Creating Memories

di FairLady
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** You've got no instructions when love comes ***
Capitolo 2: *** Straight to my heart she aimed me and she shot me ***
Capitolo 3: *** No past, No Future, only holding you in the hand at the moment ***
Capitolo 4: *** What if I've never runned into you, what if you've never smiled at me ***



Capitolo 1
*** You've got no instructions when love comes ***




Era stata una giornata estenuante.
Anzi, estenuante era davvero poco per descriverla.
Era stata una giornata sfibrante, da esaurimento.
Alice aveva spremuto fino all'ultima goccia della sua energia nel tentativo di convincere il signor Xu a comprare il loro brevetto e le ultime ore chiuse nella sala riunioni della sede centrale della Hoinzel non erano state che la punta di un iceberg di fatica inimmaginabile. Giorni e giorni di ricerche, statistiche, previsioni, appuntamenti in banca e Dio solo sapeva quante notti insonni per non cavare un ragno, nemmeno uno piccolo piccolo, dal buco.
Ora si aspettava che fosse il suo capo a fare un buco, bello grosso, in tre metri di terra, per buttarci dentro lei.
«Buonasera signorina Aldesi, desidera qualcosa da bere?»
Da quando Alice era rientrata in hotel un'ora prima e si era seduta al tavolo del bar, non aveva fatto altro che mandare mail, fermandosi solo per fissare il vuoto con sguardo vacuo, forse alla ricerca di qualche meravigliosa e miracolosa idea che le avrebbe impedito di tornare a casa con un pugno di mosche. Ma, niente, non c'era miracolo che potesse tenere. Il signor Xu era stato irremovibile e l'ultimo asso avrebbe dovuto giocarselo con la Keitai. 
«Al diavolo! Il signor Meng è ancora più taccagno di quel barile di Xu - volse lo sguardo verso Jin, il cameriere, che la fissava tra lo speranzoso e il preoccupato - giovedì tornerò in Italia e non sarà bello, Jin. Forse dovrei nascondermi qui per un po’, che dici?»
«Le porto subito qualcosa di forte, signorina. Ci penso io a lei!», il solerte cameriere si allontanò con espressione fiera, come se fosse appena partito per salvare il mondo da un attacco nucleare. 
«Sì, ci pensa lui a farmi alcolizzare».
 
Il liquido ambrato che dondolava pacifico nel bicchiere fungeva da tranquillizzante. Alice muoveva il bicchiere a destra e sinistra, perdendosi poi tra le venature del vetro.
Sin da quando era partita dall’Italia pochi giorni prima sapeva che quel viaggio non avrebbe portato grossi risultati, ma che non avrebbe trovato neanche mezzo sponsor, no, quello non se lo sarebbe mai aspettato. Dal giorno in cui aveva intrapreso quella carriera era la prima volta che le accadeva di fallire e odiava la sensazione, le lasciava un retrogusto amaro in bocca.
Posò il bicchiere per prendere il telefonino dalla borsa, era arrivata l’ennesima mail dal suo capo e sicuro non sarebbero state belle notizie. Al pensiero delle parole di fuoco che avrebbe letto, cambiò subito idea, lasciò ricadere la borsa sul divanetto e tornò a prendere il bicchiere di whisky.
Stava ancora pensando ai suoi guai quando volse lo sguardo in cerca del cameriere che si era dissolto. Però vide lui, o meglio, si accorse di un paio di occhi scuri che così profondi non ne aveva mai visti. Quegli occhi la stavano trapassando e le stavano togliendo il fiato.
Era seduto al bancone del bar, ma non aveva un bicchiere, forse era appena arrivato. Erano ancora occhi negli occhi, nessuno dei due sembrava intenzionato ad arrendersi per primo. Alice sentì involontariamente un brivido percorrerle la spina dorsale, il battito appena accelerato. Fu in quel momento che chiuse gli occhi e abbassò il viso sul suo bicchiere quasi vuoto. Si regalò qualche secondo per rimettersi insieme, per poi chiamare Jin con tutta la nonchalance che riuscì a mostrare.
Il cameriere, che prima sembrava sparito, arrivò in un secondo. Portava un vassoio con un bicchiere di whisky identico a quello che aveva appena finito.
«Per lei, signorina Aldesi. Offerto dal signore al bancone», volse il busto verso il bar per indicarle la persona che le aveva fatto portare il nuovo bicchiere. L’uomo le fece un cenno con la mano e le sorrise. Alice sentì un calore nuovo diffondersi dentro sé, di colpo si sentì in imbarazzo e sul momento non seppe far altro che alzare il bicchiere in segno di ringraziamento.
«Il signore che le ha offerto da bere le manda anche questo», le porse un bigliettino e si dileguò, non prima di averle lanciato un sorrisetto complice.
La donna si sentì ancora più imbarazzata. Il tizio al bancone continuava a fissarla, in attesa che lei aprisse il biglietto e, con ogni probabilità, che gli desse una risposta alla domanda che esso conteneva – perché, ne era certa, la conteneva. Il suo sorriso indescrivibile e quegli occhi scuri come la notte stridevano tra loro, gli donavano un aspetto angelico e terribile. Una sorta di cacciatore dall’aspetto incantevole, la cui bellezza era l’arma principale. La sua funzione era quella di sedurre la preda, lasciarla avvicinare, poi finirla.
Per un attimo fu sul punto di ignorare il biglietto ed evitare quell’approccio, ma con la coda dell’occhio riusciva ancora a vedere l’uomo che, noncurante della sua ritrosia, continuava a scrutarla, con quel suo sorriso accecante dipinto in volto. Alice non sapeva come, ma riusciva ad essere rassicurante e pauroso nello stesso momento. Prese un rapido respiro e, senza pensarci di più, si decise a svelare il contenuto del biglietto. In fondo cosa poteva esserci scritto di così pericoloso?
«最好在公司喝酒,对吧?»
“Meglio bere in compagnia, no?”
Lo guardò per l’ultima volta, prima di fare la cosa più stupida che avrebbe potuto fare – come se di idiozie non ne avesse fatte già abbastanza da che era atterrata a Shangai. Infilò la sua borsa a braccio e prese il bicchiere di whisky in mano; nell’altra stringeva ancora il biglietto che aveva appena letto. Alice camminò a passo spedito verso lo sconosciuto, sopra quei tacchi forse un po’ troppo alti per quell’andatura. Sperò vivamente di non cadere. Il sorriso dell’uomo si fece ancora più meraviglioso alla vista di lei che gli si avvicinava. In quel momento era Alice a sentirsi una predatrice, senza alcuna ragione in effetti perché dentro di sé era tutto fuorché sicura di quello che stava per fare.
Poi, all’improvviso, fece tutto l’opposto di ciò che aveva preventivato.
Lasciò il bicchiere pieno sul bancone, regalò un sorriso quasi arrogante al ragazzo – sì, da vicino non gli sembrava più tanto uomo –, e gli mise il bigliettino stropicciato in una mano.
«Scusi, non conosco il cinese», gli soffiò, prima di allontanarsi verso gli ascensori.
Quando finalmente raggiunse la sua camera al ventiduesimo piano, si afflosciò sul letto come un palloncino sgonfio e solo allora si rese conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Lanciò via le scarpe dai piedi, che caddero scompostamente sulla moquette, e incrociò le braccia in alto, fino a coprirsi il viso.
«Ma che diamine, Ali! Che ti è preso! Ti stavi invaghendo di uno che avrà sì e no l’età di tuo fratello!», - sì, ok, è vero… a mia discolpa c’è da dire però che da lontano non si notava tanto.
«Che dici? Si vedeva, si vedeva… solo che non lo hai voluto notare», - in quel vestito blu sembrava davvero più grande, dai. Sii sincera.
Ormai parlava da sola e si rispondeva anche. La cosa si stava facendo più seria del previsto.
«Forse, può darsi. Ma da vicino? L’hai visto? Ho notato perfino un paio di brufolini… avrà forse, e dico forse perché voglio essere generosa, vent’anni», - venti… venticinque, almeno venticinque!
«Venticinque te li danno a te, di galera, se te la dovessi fare con quello…»
Colpita e affondata.
 
