La Profezia dei draghi

di _Malila_Pevensie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piccola prefazione e PROLOGO -Il cuore della foresta ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 -Al riparo dal mondo ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 -Le parole del soldato ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 -Il viaggio ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 -Incontro di anime ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 5 - Attesa ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 -La Regina ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 - Comprensione ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 8 -Questione di abitudine, parte prima: Arco e frecce ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 9 - Questione di abitudine, parte seconda: Puro veleno ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 10 - La corte di Errania ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 11 - Un singolare incontro ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 12 -Omaggio a un guerriero ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 13 - Lezioni di ballo ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 14 - Si aprono le danze ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 15 - Confessioni, parte prima: Incubo ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 16 - Confessioni, parte seconda: Voci e misteri ***
Capitolo 18: *** CAPITOLO 17 - Nel buio ***
Capitolo 19: *** CAPITOLO 18 - Le strade di Errania ***
Capitolo 20: *** CAPITOLO 19 - Senso di colpa ***
Capitolo 21: *** CAPITOLO 20 - Separazione ***



Capitolo 1
*** Piccola prefazione e PROLOGO -Il cuore della foresta ***


PICCOLA PREFAZIONE


Ho impiegato davvero un'eternità per decidermi a pubblicare questa storia. E per un'eternità, intendo davvero un'eternità.
Il progetto delle Saghe di Finian è nato quando io avevo appena quattordici anni. La mia scrittura era ancor meno allenata di adesso e la trama originale era davvero piena di lacune. Scrivevo perché amavo farlo e scrivevo perché ero innamorata del fantasy, ma era qualcosa che pensavo avrei sempre tenuto solo per me. Il mondo che avevo immaginato nella mia mente prendeva forma insieme ai suoi abitanti, eppure non credevo che sarebbe mai andato oltre quel file sul mio computer.
Gli anni passavano e mentre la storia cresceva, io mi rendevo sempre più conto che stava diventando qualcosa di più grande che un semplice passatempo; lo intuivo dall'impegno che ci mettevo, dal fatto che, pian piano, avevo iniziato a fantasticare su cosa sarebbe venuto dopo le vicende di quella prima storia. E alla fine, districandomi fra scuola e vita in generale, in qualche modo sono arrivata a scrivere l'ultima parola dell'ultimo capitolo de La Profezia dei Draghi.
La storia era lì, lo scorrere degli eventi era in qualche modo delineato, ma sapevo perfettamente che, tornando indietro a rileggere, avrei trovato tante cose da aggiustare e che non sarei stata contenta fino a che non avessi avuto più nulla di nuovo da aggiungere. Così è stato.
Perfino dopo aver messo il punto finale a quell'ultimo capitolo, ho continuato a leggerla e a rileggerla e di volta in volta, qualcosa cambiava: una sequenza di azioni, il ruolo di un personaggio, perfino qualche nome che mi sembrava non calzasse più. Riprendevo tutto punto per punto, cercando di eliminare tutto ciò che non funzionava e lottando contro i buchi di trama che la mia inesperienza mi portava a lasciare qua e là.
C'erano periodi in cui era più faticoso portare avanti la mia infinita revisione, perché altre cose ci si mettevano di mezzo, ma non aveva importanza quanto tempo impiegassi: ritornavo sempre lì, al computer, per portare avanti quello che avevo cominciato. Nonostante tutto questo, ancora non ero disposta ad ammettere che scrivere,oramai, non era più classificabile come hobby. Penso di aver avuto semplicemente paura che fosse qualcosa di troppo grande, per me.
È dovuto passare ancora del tempo, ma, a un certo punto, le mie stesse emozioni mi hanno costretta a capitolare. Mi sentivo profondamente e sinceramente bene quando potevo mettere giù le parole, in qualunque modo potessi farlo, e quando non ci riuscivo sentivo chiaramente che qualcosa in me mancava. Più quel qualcosa mancava, più io capivo che quella passione era reale e che sempre lo sarebbe stata; capivo che se un giorno fossi riuscita a far diventare la scrittura ciò di cui sarei vissuta, avrei avuto la gioia di fare semplicemente quello che più amavo.
Penso ancora che se ci riuscissi realizzerei quello che credo sia il sogno di tutti: trasformare la propria passione in lavoro. Però, so anche che se questo non dovesse mai accadere, io non smetterei mai di scrivere; perché, qualunque cosa sia e qualunque cosa diventerà,non lascerò mai che la scrittura esca dalla mia vita.
Ora, questo racconto non è decisamente più lo stesso che era agli inizi; allo stesso modo, pur avendo solo vent'anni, io non sono più quella ragazzina che ha iniziato tutto per gioco. Ci saranno sempre cose che potrò migliorare, a partire dalla mia stessa scrittura, e sempre io cercherò di fare meglio; sono il tipo di persona che tiene tutto incostante revisione per non perdere il filo. Sono pronta ad accettare le critiche, quelle che fanno crescere, e i consigli, perché un'occhio esterno può essere sempre capace di catturare dettagli che allo stesso (aspirante, nel mio caso) scrittore, coinvolto con tutto sé stesso nella propria narrazione, possono sfuggire.
Non importa, però, quante cose possano cambiare: ne La Profezia dei Draghi ci sono sempre io, con il mio cuore e la mia dedizione, e c'è sempre quel mondo che diventa sempre più grande e concreto. Ci sono i miei personaggi, che amo e conosco come fossero membri della mia famiglia.
Spero davvero tantissimo che tutto questo possa arrivare direttamente dalle pagine che seguiranno, piuttosto che da questo fin troppo lungo monologo su di me. Spero infinitamente che saranno proprio loro,specialmente Freya e Aran, a farvi entrare in quel mondo e a raccontare tutto ciò che c'è da sapere sulle Saghe di Finian. Io sarò sempre tenacemente al loro fianco.
Un grazie enorme a chi è arrivato a leggere fin qui,

Malila Pevensie, la voce dietro queste parole.






PROLOGO
- IL CUORE DELLA FORESTA -



Il clangore delle spade ancora le riempiva le orecchie, in lontananza, mentre il rombo degli zoccoli del suo cavallo cercava di tenerla legata alla realtà.
Si sentiva lacerare dentro: continuava disperatamente a cavalcare verso il cuore della foresta, là dove avrebbe potuto proteggere il suo più grande tesoro, ma una parte di lei la tirava inesorabilmente indietro accanto alla persona che amava, sotto i colpi di quelle spade e degli incantesimi mortali.
Eleana sentì una calda lacrima solcarle il volto.
Strinse saldamente sua figlia al cuore e spronò il cavallo ad andare più velocemente.
Come aveva potuto? Confondere a quel modo bene e male era stato il suo più grande errore; aveva messo i suoi grandi poteri a servizio di forze oscure, tradendo non solo se stessa, ma anche il suo popolo.
Nulla, oramai l'aveva capito, poteva rendere meno oscuro e offuscato dalle tenebre il cuore della tiranna. C'era però ancora qualcosa che poteva impedirle di distruggere il loro meraviglioso mondo, o per meglio dire qualcuno: la piccola bambina che in quell'istante si teneva aggrappata alla sua camicia.
Avrebbe solo dovuto trovare chi condivideva il suo destino e le otto pietre avrebbero ripreso a splendere.
Alle sue spalle, un boato enorme spense improvvisamente il rumore del metallo contro il metallo, espandendosi sul terreno. Non poté continuare.
Il sangue le si gelò nelle vene mentre tendeva le redini allo spasimo. La fresca aria notturna era immobile, ma non portava con sé il solito rinfrancante profumo di tranquillità, bensì la consapevolezza di una perdita enorme.
Sentì il proprio cuore spezzarsi, poté quasi avvertirne lo schiocco sordo e i frammenti che ne restavano trafiggerla come tanti pugnali.
Harden... pensò e per un istante credette che sarebbe tornata indietro per accertarsi di una realtà che però ben sapeva.
Poi, sentì qualcosa afferrarle la manica della tunica che indossava.
Abbassò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli della sua piccola Freya, di quell'intenso azzurro screziato di verde che tanto amava. Aveva le piccole sopracciglia aggrottate e i riccioli corti e scuri ondeggiavano alla lieve brezza che si era alzata.
Fusolo questo a darle la forza di spronare il cavallo a riprendere la folle corsa.
Un giorno, quando sarebbe giunto il tempo, le avrebbe raccontato di come il suo amato padre Harden aveva combattuto e si era sacrificato per dare una possibilità a lei e a loro tutti.






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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 -Al riparo dal mondo ***


CAPITOLO 1
-AL RIPARO DAL MONDO-


Guardò la radura. Attorno a essa si estendeva il bosco da cui proveniva solo il fruscìo  del vento e il verso di qualche animale ben nascosto nell'ombra.
Gli alberi, così alti da sovrastarla più di qualche braccio, lasciavano intravedere solo uno scorcio di cielo, di un celeste così pallido e delicato da sfumare quasi nel bianco delle nuvole.
Il potere che emanava da quel suolo s'irradiava ovunque, sembrava persino filtrare attraverso le suole dei suoi stivali; sapeva da dove proveniva tutta quell'energia.
Si girò verso il centro esatto della radura e una folata di vento leggero le scosse i lunghi capelli ramati. A pochi metri da lei vide il grande obelisco stagliarsi nella fioca luce che filtrava; l'aura che lo circondava era una prova di tutta la magia che doveva contenere.
Lungo la pietra che lo formava si avvolgevano spirali, sette per la precisione. Si avvicinò lentamente, quasi con religiosità, e ne vide i colori.
All'interno di quelle scanalature, modellate con chissà quale incanto, correvano le scie di sei pietre. La ragazza le riconobbe.
L'agata muschiata, intrisa di ogni sfumatura del verde ; il diamante, limpido e cristallino, solido e invincibile;l'ametista, di quel viola meraviglioso intriso di sfumature interne che si espandevano quasi come volute di fumo; lo smeraldo, brillante, intenso e di quel verde che trasmetteva una sensazione di profonda comunione con la linfa vitale del mondo, della terra e della natura; il quarzo rosa, delicato e profondo, con qualche sfumatura bianca a screziarne la superficie; infine il rubino, rosso come la forza vitale, il fuoco interiore, un'antica e inestinguibile fiamma.
Un solco vuoto s'incrociava con i percorsi delle altre pietre, privo di qualsiasi gioia e colore; nel vederlo, senza una precisa ragione, una profonda tristezza la colse.
Le spirali s'incrociavano tra loro come a simboleggiare un infinito intreccio di destini.
Freya ne seguì il percorso con lo sguardo, fino a vederle culminare: lì, una luce più intensa colmò il suo sguardo. La settima pietra brillava intensamente.
La luce del granato era fulgida, sopra di lei, come la vedeva quasi ogni notte in quel sogno. Solo quella pietra era in grado di mantenere l'equilibrio, solo essa poteva bucare la corazza di oscurità che permeava la loro terra. Quella consapevolezza l'attraversava ogni volta e ogni volta lei non riusciva a comprendere da dove potesse venire.
Quella luce le dava speranza, la sentiva crescere dentro di sé, anche se sapeva che presto lo scenario della visione sarebbe mutato.
Così fu. Una folata gelida le soffiò sulle spalle e con un tremito di paura si voltò. Come tante altre volte in precedenza, lei era lì.
Guardò la figura ammantata che avanzava lentamente sul terreno muscoso, ma non con il profondo rispetto che aveva avuto lei. In ogni suo passo c'era brama, brama di conquista, come se il pilastro fosse la meta della sua vittoria. E forse lo era.
Quella figura trasmetteva un senso di paura sconcertante.
La sua lunga tunica nera fluttuava nell'aria fredda e tetra; la ragazza poteva scorgere i suoi occhi ridotti a due fessure sotto la maschera lucida e nera, incorniciata dal cappuccio del mantello, nero anch'esso, un po' come lo stava divenendo tutto.
Persino il cielo si era coperto.
La studiava con una calma apparentemente normale, mentre in mano stringeva uno scettro sormontato da una grande prisma in pietra d'onice. Freya sapeva cosa sarebbe accaduto ma non si mosse comunque, spinta dal desiderio di proteggere quella gemma così importante per l'equilibrio del loro mondo.
Di nuovo un pensiero che non pareva proprio appartenerle.
Ancora qualche passo verso di lei e la figura spalancò gli occhi.
La ragazza li vide fissarsi nei suoi e fomentare il suo terrore, gelandola con quel colore così chiaro da essere quasi più trasparente del ghiaccio. Con un ampio movimento del braccio la sinistra presenza portò lo scettro davanti a sé. Un'enorme sfera violacea esplose dal grande onice.
Freya la sentì colpirla al petto e inondarla di una scarica di dolore. Mentre la vista le si annebbiava, pensò che avrebbe dovuto assolvere meglio il proprio compito.

Sentendo un colpo al cuore, Freya si svegliò di soprassalto.
Non appena si fu messa a sedere le mancò il respiro e dovette sforzare al massimo i polmoni per inalare aria. Si mise una mano sul cuore e sotto il palmo lo sentì battere furioso.
Terrore. Era l'unica sensazione che provava mentre le scene di quel sogno le ripercorrevano la mente, confuse, come sempre. La radura, un pilastro intarsiato sormontato da un'immane bagliore, la figura nera, la morte che sopraggiungeva rapida.
Tutto questo le appariva in una miriade di frammenti sconclusionati, che lentamente andavano a ricomporre le immagini che avevano tormentato il suo sonno. La sola cosa buona che restava alla sua anima era l'immensa speranza provata, anche se tanto fugace.
Quello stesso incubo la perseguitava da fin troppo tempo per poter ricordare, insinuandosi nella sua testa quasi ogni volta che chiudeva gli occhi.
Riacquistò la percezione dell'ambiente circostante bruscamente; solo a quel punto riuscì a udire il forte ululato del vento all'esterno, che scuoteva il suo albero facendolo dondolare paurosamente.
Piano si girò nel letto e non appena posò i piedi a terra la sensazione del legno sotto le piante dei piedi le diede sollievo. Si alzò e barcollò indolenzita verso la porta; le bastò scostare la tenda ricamata che copriva l'uscio per essere accolta da sprazzi del cielo pieno di stelle che si mostrava attraverso le fronde dell'albero.
Una balconata di legno le si mostrò dinnanzi, sospesa fra i rami di quell'enorme quercia secolare;  avanzò a piedi nudi, senza timore. Quella era la sua casa da tutta la vita.
Aveva sempre vissuto tra gli alberi della foresta che si estendeva sotto i suoi occhi, protetta da tutto quello che infuriava all'esterno, ma nemmeno quel luogo che tanto amava sembrava poterla difendere da quelle assurde visioni.
Rabbrividì all'ennesima folata di vento che la investì e scrutò il nero manto celeste attraverso il fogliame che ombreggiava tutto intorno. Conosceva molto bene la solitudine, era diventata la sua unica compagna da anni, ma era solo in quegli istanti che tornava a pesarle come nei primi tempi. Solo in quei momenti di profonda vulnerabilità scopriva di ricordare nitidamente ogni singolo giorno che aveva passato aspettando sua madre.
Cercò disperatamente di rievocare il suo volto, ma come sempre più spesso le accadeva l'immagine le apparve sfocata, nascosta nelle pieghe del tempo che trascorreva inesorabile; quella era la sofferenza più grande, l'idea di star dimenticando la persona che più aveva amato in tutta la sua esistenza.
Riportando a galla quelle immagini non poté fare a meno di ripercorrere ciò che era successo; lo sguardo corse inevitabilmente alle proprie mani, intirizzite nel gelo della tempesta. Erano state quelle stesse mani la causa della scomparsa di Eleana, o almeno ciò che da esse scaturiva.
Non ne avrebbe mai potuto ricevere conferma né l'aveva mai detto ad alta voce, ma sapeva che ciò che era successo quel giorno di oramai sei anni prima era il fulcro di tutto ciò che era accaduto in seguito.
Era stato solo un momento, una brevissima e quasi invisibile scintilla. Stavano cogliendo erbe selvatiche nel sottobosco, quando senza sapere come un potere sconosciuto era sgorgato dalla punta delle sue dita.
Rammentava ancora quale meraviglia le fosse cresciuta dentro nel comprendere che era proprio lei la fonte di quel bagliore etereo, che pareva provenire da un altro mondo; il suo primo pensiero era stato di aver ereditato i poteri da Incantatrice di sua madre.
Poi Eleana le si era avvicinata e in un sussurro, quasi temesse di essere udita da qualcuno, le aveva detto che era arrivato il momento di tornare alla loro casa. Una volta al sicuro tra le fronde dell'albero, le aveva fatto un lungo discorso su quanto fosse importante che questa cosa la tenesse per sé e non la usasse come un gioco; Freya aveva annuito alle parole della madre, chiedendosi a chi mai avrebbe potuto rivelarlo se nella foresta non c'era mai stata anima viva all'infuori di loro e qualche bestia selvatica. La sua reazione le era sembrata insolita, ma si fidava di lei e e perciò si era trattenuta dal far domande.
All'epoca non immaginava che stava per perdere la persona che più amava al mondo; non l'aveva capito nemmeno quando, un paio di giorni più tardi, Eleana le aveva detto che sarebbe dovuta partire e che lei avrebbe dovuto cavarsela da sola per un po'.
Freya aveva nascosto alla madre la sua inquietudine perché immediatamente aveva compreso che quel viaggio era davvero importante. Aveva ascoltato con calma le ansiose raccomandazioni di Eleana, che le aveva detto di preoccuparsi solo nel caso in cui fosse trascorsa una luna dalla sua partenza e lei non fosse ritornata.
L'ultima immagine che aveva di lei era la sua esile figura che si allontanava a piedi nel sottobosco, umido della molta pioggia caduta in quei giorni, poi era iniziata la sua vita solitaria.
Quel mese era stato meno pesante di ciò che avesse creduto: la madre le aveva lasciato tutti i viveri necessari, in modo da costringerla a scendere dall'albero solo per procurarsi l'acqua necessaria a lavarsi e a rifocillarsi; nella parte coperta della loro dimora la ragazza aveva tutti i preziosi libri carichi di conoscenza che la donna aveva posseduto fin da quando lei aveva memoria. Aveva anche tutte le erbe necessarie a confezionare impacchi e infusi medicamentosi e sapeva già come utilizzarle.
Ma quando quelle quattro settimane si erano trasformate in due cicli lunari e poi in tre, lei aveva capito che la promessa che sua madre le aveva fatto prima di andarsene, la promessa che presto sarebbe ritornata da lei, non era stata mantenuta e non di certo per sua volontà.
Doveva essere successo di certo qualcosa, ma lei non poteva far nulla per sapere cosa o per cambiarlo. Quel senso d'impotenza era stato quasi impossibile da sopportare e forse per quella ragione ora cercava sempre una soluzione, qualcosa da fare, quando le si presentava un problema dinnanzi.
Il dolore, misto a un acuto senso di perdita. l'aveva colta e da allora l'aveva sempre accompagnata, anche se crescendo era diventato solo come una spina che ogni tanto la pungeva quando faceva un movimento troppo brusco. Aveva trascorso intere sere appollaiata sui rami della sua quercia a scrutare il nord, l'orizzonte dal quale sarebbe dovuta ricomparire sua madre, ma la foresta era rimasta muta di fronte alla sua supplica silenziosa.
Le era sembrato di essere destinata a vivere così, sola e in attesa, per un tempo eterno.
Eppure alla fine, in un modo o nell'altro, la vita era continuata: si era alzata da quella maledetta balconata e aveva deciso che sarebbe sopravvissuta a ogni costo, che in qualche maniera avrebbe dato un significato alla sua esistenza.  Fin da quel momento, le sue mani non si erano mai più illuminate di nuovo e lei non aveva mai più fatto nulla per tentare di evocare quei poteri che evidentemente dimoravano in qualche profondo recesso del suo essere; in lei era nata la convinzione che se a causa di quei poteri sua madre era partita in cerca di risposte e non era mai più tornata, non avrebbero mai potuto portare a nulla di buono.
Le sue stranezze, però, non terminavano lì. Fin da quando era stata abbastanza grande per capire qualcos'altro aveva popolato le sue notti, oltre a quella terribile visione. Non era un incubo, al contrario, ma era qualcosa che non avrebbe potuto definire nemmeno sogno; si trattava di null'altro che una voce. Una voce calda e profonda, venata di una sfumatura mascolina e ancestrale, che sempre le era venuta a parlare nel sonno, soprattutto nei momenti in cui aveva pensato di non potercela fare.
Aveva creduto di stare impazzendo quando si era resa conto di udirla e soprattutto quando aveva realizzato di non averla mai sentita durante le ore da sveglia, ma quando l'aveva detto a Eleana lei aveva sorriso e le aveva semplicemente risposto: “È solo il tuo spirito guida. Hai una grande strada davanti a te e lui è lì per aiutarti a percorrerla.”
Quella risposta enigmatica era riuscita in qualche strano modo a chetare le sue paure e Freya aveva così accettato anche quel piccolo particolare fuori dalla norma. Il suo Spirito Guida, così aveva sempre continuato a chiamarlo, l'aveva salvata in molte situazioni e le aveva impedito di perdere se stessa nel dolore e nella rabbia; fosse reale o meno, le aveva costantemente salvato la vita.
Lui, chiunque fosse, era sempre stato solo una voce, ma quando si svegliava in quelle notti fortunate Freya continuava a sentire la sua strana ed aleggiante presenza ancora per lunghi istanti e in qualche modo la paura scivolava via.
Quella notte, però, lo Spirito Guida non si era fatto sentire e lei era sola; studiò ancora per qualche lungo istante le stelle prima di dirsi che stava inziando a rimuginare troppo e decidersi a trovare un occupazione.
Sapeva già alla perfezione cosa avrebbe voluto fare in attesa della luce dell'alba. Si diresse verso la casa e rientrò, lasciandosi alle spalle il vento impetuoso e lo scintillio delle stelle; oltrepassò la sua stanza, in cui la luna gettava i suoi pallidi raggi di luce, ed entrò in quella adiacente.
Lì, come l'aveva lasciata lei sei anni prima, c'era la stanza di sua madre. Il suo letto semplice e ammantato solamente da una coperta color bronzo, un cassettone abbozzato nel legno e uno scrittoio perfettamente ordinato. Non aveva cambiato di posto nessun oggetto appartenuto a lei, come se sperasse che questo l'avrebbe mantenuta più viva nei suoi ricordi.
Con passi sicuri si diresse verso una lama d'ombra tra la parete in legno e lo scrittoio e di lì trascinò fuori un grande baule di legno chiuso da un chiavistello finemente lavorato; lentamente lo aprì.
Era completamente occupato da libri di tutte le dimensioni, pergamene e pile di fogli che la ragazza era certa di aver letto almeno una volta ciascuno. Sua madre era una donna molto colta e le aveva insegnato quanto il sapere e la conoscenza fossero fondamentali; erano le basi della vera libertà, le diceva sempre.
Era per questo che nonostante vivessero in mezzo alle Foreste di Confine le aveva insegnato a leggere, a scrivere e a far di conto; le aveva anche parlato di canti e miti e le aveva insegnato un poco di geografia, anche se davanti a una cartina aggiornata avrebbe probabilmente perso l'orientamento. Solo sulla storia si era mantenuta sempre piuttosto vaga, accennando a malapena qualche avvenimento di scarsa importanza avvenuto secoli e secoli prima e tenendola lontana dagli eventi più recenti, evitando le sue molte domande.
L'unica cosa che doveva sapere, le era stato risposto, era che il loro era purtroppo un mondo di tirannia e che questa tirannia portava un solo e unico nome: Mirea. Colei che con l'ausilio di sconosciuti poteri oscuri stava soggiogando lentamente l'intera Finian.
Era proprio per la realtà del mondo in cui vivevano che l'aveva istruita a combattere, contando soprattutto sull'arco che le aveva fabbricato, anche se fino ad allora non aveva mai avuto motivo di utilizzare quel tipo di abilità se non per procurarsi il cibo. Il pericolo che Mirea rappresentava le era sempre parso nebuloso e lontano, al sicuro fra le fronde delle sue amate Foreste.
Si sedette sul letto e prese il suo libro prediletto tra le mani; oltre a libri di studio, Eleana aveva conservato romanzi e scritti di leggende antiche, forse perdute, ma che lei oramai sapeva a memoria.
Il tomo che aveva tra le mani era il più elaborato e, con tutta probabilità, prezioso contenuto lì dentro: la copertina era rilegata in cuoio e su di essa correvano incise figure di animali mitologici, che per quanto sapesse non si vedevano nelle terre di Finian da almeno un secolo.
Era chiuso da una piccola serratura intagliata a formare un drago su un lato e un grifone sull'altro. Le zampe delle due creature s'incontravano sulla chiusura del chiavistello.
Prese una catenina che le pendeva al collo e una volta che se la fu sfilata si ritrovò a stringere tra le dita una piccola chiave non più grande del suo pollice. Ogni volta che la prendeva ricordava l'istante in cui sua madre gliel'aveva lasciata, l'ultima volta che le loro mani si erano toccate.
Con attenzione la mise nella serratura e la girò. Con un piccolo scatto le zampe di drago e grifone si separarono, lasciandole libero accesso alle pagine in pergamena ingiallita dal tempo.
Non appena sollevò la copertina sentì l'atmosfera intorno a lei cambiare; quel libro era avvolto da un'aura particolare che l'aveva sempre affascinata.
Non sapeva da dove venisse né dove sua madre fosse riuscita ad averlo, perché il volume era davvero molto antico: racchiuso lì dentro c'era tutto il loro mondo, la sua descrizione più autentica, quella che la tiranna Mirea non permetteva a nessuno di narrare da molto, troppo tempo.
Persino sua madre, sempre dolce e generosa, le aveva insegnato a non fidarsi per nessuna ragione delle truppe della tiranna. Eleana aveva ideato dei sistemi di copertura per la loro casa, atti a fare in modo che non la notassero i soldati che viaggiavano attraverso le Foreste e lungo il confine con quello che una volta era il grande Regno di Emeral, il territorio degli elfi.
Rimase lì a sfogliare delicatamente le pagine, sorridendo di tanto in tanto per qualche passaggio che amava particolarmente e leggendo di tutti i popoli di Finian; lesse con avidità soprattutto il capitolo riguardante i draghi. Apprendere dei loro poteri e delle loro peculiarità era qualcosa che l'aveva aiutata ad immaginare che, da qualche parte nella vastità del loro mondo, quelle meravigliose creture esistessero ancora; non sapeva per quale ragione, ma il solo pensiero che davvero fossero definitivamente spariti la riempiva di una struggente malinconia che le cresceva dentro come una marea che lentamente la soffocava.
Si ritrovava a vagare con la mente e a pensare quanto sarebbe stato meraviglioso visitare le loro terre, ma da quando Mirea aveva preso il potere non si sapeva nemmeno se la loro isola, Rubea, esistesse ancora nell'immenso Oceano Norn.
Altrettanto affascinante era il capitolo dedicato ai grifoni che, al pari dei draghi, sembravano appartenere a un passato lontano che mai sarebbe potuto tornare.
C'era solo una cosa che non era mai riuscita a capire di quel libro: alla fine di ogni sezione faceva puntualmente capolino una serie di pagine completamente bianche, apparentemente prive di alcun senso. Non era mai riuscita a comprenderne l'utilità, ma le piaceva credere che potessero celare in realtà un qualche mistero.
Spaesata da quelle strane emozioni scosse il capo, cercando di scacciare quei pensieri in grado di portare la sua mente alla deriva. La luce più intensa dell'alba la investì e si rese conto solo in quell'istante di avere mani e piedi intorpiditi. A malincuore richiuse il libro a chiave, lo ripose con cura nel baule che rimise al suo posto. Poi, gettando un ultima occhiata alla stanza, uscì richiudendosi la tenda alle spalle.
Rientrò nella sua camera e si tolse di dosso la camicia e le braghe di lana che usava per dormire così da potersi vestire. Anche gli abiti che indossava abitualmente di giorno non erano particolarmente femminili, ma con la vita che conduceva non si poteva certo permettere di indossare  fronzoli che l'avrebbero solo intralciata. Indossò così un paio di calzoni resistenti, una camicia e una giacca di pelle scura di cui allacciò le fibbie per proteggersi dal freddo della mattina. Infilò poi i suoi stivali, in pelle anch'essi, raccolse la parte superiore dei capelli per levarseli dalla faccia e prese l'arco e la faretra posati in un angolo, mettendoseli a tracolla.
Infine, uscì a grandi passi che rimbombarono sulle assi inchiodate all'albero e non appena fu al limitare della lunga balconata, spiccò un balzo verso il ramo più basso che trovò davanti alla sua vista. Lo afferrò saldamente e in meno di un respiro fu in equilibrio di su di esso: era così che preferiva muoversi, passando al di sopra di qualunque pericolo potesse presentarsi a terra.
Già la sera prima, preparando uno dei suoi soliti pasti frugali, si era resa conto che le scorte scarseggiavano: aveva quindi deciso che il mattino seguente sarebbe andata a pesca. Si era allenata a compiere anche quell'operazione usando il suo arco, perciò non le serviva altro, e sin da piccola aveva imparato come rendere conservabile il cibo che si procacciava. Spendeva molte giornate in quelle attività, tanto che oramai scandivano la sua vita più dell'alternarsi del giorno e della notte: erano ciò che le aveva garantito la sopravvivenza e la giovane aveva fatto in modo di affinarle quanto più possibile.
Senza esitazione, si avviò al fiume. La tempesta si era chetata e finalmente il cielo si stava schiarendo, ma un delicato sentore di pioggia saliva ancora dal sottobosco, molto più in basso. Era uno dei profumi che più amava; forse, per quella ragione si accorse subito che un'altro odore, molto più deciso, si stava facendo strada alle sue narici.
Si arrestò e, seguendo il proprio naso, guardò davanti a sé: un sottile filo di fumo si stagliava contro il cielo limpido d'estate. Come in risposta a quella vista, i suoi muscoli s'irrigidirono. Quasi sicuramente erano soldati di Mirea: non era raro che drappelli dei suoi uomini viaggiassero attraverso le Foreste di Confine. Piuttosto strana era invece la loro posizione: nessun contingente si era mai accampato tanto vicino al suo albero.
Assalita dal dubbio, Freya tentennò. Andare a controllare avrebbe potuto rivelarsi una follia, lo sapeva bene; eppure, qualche istinto misterioso le diceva che doveva farlo. Fosse curiosità o semplice desiderio di anticipare un possibile pericolo, non avrebbe saputo dirlo. Spinta da quella forza sconosciuta, iniziò a seguire quella traccia evanescente.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 -Le parole del soldato ***


CAPITOLO 2
-IL RACCONTO DEL SOLDATO-


Bastò poco perché Freya si ritrovasse a osservare una piccola radura dall'alto di un ramo. Il fumo, sempre più flebile, si levava dalle braci ancora incadescenti di un piccolo falò da campo.
Con un balzo leggero e imprudente, la giovane toccò terra e vide il bivacco per intero: erano solo quattro tende, poste in circolo attorno al fuoco, una delle quali più grande e di sicuro appartenente al comandante. Si mosse lentamente, con cautela, cercando di capire se i soldati fossero ancora assopiti nelle tende; si rilassò un poco solo quando non udì alcun rumore che segnalasse presenza umana. Nel giro di un brevissimo istante, però, dovette riportarsi sulla difensiva.
Alle sue spalle, nell'aria frizzante che le pungeva le guance, si espanse il suono di una lama che veniva estratta dal fodero. Un suono che, non avendo mai visto altro che la spada arrugginita con cui l'addestrava Eleana, le parve stranamente familiare. Si girò immediatamente, con l'arco stretto in pugno, incoccando a rapidità sovrumana una freccia dall'impennaggio color della cenere. Davanti a lei, protetti dalle loro armature, si trovavano sette soldati. A parte quello che doveva essere il capitano, il quale le puntava la spada contro, gli altri sei erano disarmati. La guardavano fisso, forse leggermente incuriositi da quella strana ragazza che si erano ritrovati di fronte.
Freya, dal canto suo, non aveva mai avuto contatti con coloro che abitavano al di fuori della foresta, o meglio, con altri esseri umani di sorta; per quella ragione, il cuore prese a scalpitarle furioso nella gabbia toracica. Come avrebbe dovuto comportarsi? La domanda rimase senza risposta, poiché, con sorpresa della ragazza, come la spada era stata estratta, venne ritirata nuovamente nel suo fodero.
«Non siamo qui per cercare lo scontro. Il mio nome è Craius, capitano della guardia personale della Regina, e questi sono i miei uomini; siamo solamente in cerca una persona e crediamo di averla trovata» disse l'uomo con calma, avanzando di un passo verso di lei. «Se voi siete Freya, figlia di Eleana e Harden, la nostra ricerca per conto della Regina Mirea si è conclusa.»
Freya abbassò l'arco, attonita. Aveva davvero appena sentito dalla bocca di quell'uomo in uniforme viola che Mirea, colei che governava su tutto il Regno di Riagàn e che lentamente usurpava sempre più territorio, cercava lei, una ragazzina che viveva come un'eremita in un bosco? Come poteva sapere della sua esistenza e conoscere la sua ascendenza?
Fu la curiosità a spingerla ad abbassare del tutto la sua arma e a rispondere sinceramente alla domanda che le era stata posta: «Vorrei potermi presentare anche io, ma voi conoscete già il mio nome. La vostra ricerca si è conclusa: sono io. Posso domandare in che modo la Regina Mirea sia interessata a me?» Nonostante avesse intenzione di parlare con loro, non abbassò completamente la guardia.
«La nostra Sovrana ha un'offerta molto generosa da porgervi» proseguì il soldato, rimasto, al contrario dei suoi uomini, completamente impassibile. «Per rendere onore ai servigi che vostra madre, Eleana, e vostro padre, Harden, le resero oramai quindici anni or sono, Mirea, Regina di Riagàn, vorrebbe che accettaste di abitare alla sua corte e di sentirvi lì come se foste a casa vostra.»
Mentre le parole pian piano si facevano strada in Freya, un'espressione stupefatta fece capolino sul suo volto.
Per rendere onore ai servigi resi... La voce del soldato continuava a rimbombarle nelle orecchie, frastornandola. Era sempre più confusa. Quelle parole andavano contro tutto ciò che le aveva sempre detto sua madre: Eleana disprezzava in modo totale la tirannia di Mirea; com'era possibile che ora quei soldati le dicessero che sia sua madre che suo padre l'avevano servita?
Ebbe la netta sensazione di aver appena trovato la porta che l'avrebbe condotta a scoprire la verità, tutta la verità sulla storia della sua famiglia, quella che Eleana non aveva mai voluto nemmeno accennarle. Nonostante sapesse che probabilmente avrebbe dovuto rifiutare e tornare alla sua vita solitaria, quel leggero sentore le diede il coraggio di spingersi oltre. Con un semplice gesto ripose la freccia nella faretra e rimise l'arco intagliato a tracolla.
«Va bene. Ascolterò ciò che avete da dirmi» acconsentì.

La tenda del capitano era ampia e il tessuto color vinaccia in cui era fabbricata generava una strana luce sotto la sua cupola. Era occupata da un giaciglio posto in un angolo e da due ceppi di legno, su uno dei quali era stata fatta accomodare Freya.
Il capitano, sempre impassibile, le aveva allungato una tela arrotolata, chiusa fermamente da un nastro di raso. «La mia signora mi ha detto di mostrarvele se aveste dubitato delle mie parole» affermò.
Sempre accompagnata da quello strano presentimento, la ragazza sciolse il nastro e srotolò la tela; ciò che vide la lasciò ancor più stupita e frastornata di quanto già non fosse. Sul foglio spiccava un ritratto di gruppo, disegnato in pitture dai toni delicati. Erano almeno una decina le persone delineate in quello che pareva un giardino, ma a Freya bastò un attimo per individuare sua madre: era sorridente, di un sorriso composto ed educato, ed era vestita come non era mai stata abituata a vederla. Aveva un abito elegante e lungo, con il corsetto legato da un filare di nastri terminanti in un fiocco e le maniche a sbuffo sulle spalle e i gomiti. I capelli erano raccolti in una treccia elaborata, decorata da fiori primaverili.
Fissò quell'immagine a lungo, completamente incapace di trovarvi un senso. Con gli occhi pieni di lacrime, che cercò immediatamente di nascondere, riportò la sua attenzione sul comandante: «Cosa significa?»
Intuendo il suo dolore, il comandante ingentilì il tono rigido che aveva avuto fino a quel momento. «Qui sono ritratti gli Incantatori di corte della Regina poco più di vent'anni fa; vostra madre era una di loro. Vostro padre, invece, era uno dei più abili comandanti che il suo esercito abbia mai avuto» spiegò, porgendole una seconda tela.
Ad apparirle davanti, questa volta, fu un gruppo di uomini elegantemente vestiti. Lo riconobbe immediatamente, nonostante in tutta la sua vita ne avesse visto solo un piccolo ritratto: suo padre. Di lui conosceva molto poco: sapeva solo che era stato un uomo forte, generoso e con lei incredibilmente dolce; che l'unica cosa che aveva potuto separarlo da loro era stata la morte. Quando aveva chiesto di lui a Eleana si era sempre sentita rispondere che un giorno, quando fosse stata pronta, le avrebbe detto ogni cosa. Evidentemente non ne aveva avuto il tempo.
«Erano insieme ogni volta che gli era consentito durante il giorno, ancor di più dopo che si furono sposati. Hanno servito fedelmente la Regina Mirea ed è per questo motivo che la nostra sovrana vorrebbe avervi vicina» proseguì il soldato, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Freya osservò alternativamente le due immagini: «Com'è stata in grado di trovarmi? Non sono mai uscita dal folto di questa foresta. Mai in tutta la mia vita» mormorò con sguardo lontano.
«La mia signora ha cercato a lungo vostra madre e alla fine uno dei suoi Incantatori ha udito delle... voci, che ci hanno permesso di rintracciarvi. La vostra presenza in questa foresta sembrava una leggenda, da come ci fu raccontata prima che partissimo, ma evidentemente non lo era» rispose il comandante.
Quella spiegazione non le parve così strana: la sovrana doveva avere informatori sparsi ovunque per Finian. Rimase qualche attimo immobile, riflettendo sulle cose che le erano appena state raccontate, cercando di capire se fosse la verità. Passò le dita sulle tele che aveva in mano. Potevano davvero essere vecchie quanto le aveva detto il comandante: i suoi genitori erano evidentemente più giovani.
Come avrebbe potuto quell'uomo avere quei ritratti o anche solo sapere i loro nomi se davvero non avessero mai prestato servizio alla corte di Mirea? Non riusciva a scorgere nessuna menzogna nelle sue parole, a cui lentamente iniziava a credere.
Nonostante il suo buon senso, cominciò a pensare seriamente di accettare e di lasciare tutto ciò che riteneva salvifico e sicuro per raggiungere la capitale del Regno di Riagàn. Per tutto quel tempo aveva avuto un'idea ben precisa di Mirea, un'idea che si era fatta sulla base di ciò che le aveva detto sua madre. Quello che stava scoprendo metteva in discussione ogni cosa in cui aveva sempre creduto.
Aveva sempre pensato che quella foresta fosse l'unico posto in cui mai avrebbe potuto essere felice e probabilmente era davvero così. Il mondo esterno e tutti i suoi scempi non l'avevano mai nemmeno sfiorata, fra quegli alberi. Forse, per lei era arrivato il momento di uscire dal nido che Eleana le aveva costruito attorno e vedere con i propri occhi quello che accadeva là fuori.
A conti fatti, l'unico modo per farsi un'opinione veritiera su qualcosa era averci a che fare direttamente.
Se fosse andata con loro, avrebbe finalmente recuperato ciò che mancava di quel suo nebuloso passato e conosciuto la realtà per quello che era. Sarebbe stato diffcile, molto difficile, ma oramai era abbastanza grande da poter sopportare qualsiasi verità.
«Avete ancora un giorno per pensarci. Partiremo da qui domattina all'alba e se voi vorrete accettare vi basterà presentarvi qui al sorgere del sole» la riscosse il comandante.
Freya si alzò e l'uomo si inchinò leggermente al suo cospetto, cosa che la lasciò particolarmente imbarazzata. Uscirono nuovamente alla luce e per un istante, con il sole oramai alto nel cielo che le riempiva lo sguardo, tutte le rivelazioni appena apprese nella tenda parvero alla giovane solo un'illusione. Poi gli alberi della foresta ricomparvero, con i loro verdi e marroni di tutte le tonalità, e tutto riacquistò consistenza.
«Lasciate solo che vi dia un consiglio» aggiunse il capitano, prima di lasciarla andare. «Prendete seriamente in considerazione questa proposta, Lady Freya. Vi posso garantire che non è stata avanzata a molti altri prima di voi.»
Freya si limitò ad annuire e dopo un cenno di saluto rispettoso lasciò il bivacco, scomparendo presto fra gli alberi enormi delle Foreste di Confine.

Presto si ritrovò a correre. A ogni passo la sua corsa si faceva sempre più rapida, fino a che non si ritrovò ad assomigliare ad una vera e propria fuga; corse a perdifiato senza inciampare mai nemmeno una volta nelle radici ritorte degli alberi e senza fare troppo caso alla direzione in cui i suoi piedi l'avrebbero condotta, sicura che non si sarebbe persa.
Conosceva ogni singolo piede di quella foresta, era il luogo che per tutta la vita l'aveva tenuta al sicuro fra le sue braccia benevole. D'improvviso l'idea di abbandonare quella vita difficile ma per lei piena di certezze le riempì il cuore di angoscia.
Furono le orecchie a dirle dove stava andando; il suo fine udito recepì il gorgoglio del fiume ancor prima che lo strapiombo scavato da esso nella foresta fosse in vista. Solo sull'orlo della gola si fermò; lì, dove il rumore dell'acqua si faceva roboante e sovrastava tutto il resto, Freya arrivò a sentire solo il proprio cuore che rimbombava frenetico fino a riempirle perfino i timpani.
Non avrebbe potuto prendere nessuna decisione fino a che non si fosse calmata, si disse, iniziando a inalare quanta più aria possibile nei polmoni. Respirò a quel modo fino a che anche la più piccola traccia di batticuore fu scomparsa e potè ritornare a sentire i familiari rumori della natura espandersi  attorno a lei; si accertò che le gambe potessero reggerla e solo a quel punto iniziò la discesa.
La gola sembrava impraticabile a chiunque la vedesse senza aver mai trascorso un solo istante fra quegli alberi, ma era uno di quei tanti luoghi nascosti a cui lei aveva imparato ad accedere.
Trovò la strada senza sforzo, nonostante le mani le tremassero ancora lievemente, e a breve si ritrovò sulla piccola secca ricoperta di pietre che affiancava il fiume in quel punto.
Si sedette, le gambe raccolte al petto, cercando di collegare in un filo logico tutto ciò che aveva appreso in quella breve chiacchierata che sembrava essere durata un secolo intero. Il sole faceva brillare l'acqua, la quale pareva risplendere di una cangiante luce propria. Senza farsi ostacolare da nessuno dei massi che si concentravano sul suo cammino, quell'inarrestabile corrente avanzava per raggiungere i grandi laghi del Regno di Hyalos.
Il fiume sapeva perfettamente cosa fare, aveva ben chiara la direzione da prendere; nulla poteva fermare il suo incedere maestoso. Avrebbe voluto essere proprio come quel fiume, ma la verità era che, in quel preciso istante, non aveva la minima idea di quale fosse la decisione giusta: restare e rinunciare per sempre a ogni possibilità di arrivare alla verità, oppure andare e rischiare di rendere vano ogni sforzo che sua madre aveva compiuto per proteggerla.
Fu proprio quello, il pensiero di sua madre, a segnare la svolta nei suoi tanti pensieri confusi. Solo in quell'istante realizzò che quel soldato le aveva già restituito, inconsapevolmente, qualcosa che lei pensava di aver perso per sempre: un'immagine di Eleana.
In quel dipinto sua madre era più giovane, certo, e ora quella sua versione serena e gioiosa si sovrapponeva a quella più matura e segnata dalla vita che aveva conosciuto lei, ma quello era pur sempre il suo volto. Lo poteva rievocare di nuovo e lo vedeva chiaramente come non le accadeva da fin troppo tempo.
Una lacrima sfuggì al suo controllo ferreo e le scivolò rapida lungo la guancia. Il suo sguardo corse al cielo limpido di quella mattina, visibile in brevi squarci oltre la gola e tra le fronde molto più in alto; mentre una seconda lacrima raggiungeva la prima, Freya seppe che aveva già deciso.
Costasse quel che costasse, doveva seguire quella flebile traccia.
Sarebbe stata sola, di questo era perfettamente consapevole, e non sarebbe stata certamente la stessa cosa che esserlo nella foresta: avrebbe dovuto confrontarsi con una vita completamente diversa e, soprattutto, con tanti esseri umani quanti non ne aveva mai visti prima in vita sua.
Sarebbe stata abbastanza coraggiosa da affrontare una prova del genere? Non lo sapeva, però cercare quel coraggio era qualcosa che doveva a sua madre. Era lei ad averla cresciuta insegnandole che essere cauti era importante ma che mai bisognava vivere facendosi guidare dalla paura.
Per la prima volta il futuro si faceva incerto all'orizzonte, proprio il suo che le era sempre sembrato uno solo e prevedibile; eppure tutto ciò che la giovane riusciva a provare in quel momento era una sempre crescente aspettativa.
In lontananza qualche lupo, unico suo compagno nell'immensità della foresta, ululò il proprio richiamo; Freya restò in perfetto silenzio, pronta a cogliere nuovamente il suono quando si fosse ripresentato, e quando lo fece provenne chiaramente da appena sopra la sua testa. Pochi istanti dopo una grande testa grigia fece capolino sull'orlo della gola e i grandi occhi gialli dell'animale la osservarono, attenti e imperscrutabili.
Freya vide se stessa in quegli occhi, la sua vita spesa con l'immenso dono della libertà, e per un istante il peso di quello a cui stava per rinunciare le parve insostenibile.
Oramai, però, la scelta che avrebbe cambiato il suo destino era stata compiuta: la mattina seguente sarebbe partita con i soldati di Mirea.

Trascorse la serata immersa nei preparativi per l'imminente viaggio. Raccolse tutti i suoi averi più cari e solo quando li ebbe riuniti tutti nelle uniche bisacce che possedesse, due vecchi involucri di pelle consumati, si rese conto di quanti pochi fossero.
In ogni caso era tutto ciò di cui aveva bisogno e che volesse portare con sè: i suoi abiti, il libro che narrava la storia del loro mondo e una serie di piccoli oggetti che aveva raccolto nelle foreste nel corso degli anni. Naturalmente non lasciò indietro il suo arco e la faretra; lucidò con cura l'arma e controllò che fosse incordata, oltre a fabbricare ancora qualche freccia.
Quando ebbe terminato si sedette sul bordo della balconata, con le gambe a penzoloni nel vuoto. La curiosità per quello che l'aspettava cresceva, insieme all'ansia che l'ignoto portava con sé. Com'era davvero il Regno di Riagàn? Come sarebbe stato camminare il quelle terre fisicamente, invece di leggerne solamente le descrizioni? Nelle Saghe di Finian c'erano delle bellissime illustrazioni dei luoghi più importanti, delineate a mano sulla pergamena; quale emozione sarebbe stata vederli per davvero? Il cuore di Freya accelerò i battiti a quel pensiero e un brivido sconosciuto l'attraversò: sarebbe stata l'avventura più grande della sua vita. Si chiese anche se avrebbe mai trovato un'altra foresta bella come quelle che stava per lasciarsi alle spalle. Le sarebbe piaciuto potersi recare in un posto a lei più familiare, di tanto in tanto.
Quando calò la notte, consumò una cena fredda e poi si accoccolò sulla balconata, avvolgendosi nelle coperte prese dal suo letto; non aveva voglia di rientrare. Quella sarebbe stata la sua ultima occasione di assaporare il profumo della sua amata foresta, di ammirare le costellazioni che solo da quel punto si potevano osservare.
Guardando le braci che pian piano morivano nella grande ciotola di pietra dove aveva acceso il fuoco, si addormentò. Quella notte lo Spirito Guida si presentò da lei.
Stai per intraprendere il cammino che ti porterà a conoscere ed abbracciare tutto ciò che sei, le disse, ma per la prima volta non si stava limitando a parlarle, le stava mostrando qualcosa. Prima che tutto svanisse, sentì il soffio di un vento potente sul viso e intorno a sé percepì uno spazio luminoso, libero e infinito.

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 3 -Il viaggio ***


CAPITOLO 3
- IL VIAGGIO -



Si svegliò proprio nell'istante in cui i caldi raggi del sole iniziavano ad affiorare dall'est, portando con sé la promessa di un nuovo giorno.
Cercò di non indugiare troppo in quel luogo pieno di ricordi e raccolse piuttosto in fretta le bisacce; non era del sentimentalismo che aveva bisogno, in quel momento. Solo una volta giù dall'albero si concesse un'ultima occhiata alla sua casa; anche se non sapeva se mai ci sarebbe tornata aveva calato tutte le coperture necessarie a celarne la presenza, tanto che se non avesse saputo dove guardare mail'avrebbe potuta intravedere. Esitando più di quanto avrebbe voluto,si voltò e prese a camminare in direzione dell'accampamento dei soldati, lasciandosi alle spalle il grande albero e tutto ciò che rappresentava.
Non ci volle molto per arrivare in vista del bivacco e quel poco tempo le diede ancor più idea di quanto i soldati si fossero avvicinati alla casa sull'albero; un brivido poco rassicurante le scosse la spina dorsale. Era già tutto pronto, constatò: le tende erano scomparse e al loro posto, legati ai rami più bassi di un giovane albero, c'erano otto cavalli. Sette di loro erano della stessa razza, tutti di un colore rossiccio, evidentemente stalloni da guerra. L'ottavo lasciò Freya a bocca aperta: era un animale enorme, dalle zampe grandi e robuste ricoperte di folto pelo fulvo; gli zoccoli, larghi e ben piantati, sembravano poter passare sopra qualunque ostacolo; il crine era nero e il manto bianco, ricoperto da grandi e bellissime macchie scure. Non appena avanzò di qualche passo, lo stallone la notò e la guardò con i suoi grandi occhi scuri e limpidi, grattando al suolo lo zoccolo della zampa anteriore destra. I soldati la videro solo grazie al movimento dell'animale.
«Speravo che avreste accettato» le disse il capitano, accompagnando le sue parole con una breve riverenza che la mise a disagio tanto quanto il giorno prima.
«Sarò felice di sapere qualcosa in più della mia storia» si limitò a rispondere la ragazza, senza sbilanciarsi troppo. Non dovevano sospettare quanto poco ancora si fidasse di loro, ma non gli avrebbe nemmeno lasciato credere che fosse una sciocca ragazzina pronta a credere a qualunque cosa le venisse propinata. Per quanto diffidente, non poté impedirsi di sgranare gli occhi quando il capitano Craius le porse proprio le redini del grande stallone, che le si avvicinò di buon grado. Freya guardò l'uomo, senza capire.
«Questo stupendo stallone è discendente diretto di quello che un tempo fu il cavallo di vostro padre» le spiegò il comandante. «La Regina Mirea mi ha incaricato di consegnarvelo come suo dono personale. Vorrebbe che foste voi a dargli un nome.»
Freya lo guardò pensosa, poi decise che avrebbe capito quale fosse il nome più adatto a lui solo dopo averlo cavalcato. Agganciò tutte le bisacce alla sella dello stallone e poi vi montò. La sensazione che mani invisibili la legassero a doppio filo a quella meravigliosa creatura la lasciò quasi senza fiato. Le era sempre successo di sentirsi in sintonia con tutto ciò che l'intera natura comprendeva, tanto che mai le era accaduto che qualche bestia selvatica la aggredisse. Poche volte le era però accaduto così intensamente.
Lo spronò a muovere i primi passi e in quell'istante il capitano si voltò verso di lei: «Il viaggio sarà particolarmente lungo, Lady Freya. Avremo la possibilità di fare sosta in più di un centro abitato, ma spesso saremo costretti a dormire all'aperto. Rappresenta un problema, per voi?»
Freya dovette trattenere una lieve risata in gola, sia per l'assurdità di quel "Lady" apposto al suo nome che per la domanda in sé; sembrava che la credesse fatta di vetro. Si limitò a sorridere, asserendo: «No, capitano. Non temete per me, sono più resiliente di quanto non sembri.»
Craius le rivolse un brevissimo sorriso, prima di portare l'attenzione sui suoi uomini. «Compagnia, in sella. Il percorso è lungo e dobbiamo sfruttare ogni attimo per consumare miglia» ordinò, perentorio. I soldati montarono a cavallo senza una parola e in breve formarono un'ordinata colonna, per quanto permettesse lo stretto sentiero.
Freya non aveva mai cavalcato prima, ma il da farsi le venne istintivo: invitò con un leggero colpo di talloni il suo stallone a muoversi e aggiustò la presa sulle redini. Ebbe solo un brevissimo istante per riflettere un'ultima volta su quello che stava per fare: lo spese voltandosi all'indietro e guardando la parte a lei conosciuta della foresta che si allontanava sempre di più alle sue spalle.


Cavalcarono ininterrottamente per tutta la giornata. Nonostante le grandi zampe, notò la giovane, lo stallone si districava bene nella foresta, tra le fronde basse e le radici nodose dei grandi alberi. Era una dote piuttosto utile, contando il fatto che in quel punto la foresta era particolarmente estesa e intricata.
Arrivata la notte, si accamparono in una radura grande abbastanza da ospitare le tende  dei soldati. Quando il comandante Craius ne offrì una a Freya, la ragazza rispose che preferiva dormire sotto le stelle; preparò un giaciglio con le coperte che si era portata e, dopo aver tolto il fastidioso morso al cavallo, si recò al rigagnolo che scorreva lì accanto per darsi una rinfrescata. Consumata poi la propria cena, si sedette con la schiena appoggiata al grande tronco alle sue spalle.
Lo stallone pascolava placidamente l'erba che cresceva attorno all'albero. Era da tutta la giornata, rilassata dalla regolare andatura del suo passo, che pensava a un nome da dargli, ma solo in quel momento, ferma a guardare il cielo che risplendeva di stelle sopra la radura, le venne spontaneo un nome. Si alzò e il cavallo le venne incontro, come se avesse percepito che dovesse dirgli qualcosa; la ragazza gli posò una mano sul muso e gli disse dolcemente: «Stellato. Questo sarà il tuo nome, se vorrai portarlo.»
Il cavallo emise un nitrito di soddisfazione che fece voltare brevemente i soldati nella sua direzione.
La ragazza sorrise lievemente. «Allora è deciso.» Poi, tornò a coricarsi accanto all'albero, chiudendo gli occhi. Non appena fu sola nel buio della propria mente, fu assalita dall'enormità di tutte le decisioni che aveva preso.
Davvero sua sua madre sarebbe stata fiera di lei, se avesse saputo a che cosa aveva scelto di andare incontro? Sì, capì infine, lo sarebbe stata. In fondo, era stata lei a insegnarle che in un mondo governato dalla prepotenza qual'era il loro perseguire la verità e la giustizia fosse una virtù fondamentale per accendere una luce nel buio. Con quella consapevolezza si addormentò e, in qualche modo, riuscì a coltivarla dentro di sé anche nei molti giorni di viaggio successivi.


