colleghi attorno a se chiedendosi quanto tempo fosse passato dall’inizio della lezione, tutto sembrava fermo e sospeso come se si fosse seduto soltanto due minuti prima.
 
Il corridoio elegante e abbellito da quadri era deserto al momento, i passi sembrarono rimbombare fino all’arrivo alla grande porta intarsiata. Non si premurò di bussare entrando semplicemente nel grande ufficio del rettore; i due si scambiarono un’occhiata astiosa che Enoch concluse con un sorrisino sedendosi su uno dei comodi divanetti.
« Mi hai chiamato?» le dita tamburellavano sulla soffice imbottitura.
«Si, volevo sapere se avessi deciso qualcosa.» Arthur Cutler era un uomo piacente ormai sulla sessantina, gli anni però non sembravano pesare sulle sue spalle possenti e fiere, poche rughe solcavano il volto marchiato dal sole e i capelli brizzolati aggiungevano classe alla sua persona. Non esisteva una pecca nella sua vita perfetta, solo una piccola macchiolina risalente ormai a vent’anni prima, quando l’unica figlia Madalyn Cutler aveva pensato bene di scappare con un tedesco - un attore squattrinato chiamato Evrard Weizsäcker. Anche in quel caso Arthur aveva posto rimedio in fretta, riportando all’ovile la figlia dopo pochi anni e con lei il frutto di quell’amore disapprovato fino all’odio, fino al disgusto.
«Dovresti essere meno palese nelle tue intenzioni, vuoi liberarti così in fretta del tuo unico nipotino?» Enoch sorrise ma l’ilarità non arrivò ai suoi occhi.
«Manca poco alla tua laurea, sono del parere che dovresti semplicemente accettare il mio aiuto e andare a studiare all’estero.» Arthur si sedette di fronte a lui sorseggiando dello scotch.
«E tu dovresti semplicemente accettare il fatto che non hai alcun potere su di me, non sono io la tua pedina nonno.. sei tu la mia.» Le dita tatuate picchiettarono contro il legno pregiato del tavolino, il viso del rettore cambiò espressione rabbuiandosi.
«Un pazzo come te dovrebbe essere chiuso in una clinica specializzata, ringrazia la compassione di tua madre.»
«E i depravati dove dovrebbero essere rinchiusi? In un ufficio elegante all’interno di Yale?» Il bicchiere ormai vuoto venne sbattuto fragorosamente sul tavolo frantumandosi. Enoch si alzò come se avesse molle e non gambe, piazzandosi faccia a faccia con l’uomo che superava di mezza testa abbondante. «Non prendermi per il culo, tua figlia non ha pietà né rimorso, il motivo per cui sono qui è quel diario.»
«Ti renderai conto da solo di quanto sfidarmi è pericoloso.» Il giovane dagli occhi blu scostò il viso, lo disgustava dover condividere il respiro con l’uomo che portava il proprio sangue; senza aggiungere altro si diresse verso la porta che richiuse alle sue spalle. Rovistò dentro lo zaino estraendo un tubetto arancione ormai quasi vuoto, la pillola cadde sul palmo della sua mano e infine dentro la bocca. Non avrebbe resistito altri due anni rinchiuso in quella vita, in quella pelle che avrebbe staccato a morsi se solo gli fosse stato possibile, non esisteva salvezza. Non c’erano ancore a cui appigliarsi. Non c’erano soluzioni per lui.

 

 
*
 
L'odore di disinfettante colpì le mie narici riportandomi indietro nel tempo, il giorno in cui mi ero risvegliato su quel letto scomodo e in quella camera asettica vi era il medesimo odore. Schivai un'infermiera il cui carrello sembrava troppo pesante per bilanciarne il peso e l'equilibrio continuando a fissare i numeri sulle porte, finché una voce non mi distrasse.
 «Joshua Walker?» Fissai il medico di fronte a me sbattendo le palpebre quasi faticassi a metterlo a fuoco.
«Mi conosce?» lo vidi sorridere gentilmente.
«Litighiamo ormai da giorni per telefono.» Stavolta fui io a sorridere indicando una porta poco distante.
«E’ quella la sua camera?» Il medico annuì fermandomi prima che potessi proseguire.
«Non è lì, ogni giorno vuole stare nella stanza ricreativa quando tutti vanno via, ti ho fermato per questo..»
«Dov’è questa stanza?» Mi venne indicato il secondo piano della struttura e fu lì che mi diressi.
Da bambino pensavo lei avesse i capelli più belli e lunghi tra tutte le donne, un ovale perfetto e degli occhi simili a schegge verdi capaci di ammaliarti o ferirti. TJ aveva ereditato i suoi occhi. Adesso fissavo la sua schiena ingobbita curva in quella sedia consunta, le dita rattrappite artigliavano i braccioli con le unghie.
''Le unghie non vanno mai portate lunghe, appena sopra il polpastrello. Altrimenti peccherei di vanità, e le donne che lo fanno sono solo misere sgualdrine vanitose''. Così diceva, così il me bambino forgiava le sue consapevolezze.
 «Satana.» La sua voce sibilante come il sussurro di un serpente, era lo spettro della donna che conobbi.
 «L'unico diavolo che vedo siede su una sedia a rotelle e mi fissa.» Mary portava ancora i capelli pudicamente legati, ma ciocche ribelli scivolavano sul viso consunto rendendo il quadretto ancora più disordinato, accentuando le guance infossate e gli occhi iniettati di sangue.
 «Pagherai ogni tuo peccato, sei nato dal male e dal male tornerai.» La pelle della sedia stridette al contatto con le unghie, aveva stretto così forte da rompersene una; vidi il sangue sgorgare dal suo dito.
 «L'Eterno è un Dio geloso e vendicatore, l'Eterno è vendicatore e pieno di furore
«L'Eterno si vendica dei suoi avversari e conserva l'ira per i suoi nemici.» Concluse con la sua voce ormai arrochita forse dalle troppe urla.
 «Lo ricordi ancora? Era il versetto preferito del reverendo, lo decantava sempre quando mi chiamava nel suo ufficio. Ogni cinghiata era una parola.» la mia voce era come lo specchio distorto del mo furore.
«Ho sempre saputo che avresti portato il male nella nostra casa, lo dissi a Thomas ma non volle ascoltarmi.»
 «Quando entrai per la prima volta in casa l'aria odorava di crostata e cera d'api, disgusto entrambi gli odori adesso.» Mi fissò in silenzio, come se non fosse minimamente toccata dalle mie parole. Mi alzai sentendo le gambe anchilosate, voltandomi verso la finestra a fissare quel paesaggio sterile e infecondo. La rabbia, l'odio, il rancore, la sete di vendetta pensavo fossero tutti sentimenti che non avrei mai sperimentato ma mi sbagliavo; li sentivo ribollire dentro il mio cuore corrodendolo, scendevano in pancia sciogliendo ogni cosa fino a rivelarsi una pozzanghera putrefatta e maleodorante.
 «TJ tornerà a ucciderti, lui è parte di me e so che lo farà.» Il tono divenne improvvisamente lamentoso, soffriva la perdita del suo primogenito come ogni madre. Era strano considerarla una ‘’madre’’.
 «Spedirò TJ in galera, e voglio che tu sia la prima a saperlo. Devi fissare la televisione urlando di dolore, strappando ogni tuo capello.»
 «Non avrai questa soddisfazione, Benjamin Simmons.» Il mio vero nome, pronunciato da quelle labbra avvelenate mi colpì come dieci frustate.
 «Avermi escluso dai registri di famiglia non ti servirà, a conti fatti sono ancora l'unico erede in grado di poter amministrare i ''nostri'' beni. Ruth è troppo piccola per poterlo fare.» E le sue urla riecheggiarono nella stanza producendo un'eco stridente, e quell'eco sembrava invocare ogni disgrazia. Mi voltai, accarezzandole la nuca, le sue unghie si conficcarono nella mia carne con cattiveria e io mi persi un po' in quelle pietre verdi adesso annacquate.
 «Dovrei raccontarti di come TJ mi ha amato?» Le mie lacrime colpirono i suoi vestiti consunti.
 «TACI.»
 «Vivrò e vedrò i vostri corpi stanchi, vedrò la gente sputarvi sopra. Perché questo è il prezzo che dovete pagare per ogni mia ferita, ogni mio giorno su quel letto, ogni cinghiata data dal reverendo. SIETE TUTTI COLPEVOLI.»
 «È caduta, è caduta Babilonia la grande, quella che ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione.» La sua voce suonava spasmodica, parlava velocemente quasi a mangiarsi le parole, parlava come se volesse proteggersi.. da me. Non avrebbe mai compreso quanto fossero loro intrappolati tra le mura di una Babilonia immaginaria, quanto la sua vita fosse stata un'immensa bugia sotto i comandi di un essere repellente che adesso marciva con i vermi.
 
(Se il serpente morde prima d’essere incantato, l’incantatore diventa inutile. )
 
 
Avevo mentito sull’eredità, non ero minimamente interessato a intascarmi parte dei soldi appartenenti alla famiglia Walker, spettavano di diritto a Ruth ormai che TJ era poco meno di un criminale fuggitivo. Non l’avrei privata di ciò che le spettava, non potevo toccare il denaro appartenuto a suo padre, all’uomo che avevo ucciso. Quanto avrei dovuto espiare? ‘’Fino alla morte’’, la voce di Thomas mi arrivò alle orecchie come un alito spettrale, rabbrividii lasciandomi dietro quel posto infernale.
Prima di tornare a Yale due erano le mete prefisse, la prima fu Ruth. La trovai cresciuta, quando fuggii aveva solo cinque anni e per sua fortuna non ebbe mai modo di sperimentare la crudeltà del padre; mi si ruppe il cuore a lasciarla, a conti fatti l’avrebbero affidata provvisoriamente a una famiglia e il terrore che potesse incappare ancora con persone orribili sapevo non mi avrebbe fatto dormire la notte. Avevo pensato di lasciare tutto, persino l’università e occuparmi anch’io di lei ma con quali soldi? Come potevo crescere una bambina senza toccare un centesimo di quell’eredità? Mi prefissi la mia laurea, un lavoro stabile per potermi riprendere Ruth, quella bambina era l’unica cosa bella in una famiglia di diavoli, l’unica cosa da proteggere; inoltre con lei avevo un debito che non potevo espiare neppure in un’intera vita: l’averla resa orfana.
La mia seconda meta fu la casa in cui avevo vissuto, sporca e impolverata adesso sembrava davvero in linea con tutti gli abusi che aveva dovuto contenere al suo interno. Il sole non riusciva a filtrare dalle finestre, mi sedetti sulla sedia scricchiolante in cucina e due bambini corsero a perdifiato dal salotto al tavolo. Li guardai rubare la marmellata, il più grande tra i due fece segno al piccolo di tacere.
 
— Se fai il bravo ti porterò in un posto bellissimo.
— Quale?
— Un campo di girasoli immenso, ti piacciono i girasoli Joshua?
 
 
 
In quelle due settimane d’assenza la mia cartella messaggi era implosa, tutti mi avevano pensato tranne Lui. Schioccai la lingua contro il palato trascinando la mia valigia lungo il corridoio.
«Ma guarda un po’ chi è tornato, il bambino di Yale.» Lasciai cadere il bagaglio con un tonfo sordo sbuffando sonoramente, Kevin stagliato in controluce nel corridoio sembrava quasi un ologramma. Lo avevo conosciuto dopo la mia famosa, e unica al momento, uscita con Enoch. Si era integrato nel gruppetto ‘’della camera’’ come lo chiamavamo noi, e mi stava appiccicato come la colla ai capelli. Però era simpatico, non riuscivo a prenderlo in antipatia, anche se avevo spesso il sentore che il suo modo di guardarmi e parlarmi non fosse propriamente innocente.
«Non mi sei mancato per niente, Kevin.»
«Tu invece mi sei mancato moltissimo.» Ecco, era proprio di questo che parlavo. Lo fissai stranito mentre afferrava la mia valigia indicandomi la porta. «Dai, ti aiuto a disfarla.»
«Guarda che sono in grado di farcela anche da solo.» Una porta sbatté con forza, forse troppa, facendoci sobbalzare. Non vedevo Enoch da due settimane e adesso era lì, le mani in tasca e gli occhi vacui che sembravano trapassarmi. Sorrisi mimando il gesto di sollevare la mano per salutarlo ma lui semplicemente mi voltò le spalle andando via.
«Come vedi nulla è cambiato, Enoch è il SOLITO SIMPATICONE.» Kevin alzò la voce per farsi sentire, mentre io racimolavo i pezzi della mia dignità e del mio cuore offeso. Perché mi aveva ignorato? Era questo il suo modo di definirsi ‘’amico’’ di qualcuno?
«Stai zitto e aiutami con la valigia, ho l’emicrania e un principio di stizza.» Rimbrottai il biondino accanto a me perché era l’unico con il quale potessi prendermela in quel momento, non sembrò farci caso mentre mi seguiva parlando di tutto ciò che mi ero perso in quelle settimane.
 
 
Mischiai il rum alla coca-cola attento a non esagerare con le dosi, Sophia seduta oltre il bancone ciarlava come se fossimo nel suo salotto a sorseggiare il tè e io non fossi nel mio orario lavorativo intento a impazzire dietro le ordinazioni. Alla parola ‘’Enoch’’ la mia attenzione venne totalmente calamitata.
«Scusa che hai detto? Non stavo seguendo..» ignorai la sua espressione di biasimo sfoderando il mio miglior sorriso, con fossette annesse.
«Ricordi Jane, la ragazza del secondo anno alla facoltà di lingue? Beh, Enoch sembra aver stretto un rapporto parecchio uhm.. intimo con lei.» La parola intimo iniziava a farmi incazzare pesantemente.
«Definisci ‘’intimo’’.» Jane era una bella ragazza dai capelli rossi come foglie mature, dal carattere spigliato quasi arrogante e dall’intelligenza spiccata.
«Si stuzzicano parecchio, secondo me lei ha una cotta per lui e a lui non dispiace.» Ottimo, c’era qualche altra bella notizia in serbo per me? Venni distratto da un uragano biondo che superò il fondo del locale sbattendo la porta dello spogliatoio.
«Scusami un istante…» mollai la mia postazione raggiungendo la stanza che a impatto mi sembrò vuota, seguii la scia dei singhiozzi trovando Nastya intenta a prendere a pugni un armadietto: IL MIO.
«Potresti non rompermelo?? E soprattutto potresti non romperti la mano?» La raggiunsi afferrandole il polso, fissando le nocche ferite, sospirai aprendo il mio armadietto illeso, per mia fortuna cadevo un giorno si e l’altro pure e le mie ginocchia perennemente sbucciate mi aveva costretto a camminare con dei cerotti a portata di mano.
«Scusami..» tirò su col naso riavviandosi i capelli, lasciandosi medicare.
«Che è successo?» Sembrò una parola magica la mia, e quella ragazza sempre così imperturbabile si aprì a me come un fiume straripante.
«Lavoro qui da due anni, anzi no io butto il sangue qui dentro da due anni. Chiedo sempre straordinari, sorrido ai clienti viscidi per avere le mance e accumulare denaro, e sai quanti soldi ho speso?» Restai in silenzio, sapevo che avrebbe continuato da sola. «ZERO. Un fottutissimo niente, Joshua. E sai perché? Perché vorrei andare anch’io all’università, vorrei avere una vita normale. A volte mi dico ‘’ehi stronza, hai 24 anni ormai e vuoi studiare?’’ eppure stringo i denti e vado avanti. Ho chiesto un lurido giorno di permesso dopo due anni e me lo ha negato.» La fermai mentre si accingeva a distruggere nuovamente l’armadietto con la mano sana.
«Ti calmi? E’ stato Reed?» Quell’uomo era uno stronzo, non ti concedeva aumenti neppure vedendoti morire dissanguato davanti a lui, anzi forse il sadico avrebbe gioito.
«Si..» tirò su col naso fissandomi, il mio cuore si strinse.
«Non ti preoccupare, avrai il tuo giorno libero. Se lui si assenta, la decisione spetta a Sophia.. no?» sorrisi delineando il piano perfetto.
Reed si assentò non un giorno, non due ma ben quattro. Avevo probabilmente sbagliato le dosi del lassativo messo nel suo caffè pomeridiano. Che peccato.
 
 
Il mio umore sembrava scisso, mentre sedevo sul divanetto della camera di William mi sentivo felice di rivedere i loro volti, persino quelli ‘’antipatici’’, mentre dall’altro lato ribollivo osservando Jane scherzare con Enoch. Il mio viaggio a Mississipi era servito a sgretolare la mia convinzione sul volergli essere amico, mi ero preso una cotta per lui. Anzi definirla cotta mi sembrava quasi banale, ma non riuscivo nemmeno a spiegare cosa provassi, era stato qualcosa di viscerale sin dalla prima volta in quel piazzale mentre lo fissavo attraverso l’obiettivo. Quella consapevolezza servì solo a farmi chiudere in me stesso, non potevo dire a nessuno cosa provavo per lui, non a Sophia che già sospettava, non a Nastya, non a Kevin (figuriamoci) e nemmeno a Friedl, soprattutto a lui. Mi sentivo in colpa, come se ciò che provavo fosse sbagliato. Fissai di nuovo Enoch: guardami, guardami, guardami! Lo supplicai con il pensiero e improvvisamente i suoi occhi incrociarono i miei, mi legò al suo sguardo e mi bloccò. Non riuscivo a non fissarlo e lui non sembrava propenso a distoglierlo per primo, ero come paralizzato su quel divanetto mentre il mio cuore martellava come un tamburo.
«Shua..» Friedl era seduto vicino a me e mormorava al mio orecchio.
«Mh..» continuavo a fissare Enoch, e lui me.
«Ieri ho dormito in camera di ‘’chi-sai-tu’’, mi ha permesso di dormire nel suo letto capisci?» Quelle parole furono come un secchio d’acqua gelata in faccia, fu grazie a quelle che interruppi quel contatto visivo fissando la persona di fianco a me.
«E lui dove ha dormito.» Pregai ogni santo esistente e non, inventandomeli pure, affinché la sua risposta non fosse quella che temevo.
«In camera con me è ovvio, sei proprio scemo a volte ma che domande fai?» Ero proprio scemo sul serio, risi senza un perché e la mia risata da bassa e sforzata divenne sempre più forte e divertita, mi pungevano persino gli occhi, che strano.
«Josh.» Quella voce ebbe il potere di farmi smettere immediatamente, come mi aveva chiamato? Josh? Era la prima volta che lo faceva, fissai i suoi occhi blu e istintivamente mi alzai ignorandolo.
«Io vado, ho sonno e domani ho lezione con il professore maledetto.»
«Quello che ti chiama ‘’ranuncolo’’?» Kevin rise mostrandosi soddisfatto di far credere alle persone di conoscere particolari di me che nessuno sapeva, mentre io scossi il capo salutando un’ultima volta prima di andare via.
 
Mi resi conto di una presenza alle mie spalle solo al terzo piano, mi raggelai un secondo prima di voltarmi e accasciarmi quasi contro la ringhiera.
«Dio..»
«No, sono Enoch.» non risi a quella battuta mettendo su un sorrisino falso.
«Simpatico davvero, che ci fai qui?» inarcò un sopracciglio superandomi nelle scale.
«Che posso fare secondo te? Torno in camera mia.» La logicità della risposta mi indispose, lo seguii in silenzio per un’altra rampa di scale fino al corridoio. «Ho pensato che te la saresti fatta sotto a tornare in camera da solo.»
«Io non—» non finii la frase, le sue parole saltellavano dentro la mia scatola cranica. Mi aveva seguito perché preoccupato?
«Ti sei divertito a Mississipi?» stavolta risi sinceramente.
«Non molto.. ti sei divertito in mia assenza?» Cercai di non essere troppo velenoso nel tono.
«Non molto..» sembrò vago nella risposta facendomi preoccupare stavolta sinceramente, mentre stava bloccato di fronte a me invitandomi a entrare in camera.
«Perché no?» Restammo in silenzio a fissarci e alla fine mi sembrò di vederlo sorridere, ma non ero sicuro a causa dei giochi d’ombra sul suo viso.
«Mancavi tu, senza di te non è divertente questo posto.» Mi lasciò così, andandosene via con quella sua camminata sicura, un po’ spavalda, quel modo che avevano i piedi di toccare il terreno muovendosi uno dietro l’altro. Quella camminata solo sua che avrei riconosciuto tra mille. Mi chiusi in camera soffocando un urlo, mi prendeva in giro? Giocava con me? Mi ignorava dal mio ritorno, aveva flirtato spudoratamente con altre ragazze di fronte a me e adesso che voleva dire quella frase? Forse niente, forse dovevo prenderla per ciò che era.. la semplice considerazione di un amico. Quel vincolo adesso mi sembrava troppo stretto, mi pentii di essermi mostrato felice quando mi aveva definito così ormai un mese prima. Mi pentii davvero tanto.
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Little confession. ***


VI.



«Mi ha mollata!» Riversa sul mio letto, con il braccio ciondolante fuori dal materasso, Sophia era simile a uno di quei quadri che ritraevano la tristezza in persona. Anzi, se mi fossi unito pure io accanto a lei a sorreggerla avremmo dato vita alla versione moderna de ‘’La pietà’’.
«Sophia, aveva cinquant’anni..» cercai di mantenere la mia espressione neutra, ma continuavo a soffrire di quella dannata malattia che colpiva le mie espressioni facciali.
«E quindi? L’amore non ha età. Mi ha detto ‘’piccola questo è il tempo che posso dedicarti’’, capisci?» No non capivo in tutta franchezza, ma annuii ugualmente. «E’ come se mi avesse lasciato lui praticamente.»
«So che è difficile..» le diedi un buffetto affettuoso sulla mano, me l’afferrò stringendola con troppa forza fissandomi attentamente.
«Non è forse l’amore quello che cerchiamo tutti in questa vita?» La domanda mi spiazzò, era sul serio ciò che cercavamo tutti? Forse si, forse l’amore era davvero il motore del mondo.
«Non so, personalmente io cerco una jacuzzi.» Risi divertito ma a giudicare dalla sua occhiataccia era meglio non insistere su quella linea ‘’simpatica’’.
«Oh beh, suppongo dovrò cercare Alan, mi viene dietro da mesi.» per poco non caddi dalla sedia.
«Ti stai già consolando?» Sophia era simile a una fenice, risorgeva dalle sue ceneri con una velocità disarmante.
«E’ facile quando non hai incontrato ‘’quella persona’’, Joshua.» la fissai interrogativamente, sembrò capire e sorrise. «Quando incontri la tua metà tutto si annulla, andare avanti diventa impossibile. Christopher non lo era.» E la mia chi era? Esisteva da qualche parte in quel vasto mondo?
«Non so se esista qualcuno di simile per me..»
«Enoch…» Sbarrai gli occhi e sentii il principio d’infarto scorrere dentro di me.
«Ma che dici, lui—»
«.. Mi ha mandato un messaggio, quel bastardo.» tirai un sospiro di sollievo un po’ amaro.
«Che ha detto?»
«‘’Piantala di frignare, ti sento dalla mia camera.. pietoso’’… io lo uccido.» Scoppiai a ridere beccandomi una cuscinata in faccia, probabilmente meritatissima.
 
 
La biblioteca era un luogo quasi mistico all’interno di Yale, tutti sedevano in religioso silenzio studiando, altri giravano tra gli scaffali vecchi di anni cercando il libro perfetto, altri ancora.. dormivano. Fissai la nuca corvina, la guancia poggiata tra le pagine di un libro che fungeva da cuscino, mi guardai attorno temendo d’essere osservato e quando non notai nessuno mi sedetti di fronte a lui. Quando Enoch dormiva i suoi lineamenti si rilassavano, mi presi il mio tempo insieme a lui perché era questo che ormai facevo: ritagliarmi degli spazi nella sua quotidianità e provare a intrufolarmi. Almeno finché non fosse stato lui stesso a chiedermi di entrarvi, e ne dubitavo fortemente. Osservai i tatuaggi alle dita, erano simboli alchimistici, adesso lo sapevo; me l’aveva detto durante la nostra famosa uscita, allungai una mano per sfiorarli ma quando lo vidi muoversi mi ritrassi di scatto spaventato.
Cosa dovevo fare affinché mi notasse? Mi notasse davvero dico. Ero arrivato alla conclusione che a dividerci non fosse il semplice gusto sessuale, vi era come una barriera invisibile tra lui e il resto del mondo. Esisteva qualcuno in grado di rompere quel muro? Ne sarei stato in grado io?
 

 
*
 
Un raggio di sole dispettoso interruppe quella pace momentanea, succedeva sempre in fondo no? Cambiava il mezzo ma non il fine, la pace non era qualcosa di eterno, anzi a volte Enoch pensava fosse più effimera della felicità. Si stiracchiò senza curarsi della gente attorno a se e qualcosa attirò la sua attenzione, si girò di scatto cercando di cogliere in fallo qualcuno, ma trovò tutto esattamente come l’aveva lasciato prima di addormentarsi. Tornò a fissare il tavolo sulla quale sedeva, una bottiglietta sigillata di latte al cioccolato sostava accanto al suo zaino, ma prima non c’era. L’afferrò stringendola tra le mani, e alla fine sorrise quasi involontariamente per qualcosa di comprensibile solo a lui mentre raccattava le proprie cose andandosene da lì.
Madalyn Cutler a quarant’anni aveva una bellezza fuori dal comune, i capelli corvini con riflessi blu brillarono alla luce del sole. Indossava un costoso vestito, castigato nella scollatura, che rendeva il suo corpo ancora più slanciato. La somiglianza tra loro era probabilmente la cosa che madre e figlio odiavano di più.
«Tuo nonno mi ha detto che non vuoi accettare il suo aiuto per il trasferimento.» Nonostante il tono di voce perennemente dolciastro per natura, la freddezza innata sembrava rendere il tutto amaro come il veleno.
«Mi sembrava strano avessi lasciato l’ospedale per sapere come stesse il tuo unico figlio.» Madalyn era cardiologa e primario del suo reparto al ‘’Yale New Haven Hospital’’, un medico con grandi capacità non solo mediche ma anche empatiche, cosa che rendeva Enoch quasi scioccato.
«Quanto ancora hai intenzione di tirare la corda, Enoch? Raymond—» a quel nome il ragazzo si accigliò. Raymond Charlton, il nuovo marito della madre nonché sua personale spina nel fianco.
«Ciò che pensa quel fantoccio che hai sposato non rientra tra i miei interessi.» Raymond era tutto ciò che il ragazzo odiava nell’essere umano, un leccapiedi tracotante che si era fatto una posizione sposando la figlia del rettore di Yale. Adesso aveva una cattedra in letteratura, e prestigio immeritato a palate.
«Dovrebbe invece, come dovrebbe interessarti ciò che dico io.» si avvicinò al figlio con espressione severa. «Sono tua madre.»
«E’ un po’ tardi per ricordare il tuo ruolo nella mia vita, non credi?» Mosse un passo verso di lei con aria minacciosa, costringendola ad arretrare. «Dove stavi mentre la mia vita colava a picco?» ancora un passo. «Dove stavi mentre il tuo adorabile marito mi puniva perché la mia parola non contava un cazzo?» Madalyn non poteva più arretrare, il muro dietro di lei glielo impediva. «Ma soprattutto.. dove stavi tu quando avevo bisogno semplicemente di una madre?» C’era altro da dire? Enoch ne dubitava, e quindi fece ciò a cui ormai era avvezzo in ogni situazione della sua vita: voltare le spalle, proprio come tutti le avevano voltate a lui in passato.
«Pensi che il potere su tuo nonno sia tutto ciò che devi custodire? Non dimenticare chi sei Enoch, e ciò che nascondi.. prima o poi ciò che ti sta mangiando da dentro non si accontenterà più delle briciole.»
 

 
*
 
Mi muovevo a tempo seguendo il ritmo della musica che si spandeva dalle cuffie alle mie orecchie, qualcosa di freddo mi colpì la guancia facendomi sobbalzare. La prima cosa che vidi fu la bottiglietta ormai vuota di latte al cioccolato che avevo lasciato ore prima accanto a Lui. La seconda cosa fu il soggetto dei miei pensieri che mi fissava.
«Mi hai spaventato..»
«Dove sta la novità? Ti spaventi persino del rumore di una porta che cigola tu — che stai ascoltando?» Non mi diede il tempo di rispondere, lo vidi afferrare una delle due cuffie e portarla al suo orecchio con espressione critica.
«E’ solo una roba così..» minimizzai schermandomi con le mani.
«Stai sul serio ascoltando la sigla di un cartone animato?» Ascoltavo qualsiasi genere di musica, e aveva pensato bene di beccarmi proprio quando mi era venuta voglia di ascoltarmi Ranma? Se non era sfiga questa, non sapevo come altro definirla.
«Se non ti piace ridammela.» provai a strappargli la cuffia ma le sua mano bloccò la mia stringendola con forza, era gelido. Un contrasto netto con la mia pelle perennemente accaldata, che adesso grazie a quel contatto stava andando a fuoco.
«Quando lasci un regalo a qualcuno non sarebbe educato restare fino alla fine?» Il mio cuore scivolò sotto i piedi, come faceva a sapere che la bottiglietta l’avevo lasciata io? Pensa Joshua, pensa. Cercai di capire in due nanosecondi se fosse il caso di negare o meno.
«Non so di cosa parli.» Sporsi le labbra scrollando le spalle con finta noncuranza.
«Ah no? Allora l’avrà lasciata Jane.. peccato volevo ringraziare il mittente invitandolo a uscire, ma sono andato dalla persona sbagliata.» Fece per restituirmi la cuffia e andarsene ma la mia mano artigliò la sua manica stringendo la presa, mi trascinò così per circa un metro finché non si decise a fermarsi.
«Sono stato io. Io.» scoppiò a ridere piegandosi lievemente su se stesso.
«Sei uno spasso, seriamente..» mi fissò come se vedesse qualcosa che forse nemmeno io sarei stato in grado di scovare guardandomi allo specchio.
«Uscire dove?» Era quella la parte interessante.
«Sei mai stato in un cinema drive-in?»
«Credo di no..» cercai di andare a ritroso nel tempo, di ricordare.
«Ottimo, stasera proiettano un film in bianco e nero che vorrei rivedere. Vieni con me?» Il pensiero di me e lui dentro un auto mi scombussolò talmente tanto che restai in silenzio a fissarlo. Mi schioccò le dita proprio di fronte la faccia riportandomi alla realtà. «Sei ancora qui?»
«Si si..» Kevin mi aveva chiesto di uscire a mangiare un boccone proprio quella sera. «Ecco, stasera Kevin voleva—» non mi fece nemmeno finire.
«Non andare, e vieni con me.» La sua non era una proposta, ma un vero e proprio ordine. Per qualche motivo anche la sua espressione si fece più severa, che gli stesse antipatico Kevin? Non che potessi biasimarlo, la sua irruenza per uno come Enoch poteva essere quanto di più fastidioso nel mondo.
«A che ora?» Il suo viso tornò a stendersi, c’era una punta di vittoria nel luccichio di quelle pietre blu.
«Busserò io alla tua porta, dobbiamo fare piano e non farci vedere da nessuno.» Annuii pensieroso, senza cogliere sul serio il senso di quelle parole.
«Va bene..» mi resi conto di tenerlo ancora per la manica, la mollai subito scostandomi nervosamente.
«Allora vado, ci vediamo stasera ..» mi diede le spalle e dopo aver percorso pochi passi si voltò a fissarmi. «Ah, Josh, come te la cavi a saltare?»
«Saltare? Chi ha parlato di saltare? Enoch?» non mi diede retta continuando ad allontanarsi. «CHE SIGNIFICA SALTARE? TORNA QUI.» Restai con quel dubbio da solo nel corridoio.
 
 
Non è un appuntamento. Lo ripetevo come un mantra mentre mi accingevo a prepararmi, il fatto che stessi mettendo il doppio della cura nel mio modo di vestire non significava nulla, ero di mio un piccolo maniaco dello stile quindi era assolutamente legittimo il mio atteggiamento. Alitai appannando la mia immagine riflessa, poggiandovi le mani.
«Bugiardo.» Mi redarguii da solo mentre fissavo l’orologio sul mio comodino, erano le dieci e di Enoch nessuna traccia. Mi avrebbe dato buca? Avevo disdetto con Kevin adducendo un mal di pancia atroce, scusa alquanto imbarazzante ma per qualche motivo trovavo cento volte peggiore dirgli ‘’preferisco uscire con Enoch’’.
Alle 23:30 sentii un rumore oltre la mia porta, sembrava un discreto bussare ma non ero sicurissimo quindi mi accinsi ad aprire lasciando sbucar fuori solo la testa e lo vidi. Stava ritto lì di fronte, poggiato al muro a fissarmi con le mani in tasca.
«Sei pronto?» Bella battuta, ero pronto dalle nove.
«Quasi..» feci il vago così giusto per darmi un tono e facendogli cenno di aspettare lasciai socchiusa la porta andando dentro a prendere la giacca.
«Bella stanza.» Mi voltai di scatto a fissarlo inebetito, era entrato senza nemmeno essere invitato? La sua sfacciataggine certe volte rasentava la patologia. Gli occhi corsero al mio letto, e ai boxer imbarazzanti messi proprio lì in bella vista; con un salto degno di un ninja mi ci schiantai contro restando disteso a pancia in giù.
«Ti capita mai di chiedere ‘’permesso’’?»
«Perché stai coprendo la tua biancheria intima?» Ma allora era stronzo. Lo fulminai con un’occhiata astiosa ricavandone solo il suo palese divertimento mentre girovagava osservando ogni mia cosa contenuta dentro la stanza. Si soffermò sui libri, e sulle macchine fotografiche messe lì a mo di trofeo.
«Sei qui per andare al cinema o per fare il tour di camera mia?» Abbassai il tono della voce rendendomi conto dell’orario.
«Non posso fare entrambe le cose?» Afferrò il peluche di una papera rigirandolo come se fosse un’arma di distruzione atomica, per poi guardarmi col sopracciglio inarcato.
«Mi piacciono le papere, problemi??» Sorrisi in maniera falsa, ficcando i boxer sotto al cuscino per poi alzarmi e indossare il parka, le temperature ormai stavano divenendo via via più rigide.
Il corridoio al primo piano era pervaso da un’aria gelida che scoprii causata da una finestra aperta, Enoch me la indicò sporgendosi per osservare la distanza dal suolo.
«Mi stai dicendo che dobbiamo saltare?» Gli strattonai il giubbotto guardandomi indietro nervosamente.
«Non è altissimo, se salti bene arrivi al suolo senza nemmeno accorgertene.» Ma pensava fossi superman? Mi premurai di farglielo notare scatenando la sua ilarità. «Un coniglietto come te non dovrebbe avere problemi a saltare.»
«Se ti sembro un coniglio ti consiglio una visita oculistica..» il mio tono di voce piccato non sembrò scalfirlo, lo vidi poggiare un piede sul bordo della finestra e mentre trattenevo il fiato saltò. Mi sporsi pochi istanti dopo a guardare sotto, ritrovandolo accucciato col viso rivolto verso di me. Okay, l’altezza non era granché dovevo ammetterlo, ma io avevo ancora quel piccolo handicap per la quale inciampavo anche in superfici piane camminando con attenzione.
«Ti muovi? Lo spettacolo inizia tra poco.» Mi mise fretta strappandomi un’imprecazione che soffocai appena in tempo. Non c’era altra soluzione, con espressione teatrale mi feci il segno della croce velocemente per poi saltare. Supponevo che Dio non avesse smistato tutti gli esseri umani allo stesso modo durante la creazione, mi piaceva pensare che se quelli come Enoch riuscivano ad atterrare in maniera elegante io invece avrei avuto altri pregi. Ma quali?
Continuai a massaggiarmi il didietro per tutto il tragitto fino all’auto ignorando le risate di quello stronzo accanto a me.
 
Il drive-in si era riempito lentamente ma poco, fissavo lo schermo presissimo da quel film che non avevo mai visto finché la sensazione di essere scrutato nell’ombra non mi costrinse a voltarmi ritrovandomi due occhi blu nell’angolo più lontano intenti a osservarmi.
«Non guardi il film?»
«Lo so a memoria.» La voce graffiante come sempre, con quel retrogusto indolente e immancabile, se lo sapeva a memoria perché mi aveva portato lì? Sembrò leggermi nel pensiero, tossicchiò fissando lo schermo per due secondi netti tornando nuovamente su di me.  Non sapevo cosa dire, mi sentivo imbarazzato e anche abbastanza nervoso nell’essere chiuso in auto con lui; mi sfregai le mani tra loro con una punta di isteria.
«Josh.»
«COSA?» Mi morsi la lingua maledicendo il mio nervosismo, dovevo calmarmi.
«Mostrami le tue fossette.» Si indicò la guancia come se fossi un cretino a cui doveva spiegare anche l’ovvio, restai inebetito per qualche secondo.
«Le mie fossette? Perché— » scacciò l’aria con la mano come se il ‘’perché’’ fosse irrilevante, dovevo farlo e basta. Allora sorrisi, e lo vidi soddisfatto.
«Lo sai che le fossette sono il prodotto di una malformazione? Penso sia la malformazione più carina che un essere umano possa avere.» Mi stava dicendo che ero carino? O il complimento era ristretto solo alle fossette? «Quando pensi a qualcosa come le ‘’malformazioni’’ ti vengono in mente cose orrende, e invece..»
«Ti piacciono così tanto? Se potessi te ne regalerei una..» lo vidi aggrottare la fronte.
«Perché? A me piacciono su di te.» Ricominciai a innervosirmi, che dovevo dire in quel momento? Qualcosa di intelligente, ma cosa?
«I tuoi genitori dove vivono?» Dalla sua espressione dedussi che non era stata per nulla una domanda intelligente.
«Mio padre vive a Stoccarda, è un attore, mentre mia madre abita qui a New Haven.» si prese qualche secondo per fissare lo schermo. «Sono divorziati.»
«Mi dispiace.. però considera il lato positivo, hai doppi regali durante le feste.» Mi guardò serio per poi scoppiare a ridere scuotendo il capo.
«Riusciresti a vedere il lato positivo persino in un uomo morente tu – parlami dei tuoi genitori.» Quando gli avevo chiesto della sua famiglia non avevo considerato il concetto di ‘’causa effetto’’ secondo il quale poi ti viene rigirata contro.
«I miei genitori biologici vivevano a Las Vegas, non so moltissimo di loro.. so solo che mi diedero in adozione perché non riuscivano più a mantenere due figli, sono morti cinque anni fa.» Scrollai le spalle serrando la mascella. «Hai presente la sensazione di avere una ‘’madre’’, no? Ecco, a me manca. Non so se sia peggio averla e poi perderla oppure non averla del tutto come nel mio caso.» Il suo silenzio riempì l’abitacolo in maniera assordante.
«Avere una madre non è sempre così bello come si pensa. Quando non hai l’istinto materno, o quando ti viene soppresso da terzi, non riesci comunque a fare la tua parte. E’ meglio in quel caso vivere nell’ignoranza, piuttosto che pensare di avere qualcosa a pochi passi da te .. e non poterla considerare tua.» La sua voce si sporcò di malinconia, e in quel momento seppi con certezza che parlava di se stesso; il silenzio ci cullò per svariati minuti, mentre il film scorreva senza avere più la nostra attenzione. «Perché sei nervoso quando sei con me?»
«Cosa? No io non—» quella domanda mi aveva colto impreparato, ero così evidente?
«Con Kevin sembri a tuo agio, ma con me no.» Il tono divenne accusatorio mentre mi fissava con attenzione. «Sono io il tuo amico, non lui, giusto? Quindi è con me che dovresti essere a tuo agio..» la gelosia amichevole mi mancava per raggiungere il baratro più profondo dell’umiliazione. Mi umettai le labbra secche ponderando una risposta.
«A Kevin non ho mai raccontato dei miei genitori, e non lo avrei fatto nemmeno se me lo avesse chiesto..» e soprattutto per Kevin non sentivo nulla.
«Sei un libro aperto Josh, tutto quello che provi è scritto in faccia.» Mosse il dito come a toccarmelo nella sua mente, sorrisi scuotendo il capo.
«Non credo..» se fosse davvero così ti saresti reso conto da un pezzo di come le mie espressioni cambiano in tua presenza, di come ti cerco in mezzo alla folla quando non ci sei e di come il mio cuore batte quando mi vieni vicino, non dissi nulla di tutto ciò. «Non credo tu conosca davvero ciò che provo.» Non ribatté a quell’affermazione, la sua faccia mi fece pensare che mi aveva appena creduto sulla parola e soprattutto che avrebbe cercato di capire cos’è che non conosceva ancora di me.
 
Intercettai William nel corridoio troppo tardi per cambiare nettamente strada, maledicendomi mentre lo vedevo avanzare verso di me.
«Ma guarda un po’ chi c’è qui.» Sospirai silenziosamente racimolando un sorriso per lui, ero del parere che a tutti bisognava concedere un’occasione.
«William! Non sei a lezione?»
«L’hanno sospesa per alcuni problemi tecnici credo.» Dal modo in cui lo disse non sembrava importargliene molto, secondo me avrebbe avuto la medesima espressione pure se fosse crollato il tetto dell’aula. Tutto ciò che non girava attorno a lui era irrilevante.
«Come stai?»
«Ti interessa davvero?» Ecco, il fulcro della mia antipatia nei suoi confronti era proprio quello. Non riusciva a tagliarsi quella lingua da serpe, ogni mia azione per provare ad essergli amico finiva con un suo commento acido.
«In tutta franchezza non ho tempo di litigare con te adesso, quindi..» feci per andarmene ma mi venne dietro.
«Io non sono come gli altri, Josh.» No tu sei peggio, ma evitai di dirglielo infastidito dal diminutivo appena datomi. «Io lo vedo quanto sei falso, ti cospargi di quest’aura buona e gentile.. ma sei il peggiore.»
«Io non mi cospargo di niente, provo a essere semplicemente cordiale a differenza tua.» Il suo sorrisino mi fece infuriare ancora peggio.
«Pensi sia la tecnica giusta per avvicinarti a Lui?» Pure senza dire il nome sapevo bene di chi parlasse, strinsi il bicchierino di caffè tra le mani rischiando di rovesciarmelo addosso, avvicinandomi.
«Quello che usa ‘’tecniche’’ per avvicinarsi a Enoch sei tu William. Ma lascia che ti dia un consiglio: stai sbagliando direzione.»
«Ne sei sicuro?» Il tono suonava un po’ troppo trionfante per i miei gusti. «Comunque ti voglio confidare una cosa: a Enoch la mia compagnia piace più di quanto pensi.» Lo fissai confusamente senza capire mentre si allontanava da me con quell’andatura arrogante. L’istinto di lanciargli il caffè bollente sulla schiena mi sfrecciò nella mente più e più volte ma evitai. Che aveva voluto dire con quella frase? Decisi che in fondo non volevo saperlo, avevo vent’anni non tredici e andavo all’università non alle medie. Quei comportamenti infantili non dovevano più appartenermi; eppure quella sensazione strisciante di disagio e curiosità non volle abbandonarmi.
 
Tutti parlavano del fine settimana che sarebbe arrivato, io ascoltavo distratto disegnando sul mio quadernino finché una parola non interruppe le mie elucubrazioni mentali: campeggio. Sollevai di scatto il capo fissando i visi che ormai facevano parte della mia quotidianità, Sophia, Friedl, Kevin.. Enoch. A quanto pare qualcuno aveva avuto la brillante pensata di passare due giorni nei boschi. Con gli insetti. Le bestie malefiche e assetate di carne umana. Le ombre e gli scricchiolii.
«Ci divertiremo vedrai.» La voce eccitata di Sophia non riuscì a cambiare la mia espressione sgomenta mentre fissavo lo spigolo del tavolo decidendo se frantumare lì la mia testa.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Camping ***


VII.



I bagagliai delle due auto erano pieni di borsoni e tende, mi trovavo sui sedili posteriori in compagnia di Sophia, davanti a me Kevin alla guida e Dexter, il suo migliore amico, nel sedile passeggero. Inutile specificare quanto io non riuscii nemmeno ad avvicinarmi all’altra auto guidata da Enoch. Con lui si erano offerti volontari (per non dire lanciati come razzi) Friedl, William e Jane. Sospirai guardando fuori dal finestrino, il sole stava sorgendo in quel momento, eravamo partiti prima dell’alba in modo tale da arrivare nel bosco dove ci saremmo accampati a un orario decente.  
Cullato dal ronzio del motore e dalla musica bassa che riempiva l’abitacolo sentii le palpebre farsi sempre più pesanti fino ad addormentarmi completamente.
 
Sedevo nella grande cucina di casa Walker, sentivo le gambe anchilosate come se non potessi alzarmi anche volendo, fissavo le pietanze attorno a me con un senso di strisciante disagio che divenne paura quando la voce del signor padre mi ordinò di mangiare. Piansi silenziosamente scuotendo il capo, rifiutandomi categoricamente.
«Mangia. Lo sai che il cibo non può essere sprecato, non è questo ciò che ti abbiamo insegnato.» Infilzai la forchetta con mano tremante.
«Ti prego.. non posso mangiarli.» Le mie lacrime iniziarono a inzuppare il cibo di fronte a me, era come se la mia coscienza fosse dissociata dal mio corpo e urlasse ‘’non mangiare’’.
«Mangia ho detto, o verrai con me nello studio è questo che vuoi Joshua?» Fissai il cibo, e allora li vidi: Shou, Ruth, Enoch e mio fratello Joel. Mangiavo le loro carni servitemi come pietanze pregiate.
«NO.»
«JOSHUA. JOSHUA. JOSHUA.»

 
La voce che mi chiamava insistentemente cambiò il suo tono, mi svegliai annaspando trovando Sophia a fissarmi terrorizzata.
«Che diavolo ti è preso, cristo santo mi hai fatto cagare addosso.» Mi toccai il viso trovandolo umido di lacrime, Dexter e Kevin mi fissavano dallo specchietto preoccupati.
«Scusatemi.. è stato solo un incubo.» Racimolai quel poco di dignità e lo scarto di un sorriso schiarendomi la voce e raddrizzandomi, per quanto ancora sarei stato tormentato da quei sogni? Per quanto ancora mi avrebbe reso la vita impossibile? Persino da morto lui era lì, onnipresente. A volte temevo che mi apparisse nuovamente di fronte, col viso maciullato dal secondo proiettile che avevo sparato, ghignante mentre mi sussurrava ‘’non morirò mai’’. Aveva senso in fondo.. il diavolo non può morire.
La radura si stagliò di fronte a noi poco tempo dopo, a quanto pare non eravamo stati gli unici ad avere quella brillante (per niente) idea del campeggio. Vi erano già alcune tende montate, e dei ragazzi intenti ad accendere falò ridendo tra loro. Sbuffai maledicendo quel vizio che avevo di portarmi sempre mezzo appartamento dietro, che bisogno c’era di riempire così tanto il mio borsone per due miseri giorni? Non avevo una risposta intelligente per giustificarmi, dovevo ammetterlo.
«Chi si occupa delle tende da montare?» La voce di Sophia mi riportò alla realtà, stava ritta con le mani sui fianchi quasi a voler impersonare un soldato che sbraitava ordini. Non potevo biasimarla, era l’unica donna del gruppo insieme a Jane e come tale si sentiva in dovere di prendersi la supremazia.
«Di sicuro non Joshua, ha la faccia di qualcuno completamente incapace.» Da quando lo avevo conosciuto non passava giorno in cui non mi denigrasse, Dexter era il migliore amico di Kevin e se il secondo provava un palese interesse per me il primo sembrava detestarmi. Avevo come l’impressione che fosse geloso, e di solito il mio radar non sbagliava.
«Cosa sei una specie di veggente? Invece del fondo del tè, leggi il fondo del viso?» lo scrutai piccato con le mani sui fianchi.
«Piantatela.» La voce perentoria e scocciata di Enoch troncò immediatamente il diverbio, mi fece cenno di seguirlo dandomi quelli che sembravano dei ‘’paletti’’. «Aiutami a montare le tende, ognuno si occupi della propria mentre io e Josh pensiamo alle nostre e a quella di Sophia e Jane.» Quel ragazzo aveva la classica propensione alla leadership, nessuno lo contrariava, tutti parevano pendere dalle sue labbra ma soprattutto sembrava tenere sempre in mano le redini della situazione. Non ebbi bisogno di voltarmi per sentire gli occhi di William trapassarmi la schiena.
Un’ora dopo avevamo montato tutte le tende e messo al loro interno i bagagli, mancava solo la legna per il fuoco e finalmente avremmo potuto iniziare a goderci quel campeggio.
«Chi va a prendere la legna?»
«Io e Joshua.» Sophia si fece avanti e io provai l’istinto di pestarle con forza il piede, perché diavolo doveva parlare anche per me? Fissai il sole e mi sentii rassicurato, c’era abbastanza legna qui intorno senza che dovessimo allontanarci troppo e di conseguenza perderci. Non avevo un grandioso senso dell’orientamento.. a ripensarci ogni volta che mi descrivevo non mi sentivo così eclatante come persona.
«Finalmente siamo da soli.» La guardai senza capire aggrottando la fronte, mi spintonò con un sospiro. «Vedere la faccia lattiginosa di William e quella del parassita per troppo tempo mi provoca delle bolle su tutto il corpo, quando William parla ho come l’impressione che la faccia gli si potrebbe sciogliere tipo acido corrosivo.»
«Quanto sei scema!» Risi divertito mio malgrado continuando a raccogliere ogni legnetto che trovavo lungo il mio cammino, guardando sempre indietro per assicurarmi di vedere la radura.
«E quindi.. progressi con Enoch?» adesso capivo perché mi aveva portato lì, la furba.
«Che progressi? Siamo amici lo sai.» Scrollai le spalle con noncuranza mostrandomi presissimo nell’osservare delle bacche strane e dal colore bluastro.
«Non toccarle – comunque mi prendi in giro? Mi stai dicendo che non ti piace?» mi lanciò un legnetto addosso.
«Esatto, te lo sto proprio dicendo.. oh andiamo Sophia, con che criterio dovrebbe piacermi?» Mi sentivo come Pietro nella Bibbia che rinnegava Gesù per tre volte.
«Beh, peccato.. perché a lui piaci.» Misi male il piede finendo quasi col sedere per terra, guardandola con occhi inceneritori.
«Potresti dire cose sensate, per favore?» La sua risata mi infastidì ancora peggio.
«Ma guardati, appena si parla di lui non riesci nemmeno a mettere un piede dietro l’altro. Sei adorabile.. e comunque non ho detto una bugia, il mio intuito non sbaglia mai – e adesso andiamo, abbiamo abbastanza legna per dare fuoco a questo fottuto bosco.»
 
La giornata stava scorrendo piacevolmente, continuavo a ridere ascoltando le battute di Kevin e i lamenti di Sophia sull’essersi dimenticata la lima per le unghie. Rovistai dentro il mio zaino prendendo un piccolo cartone di latte, versandone un po’ dentro due bicchieri, uno lo bevvi e l’altro lo passai a Enoch con un sorriso.
«Tieni, è buono davvero.» Lo vidi fissarmi esitante scrutando la bevanda biancastra, era sul punto di afferrarla quando una voce si frappose tra noi.
«Shua ma che fai?» Friedl mi tolse il bicchiere dalle mani scuotendo il capo. «Enoch odia a morte il latte.» Rise divertito bevendo il mio latte senza nemmeno chiedermi il permesso. Guardai il ragazzo accanto a me reclinando il capo.
«E’ vero? Odi il latte?» Non mi rispose annuendo semplicemente e io ricordai quello lasciatogli in biblioteca, chi lo aveva bevuto allora? Gli occhi corsero a William e Dexter che sembravano presissimi in una conversazione segretissima e anche parecchio divertente a giudicare da come ridevano; richiamarono l’attenzione di Enoch che lasciò il posto vuoto accanto a me per raggiungerli, la sedia venne occupata da Kevin.
«Stasera dormi con me?» Sputai quasi il latte che avevo in bocca fissandolo in tralice.
«Ma ti sembra sul serio una proposta sensata?» A giudicare da come mi fissava supponevo che per lui lo fosse.
«Che c’è di male? E poi la tua tenda è un po’..» un po’ cosa? non riuscii a capire bene cosa volesse dire mentre la fissavo alle mie spalle. Era un po’ piccolina ma ci entravo perfettamente e ci stavo pure comodo.
«Che hai contro la mia tenda?»
«Per adesso nulla, ma se ti fidassi di me..» il suo tono evasivo non mi piacque per niente.
Dopo cena Enoch si avvicinò a me chiedendomi di accompagnarlo in auto, aveva scordato le birre dentro al cofano  e voleva compagnia, il fatto che lo avesse chiesto a me mi rese palesemente felice ma cercai di non mostrarlo apertamente seguendolo di buona lena.
«Ci sono troppe ombre.. forse sarebbe stato meglio restare al falò con gli altri.» A causa della scarsa luce non lo vidi stopparsi finendogli addosso, la mia faccia si scontrò con la sua schiena e per un nanosecondo il suo odore mi riempì le narici.
«Dammi la mano.» Lo fissai imbambolato pensando di non aver capito bene, esasperato forse dalla mia immobilità fu lui stesso ad afferrarmela costringendomi a stringere il bordo della sua felpa grigia. «Tieniti, così saprai che ci sono io con te.» Percorsi tutto il tragitto sorridendo nella penombra, e come ogni volta che lui era lì con me la paura non venne a farmi visita.
 
Io e Kevin in comune avevamo la passione per la chitarra, davanti al fuoco mi insegnò alcuni accordi perdendo la pazienza ogni volta che sbagliavo una nota.
«Fai schifo come insegnante.» Uscii fuori la lingua ridandogli la chitarra.
«Sei tu che fai schifo come studente.» In realtà lo strumento che sapevo suonare meglio era il pianoforte, ma non lo toccavo più da quando ero fuggito tre anni prima da Mississipi. Non era stata una mia decisione quella di impararlo, il signor padre voleva che uno dei suoi figli lo suonasse durante le funzioni importanti, e dato che Tj era sempre impegnato con comitati e associazioni, la scelta ricadde su di me. Scacciai quel pensiero guardando attraverso il fuoco del falò, incrociando gli occhi di Enoch che mi fissavano; Friedl accanto a lui continuava a parlargli, non riuscivo a cogliere nemmeno una parola di ciò che diceva e a giudicare dall’espressione di Enoch sembrava lo stesso per lui. Jane stava alla sua sinistra e giocava col cellulare. Trattenni una risatina immotivata forse, sentendo William richiamare la nostra attenzione.
«E’ l’orario perfetto per raccontarci storie del terrore.» La mia mente corse subito alla tenda, quanto scarto avevo per scappare lì dentro?
«No, niente storie del terrore mi annoiano.» Enoch mi salvò, non riuscivo a crederci. Per qualche motivo io ero sicuro che lo avesse fatto per me e mi sentii grato, nascosi un sorriso bevendo un sorso di birra.
«Che rapporto avete con la masturbazione?» Ero sicuro di non aver capito bene mentre guardavo Sophia indeciso se lanciarle in faccia una scarpa, tutti accolsero quella domanda con risate e battute oscene.
«Il dottore mi ha trovato più miope dell’anno scorso.» La battuta di Kevin provocò l’ilarità generale, e un po’ anche la mia. Ricordai il motivo della mia prima punizione corporale, castigato per qualcosa che non avevo mai fatto.
«E tu Joshua?» Mi riscossi quando vidi tutti fissarmi e capii che la domanda di Dexter era riservata a me. Restai in silenzio qualche secondo, che dovevo dire?
«Non l’ho mai fatto.» Per un istante sembrò che nessuno mi avesse sentito.
«Dimentico sempre che Joshua è Maria Vergine.» Il tono beffeggiante di William mi ferì, e mi ferirono ancora peggio le risatine degli altri. Perché dovevo essere giudicato senza sapere neppure le motivazioni dietro i miei gesti? Supponevo non fossero nemmeno interessati, a loro bastava ridere di qualcuno apparentemente ‘’diverso’’. Jane prese le mie difese invitandoli con poca gentilezza a piantarla, la cosa mi pose in difficoltà da un lato sapevo fosse una sorta di ‘’rivale’’, ma dall’altro il suo carattere spigliato e a tratti amichevole non poteva lasciarmi indifferente e freddo.
«Josh se vuoi andiamo in tenda e ti insegno come si fa.» Kevin ruppe quel silenzio e io desiderai sprofondare proprio lì davanti, soprattutto sentendo le battutine di tutti gli altri. I miei occhi cercarono quelli di Enoch, avevo l’ansia che fraintendesse, lo beccai intento a guardare Kevin con disprezzo malcelato evidentemente la battuta di cattivo gusto almeno da lui era stata presa nel modo corretto.
Due ore dopo andammo tutti a dormire nelle nostre tende, mi sentivo stanco nonostante non avessi fatto poi un granché. Sospirai soddisfatto tirandomi addosso il plaid, nonostante il materassino fosse decisamente scomodo per me in quel momento era il paradiso; sentii gli occhi divenire pesanti, gli istanti in cui l’oblio ti trascinava con se erano i miei preferiti, quando il corpo sembra andare alla deriva e non sei né totalmente addormentato né totalmente sveglio. La sensazione di leggerezza simile allo stare sospeso su una nuvola. Quella mia sensazione venne distrutta da un rumore strano dentro la mia tenda, sollevai il viso di scatto tendendo l’orecchio, lo avevo immaginato? Ricaddi sul cuscino richiudendo gli occhi. Due secondi dopo non solo lo stesso rumore ma la sensazione di qualcosa che mi camminava addosso mi fece rizzare ogni pelo sul mio corpo. Mi sedetti accendendo la torcia e ciò che vidi mi fece schizzare fuori in due secondi netti. La mia tenda era piena di grilli. La richiusi fissando con odio la tenda di William, ero sicuro fosse stato lui, dio sarei volentieri entrato dentro a fracassargli la testa con una pietra. Mi tornò in mente la scena a cui avevo assistito nel pomeriggio, quando lo vidi parlottare con Dexter e poi Friedl .. lo avevano fatto insieme. Mi trascinai verso il fuoco ormai quasi spento, sedendomi lì vicino per cercare di assimilare il calore che ormai rimaneva, sarei morto congelato lì fuori ma preferivo ibernarmi piuttosto che tornare lì dentro con quegli schifosi insetti pronti a saltarmi addosso. Sentii le lacrime pungere i miei occhi per la rabbia, e mi mancò da morire Shou. Lui mi avrebbe dato una pacca sulla spalla invitandomi nella sua tenda, e prima mi avrebbe detto di andare a menarli infondendomi la giusta convinzione. Ero seriamente un mezzo uomo, quando mi sarei deciso a crescere? Ero sul serio la stessa persona che aveva sparato a qualcuno?
Enoch apparve mezzora dopo bloccandosi in prossimità della sua tenda, non sapevo dov’era stato e nemmeno mi importava in quel momento troppo impegnato a trattenere il calore dentro al corpo.
«Che ci fai qui fuori?» Non lo guardai limitandomi a scrollare le spalle, tenevo gli occhi fissi sulle braci morenti.
«La mia tenda è invasa di grilli, escludendo una coalizione di questi simpatici animali disgustosi contro di me.. suppongo siano stati William, Dexter e Friedl.»
«Non pensavo avrebbero esagerato quando me l’hanno detto—» non lo feci finire, lo fissai con rabbia.
«C’entri anche tu. Dovevo immaginarlo..» adesso era chiaro perché mi aveva trascinato a prendere la birra in auto, non cambiava mai, un minuto prima mi difendeva davanti al falò e un minuto dopo scoprivo che c’era anche lui dietro quello scherzo pessimo. E io che mi ero persino emozionato come un idiota quando aveva scelto me piuttosto che altri, ma non imparavo proprio mai?
«Vieni a dormire con me nella tenda, dai..» soffiai fuori una risatina tremula, pure quella stava congelando forse.
«Piuttosto muoio qui ibernato e faccio la fine degli ‘’estranei’’ in GOT.» Mi afferrò per il braccio sollevandomi, provai a resistere lasciandomi cadere a peso morto, aggrappandomi con la mano libera allo sgabellino che praticamente venne sollevato assieme a me, fu tutto inutile.
«Senti è tardi e non ho voglia di discutere, quindi fai il bravo e andiamo.» il bravo? Cosa diamine avevo tre anni?
«Ti ho chiesto qualcosa? Non mi risulta. Torna nella tua tenda e non rompere, non ho bisogno del tuo aiuto..» assottigliai lo sguardo fissandolo rabbioso, non disse nulla semplicemente si voltò lasciandomi credere di aver seguito il mio consiglio e quando si rigirò gli bastò flettere le ginocchia caricandomi in spalla come fossi un sacco di patate. Mi sbalzò con talmente tanta irruenza che per un secondo temetti sarei caduto di faccia contro il terriccio.
«MA CHE DIAVOLO FAI.» Mi aggrappai alla sua maglia strattonandola, prendendo a pugni la sua schiena.
«Abbassa la voce cazzo, vuoi che ci sentano tutti?» Doveva fregarmene qualcosa? Pensavo fosse idiota da dire quindi mi concentrai sullo strattonarlo finché il rumore di qualcosa che si lacerava non bloccò entrambi. Oh merda.. «Mi hai strappato la maglia, Josh?» Il suo tono pacato mi terrorizzò peggio dei grilli, delle ombre, di satana e di un outfit abbinato male.
«Non è colpa mia se compri magliette fatte di carta velina.» non cedetti aggrappandomi ai suoi pantaloni da tuta.
«Si dai, strappami anche questi.» Mi lasciò cadere dentro la tenda sbarrandomi l’accesso col suo corpo. Ma come osava fare il prepotente bastardo con me? Il rumore della zip mi confermò che adesso ero sigillato dentro una tenda con lui. La rabbia lasciò il posto all’ansia, mi ritrassi sedendomi nell’angolo più lontano fissandolo nell’ombra.
«Sei inquietante messo lì così, lo sai vero?»
«Se sembro inquietante lasciami uscire fuori..» ‘’ti prego’’ lo pensai ma non lo dissi, avrei dato nell’occhio con quella supplica.
«Ti rendi conto che mi hai distrutto la mia maglietta preferita? Come pensi di ripagarmi?» La mia mente iniziò a elaborare piani di rientro spese, Enoch aveva l’aria di uno che vestiva costoso nonostante la sportività dell’abbigliamento. Mi si seccò la gola quando lo vidi togliere la maglia, la mia mascella non resse al colpo arrivandomi quasi alle ginocchia.
«Cosa diamine stai facendo?» La punta di isteria nella mia voce lo fece ridere, scrollò le spalle iniziando a rovistare dentro al suo borsone, ebbi modo di fissarlo e notai tatuaggi che prima non avevo avuto l’opportunità di vedere. Alle braccia, al petto.. non riuscivo però a distinguerli bene e istintivamente mi avvicinai.
«Cos’è adesso ti piace lo spettacolo?» La sua voce strafottente mi fece battere in ritirata.
«Stronzo …» bofonchiai quell’insulto fissando un punto a caso di fronte a me e solo quando capii che si era rivestito tornai a fissarlo, si era steso e aveva tutta l’aria di uno che sarebbe crollato di lì a poco. Beato lui, invidiavo la sua calma.
«Mi dispiace.. non pensavo ci sarebbero andati giù pesante o non glielo avrei permesso.» Il tono pentito mi addolcì, tanto per cambiare. Ne approfittai per avvicinarmi con cautela, magari potevo stendermi un pochino anch’io.. «Mi sto incazzando.» La voce improvvisamente infastidita mi fece immobilizzare, lo guardai sedersi e fissarmi, i suoi occhi blu nella notte sembravano sfere luminose.
«Cosa succede adesso…» ero sicuro di non aver fatto niente di male.
«Non capisco perché quando mi stai attorno sento sempre questo bisogno di scusarmi, è fastidioso. Ma non posso farne a meno.» si stoppò un secondo grattandosi il mento palesemente contrariato «Io non mi scuso mai Josh, quindi per favore apprezzalo e dormi, porca puttana.» Si stese di nuovo dandomi le spalle, che diamine era appena successo? Restai come paralizzato respirando appena, cercando di capire se si sarebbe rigirato ancora a rimproverarmi per motivi incomprensibili, ma non successe.
«Tanto non dormo, lo vedrai.»