***
 
Era stata una giornata estenuante, e ancora la parola non era sufficiente a spiegare la stanchezza che aveva addosso.
Erano ormai incalcolabili le ore che si erano susseguite senza che riuscisse a riposare in modo decente e forse quella sarebbe stata la prima sera in cui se la sarebbe potuta prendere comoda. Il giorno dopo non ci sarebbero stati servizi fotografici, nessuna trasmissione da registrare, nessun set a cui andare e, soprattutto e molto più importante, nessun aereo da prendere.
Certo, la celebrità era davvero fantastica e alla sua giovane età faceva uno dei lavori più sognati – e, dopo Meteor Garden, anche più pagati –, ma Hedi sentiva davvero la necessità di staccare la spina qualche giorno. Avrebbe cominciato da quella sera e un bel bicchiere di vino.
Prima del vino ci fu un dettaglio che lo attirò appena entrato al bar dell’hotel: lei, una sconosciuta seduta ad un tavolo, sola. Era persa nei suoi pensieri, gli parve preoccupata per qualcosa. Continuava a controllare il telefono e alternava brevi sorsi da un bicchiere di cui sul momento non seppe decifrarne il contenuto. Forse whisky.
La osservò per un po’, rapito dai ricci castani che sfuggivano alla presa dello chignon. Ne studiò l’abbigliamento per qualche istante, giusto per farsi un’idea. Doveva essere un’imprenditrice o un avvocato, ma non ne era così sicuro.
D’un tratto la vide arrendersi a un lungo respiro e lasciarsi andare sulla poltroncina, prese il bicchiere tra le mani e si perse ad osservarlo come se all’interno avesse potuto trovare le risposte a tutti i suoi problemi.
Più la studiava, più la curiosità per quella donna diveniva interesse vero e proprio; sentì il bisogno di avvicinarla in qualche modo, la necessità di scoprire che voce potesse avere.
Mentre stava cercando di capire come fare per conoscerla, lei si volse nella sua direzione e in quell’attimo i loro sguardi si trovarono, incapaci di fuggirsi. Hedi iniziò a sentire un calore strano all’altezza dello sterno, era agitato, ma odiava darlo a vedere. E i suoi occhi traditori ancora non volevano staccarsi da lei, solo che più la guardava, più si sentiva nervoso e sapevano tutti cosa combinava quando era in quello stato.
Ringraziò il cielo che un istante dopo fu lei a distogliere lo sguardo, perché sarebbero bastati pochi secondi ancora e avrebbe mandato all’aria tutta la sua nonchalance e si sarebbe catapultato al tavolo presentandosi in modo sfacciato.
Approfittando del fatto che lei non lo stesse guardando, chiamò il cameriere chiedendogli di portare alla donna il bis di quello che aveva già bevuto. Prese velocemente un tovagliolino e, rubandogli la penna, scrisse qualche parola.
«Per favore, portale questo insieme all’ordinazione…», chiese a Jin gentilmente, la voce un po’ incerta e una gamba ballerina a causa del nervosismo che sentiva.
«Sì, certo, signore», rispose prontamente lui, incamminandosi spedito verso il tavolo dove sedeva la sconosciuta.
Hedi rimase attento, in tensione, a guadare la scena, in attesa di poterle finalmente parlare.
Jin le porse il bicchiere e poi il biglietto, sussurrandole brevi parole, e scomparve lasciandola lì da sola. Gli sembrò sorpresa da quel gesto da un perfetto sconosciuto, a tratti confusa, ma alzò il viso e lo guardò dritto negli occhi. Quel calore allo sterno ricomparve violento, ma cercò comunque di darsi un contegno. Le regalò un sorriso sincero – anche se forse il risultato fu più simile ad una paresi facciale – e le fece un breve gesto con la mano, come a dire: “Sì, sono io l’idiota che cerca di farti ubriacare”.
A lui non interessava minimamente che lei potesse ritenerlo strano o azzardato. Hedi voleva conoscerla e sperò che anche la donna avesse la stessa voglia nei suoi confronti.
Delle ciocche di capelli le cadevano sugli occhi e d’un tratto sentì l’urgenza di avvicinarsi e spostarle con delicatezza, solo per avere l’occasione di sfiorarla.
Aveva l’aspetto fiero di un’amazzone e l’essenza tenera di una fata.
“Ma che razza di pensieri scemi vai a fare, Didi?!”
Continuava a sorriderle, mentre la vide aprire lentamente il tovagliolino; troppo lentamente. Sentiva che non avrebbe resistito ancora a lungo.
Poi, all’improvviso, accaddero due cose.
La donna si alzò dal tavolo, sul volto aveva dipinto un lieve sorriso e lui sentì il sangue prendere a circolargli nelle vene ad un ritmo vorticoso. La vide prendere la borsa, il bicchiere e stringere nell’altra mano il suo biglietto. S’incamminò con passo spedito verso di lui, su quei tacchi vertiginosi di cui non si era quasi accorto. Eccola lì l’amazzone! Non era più insicura, preoccupata o stranita. Era fiera e determinata e già Hedi pregustava il momento in cui avrebbe potuto stringerle la mano e passare un po’ di tempo con lei.
Invece…
“Ma che diav…”
Pochi istanti dopo, si ritrovò con un bicchiere pieno sul bancone di fronte a sé, il suo biglietto stropicciato in una mano e lei che velocemente gli sussurrava:
«Scusi, non conosco il cinese». E scivolò via così, lasciandolo con un whisky che non voleva e quell’illusione che si era costruito in frantumi sul pavimento.
“Cosa è andato storto? Cosa ho fatto di sbagliato?”
“Ma, impossibile, come? Perché se n’è andata?”
“Giusto, ho scritto il biglietto in cinese, dando per scontato che fosse di queste parti. Perché? Non sembrava cinese? Secondo me sì”
“Forse dovevo scriverlo in inglese, chissà cosa ha pensato che le avessi proposto?! Idiota che sono!”
Immediatamente gli venne un’idea, perché lui fermo con le mani in mano non ci sapeva stare, e ormai l’aveva vista. Non avrebbe dormito sereno sapendola nel suo stesso albergo senza la possibilità di vederla.
Era come aver scoperto l’esistenza della Fata Turchina: ora avrebbe voluto evocarla sempre.
«Jin, ho bisogno del tuo aiuto!»