La prima sorpresa arrivò già appena superata la parte più profonda della foresta, quando improvvisamente Freya si ritrovò a cavalcare sulla strada più grande che avesse mai visto. Doveva essere relativamente recente, perché non ve n'era traccia sulle cartine che aveva avuto fra le mani lei, probabilmente antecedenti alla conquista di Mirea. Da quel momento in poi, iniziarono a incrociare viandanti, sia solitari che in gruppo, carri di tutte le dimensioni e altri drappelli di soldati a cavallo diretti chissà dove. Man mano che si avvicinavano al cuore di Riagàn, la loro meta, il viavai si faceva sempre più frenetico e caotico. Passarono quello che una volta era stato il confine senza che Freya nemmeno se ne accorgesse, troppo impegnata a cercare di abituarsi a tutte quelle novità.
Il vero e proprio Regno di Riagàn, così come lo era stato fino a cent'anni prima, era molto più piccolo del territorio controllato ora dalla sovrana. Quando aveva preso il potere Mirea aveva iniziato lentamente a espandere i domini di Riagàn e adesso villaggi e piccoli centri urbani erano sorti dove prima c'erano solo boschi e luoghi completamente disabitati. Pochi erano gli angoli di Finian che gli esseri umani non fossero riusciti a raggiungere e uno di questi era la piccola porzione di foresta in cui viveva Freya. Gli altri erano i cuori delle Antiche Terre: la ragazza aveva passato tutta la propria infanzia a domandarsi se prima o poi qualcuno sarebbe riuscito a raggiungere di nuovo gli altri popoli nei loro territori remoti. In fondo, era da uno di quei luoghi che sua madre proveniva, anche se aveva sempre continuato a ripeterle che non sarebbe mai potuta tornare fra la sua gente. In ogni caso, erano pensieri che forse, nel posto in cui stava andando, avrebbe fatto meglio a tenere per sé.
Mano a mano che il viaggio proseguiva, la giovane si rendeva sempre più conto che probabilmente a Errania non avrebbe avuto nemmeno la stessa libertà di espressione a cui era abituata. Eleana le aveva sempre permesso di dar voce alla propria opinione, se lo voleva, ricordandole semplicemente di farlo nei giusti modi; il suo pensiero era sempre stato libero di articolarsi in parole, fin tanto che lo faceva educatamente. Le persone che le passavano davanti, villaggio dopo villaggio, sembravano in qualche modo frenate dal farlo. Freya imparò come spesso la gente preferisse il silenzio, soprattutto sotto lo sguardo di chi, in qualche modo, era considerato loro superiore. In quel mondo che lei ancora non capiva, nessuno pareva dire mai del tutto ciò che avrebbe voluto, nemmeno con gentilezza.
Mentre gli zoccoli di Stellato la portavano lontano da casa, così come nelle notti trascorse in tenda o nella camera di qualche locanda, Freya cercava di ripetersi che quelle donne e quegli uomini non erano poi tanto diversi da lei. Nonostante questo, loro non sembravano pensarla esattamente alla stessa maniera: la ragazza sentiva i loro sguardi su di sé, vedeva il timore nelle loro espressioni quando notavano le sue orecchie a punta. Iniziò a sentirsi una specie di creatura leggendaria ricomparsa dai recessi delle loro memorie, qualcosa che fino al giorno prima non pensavano potesse ancora esistere. Aveva provato a fare finta di niente, ma non era abituata a tutta quella attenzione, né a tutta quella presenza umana.
Anche mia madre si sentiva così?, iniziò a chiedersi costantemente. Tutti quegli sguardi le hanno mai fatto pesare il suo essere elfa?
La sera, quando riuscivano a pernottare al cado di qualche struttura, Freya mangiava velocemente e si rintanava nella stanza che avevano tenuto per lei, beandosi della solitudine. A lungo quella restò una sua abitudine, seppur accompagnata dalla consapevolezza che, oramai, nulla nella sua vita sarebbe potuto restare uguale per molto.
Il suo carattere, in ogni caso, sopportò imperterrito tutte le prove a cui venne sottoposto. La sua curiosità la portò comunque a trarre immensa gioia da tutto ciò che aveva occasione di scoprire per la prima volta. Per quanto la giovane non riuscisse ancora a capire come funzionasse la società in cui gli esseri umani si muovevano, rimase fin da subito affascinata dalla loro capacità di costruire pressoché qualunque cosa. Dapprima, nei piccoli centri urbani in cui sostavano, imparò ad apprezzare ciò che scaturiva dal lavoro degli artigiani; non importava quale materiale trattassero o cosa ne facessero: vedere le loro mani usare con perizia gli strumenti del mestiere e creare tutto quello di cui le persone potevano aver bisogno aveva il potere di incantarla. Anche lei aveva spesso dovuto trovare il modo di mettere insieme quello che le serviva, ma c'era un'enorme differenza tra farlo per mera necessità e farlo anche per passione; la si vedeva nell'amore e nella cura per i dettagli, oltre che nel risultato finale.
Quando giunsero poi nella prima delle due grandi città che li separavano dalla capitale, per la prima volta Freya vide fin dove l'inventiva e l'abilità degli abitanti di Riagàn era capace di arrivare. Non aveva mai visto nulla di simile a quegli edifici di pietra, pesanti, imponenti, tanto solidi. La sua casa sull'albero sembrava prossima a crollare al primo alito di vento, se paragonata agli enormi palazzi di Concivis. Mentre vi cavalcava attraverso, la giovane non ne perse nemmeno il più piccolo scorcio. Era un luogo molto curioso: alle case più semplici si alternavano strutture dalla pianta rotonda, simili a basse e larghe torri, spesso arricchite da pitture che fregiavano il contorno di porte e finestre; a fare da sfondo a quelle opere d'arte, il colore giallo declinato in centinaia delle sue tonalità. Sembrava una caratteristica comune a tutti gli esterni dei palazzi, dalla periferia al centro. Nel vedere la sua curiosità, il capitano Craius le spiegò che quello ero lo stile architettonico peculiare di Concivis e che in nessun'altra città avrebbe trovato qualcosa di simile.
Vi sostarono per un paio di giorni, il tempo necessario a fare un pò di rifornimento, prima di proseguire in direzione di Plametia. Come le aveva detto il capitano, la città, che sorgeva al centro di una vasta pianura, non condivideva nessuna caratteristica con la precedente: gli edifici di Plametia erano costruiti in pietra scura, grezza, su cui ogni tanto faceva capolino qualche bassorilievo. La pianta dell'intero centro urbano era un perfetto incrociarsi di strade, che scorrevano parallele o perpendicolari le une alle altre, in assoluta simmetria. Perfino per Freya, che in mezzo a tutte quelle vie si sentiva un pò disorientata, sarebbe stato difficile perdersi.
Solo una cosa accomunava quei due luoghi: il misto di stupore e timore che suscitavano nell'animo della giovane. C'era una parte di lei che bramava di sapere, che spingeva per poter assorbire quante più nuove nozioni e immagini potesse; l'altra, invece, era quella che percepiva la sostanziale differenza fra sé e ogni altro elemento che la circondava. Dimenticare gli sguardi era più facile, quando la sua attenzione era catturata da altro, ma nulla avrebbe mai potuto cancellarli del tutto.
Presto, lasciarono anche Plametia e fu mentre la grande porta della città si allontava alle sue spalle che Freya iniziò davvero a realizzare: la capitale si faceva sempre più vicina e con essa anche l'ora della verità.


Era il tardo pomeriggio dell'ennesimo giorno trascorso in sella quando,in lontananza, videro finalmente il castello e la città che gli si espandeva al fianco. Proseguirono ancora per diverse ore e infine, quando la sera stava iniziando ad allungarsi sulla terra, vi giunsero. La capitale, Errania, era immensa e in un certo qual modo terrificante, molto più di quanto non lo fossero Concivis e Plametia, gli unici metri di paragone che Freya avesse: era una distesa di case e palazzi, circondata da una spessa cinta muraria che impediva qualunque sguardo esterno sulla sua vita; oltre solo il castello, arroccato su un'altura che la dominava. Era lì che si stavano dirigendo, tenendo i cavalli a un trotto sostenuto.
Il pesante cancello era stato lasciato spalancato in vista del loro arrivo e a Freya non restò altro da fare che seguire i soldati nell'ultimo tratto di quell'improbabile viaggio. Sentì i propri muscoli irrigidirsi progressivamente, come pronti per scattare a un imminente pericolo, ma comunque, quando fu il momento, entrò nel cortile del castello. Guardie e servitori andavano avanti e indietro, svolgendo le loro mansioni quotidiane. Alla loro comparsa si fecero tutti da parte. Il sole, alla fine del suo tracciato nel cielo, tingeva ogni cosa di un colore aranciato che le riempiva gli occhi, abbagliandola, tanto che inizialmente non si rese conto che tutti si erano fermati. Credeva di essersi quasi abituata a essere circondata da tante persone, ma ci volle poco perché capisse che non era così; il suo disagio non fece altro che crescere quando si accorse che le sue orecchie leggermente appuntite e i tratti inusuali del suo viso avevano sortito il solito effetto.
Per un attimo, una strana paura la colse e fu tentata di far voltare Stellato e fuggire da tutta quell'attenzione indesiderata; sentiva di essere arrivata al limite ancor prima che la sua avventura cominciasse davvero. Fu dalla sua anima che giunse l'incoraggiamento necessario: il ricordo di ciò che le aveva detto il suo Spirito Guida la notte prima che partisse. Le sue parole la invasero, riempiendola di forza. Raddrizzò la schiena e proseguì verso il fondo del cortile principale, su cui si affacciava l'entrata del palazzo. Lì, un gruppetto di cinque persone allineate sembrava attenderli: senza dubbio servitori del castello, tutti vestiti in abiti semplici e dai colori poco vistosi. Non sembrava esserci nessun altro. Fu solo avanzando ancora di qualche passo che notò due ragazzi, in piedi sulla scalinata di pietra che conduceva al portone intarsiato di ferro nero.
Non appena si concesse uno sguardo d'insieme, Freya rimase meravigliata dalla grandezza di quel cortile, dall'altezza delle guglie di quel palazzo color antracite e dall'effetto che la luce solare produceva sull'ambiente circostante. Era talmente assorta nella contemplazione di quell'ennesimo nuovo paesaggio da rendersi conto solo in un secondo momento che tutte quelle persone erano lì per accogliere lei. Con tutta la propria forza di volontà, riuscì a ricacciare indietro il turbamento, almeno finché non incontrò lo sguardo di uno dei due giovani.
Solo allora sentì un'ondata di emozioni per lei non identificabili afferrarle il cuore, rovesciandolo esattamente come quando, da piccola, si lanciava da rami fin troppo alti per lei e quello di colpo sembrava precipitarle fino ai piedi, per poi ritornare bruscamente al proprio posto. Fra tutte quelle sensazioni, a stagliarsi nitida su tutte le altre, seppur inspiegabile, era quella di aver ritrovato qualcosa di perduto da tempo.
Era giunta in un luogo completamente estraneo, mai visto prima se non in una minuscola veduta dipinta sulle Saghe di Finian. Eppure, lui ebbe la sensazione di conoscerlo da una vita intera.

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 4 -Incontro di anime ***


CAPITOLO 4
- INCONTRO DI ANIME -



Una strana e sempre crescente agitazione aveva animato il castello in quegli ultimi giorni, accompagnata da un'euforia a cui Aran non era abituato.
Non c'era abitante della corte di Errania che non mormorasse, mentre si affaccendava per sale e corridoi, chiedendosi di quale portata potesse essere l'ospite che aveva richiesto tanti preparativi. Era la sola cosa che il ragazzo fosse riuscito a capire: a palazzo si prevedeva un nuovo arrivo; con tutta probabilità, a portare la notizia era stato il messaggero giunto al castello in tutta fretta quasi una settimana prima. Scoprire l'identità del misterioso ospite, in ogni caso, sembrava impossibile; nemmeno parlare con sua madre, la Regina Mirea in persona, era servito aqualcosa, tranne che ad aprire ancor più interrogativi. L'unica risposta che aveva ottenuto era stata: "Capirai tutto a tempo debito." La Regina aveva sempre avuto l'innata passione di rispondere per enigmi.
Per quella ragione, terminate le proprie incombenze, si era appostato in cima alla scalinata principale del castello: voleva a tutti i costi vedere cosa ci fosse da capire. Il vento del tardo pomeriggio lo sferzava, freddo nonostante fossero ancora nei mesi estivi, ma lui non sembrava preoccuparsene più di tanto; tutta la sua attenzione era rivolta ai colori della sera che iniziavano a dilagare da ovest. Perso nelle profondità di quelle sfumature, finalmente nella calma, si ritrovò a sorprendersi di come il suo addestramento quotidiano gli avesse prosciugato così tanto tempo ed energia.
Era fin dal momento in cui aveva imparato a stringersi i lacci degli stivali che la sua istruzione nell'arte del combattimento aveva avuto inizio; quella intellettuale, la quale solitamente occupava le sue mattinate, risaliva ad ancor prima. La sua vita era organizzata in quelle attività oramai da anni, eppure la stanchezza a fine giornata era sempre la stessa; lo sentiva nelle proprie membra pesanti, sfiancate dall'interminabile serie di colpi che gli erano stati inferti dal fratello maggiore. Lo osservò di sottecchi, in piedi al suo fianco, e notò con una certa soddisfazione che anche Darragh, suo inseparabile compagno d'allenamento, sembrava sfinito tanto quanto lui.
«Sto iniziando a stancarmi di stare qui ad aspettare come un imbecille» commentò quest'ultimo  proprio in quell'istante, aggrottandole sopracciglia. «Non so nemmeno come tu abbia fatto a convincermi.»
La pazienza non era mai stata una delle virtù principali di Darragh, ma perfino Aran, del quale solitamente era un tratto distintivo, stava iniziando a perderla. Chi mai sarebbe potuto arrivare a quell'ora, oramai? Eppure, le sue gambe si rifiutavano di voltarsi, varcare il portone del castello e portarlo a ritirarsi in camera sua in attesa della cena, come faceva sempre. Non sapeva cosa stesse attendendo, ma non riusciva a ignorare quel senso di aspettativa che lo teneva inchiodato lì.
Proprio mentre la mano di suo fratello correva a stringere il pomolo della spada che gli pendeva al fianco, segno che la sua impazienza stava raggiungendo il culmine, una piccola compagnia a cavallo spuntò oltre il cancello nero. A capeggiare il gruppetto, il capitano Craius, il quale giungeva al trotto sul suo stallone da battaglia. Questo spiegava l'assenza dell'uomo nelle ultime settimane, dettaglio di cui Aran si era accorto nonostante sua madre fosse sempre molto attenta a mantenere il massimo riserbo sulle sue faccende. Era forse per l'eccessiva riservatezza della Regina che il giovane aveva finito col diventare un ottimo osservatore e aveva imparato a trovare da solo le risposte che cercava.
In ogni caso, quella volta il segreto era stato mantenuto talmente bene che solo ora che gli stava venendo incontro poteva scoprire l'oggetto di tanta premura da parte di Mirea. Quando riuscì a scorgere la persona che stava arrivando accompagnata dai soldati, una sensazione sconosciuta lo strinse in una morsa ferrea, facendolo rabbrividire dalla radice dei capelli alla punta dei piedi. Non capiva a cosa potesse essere dovuta: era una ragazza, semplicemente una ragazza.
Naturalmente, Aran aveva già visto altre giovani donne prima di allora: era capitato che a corte si recassero le figlie dei generali e probabilmente, secondo i piani della Regina, due di loro sarebbero state un giorno le fortunate consorti dei suoi figli. Nonostante questo, non appena vide lei gli sembrò la prima. Aveva lineamenti particolari, resi tali dal volto affilato e dagli occhi leggermente allungati. Fu il colore di questi ultimi a catturare la sua attenzione al di sopra di ogni altra cosa: erano di un intenso azzurro screziato di verde, luminoso e limpido, che gli si marchiò in un luogo lontano in fondo al cuore. Solo in un secondo momento colse altri dettagli, come i suoi lunghissimi capelli color del rame fuso e le orecchie, terminanti in una punta ben visibile ai lati del suo viso. C'erano tante altre cose insolite in lei, dagli abiti chiaramente maschili all'arco che portava a tracolla con estrema naturalezza. Ne rimase completamente incantato.
I servitori del palazzo l'accolsero e la giovane si avvicinò a loro con la titubanza di chi trova sgradevole essere al centro di tanta attenzione. Non la conosceva, non si erano ancora scambiati nemmeno una parola, eppure Aran seppe che quell'incertezza era solo momentanea; c'era qualcosa, nella sua camminata e nella sua postura, che lasciava intuire una forza e una sicurezza che raramente aveva visto in altri. Mentre la guardava parlare con Malia, gli parve di essere avvolto in un silenzio d'ovatta che gli impediva di afferrare bene il senso delle loro parole, lontano da tutto il resto del mondo. Rimase profondamente turbato da quella sua reazione inspiegabile e, soprattutto, incontrollabile. Non era abituato a lasciarsi cogliere tanto di sorpresa dalle proprie emozioni. Aveva avuto molte fortune di cui sorprendersi, nella propria vita, ma quella non era il genere di meraviglia grata che gli era capitato di provare pensando a queste ultime; era qualcosa che la sua mente non era in grado di processare.
La ragazza si mosse, un passo alla volta, percorrendo la scalinata fino al portone. Aran fece appena in tempo a notare che dovesse essere stanca, prima che quegli occhi che tanto lo avevano colpito si posassero nei suoi. Il mondo cessò del tutto di esistere, qualcosa di inafferrabile baluginò nella sua mente; tutto nel giro del brevissimo istante in cui si trovarono uno di fronte all'altra.
Poi, sentì Darragh dire qualcosa, prima di rivolgersi a lui direttamente con molta poca delicatezza: «Aran?... Aran, diamine!»
Ritornò presente a se stesso tutto di un colpo, rammaricato di quel suo attimo di defezione; si aspettò di trovare un'espressione divertita da parte della loro ospite, ma tutto ciò che vide fu un riflesso del proprio stesso smarrimento. Con non poca confusione, realizzò che Darragh aveva già porto le proprie presentazioni alla giovane e che lui doveva fare altrettanto.
«Aran di Errania», riuscì a mala pena a tirar fuori. «È un onore fare la vostra conoscenza.»
Un breve e rispettoso cenno del capo precedette le parole della ragazza. «Freya, figlia di Eleana e Harden. L'onore è mio.»
Malia sembrava aver già ricevuto precise istruzioni, al contrario di loro che si erano dovuti presentati così,   su due piedi, perciò condusse Freya all'interno. Aran rimase lì, piantato sul gradino, almeno fino a che Darragh non lo afferrò per un braccio con veemenza, altro tratto caratteriale che non li accomunava. Erano cresciuti insieme, come veri fratelli, nonostante non condividessero una sola goccia di sangue; eppure, erano completamente diversi.
La mancanza di tratti somatici in comune non sorprendeva, considerando l'adozione di Aran: lui non aveva gli stessi lineamenti marcati, né gli stessi occhi azzurri e capelli castani di Darragh. Quest'ultimo, poi, era alto e imponente, mentre Aran era leggermente più basso e asciutto, anche se ugualmente forte; spesso i loro duelli di allenamento finivano in una sfinita parità. Lo stesso, però, si poteva dire delle loro personalità, paragonabili solo al giorno e alla notte; erano molte le volte in cui si ritrovavano a discutere per le differenti opinioni. Certe volte, risultava difficile capire cosa li tenesse tanto uniti.
«Non sarà bastata la vista di una bella fanciulla a rammollirti» lo canzonò Darragh, in tono malizioso.
Aran si divincolò dalla sua presa ferrea e per tutta risposta si limitò ad acquisire un'espressione impenetrabile. Non avrebbe mai dovuto perdere il controllo in una simile maniera, si rimproverò. Era stato educato per affrontare qualsiasi situazione con calma e raziocino, che si trattasse di amministrazione, combattimento o sentimenti; poco importava che un simile modo di fare non fosse nelle sue corde. Se gli fosse stato concesso di essere se stesso forse sarebbe stato più aperto e ironico, così com'era con le persone che lo conoscevano davvero, ma era qualcosa che non si poteva permettere con tutti.
Ostentando un'aria sicura e tranquilla seguì i passi del corteo che stava accompagnando la giovane, Freya, verso la Sala del Trono, dove un giorno Darragh sarebbe seduto come Re del Regno di Rìagan. Quell'attimo di debolezza non avrebbe dovuto ripetersi mai più.


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Mettere un piede davanti all'altro: era tutto ciò che doveva fare per raggiungere la sua meta.
Eppure, la mente di Freya vagava molto lontano da lì e a ogni passo doveva sforzarsi per non voltarsi indietro, là dove sapeva che il ragazzo dagli occhi grigi la stava seguendo. Non senza un certo imbarazzo, dovette ammettere a se stessa che non aveva fatto altro che guardare lui, mentre saliva la scalinata; solo il suo senso dell'equilibrio sviluppato le aveva impedito di inciampare nei gradini di pietra.
Cercò di dirsi che quella reazione fosse dovuta semplicemente al fatto che, prima di allora, non avesse mai avuto a che fare con molti ragazzi della sua età, ma sentiva che in fondo sarebbe stata una bugia. C'era qualcosa, in lui, qualcosa che l'attirava inesorabilmente e le faceva perdere in qualche modo l'orientamento. La giovane sapeva perfettamente che quella era l'ultima cosa di cui avesse bisogno, in quel momento, ma sembrava che al suo cuore non importasse affatto: la sensazione che aveva provato il primo istante in cui il suo sguardo si era posato su di lui era ancora lì, ben presente e poco intenzionata ad andarsene.
Dopo quella che parve un'eternità, il percorso di corridoi lungo il quale era stata condotta sembrò terminare; di fronte a lei stava solo un'altra immensa porta, magistralmente decorata e intarsiata. Prima che potesse anche solo cercare di capire quale disegno gli artigiani avessero deciso di seguire, i pesanti battenti vennero spalancati da due guardie in casacca viola, armate di alabarde dall'aria letale. Solo allora si rese conto di non aver pensato a nulla da dire, di non aver progettato come nascondere alla donna più temibile di Finian che di lei ancora non si fidava. Deglutì a vuoto, in ansia, e capì che forse il problema principale sarebbe stato più che altro riuscire a dire una qualunque cosa: aveva la gola così secca che iniziò a temere che la voce le sarebbe uscita strozzata, o peggio, non ne sarebbe uscita affatto.
Ciò che vide, però, non fu ciò che si era aspettata. O meglio, chi si era aspettata. La Sala del Trono era magnifica, con i suoi muri ricoperti di arazzi e il soffitto decorato da uno stupendo mosaico di marmo e gemme. Sulla parete in fronte alla porta, sollevato su un gradone di pietra, c'era il trono: era imponente, adornato da pietre di onice, ossidiana e ametista e foderato da morbidi cuscini di seta viola scuro. Freya fu perfettamente in grado di coglierne ogni dettaglio, perché era vuoto.
Una figura solitaria stava a lato dell'alto scranno, ma sicuramente non si trattava della Regina; era anzi un uomo, vestito di nero e viola dalla testa ai piedi. La sua tunica recava lo stemma di Mirea. Si avvicinò a loro, le mani intrecciate dietro la schiena dritta come un fuso e nessuna espressione in volto. Una scarica di terrore puro l'attraversò, come un terribile e ambiguo presagio, ma Freya riuscì in qualche modo a ignorarla e a impedirsi di fare un passo indietro.
«Dunque, ecco la figlia della più potente Incantatrice che la nostra Regina Mirea abbia mai avuto al suo servizio. Non so esprimervi quale onore sia conoscervi» esordì l'uomo, prendendo la mano della giovane fra le sue e baciandone il dorso. La sua galanteria le parve esagerata,quasi artefatta.
«Il mio nome è Freya. Ringrazio la Regina Mirea per la generosa ospitalità che mi ha offerto»rispose la ragazza, riuscendo a ritrovare la parola. Quella brutta sensazione non se ne andò nemmeno quando fu riuscita a ritirare la mano; sapeva di non poter giudicare a quel modo una persona con cui aveva scambiato a mala pena due battute, ma non poté evitare di trovare qualcosa di sinistro in quell'individuo.
«Il mio nome è Gorman, Lady Freya. Sono il Primo Consigliere della Regina» si presentò lui, un sorrisetto sulle labbra che non raggiunse mai gli occhi. Distolse l'attenzione da lei solo per rivolgere uno sguardo alle sue spalle; Freya ebbe l'impressione che si stesse interrogando sulla presenza dei due ragazzi.
«Malia, la vostra ancella, vi condurrà negli appartamenti che vi sono stati messi a disposizione, così che possiate prepararvi» le annunciò poi, tornando a guardarla. «L'incontro con la nostra Signora avverrà non appena vi sarete ripulita dalla polvere del viaggio.»
Gorman fece un cenno alla donna che l'aveva accolta all'entrata del castello e lei le rivolse un breve sorriso, inchinandosi con deferenza. «Sarò lieta di essere a vostro servizio» le disse, tenendo lo sguardo basso.
Freya si domandò come si potesse pretendere che qualcuno fosse felice di dover servire qualcun altro e fu tentata di dir loro che non vedeva la necessità di avere un'ancella. Non era però certa di come sarebbe stata accolta una simile esternazione, perciò decise di contenere il proprio disappunto. Senza toccarla, la donna le fece gentilmente segno di seguirla verso l'uscita.
La giovane si voltò e si trovò a rivivere l'insolito tuffo al cuore già avvertito in precedenza. Stordita da quello strano miscuglio di emozioni, sulla scalinata, non aveva osservato null'altro che il volto di quel ragazzo. Solo in quel momento riuscì finalmente ad avere una sua immagine d'insieme: era più alto di lei, anche se non di molto, e la sua pelle era più scura di quella di chiunque avesse visto fino ad allora, quasi olivastra. Aveva i capelli non troppo corti, neri e ricci, che gli cadevano a volte sugli occhi, l'unica cosa di cui avesse notato lo splendente colore: grigio ardesia, prima acceso da una luce che ora sembrava sparita dietro una maschera di rigida compostezza.
Sia lui che l'altro ragazzo, Darragh, le rivolsero un leggero inchino prima che uscisse, gesto che lei cortesemente ricambiò. Lo sguardo penetrante di Aran fu l'ultima cosa che sentì su di sé, prima che le porte della Sala del Trono si richiudessero alle sue spalle.

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 5 - Attesa ***


CAPITOLO 5
- ATTESA -



Dovettero passare per talmente tanti corridoi e scalinate che alla fine Freya perse il senso dell'orientamento, tanto da non capire più nemmeno in quale lato del palazzo si potessero trovare. Per lei, abituata a poter trarre punti di riferimento dalla natura e a saperli interpretare, fu davvero frustrante ritrovarsi in condizione di non avere la minima idea di dove andare senza una guida. In ogni caso, non poteva fare assolutamente nulla in proposito, perciò impiegò quel tempo nell'ammirare tutto ciò che il suo occhio poteva catturare.
In quel luogo non c'era assolutamente nulla che le ricordasse quello che aveva già visto durante il viaggio attraverso le terre di Riagàn; il castello era immenso, tenuto in piedi dalla maestria di costruttori la cui vita apparteneva a un tempo oramai lontano. Poteva sembrare assurdo, ma dall'interno si riusciva a percepire ancor di più la vastità della struttura: i corridoi, illuminati dalla luce di bracieri perfettamente intervallati, arrivavano a toccare altezze che Freya aveva sempre trovato solo negli alberi. Estremamente meravigliata, si domandò per l'ennesima volta come qualcosa fatto di un materiale tanto pesante potesse ergersi con una simile leggiadria. Numerose porte scorrevano davanti ai suoi occhi, sollecitando inevitabilmente la sua curiosità; sperò davvero che le venisse concesso di esplorare quanto più possibile. Mentre lei imparava a conoscere l'ambiente che sarebbe divenuto la sua nuova casa, il loro percorso continuò fino a raggiungere quella che Freya ipotizzò essere l'entrata a una delle torri.
Quando varcò la porta che Malia le aveva indicato, la ragazza rimase a bocca aperta. Si trattava di una camera circolare, occupata da un grande camino pronto per essere acceso e un salottino confortevole, fornito di poltroncine e di una piccola biblioteca personale. Una grande finestra, oltre cui s'intravedeva solo il tramonto oramai al culmine, si apriva sull'ambiente; in uno slancio d'immaginazione, Freya riuscì a figurarlo inondato dalla calda luce del sole al mattino. Tre gradini in legno portavano alla pedana sopraelevata su cui posava un meraviglioso letto a baldacchino, di quelli che lei non aveva mai visto: era trapuntato da lenzuola candide e da calde coperte di un blu profondo, la cui tonalità era ripresa nelle tende. Ai piedi di quest'ultimo stava un baule che avrebbe potuto contenere tranquillamente dieci volte la roba che la ragazza aveva portato con sé. In fondo, quasi nascosta, s'intravedeva una piccola porticina che sembrava condurre a un locale adiacente. Era leggermente socchiusa e da quello spiraglio proveniva un profumo delicato ma persistente, molto simile a quello dei gigli di bosco che sua madre raccoglieva in primavera.
«Quella è la stanza da bagno dove potrete rinfrescarvi. Ho già preparato una tinozza d'acqua calda profumata con sali da bagno, sperando che sia di vostro gradimento» disse Malia. «Quando avrete terminato sarò felice di aiutarvi a indossare l'abito che avrete scelto e ad acconciarvi i capelli.»
La ragazza rivolse alla donna un sorriso grato. Lei sembrò presa alla sprovvista da quel gesto e, un pò interdetta, si congedò con una breve riverenza.
Spossata per il viaggio, Freya rimase immersa nella tinozza per molto tempo, fino a che l'acqua non divenne fredda e perse quasi completamente la sua fragranza. Uscì non appena sentì dei leggeri brividi correrle lungo le braccia; rinfrancata, si avvolse in un telo di lino, scaldato appositamente per non farle patire il freddo, e raggiunse la piccola specchiera posta in un angolo della stanza. Era abituata a lavarsi nella gelida acqua del fiume, presso una lama in cui nuotava con sua madre quando era piccola; amava molto quel luogo, ma dovette ammettere che poter usufruire di acqua calda e sali profumati fosse una bella sensazione.
Si asciugò con cura, poi, sentendo le gambe pesanti per la fatica accumulata dalle tante ore in sella, decise di sedersi sullo sgabello posto davanti allo specchio. Osservò la propria immagine riflessa, che non fece altro che rimandarle il suo stesso sguardo. Nella casa sull'albero era presente un solo specchio, oramai rovinato e sbeccato, a cui lei non prestava attenzione praticamente mai. Era la prima volta che si concedeva un attimo per guardare un pò più a lungo il proprio volto e si sorprese nel constatare che assomigliava moltissimo a Eleana; ora che ne aveva nuovamente un ricordo piuttosto nitido le risultava evidente.
Lo strano pensiero che, in quel modo, sua madre l'avrebbe riconosciuta se si fossero mai riviste la colse impreparata; era convinta di aver perso quel tipo di speranze già molto tempo prima. Un nodo le serrò la gola e lei fece di tutto per mandarlo giù. Non era più la bambina che aveva passatole sue serate ad aspettare la madre al freddo; era cresciuta e, per quanto potesse risultare triste, la vita che aveva condotto fino a quel momento l'aveva resa certo più forte, ma l'aveva anche indurita. La sua versione adulta sapeva perfettamente che perdersi in fantasticherie come quelle non avrebbe fatto altro che renderla debole e che la debolezza avrebbe aperto spiragli a chiunque avesse voluto farle del male. Non avrebbe mai smesso di amare Eleana, ma non poteva permettersi di sperare che un giorno sarebbe tornata a far parte della sua vita. Semplicemente non poteva. Persa in quelle riflessioni angosciose, quasi non si accorse che lentamente la porta si stava aprendo.
Malia entrò con passo leggero, reggendo fra le mani fini una bottiglietta colma di un liquido ambrato; perfino quel piccolo oggetto sembrava prezioso. «Vedo con piacere che vi sentite meglio. Se me lo permetterete, ora vi aiuterò a decidere come abbigliavi e acconciarvi» disse gentilmente, posando il flaconcino sul mobile della specchiera.
«Oh, non voglio farti perdere tempo. Posso cavarmela» rispose Freya con un sorriso, pensando a quanto fosse assurda l'idea che qualcuno dovesse aiutarla a vestirsi.
«Perdere tempo, Mia Signora? Io sono qui per questo» rispose Malia, sorpresa, come se nessuno le avesse mai detto nulla del genere. I suoi occhi nocciola erano sgranati e, spalancati in quel modo, sembravano ancora più grandi di quanto già non fossero.
Passò solo un'istante prima che Freya capisse l'assurdità di ciò che aveva appena pensato. Certo che nessuno le aveva mai detto una cosa simile: lei abitualmente serviva signore che probabilmente non contemplavano nemmeno l'idea d'infilarsi un anello da sole.
«Inoltre, posso garantirvi che indossare un busto non è così facile come potrebbe sembrare» aggiunse la donna, prendendo un altro panno di lino ripiegato con cura sul mobile accanto alla tinozza. Le si avvicinò con discrezione e delicatamente prese a tamponarle i lunghissimi capelli.
Senza che Freya sene accorgesse, l'acqua di cui si erano impregnati durante il bagno aveva iniziato a gocciolare, lasciando una piccola pozza sul pavimento di legno. La ragazza si affrettò a scusarsi con Malia per quel piccolo disastro, ma l'ancella la rassicurò, guardandola ancora con l'espressione di chi non è abituata a ricevere scuse di alcun genere. Quando ebbe asciugato il pavimento e frizionato ancora un poco la chioma della giovane, la donna tornò a prendere la bottiglietta.
«Quest'olio viene estratto da una rara orchidea spontanea e rende i capelli morbidi e profumati. Molte nobildonne lo usano» le spiegò, iniziando ad applicarlo sui lunghi capelli oramai appena umidi.
Nobildonna, pensò Freya. Quel termine strideva in maniera quasi violenta con il suo essere, ma rimase in silenzio e aspettò che Malia avesse terminato.
Prima di dare una forma alle sue ciocche disordinate, la donna la condusse nella stanza principale per dedicarsi alla scelta dell'abito. L'ancella aprì il baule sul fondo del baldacchino e iniziò a estrarre alcuni vestiti dalle trame elaborate, forse fin troppo. Ne vagliò alcuni e infine glie ne porse uno sui toni del rosso; la faccia di Freya dovette essere eloquente, perché Malia sorrise e decise immediatamente di scartarlo.
Quel baule conteneva più abiti di quanti ne avrebbe mai potuti indossare in una vita intera, ma per quanto potessero essere belli Freya non riusciva a immaginarsi con nessuno di essi. Solo arrivando verso il fondo iniziarono a spuntare stoffe dai colori più sobri e finalmente la giovane riuscì a individuare quello che sembrava fare al caso suo. Lo mostrò a Malia: era un vestito color smeraldo con lemaniche all'avambraccio e lo scollo rettangolare, il tutto bordato di ricami filigranati d'argento. Anche la gonna e il corpetto erano ricamati d'argento, ma i fili seguivano un disegno che ricordava i rami di un albero, decorati da foglie punteggiate di piccole pietruzze che brillavano controluce. Quando lo sollevò dal baule, l'ancella cambiò espressione. Un sorriso malinconico le affiorò sulle labbra.
«Non è adatto?» chiese la ragazza, cercando di interpretare i sentimenti della donna.
Lei scosse il capo. «No, al contrario... È molto appropriato. Solo, non credevo che foste così simile a vostra madre...» mormorò.
Freya sentì i propri occhi spalancarsi. «Conoscevi mia madre?» domandò, con voce tremante.
«Io prestavo già servizio a corte, quando vostra madre giunse qui; avevo iniziato da molto giovane con mia madre e dopo la sua morte ne avevo preso il posto» spiegò Malia. «Eleana era una donna fuori dal comune, trattava con la stessa gentilezza chiunque incontrasse, portasse vesti signorili o un grembiule da servitore. Ricordo ancora quando l'aiutai a indossare questo abito.»
Freya sorrise, nonostante il mare di emozioni che le si agitava dentro, e si avvicinò alla donna. «Grazie per avermi restituito un pezzetto di mia madre, grazie mille. Sarò onorata di portare un abito appartenuto a lei e che tu l'hai aiutata a indossare» rispose, sincera.
Malia la guardò ancora una volta meravigliata, ma presto sembrò riprendersi e prese a ritirare con ordine il resto dei vestiti. Quando ebbe terminato si rivolse nuovamente a lei, questa volta lasciando cadere un pò il suo tono formale: «Vorrei che vi fosse concesso il tempo di riposare, ma Sua Signoria Gorman mi ha informata che la Regina vi darà udienza in un paio d'ore al massimo ed è necessario che siate pronta per allora.»
Più che stanca, Freya si sentiva dolorante e l'ansia per l'incontro imminente non le avrebbe concesso di chiudere occhio neanche per un istante, perciò rispose alla donna di non preoccuparsi e fare ciò che andava fatto. Indossare quell'abito fu molto meno facile del previsto e al termine dell'operazione dovette ammettere che senza l'aiuto di Malia non ne sarebbe mai stata in grado. Il corpetto le stringeva il busto in una presa che quasi le faceva mancare il respiro, niente a che vedere con la comodità a cui era abituata. Nonostante quel piccolo e fastidioso particolare, il vestito sembrava esserle stato cucito addosso: cadeva alla perfezione, dallo scollo argenteo alla cintura sottile che le cingeva la vita.
L'ancella passò poi gli attimi successivi a intrecciarle i capelli e quando ebbe terminato, Freya rimase a bocca aperta. Le aveva raccolto la parte superiore della chioma in una complicata treccia, decorata da spilloni sormontati da piccole rose in smeraldo, niente a che vedere con la sua solita crocchia disordinata; la parte inferiore le ricadeva libera lungo le spalle. Quasi non si riconosceva in quella strana persona che la guardava dallo specchio, ma le bastò intravedere la consueta scintilla nei propri occhi per sapere di essere sempre lei: non si sarebbe lasciata fagocitare da quel mondo dorato, non avrebbe mai perso se stessa, giurò in quel preciso istante. Dovessero prometterle tutto l'oro del Regno di Rìagan.
«Sei stata veramente... formidabile» si congratulò con Malia, anche se non aveva la minima idea di come avrebbe dovuto apparire una ragazza di corte.
Nel mentre, la donna aprì uno dei bauletti sulla specchiera e da esso estrasse un medaglione d'argento sostenuto da una catena lunga una quindicina di pollici. Era decorato da pietre conosciute e attraversato da intarsi d'oro che, con le loro linee sinuose, andavano a comporre uno sconosciuto disegno. Non appena Malia glielo ebbe appeso al collo, Freya lo sollevò all'altezza degli occhi e osservò meglio le gemme: sette di esse erano disposte in cerchio attorno all'ottava, incastonata nel centro esatto del medaglione. Il suo cuore ebbe un sussulto, mentre le sue dita stringevano il ciondolo fino a sbiancare: si trattava di un granato, identico a quello della sua visione notturna e circondato dalle stesse pietre che anche nel sogno lo attorniavano. Solo una non c'entrava nulla, un topazio giallo come il sole.
Tornò presente a se stessa quando Malia la prese per le spalle e la fece voltare per ammirare la propria opera. «Abbiamo finito» annunciò, aggiustandole l'abito sulle spalle. Poi, aggiunse: «Vi piace il medaglione?»
«Sì, è meraviglioso. Cosa ritrae?» domandò a propria volta Freya, sperando che in qualche modo la risposta avrebbe aperto uno spiraglio nei suoi sogni agitati.
«Vostra madre lo perse il giorno della vostra scomparsa. La Regina Mirea in persona ha chiesto che ve lo dessi. Non ho davvero la minima idea di che disegno sia, ma sono certa che avesse un significato importante per lei; non lo toglieva mai.»
Freya rigirò il medaglione fra le dita, questa volta con delicatezza, cercando di scacciare la delusione; il triste sentimento se ne andò solo nel pensare a tutte le cose di Eleana, materiali e non, che stava riuscendo lentamente a recuperare. Doveva considerarla una grande conquista.
La lunga attesa che seguì le mise addosso una certa dose d'inquietudine. Restò seduta sulla poltrona posta davanti al fuoco, guardandosi intorno e facendo scorrere la catenina del medaglione fra i polpastrelli. Sentiva la propria gola seccarsi sempre più, mentre nella sua mente andava a formarsi un vuoto a cui non era abituata; non riusciva a immaginare nessun possibile scenario per l'imminente incontro, né tanto meno qualcosa di più superficiale, come l'aspetto che potesse avere la Regina Mirea.
Era talmente persa nella propria agitazione che quando Malia parlò non poté impedirsi di sobbalzare. «Desiderate che sistemi le vostre cose, Milady?» le domandò, indicando con un cenno della mano le bisacce di Freya, posate in un angolo della stanza.
La giovane, grata per quella piccola distrazione, scosse il capo. «Ti dispiacerebbe se me ne occupassi io?» rispose, temendo in qualche modo di offenderla; dopotutto, era il suo lavoro.
Malia le rivolse un sorriso. «Come preferite, Lady Freya. Potrete riporle nel baule che troverete sotto la finestra.»
Freya ringraziò ancora una volta l'ancella, poi tornò ad aspettare. Il tramonto si stava oramai disperdendo nel buio quando tre colpi risuonarono attraverso la pesante porta di legno; dopo il suo assenso, Malia aprì il battente e Gorman fece il proprio ingresso nella stanza. Gli occhi gelidi dell'inquietante uomo si fissarono su di lei.
«La nostra Signora Mirea desidera conferire con voi» comunicò con voce incolore. «Noto con piacere che vi siete abbigliata in maniera più consona a un colloquio con la Regina.»
Per qualche ragione, Freya ebbe la sensazione di non piacere affatto a Gorman: lo avvertiva nel suo tono piccato. Probabilmente le dimostrava quella parvenza di cortesia solo perché gli era stata imposta, ma non sarebbe mai stato contento della sua permanenza lì; forse, non la riteneva degna di un posto a corte.
Dopo un altro sguardo al suo abbigliamento, da cui, a giudicare dall'attento esame a cui veniva sottoposto, sembrava dipendere la reputazione stessa di Gorman agli occhi della Regina, il Consigliere sembrò decidere che fosse il momento di andare. «Seguitemi, prego» la esortò, aspettando che lei varcasse la soglia prima di richiudere la porta alle loro spalle.
Percorsero nuovamente la strada dell'andata, i loro passi che rimbombavano nei vuoti corridoi illuminati dalla luce delle fiaccole. Per tutto il tragitto Gorman si prodigò nell'elencare una dettagliata lista di tutto ciò che avrebbe o non avrebbe dovuto fare in presenza della Regina; era una marea di informazioni, ma Freya si sforzò di incamerarne il più possibile. Fu solo davanti alla porta della Sala del Trono, dove era stata solo poche ore prima, che si rese conto che finalmente stava per accadere: avrebbe incontrato la donna più potente e terribile di Finian, con tutta probabilità unica persona a sapere la verità sulla storia della sua famiglia.
Solo un pensiero fu capace di arginare l'improvvisa paura che la stava per inghiottire: in un modo o nell'altro, la sua vita era già cambiata, il suo mondo era già stato stravolto. Gli ingranaggi si erano oramai messi in moto e non c'era più modo di fermarli; non poteva più ripensarci, non c'era possibilità di tornare indietro. A dirla tutta, non voleva tornare indietro, perciò non c'era più alcun motivo di esitare.
Le porte si spalancarono e, accompagnata da Gorman, varcò la soglia di quella sala per la seconda volta in un solo giorno e in tutta la sua vita.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 6 -La Regina ***


CAPITOLO 6
- LA REGINA -



Il salone era ampiamente illuminato e la luce dei fuochi mostrava perfettamente i decori e il vuoto assoluto della stanza. Il silenzio era irreale. Non sapeva bene cosa si aspettasse, forse di trovarsi davanti un paggio in casacca di velluto che annunciasse di fronte a chi si sarebbe dovuta inchinare e una folla di dignitari, come nelle ballate scritte nei libri di sua madre. Invece non c'era nessuno, almeno a prima vista.
Avanzò lentamente nel vasto spazio che la circondava, seguendo il percorso tracciato da un lungo tappeto di tessuto viola, e lasciò che i suoi occhi catturassero quanti più dettagli potessero: la preziosità degli arazzi e l'elaboratezza delle lampade in ferro lavorato; la bellezza delle finestre in vetro colorato; ancora una volta, la maestosità del mosaico incastonato nel soffitto da mani abili. Incantata da tanta meraviglia, posò lo sguardo sul fondo della stanza solo quandolo ebbe quasi raggiunto. Questa volta, notò con un nodo allo stomaco, il trono era occupato.
Quando vide la Regina comprese perché quella donna non avesse bisogno di nessuno che recitasse tutti i suoi innumerevoli titoli per intimorire gli astanti. Sedeva sul trono con portamento austero e autoritario, vestita di seta blu scuro e avvolta in un mantello viola come i suoi stendardi, bordato di filigrana d'oro. La sua figura era snella, messa in evidenza dalla perfetta postura; il viso, appuntito e dai lineamenti spigolosi, era incorniciato da lunghi capelli neri e mossi, sormontati da una corona di uno strano metallo bianco traslucido, tempestata di gemme. In tutto questo, però, a colpire Freya come un pugno allo stomaco furono i suoi occhi: erano color del ghiaccio, così penetranti che sembrarono trapassarla da parte a parte. Nella sua mente, per un solo attimo, comparve l'immagine della figura incappucciata dei suoi incubi. Solo grazie a tutta la propria forza di volontà resistette all'impulso di fermarsi lì, nel bel mezzo della sala, e a raggiungere la base del gradone su cui posava lo scranno.
La Regina Mirea la scrutò con occhio indagatore ed estremamente attento per un istante che parve eterno, poi si alzò e si diresse verso di lei. Freya ebbe un fremito, non seppe dire se di paura o solo per l'ansietà; lo scacciò rapidamente, ricordandosi ancora una volta il motivo per cui era arrivata fin lì: trovare delle risposte. La sua vita era stata un circolo infinito di domande senza alcun esito, era giunto il momento di farla finita con quella catena di incertezze.
«Benvenuta alla mia corte, Freya. Sei talmente simile a tua madre da farmi sembrare di avere la mia cara amica ancora accanto» disse infine, rompendo il lungo silenzio. La sua voce era forte, stentorea; quella donna sembrava in grado di guidare un intero esercito come e più di un uomo. «Eleana è stata la più potente Incantatrice che abbia mai fatto parte delle mie schiere, oltre che una leale confidente; tuo padre, Harden, uno dei miei più fidati e competenti generali. Tu sei l'unica cosa che resta di loro e per questo riceverai qui ogni riguardo che riservai a loro. Questo è un giorno importante. Oggi prendi il posto che ti spetta.»
Freya cercò di riportare alla mente il lungo discorso che le aveva fatto Gorman appena qualche attimo prima, ma la sua memoria sembrava essersi completamente svuotata, perciò si limitò a un educato: «Vi ringrazio di cuore per l'ospitalità che mi avete dimostrato, Vostra Maestà.» Piegò poi le ginocchia in una breve riverenza, senza però abbassare il capo come forse avrebbe dovuto fare. Proprio non le riuscì.
Mirea tornò verso l'immenso trono, ma non si sedette; le diede le spalle appena il tempo necessario per raggiungerlo, poi tornò a piantare gli occhi di ghiaccio nei suoi. «Ho saputo che hai già avuto occasione di conoscere Darragh e Aran, i miei eredi. Spero siano stati cortesi e ti abbiano fatta sentire la benvenuta, al tuo arrivo» disse solamente.
La giovane fu colta alla sprovvista da quell'esternazione, ma si affrettò a rispondere: «Sono stati molto gentili con me, mi hanno perfino scortata fino a incontrare il vostro Consigliere.» Evitò naturalmente di rivelarle che uno dei suoi figli le avesse fatto lo stesso effetto che le avrebbe fatto precipitare in caduta libera da uno strapiombo; si ritrovò a sperare con tutta se stessa di riuscire a comportarsi normalmente con Aran, quando lo avesse rivisto.
La Regina si produsse in un sorriso enigmatico, tanto che Freya si ritrovò a temere che le avesse letto nel pensiero. Si tranquillizzò solo quando Mirea si limitò a concludere il discorso. «Sono certa che avrete modo di approfondire la vostra conoscenza nel corso della tua permanenza qui. Ora, è il momento di affrontare un argomento molto meno piacevole, seppur necessario.»
Freya sentì tutti i propri muscoli contrarsi, come se il suo corpo si stesse preparando ad affrontare un qualche tipo di scontro. D'improvviso, ebbe l'impressione di non essere abbastanza forte per sopportare l'oceano di nuova consapevolezza che l'avrebbe travolta; forse aveva mentito a se stessa, pensando di esserne in grado. L'unico modo che aveva per scoprirlo era lasciare che Mirea raccontasse. Raddrizzò le spalle, volse la sua completa attenzione alla Regina e annuì per dare il proprio consenso.
«So che sei qui soprattutto perché ci sono molte domande che hai bisogno di pormi, Freya» esordì la sovrana, tornando finalmente a sedersi. A quel gesto la quiete della sala fu brevemente interrotta dal fruscio di seta contro seta. «Sono sicura che tu voglia sapere da me molte cose. Non esitare, parla pure liberamente. Voglio che tu non abbia più nemmeno l'ombra di un dubbio sulle grandi persone che sono state i tuoi genitori.»
La ragazza tentennò solo un istante, alla ricerca delle parole giuste con cui esprimersi. «La storia dei miei genitori, per me, è un mistero. Fino a pochi giorni fa credevo che le foreste fossero sempre state la nostra casa; ero a conoscenza solo del fatto di aver perso mio padre e di avere solo mia madre al mondo.» La voce le s'incrinò leggermente, ma continuò. «Non potevo immaginare che fosse avvenuto così tanto altro, prima della mia nascita. L'unica cosa che vorrei è la verità sulle mie origini, su ciò che mi ha portata a essere quello che sono» concluse, una sensazione di vuoto allo stomaco che le lasciò una spiacevole nausea.
«Sarò lieta di raccontarti ogni cosa fin dal principio, che coincide certamente con l'arrivo di tua madre qui» rispose la Regina alle sue richieste, prima di immergersi nella storia.
La mia storia, pensò Freya.
«Tua madre era una potente Incantatrice, capace di incanti superiori a quelli della maggior parte di chiunque altro avessi mai incontrato. Quando si trovò ad attraversare le mie terre non passò perciò inosservata, nonostante sapesse perfettamente come mascherare i propri lineamenti elfici.»
Freya si ritrovò a osservare le mani di Mirea, che la Regina teneva giunte in grembo: pallide e salde, nemmeno il più piccolo tremito le attraversava.
«Inviai un contingente a rintracciarla, esattamente come ho fatto con te, a capo del quale v'era proprio tuo padre. Avevo bisogno di Incantatori fuori dal comune per realizzare i miei progetti.» Sorrise leggermente, come immersa in un ricordo, ma Freya non si lasciò distrarre: non sapeva ancora quanto di vero ci sarebbe stato in ciò che le avrebbe detto e doveva registrare ogni singolo particolare. Il primo fu certamente quella parola, progetti. Sentiva che non avrebbe dovuto dimenticarla.
«Quando arrivò qui, aveva il tuo stesso sguardo diffidente: i popoli mi hanno odiata a lungo e sono a conoscenza della loro longevità e lunga memoria. Sono troppi decenni che le nostre antiche divergenze mi hanno costretta a rinunciare a qualunque contatto» proseguì la Regina Mirea. Freya quasi trasalì. Non si sarebbe mai aspettata che ne parlasse tanto apertamente. «Tuttavia, Eleana accettò la mano che le tendevo. Il nostro colloquio durò per ore. Mi ascoltò attentamente, come io ascoltai lei; era una donna intelligente, curiosa di scoprire cosa potesse celarsi al di là delle apparenze. Si dimostrò realmente aperta all'eventualità che i miei progetti potessero rappresentare la pace e l'unità che Finian da sempre agogna. Le diedi tutto il tempo di cui aveva bisogno per prendere la sua decisione, tempo in cui ebbe sempre la possibilità di andarsene, se l'avesse voluto. Eleana non lo fece e, infine, accettò di unirsi a me.»
Le sue parole vennero accompagnate da un'occhiata penetrante quanto un dardo. Freya rabbrividì nuovamente: a quanto sembrava non era riuscita a nascondere i propri pensieri tanto bene quanto avrebbe voluto. Forse, non sarebbe mai stata in grado di accostarsi nemmeno a quella sottile sfumatura del mentire.
«L'amore fra Harden ed Eleana sbocciò immediatamente» proseguì Mirea, tornando al racconto.  «Era tanto intenso che fu fin da subito ben chiaro a tutti quanto lo era la luce del sole. Si sposarono dopo tre anni che lei ebbe messo piede qui la prima volta e, in occasione delle nozze, donai loro una grande casa locata nella parte alta di Errania; non ho mai negato ai miei collaboratori il diritto di costruirsi una propria vita al di là dei loro doveri a corte. Trascorsero cinque anni prima che nascessi tu; i tuoi genitori faticarono non poco ad averti. Non potrei descriverti la loro gioia per il tuo arrivo nemmeno se lo volessi, non esistono parole adeguate.»
Freya provò a immaginarsi tra le braccia di entrambi i propri genitori, ma come sempre non ci riuscì. Era difficile per lei, abituata ad avere un genitore soltanto o a essere semplicemente sola, pensare alla famiglia che avrebbe potuto avere se le cose fossero andate diversamente. Comunque sorrise, immaginando una gioia tale, nei loro cuori, da non poter essere contenuta.
La domanda lasciò spontanea le sue labbra: «Come... Loro com'erano, con me?»
Gli occhi della Regina si spalancarono e la donna la osservò per l'ennesima volta con un'espressione che Freya non avrebbe saputo decifrare. Ebbe la sensazione di averla colta alla sprovvista. «Erano di una dolcezza e una dedizione senza pari. Tu, Freya, eri il loro più grande tesoro; Eleana e Harden avrebbero fatto qualunque cosa, per te» rispose, rivolgendole un sorriso enigmatico tanto quanto la sua precedente reazione.
Quell'attimo di bei ricordi, però, svanì presto; il volto di Mirea si fece scuro. «Non passò molto tempo, prima che accadesse la disgrazia. Purtroppo, mi stavo tenendo accanto dei traditori senza nemmeno esserne a conoscenza, tanto erano, con mio disappunto, divenuti abili. Non tutti erano d'accordo con la pace che volevo garantire e l'equità che desideravo: c'era chi credeva che dovessimo governare col pugno di ferro, non concedere alcun tipo di libertà» proseguì, mentre una terrificante durezza s'impossessava della sua voce. «Fu in una notte d'autunno che i disertori decisero di insorgere e organizzare la loro prima incursione. Progettarono di attaccare i miei più fidati collaboratori, ucciderli a sangue freddo e successivamente prendere il potere.»
Senza saper bene perché, Freya trattenne il fiato; qualcosa di terribile stava per tornare a galla attraverso le parole della Regina e oscure immagini andavano a formarsi nella mente della giovane.
«Harden ed Eleana furono i primi. Cercarono di penetrare nella vostra casa con il favore del buio, ma avevano probabilmente sottovalutato la potenza di Eleana e i tuoi genitori riuscirono a scampare all'agguato; sono più che sicura che tua madre usò tutta la sua magia per proteggervi, perciò non poté far nulla contro i tre Incantatori che si erano alleati con i traditori. L'unica cosa che so con certezza è che quando io personalmente arrivai sul luogo dove avevano braccato tuo padre, infuriava una battaglia» proferì Mirea in tono grave. Le successive parole calarono su Freya con la forza di una mannaia, ineluttabili. «Gli Incantatori ancora fedeli a me provarono ad aiutarlo, ma gli insorti erano forti e determinati; in un modo o nell'altro persi molti uomini e donne, quella notte. La confusione era indescrivibile, impossibile da districare a occhi esterni e, in quel tumulto, Harden fu colpito da un incantesimo destinato al capo di quella assurda rivolta. Ne rimase ucciso. Quando riuscimmo a catturarne i fautori, ci rendemmo conto che tua madre era scomparsa, portandoti con sé.» Mirea si alzò e prese a camminare, come se l'asprezza di quel ricordo le impedisse di stare anche solo un minuto in più seduta sul trono con le mani nelle mani. «Li punimmo duramente» continuò, «soprattutto colui che ne era stato il fomentatore. Il suo tradimento fu il più ignobile che si potesse immaginare, poiché egli era cresciuto con tuo padre edera come un fratello, per lui.»
La Regina le dava le spalle, ma in quell'istante a Freya non importava di vederla in viso. Man mano che il racconto procedeva in tutta la sua crudezza gli occhi della ragazza si erano persi nel vuoto, offuscati da una cortina di lacrime che a tutti i costi voleva trattenere. Cercare di cogliere dettagli importanti nel discorso della Regina aveva perso ogni importanza. Suo padre era stato ucciso da un'Incantatore amico e, cosa ancora più straziante, a portarlo a quella morte era stato qualcuno che Harden amava come un fratello. Solo quello riusciva a pensare. Non le fu chiaro se la Regina Mirea avesse compreso cosa le infuriasse dentro, ma in qualche modo le sue parole successive giunsero a destinazione nonostante il velo di dolore che le stava lentamente calando addosso, rendendola sorda al mondo circostante.
«Per lungo tempo ho tentato di capire in che modo avessero spinto tua madre a fuggire o se, invece, vi avessero fatte in qualche modo sparire e ho cercato di rintracciare Eleana, in vano. Arrivai a temere che vi avessero uccise e avessero nascosto le tracce del loro efferato crimine, ma era un'ipotesi per me tanto straziante che rifiutai di cedervi» disse la Regina, tornando ad avvicinarsi a Freya. «Solo ora che finalmente sei qui trovo un pò di sollievo.» In un gesto inaspettato, Mirea posò le proprie mani sulle sue spalle, guardandola dritta negli occhi. «In nome di tutto ciò che Eleana fu per me, prometto che quando i tempi saranno maturi ti darò ciò che ti spetta: un posto al mio fianco, proprio dove fu tua madre» proclamò. Di fronte all'espressione sbigottita della ragazza, aggiunse: «Non appena sarai pronta, naturalmente; farò in modo che tu riceva la migliore delle istruzioni, in attesa di quel momento, e aspetterò con ansia di vedere se hai ereditato il grande potere che aveva lei.»
Freya non aveva più parole, ogni cognizione pareva essere scomparsa; perfino le ultime parole della Regina, seppur tanto importanti, cadevano nel nulla difronte alla sorte della sua famiglia. Aveva sempre creduto che, una volta scoperta ogni cosa, si sarebbe sentita immensamente sollevata; invece sentiva un peso ancor più grande gravarle addosso. Ingoiò le lacrime e, ancora una volta, alzò lo sguardo sulla sovrana di Rìagan.
«L'unica cosa che ho sempre desiderato era la verità e vi ringrazio di avermela restituita, per quanto possa essere tanto tragica» affermò solamente, incapace di dire altro.
«Dimostri una grande maturità nell'affrontare con tanta saggezza una così dura realtà, ma non mi sorprende; Eleana ha saputo crescerti nel migliore dei modi. Trovare anche lei, con te, sarebbe stata per me un'immensa gioia» ribatté Mirea. Nemmeno quella parola sciolse il suo sguardo implacabile. «La scoperta della sua assenza aggrava questo lieto momento e vorrei che mi raccontassi cosa le è accaduto, quando te la sentirai.»
Freya rispose in maniera automatica, quasi senza riflettere. «Non è una storia particolarmente lunga. È partita per un breve viaggio,quando io avevo nove anni, e non è mai più tornata.»
Nel caos che regnava all'interno della sua testa, riuscì a razionalizzare un solo pensiero: non era ancora pronta a rivelare a nessuno che un qualche potere in lei c'era. Sarebbe dovuta essere onesta, prima o poi, ma voleva prima capire con chi avesse a che fare.
La Regina Mirea si limitò al silenzio e non fece più alcuna domanda. Forse, avrebbe dovuto risultarle strano, ma in quel momento era l'ultimo dei pensieri della giovane.
«Quanto dolore hai già dovuto sopportare per la tua giovane età» commentò poco dopo la sovrana, lasciando che quelle parole aleggiassero nel silenzio che seguì. Poi, così com'era cominciato, il loro colloquio terminò. La Regina vi pose fine con poche e chiare parole: «Posso solo immaginare il tuo dolore, Freya. Dobbiamo però gioire, perché quest'oggi tu entri a far parte delle nostre vite. Onoreremo il tuo arrivo quando sarà opportuno. Fino a quel momento, sentiti libera di esplorare il castello e i suoi dintorni; troverai alcune macchie boscose non molto lontano da qui che ti faranno certamente sentire meno la nostalgia di casa.» Detto questo, tornò al suo trono.  «Per questa sera sarai riaccompagnata ai tuoi alloggi» aggiunse una volta seduta, in chiaro segno di congedo.
Freya si sentì piegare leggermente le ginocchia in un inchino, ma non seppe da dove fosse giunto quel comando al corpo; non riusciva a formulare un solo pensiero razionale. Si voltò verso la porta a testa alta, cercando di far fronte alla marea di emozioni che l'aveva travolta con quella saggezza e maturità che la Regina le aveva riconosciuto. Solo quando qualcosa finalmente si mosse nella sua mente si fermò ancora un istante.
«Vorrei solo... solo sapere se mio padre possiede una tomba. L'unica cosa che desidero è rendergli omaggio» chiese in un lieve sussurro.
Mirea si voltò un ultima volta verso di lei. «Ma certo. Non appena sarà possibile, manderò qualcuno ad accompagnarti nel luogo in cui è stato tumulato.»
Freya mormorò l'ennesimo ringraziamento e infine uscì dalla sala. L'ondata di ciò che aveva cercato di arginare la travolse, minacciando di far crollare le sue difese. Non puoi essere debole, non puoi essere debole, continuava a ripetersi, mentre i suoi piedi già iniziavano a camminare verso una meta ignota. Non sapeva se qualcuno l'attendesse per riaccompagnarla alla sua stanza, in quell'istante solo ciò che aveva appena appreso le occupava i pensieri. Tutto vorticava a una velocità impressionante, rischiando di farle perdere la lucidità. Non vedeva nemmeno ciò che la circondava, tanto che quando si fermò sull'orlo di una piccola balconata e inalò una boccata d'aria per schiarirsi la mente non si accorse di non essere sola.
Un movimento alla sua destra la fece voltare. Rimase sorpresa nel trovarsi davanti proprio Aran, il ragazzo dagli occhi grigi che continuavano a colpirla come un maglio ogni volta che la guardavano. Il giovane si limitò ad appoggiarsi alla balaustra di pietra e a lasciar vagare lo sguardo sulla sterminata piana che circondava il castello, al di là delle sue possenti mura, senza dire nulla. Freya gli fu grata per quell'attimo di silenzio e persino per la sua presenza, che servirono a farle riacquistare la calma.
«Ciò che mia madre ti ha raccontato dev'essere stato sconvolgente. Il tuo sguardo parla da sé» mormorò dopo qualche istante, osservandola.
Freya non trovava le parole, non riusciva proprio a spiegare quello che la stava dilaniando in quel momento. Strinse solo le dita attorno alla balaustra fino a farsi sbiancare le nocche, nel vano tentativo di recuperare forza interiore.
Lui in qualche modo capì e non pretese da lei alcuna risposta. Quando parlò di nuovo non fu per interrogarla e la sua voce riuscì in qualche modo a farsi strada in lei. «La calma dei giardini interni potrebbe aiutarti.»
Il Principe, senza probabilmente saperlo, aveva colto nel segno: aveva bisogno di un posto che le ricordasse casa, un posto dove l'aria facesse stormire le foglie e il profumo della terra le solleticasse le narici.
«Ti sarei molto grata se mi portassi fin lì» rispose con un filo di voce, accettando di seguire i suoi passi.