 
*
 
‘’Non dormo, non dormo’’ le ultime parole di Joshua che adesso stava steso supino con un braccio ad artigliare il busto di Enoch. Il tedesco lo fissò trattenendo una risatina che improvvisa com’era nata così morì. Che c’era da ridere? Da quando quel nano era entrato nella sua vita niente sembrava in ordine come prima. Viveva la sua esistenza metodicamente nonostante l’apparente caos di cui si circondava, ogni cosa aveva uno scomparto mentale e lì restava senza contaminare il resto o la sua quotidianità. Viveva la sua vita con la consapevolezza che non sarebbe durata molto, intorno ai venticinque anni sarebbe semplicemente sparito da quel mondo, e lo avrebbe fatto in una maniera eclatante o almeno questo era ciò che si augurava ogni volta che pensava al proprio suicidio. Respirò profondamente fissando il viso del ragazzo attaccato a lui, lo guardò muoversi nel sonno e stringere ancora di più la presa.
E poi che era successo? Non lo sapeva, e lui odiava non sapere. L’incertezza era struggente, lui aveva una risposta per tutto, la logica e la razionalità erano i suoi punti di forza. Ma adesso si ritrovava a fare cose che prima non aveva mai fatto: scusarsi per esempio. O sentire di odiare ferocemente Kevin quando faceva battute ambigue, lui che per primo aveva detto che ‘odiare’ era un dispendio di energia che non gli interessava sprecare. O desiderare la compagnia di Joshua quando sentiva che le ombre nel suo cuore artigliavano ferocemente la propria razionalità. Joshua era un ragazzo, non una ragazza, non poteva essere qualcosa di romantico quindi, no? E se non era quello che altra spiegazione poteva darsi?
 
*
 
Mi svegliò il ciarlare insistente fuori dalla tenda, quando ricordai dove fossi sbarrai gli occhi mettendomi a sedere ma trovai il posto accanto al mio vuoto. Tornai a respirare chiedendomi esattamente come potessi uscire da lì, cosa avrei detto agli altri? Non ero sicuro di poter rispondere alle loro domande senza far passare tutta la tavolozza dei rossi sul mio viso. Quando la luce del sole mi accecò mi ritrovai sette paia d’occhi intenti a fissarmi basiti.
«Buongiorno..?»
«Che cazzo ci facevi lì dentro?» La voce inviperita di Friedl mi paralizzò, ottima domanda ma che risposta voleva che dessi? Enoch spiegò brevemente e con voce alquanto monocorde e annoiata, rimarcando con un piacere quasi sadico l’esagerazione dello scherzo ai miei danni e a fine discorso Sophia si alzò a passo di carica entrando nella tenda di William.
«DOVE DIAVOLO VAI?» Il diretto interessato si alzò provando a scrutare da quell’angolazione finché non la vide uscire con un mucchio di vestiti tra le mani. E quei vestiti finirono tutti nel secchio d’acqua che aveva spento le braci solo poche ore prima. «MA CHE CAZZO FAI, PSICOPATICA.»
«William dovresti ridere, se fai uno scherzo a qualcuno non aspettarti che questo non ricambi. Dovrai tornare in mutande al campus. E tu Dexter.. la vendetta arriva quando meno la si aspetta, ricordati queste parole.» La voce inacidita di Sophia infuriò ancora peggio l’altro che si slanciò nella sua direzione, Enoch si piazzò li davanti bloccandolo.
«Piantala, per colpa del tuo scherzo idiota ho dovuto dividere la tenda con Joshua e ho dormito anche abbastanza di merda essendo stretta.» Dovevo offendermi per quelle parole? Friedl a sua volta cambiò immediatamente la traiettoria della sua rabbia aizzandola contro William, aveva dimenticato che era stato complice di quello scherzo? Il resto del gruppo continuò a mangiare tranquillamente ignorandoli. I miei occhi si poggiarono su Kevin, non aveva detto nulla, persino Jane si era stizzita con Dexter ma lui no. Capii che forse quel ragazzo non rappresentava né il mio prototipo di ‘’compagno’’ come tanto desiderava essere, né tantomeno quello di amico.
 
Kevin alzò la mano facendosi notare, il campeggio era finito e ognuno di noi si accingeva a tornare alle auto. Proprio mentre lo stavo per raggiungere una mano mi afferrò il cappuccio della felpa strattonandolo fino a strozzarmi quasi, infilai le dita dentro al colletto per riprendere aria piegandomi indietro per capire chi stesse attentando alla mia vita: Enoch.
«Tu vieni in auto con me, Friedl andrà con loro.»
«Non credo sia una buona idea, ma poi perché io—mi vuoi mollare porca miseria?» La mia voce gracchiante non lo convinse mentre continuava a tenermi per il cappuccio indirizzandomi alla sua auto.
«William e Friedl non possono stare nello stesso abitacolo, o giuro su dio che alla prima lite li schianto fuori dall’auto in corsa.» Non avevo alcun motivo per non prendere seriamente quelle parole.
«E’ per questo che mi vuoi con te?» Mi resi conto di essere stato azzardoso nella domanda, mi guardò di sbieco mollando appena la presa sul cappuccio.
«Certo, per cosa allora?» appunto, per cosa allora? Non risposi limitandomi a salire in silenzio sui sedili dietro, nonostante Enoch mi avesse indicato quello davanti, lasciando il posto a Jane.
 
 
Il rientro al campus fu accolto da tutti con un lamento, ma da me con profonda gioia silenziosa. Non sapevo chi avesse tolto i grilli dalla mia tenda e nemmeno mi importava, per sicurezza l’avevo smontata e gettata dentro al primo cassonetto incontrato sulla strada. Speravo di non rifare un campeggio simile per molto, moltissimo tempo e anche oltre.
La mia camera era identica a come l’avevo lasciata, il sole ormai al tramonto filtrava colorandola e io mi gettai con un sospiro sul letto e lì mi addormentai.
La mattina successiva andai a lezione come mio solito, e al rientro un tornado coi capelli chiari mi travolse facendomi quasi cadere.
«Friedl dio santo ma che ti prende?» mi strattonò per il braccio infilandomi a forza dentro la sua camera.
«Enoch.» Oddio mio, quando sentivo quel nome pronunciato da lui poteva solo essere una disgrazia imminente, mi preoccupai.
«Cosa…» lo guardai gettarsi sul letto con un lamento.
«E’ andato via..» mi raggelai e sentii le ginocchia tremarmi. «A quanto so è tornato a Stoccarda dal padre per una breve vacanza..» desiderai picchiarlo, poteva essere meno teatrale? Non mi aveva avvisato della sua partenza, e ancora una volta mi ritrovai deluso dal suo modo di trattarmi, ero davvero un amico? Friedl mi fissò aggrottando la fronte. «Ma tu sapevi che i suoi erano divorziati? Io no.. l’ho capito solo adesso quando ho saputo del viaggio.» Restai immobile senza sapere come rispondere e per la prima volta decisi di mentirgli.
«No, non lo sapevo..» come pensavo si mostrò soddisfatto.
«Senti.. sii sincero ti piace Enoch? Se è così devi dirmelo, e mi farò da parte.» Friedl che si faceva da parte? E gli unicorni quindi esistevano? Mi faceva così stupido da non capire il suo piano? Il vittimismo era la cosa che oggettivamente gli riusciva meglio, me lo immaginavo già mentre mi dipingeva come la meretrice infima che gli si era finto amico per rubargli la cotta. Fui tentato di vomitare fuori tutto, mi sentivo come marcire dentro a furia di tenere quel sentimento solo per me. Ma a che pro? Enoch sarebbe stato il primo rifiuto della mia vita, che senso aveva quindi rendere partecipi tutti della mia personale sconfitta? Per farli ridere di me? Alla fine sorrisi.
«Friedl, andiamo a mangiare un gelato?»

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Distance ***


VIII.



Da Evrard Weizsäcker aveva sicuramente ereditato l’altezza, il colore e la forma degli occhi e quella delle labbra. Se non fosse stato per quei piccoli dettagli genetici spesso e volentieri avrebbe dubitato della loro parentela, visto il carattere praticamente opposto. La spensieratezza di Evrard cozzava con i modi di fare spesso taciturni e solitari del figlio, eppure in un modo del tutto contorto a Enoch piaceva passare del tempo con lui nonostante questi non sapesse praticamente nulla degli scheletri che si annidavano dentro l’armadio del ragazzo.
«Ti ho avvisato una settimana fa del mio arrivo.» L’uomo sorrise mesto fingendosi presissimo a scegliere un libro.
«Me ne rendo conto..» Enoch sbuffò sedendosi sulla comoda poltrona del soggiorno.
«Se te ne rendi conto evita di farti trovare a letto con le ‘’signore allegre’’ che raccatti in giro, sono stanco di entrare e vedermi catapultato sul set di un porno.» La risata del padre gli fece capire quanto poco sul serio prendesse i suoi ammonimenti.
«Me lo chiedo da un po’, ma mio figlio..» non finì la frase mimando un gesto eloquente con la mano.
«Tu pensa alla tua vita sessuale, che alla mia ci penso io.» sorrise seraficamente chiudendo quel discorso surreale. Non era lì per dire al padre quanto e come facesse le capriole a letto, stava a Stoccarda per delineare un piano sul suo futuro più prossimo. In quella settimana aveva visitato alcune università cercando di capire quanto lasciare Yale avrebbe intaccato sulla laurea finale. Ma in fondo era sul serio così importante? Nel suo futuro non erano previsti lavori, famiglia e cose così, vi era il nulla che finalmente avrebbe abbracciato dopo essersi trascinato negli abissi infernali tutta la sua famiglia. Guardò Evrard leggere quello che sembrava un copione, non sapeva nulla del figlio conosceva solo ciò che a Enoch faceva comodo mostrare e la sua più grande colpa era forse non essersene mai interessato davvero nonostante l’affetto che nutriva. Era come se fosse rimasto incastrato a quindici anni prima, quando Madalyn era fuggita un giorno senza neppure avvisarlo, tutto il suo mondo era crollato al suo ritorno quella notte in una casa ormai deserta. Secondo Enoch l’uomo amava ancora la madre e probabilmente non avrebbe mai smesso.. se solo avesse saputo quanto fosse diversa l’idea che aveva di lei rispetto a ciò che davvero era.
 
Il diario portava una copertina spessa e in cuoio ormai rovinata dal tempo, ogni volta che la toccava il viso di quella ragazza balzava alla mente. Questa era la sua più grande eredità, tutto ciò che Rachel Miller lasciò poco prima di farsi trovare impiccata dentro il piccolo appartamento condiviso con alcune amiche del college; la polizia aveva lasciato il caso aperto per anni, tutti giudicavano impossibile credere che quella ragazza solare avesse messo brutalmente fine alla sua vita senza nemmeno un biglietto, una lettera, qualcosa che potesse far capire le motivazioni.
Quel ‘’qualcosa’’ cercato da tutti però esisteva davvero: il diario. Ma piuttosto che tenerlo con se, lo aveva affidato a un quindicenne conosciuto per caso, l’unico che avesse davvero mostrato interesse per lei. Enoch venne a conoscenza così degli orrori commessi dal nonno, tutto ciò che quella facciata elegante nascondeva.
Dentro le pagine appena ingiallite vi erano date, luoghi, nomi, persino alcune foto compromettenti di bambini, vittime di quel mostro che portava il suo sangue, che sarebbero servite a sbatterlo in galera per il resto dei suoi giorni; Rachel gli aveva strappato la promessa di custodirlo e farlo venir fuori quando la vendetta sarebbe stata compiuta. La sua morte non doveva essere vana, e l’amante odiato avrebbe dovuto pagare ogni suo crimine.
Grazie a quel diario donatogli aveva preso potere decisionale sulle vite di ogni membro della famiglia, soprattutto di Arthur, il criminale, e della madre complice spesso inconsapevole. Se non era ancora uscito tutto fuori il motivo era da imputarsi solo a lui, tentennava cercando il momento più adatto e questo sembrava divenire ogni giorno più vicino. Una volta che lo scandalo fosse esploso, non ci sarebbe stato più posto per lui a New Haven né a Yale; quel pensiero lo fece sorridere amaramente, vi era sul serio un posto ‘’per lui’’ a quel mondo?
 
*
 
Perché sei sparito senza dirmi nulla?
Quando tornerai?
Mi manchi..
— Enoch! Ti stai divertendo a Stoccarda??

 
Lanciai il cellulare sul letto dopo aver inviato quel messaggio, frutto di parecchie bozze eliminate poco prima dell’invio, non capivo il perché fosse così difficile per me abituarmi all’idea di non possedere chissà quale importanza nella vita di Enoch. Perché avrebbe dovuto avvisarmi? Sospirai sobbalzando quando la porta si aprì di colpo, ma non rientrava tra le usanze di quel dormitorio bussare prima di aprire?
«Muovi il culetto, andiamo al centro commerciale, ho bisogno di rinnovare il mio guardaroba per non cadere nel baratro della depressione.» Reclinai il viso fissando confusamente Sophia, a volte quando parlava sembrava nel pieno della sua personale tragedia greca, e noi eravamo gli spettatori ovviamente.
«E stavolta cosa, o dovrei dire chi, è la causa di questa depressione?» mi alzai di malavoglia raccattando il giubbotto dalla sedia vicino la scrivania.
«Josh, era un modo di dire. Noi donne abbiamo bisogno di scuse continue per giustificare lo shopping compulsivo.» Annuii presissimo da quella spiegazione accurata, ripromettendomi di usarla al momento opportuno. Dopo anni finalmente avrei saputo anch’io cosa dire durante le mie sedute intensive di compere. Poco prima di chiudere la porta un pensiero mi strappò una risatina: ma io non ero donna, la scusa non stava in piedi.
 
«Vi piace?» Il rumore del risucchio con la cannuccia prodotto da Nastya mi parve una risposta abbastanza eloquente di fronte a quel vestito pieno di strass che la rendeva simile ai lampadari presenti nella reggia di Versailles.
«E’ un po’, come dire.. appariscente.» Ponderai bene le mie parole beccandomi una gomitata dalla russa.
«Joshua vuole dire che fa cagare Sophia, toglilo.» Dovevo decisamente imparare l’arte della retorica da lei. Approfittando della loro distrazione mi allontanai verso il reparto maschile, non avevo molti soldi con me visto che mettevo tutto da parte e ogni mese mandavo dei bonifici a Shou e Joel. I primi due mi erano stati rimandati indietro, ma dopo urla e insistenze avevano iniziato a prenderli e io finalmente avevo iniziato a ripagare il mio debito. Le spese ospedaliere sostenute nei miei mesi di coma non potevo semplicemente lavarle via con un colpo di spugna, senza di loro non sarei mai riuscito a curarmi e fare la riabilitazione; il peso di quel debito, e di quella gratitudine, mi accompagnavano ogni giorno della mia vita. Afferrai una giacca di uno strano color borgogna ma ciò che vidi allo specchio mi portò a lasciar cadere la gruccia e il cellulare nell’altra mano: Tj mi fissava poco lontano, tra due stand, il cappellino calato sugli occhi verdi quasi a volerli nascondere. Sentii il mio stomaco rimescolarsi e contorcersi, mi voltai bruscamente e la sagoma era sparita. Non me l’ero immaginata, non ero diventato pazzo fino a quel punto; iniziai a camminare lungo i corridoio guardandomi attorno con nervosismo finché non arrivai in prossimità del magazzino, mi voltai e lui era lì. Non c’erano specchi traditori stavolta, non ero sotto l’effetto di qualche droga, non era una visione quella. Portò l’indice alla labbra facendomi cenno di tacere, probabilmente pensava avrei urlato richiamando l’attenzione di tutti.
«Sono qui solo per dimostrarti che posso trovarti ovunque tu sia.. Ho saputo di mia madre.» Sentire di nuovo la sua voce mi accapponò la pelle, era esattamente come la ricordavo solo priva all’interno di quella dolcezza che l’aveva contraddistinta durante la mia adolescenza. Mi sentivo paralizzato, continuavo semplicemente a fissarlo senza che potessi muovere nemmeno un piede, che fosse per raggiungerlo o per scappare. C’erano tante cose che volevo dirgli in merito a quella notte al capannone che solo noi due conoscevamo davvero, ma la lingua mi si era incollata al palato.
«JOSHUA.» A quel grido voltai di scatto la testa, Sophia avanzava verso di me e io avrei voluto urlarle di stare lontana, di fingere che non mi conoscesse, non volevo Tj la vedesse. Ma quando tornai a guardare dritto, lui era ormai sparito. «Dio mio ma sei pallidissimo, stai male?» Le mie gambe cedettero di colpo, la vidi sorreggermi con fatica trascinandomi verso una poltrona poco distante richiamando l’attenzione di qualcuno che io non vedevo. La mia vista era appannata, e io ero nel pieno di un attacco di panico violento.
«Sicuro di stare bene?» Mezzora dopo Nastya continuava a fissarmi preoccupata nonostante avessi rassicurato entrambe più volte sulle mie condizioni. Avevo bisogno di calma in quel momento, dovevo riflettere e capire se fossi impazzito del tutto o se Tj era stato lì davvero a pochi passi da me. Per quanto volessi fortemente la prima delle due ipotesi, io sapevo che non era così.. lui era tornato e il suo messaggio sembrava passato forte e chiaro. Ma se lo conoscevo bene non sarebbe rimasto lì, era troppo pericoloso girare per New Haven, sarebbe tornato a nascondersi ancora ma per quanto? Non c’era nessuno che potesse aiutarmi, adesso avevo la prova lampante: l’unico che poteva fermarlo ero io. Tj non si sarebbe fatto trovare da nessuno se non da me, era con me che aveva iniziato e con me avrebbe finito.
 
Non andai a lezione per due giorni restando chiuso nella mia camera a riflettere, non riuscivo nemmeno a dormire per la forte ansia, temevo che quando avessi chiuso gli occhi lui sarebbe apparso approfittando della mia debolezza. Iniziai a perdermi davvero dentro le mie paure, avevo bisogno di un appiglio, qualcosa a cui aggrapparmi per tornare a galla e respirare .. ma nulla sembrava fare al caso mio. Quando Kevin bussava io semplicemente ignoravo, quando Sophia mi cercava dicevo di essere malato e per questo impossibilitato ad andare a lavoro. Quando mi cercava Friedl non mi prendevo nemmeno la briga di rispondere, ero scisso tra il cullarmi in quel torpore negativo e il provare a uscire da quel vortice tragico nella quale ero piombato.
Quell’ancora cercata così disperatamente arrivò da me tre giorni dopo, fissavo attraverso l’obiettivo della mia macchina fotografica la moltitudine di studenti che mi passava davanti quasi senza vedermi, finché qualcuno non si sedette accanto a me. Quando mi voltai i suoi occhi blu mi fissavano come se non fossero mai andati via, come se quel suo ‘’ci vediamo’’ poco prima di entrare nella sua stanza fosse stato detto solo il giorno prima e non venti giorni fa.
«Dovresti avere la decenza di pulirti la bocca quando mangi il gelato.» Mi portai subito le dita alle labbra sfregandole con forza, ero sporco? Tossì voltando il viso, stava male?
«Quando sei tornato?» Stai male? Hai ignorato volutamente i miei messaggi? Mi hai pensato? Ti sono mancato? Non gli dissi nulla di tutto questo.
«Sono tornato ieri .. e si.» Lasciò la sedia alzandosi e tossendo ancora.
«’’Si’’ cosa?» Lo fissai confusamente.
«Qualsiasi cosa tu stessi pensando, la risposta è si.» Mi lasciò così a guardare le sue spalle allontanarsi ogni secondo di più, osservai il cielo e per la prima volta dopo giorni mi resi conto di essere ancora vivo e di riuscire a respirare come sempre.
 
Enoch era rientrato ormai da due giorni, e nonostante non si fosse fatto vedere per niente io sentivo comunque la sua presenza tra le mura di quel campus, era una sensazione difficile da spiegare a parole. Lui semplicemente c’era. Jane mi intercettò nel corridoio salutandomi con spensieratezza, le sorrisi avvicinandomi.
«Che ci fai qui?»
«Oh nulla, volevo vedere come stava Enoch, sono stata con lui qualche minuto ma ha detto che voleva riposare..» Misi per un secondo da parte la mia gelosia guardando la porta chiusa a pochi metri, mi tornò in mente il nostro incontro del giorno precedente. Aveva tossito tutto il tempo, che si fosse beccato un malanno? A giudicare dalle parole di Jane la risposta era si.
«Sono sicuro si rimetterà presto..» non so nemmeno io perché mi sentii in dovere di rassicurarla, a volte avrei voluto io per me stesso ciò che concedevo agli altri, ma puntualmente ne restavo deluso.
 
Bussai due volte alla sua camera, cercando di non farmi sentire da Friedl che dormiva in quella accanto, la porta si aprì pochi istanti dopo lasciando apparire Enoch abbastanza spossato intento a fissarmi. Sollevai una busta bianca di carta e il cartone della pizza sventolandoli sotto il suo naso. Il mio turno al ‘’quo vadis’’ era finito alle 22 precisi, mi sembrava inutile dirgli che non avevo perso tempo a correre da lui.
«Sono venuto solo per portarti alcune medicine e una pizza.. di sicuro non hai mangiato e non stai prendendo nulla.»
«Pensavi che senza bottino non ti avrei fatto entrare?» In effetti lo pensavo si, e la mia faccia rispose per me. Si fece da parte facendomi passare, ed ebbi modo per la prima volta di vedere la sua stanza.  La prima cosa che notai fu il caos della sua scrivania, tra il computer aperto, cartacce di caramelle, libri sparsi e appunti non sapevo con esattezza dove poggiare pizza e medicine. Sembrò leggermi nel pensiero iniziando a sgomberare quel casino, lasciando però perdere a metà probabilmente a causa della stanchezza e della tosse. Non indugiai oltre liberandomi le mani solo per poggiargliene una sulla fronte e constatare la sua temperatura, lo vidi irrigidirsi per pochi istanti e infine rilassarsi, fu lui a togliermela alla fine andando a stendersi sul letto.
«Non ho la febbre alta, stai tranquillo..» senza rispondergli rovistai nella busta dei medicinali estraendo alcune compresse, trascinai la sedia accanto al letto sedendomi e passandogli l’acqua.
«Prendile, e inizierai a stare meglio.» Stranamente mi obbedì senza fiatare voltandosi poi supino per fissarmi alla luce della lampada sul comodino.
«Com’era la tua famiglia adottiva?» La domanda mi spiazzò talmente tanto che probabilmente la mia espressione parlò per me, ma Enoch non era il tipo da fare marcia indietro nelle cose soprattutto se sembravano interessargli.
«Non erano delle brave persone, avevano idee religiose ristrette e soffocanti..» mi finsi presissimo a togliere qualcosa di immaginario dalla manica del mio maglione.
«Non è confortante sapere che non avevano il tuo stesso sangue?» Ci fissammo per qualche secondo in silenzio, avevo come l’impressione che volesse rassicurare se stesso più che me.
«Non molto.. quando pensi che qualcuno ti ama, e poi ti tradisce non importa molto quanto sangue condividi con loro.» Scrollai le spalle sporgendomi per afferrare il cartone della pizza ma la sua presa ferrea e improvvisa me lo impedì. Fissai le sue dita stringere la mia mano.
«Non ho fame, voglio solo riposare un po’..» non mollò la presa chiudendo gli occhi, mentre il suo respiro pochi secondi dopo diveniva regolare. Rimasi lì seduto stringendogli la mano, le dita libere accarezzarono i capelli corvini perennemente spettinati, pensavo che fosse ciò che desiderava: qualcuno al suo fianco in un momento di vulnerabilità. Niente pizza, medicine o discorsi, voleva stringersi a qualcuno e voleva che quel qualcuno lo stringesse senza porre domande. Sarebbe cambiato qualcosa se al posto mio ci fosse stato Friedl? O Jane? O William stesso? Non lo sapevo, e l’incertezza mi logorava. Nonostante quei pensieri insicuri non lasciai andare la sua mano fissandolo dormire per ore, abbandonando quella camera solo all’alba.
 
*
 
Gli occhi chiari faticavano sempre ad abituarsi alla luce del sole, ma quella volta non c’era nessuno spiraglio dispettoso semplicemente perché qualcuno aveva chiuso la tenda al posto suo, assicurandosi che non lo disturbasse durante il sonno. Fissò la sedia adesso vuota, non si era accorto d’essere rimasto solo, si era addormentato stringendogli la mano e quella consapevolezza era bastata affinché riposasse tranquillamente senza nessun pensiero strisciante lungo il cuore. Quella fu la prima volta in cui Enoch capì di non poter più sorreggere quella farsa, non sentiva il bisogno di tenersi vicino a quella persona per amicizia, ciò che provava era ben più profondo, andava sottopelle e lì si insinuava mettendo radici. Quando non lo vedeva impazziva per la mancanza, quando invece lo vedeva ma stava con altri si sentiva fuoriposto e infastidito. Quand’è che esattamente aveva perso il controllo della situazione? Quand’è che aveva permesso a quel sentimento di farsi strada dentro di lui? Un sentimento nato per un ragazzo poi. Era quella la cosa più paradossale, si sentiva attratto da qualcosa di totalmente diverso e per la prima volta nella sua vita sentiva di esserlo davvero, qualcosa che non aveva nemmeno lontanamente a che vedere con le ragazze conosciute in passato. La paura attanagliò le sue viscere e con essa il netto rifiuto per tutto. Aveva dei progetti ben precisi, non c’era spazio per cose simili nella sua esistenza, e questo poteva dire una sola cosa: darci un taglio netto. Eliminare semplicemente Joshua dalla sua vita, era facile no? Enoch viveva nella convinzione di non aver bisogno davvero di qualcuno, era sempre stato così e così sarebbe continuato. Stava solo chiudendo la porta in faccia a una follia. Una follia con le fossette e gli occhi più ingenui e indifesi che avesse mai visto.
 
*
 
Non avevo grandi doti della quale vantarmi, ma le poche che possedevo tendevo a tenermele strette, una di queste era il sesto senso più spiccato che qualcuno potesse mai desiderare. Intuii subito che qualcosa era ‘’cambiato’’, Enoch mi evitava o meglio non sembrava proprio vedermi. Quando mi incontrava nei corridoi mi salutava freddamente proseguendo per la sua strada, quando ci riunivamo in camera di qualcuno sedeva lontano da me preferibilmente vicino a Jane e William ignorandomi completamente. Non aveva più preso le mie difese, non aveva più riso per le mie battute, mi aveva semplicemente gettato via. La mia prima reazione fu un senso di panico che stringeva la mia gola, avevo sbagliato qualcosa? Lo avevo offeso in qualche modo? L’ultimo mio ricordo lo vedeva steso in quel letto con la febbre, era stato lì che avevo commesso un qualche errore? Eppure per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire, ero certo di non aver fatto nulla di male.
La seconda reazione fu un misto di rabbia, risentimento e rassegnazione; che potevo fare in fondo? Non potevo imporre la mia presenza a qualcuno che sembrava disgustarla come la peste. Forse si era reso conto di quello che provavo, ne era rimasto magari infastidito a causa delle sue preferenze decidendo di allontanarmi da lui. Fissai Kevin accanto a me, erano mesi che mi chiedeva di uscire e mesi che rifiutavo con scuse poco valide. A che pro? Forse era a lui che dovevo dare un’occasione, okay forse non era il migliore dei pretendenti, ma che avevo da perdere? Accettai quindi il suo ennesimo invito, e sorrisi divertito alla sua espressione soddisfatta, probabilmente era quella la scelta più giusta per me. Friedl mi si sedette accanto  e a giudicare dalla sua espressione non lo fece con il più roseo degli animi.
«Quella Jane è sicuramente ‘’qualcosa’’ di non trascurabile.» il tono inviperito faceva pensare tutto l’opposto ma sorvolai.
«Che succede?» In realtà non volevo saperlo davvero, ero sicuro si trattasse di Enoch e desideravo dissociarmene del tutto fin quando non mi fosse passata.
«Ero seduto accanto a loro, mi hai visto no?» Li indicò e io seguii la traiettoria del suo dito, sembravano parlottare in maniera veramente intima. «Bene, si stavano accordando per un’uscita e credimi non penso proprio sarà un’uscita amichevole.» la parola ‘’amichevole’’ venne calcata in maniera grottesca. Provai a elaborare i miei stati d’animo del momento ma non ci riuscii, avevo talmente tanto caos e dolore dentro che mettere ordine sembrava impossibile.
«Dovevi sapere che sarebbe successo.. Jane credo rispecchi il suo prototipo di ragazza.» Purtroppo. Detestavo essere così brutalmente sincero con me stesso, ma tra tutti era da sempre quella che reputavo più ‘’adatta’’ a lui.
«Joshua io me ne fotto altamente del suo prototipo, Enoch è mio da sempre.» Quando parlava in quel modo mi faceva venire i brividi su per il corpo.
«Friedl— » mi stoppai scuotendo il capo, contrariarlo era inutile, non c’era peggior sordo di chi non voleva sentire. Mi venne da ridere, mi consideravo migliore di lui? Io ero più sulla scia del ‘’masochismo’’ violento, il classico imbecille che si butta nella bocca del leone consapevole che ne uscirà a pezzi. Magari era meglio Friedl, sempre sicuro di se oltre ogni logica e razionalità. Ma almeno lui aveva combattuto a carte scoperte per ciò che voleva, io invece mi ero semplicemente nascosto, ero entrato nella sua quotidianità ma non nel suo cuore.
«Il pensiero della morte non mi spaventa.» La sua voce mi attirò come una falena col fuoco, aveva risposto a una domanda che non avevo sentito ma l’argomento calamitò comunque il mio interesse.
«Come fai a non esserne terrorizzato?» William lo interruppe incredulo e affascinato forse.
«Perché dovrei? La vita è un inferno per alcuni, tediosa per altri, la morte è una specie di liberazione. Hai chiuso il tuo capitolo, puoi riposarti.» Scrollò le spalle con indolenza e io mi sentii a disagio, perché nessuno lo interrompeva? Perché nessuno gli urlava in faccia che la vita era preziosa? Avevo lottato per sedici anni pur di sopravvivere, ero fuggito per vivere la vita che pensavo di meritare dopo anni di segregazione e soprusi.
«La vita non può andare sprecata, qualsiasi sia l’ostacolo si affronta e si combatte.» La mia voce fece calare il silenzio.
«E se non ci fosse nulla per cui combattere? Se semplicemente si fosse annoiati da tutto e non si temesse il ‘’dopo’’?» Per la prima volta dopo giorni mi stava fissando, era già qualcosa.
«La noia è una condizione dell’animo umano, ma non è perpetua. Hai un’intera vita per cambiarne la tua percezione, solo volendolo— » lo vidi scrollare le spalle con un sorrisino.
«Non credo di avere così tanto tempo per farlo.» Mi raggelai guardandomi intorno, ma ero l’unico a sentire cosa diceva? Le espressioni altrui erano divertite, come se Enoch stesse scherzando e giocando con loro proprio in quel momento, ma io sentivo che non era così. I nostri sguardi si soppesarono legandosi, che cosa aveva passato nella sua vita per chiamare ‘’noia’’ la disperazione della sua condizione?
«Vado a dormire, domani ho lezione presto.» Mi alzai bruscamente provocando il malcontento di Kevin che mi si era addormentato sulla spalla, mi aveva preso per il suo cuscino?
Mentre percorrevo il corridoio buio sentii la sua presenza alle mie spalle, mi bastò voltare appena il viso per vederlo camminare a pochi metri da me. Le mani in tasca e l’espressione neutra; mi seguì ogni singola sera senza rivolgermi la parola né nulla, come se mi scortasse fino alla camera per non farmi sentire la paura. Chi era quindi Enoch? La persona che mi ignorava e mi aveva gettato via? O quella che si preoccupava pur senza farlo vedere? Iniziai a soffrire e non capire più come uscire da quel giogo tossico nella quale mi ero nuovamente cacciato.
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Do you want to be mine? ***


IX.



Mi lanciai tra le braccia di Joel non appena lo intravidi ad attendermi in caffetteria, non lo vedevo da mesi e solo in quel momento capii quanto mi fosse mancato.
«Mi stai salutando o stai attentando alla mia vita?» Si massaggiò il collo ridendo, le fossette su di lui non sbucarono, eravamo diversi anche in questo.
«Lasciami crogiolare un po’, chissà quando ti potrò rivedere..» lo trascinai dentro il locale ignorando le occhiate curiose della gente, i gemelli suscitavano spesso interesse anche se non avevo mai capito perché.
«Quante volte ti ho detto di venire a Parigi? Non mi ascolti mai.»
«Lo sai che sono oberato di studio e lavoro.» Ci sedemmo nell’angolo più lontano vicino la grande finestra, mi rilassava quel posto ed era sempre lì che sedevo la mattina presto o durante la pausa dalle lezioni. Guardai Joel scrutarsi attorno interessato, conoscendolo stava criticamente soppesando tutte le differenze tra quel luogo e quello nella quale era solito fermarsi in Francia. «Quanto resterai?»
«Purtroppo solo oggi, sono di passaggio. Ho un corso di formazione qui in Connecticut, e ne ho approfittato per venire a salutare il mio bambino.» Gli accarezzai il mento consapevole di quanto lo odiasse, e difatti non ci mise molto a schiaffeggiarmi la mano sbuffando.
«Raccontami tutto quello che mi sono perso.» Ordinammo due caffè, macchiato per me e amarissimo per lui.
«Non c’è molto in realtà, tu piuttosto.. ti sei ambientato? Non ci credo ancora che vai a Yale, cazzo hai fatto sul serio il botto.» Il suo orgoglio malcelato mi gratificò, mi piaceva pensare che ci fosse ancora un membro della mia famiglia alla quale potevo narrare i miei ‘’successi’’. Gli raccontai tutto, di William che mi aveva preso di mira, di Dexter, di Kevin con la quale sarei uscito tra qualche sera, ma quando fu la volta di Enoch non mi vennero le parole.
«E’ complicato..» non trovai niente di meglio da dire mentre evitavo il suo sguardo indagatore.
«Non capisco, ti piace no? Perché non glielo dici?» In quel momento il soggetto delle nostre ciarle entrò in caffetteria, la mia faccia subì un cambio così brusco che Joel lo intercettò subito. «E’ lui? ENO—» gli afferrai il braccio stringendo con forza la presa.
«Se ti azzardi giuro su dio che ti spezzo il braccio.» Vidi Enoch voltarsi e guardarsi intorno, mi puntò pochi secondi dopo e i suoi occhi divennero curiosi. Joel stava di spalle e non poteva vederlo.
«Dovresti ringraziarmi, volevo farlo sedere e farci due chiacchiere da uomo a uomo.» Sospirai infelice sferrandogli un calcio da sotto al tavolo.
«Tu andrai via tra poche ore, ma io qui ci devo restare tre anni, capisci? Se dici cose inopportune..» mimai il gesto di tagliare la gola provocando la sua ilarità. Decise di darmi tregua, forse impietosito dal mio tono nevrastenico e prossimo alle lacrime. Senza farmi vedere osservai cosa facesse Enoch, lo vidi ordinare per due, non ebbi bisogno di voltarmi per sapere che con lui c’era Jane. Mi rabbuiai mollando la presa su mio fratello.
«Quella è la sua ragazza?» Ma allora era un vizio il suo.
«Ma porca miseria potresti parlare a bassa voce? Comunque no.. si? cioè non ancora, non lo so senti è complicato.» Arruffai i miei capelli che Joel mi rimise prontamente apposto con una risatina.
«La tua vita è seriamente spassosa, dovrei venire a trovarti più spesso.»
 
Riuscii ad accompagnare Joel al terminal degli autobus in tempo per arrivare puntualmente a lavoro, i turni pomeridiani erano i miei preferiti per il semplice fatto che staccando alle 22 non dovevo fare salti mortali per rientrare in camera mia. Nastya flirtava spudoratamente col nuovo chitarrista del locale, Jake era il suo nome e veniva da Seattle. Ignorai la somiglianza con Mattew, anche lui era nato e cresciuto lì, mi sembrò ancora una volta un tempo dannatamente lungo ma soprattutto passato.
Quando Enoch occupò lo sgabello libero al bancone l’orologio segnava le 21:30 in punto, non so perché memorizzai quel dettaglio forse per sviare dall’improvviso stato d’agitazione in cui ero caduto soltanto vedendolo. Che ci faceva lì? Perché stava da solo? Ma soprattutto perché continuava a fissarmi insistentemente? Ricordai in quel momento che ero io il barman di quel posto, e che probabilmente come ogni cliente normale mi fissava per ordinare. Maledissi la mia demenza avvicinandomi con un sorriso mesto.
«Solita birra?» Si guardò attorno con aria severa, quella sera il quo vadis era semideserto, forse perché lunedì era il giorno più fiacco della settimana.
«Si dai..» presi un boccale pulito iniziando a trafficare attorno, i suoi occhi continuavano a fissarmi e trapassarmi.
«Tutto bene?»
«Si, sto bene.» bevve un sorso della birra scrollando le spalle. «Josh, hai mai sentito parlare del termine giapponese ‘’koi no yokan’’
«Uhm non credo, no.. di che si tratta?» Lo guardai incuriosito sporgendomi appena dal bancone.
«E’ un’espressione che indica una sorta di premonizione d’amore, come se i due fossero destinati a innamorarsi già dal primo incontro.» ci fissammo in silenzio, mi allontani impercettibilmente da lui. «Non so se rendo l’idea, è un po’ come parlare di ‘’anime gemelle’’.. rendersi conto che quella persona sarà importante, nonostante vi conosciate da poco. Mi sono spiegato? Non sono bravo a parlare di sentimenti..» lo vidi quasi in difficoltà mentre beveva preso da un’arsura inspiegabile.
«Si, l’hai resa benissimo..» talmente tanto che pensai stesse parlando di me. Non avevo mai preso in seria considerazione un termine per spiegare ciò che sentivo per lui, e adesso eccolo lì che me lo serviva nero su bianco. «Mi piacerebbe poterla trovare.»
«Magari succederà.» Non lo vidi molto entusiasta della cosa.
«Ma preferirei di gran lunga la trovassi tu.» Le parole mi uscirono d’istinto, non riuscii a frenarle finché non fu troppo tardi. «A volte mi sembri semplicemente.. solo. Penso che una persona simile potrebbe farti rivalutare molte cose.»
«Magari l’ho già trovata.» Fissai la birra quasi finita desiderando scolarmela al posto suo, che significava quella frase? L’aveva già trovata in chi? Mi venne in mente Jane e desiderai fuggire immediatamente.
«E questa persona lo sa?»
«No, ancora no..» sembrò in conflitto con se stesso, pareva stesse decidendo in quell’istante se dichiararsi o meno.
«E se stessi sbagliando? Magari non è ‘’lei’’ la persona giusta, magari dovresti guardarti meglio attorno—» la sua risatina mi fece spegnere immediatamente.
«Che cavolo c’è di così divertente?»
«Nulla, niente che tu possa capire.» E quando mai capivo qualcosa quando c’era di mezzo lui? Ero comunque felice che mi avesse nuovamente parlato, sembrava come se non ci fossimo mai allontanati, eppure continuavo a sentirmi triste. Perché sentivo di aver trovato il mio ‘’koi no yokan’’ se questo era destinato a sentire la medesima cosa per un’altra persona?
«Josh sono le dieci, puoi andare.» La voce di Nastya mi strappò dalle mie fantasie, le sorrisi annuendo anche se per la prima volta non sentivo di avere poi così tanta fretta. Questo almeno finché non ricordai chi mi stava aspettando fuori.. merda, Kevin. Stavo giusto per girarmi quando vidi Jane venirci incontro con un sorriso, adesso capivo perché fosse lì da solo. Era venuto per incontrare lei.
«Joshua! Hai finito il turno?» Come al solito il suo tono allegro peggiorò il mio umore, non riuscivo ad avercela con lei in quella situazione.
«Si, e adesso penso proprio che andrò.» Mi costrinsi a sorridere provando a dileguarmi velocemente, ma a quanto pare Enoch aveva altri progetti per me.
«Perché non resti? Torni con me e Jane dopo.» A giudicare dalla faccia di lei non sembrava molto felice di non essere stata chiamata in causa. Mi schermai con le mani scuotendo la testa.
«No, no, grazie. Ho già con chi tornare, quindi.. buona serata.» Sembravo avere le ali ai piedi mentre accorciavo le distanze tra me e la porta finché il mio polso non venne bloccato da una stretta gelida, mi voltai ritrovandomi faccia a faccia con i suoi occhi blu. In silenzio provai a divincolarmi ma non me lo permise.
«Con chi vai via?» Non sapevo bene come interpretare il suo tono, sembrava.. contrariato? Irritato? Tradito? Provai nuovamente a sciogliermi da quella presa ma me lo impedì stringendo con più forza.
«Con Kevin..» il suo nome sembrò la parola magica per tornare libero. Mi fissò in un modo così penetrante che mi sentii sbagliato dalla testa alla punta dei piedi, ogni parte del mio corpo formicolava insistentemente.
«Torna a casa con me .. e Jane.» Ancora una volta le sue parole sembrarono più ordini, ma con il retrogusto diverso di qualcosa simile alla supplica. Tempo fa avrei accettato senza battere ciglio, tempo fa appunto quando ancora non dovevo voltarmi e vedere Jane fissarci attentamente.
«E’ così che fai di solito?» Mi sembrò confuso, talmente tanto da retrocedere di un passo. «Mi ignori per settimane, e poi arrivi dettando ordini? E pensi pure che io debba ascoltarti?» Ebbi come l’impressione che volesse retrocedere fino al fondo del locale.
«Senti Josh— » non lo feci finire, scossi il capo sorridendo mesto.
«Non importa, so come sei fatto.» Lo lasciai lì così forzandomi a non voltarmi e tornare da lui, dovevo imparare a vivere la mia quotidianità senza la sua presenza, non potevo continuare a sedere su quell’altalena nauseante aspettando come un mendicante la sua elemosina. Un sorriso, una risata, un’occhiata per continuare a tirare ancora avanti. Semplicemente non mi bastava più e se non potevo arrogarmi il diritto di pretendere, potevo comunque arrogarmi quello di NON pretendere più.
 
*
 
Se avesse dovuto comporre un podio delle ‘pessime giornate’ quella avrebbe sicuramente ottenuto un posto di merito. Mentre camminava verso il dormitorio con Jane a fianco, la mente di Enoch rimbombava di pensieri e malinconia. La bruciante sensazione di perdita era come il segno rossastro di una frustata che pulsava dolorosamente, e sapeva che avrebbe continuato così per giorni. O forse doveva augurarsi appunto che fossero ‘’solo’’ dei giorni? Perché quando si trattava di Joshua le sue certezze andavano a farsi benedire, ormai era rassegnato a quello. A che era valso ignorarlo? Uscire con Jane? Depennarlo dalla sua lista di conoscenze? Non era valso a un cazzo se considerava gli effetti collaterali, come Kevin per esempio. O i suoi occhi delusi mentre diceva ‘’so come sei fatto’’, come se non ci fosse più sorpresa, nessuna aspettativa. Era stato lui a fargli questo in fondo, aveva pensato bene di scappare e provare a salvare se stesso da tutti quei sentimenti oppressivi ed era finito per colare a picco.
«Da quando?» La voce di Jane lo riscosse da quei pensieri foschi.
«Da quando cosa?»
«Da quando ti piace Joshua?» Smise di camminare per un secondo fissandola, le narici allargate e gli occhi taglienti come lame. Alla fine si sciolse in un mezzo sorrisino ambiguo tornando a camminare tranquillo.
«Stai diventando meno incisiva nelle cose, non è un tiro mancino dei tuoi questo è troppo blando e surreale, Jane.» Da un po’ di tempo le menzogne sembravano uscire stonate dalla sua bocca.
«Non era un tiro mancino dei miei, anche se ammetto che adoro stuzzicarti, ma .. è impossibile non vederlo.» La sua risata sembrò un po’ forzata e stonata in quella notte tersa e senza nuvole.
«Ti stai sbagliando.» Era una sensazione strana, un po’ amara, come sentirsi appeso a una fune rendendosi però conto che le proprie mani sono impastate di una sostanza oleosa che ti rende difficile mantenerti saldo. Ecco, Enoch si sentiva proprio così in quel momento, soprattutto quando sollevò il viso fissando la finestra di Joshua a luci accese. Era sveglio si, ma da solo?

Iniziava seriamente a far cose surreali, se qualcuno avesse visto Enoch con l’orecchio teso a una porta chiusa probabilmente avrebbe pensato a un miraggio. La risata squillante di Joshua lo costrinse a scostarsi, le mani infossate nelle tasche e gli occhi di ghiaccio che sembravano voler incenerire quella porta. Con chi rideva? Aveva invitato Kevin in camera? Quel pensiero riportò a galla l’ansia e l’agitazione che non era abituato a sentire.
«La pianti di farmi ridere? La gente dorme qui, Shou.» Chi cazzo era adesso ‘’Shou’’? Si grattò il capo e una risatina sfuggì involontaria, stava diventando peggio di Friedl, cristo santissimo.  
«ENOCH.» Quella voce bastò a irritarlo, quindi non appena per disgrazia lo pensava lui appariva?
«Dì un po’, ma se non urli il mio nome come un invasato temi che finisca il mondo?» La voce di Joshua si era stoppata improvvisamente, qualcosa faceva pensare a Enoch che li avesse sentiti.
‘’Merda, merda, merda, maledetto Friedl.’’
«Che stai facendo qui?» I suoi occhi indagatori lo indisposero ancor peggio, cos’era suo padre per chiedere tutte quelle spiegazioni? Ma se conosceva bene Joshua era sicuro di poterlo vedere attraverso l’uscio intento a origliare.
«Sono stato con Jane fuori, e stavo tornando adesso, cosa ti sembra che stia facendo?»
«Stavi fermo, bloccato, che ne so..» roteò gli occhi avviandosi verso la propria stanza. «MA DOVE VAI? ANDIAMO INSIEME.»
«Vado all’inferno, vuoi venire?» Friedl probabilmente non lo sentì, o forse si. Aveva l’atroce sospetto che anche in quel luogo se lo sarebbe ritrovato accanto. 
 
 *
 
Il viso stanco di Kevin si palesò fuori dalla mia porta, lo guardai incuriosito lasciandolo entrare soltanto per vederlo fiondarsi sul mio letto. Ma era un vizio quello? Il mio letto sembrava la prostituta di Yale, tutti sognavano di farsi un giro insieme a lui.
«Sono distrutto.» La sua voce attutita portava strascichi di sonnolenza, avvicinai la sedia al letto sedendomi vicino a lui.
«Che hai fatto?»
«Sono stato a lezione, stanotte non ho dormito quasi niente e senza fermarmi tutto il giorno.. questo è il risultato.» Si indicò le occhiaie pronunciate sotto agli occhi strappandomi una risatina.
«E perché non vai a dormire?»
«E’ quello che sto facendo.» Nel mio letto? Il suo lo avevano rubato stanotte? Sembrò leggermi nel pensiero. «Preferisco il tuo, soprattutto se ci sei tu a dormire con me.»
«Non credo che— » mi afferrò per il polso trascinandomi di peso con lui sul letto, provai a divincolarmi ma non me lo permise. «Kevin..»
«Cosa? Voglio solo dormire, dai..» mi strinse a se, o per meglio dire strinse a se un bambolotto visto che non davo cenni di movimento, quasi non respiravo mentre attendevo che scivolasse nell’incoscienza. Non passò molto prima di vederlo addormentarsi profondamente, e fu in quel momento che mi divincolai con lentezza dalla sua presa sgusciando via da quel letto. Non riuscivo a stare in quella posizione assieme a lui, mi rendevo conto di quanto avessi sbagliato a fare di Kevin il mio tappabuchi. Mi sentii in colpa, per quanti difetti potesse avere semplicemente non lo meritava; sarei dovuto rimanere solo finché tutto quello che provavo per Enoch non si sarebbe dissolto in una bolla di sapone. Il problema era che non sapevo quando sarebbe successo.. e se, soprattutto. Lo guardai un’ultima volta prima di lasciare la mia stanza, diretto in quella di William dove sapevo che avrei trovato tutti gli altri.
 
*
 
Kevin non c’era, a giudicare dai discorsi di Dexter non era nemmeno in camera sua, ma Joshua era lì e tanto bastava a rassicurare Enoch che non fossero insieme. Sentiva un tremendo formicolio alle mani, la gamba tremava spasmodicamente mentre fissava uno per uno i volti presenti in quella stanza. Stava attraversando un’altra delle sue fasi nervose e compulsive, si toccò inconsciamente la tasca dei jeans laddove sentiva la durezza del barattolo di pillole che portava sempre con se.
«Giochiamo a ‘’obbligo verità’’? Siamo in pochi, è più intimo.» A Sophia stranamente l’idea sembrò piacere, la vide avvinghiarsi a Joshua scrollandolo divertita. Il loro rapporto spesso lo inteneriva, in un certo qual senso pensava si compensassero. ‘’Come noi’’, quel pensiero scivolò nell’oblio con la stessa velocità con cui si era formato. Come aveva immaginato le domande vertevano quasi tutte su argomenti piccanti, non era poi così esilarante scoprire quanti rapporti sessuali avevi compiuto in una singola notte, non per Enoch almeno.
«Tocca a me no?» tutti lo guardarono e nella sua mente iniziò a delinearsi un piano. «Scelgo Josh.» il soggetto in questione sembrò cadere dalle nuvole, o forse era solo nervoso.
«Io?» si indicò spaesato rimuginando qualche istante, soppesando quale delle due opzioni scegliere. In quella stanza tutti sapevano quanto crudele fosse Enoch nei suoi obblighi; leggendaria fu quella volta in cui costrinse un certo Even a camminare in mutande per i corridoi del dormitorio. «Verità..»
«Chi baceresti di tutti quelli conosciuti al dormitorio?» A quella domanda seguì il silenzio generale, gli occhi di Joshua schizzarono verso Sophia e tra loro passò una conversazione silenziosa.
«Oh andiamo, ma che domanda è? Bacerebbe me.» Rise fintamente divertita, ma la tensione nel rigore delle sue labbra era evidente.
«Lascia rispondere lui, non è il tuo turno.» La voce severa di Enoch provocò l’irritazione della ragazza pronta a ribattere, ma la stretta di Joshua sulla sua coscia la fece desistere.
«Posso pagare pegno e non rispondere?»
«Il pegno è baciare la persona che hai in mente, se non adesso domani e vogliamo le prove.» a giudicare dalla sua faccia era più propenso a gettarsi nel fuoco piuttosto che eseguirla.
«Ma che problema c’è? Siamo tutti curiosi Joshua, rispondi.» William non si sarebbe perso mai un’occasione simile, come biasimarlo. Joshua tentennò, la difficoltà era evidente nel suo viso finché una tacita rassegnazione non calò a oscurare i suoi occhi nocciola.
«Bacerei Enoch..» un sorriso vittorioso si dipinse sulle labbra del tedesco che bevve con soddisfazione dalla propria bottiglia.
«Josh sei impazzito?» Friedl lo fissava scioccato, ecco una cosa che Enoch non aveva calcolato, o forse cestinato volontariamente, erano gli effetti collaterali di quella domanda.
«E’ solo un gioco..» la risposta debole di Joshua non sembrò convincere nessuno, si alzò irruentemente scusandosi prima di lasciare la stanza.
«Sei soddisfatto?» La voce piccata di Sophia non migliorò lo stato d’animo di Enoch che senza aggiungere nulla si alzò sparendo all’inseguimento dell’altro.
«Ti fermi?» Non essere ascoltato era tra le cose che odiava di più, ma sentirsi ignorato proprio da lui era sicuramente la prima tra le cose che aveva scoperto di detestare. Gli sbarrò la strada piazzandosi sotto la traiettoria di quegli occhi infuocati.
«Perché l’hai fatto? E’ divertente per te?» quell’irruenza lo colse di sorpresa.
«Non pensavo avresti fatto il mio nome.. ci speravo ma non me lo aspettavo.» Le parole uscirono senza che potesse fermarle, quello che era iniziato come uno sfoggio plateale di gelosia adesso gli si stava rivoltando contro.
«Che significa ‘’ci speravi’’?» la voce tremante di Joshua lo inchiodò al pavimento, fissava quei lineamenti dolci nella penombra del corridoio.
«Significa che speravo facessi il mio nome, piuttosto che quello di Kevin.» Mandò giù il bolo di saliva che pareva dovesse soffocarlo da un momento all’altro.
«Volevi che facessi il tuo nome?» La mente di Enoch andò in tilt, a ritroso su tutto quello che era successo in quei giorni, e se fosse troppo tardi ormai?
«Qualsiasi nome tranne il suo.» Non appena disse quelle parole sentì di aver commesso l’ennesimo e tragico errore, forse il fatale e ultimo a giudicare dallo sguardo ferito dell’altro. Mosse un passo verso di lui ma Joshua si ritrasse di scatto sollevando le mani.
«Non mi toccare, ma che vuoi tu da me esattamente? Perché mi fai questo?» Ottima domanda, perché era un codardo probabilmente.
«Senti è difficile per me, ok? Mi dispiace—»
«Ci sono due bambini, il più grande spinge il più piccolo facendolo cadere a terra. Lo guarda piangere mentre soffia sul ginocchio sbucciato, allora rovista nei pantaloni ed esce fuori un cerotto passandoglielo.» si stoppò un secondo, forse cercava di non far tremare la propria voce. «Che senso ha darmi un cerotto dopo avermi ferito e spinto?» Il rumore di una porta fece sobbalzare entrambi, Enoch vide Kevin uscire dalla camera di Joshua e il sottile equilibrio della sua mente si sgretolò in quel preciso istante.
«A quanto pare hai trovato chi ti può sorreggere dopo ogni mia spinta, non è fantastico?» Si allontanò rabbiosamente sotto gli occhi confusi di Kevin e quelli lucidi di Joshua. Che senso aveva tutto quel casino? Che senso avevano le sue azioni se poi riusciva costantemente a tornare al punto di partenza? Era come se vedesse uno spettacolo circolare, conosceva l’inizio disastroso e di conseguenza l’identico finale. Richiuse la porta dietro di se con un boato che fece tremare ogni pianta lungo tutto il corridoio.
 
*
 
Non ricordavo nemmeno mezza virgola detta da Kevin, nelle orecchie rimbombavano solo le parole odiose di Enoch e il rumore di quella porta chiusa che sembrava quasi aver emesso una sentenza silenziosa ma triste.
Scesi a fare un giro, non potevo rimanere in camera come un cane braccato e circondato, sentivo che sarei impazzito da un momento all’altro. Persi la concezione di spazio e tempo, quando risalii le scale guardandomi attorno circospetto tutto taceva, ogni anima presente in quel piano era ormai andata a dormire. Tranne me. Richiusi pianissimo l’uscio della porta restando immobile qualche istante finché una voce non mi terrorizzò.
«Dove sei stato?» Mi scapicollai ad accendere la luce e voltarmi, il mio cuore era sceso sotto i piedi ed emanava gli ultimi rantoli spaventati.
«Come diavolo sei entrato..» guardai Enoch poggiato alla mia scrivania, le braccia conserte e l’espressione stanca.
«Kevin non ha chiuso la porta quando è uscito – senti Josh..» non volevo sentirlo parlare, avrebbe detto altre cose crudeli e io ne avevo abbastanza per quella notte.
«Per favore esci, credo che per oggi ci siamo detti tutto quello che potevamo dirci..» ne ero sicuro? Ogni volta che lo guardavo mi sentivo come il bugiardo del villaggio, come se tra noi ci fossero una marea di cose in sospeso.
«Io non ho detto tutto quello che volevo dire, se permetti.» Ah davvero? Ricordavo perfettamente le sue spalle allontanarsi da me però, e questo solo poche ore prima.
«Se è per la mia risposta al gioco..»
«No, voglio sapere perché Kevin era in camera tua.. hai fatto qualcosa con lui?» Per la prima volta nel suo tono scorsi tracce di sentimenti mai visti prima, come se fosse insicuro e spaventato.
«Perché dovrei dirtelo? Chi sei tu per sapere cosa faccio nella mia vita privata?» provai a mantenermi duro ma sapevo che avrei ceduto, avevo una sorta di debole per lui ed empatizzavo troppo il suo dolore, o qualsiasi altro sentimento negativo.
«Perché non dovresti dirmelo? E se non vuoi dirmi questo, puoi sempre dirmi che sei mio.» Temetti di non aver sentito bene e la mia espressione probabilmente parlò per me.
«Non—non  ho capito, scusami.. cosa vuoi che dica?» Il suo sorriso non mi tranquillizzò per niente, mi stava prendendo nuovamente in giro?
«Voglio che tu mi dica se vuoi essere mio.» Sbattei le palpebre come a volerlo mettere a fuoco in realtà stavo cercando di gestire il mio ennesimo attacco di panico.
«Ho dimenticato una cosa lì—» indicai un punto a caso voltandomi verso la porta che aprii, ma la sua reazione fu fulminea. Me lo ritrovai addosso a sbarrarmi la strada, la mano tesa richiuse la porta con un tonfo sordo e io mi bloccai perdendomi nei suoi occhi. Era sempre così assurdamente prepotente.
«Non hai dimenticato proprio niente, rispondimi .. vuoi essere mio?»
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Caesar code ***


X.