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Capitolo 2
*** Straight to my heart she aimed me and she shot me ***




La differenza sostanziale tra un piano e un piano ben riuscito sta nella determinazione con la quale lo si attua. La stessa idea può portarti alla vittoria, ma può anche portarti a fallire miseramente. Se trasmetti insicurezza, ci saranno alte probabilità di disattendere le aspettative. Se, al contrario, parti con il presupposto di avere già la vittoria in tasca, è quasi certo che sarà così.
O almeno, questo è quel che aveva sempre pensato Hedi.
Non era arroganza, nemmeno ottimismo. Si trattava semplicemente di ingraziarsi il destino. E se anche la storia del bigliettino non aveva funzionato, non si sarebbe certo fatto abbattere. Probabilmente era anche un po’ colpa della donna stessa: lo aveva destabilizzato, lo aveva portato a mostrare ansia e nervosismo, lei se n’era accorta e ne aveva approfittato.
“Sì, certo. Raccontatela, così almeno ricarichi qualche tacca di autostima…”
Mentre, seduto al bancone del bar, confabulava con Jin – che ormai non era più un cameriere, ma un consulente matrimoniale –, dovette sforzarsi parecchio nel tentativo di non farsi film mentali circa quello che sarebbe successo; in parte temendo di restarci male se poi non fosse accaduto e un po’ perché, se tutta quella messa in scena avesse avuto esito positivo, avrebbe voluto poterselo godere appieno, con sorpresa, come fosse un dono.
E ripensando allo sguardo intenso di lei mentre camminava verso di lui e alla cornice di ricci castani intorno a quel viso delicato, sì, si disse, lo sarebbe stato davvero.
Un principio d’ansia lo colse quando quello che ormai era diventato il suo complice gli disse, con tono sommesso:
«Teoricamente questa cosa non si potrebbe fare, sig. Wang. Sembra stalking e comunque io non ho accesso all’interconnettività della struttura. Dovrei domandare a Youxi, della control room.»
Non si era ancora mosso dal bar e già si presentavano problemi. Il tempo trascorreva e, per quanto ne sapeva, l’oggetto del suo desiderio poteva già essere uscito dall’albergo. Poteva essersi addormentato, poteva aver fatto già tante cose che chissà se poi avrebbe risolto qualcosa.
“Non ti abbattere, Didi. Non ti abbattere! Cosa avevamo detto? Ingraziamoci questo destino, che se non parli con quella donna stasera probabilmente diventi pazzo.”
“Che poi non me lo spiego neanche io perché mi sento così…”
Gli occhi della donna riaffiorarono tra i suoi pensieri.
“Ok, ho capito! Mi vuoi al manicomio o morto.”
Si scosse dalle inutili divagazioni mentali in cui si stava perdendo e tornò dal suo partner in crime.
«Bene, Jin. Vedo che la tua proattività ti precede senza che tu lo sappia. Hai mosso una questione e subito hai trovato la soluzione. Quindi, perché sei ancora qui?», gli disse, piazzandogli una poderosa pacca sulla spalla.
Il cameriere lo guardò con un’espressione indecifrabile, confusa.
«Scusi, signore? Cioè?»
«Perché non sei già da questa Youxi? Lei è quella che gioca con le smart tv della struttura? Falla divertire con quella che serve a me.»
Hedi si era promesso calma e sangue freddo, invece nelle vene gli scorreva olio di motore, caldo e denso come se avesse percorso trecentomila chilometri. Era emozionato come un bambino che stava per arrampicare una grande quercia; oppure no, molto di più, come quando gli comunicarono la data del suo primo volo da cadetto. Aveva aspettato tanto quel giorno e quell’attesa fu logorante per i suoi nervi, ma anche incredibilmente elettrizzante.
Come quel momento.
Si sentiva entusiasta ed impaziente; nervoso e galvanizzato dalla situazione e dall’idea di quel minuscolo spiraglio aperto verso quella donna, che anche se non sapeva chi fosse, da dove venisse e cosa ci facesse lì, aveva occupato tutta la sua mente.
Chissà come si sarebbe sentito poi, quando – e se – quel volo fosse decollato davvero.
«Oh, giusto. Però, vediamo…», il cameriere si guardò intorno con fare guardingo, come se stesse partecipando ad un’azione della Guoanbu, poi si rivolse a Meiwa, la sua collega.
«Zang Meiwa, mi assento per qualche minuto, cerco di fare presto.»
 