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 7 - Comprensione ***


CAPITOLO 7
- COMPRENSIONE -


La notte, oramai, avvolgeva nella sua buia quiete tutta la corte di Errania. I giardini erano vuoti, immersi in un silenzio interrotto solo dal vento fresco che spirava fra gli alberi, spandendo dolci sussurri nell'aria attorno a loro. Quei rumori familiari furono sufficienti a zittire almeno per un pò la mente di Freya; testimone del suo dolore restava solo una lieve stretta al cuore.
Mentre camminava fianco a fianco con quel ragazzo sconosciuto, la giovane osservava con curiosità la particolarità di quel giardino interno, in cui le piante crescevano rasente ai muri del portico e lungo i vialetti acciottolati. Il silenzio fra i due si protrasse ancora per qualche istante, senza però creare nessun imbarazzo; non si erano scambiati che poche parole prima di quell'istante, eppure si sentiva in qualche modo perfettamente compresa.
Fu proprio lei a parlare per prima, lasciando uscire in un sussurro un pensiero che lottava per farsi sentire fra tutti gli altri: «Sembra che solo all'aria aperta io mi possa sentire a casa. Gli spazi chiusi non fanno per me.»
Aran spostò la sua attenzione su di lei e mentre la guardava con attenzione un sorriso andò a formarsi sulle sue labbra. Era la prima volta che sorrideva, pensò la ragazza. Rimase un po' persa, in quel sorriso.
«Dove vivevi prima che i soldati stravolgessero tutto?» le domandò e il suo interesse era vero, sincero, tanto che ricambiare le venne del tutto naturale.
«Nel folto delle Foreste di Confine» rispose, rievocando nella propria mente immagini di quel luogo che oramai le pareva lontanissimo e irraggiungibile. «La casa in cui sono cresciuta ha pareti e tetto sottili, non come le mura di questo castello: quasi può entrarvi il cielo. In effetti, ci è molto vicina.»
«Vicina al cielo?» chiese Aran, non nascondendo una certa sorpresa.
Freya annuì, guardando la luna che iniziava a comparire insieme alla nostalgia. «Abitavo su una quercia secolare» spiegò e il ragazzo ammutolì per un istante, non sapendo cosa rispondere.
«Sembra davvero un bel posto da chiamare casa. Non hai idea di quanto sia soffocante vivere qui, a volte; non ho mai potuto assaporare la libertà che devi aver avuto tu» sussurrò piano Aran, quando ebbe ritrovato la parola. Non seppe perché glielo stesse dicendo; sentì che quella ragazza misteriosa gli stava facendo perdere nuovamente il controllo.
Questa volta fu lei a guardarlo attentamente. «Credevo fosse un privilegio vivere da signori, protetti da mura tanto possenti.»
«Credo che fossi tu ad avere una vita privilegiata» ribatté Aran, serio.
Continuarono a camminare lentamente, sempre più fiori a costeggiare la loro strada. Freya, assorta nei propri pensieri, si fermò solo accanto a un albero, sul cui tronco cresceva un meraviglioso fiore dallo stelo verde scuro e dai delicati petali rosa tenue. Era talmente bello che non poté impedirsi di avvicinarvi il volto per sentire il profumo, né di sfiorarlo con un leggero tocco delle dita. Poteva quasi avvertire la vita che vi scorreva.
Lo guardò rapita per qualche istante, finché Aran non si fermò accanto a lei e le spiegò: «Viene chiamata Guerriera Solitaria; non cresce mai accanto a sue simili, non si è mai visto un campo popolato solo da queste piante, ed è capace di sopravvivere anche alle condizioni più avverse. Fonda la sua vita in simbiosi con un solo albero e su quello cresce senza mai sconfinare su un altro.»
«Ne ho viste di piante, ma mai tanto affascinanti» mormorò lei, piano, quansi temesse in qualche modo di disturbarla.
«Mi sono sempre chiesto come la sola natura potesse averla creata» convenne Aran.
Non aveva mai visto in nessuno tanto incanto per un semplice fiore e, senza sapere come, si ritrovò a non poter distogliere lo sguardo da Freya e da quella sua reazione così spontanea. Ancora impegnata a osservare la Guerriera la giovane non ci fece nemmeno caso, almeno finché non tornò a guardarlo. Gli occhi chiari della ragazza lo sondarono, imperscrutabili, e quelli di Aran vi rimasero intrappolati; poi, così come quello scambio di sguardi era iniziato, finì.
Freya distolse lo sguardo, sentendo l'ennesimo colpo al cuore, e decise di concentrarsi su qualcos'altro, come per esempio la grande cultura che Aran aveva appena dimostrato. Non c'era di che stupirsi, sicuramente il giovane Principe aveva avuto i migliori precettori; anche lei però era stata ben istruita e il pensiero di avere almeno quello dalla propria parte, in un luogo di cui non si sentiva all'altezza, la confortò un pò.
Aran, accanto a lei, sembrava interdetto, come se volesse dire qualcosa ma non fosse del tutto certo di quali parole utilizzare. Tentennò ancora un istante; infine, parlò e Freya rimase ad ascoltarlo, attenta. «Forse, in questo momento, vorresti essere da tutt'altra parte. Ovunque, tranne che in questo posto che ti è estraneo e a cui senti di non appartenere» esordì, quasi come se le avesse letto nel pensiero. «Però devi sapere che ci sono volte in cui anch'io mi sento allo stesso modo, per quanto ti possa suonare assurdo.»
La ragazza corrugò le sopracciglia in un'espressione interrogativa e capire che lo stava davvero ascoltando lo spinse a continuare.
«Io non sono nato Principe: le mie origini mi sono completamente sconosciute. So solo che i miei genitori mi abbandonarono a me stesso in uno sporco vicolo alla periferia della capitale e Mirea, che desiderava un altro figlio, mi prese con sé e mi adottò, accogliendomi come fossi suo. Non so nulla della mia famiglia di origine, anche se sono certo che mia madre abbia scoperto qualcosa che non vuole rivelarmi. Per proteggermi, dice lei» raccontò. «Se le cose fossero andate diversamente, io non sarei qui. Ogni tanto questa consapevolezza mi piomba addosso e mi sento come se venissi da un mondo a parte.»
Perfino Aran fu sorpreso dalla facilità con cui quelle parole gli uscirono di bocca. La pelle di Freya fu attraversata da un brivido, ma in qualche modo quell'informazione non le sembrò così assurda; c'era qualcosa di diverso in lui e forse quella ne era la spiegazione. O c'era molto altro?
«In ogni caso, ti sto dicendo questo solo per farti sapere che qualcuno che capisca come ti senti, in questo luogo da cui vorresti probabilmente scappare, c'è» concluse con un mezzo sorriso, riprendendo a camminare.
Freya rimase qualche passo indietro, osservando la schiena di Aran e domandandosi cosa nascondesse quel ragazzo nel suo mondo interiore, che sembrava molto più vasto di quanto non lasciasse trasparire. Lo raggiunse accanto a un alberello carico di fiori profumati. «Hai ragione, è esattamente così che mi sento, ma non scapperò. Qui ho trovato la verità e non è detto che non ci sia anche qualcos'altro, per me» rispose, quasi senza pensare che avrebbe aperto in lui molti interrogativi su quale fosse la sua storia personale. La verità era che non le pesava l'idea di parlarne con lui.
«Se hai rinunciato a tutto quello che avevi per venire qui doveva essere qualcosa per cui ne valesse la pena» disse Aran, senza però spingersi oltre.
Non avrebbe mai tentato di scoprire più di quanto lei avrebbe detto di sua volontà, capì Freya, sempre più stupita dal rispetto che lui dimostrava in ogni suo gesto. Fu anche questo, probabilmente, a spingerla a decidere di ricambiare la sincerità che lui le aveva riservato.
«La vita mi ha portato via entrambi i genitori, in circostanze che non ho mai saputo spiegare. Prima mio padre, che ho conosciuto per un tempo tanto breve da non poter valere, e poi mia madre, che è scomparsa all'improvviso dopo essere partita per un viaggio. Non avevo nessuna strada da seguire finché non sono arrivati quei soldati e avrei rinunciato anche alla libertà per trovare le risposte che cerco» rispose.
Ci fu un interminabile attimo di silenzio in cui i due ragazzi continuarono a camminare l'uno di fianco all'altra, avvertendo null'altro che la propria reciproca presenza.
«Ammiro il tuo coraggio» commentò infine Aran, con un sorriso. Freya lo squadrò con le sopracciglia scure inarcate, come se avesse detto una stupidaggine, e la sua espressione lo fece scoppiare in una risata sommessa. «Insomma, hai messo in discussione tutta la tua vita per scoprire la tua storia. Hai rinunciato a tutto ciò che conoscevi e che amavi e hai sopportato con tenacia una verità evidentemente sconvolgente. Il tuo coraggio è da ammirare» spiegò semplicemente.
Freya distolse un istante lo sguardo per osservare il cielo buio, senza trovare nulla da dire. Lo sguardo di Aran seguì il suo e solo in quel momento i due giovani si resero conto che il vento si era alzato nuovamente, gelido e tagliente.
«Sarà meglio rientrare. Inizia a fare freddo» disse lui e, seppur a malincuore, ripresero la strada per il castello, consapevoli che quella che doveva essere una semplice e breve passeggiata era diventata qualcosa di più. All'interno le lanterne erano già state accese, restituendo un po' di calore alle parenti in pietra grezza.
«Ti riaccompagno ai tuoi appartamenti» si offrì Aran, ma Freya sentiva di aver già approfittato fin troppo del suo tempo e della sua gentilezza.
«Ricordo la strada, non preoccuparti. Hai già fatto fin troppo per me, questa sera» rispose Freya. Gli rivolse un leggero cenno del capo e gli lasciò un sorriso, il più sincero che riuscì a trovare, nonostante la stanchezza che iniziava a sopraffarla. «Non saprò mai ringraziarti abbastanza» concluse. Poi si avviò lungo il corridoio, molto più leggera di quanto non fosse da moltissimo tempo.
«Freya...» Sentì una voce chiamarla, alle proprie spalle. Si voltò. «Non voglio alcun ringraziamento. Vorrei solo tanti altri momenti come questo, in futuro» si lasciò sfuggire Aran, cercando di dissimulare l'imbarazzo.
Freya sentì qualcosa sciogliersi in un luogo molto vicino al cuore. Sorrise ancora una volta e con tutta calma ribatté: «Allora ci rivedremo presto, Aran.»
Solo allora se ne andò, nella direzione opposta rispetto a quella di lui. Entrambi erano rimasti straniti da come suonasse il proprio nome in bocca all'altro: familiare, conosciuto.


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Le pareti non parevano più così fredde, ora che le calde fiaccole ne ammorbidivano l'impenetrabile superficie. La porta degli appartamenti di Aran si aprì con un sommesso e quasi inudibile cigolio e il giovane entrò nel piccolo salotto con passo felpato. Aveva chiesto che non gli venisse portato nulla per cena; voleva solo contemplare il cielo e tentare di mettere ordine nelle proprie emozioni confuse. Sganciò il mantello trattenuto dall'elaborata fibbia d'argento e lo posò con noncuranza su una poltrona, poi si lasciò cadere su di un'altra sistemata accanto alla finestra.
Alloggiava in quella stanza da quando aveva appena cinque anni e veniva ancora accudito da Malia, che a quel tempo era stata designata sua balia. Mille volte si era accoccolato su quella spaziosa poltrona e si era addormentato osservando il manto celeste, costringendola poi a trasportarlo a braccia nel letto. Non era mai mancata una volta che gli venissero rimboccate le coperte, almeno fin quando era stato troppo piccolo per iniziare il suo addestramento da cadetto. Non aveva avuto molta scelta: diventare un soldato era pressoché l'unica via che veniva lasciata ai secondogeniti, almeno nelle famiglie di una certa levatura.
Finalmente solo, potè immergersi totalmente nei propri pensieri. Ripercorse tutto ciò che era accaduto dal primo momento in cui aveva visto Freya ed era rimasto impalato sulle scale; in quelle immagini quasi non si riconobbe. Pensò a quando sua madre l'aveva mandato a chiamare, chiedendogli di accertarsi che la giovane stesse bene dopo il loro colloquio privato e di riaccompagnarla alle sue stanze; a come si era sentito quando l'aveva trovata sull'orlo della balconata e aveva avvertito la sua sofferenza.
Prima di allora non gli sarebbe mai sembrato possibile potersi sentire tanto vicino ad una persona che conosceva appena; eppure, fosse semplice empatia o qualcosa di ancora più inspiegabile, il dolore di Freya lo aveva attraversato, come se in qualche modo risuonasse con il suo. Forse, per quella ragione si era ritrovato a rivelarle cose che aveva sempre tenuto strettamente riservate nella sua testa o che aveva gelosamente custodito nel cuore, oltre che per tentare di alleviare almeno un pò dell'angoscia che le leggeva nello sguardo.
Fu ripensando a quello sguardo, puro e adamantino, che riuscì finalmente a decifrare la sensazione che sovrastava tutto il resto: quella di aver ritrovato qualcosa di perso. Era come se si fosse ricongiunto ad una persona già conosciuta molto tempo addietro e da cui, in qualche modo, si era separato. Più ci pensava, però, e meno spiegazioni logiche arrivavano; allora si impose, per una volta in vita sua, di smettere di pensare a tutte le possibili implicazioni di quell'incontro. Si disse che la compagnia di quella ragazza che l'aveva sconvolto tanto avrebbe portato una ventata d'aria nuova, pulita, nella sua esistenza sempre più assorbita dallo studio e dall'addestramento. Trascorrere del tempo con lei avrebbe significato anche imparare a vedere la vita con occhi diversi e la prospettiva, stranamente, non lo spaventava. Gli lasciava piuttosto un senso di aspettativa.
Aran si alzò di scatto dalla poltrona e spalancò la finestra. L'aria della sera gli riempì le narici, lo splendore delle stelle gli occhi. Si affacciò al balconcino di appena un braccio che sporgeva dalla torretta e lì rimase, finché le palpebre non gli si fecero troppo pesanti da tenere aperte. Quella notte fu serena, accompagnata dalla brezza che filtrava dalla finestra aperta. Solo alle prime luci dell'alba qualcosa cambiò nel tranquillo scenario dei suoi sogni.


Improvvisamente, l'aria fresca si fece tagliente. Appena Aran aprì gli occhi si sentì catapultare in un'altra realtà, che subito fece sentire l'aridità che la permeava.
Lui era ancora lì: il grande pilastro intarsiato protagonista del suo sogno ricorrente si levava con sorprendente leggiadria, nonostante la sua mole. Sembrava aver perso la sua solidità; il ragazzo sentì un familiare senso di impotenza nell'avvertirne la fragilità: pareva sul punto di crollare, come se da un momento all'altro potesse sgretolarsi di fronte ai suoi occhi.
Non l'aveva mai visto diversamente, doveva ammettere a malincuore, ma sentiva che non sempre era stato così: un tempo la terra su cui sorgeva era stata verde e la foresta che lo circondava era stata rigogliosa e popolata da ogni sorta di animale. Si disse per l'ennesima volta che doveva ritornare ad essere così.
Il suo sguardo corse alle spirali che lo avvolgevano, colmate da lucide pietre, e alla gemma finale, incastonata sulla sua sommità: era un granato, la cui luce era debole e morente. All'impotenza si aggiunse la rabbia per la morte di quella speranza e la voglia di farla pagare al responsabile di quello scempio. Non sapeva chi potesse essere, come non sapeva l'origine delle emozioni che provava ogni volta di fronte a quella vista.
Avrebbe voluto davvero far qualcosa, più di ogni altra cosa al mondo, ma non ebbe il tempo di rielaborare nient'altro. Il vento si fece più pressante e un forte fruscìo lo fece voltare. Una potente e malefica energia nera ruppe la cortina di rami degli alberi, viaggiando a velocità irrazionale verso il pilastro.
Aran scattò in avanti, verso quello che avrebbe dovuto essere il punto d'impatto. Il dolore gli mozzò il respiro, sminuendo persino il suo scontro con il suolo. Mentre il mondo si faceva nero, un grido rabbioso squarciò la terra.


Aran si destò di soprassalto, il fiato corto e la sensazione di avere un macigno sul cuore. La testa gli doleva terribilmente e il suo respiro era ridotto a un rantolo affaticato. Ogni percezione era perduta nel terrore. Non ebbe il tempo di realizzare niente; improvvisamente, fu preso da un'ondata di stanchezza, come se le sue membra avessero dovuto sopportare veramente il colpo ricevuto in quell'incubo.
Svuotato di ogni forza, ricadde preda di un sonno privo di sogni.


֍ ֍ ֎


Nello stesso istante, dall'altra parte del grande castello, Freya spalancò gli occhi nel buio che sbiadiva. Aveva la fronte imperlata di sudore e lacrime copiose le scorrevano lungo le guance, per poi cadere incolori sulla coperta. Lo stesso sogno di sempre. La stessa visione. Come ogni altra volta il dolore era stato così intenso da sembrare reale; lo percepiva ancora gravarle sulle spalle, lasciandola tremendamente stordita e boccheggiante.
Solo quando le parve di aver riacquistato un po' di calma, si lasciò ricadere sui morbidi cuscini. Nemmeno lasciare i posti che aveva sempre conosciuto l'aveva allontanata da quel dolore. Si chiese se per caso quelle visioni non facessero parte di lei, se non le venissero dettate dalla sua stessa anima.
Il pilastro e il suo granato... La speranza che irradiava... La sua forza spezzata dall'apparizione della figura ammantata di nero... Riepilogò tutto ciò che riusciva a rammentare con una calma innaturale, ma com'era sempre stato non trovò alcuna spiegazione. Prostrata per l'interminabile giornata anche lei infine si riaddormentò, esattamente come colui che, nonostante ancora non lo sapesse, condivideva il suo stesso fardello.


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Capitolo 9
*** CAPITOLO 8 -Questione di abitudine, parte prima: Arco e frecce ***


CAPITOLO 8
- QUESTIONE DI ABITUDINE, PARTE PRIMA: ARCO E FRECCE -


Quando Freya si risvegliò il sole non si era allontanato poi di tanto dall'orizzonte; probabilmente era trascorsa appena un'ora dall'alba. Nonostante il giorno prima fosse stato piuttosto pesante e la nottata fosse stata disturbata dalla visione, si sentiva piena di nuova energia e pronta per esplorare il castello e i suoi dintorni; sentiva l'assoluto bisogno di trovare un luogo dove poter respirare, di tanto in tanto, e non sarebbe stata del tutto tranquilla finché non lo avesse visto con i propri occhi. Dato che Mirea in persona l'aveva autorizzata a lasciare il perimetro del castello, tanto valeva dare un'occhiata ai boschi che lei stessa le aveva nominato.
Seppur restia a lasciare il calore delle coperte la giovane si alzò e si diresse al baule pieno di abiti. Avrebbe voluto indossare i propri vecchi indumenti per facilitarsi la cavalcata, ma il giorno prima Malia li aveva prelevati per farli lavare e rammendare, perciò non poteva far altro che cercare un vestito comodo e sperare che non la intralciasse troppo. Indossò quello più semplice che trovò: un abito di pregiato tessuto filato color ametista, con le maniche all'avambraccio bordate di un resistente merletto, così come lo scollo squadrato e il bordo che le sfiorava i piedi fasciati dai suoi stivali di pelle. Erano l'unica cosa ad esserle rimasta, insieme alle strisce di cuoio con cui si fasciava le mani quando aveva intenzione di usare a lungo il suo arco: se ne avesse avuta la possibilità si sarebbe anche allenata al tiro, perciò prese anche quelle. Per ovviare alla mancanza della sua giubba di pelle si procurò un mantello che, oltre a evitarle di patire il freddo del mattino, avrebbe protetto arco e faretra, ben assicurati alla sua spalla.
Infine uscì dai suoi appartamenti. I corridoi del palazzo erano deserti e così le fu più semplice dirigersi alle scuderie, dove sapeva di trovare Stellato, senza essere sottoposta alle occhiate curiose degli abitanti della corte. Non che ne avesse visti molti, fino a quel momento. Non appena mise piede fra le lunghe file di vani che ospitavano soprattutto i cavalli dei soldati, trasalì nel ritrovarsi la strada tagliata dal capitano Craius.
«Lady Freya» s'introdusse rispettosamente l'uomo, inchinandosi.
«Comandante Craius, sono lieta di rivedervi» asserì lei con cortesia, adeguandosi alla sua formalità.
«La Regina Mirea mi ha incaricato di aiutarvi nel caso doveste avere qualche problema e mi ha chiesto di mostrarvi dove è stato alloggiato il vostro stallone. Riteneva che avreste avuto voglia di cavalcare un po' per le terre attorno al palazzo» la informò il comandante, mentre le faceva segno di seguirlo. «Ha intenzione di lasciarvi una parte della libertà cui siete abituata.»
Domandarsi quale parte di libertà le sarebbe stata lasciata e quale tolta fu inevitabile. Giunsero in un angolo delle stalle un poco separato dal resto e, dalla pulizia anomala per quella che doveva essere una scuderia, Freya comprese che lì dovevano essere tenuti i cavalli della famiglia reale, sottoposti alle cure più attente. Dopo averlo individuato, corse impaziente verso il box dove era stato riposto lo stallone il giorno precedentee ne aprì il cancelletto; subito il cavallo le sbuffò il suo fiato caldo sul viso, felice di vederla.
«Ciao bello...» mormorò la ragazza con dolcezza mentre gli accarezzava piano il muso vellutato. Notò che Stellato era stato strigliato con cura e nutrito a dovere.
«Avete bisogno di aiuto per sellarlo, milady?» le domandò il comandante.
«No, ma vi ringrazio per la vostra premura, capitano» ribatté la giovane con gentilezza.
Craius s'inchinò ancora, asserendo: «Allora il mio compito è terminato, per ora.» Fece per voltarsi e andarsene, ma poi sembrò cambiare idea e aggiunse da sopra una spalla: «Accettate la mano che vi viene tesa, Lady Freya. Avrete molte più opportunità qui che dove siete stata fatta crescere. Ma non pretendete più di quanto siano disposti a concedervi.»
Freya rimase per un attimo immobile accanto allo stallone, le briglie inerti fra le mani. Era un avvertimento? Un brivido le corse lungo la spina dorsale, mentre cercava di capire che significato attribuire alle parole di Craius. Si riscosse solo quando Stellato scalciò, forse avvertendo il suo nervosismo. Non aveva senso rimuginarci; sapeva a cosa sarebbe potuta andare incontro, quando era partita, e ora sarebbe andata fino in fondo. C'era molto altro ancora da scoprire ad Errania, lo sentiva.
Finì di sellare Stellato e poi montò sulla sua groppa. Con la smania di uscire all'aria aperta e di poter riassaporare la pace della solitudine spronò il cavallo ad uscire dalle stalle. Percorse al trotto il cortile sul lato nord del castello e uscì diretta verso le pianure punteggiate di boschetti che circondavano il palazzo. Affondò con delicatezza i talloni nei fianchi di Stellato e il passo dello stallone si fece sempre più rapido. Non appena si ritrovò al di fuori dei possedimenti del castello, Freya sentì una sorta di pressione abbandonarla. Raddrizzò la schiena, lasciò scivolare le briglie sulla sella e aprì le braccia, mentre il cavallo continuava la sua corsa. Nonostante tutti i privilegi di cui avrebbe potuto godere, sentì che nulla avrebbe potuto compensare ciò a cui avrebbe rinunciato. Ogni scelta aveva però il suo prezzo e questo si faceva sempre più chiaro in lei; quanto sarebbe stato alto, l'avrebbe stabilito il tempo. Tornando alla realtà,  recuperò le briglie e così il controllo delle proprie emozioni.
Il bosco che aveva scelto come propria meta si profilava all'orizzonte come una frastagliata linea smeraldina, che Freya e Stellato riuscirono a raggiungere nel giro di un paio d'ore. Quando superò il primo gruppo di alberi il sole era già alto nel cielo. Rallentò l'andatura per stare più attenta ai rami bassi degli alberi e, come il giorno in cui aveva iniziato il suo viaggio con Stellato, Freya notò che il cavallo era sorprendentemente agile. Cullata dal suo passo regolare, si concesse tutto il tempo necessario per ammirare quel luogo.
Una volta in più, si ritrovò ad osservare come ovunque la natura riuscisse a dar vita alle proprie meraviglie e a dare sfoggio della sua imperturbabile magnificenza. Quel bosco non era vasto come le Foreste di Confine e gli alberi che lo componevano non erano grandi come le sue querce secolari, ma irradiava un senso di protezione che avvolse Freya nelle sue calde braccia. Respirò a pieni polmoni, cercando di immettere poi nel sospiro che lasciò le sue labbra tutta la tensione accumulata.
Vagò a quel modo fino a che non trovò un posto che le sembrò fare al caso suo; era una piccola radura muscosa nel cuore del bosco, custodita al suo interno come una perla rara. Fiori estivi ne contornavano il perimetro, dondolando alla brezza leggera che ora si era fatta calda e aveva costretto la giovane a togliersi il mantello. Quello era il posto ideale per proseguire il proprio allenamento solitario: gli alberi le avrebbero fornito ottimi bersagli a cui puntare e le grandi pietre coperte di muschio di cui era disseminata la radura avrebbero messo alla prova la sua agilità. Vi trascorse la parte restante della mattinata, tirando con l'arco come aveva progettato o anche solo restando sdraiata a terra con gli occhi chiusi, ascoltando in tranquillità i rumori che le si spandevano intorno e cercando di ricondurli alla propria fonte.
Ebbe finalmente il tempo di ripercorrere tutto ciò che era accaduto il giorno prima. Tentando di restare quanto più razionale possibile rivisse nella mente ogni singolo istante dell'incontro con la Regina, ogni parola che era uscita dalla sua bocca e iniziò a porsi le prime domande. Cos'era successo prima che Mirea arrivasse sul luogo dove suo padre aveva perso la vita? Quali erano gli eventi che si erano susseguiti in quel punto cieco della tragica storia della sua famiglia? E per quale ragione sua madre era scappata così, senza mai guardarsi né tanto meno ritornare indietro nemmeno quando i fautori dell'attentato erano stati catturati? Più di tutto era questo a tormentarla, come una spina sottopelle, perché non riusciva a capacitarsi di cosa avesse spinto Eleana a prendere la decisione di andarsene per sempre. Aveva forse avuto paura che Errania non fosse più un posto sicuro per crescerla?
Passò così un tempo interminabile, ma quando il peso di quello che le aveva raccontato Mirea si fece tanto schiacciante da arrivare a soffocarla, Freya decise cambiare il corso dei propri pensieri. Come si sarebbe dovuta aspettare, virarono inesorabilmente verso Aran. Per lunghissimi minuti rivide semplicemente i suoi occhi grigi, il suo viso e ogni emozione ed espressione che aveva visto attraversarlo; poi, passò a domandarsi come fosse stato possibile avere avuto tanta fiducia in un estraneo da parlare a cuore aperto come aveva fatto durante la loro lunga passeggiata, a come potesse avvertire quella strana familiarità ogni volta che pensava a lui; infine, si ritrovò a dover ammettere di non avere nessuna risposta razionale alle sue domande, solo lo strano desiderio di rivederlo ancora. Fu a quel punto che un inspiegabile calore le salì fino alla punta delle orecchie; dandosi della sciocca, si rimise in piedi, ripulì i propri abiti dai residui di muschio e corteccia e riprese la strada per il castello, imponendosi di non formulare più simili pensieri.
La cavalcata di ritorno fu più lenta di quella di andata, ma nel primo pomeriggio fu comunque nuovamente a palazzo. Il cortile era brulicante di vita e Freya si mosse veloce e silenziosa fra maniscalchi alle prese con la ferratura dei cavalli, servi che correvano recando otri piene d'acqua con cui rifornire le cucine e soldati tintinnanti nelle loro cotte di maglia appena lucidate. In ogni caso, erano tutti così indaffarati da fare ben poco caso a lei.
Riportò Stellato alle scuderie e si prese cura di lui con estrema attenzione, assicurandosi che fosse ben pulito e avesse cibo a sufficienza. Quando si decise a lasciarlo e si accinse a uscire, rimase sorpresa nel vedere Aran avanzare nella selva di vani. Aveva un'aria calma e rilassata e non appena la individuò, sorrise. Non si abbigliava come un nobile, notò Freya, ma come un semplice combattente; sembrava pronto per lanciarsi in un duello, in effetti. La giovane rispose al suo sorriso, mentre lui si avvicinava e posava con dolcezza una mano sul collo dello stallone.
«È un animale magnifico» commentò, perdendosi anche lui nello sguardo bruno e gentile di Stellato. «Ero riuscito a vederlo solo di sfuggita, il giorno in cui lo portarono qui dall'allevamento. Ora scopro a chi era destinato.»
«Allevamento?» domandò la giovane, incuriosita.
Aran annuì. «Gli stalloni di Riagàn provengono da un allevamento privato appartenente alla famiglia reale da molti secoli. Ricevere in dono uno di questi cavalli è considerato un grande onore. Sono i cavalli dei re» le spiegò.
Freya sgranò gli occhi. «Non ho mai dubitato dell'enorme valore di Stellato, ma non avrei mai immaginato nulla di simile» rispose, osservando tutta la sua possanza e maestosità.
Fu la volta di Aran di rivolgerle uno sguardo interrogativo. «Stellato?»
La ragazza annuì. «Sì, Stellato. Ha risposto immediatamente a questo nome.»
Come a darne conferma, l'animale diede un lieve nitrito e le si fece più vicino. Presto l'attenzione di Stellato fu però catturata nuovamente da Aran, che sembrava aver preso in simpatia. Dopo aver annusato con interesse il volto del giovane, gli sbuffò fra i capelli, arruffandoli, e Freya non poté trattenersi dal ridere. Aran non sembrò prenderla male, anzi; scoppiò anche lui in una risata divertita, continuando a lasciargli lievi carezze sul muso. Solo dopo qualche istante di piacevole silenzio il ragazzo parve ricordare il motivo per cui era andato a cercarla.
«Io e mio fratello stiamo per allenarci nella scherma e nel tiro con l'arco al campo di addestramento. Mi chiedevo se ti andasse di assistere» domandò, con la sua consueta cortesia.
Un altro sorriso illuminò il volto di Freya. «Accetto volentieri, ma solo se mi sarà consentito di partecipare.»


A quell'ora il campo d'addestramento era ancora gremito di soldati, nonostante la maggior parte di loro preferisse allenarsi nelle prime ore del mattino. Alcuni, notò Freya, erano già sfiniti e grondanti di sudore, reduci da lunghi turni di guardia soffocati nelle pesanti armature.
Aran la condusse verso un grande spiazzo, sul cui sfondo si allineavano perfettamente distanziati cinque bersagli. Darrah era già lì e con gesti secchi e quasi bruschi stava controllando che il suo arco fosse incordato. Non appena li notò il suo sguardo si posò critico su Freya e sull'arma che lei stringeva nella mano destra, come se dubitasse che fosse anche solo in grado di prendere la mira.
«Credevo che avreste solo assistito, Lady Freya» affermò con aria scettica, inarcando le sopracciglia.
Nonostante sapesse perfettamente di dover imparare a moderare i propri toni, a quella frase arrogante la giovane non poté trattenersi dal rimandare una risposta tagliente: «Perché non mi mettete alla prova, Lord Darragh?»
L'espressione che attraversò il viso di Darragh fece quasi scoppiare a ridere Aran, il quale si trattenne solo per non irritare il fratello; conosceva molto bene la sua suscettibilità. Doveva però ammettere che vedere qualcuno tenergli testa a quel modo fosse sorprendentemente piacevole.
Furono i due ragazzi a iniziare: mirarono entrambi, a turno, tutti e cinque i bersagli. Freya notò che Aran si destreggiava meglio di Darragh con l'arco, arma adatta a guerrieri capaci di pazienza, costanza e mira. Sospettava però che entrambi preferissero la spada. Nonostante questo, i bersagli furono tutti trafitti dalle loro frecce.
Quelle scoccate da Aran erano ancora conficcate nel legno coperto di stoffa quando Darragh tornò a rivolgersi a lei: «Vediamo se siete in grado di colpire l'esatto centro del bersaglio senza estrarre le frecce già tirate da Aran» la sfidò, un sorrisetto superbo a incurvargli le labbra.
Aran parve visibilmente contrariato dai modi di fare del fratello. Gli si avvicinò e disse: «Mi pare che tu stia dimenticando le buone maniere, quest'oggi.»
Darragh lo fulminò con un'occhiataccia, ma prima che potesse aprire bocca per ribattere Freya intervenne, un sorriso quieto in volto. «Non ti preoccupare, Aran, sarò ben felice di soddisfare la curiosità di tuo fratello.»
Dopo aver controllato che l'arco fosse ben incordato con gesti sapienti e delicati, la giovane studiò i cinque bersagli. Aran era stato piuttosto preciso: la maggior parte delle frecce era arrivata a colpire entro due anelli dal centro; l'ultima l'aveva colpito senza il minimo scarto. Era quella a rappresentare un potenziale problema, ma se si fosse concentrata avrebbe potuto anche farcela. Non si dava mai per vinta prima di aver tentato.
Prese posizione di fronte al primo bersaglio, estraendo dalla faretra una delle sue frecce dall'impennaggio color cenere. Con estrema concentrazione la incoccò e dopo aver tirato la corda fino alla guancia, tanto da sentir le piume solleticarle la pelle, iniziò a regolarizzare il proprio respiro. Inspirare ed espirare: le due azioni riempirono la sua mente, mentre davanti a lei si stagliava nitido solo il bersaglio dai colori sgargianti. A quel punto, si sforzò di percepire solo lo strumento fra le sue mani: il legno che stringeva fra le dita, lucido e intarsiato, la corda, le piume dell'impennaggio che le sfioravano il viso.
Tutto accadde nel giro di qualche secondo. Freya scoccò la freccia dritta verso il cuore del suo obiettivo, senza vacillare di nemmeno un pollice. Procedette poi a fare lo stesso con i restanti tre bersagli dal centro libero, senza minimamente curarsi dei due ragazzi ancora alle sue spalle o di qualsiasi altra cosa le stesse intorno. Quando si ritrovò davanti all'ultimo, si fermò. Aver centrato tutti gli altri non le garantiva di riuscire anche con quello, dal quale avrebbe dovuto tentare di scalzare la freccia già piantata. Ripetè perciò la solita procedura di focalizzazione, ponendovi ancora più energia e concentrazione, prima di lasciar andare per l'ennesima volta la corda tesa. La freccia sibilò nell'aria, mentre lei la seguiva con lo sguardo. Senza la minima deviazione, precisa come un pensiero, la freccia centrò quella già scoccata dal figlio di Mirea, tagliandola in sottili listelli che si aprirono come i petali di un fiore che sboccia alla luce del sole.
La stessa Freya non potè che lasciarsi andare a un sorriso meravigliato, stupita dalla propria stessa prova. Non avrebbe mai pensato di poter arrivare a raggiungere un simile risultato, eppure quella era la dimostrazione che anni di pratica stavano dando i propri frutti. Fu a quel punto che si ricordò della presenza di altri individui in quel luogo. Le guance le si imporporarono quando si rese conto che tutti avevano cessato le loro attività e, in un silenzio totale, fissavano i bersagli senza far nulla per celare la loro sorpresa.
Aran le si avvicinò a bocca aperta. «Devo chiederti davvero perdono per aver pensato che l'unica cosa che potessi fare fosse assistere. Sono stato presuntuoso a presupporre che tu non avessi mai impugnato un'arma e ti chiedo scusa, per questo» le disse, con un'espressione di stupore tale da farle avere la sensazione di poter guardare solo il suo viso tra tutti quelli presenti.
C'era qualcosa, in quella sua capacità di incuriosirsi ed entusiasmarsi in modo così sincero, che aveva il potere di incantarla. Scosse leggermente il capo per ritornare in sé, ancora una volta preoccupata per il corso che stavano prendendo i propri pensieri. Nel frattempo i soldati stavano ritornando alle loro attività, scuotendo ancora il capo per cercare di dissipare lo stupore e mettersi d'impegno per non farsi battere da una ragazza, per giunta più giovane di loro.
«Chi ti ha insegnato a tirare così?» proseguì il ragazzo, sempre con quel sincero interesse sul volto.
Lei sorrise, immersa nei ricordi. «Mia madre. Ricordo ancora quando la guardavo per ore mentre si allenava nel bosco. Alla fine, il giorno del mio sesto compleanno, uscii dalla mia stanza e davanti alla porta lo trovai, chiuso in una custodia» spiegò, accarezzando gli intarsi del legno con gentilezza. Le sue dita si soffermarono sul disegno di un drago inciso con perizia nel legno e proseguirono su tutta la lunghezza dell'arco, seguendo le foglie che ne fregiavano la superficie. Poi continuò: «Ci aveva lavorato moltissimo, per di più di nascosto da me. Solo dopo qualche tempo le chiesi il perché di tanta fatica e lei mi rispose semplicemente che meritavo un arco degno di questo nome.»
Freya alzò lo sguardo su Aran e, immergendosi nel suo, sentì che in qualche modo lui la capiva. La dolcezza che lesse in fondo a quegli occhi la fece avvampare, tanto che si sentì perfino costretta a fare un passo indietro e allontanarsi leggermente da lui e da quell'ondata di emozioni.
Fu Darragh a interrompere la loro conversazione. «Non posso fare altro che rivolgervi i miei complimenti e scusarmi, Lady Freya» l'apostrofò, un sorriso sardonico in viso che tradiva la sua apparente sincerità.
Molto probabilmente non la credeva capace di fare null'altro che mirare a bersagli immobili; anche quel "Lady Freya" con cui l'appellava sapeva decisamente di presa in giro, ma lei decise che avrebbe aspettato di vedere fino a che punto si sarebbe spinto il giovane Principe, prima di perdere la pazienza. Quando notò le sopracciglia di Aran inarcarsi nuovamente e intuì che stava per dire qualcosa al fratello, la ragazza lo precedette e ribatté con un sorriso: «Nulla di cui scusarsi, Principe Darragh», senza scomporsi minimamente. Sapeva quali erano le proprie capacità e non sarebbe stato certo il suo giudizio a farle perdere fiducia in esse.
L'allenamento al tiro occupò tutte le due ore successive. Freya si adattò abbastanza in fretta al loro metodo, seppur così diverso da quello a cui era abituata lei. Gran parte del suo addestramento erano state le prede che doveva cacciare per sopravvivere, oltre ai tronchi e ai rami degli alberi, bersagli molto differenti da quei cerchi di legno imbottito.
Aran sembrava entusiasta del suo modo di approcciarsi all'arco, tanto che spesso le chiese consiglio su come avrebbe dovuto fare per migliorare. Intavolarono una conversazione tanto fitta ed interessante da non accorgersi nemmeno del tempo che passava, almeno fino a che Darragh non si schiarì la gola e disse: «Mi spiace disturbarvi, ma sarebbe il momento di passare a cose più importanti.»
Fino a quel momento il ragazzo sembrava aver perso un po' del suo cipiglio arrogante, limitandosi a ignorare Freya e rivolgendosi solo di tanto in tanto al fratello. Ora però stavano per passare alla spada, campo in cui certamente lui la superava di gran lunga, cosa che bastò a fargli recuperare prontamente la sua aria di superiorità. Non appena Aran fu fuori portata, diretto all'armeria, Darragh aggiunse: «Sarebbe meglio che vi faceste da parte, a meno che non siate altrettanto abile con la spada, s'intende.»
Freya sapeva perfettamente di non esserlo: Eleana ne possedeva una e le aveva insegnato i rudimenti della difesa e dell'attacco, mettendole in mano una lama mezza arrugginita che avevano rinvenuto nella foresta, ma aveva presto scoperto di non avere particolare affinità con quel tipo di arma. Aveva lo stesso continuato ad allenarsi un po' da sola, giusto per avere un mezzo di difesa in più, ma di sicuro non sarebbe mai stata alla pari di qualcuno che per il combattimento si preparava da tutta la vita.
«Non lo sono affatto, ma vi ringrazio per avermi dato il beneficio del dubbio» rispose, ritorcendogli contro il suo stesso sarcasmo. «Il campo è tutto vostro.»
La calma che Freya stava riuscendo a mantenere sembrava irritare oltremodo Darragh, che si allontanò a grandi passi sulla scia del fratello. Chissà per quale ragione il Principe sembrava tanto deciso a esasperarla, si domandò lei, senza riuscire a trovare nessuna risposta. Esattamente come Gorman, il ragazzo pareva faticare ad accettare la sua presenza, come se in qualche modo lei lo stesse derubando del suo spazio a corte.
Una sensazione sempre più sgradevole iniziò a serrarle lo stomaco e Freya strinse saldamente l'arco fra le dita, tentando in qualche modo di ignorarla; forse si stava sbagliando, ma aveva l'impressione che Darragh non si sarebbe fermato lì.

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 9 - Questione di abitudine, parte seconda: Puro veleno ***


CAPITOLO 9
- QUESTIONE DI ABITUDINE, PARTE SECONDA: PURO VELENO -


Aran e Darragh impiegarono diverso tempo a riemergere dall'armeria. Durante la loro assenza, Freya si portò al limitare del campo e iniziò a ritirare con cura le proprie frecce, controllandone le condizioni man mano che le scorrevano davanti agli occhi; era talmente immersa in quel lavoro minuzioso che solo quando udì rumore di passi in avvicinamento distolse l'attenzione dal compito che stava svolgendo.
Come le sue parole di prima le avevano confermato, Darragh stringeva fra le mani una spada, la cui lama lunga e stretta riluceva nel sole del pomeriggio. Il Principe la impugnò saldamente e si mise in posizione per l'imminente duello. Le sue previsioni non si erano però rivelate del tutto esatte per quanto riguardava Aran. Il ragazzo infatti portava sì una spada, ma completamente diversa da qualunque altra Freya avesse mai visto: aveva la lama dritta ed elegante, monofilare, con una punta molto importante e leggermente arcuata; l'elsa, chiaramente fatta per maneggiare l'arma a una mano sola, era metallica e dotata di un pomolo piuttosto grande; la cosa più peculiare, però, era certamente la guardia, la cui strana forma asimmetrica saltava immediatamente all'occhio: il braccio posto dal lato del taglio era lungo e piegava verso l'elsa, mentre l'altro era più corto e andava nella direzione opposta.
Incuriosita, Freya lasciò da parte le frecce e rimase a guardare lo scontro. La tensione fra i due si fece sempre più palpabile, mentre assottigliando gli occhi si studiavano attentamente a vicenda in cerca di difetti, incertezze o brecce nella difesa dell'altro. I loro lineamenti non lasciavano trasparire nulla, come se anche la più piccola emozione potesse dare un qualche vantaggio all'avversario.
Non fu possibile prevedere chi avrebbe attaccato per primo fino all'ultimo istante, quando Aran scattò in avanti portando un tondo rapido e preciso. Darragh fu altrettanto veloce a deviare il colpo e quando le due lame cozzarono scintille dovute all'impatto sprizzarono come mille tizzoni ardenti, ripartendosi dal punto di sfregamento. Con la stessa immediatezza con cui si erano scontrate le due figure si divisero, portando con sé le proprie armi, per poi unirsi nuovamente mentre Darragh tentava un affondo alla spalla di Aran. Quest'ultimo parò senza sforzo e sulle sue labbra comparve un sorriso che presto fece capolino anche sul volto del fratello. Era come se li divertisse constatare quanto bene conoscessero i reciproci stili di combattimento. Più lo scontro andava avanti, più Freya si rendeva conto che effettivamente era così: i due fratelli dovevano allenarsi insieme da anni e questo risultava evidente nella loro capacità di prevedere quasi con esattezza quale sarebbe stata la prossima mossa dell'altro.
Erano entrambi molto abili, su questo non v'era ombra di dubbio. La giovane, però, non poteva fare a meno di guardare affascinata come quella strana spada danzasse fra le mani di Aran, sempre pronta a vanificare ogni tentativo di fare breccia nella difesa di colui che la impugnava. Era più un gioco di destrezza che di forza, il suo. Man mano, anche lo scopo della guardia divenne evidente: il braccio ripiegato verso l'elsa era un'ottima protezione per la mano che stringeva l'arma e l'altro, per contro, rendeva possibile braccare la lama avversaria e disarmare il nemico. Fu così che Aran riuscì infine ad avere ragione di Darragh. La lama dello spadone scivolò nella trappola della guardia durante uno scontro ravvicinato e, con un repentino movimento di braccio, Aran riuscì a strapparla dalla presa del fratello maggiore.
I due contendenti, stanchi e oramai madidi di sudore, si fissarono in silenzio ancora per un attimo, prima di avere una qualunque reazione. Il volto di Aran si aprì in un sorriso vittorioso mentre su quello di Darragh comparve una smorfia piuttosto eloquente, affiancata da un: «Maledetta guardia, senza quella non ci saresti mai riuscito.»
«Te lo lascerò credere» ribatté Aran, scherzoso, dandogli una pacca sulla spalla che attestava però quanta stima avesse delle abilità dell'altro.
Poi, si diresse verso Freya, ancora strabiliata dal duello a cui aveva appena assistito. Era la prima volta che aveva occasione di vederne uno e non ne aveva perso nemmeno il più piccolo dettaglio. Questa volta era lei a poter imparare qualcosa da Aran, qualcosa che l'avrebbe aiutata a migliorare la propria autodifesa e a cavarsela se si fosse trovata in una brutta situazione. La direzione che stava prendendo la sua vita non lasciava presagire nulla di simile, ma niente poteva essere dato per certo. Gli andò incontro, osservando come le spalle di lui si alzassero e abbassassero al ritmo forsennato del suo respiro.
Appena si raggiunsero, Aran sorrise nuovamente e disse: «Solitamente non ne esco così bene.»
Freya ricambiò e rispose: «A giudicare da come combatti mi riesce difficile crederlo.»
Aran rimase in silenzio per un attimo, alzando il viso verso il cielo in cui il sole dilagava cocente. Poi ribatté: «Non è stato facile, all'inizio. Non amavo particolarmente combattere, perfino adesso non è tra le mie attività preferite, ma con l'arma giusta è diventato tutto più semplice.»
L'occhio della giovane cadde sulla spada di Aran, che il ragazzo aveva ancora con sé. Lui sembrò accorgersene, perché senza dire nulla gliela porse e Freya lasciò che la propria mano scivolasse sull'elsa perfettamente sagomata. Era una spada da allenamento, ragion per cui il filo era smussato, ma dava l'idea di poter comunque lasciare dei bei lividi e addirittura rompere qualche osso, se usata con eccessiva violenza. La ragazza la sollevò e ne osservò più da vicino la foggia, dall'insidiosa guardia che aveva fregato Darragh fino alla punta ricurva.
«Non ho mai visto nulla di simile» mormorò infine, assorta. «Che tipo di spada è?»
«Questa è una lama Meridis» spiegò lui. «È un'antica spada tipica della zona insulare di Riagàn. L'armaiolo di corte stava impazzendo a causa mia, sembrava che nessun arma fosse adatta a me.»
Freya fece roteare la spada un paio di volte, prima di restituirla al suo proprietario; era sorprendentemente leggera. Prima che la giovane potesse domandare qualunque altra cosa, Aran fu richiamato all'ordine dal maestro d'armi.
«Se non ne avete ancora per molto possiamo proseguire, Principe Aran» disse l'uomo, inarcando le sopracciglia sottili e argentee, visibilmente irritato dalla distrazione del ragazzo.
Freya sorrise, divertita. Sembrava che tutti avessero sempre fretta in quel palazzo. «Stai tranquillo, io non mi annoierò. Ho ancora qualche freccia da sistemare» lo rassicurò, sedendosi a gambe incrociate sotto lo sguardo stranito dei frequentatori del campo.
Più che proseguire il proprio lavoro con le frecce, la ragazza continuò a osservare con attenzione il resto dell'addestramento. Si allenarono in ogni possibile variante della scherma e lei rimase attenta per tutto il tempo, cercando di interpretare i movimenti e coglierne la logica. Certo non sarebbe bastato per aiutarla a migliorare, ma era un inizio. Il pomeriggio volgeva al termine quando i due Principi vennero lasciati andare, non prima di aver parlato a lungo con il maestro d'armi, il quale fece ripercorrere loro tutti gli errori commessi durante il duello. Solo quando i ragazzi ebbero corretto ognuno di essi da sé, comprendendone tutte le implicazioni, l'uomo si allontanò e scomparve oltre la soglia dell'armeria.
Aran, sfinito, la raggiunse nuovamente e si lasciò cadere a terra al suo fianco. Quando notò che il giovane respirava di nuovo normalmente, Freya disse: «Quindi è così che voi giovani nobili trascorrete le giornate.»
Aran alzò lo sguardo su di lei e sorrise. «Non c'è via di mezzo, o siamo qui al campo a duellare o in biblioteca con il naso nei libri» rispose.
La ragazza rammentò le sue parole di qualche ora prima. Aveva affermato che per lui combattere era stato difficile, all'inizio, e che tutt'ora continuava a non piacergli particolarmente. Sperando di non risultare troppo invadente, domandò: «Ti senti più a tuo agio fra i libri che fra le armi, non è vero?»
Il giovane Principe restò in silenzio per un attimo. Poi asserì: «Sì, effettivamente preferisco avere per le mani qualcosa che arricchisca le mie conoscenze piuttosto che uno strumento di morte. Ma non ho molta scelta e, in ogni caso, saper maneggiare una spada può salvarti la vita.»
Questa volta fu Freya a restare silenziosa per un lungo momento, prima di decidersi a parlare. «Per questo ho bisogno di imparare a impugnarne una come si deve, anche se l'idea non mi fa impazzire. Potrebbe arrivare il giorno in cui il mio arco non basterà e voglio essere pronta a qualunque evenienza » disse infine.
La verità era che, dal momento in cui aveva lasciato la sua casa, aveva iniziato a rendersi conto che il mondo era molto più grande di quanto avesse mai immaginato quando s'immergeva nelle pagine delle Saghe di Finian; il pensiero di non essere preparata ad affrontare l'ignoto la spaventava.
Rendendosi conto che la sua mente stava andando alla deriva e che Aran la stava guardando, cercò di alleggerire il tono della conversazione. «Comunque non so quanto il vostro maestro possa essere disposto a insegnare a una donna, non ne vedo molte qui» scherzò.
«Posso farlo io» disse Aran, semplicemente. «Non conosco tutti i segreti della spada, ma posso insegnarti quello che so.»
«Lo faresti davvero?» domandò lei.
Il ragazzo annuì. «Non farò l'errore di sottovalutarti solo perché sei una ragazza.» affermò. Poi, come se nulla fosse, si alzò e iniziò a camminare verso l'armeria.
Solo quando fu arrivato a metà del campo Freya comprese: «Non vorrai iniziare adesso?» chiese, alzando un po' la voce per farsi udire. Non le piaceva urlare, si rese conto. Le dolevano quasi le orecchie, come se fossero state talmente abituate al silenzio da non sopportare quel tipo di suono.
«Voglio solo capire quale tipo di spada possa essere adatta a te» ribatté lui, facendole cenno di seguirlo.
L'armeria era ordinata e perfettamente suddivisa: da un lato le armi d'allenamento, dall'altro quelle da battaglia, a loro volta ripartite in categorie. Perfino per Freya, che non c'era mai stata prima, fu semplice individuare ciò di cui avevano bisogno.
Ben presto furono fermi di fronte a una schiera di spade in cui la giovane non avrebbe saputo proprio come orientarsi. Certo, le era piuttosto evidente che uno spadone a due mani sarebbe stato troppo grande e pesante per lei, ma la sua conoscenza di quale lama nello specifico potesse adattarsi alla sua corporatura si fermava lì. Persa nelle proprie elucubrazioni non si accorse nemmeno che Aran era scomparso, almeno fin quando non lo vide tornare accompagnato da un uomo basso e dal ventre prominente, il quale le rivolse un'occhiata perplessa non appena posò lo sguardo su di lei.
«Parlavate di lei, Principe Aran?» chiese, rivolgendosi al ragazzo come se Freya non fosse nemmeno lì.
«Esatto, Brant» rispose Aran, quieto.
L'uomo, Brant, sembrò interdetto. «Vostra Grazia, non so quanto possa essere conveniente» ribatté poi. Continuava a ignorare totalmente la presenza di Freya, come se Aran fosse l'unico degno di considerazione.
La giovane non poté fare a meno di aggrottare le sopracciglia, irritata. Forse c'erano molte altre cose a cui doveva ancora abituarsi, ma non credeva che sarebbe mai riuscita a scendere a patti con la loro misoginia. Come poteva essere che in un regno totalmente governato da una donna trovassero ancora strano o addirittura sbagliato che una ragazza volesse imparare a combattere? Freya non riusciva proprio a capacitarsene.
Aran, in ogni caso, non sembrava sorpreso dalla reazione di Brant. Con tutta calma si limitò a dire: «Non credo che la Regina avrà qualcosa in contrario. Se così dovesse essere, me ne prenderò ogni responsabilità.»
A quelle parole l'uomo sembrò tranquillizzarsi e, nonostante le occhiate palesemente scettiche che continuava a scoccarle, acconsentì ad affidarle una spada.
La giovane, invece, rimase estremamente sorpresa da come il Principe si fosse schierato dalla sua parte senza esitazione. In fondo, la conosceva a malapena da due giorni e non era certo tenuto ad esporsi a quel punto per lei. Fu così che nella mezz'ora successiva le passarono per le mani tutte le spade che, a detta dell'armaiolo, lei sarebbe stata in grado di portare; naturalmente secondo la sua corporatura, non possibile abilità, che per l'uomo sembrava essere certamente inesistente.
Alla fine, dopo innumerevoli tentativi, Brant decretò che uno stocco poteva fare al caso suo. Freya non ne aveva mai visto uno, perciò quando le venne porta l'elsa della spada si prese un attimo per osservarla attentamente. Impugnatura a una mano, dotata di una guardia piuttosto importante; lama sottile, seppur robusta e rigida, priva di qualsiasi filo e terminante in una punta estremamente acuminata.
«È un'arma di precisione. È fatta apposta per insinuarsi nelle giunture dell'armatura e ferire il nemico nei punti deboli» spiegò Aran.
La ragazza la fece roteare velocemente fra le mani. Era effettivamente molto maneggevole, dato che probabilmente in lunghezza non superava i cinquanta pollici, e forse avrebbe avuto qualche speranza di apprendere come usarla.
«Lo stocco è pensato per portare affondi, perciò non è tagliente, ma ci si può comunque fare del male se lo si utilizza nel modo sbagliato» la incenerì l'armaiolo, dando forse per scontato di ritrovarla di lì a poco ad agonizzare in una pozza di sangue. Poi si allontanò, scuotendo il capo come se avesse appena assistito a qualcosa di assurdo.
«Ti prego di scusarlo, nel suo ambiente non si ha spesso a che fare con le donne» asserì Aran, visibilmente dispiaciuto.
Solo a quel punto Freya si permise di sorridere, commentando ironica: «Deve essere stata dura per lui, immagino che di solito abbia a che fare con persone alla sua altezza.»
«Non vedo alcun motivo per cui tu debba essergli inferiore» ribatté il giovane.
«Lui evidentemente sì» mormorò lei, impedendosi di contrarre i pugni per la stizza.
Quando uscirono il campo era oramai quasi completamente deserto, fatta eccezione per uno sparuto gruppetto di uomini che si allenavano nel corpo a corpo e Darragh, impegnato a parlare nuovamente con il maestro d'arme.
Ignorandoli completamente, Aran si posizionò in una striscia di terra lontana da loro e disse: «Bene. Vediamo cosa puoi essere capace di fare.»
A Freya sfuggì l'ennesimo sorriso. «Non avevi detto che volevi solo trovare l'arma ideale?» ridacchiò.
Il Principe fece spallucce, sorridendo a propria volta. «Ci abbiamo messo meno del previsto. E poi, non sono ancora stanco» rispose, invitandola con gentilezza a porsi di fronte a lui.
La ragazza fece come le era stato detto e procedette a mettersi in guardia per il combattimento.
«Ho l'impressione che tu sappia molto più di quanto non credi» affermò Aran nel notare il gesto di lei.
«Io invece credo che tu mi sopravvaluti» disse Freya. «Non conosco nulla più che le basi.»
Aran assottigliò gli occhi. «Vedremo.»
E così trascorsero un'altra ora buona a cercare di capire quali fossero le potenzialità di Freya e a ripassare tutte le fondamentali della scherma. A ogni tipo di colpo, di punta o di taglio che fosse, corrispondeva una dimostrazione pratica e la ragazza iniziò pian piano a immagazzinare in un cassetto della propria mente ogni informazione che riceveva.
Nel mentre Aran le spiegò anche tutte le componenti della spada, soprattutto della lama, e la loro utilità nel combattimento. La punta per gli affondi, il debole per portare i colpi, il medio per parare quelli più leggeri e il forte quelli di botta.
«Nel caso dello stocco l'unica cosa che dovrai sapere sui colpi di taglio è come pararli. Ti sarà molto più utile la punta che tutto il resto» le disse alla fine della spiegazione sugli attacchi, mentre riprendevano fiato.
Poi passarono alla parte difensiva, anch'essa molto importante se non voleva rischiare di soccombere al primo attacco. Non appena Freya ebbe preso dimestichezza con ogni tipo di movimento i due ragazzi scambiarono anche qualche colpo. La giovane oramai sapeva quanto Aran fosse bravo con la sua Meridis, ma il Principe sembrò molto sorpreso dal tono delle risposte di lei. Le ci sarebbe voluto un po' per rendere fluide le mosse più complesse, ma con quelle più semplici le stava riuscendo piuttosto bene ribattere ai suoi attacchi, anche se andavano certamente perfezionate.
Alla fine di quel primo mezzo allenamento Freya si accorse che le sue braccia erano abituate a tendere un arco, ma non a reggere il peso di una spada: quando si sedettero a terra, incuranti della polvere che si attaccava ai loro vestiti, divenne consapevole di quanto le dolesse anche solo contrarre e distendere i muscoli degli arti superiori.
Per molto tempo restarono immobili, in perfetto silenzio, prima che Aran parlasse. «Per essere una che conosce solo le basi te la sei cavata molto bene» disse, sorridendo.
«È difficile valutare cosa sai fare quando le uniche volte che hai usato una spada stavi menando fendenti contro un albero» rispose lei. «Non ho mai avuto altro modo per continuare ad allenarmi.»
Di nuovo silenzio, mentre Aran la osservava. Sembrava che si stesse facendo coraggio per chiederle qualcosa. «È stata sempre tua madre a insegnarti?» domandò infatti dopo che lei ebbe ricambiato il suo sguardo, come per invitarlo a proseguire. «Non sei costretta a parlarne, se non ne hai voglia.»
Freya sorrise, tranquilla. «Mi fa piacere parlare di lei» ribatté, prima di rispondere al quesito che le era stato posto. «Sì, è stata mia madre. Voleva che sapessi difendermi in tutti i modi possibili, perciò mi stava insegnando i fondamentali. Credo sapesse che avrei sempre preferito l'arco, però.»
«Hai tutte le ragioni per farlo; non ho mai visto nessuno tirare come te» disse il ragazzo. Lasciò vagare lo sguardo per lo spiazzo, prima di aggiungere: «Doveva essere una donna molto coraggiosa.»
«Lo era davvero» sussurrò lei e se c'era qualcosa di cui era sicura era proprio quella.
Fu proprio in quel momento, quando Freya aveva abbassato la guardia e stava finalmente lasciando andare del tutto la tensione, che una voce li interruppe.
«Forse l'hai idealizzata un po' troppo. Mi chiedo con quanto di tutto questo coraggio di cui parli abbia potuto abbandonare sua figlia nel mezzo di una foresta in così tenera età.»
Freya scattò in piedi e si voltò, solo per trovare l'espressione arrogante di Darragh che la guardava dall'alto in basso. Sentì le spalle che le si irrigidivano, come se da un momento all'altro qulcuno potesse attaccarla e ferirla gravemente, e una rabbia che non le era mai appartenuta prima divampava nel suo sguardo con la stessa furia di un incendio. Non si riconosceva, in quel sentimento ribollente e oscuro, ma la sua forza fu tale che non ebbe nemmeno il tempo di stupirsene. Lo stocco che ancora stringeva fra le mani si conficcò con veemenza nel terreno, ai piedi del Principe Ereditario, il cui volto tutto a un tratto si fece pallido, come se solo in quel momento si fosse reso conto di cosa avesse detto. Senza nulla più da stringere per arginare l'ira, non le restò altro che serrare i pugni.
«Prima di parlare di ciò che non conosci» sibilò, facendo un passo in avanti che costrinse Darragh a indietreggiare, «dovresti soffrire almeno la metà di quello che ho sofferto io, nel sapere che tua madre ti avrebbe protetta a costo della vita e forse l'ha fatto.»
Freya avvertì le proprie stesse parole trafiggerla dritta al cuore lentamente, una alla volta: era la prima volta in assoluto che dava voce a ciò che fino a quel momento si era rifiutata perfino di pensare.
Aran la guardava, senza sapere cosa dire di fronte a tanto dolore. Solo in quel momento si rese conto che, nonostante la sua apparente calma, c'era tanto che Freya teneva ben chiuso dentro di sé e, probabilmente, lasciava trapelare molto raramente.
Irritata con se stessa per aver mostrato così tanto dei propri sentimenti a tutti quegli occhi estranei la giovane si allontanò a testa alta, senza più dedicare nemmeno uno sguardo a Darragh e alla sua ignoranza; fu solo al limitare del campo che notò Malia correre come una forsennata verso di lei, tenendosi l'orlo della veste.
«Mia signora» ansimò, «non vi trovavo in nessun luogo del castello, non avevo la ben che minima idea di dove foste...»
Qualunque cosa avesse voluto dire dopo si perse in un mormorio indistinto, mentre l'ancella osservava sconcertata il bell'abito di Freya, inzaccherato di terra e polvere. In ogni caso sembrò intuire che qualcosa l'aveva turbata e si limitò a dire: «Venite, vi porto immediatamente a darvi una ripulita.»
Il tumulto che l'aveva investita la stava ora abbandonando, perciò Freya si lasciò guidare via dall'ancella senza opporsi. Ogni passo era uno sforzo in più per trattenere le lacrime che quelle parole di puro veleno stavano minacciando di far scendere sulla ferita ancora aperta della perdita di sua madre. Mentre si allontanava sentì arrivare anche la paura, puro e semplice terrore che non avrebbe mai smesso di sanguinare fino a che non avesse scoperto la sorte a cui Eleana era andata incontro.