A grandi falcate colmava le distanze di quella piccola camera, girandosela in tondo come un animale in gabbia. La sua mente aveva raggiunto un picco di stress mai provato prima di quel momento, doveva calmarsi e analizzare con logica ciò che gli stava succedendo. Seduto sul letto Enoch si rese conto presto che quando si trattava di sentimenti la sua logica era inutile come cioccolata calda in inverno. Si massaggiò le tempie nascondendo il viso con una mano, che doveva fare? Si sentiva come se avesse appena mandato tutto a puttane, e il pensiero di Kevin che usciva da quella stanza lo tormentava come un ago conficcato nel petto. Si trovò di fronte a un bivio, pensava che quello affrontato sei anni prima quando aveva deciso di tacere conservando il diario fosse stato il più difficile, ma a quanto pare si era totalmente sbagliato.
Doveva parlare con Joshua e chiarire la situazione, o almeno portarla a una sorta di equilibrio rimediando a tutte le cazzate dette e fatte. Arrivò davanti alla porta bussando due volte ma il silenzio fu l’unica cosa che lo accolse.
«Josh..?» Bussò ancora abbassando la maniglia e trovando la porta stranamente aperta, vi entrò sondando nel buio la camera vuota. Dov’era? Con Kevin? Il primo impulso fu quello di uscire nuovamente e andarlo a cercare, alla fine restò semplicemente lì dentro ad aspettarlo iniziando a guardare tutti gli oggetti messi in bella mostra e che parlavano di lui, della sua vita in un tempo in cui Enoch non era nemmeno compreso. Vi erano alcune foto esposte sulla scrivania, quella che lo colpì di più fu la seconda in ordine di apparizione, accese la lampada per scrutare meglio quello che a impatto pensava fosse uno scherzo del buio: due joshua identici. Afferrò la cornice fissando sbigottito i due ragazzi sorridenti, tra le loro mani dei bicchieri di quello che sembrava frullato. Quante cose non sapeva del ragazzo di cui si era follemente invaghito? Passò alla terza foto, lo scenario adesso era diverso, Josh sedeva sopra un muretto e accanto a lui un ragazzo all’apparenza più grande in posa, nell’angolo sinistro la scritta ‘’Joshua e Shou, 12.12.2017’’, quindi era lui il famoso ‘’Shou’’? Che rapporti aveva con Josh? L’occhio cadde sul primo cassetto schiuso, lo aprì lentamente a la prima cosa che vide fu se stesso. Inarcò un sopracciglio prendendo la foto, mostrava un Enoch intento probabilmente a camminare. Ricordò la prima volta in cui i loro occhi si incrociarono, e capì quando venne scattata. Dietro con la calligrafia disordinata di un bravo mancino vi era scritto: ‘’Lui’’. Semplicemente, senza altre parole o date. Stava per riporla ma un’altra foto attirò la sua attenzione, sbucava da un’agenda apparentemente vecchiotta, il soggetto era un ragazzo sopra una moto alto e scuro di capelli, non lo avrebbe definito propriamente ‘’bello’’ ma supponeva potesse piacere a causa del luccichio spregiudicato nei suoi occhi. Anche dietro quella foto vi era una scritta: Mattew-2017. Chi era Mattew?
Joshua tornò un’ora dopo, i suoi occhi portavano tracce di malcontento e delusione, una cosa che Enoch scoprì presto gli risultava impossibile da tollerare. Non poteva più girarci in tondo, stava rischiando seriamente di perderlo e per la prima volta nella sua vita decise di essere sincero coi suoi sentimenti.
«Rispondimi, vuoi essere mio?» Si perse un po’ in quegli occhi color caramello fuso, nelle sue paure e incertezze, temette di essere respinto e rifiutato, in fondo lo meritava dopo tutto quello che aveva combinato no?
«Perché improvvisamente tu—» era confuso e impaurito, ma Enoch implacabile colmò le distanze tra loro ancora una volta.
«E’ una risposta semplice Josh, devi dirmi solo si o no.» Un giorno avrebbe raccontato di quanti battiti aveva perso il suo cuore nell’attesa di quella semplice parola che gli avrebbe cambiato la vita per sempre.
«Vorrei esserlo, si.. Ma cambia davvero qualcosa adesso che lo sai?» Qualcosa? Cambiava tutto. Si ritrovò a sorridere senza un motivo.
«Cambia che voglio davvero averti per me, soltanto per me.» Le iridi scure e confuse sembrarono prendere consapevolezza improvvisamente, e con essa l’incredulità.
«Non stai dicendo sul serio tu – mi stai prendendo in giro di nuovo?» Enoch scosse il capo deglutendo nervosamente, afferrò la mano del ragazzo trascinandolo al centro della stanza.
«Ho provato davvero a lasciarti in pace e fingere che non fossi il tarlo continuo della mia mente, ma mi sono reso conto che non posso, io..» si stoppò un istante come se volesse ponderare le parole con attenzione. «Io non posso pensare di saperti con un altro.» Il tono quasi implorante illuminò il viso di Joshua che finalmente gli concesse uno dei suoi tanti sorrisi, e in quelle fossette decise di perdersi un altro po’.
«Quindi mi vuoi tutto per te?» Quell’aria da finto sbruffone lo fece ridere di gusto, si scostò da lui poggiandosi alla scrivania.
«Figuriamoci, stavo scherzando, volevo vedere cosa mi avresti risposto.» A giudicare dal viso sgomento dell’altro non fu di sicuro la frase più simpatica del mondo. «Sto scherzando Josh.. respira.» Si beccò un calcio dall’altro che schivò all’ultimo approfittando di quella distrazione per afferrarlo e trascinarlo contro il proprio petto, bloccandolo tra le proprie gambe che si chiusero sui suoi fianchi.
«Sei un po’ troppo vicino..» sembrava a disagio, ed Enoch si divertì ancora di più pensando al fatto che quello per lui non era sicuramente un ‘’essere vicini’’, anzi si giudicava ancora troppo lontano.
«E così?» Avvicinò il viso all’altro lasciando che i loro nasi si sfiorassero.
«Troppo vicino..» la voce di Joshua sembrava prossima a spegnersi del tutto.
«E adesso?» Non ci fu alcuna replica per il semplice motivo che le labbra di Enoch si appropriarono con arroganza di quelle altrui trascinandole in quel vortice di desiderio che troppo a lungo aveva represso. Il cuore sembrava volergli esplodere nel petto mentre sentiva per la prima volta il sapore di Joshua, la morbidezza della sua bocca e della pelle a contatto con le proprie mani. Non riusciva a credere di desiderare così pazzamente qualcuno, men che meno un ragazzo. Lui che di solito stava lontano da qualsiasi rapporto fisico, apatico nel profondo verso ogni forma di vita che lo avvicinava, adesso era letteralmente frenetico nel voler possedere quel giovane corpo.
 
*
 
Mi diedi due schiaffi in viso fissandomi allo specchio, avevo l’aria di chi non aveva chiuso occhio tutta la notte. Il che in effetti era vero. Come funzionava l’amore? Se andava male non dormivi, se la persona di cui eri pazzo ti baciava.. non dormivi uguale. Nella mia mente vi era l’immagine fissa di me ed Enoch a divorarci letteralmente le labbra, mi coprii gli occhi ridendo tra me e me. Il giovedì sapevo avesse lezione alle nove in punto, quindi alle 8:30 mi feci trovare di fronte la sua porta ancora chiusa, volevo fissarlo e capire se non mi fossi sognato tutto o peggio se non ci avesse ripensato. Quando lo vidi comparire mi scordai come si respirava, i suoi occhi freddi mi fissarono e improvvisamente si addolcirono.
«E tu che ci fai qui?» C’era un sottotono diverso nel suo timbro graffiante, mi ricordava la sensazione del primo lecca-lecca che mi aveva offerto.
«Stiamo ancora insieme?» Abbassai la voce per non farmi sentire, non sapevo ancora come dirlo a Friedl e inoltre Enoch non sembrava propenso a spiattellare tutto subito. Forse voleva vedere come sarebbe andata tra noi? Non ne ero sicuro, e avevo il timore di chiederglielo; mi aveva solo detto di fidarmi di lui, che presto o tardi lo avrebbe detto a tutti.
«Mi vuoi già lasciare?» Inarcò un sopracciglio venendomi vicino, ancora troppo per i miei gusti. Non è che mi dispiacesse, semplicemente quando lo avevo così addosso non riuscivo a pensare bene e il mio acume brillante faceva i bagagli.
«NO.» Parlai con troppa veemenza guardandomi intorno spaventato, la sua risatina mi riportò in me.
«Anche perché non potresti – ormai sei mio, l’hai detto ieri. E da me non puoi scappare.» Mi accarezzò la guancia, il pollice scivolò sulla lebbra e vidi l’esatto momento in cui il suo desiderio di baciarmi coincise col mio. Una porta aperta d’improvviso ci costrinse a scostarci, William uscì soffocando uno sbadiglio, vedendoci pochi secondi dopo.
«E voi due che ci fate qui così presto?» Aggrottò la fronte scrutandoci con quegli occhi maliziosi che gli avrei volentieri cavato.
«Io vado a lezione, Josh era venuto a chiedermi un favore.» Aveva sempre la bugia pronta lui, era il caso di preoccuparmene?
«Immagino il favore…» il suo tono ambiguo non mi piacque per niente, mossi un passo pronto a rispondere ma Enoch fu più veloce di me.
«Di sicuro non uno dei tuoi.» A quella frase William sembrò innervosirsi, mi domandai che tipo di favori poteva avergli mai chiesto e anche in quel caso mi preoccupai. Ormai campavo di preoccupazioni io. A malincuore dovetti lasciarlo andare ritornando in silenzio nella mia stanza, avevo come l’impressione che vivere la nostra relazione tra quelle mura sarebbe stato molto ma molto difficile.
 
«CHE COSA? TU ED ENOCH STATE INSE—» L’urlo di Sophia mi fece scapicollare dalla sedia per lanciarmi sul letto a tapparle la bocca.
«Sei impazzita?? Ti ho appena detto che non lo sa nessuno, cosa non ti è chiaro?» Mi fece cenno con il capo di aver capito e quando la lasciai andare si gettò tra le coperte ridendo.
«Io lo sapevo cazzo, sono una veggente. Da quand’è che te lo dicevo, ah? Enoch era cotto a puntino, quel piccolo bastardo tsunderino..» tsunde-cosa? La fissai divertito scuotendo appena il capo.
«Sono preoccupato dal fatto che non voglia dirlo..» giocai con la manica del mio maglione sporgendo le labbra pensieroso.
«Perché mai? Magari vuole solo intimità per voi, se lo sapesse Friedl o William avreste smesso entrambi di vivere serenamente.» Si sedette al centro del letto iniziando a fare la sua solita ‘’aerobica’’ pomeridiana. Il cellulare vibrò in quell’istante, lo afferrai leggendo un messaggio e la mia espressione probabilmente parlò per me. «E’ lui?? Che ti ha detto?»
«Di vederci stasera qui sotto, andremo al campetto di basket insieme.» Iniziammo a ridere come due cretini mentre incassavo le battutine di Sophia che la parte più nascosta di me desiderava si avverassero.
 
La prima notte in cui lo vidi stava dirigendosi a quello stesso campetto ma da solo. Quella notte invece ci sarebbe andato con me, e io stavo ancora fermo davanti l’armadio a capire cosa dovessi indossare. Ovviamente una tuta, si ma quale? Avere un fidanzato era stressante, Enoch era il primo ragazzo che consideravo tale e avevo l’ansia da prestazione per ogni minima cosa. Con Mattew non c’eravamo mai dati una vera e propria ‘’etichetta’’ forse perché entrambi sapevamo quanto fosse inutile ingigantire qualcosa che avrebbe trovato comunque la sua fine presto o tardi. Adesso però ero diverso, la mia paura dei rapporti sembrava niente in confronto a quella di NON avere un rapporto reale con lui, anche in questo caso spiegare come mi sentissi nei suoi confronti era impossibile. Ero solo consapevole di quanto mi fosse entrato dentro, aveva contaminato ogni mia cellula, ogni parte della mia mente riempiendola semplicemente della sua presenza.
Osservai la sua schiena ritta e ferma, indossava una tuta nera e sulla felpa sembravano esserci delle scritte in grigio, avevo come l’impressione che questi fossero i suoi colori preferiti. Mi venne in mente un discorso affrontato ormai settimane prima, Friedl aveva detto di amare l’arancione e i girasoli e se io mi ero mostrato contento, Enoch semplicemente aveva scrollato le spalle dicendo ‘’odio entrambe le cose’’ con un tono che non ammetteva repliche.
«Buh!» Sbucai fuori dal nulla sorridendogli e quando ricambiò mi sentii improvvisamente bene, il mio mondo si era appena assestato.
«Sei molto carino con questa tuta.»
«Non iniziare coi complimenti per distrarmi dalla partita..» giocai col mio ciuffo provando a nascondervi al di sotto gli occhi.
«Vincerei a prescindere io, quindi posso concederti almeno i complimenti.» La sua arroganza non conosceva confini seriamente, scossi il capo seguendolo di buona lena. Non appena ci allontanammo mi afferrò la mano intrecciandovi le dita, le fissai respirando profondamente.
«Soffri il solletico?» Sembrò apparentemente confuso da quella domanda.
«No.. – Josh non pensare di poter vincere con questi mezzucci.» Come diamine faceva a leggermi nel pensiero? Feci il vago soffiando fuori una risatina.
«Ma per favore, era solo una domanda a caso per conoscerci meglio.» In realtà io e Sophia avevamo passato l’intero pomeriggio a ideare piani per assicurarmi almeno un canestro.
Quando il campetto si stagliò di fronte a noi Enoch mollò la mia mano per dirigersi a passo spedito verso l’angolo più vicino e da lì tornò con una palla tra le mani e un sorrisino arcigno.
«Avanti nano, fammi vedere quello che sai fare.» Restai imbambolato a fissarlo, dovevo essere io a distrarre lui per vincere ed ero finito per distrarre me stesso solo guardandolo. Ma non poteva nascere brutto e storpio? Almeno avrei avuto un minimo di probabilità quella sera.
Enoch era una macchina da guerra del basket, stavamo giocando uno contro uno ma sentivo come se fossi solo con un’intera squadra contro. Provai a spingerlo, a tirargli la felpa mentre tentava un canestro, a fargli il solletico ai fianchi ma niente lui non demordeva. Mi gettai a terra sbattendo i piedi con stizza.
«Ti sembra carino? Dovresti farmi vincere, stronzo.»
«E secondo quale logica?» Mi si avvicinò con la palla tra le mani flettendo le ginocchia per arrivare alla mia altezza, i suoi occhi blu nella notte brillavano davvero.
«Secondo la logica dei fidanzati..» sembrò prendermi seriamente aggrottando la fronte pensieroso.
«Mi sto comportando male? Stai dicendo che sono un cattivo fidanzato? E’ la mia prima volta..» iniziai a ridere tirandolo per la felpa.
«Ma la smetti? Stavo scherzando, sei perfetto..» ci fissammo intensamente, la brezza notturna mi dava sollievo dal calore che stavo provando a causa dello sforzo fisico.
«Tu sei perfetto. E le guance rosse ti donano..» mi si avvicinò con un sorrisino e quello che doveva essere un bacio innocente divenne una specie di incendio che neppure il vento serale del Connecticut poteva pensare di spegnere. Aprii un occhio afferrandogli la palla a tradimento, spingendolo fino a fargli perdere l’equilibrio per poi alzarmi e segnare finalmente il primo canestro della serata. Esultai senza contegno, il fatto che lo avessi fatto barando era un dettaglio talmente infimo da potervi soprassedere tranquillamente.
«AH, chi è adesso la mezza sega??» Portai le mani sui fianchi osservandolo alzarsi lentamente.
«Josh..» non si prese nemmeno la briga di finire, il suo viso parlava per lui, presi la rincorsa saltandogli in braccio concludendo quello che avevamo interrotto pochi secondi prima. Non ricordavo una vittoria più dolce di quella.
 
Ogni singolo istante libero lo passavamo insieme, e anche quando stavamo in compagnia degli altri sembrava ci fossimo solo noi due. Voleva mantenere il segreto ma faceva di tutto per rendermelo difficile, con battute, sguardi, carezze rubate mentre tutti non guardavano, scoprii fin troppo presto quanto gli piaceva torturarmi e usare l’ascendente che aveva su di me. Ma non era il solo, scoprii presto anch’io quanto fossi l’unico in grado di cambiare il suo umore con una semplice parola, se Kevin si sedeva vicino a me Enoch si rabbuiava, se io mi allontanavo tornava nuovamente a schiarire l’espressione. Era sul serio possibile che nessuno se ne accorgesse? Secondo Sophia era parecchio evidente, ma non sapevo se per lei lo fosse a causa dell’ampia conoscenza di tutta la situazione.
Seduto sulle sue gambe lo guardavo scrivere appunti di chimica della quale non capivo nulla, col mento poggiato alla mia spalla sentivo il suo respiro solleticarmi la guancia.
«Hai mai sentito parlare dei cifrari?» Scossi il capo incuriosito.
«No, cosa sono?»
«Codici. Modi di comunicare segretissimi, vuoi impararli?» L’idea di avere un codice solo per noi mi elettrizzava, quante cose ci saremmo potuti scrivere senza che gli altri sapessero nulla? Se da un lato odiavo l’idea di non poter sbandierare al mondo quanto fosse ormai mio, dall’altra mi piaceva pensare di poter mantenere un certo riserbo, di proteggere quella storia alla quale tenevo più di qualsiasi altra cosa. Passai un pomeriggio a scrivere simboli e numeri strani, lettere che sembravano messe a caso e invece se interpretate volevano dire tantissimo. Alla fine mi addormentai addosso a lui stanco ma tremendamente felice.
 
*
 
Avere il peso di Joshua addosso sembrava tranquillizzare Enoch, sarebbe rimasto seduto in quella posizione anche tutta la notte mentre guardava dalla finestra il cielo tingersi d’arancio. Sentire il suo respiro solleticargli il collo, quel calore naturale che emanava il suo corpo e riscaldava ogni angolo gelido di se stesso; come aveva potuto pensare di rinunciare a tutto quello? Ma soprattutto come poteva pensare di doverlo fare di lì a poco? A quel pensiero strinse forte la presa sull’altro che mugugnò infastidito nel sonno senza svegliarsi. Tempo prima avrebbe lasciato quel posto senza nemmeno voltarsi indietro, ma adesso? Con che coraggio avrebbe semplicemente preso le sue cose sparendo? Impugnò la penna iniziando a scrivere su di un foglio qualcosa, in maniera fitta e nervosa e quando ebbe finito si limitò a porlo dentro l’ultimo cassetto della scrivania che chiuse a chiave. Non aveva altri modi per proteggerlo dallo tsunami che si stagliava all’orizzonte, ma soprattutto da suo nonno. Mantenere segreta quella relazione per il momento sembrava l’unica soluzione, nonostante avesse visto chiaramente la delusione sugli occhi del fidanzato.
«Che ora è?» La voce impastata di sonno lo strappò da quei foschi pensieri, sorrise di fronte a quel viso assonnato stampandogli un bacio sul collo. Joshua odorava di borotalco, tempo fa aveva ammesso di averne un’ossessione e a quanto pare gliel’aveva trasmessa visto che non faceva altro che cercare il suo odore ovunque.
«E’ ancora presto, dormi..»
«Non posso, devo lavorare.» La voce lamentosa gli strappò una risatina divertita mentre lo guardava stiracchiarsi con uno sbuffo.
«Josh, qual è la cosa che non mi perdoneresti mai?» Si fissarono intensamente, il sonno sembrava sparito dai lineamenti dell’altro.
«Vuoi fare qualcosa di cattivo?» A quella domanda Enoch non seppe rispondere, limitandosi a scuotere il capo e abbracciarlo, ignorando la voce di Josh che sussurrava ‘’non respiro, mi stringi troppo’’ senza far nulla però per divincolarsi.
 
*
 
Non avevo mai festeggiato il mio compleanno, non come ogni persona normale. Non avevo mai avuto chissà quale aspettativa, almeno dai tredici anni in su quando l’incoscienza e l’innocenza mi avevano abbandonato del tutto. Eppure tra poche ore sarebbe stata mezzanotte, e con essa il mio compleanno, era diverso quella volta perché Enoch era con me. Non mi interessavano i regali, mi piaceva l’idea di passarlo con qualcuno alla quale importasse davvero, che mangiasse un pezzo di torta con me senza che dovessi essere io a comprarla riducendomi poi a spegnere da solo le candeline inaugurando un altro anno in più nella mia tragica esistenza. L’avrebbe fatto? Le premesse non erano fantastiche, gli avevo chiesto di stare insieme quella sera ad aspettare la fatidica ora X, ma con un tono pregno di disagio mi aveva detto di essere impegnato in una cena di ‘’famiglia’’. Ora che ci pensavo non conoscevo nulla di lui, chi era sua madre? Cosa faceva nella vita? Era buona con lui, o come pensavo aveva lasciato dentro il suo cuore molteplici cicatrici?
Mi misi a letto con quei pensieri per nulla felici, a mezzanotte il cellulare si illuminò strappandomi dal torpore, ero sicuro fosse lui quindi lo afferrai fin troppo freneticamente aprendo la chat. Ciò che lessi mi lasciò deluso: ‘’Buon compleanno Josh’’. rilessi ancora temendo d’essermi sbagliato. Ero tornato il suo amichetto per caso? Tutto qui? Quella era l’unica cosa che potevo pretendere quel giorno? Non ebbi la forza di rispondergli, continuavo semplicemente a picchiettare sullo schermo che lentamente si spense e con esso anche le mie patetiche speranze.
Dieci minuti dopo un sordo bussare mi fece rizzare a sedere, fissai la porta con ansia chi poteva essere a quell’ora? La mezzanotte era passata da poco, forse Sophia voleva farmi gli auguri? Per pudore indossai i pantaloni della tuta che solitamente toglievo per dormire scapicollandomi alla porta e inciampando quasi sulle scarpe che scordavo sempre in mezzo alla camera.
«Dannazione..» aprii la porta con quell’imprecazione rabbiosa ma ciò che vidi mi lasciò completamente senza fiato. Il corridoio totalmente al buio, Enoch ritto di fronte a me in abiti eleganti, con una torta nella mano destra con tanto di candeline accese e un fiocco regalo sulla testa. In un altro contesto la sua espressione di disagio e imbarazzo mi avrebbe fatto ridere, ma in quel preciso momento ebbi solo la forza di coprirmi gli occhi, piangere in silenzio e poggiare il viso contro il suo petto.
«Se fai così penserò di aver avuto una pessima idea..» anche se dal suo tono di voce non l’avrei proprio detto.
«Pensavo non ti importasse.» Provai a scandire bene le parole ma quando piangevo sembravo provenire da un altro pianeta, mormorando idiomi sconosciuti a molti. Mi sentii trascinare quasi di peso dentro, il rumore della porta che finalmente si chiudeva.
«Ho fatto il prima possibile, non volevo mancare al tuo compleanno..» si strappò il fiocco dalla testa arricciando il naso. «Le sorprese da fidanzati sono imbarazzanti.»
«Eppure io ti ho trovato adorabile.» Scoppiai a ridere tra le lacrime, quell’aggettivo non sembrava essergli piaciuto. Mi baciò con trasporto tenendo in equilibrio la torta dirottandomi verso la scrivania (molto più ordinata della sua) nella quale ripose il dolce, in modo tale da avere le mani libere per fare ciò che sembrava piacergli più di ogni altra cosa: accarezzarmi i fianchi.
«Spegni le candele ed esprimi un desiderio.» Mi indicò la torta, dovevo sbrigarmi o la cera avrebbe sporcato quella composizione perfetta. Le sue braccia mi avvinghiarono da dietro, sentii quelle labbra tentatrici baciarmi il collo e mugugnai fintamente infastidito.
«Se fai così non riuscirò a concentrarmi..»
«E tu non concentrarti, la notte è lunga.» quelle parole mi strapparono un brivido. Mi chinai per dispetto, lasciando scontrare i nostri fianchi, spegnendo le candeline. Il buio sembrò avvolgerci, il suo respiro che diveniva man mano più veloce, era quella la notte giusta? Mi voltò senza dire nulla, nei suoi movimenti vi era l’urgenza del desiderio che provava per me, ma i miei non sembravano essere da meno. Mi afferrò per i fianchi sollevandomi di peso, mettendomi a sedere sulla scrivania, sentii il rumore di qualcosa che cadeva ma non ci badai troppo impegnato a sbottonargli la camicia con frenesia e impazienza. Le sue labbra divoravano le mie, ogni volta che lo baciavo avevo come l’impressione che le nostre bocche fossero nate per combaciare perfettamente. Due tessere di un puzzle che si incastravano. Il suo sapore mi dava alla testa, tutto di lui sembrava farmi impazzire, persino i difetti o le manie, non c’era nulla che non amassi  adorassi di Enoch. Quando il rumore della cerniera squarciò il silenzio della mia camera, un altro ben più potente ci pietrificò sul posto.
«JOSHUA?» Spalancai gli occhi spingendolo con irruenza facendogli cenno di tacere, lo vidi scompigliarsi i capelli fissandomi come a dire ‘’che pensi di fare??’’, ottima domanda ma francamente non lo sapevo. Dietro la mia porta a giudicare dai timbri di voce c’erano tutti i nostri amici, probabilmente venuti a festeggiare e farmi una sorpresa.
«UN ATTIMO, SONO NUDO.» La risatina di Kevin indispettì Enoch, lo fermai poco prima che aprisse la porta e probabilmente gli sferrasse un cazzotto in faccia. Presi tempo accendendo la luce della lampada, trascinandolo verso il balcone, mi spinse a sua volta facendomi fermare.
«Sei impazzito, coniglietto nevrastenico? Stiamo al quarto piano e fa freddissimo, vuoi che resti sopra il cornicione a congelare??» Annuii e subito dopo scossi il capo energicamente, il panico mi stava sommergendo.
«Okay vai dentro l’armadio.» Sillabai quelle parole spingendolo dal lato opposto, aprii le ante ritrovandomi tutto il mio vestiario al completo, dannazione ma perché compravo cose così superflue? Sentii la maniglia girare a vuoto.
«JOSH MA CHE DIAVOLO STAI FACENDO LI’ DENTRO? APRI.» Enoch mi fissò soffocando una risata con la mano, io stavo per avere una crisi nervosa e lui rideva? Lo guardai meglio, aveva la camicia quasi del tutto sbottonata e i pantaloni aperti, che scusa potevo inventarmi in quel momento? Ero fottuto.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Written in stars. ***


XI.



Chiusi in fretta le ante dell’armadio lasciando Enoch lì dentro sommerso dai miei abiti, correndo ad aprire la porta trafelato.
«Ma che diamine stavi combinando?» Sophia mi fissò sospettosa e io riuscii a racimolare la parvenza di un sorriso mentre mi scostavo per farli passare.
«Scusate, non trovavo i pantaloni – OMMIODIO.» Urlai vedendo la torta sulla scrivania fiondandomi per nasconderla e coprirla con il mio corpo.
«Mi hai fatto prendere un colpo, ma perché urli..» Friedl si portò una mano al petto, okay dovevo calmarmi o mi avrebbero scoperto. Risi con indifferenza accampando come scusa plausibile la sorpresa di averli tutti lì con me quella sera. Intercettai gli occhi di Sophia sbarrando i miei e indicando l’armadio, speravo capisse.
«Vuoi che ti prenda una maglia?» Non capì.
«FERMA, NO.» La bloccai poco prima che aprisse le ante e forse a giudicare dal mio sguardo ormai prossimo a una crisi respiratoria la lampadina dentro al suo cervello sembrò illuminarsi. Spalancò la bocca indicandomi col capo l’armadio, quasi a volersene assicurare e quando feci di si con la testa iniziò a ridere.
«Ma che problemi avete voi due esattamente?» William ci fissò infastidito guardandosi poi attorno. «Josh ti abbiamo portato una torta per festeggiare, dove posso poggiarla?»
«Sapete che vi dico? Questa stanza è troppo stretta, mi sento svenire.» Sophia iniziò a sventolarsi fingendo un mancamento.
«Ma dove vuoi andare a quest’ora della notte?» Kevin la fissò stranito muovendo un passo verso di me, provai a intercettarlo e coprire la torta con un sorrisino fintamente rilassato.
«Andiamo nell’ala comune, che dite?» Quella di Sophia non era una richiesta ma un vero e proprio ordine mentre spingeva tutti fuori dalla camera ignorando le loro proteste.
«VI RAGGIUNGO SUBITO.» Provai a farmi sentire mentre la porta veniva chiusa e io mi accasciavo col batticuore. C’era mancato veramente pochissimo, dio mio. Il silenzio dentro l’armadio mi insospettì, andai ad aprire trovando Enoch con le mie mutande in mano, me le sventolò sotto al naso ridendo.
«Ma sul serio hai delle mutande con i gattini sopra? Ma allora hai davvero tre anni.» Iniziò a ridere come uno stronzo e io richiusi le ante mandandolo a quel paese.
 
Spensi le mie seconde candeline nel giro di un’ora tra le risate di quelli che ormai erano diventati i miei amici, proprio in quel momento comparve anche Enoch e notai che si era cambiato.
«Cosa si festeggia?» Ma quanto era falso?
«Il compleanno di Josh, ti abbiamo cercato in camera ma non c’eri..» Jane gli si avvicinò con un sorrisino malizioso che non mi piacque per niente, era come se gli stesse mandando un messaggio subliminale. Che avesse capito di noi?
«Auguri nano.» Mi sorrise perfettamente padrone di se, invece dei codici segreti dovevo farmi insegnare l’arte della ‘’presa per il culo’’, era davvero bravo in quello. Kevin mise un braccio sulle mie spalle e il suo sorriso sparì improvvisamente, provai a divincolarmi senza successo.
«Josh abbiamo un regalino per te .. cioè anche per te.» Anche? Scrutai i loro visi uno per uno e mi preoccupai ancora di più. L’ultimo che osservai fu quello di Enoch che scosse impercettibilmente il capo come a dire ‘’stavolta non c’entro, mi devi credere’’. Sophia mi consegnò una busta da lettere bianca, non era molto spessa e dentro sembrava esserci un foglio. Che fossero soldi? Non potevo accettarli in quel caso.. credo. Quando si parlava di denaro i miei solidi principi andavano a fare la siesta pomeridiana. Aprii la busta estraendo quello che a tutti gli effetti sembrava un biglietto aereo. Lo fissai in credulo.
«Ma questo è..»
«W LAS VEGAS.» Friedl lo urlò super eccitato stappando lo spumante e tutti lo seguirono a ruota, vidi Enoch avvicinarsi e togliermi di mano il biglietto.
«Avevo proprio voglia di sperperare il mio patrimonio al casinò. » Inarcai un sopracciglio provando a riprendere il MIO biglietto.
«Hai un patrimonio?»
«Ho anche una jacuzzi.. ti interessa?» Mi sorrise malizioso e io arrossii in maniera violenta riuscendo a riprendermi il regalo.
«Piantala..» mormorai quelle parole ficcandomi in bocca un pezzo di torta ignorando la sua risatina da stronzo. Un fine settimana a Las Vegas? Non riuscivo a crederci, avrei rivisto anche Shou e involontariamente sorrisi guardandoli tutti uno per uno, mi sentivo per la prima volta stranamente in pace con me stesso. Stavo con Enoch, ci volevamo pazzamente. Sarei tornato in quella che consideravo un poco una casa, e adesso avevo anche degli amici che sembravano volermi bene davvero. Non c’era nulla che potesse andare storto, o almeno lo speravo.
 
Il viaggio era previsto per quel venerdì, mancavano ormai due giorni e come mio solito avevo già sistemato il borsone riempiendolo di roba superflua. Avevo avvisato anche Shou del mio arrivo, si era mostrato contento concludendo infine con un lapidario ‘’devo parlarti a quattr’occhi’’ che non mi aveva rassicurato per niente.
William mi intercettò in caffetteria sedendosi al mio tavolo senza che lo avessi invitato, il suo sguardo non preannunciava nulla di buono mentre sorseggiava il caffè in silenzio. Mi guardai attorno a disagio, non sapevo bene cosa dire visto che ogni mio tentativo di socializzare sembrava cadere nel vuoto.
«Josh..» respirai profondamente sforzandomi di sorridere.
«Si?»
«Enoch ti ha mai detto che ama parecchio le stelle? Mi bloccai a quel nome riprendendomi subito dopo, mi tornò in mente una conversazione avuta con lui tempo prima, mi raccontò che amava fissare le stelle per rilassarsi e scacciare la malinconia.
«Credo me l’abbia accennato si..» feci il vago sorseggiando il mio latte macchiato col cacao. «Non ho mai approfondito, mi ha detto che gli piace semplicemente andarci in solitudine e—» non mi fece nemmeno completare il discorso.
«Mi ha chiesto di vederle con lui.» Il suo sorriso trionfante probabilmente era l’esatto opposto della mia espressione sgomenta.
«Ah si?» Strinsi forte il bicchiere mantenendo una parvenza di calma.
«Si, poco dopo il tuo ritorno da Mississipi. Restai sorpreso quando me lo propose, siamo rimasti insieme tutta la notte.» Avevo come l’impressione che volesse marchiarmi a fuoco nel cervello il concetto di ‘’tutta la notte’’, come se poi ce ne fosse bisogno. Era la prima cosa che avevo memorizzato mentre provavo a contenere la rabbia.
«Che vuoi esattamente William?» La mia solita espressione gentile lasciò il posto a una più severa, sentivo i lineamenti distorti da rabbia e un pizzico di dolore.
«Nulla, non posso parlartene? Ho come l’impressione che di recente il tuo atteggiamento con Enoch sia cambiato..» che figlio di puttana.
«E quindi vuoi assicurarti che io torni nel mio angolino?» La sua risata mi infastidì.
«Non ce n’è bisogno, hai mai visto le stelle con lui?» Il mio silenzio valse più di mille parole. «Beh, magari non sei la persona adatta, lo sai quant’è selettivo.» Si alzò lasciando i soldi sul tavolo, li fissai desiderando strapparglieli in faccia. Non riuscii a spiccicare parola mentre la rabbia ribolliva dentro il mio corpo corrodendomi. Non era semplice gelosia, ero avvezzo a quella perché l’avevo provata con Mattew, stavolta era qualcosa di ben più devastante, mi bloccava il respiro avvelenando persino la mia saliva. Il latte al cioccolato mi parve improvvisamente amaro.
 
«Ti ho cercato dappertutto.» Il suo sorriso solitamente era coinvolgente, quella volta restai apatico seduto sulla mia sedia.
«Adesso mi hai trovato.» Intuì subito che ci fosse qualcosa di strano, lo capii dal modo in cui aveva preso a fissarmi.
«C’è qualcosa che non va?»
«Hai detto che amavi vedere le stelle da solo, perché quando ti senti malinconico preferisci la solitudine e quello spettacolo ti rilassa.» Il mio tono apparentemente calmo lo insospettì ancora di più. Mi alzai piazzandomi vicino al mio letto a braccia incrociate.
«L’ho detto, si..» Ponderò con calma le parole muovendosi cautamente verso di me, probabilmente cercava di capire dove volessi andare a parare.
«Quindi, mi domando, per quale motivo sei andato a vedere le stelle con William?» La mia voce si ruppe lasciando fuoriuscire tutta la cattiveria che provavo.
«Ha importanza? Gli ho solo chiesto di uscire—» chiusi la mano destra imitando il becco di un uccello slanciandomi verso di lui.
«BLABLABLA, tutte stronzate.» Gliele conficcai nel petto più volte costringendolo a spostarsi, a quel punto la calma non sembrava più far parte nemmeno di lui.
«Perché diavolo stai facendo il pazzo adesso? E’ solo un’uscita del cazzo senza importanza.» Si passò una mano tra i capelli e io sorrisi senza gioia.
«A me non l’hai mai chiesto, che strano. Ti senti malinconico e preferisci la compagnia di William alla mia?» Soffiò fuori una risatina incredula che mi indispose ancora di più.
«Non so che dire, è assurdo.» Allargò le braccia fissandomi sprezzante.
«Non sai che dire perché non c’è un cazzo da dire, mi domando perché stai con me e non con lui.» Il silenzio piombò tra di noi come un’incudine pesantissima.
«Chi è Mattew?» Quella domanda mi spiazzò, sbattei le palpebre cercando di carpirne il senso.
«E tu come conosci Mattew?»
«Rispondimi, chi è Mattew?» La sua voce divenne tesa come il filo di un rasoio, avevo l’impressione che da qualsiasi parte mi sarei mosso questa mi avrebbe tagliato di netto.
«Una persona con cui stavo a Las Vegas anni fa ormai, perché parli di cose irrilevanti?» Mi innervosii domandandomi soprattutto come poteva conoscere quel nome, lui tra tutti soprattutto.
«E’ talmente irrilevante da avere la sua foto conservata nel cassetto?» Indicò la scrivania, lo fissai incredulo.
«Hai rovistato tra le mie cose?» Non era tanto quello a darmi fastidio, quanto più quel tono sottile di accusa e sfiducia che stava mostrando. In tutta onestà non ricordavo nemmeno più di avere quella foto, probabilmente durante il trasloco l’avevo portata con me senza rendermene conto.
«L’hai lasciata così in vista che pensavo volessi proprio farmela vedere.»
«Mattew è il passato Enoch, William no.» I nostri occhi si scontrarono con rabbia.
«Non ho chiesto a William di farmi compagnia con chissà quale scopo, perché cazzo mi vuoi crocifiggere per questa stronzata?» Alzò il tono della voce e io retrocessi di un passo, odiavo quando la gente perdeva la calma.
«Mi dispiace se le cose che mi fanno soffrire per te sono stronzate.» Il mio tono velenoso sembrò colpirlo peggio di uno schiaffo. Sollevò le mani scuotendo il capo.
«Sai che ti dico? Se soffri così tanto a stare con me dovresti semplicemente chiuderla qui.» Mi voltò le spalle sbattendo la porta, lasciandomi lì a chiedermi se avessi sul serio sentito quelle parole. Mi accasciai sul letto sentendo un buco nero spalancarsi all’altezza del mio stomaco, finiva così quindi? Mi ripromisi di non piangere fallendo miseramente. Come aveva potuto anche solo pensare di rompere così facilmente? Era questa tutta l’importanza che mi dava? I miei occhi corsero al cassetto della scrivania, mi diressi lì aprendolo e afferrando la foto di Mattew che notai sbucava da un’agendina ormai finita risalente all’anno precedente. I suoi occhi sembravano fissarmi e parlarmi, ma io ero sordo a quelle parole ormai. In un moto di rabbia strappai la foto in mille pezzi urlando.
 
*
 
La partenza per Las Vegas era prevista il giorno dopo, non vedeva Josh da quello precedente e nessun messaggio era arrivato al suo cellulare. Si era pentito di quella frase detta per rabbia nell’istante in cui aveva finito di pronunciarla, sarebbe dovuto restare lì e chiarire quella farsa ma soprattutto chiedere spiegazioni su Mattew in maniera meno irruente. Non aveva ben chiaro il motivo per cui ogni volta che pensava a quel fantomatico ex la mente andava in cortocircuito, non era semplice gelosia, non erano le stesse sensazioni provate con Kevin. Il pensiero che quella persona lo avesse avuto per se, anche in maniera intima, che gli avesse sussurrato all’orecchio le frasi che ogni amante diceva alla persona che amava, Enoch semplicemente non ci vedeva più dalla rabbia e dal dolore. Come ci si poteva scontrare con un passato troppo presente? Come ci si poteva mettere a paragone senza avere il timore di uscirne sconfitto? Si alzò da quel letto sentendo il respiro farsi più difficile, non poteva partire con quello stato d’animo.
Bussò discretamente alla porta di Joshua sperando fosse ancora sveglio, o sperando magari che non lo ignorasse intuendo che fosse lui e non qualcun altro a quell’ora tarda. Quando se lo ritrovò davanti non seppe  bene cosa dire, da qualche tempo a quella parte sentiva di avere difficoltà a esprimersi come ogni volta che lo aveva attorno e doveva descrivere il peso di ciò che provava per lui. Gli occhi nocciola del ragazzo sembrarono riempirsi di paura, pensava fosse lì per concludere la loro storia? Joshua gli voltò le spalle tornando a rintanarsi sotto le coperte.
«Non ho voglia di parlare, possiamo rimandare?»
«No non possiamo, e comunque devo parlare io non tu.» Senza attendere risposta scostò le coperte stendendosi accanto al ragazzo, abbracciandolo da dietro. Il suo corpo morbido e caldo era come un balsamo che curava ogni ferita, il posto perfetto per lui era tra le sue braccia. Josh non si mosse, sembrava controllare persino i suoi respiri e questo fece sorridere Enoch.
«Mi dispiace per quello che ho detto.. non lo pensavo. Non riesco nemmeno a concepire di non averti visto per un intero giorno, figurati per tutta la mia vita.» Strinse ancora di più la presa poggiando il viso contro la sua nuca, respirandone l’odore. «Ho chiesto a William di venire con me, è vero. L’ho fatto quando tentavo disperatamente di arginare quello che provo per te, e so che questa non è una scusa, lo so.. però—» si stoppò osservando l’altro muoversi e girarsi, piazzandosi faccia a faccia con lui.
«Però?» Sorrise di fronte a quegli occhi dolci, l’espressione insicura e i tratti delicati. Sopperì l’impulso di baciarlo, ma la portata dei suoi sentimenti sembrò cadergli addosso come un macigno.
 «Guardare le stelle, la vastità del cielo, mi ha sempre calmato soprattutto nei miei periodi più neri. Dopo aver conosciuto te però ho smesso quasi del tutto, ho scoperto che c’era qualcosa di più calmante delle stelle, e sai cosa?» attese di vederlo scuotere il capo prima di continuare. «Le tue fossette. Ho scoperto che avevo bisogno solo di quelle per sentirmi meglio, mi bastava vederti sorridere per tornare a respirare; che motivo avevo di chiederti di guardare le stelle con me se avevo la più bella vicino?» Joshua seppellì il viso contro il suo petto stringendolo con forza.
«Promettimi che non dirai mai più di lasciarci.» lo guardò con forza. «Promettimelo.»
«Te lo prometto..» lo baciò con desiderio e la tipica disperazione dei bugiardi fusi insieme al pari delle loro lingue, ritrovandosi senza fiato.
«Voglio parlarti di Mattew.» A quel nome si irrigidì ma annuì ugualmente, supponeva che quella fosse la notte giusta per i chiarimenti; sotto quelle coperte, laddove esistevano solo loro. Ascoltò Joshua parlare di quel passato fino a pochi minuti prima totalmente sconosciuto per lui, scoprì i motivi per cui era finita tra loro. «Tu non sei come lui, non lo sei mai stato. Ogni volta che pensavo a me e Mattew uniti in una relazione sentivo il respiro venire meno; quando penso a te, sento di non riuscire a respirare per l’esatto opposto. Non posso farti un paragone.. perché non esiste un reale paragone tra di voi. Hai visto la tua foto nel cassetto?» Enoch annuì impercettibilmente. «Non ho scritto il tuo nome, ma ‘’lui’’ perché dentro quella singola parola c’è tutto il peso delle cose che provo e non riesco probabilmente a dirti.»
«Sei ancora arrabbiato con me?» La sua voce esitante fece sorridere Joshua che scosse il capo.
«Non lo sono mai stato credo, ero solo spaventato.. da oggi  quando litighiamo possiamo non voltarci le spalle, e provare a chiarire?»
«Magari sotto le coperte?» Le mani di Enoch divennero improvvisamente insistenti mentre si insinuavano sotto la maglia dell’altro.
«Non è per niente una cattiva idea..»

 
*
 
Avevo lasciato tutto il gruppo a poltrire in albergo e decidere cosa fare durante la sera, alcuni volevano rimanere lì e giocare al casinò sottostante mentre altri volevano girare un po’ per le vie illuminate della notte. Per quanto mi riguardava facevo schifo nel gioco d’azzardo e conoscevo la città benissimo quindi sarebbe stata indifferente la scelta, avrei semplicemente seguito Enoch. Approfittai di quelle ore per andare da Shou, curioso di sapere cosa avesse di così importante da dirmi, quando entrai nel suo ufficio la prima cosa che vidi fu il suo occhio nero.
«Non me lo dire ti prego, hai allacciato rapporti con un’altra donna sposata?» Mi scoccò un’occhiata risentita.
«Sei entrato da due secondi e già rompi il cazzo?» Ci fissammo sorridendo per poi abbracciarci con forza. Il suo ufficio non era cambiato di una virgola, ancora disordinato e pieno di cartelle da completare, non capivo come facessero i suoi clienti ad avere così tanta pazienza. Tempo prima quando glielo avevo chiesto si era limitato a dire ‘’quando c’è di mezzo la tua infelicità, prendere tempo non è così male’’ scrollando le spalle.
«Quindi, come sta andando il migliore studente di Yale?» A quelle parole mi atteggiai un po’ vantandomi dei miei successi scolastici, e parlandogli di Enoch. «A proposito di fidanzati..» le premesse non sembravano delle migliori. «Mattew è stato qui tre giorni fa, sembrava un invasato pazzo. Più invasato del solito, per intenderci.»
Shou non aveva mai nutrito una grande stima per il mio ormai ‘’ex’’, si era sempre mostrato contrario alla nostra relazione e quando era finita non si era nemmeno sprecato a fingere gli dispiacesse.
«Che voleva da te Mattew?» Mi mossi a disagio sulla sedia dimenticando il tè freddo che stavo bevendo.
«Non chiedermi come ma ha saputo del tuo incidente, voleva sapere perché non fosse stato informato. Prima che tu lo chieda: l’ho mandato a farsi fottere.» Lo fissai attentamente e improvvisamente ebbi un lampo di genio.
«Ti prego, ti prego, non dirmi che l’occhio nero—» non mi lasciò finire annuendo.
«Si. Ma non credere che lui sia messo meglio.» Mi coprii le mani con la faccia soffocando un urlo nevrastenico.
«HAI FATTO A PUGNI CON MATTEW?»
«Non è che se lo urli il peso della cosa cambi.» Odiavo il suo modo sbrigativo di mettermi a tacere, mi trattava sempre in quel modo quando capiva che stavo per partire con le mie ramanzine.
«Ti sei bevuto il cervello?»
«No, e poi volevo suonargliele da tempo. Non l’ho mai sopportato, veniva qui con quell’aria di comando come se fossi di sua proprietà.» Una punta di gelosia fece capolino dalla sua voce, per Shou ero sempre stato come un fratello minore riuscivo a comprendere come si sentisse in effetti.
«E tu che gli hai detto?»
«Nulla, che sapevo tu non avresti voluto lui sapesse e che trovavo ridicolo il suo interesse adesso, a due mesi dal suo matrimonio di merda.» Avevo quasi scordato quel particolare, cercai dentro di me tracce di delusione come la prima volta in cui ne ero venuto a conoscenza, ma queste non apparvero.
«E’ ancora qui?» L’ansia tornò a dominarmi, non potevo rischiare di incontrarlo con Enoch, già mi vedevo a trascinarmelo sul primo aereo per il Connecticut.
«Non credo, gli ho detto che non vivi più a Las Vegas e ovviamente gli ho detto che era più probabile mi vestissi da donna andando a battere in strada, piuttosto che dirgli dove fossi.» Afferrò il mio bicchiere scolandosene quasi la metà; era sempre così con lui, offriva e poi si riprendeva tutto.
«Ti ho portato un altro assegno..» lo estrassi dalla tasca dei miei jeans poggiandolo sulla scrivania, lo vidi fissarlo corrucciato e spingerlo con le dita nella mia direzione.
«Senti Josh, ma non possiamo evitare? Puoi tornarmi questi soldi quando avrai un lavoro più remunerato, seriamente non ho incassato nemmeno uno degli assegni che mi hai inviato.» mi sporsi con irruenza verso di lui.
«MA ALLORA SEI STRONZO. HAI IDEA DI QUANTO C’HO MESSO A RACCIMOLARLI.» Mi piazzò una mano in faccia, era talmente grande che mi copriva del tutto, spingendomi nuovamente a sedere.
«Prima di tutto non invadere il mio spazio vitale, grazie, secondariamente: pensi Joel li abbia incassati? Oh andiamo Josh, sei assurdo. Non ti sto dicendo che non voglio tu saldi il debito, ti sto dicendo di farlo quando avrai una stabilità economica magari..» mi ripresi l’assegno e la mia espressione abbattuta e contrariata lo fece ridere.
«Non ridere testa di cazzo, se vuoi che mi riprenda questo assegno incassa gli altri tre o giuro che—» annuì senza farmi finire. «A proposito.. hai ancora le chiavi del mio appartamento?»
«Certo, non l’ho affittato.. perché? Pensavo stessi in albergo.» Sigillai le labbra per poi sorridere in maniera stucchevole, non cadde nel mio tranello continuando a fissarmi.
«Voglio solo andarci, mi manca..» aggrottò la fronte.
«Josh tu detestavi quella casa, mi hai rotto il cazzo per mesi dicendomi di piazzarci un ascensore.»
«STAVO AL QUINTO PIANO.» Persi un po’ della mia calma moderandomi subito dopo e tornando a sorridere dolcemente.
«Mi fai paura.. senti non mi importa, tieni queste dannate chiavi e tornamele prima di andartene.» Afferrai il portachiavi con un urletto felice.
«Ti amo!»
 
 
«Quindi ricapitolando, mi stai portando nel tuo vecchio appartamento?» Gli strinsi la mano con più forza annuendo contento.
«Ho pensato che farti vedere un pezzo del mio passato avrebbe aiutato..» non ci fu bisogno di altre parole, ricordavamo ancora entrambi la lite di due giorni prima. Avevo capito che il suo problema non era Mattew in se, ma le cose che pensava potessi aver fatto con l’altro piuttosto che con lui. Come per esempio vedere la casa nella quale avevo vissuto per due anni. Il palazzo a sei piani un po’ fatiscente sorgeva distante dalla zona più chic della città, Shou aveva comprato quell’appartamento quando i prezzi erano crollati assicurandoselo per una cifra irrisoria e guadagnandoci poi con i soldi dell’affitto, me lo aveva ceduto quando l’ultima padrona di casa aveva pensato bene di sbattermi fuori dal mio monolocale a causa del mio gatto. Ripensai a TJ, lo avevo chiamato così in onore di quel fratello che pensavo mi amasse.. sentii un sordo dolore al petto e mi avvicinai inconsciamente a Enoch.
«Che hai?» La sua voce dolce mi riportò lì con lui, sorrisi sistemandogli i capelli perennemente disordinati.
«Nulla, siamo arrivati.» Mi scoprii ancora fortemente odioso nei confronti di quelle dannate scale, sembrava la croce della mia vita quella di vivere ai piani ‘’alti’’ senza uno schifo di ascensore. La casa era immersa nel buio, esattamente come l’avevo lasciata ma coi mobili coperti da lenzuola bianche. Provammo ad accendere la luce scoprendo che non c’era, maledetto Shou ero sicuro non avesse pagato più le bollette.
«Magari con la torcia del telefonino..» sentii Enoch ridere e prendermi per mano, iniziammo così a girare per casa. Non era molto grande, solo due stanze una delle quali era stata la mia ‘’camera oscura’’ per tutto il tempo del mio soggiorno. In bagno una doccia microscopica nella quale entravo solo io a causa della mia stazza minuta.
«E’ carina come te..» fissò la parete lilla della mia camera da letto, l’avevo fatta ritinteggiare al mio arrivo disegnandoci sopra un fiore di loto nero e stilizzato.
«Ti piace?» Non sapevo bene perché mormorassi piuttosto che parlare ad alta voce, forse a causa dell’ansia nel rendermi conto di essere solo con lui in una casa deserta.
«Mi piaci di più tu.» Le sue labbra cercarono improvvisamente le mie, sentii quelle mani artigliarmi e trascinarmi verso il letto senza lenzuola. Nessuno sarebbe entrato lì, nessuna festa a sorpresa, nessun sordo bussare ma soprattutto nessuna preoccupazione di fare rumore.
Mi spogliò con urgenza fissandomi con venerazione, come se fossi la cosa più bella che avesse mai visto ed era un po’ così che mi faceva sentire. Presi coraggio imitandolo, togliendogli la felpa e infine i jeans, pelle contro pelle sentivo la mia bruciare e liquefarsi a contatto con quella più fresca di lui. Le sue mani su di me sembravano incandescenti, come se ogni tocco lasciasse il suo marchio facendomi ansimare di piacere. Non so bene perché proprio in quel momento decisi di guardare ‘’li sotto’’ ma probabilmente sbagliai bloccandomi.
«Aspetta..» la mia voce pregna di ansia lo mise in allarme, lo scostai scuotendo appena il capo. «Forse è il caso di amarci platonicamente, tu che ne pensi..?»
«Non era proprio l’amore platonico a cui pensavo in questo momento..» Vidi i suoi occhi confusi che seguivano il mio sguardo, la traiettoria era inequivocabile. Scoppiò a ridere bloccandomi sotto il suo peso, mettendomi a tacere con le sue labbra. «Puoi fidarti di me? Non voglio farti male..» non ero molto sicuro riguardo l’ultimo punto, ma se la mia mente diceva una cosa il corpo e il cuore segnavano il completo opposto. Sotto l’assalto serrato delle sue carezze il mio intero essere sembrò rilassarsi e tendersi ancora come una corda di violino.
Non riuscivo a spiegare le sensazioni provate, annegavo in quegli occhi blu che mi sussurravano segreti inconfessabili mentre la bocca era impegnata ad amarmi con ogni modo possibile. Affondai le dita nella sua schiena sentendomi squarciare quasi, stringendo gli occhi fino alle lacrime mentre un lamento proruppe senza che potessi fermarlo. Mi sentivo andare a fuoco, letteralmente. Ma quella sensazione d’incendio concentrata in un solo punto a ogni spinta dentro di me sembrava dilagarsi e divampare lungo tutto il corpo. Scordai persino il mio nome su quel letto, mentre urlavo invece il suo di nome con tutto il fiato che avevo. Il nome della persona che mi aveva fatto suo, completamente.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** And you will feel love as you've never felt it before ***


XII.



Trovammo del tonno dimenticato in uno degli scaffali della cucina, lo dividemmo fissandoci e ridendo per poi dormire usando i nostri giubbotti come coperte. Forse per chiunque quella non era di certo la notte più romantica del mondo, mentre io sentivo come se non potesse esserci nulla di più speciale. Non riuscivo a ricordare un singolo giorno memorabile come quello, era stato tutto perfetto dall’inizio alla fine.
«Ricordi quando parlai del ‘’koi no Yokan’’?» le sue dita carezzavano la mia schiena nuda, mi feci più vicino annuendo. «Parlavo di te, mentre descrivevo cosa fosse guardavo e pensavo a te.»
«Pensi io sia la tua metà?» Mi baciò con trasporto e io ricambiai con la medesima intensità, le nostre gambe nude e intrecciate sembravano donarsi calore a vicenda. Capii perché aveva riso quando spinto dalla gelosia gli avevo consigliato di guardarsi attorno, praticamente inconsapevolmente avevo provato ad allontanarlo da me.
«Sei molto più di quello, e sono sicuro che t’avrei incontrato, magari non oggi ma in futuro si..» gli sistemai i capelli ribelli, sorridendo.
«Mi sarei preso una cotta per te in qualsiasi modo e in qualsiasi luogo ci avesse visto insieme.» Adesso definirla ‘’cotta’’ mi faceva sentire come un bugiardo, come se sminuissi tutto quello che sentivo di provare per lui e che proprio in quel momento comprimeva il mio petto.
«Voglio che ricordi ogni momento come questo, tutte le cose che provi quando mi guardi o mi baci..» vidi le sue iridi tremare appena, la voce insicura.
«Come potrei dimenticarle?» Mi sembrava impossibile. Mi guardò come se volesse aggiungere qualcosa ma alla fine desistette abbracciandomi, e stretto a me così si addormentò. Enoch era come un contenitore nella quale ristagnavano sul fondo parecchie insicurezze, e io se da un lato le colmavo dall’altro sembravo l’accelerante che le faceva sbucare tutte fuori; amarlo sembrava l’unica soluzione affinché capisse che a quel mondo non sempre venivi bistrattato da chi diceva di amarti. Per questo lo definivo la mia metà perfetta, ciò che mancava a Enoch mancava anche a me, e se da un lato io colmavo lui dall’altro lui colmava me.
 
William, Kevin e Dexter sembravano aver deciso di perdere anche la dignità alla roulette mentre Sophia e Jane avevano preso l’ingrato compito di supportarli. Enoch teneva gli occhi fissi su una delle slot, stava seduto lì da mezzora e non capivo se avesse perso o vinto in tutta franchezza. Io e Friedl invece sedevamo sulle comode poltroncine poco distanti a sorseggiare un intruglio sicuramente alcolico fingendo di essere a nostro agio.
«Pensi abbiano abbastanza denaro per restare seduti lì tutta la notte?»
«Sto pregando intensamente che non sia così..» le nostre voci affrante ci costrinsero a guardarci per un secondo scoppiando poi a ridere nel medesimo istante. Mi sentii nuovamente in colpa, stavo con il ragazzo per la quale aveva una cotta paurosa ormai da due anni e non potevo dirgli nulla. O forse non volevo. Se Enoch quella sera stessa mi avesse detto che voleva dire tutto al gruppo, avrei avuto abbastanza coraggio da affrontare Friedl? Purtroppo si, lo avrei avuto, perché l’amore ti rende tremendamente egoista; volevo solo avere la mia occasione per poter dire ‘’lui è mio’’, ma sembrava un continuo dovermi sopprimere.
«La scorsa notte non hai dormito in albergo?» Mi mossi a disagio nella sedia mettendo su un’espressione evasiva.
«Oh no, dovevo vedere un mio vecchio amico..» Shou era di sicuro la mia carta vincente.
«Nemmeno Enoch era in camera.» le mie sicurezze si sgretolarono come quando le onde dispettose rovinavano il tuo castello di sabbia.
«Cosa vuoi che ti dica Friedl?» Lo fissai stancamente, mentire era qualcosa che da sempre mi opprimeva, non ero bravo a farlo e inoltre portavo già il peso della menzogna sulla coscienza, e non aveva nulla a che vedere con la mia relazione attuale.
«Ti userà e poi ti getterà via, come fa sempre.»
«Non sai ciò che dici, nemmeno lo conosci..» mormorai a stento quelle parole bevendo avidamente dal mio bicchiere, l’alcool mi fece girare la testa.
«Oh, tu invece pensi di conoscerlo bene?» Seguii la traiettoria del suo sguardo, Enoch si era spostato al tavolo della roulette, accanto a lui Jane con una mano sul suo braccio.
«Meglio di te sicuramente, se lo conoscessi non avresti bisogno di usare questi mezzucci con me.» ci fissammo astiosi per qualche istante e alla fine lo vidi sorridere.
«E’ stato lui a decidere di non dire nulla di voi, vero?» Il suo tono sicuro mi indispose e ferì allo stesso tempo, non trovai nulla di intelligente da dire e negarlo mi sembrava patetico. «Puoi anche recitare la parte dell’ingenuo, ma io so bene a cosa stai pensando in questo preciso momento.. e credimi, potresti avere ragione.» si alzò lasciandomi lì da solo a guardare la condensa formarsi sul bicchiere di vetro. Aveva ragione lui, nella mia mente erano vorticati centinaia di pensieri sull’argomento, tutte scuse che mi ero più o meno dato. Ma ce n’era uno, un singolo pensiero, che stava piantato come un chiodo arrugginito dentro la mia testa costringendola a dolere fin quasi a scoppiare. Guardai nuovamente Enoch, aveva avuto sempre e solo relazioni eterosessuali.. non voleva dire di noi perché si vergognava di me e di se stesso? Ciò che non tolleravo in quel momento era il fatto che Friedl mi avesse letto dentro, perché non poteva farlo anche il mio ‘’ragazzo’’ e tranquillizzarmi? Forse non gliene importava, o peggio ancora non sapeva come arginare la verità.
Las Vegas di notte era uno spettacolo interamente costruito dall’uomo, con le sue fontane immense e luminose, i suoi casinò super lusso, la vita scorreva a fiumi riversandosi su quelle strade. La mezzanotte era passata da un bel po’, ma nessuno sembrava intenzionato a tornare in albergo forse perché il giorno dopo la nostra solita routine ci sarebbe piombata addosso nuovamente?   
«Se penso a quanto ho perso a quella maledetta roulette, vorrei schiantarmi qui sull’asfalto e finire i miei giorni disperandomi.» Kevin si gettò su di me a peso morto piagnucolando, rendendomi difficoltoso persino camminare, sentivo gli occhi di Enoch incenerirmi la schiena ma che pretendeva facessi? Non potevo dire di noi, ma allo stesso tempo dovevo tenermi lontano da Kevin, pensava avessi dei super poteri in grado di far tutto nel modo corretto tenendomi in equilibrio con quella farsa? Mi sentii improvvisamente stanco.
«‘’Punta sul tre nero, è vincente’’, vincente un cazzo.» William gli fece il verso per poi colpirlo alla testa con stizza.
«Siete degli inetti.» Jane sbuffò con la partecipazione attiva di Sophia che comunque tra tutti era di sicuro quella messa meglio, se consideravamo quanto avesse rimorchiato per tutta la sera.
«Sono stanco, credo tornerò in albergo.» Mi scrollai dalla presa di Kevin sfregandomi l’occhio, non ero sicuro fosse stanchezza fisica o tutto quell’insieme di delusione e pressione che gravavano sulle mie spalle. Friedl non aveva spiccicato parola per tutta la sera, mi chiedevo se stesse pensando di dire a tutti ciò che ormai sapeva con certezza.
«Vengo con te, sono stanco anch’io.» Enoch si mise in mezzo facendomi cenno di andare, ignorai le occhiate altrui limitandomi a seguirlo con passo strascicato. Se c’era una cosa che avevo imparato in un mese di relazione era che una singola persona poteva essere in grado di scuotere il tuo asse peggio di un terremoto violento. Amare a volte sembrava sul serio terrificante.
 