Ci erano voluti complimenti a profusione – e per poco non si era trovato a dover uscire a cena con quella Youxi –, la promessa di un invito alla successiva trasmissione televisiva cui avrebbe partecipato, per lei – più innumerevoli nonne, zie e cugine – e mille yuan, ma alla fine ce l’aveva fatta.
O meglio, il piano “Chi la dura la vince”, come lo aveva ribattezzato Jin, aveva finalmente visto la luce. Hedi sperava solo che la sua fata non l’avrebbe spenta.
All’improvviso si rese conto di avere urgente bisogno di una doccia, perché davvero aveva sudato le famigerate sette camice per mettere in piedi la cosa; soprattutto per convincere Youxi a non tornare sui suoi passi – ché ormai era certa di rischiare la galera per quello che gli aveva permesso di fare.
Uscì dalla control room insieme a Jin, che tornò finalmente a fare quello per cui era pagato, diede un paio di indicazioni alla receptionist dell’albergo per sistemare gli ultimi dettagli del piano e si diresse verso gli ascensori.
A quel punto non avrebbe dovuto far altro che aspettare, e sperare, che tutto andasse per il meglio.
Altrimenti avrebbe dovuto giocarsi l’Asso di Picche – e, formulando quell’ultimo pensiero, sorrise sornione al suo riflesso nello specchio dell’ascensore.
 
***
 
Si stava frizionando i capelli con l’asciugamano dopo essersi fatta una doccia calda. Era stata sotto al getto per un tempo infinito, non tanto perché ne avesse voglia, ma quanto perché sentiva davvero il bisogno di togliersi di dosso quella giornata pesante – e il pensiero fisso di quel sorriso assassino che non aveva alcuna intenzione di abbandonare i suoi pensieri.
Per quanto si fosse sfregata il viso, grattata la testa, lavata i capelli e corrosa la pelle a forza di cospargerla di bagnoschiuma – come se fosse stato una specie di unguento magico in grado di cancellarle la memoria e le emozioni – il viso perfetto di quel ragazzo non voleva saperne di sparire dalla sua mente.
«Sì, Ali, ragazzo… finalmente l’hai capito! È solo un ragazzo, mentre tu sei una donna!»
“E, sì, coscienza guastafeste ed azzeccagarbugli: è perfetto! Così perfetto da risultare sfacciatamente imbarazzante.”
Niente, nemmeno la doccia aveva potuto qualcosa sul subbuglio emozionale che provava. Ci aveva sperato, ma non era servito a niente e, mentre con la manica dell’accappatoio asciugava il vetro dello specchio dalla condensa, si scrutò nel riflesso e si chiese cosa stesse facendo in quel momento il capolavoro vivente senza nome.
Si domandava se fosse rimasto deluso dal suo rifiuto o se non gli era importato affatto ed era già pronto a riciclare il bigliettino con qualcun’altra.
E, più di tutto, si chiese perché mai lei avesse reagito in quel modo.
Quando si era alzata dal tavolo, lo aveva fatto con tutta l’intenzione di sedersi a quel bancone accanto a lui, bere il suo whisky offerto e svagare un po’ la mente dai problemi – a cui per altro non avrebbe potuto porre rimedio, non subito, quindi sarebbe stato inutile rimuginarci sopra tutta sera.
«Forse perché inconsciamente sapevi che era solo un ragazzino e, grazie al cielo sei rinsavita in tempo e hai pensato di evitargli l’imbarazzo.»
“O di evitarlo a me stessa.”
“Più probabile.”
«Oh, mamma! Ma che mi prende? Perché mi sento così strana? Mi fa male lo stomaco, mi sento le gambe deboli…»
Alice si abbandonò mollemente sul letto. Indossava ancora l’accappatoio e aveva i capelli bagnati. Era talmente stanca che avrebbe sicuramente finito con l’addormentarsi così, senza cenare, per svegliarsi poi l’indomani mattina con il collo tutto incriccato e la cervicale ululante.
“Che bei pensieri da ottantenne.”
“Musica, ci vuole un po’ di musica!”
Scrutò l’ambiente intorno a sé per identificare la posizione del telecomando e lo localizzò sul letto, a poca distanza. Provò a muoversi, ma i suoi muscoli non rispondevano; non era più un essere umano, si era trasformata in una medusa gellosa e appiccicaticcia. Strinse la stoffa della coperta e la tirò a sé finché l’aggeggio fu così vicino da poterlo agguantare senza fatica.
«E tu volevi uscire con un ragazzino? Se ti vedesse adesso ti darebbe sì un bigliettino, ma con il numero telefonico di un bravo geriatra!»
“Va bene, alt! Basta! Non vedrò nessun ragazzino! Era solo un pensiero diverso in una vita ormai così tutta uguale! Ho capito. Stop!”
Accese la tv pronta a mettere un po’ di musica e comparve il solito messaggio di benvenuto.
“Buonasera signora Aldesi”, in otto lingue diverse.
«Che strano, non mi ero mai accorta delle traduzioni», e all’improvviso sullo schermo comparve lui.
Lui?
Lui!
Saltò sul letto come una rana, con le gambette nude che spuntavano dall’accappatoio, e immediatamente si affrettò a coprirle, come se quell’essere, mezzo demone e mezzo angelo, avesse potuto vederla al di là dello schermo.
Poteva?
Alice si guardò in giro quasi spaventata, alla ricerca di nemmeno lei sapeva cosa.
“Mi vede? Hanno messo qualche telecamera?”
D’un tratto Belthazor prese a parlare. Lei rimase in piedi sul materasso a fissare lo schermo con espressione inebetita.
«Se ti stai chiedendo se posso vederti, la risposta è no. Il messaggio ovviamente è registrato.»
“L’ho detto io che non è umano, legge anche nel pensiero?”
Il ragazzo parlava in cinese, ma sotto scorrevano delle strisce in sette lingue diverse.
«Non so esattamente che origini hai e che lingue parli, ma spero che tra queste otto proposte almeno una tu riesca a comprenderla, perché l’altro modo che mi è rimasto per poter passare qualche minuto con te è di venire direttamente alla 2643 e rapirti, e non vorrei arrivare a tanto», le labbra si schiusero appena a scoprire un accenno di sorriso, che già così bastò a farle piegare le ginocchia. Si accasciò sulle coperte e rimase imbambolata come un serpente davanti al pifferaio.
Il ragazzo parlava lentamente, ostentava sicurezza, ma qualcosa le diceva che fosse un tantino nervoso. Inclinava impercettibilmente la testa un po’ a destra e un po’ a sinistra e teneva le mani congiunte davanti a sé, come se fosse davanti ad una commissione d’esame.
«Non ti chiedo tanto, solo un drink, al massimo una cena…», fece una pausa sulla parola cena, e solo allora Alice si rese conto di come risuonasse bassa e profonda la sua voce.
“La meraviglia.”
«…poi potrai sparire su quei tacchi vertiginosi e dimenticarti di me.»
“Ditemi che sono su candid camera, per favore!”
«Io mi chiamo Wang Hedi e alloggio nella 4587. Non fraintendere, non ti sto invitando nella mia camera, ma se vuoi chiamarmi per mandarmi al diavolo o per dirmi che accetti di uscire con me – ovviamente preferirei la seconda opzione – almeno sai come raggiungermi.»
«Ciao, signorina Aldesi.»
L’ultima frase la pronunciò in un italiano così tenero che ad Alice partì una risata isterica.
Finse di non notare che il mezzo demone aveva fatto lo gnorri circa la sua nazionalità – “Non so quali siano le tue origini”. Di sicuro Jin aveva vuotato il sacco, e lei avrebbe anche dovuto aspettarselo.
Prese in mano il telecomando; una parte di lei sperava che in qualche modo potesse portare indietro la registrazione perché le sue orecchie avevano estremo bisogno di risentire le sue labbra pronunciare di nuovo quel “Ciao, signorina Aldesi.” L'altra parte, quella con ancora un briciolo di dignità, sperò di no, altrimenti sarebbe certamente entrata in loop a forza di riascoltarlo.
Si sentiva lo stomaco sottosopra e le orecchie fischiavano. Tremava, ballava, rideva, piangeva, desiderava prendere a testate la televisione, poi rideva ancora. E non sapeva cosa fare.
Si era tramutata in un ibrido tra Kevin McCallister quando scopre di essere stato lasciato a casa da solo e Harley Quinn.
Niente di promettente, insomma.
Erano rimaste due opzioni: o aveva di colpo contratto la demenza senile in età prematura o quel ragazzo aveva premuto qualche tasto dentro di lei e l’aveva resettata, riportandola al sistema operativo “Adolescente 1.0”.
 