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I passi di Aran rimbombavano nei corridoi vuoti.
L'urgenza che lo animava era qualcosa che fino ad allora gli era stata sconosciuta, ma che sapeva derivare dalla consapevolezza di quanto male avessero causato le parole che Darragh aveva rivolto a Freya, il pomeriggio precedente; sentiva di aver aspettato anche troppo, frenato dalla propria razionalità. A dire il vero, aveva provato a cercarla, subito dopo che si era voltata ed era corsa via, ma quando aveva intuito che si era ritirata nei propri appartamenti aveva desistito; era andato a dormire con un peso sullo stomaco, cercando di ripetersi che doveva imparare a mantenere un certo distacco dalle emozioni altrui. Naturalmente, non era servito a nulla: l'angoscia si era protratta per tutto il giorno e Aran aveva sperato di vederla comparire al campo d'allenamento, o alle scuderie. Di lei, però, non c'era stata nessuna traccia.
Aveva riflettuto a lungo su cosa fosse meglio fare, in parte perché non aveva il coraggio di andare a bussare alla porta della giovane: forse, aveva paura che non si sarebbe aperta, che Freya avrebbe respinto qualunque cosa avesse potuto dirle e si sarebbe rifiutata di avere nuovamente a che fare con lui; quella possibilità lo turbava molto più del normale. Era stato solo durante la cena di quella sera, quando aveva visto Darragh continuare a comportarsi come se nulla fosse, che aveva deciso che se non l'avesse fatto lui, qualcuno avrebbe pur dovuto chiedere scusa a Freya. La verità era che Aran aveva bisogno di accertarsi che lei stesse bene, perché, qualunque cosa significasse, sentiva di non poter sopportare nemmeno l'idea del suo dolore.
Forse, era vero quello che suo fratello aveva continuato a ripetergli negli anni: la sua tendenza a lasciarsi coinvolgere non l'avrebbe mai reso un buon guerriero. Eppure, in qualche modo, le parole di Darragh non gli pesavano più come avevano fatto in passato; sembrava che tutto stesse acquistando una prospettiva diversa, se legato a Freya. Senza più esitare, il Principe era partito alla ricerca di Malia, la quale gli aveva detto dov'era stata alloggiata la ragazza.
Le gambe iniziavano a dolergli, quando la notò: era appoggiata al davanzale in pietra di un piccolo bovindo sospeso sui giardini interni, immersi nella penombra notturna spezzata di tanto in tanto dalle lanterne portate dai soldati, di guardia sulle mura; quegli sprazzi di luce a tratti le illuminavano il viso altrimenti colorato di ombre. Non sembrò accorgersi della sua presenza, almeno finché non giunse anche lui nello sporadico cono di luce. La ragazza lo osservò, poi abbassò lo sguardo. Il silenzio aleggiò su di loro qualche attimo, senza però essere spiacevole.
«Non ho la minima idea di come scusarmi per ciò che mio fratello ti ha detto. Non aveva il diritto di sputar sentenze su ciò che non conosce, né tanto meno contro tua madre» mormorò infine Aran, parlando piano per non turbare quella coltre di tranquillità che sembrava isolarli da tutto il resto.
Freya sembrò assimilare lentamente le sue parole, prima di rispondere: «Non devi fare assolutamente nulla per scusarti con me. Il ricordo che conservo di mia madre non potrà mai essere rovinato e so che quelle parole non sarebbero mai potute appartenere a te. Tu non sei tuo fratello; ho avuto la sensazione che tu tenda a dimenticarlo.»
Questa volta fu Aran ad abbassare lo sguardo. Era vero che si sentiva sempre in dovere di rimediare alla mancanza di tatto del fratello: era capitato spesso che usasse toni simili, soprattutto verso coloro i quali lavoravano per loro. Cercava sempre di ricordargli che tutti meritavano rispetto, indipendentemente dal loro ruolo a palazzo, ma Darragh raramente lo ascoltava, perciò era sempre lui a chiedere scusa al posto suo. Si stupì di come lei fosse riuscita a cogliere con tanta chiarezza quel particolare del suo rapporto col fratello.
«Ci ho riflettuto molto oggi, sai? La verità è che, in una parte di me, l'affetto per lei è costretto a convivere col dolore per la sua scomparsa e ho finito con il reagire bruscamente anche di fronte a un commento che non avrebbe dovuto avere nessuna importanza» spiegò Freya con voce calma, seppur venata di una profonda e a stento celata amarezza, ignara delle riflessioni di Aran.
«Ha importanza, se ti ferisce» disse lui, avvicinandosi di un passo. «Questo è il problema di Darragh: pensare sempre che le parole non abbiano un peso, quando invece ne hanno. Non gli permetterò mai più di parlarti in quel modo; te lo posso promettere.» Si rese conto con un attimo di ritardo di aver agito d'istinto e di essere fin troppo prossimo a lei, ma Freya si limitò a fissarlo, spalancando gli occhi chiari, senza far nulla per allontanarsi.
«Questa ora è anche casa tua ed è giusto che tu la senta come tale» concluse infine Aran.
A quell'ultima frase l'espressione della giovane si fece seria, mentre rispondeva con un enigmatico: «Sì, ora è casa mia. Non so per quanto potrà durare, ma lo è.»
Il Principe la scrutò, cercando di intuire qualcosa di più, ma potè notare solo le sue dita stringere la pietra grezza del bovindo; nient'altro. In breve il silenzio li avvolse nuovamente; rimasero solo il rumore delle bestie notturne che vagavano per i campi in lontananza e lo scalpiccìo dei soldati che procedevano in un'incessante ronda. D'improvviso, in quella quiete, si ritrovò a chiedersi da dove Freya traesse quella straordinaria forza, come trovasse il coraggio di porsi tante domande su se stessa e di accettarne le risposte, belle o terribili che fossero. Per la prima volta in vita sua, sentì il bisogno di scavare un pò più a fondo nella propria storia personale, come stava facendo lei, ma quel desiderio fu accompagnato dal terrore di non esserne in grado.
Le parole gli uscirono di bocca, incontrollate: «Sarò mai capace di affrontare la verità nello stesso modo in cui sei riuscita a farlo tu?»
Non ci fu bisogno di specificare null'altro. Freya comprese al volo e non esitò nemmeno un istante nel rispondere: «Quando verrà il momento, troverai tutta la forza necessaria. C'è già, da qualche parte, nascosta in te.» Poi, gli sorrise. «Buonanotte, Aran» accennò appena, congedandosi, e puntò dritta verso la sua porta, appena distante dal bovindo.
Aran rimase lì, le fiamme delle fiaccole che scaldavano a tratti il suo viso, con la sempre crescente sensazione che quel momento si stesse avvicinando inesorabilmente.

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 10 - La corte di Errania ***


CAPITOLO 10
- LA CORTE DI ERRANIA -



Quella notte, nulla ruppe la calda coltre dei sogni di Freya: parlare con Aran aveva fatto scendere su di lei una tranquillità che non avrebbe mai creduto possibile. Fu una calma risanatrice, che le permise di recuperare del tutto le forze perdute negli ultimi tempi a causa dei suoi ripetuti incubi e del lungo viaggio affrontato.
Il suo sonno era tanto profondo che solo quando avvertì i propri sensi sgusciare fuori dal torpore e riacquistare acutezza aprì lentamente gli occhi. Ciò che trovò la lasciò confusa per qualche attimo: un'intensa luce dorata abbracciava tutto, dal mobilio ai tendaggi, per poi scivolare sulle pareti in pietra grezza. Impiegò un istante a capire che era la luce del sole a inondare tutto a quel modo. Com'era possibile che fosse già così fulgida e luminosa a quell'ora del mattino?
Si mise a sedere delicatamente e comprese il perché non appena osservò il cielo, al di là del vetro colorato che occupava la parete alla sua destra: il Grande Padre aveva già compiuto parte del suo percorso nel cielo; dovevano essere trascorse almeno tre ore, se non di più, dall'alba. La mattina era ancora giovane, ma era comunque passato molto dall'ora in cui si svegliava abitualmente. Gettò le gambe oltre il letto, lieta che non dolessero più come il giorno precedente. Subito si sentì rincuorata nel percepire il calore del pavimento in legno sotto le piante dei piedi: le ricordò quello di casa.
Non appena fu del tutto fuori dalle coperte quasi si lanciò verso la finestra, smaniosa di permettere al sole di riscaldarle il viso. Appoggiò le mani sul davanzale e socchiuse gli occhi, concedendosi un istante di pace, nonostante oramai il sonno l'avesse abbandonata. Poi, volse lo sguardo ai giardini, molto più in basso; la sua vista acuta arrivò a scorgere i colori sgargianti dei fiori, i petali multicolori schiusi a bearsi come lei dell'imperante calore che vegliava sulla terra. Si riscosse solamente quando il pensiero di avere un'intero castello ancora da esplorare la riempì di aspettativa.
Si avviò verso il baule e cercò un abito che potesse fare al caso suo; lo trovò sul fondo, leggero, di un bel color cobalto e si vestì più velocemente che poté. Raccolse alla svelta parte dei capelli sulla nuca, senza curarsi di cercare lo specchio con lo sguardo, e lasciò che il resto le ricadesse sulle spalle. Soddisfatta del risultato prese un lungo respiro, cercando il coraggio necessario per varcare la porta che l'avrebbe catapultata nel mondo di corte. Si era oramai decisa quando, prima che potesse anche solo posare la mano sulla maniglia, qualcuno bussò sul legno massiccio dalla parte opposta.
Freya aprì all'istante e il battente si scostò per lasciarle intravedere Aran, che pareva essersi svegliato decisamente prima di lei. Non poté trattenersi dal sorridere mentre lui la studiava attentamente, come se volesse accertarsi che il suo malessere del giorno prima se ne fosse andato del tutto. Come poteva, dopo così poco tempo, preoccuparsi a quel modo per lei?
«Sto bene, Aran, non devi preoccuparti in alcun modo per me» affermò, lasciando che la propria espressione si addolcisse e anticipando qualsiasi cosa il giovane potesse dire o fare.
Lui rimase ammutolito per qualche istante, sorpreso dalla sua perspicacia, prima di riacquistare la parola. «In realtà, sono qui perché oggi mi piacerebbe farti visitare la nostra corte, se ne hai voglia» disse. Poi, aggiunse: «Se però hai in mente qualcos'altro, oppure desideri stare sola, non c'è alcun problema. Mi potrai venire a cercare tu quando...»
Vedendolo tanto agitato, Freya non lo lasciò andare oltre: «Voglio vedere ogni angolo di questo castello fin da quando sono arrivata. Aspettavo solo di averne l'opportunità» lo interruppe, nel tentativo di fargli riprendere fiato.
Aran si fermò, imbarazzato di aver perso il controllo della propria lingua, e con un profondo respiro asserì: «Bene, allora andiamo. Da dove vorresti cominciare?»
«Sei tu la mia guida, perciò affido a te l'ardua decisione» scherzò la ragazza, uscendo dalle sue stanze e fermandosi di fronte a lui con le mani allacciate dietro la schiena, in attesa.
Il giovane si produsse in un mezzo sorriso. «Mi piace che tu riesca a parlare con me in modo tanto semplice e diretto, sai?» commentò.
Solo in quell'istante Freya si rese conto di aver dato sin da subito del tu a un Principe, senza che lui l'avesse mai autorizzata a farlo. «Mi dispiace di essermi presa la libertà di darti tanta confidenza, non mi ero resa conto di essere stata tanto maleducata» disse, arrossendo violentemente.
Aran fece evaporare la sua preoccupazione, scoppiando a ridere e ribattendo: «Non c'è alcun motivo per cui tu ti debba rivolgere a me con deferenza, avrai a mala pena un anno in meno di me.»
«Sì, ma tu sei un Principe» rispose lei, prima di essere interrotta dal fissarsi dello sguardo del ragazzo nel proprio.
«Non ha alcuna importanza. Promettimi che non mi tratterai mai come se ti fossi superiore» soggiunse, come se per lui fosse qualcosa di estremamente importante.
Quell'improvviso contatto visivo fece rimanere Freya senza respiro, ma ugualmente riuscì ad annuire. «Te lo prometto.»
In breve, entrambi si ritrovarono a sorridere, una felicità sincera che li invadeva senza una ragione precisa. Solo passato quel momento Aran iniziò ad avviarsi lungo il corridoio; sembrava non avere esitazioni sulla direzione da prendere.
«Senza alcun dubbio dobbiamo iniziare dalla Galleria dei Ritratti» spiegò, riprendendo il discorso precedente dal punto in cui l'avevano interrotto.
Lasciarono la torre in cui si trovavano gli appartamenti di Freya e attraversarono una serie di sale e corridoi minori che li portarono all'ala est del castello; lì, Aran la condusse al secondo piano, fino a una porta grande il doppio di quelle che s'intervallavano normalmente lungo le pareti. Intarsi d'oro puro ne fregiavano la superficie, facendola sfavillare debolmente alla luce che traspariva dalle finestre smerigliate. Freya non osò fare il primo passo: anche solo la maniglia doveva valere una fortuna. Fu Aran ad aprirla, permettendole di entrare in una sala lunga e stretta di cui quasi non si scorgeva il fondo.
La giovane varcò la soglia e un brivido le percorse la schiena quando lo sguardo le cadde sulla parete alla sua destra: un gigantesco ritratto alto almeno un braccio più di lei era lì appeso e con dovizia di particolari vi era dipinta, sontuosamente vestita, la Regina Mirea. Solo il trono la sovrastava alle sue spalle, mentre tutta la stanza che le faceva da sfondo, sebbene fosse quella del trono e fosse fregiata per tutta la lunghezza delle sue pareti, sembrava convergere su di lei, dandole ancora più importanza e imponenza. I suoi occhi, ghiaccio puro, la osservavano severi e per qualche istante la giovane si sentì schiacciare sotto il peso del quadro e di ciò che raffigurava. Quando Aran le posò una mano sulla spalla, trasalì.
«Lo so» sussurrò lui, quasi come se avesse timore di risvegliare qualcosa di enorme sopito all'interno della cornice, «questo dipinto mette in soggezione. Quand'ero piccolo ne avevo una paura tremenda.. Gli altri ti incanteranno.»
Con fatica immane, Freya distolse lo sguardo dalla figura inflessibile della Regina e l'aura di paura che l'aveva avvolta si dissipò non appena passarono oltre. Si trattava certamente di suggestione, doveva esserlo. Quando riuscì a volgere la propria attenzione agli altri quadri, la colpì come fossero tutti più piccoli di quello di Mirea, tanto imponente da sembrar usurpare spazio a chi era venuto prima di lei e a coloro che sarebbero giunti in futuro. Solo sulla parete di fondo, ancora troppo lontano per essere ben visibile, sembrava esserci un dipinto in grado di rivaleggiare con quello che la Regina aveva commissionato per sé stessa; la ragazza immaginò di dover attendere la fine della visita per scoprire di cosa si trattasse.
Prima che potesse anche solo rischiare di restare intrappolata nel pantano dei propri pensieri, Aran la salvò proseguendo lungo la sala, sempre attento a non lasciarla indietro. Trascorsero più di un'ora fra quelle mura cariche di storia del Regno di Riagàn, seguendone il corso attraverso i moltissimi quadri disposti in file che arrivavano quasi a toccare il soffitto. Innumerevoli furono i Re e le Regine degni di essere ricordati per le gesta che avevano compiuto o per particolari avvenimenti che si erano ritrovati costretti ad affrontare durante i loro regni.
Freya ascoltò rapita la voce di Aran che narrava storia e leggenda, fondendole in un unico racconto che le fece comprendere molto sulla natura degli uomini. Erano impulsivi, spesso si lasciavano trascinare dalle proprie passioni e dai propri sentimenti, come se gli anni di vita che gli venivano concessi fossero troppo pochi per poter fare tutto ciò che avrebbero voluto; erano però anche capaci di compassione e altruismo, di saggezza e diplomazia, di equità.
Anche i sovrani considerati meno noti avevano un posto d'onore in mezzo ai volti e ai nomi più conosciuti e lei ascoltò i vari aneddoti su di loro con lo stesso identico interesse. Alla giovane fu presto chiaro come il potere e la ricchezza non preservassero dalla sofferenza: molti di quei regnanti, apprese dalle parole di Aran, erano rimasti soli dopo aver perso consorti e figli per le cause più disparate, da lunghe e atroci epidemie a battaglie e aggressioni sanguinarie.
Parola dopo parola raggiunsero la parete di fondo, che a Freya, la quale aveva i piedi doloranti e la memoria satura di informazioni, era parsa fino a quel momento irraggiungibile. Lì, accuratamente bordato da un'immensa cornice intagliata nella pietra a formare un ricco intarsio, c'era il ritratto che già in lontananza aveva catturato la sua attenzione, più di qualunque altro.
Raffigurava una coppia, regale e solenne, la quale trasmetteva un profondo senso di unione che le fece formare uno stretto groppo in gola. L'uomo era alto, aveva capelli biondo miele lunghi fino alle spalle e i suoi occhi blu profondo sembravano guardare il resto della sala, come per vegliare su tutti gli altri sovrani che la condividevano con lui e la sua consorte; aveva spalle larghe coperte da un mantello scuro e una corona d'oro tempestata sul capo. Dalla sua cintura pendeva una grande spada, mentre il braccio destro teneva stretto quello della moglie.
Lei era di una bellezza pura e splendente: i lunghi capelli rossi le scendevano sciolti lungo le spalle, coronati da una tiara d'oro di finissima fattura, mentre gli occhi, di una particolare sfumatura indaco, trasmettevano dolcezza e forza al tempo stesso; il suo vestito era azzurro cielo, finemente ricamato, mentre una cintura scintillante di turchesi le cingeva la vita.
Freya impiegò un istante per riconoscere la Sala del Trono, alle loro spalle, perché era molto differente da come appariva attualmente: i due scranni dei sovrani erano di legno massiccio, rivestiti su schienale e seduta di bianco candido, e le pareti erano decorate semplicemente da stendardi e intagli molto più semplici di quelli ora presenti. Provò a chiedere ad Aran di quel dipinto, ma la voce le morì in gola per ben tre volte e alla fine fu lui a intervenire.
«Quelli sono Re Hamlan e la sua sposa, la Regina Mirana. Loro sono i primi sovrani che Riagàn abbia mai avuto: il loro casato ha risolto tutti i conflitti che imperversavano nelle nostre terre e ci ha finalmente uniti in un solo regno; fu il popolo stesso a sceglierli all'unanimità. Sono anche i più amati e ricordati dalla nostra gente, uno di quegli affetti che vengono tramandati attraverso i secoli» le disse osservando la sua espressione stupita e, al contempo, rapita da quella coppia che sembrava tanto unita e presente da essere lì, in carne ed ossa.
Freya rimase immobile a guardare i due sovrani per un tempo che parve infinito, mentre cercava di scorgere qualcosa prima negli occhi del Re e poi, più alacremente, in quelli della Regina. Si ritrovò a desiderare che prendessero vita, che si trovassero di fronte a lei per spiegarle cosa avesse portato a quel loro presente, così confuso come lo era stato il loro passato. Poi, la mano di Aran la riscosse dai suoi pensieri, poggiandosi sul suo avambraccio. La giovane scosse la testa come per scrollarsi qualcosa di dosso e si voltò a guardarlo.
Fu strana l'impressione che la colse: improvvisamente le parve, in modo tanto vivido da sembrare reale, di essere divenuti loro i soggetti di un dipinto. Forse, fu per gli occhi dei sovrani fissi su di loro, attenti e penetranti, mentre sembravano chiedersi come due ragazzi così giovani potessero essere finiti in quella sala, ritratti fra re e regine. Era come se il tempo si fosse cristallizzato lì e non in quelle nicchie, uguali a sé stesse da secoli. Durò solo un secondo. L'aria immota riprese presto a scorrere nei polmoni di Freya, che bruciarono come se fosse rimasta in apnea troppo a lungo.
«Stai... stai bene?» mormorò Aran, visibilmente preoccupato per la momentanea assenza di lei.
La ragazza sorrise. «Sì, sto bene. È solo che... questo quadro mi ha colpita. Sarà perché è così antico e imponente» ribatté, riacquistando fermezza nel tono man mano che parlava.
Aran annuì. «Talmente antico che non è rimasto più nulla del suo autore, solo un piccolo scarabocchio all'angolo della tela» sussurrò, puntando lo sguardo sul minuscolo ghirigoro, quasi invisibile.
«Sarà meglio andare, ci sono ancora moltissime cose che vorrei mostrarti» disse infine, recuperando la sua normale sicurezza.
Uscirono così dalla Galleria dei Ritratti, diretti verso la moltitudine di sale ancora da visitare, dislocate in tutto il castello. Camminarono a lungo e chiacchierarono di molte cose: della loro infanzia, dei luoghi in cui l'avevano vissuta e delle vicissitudini che si erano trovati ad affrontare. Freya si rese presto conto che, nonostante vivesse in un castello, Aran ne aveva viste molte, soprattutto se si parlava dei soldati d'istanza al palazzo. Il giovane Principe le spiegò che sua madre lasciava intendere sempre molto poco degli affari del Regno, ma nascondere un'intera compagnia di cavalieri sanguinanti che ritornavano dopo misteriosi periodi di assenza, o addirittura la sparizione di alcuni di essi, era impossibile perfino per lei.
D'altro canto, nemmeno la ragazza era stata sempre tranquilla nella foresta. Raccontò ad Aran delle battute di caccia e delle lunghe ore passate a raccogliere i frutti della natura per procurarsi il sostentamento, di sua madre che le insegnava a difendersi e a orientarsi nel fitto sottobosco.
«Non hai mai fatto domande su tutti questi misteri?» chiese Freya dopo un silenzio particolarmente lungo. Stavano attraversando la Sala del Consiglio, in cui imperava un'onnipresente luce dovuta a un'immensa vetrata locata alle spalle dello scranno, dove la Regina sedeva durante le sessioni.
«Certamente. Una notte mi sono anche intrufolato negli alloggi delle guardie, immaginando di trovare chissà che cosa. Alla fine mi hanno ritrovato su una torretta di guardia col naso all'insù, mentre cercavo di individuare alcune costellazioni che il mio precettore mi aveva mostrato. Ricordo ancora che spavento tremendo ho fatto prendere a mia madre» rispose lui, sorridendo.
Quando ebbero fame raggiunsero le cucine e consumarono lì un pasto frugale; Freya intuì che Aran si recava spesso a mangiare con le cuoche dal modo in cui si rivolgevano a lui, rispettoso, certo, ma con una nota di familiarità che non mancò di strapparle un sorriso. Poi, Aran le mostrò i giardini alla luce del giorno; per quasi tutto il pomeriggio vagarono nei viali lastricati, facendo a gara per riconoscere piante e fiori che spandevano il loro fragrante profumo nell'aria. Infine, quando il sole si stava già avviando verso il lontano orizzonte, rientrarono.
Aran la condusse in una camera del corpo centrale, non lontana dalla Sala del Trono: era rivestita esclusivamente di lunghi arazzi multicolori, che parevano avere qualcosa di diverso da quelli decorativi visti fino a quel momento. Erano davvero di tutte le forme e fogge, ma a spiccare erano quelli più grandi ed elaborati, appesi lungo tutta la parete di fronte alla porta: sette in tutto, fra di essi quello centrale la faceva certamente da padrone; era grande il doppio, se non di più, degli altri sei. Si trattava di uno stendardo purpureo, bordato di nero, e recante uno stemma sapientemente intrecciato, attorno a cui si snodava l'effige "Città di Errania". Il simbolo in questione era composto da uno scettro nero incrociato con una spada, a cui faceva da sfondo uno scudo dal bordo dorato; attorno a quest'ultimo si avvolgeva un rampicante irto di spine e foglie frastagliate, anch'esso nero, terminante in un fiore; dall'interno di quest'ultimo fuoriuscivano saettanti lampi. Freya lo riconobbe all'istante: come avrebbe potuto non farlo, dopo le tante volte che lo aveva visto campeggiare sulle casacche dei soldati di Mirea?
«Questi sono gli stendardi delle principali città del Regno. Questo, invece, è quello della capitale» spiegò Aran.
La giovane passò in rassegna tutti gli stendardi, uno a uno. Gli unici due che potessero esserle in qualche modo familiari erano quello dorato di Concivis e quello color grigio argento di Plametia, posti in fondo alla lunga fila. Ancora una volta, la sua curiosità di saperne qualcosa in più prese presto il sopravvento, e Aran si ritrovò tempestato da una miriade di domande. Con un gran sorriso in volto, il Principe non esitò a spiegarle brevemente dove fosse situata ognuna delle grandi città di Riagàn che lei ancora non aveva visto, quali fossero le sue caratteristiche e il suo preciso ruolo nel funzionamento del Regno.
«Quando ne avremo l'occasione te le indicherò tutte su una cartina» promise il ragazzo, mentre i loro passi li conducevano fuori anche da quell'ultima sala.
Nell'uscire, Aran fece per aggiungere qualcosa, con un tono che a Freya parve quasi dispiaciuto: «Sembra che la nostra visita guidata si sia conclusa. Hai visto tutte...» Improvvisamente, però, si fermò a metà frase, un'idea che sembrava andarsi a formare nella sua mente.
«Che succede?» gli domandò Freya, cercando di capire a cosa stesse pensando.
«Mi stavo sbagliando, non ti ho mostrato tutte le sale. Ce n'è ancora una che voglio che tu veda. Ti riguarda in prima persona, io credo, ed è la mia preferita» ribatté lui, trascinandola con sé verso il corridoio e poi su per lunghe rampe di scale che li portarono all'ultimo piano del palazzo, in una camera che pareva essere esattamente sopra quella del trono.
Freya ebbe la netta sensazione che non avrebbero dovuto trovarsi lì. Si voltò verso Aran per esprimere il proprio dubbio e ne ebbe la conferma quando incontrò i suoi occhi.
«Mia madre ha interdetto questa sala moltissimo tempo fa, perciò non avrei mai dovuto nemmeno metterci piede. Sono riuscito a entrare in possesso di una copia della chiave per caso e, nonostante il divieto, non posso più fare a meno di entrare qui, di tanto in tanto» le spiegò, prima di aprire la porta con cautela e permetterle di entrare in un salone ampio, circolare.
La visione di quel luogo la lasciò senza fiato e cancellò il timore delle conseguenze che quella visita avrebbe potuto avere. Non furono le colonne di pietra che si alternavano alle pareti e culminavano in elaborati capitelli a sorprenderla, né il soffitto a cupola. Fu piuttosto ciò che conteneva. All'esatto centro, un tavolo rotondo in massiccio legno di ciliegio occupava un'enorme porzione di pavimento, circondato da dodici sedie dagli alti schienali; nonostante questa fosse una visione più che normale, meno lo era la fontanella in marmo che spuntava dal pavimento per poi bucare il tavolo. Non sgorgava acqua dalle conchiglie rette in mano dalle esili figure di due fate dalle ali perfettamente scolpite, ma era comunque qualcosa di estremamente inusuale.
Tuttavia, quando la sua vista spaziò sul resto, anche quella fontana divenne all'insegna della normalità. Lungo le pareti si allineavano teche di vetro, in cui erano racchiusi un sacco di oggetti molto strani. Freya vide bacchette magiche intagliate e con incastonate un'infinità di pietre, vasi multicolori di tutte le fogge e dimensioni che sembravano pulsare a intervalli regolari, boccette che racchiudevano liquidi cangianti di luce propria, bauli in legno e madreperla e altri oggetti a cui non seppe dare un nome e che, probabilmente, solo un Incantatore ben istruito avrebbe saputo come utilizzare.
Poi, vide i ritratti che occhieggiavano al di là delle teche e il cuore le si fermò. I volti dipinti sulle tele dovevano essere quelli degli Incantatori che avevano servito Mirea; al contrario dei re e delle regine della galleria, tutti immortalati, forse per tradizione, all'interno della Sala del Trono, essi avevano alle spalle gli fondi più diversi. Ne ignorò la maggior parte, fino a soffermarsi sulla fila più in basso, l'ultima. Quando ebbe individuato ciò che cercava si precipitò a osservarlo. Sì, anche sua madre era lì, e quando si ritrovò a guardare quegli occhi a lei così familiari non poté che cercare di ricacciare indietro le lacrime con tutte le sue forze, sorridendo nonostante tutto.
Eleana era sola, seduta su una panchina in pietra del giardino, con un passerotto posato sulle dita affusolate. Portava un vestito color acquamarina dalle maniche ampie, i capelli sciolti ed era felice come non l'aveva mai vista. Poteva percepirlo attraverso la sottile membrana della tela, come se il pittore fosse riuscito a catturare le emozioni e i sentimenti con i suoi colpi di pennello, fissandoli nei pigmenti.
In quel momento la colse la consapevolezza che quel giorno aveva visto un'infinità di cose che sua madre aveva conosciuto prima di lei, attraversato luoghi dove lei stessa aveva camminato. Le lacrime che aveva trattenuto fino ad allora lasciarono i suoi occhi e le caddero lungo le guance. I ricordi del passato, quelli che gelosamente conservava nel più profondo del suo cuore, si stavano lentamente fondendo con quelli che stava acquisendo, dandole una più ampia consapevolezza della persona che era stata sua madre.
Dietro di lei, Aran rimase in rispettoso silenzio finché lei non si voltò. Il ragazzo parve trattenere il respiro, come temendo la sua reazione, ma nel suo viso qualcosa cambiò quando Freya sorrise nuovamente. Era un sorriso sincero e lo furono anche le sue parole: «Grazie, Aran. Grazie. Non avrei mai potuto sperare in così tanto.»
Per un attimo il giovane non seppe cosa rispondere, poi non poté fare a meno di sorriderle di rimando: «Non hai nulla di cui ringraziarmi, avevi il diritto di capire ciò che ha visto e vissuto lei» le disse in tono sommesso.
Quella seconda frase la lasciò basita. Era come se avesse espresso ciò che lei aveva solamente pensato pochi istanti prima.
Solo allora Aran fece un passo in avanti e osservò anche lui il ritratto di Eleana, assorto. «Doveva essere davvero l'Incantatrice più potente che Mirea abbia mai avuto, così come una delle sue più preziose alleate. Ho sempre saputo che per mia madre la magia è un argomento delicato, ma solo ora mi rendo conto che deve essere stata una conseguenza della vostra scomparsa» aggiunse, quasi tra sé e sé.
«La Regina non ha mai più avuto altri Incantatori a suo servizio?» domandò la ragazza.
Aran scosse il capo. «Fatta eccezione per Gorman, non c'è più nessun Incantatore qui a corte.»
Freya non disse nulla, ma quelle parole aprirono una nuova serie di interrogativi. Non conosceva la storia di come Mirea fosse salita al trono, ma una delle cose di cui aveva sempre avuto la certezza era che per arrivare dov'era avesse usato un potere immenso. Non si spiegava altrimenti la sconcertante longevità del suo Regno, così come quella di Mirea stessa. Che davvero tenesse a sua madre e a lei al punto da bandire quasi completamente la magia dalla propria corte, alla loro scomparsa? Conosceva troppo poco della Regina e del suo carattere per avere la risposta.
Uscirono dalla sala in silenzio. Freya camminava con le mani giunte dietro la schiena, mentre Aran cercava di cogliere squarci di paesaggio oltre le vetrate delle finestre che gli scorrevano accanto. Era oramai ora di cena, le ombre si allungavano quasi impercettibilmente lungo le mura, i viali e la campagna circostante. Quando giunsero al corridoio che si diramava fra la torre nord-ovest e quella nord-est, i due ragazzi si separarono.
«Ti ringrazio ancora» disse a mo' di congedo Freya. «Con tutto il cuore. Hai rischiato molto per mostrarmi quella sala e non lo dimenticherò.»
Lui indirizzò lo sguardo, che fino a quell'istante aveva tenuto ben saldo sul panorama all'esterno, in quello di lei e sorrise. «Non ho rischiato nulla, non ti devi preoccupare, e non avrei potuto trovare modo migliore per trascorrere la giornata. Sono io che ringrazio te. L'unica cosa di cui mi rammarico è di non poterti accompagnare, nei prossimi giorni; sarò impegnato con i miei studi. Non appena avrò un attimo di libertà, verrò a cercarti» le disse e come la sera precedente, lei capì che quella era una promessa e lui l'avrebbe mantenuta.
«Non temere, i tuoi studi sono sicuramente importanti e l'ultima cosa che voglio è distoglierti dai tuoi doveri. Troverò molte altre cose da fare. Aspetterò» rispose la ragazza.
Rimasero immobili ancora per un istante, come a voler trattenere quel giorno che oramai volgeva al termine. Poi, si rivolsero un cenno a vicenda, si voltarono e ognuno si diresse verso le proprie stanze. Il cuore di entrambi era pieno di una gioia che raramente avevano assaporato.

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Capitolo 12
*** CAPITOLO 11 - Un singolare incontro ***


CAPITOLO 11
- UN SINGOLARE INCONTRO -




Freya chiuse l'immenso libro con un tonfo sordo.
Accarezzò la copertina intarsiata e in parte consunta delle Saghe di Finian, lasciando scorrere sotto le dita ogni singola piccola ruga della pelle da cui era stata ricavata. Era la seconda volta che lo apriva con l'intento di leggerlo, ma quel giorno le era stranamente impossibile concentrarsi sulle file di parole in inchiostro di seppia che le correvano davanti agli occhi. Leggermente frustrata, lasciò la comoda poltrona su cui si era accomodata per andare a riporre il tomo sotto al letto, avvolgendolo nelle coperte in cui lo aveva portato fin lì. Aveva badato bene a tenerlo nascosto a occhi indiscreti, anche a Malia, nonostante si fosse dimostrata molto affidabile e gentile con lei. Non era qualcosa da divulgare a cuor leggero.
Tornata a sedersi accanto alla finestra guardò fuori, cercando di pensare a qualcosa che potesse impegnare il resto della giornata. Era un'ora dopo mezzogiorno e il sole brillava al suo apice nel cielo. Quella splendida estate, che sembrava volersi trattenere ancora un po', la faceva sentire in pace e al sicuro; aveva sempre amato quella stagione in particolare, chissà, forse perché vi era nata: il suo sedicesimo compleanno era caduto non molti giorni prima, anche se l'aveva tenuto per sé.
Mentre il suo sguardo vagava sul verdeggiare esterno, Freya si rese conto che era quasi un mese che si trovava al castello di Errania. La vita, lì, era completamente diversa da quella che aveva sempre conosciuto lei. Non che si fosse aspettata di trovare qualche similitudine, naturalmente; all'inizio, però, aveva faticato parecchio ad abituarsi all'idea che non avesse più senso fare nulla di ciò che prima era importante.
Non c'erano frutti e radici da raccogliere e poi conservare in previsione dell'inverno, nessun branco di cervi di cui seguire pazientemente le tracce; niente più riparazioni da fare alla casa sull'albero quando gli spifferi che passavano fra le assi di legno si facevano gelidi. Tutto il cibo di cui avevano bisogno veniva consegnato alle cucine una volta alla settimana e riposto con cura nelle dispense e non si faceva nemmeno in tempo ad accorgersi che qualcosa non andasse prima che venisse sistemato. Alla corte di Errania aveva trascorso il tempo che prima impiegava nel garantirsi la sopravvivenza passeggiando e allenandosi, senza doversi preoccupare pressoché di nulla.
Era stata invitata qualche volta a cenare con la famiglia reale e le conversazioni erano state piacevoli, nonostante si fosse fatto sempre più chiaro che con il figlio maggiore di Mirea non sarebbe mai riuscita ad andare d'accordo: Darragh era troppo arrogante e desideroso di apparire superiore e Freya troppo poco disposta ad accondiscendere alle sue manie di grandezza. Due caratteri simili non potevano sopportarsi troppo a lungo ed, effettivamente, facevano di tutto per vedersi il meno possibile.
Con Aran, invece, accadeva tutto il contrario. Dispiaceva molto a entrambi non potersi incontrare anche solo per parlare qualche istante, proprio come stava accadendo in quei giorni. Non vederlo le lasciava una strana sensazione di vuoto a cui non era abituata. I suoi studi erano complessi e impegnativi, Freya l'aveva compreso immediatamente; nonostante questo, il giovane l'accompagnava ovunque lei volesse, non appena ne aveva la possibilità. Avevano trascorso molto tempo insieme e ora che si conoscevano meglio la ragazza aveva iniziato a fidarsi di lui in una maniera che le era difficile ammettere.
Nei giorni di solitudine riusciva comunque a tenersi sempre occupata, eppure non aveva mai potuto fare quello che avrebbe voluto veramente: rivedere la Sala degli Incantatori. Non avrebbe mai messo Aran nei guai per soddisfare la propria curiosità, ma avrebbe desiderato moltissimo esplorarla e trovare cose nuove da studiare e cercare di capire. L'affascinava l'idea che lì si riunissero i potenti Incantatori di Mirea e forse avrebbe potuto trovarvi qualche informazione sulla magia. A interessarle particolarmente erano i formulari carichi dei simboli che essi utilizzavano per incanalare il potere, i Runíar; era l'unica cosa che sapesse sulla magia, sua madre non aveva avuto il tempo di spiegarle molto di più.
In ogni caso, aveva letto alcuni libri della sua piccola biblioteca privata e ne aveva sfogliati molti altri, solo per scoprire che erano tutte biografie o canti e poesie di personaggi illustri del Regno di Riagàn. Erano scritti molto interessanti, doveva ammetterlo, così com'era interessante immergersi in una cultura di cui conosceva così poco, ma dopo un po' si era ritrovata a desiderare di poter assaporare qualcosa di diverso.
L'unico luogo in cui avrebbe potuto farlo era la Biblioteca del palazzo, ma quando aveva espresso ad Aran il desiderio di visitarla, lui le aveva spiegato che al momento era inagibile: Mirea aveva richiamato i più abili archivisti dell'intera Riagàn per far controllare le condizioni dei preziosi volumi lì contenuti e farli catalogare. Non si sapeva di preciso quanto avrebbe richiesto quella delicata operazione, perciò il ragazzo le aveva garantito che quando avessero terminato l'avrebbe avvertita e avrebbero passato un'intera giornata fra gli scaffali riordinati. Si domandò distrattamente quando quel momento sarebbe arrivato.
Stava lentamente annegando nel mare dei propri pensieri, ma qualcuno la fece risalire bruscamente a galla, bussando alla sua porta. Aveva chiesto a Malia di non restare lì tutto il giorno, rassicurandola sul fatto che non ce ne fosse affatto bisogno, perciò si alzò nuovamente e andò ad aprire la porta da sé. Non appena ebbe socchiuso l'uscio, si ritrovò di fronte proprio colui su cui si erano soffermati i suoi pensieri poco prima. Le sorrise nel momento stesso in cui la vide e lei non esitò ad aprire completamente il battente per permettergli di entrare.
«Sono felice di vedere che stai bene. Spero che tu non ti sia annoiata in questi giorni» esordì il giovane mentre varcava la soglia e si guardava attorno.
«Ho avuto modo di continuare a leggere i componimenti dei vostri poeti e di approfondire la conoscenza della vostra cultura» rispose la ragazza.
Il sorriso di Aran si allargò. «Allora devo anche sperare che tutto questo leggere non ti abbia fatto passare la voglia di vedere la Biblioteca, perché finalmente è possibile accedervi» le annunciò.
L'espressione estasiata di Freya dovette essere una risposta sufficente, perché pochi istanti dopo erano già fuori dalla porta. Lui non sapeva che parte di quello stupore era dovuto al fatto che sembrava che qualcuno le avesse letto nella mente e avesse esaudito la sua richiesta.
La Biblioteca era situata nella torre nord. Nel giungervi, Freya la ricordò come l'aveva vista avvicinandosi a Errania, il giorno del suo arrivo: la sua guglia svettava appena dietro il corpo principale, alta e maestosa, visibile perfino a distanza. La porta d'accesso era elaborata, come tutte quelle che si aprivano su luoghi di una certa importanza: nel suo legno scuro era intagliato il disegno di un maestoso albero, impreziosito da piccole pietre scintillanti.
Prima di aprirla Aran si fermò, con l'evidente intenzione di dirle qualcosa. «Se non hai nulla in contrario, oggi vorrei presentarti una persona a cui tengo molto» la informò, stranamente esistante.
Lei inclinò il capo, sondando il suo sguardo per cercare di comprendere il perché di tanto mistero. Alla fine si ritrovò persa nel color ardesia brillante dei suoi occhi e si affrettò a rispondere: «Ne sarei molto felice.»
Aran recuperò la sua solita sicurezza e spinse uno dei due battenti, che si aprì emettendo un lieve cigolio. Quando il suo sguardo s'imbatté nell'interno della sala e nel suo contenuto, Freya non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un mormorio stupefatto. Una spirale di librerie cariche di volumi giganteschi si perdeva verso la cima della torre, affiancata da una larga scalinata intervallata da molteplici pianerottoli. Aguzzando la vista Freya poté vedere schiere di scalette in legno agganciate saldamente ad esse, unico mezzo per raggiungere i libri custoditi negli scaffali più alti.
Al piano terra erano invece distribuiti tavoli in pietra e legno affiancati da due panche ognuno, adibiti allo studio e alla lettura. Al di sotto della scala a chiocciola, a livello del pavimento, c'era una selva di ampie scaffalature a muro; avvicinandosi, notò che contenevano pergamene vuote e pronte per essere vergate dalle penne ordinatamente riposte lì accanto, insieme alle boccette d'inchiostro colme di liquido scuro. Altre librerie erano sparse anche tra i tavoli e formavano una specie di labirinto in cui sembrava facile perdersi.
«Vieni» le mormorò Aran a un soffio dall'orecchio, prendendola senza nemmeno rendersi conto per mano e guidandola attraverso la selva di scaffali.
Freya prese a camminare dietro di lui con passo leggero, permettendogli di condurla verso una meta ignota con sorprendente facilità. Tutto l'ambente circostante era pervaso da un piacevole profumo di carta pergamena e la ragazza già pregustava di immergersi in qualche gigantesco libro, quando giunsero a un tavolo piuttosto distante dagli altri. Era l'unico rotondo che si scorgesse nei dintorni.
Seduto a una panca, chino su una moltitudine di fogli scribacchiati ed enciclopedie stracolme di mappe stellari che illustravano un'infinità di costellazioni, c'era un uomo di mezza età che indossava una tunica blu notte. Il suo viso era coperto da una folta barba castana curiosamente intrecciata, in cui si intravedeva già qualche traccia di grigio; per contro, i suoi capelli erano corti e ricci, seppur dello stesso colore. Un paio di occhialetti rotondi gli calavano di continuo sul naso, costringendolo a tirarli su con l'indice. Sembrava essere piuttosto alto e aveva un'aria gentile, nonostante in quel momento la sua fronte fosse increspata da mille e profonde rughette di cui una, più marcata, creava un solco fra le sue sopracciglia.
Aran avanzò piano, poi tentò di richiamarlo: «Maestro Athal?» Non ottenne risposta.
Un sorriso divertito comparve sul suo volto e, con cautela, gli posò una mano sulla spalla mentre ripeteva: «Maestro?»
L'uomo sobbalzò e un paio di pergamene chiuse da laccetti di cuoio caddero dalla scrivania, rotolando sul freddo pavimento. Si voltò verso il ragazzo ed esclamò: «Aran, per l'amor di Finian! Sai che non devi assolutamente deconcentrarmi mentre studio le mie car...», ma la frase gli morì in gola quando notò la presenza di Freya.
«Oh, ma questa giovane fanciulla...» esordì, mentre si sistemava meglio gli occhiali che gli pinzavano il naso e si sforzava per osservarla oltre le lenti, «deve essere certamente la figlia di Eleana! Quale immensa sorpresa!»
Strinse con vigore la mano che lei gli porgeva e Freya rimase stupita che non usasse la solita inutile deferenza di tutti coloro che aveva conosciuto da quando alloggiava al castello. Si ritrovò a gioirne: era talmente bello per lei trovare un pò spontaneità. Il maestro Athal prese le pergamene che Aran aveva recuperato da terra e tornò a sedersi senza aspettare la sua riposta. Probabilmente era certo di avere indovinato.
«Il maestro è il mio precettore. Mi ha insegnato tutto ciò che so e questa settimana mi ha svegliato ogni notte per osservare le stelle. A suo parere si potevano scorgere meglio le più importanti costellazioni del nostro cielo» le spiegò Aran, con un affetto sincero nella voce.
Senza staccare il naso dai suoi rotoli, Athal rispose: «Non a mio parere, ragazzo. Calendari stellari centauri antichi di secoli lo riportano e quelli, lasciate che ve lo dica, sono assolutamente infallibili!»
Freya rabbrividì. Centauri? Non aveva mai sentito nessuno parlare dei popoli di Finian in modo tanto aperto, a parte il misterioso scrittore delle Saghe.
Aran si affrettò a spiegare: «Non ho idea di dove abbia appreso quei calendari o tutte le altre cose che sa sugli antichi popoli. Lui è fatto così, ne parla in maniera assolutamente normale, a meno che non si trovi in presenza di qualche nobile. O di mia madre e mio fratello. Solo a me è riservato l'onore.»
L'uomo alzò lo sguardo su Aran e i suoi occhi, che solo allora la ragazza vide di un curioso blu elettrico, scintillarono. «Non parlare a questa ragazza dei miei discorsi come parleresti degli sproloqui di un pazzo vagheggiante. Inoltre, non hai alcun motivo di nominare con timore i popoli, in sua presenza. Sono sicuro che Freya ne sappia abbastanza, forse più di te» lo ammonì. Detto questo, Athal tornò come se nulla fosse ai suoi studi, mettendo chiaramente fine alla conversazione.
La prontezza della riposta prese Freya alla sprovvista, strappandole un sorriso. Più tempo passava più si rendeva conto che quell'uomo le piaceva molto. A quella frase del suo precettore Aran, invece, ammutolì e si limitò a rivolgere uno sguardo alla giovane, che non pareva però affatto disturbata dalla sua esternazione.
«Arrivederci, maestro Athal. Conoscervi è stato un piacere. Spero che avremo altre occasioni d'incontro» disse la ragazza nel congedarsi, ottenendo in risposta solo un gesto con la mano accompagnato, però, da un sorriso ben visibile anche sotto la folta barba.
Precedendo Aran, Freya continuò verso l'imbocco della scala che portava ai libri.
Il ragazzo la seguì e parlò, quasi come se sentisse di doversi giustificare: «So che può sembrare strano, ma io sono sinceramente affezionato al maestro. È davvero la persona più giusta, saggia e acuta che io conosca.»
Freya gli rivolse un sorriso. «Non mi sembra affatto strano.»
Aver imparato a conoscere quel ragazzo che le camminava accanto, in quel mese in cui aveva sempre trovato un attimo per stare con lei e scambiarsi anche i dettagli più insignificanti delle loro vite, le aveva insegnato che Aran era davvero ciò che mostrava; era davvero ciò che faceva e ciò che diceva, ciò che sentiva. Almeno quando era con lei. Che fosse affezionato sinceramente a quell'uomo, lo aveva dimostrato anche solo nel modo cui gli parlava o ne parlava. La sua risposta parve lasciarlo comunque sorpreso, a giudicare dalle iridi grigie sgranate sul suo viso.
«Trovi davvero normale qualcosa che gli altri ritengono tanto sconveniente?» le domandò, serio.
Freya si fermò, guardandolo confusa. «Sconveniente?»
Aran sorrise amaro. «Mia madre non vorrebbe che io dessi tanta confidenza al maestro. In fondo, per lei si tratta solo di un insegnante che ha il dovere di prepararmi alla mia vita futura, nient'altro.»
«Oh. Io avrei trovato molto più strano se non ti fossi affezionato a una persona che ti è sempre affianco nel percorso per diventare un buon Principe, piuttosto che il contrario» commentò lei, riprendendo a camminare tranquillamente.
La ragazza iniziò a vagliare con cura i libri riposti sugli scaffali, decisa a trovare la sezione dedicata alla geografia. Era curiosa di vedere come gli abitanti di Riagàn rappresentassero Finian, soprattutto per cercare di capire se il misterioso autore delle Saghe fosse un'essere umano.
«Se stai cercando qualcosa in particolare sarò ben lieto di aiutarti» le disse Aran, dopo averla lasciata vagare per un po' senza interrompere il flusso dei suoi pensieri.
Freya si voltò verso di lui. «Vorrei dare un'occhiata alle vostre cartine e vedere come rappresentate Finian» spiegò, ma il suo sorriso si spense quando vide l'espressione di Aran cambiare.
«Non troverai un solo libro che riguardi la geografia dell'intera Finian, in questa Biblioteca» rispose, adombrato, come se Freya avesse riportato in superficie un suo vecchio dilemma. «Mia madre, a quanto pare, non vuole aver nulla a che fare con quelle carte e non ha la minima intenzione di far sì che i suoi eredi le vedano. Non ho idea di cosa sia successo per farle prendere una decisione simile.»
Freya non riusciva a comprendere. «Come fate tu e Darragh a studiare le terre di Finian se non avete nemmeno una cartina su cui orientarvi?» domandò, confusa.
«Studiamo solo la cartografia di Riagàn e dei territori che abbiamo conquistato, per sapere fin dove gli umani si siano spinti, nient'altro» disse lui.
La giovane avvertì traccia di frustrazione nella voce di Aran. «Hai già provato a cercare quelle mappe, non è vero?» chiese ancora e lo sguardo del ragazzo fu una risposta sufficiente. Lui non era tipo da accontentarsi di quello che gli veniva concesso di sapere, la sua intrusione nella Sala degli Incantatori ne era la prova.
Freya decise di non insistere, per non rischiare di sfiorare corde che non avrebbe dovuto toccare. Iniziò però a chiedersi per quale ragione la Regina avrebbe dovuto far sparire tutte le mappe del loro mondo, accarezzando distrattamente il dorso di un libro. Non le aveva forse detto che il suo era un progetto di unione? Allora come poteva aver bandito l'intera Finian dalla sua corte?
Quegli interrogativi le balenavano nella mente come tante lucciole nella notte. In quel periodo di permanenza aveva visto una corte pacifica, un luogo che lei non si sarebbe mai e poi mai aspettata. Ma se fosse stata tutta un illusione? Se là fuori, un po' oltre il suo sguardo, in quei luoghi che nelle menti di Riagàn erano solo una distesa vuota, ci fosse stato ben altro? Magari gente che soffriva, forse persone a cui quel progetto di unione stava negando la libertà. Allontanò la mano dal libro con uno scatto e voltò lo sguardo verso Aran, che la stava osservando incuriosito. Persino la sua posa si era irrigidita, mentre quelle riflessioni le scorrevano nella mente.
«C'è qualcosa che non va?» le domandò, preoccupato.
Lei scosse la testa e cercò di apparire sicura. «No, nulla.»
Non voleva che il ragazzo scorgesse anche solo uno di quei tanti pensieri. La Regina era sua madre e ciò su cui Freya stava rimuginando in quel momento imputava alla monarca un bel po' di colpe.
Passeggiarono ancora per un po' nella Biblioteca e finalmente Freya riuscì a trovare qualche volume che la incuriosisse e che la tenesse occupata. Mentre i due ragazzi sedevano su una panchina situata ai livelli più alti della torre, la giovane ebbe la netta sensazione di essere tenuta d'occhio. La testa iniziò presto a pulsarle dolorosamente, tanto che per un istante ogni pensiero le fu negato. Quando ebbe la forza di riaprire gli occhi, che aveva istintivamente chiuso, vide una smorfia anche sul viso di Aran, il quale sembrava preso dalla stessa sensazione sgradevole; lentamente, i suoi sensi si riattivarono e Freya volse lo sguardo verso un punto in ombra della Biblioteca, alle sue spalle.
«Lady Freya», ne emerse la voce secca di Gorman dopo solo qualche attimo. Lo sgradevole uomo ignorò le smorfie sul volto dei due giovani e si rivolse a lei soltanto: «La Regina Mirea vi manda a chiamare. Desidera parlare con voi immediatamente.»
Freya si irrigidì, un malessere strisciante che pian piano s'impossessava di lei. Con esso, arrivò l'assurda paura che Mirea fosse in grado di penetrarle nella mente e avesse potuto carpire tutto ciò che aveva pensato un attimo prima. Si riscosse rapidamente, dandosi della sciocca.; nessuno aveva quel potere.
Con calma, si alzò dalla panca e rispose cortesemente: «Certamente. Concedetemi solo il tempo di indossare abiti più consoni e mi recherò alla Sala del Trono.»
Gorman parve sorpreso e Freya dovette trattenere un sorriso divertito. Le lezioni di galateo che Malia era stata incaricata di impartirle erano servite.
«Farò in modo che vi vengano mandate delle guardie, milady» disse allora l'Incantatore, con un disgustoso sorrisetto.
«Non sarà necessario. Posso tranquillamente accompagnarla io» ribatté Aran.
«Come desiderate» fu la riposta del consigliere, affiancata da un lieve inchino, e infine sparì da dove era arrivato. Non appena si fu allontanato, i due si rilassarono visibilmente.
«Anche a te non piace molto quell'uomo, vero?» domandò Freya ad Aran, che sembrava resistere all'impulso di scrollarsi di dosso qualcosa.
«Quand'ero piccolo ne avevo addirittura paura; mi dava i brividi. Adesso che sono cresciuto semplicemente non riesco a soffrirlo» ripose lui con un sorriso tirato.
Raggiunsero le stanze di Freya il più velocemente possibile. Aran le promise che quando sarebbe stata pronta l'avrebbe trovato lì fuori ad aspettarla, poi la lasciò alla sua preparazione. Non appena la ragazza entrò, trovò Malia che l'attendeva impaziente.
«Mia Signora», s'inchinò quest'ultima, «vi ho già preparato la tinozza dell'acqua calda.»
Freya entrò nella stanzetta da bagno, si lavò con cura e poi, dopo essersi asciugata e aver indossato la sottoveste, lasciò che Malia le intrecciasse i capelli. Ultimamente aveva sempre fatto tutto da sola, dato che non aveva più avuto incontri ufficiali, ma la donna sembrava sempre divertirsi molto a prepararla; dal canto suo, la ragazza si agitava ancora sullo sgabello come se fosse seduta su un cuscino di spine, non del tutto a proprio agio. Mentre l'ancella le raccoglieva la parte superiore capelli in una treccia, a Freya venne in mente che forse lei avrebbe potuto darle alcune delle risposte che cercava.
«Malia, so che forse non potrai rispondere, ma vorrei sapere da qualcuno che vive qui da sempre se davvero ciò che ho visto in queste settimane è reale» le disse, sicura di potersi fidare di lei.
La donna smise di intrecciarle per un attimo le ciocche. «Cosa intendete, milady?» le domandò.
Freya pensò per un istante a come formare un discorso sensato con la marea che le turbinava in testa. Poi, parlò: «Vorrei sapere se davvero qui regna sempre la pace. Se davvero la gente non soffre ed è ben trattata dai reali, se non sono mai successe cose che violassero i diritti che ognuno dovrebbe avere.»
Malia rimase per un istante in silenzio, iniziando a fermarle la treccia sulla nuca in modo che le cingesse il capo, prima di rispondere. «Non esiste luogo al mondo in cui l'ingiustizia non sia in grado di arrivare, mia cara. Riagàn non fa alcuna eccezione.» Nonostante stesse parlando le sue mani continuarono a lavorare sulla chioma della ragazza.
«Eppure qui tutto sembra così sereno, così... perfetto» moromorò la ragazza, ma quell'ultima parola risuonò irreale perfino a lei.
Attraverso lo specchio vide un sorriso amaro indurire i lineamenti della donna. «È difficile accorgersi delle iniquità in posti come questo, dove regnano la ricchezza e il privilegio» rispose.
Quelle parole colpirono Freya al punto che non domandò più nulla. Si guardò attorno e si chiese se quel mondo dorato, pian piano, non la stesse abbagliando, impedendole di vedere come realmente stessero le cose. Non voleva trarre conclusioni affrettate, ma doveva stare più attenta, si disse. Da quel momento in avanti avrebbe tenuto occhi e orecchie ben aperti e avrebbe cercato di guardare sempre al di là delle apparenze.
«Grazie, Malia» disse e lei la guardò attraverso la superficie riflettente che stava loro davanti, domandandosi forse per cosa la stesse ringraziando. L'ancella non aveva idea di quanto quelle sue semplici risposte fossero servite a riportare Freya alla realtà.
Il resto del tempo trascorse nel silenzio. Malia finì di sistemarle la lunga treccia che aveva creato con la parte inferiore dei capelli, trattenuta da un anellino di metallo, e poi l'aiutò ad abbigliarsi. La donna controllò minuziosamente che ogni lembo di stoffa cadesse a dovere, poi le posò le mani sulle spalle e le strinse in un gesto affettuoso, guardandola negli occhi.
«Spero che andrà tutto bene per voi, milady» le disse.
La premura dell'ancella nei suoi confronti le riscaldò il cuore. «Ti ringrazio, davvero. Ti chiedo però di chiamarmi semplicemente Freya; non servono tutti questi titoli» ribatté la giovane con un sorriso. Prima che Malia potesse protestare, era già fuori dalla porta.
Esattamente come le aveva promesso Aran era lì, intento a guardar fuori da una delle vetrate. Mentre camminavano verso la Sala del Trono il ragazzo la osservava di sottecchi, quasi cercasse di capire cosa le passasse per la mente. Nonostante la testa della ragazza fosse ancora affollata dai mille dubbi che si erano sollevati nel corso di quella giornata, non poté fare a meno di sorridergli, tentando di rassicurarlo. Nel vedere che la giovane si era accorta delle sue occhiate, un colorito acceso imporporò le guance di Aran, che si affrettò a distogliere lo sguardo. Il sorriso di Freya si allargò. Quando le guardie di Mirea aprirono i battenti della grande porta, gli occhi dei due ragazzi s'incontrarono un'ultima volta, prima che Freya entrasse. Avanzò verso il trono, come aveva fatto un mese prima, ma l'ansia questa volta non arrivò a morderle lo stomaco.
La Regina la osservò impassibile mentre le rivolgeva la consueta riverenza, poi la salutò con un breve sorriso, dicendo: «Noto con piacere che la permanenza alla mia corte ti ha giovato, Freya.»
«Questo palazzo è un luogo davvero meraviglioso e ricco di bellezze, Regina Mirea» rispose la ragazza, oramai più tranquilla nel parlare di quanto non lo fosse prima.
«Ti starai certamente chiedendo come mai io ti abbia mandata a chiamare» proseguì la donna, ritornando alla sua consueta espressione. «Ritengo che sia giunto il momento di celebrare il tuo arrivo qui e che tu conosca le personalità più influenti del Regno di Riagàn. Per questo ho deciso di indire un ballo, che si terrà fra tre settimane esatte. È l'occasione giusta perché tu venga ufficialmente presentata alla corte di Errania.»
Freya si bloccò per un istante, mentre l'immagine di un salone pieno di gente che voleva fare la sua conoscenza e parlare con lei si andò a formare nella sua mente; con essa, venne il disagio.
«Come desiderate» rispose nonostante tutto, ricordandosi che per quanto il suo intero essere rifuggisse a quell'idea non poteva certo dare un no come risposta.
Ci fu un attimo di silenzio in cui la sovrana guardò attentamente Freya, prima di parlare nuovamente. «Penso, inoltre, che tu sia pronta per essere condotta alla tomba di tuo padre. Sono a conoscenza del fatto che sia un tuo grande desiderio rendere omaggio alla sua memoria. Domattina all'alba manderò qualcuno ad accompagnarti; a quell'ora nessuno disturberà la tua visita.»
La ragazza s'irrigidì, preda di emozioni contrastanti. Era davvero ciò che desiderava, ma non si aspettava più che la richiesta fatta oramai settimane prima venisse esaudita.
«Vi ringrazio, Maestà» rispose ancora una volta con cortesia.
La Regina si limitò a rivolgerle un cenno del capo. Poi, semplicemente, la congedò: «Purtroppo non posso trattenermi a lungo con te, Freya, e non avremo molte occasioni di incontrarci, nei prossimi giorni. Ma ti posso promettere che presto ci rivedremo.»
Raddrizzando le spalle, la giovane uscì dalla Sala del Trono e senza quasi accorgersene si ritrovò di nuovo nell'ampio corridoio. Trasse un respiro profondo. Aran la guardò senza proferire parola e lei non lo biasimò; era consapevole di avere un aria smarrita, in quel momento.
«Mi porteranno alla tomba di mio padre» mormorò, più a se stessa che al ragazzo. L'idea del ballo pareva qualcosa d'insignificante se paragonata a quello. Ora che era arrivato il momento, si rese conto, non sapeva come sentirsi al riguardo.
Per un istante Aran parve immobilizzarsi, indeciso su cosa fare, poi le si avvicinò e le afferrò la mano destra, stringendola in una presa salda. «Verrò con te, se lo desideri» la rassicurò.
Freya si limitò ad annuire e abbandonando l'orgoglio lasciò che le proprie dita s'intrecciassero a quelle di lui, che continuò a tenere la sua mano nella propria per lunghi attimi. Il calore di quella stretta divenne l'unica cosa chiara, il solo porto sicuro nella tempesta che era tornata ad agitarla. 