«Sei pallido, ti senti male?» Afferrò il mio viso senza incertezze fissandomi attentamente, stavamo fermi di fronte la mia porta in attesa di entrare. Sorrisi allontanandomi appena dalla sua presa.
«Sto bene davvero, è tutta questione di riposo..» estrassi la carta magnetica continuando e sentirmi scrutato dai suoi occhi, era difficile concentrarsi quando Enoch ti fissava. Supponevo che per capirlo bisognava passarci almeno una volta.
«Lo avevi promesso.» il suo tono ferito mi bloccò poco prima di entrare, lo fissai aggrottando la fronte. «Avevi promesso che non mi avresti voltato le spalle quando eri arrabbiato per qualcosa.»
 «Non sono arrabbiato..» in effetti non lo ero, stavo più sul deluso al momento. Non capivo però se da me stesso o da lui, o semplicemente da quella situazione. Mi spinse dentro la camera senza aggiungere altro richiudendosi la porta alle spalle e accendendo le luci, il letto era intatto proprio come l’avevo lasciato il giorno prima.
«Che hai, Josh?» Mi sedetti sulla poltrona togliendo le scarpe con un sospiro, volevo fare un bagno caldo e poi sprofondare sotto le coperte.
«Friedl sa.» Non mi sprecai a specificare cosa ‘’sapesse’’, supponevo fosse abbastanza ovvio. Il suo silenzio mi portò a guardarlo, era poggiato al tavolo con le braccia incrociate e mi fissava.
«E sei arrabbiato per questo?» Inarcai un sopracciglio, me lo stava chiedendo seriamente?
«No, e ti ho detto che non sono arrabbiato.» Allungai un braccio trascinando il borsone ai miei piedi, estraendo una felpa pulita per la notte.
«La suspense è divertente i primi due minuti, dopo cinque inizia a farmi incazzare.» Da come lo aveva detto non avevo motivo di non credergli.
«Quando Jane ti si è avvicinata poco fa a te è passato per la mente, anche solo per un singolo secondo, di dirle ‘’sono fidanzato’’?» sembrò spiazzato dalla mia domanda, tamburellò le dita contro la superficie lucida in maniera nervosa.
«Josh, ne abbiamo già parlato—» ero stanco di continuare quella conversazione.
«Hai ragione, lo abbiamo già fatto quindi risparmiamocelo adesso.» Mi alzai chiudendomi nel bagno, fissando il mio riflesso allo specchio e poggiandomi al lavandino che sembrava più un supporto in quel momento. Due secondi dopo spalancai la porta ritrovandomelo nella medesima posizione in cui l’avevo lasciato. «Ti vergogni di me, Enoch?»
«Ma che stai dicendo.» I suoi occhi sorpresi sembravano sinceri, eppure in quel momento mi sentivo così demoralizzato.
«E’ per questo che non vuoi dire di noi? Perché sono un ragazzo? Temi che Jane e gli altri riderebbero di te, vero?»
«Non è ciò che penso, credi che non voglia dirlo per questo? Non ci posso credere.. è a questo che hai pensato sin dall’inizio..» Ci fissammo soppesandoci, da un lato c’era lui totalmente incredulo e dall’altro io che faticavo a non tremare. Alla fine scossi il capo sorridendo.
«Mi dispiace, non volevo dire quelle cose, sono solo stanco.. chiudi la porta quando vai via.» Mi richiusi in bagno restando poggiato alla parete. Negare, negare e ancora negare, in questo modo forse avrei ritardato qualcosa che pensavo mi avrebbe fatto soffrire. Ricordai le parole di Shou: quando c’è di mezzo la tua infelicità, prendere tempo non è così male.
Sentii la porta sbattere con forza e capii di essere rimasto solo.

 
*
 
Il pazzo week-end a Las Vegas era ormai finito, come ogni cosa bella aveva trovato la sua conclusione. Enoch si ritrovò a pensare se davvero tutte le cose belle fossero destinate a finire, e se fosse così davvero anche la sua storia con Joshua si sarebbe presto conclusa? Non smetteva di pensare alla loro discussione in albergo, aveva preferito andarsene via piuttosto che restare lì e magari chiarire. In questo modo supponeva di aver solo aumentato i dubbi del fidanzato in merito alla clandestinità della loro relazione. Non capiva come ma da qualche tempo a quella parte stava sempre sull’orlo dei bivi, e a portarcelo era sempre la stessa persona. Joshua capovolgeva la sua intera esistenza, tutto quello che Enoch provava per lui lo portava a muoversi continuamente, a cambiare sempre rotta, a infrangere ogni sua credenza. Un amore mai statico.
Entrò nell’ufficio del nonno trovandosi il quadretto familiare al gran completo, persino quel verme di Raymond sedeva composto. Sembrava avesse perennemente un palo ficcato su per il retto, l’ultima volta in cui glielo aveva detto si era beccato una sberla in pieno viso, a dodici anni supponeva fosse semplice farsi schiacciare dalla legge del più forte, ma adesso? Doveva ridirglielo e vedere la reazione? Quel pensiero lo fece sorridere mentre prendeva posto di fronte a loro.
«A cosa devo questa bellissima riunione familiare.» Madalyn lo fissò con disapprovazione, la lingua biforcuta era una delle poche cose che Enoch aveva ereditato dal padre e questo la costringeva costantemente a pensarlo. Pensare a Evrard non le piaceva, era scomodo come sedere su un letto di aghi roventi.
«Io e Raymond partiremo la prossima settimana, vogliamo passare il Natale a sciare.»
«Ti ringrazio per la tua premura nel mettermi al corrente dei tuoi piani, mi domando quale fatale errore io abbia fatto per convincerti che me ne freghi qualcosa.» Arthur sbatté la mano sul tavolo, di recente sembrava fosse tornato al suo vizietto con l’alcool.
«Piantala. Ti stiamo avvisando affinché tu non combini stronzate durante la nostra assenza.» Enoch si rilassò sulla poltrona fissando Raymond, l’uomo sembrava perennemente a disagio sotto lo sguardo scrutatore di quegli occhi blu.
«Non temere, non andrò in giro per i corridoio urlando cosa fa il rettore in camera da lett—» Madalyn si alzò.
«Basta.» Sillabò quelle parole con rabbia e il figlio sorrise imitandola, la superava di parecchi centimetri, rendendo l’altezza della donna quasi ridicola.
«Sei una mina impazzita Enoch, un pericolo per te stesso e per gli altri, neppure un ricovero potrebbe aiutarti.» La voce melliflua di Raymond spezzò il silenzio saturando al massimo la tensione. Il ragazzo lo fissò attentamente piegandosi appena.
«Lo vuoi un consiglio? Stai più sciolto i tuoi studenti sono convinti che porti un paletto su per il culo, e pensano ti piaccia anche.» Raymond si alzò infuriato ma fu tutto inutile, Enoch lo spinse con rabbia facendolo miseramente cadere a sedere con un tonfo.
«ENOCH.» L’urlo della madre non servì a nulla, il figlio stava già abbandonando quella camera infernale incurante dei loro strepiti.
Ingerì una compressa sentendo la tensione irradiarsi in ogni muscolo del suo corpo arrivando fino alla punta delle dita, sentiva di essere a soqquadro dentro e l’unica persona che poteva calmarlo supponeva fosse in camera propria. Fu lì che si diresse Enoch, quando Joshua aprì non gli diede nemmeno il tempo di parlare, si avventò sulle sue labbra richiudendosi la porta alle spalle; era come il salvagente quando sentiva di stare per annegare, la sua ancora per non andare alla deriva. Era lui quindi la famosa soluzione alla sua vita?
 
Il periodo natalizio per molti era pregno di magia, poteva vederlo dallo sguardo gioioso di Jane già pronta a gustarsi i suoi giorni in compagnia della famiglia. Enoch era la classica persona che vedeva il Natale come qualcosa di altamente cancerogeno, la classica festa che metteva soltanto in evidenza le lacune familiari che ogni essere umano aveva. Si massaggiò la tempia che pulsava fissando Joshua seduto tra Sophia e William, sembrava così piccolo e indifeso. Il pensiero che fosse ancora scosso dalla loro discussione in albergo lo tormentava, voleva rimediare ma sembrava non trovar mai il modo adatto.
«Restare a Yale è seriamente da sfigati, come diamine mi sono ridotto in questo stato?» A quanto pare i genitori di William avevano pensato bene di organizzare una crociera e godersi finalmente una vacanza senza i figli in mezzo, e questo il loro secondogenito non lo aveva apprezzato molto. Gli occhi blu di Enoch si spostarono su Kevin, si era seduto sul bracciolo del divano, a dividerlo da Joshua solo il corpo smilzo di Sophia. Doveva per forza stargli così addosso? ‘’Chi glielo impedisce? Tu, forse? Sei ridicolo’’, il suo cervello lo redarguì con cattiveria. Fletté le dita della mano guardando le vene in rilievo, continuava a sentirsi fuoriposto, una sensazione strana ma strisciante e pressante allo stesso tempo; solo quando guardava verso il fidanzato sentiva di poter trovare la pace e un posto in quel mondo.
«Josh vuoi uscire con me la vigilia di Natale?» Enoch fissò il fidanzato che sembrava in difficoltà di fronte la proposta di Kevin.
«Ecco, io—»
«Dai, tanto che hai da fare? Quantomeno con me sei sicuro di divertirti.» L’idea che poteva avere di ‘’divertimento’’ faceva incazzare Enoch più di qualsiasi altra cosa.
«Non può, è impegnato con me.» sentì gli occhi di tutti addosso a se, e per una volta non se ne dispiacque. «Passeremo insieme il natale.. non è questo che fanno i fidanzati?» A quelle parole Joshua si afflosciò sul divano incredulo mentre Sophia sorrideva soddisfatta.
«Quando pensavi di dircelo? Dio santo, mi sono apparse le rughe nell’attesa.» Il tono divertito di Jane non coinvolse tutti, Kevin si rabbuiò alzandosi mentre Friedl uscì dalla camera sbattendo la porta.
«Qualcuno vuole scommettere sulla durata?» La voce altezzosa di William fece scattare Joshua.
«Tu pensa alla durata delle tue relazioni, ammesso qualcuno ti sopporti, che alla nostra ci pensiamo noi.» Il tono polemico ma sicuro inorgoglì Enoch che si limitò a sorridere, per la prima volta dopo giorni gli occhi del fidanzato erano tornati a illuminarsi proprio come piaceva a lui. Capì di aver fatto la cosa giusta, alle conseguenze ci avrebbe pensato dopo. Sentiva come se non ci fosse nulla che non potesse arginare se si trattava di proteggere Josh, si sarebbe messo tra lui e qualsiasi cosa lo minacciasse
.
 
*
 
«Quando pensavi di dirmi che avremmo passato il Natale insieme?» Osservai le nostre dita intrecciate, la mia pelle nuda sapeva ancora di lui mentre tentavo di stargli quanto più vicino possibile in quel letto già sin troppo piccolo per due persone.
«Perché, avevi altri impegni?» Sorrisi di fronte al suo tono piccato mordendogli scherzosamente la spalla. «Ho saputo giusto ieri che avrei avuto casa libera, ho pensato che sarebbe stato carino..»
«Lo è.» Lo interruppi con troppa enfasi, sperando di trasmettergli tutta la mia felicità, da quando aveva finalmente detto di noi sentivo come se mi si fosse tolto un peso dallo stomaco. Gli accarezzai i capelli ancora un po’ umidi.
«Andremo il 24 mattina, compriamo tutto il necessario per restare lì fino al 26.. tre giorni solo per noi Josh.» Mi fissò intensamente, la sua mano sulla mia guancia era così calda e io ero così innamorato di lui. Non avevo il coraggio di dirglielo, temevo fosse ancora troppo presto e che stessi tirando un po’ troppo la corda con Enoch. Per me aveva già fatto molto, aveva stravolto il suo intero essere per venirmi incontro, mi sentivo così grato.. temevo fosse il massimo che potevo chiedere, eppure mi bastava. Mi sarebbe bastato per sempre se questo mi avrebbe assicurato di potergli stare accanto.
«Ho una condizione..» inarcò un sopracciglio e io sorrisi con la mia aria da furbetto.
«Quale?»
«Voglio fare l’albero.» Scoppiò a ridere abbracciandomi, sussurrandomi un ‘’tutto quello che vuoi’’ che per un motivo a me sconosciuto mi fece venire una gran voglia di piangere; le sue labbra cercarono le mie con quel suo solito modo prepotente e io sentii nuovamente la mia voglia coincidere con la sua. Le sue mani ovunque su di me mi strappavano gemiti impossibili da reprimere, mentre tornava a farmi suo con quei movimenti incessanti e incalzanti. A volte era così irruente da farmi pensare fosse disperato nel volermi, come se volesse entrarmi dentro l’anima e non uscire più. Non v’era spicchio del mio corpo che non avesse baciato, morso, leccato e toccato. Mi sentivo di appartenergli totalmente.. come potevo pensare a una fine per noi? Come potevo pensare un giorno di giacere tra le braccia di altri, dopo aver sentito le sue?
 
 
«Puoi fare il serio un secondo?» Lo redarguii con quel tono da mamma esasperata, stavamo nel corridoio del cibo ed Enoch continuava a mettere nel carrello quantitativi spropositati di cibo precotto.
«Che hai contro il ramen, scusa?» Roteai gli occhi con un sospiro riponendo nello scaffale ben due delle cinque confezioni che aveva preso, e per tutta risposta lui le ripose nel carrello.
«La pianti? Cucineremo una vera cena di Natale, e un vero pranzo, non si discute.» Ci fissammo come due guerrieri, ma quando misi le mani sui fianchi capì di aver perso la sua partita.
«Pensa a quanto tempo risparmieresti col cibo precotto, e a quante cose potremmo fare con quelle ore in più..» dal tono malizioso supponevo fosse UNA singola cosa quella che aveva in mente. Cercai di non arrossire e non sorridere mentre spingevo il carrello lontano da lui.
«Occupati tu delle bevande, io vado a vedere le decorazioni dell’albero.» Alzai il tono della voce per farmi sentire, sparendo oltre uno dei corridoi. Il supermercato quel giorno sembrava voler esplodere, a quanto pare non eravamo gli unici ridotti a comprare le cose proprio agli sgoccioli; afferrai alcune decorazioni e improvvisamente mi sentii catapultato a Mississipi: ogni vigilia la passavamo in chiesa, celebrando la messa con tutti i fedeli. Alcuni giorni prima ero caduto dall’albero dei vicini, il signor padre mi aveva proibito quelle bravate e io avevo disobbedito. Temevo la sua punizione più di qualsiasi altra cosa, avevo paura che mi avrebbe portato nel suo studio ancora una volta mentre tremante di fronte a lui gli facevo vedere la mia mano ferita. Avevo il polso slogato, e alcune abrasioni superficiali.
«Tra due giorni avremo la messa natalizia.» Annuii in silenzio, gli occhi bassi non osavano posarsi su di lui.
«Mi dispiace, il gatto era finito sopra l’albero e—» non mi fece nemmeno finire.
«Suonerai ugualmente il pianoforte per Gesù e i suoi fedeli.» Mi azzardai a guardarlo per poi fissarmi la mano, non riuscivo neppure a stringere la forchetta come potevo suonare? Eppure le sue parole erano state sin troppo chiare, sapevo che se non avessi obbedito mi avrebbe atteso nel suo studio. Quale strumento avrebbe usato per la mia punizione corporale? Ero talmente terrorizzato che preferii assecondarlo.
Suonai per ore sentendo la mano andarmi a fuoco, piangevo seduto di spalle mentre l’intera chiesa cantava e osannava Nostro Signore Gesù, alla fine il dolore divenne così insopportabile che svenni in sagrestia. Mi risvegliai soltanto il giorno dopo.

«Ti sei incantato?» La voce di Enoch mi trascinò nuovamente al presente, sorrisi lasciando cadere gli addobbi dentro il carrello osservando le bevande.
«Sarà un bel Natale questo..» lo mormorai più a me stesso che a lui.
«Ovvio che lo sarà.. ci sei tu con me.» Mi baciò la fronte iniziando a spingere il carrello al posto mio diretto verso la cassa.
Non avevo mai visto casa sua, non riuscivo a immaginarmela in realtà, ma a giudicare dalle strade che prendeva supponevo risiedesse nella zona più chic della città e quando arrivammo capii di non essermi sbagliato. Casa sua altri non era che una villa a due piani, un bel giardino curato e supponevo anche una piscina sul retro, ma non ebbi modo di vederla mentre trasportavamo tutto il necessario dentro. L’arredamento era curato nel dettaglio, eppure a me apparve fredda e soprattutto triste.. come una casa senz’anima. Guardai Enoch muoversi con la sicurezza di chi tra quei luoghi c’era cresciuto.
«Ti piace?» Mi fissò senza alcuna aspettativa, mi avvicinai a lui sistemandogli i capelli disordinati.
«Renderemo questo posto bellissimo con la nostra presenza.» Era quella la risposta che voleva, lo capii dal modo in cui mi fissò e strinse la mia mano; quella casa gli aveva portato solo infelicità.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Christmas ***


XIII.



Mi bastarono poche ore dentro quella casa per appurare quanto Enoch fosse totalmente incapace nelle faccende domestiche. Odiava lavare i piatti, non sapeva rifare il letto senza lasciare pieghe ovunque e per un secondo mi domandai se fossi io un maschio atipico o lui troppo disordinato.
«C’è la lavastoviglie perché dobbiamo lavarli a mano?» Mi fissò annoiato giocando con la forchetta sul piatto ormai vuoto, lo fissai ridendo dandogli una spintarella.
«Perché sento come se venissero più puliti, quindi si farà così..» uscii la lingua alzandomi per riordinare tutto, avevamo deciso di fare l’albero nel pomeriggio e io sentivo l’eccitazione montarmi dentro. Era la prima volta in cui ne avrei fatto uno tutto mio, solitamente aiutavo Shou quando se ne ricordava, ma quella era sicuramente un’occasione speciale essendoci Enoch insieme a me.
«Non mi piace la disposizione..» fissai gli addobbi sull’albero con la mia solita espressione critica, Enoch stava accovacciato a seguire le mie direttive.
«Josh, seriamente, non dobbiamo presentare questo albero a qualche concorso di natale.» Il suo tono esasperato mi fece ridere di gusto.
«Sposta il fiocco da quella parte, dai..» misi il broncio per convincerlo, avevo capito avesse un forte ascendente su di lui che non faceva poi molto per nasconderlo.
«Io non posso credere di star faticando per un albero che smonterò tra due giorni.» Mi issò sulle spalle per mettere il puntale, e come gli avevo promesso riempimmo quella casa delle nostre risate rendendola accogliente e calda.
 
«Mi annoio..» lo spintonai facendogli quasi cadere il libro dalle mani, mi ignorò continuando a leggere ero sicuro si stesse fingendo presissimo dalla lettura solo per irritarmi. «Enoch, giochiamo?» Continuò a ignorarmi e io mi arrampicai sopra di lui. Persino da steso il suo metro e novanta mi faceva apparire ridicolo.
«Non hai voluto prepararmi il ramen, e ora resti da solo.» A volte sembrava più bambino di me, soffocai una risata sul suo collo mordendolo con forza strappandogli un gemito e un brivido che sapevo non aveva nulla a che vedere con  il dolore.
«Giuro che a Natale ceneremo con il ramen, ma ora giochiamo..» mi fissò da sopra la copertina del libro con espressione ambigua.
«Al dottore?» Inarcai un sopracciglio scuotendo il capo, avevo un fidanzato con sani appetiti sessuali c’era poco di cui lamentarmi.
«No. A nascondino ma con una variante.»
«E quale?» Gli spiegai brevemente le regole del gioco, a turno avremmo dovuto nasconderci e uno dei due avrebbe impersonato il ladro, mentre chi cercava sarebbe stata la guardia. Chi trovava per primo l’altro lo avrebbe imprigionato e torturato.
«Ti piace?» Sorrisi mostrando le mie immancabili fossette, si alzò in maniera così irruente da farmi finire spalmato sul letto.
«La punizione però la decido io.» ci guardammo maliziosamente e io afferrai la sua mano a mo di patto.
 
*
 
Enoch scoprì a sue spese quanto Josh fosse bravo in quel gioco. Nonostante non avesse dimestichezza con quella casa, era così piccolo e fantasioso da trovare i nascondigli migliori, inoltre si muoveva silenziosamente (stranamente senza incimpare) e pure aguzzando l’udito al massimo non sempre riusciva a intercettarlo subito. Vi era un minuscolo problema però in tutto ciò: Enoch odiava perdere. Ed era proprio ciò che stava succedendo in quel preciso momento.
«Josh, vieni fuori dai. Se esci prometto che non ti farò nulla..» tese l’orecchio provando a farlo ridere con quella minaccia, ma tutto taceva mentre percorreva il corridoio del primo piano. Avevano deciso di delimitare il perimetro di gioco in modo tale da non essere troppo complicato, ma anche così il fidanzato sembrava essersi smolecolato nell’aria. «Josh, se scopro che sei al secondo piano mi arrabbierò moltissimo..» ancora il silenzio accolse quelle parole. Un rumore lo distrasse, sembrava come un barattolo caduto per terra e proveniva dalla parte opposta. Fu lì che si diresse convinto Joshua avesse finalmente commesso un errore, aprì cautamente la porta dello sgabuzzino ma due braccia lo afferrarono da dietro.
«HAI PERSO.» Chiuse gli occhi imprecando nella propria mente, voltandosi a guardare il viso divertito dell’altro soddisfatto della vittoria.
«Voglio la rivincita.»
«Prima la tua punizione, sei mio prigioniero e per uscire dovrai corrompermi con dei baci.» Si fissarono maliziosamente, poteva accettare la sconfitta forse se quelle erano le torture che lo aspettavano di lì a poco.
Giocarono per tutto il pomeriggio fino a sera, ed Enoch uscì perdente quasi tutte le volte con suo sommo disappunto e grande divertimento di Joshua. Ma l’ultima partita la vinse con estrema gioia, prendendosi così l’agio di fissare il fidanzato cucinare praticamente nudo per lui con solo la sua camicia indosso. Una punizione era pur sempre una punizione, no?
Il tempo sembrava essersi cristallizzato, sentiva dentro di se una pace sperimentata solo in presenza dell’altro, come se questo fosse il reale calmante per ogni sua inquietudine; quando lo sentiva ridere sembrava come donargli un motivo per fare lo stesso, e andava così con qualsiasi sentimento positivo. Gli trasmetteva benessere che fluiva all’interno del suo essere, lasciandogli pensare che forse esisteva sul serio per lui una soluzione, forse non era andato tutto perso nella sua vita, forse poteva ancora sperare di vivere come ogni persona senza essere manovrato da quella mente che troppo spesso lo aveva abbandonato, mischiando le carte senza neppure avvisarlo.
Decisero di cenare in cucina, la tv accesa faceva da sottofondo alle chiacchiere continue di Joshua, era come se non fosse mai a corto di argomenti ed Enoch supponeva sarebbe riuscito a farlo parlare in qualsiasi situazione. Una notizia attirò la sua attenzione, un uomo era appena stato liberato di prigione dopo ben vent’anni. Un errore giudiziario lo avevano chiamato, accusato di un omicidio mai commesso.
«Assurdo.. pensa che vita di merda rinchiuso lì dentro sapendo di non essere colpevole, vero?» L’assenza di risposta da parte dell’altro, solitamente molto partecipe in situazioni simili, lo costrinse a voltarsi vedendolo faticare a respirare mentre fissava lo schermo.
«Spegni..» Enoch restò immobile cercando di capire perché avesse quel tono nervoso. «HO DETTO SPEGNI.» L’irruenza dell’altro lo pietrificò, lo guardò afferrare il telecomando con mano tremante e premere convulsamente il bottone al centro. Quando il silenziò piombò nella stanza sentì nuovamente quella sensazione strisciante di freddo alle sue spalle.
«Ehi.. va tutto bene, spiegami che succede..» cercò di modulare la voce, mantenere un tono calmo avvicinandosi cautamente al ragazzo che adesso sembrava pronto a frantumarsi al suolo.
«Non mi toccare.» Sollevò le mani serrando la mascella. «Non ho più fame, cena tu..» scappò via salendo al piano di sopra lasciando Enoch a chiedersi cosa fosse esattamente accaduto in quel preciso momento. Fissò i piatti ancora pieni di cibo, era la vigilia di Natale quella.
 
*
 
Ovunque andassi ciò che avevo fatto mi perseguitava, e lo faceva nei modi più assurdi e inaspettati. Persino una semplice notizia di un perfetto sconosciuto mi metteva faccia a faccia con ciò che mi portavo dentro. Sentivo la nausea assalirmi a ondate mentre mi nascondevo sotto le coperte totalmente accartocciato su me stesso, a occhi sbarrati fissavo la vastità del buio che lento mi inghiottiva pezza dopo pezzo. Sentii subito la luce accendersi e i passi silenziosi raggiungermi sul letto, il suo peso fece cigolare le molle e infine le sue braccia mi avvolsero da sopra le coperte.
«Sono qui..» mi toccai l’anello al mio anulare, me lo aveva regalato per il mio compleanno dandomelo la notte in cui facemmo l’amore per la prima volta. Sentire il freddo del metallo riscaldarsi a contatto col calore della mia pelle mi rassicurava e mi ricordava Lui. Lui che adesso era lì con me, probabilmente confuso ma comunque lì pronto a rassicurarmi.
«Ha ragione William, sono una persona orribile..» la mia voce uscì attutita da sotto le coperte, le lacrime avevano inzuppato la federa del cuscino. Lo sentii scostarle e la luce ferì i miei occhi umidi, mi costrinse a guardarlo e io mi persi un po’ in quelle pozze blu. Vi annegai proprio dentro.
«Qualsiasi cosa sia, la supereremo insieme.. ti fidi di me vero?» Mi fidavo di lui, mi fidavo così tanto che improvvisamente il lucchetto arrugginito della mia anima sembrò rompersi in mille pezzi aprendo la porta segreta che a lungo avevo chiuso provando a fingere che non esistesse. Enoch quella notte fu il mio diario segreto, a lui raccontai la mia vita a Mississipi, il dolore delle cinghiate ricevute dal signor padre. La mia relazione con TJ, il suo tradimento arrivando alla fatidica notte al capannone.
 
«Svegliati figliolo, svegliati. Ho una sorpresa per te.» E' tutto terribilmente buio, qualcosa di umido e viscoso cola dalla mia tempia, è caldo e quasi confortante: è il mio sangue. Sbatto le palpebre per abituarmi alla penombra, la sua figura è lì di fronte a me, ingobbita e sfigurata, eppure sento di non essere solo. Altri due respiri interrompono il silenzio.
«Non la passerai liscia questa volta, stai segnando la tua fine.» sono spaventato, sento come se quella dovesse essere la mia ultima notte su quella terra. Lui mi ha finalmente trovato, e stavolta non mi lascerà andare.
«Non dovresti parlare con questo tono a tuo padre, non quando è qui per te.» 
Lo vedo muoversi nell'ombra, qualcuno è vicino a lui probabilmente la stessa persona che lo ha aiutato a rapirmi. Mi sforzo ma non riesco a vedere finché una luce potente non ferisce i miei occhi. Gemo di dolore e il mio sguardo si posa su una sedia di fronte la mia, vi è una persona legata che mi fissa: sono io. Sto fissando me stesso con occhi diversi. Perché lui è lì? Perché sta scontando una punizione che non merita?
«Joël..?» ho il timore che pronunciando il suo nome lui mi risponda.
«Joshua.» La mia attenzione viene calamitata da altro, il mio gemello passa in secondo piano per un secondo mentre osservo Tj dietro di lui, mi fissa con occhi che non ho mai visto prima. Sento le lacrime pungermi gli occhi, il destino alle volte sa essere crudele, la persona che tra tutte ami di più è anche quella che pianta il coltello nel tuo petto.
«Sei suo complice?» c’è talmente tanto dolore nella mia voce.
«Mi dispiace.. non capiresti.» c’è così tanto dolore anche nella sua.
«Non capirei? TU SEI UN LURIDO FIGLIO DI PUTTANA.» Uno schiaffo mi colpisce in pieno viso, brucia ma non come il mio petto in quel momento. Sputo un po' di sangue per terra mentre sento l'ultimo filo della mia mente spezzarsi, e allora rido. Rido come mai prima nella mia vita mentre le lacrime invadono i miei occhi.
«Vuoi che ti racconti una storia, reverendo Walker?» la rabbia, l’odio, sono entrambi sentimenti pericolosi perché rischiano di esploderti dentro e cambiarti irreparabilmente.
«Joshua..»
«STAI ZITTO. Vuole che le racconti di come Tj mi ha amato? Non da fratello.. ma da uomo.» Il silenzio diviene talmente assordante da destabilizzarmi. Sento le urla di tutti in quel capannone abbandonato, ma io rido. Continuo a ridere mentre racconto la mia storia ormai non più segreta all’unico uomo che pensavo non dovesse mai saperlo. Joël mi fissa con occhi severi, è come se volesse dirmi qualcosa che io non riesco a capire. Un piccolo pezzo di vetro giace nelle mie mani ferite, e mentre parlo e libero la mia coscienza le corde divengono sempre più lente e labili. Avrò la mia vendetta.
Sento la sofferenza di entrambi, il reverendo accasciato batte il suo petto come se volesse sfondarlo mentre Tj tremante e nell'ombra mi guarda piangendo rabbioso. Il piccolo Joshua alla fine ha esposto ogni suo peccato, e non resta altro che espiarlo. Mentre mi alzo da quella sedia andando incontro al mio destino la voce urlante di mio fratello perfora i miei timpani. Avrei voluto più tempo per noi due.
 

Quella notte uccisi colui che mi aveva cresciuto con due colpi d’arma da fuoco, senza alcun rimorso lo guardai riverso a terra, credevo di aver visto l’esatto momento in cui la vita lo aveva abbandonato. E fu per questo che non vidi TJ dietro di me, sparò una sola volta. Un singolo proiettile che trapassò la mia schiena lasciandomi lì morente e sanguinante tra le urla disperate di mio fratello. Persi molto sangue, i medici dissero che il mio coma era al 99% irreversibile, che sarebbe stato sano staccare le macchine e lasciarmi andare, strapparmi da quella vita che non sembrava volermi più. Se oggi sono qui devo ringraziare mio fratello Joel, il nostro legame così forte gli ha impedito di recidere il mio con questa terra.
«Tj è ricercato per un omicidio che non ha mai commesso..» sentivo come se non avessi più lacrime da sprecare, eppure queste continuavano a uscire fuori imperterrite squarciandomi il petto. Le braccia di Enoch mi circondarono stringendomi con forza, sussurrandomi le parole che avevo da sempre voluto sentirmi dire. Parole di conforto, parole rassicuranti e d’amore. Mi trascinò con lui verso la finestra, l’aprì salendo sul davanzale, aiutandomi a fare lo stesso fino a sederci sul tetto della casa. Le stelle quella notte sembravano milioni di milioni, più di qualsiasi altra volta nella mia memoria.
«Il tuo tutore era una persona marcia, e le persone simili impiegano il loro tempo su questa terra per rovinare la vita agli altri, non volevi ucciderlo.. è stata legittima difesa.» mi strinsi a lui e sentii come se quelle parole non fossero rivolte unicamente a me.
«Ne hai conosciute molte di persone ‘’marce’’?» Sollevai il viso e i nostri sguardi si legarono ancora una volta.
«Solo una. Vuoi che ti parli di lui?»
 
*
 
La confessione di Joshua aveva sconvolto Enoch nel profondo, nauseato nell’immaginare la brutalità delle percosse subite da quella che tra tutti era l’unica persona che voleva proteggere. Provò un moto di rabbia e ribellione verso quel destino che aveva deciso di farli incontrare solo adesso, e non in quel passato orribile nella quale avrebbe potuto far qualcosa di concreto per evitargli il dolore di quelle ferite. Adesso non poteva fare altro che provare a curarle nell’unico modo possibile: amandolo.
Non aveva mai detto a nessuno del suo profondo legame con il rettore di Yale, l’uomo integerrimo che tutti conoscevano, una facciata dipinta sapientemente come le mura di quella casa. Mentre raccontava del suo passato, non vide mai il giudizio negli occhi di Joshua ma più un sentimento così dilagante e profondo da fargli venir meno le parole.
Arthur Cutler era la feccia della società, aveva molestato giovani ragazzi per anni nel silenzio omertoso delle famiglie offese che ricevevano ricchi compensi per non trascinarlo nella merda. L’ennesima dimostrazione di quanto potere e ascendente avesse su chiunque, compresa la madre. Una giovane Madalyn innamorata di Evrard, che convinta dal padre aveva lasciato il marito nel cuore della notte portandosi via il frutto del loro amore. Da quel momento la sua vita era passata in mano al padre, lui decideva tutto, persino l’uomo che avrebbe dovuto coprire la prima grande macchia nel suo curriculum impeccabile: Raymond.
Enoch si sentiva sporco al pari del nonno, il suo silenzio era come una tacita dichiarazione di complicità e probabilmente questo unito all’assenza di amore materno avevano portato la sua mente a scindersi, frammezzarsi e non obbedire più ai suoi comandi.
«Io so che tu non sei come lui, se non hai ancora parlato hai i tuoi buoni motivi..» la stretta calda della sua mano lo rilassò.
«Lo farò presto, ho atteso la maggiore età per non essere più soggetto al potere di quella famiglia. Quando tutto verrà a galla, potrò fare ciò che voglio della mia vita.» Era davvero così? Enoch sentiva di mentire in quel momento, o comunque di non dire del tutto la verità. Quando la bomba sarebbe esplosa il suo tempo lì a Yale sarebbe finito bruscamente; fissò Joshua come a volersi imprimere nella mente i suoi lineamenti, quella dolcezza naturale che aveva avuto il potere di piegare a forza le mura costruite attorno a se.
«C’è qualcos’altro che vuoi dirmi?» Si fissarono per un istante che parve eterno, si rivide quel pomeriggio nel bagno: Josh era lì con il suo tubetto di pillole tra le dita. Aveva violentato se stesso per non strapparglielo dalle mani con violenza. Aveva sorriso alla sua domanda su cosa fossero, rifilando un sintetico: ‘’soffro d’emicrania’’.  
Scosse la testa come sconfitto e negò. Negò ancora una volta, perché di fronte a chi amavi dimostrarsi debole era la vergogna più grande. I fuochi d’artificio interruppero quel momento, li fissarono esplodere nel cielo in un tripudio di colori, illuminando il manto buio.
«E’ mezzanotte..»
«Buon Natale, Josh.» Si sorrisero scambiandosi un bacio, e forse entrambi in quel momento sentirono la medesima sensazione di leggerezza dopo anni passati a sostenere pesi che non avevano mai richiesto.
 
*
 
«Devo darti il mio regalo di natale.» In realtà non vedevo l’ora da quando avevo trovato il pensiero perfetto per lui, corsi a prendere il mio zaino rovistandoci dentro fino a estrarre un pacchetto minuscolo e rigido con un fiocco sopra passandoglielo.
«Mamma mia, non riesco proprio a immaginare cosa possa essere.» Gli assestai una bottarella sulla spalla a quella palese presa in giro, facendogli fretta per aprirlo. Al suo interno vi era un anello in acciaio, la particolarità stava nel disegno: un cielo stellato tutto attorno la circonferenza. La prima volta che lo vidi pensai subito a lui, alla sua passione per le stelle ma non avendo abbastanza soldi avevo lasciato un acconto per essere sicuro di averlo in tempo per natale.
«E’ bellissimo Josh..» i suoi occhi scrutavano con interesse ed emozione il disegno in rilievo poco prima di infilarlo all’anulare e baciarmi. «Adesso dovremmo passare al tuo?»
«Dove sta??» Mi guardai attorno cercando di focalizzare della carta regalo, o qualcosa che potesse farmi intuire dove fosse.
«Lì.» Indicò il mappamondo nell’angolo più lontano della sua camera, mi aveva regalato un mappamondo? Lo fissai confuso lasciandomi trascinare.
«Prova a girarlo, vediamo che salta fuori.» Continuavo a non capire ma seguii ugualmente le sue indicazioni, mossi velocemente la mano sulla superficie, l’afferrò con la propria costringendo il mio dito a bloccare quel giro impazzito.
«Vediamo dove si è fermato.. Ottawa.» Mi chinai per accertarmene e sorrisi.
«Oddio, ma è in Giappone?» Mi fissò per un secondo scoppiando poi a ridere, non sembrava in grado di fermarsi.
«Josh.. è in Canada.» Mi passai una mano sul viso maledicendo la mia infinita ignoranza in geografia, era da sempre la materia nella quale andavo peggio, al liceo avevo dovuto fare i salti mortali per non essere bocciato.
«Era proprio ciò che stavo per dire, piantala – ma non capisco, qual è il mio regalo?» Lo guardai corrucciando la fronte, mi stava prendendo in giro? Mi fece sedere sulle sue gambe intrecciando le nostre mani.
«Il tuo regalo è Ottawa. Prenotiamo adesso per il 27, passeremo lì il Capodanno.» Mi voltai in maniera così irruente da fargli perdere l’equilibrio, spalmato sopra il suo corpo iniziai a tempestarlo di baci.
«SEI SERIO? UN VIAGGIO, SOLO PER NOI?» Non riuscivo a contenere la felicità continuando a gettarmi su di lui tra le sue risate e le mie urla.
 
Un altro momento felice.
 
 
Passammo tre giorni meravigliosi senza mai uscire da quella casa, giocando, leggendo e facendo l’amore. Mangiavamo agli orari più assurdi, guardavamo i cartoni e lo lasciavo prendermi in giro quando piangevo per un film, supponevo fosse quella l’esatta definizione di felicità. Quando non c’era nulla oltre me e lui, quando il tempo non aveva rilevanza, e i minuti li contavi dai sorrisi fatti e dai baci rubati.
«Vediamo quanto sono migliorato in tedesco?» Annuì e io sedetti vicino a lui sulla scrivania, fissandolo scrivere velocemente in quella lingua che per me era quasi del tutto sconosciuta. Armato di dizionario mi cimentai nella prima frase salvo poi scoprire il suo significato: ‘’facciamo sesso invece di studiare?’’. Gli diedi un calcio da sotto la scrivania.
«Vuoi fare il serio?» Scoppiò a ridere scuotendo il capo.
«Ma ero serio, rispondimi in tedesco no?» Mi rifiutai di stare al gioco provando a togliergli la penna dalle mani ma fu tutto inutile.
«Okay tregua dai, passiamo alla seconda frase.» Evitai di leggerla ad alta voce per paura di sbagliare gli accenti: ‘’ich steh' auf dich’’. Afferrai il cellulare andando subito al traduttore. «Ma se cerchi lì non vale.»
«Zitto e lasciami fare..» svincolai dalla sua presa inserendo la frase, la traduzione mi pietrificò. Dovetti leggerla due volte per esserne sicuro, eppure era lì nero su bianco: ti amo. Mi amava? Voleva dirmi questo? Lo guardai cercando di capire cosa potessi dire, il mio cervello sembrava scollegato.
«Quindi?» Afferrai la penna, copiando con dedizione la mia risposta, passandogli il foglio. Lo vidi guardarlo e sorridere aggrottando la fronte.
«Perché hai scritto ‘’ti amo anch’io’’
«Perché tu hai scritto ‘’ti amo’’..» improvvisamente non fui più sicuro di nulla.
«Ecco perché non devi usare quel traduttore, storpia le cose. La mia frase voleva dire ‘’ti adoro’’.» Desiderai improvvisamente venire risucchiato dal pavimento, mi slanciai verso il foglio che gli avevo passato provando ad afferrarlo ma Enoch fu più veloce di me.
«Ridammelo. Puoi prenderlo come un ‘’ti adoro anch’io’’ .. perché devi essere così pignolo?» Ero sicuro che la mia faccia fosse del medesimo colore della mia felpa rossa.
«E se volessi prenderlo come un ‘’ti amo’’?» Mi bloccai a fissarlo, si stava prendendo gioco di me? La sua espressione seria e tesa mi fece pensare di no.
«Puoi farlo..» mormorai quelle parole cercando di fuggire da quella situazione improvvisamente scomoda, ma la presa sul mio polso me lo impedì. Mi strattonò gentilmente facendomi sedere sulle sue gambe.
«Allora lo farò, e tu puoi storpiare quella frase quanto ti pare e piace.. ti amo anch’io Josh.» Il mondo attorno a me sembrò perdere improvvisamente consistenza, era questa la sensazione che si provava nell’amare ed essere amati? Come sentirsi leggeri, quasi il peso corporeo fosse nulla, e liberi nonostante le quattro mura attorno a te. Non c’erano le farfalle nello stomaco come dicevano tutti, era una sensazione più totalizzante e formicolante, cambiava la mia intera essenza rimescolandola da dentro. Quando poggiai le mie labbra sulle sue sentii che qualcosa era cambiato, come una nuova consapevolezza che mi permetteva di godermi quel momento senza alcuna barriera o paura. Le nostre lingue si accarezzarono, sentii le sue mani su di me, mi spogliava degli abiti rivestendomi d’amore; quella fu la nostra ultima notte in quella casa, la più indimenticabile sotto qualsiasi punto di vista. Ci unimmo tra quelle lenzuola con la consapevolezza di essere davvero un’unica cosa, indissolubile e indistruttibile.
O almeno era questo ciò che pensavo mentre lo fissavo dormire accanto a me, in un tempo che ci vide uniti e felici.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Ottawa ***


XIV.



L’umore di Enoch sembrò cambiare durante il volo verso Ottawa, se fino a quel momento era stato sereno e pacato adesso sembrava come sovreccitato, quasi avesse assunto droghe a mia insaputa. Ero praticamente certo non fosse possibile, e quindi la mia confusione nel vederlo così carico di elettricità aumentava esponenzialmente. Se di solito aveva un occhio di riguardo per me, per la mia stanchezza, adesso sembrava non farci nemmeno caso mentre mi costringeva a riporre i bagagli in camera per uscire nuovamente a vedere la città. Dopo sette ore di aereo, e tre giorni passati a dormire con il contagocce, pensavo avremmo quantomeno riposato poche ore.
«Stai bene?» Azzardai quella frase mentre mi lasciavo trascinare verso una caffetteria poco distante dal nostro albergo. Aveva organizzato tutto minuziosamente in meno di 24 ore, non riuscivo ancora a crederci e temevo a domandargli quanto avesse speso per quel ‘’regalo’’ che aveva voluto farmi. La mia mente da contabile consumato già pensava al modo di rientrare in quelle spese, ma sapevo allo stesso tempo non me lo avrebbe permesso.
«Certo che sto bene, sto benissimo, non vedi?» mi guardò senza smettere di muovere la gamba sotto al tavolo.
«Lo vedo.. sei uhm.. pieno di forze.» Sorrisi senza sapere bene come definire quel suo modo di fare ma a lui sembrò piacere parecchio, tanto da sporgersi verso di me afferrandomi il mento con due dita per poi baciarmi.
«Sono pieno di forze perché ci sei tu con me, e poi dobbiamo goderci la nostra vacanza.» Mi lasciò andare all’arrivo delle nostre ordinazioni, mangiammo con gusto fissando la gente fuori da quella caffetteria, prendendo in giro i cappelli più buffi che vedevamo passare dalla grande finestra.  
 
Nonostante quell’inizio un po’ turbolento le cose sembravano procedere per il meglio, Enoch era costantemente pieno di forze ma io sentivo di stare arrivando al mio punto di rottura fisico, ed era solo il secondo dannatissimo giorno lì. Lo costrinsi a fermarsi dall’entrare in un museo puntando i piedi al suolo.
«Enoch, ti prego.. sono stanco. Non possiamo dormire un po’? Solo un poco e poi ricominciamo..» non so cosa lo convinse, forse il mio viso sfatto e devastato, o le occhiaie sotto i miei occhi. Mi accarezzò le guance con le mani coperte dai guanti, il freddo lì era seriamente terrificante.
«Hai ragione, andiamo a riposare ..sono stanco anch’io.» Quella fu la prima volta in cui beccai una sua menzogna, stava lì nero su bianco e i suoi occhi non si impegnarono nemmeno a nasconderlo. Lui non era stanco, e non avrebbe dormito.
 
*
 
Da quante ore stava seduto sul letto a fissare il muro? Non ne aveva idea, i conteggi arrivavano un po’ confusi dopo giorni passati sveglio. Avere Joshua che dormiva accanto a se era comunque confortante, lo guardò con amore accarezzandogli i capelli, dio quanto avrebbe voluto dormire anche lui. Sentiva come se i suoi bulbi oculari sarebbero esplosi di lì a poco, ma per quanto la logica gli dicesse che era vitale dormire, il suo corpo e la sua mente si rifiutavano.
«Ti senti meglio?» Gli occhi color nocciola lo fissarono ancora un po’ assonnati e stanchi, lo vide sorridere e annuire.
«Decisamente si, e adesso sono pronto a farmi trascinare ovunque tu voglia.» Fuori era già buio, aveva prenotato la cena in un ristorante consigliato dai dipendenti dell’albergo, avevano un’ora di scarto prima di dover essere lì. Fece la doccia per primo e lasciò a Joshua l’agio di crogiolarsi dentro la vasca, ci avevano scherzato su al loro arrivo ma Enoch sapeva bene che prima o poi avrebbero finito per provarla sul serio insieme. Sorrise a quel pensiero facendo zapping tra i canali in maniera frenetica, non c’era un cazzo che gli interessasse. Il rumore di un messaggio attirò la sua attenzione: era il cellulare di Joshua.
«Ti è arrivato un messaggio.» Alzò la voce per farsi sentire ricevendo solo silenzio e il sordo rumore del fon, supponeva potesse essere Sophia impicciona come sempre che chiedeva quali posizioni avessero provato nel letto canadese.
«Controlla tu.» A quanto pare lo aveva sentito. Quando però afferrò il cellulare nessun nome apparve, solo un numero, aprì e ciò che lesse fece esplodere come miliardi di stelle filanti il suo autocontrollo: ‘’Dobbiamo vederci, so che anche tu lo vuoi. Memorizza il numero, sono Mattew’’.
Quando Joshua uscì dal bagno trovò Enoch intento a fumare davanti il balcone, lo guardò percependo un certo rigore nei suoi lineamenti.
«Tutto bene? L’acqua era caldissima..» gli andò incontro con un sorriso ma l’altro schivò la sua mano tesa allontanandosi bruscamente.
«Che cazzo è questa merda?» Gli piazzò il cellulare sotto al naso e seppe l’esatto momento in cui l’altro lesse il messaggio, il suo viso si rabbuiò mentre provava ad afferrarlo ma Enoch fu più lesto a ritrarsi.
«Non ne ho idea, non so perché mi abbia mandato quel messaggio, io—» non ebbe nemmeno modo di finire, la mente del tedesco sembrava pronta a esplodere.
«Da quand’è che ti scrive e non me lo dici?» Il tono della voce si alzò di un’ottava spaventando l’altro che si ritrasse appena.
«Io non sento nessuno..»
«Giusto tu non senti nessuno.» Con un movimento improvviso e inaspettato lanciò il cellulare dalla finestra.
«NO.» Joshua corse aggrappandosi alla ringhiera, sembrava pronto a buttarsi da lì per recuperare l’oggetto  ormai distrutto. Fletté le ginocchia guardando il fidanzato con gli occhi pieni di lacrime. «Hai idea di quanto ci abbia messo per comprarlo?»
«Non me ne frega un cazzo Joshua. CHE CAZZO VUOLE MATTEW DA TE, SE TI FACCIO UNA DOMANDA MI DEVI RISPONDERE?» le urla adesso erano divenute insostenibili.

 
*
 
Non l’avevo mai visto in quello stato, la rabbia era qualcosa che da sempre mi spaventava. Forse a causa del reverendo Walker, non ero sicuro, sentivo solo le mie gambe tremare spaventosamente mentre mi coprivo le orecchie per non diventare sordo.
«Non urlare ti prego, parliamone..» provai ad avvicinarmi ma Enoch si scostò ancora, sembrava un animale in gabbia.
«Di cosa cazzo dovete parlare? Vuole parlare di come ti scopava?» Mi sentii ferito da quelle parole, c’era in lui qualcosa di estraneo. Sapevo che non pensava sul serio quelle cose, ma sapevo anche che le stava dicendo col chiaro intento di farmi male. Quando non sapevo in che modo arginare la rabbia, l’unica cosa da fare era mostrarsi indifeso e per nulla sulla difensiva. Girai i palmi delle mani in su, provando ad abbracciarlo. Doveva capire che io di lui non avevo assolutamente paura.
«Per favore, non fare così.. Ne abbiamo già parlato, Mattew non conta nulla, lui è il passato. Il mio presente sei tu..» mi guardò con così tanto dolore che le lacrime iniziarono a uscire involontariamente dai miei occhi.
«Vaffanculo.» Sputò quelle parole con rabbia voltandomi le spalle lasciandomi lì da solo, che dovevo fare adesso? Mi coprii la faccia con le mani piangendo a singhiozzi, cercando di riacquistare un minimo di calma e lucidità. L’unica cosa possibile era inseguirlo e parlargli, non potevo permettere a quell’equivoco di rovinarci l’intera vacanza, non potevo permettere a Mattew di rovinarmi ancora la vita.
Quando corsi fuori di Enoch però non c’era traccia, guardai la strada illuminata provando a capire da che parte fosse andato, e senza indugiare presi la mia destra correndo e schivando persone. Ma di lui ancora nulla, e non solo quello a completare il tutto dopo più di un’ora mi resi conto d’essermi anche perso. Non avevo nemmeno il cellulare con me, non potevo chiamare nessuno, come sarei tornato in albergo? Mi accovacciai vicino a un locale in preda al panico finché una signora probabilmente mossa a compassione non si fermò chiedendomi se andasse tutto bene. Cercai di spiegarle che mi ero perso, che dovevo tornare al mio albergo e non sapevo come fare; in quel marasma di caos e rabbia, trovai un barlume di speranza nella gentilezza di una sconosciuta che mi accompagnò sino all’ingresso del mio albergo salutandomi con un eloquente ‘’andrà tutto bene’’. Dovevo dedurre che la mia faccia era talmente sconvolta da far capire alle persone la mia disperata situazione? Non avevo tempo di pensarci al momento, il mio piano consisteva nell’aspettare in camera che Enoch tornasse, e poi chiarire con lui. Ciò che non avevo messo in conto era che lui fosse già lì, me lo ritrovai praticamente addosso appena misi un piede dentro la stanza.
«Dove cazzo stavi, cristo santo.» Mi schermai con le mani, mi sentivo tremendamente stanco.
«Ero andato a cercarti, ma mi sono perso.. non avevo neppure il cellulare per poterti avvisare.» Sentii chiaramente il lezzo dell’alcool, aveva bevuto. I suoi occhi lucidi e la parlata un po’ strascicata me lo confermarono. Vidi una facciata di Enoch che non pensavo potesse esistere, persino nelle nostre liti peggiori si era sempre limitato a un tono severo ma ugualmente pacato e calmo. Adesso sembrava impazzito e io continuavo a non sapere come arginare la sua rabbia, non mi dava nemmeno il modo di spiegarmi, di dirgli che io con quel messaggio non c’entravo nulla. Improvvisamente lo vidi acquietarsi, come quando a un temporale devastante segue la calma improvvisa; mi fissò e la sua maschera sembrò crollare.
«Non voglio perderti, tu sei l’unica cosa che conta davvero.. non puoi lasciarmi per lui.. non potrei sopportarlo.» Si avventò sulle mie labbra, provai a spingerlo via solo per rispondergli, per dirgli che sbagliava e che non lo avrei mai e poi mai lasciato per Mattew. Ma il mio gesto probabilmente venne preso come un rifiuto, e questo lo rese ancora più smanioso di avermi. Mi spogliò in maniera convulsa afferrandomi con forza per trascinarmi sul letto, c’era urgenza e disperazione nel suo desiderio e io capii che forse quella era l’unica soluzione. Amarlo e in questo modo lasciare che si sfogasse, avendomi contro di se senza neppure i vestiti a dividerci forse gli avrebbe fatto capire ciò che sembrava incapace di vedere.
Fu doloroso, quando entrò dentro di me con irruenza mi sentii come spaccato a metà, soffocai un urlo contro la sua spalla, artigliando la sua schiena, e mentre la neve fuori scendeva imperterrita sentivo come se dentro quella camera avessimo raggiunto il calore contenuto all’interno di un vulcano.
 
*
 
Faticò a mandare giù la compressa sentendo come la gola ostruita da qualcosa, lo soffocava impedendogli di respirare normalmente. Strisciò nuovamente sul letto accendendo la lampada sul comodino, fissando il ragazzo dormiente accanto a se. Sollevò il lenzuolo osservando il suo corpo nudo, all’altezza dei fianchi vide dei piccoli lividi provocati dalla sua stretta irruente, e dietro il collo alcuni succhiotti lasciati dai suoi morsi. Sentì come se nemmeno l’acqua potesse lavare via lo schifo di cui sembrava ricoperto, gli aveva fatto male, era stato violento e cattivo.
«E non finirà..» mormorò quelle parole sentendo improvvisamente il magone alla gola divenire più stretto finché non esplose tutto d’un colpo in un pianto disperato e silenzioso. Mentre le lacrime scendevano copiose si domandava come potesse anche solo pensare di tenere per se qualcuno come Joshua, qualcuno che sembrava amarlo così tanto nonostante le cose subite. Enoch l’aveva sentito, la forza di quel sentimento, mentre veniva stretto con irruenza tra quelle lenzuola nonostante il male che le sue spinte provocavano al corpo più gracile. Lo aveva accolto ugualmente dentro di se, a discapito di tutte le cattiverie dettegli, di tutte le urla e di tutta la rabbia riversata su di lui.
Ancora una volta si ritrovò a pensare fosse meglio allontanarsi, ma come poteva adesso? Come poteva lasciarlo se la sola idea era come una coltellata in pieno petto che scendeva squarciandolo in due? Si scoprì egoista come mai prima d’ora, Joshua era l’unica cosa che valesse la pena nella sua vita, l’unica cosa che lo separava dalla morte e dalla disperazione totale. Nudo si alzò dirigendosi verso la propria valigia che aprì, al suo interno sepolto dai vestiti giaceva il diario di Rachel. Lo afferrò stringendolo convulsamente, e in quel momento decise di rompere la sua promessa a quella ragazza, non avrebbe consegnato quel diario, non avrebbe avviato quel meccanismo pericoloso che sapeva lo avrebbe portato lontano da Joshua.
«Mi dispiace..» parlò a quella ragazza ormai morta, come se potesse sentirlo e forse era davvero così. Joshua diceva sempre che le anime dei defunti ci ascoltavano, che esisteva davvero qualcosa dopo la morte, magari aveva ragione? Enoch non ne era ancora sicuro, ma in quel momento sembrò confortante credergli, sembrò confortante pensare che Rachel lo sentisse e soprattutto lo perdonasse. I suoi singhiozzi rotti e disperati si persero nell’aria.
 
*
 
Quando aprii gli occhi vidi quelli di Enoch fissarmi, restammo così per un tempo infinitamente lungo come se non avessimo bisogno di parlare e bastasse quello sguardo a dirci tutto.
«Ti amo..» mormorai quelle parole temendo la sua reazione, ma non scorsi alcuna rabbia nei lineamenti adesso stanchi del suo viso. Lo vidi come sul punto di dirmi qualcosa ma dalla sua bocca non uscì nulla, nelle sue iridi c’era vergogna e pentimento.
«Non sono sicuro di riuscire a guardarti negli occhi oggi..» provò ad alzarsi ma lo fermai costringendolo a stendersi, salendogli sopra cercai di bloccarlo col mio peso.
«Se fai così mi renderai triste..» sapevo quali tasti toccare, nonostante la lite io ero sicuro che Enoch soffrisse nel vedermi demoralizzato e avevo ragione; lo vidi sollevare la schiena e abbracciarmi, mi teneva così stretto che pensai mi avrebbe fratturato qualche costola.
«Mi dispiace. Mi dispiace. Ti giuro che—» non completò la frase, come se fosse insicuro di poter giurare che non sarebbe ricapitato più. Gli accarezzai i capelli baciandogli il capo silenziosamente.
«Non hai fatto nulla di male, probabilmente avrei reagito anch’io come te.. l’idea che qualcuno possa cercarti, mi fa impazzire.» Cercai di consolarlo ma sembrava inutile, scosse il capo affranto.
«Lo sai che non avresti reagito così.. sono stato orribile stanotte.» Sentii ancora una voglia pressante di piangere, che tipo di fidanzato ero se non riuscivo nemmeno a consolarlo? Lo baciai con tenerezza accarezzandogli il viso, tenendolo fermo affinché mi guardasse.
«Mi ami?» annuì senza sciogliersi dalla mia presa. «Se mi ami davvero smettila di colpevolizzarti.»
«Questo sembra un ricatto..» il tono stanco si sporcò di ironia e io sorrisi nuovamente felice.
«Non sono stato arrabbiato con te nemmeno per un secondo ieri, e non lo sono nemmeno oggi.. quindi ti prego, non permettiamo ad altri di mettersi fra noi due, non diamogli questo potere..» lo supplicai con lo sguardo e lui sembrò finalmente prendere coscienza di ciò che volevo dire. Quella notte Enoch finalmente dormì profondamente accanto a me.
 

La lite fu l’unica pecca del nostro viaggio altrimenti indimenticabile. Visitammo luoghi bellissimi, provammo i piatti tipici, e girammo per le strade innevate fino a notte fonda. Sembrava quasi una luna di miele, e quando glielo dissi piuttosto che prendermi in giro annuì soddisfatto.
«Vuoi tornarci in luna di miele?» mi fissò inarcando un sopracciglio e io arrossii.
«Mi stai chiedendo di sposarti?» Lo vidi ridere di gusto e poggiarmi un braccio sulle spalle, avvicinandomi a lui.
«Più o meno, diresti si?»
«SI.» La mia irruenza lo gratificò più di quanto pensassi, si umettò le labbra senza nascondere il suo sorriso radioso che per me valeva più di qualsiasi traguardo avrei raggiunto in tutta la mia esistenza.
«Ti piacerebbe vivere qui?» Fissai i passanti con la nostalgia di chi sapeva che a breve avrebbe dovuto lasciare tutto.
«Si.. è così bello.» Mi strinsi a lui parlando con tono lamentoso.
«Sarebbe l’ideale, un posto che non ci conosce. Un posto dove non abbiamo passato..» non lo guardai, sapevo che non voleva lo fissassi in quel momento di vulnerabilità, mi limitai a tenergli forte la mano suggellando quella promessa che volevo disperatamente mantenesse.
 
«JOSH.» Mi chiamò dal bagno e io accorsi immediatamente, la vasca si stava riempiendo, sorrisi maliziosamente.
«Hai bisogno di me?»
«E’ una domanda un po’ ambigua, io ho sempre bisogno di te.» Si spogliò con calma, quindi voleva giocare? Fissai il suo corpo nudo chiedendomi come fosse possibile che avessi ancora problemi respiratori ogni volta che mi appariva così. Insomma ormai dovevo esserci abituato no?
«Penso di aver trovato due punti in comune tra te e la jacuzzi, sai?» Inarcò un sopracciglio incuriosito.
«E quali?» Iniziai a spogliarmi anch’io avvicinandomi alla vasca.
«Entrambi riuscite a farmi spogliare solo guardandovi, ma soprattutto entrambi mi fate accaldare.. parecchio.» La sua risata coincise con il mio slancio che mi portò quasi in braccio a lui mentre mi aiutava con solerzia a liberarmi degli ultimi indumenti rimasti. Bevemmo champagne immersi nella schiuma, ‘’come dei veri ricchi’’ e quando lo dissi Enoch sembrò divertito; desiderai rimanere lì per sempre, sospeso in quel tempo senza più andare avanti nonostante la curiosità di vivere altri momenti insieme a colui che reputavo ormai l’amore della mia vita. Lo desideravo affinché potessi proteggerlo dal mondo, da tutte le cose che lo facevano soffrire.
 
 
Il corridoio del dormitorio sembrava uguale a come lo avevo lasciato ormai dieci giorni prima, vi ero tornato velocemente il 26 solo per raccattare alcuni vestiti per il viaggio a Ottawa, e adesso eccomi di nuovo lì e stavolta in maniera permanente.  In quei giorni avevo scoperto quanto dormire con Enoch mitigasse i miei incubi, anzi a dirla tutta li neutralizzava totalmente, tant’è che nemmeno una volta avevo sognato il signor padre o TJ.
«Josh?» La sua voce mi distrasse abbastanza, con una mano sulla maniglia mi voltai trovandolo con la polaroid intento a scattarmi una foto.
«Dai, non ero preparato.. sarò venuto orribile.» Provai a strappargliela dalle mani, ma il divario d’altezza tra noi era così grande che pensavo fosse più semplice scalare una montagna. Quando la foto uscì la prese tra le dita soffiandoci sopra. Gli avevo regalato quella polaroid per il suo compleanno, il 19 dicembre per la precisione, un tempo era appartenuta a me e pensavo sarebbe stato carino donargli qualcosa di mio e che mi rappresentasse. La morale adesso era che usava quella macchina fotografica sempre e ovunque, senza mollarla mai un secondo.
«Sei venuto benissimo, questa la conservo e l’appenderò in camera mia.» Mi poggiai alla porta ridendo divertito, tornando immediatamente serio quando lo vidi avvicinarsi e baciarmi.
«Quanto dovrò aspettare per il prossimo viaggio? Mi piace dormire con te..»
«Ah, abbiamo dormito?» Gli diedi un pizzicotto a quella battuta poco innocente.
«Scemo.. lo sai cosa voglio dire.» Annuì scostandomi il ciuffo dalla fronte per depositarvi un bacio.
«Non dovrai aspettare molto, vorrei che da stasera dormissimo insieme, sono più tranquillo quando posso averti accanto.» Quella notizia fece schizzare la mia felicità alle stelle, stavo per baciarlo ma una voce ci interruppe.
«Non siete stanchi di baciarvi ogni istante?» Fissammo William, accanto a lui Friedl con un viso alquanto rabbuiato, con la medesima espressione scocciata, alla fine sospirai spingendo il mio fidanzato per poter rientrare in camera.
«E tu non sei stanco di rompere il cazzo ogni istante?» Quelle furono le ultime parole che sentii pronunciare a Enoch prima di richiudere la porta dietro di me e fissare con uno sbuffo la mia stanza prendendo atto del fatto che la routine era appena ricominciata.
 