Siccome si sentiva troppo su di giri decise di ributtarsi velocemente sotto la doccia.
Di colpo capì che, dopo un gesto del genere, non poteva di certo camminargli accanto come Catwoman e ignorarlo: si sentiva in dovere di fare qualcosa, anche solo di scambiare con lui qualche parola per ringraziarlo dell’invito.
Solo che in quel momento non era sicura di essere perfettamente capace di intendere e volere e, forse, sarebbe stato meglio presentarsi mostrando un certo contegno. Dopotutto aveva trentaquattro anni – almeno anagraficamente.
Una volta fuori dal bagno, però, continuò a sentirsi su di giri, maledicendo tutti coloro che consideravano una bella doccia calda un rimedio contro lo stress. A lei evidentemente stava facendo l’effetto opposto: lo scroscio dell’acqua sulla pelle aveva fomentato l’adolescente che quel Wang Hedi aveva riesumato dalle ceneri dell’adulta che era, fatta di tanti doveri e pochi diritti. Aveva contribuito alla formazione di cumulonembi di film mentali che nemmeno Shonda Rhimes sotto l’effetto delle droghe migliori.
«Respira, Ali. Avanti – inspirava ed espirava, alzando e abbassando le braccia a ritmi regolari –, ce la puoi fare. Non è giusto lasciare qualcuno che ha fatto un gesto così carino, anche se un po’ da stalker, senza una risposta. Cosa vuoi che sia?»
“Ehi, ma non eri quella che mi dava contro? È solo un ragazzino, tu sei una donna, bla, bla, bla?
«Sì, ma cosa vuol dire? Dopotutto non ti ha chiesto in moglie. Ha detto un drink, una cena al massimo, giusto? Vai, lo ringrazi, bevi qualcosa e te ne vieni via.»
Era spacciata.
Se persino la ragione, che di solito aveva più buon senso, voleva un appuntamento con Mr. Wang Hedi, come poteva il cuore convincersi che fosse sbagliato?
Alice si accasciò sulla moquette vicino al letto e sbuffò sonoramente.
Era così stanca di farsi mille paranoie. Si sentiva come se avesse camminato per ore nel deserto.
«Basta!»
Abituata com’era a girare per il mondo da sola, ad arrangiarsi, sempre sicura di cosa fare e come farlo, non le piaceva sentirsi così sopraffatta. Non ci sarebbe stato niente di male nel vedere quel ragazzo, e al diavolo le idee convenzionali!
Si alzò e camminò verso il comodino; prese in mano la cornetta, finalmente determinata come le piaceva sentirsi.
«Buonasera, sono Aldesi della 2643. Avrei bisogno di mettermi in contatto con la 4587, per favore.»
Ok, forse la mano tremava un po’ e la voce aveva un vibrato strano, ma poco importava. Ormai si era convinta.
Per un breve, brevissimo istante sperò che il ragazzo non fosse in camera.
Attese qualche secondo e poi qualcuno rispose.
«Giuro, a questo punto tutto mi aspettavo, anche che la polizia mi bussasse alla porta, meno che mi avresti chiamato davvero.»