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Capitolo 13
*** CAPITOLO 12 -Omaggio a un guerriero ***


CAPITOLO 12
- OMAGGIO A UN GUERRIERO -



Le sfumature del cielo li accolsero, mentre cavalcavano attraverso le strade deserte che si diramavano attorno al castello. Il sole non era ancora sorto e all'orizzonte si palesava solo come una sottile fascia tremolante di un brillante arancione, in contrasto con il blu inchiostro del resto della volta.
Freya sapeva solo che si stavano dirigendo verso il cimitero monumentale della città, nel quale riposavano gli antenati delle casate nobiliari, ma non dove si trovasse; si lasciava quindi guidare dal comandante Craius, che avanzava sicuro nelle prime ore dell'alba. Aran le cavalcava affianco in assoluto silenzio.
La ragazza avrebbe voluto parlargli, avrebbe voluto esprimergli la propria gratitudine per la sua presenza, ma non riusciva a sentire null'altro che non fosse il proprio tumulto interiore. Era come se per lei il tempo si fosse arrestato tutto di un colpo, come se tutto continuasse a scorrere senza di lei, immobilizzata dalle sue stesse emozioni.
Videro le lapidi e le tombe monumentali ancor prima di raggiungere il luogo di sepoltura. Quando vi giunsero, il comandante disse loro di smontare da cavallo. Solo quando ebbe posato i piedi a terra i sensi di Freya tornarono a metterla in contatto con il mondo: avvertì lo scricchiolio dell'erba brillante di brina sotto la suola dei suoi stivali, l'aria fredda e pungente che passava attraverso la spessa maglia del suo mantello e sentì la voce del capitano che diceva: «Da quella parte, Lady Freya.»
La giovane seguì con lo sguardo la direzione che la mano di Craius le stava indicando e scorse una lapide alta quanto lei, quasi nascosta in una radura solitaria. Abbassò il cappuccio e la furia del vento le inflisse gelide stilettate sulle guance. Con una solennità mai provata prima, iniziò a camminare. Passo dopo passo, raggiunse ciò che restava di quella persona tanto amata, anche se mai conosciuta.
In quella terra non c'era null'altro che le sue spoglie, Freya ne era perfettamente consapevole. Il suo vero desiderio, quello che Harden potesse guardarla negli occhi e riconoscerla come sua figlia, non si sarebbe mai potuto realizzare. Tutto ciò che aveva era quella lapide, perciò fu alla pietra che si rivolse. La guardò, le lacrime che iniziavano a colarle lungo le guance. Il nome di suo padre era inciso a caratteri forti, senza troppi fronzoli, adatti a quella che era la tomba di un guerriero.
Freya s'inginocchiò sulla fredda terra di fronte alla tomba e mise il palmo della mano destra sulla lapide. «Ti chiedo scusa se ci ho messo così tanto, papà» mormorò, schiarendosi la vista asciugando le lacrime con il dorso della mano.
Rimase in quella posizione per qualche attimo, anche dopo che ebbe ritratto la mano. Pensò a tutte le cose che avrebbe voluto dire a suo padre se fosse stato accanto a lei e alle tante domande che avrebbe voluto porgli. Distrattamente, prese a disegnare piccoli cerchi concentrici nel terriccio con la punta dell'indice; dapprima, il gelo che pervadeva la terra del primo mattino oppose resistenza al calore delle sue mani, poi si smosse.
Fu un istante. Qualche piccola scintilla smeraldina balenò sotto il suo indice e dove prima c'era brulla polvere nacque qualcosa. Un germoglio spuntò tra le spirali tracciate da Freya e crebbe nel giro di pochi secondi come avrebbe dovuto fare in settimane; presto, un giglio azzurro allargò i petali nei primi raggi del sole.
La ragazza sgranò gli occhi e trattenne a stento un grido di sorpresa, che riuscì a ricacciare in gola per miracolo. Cercò di controllare con discrezione che nessuno dei presenti se ne fosse accorto, ma fortunatamente era troppo lontana perché avessero potuto vedere qualcosa. Un brivido le percorse le membra quando consapevolizzò che quello non era nient'altro che il potere che aveva tentato in tutti i modi di soffocare: per qualche ragione, stava cercando di riemergere.
"Perché proprio ora?" si chiese, le mani che tremavano. Non lo sapeva, ma di una cosa era certa: non doveva riverlarlo ad anima viva. Osservò il fiore e, in qualche modo, mise da parte l'angoscia. Non era il momento né il luogo per porsi simili quesiti.
Alzò nuovamente lo sguardo sulla lapide, colse il giglio e ve lo posò davanti. Bastò quel semplice gesto perché nuove lacrime le si formassero agli angoli degli occhi. Quando si rialzò, le sue spalle furono inevitabilmente scosse da un singhiozzo, che la fece tremare fin nel profondo. Fu allora che due mani gentili la presero per le spalle, la fecero voltare e la strinsero con forza e dolcezza.
Fino a quel momento, Aran si era tenuto in disparte, dimostrando come sempre un grande rispetto e una rara sensibilità. Arrivò al momento giusto, nel preciso istante in cui lei aveva bisogno di lui. Quando le sue braccia l'avvolsero, Freya non riuscì più a mantenere la sua solita forza d'animo e si abbandonò contro di lui, seppellendo il viso nella sua spalla. Era la prima volta che si ritrovavano tanto vicini, ma nessuno dei due conobbe imbarazzo.
La giovane avvertì con sconcertante chiarezza che quello era l'unico abbraccio che avrebbe potuto impedirle di smarrirsi nel dolore. Entrambi erano consapevoli dello sguardo del comandante Craius, fermo alle loro spalle, ma rimasero comunque in quel modo a lungo.
«Quel giglio è meraviglioso» disse Aran dopo qualche istante, scostandosi leggermente da lei per asciugarle con delicatezza le lacrime che ancora le rigavano il viso. Probabilmente non capiva da dove lei potesse averlo fatto saltar fuori, ma non fece alcuna domanda.
«Mi sembrava l'omaggio più delicato e appropriato che si potesse donare a un padre e a un guerriero» rispose Freya, il respiro che pian piano andava regolarizzandosi.
Aran annuì, guardando la tomba illuminarsi con l'avanzare del sole. Fu solo quando la luce dorata dell'astro raggiunse anche loro che tornarono ai cavalli.
Freya osservò un'ultima volta il sepolcro di suo padre dal dorso di Stellato, prima di voltarsi e prendere la via del ritorno. Ci sarebbe tornata. Non sapeva quando, ma l'avrebbe fatto.

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Capitolo 14
*** CAPITOLO 13 - Lezioni di ballo ***


CAPITOLO 13
- LEZIONI DI BALLO -




Quella notte, dopo molto tempo, lo Spirito Guida tornò a farle visita. Era da prima del suo arrivo a Errania che non sentiva più la sua voce invaderle i sogni; in qualche modo, fu rassicurante sapere che almeno quella piccola parte della sua vecchia vita non l'aveva abbandonata.
Nel buio vellutato da cui emergeva la voce incorporea dello Spirito Guida, Freya ripeté la stessa domanda che si era fatta ancora mille altre volte da quando quel fiore era spuntato tra le sue dita: "Perché proprio ora?"
Sta per giungere il momento, rispose lui, enigmatico.
"Quale momento?" chiese ancora Freya, sempre più confusa, mentre il sogno iniziava a scivolare via.
Quello in cui dovrai scegliere, concluse la voce, appena prima che gli occhi della ragazza si spalancassero sulla nuova giornata che stava per iniziare.
Era stata un'altra voce a strapparla al sonno: sommessa, dal timbro femminile. Le ci volle qualche istante per capire che si trattava di Malia che, nel mentre, la scrollava con delicatezza. «Lady Freya...vi prego, svegliatevi» le sussurrava la donna con evidente impazienza.
«Te l'ho già detto Malia» rispose la ragazza con la voce ancora impastata dal sonno, seppur fosse stato scarso. «Basta che mi chiami Freya, non serve tutto il resto.»
Avvertì un sospiro e l'ancella alzò gli occhi al cielo. «Oh, e va bene... Freya. Ma ora è importante che ti svegli» acconsentì alla fine, seppur con una certa riluttanza.
Lentamente Freya si tirò su, la schiena terribilmente indolenzita a causa della posizione fetale in cui era stata raggomitolata per tutta la notte. Non era da lei faticare tanto ad alzarsi, ma la sera prima il sonno aveva tardato parecchio ad arrivare. I pensieri, che già per tutta la giornata l'avevano perseguitata, avevano continuato a vorticarle in testa anche con il calare della notte: quello che aveva provato vedendo il luogo dov'erano custodite le spoglie di suo padre, la paura di ciò che attraverso il solo contatto con la terra era riuscita a produrre. Poi, quando finalmente si era addormentata, le parole misteriose dello Spirito Guida. Le ricordava chiaramente, eppure non riusciva a interpretarle.
In ogni caso, non ebbe molto tempo per rimuginarci. Malia sembrava ansiosa di portarla da qualche parte, tanto che le aveva addirittura già preparato gli abiti. La giovane ebbe a malapena il tempo di rinfrescarsi nella stanzetta da bagno e vestirsi, prima che l'ancella la trascinasse lungo corridoi e scalinate fino all'ala ovest.
«Dove dobbiamo andare tanto di fretta a quest'ora del mattino?» domandò Freya a un certo momento, arrancando dietro al passo svelto della donna.
«Vedrai, mia cara» le rispose Malia.
Pochi istanti dopo, si fermarono di fronte a una piccola porta in legno scuro, incassata nella parete di pietra; senza esitazioni, l'ancella l'aprì e le fece cenno di andare avanti. Quando ebbe varcato la soglia, Freya si ritrovò di fronte a una stanza largamente illuminata da una vetrata che dava sui giardini interni del palazzo. Tutto intorno, lungo le pareti, correvano scaffali forniti di stoffe di tutti i tipi, a prima vista estremamente pregiate; davanti a loro, esattamente al centro della stanza, una donna bassa e in carne stava esaminando quello che sembrava uno di quei manichini che usavano i soldati per allenarsi. Era ricoperto di drappi di almeno dieci colori e materiali differenti.
Malia si fece notare con un lieve colpo di tosse. «Madama Cloelia?» chiamò a mezza voce, quasi temesse di deconcentrarla.
La donna si voltò verso di lei e allora Freya la vide in volto: aveva guance rosee, occhi di un penetrante color ambra e portava i capelli grigi e ricci piuttosto corti, raccolti in un fazzoletto ricamato. Aveva una veste lunga e rossa, fermata in vita da una cintura carica di strumenti da sarta.
«Hm, la figlia di Eleana» affermò, sicura, con espressione corrucciata.
Freya sorrise, oramai abituata a essere identificata in quel modo.
Senza attendere risposta, la donna si mosse in direzione della ragazza e in silenzio le alzò prima un braccio, poi l'altro e infine la fece girare su se stessa. Estrasse una fettuccia di cuoio graduata, con la quale le misurò il punto vita, il torace, la circonferenza delle spalle e del collo. Poi, senza un minimo di ritegno, le alzò la gonna e le misurò il polpaccio. La giovane si ritrovò in balia di quell'energica donnetta, senza poter protestare né fare nulla. Nell'angolo, Malia tratteneva le risa, cercando di restare seria e composta.
Solo dopo un lungo attimo di riflessione Madama Cloelia si voltò verso il manichino e finalmente parlò. «Nulla! Nessuna di queste stoffe è adeguata a creare un abito per te. Il colore, il tessuto... Tutto il lavoro di una notte in fumo!» esclamò, al colmo della frustrazione.
Prese tutti gli scampoli in una sola bracciata e li buttò alla rinfusa su uno scaffale; dopodiché, si voltò nuovamente verso Freya e la studiò con aria corrucciata.
Malia se ne stava in perfetto silenzio; evidentemente conosceva da lungo tempo la donna e sapeva che non andava interrotta mentre lavorava. L'aveva capito persino Freya, in quel breve lasso di tempo: pareva che anche il più lieve rumore proveniente dall'esterno la irritasse, facendole comparire in volto quell'espressione perennemente accigliata con cui l'aveva accolta.
Poi, d'un tratto, un lampo di genio illuminò il viso di Madama Cloelia. In breve la donna scomparve in una piccola stanza adiacente, che in un primo momento Freya nemmeno aveva notato. Si sentì un tramestio diffuso, ante aprirsi e subito dopo richiudersi, finché non si udì un'esclamazione trionfante. La sarta ritornò con un voluminoso involto tra le braccia. Lo posò delicatamente sul suo tavolo da lavoro, quasi fosse un neonato in fasce, e piano prese a svolgerne i lembi. Fece poi cenno alla giovane di avvicinarsi.
Dalla tela grezza apparve uno splendido abito di quello che sembrava raso morbidissimo, color blu fiordaliso. Il corpetto era semplice, attraversato solo da uno scollo ovale ricamato finemente. Il dettaglio più spettacolare erano certamente le maniche, intessute in un materiale quasi impalpabile: strette all'avambraccio, a partire dal gomito si allargavano morbidamente, arrivando a toccare la lunghezza della gonna. Tutta la superficie del vestito era ornata da una cascata di pietre sparse, cucite a mano su ricami leggerissimi, tanto piccole da risultare quasi invisibili. Nonostante Freya non avesse mai amato particolarmente l'abbigliamento femminile, non potè fare a meno di restare a bocca aperta.
L'espressione di Madama Cloelia si addolcì. «Questo è l'ultimo abito che ho potuto cucire per tua madre» le spiegò delicatamente, mentre la giovane si voltava a guardarla, ancor più stupita.
La giovane sfiorò la stoffa: era leggerissima.
«È stato in occasione di un rinnovamento dei voti nuziali suoi e di tuo padre» continuò la sarta. «Avete le stesse misure. Che aspetti, provalo.»
In men che non si dica Freya si ritrovò a indossare quel capolavoro di sartoria, che tra l'altro le calzava come un guanto. Si osservò nel grande specchio che trovò alla propria sinistra e quasi non si riconobbe in quella giovane donna che la fissava, sorpresa. Madama Cloelia e Malia sorridevano, estasiate. La sarta le si avvicinò solo per allacciarle una cintura di cuoio borchiata di giada e turchesi in vita, poi tornò a fare un passo indietro e a osservarla con attenzione.
«Ecco, questo tessuto e questo colore sono perfetti per la tua figura e il tuo incarnato. Al ballo sarai splendida» commentò infine. «A meno che tu non voglia un abito nuovo di zecca, naturalmente.»
Freya si affrettò a scuotere il capo. «Oh no, vi prego. È perfetto. Mi darà sicurezza avere addosso un abito appartenuto a lei» ribatté con un sorriso.
Un sospiro lasciò le labbra di Cloelia. «Appartenuto, ma mai indossato» mormorò.
Allo sguardo interrogativo della giovane, la donna rispose in tono malinconico: «Il rinnovo dei voti non ebbe mai luogo. Questa sarà la prima volta che la mia creazione vedrà la luce.»
Non servì che qualcuno specificasse cosa fosse successo: la tragica notte che aveva distrutto la sua famiglia era arrivata prima che i suoi genitori potessero giurarsi nuovamente amore eterno. Lottando contro l'improvvisa tristezza, Freya sorrise di nuovo e disse: «Un'altra buona ragione perché io porti quest'abito.»
Madama Cloelia la guardò intensamente, come se in lei ci fosse qualcosa che non riusciva a capire.
Infine, però, annuì con decisione. «E sia, dunque» concluse.
Mentre le facevano sfilare il prezioso vestito, a Freya sorse spontanea una domanda. «Madama Cloelia... voi... voi avete cucito anche l'abito da sposa di mia madre?»
La donna rivolse su di lei i suoi occhi penetranti, poi annuì. «Quella è forse la mia più bella creazione. A dire il vero, Eleana è stata per me una grande ispirazione. Per lei ho ideato certamente gli abiti più belli che io abbia mai cucito» le rispose.
Freya avrebbe tanto voluto chiedere di vederlo, ma proprio in quell'istante bussarono alla porta.  
«È stato un piacere vedervi, Madama Cloelia. Verrò a ritirare l'abito il giorno prima del ballo» si congedò Malia, mentre la ragazza le rivolgeva un cenno con la mano e un sincero ringraziamento.
Quando aprirono la porta, Freya si trovò faccia a faccia con Aran, il quale aveva un'espressione tutt'altro che felice. Era accompagnato dal maestro Athal, anch'egli con l'aria di chi avrebbe avuto di meglio da fare. I due giovani si salutarono con un cenno del capo e un sorriso distese per un solo istante il volto del Principe. Freya fece lo stesso anche con Athal e, nonostante la sua evidente irritazione, l'uomo le rispose cordialmente. Prima che il battente si richiudesse alle sue spalle, Aran la guardò un'ultima volta e alla ragazza parve di leggere nei suoi occhi una muta richiesta d'aiuto.
«Non mi sorprende che l'idea di cercare un abito non sia per lui delle più allettanti» spiegò Malia. «Le prove dei reali possono durare per ore.»


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Aran guardò oltre l'angolo, cercando di capire se avesse via libera.
Quando ebbe constatato che non c'era nessuno, tirò un sospiro di sollievo e si avviò verso la torre dell'Osservatorio, l'unico luogo dove nessuno l'avrebbe trovato. A meno che suo fratello non andasse a spifferarlo, o non lo facesse Freya. La cosa incredibile era che si fidava più di lei, la terza e ultima persona a conoscere il luogo dove si nascondeva più spesso, che del ragazzo con cui era cresciuto; Darragh non avrebbe certo esitato a farsi due risate mentre lo costringevano a prendere inutili lezioni di ballo e gli facevano un ripasso di etichetta per accertarsi che sapesse ancora come presenziare correttamente a un banchetto.
Sgattaiolò verso la torre e, varcatone l'ingresso, ne raggiunse in pochi attimi la sommità. La stanza dal soffitto a punta era colma di oggetti inerenti all'astronomia di cui sapeva solo, per la maggior parte, i nomi; un pesante tavolo di legno campeggiava al centro della sala, gremito di pergamene del suo maestro, e tante finestrelle rettangolari alte e larghe illuminavano a tratti il pavimento scuro. Fra le travi s'intravedeva la botola che sbucava sulla piccola balconata che circondava la torre, quella da cui, fin dai primi tempi della sua istruzione, gli erano state mostrate le costellazioni. Raggiunse la scaletta e la salì rapidamente, cercando di allontanarsi il più possibile dal castello e dalle sue imposizioni opprimenti.
Si sedette nel suo solito posto, da cui poteva godere di una perfetta visuale del paesaggio senza essere scorto. Non aveva molto a cui pensare, se non che tutte quelle ore inconcludenti trascorse a farsi ricordare come fare il Principe lo stavano tenendo lontano dalle ben più utili lezioni di Athal. E da Freya. Chiuse gli occhi; si era recato lì per tentare di rilassarsi un poco e quello doveva cercare di fare. Si era quasi convinto che ce l'avrebbe fatta, quando un tramestio proveniente dal basso lo mise in allerta, facendolo balzare sulle gambe. Tese le orecchie, sperando con tutte le sue forze che non fosse qualcuno venuto per trascinarlo nuovamente nel palazzo. In breve la botola si spalancò e ne spuntò Darragh. Aran non seppe se esserne felice o meno. Tornò a sedersi come se nulla fosse, mentre il fratello si issava sul tetto.
«Sei prevedibile a nasconderti qui, fratello» gli disse, appoggiandosi al parapetto.
«Lo so, ma per lo meno nessuno è mai venuto a cercarmi quassù. E nessuno lo farà, a meno che qualcuno non vada a spiattellare tutto» ribatté Aran, guardandolo piuttosto male.
Darragh ridacchiò. «No, non oggi. So quanto siano noiose le lezioni di corte, ma non sono in vena di metterti nei guai. Piuttosto, volevo parlarti e sapevo che ti avrei trovato qui» rispose il ragazzo, diventando stranamente serio.
Aran lo guardò, in attesa.
«Non ci vuole molto per capire che tu e Freya andate molto d'accordo. Che sia qualcosa in più di questo è un problema che, per adesso, non voglio pormi. Ma parliamoci chiaro: credi davvero che sia prudente fidarsi di lei?» esordì subito Darragh, diretto come al suo solito.
Aran rimase impassibile, per quanto gli potesse riuscire con una strana rabbia che iniziava a montargli dentro. La sola idea che stesse per parlar male di lei lo mandava su tutte le furie. «Sì, Darragh, sono certo di potermi fidare. Oramai la conosco molto bene e non sono un idiota. So di cosa parlo» rispose.
Non avrebbe lasciato correre quel discorso. Capitava spesso che il fratello si divertisse a stuzzicarlo, ma solitamente ci passava sopra.; quella volta non era sicuro che ci sarebbe riuscito.
Darragh lo squadrò, poi ribatté: «Aran, quella ragazza è diversa. Lei non è cresciuta come noi, non ha la minima idea di come ci si comporti a una corte reale e non l'avrà mai. Nemmeno se tentiamo d'insegnarglielo. Non la puoi chiamare nemmeno popolana, visto che la civiltà non l'ha mai vista. Il suo posto non è qui e prima o poi finirà col fare qualcosa che te lo farà capire nel peggiore dei modi.»
Aran guardò Darragh, cercando con tutte le proprie forze di non perdere il controllo e alzare le mani. Negli ultimi tempi gli capitava fin troppo spesso, con lui. In ogni caso, riuscì a mantenere la calma, seppur a fatica. Si alzò e fronteggiò il fratello.
«Cosa ti fa credere di avere il diritto di parlare di lei? Tu non sai nulla di Freya, non hai mai nemmeno tentato di capire chi fosse. Non sai niente della sua vita e non sai niente di ciò che l'ha fatta diventare quello che è oggi» rispose, serrando i pugni.
Darragh gli si avvicinò di un passo con aria quasi minacciosa, ma Aran rimase saldo al suo posto. Non erano più bambini, erano finiti gli anni in cui il fratello aveva il potere di intimidirlo.
«Ma ho un'idea molto chiara di ciò che è giusto e di ciò che non lo è, a differenza tua. Se l'avessi sapresti che Freya non va bene né per te, né per questa corte» continuò la propria arringa Darragh.
«No, Darragh, tu hai solo il terrore di quello che non conosci e va oltre la tua comprensione. Devi imparare ad aprire la mente al nuovo e al diverso, o vivrai tutta la tua esistenza nella paura e non potrai mai essere un buon sovrano per Riagàn» esplose Aran, senza più essere in grado di tenere la bocca chiusa.
Gli occhi del fratello lampeggiarono, ma Aran resse il suo sguardo senza battere ciglio. Era cresciuto col ragazzo che aveva di fronte, lo conosceva bene quanto conosceva sé stesso. Sapeva perfettamente che non amava affatto sentirsi dire la verità, o qualcosa che andasse contro quello che pensava e diceva lui.
«Quanto sei ingenuo, Aran. Non è con la bontà d'animo che si diventa un buon sovrano. Se non sei forte abbastanza da spazzare via dal tuo cammino ogni potenziale pericolo soccomberai di fronte a qualsiasi nemico e non sarai mai capace di mantenere il controllo di un regno. Questo è quello che tu devi imparare» ribatté Darragh, talmente infuriato che la sua voce tremò.
Aran scosse il capo, continuando a guardarlo dritto negli occhi. «Essere forti non vuol dire attaccare chiunque senza alcuna distinzione per non correre il rischio di essere colpiti. Non mi convincerai mai che questo sia il modo giusto per affrontare la vita. Risparmia il fiato» disse Aran, considerando, da parte sua, chiuso l'argomento.
Darragh lo fissò, quasi cercasse di riconoscere in lui il ragazzo con cui aveva vissuto gran parte della sua vita e non ci riuscisse. Poi, si allontanò verso la botola a passo pesante. Prima di scomparire oltre il rettangolo buio, disse: «Quando succederà qualcosa, e io so che succederà, non venirmi a dire che non ti avevo avvertito.»
Le tempie che gli pulsavano dolorosamente, Aran tornò a sedersi a terra e a osservare il cielo terso, cercando di non rimuginare sull'assurda discussione cui era appena stato costretto a prendere parte. Darragh era sempre stato pienamente convinto che le sue idee fossero le uniche valide, ma ultimamente sembrava intenzionato a imporle a tutti i costi anche a lui. Non avrebbe tentato di distoglierlo da quel proposito, decise Aran; semplicemente lo avrebbe ignorato. Se Darragh pensava che fosse tanto facilmente influenzabile, glie l'avrebbe lasciato credere.
Deciso a calmarsi, chiuse nuovamente gli occhi. Solo pochi istanti dopo dovette però riaprirli, perché passi molto lievi tornarono a farsi sentire al piano inferiore. Si mise all'ascolto, ancora una volta. Si alzò non appena sentì la presenza avviarsi lungo la scaletta a pioli e si avvicinò alla botola, in attesa. Oltre la sottile barriera delle assi di legno avvertì qualcosa di conosciuto: era un profumo delicato di giglio selvatico che, ormai, gli era diventato familiare. Rilassò i muscoli tesi, sapendo già chi aspettarsi; quando la botola si sollevò vide il capo di Freya comparire alla luce del sole. La ragazza era arrivata quasi in cima quando lo notò e si fermò, esitante.
«Oh, Aran. Scusa, non volevo disturbarti» disse la giovane, facendo un passo indietro sui pioli della scaletta.
Aran le sorrise; non aveva la minima idea di quanto fosse felice di vederla. «Non disturbi affatto» asserì infatti, tendendo una mano per aiutarla a salire, anche se sapeva che Freya non ne aveva alcun bisogno. «Sei sempre la benvenuta quassù.»
Rassicurata, Freya ricambiò il sorriso, afferrò la sua mano e si issò con agilità sulla balconata, richiudendosi la botola alle spalle. Per molto tempo nessuno dei due parlò. La ragazza si avvicinò al parapetto e osservò il paesaggio che si estendeva fino all'orizzonte; lentamente un'espressione rilassata le si dipinse in viso.
«Come mai sei salita fino all'Osservatorio?» le chiese Aran ad un certo punto, curioso.
Freya si voltò verso di lui e inaspettatamente un diffuso rossore comparve sulle sue guance. «Io... Ecco...» iniziò e nell'avvertire in lei quella strana incertezza un'idea andò formandosi nella mente di Aran.
«Nel caso stessi cercando un nascondiglio, non c'è nulla di cui vergognarsi. Sono qui per lo stesso identico motivo» la rassicurò, rinnovando il proprio sorriso e attendendo poi che fosse lei a proseguire.
Freya prese un respiro e si sedette a terra, la schiena contro la pietra della torre. Il suo sguardo vagò sulle terre assolate all'intorno. «Io non sono una persona che scappa, di solito» disse, torcendo fra le mani la catenella del medaglione che portava al collo. «Eppure, la verità è che non ci riesco. Non sono in grado di reggere tutte queste assurde lezioni in cui non fanno altro che dirmi come devo parlare, camminare e perfino mangiare.» La giovane posò il mento sulle ginocchia raccolte al petto. «Forse davvero questo non è il mio posto.»
Aran le si sedette accanto e prese a guardare nella sua stessa direzione. Non sopportava di sentirle dire quelle cose; era come ascoltare Darragh, come se le sue idee le avessero in qualche modo avvelenato la mente. Doveva levarle dalla testa quel pensiero assurdo, perciò rifletté con cura su quali potessero essere le parole giuste.
«Il fatto che non ti vada a genio perdere tempo dietro a inutili lezioni di ballo e galateo non significa affatto che qui non ci sia posto per te, Freya. A me sono state imposte fin da quando ero piccolo, ma non per questo le trovo più gradevoli» le spiegò, accantonando il suo turbamento personale per la discussione avuta con il fratello. «Non appena ne ho avuta l'occasione sono scappato a gambe levate, come puoi vedere.»
«Allora come hai fatto a vivere qui fino ad ora? Insomma, la tua vita non è stata un grande agglomerato di tutto questo?» gli domandò.
Aran scoppiò a ridere, cosa che fece sorridere anche Freya, rassicurandolo un pò. «Sì, in effetti ce ne sono state molte di giornate del genere. Venivo quassù e mi barricavo dietro questo parapetto, a guardare la foresta. Per un bel pò è stato l'unico modo per scappare almeno con il pensiero dalla corte, dalle regole, dall'oppressione» spiegò. «Non appena sono stato abbastanza grande, ho iniziato a prendere il mio cavallo e fuggire fisicamente. Capisco perfettamente come ti senti.»
Come ogni volta che confessava a Freya quello che normalmente teneva per sé, un piccolo nodo gli si sciolse nel petto. Forse lei sarebbe stata la persona a cui avrebbe rivelato il suo segreto più intimo, un giorno, quello a cui ogni tanto aveva persino paura di pensare. La convinzione che lei sarebbe stata l'unica cui avrebbe potuto dirlo si faceva sempre più forte.
La giovane continuava a guardare oltre una delle feritoie scavate nella pietra, ma lui sapeva perfettamente che lo stava ascoltando. Lo ascoltava sempre. Dopo qualche istante, infatti, si voltò verso di lui. Sorridendo, disse semplicemente: «Grazie, Aran. Davvero.»
Il giovane sorrise a propria volta. «Tu mi hai già ringraziato fin troppe volte. Sono io piuttosto che non te lo dico abbastanza spesso. Perciò, grazie Freya» ribatté, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi.
Freya lo osservava, forse sorpresa dalle sue parole, ma accettò il suo aiuto senza esitazione.
«Che ne diresti se restassimo ancora un pò qui a riprendere fiato e poi tornassimo insieme nella tana dei lupi?» le propose con fare scherzoso, poggiando gli avambracci al parapetto di pietra.
«Approvo pienamente la tua idea» rispose la ragazza, mettendosi al suo fianco. «In fondo, meglio che mi ci abitui adesso. Fra qualche giorno andrà ancora peggio.»
Aran si lasciò scappare una risata, poi il silenzio tornò ad avvolgerli. Rimasero così a lungo, senza dire una parola, lasciando che il calore del sole e l'incessante andirivieni del vento cancellassero qualunque altra cosa.

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Capitolo 15
*** CAPITOLO 14 - Si aprono le danze ***


CAPITOLO 14
-SI APRONO LE DANZE-


Nei giorni successivi nessuno dei due riuscì più a sfuggire alle ore quotidiane di lezione. Ogni minuto passato in compagnia delle dame di corte, che le insegnavano come si sarebbe dovuta porre al banchetto, faceva sentire Freya sempre più inadeguata.
Il mattino di quello che per la corte sembrava un gran giorno trovò il castello in una frenesia di preparativi che la ragazza faticava a capire. Insomma, era davvero necessario mettere in piedi una baraonda del genere solo per celebrare il suo arrivo? Non aveva mai chiesto nulla di simile, né tanto meno lo voleva. Ogni volta che le sovvenivano pensieri simili, in ogni caso, si ripeteva la stessa identica cosa: aveva scelto quella vita, ora ne doveva seguire le regole.
Per tutto il giorno, fu tenuta nella propria stanza da Malia, che insistette per farla preparare a ogni evenienza. Essendo stata nominata responsabile della sua istruzione sul galateo, la donna sembrava del tutto intenzionata a non farla sfigurare e a non sfigurare lei stessa. Per quella ragione, continuò a farle ripetere tutte le frasi di circostanza che avrebbe dovuto sapere, la riverenza giusta da praticare in presenza dei nobili, il portamento che doveva tenere. Nel mentre, la Sala del Trono veniva preparata con tutta la dedizione dei mastri di palazzo e le cucine sfornavano tutte le leccornie possibili e immaginabili; tra un ripasso e l'altro, l'ancella le descrisse nel minimo dettaglio lo sfarzo a cui si sarebbe trovata dinnanzi.
Quando, nel tardo pomeriggio, Madama Cloelia in persona venne a portarle l'abito, i nervi di Freya erano già stati messi a dura prova. La sarta restò per dare una mano a Malia e le due donne la vestirono parlottando energicamente fra di loro. La giovane le sentiva dire quale meravigliosa serata sarebbe stata per lei e quanto incantevole sarebbe stata dopo che avrebbero finito di prepararla, ma l'unica cosa che lei riusciva a provare era un vago senso di nausea.
Cloelia controllò che ogni dettaglio dell'abito fosse come doveva essere, poi si congedò per lasciare che Malia ultimasse i preparativi. Nel lasciare la stanza, disse a Freya: «Porta la mia creazione con orgoglio. Io ne vado molto fiera, come ben sai, perciò non mi aspetto nulla di meno.»
Naturalmente, più che incoraggiarla, quelle parole servirono ad aumentare ancor di più la sua ansia. Si lasciò pettinare agitandosi a disagio sulla sedia, non sentendosi per nulla partecipe di quello che le stava accadendo attorno, soprattutto di quell'esagerato entusiasmo generale. Era come se gli eventi si stessero evolvendo senza che lei ne avesse minimamente il controllo. Fortunatamente, Malia le concesse almeno di lasciare i capelli piuttosto liberi: si ritrovò la parte superiore intrecciata in una trama complicata, ornata da piccoli fermagli in ferro lavorato, e la parte inferiore in morbide onde sulla schiena. L'ultima cosa che indossò fu il medaglione di sua madre, prendendosi un attimo per osservarne lo sconosciuto disegno.
Nonostante il suo desiderio che la sera giungesse il più tardi possibile, presto le ombre presero ad allungarsi lungo le pareti; il cielo iniziò a imbrunire, tingendosi di sfumature violacee e aranciate. Quando venne mandata a chiamare, Freya non ebbe altra scelta che lasciare la sua stanza. Procedette lungo i corridoi sempre più nervosa, pregando silenziosamente di non inciampare nel vestito e fare una figura tremenda di fronte a tutti.
Presto, raggiunsero la Sala del Trono. La prima cosa che Freya notò, giunta al cospetto della grande porta, fu l'allegro vociare che proveniva dall'interno. Rimase lì davanti, immobile, per quella che le parve un'eternità. Poi, il portone si spalancò, rivelando la luccicante sala, e più lo spiraglio fra i due battenti si allargava più gente lei scorgeva. Le lanterne cangiavano lungo le pareti, proiettando le loro ombre affusolate contro la pietra grigia e solida.
Il mosaico sul soffitto fu la prima cosa che le saltò all'occhio, brillando fulgido in ogni punto in cui le pietre catturavano la luce. Solo in un secondo momento rivolse la propria attenzione a tutto il resto: tre lunghi tavoli erano stati disposti paralleli l'uno all'altro al centro del salone; lungo le pareti cadevano drappeggi di morbida stoffa, in un tripudio di viola e porpora, il colore ufficiale del Regno; uno stendardo con l'effige di Errania era stato appeso dietro al trono e la filigrana d'oro di cui era intessuto brillava fioca nella luce.
La Regina era seduta a capo del tavolo centrale, affiancata da Darragh e Aran, uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra. Capì solo allora, con tutti quegli occhi puntati su di sé, che ogni cosa era stata calcolata per far sì che lei fosse l'ultima a fare il proprio ingresso e che l'attenzione dell'intera sala fosse puntata su di lei. Solo un posto era rimasto libero, accanto ad Aran. La ragazza tirò un sospiro di sollievo all'idea di averlo accanto e fu l'ultima cosa che poté fare.
Mirea si alzò, maestosa nel suo abito viola scuro, e ottenne il silenzio con una sola occhiata. «Membri della corte di Errania, sono lieta di avervi tutti qui riuniti. Finalmente è giunto il momento di trovare qualcosa per cui gioire e l'arrivo di questa giovane promessa lo è. Con immensa e malcelata gioia, oggi voglio celebrare il ritorno tanto atteso di Freya, figlia adorata di Eleana e Harden, i cui nomi voi tutti ricordate. Vogliate unirvi a noi in questo giorno di festa» parlò, la sua voce era chiara, forte e ferma. Sembrava che nulla potesse far vacillare quella donna.
La Regina fece cenno a Freya di avanzare. I musici, discretamente posti in un angolo, intonarono una melodia per accompagnare la sua marcia. I nobili presenti applaudirono composti, alzandosi dalle loro sedie imbottite e rivolgendole sorrisi che avevano ben poco di genuino, traditi dal gelo dei loro sguardi. Le sembrò che ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato in quello che stava facendo, ma giunse comunque al proprio posto.
Non appena la vide arrivare Aran si alzò e, con sorpresa di Freya, le scostò la sedia per farla accomodare. Lo guardò cercando di capire se gli fosse stato detto di fare così oppure fosse stato un gesto istintivo; fu l'espressione del servitore alle sue spalle e, soprattutto, le sue mani tese verso lo schienale dello scranno, a farle capire che la più corretta era la seconda opzione. Gli rivolse un sorriso, quasi sopraffatta dalla felicità di averlo accanto. Sentì vagamente la musica continuare e la Regina che ordinava di far portare in tavola il cibo, mentre il chiacchiericcio avvolgeva nuovamente l'ambiente.
«Sei un incanto» le disse solamente Aran e quel complimento fece arrossire lui quanto lei.
Le era stato rivolto in maniera così sincera che aveva sentito immediatamente il calore salirle alle orecchie. Per alleggerire quell'attimo di imbarazzo, Freya ribatté: «Anche tu non te la cavi affatto male.»
In effetti, la sua fu solo in minima parte una battuta: anche lui era splendido nella sua tunica blu notte di pregiato tessuto, ornata solo dai fermagli del mantello, e nei suoi calzoni d'alta fattura di una tonalità più chiara. Una semplice cintura borchiata in vita e stivali di lucido cuoio completavano il tutto.
La tavola fu presto imbandita di ogni tipo di cibo: arrosti e brasati di manzo contornati da verdure abbrustolite e lesse, lucidi di sughi e salse, maialini da latte con rosse mele in bocca, pesci accompagnati dalle zuppe più disparate, pani di tutte le fatture. Portato ogni vassoio, i servitori sparpagliarono lungo i tavoli brocche colme di vino aromatico e sidro. Poi, si disposero quieti alle loro spalle, in attesa che qualcuno avesse necessità di loro. A Freya non piacque che fossero costretti a restare lì a quel modo, ma sembrava che nessun altro provasse il suo stesso disagio a riguardo.
La cena proseguì tra discorsi e argomenti che la ragazza si sforzò di seguire ogni qual volta venisse interpellata, cosa che accadeva spesso dato che tutta l'attenzione era su di lei. Le sembrava di essere costantemente messa alla prova, sotto quella pioggia di domande. Quella sensazione l'abbandonava solo quando finalmente riusciva a parlare con Aran, il quale spesso arrivò in suo soccorso quando la situazione si faceva troppo pesante. In un modo o nell'altro, si ritrovò a notare la giovane, era come se non potessero fare a meno di cercarsi l'un l'altra.
Darragh si rivolgeva a lei di quando in quando, con la consueta falsa cortesia cui lei rispondeva con freddo garbo. Nonostante a nessuno dei due facesse piacere la compagnia dell'altro, evidentemente anche il Principe si era reso conto di non poterla fronteggiare a viso aperto in un'occasione simile.
Quegli istanti, con grande sollievo di Freya, passarono in un attimo. D'aiuto furono certamente la cena, deliziosa e sapientemente orchestrata, e Aran, che la supportò in molte occasioni. Quando anche le pietanze dolci, che avevano riempito le narici degli ospiti di un profumino delizioso, furono portate via, Mirea fece alzare Freya.
La tranquillità che era riuscita ad acquisire sfumò nel giro di pochi passi. La Regina le chiese di posizionarsi in piedi accanto a lei, sulla pedana marmorea occupata dal trono. Nella sala calò il silenzio, mentre gli ospiti pian piano si alzavano per esserle presentati ufficialmente. In un battito di ciglia, la ragazza si ritrovò sommersa da una marea di volti e voci sconosciuti; erano tutti pronti a dirle quanto fossero felici della sua presenza a Errania e quanto li onorasse fare la sua conoscenza, un nome altisonante alla volta. Molti le dissero di aver conosciuto sua madre, ma lei dubitava che la maggior parte di loro potesse mai aver avuto una buona opinione di lei.
Quando la cortina di persone iniziò a diradarsi, Freya notò che, con una rapidità sorprendente, i servitori avevano sgomberato l'immensa Sala del Trono di tutto. Solo un tavolo era rimasto, fornito di calici e di un'infinita quantità di bevande aromatiche. Era stato creato un grande spazio al centro del salone e, a un segnale della Regina, i musici ripresero a intonare le loro bellissime melodie. Ben presto, danze tradizionali del Regno di Riagàn presero l'atmosfera di tutta la sala.
La giovane, che non aspettava altro che una distrazione da parte di tutti, riuscì finalmente a defilarsi. Un piccolo bovindo appena fuori la sala fece al caso suo; mentre intorno a lei si spandevano le note delle più belle ballate dei compositori umani, la sua attenzione si focalizzò sull'esterno. Si sedette sul davanzale imbottito di velluto violetto e cercò di seguire la trama delle lucciole che si inseguivano fra gli steli d'erba. Pian piano, la musica divenne solamente un sottofondo ai suoi pensieri.
Si chiese se quella sera fosse la fine della sua ricerca, se davvero avesse completato il suo percorso verso la verità. La logica le suggeriva di sì, ma qualcos'altro le diceva, invece, che la strada era ancora lunga. Non riusciva a pensare che, da quel momento in poi, la sua vita sarebbe stata fatta solo di balli e cerimonie, limitata alle sole mura di quel castello. Nonostante le lunghe settimane trascorse a Errania, ancora non riusciva a contemplare l'idea che sarebbe stata a servizio di Mirea, se fosse rimasta.
Alla musica degli strumenti si unì ben presto una voce di donna, probabilmente una musicista; doveva aver messo a disposizione le sue corde vocali per permettere agli invitati di udire anche le parole delle canzoni che arpeggiavano nell'aria. Le note, adesso, si erano fatte più dolci. La notte diventava nel frattempo sempre più scura. Nonostante facesse ancora caldo, le giornate si stavano palesemente accorciando. La luna aveva oramai fatto la propria comparsa, pallida nella sua falce, circondata da una corte di stelle. Freya si rilassò finalmente un poco; nessuno sembrava badare più a lei, grazie a quel momento di svago.
Proprio mentre si diceva quanto sarebbe stato piacevole lasciare semplicemente che quella serata pian piano scivolasse via, sentì dei passi dirigersi verso di lei. Quando alzò lo sguardo si ritrovò davanti Aran, che le porgeva una mano. Non appena la ragazza capì che cosa intendesse, dapprima scosse vigorosamente la testa.
«Oh no, il ballo non è cosa per me» spiegò, arrossendo imbarazzata. In effetti, era la verità: le lezioni prese nelle settimane precedenti non l'avevano per nulla aiutata a essere più sicura, l'avevano fatta sentire solo tremendamente goffa.
«Non saresti la ragazza che ho conosciuto fino a ora se preferissi il ballo a una cavalcata. Questa però è la tua festa, no?» le rispose lui con un sorriso che la tranquillizzò, anche se non del tutto.
Quella sera, Aran aveva assunto il proprio ruolo di Principe, constatò Freya, osservando in lui un lato cavalleresco stranamente affascinante. Avrebbe potuto scegliere la compagnia di qualunque altra ragazza presente nella sala, si rese conto. Probabilmente, tutte quelle giovani nobili sarebbero state candidate ben più adatte a danzare con lui; eppure, Aran era lì e aspettava lei. Esitando un po', afferrò la sua mano. Lui rispose alla stretta e la tirò letteralmente in piedi. Freya non poteva credere di aver accettato, eppure i suoi passi la stavano davvero portando tra la folla di persone che danzavano in perfetta armonia nei loro abiti elaborati.
La voce della musicista era incantevole e melodiosa, calda e avvolgente. Quando la danza riprese, alle note di una piacevolissima canzone, la giovane si disse che non poteva davvero essere più complicato che affrontare un duello. E quando i loro primi passi si unirono a quelli degli altri, capì che probabilmente il meccanismo era lo stesso: ogni passo avrebbe avuto le proprie conseguenze e lei doveva essere in grado di prevederle, per vincere. La sola differenza era che non aveva l'impugnatura di una spada stretta in mano. Riuscì a rilassarsi, come faceva quando stava per affrontare un combattimento durante gli addestramenti. Si ritrovò a pensare che fosse davvero un paradosso che la tensione si facesse sentire di più in quel momento che non con di fronte un avversario armato. Le bastò ancora un attimo perché quell'insieme di passi e giravolte armoniose diventasse per lei abbastanza naturale da non farle pensare di essere ridicola agli occhi degli altri. Oltre tutto, si fidava di Aran; ora non le costava più così tanto ammetterlo. Avrebbe lasciato che fosse lui a guidarla.
Il ragazzo continuava a tenerle stretta la mano, mentre danzavano. La musica non accennava a finire e i due giovani mantenevano il contatto visivo l'uno con l'altra, non curandosi di nessuno. Probabilmente non si rendevano più nemmeno conto del disegno che i loro piedi tracciavano sul pavimento: Freya teneva gli occhi puntati in quelli di Aran e viceversa, solo questo sembrava contare.
I nobili avevano lasciato loro un ampio spazio e ora di tanto in tanto li osservavano, stupiti. Nel giro di qualche istante gli occhi dell'intera sala furono puntati su di loro e, anche mentre continuavano a danzare, gli altri ospiti lanciavano occhiate incuriosite nella loro direzione. Alla fine, come tutto era iniziato, finì. Le ultime note degli strumenti rintoccarono vibrando di mille sfumature e loro si fermarono, senza smettere di guardarsi tanto attentamente da non accorgesti di quello che stava accadendo attorno.
«Menomale che ballare vi costava immensa fatica, Principe Aran» sussurrò lei, sorridendo divertita.
Aran ricambiò il sorriso e altrettanto piano rispose: «Ho detto che faticavo a seguire le lezioni, non che non ne fossi capace, Lady Freya.»
Ricordarono di non essere gli unici presenti nella sala solo quando alcuni dei presenti esplosero in applausi e ovazioni. I due giovani interruppero quasi bruscamente l'intreccio dei loro occhi e si guardarono attorno, arrossendo entrambi fino alla punta delle orecchie. Solo allora Freya poté vedere le occhiate inquisitorie che molti altri le stavano dedicando, come se stessero cercando di scoprire in lei un qualche secondo fine. Anche Mirea li stava guardando, ma il suo volto era, come sempre, completamente impenetrabile.
Intenta a osservare la Regina con espressione accigliata, la giovane non aveva notato la folla che li stava nuovamente sommergendo. Ritornò alla realtà solo quando Gorman si avvicinò alla sovrana e prese a sussurrarle parole sconosciute all'orecchio; quel loro confabulare le diede un brivido, anche se non avrebbe saputo spiegare perché. Si voltò nuovamente verso la selva di persone, che nel frattempo avevano ripreso le loro attività, e si ritrovò davanti un uomo che non aveva mai visto prima di allora:  alto, capelli e barba brizzolati e ben curati, occhi neri come la pece.
«Lady Freya. Vorrei presentarvi il membro più illustre dell'esercito di Riagàn, il generale Nolan. Organizza e guida  tutte le spedizioni militari più importanti del Regno» lo presentò Darragh, che si era avvicinato a loro in compagnia del generale.
La sua espressione indecifrabile fece intuire a Freya che c'era qualcosa sotto fin da subito. «È mio grande piacere fare la vostra conoscenza, generale» rispose ugualmente, con educazione.
«L'onore è mio, Lady Freya» ribatté altrettanto cortesemente l'uomo, tanto che Freya per un attimo pensò di essersi sbagliata.
Il generale salutò tranquillamente anche Aran, con il quale scambiò qualche battuta sul proseguimento del suo addestramento militare. Poi, quando tornò a rivolgersi a lei, arrivò la frecciata:  «Sono rimasto molto sorpreso nel constatare quale padronanza abbiate della situazione, considerando l'ambiente da cui provenite.»
Fu solo allora che comprese perché Darragh avesse voluto presentarle proprio quell'uomo: aveva cercato qualcuno che avesse le sue stesse convinzioni su di lei, evidentemente deciso a metterla in difficoltà. Strinse i pugni fra le pieghe del vestito, stanca e disgustata dalla sua meschinità; non si sarebbe lasciata mettere i piedi in testa tanto facilmente. Se era veramente ciò che Darragh voleva, sarebbe stata al suo gioco.
«Vi ringrazio, generale» rispose, esibendo un sorriso che spiazzò i suoi due interlocutori tanto quanto Aran. Il giovane la guardava esterrefatto, probabilmente aspettandosi tutto tranne che una reazione tanto controllata. Mantenendo un tono di voce estremamente pacato, Freya proseguì: «In effetti, sapevo ben poco delle arti di corte. Chi lo sa, forse perché mia madre ha ritenuto più saggio insegnarmi cose ben più rilevanti e utili alla mia vita futura.»
Con la coda dell'occhio, la ragazza vide le labbra di Aran ridursi a una linea, come se si stesse trattenendo allo strenuo dallo scoppiare a ridere. Impagabile fu però l'espressione di Darragh, un misto fra frustrazione e astio crescente. Nolan, invece, si sforzò di restare impassibile, nonostante una leggera contrazione della mascella rivelasse quanto l'avesse irritato una tale prontezza di risposta.
La seconda stoccata non tardò ad arrivare: «Deve essere stato estremamente arduo comprenderne i meccanismi, per una mente così poco avvezza a un mondo tanto complesso» disse l'uomo, per poi sorbire con tutta calma un sorso di sidro dal calice che rigirava fra le dita.
Ancora una volta, Freya sorrise e rispose senza battere ciglio: «Oh, non dovete temere per me. Imparo in fretta.»
Lo sguardo nero del generale la trapassò da parte a parte, mentre, con un sorrisetto sardonico, mormorava: «Tale e quale a vostra madre.»
«Non avreste potuto rivolgermi complimento migliore» ribatté Freya, producendosi in una perfetta riverenza. Era arrivato il momento di porre fine a quella conversazione. «Se volete scusarmi, avrei desiderio di bere qualcosa. Arrivederci, generale Nolan. Principe Darragh» concluse perciò, in chiaro segno di congedo.
Solo quando i due si furono allontanati, la giovane si rese conto di aver serrato i pugni con tanta forza da fermare la circolazione del sangue nelle proprie mani, attraversate ora da un violento formicolio. Aran parve accorgersi della sua tensione, perché nel giro di un attimo le sue dita sfiorarono quelle contratte di lei e la spinsero a sciogliere la stretta.
«Vieni, andiamo a prendere un po' d'aria. I giardini sono meravigliosi alla luce dei bracieri» disse soltanto, prendendola per mano e partendo in direzione dell'uscita.
Effettivamente, più che di bere aveva bisogno di respirare. Non appena l'aria fresca le invase i polmoni, sentì svanire le ultime tracce della rabbia che aveva represso. I suoi muscoli automaticamente si rilassarono e, sollevando un poco l'abito per evitare di rovinarne l'orlo, continuò a camminare al fianco di Aran.
Finirono per fare a gara su chi avrebbe  raggiunto per primo l'angolo più remoto dei giardini interni, lasciandosi andare a un attimo di leggerezza. Fu Aran ad averla vinta, sedendo per primo su una panca di granito piuttosto isolata. Freya non ne fu affatto sorpresa, dato che era stato lui a lanciare la sfida partendo senza preavviso e  il vestito che le limitava parecchio i movimenti.
Il ragazzo l'aspettò con le gambe comodamente allungate di fronte a sé e un sorriso trionfante in viso. «Ti ho battuta! Sono io che sto migliorando o sei tu che stai diventando pigra?» esultò, scherzoso.
Freya gli si sedette accanto e gli diede una gomitata altrettanto giocosa. «È solo la tua serata fortunata. Se non avessi indossato un abito tanto ingombrante, sarei dovuta restare qui ad aspettarti per un'eternità» lo prese in giro, fingendo un fare di superiorità.
Aran ridacchiò, poi per un attimo fu silenzio. «Hai dovuto fare uno sforzo enorme per non spaccargli la faccia, non è vero?» le domandò infine.
Freya scoppiò a ridere, prima di voltarsi nuovamente verso di lui. «Lo so, lo so. Nessuna fanciulla a modo avrebbe mai pensato di mollare un pugno dritto in faccia a un generale dell'esercito» rispose.
Aran rise ancora; il banchetto oramai era lontano ed entrambi erano visibilmente più rilassati. «Avrei chiuso un occhio se l'avessi fatto» commentò, continuando a sorridere. Poi, si fece serio. «Sei stata meravigliosa, questa sera. Non solo hai sostenuto brillantemente tutte le discussioni in cui sei stata coinvolta, hai anche saputo tenere testa a Nolan con intelligenza e determinazione. Sei stata molto più educata di quanto quell'uomo meritasse.»
Improvvisamente, l'espressione di Freya mutò e lo guardò intensamente, con quei suoi occhi che sembravano in grado di trapassarti l'anima. «Ci sono riuscita perché tu eri lì con me. Tu mi hai dato il coraggio necessario» confessò e, contro ogni aspettativa, non fu per nulla difficile ammetterlo finalmente ad alta voce.
Aran scosse il capo e rispose con sicurezza: «No, Freya. Ci sei riuscita perché tu sei coraggiosa e basta, in ogni momento, senza bisogno che qualcuno ti aiuti ad esserlo.»
Eppure, Freya in quel momento si sentiva tutto fuorché coraggiosa. Forse era vero che, contro ogni aspettativa, quella sera se l'era cavata piuttosto bene. Però non dimenticava quale inquietudine l'aveva colta al pensiero che la sua vita potesse ridursi a questo. Avrebbe voluto dirglielo, sentiva che in qualche modo glielo doveva, ma non ci riusciva, non ne aveva la forza. La verità era che Aran sarebbe stata l'unica cosa difficile da lasciare in quel luogo. Non la ricchezza, non i privilegi: solo Aran. Quella consapevolezza la colpì con la forza di uno scroscio di pioggia improvviso, togliendole il respiro.
Lui dovette accorgersi dal suo silenzio che qualcosa non andava, perché cercò il suo sguardo, nel tentativo di capire cosa stesse accadendo dentro di lei. Freya cercò di evitare quel contatto, conscia che poi sarebbe stata costretta a parlare, ma non ci riuscì.
Gli occhi grigi del giovane si piantarono nei suoi, incatenandoli, e le domandò: «Cosa ti sta passando per la mente?»
Freya tentò di svicolare, ma ancora una volta fallì. Aran si alzò dalla panca e le si piazzò davanti, piegandosi sulle ginocchia e costringendola a guardarlo. Rimase in attesa, senza metterle alcuna fretta. Con un enorme sforzo di volontà, finalmente la giovane riuscì a parlare.
«Non importa quanto io sia stata brava, Aran. Questa sera, in quella sala, non ero io. Quello non era il mio posto, me lo sentivo fin dentro le ossa, e l'unico momento in cui quel senso di estraneità mi lasciava andare era quando tu eri al mio fianco. Quindi sì, è stato anche grazie a te se non mi sono lasciata sopraffare» disse, le mani strette saldamente l'una all'altra.
«So perfettamente che a volte qui non ti senti libera di essere te stessa, Freya, ma nessuno ti chiederà mai di rinnegare la tua vera natura solo perché ora la tua vita è cambiata. E anche se dovessero farlo, nessuno riuscirà mai a importelo. Ne sono certo perché io so chi sei e so anche che non scenderesti mai a compromessi» ribatté lui, con assoluta sicurezza.
Freya scosse il capo e si alzò. Aran fece lo stesso e si ritrovarono i piedi, uno di fronte all'altra.
«Vorrei che fosse vero, Aran, ma se resto qualcosa in me cambierà inevitabilmente, che io lo voglia o meno. Questo è quello che facciamo per sopravvivere: ci adattiamo» rispose ancora lei in un sussurro, non muovendosi di un passo.
Per un attimo il silenzio calò fra di loro, poi Aran parlò ancora e lei seppe che aveva capito anche lui ciò che perfino lei aveva concluso solo quella sera. «Sai, credo di averlo saputo fin da subito che non saresti rimasta per sempre» disse, ma nella sua voce non c'erano traccia di rabbia o delusione.  Tornò a sedersi, con l'aria di chi sta cercando le parole giuste per continuare. Freya, ancora in piedi di fronte a lui, stette in perfetto silenzio. «Però non importa» proseguì infine il ragazzo. «Qualunque cosa tu decida e qualunque sarà il momento in cui vorrai andare, sento che ora che le nostre strade si sono incrociate non avrà importanza dove sarai tu o dove sarò io. Ci sarà sempre qualcosa che mi legherà a te.»
Il cuore di Freya perse un battito e, inaspettatamente, sentì le lacrime salirle agli occhi. Le trattenne, mentre una nuova consapevolezza le riempiva l'anima. Si avvicinò a lui, senza più evitare di guardarlo in viso, e rispose con una sicurezza assoluta: «No, non conterà nulla. La mia vita è oramai legata alla tua, Aran, e questo non potrà mai cambiare.»
L'espressione di Aran si fece strana, come se nell'avere la conferma che per lei fosse lo stesso avesse acquisito una nuova certezza. Freya tornò a sedersi al suo fianco e quando lo fece la mano destra del giovane cercò quella di lei e la strinse saldamente; le loro dita si intrecciarono. La giovane incollò ancora una volta lo sguardo in quello di lui, sentendo che tra di loro era appena stato suggellato un patto silenzioso e che, in quel momento, sarebbe potuta succedere qualunque cosa.
Quello che per loro era semplicemente un gesto risvegliò qualcosa nell'aria, qualcosa che sapeva di magia: il vento si alzò oltre le fronde dei grandi alberi, lontano, oltre le mura del castello, e l'aria vibrò. I due ragazzi si guardarono intorno; i capelli di Freya frustavano l'aria impazzita e il mantello di Aran ondeggiava furiosamente alle sue spalle. Rivolsero i volti all'insù, come se il cielo potesse avere la risposta, ma le stelle continuarono ad ammiccare indifferenti. A loro non restò che guardarsi a vicenda, confusi e attoniti.
Qualcosa stava davvero per accadere.