 
Il Quo Vadis era esattamente identico a come lo avevo lasciato, ancora la stessa bolgia infernale mentre io e Nastya ci districavamo dietro al bancone servendo ogni cliente. Il giorno del mio rientro coincideva anche con il mio primo notturno del nuovo anno, la fortuna mi baciava sempre dovevo ammetterlo; sospirai lanciando la pezza umida in un angolo, provando a riposarmi due minuti.
«Com’è andato il tuo capodanno?» La bionda mi sorrise maliziosa spintonandomi con la spalla, soffiai fuori una risatina scuotendo il capo.
«Molto bene devo dire.. e il tuo?» Fissai Jake che si esibiva sopra il piccolo palco, ormai la loro relazione era di dominio pubblico.
«Lo abbiamo passato nel mio appartamento, ma non è questa la notizia migliore..» attesi che proseguisse con una certa curiosità. «Sono riuscita a pagare la mia primissima retta, e adesso sono ufficialmente una studentessa universitaria. Fuori corso ma comunque universitaria.» Ci abbracciamo ridendo, ero felice per lei, avevo come l’impressione che nella sua vita mancassero tante cose e forse avere uno scopo da perseguire era ciò che ci voleva per dare un senso a tutto, ma soprattutto un certo ordine.
«Datemi qualcosa di forte da bere.» La voce di Sophia interruppe quel momento.
«Tu non bevi mai..»
«’’Mai’’ è una parola ambigua, meglio non dirla sai? Le cose accadono quando meno te lo aspetti, persino le più improbabili..» la sua voce lamentosa mi preoccupò. Le servii da bere continuando a guardarla.
«Sophia, è tutto okay?» Mi guardò con gli occhi lucidi e alla fine sorrise sollevando il bicchiere.
«Tutto okay, è tutto bellissimo, cazzo.» Furono le ultime parole di senso compiuto che le sentii pronunciare quella sera. Due ore dopo giaceva praticamente svenuta e semidistesa sul bancone. Io e Nastya la fissammo sospirando.
«Mi occupo io di lei, non preoccuparti...» Già vedevo la mia schiena chiedermi pietà, aiutato dalla russa riuscii a mettermela sulle spalle, fortunatamente non pesava moltissimo quello scricciolo di donna ma l’odore di alcool che emanava mi rendeva seriamente desideroso di sboccare in un angolo al posto suo. Una figura familiare stava poggiata a un auto e mi fissava, lo guardai riconoscendolo immediatamente.
«Sono arrivato al momento giusto?»
«Con te è sempre il momento giusto..» ci fissammo con un sorriso e mi aiutò a stendere Sophia nei sedili posteriori.
«Perché ha bevuto così tanto?» Enoch la guardò dallo specchietto incuriosito, anche lui sapeva che non era solita esagerare.
«Non ne ho idea.. – piuttosto che ci fai tu qui?»
«Ho pensato che tornare da solo la notte non sia propriamente sicuro, e siccome sono un bravissimo fidanzato, eccomi qui.» Enfatizzò la parola ‘’bravissimo’’ strappandomi una risatina.
«Oh, tu si che sei il migliore.»
Enoch si prese l’incombenza di portare in schiena Sophia fino alla sua stanza, e dopo averla messa a letto uscì per permettermi di spogliarla. Lo trovai ad aspettarmi lì fuori e mano nella mano ci dirigemmo al nostro piano.
«Dormirai con me oggi?»
«Certo, dammi il tempo di cambiarmi e arrivo, mh?» Mi diede un bacio veloce lasciandomi di fronte la mia camera, non appena vi entrai trovai la luce stranamente accesa, sulla scrivania un pacchetto sigillato e un bigliettino. Aprii prima il foglietto, riconobbi subito la grafia precisa ed elegante: ‘’Mi dispiace, sono stato un coglione. Ti amo’’. Scartai il pacco trovandovi al suo interno un cellulare, lo strinsi tra le mani sentendo una gran voglia di piangere e senza attendere oltre mi fiondai fuori in corridoio entrando in camera sua senza bussare. Lo trovai intento a rivestirsi, non gli diedi nemmeno il tempo di pormi alcuna domanda saltandogli addosso per abbracciarlo.
«Qualcuno qui ha trovato il suo regalo.»
«Ti amo, e sei uno scemo.. lo avrei ricomprato io.» Mi strinse a se trascinandomi sul letto.
«Sono stato io a romperlo, e dovevo ripagarlo.. mi dispiace davvero.» Lo baciai interrompendolo.
«Se dici ancora ‘’mi dispiace’’ ti bacerò fino a soffocarti.»
«Mi dispiace.» Scoppiammo a ridere e baciarci fino alle lacrime, fino allo sfinimento, fino alla follia.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Ask yourself, who are you? ***


XV.



L’aula di chimica era gremita di studenti, stavano tutti divisi a gruppi e le loro voci si mischiavano in un calderone incomprensibile. Avevo assistito alla prima rappresentazione ufficiale di Enoch, lo avevo guardato orgoglioso parlare senza mostrare alcun imbarazzo, nessun cedimento, sembrava un professore consumato. Come se fosse nato con un libro di chimica tra le mani. Mi ero seduto in ultima fila, non volevo distrarlo con la mia presenza e adesso lo fissavo accerchiato dai colleghi a prendersi i meritati complimenti.
Mi sentivo un po’ a disagio, non avevo capito nulla della lezione dovevo ammetterlo, ma non c’avevo nemmeno fatto caso seduto tra quei banchi, mi era bastato seguire la sua voce per sentirmi bene e appagato.
Quando Enoch si accorse di me la sua espressione cambiò drasticamente, e finalmente vidi un sorriso sincero a illuminargli il viso. Mi piaceva l’idea di essere in grado di cambiare in positivo il suo umore, era una sensazione confortante.
«Ehi..»
«Ehi, amore..» mi guardò afferrandomi la mano, ne baciò il palmo poggiandoselo poi sulla guancia a mo di conforto.
«Sei stato bravissimo, sono così fiero di te.» Il mio tono parlava più chiaramente delle parole, il luccichio nei miei occhi lo divertì per un motivo a me sconosciuto.
«Dovevi farti vedere, avrei parlato solo per te.» Restammo lì qualche minuto, mi fece conoscere i suoi colleghi e alcuni li trovai persino simpatici. Altri non molto, avevo come l’impressione che non solo mi detestassero ma che sottovalutassero anche il mio indirizzo di studi. Pensavo che la puzza sotto al naso fosse prerogativa della facoltà di management, ma a quanto pare mi ero sbagliato.
«Eddai, che ti costa venire? Mi farebbe piacere.»
«Non lo so, non credo di stargli molto simpatico..» mi strinse la mano con forza fissandomi attentamente, avevano organizzato una cena per quella sera e io non mi sentivo così sicuro di parteciparvi.
«Josh, senza di te non avrebbe senso, con chi dovrei festeggiare la mia prima rappresentazione se tu non ci sei?» Mi afferrò il viso impedendomi di sfuggire dalla sua presa, stampandomi un bacio sulle labbra.
«Sei un ragazzo molto prepotente.» Gli diedi un pizzicotto sul fianco guardandolo allontanarsi per entrare in caffetteria. L’aria quella mattina era fredda, una sferzata violenta di vento mi colpì in pieno viso, strinsi gli occhi infastidito e quando li riaprii la persona che mi stava di fronte mi lasciò totalmente pietrificato. Pensavo di avere un allucinazione visiva, Mattew non poteva essere lì di fronte a me non con Enoch a dieci metri di distanza. Sentii la mia gola stringersi di colpo, le mie gambe erano indecise se scappare via o restare inchiodate lì, nel dubbio tremarono appena.
«Joshua.» La sua voce era ancora come la ricordavo, bassa e autoritaria, respirai profondamente ma prima di poter muovere un singolo passo un’altra voce entrò nel mio raggio uditivo.
«La cassiera ha sbagliato a darmi il resto.» Enoch mi sorrise baciandomi e io vidi i lineamenti di Mattew alterarsi, stavo su candid camera? Quante possibilità c’erano di trovarmi tra due fuochi in quel momento?
«Enoch, ascoltami..» modulai il mio timbro che comunque apparve insicuro, gli afferrai la manica della giacca stringendola con fermezza, aggrottò la fronte senza capire.
«Joshua, devo parlarti.» Mattew adesso stava praticamente lì accanto a noi, chiusi gli occhi maledicendo me stesso e la mia vita di merda. Mi infastidì il suo modo di ignorare volutamente la persona che mi stava accanto, come a volerla sminuire quando sapeva benissimo in che rapporti eravamo. O pensava baciassi sulle labbra qualsiasi essere vivente di sesso maschile? Capii l’esatto momento in cui Enoch lo riconobbe dalla postura tesa delle sue spalle e dalla linea affilata della mandibola, si mise accanto a me afferrandomi la mano.
«Posso capire cosa ci fai qui?» Non trovai niente di intelligente da dire a parte quello, dio santo dov’era Shou quando avevo bisogno di lui?
«Parlarti, ed è la terza volta che te lo chiedo.» il suo tono indisponente alterò Enoch.
«Se per tre volte non ti ha risposto potresti arrivare da solo alla conclusione.» La voce grondava sarcasmo da ogni poro, provai a mettermi in mezzo ma venni spostato dietro di lui che mi coprì quasi del tutto. Erano alti praticamente allo stesso modo, e il modo in cui si fissavano mi faceva pensare avrebbero mandato in cortocircuito tutto il Connecticut.
«Cosa sei il suo avvocato? Joshua la lingua ce l’ha, e la usa anche bene credimi.» Mi spalmai le mani sul viso respirando profondamente, a breve mi sarei messo a urlare lì di fronte a tutti.
«Non mi piace che la sprechi per gente inutile.» Okay, la situazione adesso stava degenerando.
«Se pensi io sia inutile evidentemente non hai la minima idea di chi sia, e Joshua dovrebbe dirtelo, così eviteresti delusioni.»
«BASTA.» Mi misi in mezzo trascinando lontano Enoch che oppose resistenza, non mi feci scoraggiare mettendoci il doppio della forza.
«Andiamo via o giuro che lo lascio steso qui sull’asfalto.» Non si premurò nemmeno di abbassare il tono, voleva che Mattew lo sentisse.
«Ti fidi di me?» Non mi guardò e allora lo forzai afferrandogli il viso con le mani. «Enoch, guardami, ti fidi di me?» Ci fissammo per un tempo che mi parve infinito, ricordavo ancora quando quella stessa frase l’aveva detta lui a me. Adesso la situazione era diversa, ma volevo sentirlo ricambiare la fiducia cieca che gli avevo sempre donato.
«Si.» Non sembrò per nulla contento di quella sua risposta mentre mi guardava avviarmi verso Mattew a cui feci cenno di spostarsi per parlare, Enoch non si mosse da quel marciapiede, sentivo i suoi occhi blu su di me e piuttosto che mettermi angoscia mi diedero forza. La forza di chiudere almeno quel capitolo della mia vita.
 
«Chi cazzo è quello.» Era sempre così, non cambiava mai, irruente e dispotico.
«Il mio fidanzato, non lo avevi sul serio capito?» Ovvio che lo aveva fatto, ma dimostrava ancora una volta come non gliene fregasse un emerito cazzo degli altri.
«Joshua.. tu lo sai quello che c’è stato tra noi, e sai che non è mai finito.» Provò ad afferrarmi ma mi scostai con talmente tanta velocità che la sua mano restò sospesa ad afferrare l’aria.
«Prima che tu pensi anche solo di toccarmi, ti dico già che ti ritroverai Enoch addosso, quindi piantala.»
«Non me ne frega un cazzo, sono qui per sistemare le cose.» Quali cose? Il fatto che mi avesse guardato promettendomi di tornare e sapendo di mentire? O il fatto che il nostro rapporto fosse colato a picco già da prima senza che ce lo dicessimo? Era tutto così surreale.
«Mi sembra un po’ difficile, tra un mese ti sposi giusto?» Sembrò toccato dalla cosa, forse non pensava lo sapessi, sorrisi reclinando appena il capo.
«Ho fatto di tutto per te, di tutto. E tu? Che cazzo hai fatto tu esattamente? Mi hai lasciato sempre ai margini, fuori la tua porta.. come se fossi qualcosa ‘’in più’’ nella tua vita.» i miei lineamenti si alterarono improvvisamente, era lì per sfogare la sua frustrazione accusandomi e recriminando? Beh, era tipico di lui, non c’era una volta in cui deponesse le armi e provasse a guardarsi dentro. Guardarsi dentro davvero dico, in maniera sincera.
«Tu non hai fatto nulla Mattew, a parte provare a comandare la mia esistenza e chiudermi nella tua bellissima gabbia dorata. A te non importava quanto io soffrissi per TJ, quanto fossi terrorizzato all’idea che il reverendo mi trovasse..» mi stoppai un secondo provando a modulare la voce in modo che non tremasse per la rabbia. «A te importava solo l’ascendente che volevi esercitare su di me, come fossi un manichino del cazzo da tenere come mobilio. Forse mi hai amato, è vero, ma non era l’amore giusto..»
«Se m’avessi amato un decimo di quanto io ho amato te..» i suoi occhi divennero carichi di rabbia e insofferenza.
«L’ho fatto, in qualche modo. Ma non sarebbe bastato mai..»
«Lo ami?» Mi venne spontaneo guardare Enoch, stava lì fermo con le mani in tasca e riuscivo a leggere quasi il lavorio dei suoi pensieri mentre decideva se attraversare la strada o meno.
«La fai troppo semplice come sempre, non capiresti ciò che provo nemmeno se te lo spiegassi, e questo non cambierà di certo perché tu sei qui oggi con chissà che pretesa..» mi venne spontaneo sorridere mentre ancora una volta il peso dei miei sentimenti mi travolgeva a ondate.
«Non sai che cazzo dici..» respirai profondamente scuotendo il capo.
«Non trattarmi come un imbecille solo perché non accetti le cose che ti vengono dette. Prenderne atto o meno è affare tuo, ma non ti dico una cosa: anche se domani Enoch dovesse sparire, tu non avresti la minima possibilità. Vai avanti Mattew, fallo e non voltarti più indietro..» Lo lasciai lì così, consapevole di quanto il suo presente fosse misero. Legato a una donna che non amava, costretto a sposarla per ereditare ogni cosa che era sicuro gli spettasse di diritto; lo sapeva sin dall’inizio e non aveva esitato a mentirmi, e continuava comunque a dire di amarmi. Raggiunsi Enoch afferrandogli la mano.
«Andiamo?»
«No, voglio stenderlo con un cazzotto in faccia.» Scoppiai a ridere nervosamente trascinandomelo dietro senza più girarmi.
«Lascia perdere, non verrà più qui posso assicurartelo.» Mi guardò attentamente inarcando un sopracciglio.
«Che gli hai detto?»
«Come se non avessi fatto di tutto per leggermi il labiale.. che falso.» Lo spintonai e il suo braccio mi attirò contro di se, le sue labbra tra i miei capelli erano impalpabili. «Gli ho detto che sei l’amore della mia vita.»
«Solo? Dovevi essere più crudele, non ho visto lacrime sul suo viso.» Risi divertito tirandogli scherzosamente i capelli.
«Sei sexy quando fai lo stronzo, te l’ho mai detto?»
«Uhm no, ma puoi dimostrarmelo in camera tra poco.»
 
La cena in onore di Enoch era ormai al suo culmine, e io desideravo alzarmi e scappare via il più veloce possibile. Nonostante fossi seduto vicino a lui mi sentivo comunque un estraneo, era come se parlassero un idioma a me sconosciuto: soprattutto una di loro. Avevo ormai la certezza che lo facesse di proposito, raccontava avvenimenti che sapeva io non conoscevo proprio per escludermi, e quindi trovavo inutile aggregarmi dal momento che dubitavo di poter dire qualcosa di intelligente in materia. Afferrai il mio bicchiere d’acqua bevendone un sorso, guardando di sottecchi la bionda avvicinarsi un po’ troppo al mio ragazzo, se le davo una capocciata avrei rovinato la cena? Supponevo di si. Non vedeva l’anello al suo anulare? Ma soprattutto non vedeva ME accanto a lui? Ero diventato trasparente senza manco accorgermene forse, eppure tutti gli altri mi parlavano quindi era lei a soffrire di cataratte fulminanti. Sbuffai silenziosamente e in quel momento sentii qualcosa afferrarmi la mano, le dita di Enoch si intrecciarono alle mie, nonostante non mi guardasse sentivo come se fossimo solo noi due in quella sala, il chiacchiericcio attorno totalmente annullato, e quella consapevolezza mi portò a sorridere e sentirmi gratificato. Brindai con tutti gli altri riacquistando il mio buonumore.
«Ti sei divertito?»
«Quella tipa, Rebecca, c’ha provato con te vero?» Il suo silenzio mi parve una risposta abbastanza esaustiva.
«Forse, non saprei.» Lo guardai in maniera truce.
«Mi prendi per il culo?» Provai a svincolare dalla sua presa ma me lo impedì ridendo.
«Sei adorabile da geloso. E comunque non ha alcuna speranza, tu lo sai.. lo sai dove sta il mio cuore.» Si fermò in prossimità del dormitorio attirandomi contro il suo petto, rubandomi un bacio.
«Non mi piace comunque che ti stia così appiccicata..» intrecciai le nostre dita alzandomi sulle punte per ricevere un secondo bacio.
«Non si avvicinerà più, me ne occuperò io.» Lo disse con un tono così sicuro da spiazzarmi, la mia incrollabile fiducia nei suoi confronti derivava anche da questo. Enoch aveva un modo tutto suo per inculcarmi i suoi concetti, non c’erano zone d’ombra nella nostra relazione (o almeno questo era ciò che pensavo), non si divertiva a flirtare con altri solo per vedermi impazzire come invece amava fare Mattew ai tempi. Lui era chiaro e cristallino, come uno specchio pulito in maniera impeccabile, e io ne ero innamorato perso.
 
*
 
La cena sembrava ormai un avvenimento distante, come fossero passati mesi e non due semplici giorni. Stava rintanato in camera propria, avvolto dalle coperte a fissare il vuoto che lo inghiottiva tra le sue fauci, a volte (molto spesso) dormiva cercando di non pensare a quella sensazione pressante di tristezza e disperazione con la quale si era svegliato quella fatidica mattina. Doveva ormai esserci abituato, eppure ogni volta che succedeva semplicemente non lo accettava, non riusciva a capire come lui sempre così rigido e preciso non riuscisse a controllare se stesso e la sua mente.
Se il primo giorno Joshua non sembrava averci fatto granché caso, adesso poteva percepire la sua preoccupazione ogni volta che gli scriveva un messaggio che puntualmente non riceveva risposta. Voleva solo essere lasciato solo, non voleva che il fidanzato lo vedesse in quelle condizioni, non voleva che capisse o peggio che fraintendesse.
«Sei sveglio..?» la sua voce si insinuò tra gli anfratti del suo dolore, si incastrò proprio lì corrodendo il suo cervello.
«Che vuoi, Josh.» Una risposta rude, quasi meccanica, sapeva di averlo ferito.
«Volevo solo sapere come stessi, io—» le parole si persero nella penombra della camera, non gli rispose. A che pro? Che pretendeva dicesse in quel momento? Non aveva la forza di mentire, né quella di dire la verità. Continuava a ripetere semplicemente ‘’sono stanco, sono stanco’’ sperando che bastasse a rassicurare l’altro, ma era ovvio che non fosse così. Sentì dei movimenti alle sua spalle, e poi il materasso piegarsi sotto al peso di un secondo corpo; restò immobile lasciando che l’altro lo abbracciasse da sopra le coperte.
«Ci sono io con te..» sorrise amaramente, non aveva nemmeno la benché minima idea di cosa stesse succedendo, eppure provava ugualmente a rassicurarlo.
«Dormi e basta, sono stanco.» Chiuse gli occhi ricacciando indietro il magone, provando a ingoiarlo insieme al senso di colpa e all’amarezza, voleva davvero parlargli come al solito ma non ci riusciva. La sua mente era in pieno trip, come se avessero spento tutte le luci al suo interno e lui non sapesse dove trovare l’interruttore. Quanto sarebbe durata stavolta? Aveva il terrore di scoprirlo.
 
*
 
Enoch era di nuovo cambiato, e stavolta non sembrava una cosa passeggera o qualcosa che sarei riuscito a risolvere solo con un abbraccio. Non usciva dalla sua camera ormai da una settimana, stava a putrefare su quel letto avvolto dalle coperte, chiudendo fuori il mondo e anche me. La stronzata della ‘’stanchezza’’ poteva reggere i primi due giorni, ma adesso no. Il pensiero che non mi parlasse e mi tenesse fuori da ciò che gli succedeva mi faceva soffrire oltre ogni immaginazione; fino a ieri ero convinto di poter cambiare il suo umore con un sorriso o un bacio, ma a quanto pare mi ero sbagliato, che non avessi più alcun ascendente su di lui? Ero terrorizzato. Ogni giorno entravo in camera sua a portargli del cibo che puntualmente veniva toccato poco, dormivo con lui abbracciando quel corpo che adesso mi sembrava estraneo, come se mi rifiutasse. Mi parlava bruscamente o apaticamente, era come se non fossi più il suo Joshua, come se lui non fosse più il mio Enoch. Mi ricordai il giorno della mia partenza a Mississipi, anche allora l’avevo visto in condizioni simili ma ai tempi non c’avevo fatto caso più di tanto, adesso invece la realtà mi era piombata dritta in faccia come uno schiaffo violento e inaspettato. Avevo paura a chiedergli cosa avesse, l’ultima volta che ci avevo provato mi aveva praticamente chiesto di uscire e di non farmi più vedere.
Adesso ero seduto sul pavimento, la schiena poggiata al suo letto ed ero sicuro che non dormisse, lo capivo dal modo accelerato e poco tranquillo in cui respirava.
«Sei stanco di me, vero?» Nonostante avesse appena detto una cosa devastante il suo tono appariva apatico, monocorde.
«Non sai ciò che dici..» scossi il capo per poi chinarlo, stringendomi le ginocchia al petto.
«Magari non adesso, ma ti stancherai presto, non sarebbe meglio quindi andartene via ora?» Sentivo le lacrime spingersi oltre il bordo dei miei occhi, le ricacciai indietro serrando i denti.
«Enoch, smettila, non riuscirai a farti detestare facendo così né mi convincerai a non venire in camera tua ancora.» Non lo guardai, non ne avevo semplicemente la forza.
«Non era questa l’intenzione, ma non vedi? Sei inutile qui, non mi servi e mi dai fastidio.» Mi sentii come se avessi delle molle trapiantate nelle gambe per il modo in cui scattai in piedi. Ero come arrivato al mio punto di rottura, non volevo sentire un’altra parola.
«BASTA, BASTA. Perché mi fai questo? Perché TI fai questo.. perché dici cose così crudeli se sai di non pensarle? Smettila..» mi resi conto di piangere solo quando i singhiozzi mi risucchiarono l’aria da dentro i polmoni, uscii fuori da quella stanza che non mi permetteva più di respirare, cercando di eliminare da dentro la mia mente le sue parole. Sapevo che non le pensava, io sapevo quanto contavo per lui, quanto mi amasse, ma anche così non riuscivo a capire come potesse farci tutto quel male. Perché non poteva semplicemente parlarmi? Spiegarmi cosa fosse successo. Aveva litigato con sua madre? Con suo nonno? Io non lo sapevo, semplicemente non lo sapevo. E l’incertezza mi logorava da dentro.
Non tornai da lui quel giorno, non avrei sopportato un’altra parola da parte sua senza distruggermi del tutto dentro, restai in camera mia a fissare il muro come se quello fosse trasparente e io potessi vedervi attraverso: riuscivo a vedere Enoch steso su quel letto, con l’espressione sofferente per le cose che mi aveva detto. Chiusi gli occhi per cacciar via anche quell’immagine deleteria.
Decisi di andare da Sophia, parlare un poco con lei mi avrebbe aiutato forse, magari un occhio esterno avrebbe tratto delle conclusioni più sensate sulla situazione? Quando aprii la porta della sua stanza la mia mente andò in tilt. Stava seduta sulla sua scrivania, ogni oggetto presente era distrutto in terra, aveva l’espressione più dolente che avessi mai visto.
«Che diavolo succede..» mi guardò con gli occhi gonfi, supponevo avesse pianto.
«Josh, fra tre mesi mi sposo
 
*
 
Era come se la clessidra che centellinava il tempo nella sua vita si fosse crepata, la sabbia usciva fuori e nonostante provasse a tappare il buco questo continuava semplicemente a perdere. Aveva provocato volutamente Joshua, gli aveva detto cose crudeli che nemmeno pensava, si era reso così assurdamente patetico. Sollevò le coperte oltre la sua testa, non lo vedeva dal giorno precedente e la sua assenza pesava come un macigno sul petto, che poteva fare? Uscire il più in fretta possibile da quella condizioni di prostrazione nella quale era caduto probabilmente, allungò una mano verso il comodino aprendo il cassetto per afferrare il barattolo di pillole prendendone due anziché una. Se continuava ad aumentare le dosi probabilmente la ruota avrebbe girato di nuovo, il mare sarebbe tornato calmo e il cielo si sarebbe schiarito. Doveva solo tenere duro ancora un po’, le medicine lo avrebbero aiutato e allora sarebbe tornato da Joshua, gli avrebbe chiesto scusa, gli avrebbe mentito ancora adducendo una scusa patetica che l’altro però avrebbe finto di credere solo per poterlo riabbracciare. Quella consapevolezza punse i suoi occhi in maniera dolorosa, pressò le palpebre con le dita ricacciando indietro le lacrime. Avrebbe sistemato tutto, bastava solo crederci.
 
Bastava soltanto crederci.
Soltanto crederci.
Crederci.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Life without you.. just isn't life. ***


XVI.




«QUALCUNO MI AIUTI, STA MORENDO.» Urlai quelle parole tra i singhiozzi cercando di arginare le ondate di nausea che mi travolgevano, tenevo il suo capo sul mio grembo affondando disperatamente le dita tra i suoi capelli: non respirava.
 

(*due giorni prima.)
 
«Mio padre ha deciso tutto.» Sosteneva il capo col pugno chiuso della mano, gli occhi vuoti di chi sembra provare a guardare il nulla. «Dice che è un matrimonio conveniente, aiuterà i suoi affari e inoltre mi permetterà di vivere coperta d’oro tutta la vita.»
«Sophia, è una follia. Tu non lo conosci neanche, non puoi sposarlo..» mi guardò scuotendo il capo scacciando la mia mano tesa come se non potesse afferrarla per qualche strano motivo.
«Non posso deluderlo, Josh.. lui mi ha adottata, mi ha cresciuta e mi ha dato una vita agiata, devo ripagarlo.» Compresi in qualche modo il suo stato d’animo, per quanto sbagliato potesse essere capitava di sentirsi perennemente in debito con chi ti aveva cresciuto pur non essendo il tuo genitore biologico. Di sicuro non pensavo potesse esistere ancora il matrimonio per denaro, eravamo nel medioevo?
«Non puoi ripagarlo a prezzo della tua intera felicità, questo è totalmente sbagliato..» le accarezzai i capelli lasciandola piangere e sfogarsi, in quel momento mi sembrava davvero di vedere tutto nero. Non c’era una singola cosa che andasse bene, un singolo motivo per cui sorridere. Guardai la porta chiusa, volevo vedere Enoch.
«Ti vedo così stanco, Enoch sta ancora male?» Annuii in difficoltà, non avevo saputo nemmeno io come descrivere il suo malessere. Ammesso lo fosse davvero, ma che altro potevo dire? ‘’Il mio ragazzo è così stanco da essersi chiuso in camera a vegetare per una settimana. Oh ed è anche così stanco da parlarmi in maniera crudele e consigliarmi di lasciarlo.’’? Era paradossale, dio.
«A volte è veramente spaventoso..» mi toccai il petto sentendo la mia voce soffocata a causa della gola stretta. «L’amore dico, a volte è veramente spaventoso.» Mi abbracciò cullandomi tra le sue braccia, mi sentii bene per qualche strano motivo.
«Supereremo anche questa, sono sicura che un giorno ne staremo parlando ridendo seduti in qualche bar.» Non ci credeva nemmeno lei era così evidente da farmi ridere, Sophia era sul serio negata per consolare.
«Non sposarti, fallo per te stessa e anche per la persona con cui dovresti legarti.. – l’amore non è un affare, tu lo sai.» Le afferrai il viso scrutandola con attenzione, provò a divincolarsi ma non glielo permisi, alla fine annuì e potei solo sperare mi ascoltasse.
 
 
Camminavo lentamente tenendo stretta al petto una busta di carta, avevo comprato alcune vitamine uscendo dal quo vadis, volevo andare da Enoch e vedere come stesse, cercare di sistemare ancora una volta le cose sperando non mi cacciasse. Quel tragitto mi era sempre piaciuto, la strada costeggiata di auto parcheggiate da entrambe i lati a un certo punto della sera smetteva d’essere trafficata piombando nel silenzio più assoluto. I primi tempi temevo TJ apparisse dietro di me per farmi del male, ma adesso riuscivo mediamente a respirare, ero sicuro si fosse nascosto ancora quanto sarebbe passato prima che tornasse? Un anno? Un mese? Due anni? Mi auguravo che ‘’mai’’ fosse la risposta giusta, e mi sentii un codardo a pensarla.
«JOSHUA.» Una voce familiare urlò il mio nome con così tanta enfasi da spaventarmi, non feci in tempo a voltarmi lo vidi praticamente gettarsi su di me e due minuti dopo stavo a terra col suo corpo a comprimermi e la mano pulsante.
«Jake, che diavolo—» non riuscivo nemmeno a parlare per la fatica di averlo addosso, sentii il rumore di uno schianto e vetri rotti, guardai dritto e vidi una macchina contro una di quelle parcheggiate, le frecce accese e impazzite, ma nessuno vi uscì. «Che diavolo è successo..» faticai ad alzarmi e mi scapicollai a raggiungere il conducente, quando aprii lo sportello il corpo privo di sensi mi arrivò addosso: era Friedl.
«Lo conosci?» Probabilmente la mia faccia scioccata aveva parlato per me, annuii provando a scuoterlo.
«Chiama un’ambulanza, temo stia male..»
«Senti Josh..» Jake provò a parlare ma lo stoppai non avevo tempo per mettermi a discutere nel bel mezzo di un incidente, non con Friedl svenuto e in quello stato.
 
Non ebbi bisogno della diagnosi dei medici, già prima che mi dicessero qualcosa io sapevo che la causa di quel malore fosse l’assunzione di droghe e alcool. Già da tempo avevo intuito che il vizietto di Friedl per le erbe si era allargato anche a cose sintetiche e pesanti, e unite alla sua passione per l’alcool non portavano di certo a risultati positivi.
«Sta solo riposando, non c’è da preoccuparsi.. – piuttosto tu che pensi di fare con quella mano?» Sbattei le palpebre seguendo la traiettoria del suo sguardo, avevo il polso lievemente gonfio e la parte laterale della mano sanguinante, forse era successo cadendo per terra. Seguii il medico di buona lena affinché potesse medicarmi.
«In quanto pensa che riprenderà conoscenza?» Guardai il lettino poco distante storcendo poi le labbra quando sentii le dita tastarmi il polso dolorante.
«Vorresti andartene ma non vuoi che si svegli da solo?» Che diavolo era un cartomante o un medico? Aggrottai la fronte con così tanta enfasi che mi scoppiò a ridere in faccia iniziando a bendarmi. Ero così ovvio?
«Non è che voglio lasciarlo qui, è che insomma.. un’altra persona mi aspetta, ha bisogno di me.» Enoch era da solo in quel momento, magari pensava lo avessi abbandonato? Che mi fossi stancato?
«Ci vorrà parecchio prima che si risvegli, quindi ti consiglio di andar via adesso e magari tornare domani, che ne pensi?» mi diede un buffetto amichevole sulle dita lasciandomi finalmente andare via.
Trovai Jake fuori ad aspettarmi, fumava una sigaretta con l’aria nervosa. Avevamo stretto un bel rapporto, complice anche Nastya che ci univa mi sentivo come se potessi parlargli sempre un po’ di ogni cosa mi passasse per la testa.
«Ehi..» lo spintonai con un sorriso che non ricambiò.
«Sei stupido? Joshua, in che rapporti sei con quel ragazzo?» Guardai involontariamente verso l’ingresso.
«Un tempo eravamo qualcosa di simile agli amici.. adesso no. – senti Jake..» non mi fece nemmeno finire, buttò la cicca ormai consumata lontano da se fronteggiandomi.
«Josh, ti stava per investire. Lo capisci? Se non fossi arrivato io, ti avrebbe preso in pieno.» I nostri occhi si soppesarono, nei suoi vi era ansia e nei miei consapevolezza. «Ho visto tutto, ti seguiva dall’ingresso della via e ha iniziato ad accelerare.. cristo santo.» Alzò la voce e io provai a rabbonirlo.
«Aveva preso delle droghe, non era in se..»
«Non era in se il cazzo.» Sapevo avesse ragione, semplicemente l’idea che Friedl avesse provato a investirmi mi veniva difficile da accettare, e con essa tutte le conseguenze che ne derivavano. «Chiamiamo la polizia.»
«NO.» Provai a moderare il tono della voce. «No, prima.. lascia che gli parli io prima, e dopo ti prometto che avviserò qualcuno.» Non sembrò molto convinto dalle mie parole, ma in qualche modo riuscii a portarlo via da quell’ospedale. Si impuntò nel volermi accompagnare fino all’ingresso del dormitorio e solo quando varcai il vialetto andò via.
Mi sedetti su una delle panche che sovente usavo durante il giorno, tutto taceva persino il vento sembrava essere sparito. Guardai la mia mano fasciata, avevano detto fosse una semplice slogatura e sarebbe passata in poche settimane; che dovevo fare? Mi rendevo conto della gravità di tutta la situazione, ma allo stesso tempo mi sentivo come colpevole. Come se avessi spinto io quel ragazzo problematico e insicuro ad abbracciare i suoi errori. Come se avessi schiacciato io quell’acceleratore che per poco non mi aveva ucciso. A volte avevo come l’impressione di portare solo disgrazie ovunque andassi, Friedl e anche Enoch.. guardai verso la sua camera, era tutto spento. Dal giorno prima dormiva ancora di più, e ogni volta che lo trovavo sveglio mi fissava come se fosse intontito, quasi stupefatto e con gli occhi vacui di chi non comprende appieno ciò che gi accade. Persino parlarmi sembrava difficile, strascicava le parole e non avevano comunque un gran senso rispetto alle domande che gli ponevo. Improvvisamente sentii un senso di strisciante disagio afferrarmi il cuore, abusava di qualcosa? Il pensiero che si drogasse o peggio mi rendeva impossibile respirare, come avevo fatto a non accorgermene se fosse stato davvero così? Che diamine di fidanzato ero esattamente? Saltai su da quella panca avviandomi verso l’ingresso, dovevo scoprire qualcosa e dovevo farlo adesso.
Sophia mi intercettò al secondo piano facendomi quasi prendere un colpo, osservò la mia benda con sguardo critico chiedendomi che avessi combinato.
«Ascoltami..» Allargai le narici guardandomi attorno, e senza nemmeno parlare la trascinai verso la sua camera tra le sue mille proteste.
«CHE COSA CAZZO HAI APPENA DETTO?» Non aveva preso bene la notizia di Friedl, mi slanciai ad afferrarla con la mano sana poco prima che uscisse fuori di lì come una virago impazzita.
«Stai ferma, Sophia per favore..»
«PER FAVORE? Per favore? Josh ti ha quasi ammazzato, io vado lì e finisco la sua vita.» Provai a rabbonirla in ogni modo con scarsi successi, finché forse per stanchezza mentale non acconsentì a calmarsi e stare in silenzio.
«Devi promettermi che non lo dirai a nessuno.. soprattutto a Enoch.» Le afferrai le mani stringendole spasmodicamente, in quel momento non avrebbe potuto affrontare altre batoste.. stava male e io ormai ne ero pienamente cosciente. Nonostante mi sfuggisse ancora la matrice di questo malessere.
«Non la vedo per niente bene Josh, ascolta tu me per una cazzo di volta. Se Enoch venisse a saperlo..»
«Non lo farà se noi due teniamo il becco chiuso.» Strinsi ancora di più la presa e alla fine annuì stizzita.
«Oh diamine, va bene. Ma ascolta bene queste parole: non so quando e non so come, ci pentiremo di non averglielo detto.» Sperai che almeno quella volta le sue doti di veggente non azzeccassero quella profezia che suonava come una campana da morto. E quel morto aveva la faccia di Friedl.
 
Camera di Enoch era totalmente al buio, mi aiutai con la torcia del telefono per non inciampare in tutto quel casino a terra, nonostante si alzasse poco o nulla e nonostante io riordinassi spesso c’era ben più disordine che nei giorni normali. Mi avvicinai al suo letto puntandogli la luce dritta in faccia, in modo da essere sicuro che dormisse e non mi beccasse a rovistare tra le sue cose, sarebbe stato problematico spiegargli che diamine pensavo di fare.. non mosse nemmeno un muscolo facciale, era piombato in un altro dei suoi sonni profondissimi, poggiai un dito sotto il suo naso per accertarmi che respirasse bene. Di recente ero diventato così ansioso da fare cose simili senza nemmeno rendermene conto.
Iniziai a frugare dentro i cassetti, fortunatamente non riponeva i vestiti in maniera ordinata e quindi sparpagliandoli un po’ ovunque ero sicuro non se ne sarebbe accorto. Non trovai nulla. Passai all’armadio, ma anche lì feci un buco nell’acqua, imprecai silenziosamente dirigendomi verso la libreria, vi erano solo libri appunto e quaderni pieni di appunti. Alla fine guardai nuovamente il letto e il comodino, lentamente mi ci diressi camminando sulle punte, aprendo il cassettino con il batticuore e l’ansia. Al suo interno trovai un orologio, un caricabatterie e un tubetto di pillole che mi parvero familiari: le avevo viste a natale in casa sua, aveva detto fossero per l’emicrania di cui soffriva. Le afferrai con mano tremante leggendo nuovamente il nome, era impronunciabile e come tale mi puzzava. Feci una foto all’etichetta e la inviai a Shou scrivendo semplicemente: ‘’scopri a cosa servono, e scoprilo SUBITO!’’. Un movimento fece arrivare il mio cuore sotto le scarpe, posai il medicinale dov’era chiudendo il cassetto poco prima di vedere Enoch girarsi e fissarmi.
«Che fai..» la sua voce era ancora strascicata e assonnata, deglutii nervosamente sorridendo.
«Ero venuto a vedere come stessi..» merda avevo scordato le vitamine in ospedale. Mi morsi la lingua per non imprecare sedendomi accanto a lui. «Volevo dormire con te, vuoi?» Si limitò ad annuire senza alcuna gioia tornando a chiudere gli occhi. Mi aveva nuovamente escluso.
 
L’ospedale era l’unico luogo in cui sia di giorno che di notte vigeva un caos impareggiabile. Scansai una signora bisbetica con la carrozzella avviandomi verso la stanza dove stavano svariate barelle, la terza era quella di Friedl. Quando scostai la tendina lo trovai intento a vestirsi frettolosamente, mi vide e si bloccò. Un lampo ambiguo passò a oscurare i suoi occhi poco prima che sorridesse e io capii che ricordava tutto.
«Ehi Josh!» la sua voce allegra non mi coinvolse, mi sedetti sulla sedia libera fissandolo teso.
«Come ti senti?»
«Uno straccio, mi dispiace per i problemi che ti ho causato.» Si mosse a disagio sollevando la cerniera della felpa, di quali ‘’problemi’’ parlava esattamente?
«Ricordi qualcosa di ieri?» Volevo mi dicesse la verità, parlarne e chiarire. Anche se sapevo che un’azione simile non poteva essere appianata con una semplice stretta di mano.
«Mi dispiace, non ricordo nulla. Ho fatto qualcosa di strano?» Inarcò un sopracciglio e io scossi il capo per poi chinarlo. Aveva solo tentato di ammazzarmi, dovevo farlo rientrare tra le cose ‘’strane’’?
«Riprenditi prima e poi ne riparleremo.» Mi alzai e senza nemmeno salutarlo mi avviai all’uscita, non mi richiamò nemmeno una volta, non ebbe un minimo di cedimento. L’autoconservazione vinceva sempre su tutto, persino sulla morale, persino sulla coscienza. Non ero forse uguale a lui? Non avevo taciuto sulla notte al capannone? Era per questo che mi sentivo restio a denunciarlo, no? Un messaggio mi distrasse, afferrai il cellulare leggendo velocemente: ‘’a che ti serve? Ho mandato il nome a un’amica, appena so qualcosa ti scrivo’’. Non risposi continuando a camminare senza meta finché l’ennesimo squillo non mi bloccò, stavo per aprire il messaggio di Shou ma la chiamata di Enoch occupò l’intera schermata.
«Pronto?» Il silenzio mi accolse, temetti fosse scattata per sbaglio una chiamata ma mentre stavo per riattaccare il suo respiro affannoso mise le catene attorno ai miei piedi. «Enoch?» alzai il tono della voce per costringerlo a rispondere, come se potesse bastare ma dall’altra parte ancora respiri e poi il nulla. Iniziai a correre verso il dormitorio con la certezza che qualcosa di terrificante stava per investirmi in pieno. E stavolta nessuno mi avrebbe spinto salvandomi.
 
*
 
Un burattino e un Burattinaio. Il primo era Enoch, il secondo la sua mente. Aveva provato a capovolgere quella condizione, aveva aumentato la dose dell’antidepressivo nella speranza che la ruota arrugginita tornasse a girare ma sembrava aver solo sortito l’effetto opposto. La sua testa era un caos perenne, se non dormiva faticava a mettere insieme i suoi pensieri, le parole, i ‘’ti amo’’ che avrebbe voluto dire a Joshua sempre lì accanto a se.
Le luci all’interno della sua testa si accesero tutte d’un colpo nel fatale momento in cui il suo corpo cedette di schianto contro il suolo. Prese coscienza di ciò che aveva fatto, prese coscienza di tutto il tempo che aveva sprecato, ma soprattutto prese coscienza di tutto quello che gli restava e che forse non sarebbe riuscito a vivere. Chiamò il primo numero tra le sue emergenze, quella voce fu come un balsamo nella sofferenza, avrebbe voluto dirgli che si era sbagliato e che andava tutto bene ma non ci riuscì, sentiva come se non potesse più respirare, come se delle mani lo costringessero a stare sott’acqua senza permettergli di prender fiato. E quando il buio lo inghiottì un ultimo pensiero grondante di cattiva ironia perforò il suo cervello: ‘’non è divertente morire adesso quando avevi finalmente trovato un motivo per restare, Enoch?’’, aveva la voce baritonale di Arthur Cutler.
 
*
 
Spalancai la porta e il corpo riverso a terra di Enoch mi strappò un urlo disumano, partiva dal cuore e si spandeva in ogni cellula del mio corpo. In ginocchio accanto a lui le mie mani tremavano convulsamente, non sapevo quale parte di lui toccare mentre fissavo il suo viso ingrigito come se la vita lo avesse improvvisamente abbandonato. Afferrai il cellulare provando quattro volte a comporre il numero delle emergenze, mi sentivo come se potessi decompormi al suolo da un momento all’altro.
«QUALCUNO MI AIUTI, STA MORENDO.» Urlai quelle parole tra i singhiozzi cercando di arginare le ondate di nausea che mi travolgevano, tenevo il suo capo sul mio grembo affondando disperatamente le dita tra i suoi capelli: non respirava. Non sentivo il suo respiro, e stavo morendo a poco a poco in quella consapevolezza. «Non mi lasciare, ti prego, me lo avevi promesso..» le mie lacrime scendevano talmente abbondanti da bagnare il suo viso immobile, quasi volessero riportarlo lì insieme a me. Come potevo pensare di andare avanti, di mettere un piede dietro l’altro ogni giorno della mia esistenza senza che lui mi fosse accanto? Fissai il soffitto  con rabbia, parlavo a quel Dio che avevo sempre pregato: come puoi strapparmelo così dalle mie braccia? E’ questa la punizione per i miei peccati?
Sentii delle mani artigliarmi con forza e sbalzarmi lontano, provai ad avvicinarmi ancora ma me lo impedirono. Non riuscivo a sentire cosa dicessero, vidi le loro uniformi e la barella, una voce bassa cercava di riportarmi lì con loro ma io fissavo solo il corpo di Enoch ancora incosciente mentre tagliavano la sua felpa scoprendogli il petto.
Ancora oggi non riesco a ricordare quanto durò il tragitto in ambulanza, i minuti erano scanditi dalla mia continua domanda: ‘’respira?’’.
Le porte della terapia intensiva si chiusero di fronte ai miei occhi e io sentii la stanza girarmi tutta attorno, caddi su una delle sedie cercando di ricordare come si respirasse, artigliando il colletto della mia maglietta con ferocia fino a strapparlo. Se lui moriva, che cosa avrei fatto della mia vita? Che senso avrei potuto dare a quel puzzle ormai distrutto a cui avevano rubato il pezzo più importante. Afferrai il viso tra le mie mani piegandomi, accartocciandomi su me stesso, riuscivo solo a lamentarmi come preda del dolore più atroce. Come se avessero appena strappato le mie carni, nemmeno le frustate del reverendo Walker avevano fatto così male, ne avrei chieste altre cento, altre mille, se solo fosse servito a qualcosa. Il medico uscì dalla sala e io lo guardai, aveva curato il mio polso solo poche ore prima, i miei occhi si riempirono di lacrime: se la sua verità non avesse coinciso con ciò che desideravo, avrei preferito vivere tutta la mia vita nella menzogna. O morire in quell’istante.
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Mother ***


XVII.



«Tieni, è un calmante.. credo tu ne abbia bisogno.» Fissai il bicchiere senza afferrarlo, nonostante Enoch fosse ancora vivo seppure incosciente le mie mani non smettevano di tremare, forse perché adesso la consapevolezza di tutti i retroscena della faccenda mi stava letteralmente piombando addosso. E faceva fottutamente male.
«Quando si risveglierà?» Faticai a sentire io stesso la mia voce, avevo il timore della sua risposta.
«Era lui?» Aggrottai la fronte fissandolo senza capire. «Era lui la persona dalla quale volevi correre l’altra notte? Quella che ‘’aveva bisogno di te’’?» sentii nuovamente le lacrime fuoriuscire dai miei occhi, annuii stancamente scuotendo poi il capo, coprendomi il viso con le mani.
«Non sono più così sicuro di questo..»
«Ti chiami Joshua, giusto? Ascoltami, ci sono stati altri episodi simili prima d’ora? Perché..» lo guardai nervosamente.
«Cosa sta cercando di dirmi?»
«Ha ingerito un quantitativo quasi letale di antidepressivi, bisognerà avvertire gli psichiatri.. è un tentato suicidio questo.» Non volevo ascoltarlo, non volevo mi spogliasse così di tutte le mie convinzioni. Ero convinto di avergli fatto del bene, ero convinto che stando con me non pensasse più a quelle cose, che fossi il suo porto sicuro. Non ero abbastanza quindi? Come potevo vivere con quella consapevolezza adesso?
«Non credo lo abbia mai fatto prima..»
«Non ti preoccupare, si sistemerà tutto.» Le mie labbra tremarono appena, volevo solo essere lasciato solo col caos che avevo dentro il mio cuore. «Joshua. Mi piace il tuo nome, sai? Vuol dire ‘’il signore è la mia salvezza’’..» strinsi i denti annuendo, sapevo bene quale fosse il suo significato. Quando lo vidi alzarsi afferrai la manica del suo camice senza guardarlo.
«Madalyn Cutler, la conosce?» Sembrò spiazzato da quella domanda ma annuì. «Potrebbe farla venire qui? Enoch.. è suo figlio.»
«E’ il figlio della dottoressa Cutler?» Non mi premurai di fissare la sua espressione, a che pro? Il tono sbigottito parlava chiaramente. Non mollai la presa strattonandolo ancora una volta, i miei occhi restavano incollati al pavimento lucido.
«Un’ultima cosa.. c’è una cappella qui dentro, dottore?» La mia voce si spezzò, sentii la sua mano accarezzarmi il capo, forse per lui ero solo uno tra i tanti che cercavano conforto nella fede.
 
Non ebbe bisogno di presentazioni, quando Madalyn varcò le porte della terapia intensiva la riconobbi subito. Togliendo la somiglianza fisica spaventosa col figlio, aveva il suo stesso incedere sicuro e in più quella consapevolezza di contare parecchio all’interno di quell’ospedale. Non mi degnò di uno sguardo andando a vedere il figlio, a lei era permesso.. a me no. Non ero un parente, non ero un medico, non ero niente di niente. Restai seduto, quasi raggrinzito, su quella sedia scomoda e dura iniziando come mio solito a spezzare con le dita le unghie, un vizio che pensavo di essermi tolto ormai anni fa quando ero uscito dal giogo tossico della mia vecchia famiglia.
«Sei tu il ragazzino che lo ha portato qui?» Mi alzai in piedi a fatica, non mangiavo dal giorno prima e sentivo come se le mie forze se le fosse portate tutte Enoch dentro quell’ambulanza. Il viso di Madalyn era di una bellezza disarmante, al pari della severità dei suoi lineamenti. Aveva gli occhi duri di chi nella sua vita è dovuta scendere troppe volte a compromessi.
«Come sta? Posso vederlo, io..» Le parole mi morirono in gola, mi sentivo così minuscolo in quel momento.
«Si, ho dato il permesso per far stare te con lui, io non credo di ..avere tempo.» Tempo? Una madre non aveva davvero tempo per il proprio figlio incosciente in un letto d’ospedale? Mi sentii nauseato e non nascosi il biasimo nei miei occhi incavati.
«Il tempo lo si trova, se lo si vuole.» Ci fissammo qualche istante soppesandoci con severità, alla fine stranamente sorrise.
«Non sei solo un amico, vero? Lui non mi ha mai parlato di te.. ma d’altra parte Enoch non mi parla mai di nulla. Non pensavo avrei vissuto abbastanza da vederlo innamorato..» E di chi è la colpa? Avevo una gran voglia di dirglielo ma tacqui, non pensavo comunque fosse necessario confermare l’ovvio.
«Vogliono avvisare gli psichiatri, dicono che lui..» non riuscii a pronunciare la parola ‘’suicidio’’, nella mia voce disperata c’era una supplica, la pregavo di darmi una speranza di non lasciarmi con quella consapevolezza devastante di non essere stato abbastanza per l’uomo che amavo.
«Non ce n’è bisogno, non per questo almeno..» si stoppò deglutendo in difficoltà, sembrava divisa tra ciò che avrebbe dovuto dire e ciò che avrebbe voluto dire davvero. «Enoch è bipolare.»
«Cosa?» Le mie gambe cedettero di nuovo, e per quanto volessi apparire educato non riuscii a non ricadere sulla sedia.
«Gli è stata diagnosticata questa malattia ormai anni fa, ecco perché prendeva quegli antidepressivi.. si rifiuta di vedere uno psichiatra, non capisce che un medico saprebbe aiutarlo in qualche modo.» il tono duro si riempì di biasimo.
«Magari vorrebbe che prima del medico fosse sua madre ad aiutarlo e sostenerlo.» Mi alzai nuovamente a fronteggiarla, quelle nuove consapevolezze rimbombavano dentro la mia mente ma dovevo comunque farmi forza. Chissà quando avrei avuto l’occasione di parlarle nuovamente.
«Non è me che vuole, piuttosto che avermi vicino ingerirebbe tre tubetti di pillole.» sorrise sterile, non c’era gioia nel suo sguardo.
«Per quanto ci si allontani, non si smetterà mai di essere madre. E’ una cicatrice che porti dal parto fino alla morte.» Arretrò di un passo come se fosse stata schiaffeggiata dalle mie parole, non disse nulla e io vidi la linea affilata della sua mandibola sforzarsi di non perdere il controllo.
«Adesso vado, ho molti pazienti da visitare..» mi diede le spalle bloccandosi dopo poco, voltando appena il viso. «Stagli vicino, è te che vuole accanto a se; i dottori che lo hanno soccorso mi hanno detto che il primo numero delle sue emergenze eri tu, Joshua.» Stavolta il suo viso si addolcì, avevo come l’impressione che il suo problema non fosse la mancanza di ‘’tempo’’, aveva semplicemente paura di avvicinarsi troppo al figlio. Come biasimarla? Quando passavi la tua intera vita rifiutando qualcuno per la quale provi un amore incondizionato e naturale, alla lunga finivi per logorarti e perderti in quella strada tortuosa che hai deciso di intraprendere. Il frutto di tutti i suoi errori era dormiente in una stanza asettica, e i passi di Madalyn Cutler divennero improvvisamente malfermi mentre si allontanava da me.
 
Restai al suo fianco ogni istante, gli tenevo la mano inventandomi storie che speravo sentisse, facendo progetti a lunga scadenza per me e lui, raccontandogli aneddoti divertenti risalenti ai miei primi tempi a Las Vegas. Accarezzavo i suoi capelli, e baciavo la sua mano tenendola stretta, forse troppo, magari sentendola avrebbe percepito la mia presenza traendone conforto? Il dottor Sawyer veniva spesso a trovarmi, supponevo provasse simpatia per me forse gli ricordavo i suoi figli, o semplicemente suscitavo pena in chiunque mi fissasse.
«Ci sta facendo attendere eh?» Mi sorrise guardando poi Enoch, non era più sedato pesantemente eppure continuava a dormire, mi piaceva pensare che si stesse riposando da tutte le fatiche a cui si era sottoposto.
«Lo lasci dormire, sarà così stanco..» gli sistemai i capelli perennemente disordinati, stavo cedendo di nuovo alle lacrime quindi mi alzai uscendo fuori da quella camera. Mi diressi senza nemmeno rendermene conto alla cappella, mi sedetti sull’ultima panca chiudendo gli occhi. Adoravo quella sensazione di calma, mi piaceva parlare con Lui nel silenzio e nella pace, inoltre l’odore di incenso così pressante non mi infastidiva ma anzi mi calmava.
In quell’ora lì dentro parlammo molto, gli dissi tante di quelle cose che ripeterle a voce alta sarebbe stato impossibile. Il dottor Sawyer mi interruppe con un mezzo sorrisino e le mani infossate nelle tasche del camice.
«E’ sveglio.. più o meno.» Quando corsi da lui lo trovai cosciente ma poco propenso a parlare, gli afferrai con cautela la mano portandomela contro la guancia, avevo un tale bisogno di sentire nuovamente i suoi occhi su di me.
«Amore..» mormorai quella parola con un filo di voce e finalmente mi guardò, non disse nulla ma dentro il suo sguardo c’erano contenute così tante cose che il peso mi ricadde addosso sommergendomi. Quando voltò il viso dall’altro lato ebbi come l’impressione che si vergognasse, strinsi la presa sulla sua mano e lui ricambiò: c’era ancora speranza. Ripiombò nell’incoscienza pochi minuti dopo, e così fece per le ore successive.
 
— Mi avvisi se ci sono novità?
— Ma certo.. devi stare tranquilla.
— Tranquilla un cazzo Joshua, penso di essermela rifatta nelle mutande dopo 18 anni.
— Quanto sei scema.. dai riattacco.

 
Il rumore della macchinetta mi fece sorridere, o comunque storcere le labbra in qualcosa di simile a un sorriso, riposi il cellulare in tasca prendendo il bicchierino fumante con la mano illesa soffiandoci sopra. Avevo bisogno di pochi minuti in solitudine, dovevo mettere ordine dentro me stesso e capire come mi sentissi davvero. A parte la sensazione di camminare sulle macerie del mio cuore sapevo di essere sollevato per la ripresa di Enoch, eppure continuavo a venire sopraffatto dalla tristezza al pensiero che mi avesse escluso da una cosa così grave. Bevvi a piccoli sorsi ma la mia bocca restò ugualmente amara; vidi movimento e agitazione lungo il corridoio e per qualche motivo l’ansia artigliò il mio petto. Gettai il bicchiere di cioccolata ancora pieno iniziando a correre verso la camera di Enoch, la trovai spalancata con le infermiere in pieno panico.
«Il paziente è scappato, ha strappato la flebo ed è sparito..» Fissai il letto vuoto aggrappandomi alla maniglia della porta, dove diamine era andato?
Supponevo di aver girato l’intero ospedale senza che trovassi una minima traccia del suo passaggio, era già tardi e fuori faceva freddo, dove poteva essersi rintanato? Ma soprattutto perché? Mi fermai pressandomi le tempie, dovevo riflettere e pensare. Dov’era Enoch? C’era qualche posto importante per lui? Mi venne in mente il campetto da basket dov’era solito stare, che fosse andato lì? Prima ancora di concretizzare quel pensiero iniziai a correre diretto a Yale, l’avrei scoperto da me se avevo visto giusto.
Non avevo visto giusto. Col fiatone fissai il campo vuoto, non c’era neppure il suo alito sparso nell’aria, mi coprii gli occhi cercando di non piangere e farmi prendere dall’isteria, improvvisamente mi tornò in mente una nostra conversazione.
 
 «Guardare le stelle, la vastità del cielo, mi ha sempre calmato soprattutto nei miei periodi più neri. Dopo aver conosciuto te però ho smesso quasi del tutto [….] che bisogno ho di guardare le stelle se ho te?»
 
Adesso ero quasi certo di sapere dove fosse, feci retromarcia verso il dormitorio iniziando a salire le scale a perdifiato, non mi importava delle ombre, avevo più paura di perdere lui che per me ormai era tutto. Aprii di scatto la porta della mia camera scrutando nell’ombra, e fu lì che lo vidi: rannicchiato nell’angolo vicino al mio letto, le braccia a sostenere le ginocchia e il viso sepolto fra di esse.
«Enoch..» quando sentì la mia voce il volto scattò in alto a fissarmi.
«Sei arrivato finalmente.. non sapevo dove stessi, ho pensato fossi andato via dall’ospedale, ho pensato di essere rimasto solo. Ho pensato a tante cose..» Gli sedetti accanto cercando di mantenermi stoico, dovevo farlo per lui, gli afferrai il capo lasciando che si stendesse sulle mie gambe.
«Ero andato a prendere della cioccolata, volevo portartela di nascosto dai medici.. lo sai che non vogliono tu ingerisca cose che non siano la loro brodaglia.» Mi sforzai di ridere ma lui non mi seguì limitandosi a stringermi il ginocchio con forza.
«Ho pensato che fosse finita, quando ho sentito di non poter più respirare mi dicevo ‘’ecco, questa è la mia punizione per aver desiderato così tanto morire’’.» piansi silenziosamente accarezzandogli i capelli corvini. «Ho preso quelle pillole perché volevo riprendermi in fretta, volevo tornare da te..» qualcosa di umido bagnò i miei jeans, e capii che stava piangendo. Mi tornò in mente un’altra nostra discussione avvenuta sotto le coperte una sera particolarmente serena: ‘’credo di non aver pianto spesso nella mia vita, mi sento come inaridito dentro.. ma quando ti guardo penso che per te potrebbe valerne la pena. Piangere, dico.’’ Mi curvai verso di lui abbracciandolo.
«E lo hai fatto, sei tornato da me.. hai idea di quanta paura io abbia avuto? Il pensiero di perderti..» i singhiozzi mi impedirono di continuare, ma sapevo che in quel momento dovevo essere forte. Tirai su col naso asciugandomi gli occhi, costringendolo ad alzarsi tenni fermo il suo viso tra le mie mani asciugando le sue lacrime.
«Volevo mentirti per sempre, non volevo mi vedessi debole, non volevo scoprissi quanto poco riesco a controllare me stesso.» La sua voce spezzata dal pianto mi lacerò il cuore.
«Non sei più da solo, ci sono io con te adesso.. qualsiasi cosa la supereremo insieme.» Lo abbracciai sentendo le sue mani artigliare la mia felpa, lasciai che sfogasse tutto il dolore represso per quella condizione che non aveva mai voluto ma con la quale si era ritrovato a far fronte da solo. Quanto poteva aver sofferto? Quanto poteva essersi sentito misero in quei momenti? Mi tornò in mente la prima volta in cui lo vidi, quella sensazione di isolamento che lo circondava, capii che era solo il suo modo di proteggersi da se stesso e da chiunque provasse ad avvicinarsi a lui.
«Vorrei prometterti che passerà, che guarirò del tutto.. ma non posso.» Stoppai le sue parole baciandolo, tenendo le mie labbra premute sulle sue in maniera disperata.
«Ti amerei anche se domani perdessi una gamba e dovessi spingere la tua sedia a rotelle per sempre. Non esiste vita se non ci sei tu, supereremo anche questa insieme.. te lo prometto.» E io le promesse le mantenevo sempre.
«Sarei sexy anche senza una gamba..» ridemmo tra le lacrime tornando a baciarci con desiderio e amore. «Piuttosto che hai fatto alla mano?»
«Ah quello.. nulla, sono solo caduto.» Mi augurai la mia espressione non cedesse, il buio mi aiutò a far si che quegli occhi blu non sondassero ancora una volta le profondità della mia anima.
«Ti amo Joshua, ti amo più di quanto potrai mai concepire..» stavolta fu lui ad asciugare le mie lacrime, e io mi crogiolai in quella sensazione di calore, la sensazione di averlo nuovamente lì con me.
«Mi sei mancato così tanto..»
«Ero qui con te, anche se sembravo distante non mi sono mai allontanato dal tuo fianco e così sarà per sempre. Ogni volta che penserai io sia distante, ricordati che il mio cuore ti sarà sempre vicino.» Mi toccò il petto ascoltando i miei battiti adesso impazziti, sorrisi con le labbra che tremavano e dopo giorni di lenta agonia tornai lentamente a vivere.
 