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Capitolo 3
*** No past, No Future, only holding you in the hand at the moment ***




Aveva accettato.
Alla fine, lo aveva chiamato e aveva acconsentito ad incontrarlo. Si sentiva come se avesse appena compiuto un’impresa senza precedenti – e in effetti un po’ era così.
Era preoccupata, perché in un minuscolo angolino di se stessa tremolava l’idea che non fosse stata una genialata, ma allo stesso tempo era emozionata; non sarebbe stato un appuntamento romantico, si disse, ma ad ogni modo quel ragazzo le chiudeva lo stomaco in una morsa d’acciaio ed era così tanto che non provava quella sensazione, che quasi le piaceva.
Aleggiava ancora nella sua mente quella voce bassa e calda “Ciao, signorina Aldesi” e quel suo sorriso appena accennato mentre parlava. Il cuore le batteva in petto facendo lo stesso fracasso di una mandria di cavalli al galoppo.
Era stata molto vaga su quello che avrebbe avuto intenzione di fare, in realtà non lo sapeva nemmeno lei, perciò non aveva alcuna idea di come avrebbe dovuto vestirsi.
Aprì la valigia e tirò fuori gli unici due abiti che aveva portato, nel caso in cui ci fosse stato qualche cosa da festeggiare con gli ipotetici nuovi investitori – e purtroppo fino a quel momento ancora non aveva avuto occasione di indossarli.
Uno era più un abito da cocktail, in verità, in pizzo vintage blu con le maniche a tre quarti e la gonna simmetrica sopra le ginocchia, formale, ma non troppo, con un lieve spacco sulla parte posteriore della gonna. L’altro era uno Cheongsam lungo a maniche corte; era un regalo di suo padre, glielo aveva comprato durante la sua ultima trasferta a Taiwan e lo aveva adorato subito. Era di seta damascata nera con intarsi in raso, con dei rami di pesco che si estendevano su gran parte del busto per scendere poi su tutta la lunghezza della gonna. Lo aveva portato per fare buona impressione sugli sponsor, ma ovviamente non c’era stato modo. In quel momento, mentre lo teneva con le mani appoggiato al corpo, davanti allo specchio, si chiese se fosse il caso di indossarlo quella sera.
Avrebbe voluto impressionare Wang Hedi?
 
***
 
La musica riempiva l’aria della stanza 4587 e un Hedi quasi ubriaco si muoveva da una parte all’altra come una trottola. Il fatto che rendeva strana la cosa era che non aveva ancora bevuto; era ebbro di emozione, incontenibile e davvero insolita per lui. Non si era mai sentito così prima di un appuntamento ma, quello, quello se l’era sudato e il fatto di essere riuscito a sentire la voce di Alice – finalmente poteva darle un nome –, anche solo attraverso un telefono, gli aveva trasmesso una carica incredibile.
Non avevano deciso cosa avrebbero fatto e questo lo metteva un po’ in agitazione. Si erano dati appuntamento da lì a un’ora nella hall dell’hotel e non aveva ancora preso una decisione su cosa avrebbe indossato. Il mistero che era quella donna gli stava facendo venire miliardi di dubbi. Anche se alla fine, si disse, non sarebbe stato importante dove sarebbero andati o cosa avrebbero fatto, gli sarebbe bastato passare del tempo insieme a lei.
Dopo aver passato in rassegna camicie, pantaloni, maglioncini e completi vari si sentì ancora più indeciso di prima. L’alternativa rimasta era di prendere le prime cose che fossero capitate e indossarle. Ormai stava arrivando l’ora dell’appuntamento e non si era ancora nemmeno pettinato.
Venti minuti più tardi, dopo averne passati più della metà davanti allo specchio del bagno a sistemare i folti capelli scuri, fu pronto. Si guardò per l’ultima volta, controllando ogni dettaglio, per essere sicuro che tutto fosse a posto. Agguantò il portafogli e, dopo aver preso un ultimo respiro, spense la luce ed uscì.
 
***
 
Alice, una nervosa e incerta Alice, aveva già preso l’ascensore e premuto il tasto per il piano terra. Era vagamente in anticipo e si maledisse mentalmente, perché sua madre le aveva sempre raccomandato di non arrivare mai puntuale ad un appuntamento galante. E invece lei aveva un’inconscia e talmente forte smania di risentire quella voce, da non aver guardato nemmeno l’orologio prima di uscire. Ma poi, si chiese, era proprio un appuntamento galante?
Quando le porte si aprirono si mise lo spolverino sulle spalle, in risposta ad una lieve folata di aria fredda, proveniente dalla porta scorrevole dell’hotel che si era appena aperta.
Un fattorino era uscito dopo aver consegnato un piccolo mazzo di fiori, la receptionist era al telefono e non si vedeva nessun’altro in giro. Non voleva assolutamente che Hedi arrivasse trovandola già lì, per cui si volse e richiamò l’ascensore pronta a tornare al suo piano.
Non fece in tempo; un secondo dopo sentì la voce – quella voce bassa e calda – chiamare un nome. No, non era il suo. Era quello della signorina all’help desk, evidentemente.
Alice si nascose dietro ad una delle colonne di marmo vicino all’ingresso del vano ascensori e scrutò la scena per qualche minuto.
Non sentiva perfettamente quello che veniva detto, ma vide Hedi porgerle una banconota e subito dopo lei gli consegnò il mazzo di fiori che era appena stato portato dal fattorino. Subito dopo il ragazzo girò lo sguardo verso gli ascensori e per poco non la vide. Lei aveva il cuore in gola. Avrebbe fatto una figura del cavolo a farsi trovare nascosta lì.
Prese un breve respiro e guardò di nuovo verso la reception. Lui aveva preso posto su un divanetto, guardava l’orologio. Lei ne approfittò per sgattaiolare verso la porta che conduceva alle scale e salì al primo piano.
“Accidenti, arriverò madida di sudore! Già l’emozione mi gioca brutti scherzi…”
Quando fu arrivata chiamò l’ascensore, approfittò dello specchio interno per sistemarsi un po’ e qualche secondo dopo fu di nuovo al piano terra. Prima che le porte si aprissero inspirò profondamente un’ultima volta e buttò fuori l’aria. Il momento era arrivato.
 