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Capitolo 16
*** CAPITOLO 15 - Confessioni, parte prima: Incubo ***


CAPITOLO 15
-CONFESSIONI, PARTE PRIMA: INCUBO-


Senza che quasi se ne accorgessero, l'estate virò rapidamente verso l'autunno, portando con sé nuovi profumi e colori e una certa dose di freddo precoce. Le foglie di alberi e piante erano variegate di ogni tonalità di rosso, giallo e arancione; pian piano, iniziarono a cadere copiose sull'erba dei giardini e sulle campagne circostanti, tappezzando tutto e attutendo il rumore degli stivali sulle viottole sterrate.
Freya non era più riuscita a tranquillizzarsi del tutto, dopo quella sera. In cuor suo continuava a credere che prima o poi qualcosa sarebbe successo, ma non mostrava i suoi timori e si concentrava su altro. Aveva continuato a indagare sui suoi genitori, cercando di capire se le fosse sfuggito qualcosa come le suggeriva l'istinto, ma in quello non era per nulla progredita. La sua conoscenza, però, continuava a crescere: aveva cominciato a frequentare le lezioni che il maestro Athal teneva per Aran, perché pian piano aveva capito quanto fosse importante comprendere a un livello più profondo il mondo che la circondava; trovava il suo modo di illustrare i vari argomenti estremamente affascinante. Per quella ragione, quando Aran le aveva spiegato che Darragh non seguiva le stesse lezioni poiché aveva voluto avere un precettore un pò meno stravagante, non era riuscita a comprenderne il motivo. Athal aveva il grande dono di far apparire interessante anche il più soporifero dei concetti. In ogni caso, Aran non sembrava dispiacersi dell'assenza di Darragh.
Non c'era voluto molto a Freya per intuire che i due fratelli non si parlavano praticamente più. La conferma le era stata data dalla tensione che vibrava fra loro quando erano nella stessa stanza, oltre che dalle frecciatine che si lanciavano le sole volte che si rivolgevano l'uno all'altro. Alle domande della giovane, Aran aveva risposto che, poco prima del ballo, avevano avuto una discussione piuttosto pesante; anche se non aveva voluto dirle quale ne fosse stato l'oggetto, sospettava riguardasse anche lei.
Oltre agli studi, poi, i due giovani trascorrevano ore ed ore in Biblioteca; era il luogo più tranquillo del palazzo, dove potevano parlare di ogni cosa passasse loro per la testa senza timore. Curiosi di scoprire dove fossero andate a finire le mappe degli altri Regni, avevano iniziato a esplorare sezioni della grande torre oscure perfino ad Aran. Era uno strano passatempo, ma rispolverare scritti che nessuno leggeva da tempo li portava ad avere sempre nuovi argomenti di discussione.
Eppure, nonostante la relativa calma, le sue visioni avevano ripreso a presentarsi durante la notte. Striscianti e avvolte in quella solita aura di terrore, la costringevano a svegliarsi con le lacrime agli occhi e la fronte imperlata di sudore, circondata dal buio totale. Quando accadeva richiudeva gli occhi solo per sentire la voce dello Spirito Guida ripeterle la stessa identica cosa che le aveva detto dopo la visita alla tomba di suo padre: Presto arriverrà il momento in cui dovrai scegliere. Era semplicemente un altro enigma fra tutti quelli che avevano costellato la sua esistenza.
Anche Aran pareva stranamente stanco, ma Freya decise di non fare domande quando intuì che il ragazzo non se la sentiva ancora di parlarne. La fiducia fra di loro, sempre più profonda, era indiscutibile; per quella ragione la giovane capiva che ci sarebbero sempre state cose che avrebbero richiesto più di tempo per essere rivelate, o che forse Aran non le avrebbe detto mai. Non l'avrebbe mai giudicato per questo, tanto più che la questione valeva per ambo le parti.
Molte volte Freya aveva pensato di cercare sollievo raccontando ad Aran delle visioni che la tormentavano, di quella voce che le parlava da sempre nel sonno. Le parole che si erano scambiati quella sera dopo il ballo la incoraggiavano a farlo, così come quel legame che andava rafforzandosi giorno dopo giorno. Sapeva però che parlare di quello che la perseguitava l'avrebbe costretta a confessare che nelle sue vene scorreva quel potere misterioso con cui lei lottava da tutta la vita; temeva che Aran ne sarebbe rimasto terrorizzato. Per quella ragione, alla fine, non aveva fatto altro che rimuginarci nei momenti di solitudine, nascosta nella propria camera o in qualche anfratto del giardino.


Fu in una notte di pioggia scrosciante che il cambiamento che Freya percepiva in arrivo si abbatté su di loro.
Fino a quel momento, per la prima volta dopo molto tempo, il sonno della giovane era stato stranamente tranquillo e privo di sogni; forse, era stato l'allenamento di quel pomeriggio,  protrattosi più a lungo del solito fino a quando aveva cominciato a piovere a catinelle e un vento gelido e tagliente aveva iniziato a graffiar loro la pelle. Quella sera era crollata sfinita nel suo letto, senza nemmeno cenare.
All'improvviso, qualcosa che non aveva mai visto prima di allora le esplose dietro le palpebre. Non avrebbe saputo dire se si trattasse di una nuova visione o semplicemente di un incubo, ma vi rimase intrappolata, senza alcuna possibilità di scampo.

Era sola, nel mezzo di una piana avvolta di foschia, e intorno a lei c'era solo morte.
Un'onda nera stava lentamente travolgendo ogni cosa, uccidendo ogni essere vivente al suo passaggio. Membri delle razze più disparate stavano perdendo la vita in quella mattanza: elfi, protetti da armature lucide e incise di runíar; centauri, imponenti e ritti sulle zampe posteriori; adamantini, armati delle loro lance dalle lunghe lame; perfino eteree, la cui pelle diafana riluceva nell'oscurità. Sembrava di essere in un altro mondo, un mondo in cui il cielo non esisteva più e ogni speranza era scomparsa.
Le urla le riempirono le orecchie, atroci, angoscianti, e anche lei gridò, alzando le mani di fronte a sé come se quel semplice gesto potesse fermare quella marea mortale. Si ritrovò a pregare perché il potere che fino a quel momento aveva soffocato si manifestasse, come se sapesse che grazie ad esso ci sarebbe riuscita. Ma nulla scaturì dalle sue mani, che rimasero inerti, lasciandola impotente di fronte al massacro. Un dolore sordo le ghermì l'anima, mentre le lacrime le inondavano le guance, salate e amare, come la consapevolezza di aver fallito.
Il mare nero avanzava inesorabile verso di lei e quando arrivò a lambirle i piedi un bruciore lancinante le mozzò il fiato. Gridò ancora, mentre la marea saliva e inghiottiva pian piano ogni pollice di lei. Profonde ferite iniziarono ad aprirsi sulla sua pelle indifesa, tagli slabbrati e sanguinanti che ben presto vennero invasi dal liquido misterioso, e il dolore fu tale che credette sarebbe morta così, prima che la sostanza arrivasse a soffocarla.
Eppure, non accadde. Sentì ogni piccola parte di sé che veniva bruciata e lacerata, fino all'ultimo istante, quando infine venne sommersa. Il buio l'avvolse, terrificante e ineluttabile, ma nemmeno allora il dolore cessò. Continuò a consumarla, straziante, mentre una voce incorporea sussurrava: "Salvali... Tu puoi. Salvali".

La ragazza balzò a sedere, tenendosi il corpo fra le braccia. "Era un sogno, solo un sogno" cercò di ripetersi più e più volte, ma non servì a nulla.
Quel dolore, per qualche assurda e inspiegabile ragione, non se n'era andato con il risveglio, anzi: perdurava, mozzandole il fiato in rantoli affaticati. Era come se quella disgustosa poltiglia nera la stesse ancora facendo a brandelli; come se la sua stessa anima stesse per lacerarsi irreparabilmente da un momento all'altro.
Si guardò attorno, spaventata, il cuore che picchiava contro la cassa toracica. La sua mente era troppo annebbiata per permetterle di capire cosa stesse accadendo. Molte volte il dolore dei suoi incubi ricorrenti le era sembrato tanto reale da farle male, ma mai quanto quella notte. Si alzò e la testà le girò con tanta violenza che barcollò e dovette appoggiarsi al letto per un lungo momento; solo quando credette di potercela fare si mosse. Si diresse alla finestra, al cui vetro si appoggiò con entrambe le mani e la fronte, ansante, alla disperata ricerca di un pò di sollievo. Guardò fuori, quasi credesse di ritrovare nella realtà lo stesso scenario macabro dell'incubo, ma  l'unica cosa ad avere vita oltre il vetro era la tempesta che danzava nel vento.
Proprio in quell'istante, una nuova scarica di dolore la trafisse e le ginocchia le cedettero di schianto. Nemmeno si accorse dell'impatto con il suolo: restò lì, a terra, dondolandosi come una bambina e mordendosi la lingua per impedirsi di urlare, riuscendo solo a pregare con tutte le proprie forze che finisse presto. Per un tempo indefinito non potè far altro che quello. Poi, lentamente, il dolore scemò e Freya riacquistò lucidità. Non poteva restare chiusa lì dentro, si disse. Sarebbe impazzita. Doveva camminare, allontanarsi da quella stanza, impedirsi di ricadere fra le braccia del sonno. Se l'avesse fatto, forse lo Spirito Guida sarebbe arrivato ad alleviare la sua sofferenza, ma la paura che l'incubo si ripresentasse non appena lei avesse chiuso gli occhi fu più forte.
Si recò al baule e vi frugò dentro finché non trovò uno dei mantelli più comodi che possedesse. Lo indossò in fretta, sopra la veste bianca che utilizzava per dormire, e senza sapere bene dove sarebbe andata prese la porta e uscì. Voleva solo mettere quanta più distanza possibile fra sé e quei sogni tremendi che continuavano a perseguitarla.

֍ ֍ ֍

Tremava. Tremava tanto violentemente che gli sembrava di non avere più alcun controllo sui propri muscoli. Aran imprecò con tanta veemenza che, in altre condizioni, si sarebbe spaventato di sé stesso. Non gli capitava mai di utilizzare certi termini, ma non gli era mai nemmeno successo quello che stava vivendo in quel momento.
Fece qualche altro passo lungo il corridoio, poi fu costretto ad appoggiarsi con tutto il proprio peso contro il muro di pietra gelida, stremato dal dolore che l'aveva aggredito al suo risveglio. Le gambe stavano per cedergli, di nuovo. Chiuse gli occhi e in un attimo, le immagini e la paura di quello che aveva visto durante il sonno tornarono ad attanagliarlo.
Era abituato agl'incubi, erano stati una costante della sua infanzia e non lo avevano mai abbandonato nemmeno quand'era cresciuto. Eppure, questo era qualcosa di diverso, qualcosa di terrificante e inspiegabile, che l'aveva lasciato paralizzato e inerme. Strinse i pugni, come se quel semplice gesto potesse bastare a ridargli forza, poi si scostò dal muro e procedette in direzione della sua meta. La Biblioteca gli era sembrato il luogo ideale in cui rifugiarsi e aspettare che la notte passasse; non aveva la minima intenzione di riaddormentarsi e avere un libro fra le mani l'avrebbe certamente aiutato.
Vi giunse con non poca fatica. Era frustrante sentirsi tanto debole, ma avrebbe certamente avuto tutto il tempo per autocomiserarsi l'indomani mattina; adesso doveva solo pensare a calmarsi. Sarebbe potuto restare al piano terra, data la poca fiducia che aveva nelle proprie gambe in quel momento. Ma lì, in quello spazio aperto disseminato di tavoli, panche e scaffali, in qualche modo non si sentiva al sicuro. Stava diventando paranoico, si disse. Senza curarsi della propria stanchezza, iniziò a salire.
Non sapeva bene dove si sarebbe fermato, almeno fino a che non arrivò nel posto che era diventato suo e di Freya. Era lì che ogni giorno si fermavano a leggere e commentare i libri che trovavano mentre cercavano le mappe scomparse. Si avvicinò alla panca che erano soliti occupare durante quelle ore e rimase estremamente sorpreso nell'intravedere una figura familiare, accovacciata appena dietro di essa: Freya era lì, seduta a terra a gambe incrociate, con un grande libro di botanica appoggiato su di esse come fossero un leggìo.
Non appena colse il rumore dei suoi passi alzò lo sguardo, spaventata, ma sembrò rilassarsi non appena comprese che era lui. In un istante tutta la paura che Aran aveva avuto di quell'incubo si tramutò in preoccupazione: la giovane non sembrava stare meglio di lui. Era ancor più pallida del solito, cosa che non faceva altro che accentuare le profonde occhiaie violacee che aveva sotto agli occhi e i suoi capelli erano sciolti e scarmigliati; tremava leggermente, proprio come lui. Non l'aveva mai vista in quello stato.
Com'era prevedibile che facesse, Freya si alzò e cercò di ricomporsi. Posò il volume sulla panca e gli si avvicinò, ostentando più sicurezza di quanta dovesse averne. «Aran» mormorò, l'aria di essere preoccupata quanto lui lo era per lei. «Cosa ci fai qui?»
Il ragazzo raggiunse lo scaffale più vicino e prese un libro a caso, che risultò essere Fauna terrestre e marina del Regno di Riagàn. Non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di dirle la verità. Se l'avesse fatto, avrebbe inevitabilmente dovuto rivelarle il suo più grande segreto. Si fidava di lei, immensamente, ma era qualcosa di cui aveva timore perfino lui; non sapeva come Freya avrebbe potuto reagire.
«Non riuscivo a dormire» rispose infine, cercando di risultare convincente. «Tu?»
Freya non sembrò persuasa, però rispose a propria volta: «Stessa cosa.»
Entrambi sapevano che l'altro stava mentendo, ma si limitarono a sedersi vicini nel cantuccio che un attimo prima era stato solo di Freya e a cominciare a leggere in perfetto silenzio.

֍ ֎ ֍

Per lungo tempo, nessuno dei due trovò il coraggio di parlare. La quiete della Biblioteca li avvolgeva come una coperta e ora che erano lì, insieme, la paura sembrava solo un ricordo lontano.
Completamente immersi nei loro pensieri, più che nella lettura, quasi non si accorsero di essersi avvicinati al punto di essersi infine appoggiati l'uno all'altra, come se fosse la cosa più naturale del mondo. A poco a poco, avevano anche smesso di tremare.  Si accorsero di quanto fossero vicini solo quando entrambi alzarono lo sguardo e trovarono gli occhi dell'altro ad appena una spanna di distanza dai propri. Per un attimo rimasero così, immobili, senza riuscire a dire o fare nulla; quell'unica occhiata bastò a cancellare ogni dubbio.
«Freya, io...»
«Aran...»
Non poterono trattenersi dal ridere quando, dopo quel lungo silenzio, le parole uscirono loro di bocca nello stesso preciso istante.
Freya alzò il capo verso la sommità della torre e si lasciò sfuggire un sospiro, prima di riportare la propria attenzione su di lui. Non poteva più nascondere la verità, almeno non ad Aran; non dopo ciò che era accaduto quella notte.
Aran, dal canto suo, sembrava avere qualcosa di altrettanto importante da dire, ma decise di lasciar  la parola a lei. «Prima tu» disse, fissandola attentamente.
Freya scosse il capo. «In queste settimane hai sopportato tutte le mie ansie e le mie paranoie, mi hai sempre ascoltata. Adesso tocca a me fare lo stesso per te» rispose, ruotando leggermente il busto verso di lui per guardarlo meglio.
Il ragazzo esitò ancora per un istante. Non aveva mai rivelato ad anima viva quello che stava per dire a Freya. Più la guardava, però, e meno paura di dar voce a quel suo strano segreto sentiva. Così, iniziò a parlare, senza più remore. «Ti capita mai di fare incubi terribili?» le domandò.
Freya annuì, lasciandosi sfuggire un sorriso triste. «Sì, mi capita. Molto più spesso di quanto vorrei» rispose e il suo sguardo si perse in lontananza, uno sguardo che ad Aran parve pieno di cose mai dette.
«I miei incubi mi accompagnano da tutta la vita. Sono lì, in qualche angolo della mia mente, pronti ad aggredirmi non appena chiudo gli occhi, da che ho memoria» proseguì, appoggiando la testa allo scaffale che aveva alle spalle.
Non poteva ancora immaginare quanto Freya comprendesse il suo tormento, ma già il fatto di aver finalmente deciso di confessare lo stava alleggerendo di un peso enorme. Le parole gli salirono alle labbra come un fiume in piena impossibile da arginare; le lasciò uscire senza timore, sapendo che la persona che aveva di fronte in quel momento era l'unica a cui avrebbe mai potuto affidarle. Lo sapeva perché Freya lo osservava con quei suoi occhi chiari e attenti e in essi non v'era alcuna traccia di giudizio; lo sapeva perché quello che le aveva detto la sera del ballo su ciò che li legava era quanto di più sincero avesse mai pensato.
«Conosco molto bene gl'incubi e la paura che ne deriva, ma quello che è successo questa notte non ha nulla a che vedere con quello a cui sono oramai abituato» disse. «È stato... Straziante.»
Il ricordo di quello che aveva provato ritornò ad invaderlo con prepotenza, mozzandogli il fiato in gola con tanta violenza che dovette raddrizzare la schiena per poter continuare a respirare. Si stava comportando in modo del tutto irrazionale, lo sapeva bene, ma ciò che era accaduto era talmente inspiegabile che non aveva più alcun controllo sulle proprie reazioni.
«Non avevo mai fatto un incubo tanto vivido, Freya. Non posso biasimarti se penserai che io sia un folle, perché anch'io ho il serio dubbio di star impazzendo. Ma non mento quando ti dico che il dolore che ho provato era terribilmente reale. Ho lottato con tutte le mie forze per svegliarmi e quando ci sono riuscito non è cambiato nulla: era ancora lì» mormorò, assorto.
Freya non poté fare a meno di sgranare gli occhi. Il racconto di Aran iniziava ad assomigliare fin troppo a quello che avrebbe potuto uscire di bocca a lei. Aspettò ancora un attimo prima di parlare, ma oramai credeva di sapere come sarebbe proseguita la storia. I suoi timori vennero confermati poco dopo.
Aran si voltò interamente verso di lei per poterla guardare bene in viso e disse: «Quello che ho visto non aveva alcun senso. Ero nel mezzo di questa... piana, vasta, sconfinata. Intorno a me c'era una foschia spessa e inquietante e udivo solo grida raccapriccianti. Centinaia e centinaia di persone stavano morendo soffocate da questa agghiacciante marea nera e...» la voce gli morì in gola.
Fu Freya a continuare per lui. «E per quanto tu lo volessi non potevi fare nulla per salvarle. La marea nera saliva e saliva, inghiottiva ogni cosa... E quando è arrivata fino a te e ti ha sommerso hai sentito il dolore più lancinante che tu abbia mai provato in vita tua» sussurrò, mentre un brivido le correva rapido lungo la schiena. «È stato come se la tua pelle si stesse squarciando e allo stesso tempo sciogliendo sulle tue stesse ossa.»
Aran impallidì, sconcertato. «Come... Come fai a sapere tutto questo?» le chiese.
La giovane, altrettanto sconvolta, rispose semplicemente: «Perché ho sognato esattamente la stessa cosa.»
Il silenzio calò su di loro, carico di mille domande inespresse. Se per i due ragazzi l'incubo era già stato abbastanza inquietante di per sé, adesso la faccenda si faceva ancora più torbida. Com'era possibile che due persone ben distinte sognassero esattamente la stessa cosa nello stesso identico momento?
Non appena riuscì nuovamente a ragionare con sufficiente lucidità, Aran le domandò ancora: «Hai visto e provato esattamente ciò che ho visto e provato io?»
Freya, riscuotendosi a propria volta, annuì, decisa. «Tutto ciò che hai descritto avrei potuto tranquillamente descriverlo anch'io. La piana, la marea nera, le persone che morivano a centinaia...  Il dolore. Mi sono svegliata di soprassalto e stavo male fisicamente, come se tutto fosse accaduto nella realtà e non solo nella mia testa» ribatté. «Per questo sono corsa fin qui.»
«Avevi paura di riaddormentarti» asserì Aran.
Di nuovo, Freya annuì. Ancora più del solito si sentiva perfettamente compresa da lui, cosa che riuscì almeno in parte a placare la sua inquietudine. Era più che evidente che, in quel momento, capire cosa fosse successo andasse al di là delle loro facoltà. Quella prima condivisione diede però loro la spinta per tirare fuori i segreti che pian piano li stavano consumando e che, fino a quel momento, era sembrato impossibile poter confidare a qualcuno.
Freya posò una mano sul ginocchio di Aran e disse, tentando di sorridere: «Se ti può consolare, io so cosa significhi essere perseguitati da incubi incomprensibili. Certo, questo è stato di gran lunga il peggiore, ma non il più misterioso.»
Questa volta fu Aran a mettersi all'ascolto.
«C'è questo sogno, anche se non so se si possa definirlo tale, che mi appare fin da quando sono piccola e non sono mai riuscita a decifrare» esordì la giovane. E poi, lo fece: raccontò ad Aran del pilastro, di come in certi periodi della sua vita quella visione si presentasse identica a sé stessa per molte notti di seguito.
Gli occhi del ragazzo la seguirono per tutto il tempo, attenti ma senza alcuna traccia dello spavento che Freya si sarebbe immaginata. Insomma, stava pur sempre parlando di strane figure incappucciate che l'attaccavano con la magia. La sua reazione, quando Freya ebbe terminato, fu altrettanto inaspettata.
L'espressione di Aran si fece pensosa, mentre si alzava in piedi dandole le spalle. Il libro che aveva scelto dallo scaffale, fino a quel momento rimasto abbandonato sulle sue gambe, cadde a terra con un tonfo che rimbombò per tutta la grande torre; fece poi qualche passo in avanti, prima di tornare a voltarsi verso di lei.
«Allora quello di stanotte non è l'unico incubo che abbiamo in comune» disse infine.
Come poco prima era stato per Aran, Freya non fece nulla per nascondere lo stupore. In due rapide falcate gli fu davanti e gli domandò: «Stai dicendo quello che penso?»
Aran le rivolse un sorriso incredulo. «Sì» rispose. «Tutto ciò che hai descritto, all'infuori della figura misteriosa, è quello che vedo nei miei sogni, Freya. Ogni cosa, dal pilastro, alla landa desolata che appare poi, a quell'energia misteriosa che ti ferisce. Lo vedo in quasi tutti i miei sogni.» Quasi fosse un riflesso incondizionato la prese per le mani, avvicinandosi leggermente a lei.
Freya glielo lasciò fare, senza staccare mai lo sguardo dal suo viso. «Com'è possibile?» gli domandò infine. «Fino a qualche mese fa vivevamo a miglia e miglia di distanza l'uno dall'altra, le nostre vite non si erano mai incrociate. Com'è possibile che per tutto questo tempo io e te abbiamo visto esattamente la stessa cosa?»
«Non ne ho la minima idea» ribatté lui.
Rimasero così, occhi negli occhi, uno di fronte all'altra. In quell'istante in cui il tempo pareva essersi fermato si resero conto che, arrivati a quel punto, la scelta migliore era senza dubbio la totale trasparenza. Erano finalmente decisi a lasciare che l'altro vedesse fino in fondo quel lato di loro stessi che avevano cercato con tutte le forze di tenere nascosto, ma non ebbero il  tempo di aggiungere nient'altro. La loro conversazione fu improvvisamente interrotta da una voce gelida e ben conosciuta.
«Ah, quale magnifica sensazione essere giovani e al di sopra di qualunque regola.»
I due ragazzi si voltarono di scatto in direzione della scala. Lì, avvolto nei suoi consueti abiti scuri, c'era Gorman. Aveva le mani intrecciate dietro la schiena e un'espressione tutt'altro che accondiscendente in viso. Nulla di cui stupirsi dato che avevano chiaramente infranto il divieto di gironzolare per il castello nelle ore notturne.
«Sareste così gentili da spiegare il motivo della vostra presenza qui?» intimò l'uomo, sempre più irritato.
Per un istante Aran e Freya ammutolirono, senza sapere bene come tirarsi fuori da quella situazione scomoda. Poi, con sorpresa di entrambi, fu la giovane a prendere la parola. «Ci dispiace immensamente per aver infranto il coprifuoco, Signor Consigliere» esordì con estrema educazione. «Entrambi faticavamo a prendere sonno e ci siamo ritrovati casualmente qui. Abbiamo pensato che potesse essere utile portarci avanti con alcune letture inerenti ai nostri studi.»
Gorman parve preso alla sprovvista dalla calma con cui Freya stava rispondendo, anche se non sembrò del tutto persuaso della sua sincerità. Assottigliò gli occhi, come per leggerle in viso la traccia di una qualche menzogna, ma lei rimase impassibile nonostante la sgradevole sensazione che le suscitava quell'uomo. Il suo sguardo si posò infine sui libri sparsi lì accanto; fu alla vista di questi ultimi che parve convincersi.
«Bene. Non crediate però che la vostra uscita di questa notte non verrà riferita alla Regina. Ci saranno delle conseguenze» asserì, forse credendo a quella spiegazione, ma non abbandonando la sua inflessibilità.
Freya s'inchinò leggermente, ribattendo: «Comprendiamo perfettamente.»
Gorman la fissò per un attimo, indagatore. I due ragazzi ebbero la netta sensazione che, da quel momento in poi, li avrebbe tenuti d'occhio con ancor più attenzione.
«Ora tornate alle vostre stanze, alla svelta. Se domattina non sarete più che pronti ad assolvere i vostri compiti quotidiani la vostra posizione si aggraverà ulteriormente» ordinò, perentorio. Poi, si voltò e iniziò a scendere la scalinata, lasciando loro intendere perfettamente che non avevano nessun'altra scelta se non fare come lui aveva detto.
Aran e Freya si scambiarono uno sguardo d'intesa, accompagnato da un sospiro di sollievo. L'importanza di quello che si erano confessati e dovevano ancora confessarsi aleggiava fra di loro, lo sentivano chiaramente. Per il momento, però, era fuori discussione riprendere la loro conversazione. Senza una parola, seguirono Gorman lungo la scala.
Avrebbero dovuto attendere un luogo e un momento più adatti.

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Capitolo 17
*** CAPITOLO 16 - Confessioni, parte seconda: Voci e misteri ***


CAPITOLO 16
- CONFESSIONI, PARTE SECONDA: VOCI E MISTERI -


Il bosco, quel giorno, era immerso in una piacevole e confortante tranquillità. Nella radura, all'ombra dei sempreverdi, faceva freddo.
Aran si guardava intorno, gli occhi pieni di stupore e il fiato che si condensava in spesse nuvolette. Non avrebbe mai potuto immaginare che un luogo tanto bello si nascondesse ad appena un palmo dal suo naso. Freya, un sorriso spontaneo sulle labbra, osservava la sua espressione rapita. Era la prima volta che si recavano al suo piccolo rifugio nel verde insieme. In quel meraviglioso silenzio, si presero entrambi un attimo per assaporare quel poco di libertà che finalmente era stata loro concessa.
«Vieni sempre qui, quando scappi dal castello?» domandò a un certo momento lui, rivolgendole la propria attenzione.
La giovane sorrise. «Dire che scappo forse è esagerato. Vengo qui soprattutto per alleviare un pò la nostalgia di casa e allenarmi al tiro» rispose, lasciandosi cadere sul morbido tappeto di muschio che si allargava sul terreno. Era un enorme sollievo poterlo fare di nuovo; la mancanza di un orrizzonte che non fosse spezzato dalle spesse mura del castello era stata quasi insostenibile per lei.
Fu il turno di Aran di restare a guardarla. Non era abituato a tutto quel verde tanto quanto lei, né a potersi lasciare andare in quella maniera. Freya se ne stava lì a occhi chiusi, come se in qualche modo dovesse recuperare una connessione con la terra stessa che in quei lunghi giorni aveva perso. Per lei sembrava tutto estremamente naturale. Forse, si disse, doveva solo provare e lo sarebbe diventato anche per lui.
Dapprima, semplicemente si sedette. Si guardò ancora attorno, osservando come il cielo non accennasse ad aprirsi; giocherellò con un rametto sottile che i suoi stivali avevano malamente calpestato; respirò l'odore poco familiare del sottobosco.
Poi, Freya parlò: «Aran, puoi farlo. Nessuno ti giudicherà, qui» disse.
Quelle semplici parole sciolsero del tutto la sua rigidità autoimposta. Il ragazzo si lasciò andare all'indietro e in breve fu accanto a lei. Ci fu ancora un lungo momento di silenzio. Aran lasciò vagare la mente, cercando di non pensare a nulla in particolare. I suoi occhi virarono però inesorabilmente verso Freya e presto si ritrovò a focalizzarsi su di lei: teneva ancora le palpebre abbassate e respirava lentamente, come se per molto tempo non l'avesse fatto veramente. Non poteva vederlo, ma sembrò avvertire il suo sguardo su di sé; dopo pochi istanti, si voltò verso di lui e gli rivolse un sorriso.
«Ti senti meglio?» le domandò, ben sapendo quanto quella reclusione fosse stata difficile da scontare per lei.
«Sì. Adesso sì» rispose Freya. Allargò le braccia sul terreno e prese un altro profondo respiro. Era bello vederla sorridere di nuovo.
Avevano entrambi accettato la punizione che Mirea aveva loro imposto senza nessuna lamentela, ma la giovane ne aveva certamente sofferto di più. Era stata la Regina in persona a convocarli, la mattina seguente la loro passeggiata notturna, e a esporre loro quali sarebbero state le nuove regole che avrebbero dovuto seguire: ogni mattina avrebbero frequentato la lezione del maestro Athal, in Biblioteca, a cui non avrebbero avuto accesso per nessun'altra ragione; poi, avrebbero consumato il pasto in solitudine, ognuno nelle proprie stanze; infine, si sarebbero recati al consueto addestramento, che sarebbe stato prolungato, per poi tornare alle loro camere. Inoltre, ogni permesso di lasciare il perimetro del castello era stato loro revocato.
Mirea non aveva mancato poi di osservare come un simile comportamento non si addicesse a due giovani adulti e che, nonostante la violazione non fosse stata grave, dovevano pagare le conseguenze delle loro azioni. Dovevano capire che non si sarebbero mai più dovuti permettere una tale mancanza di rispetto delle regole. Ad Aran era sembrato di essere tornato un bimbo di dieci anni sorpreso con le mani nel sacco, ma si era morso la lingua ed era rimasto zitto finché sua madre non li aveva congedati.
Da quel momento in poi, non c'era stato più tempo per nient'altro che non fossero i loro studi e gli addestramenti. Per i primi giorni i due ragazzi avevano resistito piuttosto bene; in fondo, erano abituati a faticare per ottenere dei risultati. Arrivati al decimo giorno, però, la stanchezza aveva iniziato a farsi sentire ed era stato sempre più difficile mantenere quel ritmo serrato. Tirarsi su dal letto la mattina era diventata un'impresa enorme e per quante ore potessero dormire, non riuscivano mai a recuperare del tutto. Perfino Freya, più che avvezza alle levatacce e a lavorare sodo, la sera doveva lottare per non addormentarsi sul piatto.
Poi, quel giorno, che segnava la fine della seconda settimana, Gorman si era presentato a loro mentre lasciavano la Biblioteca. Aveva la stessa espressione di qualcuno a cui è stata tolta la sua fonte di divertimento preferita; era bastato quel dettaglio per far capire ai due ragazzi che la Regina aveva deciso che fosse sufficiente. Con immenso sollievo, finalmente avevano potuto mangiare insieme nelle cucine, prima di recarsi alle scuderie. Avevano anche incrociato Darragh, il quale era parso piuttosto contrariato dalla loro rinnovata libertà; sembrava che ogni cosa che li riguardasse gli desse in qualche modo ai nervi. Con il suo sguardo sulle spalle avevano lasciato il castello e Freya aveva fatto strada fino alla piccola radura, dove finalmente stavano recuperando un pò di fiato.
«Qual'è il tuo rifugio sicuro, Aran?» gli chiese Freya a un certo punto, tornando a guardarlo.
Questa volta fu lui a sorridere. «A dire il vero non ho un luogo preciso in cui rifugiarmi» spiegò, portando le braccia dietro il capo per stare più comodo. «Quando voglio un attimo di respiro dalla corte solitamente mi reco in città. È così bello girare per le vie, soprattutto nei giorni di mercato. Nessuno fa caso a me in mezzo a quella calca.»
«Non riesco nemmeno a immaginare come possa essere un mercato» mormorò Freya, assorta. «Nonostante l'idea della folla, mi piacerebbe vederne uno. C'è così tanto di questa vita che devo ancora conoscere.»
Aran le sorrise nuovamente. «Ora che abbiamo di nuovo un pò di libertà di movimento ti ci porterò. Il più presto possibile» promise.
Per un lunghissimo attimo nessuno dei due parlò più. Entrambi sentivano crescere il desiderio di affidare all'altro i pezzi mancanti delle rispettive vite, ma ora che erano lì volevano prima godersi un pò di quella tanto agognata pace. Non c'era alcuna fretta: sapevano che l'altro avrebbe saputo ascoltare in qualunque momento avessero deciso di confidarsi; sapevano che potevano permettersi di essere spontanei l'uno con l'altra, senza pressioni, senza timori.
«Non credevo che sarebbe mai stato possibile.» Fu Aran a rompere improvvisamente il silenzio creatosi, in un sussurro che solo Freya avrebbe potuto sentire.
Senza alzare la schiena dal tappeto di muschio, la giovane voltò il capo e lo guardò. Il Principe teneva ancora lo sguardo fisso sulle fronde che ombreggiavano la radura, assorto nella contemplazione di quella vista a lui così nuova, ma allo stesso tempo immerso nelle parole che stava pronunciando.
«Trovare qualcuno che avrebbe capito quello che io ho provato per tutta la mia esistenza» spiegò poi, posando infine gli occhi in quelli di lei.
«Nemmeno io» rispose semplicemente Freya in un sorriso. «Eppure, sei qui.»
Ci fu dell'altro silenzio, ma durò molto meno del precedente. Gli sguardi dei due ragazzi non avevano ancora deviato l'uno dall'altro quando Aran proseguì: «Prima di quella sera in Biblioteca avevo paura» ammise. «Temevo che se ti avessi parlato dell'incubo e di tutto quello che c'era stato prima, avresti scoperto una parte di me che ti avrebbe spaventata. Che avresti provato per me lo stesso terrore che provo io.»
Freya si voltò su un fianco, prima di rispondere: «Anche io avrei voluto avere più coraggio, Aran. Sono rimasta in silenzio a sopportare incubi e visioni per le tue stesse ragioni; perché temevo che, fra le cose che ti ho detto e quelle che ti devo ancora dire, ci sarebbe stato qualcosa che ti avrebbe allontanato da me.»
Aran si girò a propria volta per poterla guardare meglio in viso. S'immobilizzò, poi prese coraggio e allungò una mano verso il viso della ragazza. Le lasciò una delicata carezza, che dipinse sul volto di lei un velo di stupore; era il suo modo per farle capire che non sarebbe andato da nessuna parte.
«L'altra sera, scoprire di quel sogno terribile è stato un caso» aggiunse la giovane quando il nodo che le si era formato in gola si sciolse. «D'ora in poi per me sarà una scelta. Io voglio essere sincera con te.»
«E io lo sarò con te, Freya» ribatté il giovane, determinato come non lo era mai stato.
Non era necessario che tutti i misteri del loro passato emergessero in quel pomeriggio senza sole, ma quello sarebbe stato il vero punto di partenza. Da quel momento in poi accettavano di farsi custodi di tutto ciò che l'altro era. Sapevano entrambi quale responsabilità fosse, ma sapevano anche che nessun altro al mondo avrebbe potuto farsene carico.
Aran si alzò, mettendosi a sedere. Le sue successive parole furono sommesse, ma non più per il timore; finalmente la sua anima era abitata da una pace mai provata prima e non sentiva il bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare. «Prima che venissimo interrotti, ti ho parlato di come le mie notti siano sempre state costellate di incubi» disse.
Freya si mise all'ascolto. Non le dispiaceva che avesse iniziato lui; poter tornare a parlare liberamente e ad ascoltarlo era più bello di quanto Aran potesse immaginare.
«Le immagini del pilastro sono arrivate con il tempo; gl'incubi, invece, ci sono sempre stati» continuò. «Dovrei averci fatto l'abitudine, ma ancora adesso, quando mi svegliano, impiego diverso tempo a riaddormentarmi. E nell'istante in cui ci riesco...» Aran prese un profondo respiro, fermandosi brevemente. «Sento molto chiaramente una voce che mi parla nel sonno.»
La giovane sgranò gli occhi, per poi assumere un'espressione agli occhi di lui indecifrabile e tirarsi su bruscamente.
Solo a quel punto la voce di Aran tremò leggermente. «È una voce femminile, calda e melodiosa. Rassicurante. La sento da che ho memoria e, soprattutto, quando ho dei momenti di sconforto.» Si zittì ancora un attimo per capire come avesse potuto prenderla Freya, ma dal viso di lei non trapelava nulla. Di nuovo si ritrovò a parlare, come se facendo altrimenti rischiasse di soffocare. «Non sempre riesco a capire cosa cerca di dirmi. Ci sono volte in cui le sue frasi sembrano veri e propri indovinelli e non riesco proprio a coglierne il significato. Eppure, in qualche modo, è sempre stata in grado di calmarmi. È come se mi guidasse verso la pace» disse, ben consapevole di quanto una cosa simile potesse suonare folle.
Esattamente come quella notte in Biblioteca, per un istante il tempo parve fermarsi. Poi, inaspettatamente,  Freya sorrise: era un sorriso incredulo, pieno di un tale stupore che Aran capì ancora prima che lei si spiegasse.
«La senti anche tu?» le domandò.
La ragazza annuì. Era come riprendere la loro confessione dal punto esatto in cui si era interrotta; come se tutti quei giorni non fossero mai trascorsi. «Emerge dal buio della mia mente quando chiudo gli occhi. Mia madre la chiamava Spirito Guida e diceva che mi avrebbe indicato sempre la strada giusta» confermò infine. «Quando le cose nella mia vita si sono fatte complicate, alle volte insostenibili, quella voce mi ha spinta ad andare avanti.»
Aran non sapeva davvero cosa dire. Ritrovare in lei tutto ciò che aveva sempre considerato quasi innaturale in sé stesso era quanto di più bello e assurdo gli fosse mai successo.
Freya, nel frattempo, si era fatta pensosa. «La sola differenza, è che quella che sento io è maschile, profonda. Sembra venire da un mondo lontano» aggiunse.
Nonostante il disorientamento, insieme cercarono di capirci qualcosa. Trascorsero gli istanti successivi a riportare alla memoria i momenti della loro vita durante i quali le voci si erano fatte sentire più assiduamente; a ricordare almeno in parte cosa avessero sussurrato. L'unico dettaglio evidente fu senza dubbio il fatto che sembrasse sapessero sempre cosa dire per impedir loro di cadere nel baratro. Molte altre volte, semplicemente, li lasciavano con una marea di interrogativi, esattamente come in quel momento. Rimasero ancora più sconvolti nel constatare che, ultimamente, avevano ripetuto a entrambi la stessa frase incomprensibile: Sta per giungere il momento in cui dovrai scegliere. Era l'ennesimo mistero insormontabile che si sommava a tutti quelli già presenti, insieme alla provenienza di tali voci.
«Qualche volta, mi sono persino ritrovato a pensare che potesse essere la voce di mia madre, della mia vera madre» confessò Aran, divenendo malinconico. «Poi mi sono detto che era impossibile che ne ricordassi così chiaramente il suono.»
«Non c'è nulla di strano, anch'io ho pensato che potesse essere quella di mio padre. Abbiamo semplicemente cercato di dare una spiegazione razionale a quello che ci stava accadendo» lo rassicurò Freya.
«Sì, forse è vero» rispose lui.  
Avvertendo un diffuso formicolio salirgli lungo le gambe il ragazzo cambiò posizione. Sembrava agitato e Freya intuì che qualcosa ancora ribolliva in lui.
«Non so veramente nulla di lei. Di loro» mormorò poi. «Ho solo la costante sensazione che in quei primi anni che non ricordo sia accaduto qualcosa di terribile.»
Solo in quell'istante la giovane si rese conto che Aran stava lottando contro le lacrime; era la prima volta che lo vedeva tanto vulnerabile. Senza nemmeno pensarci, si fece più vicina e coprì le sue mani con le proprie. Non avrebbe mai pensato che il contatto con qualcuno potesse divenire tanto naturale, eppure, allo stesso tempo, non la sorprendeva che fosse proprio con Aran a riuscirle così semplice.
Il ragazzo fissò lo sguardo in un punto indefinito sulle dita di lei. Non aveva il coraggio di guardarla. «L'unica cosa che abbia mai potuto associare al luogo e alle persone che mi hanno visto nascere è l'ennesimo incubo. Vedo una bellissima casa bianca che viene divorata dalle fiamme e sento le urla disperate di una donna. Nient'altro» concluse. «Non so nemmeno se possa essere davvero un ricordo.»
Freya rammentava molto bene cosa avesse provato quando aveva pensato di star dimenticando sua madre. Cercò di figurarsi cosa potesse significare non avere davvero alcuna memoria di Eleana e Harden; voleva comprendere a fondo le emozioni di Aran. Bastò la sola idea perché una tremenda tristezza la cogliesse; le lacrime fecero capolino anche negli occhi di lei.
Con tutta la forza che aveva, si protese verso il ragazzo e lo prese tra le braccia, stringendolo a sé.  Non le importava che il gesto venisse ricambiato o meno: quello che voleva era alleviare anche solo un briciolo della sofferenza che Aran si portava dentro. Lui stette immobile solo per un istante, come se il dolore l'avesse paralizzato. Quando tornò a muoversi, semplicemente la strinse in egual misura, fino a sentire lo strazio scemare pian piano.
«Penso che possa essere veramente un tuo ricordo» mormorò infine Freya, scostandosi solo leggermente da lui. «Io non ho mai visto nulla del genere.»
La paura attraversò il volto del giovane Principe. Gli sovvenne la conversazione avuta con lei nei primi giorni della loro conoscenza: Freya gli aveva garantito che, quando fosse stato il momento, avrebbe trovato la forza di affrontare la verità. Ne era trascorso di tempo da allora, eppure lui quel coraggio non lo sentiva ancora.
«Sarò con te quando ti ritroverai a fronteggiare il tuo passato» disse imrpovvisamente la giovane, sorridendo. «Tu c'eri quando io ho affrontato il mio.»
Aran non poté far altro che stringerla nuovamente, in segno di gratitudine. Sapeva che, in qualche modo, Freya avrebbe mantenuto la sua promessa. Per il momento, in ogni caso, non aveva senso stare a pensarci; davanti a loro si dipanavano centinaia di possibilità, la cui meta si perdeva ancora nella caligine delle tante domande senza risposta.
«Sai, per quanto sembri tutto così assurdo, non posso fare a meno di pensare che qualcosa debba voler dire» commentò lui, lasciando da parte i propri problemi personali.
La ragazza annuì. Aran aveva ragione. Quanto a risposte concrete e sensate brancolavano nel buio, ma una cosa oramai era certa: non si trattava più di una semplice metafora, erano davvero legati da qualcosa, anche se per il momento questo qualcosa era loro sconosciuto. Nel silenzio che seguì, interrotto solo dall'ululare del vento che si era alzato, entrambi giunsero alla stessa conclusione.
«Ora che sappiamo, ora che non siamo più soli... Dobbiamo cercare di scoprire cosa significhi tutto questo» le diede voce Freya.
Aran annuì, risoluto. Era vero: adesso non erano più soli.

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Restarono per diverso tempo seduti lì, a parlare in assoluta tranquillità, mentre il sollievo più completo l'invadeva. Fino a quel momento Freya non si era mai resa davvero conto di quale peso avessero avuto tutti quei segreti nella sua anima.
Fu quando calò nuovamente il silenzio, in quella nuova consapevolezza, che la giovane realizzò: era giunto il momento di fare il passo più difficile. Sospirò e avvertì il proprio fiato tremare. Negli ultimi giorni aveva pensato spesso a come parlare ad Aran dei propri poteri. Le sembrava impossibile fargli capire a parole cosa potessero essere: nemmeno lei lo sapeva.
Aveva provato e riprovato a mettere insieme un discorso sensato, ma alla fine si era dovuta rassegnare: l'unico modo che aveva era mostrarglieli. Non era certa che avrebbe funzionato: sarebbe stata la prima volta che tentava di evocarli intenzionalmente e non sapeva dove sarebbero potuti arrivare. In qualche modo, però, sentì di aver sempre saputo che non avrebbe potuto ignorarli per sempre: per quanta paura ne avesse doveva provare a capirne un pò di più.
Quando ebbe raccolto sufficiente fiducia in sé stessa, si fece avanti. «Prima di andare, c'è un'ultima cosa che devo farti vedere» gli disse, scostandosi di qualche piede da lui e mettendosi sulle ginocchia. Aran le rivolse un'espressione interrogativa. Non l'avrebbe bisasimato se prima o poi si fosse stancato di tutte le sue anormalità. «Prometto che dopo questo non avrai più strane sorprese da me», tentò di scherzare nonostante le sue mani tremassero.
Aran sorrise, cercando di infonderle tranquillità. «Le tue strane sorprese non mi disturbano affatto. Da quando ci sei tu la mia vita è molto più interessante» asserì, divertito e sincero.
Rassicurata, Freya inalò un bel respiro e chiuse gli occhi. Affondò le mani nel muschio, di cui avvertì l'umidità bagnarle la pelle, e si concentrò. Fu solo allora che i dubbi tornarono a fare capolino. Se non avesse funzionato e fosse stata costretta a spiegarsi a parole? Se Aran, non trovando un senso in tali parole, non le avesse creduto e avesse pensato che fosse pazza? Tutto fu spazzato via quando, inaspettatamente, l'aria intorno a lei prese a turbinare lievemente; la sentiva infrangersi con leggerezza sulle proprie spalle, sui capelli. Avrebbe potuto benissimo non significare nulla, ma Freya volle comunque interpretarlo come un segno.
Sotto gli occhi esterrefatti di Aran, aloni di luce smeraldina si irradiarono dalle mani della ragazza, andando a colpire il terreno. Una pianticella giovane e sottile prese a crescere in quel bagliore mistico, arrivando presto a sfiorarle le dita; una selva di piccoli fiori azzurri sbocciò con naturalezza dall'arbusto appena nato. Era la prima volta in assoluto che Freya avvertiva il proprio potere con tanta forza; forse perché si stava davvero impegnando, lo sentiva dilagare in tutto il proprio essere. Non appena sentì di aver terminato, la giovane riaprì gli occhi.  
Quando mise a fuoco le proprie mani, sobbalzò: nelle vene di cui erano attraversate pulsava un'intensa luce verde. Lo sconcerto le mozzò quasi il fiato in gola. Ancor prima di osservare cosa avesse creato quella volta, si focalizzò su Aran: un misto di emozioni che viravano dall'attonito al meravigliato danzava fra i suoi lineamenti; i suoi occhi correvano dal terreno alle mani di lei, impregnate di magia.
Nonostante tutto, non fu quello a pietrificarla sul posto: fu piuttosto vedere che i vasi sanguigni di Aran, allo stesso modo dei suoi, brillavano nella penombra del sottobosco. La strana luminescenza non riguardava solo quelli delle mani, ma anche le arterie che risalivano lungo il collo: era una luce calda, aranciata, tanto bella che Freya ne rimase ammaliata. Non riuscì a fare nè dire nulla, mentre lui allungava le dita verso la delicata pianticella e se ne rendeva conto da sé. Il gesto venne sospeso a mezz'aria. Aran si portò le mani davanti agli occhi e le ruotò lentamente, il bagliore arancione che gli si rifletteva nelle iridi.
«Cosa...» farfugliò, a corto di aria e parole. Dovette deglutire un paio di volte, prima di essere in grado di parlare nuovamente. «Che cos'è?» domandò, tornando a guardare Freya.
La giovane scosse lentamente il capo. «Io... Io non lo so» rispose, altrettanto confusa. Con delicatezza afferrò la mano di Aran, pur sapendo che studiare il fenomeno più da vicino non le sarebbe servito a nulla.
I due ragazzi fecero appena in tempo a osservare come, nel trovarsi, i due diversi spettri luminosi si fondessero in una sola sfumatura; poi, la luce si intensificò, avvolgendoli. Come in riposta a quel potere sconosciuto, l'intera natura che li circondava parve vibrare: videro i rami degli alberi tremolare e sentirono chiaramente il legno scricchiolare, sollecitato da una pressione invisibile ai loro occhi. Durò pochissimo, ma fu abbastanza da accrescere il loro sbigottimento. I bagliori si spensero tanto in fretta quanto erano arrivati, palpitando lievemente prima di scomparire; loro rimasero lì, con null'altro che due mani intrecciate.
Il silenzio dominava qualunque altra cosa, soverchiante, e lo fece finché Aran, senza quasi accorgersene, parlò: «È la stessa energia...»
Era stato nulla più che un mormorìo, tanto che faticò a raggiungere la mente ottenebrata di Freya. Quando la giovane si accorse che lui aveva parlato, non ebbe il tempo di chiedere cosa intendesse.
Aran, improvvisamente rianimatosi dal torpore, si portò sulle ginocchia, nella stessa posizione in cui era rimasta lei per tutto quel tempo. Aveva gli occhi spalancati, incorniciati dall'espressione di chi ha intuito qualcosa. «Ricordi quel terribile vento che ci ha costretti a rientrare, dopo il ballo?» le domandò.
Freya annuì. Lo rammentava molto bene. Nel ripensarci poteva quasi sentire il formicolìo che le aveva lasciato sulla pelle. In quel ricordo, vivido in ogni sua sfaccettatura, trovò anche lei la risposta: intorno a loro aleggiava la stessa identica energia che si era sprigionata allora. Senza poter stare ferma un istante di più la ragazza balzò in piedi, seguita a ruota dal giovane Principe. «Siamo stati noi» affermò, sicura nonostante tutto.
«Io credo di sì» disse Aran a propria volta.
«Come?» chiese lei, incapace di produrre qualcosa di più articolato.
L'ultima, ennesima domanda, si perse solitaria nel vento d'autunno.