*
 
Joshua lo convinse a tornare in ospedale, Enoch era certo che quel ragazzino lo avrebbe convinto ad andare persino all’inferno soltanto guardandolo e mostrando le fossette. Quella spaccatura formatasi in una singola notte lentamente andò rimarginandosi, attraverso le risate del fidanzato, la sua voce mentre gli leggeva dei libri o lo rimproverava per convincerlo a mangiare quella merda che spacciavano per cibo. Lentamente ma inesorabilmente sentì il suo animo tornare a riscaldarsi e lasciare il freddo grigiore della morte; averla sperimentata così da vicino sentiva lo avesse in qualche modo cambiato, adesso più che mai era convinto su quali fossero le sue priorità, su quanta voglia avesse di vivere e godersi ogni giorno accanto a Joshua, completare i suoi studi, trovare un lavoro che lo appagasse e infine vivere sotto lo stesso tetto con l’altro. Supponeva di non avere altre aspettative, lui che fino a un anno prima non voleva nemmeno sentir parlare di matrimonio e figli adesso sperava il tempo galoppasse veloce solo per condurlo al primo di quei due traguardi.
In camera con Joshua giocavano a uno stupido gioco con le carte che stava vedendo il fidanzato perdente su tutta la linea.
«Ma sei sul serio così schiappa?»
«La pianti? Ricordati chi ha perso miseramente a nascondino.» Inarcò un sopracciglio mettendo su una finta espressione scocciata, ripensare a quella sconfitta bruciava ancora parecchio. Lo squillo insistente del cellulare mise fine a quella disputa.
«Chi è?»
«Sophia.. è qui fuori, le parlo un attimo è torno. Sai la storia del fidanzamento..» non riusciva ancora a crederci eppure era tutto vero, sul comodino spiccava l’invito a quel matrimonio che avrebbe avuto luogo tra meno di tre mesi. Lo stava guardando allontanarsi con un sorriso rimischiando le carte per la prossima partita quando un pensiero sfrecciò per la sua mente: era il caso di andare da Sophia e mostrarsi solidale con lei? Non era mai stato il tipo da smancerie simili, ma supponeva la ragazza avesse un umore nero in quel momento e durante la sua degenza in ospedale era pure venuta a rompergli l’anima con quella sua vocetta petulante. Si alzò dirigendosi alla porta, ma restò bloccato con la le dita serrate sulla maniglia al suono di una frase.
 
«Lo hai detto a Enoch?»
«Sophia per favore..»
«Joshua, Friedl poteva ammazzarti, chi ti dice che non ci riproverà?»
«Non lo farà, aveva bevuto non era in se..»
«So che ti stupirà saperlo, ma io quando mi ubriaco non gioco a schiacciare gente con il mio fuoristrada.»

 
Il boato della porta fece spaventare entrambi, fissarono Enoch che a sua volta li fissava con occhi raggelanti.
«E’ così che ti sei fatto male alla mano?» Sophia strinse con forza le palpebre, probabilmente desiderava una magia che la facesse sparire da lì all’istante.
«Enoch per favore, parliamone..» Parlarne? Sentiva dentro di se un calore squassante diramarsi lungo tutto il corpo, scrollò con irruenza la presa della sua mano allargando le narici.
«TI HO FATTO UNA CAZZO DI DOMANDA.» Le sue urla intimidirono Joshua che arretrò di un passo, fu Sophia a farsi avanti nervosamente.
«Enoch non te lo abbiamo detto perché stavi male.. quando è successo tu non eri in te.»
«Adesso sono molto in me, eppure non ho saputo ugualmente un cazzo.» La sua voce tagliente fece sobbalzare gli altri due che capirono fosse meglio restare in silenzio. Non riusciva a crederci, sapeva solo pensare a Joshua quasi investito da un auto con Friedl alla guida, il velo rosso calò sui suoi occhi spingendolo a mollarli lì andando via.
«ENOCH DOVE VAI.» Ignorò le proteste del fidanzato aumentando il passo fino a sparire lungo le scale, sapeva dove andare a cercare quel verme. Stava sempre nel parchetto dietro l’università, con quei falliti della sua facoltà. Friedl non ebbe nemmeno il tempo di vederlo arrivare, si ritrovò semplicemente sbalzato con così tanta forza da finire a terra dolorante.
«Che diavolo fai—» le sue urla attirarono l’attenzione di altri ragazzi che vedendo l’espressione di Enoch pensarono bene di ritirarsi in silenzio. Lo afferrò per la maglia sollevandolo di peso, sbattendolo contro il muro di mattoni poco distante.
«Io ti uccido.» Sillabò quelle parole con lentezza, come se volesse farle entrare una per una dentro il suo cranio simili a pallottole.
«Non ho idea di cosa tu stia dicendo.» Friedl provò a divincolarsi dalla sua presa inutilmente, e quando un cazzotto lo colpì in faccia riuscì a sentire il sopracciglio lacerarsi dolorosamente. Si tenne la fronte barcollando.
«Sai quanti anni di galera ti danno per un tentato omicidio, Friedl?» Il ragazzo lo fissò con le lacrime agli occhi.
«Avevo bevuto, non ero in me..»
«Oh, allora sai di cosa sto parlando.» Sorrise in maniera arcigna sferrando un secondo cazzotto che fece ruzzolare l’austriaco a terra. «Se non vuoi passare i prossimi anni in galera ascolta bene ciò che ti sto dicendo: prendi le tue cose e sparisci. Non farti più vedere di fronte ai miei occhi, perché se dovessi rivederti..» non ebbe bisogno di continuare, il messaggio supponeva fosse stato abbastanza chiaro e coinciso.
«Perché lui? Ti ho amato in maniera totale e disperata, molto più di quanto potrà mai fare Josh nella sua intera esistenza.»
«Tu non hai la minima idea di ciò che dici, se avessi 1/3 di ciò che ha lui, forse saresti riuscito quantomeno a entrare nel mio raggio visivo Friedl. Tu non sei stato nulla, e mai lo sarai.» Si allontanò da lì osservando il gruppo di curiosi formatosi poco distante. «CHE CAZZO AVETE DA GUARDARE.»
Si sentiva come un animale chiuso in gabbia, copriva le distanze della propria camera camminando e camminando, l’idea di non essere riuscito a proteggere Joshua trapassava le sue tempie come un dardo incandescente. Qualcuno bussò ma non si premurò di rispondere finché la porta non venne socchiusa e il soggetto dei suoi pensieri si materializzò davanti.
«Possiamo parlare..?» La voce insicura gli provocò un moto di tenerezza che soffocò.
«Adesso vuoi parlare? Perché stamattina pensavo dovessi usare le pinze per cavarti di bocca le parole, cazzo.» Provò a calmarsi lasciandosi cadere sul letto, senza ritrarsi quando venne raggiunto dall’altro che gli afferrò la mano. Fissò la sua benda sentendosi nuovamente afflitto e arrabbiato.
«Non te l’ho detto perché temevo questa reazione..»
«E che reazione dovrei avere scoprendo che hanno quasi ammazzato il mio ragazzo?» Si fissarono in silenzio per quelle che sembrarono delle ore.
«Friedl si è fatto molto male?» Roteò gli occhi sbuffando.
«E chi cazzo se ne frega? Dovevo fargli ancora più male.» Afferrò la mano bendata con cautela, voleva vedere coi propri occhi l’entità del danno, quindi iniziò a slegare la fasciatura trattenendo il respiro.
«Io sto bene, davvero.. è solo una slogatura.» Il polso era adesso meno gonfio ma ugualmente tumefatto, i graffi si stavano rimarginando lentamente ricoprendosi di croste.
«Il solo pensare che hai rischiato di morire mi rende impossibile respirare..» deglutì il bolo amaro di saliva fissandolo con apprensione mista a terrore.
«E’ ciò che ho provato io quando ti ho visto lì..» indicò il centro della camera, l’esatto punto dove aveva trovato Enoch riverso ed esanime una settimana prima.
«Mi dispiace così tanto, Josh..» Mormorò quelle parole abbracciandolo, lo stringeva come se volesse farlo entrare dentro il proprio corpo, accarezzando i capelli lisci e scuri.
«Se ti dispiace davvero promettimi che non mi lascerai mai più.» Lo vide scostarsi e fissarlo con solennità, stavolta Enoch poteva sentirsi sicuro. Aveva deciso di accantonare la vendetta nei confronti del nonno proprio per quel motivo, il disperato desiderio di rimanere accanto a quell’amore che l’aveva fatto tornare in vita.
«Te lo prometto.»
 
Promettiamo secondo le nostre speranze, e manteniamo secondo i nostri timori.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** What reality are you living in? ***


XVIII.



Tornare alla vita, alla quotidianità, sembrava più facile a dirlo che farlo. La notte non riuscivo a dormire bene, ogni volta che chiudevo i miei occhi mi si presentava la scena di Enoch riverso sul pavimento e il sonno mi abbandonava magicamente. L’unica soluzione era rannicchiarmi contro la sua schiena e ascoltarne il battito del cuore regolare, quel suono riusciva a confortarmi e rassicurarmi abbastanza da dormire almeno intorno all’alba. Avevo sviluppato questa sorta di morbosa paura verso la morte, non era un qualcosa di normale e pacato, avevo il terrore che ogni giorno fosse l’ultimo e per quanto sapessi che non era così il mio animo persisteva nell’inquietudine.
Mi trovò seduto in un angolo del balcone, le brezze serali andavano mitigandosi ed era piacevole guardare il cielo senza patirne il freddo. Si sedette accanto a me in silenzio a fissare le stelle, probabilmente le nostre menti in quel preciso momento erano più connesse di quanto potessimo pensare.
«Vorrei sapere cosa passa per la testa del mio bambino.» sorrisi a quel nomignolo sfregandomi l’occhio stanco.
«Non volevo svegliarti, mi dispiace..»
«Non stavo dormendo, come posso dormire quando mi stringi così forte da impedirmi quasi di respirare?» Ci fissammo in silenzio, non pensavo di essere stato così ovvio in quei giorni.
«Ho solo paura, non voglio perderti.. ti trattengo con me nell’unico modo che conosco.» Passò un braccio attorno alle mie spalle attirandomi contro il suo petto, il suo cuore batteva tranquillo.
«E a me piace.. quando mi abbracci, dico, mi piace davvero.» baciò la mia fronte e il suo respiro solleticò la mia pelle. «Non voglio andare da nessuna parte, ma non posso nemmeno andare avanti insieme a te se ogni volta che ti guardo ti vedo demoralizzato.»
«Non sono demoralizzato, ho solo paura di non essere granché a sostenerti..» allacciai le braccia attorno ai suoi fianchi e in risposta si sciolse dalla mia presa alzandosi, conducendomi nuovamente in camera.
«Ho bisogno anch’io di te, solo di te. Sei fantastico Joshua, il modo in cui riesci a sostenermi, in cui mi sei stato accanto..» mi accarezzò il viso con un sorriso. «E’ stato perfetto, tu lo sei.» Le sue mani afferrarono il bordo della mia maglia sollevandolo e togliendola del tutto, un brivido accarezzò la mia schiena mentre sentivo adesso le sue dita toccare il mio corpo. Era la prima volta, dopo il suo incidente, in cui tornava a toccarmi in quel modo.
«Ti sosterrò sempre e comunque, non dubitarne mai..» le nostre labbra si cercarono trovandosi pochi istanti dopo, il desiderio muoveva i nostri corpi quasi automaticamente; le mie dita lo spogliarono con urgenza e fretta fino ad averlo nudo contro di me. Scivolammo sul letto, sotto le coperte, mi sovrastava fissandomi dall’alto, baciando i miei occhi, le mie guance e le mie labbra, scendendo sempre più giù e facendomi perdere totalmente il senso della realtà.
Toccai la sua eccitazione strappandogli un gemito di piacere, mentre lentamente tornavamo a scoprire l’uno il corpo dell’altro. Era come se lo conoscessi a memoria, una mappatura perfetta di lui, di ciò che amava, di ciò che odiava, di ciò che sapevo gli piacesse. Quella notte non perse tempo nei preliminari che amava donarmi solo per il gusto di vedermi impazzire, c’era l’urgenza dell’avermi e possedermi mentre in me vi era la voglia di sentirmi completo, pieno del suo amore e del suo desiderio. Quando entrò dentro di me piansi, non riuscivo a frenare le lacrime e soffocai i singhiozzi contro il suo collo; non erano lacrime di dolore, semplicemente sentivo come se finalmente stessi riprendendo contatto con la realtà e allo stesso tempo andassi alla deriva tra le sue braccia. Il peso di quell’amore che sentivo per lui mi schiacciò ancora una volta, impossibile da descrivere o quantificare mentre allacciavo le mie gambe ai suoi fianchi supplicandolo di non fermarsi. Mi accontentò per tutta la notte.
 
 
«Questo posto puzza di soldi.» Nastya arricciò il naso con sguardo critico osservando la stanza piena di abiti da cerimonia, sedeva accanto a me aspettando che Sophia facesse la sua apparizione.
«Sono un po’ nervoso.. è il primo matrimonio a cui partecipo.» Evitai di dire quanto me lo aspettassi diverso, solitamente un matrimonio era un evento felice, ma quel giorno più che una futura sposa avevamo accompagnato una condannata a morte. Eppure quando Sophia uscì dal camerino con indosso il primo degli abiti da provare la sua bellezza mi tolse il respiro, sorrisi senza sapere bene cosa dire.
«Sei bellissima dolcezza.» Fu la biondina accanto a me a esprimere con esattezza ciò che io avevo solo pensato. Sophia si voltò verso lo specchio guardandosi con occhio critico, il corpetto aderiva perfettamente alle sue forme morbide e alla vita stretta, e la gonna vaporosa le conferiva un’aria quasi fiabesca.
«Sembri una principessa!» Sbattei le mani l’una contro l’altra strappando una risatina alla commessa.
«Può lasciarci soli?» Il tono di Sophia era monocorde, la donna comunque obbedì sparendo oltre la porta adesso chiusa. La guardammo sedersi su uno dei tanti divanetti, anche quelli avevano l’aria costosa, si portò una mano a sostenere il capo guardandoci attentamente.
«Ieri sono uscita con Lucas, voleva parlarmi.»
«Beh, ottimo direi, insomma è giusto che vi conosciate e magari scoprite anche di avere molte cose in comune..» sorrisi stentatamente sentendomi stranamente a disagio, il suo viso non preannunciava nulla di buono.
«Oh si, in effetti abbiamo molte cose in comune, una tra tutte soprattutto.»
«Lo sapevo porca miseria, vedi? Si sistemerà tutto.» Il tono sicuro di Nastya infervorò anche me che annuii con convinzione.
«A entrambi piace il cazzo.» Il silenzio calò in quella stanza, ero sicuro che persino gli abiti bianchi e scintillanti negli stand si fossero improvvisamente ingrigiti.
«Che stai dicendo…» cercavo di capire se avessi sentito bene.
«Lucas è gay Josh, il matrimonio è solo facciata. Mi ha detto ‘’potrei acconsentire a fare sesso con te per la procreazione di un erede’’..» imitò quello che pensavo fosse il tono del futuro marito e io mi sentii improvvisamente piccolo, Nastya sembrava aver perso l’uso della parola.
«Non puoi sposarlo, devi fermare tutto adesso, tu—» non ebbi nemmeno il tempo di finire, l’urlo della russa mi fece sobbalzare.
«SEI PAZZA? Vuoi sul serio sposarti un tizio che non proverà mai nemmeno a guardarti come ‘donna’?» Lo sguardo di Sophia si indurì, eppure i suoi occhi erano talmente umidi che temevo sarebbe crollata di lì a poco.
«Non ho altra scelta.»
«Una scelta c’è sempre..» provai a farla ragionare ma sembrava inutile, si alzò voltandosi verso lo specchio per lisciarsi le pieghe dell’abito.
«Svegliati Joshua, questa è la vita vera.» Non seppi cosa dire, chinai il capo intrecciando le dita sul mio grembo.. non ero sicuro fosse quella l’esatta definizione di ‘’vivere davvero’’. Avevo sempre pensato che in quanto esseri viventi avessimo tutti la libertà di scegliere, nel bene o nel male, che avessimo la possibilità di disegnare a modo nostro l’arazzo della nostra vita. ‘’E Sophia non lo sta forse facendo?’’, quel pensiero mi tormentò per tutto il pomeriggio.
 
Dopo la prova dell’abito io e Nastya restammo da soli, quel giorno avevamo lo stesso turno al quo vadis e ne approfittammo per stare un po’ insieme. Mi piaceva passare il mio tempo con lei, la sua ruvidezza mi divertiva più che sconcertarmi, ero sempre sicuro di ascoltare parole sincere da quelle labbra non troppo piene e mai truccate.
«Enoch si è ripreso?» Annuii mangiando il mio gelato, mi dondolavo sull’altalena sentendo il vento scompigliarmi i capelli, era piacevole.
«Adesso si, adesso va tutto bene..» mi sembrava quasi strano dirlo, eppure era così.
«Vi invidio, sai? Mi sono sempre chiesta quante probabilità ci siano per qualcuno di incontrare la sua metà perfetta..» la voce si sporcò di malinconia, il gelato colò sulle sue dita ma non sembrò accorgersene. Ci avevo pensato spesso anch’io, era come un insieme di casualità e scelte; se io quel giorno non avessi dato ascolto a Shou come sarebbe andata la mia vita? L’assenza assoluta di Enoch mi sembrava impossibile anche solo da concepire, avevo come l’impressione che in un modo o nell’altro saremmo finiti per incontrarci comunque.
«E Jake? Pensi lui sia la tua metà?»
«A volte lo penso, altre invece è come se mi sforzassi affinché lo diventi, come se dovessi rimettere insieme i cocci ogni volta o come quando compri delle scarpe che ami ma la misura è stretta.. eppure le acquisti perché non puoi farne a meno.» Aggrottò la fronte osservando il gelato ormai sciolto. «Questo dannato gelato..»
«Non esiste un amore perfetto, penso che il valore di un amore lo quantifichi da quanto lotti per stare insieme a quella persona.» Ci soppesammo in un silenzio carico di pensieri. «Non mi piacerebbe una storia semplice e lineare, mi farebbe sempre pensare di stare insieme perché non vi sono ostacoli nel nostro cammino.»
«Sei un bambino molto saggio.» La sua risata mi coinvolse, mi accarezzò i capelli per poi gettar via il suo gelato.
 
 
Mi fissai allo specchio sistemandomi i polsini della camicia perfettamente inamidata, la cerimonia sarebbe iniziata di lì a poco e come al solito eravamo in ritardo.
«Potresti calmarti? Se al matrimonio degli altri stai così al nostro ti devono sedare con la pistola per cavalli?» La voce di Enoch entrò negli anfratti della mia mente facendomi sbuffare, era così stronzo alle volte.
«Quindi mi stai nuovamente dicendo di volermi sposare?» Lo punzecchiai voltandomi e iniziando a sistemargli il nodo della cravatta storto.
«Ancora? Ma per essere chiaro devo metterti dentro un sacco e portarti all’altare?» Scoppiai a ridere scuotendo il capo, era adorabile vedere come stesse fermo per farsi sistemare, o come si muovesse impercettibilmente affinché le mie dita toccassero la sua pelle.
«Ma scusami non sarebbe più soft farmi una proposta?»
«Lo sai che sono più per le cose ‘’strong’’, non lo hai notato a letto?» Strinsi con forza il nodo della cravatta soffocandolo. «Okay okay, pace.»
«Sei senza alcun pudore.» Ci sorridemmo maliziosamente, ero certo avessimo la medesima fretta di tornare nella nostra camera dopo la cerimonia.
«Pensavo ti avessi conquistato proprio per questo.»
Con mia grande sorpresa non fummo gli ultimi ad arrivare, William fece il suo ingresso ben dieci minuti dopo con l’aria di chi non aveva la benché minima intenzione di giustificarsi. Sollevai un braccio salutando Nastya, accanto a lei Jake mi fece l’occhiolino; il matrimonio si sarebbe svolto all’aperto, il clima primaverile ormai lo consentiva, l’unico grande assente fu Friedl. Un mese prima aveva semplicemente lasciato il dormitorio, dicevano si fosse affittato un appartamentino con altri ragazzi, e noi avevamo smesso di chiedere di lui.
«Quello è lo sposo?» Enoch mi indicò Lucas, in piedi all’altare chi diamine poteva essere?
«No figurati, è il gelataio.» Lo rimbeccai beccandomi un pizzicotto sulla coscia che mi fece imprecare a bassa voce.
«Chissà se tra gli invitati c’è qualche suo amante..» mi voltai di scatto strattonandolo, mi si erano rizzati i peli al pensiero che qualcuno ci sentisse.
«Hai intenzione di fare lo stronzo ancora per molto?» Soffiò fuori una risatina stampandomi un bacio sulle labbra.
«Ti ho mai detto che sei adorabile quando ti fai prendere dal panico?» Il nostro battibecco fu interrotto dalla marcia nuziale, ci alzammo tutti osservando Sophia entrare nel nostro raggio visivo. Bella come il sole, supponevo non lo fosse mai stata così, eppure la sua espressione era strana quasi tirata, mi domandavo cosa le passasse per la testa. Camminava lentamente sotto gli sguardi di tutti, si bloccò a metà tragitto guardando tra gli invitati, come se cercasse qualcuno e quando i nostri occhi si incrociarono capii d’essere io. Aggrottai la fronte scuotendo appena il capo, cercavo di capire cosa volesse comunicarmi, ma ciò che vidi di lì a poco fugò ogni mio dubbio. Gettò il bouquet a terra e afferrato il vestito iniziò a scappare mollando lì lo sposo e tutti gli invitati. Scoppiò il caos tra il boato assordante che mi costrinse a tapparmi le orecchie, volevo inseguirla ma la folla non me lo permetteva.
«CAZZO, CAZZO! Non pensavo sarei vissuto abbastanza da vedere una sposa in fuga. Ma allora esistono.» Gli diedi una gomitata così forte da farlo piegare in due, mi guardò di sottecchi e io cercai di non ridere.
«Sei un mostro insensibile, ti sembra il caso di mostrarti così eccitato?» Iniziò a ridere senza fermarsi, lo strattonai provando a superare la calca di gente sbigottita, non mi sprecai neppure a guardare in direzione dello sposo.
Non trovammo Sophia da nessuna parte, stavamo seduti al tavolo del ristorante con le cravatte allentate e gli sguardi attoniti finché il mio cellulare non squillò. Aprii il messaggio: ‘’non cercatemi, mi faccio viva io’’. Sospirai passandolo a Enoch che a sua volta lo passò a Nastya e così via a tutti gli altri.
«Non riesco ancora a crederci..» William sorseggiava lo champagne con aria catatonica, in effetti pensavo che cose simili succedessero solo nei film. Fissai il giardino fuori, gli addobbi allestiti per la cerimonia adesso sembravano spenti e privi di magia.  
«Ha fatto la cosa giusta… nei tempi sbagliati.» Aggiunsi l’ultima parte frettolosamente sotto lo sguardo inquisitore di Nastya, sorridendo seraficamente.
«La stimerò per sempre, cioè è il mio mito cazzo.» Kevin si pressò le tempie ridendo senza alcuna intenzione di smettere, alla fine qualcosa si ruppe tra noi e uno per uno iniziammo a seguirlo senza alcun freno e pudore.
 
«Mi domando dove possa essere..» la mia voce angustiata attirò l’attenzione di Enoch intento a spogliarsi, mi venne dietro abbracciandomi.
«Sono certo che sia al sicuro, in questo momento è meglio per lei non farsi vedere.. temo i genitori non l’abbiano presa bene.» Era la cosa che temevo di più quella, il padre era un uomo molto severo, sarebbe riuscito a farsi passare un affronto simile? I miei pensieri vennero interrotti dallo sventolare di una busta bianca sotto il mio naso.
«Cos’è?» Mi voltai appena per fissarlo ma ricevetti solo un sorrisino enigmatico.
«Aprilo, no?» Aprii la busta e dentro trovai la foto di una casa, ero quasi certo avesse uno stile molto ‘’europeo’’, aggrottai la fronte tornando a chiedere delucidazioni.
«Mio padre ci vuole a Stoccarda per qualche giorno, come la vedi l’idea?» La vedevo talmente bene che gli saltai al collo iniziando a soffocarlo di baci e urla. «A proposito, non abbiamo ballato al matrimonio..»
«Volevi ballare?» Lo guardai armeggiare con lo stereo prima che una musica soffusa e lenta uscisse dalle casse.
«Ovvio, non volevi concedermi un ballo?» Mi sorrise tendendomi la mano, l’afferrai fissandola per ciò che era: la mia speranza e felicità.
L’euforia iniziò a scemare man mano che l’aereo mi avvicinava a Stoccarda, iniziai a preoccuparmi dell’impressione che avrei potuto fare al padre del mio fidanzato, era la prima volta che mi succedeva e non sapevo come arginare l’ansia. Sentii la mia mano stretta improvvisamente, mi voltai e trovai Enoch a scrutarmi da sotto le lunghe ciglia.
«Respira, mi stai diventando cianotico.» La faceva facile lui, ero io quello con l’attacco di panico.
«E se non gli piacessi? E se mi trovasse inadatto? E se..» mi tappò la bocca ridendo a bassa voce.
«E se ti calmassi?» Annuii poco convinto parlandogli con lo sguardo mentre l’hostess annunciava l’atterraggio e l’arrivo a Stoccarda.
Ormai pensavo di essere abituato al lusso, ma la villa di Evrard era seriamente qualcosa di spettacolare. A quando pare l’aveva acquistata dopo il suo primo film di successo, quasi a voler festeggiare e suggellare una strada che ormai sembrava lastricata d’oro. Fissai il maggiordomo sbattendo le palpebre, non pensavo esistessero, nella mia esistenza povera li consideravo creature mitologiche al pari dei centauri. Enoch gli si rivolse in tedesco, e nonostante le mie lezioni capii meno della metà di ciò che si dicevano. A giudicare dal tono e dal nome ‘’Evrard’’ ero quasi certo stesse chiedendo notizie del padre.
«Sta al piano di sopra..» mormorò quelle parole al mio orecchio spingendomi verso le scale imponenti all’ingresso, provai a opporre resistenza suscitando solo il suo divertimento mentre mi trascinava con più forza.
Quando aprimmo la porta la scena che mi si parò davanti mi lasciò sbigottito, una donna stesa sul letto e un uomo intento a rivestirsi, spalancai la bocca per parlare ma una mano mi si piantò in viso oscurandomi la visuale, tentai di sciogliere la presa ma il braccio di Enoch sembrava di marmo mentre continuava ad accecarmi e parlare concitatamente in tedesco. Non riuscivo a capire cosa diamine si stessero dicendo, ma supponevo non fosse piacevole, eppure il tono dell’uomo più grande era tutt’altro che arrabbiato anzi sembrava divertito. Non so come riuscii a liberarmi da quella presa osservando la donna adesso semi vestita, finché qualcosa non attirò la mia attenzione: una palla di pelo rintanata nell’angolo più lontano della camera. Mi fiondai in quella direzione e fu lì che feci la conoscenza di ‘’Rodolfo’’, in realtà non si chiamava così, aveva un nome più complesso che io non riuscivo a pronunciare. Mi chinai su di lui iniziando ad accarezzarlo, incurante della lite che si stava consumando a pochi metri da me finché un silenzio strano e quasi innaturale non mi distrasse. Sollevai il capo trovando Enoch ed Evrard intenti a fissarmi divertiti.
«E’ molto carino questo cane…» non trovai nulla di meglio da dire.
«E’ lui Joshua?» L’uomo parlò in perfetto inglese, il che mi rassicurò, quantomeno ero sicuro saremmo riusciti a comunicare. Enoch annuì soddisfatto con le braccia incrociate al petto e tra loro sembrò passare una conversazione silenziosa che non riuscii a decifrare. «Benvenuto in famiglia allora, mi sembra inutile dirti che Enoch non mi ha assolutamente parlato di te.» aveva una risata contagiosa e la mia ansia scemò un poco.
 
Evrard era decisamente un uomo particolare, molto affascinante per la sua età e forse per questo suscitava così tanto interesse nel gentil sesso, mi prendeva in giro come faceva il figlio e capii da chi Enoch aveva ereditato la sua dardeggiante ironia. Nel complesso mi stava simpatico, rispetto a Madalyn era più alla mano, socievole quasi ma senza peli sulla lingua proprio come l’ex moglie. Scoprii che la madre di Enoch in quella casa era un argomento tabù, non che avessi poi così tanta voglia di parlare di lei, avevo come l’impressione che l’uomo non l’avesse mai dimenticata. Come se quella famosa notte di quindici anni prima fosse rimasta una cicatrice aperta e sanguinante nel suo petto.
«Qual è il segreto per sopportare Enoch, esattamente?» Sputai quasi il tè battendomi il petto con una mano sotto il suo sguardo divertito. Il soggetto delle nostre discussioni dormiva al piano di sopra, mentre noi ci godevamo il sole nel patio in giardino.
«Non è come lo immagini tu..» mi aveva chiesto sin da subito di dargli del tu, e seppur con fatica avevo acconsentito.
«E come lo immagino io?» Reclinò il capo sembrando improvvisamente interessato.
«Più o meno come lo immaginavo io prima di metterci insieme…» rise per quella risposta diplomatica e magistrale versandosi dell’altro tè freddo.
«Quindi non è musone, insensibile, cinico e stronzo?»
«No in realtà è proprio così.» Ci soppesammo qualche secondo e io scoppiai a ridere schermandomi con le mani. «E’ tante cose Enoch, non saprei nemmeno da dove iniziare.»
«Ma tutte queste ‘’cose’’ a te piacciono però, vero?» I suoi occhi si addolcirono, il colore era identico a quello del figlio, e ugualmente penetrante. 
«Lui è un’insieme di tante cose, nel suo animo vi sono contenute così tante sfaccettature che a guardarci dentro ci si confonde, credo sia come un caleidoscopio di colori.» Mentre parlavo il viso di Enoch era fisso nella mia mente. «La prima volta che lo vidi pensai fosse ‘’l’assenza’’ fatta persona, ho scoperto solo dopo quanto mi stessi sbagliando..»
«Credo tu lo conosca meglio di quanto non faccia io..» c’era una punta di colpa e rimorso nel tono della sua voce, lo guardai con solidarietà riservandogli uno dei miei soliti sorrisi di conforto.
«Piantala di fare l’interrogatorio a Joshua.» La voce di Enoch ci costrinse a voltarci, oscurava il sole con la sua altezza, aveva l’aria ancora assonnata ma comunque riposata. Andò a gettarsi sull’amaca non prima di aver bullizzato il povero Rodolfo. Sembrava lo odiasse.
«Smettila di trattarlo male.» Lo rimbrottai prendendo il braccio quella palla di pelo scodinzolante accarezzandolo con tenerezza.
«Ho perso contro un sacco di pulci? Non riesce nemmeno a salire le scale da solo, e quando le scende inciampa planando.» Inarcai un sopracciglio con aria severa, quella descrizione mi ricordava qualcuno.
«La pianti? Guarda che ti sente e si mortifica..» scoppiò a rodere dondolandosi sull’amaca scuotendo appena il capo.
«Ma sai che visti così vi somigliate?» Stavolta fu Evrard a ridere di gusto, si erano nuovamente coalizzati contro di me. Allargai le narici alzandomi con superiorità.
«Andiamo Rodolfo, non meritano la nostra compagnia.» Mi allontanai con l’eco delle loro risate che mi strapparono un mezzo sorriso divertito; mi piaceva quel posto, quell’aria così diversa dall’America, e mi piaceva anche il sole caldo che batteva sulla mia pelle ricordandomi di essere vivo. Tre anni prima non avrei mai pensato di poter giungere fin lì, di poter riempire la mia quotidianità di amicizie e d’amore, sentivo come se adesso avessi anch’io moltissime cose da perdere e la cosa più che terrorizzarmi mi gratificava. Stavo vivendo la mia vita come tutti, senza più vincoli e paure. A quel pensiero mi adombrai, sapevo che un ultimo vincolo continuava a permeare, il dubbio e l’incertezza di cosa TJ stesse facendo lontano da me rendevano la mia felicità un po’ meno radiosa. Quand’è che ci saremmo rivisti per l’ultima volta? Il sordo abbaiare di Rodolfo mi distrasse, giocai con lui scacciando via quei pensieri poco allegri, qualsiasi cosa mi riservasse il futuro ero comunque sicuro che l’avrei affrontata con Enoch accanto, era questo ciò che contava davvero ed era sempre questo ciò su cui dovevo concentrarmi.
 
A quel tempo pensavo che le tue braccia mi avrebbero accolto e protetto per sempre.
A quel tempo ero convinto che il viaggio a Stoccarda era solo l’inizio per me e te.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Non addio, ma arrivederci. ***


IXX.



«Noi due caro amico siamo come il sole e la luna, o il mare e la terra. Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra..»
«La nostra meta non è di trasformarci l'uno nell'altro, ma di conoscerci l'un l'altro ed imparare a vedere e a rispettare nell'altro ciò che egli è: il nostro opposto e il nostro complemento.» Enoch finì la frase al posto mio, sorrisi fissandolo da sopra la copertina del libro.
«Il mio fidanzato è preparato sull’argomento.» Mi accarezzò la gamba nuda stringendola possessivamente tra le dita, stavamo stesi tra le lenzuola, l’uno a un capo diverso del letto, semi svestiti.
«Ho letto questo libro di Hesse miliardi di volte..»
«Siamo il sole e la luna?» Inarcai un sopracciglio, avevo bisogno di sentirglielo dire.
«Tu sei il mio sole, io il girasole che si tende verso te.» Mi tornò in mente la sera in cui disse di odiare quei fiori.
«Pensavo li detestassi..»
«Piacevano a Friedl, quindi dissi di odiarli per fargli un dispetto.» Scoppiai a ridere colpendolo col piede, sorrise sornione girandosi supino.
«Verrai a guardare un campo di girasoli con me, un giorno?»
«Lo farò.» La voce di TJ era un eco lontano, se c’era qualcuno a questo mondo con la quale avrei voluto vedere quei fiori che tanto amavo quello era Enoch, nessun’altro. Eravamo a Stoccarda ormai da quasi una settimana, il nostro tempo lì stava per scadere e io sentivo di averne già nostalgia. Mi augurai di poterci tornare presto, ancora con lui, innamorati come lo eravamo in quel preciso momento.
Sembrava avessimo ritrovato nuovamente il nostro equilibrio, quella dimensione perfetta nella quale risiedevamo da praticamente un anno ormai. Enoch aveva ripreso a comportarsi come suo solito, le paure di quella fatidica notte ormai lontane, fissavo il suo volto sorridente e il mio cuore sembrava volesse esplodermi nel petto. Poteva esistere un amore più totalizzante di quello? A volte ne dubitavo fortemente.
Stavamo poco in casa e parecchio in giro, cercavamo di accontentare l’uno le richieste dell’altro. Andammo allo zoo e al giardino botanico, visitammo la biblioteca più prestigiosa della città e persino il museo dedicato alle automobili.
Fissai con reverenza ogni centimetro di quel luogo, ci trovavamo al Württemberg Mausoleum.
«Ti piace?» Mi strinse la mano reclinando appena il viso.
«Molto..»
«Ha una storia triste questo posto però.» aggrottai la fronte mosso da una curiosità incontenibile spronandolo a continuare. «Viene chiamato ‘’il luogo del riposo eterno del re, della regina e della loro giovane figlioletta’’. La leggenda narra che la regina morì di crepacuore quando scoprì che il suo adorato marito la tradiva con un'altra donna. Il re, divorato dal rimorso, costruì questo edificio in un bellissimo luogo naturale, che poteva osservare direttamente dalle proprie stanze.» Restammo in silenzio a fissare i vigneti che si spandevano davanti ai nostri occhi.
«E’ una storia triste, perché me l’hai raccontata..» misi il broncio contrariato, sovente mi capitava di non essere molto propenso ad ascoltare racconti così tristi e tragici.
«Il mio bambino è deluso adesso.» Mi abbracciò da dietro ridendo silenziosamente, gli diedi una gomitata scherzosa lasciando che mi viziasse con le sue labbra, un brivido mi sfuggì senza che potessi controllarlo. Socchiusi gli occhi guardando il sole tramontare.
«E’ un tramonto perfetto..»
«Tu sei perfetto.» Sorrisi poggiandomi con la schiena al suo petto, sentivo come se volessi stringere con tutte le mie forze quei momenti, quasi a non volerli lasciare fuggire via, restandoci chiuso per sempre insieme a Enoch.
 
( E ti dico ancora: qualunque cosa avvenga di te e di me, comunque si svolga la nostra vita, non accadrà mai che, nel momento in cui tu mi chiami seriamente e senta d’aver bisogno di me, mi trovi sordo al tuo appello. )
 

Salutammo Evrard e Rodolfo due giorni dopo, mi dispiacque dover lasciare il mio nuovo amichetto a quattro zampe. Gli promisi che sarei tornato da lui, e anche se Enoch mi prendeva in giro io ero sicuro lui mi avesse capito e credesse nella mia promessa.
Passammo tutto il viaggio dormendo, usandoci a vicenda come cuscini, guardando un film per spezzare la monotonia e sorseggiando succhi di frutta. Il Connecticut ci accolse ore dopo e io sentivo la mia stanchezza arrivare a un punto quasi di rottura, volevo solo abbracciare il mio letto e dormire per i prossimi due giorni.
«Temo dovremmo prenderci una pausa da qualsiasi viaggio, sono terribilmente stancanti..» mi accarezzai il collo poggiando il capo sul suo braccio.
«Dovremmo a prescindere, è iniziata l’ultima sessione d’esami. Hai già pensato a come vorrai festeggiare la fine ufficiale del tuo primo anno?» L’idea che avessi completato con successo quell’anno accademico mi rendeva adrenalinico, stavo facendo qualcosa di buono per la mia vita, era come se la stessi modellando. Creta nelle mie mani.
«Uhm.. un viaggio?» La sua risata cristallina mi deliziò, la mia incoerenza lo divertiva sempre.
«Un altro? Pensavo volessi riposarti..» Mi abbracciò afferrando il mio borsone.
«Mi riposerò.. prima o poi.» Stavo per baciarlo quando una figura famigliare si stagliò di fronte a noi, la riconobbi subito. «SOPHIA.» Persino Enoch si bloccò, non la vedevamo da due settimane, e ritrovarcela al dormitorio era una sorpresa inaspettata.
«Lo so, lo so, vi sono mancata.» Mise le mani sui fianchi atteggiandosi come suo solito, in risposta Enoch sbuffò roteando gli occhi.
«A me non sei mancata per niente, vi lascio a spettegolare.. devo fare una doccia, puzzo di cadavere.» Sia io che Sophia lo fissammo inorriditi, e senza attendere oltre la spintonai dentro la mia camera.
«Raccontami tutto, dove diamine sei andata?» Si lasciò cadere sul mio letto, sedendosi scomposta nonostante quell’eleganza innata che da sempre la contraddistingueva.
«Prima del matrimonio avevo prelevato tutti i soldi dal mio conto.. cioè uno dei tanti.» Le feci segno di proseguire, la portata della sua eredità non era oggetto di discussione. «Ho prenotato un volo, destinazione casuale e sono partita.»
«Ti rendi conto che eravamo morti di preoccupazione per te? Dio santo..» mi sedetti trascinando la sedia fino a lei, afferrandole le mani: non indossava più l’anello di fidanzamento. «Come l’hanno presa i tuoi genitori?»
«Oh, bene.. mio padre ha detto che sta avviando le pratiche per diseredarmi, mi ha bloccato tutte le carte praticamente sono ..povera?» scrollò le spalle e nonostante l’indolenza forzata era evidente ne soffrisse.
«Sono sicuro che gli passerà.. lui ti vuole bene.» Le strinsi le mani tra le mie sorridendo fiducioso.
«Mi stava dando in pasto a un gay represso, lo chiami affetto questo?» Era un’ottima argomentazione dovevo ammetterlo, ma mi piaceva pensare che in tutti ci fosse del buono. Ero certo che suo padre avrebbe capito presto o tardi le motivazioni di quel gesto, e l’avrebbe perdonata.
«Hai sbagliato a piantare in asso lo sposo all’altare.. non potevi pensarci il giorno prima?» o un mese prima, magari?!
«Lo so, okay? Nastya mi ha già stressata abbastanza. Sentivo solo.. non lo so, era come se a ogni passo sulla navata non riuscissi a respirare. Ero sicura di potercela fare, e invece..» mi guardò con tristezza, l’abbracciai di slancio accarezzandole la schiena.
«Hai fatto la cosa giusta, sono fiero di te..»
 
*
 
La sua dipendenza da Joshua divenne ancora più chiara e palese nel momento in cui finita la doccia e sedutosi alla scrivania per studiare, nessun concetto penetrava la sua mente troppo occupata dal viso del fidanzato. Non c’era un’espressione specifica con la quale gli piaceva ricordarlo, erano tutte preziose ai suoi occhi. Quando sorrideva in quel modo particolare riservato solo a lui, quando riusciva a farlo ridere delle sue battute, quando dormiva e i lineamenti si stendevano, aveva le ciglia così lunghe che spesso sembravano accarezzare le guance, o quando facevano l’amore e quelle piccole labbra piene si schiudevano per pronunciare il suo nome.. si ridestò con un brivido provando nuovamente a sottolineare i concetti base di quel tomo. Non era granché sicuro del perché si sentisse così irrequieto in quel momento, forse era solo il periodo, in fondo doveva assestarsi per bene, in quei mesi ne avevano passate talmente tante che la ritrovata calma probabilmente suonava quasi strana. Fallito il tentativo di studiare sonnecchiò tutto il pomeriggio, la notte invece tornò col naso sui libri e finalmente riuscì a concludere qualcosa di proficuo.
Enoch non avrebbe dimenticato mai quella giornata, il sole era caldo e abbagliante, le fronde degli alberi si muovevano appena in maniera sinuosa seguendo il ritmo della brezza leggera. Fu in quel momento che la vide, nascosta dietro un albero a fissare un punto non ben definito dell’università. C’era qualcosa in lei che lo costrinse a bloccarsi, aveva come l’impressione di averla vista da qualche parte, ma dove? La donna si accorse d’essere osservata, e dopo averlo guardato si affrettò a voltare le spalle e camminare frettolosamente verso l’uscita. Qualcosa calò dai suoi occhi, come un velo che improvviso viene tolto: aveva visto il viso di quella sconosciuta in una foto trovata nel diario di Rachel. Aumentò il passo afferrandole il polso, costringendola a fermarsi, la donna oppose resistenza provando a liberarsi dalla presa, aveva circa quarant’anni ma le rughe scavate su quel viso sembravano aumentarle esponenzialmente l’età.
«Mi lasci immediatamente..» aveva una voce fragile come il suo corpo, Enoch mollò la presa senza sapere bene cosa dire per la prima volta nella sua vita. «Ci conosciamo?»
«Forse.. o forse no.» La scrutò con attenzione provando a mantenere un ritmo respiratorio pacato. «Sta cercando Arthur Cutler?» A quel nome i lineamenti della donna divennero una massa informe di dolore e odio.
«E tu che ne sai?» Sibilò quelle parole lasciando trasudare tutto il veleno contenuto in esse, muovendo un passo verso di lui che non arretrò.
«Sei qui per tuo figlio, vero?» Gli occhi scuri si inumidirono improvvisamente, le occhiaie pronunciate sembrarono scavare solchi ancora più profondi.
«Chi sei tu..» stavolta non c’era odio né rabbia, ma solo lacrime e dolore.
«Qualcuno che sa ciò di cui è capace quell’uomo..» Enoch scoprì che la sconosciuta si chiamava Meredith, il figlio si era suicidato due mesi prima all’età di quattordici anni.
«Non si è mai ripreso, non ha mai superato quegli abusi.. e la colpa è solo mia. Sono rimasta in silenzio pensando fosse la cosa giusta, non volevo fargli portare il peso di quella vergogna, non volevo che le persone lo guardassero e bisbigliassero alle sue spalle..» le lacrime cadevano incessanti dai suoi occhi, non si prese nemmeno la briga di asciugarle.
«Ha pagato anche voi?»
«Si.. ma non ho speso nemmeno un centesimo di quel denaro. Ho ancora la busta conservata in un cassetto..» fu improvvisamente tutto chiaro, ed Enoch sorrise stancamente. Quanto poteva essere crudele il destino? Quanto poteva esserlo Dio? Era come se gli stesse dicendo ‘’pensi che perché tu vuoi mettere tutto a tacere, allora accadrà davvero?’’. Meredith voleva denunciare Arthur, aveva prove che seppur circostanziali avrebbero sicuramente dato vita a un’indagine. Vide il bivio di fronte a se, l’ennesimo e forse il più doloroso. Poteva restare lì fermo a osservare fin dove sarebbe andata quell’auto dai freni rotti, ma a che pro? Restò seduto su quella panca per molto tempo dopo che la donna andò via, non riusciva semplicemente ad alzarsi e camminare. Aveva sempre vissuto nella convinzione di avere tempo, la convinzione di riuscire a sistemare tutto prima del terremoto mediatico che li avrebbe investiti, e invece adesso stringeva tra i pugni le ultime briciole rimaste. Coprì il volto con le mani provando a sentire il suo cuore battere, ma solo il silenzio lo accolse.
 
Dormì con Joshua le due notti successive, o almeno questo era ciò che fingeva di fare. Attendeva che il sonno cogliesse il fidanzato per poterlo fissare, accarezzare e baciare nel segreto di quell’oscurità che li vedeva ancora una volta insieme.
Nudi e lievemente accaldati continuavano a fissarsi come se non potessero smettere, avevano appena fatto l’amore in maniera irruenta e a tratti disperata, sentiva che non fosse ancora abbastanza. Non lo sarebbe mai stato probabilmente.
«Cos’hai? Poco fa eri così..» sembrava non riuscisse a trovare le parole, Enoch lo strinse a se per impedirgli di guardarlo in viso. Di guardare lo squassante dolore che sembrava investirlo.
«Sono solo follemente innamorato di te.» Era sicuro stesse sorridendo nascosto contro il suo petto, gli accarezzò i capelli facendosi forza.
«E io di te..» si lasciò baciare mettendovi il medesimo trasporto, catturando quel viso tra le sue mani senza alcuna intenzione di lasciarlo andare.
«Tutto ciò che ti ho detto.. l’ho sempre pensato. Amarti, volerti sposare e costruire con te qualcosa che mi è sempre mancato.» Non poteva cedere, non adesso, avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per distruggersi in sua assenza. «Sei la mia famiglia Josh, sei l’unica persona a questo mondo che mi ha permesso di vivere degnamente, che mi ha fatto pensare soprattutto di voler vivere..»
«E continuerò a farlo, abbiamo tutto il tempo del mondo.. insieme.» ‘’no non è vero, non abbiamo più tempo’’, avrebbe voluto dirglielo ma non lo fece, lo abbracciò ancora fissando l’orologio analogico sul comodino. I suoi occhi restarono incollati lì, incassando le fitte di dolore per ogni minuto che scorreva sul display, fino all’alba. Quando si alzò non guardò verso il letto, non ne ebbe la forza, si limitò a vestirsi e afferrare il diario nascosto nel cassetto della scrivania, lo aveva lasciato in camera dell’altro per essere sicuro che chiunque rovistando nella propria non lo avrebbe trovato. La porta si chiuse alle sue spalle con un tonfo sordo.
 
*
 
Toccai con la mano la parte vuota del letto accanto a me rendendomi conto d’essere rimasto solo, è strano come ti svegli e sei ignaro di quanto la tua vita abbia preso una piega inaspettata, dolorosa. Ma tu non lo sai, e sorridi mentre ti stiracchi salutando quel nuovo giorno, lavi i tuoi denti con meticolosità, scegli i vestiti con cura, sbuffi contro i tuoi capelli sempre troppo lisci e piatti e alla fine corri a lezione temendo che quella sia la cosa più terribile che possa succederti: arrivare tardi ed essere sgridato davanti a tutti.
Mangiai da solo in caffetteria, avevo invitato Enoch a raggiungermi ma non rispose e quando provai a chiamarlo la linea venne interrotta bruscamente. Mi diressi al dormitorio con passo strascicato, mi sentivo così stanco ed erano solo le tre del pomeriggio; quando varcai l’ala comune una folla di persone attirò la mia attenzione, il chiasso mi impedì di capire cosa stesse succedendo e provai a infilarmi tra loro per arrivare al centro. Stavano tutti guardando la televisione. Una mano mi afferrò con forza e quando mi voltai il viso di Sophia entrò nel mio campo visivo.
«Che diamine succede?»  Mi trascinò con forza fuori dalla calca in un angolo mediamente appartato.
«E’ una catastrofe Josh.»  Sembrava nervosa e incredula, iniziava a mettermi ansia ma attesi comunque che arrivasse al dunque. «Il nostro rettore.. è stato arrestato questa mattina alle nove, sono venuti a prelevarlo direttamente dal suo ufficio.» Il mio mondo sembrò subire uno scossone non indifferente, dovetti chiudere gli occhi e assimilare la notizia per qualche istante, il viso di Enoch non la smetteva di balzarmi alla mente, come stava? Era stato lui? Perché non mi aveva detto nulla?
«Spiegami con esattezza..»
«Le accuse sono gravissime, pedofilia, stupro e istigazione al suicidio.» Sophia sembrava sconvolta ma per motivi diversi dai miei, non attesi nemmeno che finisse fiondandomi verso il corridoio, salendo le scale a una velocità inaudita, dovevo andare da Lui e capire come stesse. Parlarne, probabilmente era sconvolto. Quando spalancai la porta della sua camera il vuoto mi schiaffeggiò con cattiveria bloccandomi sul posto. Il letto non aveva più le lenzuola, le ante degli armadi aperte e ormai abbandonate: una camera disabitata. Sentii le mie gambe cedere mentre camminavo lentamente fissando l’abisso che si stava spalancando sotto i miei piedi.
«Non è possibile, non puoi averlo fatto..»  mormoravo incessantemente quelle parole a qualcuno che ormai non poteva più sentirle, doveva esserci una spiegazione io lo sapevo. Enoch non mi aveva lasciato, non lo avrebbe mai fatto e con le ultime forze rimaste mi catapultai nella mia camera; fu lì che lo vidi, il pezzo di carta giaceva sulla scrivania lievemente stropicciato. Da quanto era lì? C’era anche quella mattina e io non me n’ero accorto? Lo afferrai esitante, e ciò che lessi venne marchiato a fuoco nella mia mente: ‘’Aspettami.’’. Tutto qui? Il dolore arrivò come un’onda gigantesca e violenta, spezzò il mio respiro e il peso del mio corpo cedette di colpo. Avrei riconosciuto quella calligrafia a occhi chiusi, così chiara e netta, l’inchiostro sbiadito come se la penna fosse stinta o come se l’avesse scritto tempo prima. Mi ritrovai a terra, i singhiozzi laceravano il mio petto come coltellate profonde e violente, mi aveva abbandonato anche lui. Era andato via lasciandomi lì, naufrago di un dolore che non ero pronto ad accogliere, come potevo alzarmi da quel pavimento adesso? Come potevo pensare al domani senza che il peso di quell’assenza mi uccidesse?
«Joshua…» non sentii quella voce che chiamava il mio nome, quando mi voltai i miei occhi appannati di lacrime fissavano il volto distorto di Sophia.
«E’ finita..» Non sapevo cosa fosse finito con esattezza, se la mia vita in generale o la mia storia con Enoch, battevo la mia mano sul petto senza sosta provando a rimettere in moto il mio cuore che adesso sembrava fermo mentre venivo cullato da quelle braccia amiche provando a soffocare il mio pianto disperato.
 
Non potevo rassegnarmi così, Enoch non poteva essere sparito. Lo avrei ritrovato, avremmo parlato e trovato una soluzione insieme. Avrei lasciato Yale per seguirlo ovunque, non mi importava laurearmi lì non se dovevo fare a meno di lui. Ignorai la pioggia scrosciante riparandomi ormai mezzo annegato sotto la tettoia dell’ospedale, fissavo l’orologio chiedendomi quando sarebbe uscita per la cena, o magari per la fine del suo turno. Il freddo sembrava essersi insinuato fin dentro le mie ossa, ma non mi importava non era nulla se paragonato al gelo nella quale era piombato il mio cuore in quelle ore.
Madalyn Cutler uscì due ore dopo con l’aria di chi aveva fretta, parecchia fretta, le sbarrai la strada e sembrò scioccata nel vedermi lì.
«Tu..» mi indicò con la fronte aggrottata, ero come un insetto sgradito che si era poggiato sul parabrezza costoso della sua auto.
«Enoch..» non riuscii a formulare la frase per intero, i miei denti battevano per il freddo e la pioggia, ma lei capì ugualmente. Il suo viso sembrò rabbuiarsi improvvisamente mentre mi spingeva verso l’ingresso dell’ospedale.
«Hai le labbra viola, vuoi per caso ucciderti di polmonite?» Non mi importava un cazzo del suo animo da medico in quel momento, scossi il capo violentemente.
«Mi dica dov’è… per favore.» Sentii le lacrime uscire nuovamente dai miei occhi, e più osservavo le sue espressioni più sentivo di piombare in un buco nero profondo.
«Sono lusingata dal fatto che hai pensato potessi saperlo.» Era nervosa, sicuramente le ultime notizie avevano provocato problemi gravi alla sua esistenza pacifica e fittizia. «Non so dove sia, ho chiamato anche il padre a Stoccarda.. non è lì e non ha dato sue notizie.»
«Io devo trovarlo, capisce? Lei—» non mi diede modo di finire, mi fissò con così tanta pena che al confronto la famosa sera in ospedale fu nulla.
«Hai sul serio pensato sarebbe rimasto con te? Enoch è come un coltello affilato, ti ferisce a morte e poi ti volta le spalle..» non era così, il mio ragazzo non era così.
«NO. La prego, se ci fosse un posto, un singolo luogo dove pensa che potrebbe essere.. la supplico.» Le afferrai la manica del cappotto chinando il capo scosso dai singhiozzi, la mia vita stava scivolando lentamente via dal mio corpo.
«Mi dispiace, se lo sapessi te lo direi.. Joshua, lo vuoi un consiglio? Vai avanti e dimenticalo, lui lo sta già facendo probabilmente. Non tornerà mai più qui, a volte l’amore non basta a fermare una persona.. io ne so qualcosa.» Mi sembrava di annegare, non riuscivo a respirare mentre mollavo la presa su di lei restando lì da solo con la mia disperazione. Come aveva potuto abbandonarmi così? Dopo i miei genitori, anche lui. Era così semplice lasciarmi indietro quindi? Ero mai valso la pena per qualcuno? Sapevo che la risposta in fondo non mi importava, avevo desiderato sempre e solo Enoch, come mai niente e nessuno e adesso mi ritrovavo lì da solo col cuore a pezzi e un’intera vita da vivere. Il peso di quella consapevolezza mi rese malfermo nella gambe, la pioggia si era fatta più densa e fitta, scivolava sul mio viso mischiandosi alle lacrime e scavandovi solchi profondi.  Aveva scritto che sarebbe tornato da me, ma come potevo credere a qualcuno che era fuggito come un ladro senza nemmeno voltarsi? Cercai un appiglio dentro me stesso, un barlume di fede che mi consentisse di vedere uno spiraglio di luce in mezzo a tutte quelle ombre che mi stavano afferrando e atterrando. Chi poteva insegnarmi a perdonare l’unica cosa ai miei occhi imperdonabile? L’unica cosa che incendiava ogni mia certezza lasciandomi orfano per la seconda volta nella mia vita: L’abbandono.
 
Caddi e non mi rialzai.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** One Day, Three Autumns ***


XX.



( Las Vegas - two years later. )
 
«Sei sicuro di volerlo fare?» Mi bloccai poco prima di attraversare la strada fissando il negozio a pochi metri da me, respirai profondamente annuendo.
«Certo che lo voglio, non ti fidi della mia decisione? O forse non vuoi farlo tu?» Per tutta risposta mi afferrò la mano iniziando a camminare come suo solito, sicuro e spavaldo.
«Ne ho fatto uno solo pochi giorni fa, me lo stai chiedendo sul serio?» I miei occhi corsero automaticamente al suo collo, dietro, proprio sotto la nuca spiccava un tatuaggio: un barcode con sotto dei numeri. La data del nostro fidanzamento.
Lo studio odorava di disinfettante il che era un bene, non era un bene invece il fatto che il tipo di fronte a me non avesse nemmeno mezzo tatuaggio. So che quello era uno stereotipo stupido, ma insomma vivevi di quelli e non ne avevi nemmeno uno? Lo fissai di sottecchi afferrandomi automaticamente la mano sinistra, posto in cui avevo scelto di fare quella pazzia. Stavo andando contro qualsiasi legge con la quale ero cresciuto, nelle orecchie mi risuonava ancora la voce tonante del reverendo durante una sua predica in chiesa: il corpo è un tempio sacro, chi lo insozza verrà condannato alle fiamme dell’inferno.
«Josh?» La sua voce mi riportò lì con lui, sorrisi muovendo un passo in avanti.
«Inizio io.»

 
Mi toccai l’anulare fissando la tazza ormai vuota, la ‘’E’’ spiccava ancora vivida come se l’avessi tatuata solo poche ore prima e non due anni fa. Quel sogno si sgretolò come fumo mentre tornavo alla mia realtà, le pareti dello studio si dissolsero facendo riapparire quelle della mia casa, Shou me l’aveva gentilmente riaffittata dandomi nuovamente un posto dove vivere dopo la mia laurea. Perché si, mi ero laureato completando i tre anni di studio, avevo ripreso in mano la mia vita dopo un mese di pura catatonia. Avevo vissuto steso sul letto della mia camera al quarto piano del dormitorio, senza alcuna intenzione di tornare alla vita. A nulla erano valse le proteste di Sophia, i tentativi di Nastya nel farmi uscire da quel guscio di sofferenza nella quale mi ero chiuso. Una mattina mi ero semplicemente alzato, avevo mosso un piede dietro l’altro, mi ero lavato il viso con forza ed ero tornato a lezione. Tutti pensavano mi fosse finalmente passata, in realtà la notte precedente mi ero sporto dal balcone pensando con attenzione a quante probabilità avevo di morire se mi fossi gettato senza alcun rimpianto; pensai a tutte le persone che avrei lasciato, a mia sorella Ruth. Fu lei probabilmente la causa principale per cui non lo feci, avevo un debito da pagare e dovevo vivere abbastanza per farlo.
Mi alzai riponendo la tazza sul lavandino, avviandomi in camera per cambiarmi e iniziare quell’ennesima giornata lavorativa. Avevo trovato impiego come stagista in un giornale, avevo il mio bel cartellino da timbrare ogni mattina, ero un fotografo reporter a tutti gli effetti o almeno questo mi piaceva dire alla gente. Non era di certo la vetta, mi sfruttavano come fossi uno schiavo, e non ero riuscito ancora a fotografare nulla di eclatante, eppure quando il mio nome era apparso per la prima volta in un articolo mi ero sentito gratificato. Enoch l’avrebbe letto? Avrebbe visto il mio nome? Avrebbe capito dove fossi? Ma soprattutto avrebbe ricordato quello che gli avevo detto in un tempo che mi sembrava ormai lontano?
 
«Io a te siamo destinati ad appartenerci.» I suoi occhi blu al buio sembravano fuoco e ghiaccio fusi insieme.
«Se dovessi perdermi starò dove sono sicuro tu possa trovarmi, a Las Vegas in quell’appartamento che adesso è un po’ nostro.»