***
 
Hedi si era accomodato in uno dei divanetti della hall in attesa che Alice arrivasse. Per quanto volesse dare parvenza di tranquillità, dentro si sentiva parecchio nervoso. Cosa avrebbe detto? Avrebbe fatto qualcosa di strano o sconveniente? Che impressione avrebbe dato?
Non era certo da lui farsi di questi problemi, ma quella lo aveva scosso fin dal primo sguardo e si aspettava che, qualunque piega avesse preso la serata, con lei avrebbe vissuto parecchie altre prime volte.
Per esempio, quella di vedere le porte dell’ascensore centrale aprirsi, vederla spuntare e sentire quasi la terra mancare sotto ai piedi.
Era bella da perderci la testa.
Bella da non distinguere più la destra dalla sinistra, da non ricordare il proprio nome.
Bella da smettere di respirare per la paura che un solo fiato potesse farla scomparire.
Elegante e sicura, fasciata in uno Cheongsam meraviglioso, quando i loro occhi si incrociarono, lei gli sorrise. Hedi ebbe l’impressione che fosse molto sciolta, anche se dopo avergli sorriso aveva abbassato lo sguardo. Cercò di rilassarsi un po’ a sua volta, prese il mazzo di fiori dal tavolino e, quando finalmente fu davanti a lui, le sorrise.
Nessuno disse niente per qualche istante, continuarono a sorridersi in silenzio, e Hedi pensò che si sarebbe tranquillamente accontentato di poterla ammirare in quel modo tutta la sera. Per quanto lo riguardava, il teatrino che aveva assemblato per riuscire ad avere l’appuntamento era già stato pienamente ripagato solo avendola lì, splendida ancor più di quanto ricordasse.
«Nĭ hăo, Wang Hedi, scusa per il ritardo», spezzò il silenzio lei, porgendogli la mano e facendo un breve inchino. Lui rimase ancor più affascinato. Non solo indossava uno Cheongsam come se non avesse mai indossato altro in vita sua, ma aveva pronunciato quelle poche parole in cinese con una scioltezza disarmante. I capelli raccolti in uno chignon, come quando l’aveva incontrata al bar, e quelle piccole ciocche che le cadevano scompostamente intorno al viso, gli facevano desiderare di sfiorarla, accarezzarla. E quella voce! Quella voce, poi…
Non c’era dettaglio in lei che non lo mandasse ai matti.
«Nĭ hăo, signorina Aldesi. Non c’è problema, le donne devono sempre farsi attendere», riuscì a dire. S’inchinò lievemente in risposta, poi le prese la mano e la sfiorò appena con le labbra. La pelle era morbida e liscia almeno quanto la seta che indossava.
«Questi sono per te – le porse il mazzo di fiori –, spero ti piacciano».
«Non dovevi disturbarti – gli rispose Alice, che esaminò i fiori con un mezzo sorriso stampato in volto. Le guance leggermente imporporate –, ma queste peonie sono stupende. Grazie.»
Aveva Alice davanti agli occhi e avrebbe voluto essere più spigliato come si era promesso, più sicuro di sé, ma in quel momento non riuscì a fare altro che ammirarla come fosse un’opera d’arte e pensare che probabilmente non aveva mai visto niente di più bello al mondo.
 
***
 
Quando le porte dell’ascensore si aprirono, Hedi era in piedi in mezzo alla hall e subito la vide.
Alice si sentì all’improvviso come la protagonista di uno di quei film d’amore che tanto in passato aveva detestato, ma che in quel momento per la prima volta riusciva a capire. Gli erano sempre sembrate così assurde tutte quelle scene romantiche, piene di sguardi carichi di tensione tra i protagonisti. Quei sorrisi spuntati da chissà dove, che gli erano sempre sembrati mera opera di uno sceneggiatore frustrato, ora le si stavano dipingendo sul viso con una tale spontaneità da farla sentire impotente. I muscoli del proprio corpo non rispondevano più agli input del cervello, ma a lui, che la fissava da lontano con quegli occhi scuri profondi e indagatori. Notò in essi, però, una luce diversa: non erano più così voraci come nel pomeriggio. Le sembrò come se la stesse accarezzando con lo sguardo, come se la stesse studiando e abbracciando nello stesso tempo.
E lei si sentì di nuovo l’adolescente che solo qualche manciata di minuti prima saltava sul letto dall’ansia e dall’emozione. Sarebbe davvero riuscita a non vedere in quell’incontro un appuntamento galante?
Mentre la sua mente vagava tra milioni di pensieri, comunque, riuscì ad ostentare una qualche parvenza di contegno. Camminava lenta, ma sicura verso di lui, che l’attendeva con il mazzo di fiori tra le mani: quello che avevano portato poco prima.
Quando trovò il coraggio di parlare, lo salutò in cinese, senza pensarci e senza preoccuparsi del fatto che poco tempo prima gli aveva detto di non conoscere il cinese. O meglio, se ne accorse troppo tardi, quando ormai aveva già aperto bocca. Non se ne curò, anche se lui ne fu evidentemente meravigliato.
Hedi le porse i fiori – un bellissimo mazzo di peonie rosa che si intonavano perfettamente ai colori del suo Cheongsam – e lei lo ringraziò.
«Non dovevi disturbarti, ma queste peonie sono stupende, grazie», sentiva di stare arrossendo, ma nonostante la sua voglia di non far trasparire quello che provava, su certe reazioni non aveva controllo e lasciò che la cosa scivolasse via così.
«Figurati, per così poco – le rispose, piegò lievemente il collo verso destra, abbassando appena il viso. Un piccola mezza luna gli si disegnò sulle labbra perfette e in Alice qualcosa si sciolse.
«Per la cronaca, questo Cheongsam ti sta benissimo», ci fu una breve pausa in cui nessuno dei due parlò. Fu ancora Hedi a spezzare l’imbarazzo: «Cosa ti va di fare? Hai fame? Vuoi prima bere qualcosa?»
Solo in quel momento Alice riuscì a distogliere lo sguardo dal suo viso perfetto. Non aveva notato quanto fosse pericolosamente affascinante in quel completo nero, aveva indossato persino il cravattino. Il cuore, che se n’era stato buono fino a quel momento, riprese a battere ad un ritmo più inconstante. A tratti sembrava voler cedere, il secondo dopo voler uscire fuori dal petto.
Improvvisamente si rese conto che entrambi si erano preparati per un serata elegante, galante… si rese conto che entrambi, forse senza volerlo, si erano creati aspettative di cui Alice in quel momento aveva un po’ timore.
 