 

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Capitolo 18
*** CAPITOLO 17 - Nel buio ***


CAPITOLO 17
- NEL BUIO -


Non pensare mai al tuo nome.
Questa regola fondamentale le era stata ripetuta fino allo sfinimento, ai tempi del suo apprendistato. Non importava quante volte l'avessero già fatto: quando si accingevano a dare inizio a un Richiamo, il suo maestro le ribadiva quel concetto, scandendo bene le parole come se lei fosse un'imbecille.
Era stato un periodo duro, quello, in cui nulla era mai stato certo e ogni giorno tutto ciò che credeva di sapere veniva messo in discussione; eppure, proprio in quegli anni aveva compreso quale fosse il suo potenziale e aveva imparato a imbrigliare qualcosa che sfuggiva ai più: la propria forza di volontà. Forse, quello era il motivo per cui la regola le era rimasta addosso ed era diventata sua abitudine: le ricordava che doveva sempre avere il controllo. Avrebbe dovuto piantarla con quelle assurde reminescenze; arrivati a quel punto, non servivano più a nulla.
Mentre attendeva, lasciò che la sua mente venisse avvolta sempre di più dal buio. Era sorprendente come potesse apparire tanto vuota; appena sotto quel velo di quiete che lei stessa aveva steso, una fitta rete di pensieri e progetti continuava a delinearsi ininterrottamente. Sapeva però che era assolutamente necessario lasciarli fuori, se voleva riuscire a stabilire il contatto. Tutto si reggeva sulla capacità della sua mente di rendere concreta una realtà labile, che nessun altro poteva vedere.
Il tempo, intanto, andava lentamente perdendosi. Cercare di tenerne la percezione era inutile, perché colei che stava aspettando non ne aveva alcuna, né tanto meno era interessata ad averla. Tutti quei decenni legate senza via di scampo e ancora nulla del mondo esterno l'aveva in qualche modo raggiunta. Non che ve ne fosse necessità: il contatto con la realtà non le era mai servito per esercitare il suo potere.
Il buio cresceva sempre di più. Poteva avvertirlo premere sulle pareti della propria mente, come se volesse disintegrarle e arrivare ad avvolgere il mondo intero, che giaceva quieto appena là fuori,  nella sua ignoranza. Quale misteriosa forza, l'oscurità. Nessuno ne aveva mai conosciuto le potenzialità, fino a che lei non si era spinta oltre. Se mai ne avesse avuto timore, era stato prima di comprendere appieno dove l'avrebbe potuta portare.
Fu proprio quando quella nera coltre divenne impenetrabile, annullante, che una figura ben conosciuta iniziò a emergerne. Inizialmente, si palesò come nulla più che una sagoma fumosa, indistinta, i cui contorni sfumati impedivano di riconoscerle qualunque aspetto umano. Poi, parve improvvisamente prendere sostanza: le sue forme si fecero sempre più solide, fino a divenire le inconfondibili curve di un corpo femminile, che andavano disegnandosi nel nulla. Solo quando la sagoma fu completamente delineata iniziò a intravedersi un volto, i cui lineamenti erano attraversati da un sorriso che avrebbe saputo far rabbrividire chiunque. La sua forma era umana, ma ciò che si nascondeva al di là di essa non lo era neanche lontanamente.
Finalmente, lei potè muoversi. Sentì la propria proiezione mentale avanzare, mentre la figura faceva lo stesso e si avvicinava a passo lento. Quando furono una di fronte all'altra, le due si guardarono dritte negli occhi. Quel sorriso non abbandonava il volto dell'altra, mentre il suo era impassibile, come sempre.
Gli occhi totalmente neri e privi di pupilla della sua interlocutrice brillarono, prima che parlasse. «Potresti mostrare un po' di gioia, una volta tanto» disse, con la sua voce dal timbro di velluto. Quanto poteva essere  ingannevole l'apparenza?
«Che cosa hai percepito?» domandò lei, senza perdere il proprio contegno. Sapeva molto bene quanto all'altra piacesse giocare, quanto la divertisse detenere il potere attraverso ciò che solo lei poteva sapere, ma dalla sua risposta sarebbe dipeso molto.
La figura misteriosa si fece seria per un breve momento, prima che il sorriso ricomparisse. Questa volta, in esso vi era una nota minacciosa. «Quale trappola insidiosa, l'influenza del passato. Dovresti ben sapere che quello che sottovalutiamo, in una maniera o nell'altra,  finisce con il scivolarci fra le dita» aggiunse poi, spezzando il contatto visivo e superandola. La stoffa nera della tunica in cui era avvolta fluttuò nella sua scia, senza produrre alcun rumore.
Quelle parole sarebbero potute essere l'unica cosa capace di incrinare la sua imperturbabilità. Sentì la collera iniziare a risalire lungo tutto il proprio corpo, minacciando di straripare. Eppure, non si scompose. Sapeva perfettamente di poterla controllare, così come aveva sempre fatto con ogni sua singola emozione. Si voltò. «Non ho intenzione di commettere lo stesso errore una seconda volta» sentenziò, lapidaria. «Ora, parla.»
Per un attimo, la figura restò silente. Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. Di cosa, lei non avrebbe saputo dire: quella creatura non viveva delle stesse leggi di chiunque altro, confinata in quel mondo immateriale. Quando riaprì le palpebre finalmente parlò: «Il potere è stato liberato ed è vivo, ardente. O almeno, così è stato per un attimo. Adesso è solo un lieve palpitio, ma la sua traccia è inconfondibile.»
Nemmeno allora esternò traccia di emozione. Solo i suoi occhi tradirono una qualche reazione, scintillando della stessa luce che balenava in quelli della sua alleata, spalancati nel buio. Non disse più nulla, ferma e immobile in quell'attimo che avrebbe cambiato ogni cosa, per sempre.
Quel giorno, che per molte vite ignare non sarebbe stato diverso da qualunque altro, era per loro il preludio di tutto ciò che sarebbe accaduto da lì in avanti. Per il momento, non c'era nient'altro che avesse importanza.
Lentamente, la figura misteriosa iniziò a dissolversi. La sua voce, però, giunse forte e chiara un'ultima volta, echeggiando in quel nulla che nulla in realtà non era: «Presto arriverà il momento.»
Sì, presto sarebbe arrivato il momento, si disse lei. E il mondo avrebbe tremato.

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Capitolo 19
*** CAPITOLO 18 - Le strade di Errania ***


CAPITOLO 18
- LE STRADE DI ERRANIA -


La Regina guardava Aran con occhio attento. Nulla, né la sua espressione, né il suo sguardo, lasciavano presagire quale sarebbe stata la sua risposta.
Il ragazzo rimase composto, attendendo che la madre dicesse qualcosa. Lui e Freya avevano scontato la loro punizione e oramai erano tornati liberi di andare dove volevano, ma per recarsi a Errania aveva comunque preferito domandare il suo permesso. La Regina non aveva affatto apprezzato la loro piccola gita notturna e mostrarsene consapevoli era il modo migliore per evitare che diventasse eccessivamente restrittiva.
Aran cercò di non pensare al fatto che, nonostante quella sua dimostrazione di trasparenza, le stava tenendo nascosto un fatto piuttosto importante: nelle sue vene scorreva qualcosa di più del semplice sangue. Rabbrividì. La scoperta era tanto recente da risultargli ancora troppo difficile da assimilare. Com'era possibile che non se ne fosse mai accorto prima? Non ce n'era stata mai nessuna traccia; nessun segnale concreto gli aveva mai fatto pensare di essere portatore della magia.
Nei giorni seguiti a quel pomeriggio nel bosco, lui e Freya avevano deciso di sospendere ancora per un pò l'esplorazione della Biblioteca; c'erano ben altre cose che occupavano i loro pensieri.  Tolti allenamenti e lezioni, avevano trascorso tutto il loro tempo a parlare. Avevano discusso di tutto ciò che aveva accomunato le loro vite per ore intere, ma anche di tanti altri argomenti all'apparenza insignificanti; avevano fatto ipotesi, le avevano smentite e avevano variato argomento quando non riuscivano a trovarne altre. E mentre parlavano Aran aveva compreso che qualcosa legato a quel misterioso potere inquietava Freya.
Non aveva fatto domande, esattamente come lei non insisteva mai quando capiva che lui ancora non se la sentiva di dire qualcosa; aveva però pensato che vedere un posto nuovo le avrebbe risollevato il morale. Ottenuta udienza da Mirea aveva perciò avanzato la sua richiesta; voleva far trascorrere a Freya una giornata diversa dalle solite.
Inaspettatamente, sua madre sorrise: «Ti sei sempre recato a Errania senza bisogno del mio consenso, Aran» disse, le mani giunte di fronte a sé con la solita imperturbabile eleganza. «È sempre stata una delle tue mete preferite.»
Lo conosceva bene. La prima volta che gli era stato concesso di andare a Errania aveva nove anni; al proprio fianco aveva Darragh e un soldato scelto della guardia personale di sua madre, il quale per l'occasione aveva rinunciato alla propria armatura in modo da non attirare troppa attenzione. Ricordava molto bene quel giorno: Mirea non aveva ancora mostrato i propri eredi al pubblico e nessuno avrebbe mai potuto riconoscerli; per un momento, breve se paragonato all'interezza della sua esistenza, si era sentito uno qualunque.
Si era quasi sentito in colpa per quel sollievo: accogliendolo Mirea gli aveva dato tutto quello che si potesse desiderare e al giovane sembrava di mancarle di rispetto. Nonostante questo, alla fine era stata proprio la sensazione di leggerezza che ne era derivata a rendere Errania il luogo ideale in cui scappare. Non credeva che la madre fosse a conoscenza delle sue ragioni, ma fin da quel primo giorno le era stato facile capire quanto il centro città lo affascinasse: era ritornato al castello trattenendo a stento l'euforia e le aveva raccontato tutto per filo e per segno, come se lei non avesse mai visto la capitale del regno che governava. E quando era stato abbastanza grande da recarvisi da solo, il senso di libertà era diventato totale e irrinunciabile.
Mirea l'aveva lasciato fare; crescendo Aran era diventato sempre più responsabile e accorto e non le aveva mai dato alcuna ragione per imporgli restrizioni riguardo il suo giorno libero. Ora, il Principe voleva assicurarsi di fare tutto nel modo migliore: doveva dimostrare di meritare ancora quella fiducia. Per lui era fondamentale, poiché averla significava che, nonostante la sua voglia di libertà, la stava ripagando di tutto quello che gli aveva dato.
«Ritenevo giusto consultarvi, madre» rispose. «Volevo essere certo di avere ancora la vostra fiducia.»
La Regina tornò alla sua consueta espressione di serietà. I suoi occhi, al pari dell'abito intessuto d'oro che portava, brillavano nella luce del primo mattino; quello sguardo aveva sempre avuto il potere di metterlo in soggezione. Poi, ancor più inaspettatamente del sorriso di poco prima, arrivò il tocco delle sue mani sulle spalle. La madre si pose di fronte a lui e lo studiò con ancora più attenzione, come se volesse carpire il significato della sua affermazione senza che lui dicesse una parola.
«Cosa ti fa pensare il contrario, figlio mio?» gli domandò, senza che nulla sul suo volto cambiasse. Solo la stretta delle sue mani si fece più salda.
Qualcosa nell'animo di Aran gli disse che da quella risposta sarebbe dipeso qualcosa d'importante, anche se non avrebbe saputo dire cosa. Guardò la madre negli occhi e rispose: «Temevo che il mio comportamento potesse aver cambiato la vostra opinione nei miei riguardi. Sono consapevole che un incubo non può essere una giustificazione valida alla violazione del coprifuoco.»
Lo sguardo della Regina Mirea si fece ancora più intenso. Il giovane ebbe l'impressione che una parola in particolare, fra quelle che aveva appena pronunciato, avesse attirato la sua attenzione: incubo. Fino a quel momento, non credeva nemmeno che ne avrebbe parlato. La madre discuteva spesso sia con lui che con Darragh, ma le loro conversazioni riguardavano principalmente la loro istruzione. I figli non erano abituati a parlare con lei di faccende che riguardavano la propria sfera emotiva. Aran aveva imparato ben presto a sbrigarsela da solo, nel privato della sua anima, senza mai lasciar trapelare nulla.
Ciò che teneva occupata la sua mente in quel periodo era ben più serio di quello che aveva affrontato in passato; eppure, la sua abitudine alla riservatezza persisteva ancora. Era consapevole di non poter più tenere nascosto quello che stava passando, ora che quegli strani poteri si erano fatti vivi; inoltre, non credeva nemmeno che fosse giusto nei confronti di sua madre: si parlava di magia, una cosa molto più concreta di sogni e incubi. Prima di farsi avanti, però, aveva bisogno di prendersi il tempo necessario a capire come gestirli per conto proprio. O meglio, con l'aiuto di Freya. Era l'unica persona con cui riuscisse a trovare le parole adatte per esprimere il proprio stato d'animo.
Quando la Regina tornò a parlare lo fece senza smettere di sottoporlo a quell'attento esame. «Qualcosa ti turba, Aran?» domandò. Il suo atteggiamento era tanto imperturbabile da rendere impossibile capire fino a che punto l'affermazione del figlio la preoccupasse.
In un angolo della mente di Aran, la logica cercava di imporgli di parlare, ma in quel momento non sarebbe stato capace di farlo nemmeno volendo. Producendosi nel sorriso più genuino che gli riuscì, rispose nuovamente: «Assolutamente no, madre. Non è stato nulla più che un brutto sogno.»
La pausa che seguì ebbe un che di strano. Il giovane ebbe la netta sensazione che sua madre sapesse qualcosa di cui era decisa a tenerlo all'oscuro; ma era un pensiero talmente folle che s'impose di accantonarlo. Stava semplicemente diventando paranoico a causa di tutte le strane coincidenze che riguardavano lui e Freya, si disse.
Poi, però, arrivarono le parole di Mirea: «Esistono sogni e sogni.»
Aran dovette fare uno sforzo ancora maggiore per reprimere quel sentore, ma infine non ebbe nemmeno il tempo di porsi ulteriori domande. Detta quella brevissima frase, la Regina si scostò da lui e tornò a sedersi dietro la sua scrivania, tanto ordinata da sembrare quasi irreale. Ogni giorno sua madre sbrigava tutte le faccende inerenti la gestione del regno seduta a quello scrittoio, eppure sulla superficie lucida non c'era mai nulla che fosse dove non doveva essere. Era sempre stato così, fin da quando lui poteva ricordare. Chissà come sarebbe stata quando Darragh avrebbe preso il suo posto, si chiese distrattamente.
«Tu e Freya potete recarvi a Errania senza alcun problema», lo riscosse la voce perentoria della madre. « Mi sembra giunto il momento che lei abbia una visuale completa del mondo in cui ora vive. Vi chiedo solo di prestare estrema attenzione e di evitare di dare nell'occhio. Sai perfettamente che ho sempre fatto di tutto per scongiurare qualsiasi voce nei riguardi tuoi e di tuo fratello; avrete tutto il tempo perché si parli di voi quando diverrete il volto di questo regno.»
Era vero: Mirea era sempre stata molto attenta a non esporli più del necessario. Avere il suo consenso in quella circostanza significava avere anche la sua fiducia; finalmente, Aran poté tirare un sospiro di sollievo.
«Vi ricordo anche che violare una seconda volta il coprifuoco non vi è consigliabile» concluse poi la Regina, in un chiaro avvertimento. «Farete meglio a rientrare per tempo.»
«Naturalmente, madre» ribatté lui, rivolgendole un rispettoso inchino. «Vi ringrazio.»
Il colloquio era terminato. Aran si voltò e in tre falcate ebbe varcato la porta, che richiuse poi alle proprie spalle. Prima che il battente si riaccostasse completamente, sentì che lo sguardo della Regina l'aveva seguito fino all'ultimo istante.

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La mattina seguente partirono appena dopo il comparire delle prime luci dell'alba. Soldati e servitori  li osservarono mentre percorrevano il tragitto verso le scuderie, salutando rispettosamente entrambi al loro passaggio. Per Freya era un enorme sollievo che gli abitanti del castello si fossero abituati a lei, seppur lentamente.
Sellarono i cavalli in silenzio. Le stalle erano vuote e gli unici rumori che infrangevano la quiete erano quello delle briglie che tintinnavano e dei cavalli che sbuffavano nel freddo pungente. Quando gli sguardi dei due ragazzi s'incrociarono, entrambi sorrisero; per un istante gli occhi di Aran indugiarono in quelli di Freya. La giovane sapeva molto bene il motivo di quell'occhiata: il Principe era preoccupato per lei. Non poteva biasimarlo: da quando il suo potere aveva inspiegabilmente risvegliato quello di Aran, il ricordo della scomparsa di sua madre era tornato a galla, rendendola costantemente irrequieta.
Era qualcosa che Freya non aveva assolutamente previsto, quando aveva deciso di mostrare cosa era in grado di fare. L'angoscia di allora l'aveva travolta con una forza insospettabile e insieme a essa era arrivata un'ineluttabile consapevolezza: era diritto di Aran sapere come il mistero che avvolgeva le loro comuni capacità avesse portato Eleana a sparire per sempre. E anche per Freya era fondamentale che lui sapesse: in pochi mesi tra di loro era nato qualcosa di tanto profondo da andare oltre ogni comprensione, un legame che li aveva spinti a voler condividere ogni cosa con l'altro senza riserve. Quella, fra tutte le ragioni per cui era giusto che Aran sapesse, era certamente la più importante. Se non glie ne avesse parlato, avrebbe infranto tutto ciò che avevano costruito, oltre alla promessa di essere sincera. Doveva raccogliere il coraggio e farlo.
Il pensiero smise di martellare nella sua mente solo quando la ragazza fu in sella a Stellato. Si concentrò su quello che si apprestava a fare in quel momento, senza lasciare spazio a nient'altro; sarebbe stato da stupidi rischiare di cadere da cavallo perché non era in grado di mantenere la presa su quello che si agitava nella sua testa. Quando Aran partì, saldamente ancorato al dorso della sua Nieva, Freya e Stellato lo seguirono.
Nonostante tutto, la giovane era sinceramente emozionata. Era passato diverso tempo dall'ultima volta che aveva visto una città; inoltre, era certa che Errania sarebbe stata la più interessante che avesse visitato fino a quel momento. Era ancora piuttosto amareggiata di aver esplorato così poco di Concivis e Plametia, ma con la capitale sarebbe stato diverso: aveva tutto il tempo di approfondire ancora di più ciò che prima aveva solo assaporato.
Entrarono a Errania attraversando la porta sud. Nel passarvi sotto la ragazza provò lo stesso fremito di soggezione che aveva avvertito la prima volta che aveva visto quelle mura insormontabili: senza quei passaggi strettamente sorvegliati nessuno sarebbe mai potuto entrare all'interno della città. Il mattino era ancora giovane, eppure un gran via vai animava già la strada principale, su cui Aran e Freya si mantennero; la maggior parte della folla sembrava diretta alla piazza principale, dove quel giorno si sarebbe tenuto il mercato. I due ragazzi s'immisero nel flusso e lo seguirono, tenendo saldamente le redini dei cavalli per non rischiare di perderne il controllo.
La giovane si guardò intorno da sotto il cappuccio del pesante mantello, che le copriva interamente il capo e i lati del viso. Il freddo l'avrebbe costretta a tenerlo alzato, ma quella mattina Malia aveva insistito per svegliarsi con lei e acconciare le sue spesse ciocche di capelli. Ora le sue orecchie a punta erano perfettamente nascoste: non avrebbe corso il rischio di attirare l'attenzione.
Il suo sguardo indugiò sugli edifici che delimitavano la via: le case addossate alle mura erano semplici, più in legno che in pietra, ma non per questo meno dignitose; i vicoli che le separavano, sebbene angusti e in terra battuta, erano puliti e sgombri. Per quel poco che Freya ne sapesse quella era la zona abitata dai meno abbienti e, nel vedere quello spettacolo di ordine e semplicità, si ritrovò a provare un peculiare senso di sollievo. Ricordò che anche Concivis e Plametia erano così: forse era vero che nel Regno di Riagàn veniva garantita una vita decorosa a tutti, indipendentemente dalla classe sociale; forse doveva smettere di preoccuparsi che qualche realtà nascosta continuasse a sfuggirle.
Proseguirono per un tempo indefinito. Più il centro di Errania si avvicinava, meno legno si scorgeva nelle costruzioni che impedivano loro di vedere il sole e capire quanto fosse trascorso. Gli edifici si facevano sempre più grandi, sempre più alti e i vicoli iniziavano ad assumere le sembianze di vere e proprie stradine. Freya beveva con gli occhi ogni singolo dettaglio che riusciva a cogliere; registrava ogni suono a lei nuovo; cercava di catturare gli odori e i profumi che caratterizzavano la capitale. Quelle piccole cose rappresentavano per lei l'essenza della città, ciò che le sarebbe tornato alla memoria quando vi avrebbe ripensato in futuro.
Poneva ad Aran tutte le domande a cui riusciva a pensare: era stato il Principe stesso a raccomandarle di chiedere tutto quello voleva, il giorno precedente, e anche il maestro Athal l'aveva incoraggiata a non trattenere la curiosità. Ogni città, le aveva spiegato, era una piccola riproduzione dell'interezza di Riagàn: comprendere Errania le sarebbe stato molto utile per imparare a conoscere l'organizzazione del Regno senza che il maestro dovesse tenere una lezione appositamente per lei. Aran, quelle cose, le sapeva a memoria fin da quando era piccolo.
Freya proseguì con i suoi quesiti fino al momento in cui giunsero prossimi alla loro destinazione. I primi banchi del mercato li accolsero già lungo l'ultimo tratto della strada principale; da quel punto in poi, il vociare di venditori e acquirenti si fece sempre più assordante, impedendo ai due giovani di interloquire fra loro. Era la massa di gente più grande e rumorosa che la giovane avesse mai visto; per un istante si sentì soffocare all'idea di trovarsi in mezzo alla calca, una volta smontata da Stellato.
Il tempo di indugiare nel timore fu ben poco. Appena che Freya ebbe formulato il pensiero, Aran la fece fermare di fronte a un edificio piuttosto modesto, se confrontato agli altri della cerchia alta; lì lasciarono i cavalli legati ai pali di posta. Il Principe allungò qualche Placca d'oro a un uomo alto e smilzo che stava alla porta, il quale le accettò senza battere ciglio: sembrava conoscere il giovane e sapere di non essere nella posizione di fare domande sulla loro identità. Aran lo ringraziò, usando la sua consueta gentilezza, poi si avviarono verso la piazza centrale.
Certa che Aran non le avrebbe permesso di perdersi Freya continuò nella propria contemplazione. Il mercato di Errania era immenso e ospitava una varietà impressionante di mestieri e prodotti provenienti da paesi, villaggi e fattorie sparpagliati nel circondario della capitale. Ogni volta che girava la testa la giovane trovava una vista diversa ad attenderla: un banchetto di verdure e frutta fresche, un chiosco di dolciumi, una bancarella di ninnoli e gioielli dall'aria preziosa. Nel vagare del suo suo sguardo, Freya non mancò di notare un dettaglio: tutte le botteghe e i negozi erano chiusi. Senza esitazione domandò delucidazioni alla sua guida.
«Nel giorno di mercato i negozianti e gli artigiani restano a riposo, è la legge» spiegò Aran mentre continuavano a camminare. «In primo luogo per potersi recare anche loro a comprare quello che può necessitargli; in secondo per fare in modo che i produttori provenienti dai centri urbani più piccoli e dal circondario possano avere la loro giornata di guadagno senza la concorrenza dei mastri cittadini.»
Freya assimilò le sue parole, pensierosa. Non avrebbe mai pensato a una motivazione del genere. In effetti, sembrava il tipo di legge che rispecchiava il modello di regno di cui Mirea tanto aveva parlato durante il loro primo incontro: un luogo in cui tutti, seppur chi più e chi meno, potessero godere di una parte del benessere. Voleva scoprire se ce ne fossero altre, ma per il momento decise di accantonare la sua vena inquisitoria e concentrarsi su quello che aveva davanti.
Trascorsero la mattinata in quel modo. Gradualmente riuscirono entrambi a rilassarsi, perdendosi uno accanto all'altra in quel mare di persone impegnate nella loro vita di tutti i giorni. La gente, capì Freya, era molto più affascinante di quanto avesse pensato fino a quel momento. Bastava osservare i loro volti, le loro mani, i loro gesti per capire che ogni uomo, donna e bambino aveva una propria storia, un proprio modo di essere e una qualche strada da seguire. Se la prima volta in cui era stata nella civiltà era riuscita a notare solo le cose che la dividevano dagli altri e la spaventavano, adesso vedeva finalmente quello che la rendeva simile a loro, perfino nell'unicità di ogni individuo.
Stavano camminando fra due bancarelle di lane e tessuti quando ne parlò ad Aran. «Capisco perché ti piace tanto questo posto» disse, guardandolo negli occhi con la solita schiettezza e sorridendo.
Il giovane sembrò sinceramente stupito. «Davvero?» chiese.
Freya annuì. «Sì, davvero» rispose. «Ammetto che all'inizio non avrei mai creduto di poterlo apprezzare anche io. Tutto questo chiasso è strano per qualcuno che ha passato gli ultimi anni nel silenzio della foresta a parlare con animali e piante.» Si zittì un istante, persa nel ricordo di tutti gli  istanti in cui aveva temuto che avrebbe smarrito la capacità di parola. Leggere, a mente o ad alta voce, e parlare con la gentilezza che le aveva insegnato sua madre a qualunque creatura vivente l'avevano salvata da quell'eventualità. Eleana le aveva sempre detto che un giorno avrebbe avuto a che fare con altri individui e l'aveva preparata a quel momento, fin dalla sua prima parola; rimasta sola era stato più difficile, ma aveva cercato di non dimenticarsi mai come si facesse.  «Solo adesso capisco quanto le persone contribuiscano alla vita» concluse quando si riprese.
Aran la guardò con quella che lei intuì essere malinconia. Freya non voleva che lui fosse triste all'idea della sua passata solitudine, di cui vedeva i lati negativi perfino lei, che aveva imparato a considerarla come un'alleata. Istintivamente lo prese per mano, intrecciando le dita alle sue con tutta la delicatezza di cui fosse capace. Come sempre lui ricambiò la stretta.
Quando proseguirono, lasciandosi alle spalle le meravigliose stoffe arcobaleno, l'attenzione di Freya venne catturata da un banco che metteva in mostra meravigliosi oggetti di legno. Dopo averle lasciato tutto il tempo per ammirarli e chiedere a un perplesso artigiano ogni sorta di informazione sul suo lavoro, Aran non potè più impedirsi di scoppiare a ridere. La sua risata fu tanto lunga e sincera che ci volle un attimo prima che riuscisse a respirare di nuovo normalmente.
«Cosa c'è di tanto divertente?» chiese la ragazza, attonita. Non le sembrava di aver fatto nulla di strano.
Sulle labbra del Principe perdurava il sorriso. «Il tuo entusiasmo per le piccole cose è meraviglioso» rispose. «Solitamente sono i banchi degli orafi a ricevere tante attenzioni.»
Gli unici gioielli che Freya avesse mai avuto erano la chiave delle Saghe di Finian, sempre che si potesse considerare tale, e il medaglione di sua madre. Non aveva mai pensato alla possibilità di possederne altri, forse perché non ne vedeva la necessità.  Fu l'esternazione di Aran a far nascere in lei la curiosità nei confronti di quella diramazione dell'artigianato: era la prima volta che rifletteva sulla manualità e l'abilità che un simile lavoro doveva richiedere. Avrebbe certamente prestato più attenzione, si disse.
Presi dalle loro conversazioni, i due giovani si accorsero che aveva iniziato a piovere solo quando le gocce si fecero spesse e pesanti. Corsero a cercare un riparo sotto gli scrosci violenti, i piedi che a ogni passo schizzavano l'acqua che scivolava alle canaline di scolo. Perfino in quel momento Freya riuscì a pensare all'ingegnosità di quel sistema, che impediva l'allagamento delle strade lastricate: ne aveva letto in riferimento alle città del Regno di Adamas, nel sud-est.
Lontani dalle locande, uniche attività aperte quel giorno, Freya e Aran puntarono a rifugiarsi nel vano di un grosso portone fino a che la pioggia non si fosse almeno diradata. Vi giunsero completamente inzuppati e nello slancio della corsa si ritrovarono a fermarsi solo contro lo spesso arco in pietra, l'una addosso all'altro. I loro corpi erano attaccati, tanto vicini che Freya poteva sentire il cuore di Aran battere furioso appena al di sopra del proprio; e quando finalmente si guardarono realizzarono che i loro volti erano altrettanto prossimi, più di quanto lo fossero mai stati prima.
Rimasero così. La giovane non sapeva perché Aran non si muovesse, ma sapeva benissimo perché non lo stava facendo lei: semplicemente, non ci riusciva. Era come se una forza invisibile l'avesse immobilizzata e lei non potesse fare nulla per contrastarla. Gli occhi di lui, che non aveva mai avuto a una distanza tanto breve, erano ancora più belli di quanto Freya avesse mai notato: c'erano delle sfumature più chiare, in quel mare di grigio ardesia, che prima di allora non aveva potuto vedere.
Poi, c'era quel miscuglio di sensazioni completamente indefinibili. Le ricordavano in qualche modo quello che aveva sentito la primissima volta che l'aveva visto, ma non erano decisamente la stessa cosa. Sul volto di Aran non c'era alcuna traccia d'imbarazzo, piuttosto un riflesso di quelle stesse emozioni. La ragazza era abituata a vederlo esprimersi con sincerità, quando era con lei, ma quella volta la totale trasparenza di quello che lui stava provando la colpì con un'intensità del tutto nuova.
Nessuno dei due comprese quello che stava succedendo, né notò il proprio volto avvicinarsi sempre più a quello dell'altro, fino a che un tuono non irruppe nell'aria uggiosa. Tutto intorno a loro parve tremare. Aran e Freya trasalirono, colti alla sprovvista, e come di riflesso si allontanarono, continuando a guardarsi negli occhi.
La schiena di Freya arrivò a toccare il lato opposto dell'arco e la pietra le parve tanto meno solida e affidabile, se paragonata all'abbraccio di Aran. Era stato tutto talmente sconvolgente che non seppe nemmeno arrossire, limitandosi a spalancare sempre di più le palpebre nella confusione che la stava assalendo. Non sapendo cosa fare, volse la propria attenzione ai mercanti che sbaraccavano e lentamente abbandonavano la piazza, respirando profondamente. Che cos'era stato, quell'istante?
Aran, che pareva turbato quanto lei, non parlò fino al momento in cui la pioggia rallentò e poterono finalmente mettersi alla ricerca di una taverna in cui mangiare. «Vieni, possiamo andare» mormorò.
Stringendosi nei mantelli, i due ragazzi iniziarono a camminare in direzione della seconda cerchia, dove certamente avrebbero trovato un luogo caldo, asciutto e discreto. Alla fine s'infilarono in una locanda pulita e modesta, il genere di posto dove si può mangiare in tranquillità senza temere situazioni indesiderate. Si sedettero a un piccolo tavolo posto in un angolo, giusto accanto al fuoco su cui arrostiva un bel pezzo di carne. Quando lo stomaco di entrambi brontolò sonoramente i due giovani scoppiarono a ridere; la tensione che lo strano avvenimento di prima aveva steso tra di loro finalmente evaporò.
Ordinarono una minestra saporita e fumante, arricchita da qualche boccone di selvaggina, e due boccali di sidro. Sebbene quest'ultimo appartenesse alla sua nuova vita, il cibo semplice le ricordò inevitabilmente quella vecchia; mentre soffiava sui cucchiai fumanti, venne trascinata indietro nel tempo. Il suo palato stava quasi per dimenticare quel sapore.
Terminato il pasto arrivò il momento per le spiegazioni su cui il maestro Athal aveva tanto insistito; sinceramente incuriosita, Freya si concentrò al massimo, desiderosa di porre numerose domande al riguardo. Fu proprio lei a dare inizio alla lezione improvvisata: «Quindi, stando a quanto ho capito, la città è suddivisa in cerchie che si sviluppano attorno la piazza principale» esordì.
Aran annuì, spostando il proprio boccale a lato perché niente stesse fra di loro. Stava prendendo molto sul serio il suo compito. «Esatto. Ogni città di Riagàn è organizzata esattamente alla stessa maniera, seppur rispettando la diversa conformazione di ognuna» iniziò. «Abbiamo tre cerchie: la prima, quella più  interna e prossima alla piazza, è abitata dal governatore, dai funzionari di stato e dagli esponenti della nobiltà; la seconda, quella intermedia e in cui ora ci troviamo, è occupata da mercanti, artigiani e costruttori di ogni sorta e ospita taverne e locande; infine la terza, a ridosso delle mura, è abitata dai membri delle maestranze più umili, ma non per questo meno necessarie al funzionamento del Regno. Ogni singolo individuo è fondamentale per il meccanismo.» Si fermò un attimo e bevve un sorso, prima di proseguire. «A loro volta le cerchie sono suddivise in quartieri. Ognuno di essi ospita le case e le botteghe di un diverso ordine di lavoratori.»
Trascorsero le prime ore del pomeriggio in quel modo: Aran spiegava, Freya interveniva con le proprie domande e memorizzava tutto ciò che c'era da sapere sul sistema del Regno di Riagàn. La pioggia continuava a battere sulle piccole finestre della locanda, non facendo nulla per invogliarli a tornare all'aria aperta; ma scoprire quanto fosse complesso e magistralmente organizzato il governo di Mirea fu per Freya motivo sufficiente a non annoiarsi: nulla sembrava lasciato al caso o al disordine fra le mani della Regina.
Tutto veniva deciso e predisposto direttamente dall'alto. Ogni singolo cittadino svolgeva un mestiere affidatogli dal governo stesso in base alla propria cerchia, della quale Freya percepì nuovamente il ruolo di divisore sociale, oltre che urbano; la famiglia di origine era altrettanto decisiva: era estremamente raro che i figli fossero destinati a un lavoro diverso da quello che i genitori avevano avuto prima di loro. Fin da bambini tutti sapevano perfettamente quale sarebbe stato il proprio ruolo. A ogni ordine veniva indirizzato un numero differente di persone in base alla necessità, in modo che nessun prodotto o maestranza venisse mai a mancare. La paga minima, seppur diversa in base alla levatura del mestiere, era garantita a chiunque in cambio del contributo dato al prosperare del Regno.
Perfino le abitazioni venivano assegnate da Mirea e dai suoi emissari, che ne stabilivano anche modalità e tempi di costruzione. I nobili solevano avere sia una residenza in città che una più grande nelle campagne, ma quest'ultima veniva concessa solo dopo un'approvazione formale e pagata interamente con denaro privato. Non che fosse un problema: essi disponevano di tesori famigliari alquanto cospicui, accumulati in generazioni di servizio alla corona.
Erano infatti i nobili a controllare e sorvegliare gli allevamenti e le fattorie del circondario, responsabili del rifornimento di carne, verdura e cereali alle città, così come qualunque altro negozio o bottega entro le mura: quel ruolo di supervisori garantiva loro ricchezza e titolo, che la Regina aveva il potere di revocare in caso di mancato adempimento degli obblighi.
Tutto, in sostanza, dai beni alle ricchezze, passava dalle mani del governo di Riagàn, che ridistribuiva poi alla popolazione in base a leggi ferree e importanza del ruolo ricoperto. Nessuno moriva di fame e perciò nessuno mendicava per le strade, così come nessuno vi era costretto a vivere poiché non aveva un tetto sulla testa. Sembrava tutto incredibilmente perfetto, come un ingranaggio oliato al punto da non incepparsi mai.
Ognuno dei cittadini del Regno di Riagàn pareva avere ciò che gli fosse strettamente indispensabile per vivere e questo era certamente conforme a quello che la Regina le aveva sempre detto. Qualcosa, però, strideva: davvero l'unico modo perché esistesse un equilibrio era stabilire ogni cosa senza che la gente potesse decidere alcunché? L'ordine del Regno pareva meraviglioso, fino a che non si pensava al fatto che i sudditi non avessero nemmeno la libertà di scegliere il mestiere di cui avrebbero voluto vivere. E l'istruzione? Aran le aveva detto che tutti avevano la possibilità di imparare il lavoro che avrebbero dovuto svolgere, ma se mai avessero voluto conoscere di più? Se mai avessero desiderato una vita diversa, avrebbero avuto il diritto a quel tipo di ambizione? La risposta aveva il potenziale di accendere in lei una certa inquietudine.
Le domande continuarono ad assalirla anche quando il temporale cessò e finalmente poterono uscire. Aran pagò il dovuto all'oste. Nel vedere nuovamente le piccole Placche rettangolari luccicare Freya pensò che il Principe avrebbe dovuto anche illustrarle nel dettaglio il sistema monetario, ma non l'aveva fatto.
Giunti all'esterno, il giovane rispose a quel dubbio. «Per oggi hai già dovuto subire abbastanza i miei sproloqui» disse, sorridendo. «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto vedere la piazza senza i banchi del mercato, prima di avviarci.»
Gli occhi di Freya s'illuminarono e la ragazza annuì: la sua curiosità prese di nuovo il sopravvento. Aveva cercato di studiare i bellissimi edifici a ridosso della piazza, quella mattina, ma la folla e le bancarelle gliel'avevano impedito. Doveva assolutamente recuperare. Ritrovato il proprio spirito, seguì Aran lungo le vie cercando di lasciarsi trascinare da esso.
Come il giovane aveva detto, la piazza era completamente sgombra e fin dalla via principale si poteva avere una bellissima visuale della sua interezza. Freya si sorprese di non essersi accorta che fosse tanto grande: la fontana che zampillava al suo esatto centro era parecchio più distante dai palazzi di quanto avesse immaginato. Nonostante la pioggia avesse cessato di cadere l'aria era fredda e umida, perciò pochissime persone facevano loro compagnia in quel vasto spazio. La giovane trasse un respiro profondo, assaporando lo strano fascino del silenzioso cuore della città.
Giunti alla grande vasca centrale, Freya e Aran si sedettero sul bordo in pietra, fianco a fianco. Lo sguardo di lei seguì per un lungo istante tutto il perimetro percorso dagli edifici, fino a fermarsi sul più grande e maestoso di tutti: un palazzo talmente alto da svettare al di sopra di ogni altro, che affacciava sulla piazza una lunga scalinata; al culminare dei gradini una selva di colonne finemente scolpite sorreggeva un ampio porticato, al cui termine si apriva il portone di entrata.
Senza riflettere, Freya si alzò e prese a camminare in quella direzione. Aveva già letto qualcosa a riguardo, nelle Saghe di Finian: era il luogo di culto più importante dell'intero Regno di Riagàn.  Impiegò un attimo a rammentare il nome dell'unico dio che gli umani adoravano: non aveva mai letto nulla sull'argomento nei libri presenti al castello ed era da tempo che non tornava su quel capitolo delle Saghe. Poi, un lampo: Creantis, lucente entità della creazione. Così veniva chiamato.
Aran, nel frattempo, l'aveva raggiunta. Stava dietro di lei, in silenzio, lasciandole come sempre il suo tempo. Certe volte lei non capiva proprio come potesse avere tanta pazienza di starle dietro nella sua scoperta di tutte quelle cose che lui conosceva già alla perfezione.
Quando Freya parlò, lo fece quasi senza accorgersene: «L'Altissimo Tempio di Creantis...» mormorò. Non c'erano sicuramente costruzioni del genere nelle Foreste di Confine.
«Una volta, forse. Molto tempo fa» rispose Aran, stranamente serio. «Ora è il Palazzo di Governo: vi si tengono tutte le riunioni fra i funzionari e il governatore. Inoltre, è la residenza di quest'ultimo, la meglio protetta della città.»
Freya tacque, interdetta. Solo allora, distogliendo l'attenzione dai bellissimi bassorilievi, si accorse delle quattro guardie appostate all'ingresso; il portone era chiuso, probabilmente da più che un semplice chiavistello, piantonato e controllato a vista. Sempre più confusa, iniziò a riepilogare quello che ricordava dalle Saghe: il popolo di Riagàn, come pressoché ogni altro, era profondamente legato al culto della propria divinità. Creantis faceva parte della vita delle persone in ogni gesto; la fede era vera, spontanea, poiché a ognuno era garantita la libertà di credere o meno senza rischio di alcuna punizione. Era una religione semplice, che raccontava di un dio accogliente e comprensivo con i giusti, intransigente e irremovibile con i malvagi. Come poteva la gente di Riagàn aver permesso che il suolo a lei più sacro divenisse luogo di scambi di potere?
Eppure, mentre il suo sguardo correva alle lame taglienti delle alabarde portate dalle guardie, ebbe la certezza che quello non poteva essere il tempio di cui aveva letto; non poteva essere quel luogo di raccoglimento sempre aperto a chiunque cercasse conforto nei momenti di dolore, o benedizione nei tempi di gioia. E, con sconcertante immediatezza, sopraggiunse il pensiero che dovesse essere opera della Regina Mirea.
Non sentendo giungere nulla da parte sua, Aran proseguì: «Il maestro ha tentato di accennarmi qualcosa, molti anni fa, ma era un argomento che arrecava dispiacere a mia madre. Ha preferito essere lei a parlarmene» disse, le sopracciglia aggrottate. «Mirea ha lottato a lungo contro il credo violento e crudele dei nostri antenati, quando è salita al trono. Ha dovuto prendere delle decisioni molto difficili e invise ai più per debellarlo. I principi cruenti su cui il culto si fondava erano radicati al punto che l'unica soluzione fu abolirlo per legge. Da quel momento, Riagàn è uno stato fondato sulla ragione.»
La confusione venne presto sostituita da un sentimento d'inquietudine. Come potevano la versione dell'autore delle Saghe e quella di Aran dipingere il culto in due modi tanto divergenti? Le possibilità erano solo due: o il libro che sua madre le aveva sempre detto essere fonte di verità mentiva, oppure ad Aran era stata raccontata una bugia. Entrambe non fecero altro che aumentare l'angoscia di Freya, consapevole che qualunque fosse la risposta uno dei due aveva creduto a una menzogna.
Più il silenzio di lei si protraeva, più Aran sembrava agitarsi. «Ti senti bene?» le domandò infine, visibilmente preoccupato.
Uno sforzo sovrumano e Freya riuscì a ricomporsi. Prese un profondo respiro, sorrise. «Sì, è solo che... Questo non è il culto di Creantis che conoscevo io» mormorò.
Per un istante, la giovane rimase in bilico sul sottile filo del dubbio: stava a lei decidere se esprimere le proprie riflessioni o meno. Poi, qualcosa le disse che non era il momento adatto per sollevare simili questioni; era stata una giornata bella e preziosa, una di quelle che avrebbe sempre conservato nel profondo della propria anima: non poteva rovinarla con le sue solite macchinazioni. C'era già così tanto da risolvere.
Sorrise ancora e lentamente vide il volto di Aran distendersi fino a che non la ricambiò. Avrebbe  voluto vederlo sempre così, si disse, sereno, pieno di gioia e meraviglia. Camminò al suo fianco in completo silenzio, cercando di concentrarsi sulla sua felicità, e altrettanto in silenzio montò in sella a Stellato per riprendere la strada del ritorno.
Eppure, il dubbio aveva oramai iniziato a scavare un solco incancellabile.

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Capitolo 20
*** CAPITOLO 19 - Senso di colpa ***


CAPITOLO 19
- SENSO DI COLPA -


Nei giorni successivi i temporali si susseguirono ininterrottamente. Appena riconquistata la libertà, Freya e Aran dovettero rinunciarvi di nuovo.
La mattina il cielo li accoglieva plumbeo, insieme a una pioggia tanto fitta e gelida da rendere quasi impossibile distinguere i campi al di là della sua cortina. I due ragazzi facevano colazione insieme nelle cucine, seduti accanto al fuoco e stretti nei loro mantelli per contrastare il freddo. Quando avevano terminato lasciavano il tepore a malincuore per recarsi in Biblioteca.
Lì, le lezioni proseguivano a pieno ritmo. Ogni giorno il maestro Athal esponeva un argomento diverso: parlava della lunga storia del regno di Mirea, del pensiero dei letterati di Riagàn, di botanica e persino di miti e leggende. Freya e Aran ascoltavano attentamente e poi lo tempestavano di domande, a cui l'uomo rispondeva spesso con altri interrogativi. A quel punto si aprivano lunghe discussioni.
Una mattina il botta e risposta fra i due ragazzi durò talmente a lungo che prese dell'ultima parte della lezione stessa. Fu una parola ad accendere il loro interesse: profezia. Il precettore aveva appena parlato loro di queste antiche predizioni, che potevano giungere inaspettate o venir lette volontariamente nel moto delle stelle: spesso erano enigmatiche, ma potevano svelare importanti dettagli del futuro. Ora quasi nessuno ci credeva più, nel razionale Regno di Riagàn, ma in passato chi sapeva decifrarle era tenuto in gran considerazione. Alcune erano state talmente complesse che per interpretarle erano stati impiegati interi anni.
Il quesito da cui  tutto ebbe inizio fu questo: «Parlando come se foste certi che esistano, quale influenza potrebbe avere una profezia nella vita di un individuo?»
Aran rispose prontamente: «Le profezie dovrebbero mostrare il futuro, no? Amesso di riuscire a capire cosa ti vogliano dire, sapere esattamente cosa accadrà nella tua vita può cambiare tutto. Saprai con certezza che, qualunque passo compirai, arriverai a quel dato avvenimento, bello o brutto che sia; vedresti tutto in modo diverso.»
Freya sorrise. «Questo solo se parti dal presupposto che per forza di cose la profezia sia qualcosa di definitivo.»
Il Principe rivolse tutta la propria attenzione a lei. «Dipende da quanto credi nel destino e da come lo concepisci» ribatté. «Innanzi tutto, la fiducia in quest'ultimo determina anche la fiducia nelle profezie. Se non credi nel primo, difficilmente crederai alle seconde, perché vedrai l'avvenire come qualcosa d'indeterminato e impossibile da prevedere. Se invece pensi che il destino esista, che influenzi il tuo futuro e che sia inciso nella pietra, allora intenderai la profezia come qualcosa di immutabile.»
Ne avevano già parlato, in passato: secondo Aran, larghe parti della propria esistenza non potevano essere cambiate. Era una convinzione che gli era derivata dalla propria condizione: come Principe reale avrebbe sempre dovuto ricoprire un determinato ruolo, senza possibilità di scelta. Poco importava che gli piacesse o meno: era destinato a quello. Per lui era il prezzo giusto da pagare in cambio di tutto ciò che aveva ricevuto dalla Regina Mirea. La giovane, invece, ancora si rattristava al pensiero che, col passare del tempo, Aran avrebbe dovuto rinunciare a tante delle sue passioni.
Tenendo presente cosa significasse per lui quel discorso, Freya rispose con decisione, ma anche delicatezza. «Sai perfettamente come la penso, se tiri in ballo il destino.» Con la coda dell'occhio vide Athal che li osservava, quieto. «Io credo nella sua presenza, ma credo anche che non abbia un unico volto. Il destino, per me, ha mille sfaccettature: è quello che non possiamo evitare, ma anche ciò che deriva dalle nostre decisioni; è fatto di tappe che dovremo attraversare, ma anche di tutte le possibilità che ci creiamo noi. Non è immutabile: cambia in base a come noi lo consideriamo e si costruisce insieme a noi. » Prese una pausa.  «Perciò, per rispondere riguardo le profezie, non le credo sentenze incise per l'eternità. Se il destino può essere cambiato, anche una profezia può esserlo. E vedendola così, saprai che essa è solo una delle tante eventualità che il destino ti pone. »
«E cosa ci garantisce che le nostre decisioni contino davvero?» Aran espose la propria domanda con la stessa fermezza di lei, ma sorrideva. Non c'era mai da annoiarsi, con lui. «Se anche le decisioni di cui parli facessero parte di un disegno e fossero già predestinate?»
Questa volta toccava a Freya appellarsi alla propria questione personale. «Bene, ti risponderò parlando di ciò che conosco» affermò. «Io sono fermamente convinta che arrivare qui, a Errania, fosse nel mio destino. Ma se quel giorno di mesi fa avessi detto di no al capitano Craius, non vi sarei mai giunta. Almeno, non per questa via. Perciò sì, credo che le scelte contino eccome. Elaborando ulteriormente il mio precedente pensiero: il destino esiste, ma anche abbracciarlo è una nostra decisione. Anzi, è la prima scelta che siamo chiamati a compiere quando esso si presenta a noi. Se ci voltiamo dall'altra parte, il destino cambierà forma e troverà altre strade da farci percorrere.»
«Resta comunque il fatto che, alla fine, arriveremo dove lui ci vorrà condurre» ribatté Aran.
Freya sorrise di nuovo. «Il punto è che tu dai per scontato che il cammino verso quel luogo non conti e di sapere dove andrai a finire. Invece, non si può mai sapere nulla con certezza.»
«A meno che tu non abbia una profezia, s'intende.»
A quel punto la giovane scosse il capo e, infine, i due ragazzi scoppiarono in una risata. Sapevano venirsi incontro, ascoltarsi, ma non scendere a compromessi; quella conversazione sarebbe potuta andare avanti all'infinito.
Anche il maestro Athal sorrideva, adesso. Con il fare dell'arbitro, sentenziò: «Bene, bene. Due visioni opposte della questione: da un lato chi crede che il destino sia un libro già compiuto che ci viene consegnato alla nascita.» Guardò Aran. «Dall'altra chi pensa che sia un racconto che scriviamo noi vivendo.» Guardò Freya.
L'uomo sembrava molto soddisfatto della loro predisposizione al dibattito e non faceva mai nulla per scoraggiarli dal parlare. Perciò, anche in quel caso, non commentò né tanto meno corresse il pensiero di nessuno dei due. Non lo diceva mai ad alta voce, ma avevano entrambi l'impressione che fosse molto orgoglioso di loro. Ascoltava ciò che avevano da dire; partecipava alla loro ilarità quando riconoscevano la rispettiva testardaggine; e a volte interveniva perfino con i suoi commenti pungenti.
Intanto, il dilemma di Creantis non abbandonava mai Freya: anzi, la tormentava anche in quei momenti. La sera stessa del loro rientro da Errania, tornata alla sua stanza, aveva consultato le Saghe di Finian; sapeva bene cosa vi avrebbe trovato, ma non si sarebbe data pace fino a che non l'avesse riletto e perciò l'aveva fatto. Mentre leggeva, l'inquietudine aumentava: esattamente come ricordava, l'autore del compendio descriveva il culto di Riagàn come giusto e generoso. Da quel momento, le parole di Aran e quelle del misterioso scrittore avevano iniziato ad alternarsi nella sua mente, tanto diverse da stridere terribilmente.
Col passare dei giorni, la giovane si convinceva sempre di più a confrontarsi proprio con il maestro Athal. Una parte di lei si sentiva in colpa: aveva promesso ad Aran di essere sincera, eppure esitava a parlare. L'altra parte, però, era certa che la cosa migliore da fare fosse discuterne prima con il precettore. Da ciò che aveva capito, era stata la Regina stessa a spiegare ad Aran perché avesse bandito il culto di Creantis e perché non volesse che ne parlassero; mettere in discussione le parole di Aran significava questionare Mirea stessa. E per quanto curioso e sempre aperto a ogni possibilità, il Principe sarebbe rimasto sconvolto dall'ipotesi che sua madre avesse mentito. Attivando i suoi poteri gli aveva già dato abbastanza a cui pensare: quella era una faccenda di cui doveva occuparsi lei.
Terminata la lezione, i due ragazzi tornavano alle cucine per pranzare. Le cuoche facevano sempre trovar loro un buon pasto caldo e chiacchieravano insieme ai giovani allegramente, a proprio agio come lo sarebbero state con i loro figli. Freya anelava spesso quegli attimi di tranquillità: le permettevano di immaginare la vita semplice e normale che le mancava sempre di più. Aveva creduto che Errania sarebbe stata la fine di tutte le domande; invece, in quel palazzo, ne aveva trovate infinite altre, ancor più complicate. In un certo senso era affascinante essere sempre alla ricerca di qualcosa, ma ciò non toglieva quanto fosse estenuante.
Terminato il pasto avevano solitamente un paio di ore di pausa. Era il momento in cui Freya e Aran soddisfacevano il proprio bisogno di stare soli con sé stessi e si dedicavano ad attività differenti, separandosi fino all'ora dell'addestramento. Dal momento in cui avevano affrontato l'argomento profezie, Aran aveva iniziato a leggere trattati di astronomia. Non si poteva rintracciare nulla riguardo le predizioni, dato che la Regina considerava le vecchie credenze inutili, ma la trovava lo stesso un'interessante branca della conoscenza. Freya, invece, aveva iniziato a scrivere; si trattava più che altro di una raccolta dei propri pensieri, che metteva giù su fogli di pergamena sparsi, seduta al tavolino della propria stanza. Stava scoprendo come le parole, prendendo forma fisica, diventavano all'improvviso più sensate.
Con l'accorciarsi delle giornate e l'avvento del freddo, però, il programma cambiò: appena il tempo di digerire e poi si recavano immediatamente alla sala d'addestramento interna. Si trattava di una stanza lunga e piuttosto stretta, cui si accedeva attraversando l'armeria adiacente i campi d'allenamento esterni. Lì i Principi e i membri della guardia personale della Regina si allenavano nella scherma quando il tempo non permetteva altrimenti.
Seduta sul pavimento, la giovane restava a guardare i duelli di Aran e Darragh, che in quel frangente non avevano alcuna possibilità di evitarsi. Non parlavano praticamente mai; si limitavano semplicemente a fare ciò che il maestro d'arme comandava loro. Quando l'insegnante li lasciava andare, Darragh proseguiva ancora insieme alle guardie; Aran, invece, riprendeva con Freya. Oramai, tutti gli altri uomini si erano abituati alla sua strana consuetudine di allenare la ragazza e non li osservavano più increduli come prima.
Seppur lentamente, iniziavano a vedersi alcuni miglioramenti. Le braccia della giovane non tremavano più, quando parava un colpo; i suoi movimenti di base erano diventati più fluidi. Non era ancora mai riuscita a disarmare Aran, ma per lo meno gli teneva testa. Per lei, che non aveva mai pensato di essere portata per la spada, era comunque fonte di soddisfazione.
Le prime ore pomeridiane scivolavano via in quel modo.
Era solo nella seconda metà del pomeriggio che i due ragazzi si potevano concedere un po'; di riposo. Si dedicavano alle loro attività personali, poi ritornavano alla Biblioteca e davano inizio alla loro esplorazione. L'avevano ripresa il giorno dopo la visita a Errania e l'impossibilità di uscire dava loro una motivazione in più per proseguire: durante l'inverno sarebbe certamente diventata una delle occupazioni principali dei loro giorni di libertà. Continuavano a trovare di tutto, tranne che l'oggetto delle loro ricerche: una mappa estesa e dettagliata del mondo così com'era al presente.
A sera percorrevano la strada di ritorno alle loro stanze in silenzio e infine si congedavano. Attendevano che le voci dei loro sogni si facessero sentire, per capire se ora che sapevano l'uno dell'altra avrebbero avuto qualcosa da dire. Per il momento, però, le loro notti vennero attraversate solo da quella stessa identica visione del pilastro, sempre più insistente.
Le voci restavano silenti.