 
Anche quel ricordo si dissolse e io restai a fissare la mia immagine allo specchio, ero cambiato. Due anni sembravano venti adesso, il mio viso infantile si era un po’ smussato sulle guance e questo aveva come messo una specie di faro puntato sulle labbra che adesso risaltavano di più. Anche il mio corpo era meno tondo, un po' più adulto. Le fossette c’erano ancora, ma in pochi avevano avuto il piacere di vederle, a che pro? Perché sorridere quando non trovavi alcun motivo per farlo?
Mi sentivo come un mutilato di guerra, era come se mi avessero strappato un arto vitale senza anestesia, come se fossi zoppo o non avessi più le braccia. La sensazione della sua mancanza era più o meno così, eppure il mio animo si trovava scisso tra ciò che volevo e ciò che pensavo fosse giusto. ‘’Aspettami’’ aveva detto, erano passati due anni e non era più tornato. Uscii fuori sistemandomi la sciarpa, notai il bordo di una busta uscire dalla mia cassetta delle lettere, e quando l’afferrai riconobbi subito la qualità della carta. Avevo ricevuto un altro biglietto simile tre mesi addietro, il primo portava scritto semplicemente ‘’09:00 pm’’ battuto a macchina. Aprii il secondo, anche questo scritto a macchina, portava una data: ‘’27-03-2021’’. Mi feci un rapido calcolo mentale mancava praticamente un mese, aggrottai la fronte, fui tentato di stracciarlo ma desistetti. Chi era il mittente? Uno stalker? O era un semplice scherzo di cattivo gusto? Mi guardai attorno come se cercassi tracce invisibili che mi conducessero al mandante di quei due biglietti, ma non trovai nulla. Non c’era un mittente, non c’era un dannato francobollo, niente di niente. Era ironico come ricevessi lettere da perfetti sconosciuti tranne che dall’unica persona che mi aveva promesso di tornare. Che senso aveva avuto chiedermi di aspettarlo se poi viveva un’altra vita senza di me? Quel pensiero iniziò a farmi marcire da dentro, ribollivo nel mio dolore e nella mia rabbia. La rabbia di essere semplicemente stato lasciato indietro.
L’ufficio era in fibrillazione, come sempre ogni volta che un nuovo articolo era in uscita. Poggiai lo zaino sulla mia postazione da lavoro (quello in pelle giaceva sepolto nel mio armadio, una mattina mi ero svegliato e guardandolo sentivo di non poter respirare) e una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.
«Latte e cioccolato, per te.» Sean Flynn era un fotografo come me, lavoravamo insieme da qualche mese ed era diventato mio amico dopo un inizio un po’ burrascoso. Aveva un carattere difficile, o come solevo dire io era nato col ‘’gene stronzo’’ e per questo poco simpatico a tutto il nostro team. Inizialmente non parlavamo molto, all’epoca ero stato scelto per un servizio a Berlino che avrebbe trattato il tema dell’olocausto nei campi di concentramento, vi ero molto affezionato e non vedevo l’ora di partire. Peccato che ventiquattro ore prima mi era stato comunicato che al posto mio sarebbe andato Sean, e questo perché avevo rifiutato di uscire con il capo team dell’ufficio. Mi ero reso presto conto di quanto il mondo lavorativo fosse mostruoso e spaventoso; dopo il suo ritorno però iniziò a parlarmi e avvicinarsi a me, ero diffidente nei suoi confronti ma quel carattere spigliato e petulante alla fine mi aveva conquistato.
«Come farei senza il mio prezioso Sean.» Sbattei le palpebre senza suscitare la minima emozione compiaciuta in lui, anzi mi fissò in tralice poggiando il bicchiere sulla superficie liscia della mia minuscola scrivania.
«Sei adorabile.. ma con me non attacca, quindi non impegnarti neppure.» A volte mi ricordava Enoch, così freddo e incurante del mondo attorno a se, forse per questo gli avevo permesso di avvicinarsi e penetrare le mura che sentivo di aver costruito. «Hai deciso di accettare l’invito a cena di Peter?»
«Non ancora, no..» mi finsi presissimo a sistemare le matite controllando quanto fossero appuntite. Peter Winston lavorava in borsa, l’avevo conosciuto a una cena e da allora non passava giorno senza che mi chiamasse chiedendomi di uscire con lui. Avevo perso il conto di tutti i rifiuti che aveva incassato senza piegarsi mai, dovevo riconoscergli una certa perseveranza.
«Non credo sia adatto a te..» fece il vago muovendo in aria la mano, lo guardai meglio. Bassino e con un’aura dominante e aggressiva da fare paura, mi domandai ancora una volta come fossimo diventati amici.
«Cosa sei un specie di agenzia per cuori solitari?» Lo presi in giro digitando sulla tastiera del mio pc.
«Lavora in borsa, Josh.» Smisi di muovere le dita al suono di quel nomignolo, aveva preso quell’abitudine di ritorno dal suo viaggio e non mi ero sentito in grado di spiegargli perché lo detestassi. O perché facesse così male.
«Ne sono consapevole, e quindi?»
«E quindi è uno squalo, un agnellino come te finirebbe per essere sbranato.» Scoppiai a ridere mostrando le mie fossette e questo sembrò addolcirlo un pochino.
«Ti stupiresti nel sapere con quanti squali ho nuotato nella mia vita..»
«Stiamo parlando del tuo ex?» Si sporse interessato e io desiderai dargli un cazzotto in faccia, tempo prima eravamo usciti per un drink avevo alzato un po’ il gomito e non so come l’argomento ‘’Enoch’’ era uscito magicamente.
«Lui non era uno squalo, ma solo un bugiardo..» chiusi le finestre del monitor con decisione bevendo il mio latte al cioccolato, Sean non aggiunse altro. Era evidente avessi chiuso il discorso.
 
«Il tuo capo ti sta dando ancora problemi?» Shou rovistava tra gli sportelli alla ricerca di cibo, la sua schiena era lievemente contratta e il tono un po’ severo, pensai fosse dovuto all’argomento. Jim non gli stava molto simpatico, e non potevo dargli torto: un quarantenne viscido che ci provava con un proprio subordinato, ero dovuto intervenire per fermarlo dall’andare a picchiarlo brutalmente.
«Che altro potrebbe fare ormai? Mi ha tolto il servizio a Berlino e mi relega sempre ai margini, per fare peggio dovrebbe licenziarmi.. e non può.» La sedia stridette, lo fissai prendere posto vicino a me e annuire.
«Giusto.. – cos’è questa Joshua?» Sbatté sull’isola una busta, sapevo perfettamente cosa conteneva. L’afferrai tra le mani accartocciandola appena.
«Da quando ti metti a frugare nella mia roba?»
«Da quando sei uscito fuori di testa, ecco da quando.» Il pugno sul tavolo non sortì alcun effetto in me, restai semplicemente immobile a capo chino. «Il rettore di Yale ti offre un master a Parigi e tu rifiuti? TI SEI RINCOGLIONITO DEL TUTTO?» Arthur Cutler era stato rimpiazzato quasi subito, e il nuovo rettore sembrava molto attento al rendimento degli studenti. Mi aveva convocato la prima volta nel suo ufficio poco prima della fine del mio corso di studi proponendomi quell’offerta a suo dire irripetibile, sapevo anch’io lo fosse senza che dovesse ripetermelo lui ogni due parole. Avevo rifiutato senza addurre una reale scusa, prima dissi che non mi sentivo abbastanza confidente, poi che avevo mia sorella della quale occuparmi ma all'uomo non sembrava importare. Diceva che quel master mi avrebbe aperto parecchie porte, ma la mia vita sembrava ugualmente delimitata dai solchi profondi che io stesso avevo disegnato attorno a me. Non potevo partire, perché se Enoch fosse tornato non mi avrebbe trovato lì.
«Avrò altre occasioni, vedrai..»
«I treni non passano due volte, Joshua. Mentre tu ti crogioli nel tuo piccolo dramma privato, la gente va avanti. Pensi che lui non l’abbia fatto?» Quelle parole mi colpirono come uno schiaffo in pieno viso, iniziai a respirare affannosamente stringendo i pugni delle mani poggiati alle mie cosce fino a vederne le nocche sbiancare.
«Smettila.» Non riuscii a capire se l’avessi detto sul serio o se avessi solo pensato di dirlo, il dolore era ancora così vivido. Quando sarebbe passato? ‘’Mai’’, la sua voce sembrava tormentarmi dando risposte alle mie paure più remote.
«A Parigi troveresti Joel, potresti stare con lui.. devi tornare qui tra noi, devi tornare tra i vivi Joshua.» Non riuscii a frenare le lacrime, mi sentivo davvero come un morto che si fingeva vivo, avevo provato ad arginare quelle sensazioni ma non c’ero riuscito. Il telefono squillò interrompendoci, era tardi chi poteva essere? Ci fissammo qualche istante e alla fine risposi. La voce all’altro capo mi raggelò: il detective Bradford.
 
— Mi dispiace disturbarla così tardi..
— Non si preoccupi, è successo qualcosa?
— Si tratta di sua sorella Ruth.
— Ruth? Che succede..
— E’ sparita. Temiamo TJ l’abbia presa.

 
Il mio mondo si frantumò ancora una volta, mentre mi aggrappavo al bordo in pietra dell’isola per non cadere di schianto al pavimento. Strinsi così forte gli occhi da farmi male, non poteva essere vero, TJ non poteva averlo fatto seriamente. Non Ruth, non lei. Scossi il capo non riuscendo più a spiccicare una singola parola, Shou venne in mio soccorso parlando con quello che un tempo era stato il suo collega, colui che si occupava del mio caso ormai da quasi cinque anni.
Riuscivo solo a tenermi il capo e fissare il nulla, vuoto totale e gelo. Come avevo fatto a non capirlo? Un mese prima ero andato a trovarla, avevamo giocato insieme e parlato, la sua insistenza su TJ avevo pensato potesse essere semplice mancanza per il fratello che non vedeva da anni. Mi pressai forte gli occhi.
«E’ tutto un incubo, non può succedere davvero..»
«Bradford ha detto che Ruth aveva comunicato alla famiglia adottiva di aver visto il fratello, pensavano parlasse di te..» quella conferma spezzò il fragile equilibrio della mia mente, scaraventai i piatti col cibo ancora intatto a terra urlando impazzito. Le braccia di Shou mi avvolsero con forza provando a tenermi fermo.
«LASCIAMI, LASCIAMI.» Scalciai e graffiai il suo braccio con cattiveria, tutta la rabbia che covavo sembrava essere esplosa come una bomba impazzita.
«Promettimi che non farai stupidaggini.» Un’ora dopo il mio volto cadaverico fissava Shou sulla soglia, annuii come un automa. «Joshua, promettimelo.»
«Te lo prometto.» Lo fissai e giurai. Lo fissai e mentii, in fondo non l’avevano fatto tutti con me? A partire dal reverendo, finendo con Enoch, passando per Mattew. Se c’era una cosa di cui ero assolutamente certo era che TJ mi avrebbe cercato, non poteva aver preso Ruth senza un motivo dietro, quindi mi sedetti nel buio della mia camera e attesi. Attesi per ore seduto sul divano a fissare il cellulare, sentivo il corpo irrigidito per la troppa immobilità ma non mi importava. Quando il display si illuminò, per la seconda volta nella mia vita andai incontro al mio destino.
 
— Sapevo mi avresti chiamato..
— Ruth è con me, sta bene.
— Perché lei.. perché hai voluto metterla in mezzo, è solo una bambina.
— Pensi sia per questo? Pensi sia così crudele?
— Oh dio, quando finirà..
— Non piangere Joshua, o Ruth si spaventerà.
— Dove sei.
— Ti mando le coordinate, vieni da solo.

 
*
 
Un giorno, tre autunni. L’aveva letto da qualche parte, non ricordava dove, trovandolo talmente personale da sentirsi quasi violato. Enoch sedeva alla scrivania fissando fuori dalla finestra, Berlino si stagliava all’orizzonte in tutta la sua magnificenza, lo aveva accolto ormai due anni prima aiutandolo a ritrovare il proprio baricentro, un fuggiasco nella sua stessa patria. Descrivere il tempo passato nell’assenza di Joshua supponeva fosse impossibile, aveva dovuto arginare l’ondata di depressione che aveva cambiato drasticamente il suo umore costringendolo a segregarsi in casa del padre i primi mesi dopo la fuga. Evrard era stato suo complice sin dall’inizio, dalle scale lo aveva sentito parlare con Madalyn affermando di non sapere dove fosse, proteggendo per la prima volta il figlio da quella famiglia corrotta e seguendo la sua volontà nel tenersi nascosto.
Ogni passo compiuto aveva l’eco del nome di Joshua, ovunque si voltasse sembrava di averlo lì a sorridergli, persino la cosa più banale aveva il potere di ricordarglielo. Come quando una mattina di pioggia, fermo sotto la tettoia dell’università, una ragazza si era avvicinata per dargli il proprio ombrello, lo aveva fissato ripensando al fidanzato, aveva fatto la stessa cosa per un compagno di corso tempo prima beccandosi i suoi rimproveri quando l’oggetto non gli era stato più restituito.
Una condanna, una croce, un tatuaggio indelebile proprio come quella ‘’J’’ che portava all’anulare sinistro, marchiata a fuoco quasi a dirgli ‘’non puoi dimenticare’’, ma in fondo lui non voleva farlo. Stava semplicemente vivendo giorno dopo giorno nella speranza di tornare al più presto dall’unica persona che avesse mai amato. Le cose erano cambiate qualche mese prima, quando in un ristorante si era scontrato con Sean, suo vecchio compagno di liceo lì a Berlino per un lavoro. E quale sorpresa nello scoprire che era lì a sostituire un suo collega, Joshua Walker così si chiamava. Un tipetto dall’aria perennemente scocciata, aveva detto.
«Impossibile.» Scosse il capo sorridendo mesto, il suo Joshua non era così.
«Che ne sai tu?» Gli occhi dell’amico si assottigliarono ancora di più mentre beveva la sua birra.
«Mi devi ancora un favore, lo ricordi?» Certo che lo ricordava, come poteva dimenticarlo? Da quell’istante Sean Flynn divenne gli occhi di Enoch a Las Vegas, qualsiasi cosa il fidanzato (o avrebbe dovuto dire ‘’ex’’? Impossibile.) facesse lui ne era a conoscenza. Seppe del capo e delle sue avance, seppe di Peter e ogni notizia veniva incassata con dolore e malinconia. Aveva ricevuto i suoi due biglietti? Era sicuro non avesse capito che a mandarli era lui, non aveva forse evitato di scrivere per camuffare la calligrafia? Lo stava ancora aspettando? Ne era ancora innamorato? L’incertezza era come fuoco vivo nelle sue vene, lava incandescente che lo corrodeva da dentro mentre aspettava quella chiamata che avrebbe ribaltato finalmente le cose. E quando arrivò guardando fuori dalla finestra con la cornetta muta tra le mani, Enoch giurò di aver visto il sole splendere di nuovo; sedette alla scrivania prendendo il terzo e ultimo biglietto che stavolta scrisse di proprio pugno.
 
*
 
Osservai il motel con sguardo critico, le luci fulminate gli davano un’aria terrificante e quale migliore scenografia in fondo per rivederlo? La polizia era stata già avvisata, avevo solo mentito sull’orario dell’incontro, avevo intenzione di concluderla lì e per sempre. Probabilmente uscendo da quel motel in manette assieme a mio ‘’fratello’’, mandai giù il bolo amaro di saliva costringendo le mie gambe a muoversi verso il bancone alla reception, puzzava tutto dentro quel posto persino l’uomo sdentato che mi accolse.
«C’è una prenotazione a nome di Leo Burt.» Non sapevo dove avesse preso quei dati e neppure mi importava, l’uomo mi fissò con sospetto probabilmente ne vedeva di tutti i colori dentro quel posto, ma due uomini e una bambina non erano di certo nella sua routine. Provai a mantenermi calmo, sentivo le mani appiccicose mentre mi indicava il piano dandomi una copia della chiave, non lo ringraziai fissando le scale dalla moquette scolorita.
Girai la chiave due volte dentro la serratura, abbassai la maniglia venendo accolto dalla penombra, la prima cosa che vidi fu Ruth che dormiva sul letto abbracciando una bambola. Mi precipitai verso di lei ma una figura oltre le tende mi bloccò sul posto, eccolo lì stavolta senza cappello né nulla, semplicemente TJ con i suoi occhi verdi e il suo viso bello e dai tratti docili. I miei occhi si inumidirono mentre lo fissavo, ero diviso tra la rabbia e il dolore.
«La polizia sarà qui presto.» Non so perché glielo dissi, sentivo come se dentro quella stanza le bugie non fossero più ammesse, mi sorrise stancamente.
«Lo so, volevo solo un po’ di tempo con te.. e con lei.» Guardò la bambina che ancora dormiva, Ruth era stata come una figlia per lui, la persona più importante dopo me. «Ho saputo di mia madre..» il dolore alterò i suoi lineamenti, un anno prima avevo ricevuto una chiamata da Mississipi: Mary si era impiccata con le lenzuola all’interno della propria camera, l’avevano trovata ormai fredda e rigida contro il termosifone spento. Non seppi cosa dire, c’era davvero qualcosa che potessi dire in quel frangente? Non avevo provato dolore per la sua morte, anzi.
«Perché hai preso Ruth..»
«Volevo passare del tempo con lei, potrei non rivederla mai più..» si passò una mano sul viso e notai che tremava, aveva paura?
«Mi costituirò insieme a te.» A quelle parole i suoi occhi si spalancarono, mi fissò interdetto come se non capisse davvero cosa volessi dire. «Racconterò tutto, dirò che a uccidere il reverendo sono stato io..» parlavo a bassa voce come se un suono più alto avrebbe distrutto quella sorta di quiete che era calata tra noi. Non era così che avevo immaginato il nostro incontro, pensavo saremmo finiti con l’ammazzarci da soli e forse sarebbe successo sul serio di lì a poco.
«Tradirti è stata la scelta peggiore della mia vita.. ogni notte sogno il capannone, le tue ferite e le tue urla. Sogno ogni parola che mi hai rivolto con disprezzo e sento come se morissi dentro pezzo dopo pezzo.» si lasciò cadere su una poltrona, le mani giunte come in preghiera.
«Perché mi hai tradito.. mi fidavo di te come mi sarei fidato di me stesso.» Serrai i denti ma le lacrime uscirono fuori ugualmente.
«Mi disse che non ti avrebbe fatto nulla, che voleva solo parlarti.. che se lo avessi aiutato mi avrebbe fatto restare insieme a te a Las Vegas..» si bloccò come scosso da un dolore improvviso, il suo corpo ebbe uno spasmo e poi più nulla, solo silenzio finché non riprese a parlare. «Ma poi siamo entrati in casa tua, gli ho visto uccidere il tuo gatto.. si chiamava come me, vero?» Iniziò a piangere e quell’oscurità esterna sembrò improvvisamente confortante.
«Si, l’avevo chiamato come te..» lo trovai sgozzato e in una pozza di sangue.
«Capii subito che mi aveva mentito, ma che potevo fare? Dovevo continuare.. ormai ero comunque corrotto. Poi arrivò il capannone, e tu tradisti me raccontandogli tutto.» Sorrisi senza gioia, mi poteva forse biasimare per quello? Sembrò leggermi nel pensiero. «Potevo, si. Ti odiavo di un odio accecante, ero rimasto al villaggio aspettandoti ma tu non avevi mai avuto l’intenzione di tornare o portarmi con te..»
«Ed è per questo che mi hai sparato?» Chinò il capo scuotendolo con dolore, passandosi nervosamente le dita tra i capelli.
«Vorrei poterti dire che l’ho fatto per vendicare mio padre, ma mentirei.. ero così sollevato dalla sua morte. Ma tu, il tuo tradimento, sentivo di impazzire.» alzò il tono della voce scosso dai singhiozzi, Ruth si mosse nel sonno senza svegliarsi.
«Cos’è che vuoi da me, TJ? Cosa posso ancora darti? Penso di averti dato tutto, ho svuotato me stesso per adeguarmi a te in quegli anni insieme..» mi sentivo così stanco, così ferito, aprii le braccia senza più la forza di fare e dire nulla.
«Voglio il tuo perdono, non posso pensare di vivere ciò che mi resta con la consapevolezza che ovunque tu sia mi odierai.» Il perdono era un sentimento così difficile, lo avevamo predicato fino alla nausea da giovani e io sentivo di non aver mai compreso davvero che portata avesse nella vita di ognuno. «Dirò che ho ucciso io nostro padre.»
«Sei impazzito.» Lo stoppai alzando appena la voce, la mia schiena cedette al peso di quelle parole poggiandosi contro l’armadio quasi a sostenersi.
«Voglio riuscire di nuovo a guardarmi allo specchio la mattina e ritrovarmi, ritrovare la persona che ero.. non questo..» si indicò con disgusto come se non trovasse definizioni adatte per se stesso. «Qualsiasi cosa io sia diventato..»
«Non puoi prenderti una colpa che non hai.» Mi slanciai verso di lui cadendo in ginocchio ai suoi piedi, afferrando con forza il ginocchio. «Mi stai punendo? Vuoi farmi vivere tutta la vita con questo peso?»
«Non voglio punirti, voglio liberarti..» mi accarezzò il capo e io poggiai la fronte sulla sua gamba piangendo in silenzio. Cercavo dentro me stesso una soluzione, una speranza, qualcosa per superare quella notte senza distruggere entrambi, andando contro a ogni regola della mia esistenza.
«Ho dato l’orario sbagliato alla polizia, volevo più tempo per noi.» Tirai su col naso alzandomi e guardandolo, dovevo riprendere il controllo di me stesso. «Devi andartene e non tornare mai più, ricomincia di nuovo.. puoi farlo.»
«Stai vaneggiando, te ne rendi conto?» Gli afferrai le mani strattonandolo con forza, costringendolo a guardarmi e ascoltarmi.
«Devi andare via. Se mi ami come dici, se vuoi liberarmi, se vuoi farmi vivere.. vattene da qui e non tornare mai più.» Il peso del nostro passato piombò tra di noi, io e TJ non potevamo slegarci l’uno dall’altro né potevamo vivere insieme. Camminavamo sulle rovine di ciò che eravamo stati, guardando i ricordi strappati di quel passato che ci aveva visti insieme, ancora una volta mi resi conto di quanto per me fosse stato un fratello. Un fratello e null’altro. Guardò Ruth con così tanto amore, straripava dai suoi occhi trasformandosi in lacrime.
«Cosa penserà lei di me? Riuscirai a parlarle bene di suo fratello.. mi perdonerà?» Annuii provando a fermare il tremore del mio corpo.
«Non ha nulla da perdonarti. Lei lo sa.. ti ama quanto tu ami lei, ti ama più di quanto potrà mai amare me.» Chiuse gli occhi e vidi il conflitto della sua coscienza, non vedevo altre soluzioni in quel momento. Dovevo salvarlo per salvare me stesso, il pensiero che vivesse la sua intera esistenza chiuso in una cella per un crimine non suo mi uccideva inesorabilmente, era come un dolore viscerale.
«Non l’hai ucciso tu, quella notte al capannone.. ti sei solo difeso, sono stato io a portarti a quel punto. Se avessi avuto forza, se non mi fossi macchiato di gelosia e rabbia, tu non avresti mai premuto il grilletto. Io ti conosco.. sei da sempre la persona che vorrei essere io.» misi in piedi un sorriso tremulo scuotendo il capo affranto.
«L’ho premuto ugualmente, e questo non potrà mai cambiare. Dobbiamo convivere entrambi con le nostre colpe, o pagarle tutte ma insieme, scegli.» Mi fissò in un silenzio carico di parole, e alla fine si alzò afferrando il cappellino abbandonato sul letto, indossandolo e calcandolo sugli occhi.
«Non esistono gli addii per le persone che risiedono dentro di te, non ti abbandonano mai Joshua.. mai.» Il viso di Enoch apparve dagli anfratti della mia mente, restai in silenzio la vista offuscata dalle lacrime mentre guardavo la sua schiena allontanarsi fino a sparire.
Quando la polizia arrivò trovò me e Ruth ormai sveglia, ma di TJ non v’era traccia alcuna. Quando mi chiesero dove fosse andato li fissai con occhi vuoti scrollando le spalle.
«Incontro al suo destino anche lui, probabilmente.»
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Unbreakable bond. ***


XXI.



( Berlino )
 

Un’onda dispettosa bagnò i suoi piedi, Joshua rise ritraendosi e guardandomi con divertimento, chiedendomi di raggiungerlo. Rimasi steso tra le coperte, lo avevo portato via con me per due giorni, volevo stare da solo con lui. Lui che era capace di farmi uscire dal giogo tossico nella quale la mia mente era caduta, mi ero svegliato nel cuore della notte con la voglia di vivere sepolta dentro me stesso, eppure adesso mentre lo fissavo ridere e giocare con il mare mi sentivo rinascere. Confortato.
«L’acqua è così bella, peccato non poter fare il bagno..» si lasciò cadere vicino a me, i suoi occhi fissavano l’orizzonte e i miei il suo profilo. Mi spostai fino a che il mio capo non poggiò sulle sue gambe, sentii le dita accarezzarmi i capelli e sorrisi.
«Ci torneremo in estate, che dici?» Era come se la mia voce uscisse da un barile vuoto, cavernosa e spenta eppure mentre le sue attenzioni continuavano a sommergermi mi sentivo meglio, mi sentivo bene.
«Ovvio che lo faremo..» il suo tono era sicuro, la sicurezza di chi ama e pensa che tutto sia eterno. A quel tempo ero ancora diviso tra la voglia di consegnare il diario e fare la cosa giusta, e quello di nasconderlo per sempre concedendomi la felicità.
«Se un giorno dovessi allontanarmi, mi cercheresti?» Le sue carezze si bloccarono per un istante, riprendendo poco dopo con la medesima dolcezza.
«In capo al mondo.» Non lo vidi sorridere ma ero sicuro lo stesse facendo.
«E se non sapessi dove mi trovo?»
«In quel caso resterei buono buono ad aspettarti, laddove so che saresti tu a trovare me.» L’orizzonte per un secondo divenne sfocato, sbattei le palpebre due volte di seguito cercando di togliere il pizzicore che vi sentivo dentro.
«Ho un fidanzato esemplare..» risi per la prima volta quel giorno girandomi, faccia a faccia con lui che in quel momento mi sovrastava.
«Il migliore.» Si vantò per poi chinarsi e baciarmi.

 

Il ricordo sparì dissolvendosi come fumo tra le mie mani, reclinai il capo poggiandolo alla comoda poltrona dello studio medico. A occhi chiusi rincorrevo i miei pensieri, provavo ad afferrarli e compensare così la mia mancanza. Sentivo il sordo ticchettare dell’orologio posto sulla scrivania della dottoressa Weber, potevo sentire anche i suoi occhi fissarmi attentamente attraverso le spesse lenti.
«E’ ormai un anno e mezzo che facciamo terapia insieme.»
«Vorrebbe che comprassi una torta per festeggiare?» La fissai con un mezzo sorrisino ironico.
«Metterai un fiocco in testa anche stavolta?» Colpito e affondato, soffiai fuori una risatina contrita, averle raccontato parecchie cose di me mi metteva in una posizione di svantaggio.
«Dovrebbe comportarsi bene con me dottoressa, non ci vedremo più in fondo.» O almeno era quello che mi auguravo, perché se il mio ritorno a Las Vegas non avrebbe portato i risultati sperati niente mi avrebbe trattenuto dal ritornarmene nell’odiata Berlino. Odiata si, perché odiavo tutto ciò che mi aveva separato da lui. Compreso me stesso, io l’artefice primario di quella separazione. Mi pressai una tempia fissando la psichiatra, una cinquantenne con parecchio spirito e un’innata passione per i vini francesi.
«Mi sono sempre chiesta una cosa: sei venuto qui da me per curare la tua mente, o il tuo cuore?» Quella domanda cadde in sospeso tra noi, mi resi conto che ogni mia seduta verteva sempre su un solo argomento: Joshua. E lei non se n’era mai lamentata, si era mostrata parecchio interessata anzi, spronandomi quasi a continuare quella storia d’amore che probabilmente sentiva di non aver mai sperimentato. O forse l’aveva fatto ed era finita male.
«Temo che il benessere della mia mente sia strettamente connesso a quello del mio muscolo cardiaco.» La mia definizione di ‘’cuore’’ la divertì, si lasciò andare a una risata composta sollevando le mani in segno di finta resa.
«Pensi che ti accoglierà a braccia aperte?» Quella era la domanda che non mi faceva dormire la notte, e non ero ancora arrivato a una conclusione. O meglio, non volevo arrivarci.
«Lui non può allontanarsi da me tanto quanto non potrebbe farlo dal suo cuore, e io sono un tipo perseverante..» calcai sull’ultima parola che nascondeva parecchie sfumature. «Lo convincerò, a tutti i costi.»
«E’ un peccato io non sia riuscita a mitigare questo tuo lato arrogante e narcisistico.» Mi fissò con serietà ma il luccichio nei suoi occhi palesava tutto il suo divertimento. Guardai l’orologio, la nostra ultima ora insieme era appena finita, mi alzai con indolenza.
«E se non fosse arroganza, ma disperazione?» O fede. Joshua avrebbe detto proprio così.
 
*
 
«Verrò, certo.. – dai fammi chiudere che sono già in terribile ritardo, ti voglio bene.» Chiusi la chiamata a Sophia guardando il display adesso spento. Il padre aveva organizzato un’altra festa invitando alcuni ex studenti di Yale, e altri che come lei ancora seguivano i corsi. Non me n’ero persa nemmeno una in quei due anni, nella speranza che anche lui partecipasse. Restavo puntualmente deluso e alla fine smisi semplicemente di sperare. Notai l’ennesima busta dentro la mia cassetta delle lettere, l’afferrai con stizza rigirandomela tra le mani, non l’aprii riponendola dentro il mio zaino. Ero già abbastanza in ritardo e incazzato per andar dietro anche al mio stalker misterioso, e di decifrare codici non ne avevo proprio voglia.
«Fuori orario anche oggi.» Mi torsi le dita restando a capo chino, quell’ufficio mi metteva addosso una sensazione di soffocamento, o forse era colpa di Jim lì seduto.
«Mi dispiace, c’era traffico e—» il rumore dei fogli sbattuti con forza sulla scrivania mi fece zittire immediatamente.
«Per quanto mi riguarda poteva pure esserci una parata di alieni, se il tuo turno inizia alle nove tu devi poggiare il tuo bel culo sulla sedia alle nove meno un cazzo di minuto.» Strinsi gli occhi al suono di quelle urla, avevo una gran voglia di mandarlo a fanculo ma non potevo giocarmi lo stipendio. Ormai era sempre così, mi rimproverava per ogni cosa anche la più banale o assurda, averlo rifiutato aveva praticamente segnato la mia condanna in quell’ufficio. «Facciamo un ripassino semplice semplice: chi è il capo, Joshua?»
«Tu..» sfregai la punta del piede contro il parquet lucido, odiavo quando mi parlava come fossi un bambino incapace.
«E chi il dipendente?»
«Io, ma ascolta—» brutto bastardo.
«Quindi chi è che deve obbedire senza discutere?» Soffocai uno sbuffo e un’occhiata assassina.
«Sempre io.» parlai a denti stretti costringendomi a sorridere mentre tornavo a fissarlo, mi focalizzai sul suo neo, era ributtante chissà se poteva crescere ancora di più e coprirgli tutta quella faccia di merda che nostro signore gesù gli aveva donato?
«Se avessi accettato il mio invito, ti avrei istruito per bene sul comportamento da seguire, sei ancora acerbo.» Si certo, e gli asini avrebbero volato. Istruirmi era sicuramente stato il suo primo pensiero mentre prenotava un tavolo al ristorante più costoso della città. «Adesso sparisci.»
Digitavo ritmicamente sulla tastiera del pc cercando di scaricare la tensione accumulata, perché il destino si voleva accanire così brutalmente con me?
«Guarda che se la spacchi non te ne darà un’altra.» La voce di Sean si insinuò tra i miei pensieri, smisi di torturare i poveri tasti malconci sospirando.
«Mi ha punito ancora, ha detto che devo restare oltre l’orario di lavoro.» Me li avrebbe pagati tutti quegli straordinari? A volte ne dubitavo.
«Cos’è quella?» Seguii la traiettoria del suo sguardo ricordandomi della lettera ancora sigillata, la infilai più a fondo dentro lo zaino scrollando le spalle.
«Nulla di importante.» I suoi occhi continuarono a fissarmi.
«Ne sei sicuro?» Aggrottai la fronte fissandolo attentamente.
«Abbastanza..» scandii bene la parola come a volergliela far comprendere meglio. «Non ho tempo per i giochetti stupidi di chissà chi, non so se hai notato ma la mia vita lavorativa sta colando a picco.»
«Così drammatico.» Mi lasciò senza darmi la possibilità di ribattere, gli avrei lanciato contro qualcosa se solo non avessi avuto gli occhi di Jim intenti a scrutarmi dalla vetrata del suo ufficio. Tornai a digitare con solerzia la tastiera, meglio non provocarlo oltre.
In ufficio ormai ero rimasto soltanto io, il turno era finito per tutti tranne che per me ovviamente. Mi stiracchiai sulla sedia rumorosamente, avevo bisogno di un caffè o sarei crollato miseramente addormentato di lì a poco. Afferrai il mio zaino per capire se avessi degli spicci lì con me, le mie dita toccarono nuovamente la busta chiusa, stavolta l’afferrai fissandola attentamente e la curiosità ebbe il sopravvento. Quando l’aprii ciò che lessi mi lasciò interdetto: l’indirizzo del mio appartamento. Stavolta non vi era alcuna battitura a macchina, era tutto scritto a penna e qualcosa dentro di me si ruppe irreparabilmente. Avrei riconosciuto quella calligrafia ovunque, l’avevo vista così tante volte da essere impressa nella mia memoria. Quante lezioni di tedesco mi aveva dato scrivendo gli appunti con quella grafia precisa ed elegante? Aprii di slancio il cassetto chiuso della mia scrivania estraendo gli altri due biglietti ricevuti, mettendoli in ordine dal primo all’ultimo. Vi era un orario, una data e un luogo. Guardai l’orologio, le nove erano già passate da venti minuti. Guardai il calendario: era il ventitré. E infine guardai l’ultimo biglietto. Mi alzai in maniera così irruente da far cadere la sedia al suolo con uno schianto, non mi sprecai nemmeno a raccoglierla, raccattai tutte le mie cose uscendo come una scheggia dall’ufficio. All’ingresso per poco non travolsi Sean che si destreggiava con due bicchierini di caffè fumante.
«MA DOVE VAI?» Non mi fermai voltandomi solo un’istante a guardarlo.
«A casa, immediatamente.» Mi fissò con un mezzo sorriso e i suoi occhi si soffermarono sulla busta che tenevo ancora stretta tra le dita, la sua voce mi arrivò dritta alle orecchie poco prima che uscissi dalle porte scorrevoli.
«TE L’AVEVO DETTO CHE ERA IMPORTANTE LEGGERE IL BIGLIETTO.»
 
Maledissi il mio orgoglio che mi aveva impedito di tenere la seconda auto di Shou, mi aveva praticamente supplicato di prenderla per spostarmi, ma no dovevo essere un coglione orgoglioso io figuriamoci. Arrivai col fiatone sul pianerottolo aggrappandomi alla ringhiera, non c’era nessuno ad attendermi lì e il mio cuore sembrò lentamente tornare a battere col suo solito ritmo stanco. Un ritmo che aveva preso ormai da due anni.
Girai la chiave nella toppa entrando in casa, era tutto silenzioso e al buio proprio come l’avevo lasciato. C’erano i miei vestiti messi in disordine sul divano, quella mattina mi ero vestito così di fretta da non averli riposti come loro solito. Lasciai cadere lo zaino a terra sospirando silenziosamente, mi venne spontaneo guardare fuori dalla finestra del soggiorno, i grattacieli illuminati mi fissarono in silenzio anche loro. Che cosa mi aspettavo esattamente? Che cosa volevo davvero? Un movimento in penombra attirò la mia attenzione costringendomi a voltarmi, stava lì in piedi a occupare completamente l’ingresso del corridoio, le mani in tasca e gli occhi blu ardenti fissi su di me.
«Pensavo non saresti più tornato..» la sua voce era ancora identica a come la sognavo io di notte, lo stesso tono graffiante. Faticai a respirare restando in silenzio, avevo sognato quel momento così tante volte e con così tanti finali diversi che adesso semplicemente non sapevo cosa fare.
«Sei qui..» Non riconobbi la mia voce, era come se non mi appartenesse, come se non fossi io a parlare in quel momento. Mi sentivo prosciugato dalla mia stessa anima. Mosse un passo e un altro ancora colmando le distanze tra noi, costringendomi a sollevare il viso per guardarlo.
«Te l’avevo detto che sarei tornato da te..» alzò una mano come a volermi toccare, mi scostai bruscamente respirando affannosamente. Mi tornarono in mente tutte le sensazioni provate quando entrando nella sua stanza non trovai tracce di lui, gli armadi aperti e vuoti, il letto abbandonato e senza lenzuola e il mio pianto isterico mentre mi decomponevo al suolo.
«Come hai potuto farmi questo.. come hai potuto abbandonarmi in quel modo, con quel biglietto di merda.» Non riuscii a finire, tremavo e non sapevo come smettere.
«Josh..» lo schiaffeggiai con forza restando io per primo sbigottito da quell’atto. Io che non avevo mai alzato un dito contro nessuno, io che adesso mi sentivo corrodere dentro dal senso di colpa per il male fisico che avevo potuto arrecargli.
«Mi aspettavo qualcosa di passionale in effetti, ma non così passionale..» si toccò la guancia con un mezzo sorrisino, e io mi infuriai ancora peggio. Aveva la voglia di scherzare in quel frangente?
«Due anni Enoch, due schifosissimi anni.» Non dovevo piangere, dovevo farmi forza e non cedere ma fallii miseramente. «Hai la minima idea di come ho vissuto senza sapere che diavolo di fine avessi fatto? Ero pronto ad andare fino a Stoccarda per supplicare tuo padre..»
«Mi avresti trovato lì, almeno i primi due mesi..» mi bloccai scuotendo il capo, non riuscivo a crederci.
«Tua madre disse..»
«So cosa ha detto, ho chiesto io a mio padre di mentire.» Mi allontanai bruscamente da lui, non potevo sostenere quella conversazione senza impazzire del tutto. Io che mi ero disperato, e lui che chiedeva alla gente di mentire consapevole che di mezzo c’era la mia sanità mentale. Mi coprii gli occhi con le mani soffocando un lamento.
«E’ tutto così semplice per te, vero? Tu vai via, poi torni, fai sempre come ti pare.» Tornò ad avvicinarsi e io arretrai appena, averlo troppo vicino continuava a confondermi come la prima volta in cui lo vidi. Non ero cambiato per niente in quei due anni.
«Volevo proteggerti, hai idea del casino che è successo con l’arresto di mio nonno? Non potevo fare altro, non potevo restare lì..»
«Potevi portarmi con te.» Lo inchiodai sul posto coi miei occhi, mi fissò con talmente tanta desolazione e dolore da sentirmi piccolo come una formica.
«Adesso sei tu a farla troppo semplice.. Pensi  me la sia passata bene senza te in questi due anni? O pensi io ti avessi sul serio accantonato? Ero sempre con te, qualsiasi cosa tu facessi io venivo comunque a saperla.» Aggrottai la fronte fissandolo confusamente.
«Che vuoi dire..»
«Sean, è mio amico.» Soffiai fuori una risatina incredula, adesso mi erano chiare così tante cose. Il perché mi fosse si fosse avvicinato dopo Berlino, perché mi parlasse sempre di Enoch o perché fosse così interessato ai biglietti misteriosi che mi erano arrivati.
«Siete due stronzi, entrambi.» Odiavo l’idea che avessi costruito rapporti falsi e fittizi, mi ero affezionato davvero a Sean e lui? Lui mi era vicino solo perché Enoch glielo aveva chiesto?
«Oh vaffanculo.» Il suo tono rabbioso mi colse in contropiede, lo vidi slanciarsi verso di me fino a sentire le sue labbra schiantarsi sulle mie. Fu come se un terremoto avesse fatto spaccare la terra sotto ai miei piedi, mi aggrappai a lui con tutta la mia forza mentre le gambe mi cedevano tremando. Aderii con la schiena al muro, lo volevo vicino e ancora più vicino perché più di ogni cosa mi era mancata quell’elettricità perenne ogni volta che i nostri corpi collidevano. Il modo in cui le nostre lingue si accarezzavano, quella sintonia che capii non si era spezzata con la lontananza. Le sue dita sollevarono la mia camicia, mi accarezzarono la pelle nuda dei fianchi, sentii un brivido scuotermi da dentro mentre artigliavo i suoi capelli ricambiando quel bacio con la medesima intensità.
La mia mente dispettosa mi riportò nuovamente alla sua camera del dormitorio, mi rividi in ginocchio a piangere tra le braccia di Sophia, la medesima sensazione di vuoto e dolore spalancò una voragine dentro il mio stomaco. Avevo sognato così tanto quel momento, ero rimasto lì bloccato ad attenderlo senza alcuna intenzione di vivere davvero senza di lui, e adesso? Come potevo arginare quella sensazione di abbandono, come potevo fidarmi ciecamente come avevo già fatto in passato senza la paura di uscirne nuovamente a pezzi quando e se mi avesse abbandonato ancora? Con uno sforzo sovrumano lo allontanai da me, lo guardai respirare affannosamente e mi resi conto di essere nelle medesime condizioni, sentivo le labbra gonfie e pulsanti per la troppa irruenza messa in quel bacio e le mie viscere rimescolarsi da dentro per l’eccitazione mista al dolore.
«Vattene via.» Mormorai quelle parole aprendo la porta di casa.
«Josh..» mi si avvicinò con il chiaro intento di baciarmi ancora, ma io mi ritrassi scuotendo il capo.
«Vattene via.» Lo ripetei ancora e con più convinzione senza guardarlo, il silenzio piombò tra noi come una spada affilata.
«Non puoi fuggire da me, lo sai.» Lo sapevo, io sarei rimasto tutta la vita legato a lui, come un condannato con la sua pena. Anche se il paragone adesso mi sembrava meschino, Enoch era stato la mia salvezza e la mia liberazione, avrei fatto di tutto per lui, avrei lasciato tutti per seguirlo, per amarlo e viverlo ogni giorno della mia vita. E lui che aveva fatto? Mi aveva promesso le medesime cose per poi andarsene via, incurante dei cocci distrutti di me stesso che aveva lasciato indietro. Chiusi gli occhi scuotendo il capo affranto.
«Lo so bene, vattene via ti prego..» sentii i suoi occhi scrutarmi nel buio e alla fine così com’era apparso allo stesso modo sparì mentre il click della serratura poneva fine all’incontro più devastante a cui avessi preso parte. Nemmeno il mio ultimo saluto a TJ aveva avuto quella violenza e quella portata nel mio animo, mi accasciai al suolo a occhi sbarrati mentre pregavo disperatamente affinché quella sensazione di vuoto sparisse, affinché potessi semplicemente guardarlo e abbracciarlo senza più paure e mancanze. Mi distesi sul pavimento in posizione fetale, abbracciando le mie gambe con le braccia, ricordai quando solevo farlo per gli incubi sul reverendo che mi tormentavano; Enoch li aveva fatti sparire con la sua sola presenza, ma adesso chi mi avrebbe aiutato? Ancora lui? O ero io a dover aiutare me stesso? Mi accarezzai le labbra, sentivo ancora il suo sapore su di me, mi sembrava di vivere in un sogno, avevo il terrore di svegliarmi e rendermi conto che Enoch non era mai tornato, non mi aveva mai baciato né rassicurato. Che dovevo fare adesso? A parte amarlo con ogni parte di me e della mia disperazione, che altro dovevo fare?
 
*
 
Mi sedetti sulle scale in silenzio, potevo sentire la sua presenza oltre la porta era così vivida da accecarmi nonostante l’oscurità. Guardai le mie mani che fino a pochi istanti prima lo avevano tenuto stretto, adesso tremavano appena a causa della mancanza di cui mi aveva volutamente privato. Proprio come io lo avevo privato della mia due anni prima.
Non potevo concepire una vita senza Joshua, sin da quando ero andato via il mio chiodo fisso era stato quello di tornare, avevo cercato un lavoro che mi portasse nuovamente a Las Vegas, nuovamente tra le sue braccia. Non potevo pensare fosse stato tutto vano, né potevo pensare che non mi amasse più. Avevo le mie prove lì nero su bianco, sulla mia bocca che sapeva ancora di lui, sul mio cuore che aveva battuto allo stesso ritmo con il suo. Mi amava, dovevo solo riuscire a conquistare la sua fiducia ancora una volta, com’era successo all’università, così adesso. Eppure per un flebile istante l’insicurezza mi dominò, mi rendevo sempre più conto di come cambiassi quando Joshua era nei paraggi, di come ogni mia peculiarità si piegasse al suo passaggio, si mitigasse quasi. Era il mio equilibrio, la mia soluzione, il mio sole. Ricordai un letto sfatto e Yale che si stagliava fuori dalla finestra, ricordai un ragazzo seminudo al chiarore della luna e le mie mani che accarezzavano la sua coscia. Potevo sentire formicolare le mie dita al contatto con la sua pelle d’oca.

 
«Andrai da un medico?» Finsi di non sentirlo continuando a leggere il mio libro, sapevo quanto questo lo infastidisse e adoravo il broncio che metteva su ogni volta. «Sto parlando con te, andrai da un medico?»
«Non credo, no.» Scossi il capo fingendomi contrito, si arrampicò sopra di me gettando via il libro, sedendosi sui miei fianchi.
«Andare da uno psichiatra non fa di te un pazzo, o qualsiasi altra stupidaggine a cui pensi..» si chinò iniziando a baciarmi il collo con lentezza, era diventato così fottutamente bravo. Le sue dita accarezzavano la mia pelle nuda, e io socchiusi gli occhi respirando profondamente, desiderandolo di nuovo.
«Continuo a non volerci andare.. e sinceramente in questo momento non penso a quello, fidati.» mi morse all’altezza della clavicola, con forza e dispetto fissandomi trucemente da sotto le lunghe ciglia, alla fine sorrise ambiguamente.
«Se ci andrai, io..» mi sussurrò all’orecchio ciò che qualsiasi uomo vorrebbe sentirsi dire dal suo partner, era diventato fottutamente bravo anche nell’essere sfacciato. Ma solo nella penombra della nostra camera, quando i suoi sussurri avrebbero nascosto il rossore che si formava sulle guance pronunciate. «Quindi? Di fronte questa imperdibile proposta, che mi dici?» Mi fissò in attesa, sbattei le palpebre sorridendo lentamente.
«Dico: potresti toglierti? Credo tu sia ingrassato.»

 
Le mie risate e le sue urla offese divennero sempre più lontane, simili a campanelli squillanti. Mi alzai da quel gradino non sapendo bene quanto tempo fosse passato, quando uscii dal portone stinto e pieno di graffiti guardai l’alba accogliermi da sopra i maestosi grattacieli. Un nuovo giorno era appena iniziato, e per quanto le ore precedenti fossero state pesanti e piene di dolore io ero di nuovo felice.
 

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** soulmate ***


XXII.



«Josh dai, ti puoi fermare un secondo?» Mi bloccai voltandomi in maniera irruente, lo vidi stopparsi colto di sorpresa per non arrivarmi addosso.
«Non chiamarmi ‘’Josh’’.» Mossi un passo nella sua direzione assottigliando lo sguardo. «Non chiamarmi mai più in quel modo, e non parlarmi mai più.» Mi allontanai velocemente sentendo la rabbia fluire fuori a ondate, le mie guance pensavo stessero prendendo quasi fuoco. Sean non mi seguì, probabilmente aveva capito quanto poco valessero le sue scuse in quel momento. Mi sentivo come il protagonista ignaro di un film, mi avevano sbattuto lì in mezzo senza dirmi nulla, tutti mi giravano attorno per un motivo e io non ne sapevo niente, inconsapevole fino alla stupidità.
Giocai con l’insalata nel mio piatto senza alcuna intenzione di mangiarla, non dormivo bene da due giorni bloccato al fatidico momento in cui Enoch era riapparso nella mia vita così come se mi avesse salutato soltanto il giorno prima. Come se fossimo ancora al dormitorio, come se fossimo due studenti. Come se fossimo ancora quelli di un tempo. Lo eravamo? Nel mio cuore suppongo non avessimo smesso neppure per un istante di esserlo, il problema era passare dalla teoria alla pratica, mi sentivo bloccato e avvizzito dentro.
«Parliamo.» La voce di Sean mi disturbò, lo guardai sedersi di fronte a me e mi mossi pronto ad alzarmi. Mi bloccò afferrandomi il braccio, più provavo a liberarmi e più stringeva, quando capii che mi sarei solo procurato un livido desistetti ricadendo sulla sedia.
«Ridevate di me mentre parlavate al telefono?» Inarcai un sopracciglio incrociando le braccia al petto.
«Mi lascerai spiegare come sono andate le cose, o continuerai con questo atteggiamento?» Chinai il capo flettendo la mano, dandogli tutto l’agio di parlare anche se dubitavo sarebbe stato abbastanza convincente da farmi cambiare idea. «Ti considero davvero un mio amico..» la mia risatina mi valse la sua occhiata più truce, sostenni il suo sguardo con sfida. «Ho incontrato Enoch a Berlino, se non avessimo fatto quel cambio dell’ultimo minuto.. lo avresti incontrato tu probabilmente.»
«Lo so..» il destino a volte sapeva essere davvero crudele, mi chiesi come sarebbero andate le cose in quel caso. Sarebbe cambiato qualcosa? Probabilmente no, il mio malessere covava da due anni.
«Ho parlato di te per caso, mi chiese cosa ci facessi lì e gli raccontai di Jim..» strabuzzai gli occhi sporgendomi in avanti.
«Tu cosa?» Mi sembrava strano che Jim respirasse ancora conoscendo Enoch.
«La pianti di interrompermi? – Comunque, quando feci il tuo nome il suo sguardo cambiò, non so come spiegarlo..» si mosse a disagio sulla sedia, non era bravo a parlare di sentimenti. «C’era dolore, e gioia anche, un miscuglio di queste due cose insieme che mi portarono a pensare ti conoscesse. Gli dissi che eri uno stronzetto asociale.»
«Come, prego?» Sorrise divertito bevendo un sorso di caffè.
«E lui mi risposte ‘’il mio Josh non è così’’.» Sentii gli occhi inumidirsi e spostai lo sguardo sul locale, avevo bisogno di concentrarmi su qualcosa per non cedere e crollare di fronte a lui. «A quel punto iniziò a parlarmi di te, mi chiese di dirgli tutto.. qualsiasi cosa ti riguardasse. E mi chiese di tenerti d’occhio, e consegnare i biglietti al posto suo.» A quella rivelazione spostai nuovamente gli occhi sulla sua figura.
«Li hai messi tu nella mia buca..» ero incredulo, ma a Sean non sembrava importare.
«Mi dispiace Josh..ua. Non volevo prenderti in giro, ma se tu l’avessi visto parlare di te, non potevo rifiutare semplicemente.» Scrollò le spalle, non aveva alcuna intenzione di giustificarsi come se le motivazioni fossero impossibili da esprimere a parole. «E non mi sono finto tuo amico, tu mi piaci davvero o non mi sarei nemmeno avvicinato.. favore o meno.»
«Gli ho mollato uno schiaffo.» Riuscivo a pensare solo e soltanto a quello, era come un’ossessione la mia. Sean non sembrò scomporsi, mi fissò quasi divertito.
«Lo meritava, no?» Sbuffai alzandomi.
«Lo meriteresti anche tu..»
«Un’ultima cosa..» mi bloccai voltandomi, era ancora seduto e mi fissava. «Posso chiamarti Josh, si o no?» Mi venne da ridere, scossi il capo andando via senza nemmeno degnarlo di una risposta.
Quando provai a mettermi in contatto con lui la chiamata andò a vuoto, temetti non avesse risposto di proposito, forse era arrabbiato. Forse se n’era andato nuovamente. Dieci minuti dopo fu Enoch a richiamarmi, non mi presi nemmeno la briga di aspettare i tre fatidici squilli, una prassi nelle relazioni burrascose. Risposi dopo il primo.
 
— Ero a lavoro, non pensavo mi avresti chiamato e non ho portato il cellulare dietro.
— Non preoccuparti..
— Sono felice di sentirti..
— Sei libero stasera?
— Per te lo sono sempre.
— Ceniamo insieme, devo parlarti di alcune cose.. o forse dobbiamo parlare entrambi, ecco.
— Mi mancavano i tuoi ‘’ecco’’ finali.
— Enoch, per favore..
— Ti aspetto a casa mia per cena, ti mando l’indirizzo a breve.
 

Chiusi forzatamente la chiamata restando seduto sulle scale antincendio del mio ufficio, sentivo il cuore battere come un tamburo e supponevo questo non sarebbe cambiato mai. Dovevo convivere con la certezza che io di Enoch non mi sarei mai potuto liberare, non fisicamente ma dentro l’anima. Lui era sempre lì, dalla prima volta in cui l’avevo visto salire le scale della facoltà quando ancora era poco più di un estraneo ai miei occhi, aveva messo le sue radici in quel preciso istante. Più diventavamo intimi e più quelle radici entravano dentro il cuore, a volte dolorosamente altre in maniera più delicata. Poggiai la fronte sulle ginocchia contando i miei respiri a occhi chiusi: la metà perfetta si incontrava una sola volta nella vita. E quando la perdevi, l’idea di trovarne una seconda era pura utopia. Anzi, non ti sfiorava nemmeno minimamente l’idea per il semplice motivo che avevi già donato tutto alla prima. 
 
Enoch viveva in un loft, quella consapevolezza non mi spiazzò per niente anzi la trovavo in linea con la sua personalità. A differenza del mio palazzo il suo era più elegante e aveva anche l’ascensore (salire tutti quei piani a piedi supponevo sarebbe stato un po’ scomodo effettivamente) nella quale mi trovavo proprio in quel preciso istante. Provai a calmarmi fissandomi allo specchio, lisciai le pieghe della mia maglietta muovendo un passo indietro affinché potessi osservare tutto per intero il riflesso. Anche i pantaloni sportivi beige erano al loro posto, annuii provando a motivarmi ma il rumore delle porte che si aprivano fece crollare miseramente il mio coraggio. Restai lì fermo senza sapere che fare, alla fine mi decisi semplicemente a muovere le gambe uscendo da quel cubicolo improvvisamente angusto per dirigermi alla sua porta. Suonai una singola volta, pochi secondi dopo lo vidi apparire di fronte ai miei occhi, sempre bellissimo e sempre disordinato nell’abbigliamento e nei capelli. Frenai l’impulso di rimetterglieli a posto superandolo per entrare, non restai sorpreso da ciò che vidi: il letto sfatto, tipico di lui. Nessun quadro o suppellettile adornante, niente piante, solo tanti libri e il suo immancabile violino messo proprio lì nell’angolo.
«Mi sono trasferito da poco..» sembrava desideroso di metter su una scusa per descrivere il vuoto di quella casa.
«Come se cambiasse qualcosa..» mormorai quelle parole iniziando a muovermi all’interno dell’unico ambiente, ritrovai cose che conoscevo già perché viste al dormitorio. Mi bloccai alla scrivania, in bella mostra la polaroid che gli avevo regalato e accanto una nostra foto, l’unica in casa. Le dita tremarono mentre afferravo la semplice cornice color lavanda, ricordavo quel momento perfettamente.
 
«Eddai, mettiti in posa.» Continuava a muoversi per farmi dispetto, alle nostre spalle Ottawa innevata e maestosa.
«No, a meno che non ti decidi a farla insieme a me.» Incrociò le braccia al petto con espressione irremovibile.
«Sei terribile..»
«Non ne hai la minima idea, amore.» sbuffai trattenendo una risata per correre accanto a lui poco prima che il timer scattasse e ci immortalasse sorridenti, lui seduto su una ringhiera a ridosso di un ponte, e io in piedi incastrato tra le sue gambe. Senza nemmeno metterci d’accordo i nostri visi si contrassero in due espressioni buffe.

 
Riposi la foto deglutendo con fatica, quando mi voltai lui era lì a fissarmi, annegavo in quelle pozze blu.
«Ho ancora tutti i pupazzi che mi hai regalato..» indicò una scatola accanto al letto, quasi invisibile perché incastrata tra la parete e il comodino.
«Pensavo li detestassi..» mi sfuggì un sorrisino ripensando a come avevo riempito la sua camera a Yale di peluche ridicolissimi.
«Come potevo? Eri tu a regalarmeli..» non risposi dirigendomi verso la cucina, prendendo posto su uno degli sgabelli e mettendo lo zaino in quello accanto, come a voler mettere distanza tra noi. Enoch non sembrò scomporsi dirigendosi in quello di fronte, continuando a fissarmi.
«Hai cucinato?» Fiutai l’aria senza sentire alcun odore particolare di cibo, sorrise indicando i fornelli.
«Ho solo del ramen precotto..» sospirai mordendomi il labbro inferiore, possibile che non cambiava mai?
«Quante volte ti ho detto di mangiare sano?»
«Se vuoi che mangi sano cucinami tu.» Mi chiuse con quella frase a cui non seppi rispondere, sigillai le labbra guardandolo trafficare ai fornelli. Fissavo le sue spalle ampie, la schiena dritta e fiera, non c’era nulla che sembrasse cambiato in lui a parte il peso, credevo fosse dimagrito un po’. Mi preoccupai ma tacqui anche in quel caso. Parlammo di tutto e di niente, seppi che lavorava come astrochimico per un laboratorio di ricerca, era lì a Las Vegas con il suo team per un progetto sperimentale e chissà dove lo avrebbero portato in seguito.
«E quando farai ciò che vuoi veramente fare?» Si bloccò con il coperchio tra le mani guardandomi intensamente, la sua vera vocazione era l’insegnamento lo sapevo io e lo sapeva anche lui. Avevo ancora impressa nella memoria la sua prima lezione a Yale.
«E tu?» Chinai il capo torcendomi le dita, ero sicuro non si riferisse al lavoro. «Attento a non scottarti..» osservai il ramen senza nemmeno toccarlo, sollevando infine il viso.
«Mi dispiace.. per lo schiaffo dico, mi dispiace davvero. Non sono riuscito a dormirci pensando a quello che avevo fatto..» Fissai la sua guancia senza rendermene conto, cercavo tracce invisibili di quella notte.
«Ah quello.. mi fa male l’orecchio da quella sera.» Masticò lentamente curvando le labbra in una smorfia, il mio senso di colpa supposi avesse appena toccato i vertici più alti mai visti. Mi alzai andandogli vicino, accarezzandogli il viso preoccupato.
«Non.. non pensavo di avertelo dato così forte.» La sua risata mi colse in contropiede provai ad allontanarmi ma la sua mano afferrò il mio polso impedendomelo.
«Per avere una carezza da te, devo quindi fingere?» Chiusi gli occhi scuotendo il capo, ma certo mi stava prendendo in giro. Sorrisi stancamente tornando a guardarlo.
«Suppongo sia divertente per te, prendermi continuamente in giro.» I suoi occhi si rabbuiarono e io mi sciolsi dalla sua presa.
«Non volevo prenderti in giro, era solo uno scherzo stupido Josh.» Ed era vero, era solo uno scherzo ma non riuscivo più a prenderlo come in passato, qualsiasi cosa facesse mi riportava a quel momento in camera sua, quando l’unica cosa rimasta era un biglietto sgualcito e stinto. Lo capì anche lui, nell’esatto momento in cui le sue pupille si dilatarono appena e i suoi occhi presero consapevolezza.
«Ti ho portato queste.» Aprii lo zaino uscendo un pacco di caramelle che poggiai sul tavolo. «Adesso è meglio che vada..»
«Non voglio che tu vada via.» Mi bloccai al centro della stanza voltandomi a guardarlo, non era più seduto adesso, stava in piedi a pochi passi da me.
«Che vuoi che faccia, esattamente?» Non mi riferivo a quel preciso momento, e lui lo sapeva bene.
«Non lo so, se dipendesse da me farei ciò che voglio fare da quando ti ho aperto la porta: baciarti e fare l’amore con te sul mio letto.» Mi sentii avvampare a quelle parole, umettai le labbra improvvisamente secche sviando il suo sguardo troppo penetrante.
«Avresti dovuto farlo ma due anni fa, invece di andartene senza una parola avresti dovuto baciarmi e fare l’amore con me su quel letto.» Il dolore tornò nuovamente a impadronirsi di me. Mi voltai avviandomi alla porta.
«Sai quando scrissi quel bigliettino?» Restai fermo in attesa, con la mano sulla maniglia abbassata, come sospeso in un tempo visibile solo a noi. «Lo scrissi poche settimane dopo esserci messi insieme, mi dormivi addosso e ti avevo appena spiegato i cifrari. Già allora io sapevo che sarei tornato da te, sempre e comunque. Puoi fare tutti i giri che vuoi Josh, ma tu lo sai..» si bloccò come se cercasse le parole, mentre io cercavo da qualche parte la forza di respirare. «Tu lo sai che mi appartieni, e mi apparterrai per sempre.»
 
*
 
Provai a sistemare il nodo della cravatta, non c’era nessuno a farlo al posto mio. O meglio qualcuno c’era, ma si rifiutava di parlarmi, punendomi peggio di qualsiasi boia avessi mai visto nella mia vita. Joshua, Joshua, Joshua. Ogni mio respiro era l’eco del suo nome. Strappai dal mio collo quel cappio infernale gettandolo con poca cura sul letto, non l’avrei messa non era comunque obbligatoria nell’invito. Sophia me l’aveva mandato come faceva ogni anno, probabilmente ormai non si aspettava nemmeno più la mia partecipazione, ma era comunque carino in qualche modo vedere come non mi avesse dimenticato. Dovevo ammetterlo, se non avessi saputo della sicura presenza di una singola persona, non mi sarebbe mai passato per il cervello l’idea di parteciparvi, a che pro poi? Per stare seduto a un tavolo mangiando tartine e caviale, bevendo champagne e fissando gente pomposa della quale non me ne fregava un emerito cazzo? Mi passai una mano tra i capelli disordinati, supponevo fosse il caso di dargli una mezza sistemata, anche in quel frangente non c’erano più le sue mani che provavano a domarli con quelle dita piccole e affusolate. Chiusi gli occhi sconcertato dal mio presente, come potevo pensare di vivere se ogni cosa mi riconduceva a Lui? E Joshua? Viveva come me? Mi pensava, gli balzavo alla mente nelle piccole cose? Mi ritrovava nei piccoli dettagli della sua quotidianità? Per una volta preferii non darmi una risposta, avevo imparato che forse le cose non sempre andavano come volevo io.
Quando Sophia mi vide entrare scorsi un lampo di preoccupazione nei suoi occhi che si trasformò rapidamente in stupore, non chiesi spiegazioni limitandomi ad andarle incontro beccandomi ogni parolaccia che aveva in serbo per me con un mezzo sorrisino.
«Sono felice anch’io di vederti.» La mollai così inoltrandomi verso il centro della sala, parlando poco con chiunque avesse la malaugurata idea di fermarmi, non capivo questo meccanismo insito nel genere umano: ciarlare inutilmente con gli estranei.
Lo vidi arrivare subito, stavolta fui io a intercettare lui e non viceversa. Mi piaceva il modo in cui era vestito, gli abiti eleganti lo facevano sembrare più grande ma allo stesso tempo portava quel qualcosa di candido e infantile che lo rendeva speciale. Unico. Mossi un passo verso di lui ma qualcosa me lo impedì, vidi un uomo avvicinarsi e da come gli parlava era sicuro lo conoscesse. Strinsi il calice tra le dita e sperimentai ancora una volta cosa volesse dire venire corroso dalla gelosia. C’era stato Kevin, Mattew e alcuni stronzi occasionali in facoltà, e adesso lui. Chi era, in che rapporti erano? Dirottai i miei passi e improvvisamente divenni interessatissimo a parlare con qualsiasi donna presente in quella fottuta stanza.
 