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Capitolo 4
*** What if I've never runned into you, what if you've never smiled at me ***


 
Era imbarazzata, sì. Alice era imbarazzata, non tanto per quel appuntamento che, chissà come e chissà quando, si era trasformato in un vero e proprio appuntamento, ma imbarazzata dalla bellezza di lui. Accanto a Dylan – così le aveva chiesto di chiamarlo – si sentiva fuori posto, brutta e vecchia. Già, lo aveva detto, vecchia. Avevano deciso di usare la sua auto per andare al ristorante, l’autista li aveva accompagnati in centro Shangai, di fronte ad un alto palazzo illuminato a giorno.
“Siamo arrivati, - li avvisò – vi scorto all’interno?” chiese poi rivolto a Dylan. “No, non c’è bisogno, faremo due passi. E’ una bella serata”, fu la sua risposta, mentre si volse per guardare Alice.
Di nuovo quel lieve senso di inadeguatezza la pervase. “Perché sei qui con me, Dylan?” non sapeva perché quelle parole erano uscite dalla sua bocca, né da dove le erano venute. Sapeva solo che più lo guardava, in quella sua perfezione fanciullesca, quel suo sguardo che – a volte – di fanciullesco invece aveva proprio poco, si sentiva ridicola. “Ho trentasei anni, tu ne hai quasi la metà… non ti preoccupa il parere della gente che ci vede in giro, vestiti così, noi due da soli…” forse il parere della gente preoccupava più lei, di quanto infastidisse lui, si disse tra sé. Infatti lui, prima di aiutarla a scendere, le accarezzò una guancia. “Non mi preoccupa niente, se non il fatto che tu possa non voler la mia compagni stasera. La vuoi ancora?” mi chiese, diretto, pulito. Onesto come solo alla sua età si era capaci di essere.
Alice non seppe far altro che sorridergli. Alla fine – si disse – cosa poteva esserci di così strano in due persone che cenano insieme? Poteva essere qualunque cosa… una riunione di lavoro, per esempio. Già… una cena di lavoro.
“Certo che la voglio ancora, che domande…” rispose al sorriso di lui nervosamente, ma con sincerità. E si rese conto che sì, lei voleva essere lì in quel momento. Con Dylan e con nessun altro.
L’aveva stregata e sperò di trovare presto un contro incantesimo prima che quello sguardo profondo e disarmante avesse la peggio sul suo equilibrio mentale. Le sarebbe bastato scovare in lui qualche difetto, anche minimo, per far si che scendesse su quel piedistallo illuminato da un occhio di bue dove lo avevo messo nell’istante in cui gli aveva posato gli occhi addosso.
“Vieni…” Dylan le prese la mano e l’aiutò a scendere. “Andiamo, facciamo due passi.” Le porse il braccio e le fece segno di prenderlo con il suo, cosa che Alice non se lo fece ripetere due volte.
“Quindi, parli il cinese, alla fine?” le chiese, guardandola e sorridendole. Lei a quel sorriso non riusciva a non rispondere e, soprattutto, non riusciva a resistere. “Scherzetto!” gli aveva risposto, mostrando appena la lingua. “Sono per metà italiana e per metà Taiwanese. Sono nata a Taipei, ma ho vissuto gran parte della mia vita a Milano.” Forse avrebbe dovuto rallentare con i racconti circa la sua vita o si sarebbe trovata senza cose interessanti da dire. E allora si che sarebbe stato un problema. La sua vita non era per niente interessante.
“Wow, caspita! L’Italia. Non ho ancora avuto modo di andarci, spero di farlo presto, ho sempre desiderato andarci…” le disse con genuinità. “Magari quando sarà ci incontreremo e mi farai da cicerone…” propose, continuando a guardarla. “Milano, Firenze, Roma, il mare… dicono che ci siano posti veramente meravigliosi…” continuò, con reale trasporto. “Oh, sì, l’Italia è piena di tesori nascosti. Le città sono belle, ma ancor di più le campagne, i borghi pieni di storia antica, la cultura e l’arte racchiusa anche nelle più piccole chiese…” Alice amava le origini asiatiche di sua madre, ma l’Italia, quel paese l’aveva assorbita totalmente facendola innamorare. “Ovvio, quando verrai sarai nostro ospite e ti accompagnerò a vedere tutte le zone più belle, quelle che preferisco… e poi mangerai del cibo squisito, berrai del vino pregiato e…” Alice non si rese conto di aver lasciato il braccio di Dylan e di essersi infervorata tanto al pensiero delle cose da fare con lui, da aver accelerato il passo, essersi girata per guardarlo in viso e aver iniziato a camminare all’indietro, facendo qualche giravolta ogni tanto. “Ci sono così tante cose da vedere che non avrai tempo a sufficienza per visitarle tutte! Ma ci proveremo…” promise. E in quel momento, mentre lui la guardava come si ammira un meraviglioso dipinto, lei ci credeva davvero. Era così stupido da parte di Alice pensare a cose come quelle. Si erano appena conosciuti e con molta probabilità, dopo che lei fosse partita, non si sarebbero più rivisti. Che razza di pensieri andava a fare!?
“Facciamo che in questi giorni io ti faccio da guida qui e poi, appena avrò un po’ di tempo, verrò in Italia e mi renderai il favore…” propose Dylan, prendendola per una mano, sorridendo e facendole fare una giravolta che quasi non li fece cadere entrambi. Scoppiarono a ridere come due bambini, Alice si sentì per la prima volta dopo quella che le sembrava una vita di nuovo spensierata e leggera come una nuvola.
“Attenta…” la voce di Dylan divertita ma premurosa allo stesso tempo. La sua mano dietro la schiena di Alice, la presa salda mentre la tratteneva vicino al suo petto. “Non vorrai mica iniziare il giro turistico dal pronto soccorso, vero?” le chiese. I loro volti vicini, così vicini che i loro nasi si toccavano. I loro occhi fissi gli uni in quelli dell’altra. Alice non riusciva a comandare ad alcun muscolo di muoversi. Lo sguardo ipnotico di Dylan la immobilizzava. Di nuovo fu lui a spezzare l’imbarazzo. “Hai il naso rosso, hai freddo?” le chiese, stringendola ancora di più a se, questa volta impercettibilmente ma con decisione. Le sue labbra si protesero appena verso la punta del naso di Alice e vi lasciarono un lieve bacio. “Andiamo dentro, siamo arrivati al ristorante. Non voglio che congeli…” si tolse la giacca e gliela pose sulle spalle, frizionandogliele per scaldarle.
Alice restò esterrefatta da quanto uomo poteva trovare in quel ragazzo poco più che ventenne. Molto più uomo di tanti che aveva conosciuto e si credevano tali, per poi scoprire il loro più infantilismo che in un bambini di cinque anni.
“Grazie, sì, forse è meglio entrare…” si strinse addosso la giacca di lui, lasciando che il profumo di dopobarba e pulito la rinfrancassero. Era un odore meraviglioso. Un odore che avrebbe voluto portarsi appresso per sempre.
 
 

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