Dovettero attendere quasi una settimana prima che gli acquazzoni cessassero.
Un mattino Freya si alzò e si accorse che il cielo era sgombro, sebbene il sole fosse pallido e il freddo fosse sempre più tagliente. Ben sapendo cosa avrebbero fatto quel giorno, la ragazza si preparò alla cavalcata: indossò un bell'abito di lana blu; poi i nuovi stivali alti procurati da Malia, la quale non aveva più sopportato di vederla indossare i suoi calzari vecchi e logori; infine il mantello più pesante che avesse. Contrariamente al solito, lasciò indietro l'arco: non le sarebbe servito.
Quel giorno sarebbe stato interamente dedicato alla magia. Quel giorno, lo sentiva, avrebbe parlato ad Aran della scomparsa di Eleana. Al pensiero, un brivido ben più profondo di quelli causati dal gelo la squassò.
Arrivata alle cucine scoprì che Aran aveva già fatto colazione, recuperato qualche pezzo di pane e formaggio per il pranzo e l'attendeva alle scuderie. La cuoca sembrava divertita dalla fretta che aveva dimostrato il giovane Principe, ignara della motivazione di tanta agitazione. Anche Freya era agitata, ma sospettava che le sue ragioni fossero leggermente diverse. Mangiò più velocemente che potè, poi si avviò.
Come le era stato detto Aran era già lì, accanto a Nieva, intento a prepararla. La meravigliosa giumenta grigia si lasciava sellare docile, tendendo di tanto in tanto il muso ai cerali nella sua mangiatoia. Quando scorse Freya, alzò la grande testa e nitrì. La reazione dell'animale attirò l'attenzione del ragazzo, che si girò a propria volta. Le sorrise. Sembrava davvero emozionato all'idea che, per la prima volta da quando era comparso, avrebbe provato a evocare il potere di propria volontà.
Nonostante tutto, Freya ricambiò. Era in ansia, certo, ma anche per lei si trattava di una novità: prima di allora aveva sempre cercato di far finta di non possedere alcun tipo di magia, nascondendola perfino a se stessa. Sì, era decisamente emozionante quello che stavano per fare: semplicemente, Freya non riusciva a decidere in quale senso lo fosse per lei.
Fortunatamente, la cavalcata riuscì a risollevare il suo umore, almeno per poco. Lei e Aran fecero a gara nel primo tratto, fino a che Stellato e Nieva non si furono ben scaldati, ridendo e giocando spensierati. Anche i due cavalli sembravano divertirsi, scattando e scartando in quella corsa improvvisata, o almeno così piaceva pensare ai due giovani. Quando furono troppo stanchi rallentarono al trotto e poi al passo.
Restare tanto tempo a contatto con Stellato, in qualche modo, riuscì a rassicurarla. La sua fierezza, la sua sicurezza, la sua calma: ammirava quegli aspetti dell'animale proprio come se lui fosse stato un essere umano. La verità era che lo stallone sapeva perfettamente quanto valeva e questo si rifletteva nel suo temperamento; Freya avrebbe voluto prendere esempio da lui e saper valutare tutto con la stessa fiducia nel proprio istinto. Stellato aveva uno spirito indomito e lo abbracciava al punto da seguirlo sempre. Era una creatura intelligente, con cui le sembrava di parlare anche senza farlo ad alta voce. Mentre procedevano ad andatura lenta si prese del tempo per lasciargli delle lievi carezze a lato del collo. Quando il loro respiro si fu regolarizzato ripartirono al galoppo.
Mancava oramai poco e in breve la solita radura li accolse, unico luogo protetto nella vastità delle piane su cui posava il castello. Freya osservò Aran mentre si guardava intorno, più pensieroso che meravigliato come la prima volta che erano stati lì insieme. Il ragazzo si avvicinò al tronco di uno degli alberi circostanti e vi posò una mano, quasi si aspettasse che reagisse in qualche strana maniera. Per un attimo anche Freya lo credette: ricordava benissimo gli scricchiolii del legno mentre i loro poteri entravano in contatto. Ma la foresta restò immobile, in solenne e assoluto silenzio.
Quando Aran tornò a guardarla le rivolse un sorriso imbarazzato. «Lo so, è stato assurdo da parte mia credere che sarebbe successo di nuovo» disse, camminando verso di lei.
«Non tanto quanto credi» rispose Freya, sedendosi a terra a gambe incrociate. «Succedono un sacco di cose assurde e improvvise quando si parla di questo potere.» Abbassò lo sguardo su foglie e muschio; quando lo rialzò, sul viso di Aran era comparsa la solita espressione preoccupata. Non per la situazione: per lei. «Vorrei saperti dire di più, Aran. Vorrei poterti spiegare meglio che cos'è, ma non ne ho la minima idea io stessa.» Ecco, stava iniziando a liberarsi di una parte del peso che la opprimeva.
Aran continuò ad avanzare fino a sedersi di fronte a lei. Si mise comodo, aggiustandosi il mantello sulle spalle per salvaguardarsi dagli spifferi, poi si fermò con gli occhi puntati in quelli di lei. «Come si è mostrato la prima volta?» chiese, con delicata fermezza.
Fino a quel momento non le aveva mai domandato nulla: seppur non conoscendo le motivazioni, capì Freya, lui aveva intuito che quel discorso la metteva in difficoltà. Deglutì a vuoto. Poi si decise a rispondere: «Avevo nove anni. Ero nel bosco con mia madre. Ricordo di essermi chinata per raccogliere una qualche erba di cui avevamo bisogno e...» Prese un respiro profondo. «La luce mi ha accecata all'improvviso. Sul subito non ho nemmeno realizzato che provenisse da me.»
Aran sembrò riflettere. Corrugò le sopracciglia e assottigliò gli occhi, permettendo al piccolo solco che compariva fra di esse in quelle circostanze di fare capolino. «Tua madre cosa ti disse?»
«Solo di non pensare che fosse un gioco» rispose lei, sincera. «Da quando lei se n'è andata non li ho mai più rievocati.»
Il giovane indagò la sua espressione. Sembrava che stesse realizzando che presto si sarebbe sentito dire qualcosa di estremamente ingombrante. Comunque, parve decidere che sarebbe stata lei a parlare, quando se la fosse sentita. Si fregò le mani, oramai intirizzite dal gelo, e si mise sulle ginocchia. «Bene, sono pronto» asserì, chiudendo per il momento l'argomento. «Credo che sia arrivato il momento di vedere cosa ne uscirà questa volta.»
Freya prese la stessa posizione e decise di focalizzarsi su ciò che stavano per fare. L'ultima volta le era bastato mettere le mani nella terra e lasciare che il potere fluisse, perciò anche per Aran non sarebbe dovuto essere tanto diverso. Conscia che in ogni caso non avrebbe potuto consigliargli molto di più, ripeté ad alta voce quello che aveva pensato.
Provarono entrambi nello stesso momento. Freya puntò su quello a cui era abituata: cercare di far crescere qualcosa. Era l'unica abilità che le si fosse palesata e per il momento preferiva limitarsi a perfezionare quella. Aran, invece, tenne le mani posate sulle ginocchia con i palmi rivolti all'insù, chiudendo gli occhi. Non c'era nessuna regola in quella situazione, perciò un metodo valeva l'altro. In fondo, sembrava che anche il vento terrificante che si era alzato la notte del ballo fosse opera loro, perciò il potere poteva non essere legato solo alla terra.
I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Inizialmente non comparve assolutamente nulla, poi, almeno per Freya, si passò a delle brevi e fugaci scintille. Le mani di Aran restavano quiete, ma lui non sembrava troppo sorpreso: stava cercando di evocare una magia di cui per anni non aveva nemmeno sospettato l'esistenza; non si aspettava certo che fosse tanto facile. Per la giovane, invece, era un pò più frustrante: sapeva di averlo sempre rifiutato, ma sembrava proprio che quel giorno fosse il potere a rigettare lei. Era come se le stesse facendo pagare tutti gli anni in cui lei l'aveva recluso e, allo stesso tempo, qualcosa lo bloccasse senza che lei lo volesse.
«Non hai davvero fatto altro che concentrarti, la scorsa volta?» domandò Aran a un certo punto, strappandola dai suoi insuccessi.
Freya riaprì gli occhi e lo mise a fuoco. Annuì. «Ho solamente...» Si zittì bruscamente. «Forse... Forse concentrare non è il termine giusto» mormorò poi, pensierosa. «Credo di aver solo permesso che emergesse. È stato come lasciar fluire qualcosa che sapevo perfettamente essere dentro di me e che mi aspettava appena oltre la soglia della mia anima.»
«Perciò... Credi che la mente vada lasciata da parte?» domandò Aran.
«Penso che la parte razionale sia il mezzo giusto per controllare il potere una volta che lo hai fra le mani, ma non per evocarlo all'inizio» rispose Freya, seguendo il proprio stesso ragionamento.
Ritentarono. Chiusi gli occhi, Freya si rese conto che era proprio quello il problema: la sua mente si agitava frenetica, presa da mille pensieri e dal ricordo di Eleana che si allontanava nella foresta e spariva per sempre. Stava monopolizzando tutta l'energia che avrebbe dovuto impiegare nella magia. Non ci riusciva; sentiva solo un peso terrificante sul cuore e sullo stomaco. Resistette all'impulso di spalancare gli occhi più che potè; ma quando il tutto si fece insostenibile fu costretta a lasciare il buio sempre più soffocante della propria coscienza.
La vista che l'accolse non fece altro che accrescere a dismisura il suo conflitto interiore. Aran ci era riuscito: la luce aranciata era ritornata a fluire nelle sue vene e s'irradiava dalle sue mani aperte, brillando come un piccolo sole disceso fra gli alberi. Intorno a lui, scostando tenacemente foglie cadute e muschio, crescevano sottili steli d'erba. Erano di un bel verde, brillante e pieno di vita. Era uno spettacolo stupefacente. Freya sentì la meraviglia mescolarsi all'angoscia, in uno strano miscuglio che le mozzò il respiro.
In quell'istante, Aran la guardò. Era talmente stupito da quello che era riuscito a fare che sembrava non poter fare altro che sorriderle, incredulo. Lei avrebbe voluto ricambiare quel gesto come faceva sempre, l'avrebbe voluto davvero. Invece, abbassò lo sguardo sulle proprie mani e si ritrovò a sussultare: esattamente come la volta precedente, i loro poteri sembravano aver reagito alla reciproca vicinanza. In risposta a quello di Aran, il suo le aveva inondato le vene di luce smeraldina, che improvvisamente le sembrò bruciare come un fardello insostenibile.
Senza più riuscire ad arginare le proprie emozioni, la giovane balzò in piedi, allontanandosi bruscamente dal centro della radura. La luce verde scomparve all'improvviso e a breve anche il potere di Aran si ritrasse, forse per lo spavento che gli aveva fatto prendere. Freya avrebbe voluto spiegare, ma in quel momento le era impossibile respirare, figurarsi formulare un discorso comprensibile. Restò di spalle, cercando di inalare almeno quel poco d'aria che rimettesse in moto i suoi polmoni, ma il nodo che aveva in gola le impediva di farlo. La vista le si annebbiava a tratti, un po' a causa delle lacrime e un po' per l'attacco di panico che la stava assalendo. L'irrazionale sensazione che sarebbe accaduto qualcosa di tremendo si era fatta incontenibile.
Era talmente persa in quell'incubo a occhi aperti che quando Aran le posò una mano sulla spalla sobbalzò. Si voltò di scatto, tendendo le mani in avanti: si sentiva fuori controllo e provava l'assurdo timore di fargli del male. Il giovane Principe sgranò gli occhi, come se lo avesse colpito con uno schiaffo in pieno viso. Fu solo alla vista della sua espressione che Freya trovò la forza di parlare.
«Sono stata io» disse, la voce che le tremava incontrollata.
«Di cosa stai parlando, Freya?» domandò Aran, realizzando che la sua reazione era legata alla stessa cosa che logorava la sua anima oramai da tempo. Nel suo tono c'erano una preoccupazione e una comprensione che le erano insostenibili.
«Sono stata io!» ripeté, questa volta a voce talmente alta da trasformarsi in un grido. «Io sono la causa della sua scomparsa!»
Di fronte a quell'affermazione Aran s'immobilizzò. Era fin troppo perspicace per aver bisogno di chiederle a chi si stesse riferendo, ma la sua confusione era palese. Le si avvicinò di un passo, ma quando lei arretrò si fermò nuovamente e domandò: «In che modo potrebbe essere colpa tua?» Nel suo tono non c'erano orrore o pena, ma ancora quella dolcezza che lei sentiva di non meritare affatto.
«Se... Se questa dannata cosa non fosse mai comparsa, mia madre non avrebbe... Lei non sarebbe mai...» La voce iniziò a mancarle e con sgomento la giovane si rese conto di non riuscire più a trattenere le lacrime. Iniziarono a scorrerle lente e calde lungo le guance; più lei tentava di ricacciarle indietro, più le sue spalle sobbalzavano, in preda ai singhiozzi. «Lei se n'è andata per... per capire come aiutare me! Per capire cosa fare con questi maledetti poteri! Avrei dovuto chiederle dove sarebbe andata... No, sarei dovuta andare con lei! Invece... Lei è...» Un altro singhiozzo la squassò, spezzando le sue parole. «E io non saprò mai cosa...»
Da anni Feya non si concedeva più il lusso di lasciarsi andare a una simile disperazione. Fino a che si era comportata come se i poteri non si fossero mai fatti vivi, trattenere ogni cosa era stato possibile. Ma ora che la magia splendeva nuovamente nelle sue vene non lo poteva più fare. Perciò smise di lottare e semplicemente pianse, sebbene si sentisse un completo fallimento per essere andata in mille pezzi di fronte ad Aran.
La vergogna continuò a bruciare ardente in lei, almeno fino all'istante in cui si sentì circondare e stringere dalle braccia di lui. Provò a opporsi, quasi inconsciamente. «No! Io non... Io non merito la tua compassione!» gridò in mezzo alle lacrime.
Aran non si scompose minimamente. Si limitò a stringerla ancora più forte. Quando le ginocchia di Freya si fecero troppo deboli scese fino a terra con lei, continuando ad abbracciarla in perfetto silenzio.
«Non merito nulla di tutto questo...» mormorò ancora, troppo stanca per poter tenere lo stesso tono di prima.
Le lacrime, nel frattempo, non accennavano a fermarsi. Lo strazio era tale che Freya non riusciva più ad avere alcuna cognizione di ciò che aveva intorno; solo il dolore sembrava avere ragione di essere, l'unico di cui poteva sentire la voce. Non realizzava di star attraversando tutto in una volta anni di emozioni che in passato era stata troppo piccola per processare appieno. Non realizzava di pesare completamente su Aran, il cui abbraccio era l'unica cosa che le impediva di lasciarsi andare a terra e non rialzarsi più.
Alla fine, solo lui fu in grado di arrivarle al di là di quella cortina di pena. A un tratto, a far da contraltare a quell'immensa tristezza comparvero la sua presenza, il suo calore e le sue mani che lentamente le accarezzavano il capo e la schiena. Non parlava, si limitava a quel semplice e rassicurante gesto; in quel momento era tutto ciò di cui Freya avesse bisogno. Forse Aran nemmeno si rendeva conto di quanto stesse facendo per lei.
Rimasero seduti in quel modo per un tempo impossibile da determinare. Quando il pianto cessò Aran non la lasciò andare e Freya non fece nulla per riprendere le distanze. Qualcuno avrebbe anche potuto considerarlo sconveniente, ma a nessuno dei due importava. Esserci l'uno per l'altra era oramai divenuta una consuetudine, per loro; la giovane non sapeva nemmeno più come avrebbe mai potuto rinunciarvi.
Poi, il Principe parlò. La sua voce era sommessa, lieve. «Perché non mi hai mai detto prima come ti sentivi?»
«Perché sono una codarda» mormorò lei, la voce graffiata dal lungo pianto e il viso seppellito nella casacca di lui. Sì, era stata una codarda e lo era anche in quel preciso momento: avrebbe dovuto guardarlo negli occhi, ma non ne aveva la forza. «Non ho saputo far altro che nascondere la verità... Su mia madre, su questo potere... Su me stessa. Io non sono chi pensi tu.»
Aran tacque nuovamente. Stava forse realizzando che lei gli aveva celato qualcosa di estremamente grave e presto si sarebbe allontanato, lasciandola sbriciolarsi come argilla calpestata? Freya non aveva mai sentito di aver bisogno di qualcuno come in quel momento e se in quell'istante non fosse stata tanto fragile se ne sarebbe spaventata.
Eppure, Aran non fece nulla di ciò che lei si era immaginata: non si separò da lei; non la costrinse ad alzare il capo per avere conferma di essere stato ingannato. Contiuò a fare esattamente quello che stava facendo e, nel mentre, parlò. «Vorrei avere le parole necessarie per farti capire che ti sbagli, Freya. Vorrei che tu mi credessi se ti dicessi che tutte le colpe che ti addossi sono dovute al tremendo dolore che hai patito» Nel suo tono fece capolino una vena di tristezza. «Ma so che nulla di ciò a cui potrei pensare avrebbe questo potere. Questo è qualcosa che solo tu potresti fare per te stessa.»
Solo allora Freya alzò la testa e lo guardò. Non importava quanto poco coraggiosa si sentisse: glielo doveva.
Aran ricambiò la sua occhiata.
«C'è solo una cosa che voglio e posso fare: assicurarmi che tu sappia chi sei. Tu, Freya, sei una creatura straordinaria. Non per quello che c'è stato nel tuo passato o per un qualche potere misterioso, ma per quello che sei. Affronti ogni cosa con resilienza; impari da ogni circostanza che la vita ti riserva, in ognuna trovi del buono da proteggere e fai in modo che lo veda anche chi non sa guardare il mondo con i tuoi occhi. Hai una parola gentile per chiunque incroci il tuo cammino, ma non per questo permetti agli altri di piegare te e i tuoi ideali.» Si fermò a riprendere fiato. «Come ogni essere al mondo hai i tuoi difetti. Sei talmente ostinata che vai sempre avanti nei tuoi propositi senza ascoltare niente e nessuno, anche quando sarebbe necessario. Quando t'infervori sei così diretta che sembri una lama pronta a colpire. E spesso pensi che l'unico modo per affrontare il dolore sia chiuderti in te stessa e respingi chiunque e qualunque cosa. Ma non c'è niente che non vada, in te. Non ho mai conosciuto una persona come te e ho imparato sulla mia pelle che vale la pena averti nella propria vita. Tua madre e tuo padre sarebbero orgogliosi di ogni parte di quello che sei diventata.»
Freya non poté; far altro che tacere. Entrambi, seppur per ragioni differenti, tendevano ad avere un carattere piuttosto riservato. Lei aveva presto imparato quanto le venisse difficile esternare le proprie emozioni in mezzo alle persone a cui non era abituata; Aran tendeva a contenersi per com'era stato educato, si trattasse di emozioni positive o negative. Fra di loro, però, non avevano mai faticato a esprimere il proprio mondo interiore.
Nonostante questo, sentirlo parlare in quel modo, a cuore aperto, la colse impreparata. Tutto ciò di cui aveva avuto paura sembrò scivolare via. Non sapeva bene se avrebbe potuto credere a quelle parole, ma voleva disperatamente farlo. Voleva davvero credersi capace di fare tutto quello di cui Aran la riteneva in grado. «Grazie» mormorò, mentre un'ultima lacrima le solcava la guancia.
Più per istinto che per altro, Aran raccolse la goccia salata prima che arrivasse a toccarle il mento. Le sue dita sfiorarono lo zigomo di lei e poi v'indugiarono, fino a che l'intero palmo della sua mano non aderì alla pelle di Freya.
Perfino nello stordimento la giovane riuscì a percepire che stava accadendo di nuovo. Era la stessa identica sensazione di quel giorno a Errania, quando la pioggia li aveva colti alla sprovvista ed erano dovuti correre al riparo. Ricordava perfettamente quell'emozione sconosciuta e sconvolgente, ma quella volta il tuono l'aveva spezzata, riportandola coi piedi per terra.
Adesso Freya rimase immobile, in attesa di vedere che cosa sarebbe successo. Alla stesso modo restò Aran, coinvolto tanto quanto lei in quell'istante d'inspiegabile aspettativa. I loro sguardi restavano uniti, i respiri trattenuti; come se le loro vite potessero cambiare da un istante all'altro, con una sola parola, in un unico gesto.
Poi, le dita di Aran si mossero nuovamente, liberando la fronte di Freya da una ciocca sparsa ed entrambi loro dall'immobilità. La giovane si sporse quasi inconsapevolmente in avanti; lui esitò prima di fare altrettanto, come se fosse diviso fra due possibilità, ma alla fine posò le labbra sulla fronte di lei. Era un gesto semplice, forse meno di quanto avrebbe potuto essere, ma scatenò nel cuore della ragazza qualcosa che non assomigliava a nulla che avesse mai provato prima.
Da una vita Freya non avvertiva sulla propria pelle un contatto simile. Ricordava bene che sua madre le aveva sempre dato la buonanotte nello stesso modo, ma questa non era decisamente la stessa cosa. Non aveva la minima idea di come gestire quella nuova emozione, eppure non ne aveva nemmeno timore; anzi, avrebbe voluto che non l'abbandonasse mai.
Il Principe indugiò un lungo momento in quel gesto. Infine, posò la fronte su quella della ragazza e l'avvicinò ancor di più a sé. «Ricordi quando abbiamo deciso che avremmo affrontato insieme gli incubi e tutto il resto?» le domandò.
«Sì» mormorò Freya. Non l'avrebbe mai dimenticato.
«Questo non è diverso.» La sua voce era risoluta. «Impareremo tutto quello che c'è da sapere insieme. Non succederà nulla di male. Devi solo avere fiducia in te stessa e in me.»
«Non ho mai creduto in nient'altro come in questo» rispose lei, lasciando andare quelle parole come una confessione a lungo serbata.
Aran si scostò e la guardò dritto negli occhi. Nuove domande si andavano formando tra loro; non erano misteriose come tutte quelle già presenti ma, per il momento, erano informulabili. Forse in realtà entrambi già sapevano, o forse no; non era il frangente per scoprirlo.
I due ragazzi ritornarono al silenzio e, in quel silenzio, si strinsero ancora come se nient'altro avesse importanza.

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Capitolo 21
*** CAPITOLO 20 - Separazione ***


CAPITOLO 20
-SEPARAZIONE -



Da quel momento in poi la vita a Errania assunse un ritmo regolare.
Con enorme sollievo di Aran, finalmente Freya sembrava essersi alleggerita del peso che l'aveva oppressa nelle ultime settimane e aveva ritrovato serenità. Il giovane era consapevole che non sarebbe bastato così poco per farle lasciar andare il suo senso di colpa, ma per lo meno stava iniziando ad accettare la presenza del loro comune potere. Parlarne non le era più tanto penoso e, lentamente, la paura stava lasciando il posto alla curiosità che Freya aveva sempre avuto per l'ignoto.
Aran era felice. Per tutta la vita la curiosità era sempre stata la sua forza motrice e ora poteva condividerla con qualcuno che capiva quanto fosse bello scoprire sempre cose nuove. Lui era stato così fin da piccolo: tutti i suoi guai erano giunti dalla sua smania di sapere tutto. Ricordava le espressioni dei servitori che avevano dovuto sopportare le sue tante domande; ricordava sua madre che si occupava degli affari del regno mentre rispondeva a lui. Rammentava molto bene anche Darragh, il quale s'innervosiva sempre quando lui prolungava la lezione più del dovuto per approfondire un  argomento; tutto ciò che il fratello voleva fare era correre a prendere la spada in mano.
C'era solo una cosa su cui la sua curiosità era sempre stata frenata: la sua vita prima di essere accolto al palazzo. Aveva saputo di essere stato adottato fin da quando era bambino; sua madre aveva voluto essere sincera con lui e crescendo Aran l'aveva molto apprezzato. Significava che lo considerava capace di relazionarsi con la realtà. Poi, però, aveva sempre messo a tacere determinate sue domande: sapeva chi erano i suoi genitori? E perché avevano deciso di abbandonarlo in quel modo?
Il giovane aveva sempre intuito che Mirea sapesse qualcosa. Lei era molto controllata, quando doveva parlare con loro, ma in quei momenti lui sentiva che la Regina nascondeva una verità. Alla fine, la sola risposta che aveva ricevuto era stata: “Devo proteggerti da questa terribile vicenda, Aran. Ci sono cose che ora non posso dirti.”
La parola ora, inizialmente, gli aveva fatto sperare che un giorno la madre avrebbe parlato. Poi, erano arrivati gli incubi. Era incominciata proprio con il solo che lui e Freya non avevano in comune: la casa in fiamme e le urla della donna. Aran si era reso conto che era una scena che aveva già visto sporadicamente in sogno, quando era molto più piccolo; ma una volta diventato grande era stato diverso. Non solo non l'aveva più abbandonato: era diventata il terrore di molte sue notti. Non capiva come ora che era cresciuto potesse fargli più effetto di quando era un infante, eppure era così. Era come se prima non potesse capire quelle tremende immagini; come se all'improvviso avessero acquisito un senso. E quando era comparso anche l'incubo del pilastro, aveva infine potuto fare una netta distinzione: il pilastro era qualcosa che conosceva, ma era certo di non aver mai visto, anche se non sapeva come; la casa in fiamme, invece, era molto più personale. Lui doveva averla vista. Da lì, aveva iniziato a sospettare che si trattasse di un ricordo, molto lontano ma abbastanza traumatico da segnare un bimbo di appena due anni.
Tutta la voglia di scoprire le sue origini era lentamente sfumata nel fuoco che gli compariva dietro le palpebre quando si addormentava. Per un po' aveva tentato di tener vivo il proprio coraggio, dicendosi che nel momento in cui fosse stato abbastanza grande avrebbe posto di nuovo la domanda. Man mano che l'incubo lo tormentava, però, la paura era divenuta sempre più forte e l'aveva soffocato. Un giorno si era detto che se la madre non gli voleva dire nulla era perché si trattava di una vicenda ben più tragica di quanto avesse sospettato e aveva messo da parte ogni quesito.
La presenza di Freya era riuscita a placare un poco il terrore. Lei non aveva mai sognato la casa e gli aveva confermato che poteva essere un ricordo; ma nonostante non conoscesse l'incubo, era la sola con cui ne avesse parlato. Ogni volta che lo riviveva, sapeva che lei l'avrebbe ascoltato in silenzio e gli avrebbe posato una mano sulla spalla. Oramai riusciva persino a notare da sola   quando l'incubo tranciava il suo sonno; le bastava guardarlo in faccia la mattina, mentre facevano colazione. Aran aveva pensato che avrebbe tentato di incoraggiarlo a fare qualcosa riguardo il proprio passato, ma la ragazza non aveva mai detto nulla. Come sempre, rispettava le sue tempistiche in tutto e per tutto.
Il pilastro, comunque, restava sempre il cruccio di entrambi. Lo vedevano oramai tutte le notti e la stanchezza era diventata loro inseparabile compagna. Ne parlavano ancora, soprattutto nei momenti di pausa, ma non c'era molto da dire: avevano capito solamente che, man mano che il tempo avanzava, gli elementi della visione si facevano sempre più nitidi. Le loro sensazioni e la visione in generale, però, restavano sempre le stesse. E fino a che qualcosa di nuovo non si fosse rivelato, sarebbero rimasti sospesi nell'incertezza.
Nonostante tutto questo, nessuno dei due aveva rinunciato a cercare qualche indizio, sia sul pilastro che sui loro poteri. Fin da subito la Biblioteca non era sembrato il posto giusto per trovare simili informazioni: per quella ragione, dopo molto tempo, si erano recati nuovamente alla Sala degli Incantatori. Una mattina si erano alzati quando la luce del sole a mala pena s'intravedeva in cielo e vi si erano intrufolati. Era bastato un pizzico d'attenzione: a quell'ora solo cuochi e fornai erano all'opera, nelle cucine del castello, e la sentinella passava di lì solo una volta ogni ora. Era facile scorgere la luce della lanterna di quest'ultima filtrare da sotto i battenti della porta, perciò era facile anche sapere quando non uscire. Inoltre, a quell'ora la guardia era oramai più concentrata sul cambio che avrebbe avuto di lì a poco.
Trovata la giusta tempistica, avevano iniziato a ritrovarsi alla sala almeno tre volte la settimana, incuranti delle possibili ripercussioni. Vi trascorrevano un'ora o poco più alla volta, per avere ulteriore sicurezza di non essere scoperti, e in quel breve tempo leggevano avidamente tutto ciò che trovavano. Aran non aveva la ben che minima nozione di magia e Freya aveva fin da subito messo in chiaro il poco che sapeva: gli Incantatori evocavano i loro poteri tramite simboli, i Runíar, che venivano combinati fra loro. Alla luce di questo avevano una sola certezza: loro due erano qualcosa di diverso rispetto ai tradizionali detentori della magia; e il solo luogo in cui avrebbero potuto trovare qualcosa sulla natura delle loro capacità era quella Sala. Inoltre, se il pilastro era un manufatto magico conosciuto poteva essere descritto in uno dei libri lì custoditi.
Nel castello non c'era più nessun altro posto in cui si trovasse traccia della magia; l'ennesima ricerca doveva concentrarsi per forza lì: era ciò che si ripetevano alba dopo alba, quando tornavano alle loro stanze a mani vuote e con gli occhi che bruciavano. I formulari raccolti nella Sala degli Incantatori erano certamente affascinanti, nonostante con le loro competenze risultassero ben poco comprensibili. In essi, però, non v'era alcuna traccia della storia o delle possibili forme di potere. Li scorrevano uno per uno con perizia, sperando prima o poi di imbattersi in un volume di diversa natura, ma per il momento non avevano trovato nulla. Quando si stancavano dell'argomento, cambiavano obiettivo e passavano al pilastro, ma anche con quest'ultimo non avevano ancora avuto fortuna.
Seppur con un certo senso di colpa, Aran doveva ammettere che non sempre la sua attenzione era rivolta pienamente agli antichi tomi. Di tanto in tanto, in quelle ore in bilico fra notte e giorno, il giovane si ritrovava a osservare Freya, seduta spesso di fronte a lui. Guardava il suo capo chino sulle pagine in carta pergamena, la sua espressione assorta, i capelli lunghissimi che le cingevano le spalle e ricadevano fin quasi a toccare il pavimento. Senza poterne fare a meno rievocava quei momenti in cui i loro volti erano stati vicinissimi e in cui lui era stato fin troppo consapevole del fatto che sarebbe bastato pochissimo. Un solo, infinitesimo movimento e avrebbe posato le labbra sulle sue.
Per un istante aveva pensato che l'avrebbe fatto davvero, poco prima che il tuono rimbombasse in quella stradina di Errania; e l'aveva creduto anche nella radura, prima di ritornare coi piedi per terra e realizzare che non sarebbe stato il momento opportuno. Avrebbe avuto disprezzo di se stesso se avesse compiuto un gesto del genere mentre Freya si trovava in un tale momento di debolezza. Entrambe le volte, in qualche modo, era riuscito a controllarsi e lui stesso si era sorpreso della propria forza di volontà. Mai in vita sua aveva provato un desiderio tanto intenso di fare qualcosa.
Certo, non era mai stato indifferente al fascino femminile. Fino a quel momento, però, era stato assorbito dagli studi e dagli allenamenti, sempre più intensi man mano che cresceva; non aveva avuto poi molto tempo per pensare alle possibili relazioni con il sesso opposto. Inoltre, nessuna prima di allora aveva destato in lui un interesse tale da fargli pensare di farsi avanti in qualche modo.
Freya, come sempre, era qualcosa di diverso. Non aveva mai incontrato qualcuno capace di farlo uscire tanto da quello che era il suo ordinario, in qualunque ambito della sua esistenza. Con lei rifletteva su cose a cui non aveva mai pensato prima; scopriva di potersi sentire a proprio agio in luoghi in cui non era mai stato; e soprattutto, provava sensazioni che non l'avevano mai sfiorato. Era tutto una scoperta, da quando c'era lei. Ogni cosa era sconvolgente e bella al tempo stesso. Era la prima volta che gli accadeva e Aran avrebbe voluto sentirsi così per tutta la vita.
Cosa ci sarebbe stato di male?, si chiedeva. Freya era diventata talmente importante per lui in quegli ultimi mesi… Cosa ci sarebbe stato di strano nel volerla per sempre nei propri giorni? Non avrebbe potuto parlare per lei, ma in qualche modo aveva la percezione che la ragazza sentisse lo stesso. Cosa sarebbe potuto accadere se davvero qualcosa fosse mutato per entrambi? Quell'ipotesi faceva capolino nella sua mente, di tanto in tanto, portandosi via tutta la sua attenzione.
Poi, ricordava la conversazione avuta dopo il ballo. Per quanto potesse interessarle scoprire realtà diverse, la giovane avrebbe sempre scelto la libertà. Vi aveva rinunciato per scoprire la sua storia e, ora che finalmente l'aveva fra le mani, presto o tardi avrebbe sentito nuovamente il richiamo dei luoghi che aveva sempre chiamato casa. E per quanto ammetterlo gli facesse un effetto piuttosto strano, non credeva che il suo cuore avrebbe retto se si fosse legato ancor più profondamente a lei per poi vederla andar via.
Sarebbe stato già difficile a sufficienza, anche se quel nuovo sentimento fosse rimasto incompiuto.

«Trovato nulla di nuovo?»
Il silenzio dell'ennesima alba insonne venne interrotto da queste parole, così come il corso dei suoi oramai abituali pensieri. Aran alzò il capo e per un istante la vista gli si annebbiò; poi, un odioso mal di testa gli strinse le tempie; infine, riuscì a mettere a fuoco il volto di Freya. Come sempre accadeva in quelle ultime settimane, ritrovarsi a guardarla dopo essere riemerso dai meandri della propria mente gli causò un tuffo al cuore. Se davvero aveva deciso di desistere per quale ragione continuava a rimuginarci?, si rimproverò. Doveva semplicemente attenersi alla propria stessa logica, alla realtà, esattamente come aveva sempre fatto. Altrimenti non solo avrebbe sofferto in futuro, avrebbe anche pregiudicato ciò che doveva fare nel presente. Non poteva e non voleva permetterselo.
Freya, nel frattempo, lo guardava dritto negli occhi, in attesa di una sua risposta. Temendo che se avesse indugiato oltre la ragazza sarebbe riuscita a carpire qualcosa, Aran s'impose di darsi un contegno.
«No, nulla» rispose. «Anche qui solo tante formule incomprensibili e una lunga spiegazione di come si è arrivato a ottenerle.»
Quanto sarebbe stato più appassionante se qualcuno li avesse istruiti nella magia? Avrebbero letto i Runíar con l'occhio di chi ne conosce lo scopo; avrebbero potuto dare un'identità ai nomi di Incantatori che scorrevano tra le pagine; e, soprattutto, forse avrebbero faticato meno a comprendere che cosa fossero loro due. Ne avevano parlato a lungo: ora che iniziavano a porsi le giuste domande ma non riuscivano a raggiungere nessuna risposta era come se il loro intero essere venisse messo in discussione. Stavano imparando entrambi come non saper spiegare una parte tanto ingombrante di sé desse la sensazione di non potersi conoscere mai davvero, ancor più di chiunque altro.
Come se avesse riflettuto sulla stessa cosa nello stesso identico momento, Freya cacciò un lungo, pesante sospiro. Nell'osservare le occhiaie viola che sottostavano i suoi occhi, Aran si chiese quale forza li spingesse ad andare avanti. Forse, al loro posto, qualcun altro si sarebbe semplicemente arreso; avrebbe preso atto che la fonte di quei poteri sarebbe rimasta un mistero e si sarebbe adoperato per imparare a usarli, in qualunque modo. A loro due, però, restare nell'ignoranza pareva inconcepibile. Era un bisogno, quello che li muoveva, tale che probabilmente si sarebbero presentati a quella porta nei giorni prestabiliti in qualunque circostanza. Lasciar perdere non era nelle loro corde.
Una soluzione forse ci sarebbe stata: rompere il silenzio con la Regina Mirea. Nonostante non affrontasse mai l'argomento, Aran sapeva perfettamente che la madre conosceva profondamente la magia. Eppure, quel pensiero ancora lo metteva a disagio; c'era qualcosa che lo frenava, come un presentimento che gli suggeriva che non fosse mai il momento giusto. O almeno, così aveva preferito interpretarlo lui. Nemmeno Freya, d'altro canto, l'aveva mai suggerita come possibile opzione. Il ragazzo l'avrebbe sottovalutata credendo che non ci avesse mai pensato, perciò anche lei doveva trovare ancora difficile condividere la cosa con qualcun altro.
«È l'alba» mormorò Freya in quell'istante, il viso rivolto alla grande finestra che illuminava la sala. Aveva ragione: gli esili raggi del sole autunnale, seppur a fatica, iniziavano a raggiungere la terra attraverso le nuvole sparse. C'era qualcosa di particolare, nel freddo di quei giorni, come se da un momento all'altro potesse nevicare. Era ancora presto, a dirla tutta, ma quell'odore di ghiaccio nell'aria era inconfondibile. Comunque, sembrava che per quella mattina il tempo avrebbe retto.
In silenzio i due ragazzi si alzarono, rimisero i due tomi che avevano scelto al loro posto e lasciarono la sala esattamente come l'avevano trovata. Si mossero negli ambienti del castello con cautela, ma nessuna sentinella ostacolò il loro cammino. Quando giunsero al punto in cui si dovevano separare indugiarono giusto il tempo di capire quale fosse lo stato d'animo dell'altro. Lo facevano ogni volta e, come sempre, infine sorrisero. Non importava cosa facessero, in realtà: il tempo trascorso insieme era sempre prezioso.
Senza probabilmente nemmeno pensarci, Freya prese Aran per l'avambraccio. Con l'usuale chiarezza, senza battere ciglio mentre lo fissava nelle iridi, disse: «Arriveremo da qualche parte, prima o poi. Non so come, ma ne ho la certezza.»
Prima di potersi contenere, Aran trattenne la sua mano fra le proprie. La ragazza non fece nulla, tranne lasciar scivolare il proprio palmo contro il suo. «Ne avremo il tempo?» domandò infine lui.
Freya sembrò non esitare nemmeno per un istante. Rinnovò il proprio sorriso e, continuando a guardarlo, annuì e rispose: «Non importa dove sarai tu o dove sarò io. Ricordi?»
Aran ricordava perfettamente. Bastarono quelle semplici parole a cancellare quel breve pensiero che gli aveva attraversato la mente: si erano fatti una promessa e non c'era dubbio che l'avrebbero mantenuta. Se qualcosa lo turbava, erano le proprie emozioni confuse. Quella era solo l'ennesima dimostrazione che doveva fare qualcosa per tornare ad avere il controllo.
Fu con quella consapevolezza che il giovane si congedò da lei. Camminò fino alle proprie stanze e lì si ritirò. Aveva ancora a mala pena un'ora, prima di doversi recare alla lezione del mattino. Continuava ad avere la sensazione che prima o poi Athal si sarebbe accorto di quello che stavano facendo. Scosse il capo, tentando di scacciare il sonno che tornava a raggiungerlo; aveva bisogno di un attimo per rinfrescarsi e schiarirsi la mente. Con calma, raggiunse la stanza da bagno; versò l'acqua necessaria nel catino e, con immenso sollievo, vi immerse le mani; infine, si sciacquò il volto. L'acqua gelida assolse immediatamente il proprio compito e non appena la sua mente uscì dall'ottenebramento, Aran prese un respiro profondo. Ora poteva anche pensare di iniziare la giornata.
Attese che il tempo passasse seduto alla propria poltrona, osservando il cielo farsi sempre più chiaro. Quando arrivò il momento si alzò e andò alla porta, più perso nei propri pensieri che ancorato alla realtà. I loro poteri, tutte quelle ricerche, Freya... Restava tutto saldamente aggrappato ai margini della sua mente senza uscirne, anche se lui era fermamente deciso a non ritornarci sopra. Aveva sempre dei doveri a cui attendere, che il suo cervello si ricordasse che oramai era un adulto o meno.
La mattinata, come prevedibile, si protrasse con esasperante lentezza. La lezione di Athal, solitamente capace di accentrare tutta la sua attenzione e tutte le sue capacità, non ebbe il potere di farsi largo nella sua testa sovraffollata. Il giovane Principe scriveva automaticamente sulla pergamena che aveva davanti, senza però capire veramente cosa stesse mettendo giù. Quando arrivò l'ora di andare a mangiare, in ogni caso, aveva una sfilza di appunti che ricopriva tutta la pagina. Avrebbe dovuto confrontarli con quelli di Freya, ma almeno qualcosa c'era. Doveva considerarlo un altro potere magico?, si chiese sarcastico.
Una volta riposto tutto con cura, i due ragazzi s'incamminarono. Stavano attraversando la porta quando Freya lo fermò. Aveva capito che stava macchinando qualcosa, comprese Aran non appena la guardò in volto. Per sapere cosa avesse intuito doveva solo aspettare che parlasse.
«Forse dovremmo fermarci» disse infine la giovane.
Era tutto tranne quello che il Principe si sarebbe aspettato. Doveva riferirsi alle ossessive ricerche che stavano conducendo, ma non aveva mai creduto che le avrebbe sentito dire una cosa simile. Poi, comprese: lo stava facendo per lui. L'aveva visto rinchiudersi sempre più spesso nei suoi pensieri, in quei giorni, e iniziava a preoccuparsi per la sua salute. Non c'era altra ragione per cui lei potesse rinunciare: era troppo testarda.
Immediatamente, sorrise. In quei momenti era ancora più difficile non lasciar trapelare gli strani sentimenti che provava per lei. «Se lo stai dicendo per me, non ti devi preoccupare. Sto bene, Freya» rispose. « E poi, non possiamo arrenderci senza avere nemmeno un piccolo indizio. Non riuscirei a mollare proprio ora.»
Freya corrugò le sopracciglia. «E se tu stai dicendo questo per puro orgoglio, allora dovresti pensare seriamente alla possibilità di rallentare un po'. Vedo quanto sei stanco.»
«Anche tu lo sei. Ma credi davvero che lasciando perdere staremmo meglio? Se smettessimo, cesseremmo anche di rimuginare su tutto questo?»
La risposta era no e la ragazza non dovette nemmeno esprimerla per farglielo capire. Sospirò, proprio come aveva fatto quella mattina; sapeva che non l'avrebbe smosso. Poi riprese il cammino verso le cucine.
Aran la seguì. Cosa avrebbe pensato Freya se avesse saputo che molte delle sue riflessioni ruotavano attorno a lei? Cercò di immaginarsi la sua espressione se mai avesse dovuto rivelarglielo, ma non ci riuscì. Forse si sarebbe addirittura spaventata, chi poteva saperlo.
Continuarono il percorso in silenzio, almeno fino a che lei non parlò nuovamente. «Non si stratta solo della stanchezza, vero?»
Il ragazzo fece di tutto per nascondere la sorpresa. Per un istante credette che avrebbe detto tutto: della frustrazione che provava nel non capire nulla di quello che leggevano nella Sala; del timore  per il modo in cui i sentimenti che provava per lei sarebbero potuti evolversi. Ma alla fine disse: «È... Soltanto che ho sempre la sensazione che quello che già so non basti mai.»
Freya lo guardò, continuando intanto a procedere. «So bene di cosa parli.»
Lui proseguì, desideroso di allontanarsi dalla piega pericolosa che avrebbe potuto assumere la conversazione. «Quando mi ritrovo in mano quei libri, nella Sala degli Incantatori, l'idea di non poter interpretare al meglio i loro contenuti mi fa rabbia. Vorrei saperne di più sulla magia, sul pilastro, sui popoli che mi ha sempre nominato Athal... Vorrei saperne di più su tutto.» Non si trattava di una bugia, in fondo.
«Credevo che il maestro ti avesse parlato più approfonditamente dei popoli» mormorò Freya. Sembrava assorta, tutto a un tratto.
«In realtà, sono sempre stati solo accenni. Mia madre ha sempre approvato personalmente i nostri programmi di studio e sai come la pensa: bisogna concentrarsi sulle cose concrete, non su quelle che potrebbero anche non esistere più» ribatté lui. «Per me è stata una sorpresa quando, con il tuo arrivo, il maestro ha iniziato a parlarne più spesso. Ma scommetto che ci sono tantissime altre cose da scoprire.»
A dire il vero, tutta la discussione sulle profezie era stato il culmine: Aran non pensava che avrebbe mai potuto discorrere di un simile argomento.
Freya parve esitare per un momento. Poi, contro ogni previsione, sorrise. «In questo potrei aiutarti, se vuoi.»
Il ragazzo avrebbe voluto chiederle come, ma oramai erano arrivati alle cucine.

Finalmente, la sua giornata era stata attraversata da una scarica di adrenalina.
Subito dopo il pranzo dovettero recarsi all'addestramento, come al solito. Aran fece tutto quello che faceva abitualmente, con la stessa concentrazione che ci metteva ogni giorno; ma intanto ripensava alle parole di Freya.
Lei, dal canto suo, sembrava molto divertita dal suo entusiasmo. Nelle pause fra una sessione e l'altra di allenamento, mentre se ne stavano seduti sul pavimento della sala, provò a chiederle cosa intendesse. La giovane, per tutta risposta, ribatté che doveva avere pazienza e aspettare. Normalmente, Aran non avrebbe avuto problemi a contenersi; ma in quell'occasione si sentiva esattamente come la prima volta che era stato portato a Errania: un bambino che sta a un passo da qualcosa che ha sempre voluto. Era da una vita che non provava una cosa simile e rimase stupito di sé stesso.
Fu alla fine dell'addestramento che Freya si decise a non tenerlo più sulle spine. Gli propose di fare una pausa, ma lui oramai era troppo curioso di sapere cosa avesse da rivelargli. Posticipando le ore in Biblioteca, presero i corridoi che portavano alle stanze di Freya.
Una volta giunti lì, la ragazza lo fece accomodare al divanetto posto di fronte al focolare. Mentre attendeva, Aran osservò distrattamente i ciocchi di legna già ben disposti nel camino: Malia doveva aver preparato tutto. Si chiese se sarebbe stata l'ancella ad accendere il fuoco prima che Freya tornasse, o se l'avrebbe fatto quest'ultima; conoscendola, il fatto che Malia facesse le cose per lei la metteva ancora a disagio.
Venne distratto da un rumore: Freya era china di fronte al letto e stava estraendo qualcosa proprio da lì sotto. Quando si rialzò e lo raggiunse portava con se un libro piuttosto voluminoso e, a un primo sguardo, antico. Si sedette al suo fianco, tenendo il libro posato sulle gambe, e diede ad Aran il tempo di osservarne la copertina. Un scritta consunta recitava: Le saghe di Finian.
In effetti, tutto il libro sembrava essere vissuto, come se fosse passato di mano in mano nel corso di innumerevoli anni. Nonostante questo, era ben tenuto e si capiva che era prezioso: l'elaborata chiusura che ne proteggeva il contenuto ne era la prova più lampante. Il giovane fu scosso da un brivido: le due creature che la componevano gli erano estranee a livello conscio, ma stranamente familiari in un modo che non capiva.
Tornò a guardare Freya. Solo quando lo fece lei procedette: estrasse una catenina dallo scollo dell'abito e aprì la minuscola serratura. Poi, inaspettatamente, passò il volume a lui. Sulle labbra le aleggiava un sorriso malinconico.
Aran fece appena in tempo ad avvertire la consistenza del cuoio sotto le dita e il peso del tomo, poi aprì sulla prima pagina. Senza alcuna introduzione o indizio sulla sua identità, l'autore iniziava sin da subito a trattare l'argomento del libro. Il primo titolo che s'incontrava diceva: Il Regno di Adamas e gli adamantini. Come in un lampo, un ricordo attraversò la mente del ragazzo: un pomeriggio, aveva discusso con il maestro Athal di quanto sarebbe stato comodo avere acqua corrente negli edifici abitati; e l'uomo gli aveva nominato un popolo, gli adamantini, che in qualche modo ci era riuscito. Ora quel nome era lì, davanti ai suoi occhi, e preso dall'emozione continuò a sfogliare: c'erano pagine e pagine che parlavano di loro, ma non solo. Andando avanti ne incontrò molti altri  che aveva già udito dal precettore: centauri, eteree, elfi. C'erano anche gli esseri umani. Infine,  gli ultimi due: draghi e grifoni. Prima di rivolgersi a Freya osservò attentamente le illustrazioni manuali che inframezzavano i vari paragrafi: ecco le creature su cui era stato modellato il piccolo chiavistello che fermava la copertina.
Quando il suo sguardo si posò su di lei, vide che stava ancora sorridendo. «È... Meraviglioso!» esclamò, tornando subito ad accarezzare con lo sguardo l'immagine del grifone che aveva davanti.
La sensazione di familiarità provata poco prima ritornò, ancora più prepotente. Non aveva alcun senso, perché la sola cosa che Athal gli aveva detto di loro era che si trattava di creature straordinarie. Non ne aveva mai avuta nemmeno una descrizione, figurarsi vederne un'illustrazione. Eppure, era come se già conoscesse quell'essere maestoso e piumato.
«Lo è, vero? Ho imparato a leggere, su questo libro» disse Freya, parlando piano come se temesse di spezzare l'incantesimo sprigionato da quelle pagine.
Doveva tenerci molto, pensò Aran, per aver deciso di portarlo con sé. Continuò a sfogliarlo con delicatezza, ritornando a ritroso fino all'inizio. Cercò di studiare la calligrafia, come per avere qualche indizio sullo scrittore del volume; l'intero testo, però, era vergato in un carattere ordinato ed elegante, privo di vezzi personali. Gli ricordò quello dei mastri copiatori che fornivano i libri alla Biblioteca del castello.
Freya restò silente, lasciandogli tutto il tempo necessario. Parlò nuovamente solo dopo che lui ebbe scorso tutto il libro una seconda volta. «Ti chiedo scusa se non te l'ho mostrato prima. Non ci ho proprio pensato e... non l'avevo mai condiviso con nessuno che non fosse mia madre.»
Aran la guardò. Sapeva quanto gelosamente lei serbasse anche i più piccoli ricordi di sua madre e non voleva che si sentisse in colpa per averlo fatto. «Non c'è nulla di cui scusarsi» disse. «Era una cosa fra te e lei. So quanto tutto ciò che la riguarda sia estremamente personale, per te.» Le rivolse un sorriso rassicurante. «E poi ti avevo detto solo che Athal mi aveva parlato dei popoli, non quanto. Probabilmente ho dato l'impressione di essere molto più informato di quanto non fossi.»
La giovane abbassò un istante lo sguardo, poi lo posò sul volume. Sembrava che fosse sul punto di aggiungere qualcosa, ma Aran non sapeva se riguardasse il contenuto del libro o altro. Quando si concentrò di nuovo su di lui tentennò ancora, ma alla fine parlò: «Siamo così tanto presi da tutto quello che ci sta capitando che oramai non sappiamo più vedere altro. Vogliamo scoprire di più, imparare di più e non c'è nulla di strano in questo; ma ogni tanto fa bene fermarsi e guardarsi intorno, altrimenti si rischia di perdersi.» Fece una breve pausa. «Non riuscirò mai a rinunciare e non è quello che intendo fare. Dico solo che dovremmo trovare un ritmo che ci permetta di goderci più spesso le cose che già abbiamo.»
Il Principe rammentò i pensieri di quella mattina; ricordò di aver osservato le profonde occhiaie di Freya ed essersi chiesto cosa li spingesse ad andare avanti. Ora, al contrario, doveva domandarsi cosa potesse farli fermare: ripensò ai primi tempi in cui Freya era stata lì; alle camminate in giro per il castello solo per il gusto di passeggiare. Pensò che ultimamente non l'avevano fatto spesso. Perfino nel corso della loro gita a Errania, che doveva essere una distrazione, avevano parlato di materie di studio. Sì, lei aveva ragione: non potevano arrendersi, ma nemmeno consumarsi come i ferri di un cavallo che ha percorso troppe miglia.
Riflettuto abbastanza, annuì. «E quello che già abbiamo non è poco, no?»
Freya si rasserenò e sorrise ancora, annuendo a propria volta.
Aran si disse che in fondo la curiosità si poteva applicare anche a tante altre cose meno logoranti delle loro ricerche; doveva solo guardarsi un po' più attorno, come aveva detto lei. Forse avrebbe finalmente avuto il tempo di capire meglio anche altro, fra cui la paura di affrontare il tempo lontano di cui gli parlava l'incubo.
Restarono lì ancora per un po'. Freya gli raccontò di quale insegnate paziente fosse stata Eleana e di come avesse iniziato a istruirla molto presto. Se non avesse ricevuto in eredità una passione tanto grande per la cultura, gli disse, sapeva che avrebbe affrontato in maniera molto diversa la solitudine della foresta.
«Aver lasciato lì tutti quei libri è un grande rimpianto» disse Freya verso la fine della conversazione. «Sono chiusi in bauli di ottima fattura che li proteggono, ma mi piange il cuore a saperli lì a prendere polvere.»
«Nessuno ci vieta di andarli a recuperare, un giorno» ribatté Aran, quasi senza riflettere.
Lei lo guardò in silenzio, con lo stesso sguardo penetrante che tanto lo aveva colpito fin dal primo giorno che l'aveva conosciuta. Fu difficile reggere il peso di quegli occhi, ma lo fece e rimasero così fino a quando non sorrisero entrambi.
«Comunque, potrai leggerlo tutte le volte che vorrai» asserì la giovane, indicando il tomo che ancora stava sulle gambe di Aran. Aveva uno strano tono, come se trepidasse all'idea di alcune sue reazioni al contenuto de Le Saghe di Finian.
Lui si alzò e le porse il libro, scacciando quella sensazione. «Ti ringrazio per averlo condiviso con me.»
Lasciarono la stanza. Mentre camminavano in direzione della Biblioteca concordarono che quel giorno ci sarebbero andati piano e si sarebbero presi qualche pausa in più. Dal giorno dopo, invece, si sarebbero concessi qualche giornata libera da quel tipo di occupazione; sarebbe stato anche il caso, almeno per quella settimana, di sospendere le loro incursioni mattutine alla Sala degli Incantatori. Provare a dormire un po' di più tra una visione e l'altra avrebbe permesso loro di riprendere più riposati di prima.
Avevano appena varcato la grossa porta della Biblioteca quando Gorman si materializzò improvvisamente davanti a loro. Come sempre interruppe la loro conversazione senza alcun problema. Aran fece un'enorme sforzo per non mostrare quanto lo irritasse il modo in cui l'uomo compariva sempre mentre parlavano.
«Principe Aran, Lady Freya» li apostrofò, sforzando perfino una lieve riverenza col capo.
«Primo Consigliere» risposero uno dopo l'altra i due ragazzi.
«Sono spiacente di rovinare i vostri progetti per il pomeriggio, ma la Regina richiede che suo figlio conferisca con lei» annunciò. «Ha qualcosa d'importante da comunicare a voi e vostro fratello prima di cena.»
Aran fu colto alla sprovvista; li aveva convocati poco tempo prima per parlare dei loro progressi negli studi e non si aspettava che li mandasse a chiamare di nuovo tanto presto. In ogni caso, annuì alla richiesta di Gorman e si voltò a guardare Freya, per capire se le sarebbe dispiaciuto che la lasciasse così di punto in bianco
«In questo caso, ci vedremo domani, Aran» disse lei, rispondendo con uno dei suoi sorrisi più tranquilli. «Ci ritroviamo qui.»
Lui annuì. «A domani» ribatté, salutandola con un cenno del capo.
Poi, seguì Gorman lungo il corridoio.

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Aran la guardò per l'ennesima volta con quell'espressione scontenta. Freya avrebbe voluto dimostrargli un po' di solidarietà, ma tutto quello che riuscì a fare fu scoppiare nell'ennesima risata. Il ragazzo tentò di fingersi offeso da quella sua ilarità, eppure una scintilla divertita nel suo sguardo lo smentì. Strinse l'ultima cinghia del sottopancia di Nieva e iniziò ad assicurare le bisacce alla sella.
Le stalle erano tranquille in quella fredda mattinata autunnale attraversata di nuvole. Altri uomini si muovevano tra un vano e l'altro sistemando le loro cavalcature e riuscivano a farlo in maniera sorprendentemente silenziosa.
«Non rideresti se fossi al mio posto» commentò Aran, tornando a rivolgersi a lei dopo aver terminato di caricare le proprie cose sul dorso della giumenta.
«Io non ci vedo nulla di tragico, togliendo il fatto che caccerete per divertimento e non per una reale necessità» rispose Freya, con quel cipiglio serio che le spuntava in volto quando affermava uno dei suoi principi irrinunciabili.
Di quello in particolare avevano discusso a lungo, negli ultimi due giorni, fin dal momento in cui Aran aveva ricevuto la notizia: la tenuta di caccia della famiglia reale, situata a mezza giornata da Errania, avrebbe presto ospitato una battuta. Vi avrebbero preso parte tutti gli esponenti più in vista della corte e la Regina Mirea aveva espressamente richiesto che fossero i suoi figli a far procedere tutto nel migliore dei modi. Era qualcosa di singolarmente importante: in quei giorni, i due Principi avrebbero avuto modo di confrontarsi con i nobili di Riagàn e dimostrar loro che sarebbero stati i degni eredi di Mirea. Aran e Darragh, dunque, avrebbero dovuto collaborare.
L'invito, naturalmente, era stato esteso anche a Freya, ma la giovane si era immediatamente rifiutata. Si era spiegata in poche e chiare parole: l'unico motivo per togliere la vita a un animale era la sopravvivenza. E quando Aran aveva saputo che cosa avrebbe risposto, aveva tentato di defilarsi alla stessa maniera. L'idea di trascorrere tre giorni con Darragh senza Freya a moderare la sua rabbia gli era parsa una follia.
La ragazza, però, l'aveva messo di fronte a un'altra possibilità: quella di andare e cercare di riparare allo strappo che si era creato fra lui e il fratello. Aveva il fondato sospetto che quello fosse il secondo fine di Mirea e sapeva bene che, se ci fosse stata anche lei, Darragh non avrebbe mai fatto nessun passo in avanti. Aran aveva comunque tentato di convincerla a cambiare idea, dicendo che non sarebbe andato senza di lei, ma Freya era stata irremovibile; quando poi la Regina aveva sentenziato che non avrebbe accettato un rifiuto da parte dei figli solo perché non erano in grado di affrontare le loro incomprensioni, non aveva avuto altra scelta.
La convinzione che sarebbero finti con l'arrivare alle mani era quella prevalente, in Aran, e fu quello che ripeté ancora a Freya prima di partire. «Darragh non sa ascoltare altro che non siano le sue idee. Non riusciremo mai a risolvere le nostre divergenze a parole» affermò, sicuro.
«Credo che tu vi stia sottovalutando. Siete entrambi abbastanza intelligenti da riuscire ad avere un confronto civile» ribatté lei.
Ammettere l'intelligenza di Darragh le costò un grande sforzo e Aran, essendone consapevole, non poté fare a meno di sorridere.
Freya sorrise a propria volta e, mentre lui montava in sella, aggiunse: «E nel caso dovesse andare a finire male, mira alle gambe. L'equilibrio è ancora il suo punto debole.»
Il giovane Principe scoppiò in una breve risata, poi si fece nuovamente serio e senza pensarci afferrò la mano di lei, posata sul collo di Nieva. Freya assunse la sua stessa espressione, guardandolo con gli occhi chiari spalancati. Il cuore le era balzato fino alla gola, togliendole il fiato.
«Non credo tu sappia quanto mi aiuti averti accanto» disse Aran, stringendo forte le sue dita fra le proprie.
Riprendendosi alla svelta, Freya ricambiò la stretta. «Sistemare le cose con Darragh è qualcosa che puoi fare solamente tu e ne sei perfettamente capace» rispose.
Rimasero a guardarsi ancora qualche istante, poi il generale Nolan, il quale avrebbe partecipato alla battuta, richiamò l'attenzione di Aran. Commentò con un sorrisetto ironico lo scambio fra i due ragazzi ma questo non servì a destabilizzare Freya; dopo aver salutato definitivamente Aran, la giovane si allontanò omaggiando il generale di un perfetto inchino e di un sorriso altrettanto tagliente.
Arrivata all'entrata del castello si voltò per guardare la compagnia che usciva dal cancello, ordinatamente allineata. Non appena la schiena di Aran fu scomparsa uno strano senso di inquietudine le trafisse lo stomaco.
Quello oramai era il posto che avrebbe dovuto chiamare casa, ma in quel preciso, inaspettato istante Freya ebbe il bruttissimo presentimento di star sbagliando qualcosa.


Breve annuncio:

Al momento, la pubblicazione de "Le Saghe di Finian: La Profezia dei draghi" è stata sospesa.
Ho deciso di prendermi una pausa, principalmente per due ragioni. In primo luogo, per concentrarmi maggiormente sulla progettazione del mondo di Finian, in cui i miei personaggi si muovono. Ne ho già fatta, ma ci sono alcune idee che voglio ancora raccogliere e approfondire.
La seconda motivazione è un blocco dello scrittore che mi impedise di andare avanti nella stesura dei capitoli. Si tratta di un periodo in cui non riesco a concentrarmi come vorrei sulla trama e questo mi impedisce di aggiornare regolarmente, cosa di cui mi dispiace davvero molto.
Per queste ragioni, dopo aver riflettuto a lungo, ho deciso che fermarmi fosse la cosa migliore da fare. Non so quanto questo periodo potrà durare, ma ho tutte le intenzioni di continuare questa storia.
Non appena avrò ritrovato la giusta rotta, riprenderò a scrivere e pubblicare.

_Malila_Pevensie

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