*
 
Avevo pensato a qualsiasi scusa per non andare a quella festa, mi ero persino cercato sintomi di malattie strane su google giusto per rendermi più credibile, dato che conoscendo Sophia a meno che non mi fossi ammalato di ebola non mi avrebbe perdonato l’assenza. Alla fine mi feci forza, mi vestii, respirai profondamente e chiesi a Shou di accompagnarmi.
«Hai capito?? Devi venire tra massimo un’ora e mezzo, dirò che stai malissimo e devo accudirti.» Gli strattonai il braccio cercando di inculcargli nella mente il mio brillantissimo piano, lo conoscevo bene e sapevo fosse in grado di dimenticarsene e andarsi a sbronzare da qualche parte.
«Mamma mia che pesantezza, l’ho capito cazzo esci da questa macchina.» Gli lanciai un’occhiataccia decidendomi finalmente a entrare, inizialmente tra tutta quella folla non riconobbi alcun viso amico finché non mi parve di vedere William impegnatissimo a discutere con qualcuno. Stavo giusto per raggiungerlo ma una voce mi bloccò sul posto, ciò che vidi mi raggelò il sangue nelle vene: Peter.
«Che ci fai tu qui?» Probabilmente il mio tono fu eccessivamente brusco, sembrava felice di vedermi mentre io sentivo di essermi appena beccato una delle tante malattie lette quel pomeriggio.
«Sono stato invitato, proprio come te. Sono felice tu sia qui, ho provato a cercarti per giorni..» mi sorrise e io sentii l’ossigeno venir meno, mi guardai attorno cercando Sophia. Ci incenerimmo con gli occhi e io le feci cenno di mettersi in un angolo appartato.
«Peter, vorresti scusami un secondo?» Gli sorrisi con fatica toccandogli il braccio attraverso la giacca, fiondandomi verso la mia migliore amica.
«Che cazzo sta succedendo.»
«Che diamine sta succedendo.» Parlammo nel medesimo istante, presi un respiro profondo intimandole di calmarsi anche se quello isterico al momento supponevo fossi io.
«Josh, posso capire perché Enoch è qui e io non sapevo un cazzo di niente?» Serrai le palpebre soffocando un lamento, quindi era già lì.
«Enoch è qui?» La voce di Nastya ci interruppe, ottimo il triangolo era al completo.
«E’ complicato da spiegare.. volevo del tempo per parlarvene, è tornato da pochi giorni.» Dalla mia voce supponevo trasparisse la mia totale disperazione, visto che entrambe mi fissarono con commiserazione. «Peter è qui, capite?»
«Oh si, lo ha invitato mio padre Josh.» Sophia bevve avidamente il suo champagne, ero io quello in mezzo a due fuochi e lei beveva? Le strappai il bicchiere dalle mani finendolo al suo posto, non sembrò gradire ma non disse nulla.
«Dove sta?» Il viso di Nastya divenne lievemente teso, quasi imbarazzato.
«Oh beh, è proprio l’anima della festa..» seguii la traiettoria del suo dito e finalmente lo vidi. Era così sexy vestito elegante che notai solo dopo il fatto che sorridesse a una ragazza dai capelli scuri e gli occhi troppo truccati.
«Che lurido pezzo di me—» Sophia mi strinse il braccio e io urlai dal dolore in maniera poco virile.
«Peter a ore dodici.» ma come diamine parlava?
«Le mie o le tue?» roteò gli occhi spingendomi con poca grazia.
«Le tue, genio.» Non ebbi il tempo di rispondere ritrovandomi il soggetto della nostra discussione davanti, respirai profondamente sorridendo nel modo più credibile che riuscii a racimolare.
«Peter, che sorpresa!»
«Ma se ci siamo visti due minuti fa!» scoppiò a ridere e io non ebbi la forza di seguirlo.
«Ah, giusto.. che sbadato.» Continuavo a fissare oltre lui, verso Enoch impegnato a discutere del debito pubblico (oh si certo) con quella sconosciuta. Sembrai come richiamarlo, sollevò lo sguardo incatenandolo al mio e alzando il bicchiere di champagne mi mandò un brindisi silenzioso e carico di divertimento. «Maledetto schifoso..»
«Io?» Mi ricordai di non essere solo e risi nervosamente.
«No, non tu. Ma che vai a pensare..» poggiai una mano sul suo petto esagerando nell’ilarità, speravo che quello stronzo mi guardasse e la pelle gli esplodesse per la gelosia. Quando però lo vidi avanzare nella nostra direzione mi pentii amaramente di quel pensiero, mi guardai attorno cercando una via di fuga.
«Joshua, tutto bene?» supponevo d’essere sbiancato.
«No. Cioè si, non trovi faccia caldissimo? Perché non usciamo..» provai a trascinarmelo dietro ma Enoch mi piombò addosso come un falco. Maledissi lui, me stesso e chiunque fosse presente in quella sala.
«Non ci presenti?» Sorseggiò il suo champagne con aria arcigna, conoscevo quell’espressione e mi faceva ancora rizzare ogni pelo del corpo.
«Enoch lui è Peter, un mio amico.. Peter lui è Enoch, un—» un cosa? Come diamine dovevo definirlo? Restai a labbra sporte e la mano sollevata in aria, rincorrendo il flusso dei miei pensieri alla ricerca di una soluzione.
«Sono il suo ragazzo, abbiamo una relazione complicata ma risolveremo prestissimo.» Il bicchiere di champagne per poco non mi cadde dalle mani, gli occhi di Peter schizzarono nella mia direzione.
«SEI IMPAZZ— Cioè.. no! Enoch ha voglia di scherzare..» mi voltai a fissarlo in maniera assassina ma ricevetti solo una scrollata di spalle come a dire ‘’non è forse vero?’’.
«Io e Joshua usciamo insieme da un po’.» Adesso mi toccò fissare Peter sbigottito, ma che diamine c’era dentro l’alcool? Da quando uscivamo insieme, e perché non ne ero stato informato. Guardai verso Sophia e Nastya chiedendo loro aiuto, e come per miracolo le vidi catapultarsi lì vicino a me.
«Peter! Mio padre voleva assolutamente parlarti, ti porto subito da lui..» Lo artigliò per il braccio incurante delle sue proteste allontanandolo il più possibile. Allargai la mia cravatta, sbottonando il primo bottone della camicia.
«Che festa stupenda..» La battuta di Nastya non mi fece ridere nemmeno un po’, guardai Enoch con stizza.
«Tu vieni con me.» Non se lo fece ripetere due volte seguendomi verso il balcone, l’aria fresca della sera rinfrescò le mie guance che ero sicuro stessero andando a fuoco.
«Chi è quel coglione? Esci con lui davvero? Rispondimi.» Mi voltai con irruenza piantandogli il dito sul petto.
«Tu sei senza vergogna.» Ogni parola era seguita dal battere ritmico del mio indice sulla sua camicia bianca. Non si scompose ridendo con leggerezza.
«E perché mai?»
«Perché— mi stai sul serio chiedendo il perché? Sono solo le dieci e hai già parlato con ogni donna presente alla festa, non hai un minimo di pudore?» sembrò pensarci su attentamente.
«Uhm no, non credo.» pensavo di non aver sentito benissimo. «E’ la tua punizione per aver permesso a quel tizio di toccarti.»
«Mi stava soltanto salutando..» il mio tono risultò debole, non stavo mentendo ma sapevo bene cosa Peter provasse per me, e anche Enoch a giudicare dai suoi occhi incendiari.
«Vieni via con me.» Il suo tono cambiò divenne quasi supplicante mentre mi fissava con quegli occhi d’oro blu quasi liquefatti. Fissai la sua mano tesa e mi persi all’interno della vastità di sentimenti che provavo per lui, e di tutta la confusione per ciò che volevo e dovevo fare, e per la nostra distanza, e per il mio amore, e per il suo. E per tutte le cose che c’eravamo fatti, per tutti i cerotti che avevamo provato a mettervi sopra. Senza rendermene conto stavamo camminando lungo il giardino via da quel posto e da quella festa dalla quale eravamo ormai distanti, rinchiusi dentro cose ben più grandi e personali.
 
Mi riportò a casa, sentivo i suoi occhi scrutarmi mentre aprivo la porta e anche dopo mentre cercavo le parole per salutarlo, per dargli la buonanotte forse. Ma di parole non ce n’erano, e non ce ne sarebbero state mentre forzava le mie resistenze sgretolando tutte le mie convinzioni con la sua bocca che possessiva cercò la mia.
Sentii il tonfo della porta come un suono attutito, le mie dita lo spogliavano febbrilmente di ogni indumento formando una sorta di percorso che ci condusse fino al letto. Ancora, per la seconda volta. Come la prima volta in cui facemmo l’amore lì, così mi spoglio trascinandomi tra quelle lenzuola che presto odorarono di noi. Dei nostri colpi caldi e sudati, dei nostri respiri fusi insieme mentre io sussurravo il suo nome e lui il mio.
Entrò dentro di me lentamente ma inesorabilmente, mi sentii improvvisamente pieno e completo mentre urlavo il mio piacere che come fuoco divampava minacciando di non lasciare nient’altro che cenere alla fine. Graffiai la sua schiena mentre sentivo quelle dita toccarmi con possessione, stringere la mia coscia costringendola ad allacciarsi alla sua. Mi persi nell’accoglierlo, mentre muovevo i fianchi per andargli incontro, incurante del dolore che provavo e spaventato da quel piacere che sentivo di poter sentire solo con lui. Morse la mia carne, lasciò tracce visibili del suo passaggio e quando riversò se stesso dentro di me sentii di impazzire. Il suo ‘’ti amo’’ riecheggiò come eco.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Equilibrio ***


XXIII.



«A volte mi sono sentito come spezzato, come se la mia mente fosse una casa abbandonata e io girovagassi in solitudine..» le nostre dita si intrecciarono tra le lenzuola e i nostri occhi si incatenarono.
«Non sei da solo, ci sono io con te in quella casa, ti basterebbe solo guardare meglio per vedermi.» Sorrise chiudendo le palpebre, quasi confortato da quelle parole mentre i suoi lineamenti divenivano via via più distesi scivolando nell’incoscienza del sonno.
«Lo so, ho smesso di girarci dentro dopo aver trovato te, Josh.»

 
Mi svegliai di colpo restando immobile sul letto, accaldato e sudato fissai le ombre sul soffitto venendo trascinato nuovamente nella realtà. Mi capitava spesso di fare quei sogni, ritornare a determinati momenti che avevamo condiviso. A volte pensavo fosse la mia stessa mente a mandarmi dei messaggi subliminali, cercando di sbattermi in faccia quella verità che mi rifiutavo di accettare, troppo spaventato dalle conseguenze e dalla portata della mia sofferenza.
Era passata quasi una settimana da quella famosa notte insieme, all’alba lo avevo lasciato nudo sul mio letto scappando come un ladro, senza il coraggio di affrontarlo una volta sveglio. Che avrei dovuto dirgli? Che era stata la notte più bella della mia vita, che mi mancava come mancherebbe il respiro a qualsiasi persona costretta sott’acqua? Mi mossi tra le lenzuola abbracciando il cuscino accanto a me fissando la parete, perché era tutto così complicato? Perché non riuscivo a sbloccarmi e correre da lui semplicemente?
Enoch comunque non aveva fatto una piega, continuava a girarmi attorno e venire ovunque fossi, a lavoro o a casa o persino agli aperitivi con Sean, lui arrivava si sedeva e il mio mondo tornava ad acquistare colore. A volte avevo come l’impressione che quelle sue comparse volessero dirmi: ‘’lo vedi? Sono qui, non voglio sparire di nuovo’’. Potevo fidarmi? Ma soprattutto che razza di relazione pensavo di ricominciare senza la fiducia? Io che di lui mi sarei fidato a occhi chiusi tempo fa, gli avrei donato la mia vita tra le mani se solo me lo avesse chiesto. E forse lo avevo fatto davvero, gli avevo consegnato il mio cuore e quando era sparito sentivo come se l’avesse calpestato senza pietà.
«Stasera uscirò con Peter.» Continuai a scrivere con solerzia gli appunti di lavoro, come se non avessi detto nulla di importante.
«Ah.. e come mai?» Sean non sembrava molto felice della notizia, come biasimarlo? Lavorava per il ‘’nemico’’.
«Penso di dovergli parlare, non si rassegnerà così facilmente..» sollevai il capo fissandolo con severità.
«Quindi non è un appuntamento ‘’romantico’’?» virgolettò la parola con le dita facendomi sbuffare.
«Non lo so, potrebbe diventarlo.» Mi divertii a punzecchiarlo picchiettando la penna sulla superficie liscia della scrivania, accolse la mia provocazione annuendo con sguardo arcigno.
«E dove andrete?»
«‘’Lotus of siam’’, hai presente? Credo sia il suo locale preferito..» scrollai il capo con noncuranza, non mi importava moltissimo di quali fossero o non fossero i suoi gusti in fatto di cibo. Diedi le spalle a Sean tornando a concentrarmi sul mio lavoro, di recente mi era balzata alla mente l’idea di licenziarmi e prendere in seria considerazione il mio master a Parigi. Mi bloccai a quel pensiero guardando la mia calligrafia disordinata da mancino impenitente, le lettere divennero improvvisamente sfocate mentre mi perdevo nei meandri delle mie paure. Enoch non si era posto alcun problema a partire e lasciarmi per due anni, senza neppure dirmi dove fosse. Io sarei andato a Parigi per un anno invece, l’avrei fatto alla luce del sole laddove avrebbe potuto trovarmi sempre. C’era una sostanziale quanto decisiva differenza.
 
*
 
Quante probabilità potevano esserci che fosse una coincidenza il fatto che di fronte al ristorante prenotato da quella merda si ergesse un albergo? Entrai al suo interno guardandomi attorno con attenzione, ignorando le voci smorzate e l’atmosfera orientale concentrandomi piuttosto sui commensali. Due per la precisione. Li trovai al tavolo più lontano dall’ingresso, la loro cena era appena iniziata e io ero lì per portarla alla fine il più in fretta possibile.
«Quale fortuita coincidenza.» Il fatto che il mio tono esprimesse il contrario di ciò che avevo detto non era di sicuro imputabile alla mia incapacità di mentire. Anzi, in quello ero abbastanza bravo e Josh avrebbe confermato senza tentennare. Mi fissarono entrambi sbigottiti, Peter di più mentre mi osservava prendere posto al loro stesso tavolo.
«Che ci fai qui?» Guardai il mio fidanzato sorridendo in maniera armoniosa, anche se a giudicare dal suo sguardo la mia fu probabilmente una smorfia grottesca e spaventosa.
«Ero curioso di provare il cibo, è buono?» Mi rivolsi a Peter in maniera colloquiale, mi scrutava come fossi un insetto sgradito e indesiderato, forse non capiva che l’unico a essere ‘’in più’’ a quel tavolo era proprio lui. Ma non me ne preoccupai, avrei fatto di tutto affinché lo recepisse entro pochi minuti. Se Joshua pensava avessi desistito mi conosceva molto poco, più mi rifiutava e si allontanava e più io mi avvicinavo a lui mostrandogli tutto ciò che eravamo stati e che continuavamo a essere a prescindere dalle sue paure. Volevo rimediare ai miei errori, volevo avere un’ultima occasione con lui e stavolta non l’avrei sprecata. Non ero tornato per noia o per semplice mancanza, io ero tornato per riprendermi ciò che mi apparteneva e che era stato messo al mondo appositamente per me: Joshua.
«Questo è un piatto un po’ piccante, non ti consiglio di prenderlo..» l’aria paterna e saccente di Peter mi provocò un mezzo conato di vomito.
«Joshua ama il piccante, metterebbe il peperoncino persino nelle sue tisane se potesse.» Infransi le sue convinzioni con immenso piacere sorridendo serafico, il mio nano preferito mi scoccò un’occhiata in tralice sbuffando.
«Non preoccuparti Peter, lo mangerò con gusto.» La mia gaiezza scemò del tutto quando lo vidi parlargli con tono pacato e dolce, perché quando si rivolgeva a me sembrava il figlio incazzato di Satana? Gli lanciai uno sguardo al vetriolo che incassò diplomaticamente, stava diventando bravo dovevo ammetterlo. Mi sentivo quasi fiero di lui, se non fosse stato per il piccolo particolare che quella bravura la rivoltava contro di me.
A malincuore capii che Peter era un uomo pacato, aveva trent’anni e lavorava in borsa e da come parlava sembrava anche parecchio competente, eppure continuavo a detestarlo con tutte le mie forze. Il fatto che si mettesse tra me e Joshua, che rendesse così palese la sua attrazione per lui mi mandava fuori di testa; era una sensazione devastante, come se la mia pelle venisse ricoperta di bolle dolorose che esplodevano rendendomi cieco e sordo di dolore. Guardai il soggetto dei miei più profondi desideri, come potevo biasimare quel coglione accanto a me? Era bellissimo, e lo avevo pensato già dalla prima volta in cui i miei occhi si erano posati su di lui, con quell’aria spaurita e la macchina fotografica stretta tra le mani. Aveva le labbra a forma di 3 rovesciato, ricordo che quando glielo dissi la prima volta rise per due ore consecutive. A quel tempo rideva sempre grazie a me. Gli occhi dolci e profondi, il colore caldo delle foglie mature rendevano il suo sguardo comprensivo e seducente a seconda della situazione.. non potevo rinunciare a lui, mi sentivo morire al solo pensiero.
«Enoch?» mi ridestai osservando i loro visi intenti a scrutarmi.
«Ero sovrappensiero.» Sorrisi forzatamente e notai un luccichio preoccupato negli occhi del mio fidanzato. Perché si, lui era ancora il mio fidanzato e questo non sarebbe cambiato mai.
«Peter voleva sapere se gradivi il dolce..» la sua voce era come una musica melodiosa, simile al rumore dei ciottoli in fondo al fiume, o almeno io la vedevo così. Ma da quando ero diventato così fottutamente romantico?
«Non è il dolce ciò che voglio.» Da come lo guardai Joshua capì che mi riferivo a lui, bevvi un sorso di vino alzandomi. «Devo andare, la cena ve la offro io.» non staccai gli occhi dalla sua figura, augurandomi capisse ciò che cercavo di dirgli, e dopo averli lasciati piuttosto che dirigermi alla porta d’ingresso dirottai a quella del bagno.
 
*
 
Avevo capito bene? Aprii la porta con cautela guardandomi attorno senza che scorgessi un’anima lì dentro, camminai lentamente arrivando al centro dell’anticamera finché non sentii la sua presenza alle mie spalle, non mi voltai respirando profondamente.
«Perché sei venuto qui?»
«Non era ciò che volevi? Hai dato a Sean persino l’indirizzo, non desideravi forse che me lo dicesse?» Mi girò attorno piazzandosi di fronte a me, reclinai il capo per fissarlo in viso mordendomi le labbra. Le bugie non mi riuscivano ancora molto bene.
«Speravo ti dicesse l’altra parte del discorso, non che ti convincesse a venire qui. Peter ha capito..» non mi fece nemmeno finire il discorso colmando le distanze già esigue tra noi.
«Non me ne frega un cazzo di quello che Peter ha capito, se avesse capito sul serio a quest’ora sarebbe già andato via.» La sua voce bassa mi strappò un brivido, provai ad arretrare ma non me lo permise afferrandomi per i fianchi.
«Enoch, per favore..» mi divincolai senza successo, sentivo la mia voce tremare e non ero sicuro se fosse per l’eccitazione o la paura del luogo nella quale eravamo.
«Una volta quando dicevi ‘’Enoch, per favore’’ stavi nudo sul mio letto mentre mi accoglievi dentro di te.» Quei discorsi non erano umanamente sostenibili, gli afferrai il polso esercitando una pressione disperata affinché mi lasciasse andare.
«Potrebbe entrare chiunque, ti prego..» senza neppure rispondermi mi trascinò verso la porta che dava ai bagni veri e propri, entrando dentro il primo e portandomi con lui. All’interno di quello spazio ristretto riuscivo solo a fissare i suoi occhi, e le sue labbra che lentamente si avvicinarono alle mie. Possibile che non riuscissi mai a dirgli no? Che senso aveva tutto quello, che senso aveva il mio allontanarmi se poi tornavo comunque tra le sue braccia? Sembravo semplicemente un pazzo incoerente.
«Quello che abbiamo noi due, tu lo sai..» morse il mio labbro inferiore strappandomi un gemito, le sue dita sollevarono la mia camicia accarezzandomi l’addome piatto, sentii la pelle formicolarmi mentre mi abbandonavo a quelle carezze indecenti. La mia mente era in tilt, riuscivo solo a sentirlo sovrastarmi, a percepire la sua eccitazione che si fondeva con la mia mentre le mie dita tremanti sbottonavano i suoi jeans insinuandosi al suo interno. Lo sentii sospirare di piacere contro il mio orecchio, era una pazzia quella, c’era una persona che mi aspettava lì fuori e altre cento che sarebbero potute entrare eppure non riuscivo a fermarmi. Mi aprì la camicia accarezzandomi la clavicola, laddove vi era ancora il livido che lui stesso mi aveva procurato, senza fretta lo sentii scendere con le mani, afferrò le mie natiche attraverso la stoffa dei pantaloni fino a superarne la barriera, pelle contro pelle.
«Joshua?» Quella voce spezzò l’incantesimo nella quale ero caduto, provai a divincolarmi ma Enoch non me lo permise, anzi le sue carezze divennero più sfacciate e intime e io gemetti senza potermi trattenere. Peter aveva sentito? Era ancora lì? Era una situazione surreale. Fu Enoch stesso a lasciarmi andare poco dopo, mi fissò con gli occhi lucidi di desiderio.
«Non qui, andiamo via.» Si ricompose velocemente e io provai a fare la stessa cosa. «Saluta il tuo amico, ti aspetto fuori—» ci bloccammo entrambi quando arrivati in sala trovammo il tavolo vuoto. Mi pressai la fronte scuotendo il capo disperato.
«Ci avrà sentiti, dio santo.» La mia voce lamentosa lo irritò, mi scrollò per un braccio fissandomi.
«Ti interessa di lui?»
«Oh Enoch, come puoi essere sempre così ..egoista.» A quelle parole i suoi occhi tentennarono e la sua morsa divenne meno salda. «Non mi importa per quello che pensi tu, ma mettiti nei suoi panni..» mi scrollai dalla sua presa andando al tavolo per prendere il mio immancabile zaino, seguito a ruota da lui. Ormai uscire separatamente supponevo fosse inutile: mi sbagliavo, come ogni schifosissima volta.
Il cazzotto in faccia a Enoch arrivò così preciso e violento da fargli perdere l’equilibrio, urlai di spavento soffocandomi la bocca con una mano mentre fissavo un Peter decisamente poco composto e anche poco calmo.
«Chi cazzo ti credi di essere? Arrivi qui e fai ciò che ti pare sotto i miei occhi?» Non riconoscevo più la sua voce, dov’era finita la ‘’calma zen’’ che professava ogni volta che parlavamo? Il viso di Enoch si contorse e alterò mentre si asciugava il sangue dalle labbra.
«Pensavo fossi più furbo e avessi capito chi tra noi due è superfluo, evidentemente mi sono sbagliato.» Si scagliò contro Peter e io vidi la mia intera esistenza passarmi davanti.
«SMETTETELA, FERMI.» Urlai disperatamente provando a tirare Enoch per la maglietta ma sembrava inutile, il suo corpo era contratto e a me pareva di stare strattonando un muro di cemento armato. Mi infilai in mezzo gettandomi su di loro per allontanarli, ma proprio in quel momento mi arrivò un pugno dritto in faccia che mi fece perdere l’equilibrio e finire a terra. Restai senza fiato mentre vedevo le persone fermarsi e fissare quella scena pietosa, sentii gli occhi pungere e un dolore pressante allo zigomo, Enoch si bloccò fissandomi come pietrificato lo vidi protendersi verso di me e abbassare la guardia, Peter ne approfittò per dargli il secondo cazzotto della serata.
«Brutto pezzo di merda..» la sua voce sempre graffiante era adesso come veleno, a testa bassa lo colpì facendogli perdere l’equilibrio. Mi rialzai a fatica mettendomi nuovamente in mezzo, stavolta spinsi Peter con abbastanza forza fissandolo con occhi assassini.
«NON TOCCARLO MAI PIU’.» Mi sentivo tremare per la rabbia, nonostante fosse lui quello più malconcio sentivo di odiarlo in quel preciso momento. Come aveva potuto colpire Enoch? Chi diamine gli aveva fatto credere di avere quel diritto inalienabile su di me? Mi sembrò di rivedere Mattew di fronte la scuola, anche in quel frangente provai quella strana sensazione come di assurdità. Era assurdo litigare con un uomo che non fosse Enoch per me. Peter sembrò leggere i miei occhi e la sua furia sparì improvvisamente.
«Vieni via con me, parliamone da soli.» Mi tese la mano calcando sull’ultima parola, restai immobile a fissarlo e infine mi voltai.
«Andiamocene da qui..» Presi Enoch per mano trascinandomelo lontano dalla calca, lasciando così a Peter l’unico diritto inalienabile che avesse davvero mai avuto: comprendere chi avessi scelto.
 
Guidai io l’auto, il suo occhio continuava a lacrimare e non mi fidavo della sua vista al momento. Senza rendermene conto mi diressi a casa sua e quando lo feci era ormai troppo tardi per cambiare direzione, non c’eravamo detti nemmeno una parola lungo il tragitto, sentivo il suo corpo teso come se le vibrazioni riempissero l’intero abitacolo travolgendomi.
Accesi le luci e questo sembrò infastidirlo forse a causa dell’occhio che adesso aveva preso sfumature violacee facendomi preoccupare.
«Hai qualcosa per disinfettarti?» Mi fissò in silenzio annuendo, indicandomi il bagno dove mi diressi senza aspettare oltre. Quando tornai in camera lo trovai intento a spogliarsi, mi bloccai senza sapere bene cosa fare e dove guardare consapevole di come il suo corpo portasse ancora tracce della notte passata insieme solo una settimana prima.
«Mettiti la mia felpa per dormire..» aggrottai la fronte scuotendo il capo.
«Non resterò qui, non ti preoccupare, voglio solo disinfettarti il viso e..» mi fissò in maniera così severa che le parole si ricacciarono spontaneamente in gola.
«Non ho voglia di fare questo giochetto stasera, e non ho le forze per riaccompagnarti, quindi porca puttana cambiati.» Trasalii a quel tono alto e irruente annuendo a capo chino. Notavo con piacere che in quello non eravamo cambiati di una virgola, appena Enoch perdeva la pazienza io battevo in ritirata, detestavo saperlo di cattivo umore che fosse per causa mia o meno. Respirai profondamente sedendomi sul letto, facendogli cenno di avvicinarsi per controllare l’entità delle sue ferite: aveva il labbro spaccato e un occhio nero, tutto sommato poteva andargli peggio se consideravamo quanto stava messo male Peter quando l’avevamo mollato davanti al locale. Quando si sedette notai una smorfia formarsi sulle sue labbra, le mie dita corsero subito a sollevargli la maglia e vidi una macchia rossastra sul fianco, l’accarezzai e lui trasalì.
«Quando ti ha colpito qui?» Probabilmente parlai in maniera talmente sconfortata che persino lui non trovò la forza di ribattere.
«Non è niente, non mi fa nemmeno male..» che bugiardo, lo guardai e mi venne da ridere fuori controllo.
«Sei così assurdo, non cambi mai seriamente.» Scossi il capo iniziando a disinfettargli le ferite con attenzione, ero diventato esperto in quello dopo tutti gli anni passati a curare quelle sul mio corpo a causa del reverendo. Enoch lo sapeva, e per questo si sentiva sempre a disagio quando mi vedevo costretto a farlo ancora. Mi accarezzò lo zigomo e io mi scostai per il dolore.
«Non ci posso credere che ti abbia colpito..» nella sua voce tornò la fiamma della rabbia.
«Non l’ha fatto di proposito lo sai..» il fatto che provassi a giustificare Peter non sembrò piacergli molto a giudicare dal cipiglio irato.
«Non si è nemmeno preoccupato di vedere come stessi.» Su questo non potevo dargli torto e infatti tacqui finendo il mio compito di infermiere improvvisato.
«Mi raccomando metti la pomata ogni giorno..» annuì e io fui sicuro stesse mentendomi, come al solito. Evitai di intestardirmi, era comunque inutile, concentrandomi piuttosto sulla sua felpa che decisi di indossare nel bagno. Stavo giusto per andarmene ma la presa sul mio polso mi bloccò, ci fissammo qualche secondo di troppo.
«Cambiati qui, conosco il tuo corpo e so come sei fatto meglio di come potrebbe saperlo chiunque..» arrossii a quelle parole fin troppo vere guardandolo stendersi con un sospiro sul letto sfatto, continuando a scrutarmi alla luce della lampada. A occhi bassi mi cambiai davanti a lui, ero sicuro me lo avesse chiesto per osservare i segni sul mio corpo, segni che aveva lasciato lui stesso la sera della festa. Mi sembrava così lontana anche quella. Restai imbambolato ai piedi del letto senza sapere bene che fare, lo sentii sospirare e farmi cenno di avvicinarmi.
«Mi dispiace per stasera..» non sapevo bene perché mi stessi scusando, sentivo comunque di doverlo fare come se quel peso sulla coscienza altrimenti non se ne sarebbe andato. Quando mi stesi il suo braccio mi cinse attirandomi contro di lui, viso contro viso restammo in silenzio a scrutarci. Ancora un po’ e sarei riuscito a contare le pagliuzze celesti dentro le sue iridi, dolcemente gli toccai il viso, le labbra ferite e il livido sotto l’occhio.
«Sento come se adesso riuscissi a respirare..» il suo respiro solleticò le mie guance, non dissi nulla continuando a guardarlo. La mancanza provata in quei due anni mi piombò addosso come mai prima di allora, se fino a quel momento ero stato mediamente consapevole di come avessi reso misera la mia vita in sua assenza, adesso il peso di quella consapevolezza era insostenibile da sopportare. Se fosse andato via di nuovo non sarei sopravvissuto, ne ero certo. Che senso aveva rifiutarlo e rifiutarci, quando ormai era chiaro fossi rientrato nel meccanismo del passato? O meglio, vi ero mai uscito? Il suo ritorno era servito solo a ripristinare gli equilibri sballandoli allo stesso tempo.
«Io sento come se non riuscissi a respirare invece..» il magone ostruì la mia gola, mi sentivo sommerso dalla portata dei miei sentimenti , e mentre lo guardavo abbracciarmi e stringermi a se io persi ogni contatto con la realtà.
Quella notte accarezzai il suo corpo addormentato, o almeno questo era ciò che volevo credere nonostante il suo respiro disordinato mi facesse pensare fosse completamente sveglio. Furono le ore più brevi di tutta la nostra vita.
 

Sophia sorseggiò il suo frullato con gusto, era venuta a trovarmi e sbrigare alcune cose a Las Vegas prima di tornare a Yale. Alla fine com’era prevedibile il padre l’aveva perdonata, e adesso sembrava essere super cotta di uno studente della facoltà di legge.
«Progressi con Enoch?» mi attaccai alla cannuccia del mio frappé rischiando di soffocarmi quasi per la foga messa.
«Non ne sono sicuro nemmeno io, dopo aver dormito insieme quella sera le cose sono un po’..» non trovavo termini adatti per descrivere come mi sentissi in sua presenza.
«Dovresti smetterla, e tornare da lui.» Chinai il capo in silenzio, non avevo nulla da dire al riguardo visto che in effetti era la cosa che volevo di più. «Tu lo hai perdonato? Ti fidi di lui?»
«Io lo amo..» mi sorrise con tenerezza accarezzandomi il dorso della mano, invogliandomi a proseguire. «Non posso pensare di passare la mia intera esistenza senza di lui, è come se non riuscissi a vivere al solo pensiero.»
«E che aspetti a dirglielo?» Già, che aspettavo in effetti? Forse le parole adatte, dopo tutto quello che avevamo passato e dopo tutte le cose che gli avevo detto, mi sentivo così stupido.
«E se fosse tardi?» Scoppiò a ridere divertita come se quel pensiero fosse la cosa più esilarante che avesse mai sentito, il problema era che non avevo notizie di Enoch da due giorni e la cosa mi preoccupava se consideravamo il microscopico dettaglio che in quel mese me l’ero ritrovato ovunque e ogni giorno.
«Enoch ti ama, non aspetta altro se non una tua parola. Non essere stupido Josh, la vita può avervi separato una volta, ma adesso la decisione spetta a entrambi. Siete voi gli artefici del vostro destino.» la guardai stupefatto.
«E tutta questa saggezza?»
«Che posso dirti, si cresce nella vita.» Scrollò le spalle con indolenza e io sorrisi divertito, mi sembravano passati decenni da quando mi aveva abbordato in caffetteria rifilandomi persino un lavoro.
Chiamai Enoch quel pomeriggio stesso, la sua voce sembrava strana quasi fiacca, gli chiesi con nervosismo se volesse venire a cena da me, restò in silenzio pochi secondi che aumentarono la mia ansia e alla fine disse semplicemente di si riattaccando.
Ero deciso a dirgli ciò che provavo, a rompere del tutto le barriere tra noi, a scusarmi anche per quel mese di sofferenza che gli avevo causato. Ero stato un emerito imbecille nei miei atteggiamenti, io sapevo che lui mi amava tanto quanto lo amavo io, non potevo rovinare tutto per le mie paure. Preparai la cena con attenzione, ricordando i suoi piatti preferiti ma quando il campanello suonò e me lo ritrovai davanti strabuzzai gli occhi.
«Che cos’hai..» pallido e con le occhiaie sembrava sudare freddo, mi sporsi verso di lui toccandogli la fronte con la mano: era bollente. Provò a sciogliersi da quella presa minimizzando.
«Non è niente, un po’ di febbre..» un po’? Aveva la stessa temperatura dei miei fornelli in cucina. Lo trascinai in camera mia costringendolo a stendersi.
«Come hai potuto venire in queste condizioni..» serrai le labbra e il cuore mi si strinse nel vederlo così indifeso, ricordai la notte al dormitorio quando lo vegliai in quelle medesime condizioni.
«Mi hai chiamato, come potevo non venire?» Sorrisi trattenendo le lacrime, sedendomi accanto a lui.
«Passerà non preoccuparti, starai meglio te lo prometto, ci sono io con te..» a quelle parole lo vidi rasserenarsi, e capii che ogni mio passo mi aveva semplicemente condotto all’inevitabile. Il termometro segnava 40 gradi, e mi spaventai temendo persino di non aver letto bene. Lo guardai di sottecchi facendo mente locale su ciò che avevo in casa e avrei potuto dargli. Non era di certo la cena che mi ero prefisso, ma avremmo avuto altre occasioni per chiarire e parlare. Ne ero assolutamente sicuro.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Koi no Yokan ***


XXIV.



Alternava momenti di incoscienza ad altri in cui sembrava lucido, gli avevo fatto mangiare qualcosa di caldo nonostante le sue proteste e cambiavo il panno umido sulla sua fronte ogni dieci minuti, tenendogli la mano. Sentivo sul serio come fossi stato sbalzato indietro nel tempo, a quella stanza minuscola del dormitorio con Lui che mi chiedeva semplicemente di stargli accanto. Stavolta non lo aveva fatto a parole, non ce n’era bisogno perché supponevo avessimo superato quella fase già da un po’. Tolsi il panno ormai asciutto poggiando la mia fronte contro la sua, la febbre persisteva ma a giudicare dal calore ero sicuro fosse scesa di almeno mezzo grado. Restai così, con le mani sul suo viso a respirare il suo stesso fiato.
«Ti amo.» ‘’Mi dispiace di non avertelo detto prima’’ lo pensai ma non lo dissi, aprì gli occhi guardandomi assente, mi aveva sentito? Stavo per ripeterglielo ma lo vidi chiudere le palpebre nuovamente e il campanello di casa mi distrasse, sospirai alzandomi e socchiudendo la porta andando a vedere chi è che disturbava a quell’ora del mattino. Mi ritrovai davanti Peter con un mazzo di rose, le fissai senza afferrarle.
«Posso entrare?» Mosse un passo ma gli sbarrai la strada.
«No non puoi.» Misi la mano sul fianco guardandolo con una certa fretta, avevo Enoch incosciente nell’altra stanza non potevo perdere tempo di certo con lui. Inoltre era di sicuro l’ultima persona che avrei voluto vedere dopo l’episodio fuori dal ristorante.
«Mi dispiace molto per quella sera, davvero..» chinò il capo e vidi il pentimento disegnarsi sui suoi lineamenti, sospirai lasciando perdere la mia postura rigida. «Non volevo picchiare il tuo amico..»
«Non è un mio amico, è il mio fidanzato.» Ci soppesammo in silenzio qualche secondo e lo vidi sorridere, nonostante apparisse più come una smorfia divertita la sua.
«E’ lui la persona che hai aspettato per tutto questo tempo, quindi?» Non risposi, a che pro? Mi sembrava piuttosto evidente. «Mi dispiace di non aver avuto una minima occasione con te, mi piacevi molto.. moltissimo.»
«A me dispiace averti ferito, senti Peter..» cercai dentro me stesso le parole adatte in una situazione simile. «Tu mi piaci davvero, sei un ragazzo d’oro, e mi sono sempre trovato benissimo insieme a te..» sorrisi tristemente, era chiaro il messaggio? Era un bravo ragazzo, mi piaceva come mi sarebbe piaciuta qualsiasi altra persona: come amico. I suoi occhi presero consapevolezza, sollevò il mazzo di rose mostrandosi imbarazzato.
«Questo posso lasciarlo?» Soffiai fuori una risatina costernata afferrandoli e odorandoli.
«Grazie, sono bellissime.» Andò via pochi istanti dopo senza aggiungere altro, poggiai il bouquet sull’isola della cucina tornando in camera da Enoch, era tutto come lo avevo lasciato a parte il mio malatissimo ragazzo che adesso stava girato dando la schiena alla porta. Lo lasciai di nuovo solo per andare a farmi una doccia, mi sentivo come se mi fosse passato sopra un camion, non avevo dormito tutta la notte praticamente e supponevo l’acqua bollente sarebbe riuscita a sciogliere il fascio di nervi tesi all’altezza del mio collo. Durante la doccia sentii come un tonfo, chiusi l’acqua tendendo l’orecchio ma solo il silenzio mi accolse, scrollai le spalle continuando a lavarmi ma dopo aver finito ed essermi rivestito capii la matrice di quel rumore: Enoch era sparito. Provai a chiamarlo ma il cellulare risultava spento, per un motivo a me sconosciuto il panico mi sommerse, poggiai una mano al muro sostenendomi respirando lentamente per acquisire la calma persa. Andava tutto bene, aveva avuto probabilmente qualcosa da fare e non mi aveva detto nulla perché sapeva mi sarei arrabbiato nel vederlo uscire ammalato. Si, era sicuramente così.
 
*
 
La testa mi scoppiava, mi sentivo confuso persino il mio respiro giungeva ovattato alle mie orecchie dandomi fastidio. Ero rimasto incosciente tutta la notte, eppure mi sentivo felice, avevo persino sognato: Joshua mi baciava e diceva di amarmi. Sorrisi sentendo la testa girare, delle voci mi strapparono dalla mia veglia, una era quella che viaggiava ormai da sempre nei miei pensieri mentre l’altra non credevo di conoscerla nonostante avesse un timbro familiare. Mi alzai a fatica girando la maniglia, dallo spiraglio vidi Peter con delle rose e Joshua di spalle di fronte a lui, stavo per aprire la porta e dargli altri quattro cazzotti ma le parole che sentii mi raggelarono sul posto.
‘’A me dispiace averti ferito, senti Peter.. tu mi piaci davvero, sei un ragazzo d’oro, e mi sono sempre trovato benissimo insieme a te..’’, un senso violento di nausea attanagliò le mie viscere e la confusione che sentivo dentro il cervello a causa della febbre divenne più pressante, mi trascinai nuovamente sul letto raggomitolandomi su me stesso. Era finita davvero? Avevo perso Joshua definitivamente? Mi coprii il viso con la mano tremante, era uno stato d’animo così strano il mio, nonostante avessi la mente in pappa e febbricitante la sensazione squassante di perdita sovrastò tutte le altre sensazioni. Si sarebbero detti di amarsi? Si sarebbero baciati? Sarebbero andati a letto insieme? Quei pensieri mi torturavano, ma più di tutto era la consapevolezza di averlo perso a distruggermi. Sentii l’acqua della doccia e capii fosse in bagno, ne approfittai per alzarmi e trascinarmi fuori da quella casa, la prima cosa che feci fu chiamare Sean la seconda spegnere il cellulare. Volevo isolarmi e buttare fuori tutto il mondo restando io e il mio dolore a farci compagnia. Per tutta la mia schifosissima esistenza.
 

«Josh mi ha mandato un messaggio.. – rettifico mi sta chiamando adesso.» Sean mi fissò nel panico, spostai lo sguardo sulla vetrata fissando il mio riflesso appannato dalla pioggia estiva che cadeva violenta.
«Digli che non sai nulla.» Sentii il suo biasimo trapassarmi la schiena ma non mi importò, niente importava in quel momento. Avevo prenotato un volo per Berlino il giorno dopo, mi sarei fatto spedire le mie cose con calma tra qualche tempo, in quel momento era vitale per me mettere una distanza, stavolta consapevole, tra me e Joshua. Ero sicuro mi stesse cercando per dovere di coscienza, voleva essere lui a dirmi chi aveva scelto alla fine tra me e Peter, ma non glielo avrei permesso. Era già abbastanza devastante così, senza doverlo guardare e pensare a tutto ciò che mi stava venendo negato, tutto ciò per la quale avevo vissuto in quei due anni mentre attendevo di ritornare da lui. Mi pressai il petto, lì dove sentivo un dolore acuto come un ago conficcato nel cuore; non riuscivo ancora a credere di averlo perso, e insieme a Lui persi anche me stesso.
 
*
 
Fissai il palazzo con occhi stanchi, in quei tre giorni mi ero sentito come se delle mani m’avessero sbalzato a forza nell’incubo del passato. Enoch era sparito e di lui nessuno sembrava sapere nulla, ero stato nel suo appartamento solo per ritrovarmi il padrone di casa con una coppia al seguito: ‘’il precedente inquilino ha disdetto il contratto, sono qui per far vedere il loft ad altri acquirenti’’. Se quando avevo trovato il suo cellulare spento pensavo di aver raggiunto il culmine del mio dolore, dopo quell’incontro mi resi conto che non era nulla. La devastazione della mia vita era appena ricominciata. Come poteva rifarmi questo? Come poteva uccidermi una seconda volta? Non riuscivo a crederci, anzi non volevo farlo. Non potevo semplicemente accettare di vederlo svanire nel nulla ancora.
Suonai con forza il campanello una volta, e poi un’altra ancora finché non decisi di attaccarmi con violenza. Avrei demolito quella merda di casa. Sean aprì la porta con un cipiglio incazzato che si dissolse appena mi vide.
«Che diamine ci fai qui tu..» dalla sua faccia giurai avesse visto un fantasma, e probabilmente visto il mio pallore di morte gli somigliavo.
«Perché ormai fiuto i bugiardi come te a chilometri. Se pensa di poter rifare lo stesso giochetto di due anni fa a Stoccarda si sbaglia di grosso, torna tra un’ora.» Lo spinsi con violenza fuori da casa sua sbattendogli la porta in faccia, e quando mi voltai incrociai i suoi occhi blu. Pensavo che la mia prima emozione sarebbe stata la rabbia, il furore cieco per quella ferita che mi stava infliggendo consapevolmente per la seconda volta ma mi sbagliai. Le lacrime uscirono incontrollate dai miei occhi mentre mi avvicinavo alla sua figura seduta su uno sgabello, teneva gli occhi bassi come se mi stesse escludendo non solo dalla sua vista ma anche dalla sua mente.
«Hai idea di quanto mi sia preoccupato?» Cercai di tenere un tono fermo di voce senza riuscirci.
«Sto bene come vedi, puoi andare via.» Il suo tono freddo mi ferì, arretrai di un passo provando a respirare profondamente.
«Perché mi stai facendo di nuovo questo..» perché proprio adesso? Adesso che finalmente avevo ucciso le mie paure abbracciando tutto l’amore provato e mai dimenticato. Non lo dissi a parole ma supponevo i miei occhi parlassero per me.
«Ti sto solo lasciando libero, domani parto.. torno a Berlino.» Per la prima volta da quando ero entrato in quella casa si azzardò a guardarmi, nei suoi occhi vidi un vuoto che mi sommerse come un’ondata violenta, mi teneva bloccato lì sul posto impedendomi persino di pensare con lucidità.
«Perché..» non capivo, non riuscivo a comprendere cosa fosse accaduto e come i suoi sentimenti potessero essere cambiati.
«Sono tornato per te, ho vissuto due anni pensandoti, pensando al momento in cui ti avrei rivisto, in cui ti avrei abbracciato.. baciato.» La sua voce si incrinò e per la seconda volta da quando i nostri destini si erano incrociati lo vidi piangere disperatamente. «Cosa vuoi che ti dica ancora? Cos’altro posso fare o dire affinché tu possa perdonarmi? Ho pensato ‘’non importa, finché mi ama ci sarà sempre speranza’’, ma adesso? Adesso che speranza mi è rimasta?» Gli andai incontro chinandomi fino ad arrivare alla sua altezza, afferrandogli il viso tra le mani per scrutarlo attentamente.
«Che cosa stai dicendo? Enoch, io..» non mi fece nemmeno finire di parlare, si sciolse dalla mia presa alzandosi per allontanarsi, mi sentii come se mi avesse schiaffeggiato.
«Non voglio sentire quello che stai per dire, voglio solo tu te ne vada.» Nonostante il tono freddo e aggressivo le lacrime non smettevano di scendere bagnandogli le guance; mi alzai a fatica stringendo i pugni delle mani.
«Ti ho detto di amarti, mentre ti vegliavo in quel letto, in casa mia.. ho detto di non aver smesso nemmeno per un secondo e tu mi chiedi di sparire?» Strinsi i denti affinché non tremassero, cercavo dentro me stesso l’eco sordo del mio cuore, ma non lo sentivo.
«Quel giorno a quanto pare hai detto tante cose, anche a Peter.» accolsi quella notizia con uno stupore che non mi premurai di celare, che voleva dire? Ripensai alla conversazione di quella mattina, che c’eravamo detti per fargli avere quella reazione? Più ci pensavo e più non arrivavo a nessuna conclusione.
«Se mi avessi sentito parlare con lui saresti rimasto lì con me.. hai almeno sentito il momento in cui gli dicevo che eri il mio fidanzato?» Mi fissò sbigottito e in silenzio, approfittai di quel momento per avvicinarmi cautamente a lui.
«Ho sentito che gli confessavi di volerlo, hai detto ‘’tu mi piaci’’.» Chiusi gli occhi pressandoli con due dita, scuotendo il capo affranto.
«Oh Enoch.. non sai ciò che dici, la febbre deve seriamente averti dato alla testa.» Mi avvicinai ancora e per mia fortuna non si scostò fissandomi però guardingo, come se temesse che la mia fosse tutta scena prima di dargli un ipotetico colpo di pistola al petto. «Peter mi piace davvero, ma come amico.. non è lui la mia metà. Non è lui il mio ‘’koi no yokan’’ o l’hai dimenticato?» I suoi occhi ancora lucidi di lacrime minacciarono l’ennesimo pianto mentre tirava sul col naso sorridendo dolorosamente.
«Come potrei dimenticarlo? Penso di aver vissuto tutta la vita solo per trovarlo..» mi guardò come se fossi la cosa più preziosa che avesse mai visto, gli afferrai il viso tra le mani asciugandogli ancora una volta le lacrime come quella famosa notte di due anni fa.
«L’hai trovato davvero, sono qui non mi vedi? Ti amo .. non abbandonarmi, non ancora. Stavolta non potrei sopravvivere.» Le mie labbra tremarono nello sforzo di esser forte, mi afferrò di slancio, le sue braccia mi avvolsero con forza e io mi sentii nuovamente a casa. Perché non c’era nessun altro posto al mondo che potessi considerare ‘’casa’’ al di fuori del suo abbraccio.
«Pensavo di averti perso..» il respiro ancora caldo per gli strascichi della febbre mi solleticò il collo, mi aggrappai alla sua schiena stringendone la maglia tra le dita.
«Non mi hai mai perso, sono sempre rimasto qui.. dove avresti potuto ritrovarmi, ricordi?» Non lo vidi sorridere ma ero sicuro lo stesse facendo, si scostò baciandomi con desiderio e disperazione, facendomi quasi perdere l’equilibrio per l’irruenza messa. Quando si staccò da me sentii di non avere abbastanza fiato nei polmoni.
Sean non tornò dopo un’ora, e io non mi preoccupai nemmeno di chiamarlo, restai seduto con Enoch sul divano a parlare di cose prive d’importanza, come se fossimo desiderosi di recuperare il tempo perso.
«Il tuo letto è comodo..» aggrottai la fronte cercando di capire cosa diamine centrasse adesso la comodità del mio letto, sembrò leggermi nel pensiero e io vidi la furbizia illuminare il suo sguardo. «Ho disdetto il contratto del mio appartamento, dovrò pur vivere da qualche parte.»
«Sono sicuro Sean sarà felice di continuare ad averti qui.» Misi su un sorrisino ironico mentre mi allontanavo lentamente da lui.
«Non ci provare nemmeno.» Mi seguì minacciosamente mentre iniziavo a correre lungo quella casa, provando a sfuggirgli, alla fine rallentai di proposito solo per permettergli di afferrarmi e tornare a baciarmi.
 
L’aeroporto era gremito di gente, tenevo stretto tra le dita il mio biglietto e il documento mentre Enoch di fronte a me mi spintonava ridendo.
«Ma come puoi frignare così? Sembri un bambino.» Mi stizzii incenerendolo con un’occhiata.
«E tu come puoi essere così stronzo? Il tuo fidanzato sta partendo, c’è qualcuno in linea??» Imitai una cornetta con tono sarcastico che servì solo a divertirlo di più.
«E già mi manca infatti..» mi addolcii a quelle parole asciugandomi le lacrime, alla fine mi ero licenziato davvero accettando il master a Parigi. All’atto pratico era tutto molto bello, insomma avrei rivisto anche Joel, ma adesso che c’ero quasi il pensiero di separarmi da lui mi distruggeva da dentro.
«Giura che mi chiamerai ogni giorno.» lo afferrai per il braccio stringendolo con forza. «Enoch, ogni giorno
«Sembri un fidanzato psicopatico lo sai? E comunque farò di meglio, entro due settimane mi ritrovi davanti la tua porta.» Mi illuminai slanciandomi verso di lui, attaccandomi al suo collo con gridolini di gioia.
«Verrai davvero??» Mi baciò con trasporto mentre la voce metallica degli altoparlanti annunciava il mio volo in partenza di lì a poco.
«Avevi dubbi? Non puoi liberarti di me.» Ci guardammo intensamente per qualche secondo, non volevo lasciarlo andare ma il secondo richiamo mi strappò dalle sue braccia di malavoglia. I miei occhi restarono incollati alla sua figura finché non dovetti sparire oltre le porte, e anche allora il suo pensiero non mi abbandonò nemmeno per un secondo. Stavo vivendo la vita che volevo, la vita per la quale avevo combattuto fuggendo ormai sei anni prima da Mississipi, e questa stessa vita si era legata indissolubilmente a quella di Enoch.
Non solo oggi, non solo domani, né tra un anno ma per sempre.
 

 
( Ottawa – Canada )
 
«Potresti smetterla di disturbare?» Sgomitai tornando a selezionare le foto per il prossimo servizio in uscita, ma Enoch sembrava avere altri piani mentre mi trascinava steso sul letto bloccando ogni mia protesta con la sua bocca. Mugugnai qualcosa di incomprensibile mentre mi lasciavo andare infine alle sue carezze e ai suoi baci ricambiandoli con il medesimo desiderio. Le sue mani risalirono lungo la mia coscia, soffermandosi sui fianchi. Vivevamo nella nostra città dei sogni ormai da tempo, nonostante i miei continui viaggi e i suoi quello restava il nostro rifugio felice. Mi aveva chiesto di sposarlo durante una sua visita a Parigi, in un modo assurdo, si era seduto sulla panca dove lo attendevo e guardandomi aveva semplicemente detto: ‘’Ciao sono l’uomo della tua vita, vuoi sposarmi?’’ dandomi un anello che custodivo insieme al precedente, nonostante adesso all’anulare spiccasse la fede.
«Papà?» A quella voce spintonai colui che era diventato mio marito quattro anni prima balzando a sedere.
«Amore, che ci fai ancora sveglia?» Evon mi fissò con la sua bambola stretta al petto, aveva gli occhioni verdi identici a quelli del suo gemello Janus che probabilmente dormiva beatamente nel suo letto, accanto a noi in culla invece riposava Jeremiah, l’ultimo dei tre ancora troppo piccolo per condividere camera coi suoi fratelli.
«Cosa facevate tu e papà?»
«Stavamo per copulare.» Diedi un pizzicotto a Enoch che urlò come se gli avessi spezzato un braccio, che stronzo. «Evon, papà mi ha fatto male, difendimi.» non se lo fece ripetere due volte fiondandosi sul letto per ricadergli in braccio sfregandosi contro il suo collo. Era una stronza ruffiana proprio come Lui, tali e quali pur senza condividere una goccia di sangue.
«Ti difendo io, papy.» Sembrava una gattina che faceva le fusa, seguiva Enoch in maniera adorante e incondizionata a differenza del suo gemello che nutriva una palese preferenza per me. Almeno qualcuno in quella casa apprezzava la mia presenza, era confortante. Jeremiah a soli due anni donava amore incondizionato a entrambi, in quella casa stavamo tutti fuori di testa per quel bambolotto profumato e dagli occhioni blu intenso. I tre avevano caratteri totalmente diversi che già andavano delineandosi palesemente; Evon me la immaginavo a diciannove anni coi cartelli animalisti a urlare fuori dall’università, non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, adorava i documentari e il cibo spazzatura, comandando a bacchetta il gemello. Janus era più pacato, con un’indole curiosa che avrebbe fatto impallidire persino la mia, scrutava con attenzione ogni cosa cercandone i significati con precisa meticolosità. Una volta per richiamare la mia attenzione aveva sbattuto il pugno sul tavolo urlando ‘’BA-STA’’ con lo stesso tono deciso di Enoch quando battibeccavamo o li richiamava perché troppo monelli. Sorrisi a quel ricordo guardando Jeremiah nella culla, era ancora troppo piccolo, ma sapevo mi avrebbe reso ugualmente orgoglioso, avevo avviato le pratiche dell’adozione dopo il mio ultimo viaggio in Russia, non avrei potuto lasciarlo lì da solo senza più una famiglia.
«Evon, ne abbiamo già parlato, devi dormire nel tuo letto come i tuoi fratelli.» Le accarezzai i capelli biondissimi con dolcezza, li aveva quasi bianchi ed era bellissima. Ogni volta che Joel veniva a trovarci sembrava in venerazione di una Dea, e continuava a ripetere incessantemente ‘’è tutta suo zio’’ sotto lo sguardo geloso di Enoch, in quella famiglia non ce n’era uno sano di mente.
«Ha ragione papà, devi dormire nel tuo letto così noi possiamo scop— » gli tirai i capelli scoccandogli un dardo infuocato dagli occhi.
«Cos’è che potete fare voi?» Ci fissò con sguardo attento e furbo, era possessiva col padre oltre ogni logica, voleva persino che fosse lui a farle il bagno e se questo non era un problema alcune volte, quando Enoch era in viaggio diventava una tragedia per i miei nervi.
«Nulla tesoro, papà scherza..» le accarezzai il mento facendole il solletico, si piegò su se stessa ridendo e dimenticando la conversazione, era così bella l’innocenza dei bambini. Sentii il piede di Enoch accarezzare il mio in maniera lasciva, gli diedi un calcio ridendo.
«Papà raccontami ancora dell’Iran..» aggrottai la fronte.
«E tu che ne sai dell’Iran?»
«Ti ho sentito parlarne l’altro giorno, c’erano le bombe?» Serrai le labbra cercando un modo per addolcire le cose, non mi piaceva l’idea che sapesse di quanto gli uomini riuscissero a essere abominevoli. Ero soddisfatto del mio lavoro, facevo ciò che avevo sempre sognato fotografando in giro per il mondo e con un po’ di fortuna sarei riuscito ad aprire la mia galleria fotografica nel giro di pochi anni. Enoch accorse in mio aiuto distraendola con un giochino stupido che sapeva le piacesse, e continuammo per quasi un’ora finché non si addormentò. Ci guardammo duellando nel silenzio, sospirò perdente e io risi mentre scivolava fuori dal letto per prenderla in braccio e riportarla in camera sua.
Ne approfittai per stendermi e ripensare a tutta la mia vita fino a quel momento. Evrard viveva ancora a Stoccarda, cambiava donne come io cambiavo obiettivi alle mie macchine fotografiche, e sembrava che adesso il ricordo dell’ex moglie non facesse più così male. Madalyn esercitava ancora la professione di medico ma a NYC, aveva divorziato da Raymond e a quanto ne sapevo non andava più a trovare il padre in carcere. A volte chiamava, e una volta mi aveva persino chiesto le foto dei suoi tre ‘’nipotini’’, con Enoch parlava poco ma mi ero prefisso di risolvere le cose in un modo o nell’altro.
Sophia girava il mondo con il suo ormai quasi marito, dieci anni più grande di lei e amico del fratello che inizialmente non aveva preso benissimo quella relazione. Avevamo deciso di vederci almeno due volte l’anno, e fino a quel momento nessuno era venuto meno alla sua parola, anzi di lì a due giorni l’avremmo vista apparire alla nostra porta con la sua solita aria svampita mentre urlava ‘’Dove sono gli angeli della zia??’’, carica di regali .. solo per loro.
Nastya si era laureata, lavorava in un laboratorio e recentemente si era scontrata nuovamente con Jake dopo anni di lontananza. Incarnavano perfettamente l’idea che avevo io del destino, dopo me ed Enoch. Vedere come nemmeno gli anni avessero scalfito quelle due anime era confortante, ci sentivamo praticamente sempre al telefono e anche lei ci avrebbe raggiunto entro pochi giorni riempiendo la nostra casa di urla, come se già non fosse abbastanza caotica tra l’altro.
Shou era il mio pezzo forte in quel momento, si era preso una sbandata per una sua cliente che aveva lasciato il marito traditore per consolarsi tra le sue braccia. Quanto sarebbe durata? Chi poteva dirlo, era così instabile nei suoi sentimenti, e per quanto lo sgridassi provando a convincerlo a mettere la testa a posto era l’unico che ancora riusciva a resistermi.
E infine c’era Ruth, la mia adorabile Ruth.. le avevo proposto di vivere insieme, ma si era rifiutata. La famiglia adottiva che doveva occuparsi di lei temporaneamente a quanto pare era divenuta permanente; si era affezionata a loro e io non avevo avuto il cuore di strapparla da lì, seppur con dolore. Le braccia di Enoch mi cinsero attirandomi contro di se, seppellì il viso contro il mio collo baciandolo e strappandomi un brivido.
«Odori di buono..» lo diceva ogni volta e per me era sempre come la prima, mi voltai a guardarlo sistemandogli i capelli disordinati.
«Dopo quasi dieci anni, sii sincero, rifaresti tutto allo stesso modo?» Inarcò un sopracciglio già pronto a fare una delle sue battute stronze, gli strappai un pelo dal braccio facendolo quindi desistere e costringendolo a tornare serio.
«Uhm, no..» mi scostai appena per guardarlo con attenzione.
«E cosa cambieresti?» Supponevo parlasse dei due anni di assenza che avevano quasi distrutto la nostra storia.
«Cambierei l’inizio, quando ti vidi seduto di fronte l’università, col senno di poi avrei seguito l’istinto e mi sarei avvicinato, sedendomi accanto a te.» Gli stampai un bacio sulle labbra che sembrò dargli il giusto input per sollevarmi la maglia, lo fermai con una risatina.
«E cosa mi avresti detto?» Sollevò gli occhi come se stesse riflettendo attentamente se dirmelo o meno, alla fine tornò a guardarmi sorridendo furbamente.
«Ciao sono l’uomo della tua vita, vuoi sposarmi?»
 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3828004